Parole invisibili (2019) di Stefano Carnicelli – Recensione del libro
Parole invisibili si snoda su due binari, due registri narrativi, distinti ma visceralmente collegati, che avvolgono il lettore in un microcosmo emozionale.
Quante volte il sogno ci ha svelato aspetti di noi che non sapevamo ci appartenessero?
E quante volte ci ha lasciato sulla pelle l’impressione di aver vissuto momenti mai nati?
Tante, troppe volte. Ma perché accade?
Forse perché il sogno sceglie di parlarci di quelle emozioni che, per vigliaccheria o per eccesso di razionalità, non sappiamo (non vogliamo) percepire ad occhi aperti. Così, complice il corpo che si affida lentamente all’inconscio, il cognitivo si eleva inspiegabilmente ad anteprima del reale. Il sogno come misterioso trailer di un domani che è parte del desiderato. Magia.
Ma immaginiamo il contrario. Immaginiamo di vivere sognando. Di portare il sognato con noi nella vita di ogni giorno. Immaginiamo di camminare per strada con in mente un lucido bagaglio di parole, espressioni di attimi tangibili, cui non riusciamo a dare forma e voce.
Scrigni pieni del nostro sentire che restano muti. Magia? No. Autismo.
Questo, il tema che Stefano Carnicelli (autore pluripremiato dei romanzi Il cielo capovolto e Il bosco senza tempo) affronta, con penna autentica e delicata, nel suo Parole invisibili, intenso viaggio nei luoghi mentali dell’autismo letto come disagio, aspetto comportamentale, e non come demone o malattia da ‘sedare’ a colpi di farmaci.
A stupire maggiormente, nella genialità di un libro di importante spessore per profondità di scrittura e per classe di un linguaggio accurato, è l’approccio magistralmente inedito. L’opera, infatti, si snoda su due binari. Due registri narrativi, distinti ma visceralmente collegati, che avvolgono il lettore in un microcosmo emozionale.
Due registri narrativi, dunque, due protagonisti.
C’è Lorenza, donna reduce da faticose prove esistenziali che – tra gravidanze fallite e affanni di un irriverente ed invadente iter adottivo – le hanno, in compenso, donato la bramata maternità.
C’è Achille, suo figlio. Un bambino voluto, cercato, sognato. Un bambino autistico.
E mentre madre e figlio si raccontano in prima persona, a capitoli alterni, in una sorta di diario a due voci, pagina dopo pagina scopriamo quelle verità che soltanto una cronaca non filtrata da ipocrisie o preconcetti lascia trasparire.
Scopriamo, ad esempio, il coraggio di Lorenza quando confessa:
ho imparato a contare le lacrime, a bagnarmi con esse. Le ho sentite scorrere sul viso, scendere sul collo, arrivare al cuore. Le ho asciugate ricacciandole indietro come si fa con delle mosche fastidiose e aggressive. Le ho ingerite con violenza, come a volerle sopprimere.
Coraggio iniettatole in vena dall’amore di sangue e di carne per Achille e dalla consapevolezza di esserne la sola, affidabile, voce.
L’unico tramite con una società, lo si vuole denunciare, ancora impreparata per poter essere e restare concretamente a fianco delle famiglie meno fortunate.
Ma ad affiorare è anche la tenacia di Achille che, sequestrato nel suo silenzio, grida al mondo:
non sono pazzo! Molto semplicemente la mia esistenza è stata in qualche modo capovolta… il mio è un linguaggio muto che si muove con gesti sbilenchi e maldestri di un bambino autistico. Le mie sono parole invisibili che non riescono a superare la barriera del suono.
Ed è sublime la descrizione del destino delle parole di Achille che sembrano perdersi nel viaggio ideazione-realtà e che invece diventano tasselli di un’identità perfetta. Perfetta perché quella prigione della (non) voce diviene aquilone, diviene libertà, proprio grazie alla sua capacità di portare a termine un’operazione complicatissima: l’introspezione. Achille si guarda dentro, senza indossare il paracadute della prudenza, alla ricerca del meccanismo che genera pensieri muti e trova la soluzione, la cura: essere.
Semplicemente essere. Non lasciarsi dissolvere dalla società.
Perché Achille è un bambino speciale. Con percezioni speciali. Non diverso. Speciale.
Lo dimostrerà ai suoi compagni. Lo dimostrerà a sua madre quando – nella commovente chiusa dell’opera – le dedicherà un traguardo importante. Lo dimostrerà a se stesso anche se, del suo essere speciale, non aveva mai dubitato e, anzi, ne aveva tratto forza.
Sì, Achille è proprio speciale. Ed ha voce. Eccome se ce l’ha.
‘Achille è un angelo’ fa dire ad una bimba il Carnicelli in un passo indelebile del romanzo ‘e gli angeli non parlano e per sentirli bisogna usare le orecchie del cuore’.
Verissimo.
Achille ha la voce nello sguardo e nelle movenze. Ha voce da vendere e tanto da dire.
Basta saperlo ascoltare lasciandosi guidare dall’empatia. L’empatia che salva.
Empatia necessaria affinché nessuno pronunci più Parole invisibili.
Il futuro è nelle tecniche di stimolazione cerebrale
Attualmente le stimolazioni transcraninche più utilizzate sono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS). Ultimamente si inizia a parlare anche di stimolazine cerebrale a rumore casuale (tRNS).
Le differenze tra le tre metodologie sono le seguenti:
TMS: La stimolazione magnetica transcranica è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, consiste in una bobina che viene posizionata in prossimità della cute del cranio della persona. La bobina è in grado di generare un campo magnetico che va a modulare l’attività elettrica dei neuroni delle zone più superficiali del cervello (Palm et al., 2016).
tDCS: La stimolazione transcranica a corrente diretta è anch’essa una metodologia di stimolazione non invasiva e consiste in due elettrodi applicati sullo scalpo della persona che fanno passare una corrente elettrica costante di 1-2 mA. E’ possibile fare una stimolazione anodica quindi che eccita i neuroni, oppure una stimolazione catodica che inibisce i neuroni.
tRNS: La stimolazione a rumore casuale, è la tecnica di stimolazione non invasiva più recente e ciò che la rende peculiare è che la frequenza della corrente che attraversa i neuroni è casuale, varia cioè tra i 100 e i 650 Hz. Anch’essa consiste in due elettrodi che vengono applicato sullo scalpo della persona (Palm et al., 2016).
Stando a recenti ricerche, la tRNS sembrerebbe produrre effetti più significativi, rispetto alle altre tecniche di stimolazione cerebrale, tra i vari effetti positivi che sono stati riscontrati, si delineano in particolare benefici per quel che riguarda: abilità cognitive, in particolare il calcolo matematico; diminuzione del dolore cronico in pazienti con sclerosi multipla (Palm et al., 2016); decremento dell’attività della corteccia motoria in soggetti con il morbo di Parkinson (Stephani et al., 2011); diminuzione dei sintomi depressivi (Chan et al., 2012); miglioramento dei sintomi negativi della schizofrenia (Palm et al., 2013).
A livello neuronale, la tRNS opera sull’attivazione/de-attivazione dei canali del sodio Na+, depolarizzando o iperpolarizzando il neurone; inoltre, la sua frequenza casuale, non permetterebbe alla zona stimolata di prevedere e abituarsi alla stimolazione, mantenendo così stabili i benefici dati dalla sollecitazione elettrica.
I ricercatori stanno ancora cercando di capire quale sia il range di frequenza ottimale in grado di massimizzare i benefici; attualmente la più promettente sembra essere una stimolazione con frequenza che continua a variare tra i 100 e i 700 Hz (Moret et al., 2019).
The Inner Game
L’atleta riesce ad esprimere la sua performance ottimale quando riesce a ridurre al minimo gli ostacoli personali interni e sviluppa la fiducia nelle proprie capacità di apprendere in modo naturale dall’esperienza diretta (W. Thimothy Gallwey).
L’avversario che c’è nella nostra mente, è molto più forte dell’avversario che c’è dall’altra parte. (W. Thimothy Gallwey)
Controllo della prestazione
Vi è mai i capitato di pensare per molto tempo alla vostra ultima prestazione in campo, soffermarvi a cercare di capire dove avete sbagliato, nonostante le indicazioni vi fossero chiare, e poi ritrovarvi nonostante tutto il giorno seguente a fare lo stesso errore? Ecco, vi sarete detti, come è possibile contemporaneamente sapere come tirare, ma poi non riuscire a realizzarlo?
Vi propongo una riflessione sulla pratica del “fidarsi del proprio inconscio” nel golf, così come nella pratica sportiva in generale, citando il maestro Tim Gallwey, noto per il suo enorme contributo proposto con l’Inner Game Coaching, perché essa può aiutarci a capire cosa succede nella nostra mente e, soprattutto, come riuscire a modificare quei comportamenti che non ci fanno raggiungere i nostri obiettivi, nello sport così come nella vita. Secondo questo concetto la nostra mente viene facilmente distratta dalla tendenza a preoccuparsi, a rimpiangere, a confondersi. Sono le interferenze che lo stesso giocatore subisce (come ad es. il giudizio, lo stress, l’eccessiva autocritica, la paura di sbagliare, o l’essere osservati, ecc.…) che condizionano il risultato della prestazione.
Pensate, ad esempio, a quando giocano padre e figlio, a quanto il primo, appena il ragazzo tira, si esprima in modo fortemente convinto nel dare giudizi e consigli (guidato senza dubbio dalle sue migliori intenzioni), ma come questi rimangano impressi nella testa del ragazzo anche quando il padre non sarà più presente in campo con lui, cominciando a fargli interiorizzare un’enorme pressione. Ciò che Gallway presuppone è che dentro, in ciascuno di noi, esista una sorta di partita giocata dalla nostra mente, i cui avversari sono uno esterno e uno interno, chiamati rispettivamente Self One e Self Two. Il Self One è la parte razionale, che giudica, paragona, decide, rende distorta la nostra percezione, mentre il Self Two è l’essere umano con tutte le sue potenzialità latenti e la sua capacità di imparare.
Secondo Gallway, il giudizio della componente Self One interferisce costantemente nello stato di apprendimento, quindi contro il Self Two, provocandoci infinite difficoltà. Questo dialogo interiore è presente pressoché in modo inconsapevole all’interno della mente, ma il guaio è che il gioco procede simultaneamente, quindi, come sospendere questa pratica continua della parte Self One?
Per farlo servono delle abilità interiori, che devono essere allenate, poiché
L’atleta riesce ad esprimere la sua performance ottimale quando riesce a ridurre al minimo gli ostacoli personali interni e sviluppa la fiducia nelle proprie capacità di apprendere in modo naturale dall’esperienza diretta. (W. Thimothy Gallwey)
Da qui la sua formula: PRESTAZIONE = POTENZIALE – INTERFERENZE
L’allenamento mentale consiste quindi tutto nello sviluppare il potenziale e nel ridurre le interferenze. Semplice a dirlo, starete pensando, ma non altrettanto a metterlo in pratica. In realtà il nostro potenziale è molto alto al nostro interno, ma altrettanto alta è la capacità di farsi colpire dalle interferenze.
Triangolo PEL
Alla base del gioco interiore c’è il triangolo PEL (o PAD ) dove ai vertici ci sono oltre alla performance altri due fattori fondamentali: l’apprendimento e il divertimento. Ogni lato del triangolo rappresentato sostiene gli altri due.
Immagine 1. Triangolo PEL
Questo dialogo interiore è presente pressoché in modo inconsapevole all’interno della mente del giocatore, ecco perché risulta utile, all’interno di un percorso di coaching, indirizzare consciamente la propria attenzione, alimentandola con le informazioni di cui ha bisogno, e al contempo bloccare la strada al manifestarsi di pensieri disfattisti o emozioni negative (paura di sbagliare, sentirsi giudicati, …) che portano la persona in uno stato d’animo che limita il proprio potenziale.
In altre parole, imparando in modo naturale ad osservare le nostre azioni, possiamo distrarre le interferenze, ovvero trasformare il giudizio che abbiamo di noi stessi e della nostra performance attraverso tecniche di autocorrezione e acquisizione di consapevolezza delle nostra reali potenzialità.
In queste poche righe non si vogliono certo ridurre al minimo i concetti dei fondamenti del coaching, ma si vuole piuttosto stimolare il lettore a introdurre nella pratica quotidiana del golf, cosi come in altri sport, considerazioni sulla forza della propria consapevolezza e della propria dimensione emotiva, non dimenticando che anche la tecnica influisce in modo ingente nel migliorare la propria performance finale.
La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva?
La competenza terapeutica non è data solo dalla formazione tecnica assunta negli anni di specializzazione, ma sostanzialmente essa si costruisce dall’integrazione di formazione, modello, carattere del terapeuta.
Ogni modello terapeutico, basandosi su assunti teorici e tecniche diverse, punta a obiettivi terapeutici complessi e apparentemente divergenti. La competenza terapeutica non è data solo dalla formazione tecnica assunta negli anni di specializzazione, ma sostanzialmente essa si costruisce dall’integrazione di formazione, modello, carattere del terapeuta.
Potremmo anche parlare di una integrazione tra competenza e attitudine personale (Vîşcu, 2014). Mentre il carattere, o anche l’attitudine, sono variabili soggettive, su cui il controllo tecnico è minimo e rispetto alle quali la possibilità di intervento non è neanche troppo auspicabile in quanto distorcerebbe la personalità del terapeuta stesso (ad esempio, fingendo l’austero neutralismo di freudiana memoria o l’empatico relazionale di ferencziana memoria), su formazione e modello ci sarebbe molto da dire. E’ lecito domandarsi se all’interno della formazione personale giochi un ruolo centrale o marginale la terapia personale. Non tutte le scuole infatti impongono un percorso personale obbligatorio, con un monte ore minimo e significativo dell’esperienza della terapia che si andrà poi ad applicare sui pazienti. Mentre marcato è il numero di ore di didattica e supervisione. La ricerca scientifica può dare utili informazioni in merito e può approfondire ulteriormente l’argomento per aumentare un’indagine al riguardo che possa giustificare l’utilità di terapia personale nella formazione del futuro psicoterapeuta. Mentre esistono ricerche che dimostrano che la terapia personale fa bene al futuro terapeuta in ottica di crescita professionale (Bike, Norcross, Schatz, 2009 e Mackey, Mackey, 1994; Macran, Shapiro, 1998 e Orlinsky, Schofield, Schroder, Kazantzis, 2011 e Sheikh, Milne, MacGregor, 2007 cit. in Åstrand, Sandell, 2019; Norcross, 2005), non esistono molte ricerche sull’efficacia della terapia (ricerca sull’outcome) che dimostrino incontrovertibilmente che i terapeuti con formazione e terapia personale siano più efficaci di altri, nonostante ciò è lecito domandarsi che cosa la ricerca possa dirci in merito; risultano essere presenti evidenti fattori terapeutici necessari al processo di cura, quali fattori specifici e aspecifici delle terapie. Secondo il verdetto di Dodo tutti hanno vinto e ognuno deve ricevere il premio (Luborsky et al., 1975, cit.in Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006, p.8) dunque le terapie dovrebbero avere tutte la medesima efficacia; ma grazie a quali fattori? La ricerca in psicoterapia ha differenziato il ruolo dei fattori aspecifici (fattori supportivi: identificazione con il terapeuta, calore del terapeuta, empatia, alleanza terapeutica, etc.; fattori di apprendimento: esperienza emotiva correttiva, insight, assimilazione dell’esperienza problematica, etc.; fattori di azione: regolamento del comportamento, abilità cognitive, etc.) e specifici sull’efficacia (interventi clinici differenti) (Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006, p.25). Di questi, i secondi, paradossalmente più orientati al modello teorico e alla tecnica, sembrano non essere i veri fattori di efficacia e cambiamento, a differenza dei primi che risultano significativi e che sembrano essere comuni a tutte le buone terapie.
Alcune ricerche sostengono che l’interazione tra fattori specifici e aspecifici può spiegare almeno il 60% della varianza di outcome (Beutler, Moleiro, Malik, et al., 2000, cit. in Dazzi, Lingiardi, Colli, p.27). In generale definire efficace una psicoterapia rispetto ad un’altra risulta molto complesso per l’interazione di fattori legati al terapeuta, al paziente e a molteplici variabili extrasetting che è molto complesso manipolare in ricerca (Luborsky, 2002, cit. in Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006, p.44). Ma se i fattori significativi sono prevalentemente quelli aspecifici, che senso ha una terapia didattica? Si potrebbe approfondire la ricerca a conferma dell’ipotesi secondo cui un percorso di terapia personale, possa annoverarsi come strumento essenziale dell’efficacia terapeutica, in quanto funzionale ad apprendere in prima persona il peso dei fattori aspecifici (come fiducia, alleanza, percezione dell’empatia del terapeuta, etc.)? Tutte le ricerche sul tema propendono per l’importanza di una terapia personale nel percorso di vita di uno specialista della salute mentale (Norcross, 2005; Åstrand, Sandell, 2019); per quali motivi?
Terapia personale o terapia didattica?
Nell’ambito della ricerca in psicoterapia l’efficacia del percorso di terapia personale come variabile del processo terapeutico e di funzionalità terapeutica emerge marcatamente in diverse ricerche che riassumono l’efficacia della terapia personale, i cui scopi possono essere: ridurre il disagio professionale e aumentare le capacità emotive, empatiche e di insight del terapeuta; aumentare la consapevolezza degli aspetti personali che possono interferire con il lavoro; apprendere con una immersione diretta, aumentando la consapevolezza della tecnica e dei meccanismi centrali di processo; aumentare la fiducia nell’efficacia della terapia; sperimentarsi nel ruolo di paziente (Macran, Stiles e Smith 1999; Elman e Forrest, 2004, cit.in Perdighe, Mancini, 2010). In molte ricerche è confermata la funzionalità della terapia personale per ampliare lo sviluppo di capacità personali quali empatia e introspezione, le quali sembrano essere facilitatori di intervento con il paziente (Norcross, 2005; Åstrand, Sandell, 2019). In un altro ambito sembra che il percorso di terapia personale possa avere una funzione importante, quello della prevenzione della iatrogenicità della terapia e del rischio di errori terapeutici. Dalla ricerca sembrano emergere errori terapeutici specifici legati ai singoli modelli. Secondo Janiri e Petrini (2008) le psicoterapie e i loro modelli di trattamento possono essere caratterizzate da specifici rischi terapeutici. Nella visione psicodinamica possono essere le interferenze controtransferali non gestite o mal gestiste a determinare problematiche nel rapporto con il paziente, fino a vere e proprie dinamiche patologiche e violazioni del setting. Rispetto al controtransfert Downing (cit. in Mazzei, 1994) sostiene che esistono tre specifici tipi di controtransfert legati alla personalità del paziente e un tipo specifico in cui si attiva materiale del passato del terapeuta. Mazzei (1994) lo definisce Reazione ad una situazione, Reazione ad un fantasma e Reazione ad un triangolo: il clinico reagisce ad una riattivazione di fattori personali del suo passato, attualizzati dalla relazione con il paziente.
La messa in atto controtransferale
presuppone che il significato intrapsichico di un’interazione nell’analisi possa essere completamente diverso da un analista all’altro, e che di fronte allo stesso materiale dello stesso paziente analisti diversi possono comportarsi in modo diverso (Gabbard, Lester, 1995, p.137).
Gli analisti dovrebbero essere in grado di monitorarsi per non mettere in atto comportamenti elicitati sia dal mondo interno del paziente che dal proprio mondo interno. Questa posizione neutra del terapeuta corrisponde a ciò che Lacan (1973) definisce l’analisi del Desiderio dell’analista. Per fare questo il terapeuta deve conoscere molto bene la sua dinamica controtransferale, che spesso è emersa con chiarezza come transfert in psicoterapia personale. Dunque la terapia su di sé consente di conoscere i propri meccanismi inconsci e poterli riconoscere e utilizzare in modo proficuo nel trattamento con i pazienti.
La terapia cognitiva, diversamente dalla psicoanalisi, ha tre grandi aree di problematicità: 1) un’attenzione settoriale al disturbo; 2) il trattamento solo del sintomo con il rischio di nuove ricadute e cronicizzazione; 3) la mancanza, spesso, nel terapeuta della terapia personale che protegge dalla manifestazione di proiezioni, agiti transferali, incapacità di gestione del controtransfert, motivazioni disfunzionali alla terapia. In questo tipo di modello non si dà voce ad un vissuto inconscio e dunque non si considera il peso dello stesso nella relazione con il paziente. Nella terapia cognitiva (come in altri modelli) il rischio di usare la self-disclosure può indurre un contatto e apertura eccessive fino a veri e propri processi di inversione del ruolo. In questo modello una formazione personale associata ad un percorso psicoterapico potrebbe favorire una maggiore gestione delle tecniche, una comprensione degli effetti delle stesse sul vissuto del paziente, e sensibilizzare ad una attenzione al vissuto più implicito che si associa alla manifestazione sintomatica. In generale le scuole cognitive sono più restie all’obbligo di terapia didattica: l’EABCT e la British Association for Behavioral and Cognitive Psychotherapies non impongono alcuna terapia personale per l’accreditamento formativo (fonte: Mancini, Perdighe, 2010).
Nel caso dell’approccio sistemico, il rischio iatrogeno può riguardare un invischiamento del clinico nei giochi familiari patologici, fino a prendere parte alle dinamiche patologiche del sistema, fenomeno definito dalla Fruggeri (1995) familiarizzazione del terapeuta. In questo tipo di approccio sperimentare una terapia personale di tipo sistemico potrebbe aiutare il clinico a conoscere meglio la tendenza implicita che ha di assumere un certo ruolo o funzione all’interno di un sistema complesso, a monitorare il rischio di parallelismo con alcuni membri del sistema a causa della propria storia personale, o finire ad invischiarsi in battaglie simmetriche o complementari sempre come fenomeno legato alla propria storia famigliare. Il percorso personale è dunque centrale per ciò che riguarda ‘l’igiene mentale’ funzionale al ruolo di terapeuta e alla neutralità citata da molte teorie (Vîşcu, 2014).
Terapia didattica si o no?
In una ricerca di Norcross e Guy (2005) è emerso che su un campione di più di 8000 specialisti della salute mentale, raccolti attraverso una revisione degli studi sul campo, ben il 72-75% aveva avuto almeno una seduta terapeutica. Le cause che tendenzialmente spingono a fare un percorso personale sono state identificate in: obbligo di training, facilitare una crescita personale, risolvere problemi personali (Orlinsky, Rønnestad, Willutzki et al., 2005 cit. in Orlinsky et al., 2011). Mentre le cause legate al training spingono a pensare che queste terapie siano didattiche, lo svolgimento di un percorso scelto per motivazioni personali induce a pensare ad una terapia voluta dal professionista a prescindere dal modello e dallo scopo didattico. In due importanti ricerche emerge che prevalentemente la terapia prescelta è quella psicodinamica, forse proprio a causa dell’obbligatorietà che questo modello impone nella formazione personale (Pope, Tabachnik, 1994; Norcross, Karpiak, Santoro, 2005 cit. in Orlinsky et al., 2011):
Psychoanalytic clinicians have the highest rates (82% to 100% ) and behavior therapists the lowest (44% to 66 % ) in the United States. In our latest study of 694 clinical psychologists in the United States (…) 100% of self-identifed psychoanalytic therapists had undergone personal therapy, 86 % of systems therapists, 83 % of eclectic or integrative therapists, 81% of psychodynamic therapists, 76 % of humanistic therapists, 65% of cognitive therapists, and 64% of behavior therapists (Norcross, 2005, p.841).
Anche in ambito cognitivo Rezzonico e Bani (2008) promuovono il percorso terapeutico personale per fare esperienza del modello e consigliano un’analisi cognitiva personale. Molti autori propongono come validi strumenti di monitoraggio e formazione: supervisione e terapia personale didattica. Nonostante ciò è lecito pensare alla terapia didattica come realmente funzionale? Gabbard e Lester (1995) sostengono che è necessario porre grande attenzione ai rischi legati all’analisi didattica, poiché la posizione del paziente-allievo non è per nulla paragonabile a quella del paziente ‘puro’. Infatti domanda di terapia e scopo terapeutico sono diversi: nel caso della terapia didattica il rischio dello scopo formativo e del mero raggiungimento del monte ore minimo per l’obbligo formativo imposto dalla scuola, possono limitare il disvelamento del desiderio del paziente e del suo mondo inconscio. La terapia può essere di per sé organizzata su una domanda estremamente consapevole, asintomatica, non metaforica. Un buon terapeuta direbbe che ci si può comunque lavorare!, ma le distorsioni potrebbero non riguardare solo il paziente, ma anche il terapeuta stesso, posto in una posizione semi-didattica. Greenacre (1966) e Ganzarain (1991) sostengono che il terapeuta stesso, nelle terapie didattiche, è molto più restio ad interrompere il processo quando questo è chiaramente concluso, o viola la rigidità del setting cercando di creare una relazione terapeutica anche al di fuori dei confini della stessa a causa della sovrapposizione tra ruolo didattico e terapeutico (spesso nelle scuole sono gli stessi didatti a svolgere terapie agli allievi). Per tali ragioni l’ideale è che il futuro terapeuta intraprenda la terapia quando si sente motivato a svolgere un cammino di conoscenza, e non quando si senta obbligato dal monte ore scolastico. Cremerius (1989) sosteneva che l’analisi didattica corrisponde più a un rituale di sottomissione il cui obiettivo è l’indottrinamento, più che ad un percorso gnoseologico e terapeutico su se stesso. Al contrario alcuni teorici del modello psicoanalitico si allineano con la teoria di Freud (1937) il quale sosteneva che la terapia personale didattica deve consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore ammaestramento (Freud, 1937, p. 531).
Le ricerche a favore della terapia personale come aspetto funzionale al training del candidato sono molte (Orlinsky, Rønnestad, Willutzki, 2003; Rønnestad, Skovholt, 2003). Una recente ricerca di Åstrand e Sandell (2019) rivela che in effetti nel percorso di formazione analitico la terapia personale ha un peso di efficacia significativo su un gruppo di terapeuti in formazione, rispetto a facilitating the development of a theory and knowledge based professional subjectivity, a personally founded, professional attitude” e lo sviluppo sembra dovuto a “shared experience,”“personal influence,” and “knowledge integration. (p.1).
Un’altra domanda che potremmo aprire riguarda la coerenza tra terapia personale e modello di formazione: è giusto che il futuro terapeuta debba svolgere una terapia del medesimo orientamento della scuola di formazione? Sebbene spesso la formazione che fa seguito ad un percorso personale è coerente con il modello della propria psicoterapia, potrebbe accadere che un futuro terapeuta abbia intrapreso un certo percorso di psicoterapia personale, con ottimi risultati, ma che non possa poi corrispondere al modello per varie questioni (es. distanza della sede di formazione, spesa, investimento di tempo, etc.). Alcuni modelli teorici prediligono una coerenza tra modello della propria terapia e formazione personale (ad esempio il modello psicoanalitico ortodosso), ma non si rischia così di abbattere proprio quel famoso verdetto di Dodo e quelle tante ricerche sull’efficacia dei fattori terapeutici? La domanda è aperta e complessa. Infatti, se da una parte la ricerca ci porterebbe a dire che nella terapia uno vale uno, d’altro canto proprio il rischio iatrogeno e la possibilità di fare esperienza diretta del proprio modello di formazione come pazienti potrebbe favorire il futuro terapeuta nel percorso di conoscenza delle tecniche che andrà ad applicare.
Conclusioni
Questo articolo si pone come obiettivo quello di evidenziare alcuni spunti sul tema del ruolo giocato dalla terapia personale nella formazione dello specializzando in psicoterapia. La possibilità di esaurire il quesito che muove questo lavoro è relativa in quanto, in primo luogo vi è un’ampia disparità tra modelli rispetto all’obbligo di terapia personale dello specializzando. Alcune scuole non obbligano a fare esperienza diretta del modello che si sta studiando, mentre altre ne caratterizzano quasi pedissequamente il percorso formativo. Di norma è il modello psicoanalitico a richiedere ai suoi studenti di intraprendere o di dimostrare lo svolgimento di un monte ore minino di terapia personale oltre alla formazione teorica e alla supervisione da svolgersi nei 4 o 5 anni di specializzazione post-universitaria. Questo tipo di terapia viene spesso indicata come analisi didattica e sembra che la funzionalità di una terapia obbligata dal modello possa essere confermata da alcune ricerche. Il secondo motivo che crea complessità è che spesso la terapia personale incide, molto più della teoria appresa, sul proprio modo di essere terapeuta. Questo spinge a domandarsi come possa un collega senza una terapia personale apprendere fino in fondo la tecnica che studia (Geller, Norcross, Orlinsky, 2005). In ultimo, in questo articolo soggiace l’idea che sia difficile essere empatici con la posizione del paziente (Geller, Norcross, Orlinsky, 2005; Malan, 1995) se non si è stati almeno una volta pazienti! È possibile, in ultimo, sviluppare attraverso terapia personale quella che viene definita therapeutic attitude (Grimmer, Tribe, 2001) ovvero una capacità di maneggiare la tecnica in modo fluido avendone fatto esperienza diretta. La psicoterapia personale è dunque essenziale a vari livelli e per varie motivazioni, la ricerca lo conferma e i diversi modelli dovrebbero propendere per un allineamento formativo in questo senso.
Una risposta a questo articolo a firma di Giovanni Maria Ruggiero è stata pubblicata il 28 novembre 2019:
Gli Junghiani. Una prospettiva storica e comparata, di Thomas B. Kirsch – Recensione del libro
La storia della psicologia analitica dopo Jung non ha ricevuto una grande attenzione da parte degli specialisti; quindi l’uscita in italiano del volume Gli Junghiani. Una prospettiva storica e comparata di T. B. Kirsch (sia pure con forte ritardo, rispetto all’edizione originale) va salutata con grande interesse.
In effetti esisteva in precedenza soltanto una monografia complessiva sul mondo neo-junghiano, quella di Andrew Samuels (1985), che peraltro uscì nella nostra lingua in una versione praticamente inutilizzabile, per chi avesse voluto impiegarla come punto di partenza per ulteriori studi. L’editore, infatti, decise che da una parte il saggio introduttivo e l’appendice firmati da Aldo Carotenuto erano da considerare indispensabili; dall’altra il numero complessivo delle pagine non poteva crescere ulteriormente. Onde sacrificò del tutto la bibliografia originale. Dato che il volume impiegava, per i riferimenti ai testi citati, il sistema autore/data, in molti casi il lettore non era neanche in grado di risalire ai titoli delle opere menzionate nel volume, se non procurandosi l’originale inglese.
A parte che al mutilato libro di Samuels, per conoscere il dopo Jung il lettore italiano poteva rivolgersi o alla lettura diretta dei testi dei neo-junghiani (senza un orientamento preliminare); o a monografie generaliste di storia della psicologia del profondo (spesso avare se non completamente prive anche di riferimenti allo stesso Jung); o ai testi, spesso ormai introvabili, che fotografano parzialmente almeno la storia della psicologia analitica italiana (p. es., Pieri, 1998; Carotenuto, 1977); o a contributi, come quelli preziosi di Sonu Shamdasani (2003; 2005), che occupandosi tematicamente di Jung offrono in modo incidentale anche informazioni sui suoi epigoni. Naturalmente il risultato era comunque costituito da informazioni, per una ragione o l’altra, del tutto parziali.
L’autore di questo volume, Thomas B. Kirsch, si è trovato in una posizione da insider rispetto al tema, si può dire, fin dalla nascita. Ambedue i genitori, infatti, erano stati analisti junghiani noti e avevano effettuato l’analisi didattica con Jung in persona. James Kirsch, il padre, aveva con Jung anche tenuto un ricco epistolario, ormai pubblicato in volume da qualche anno (Jung, J. Kirsch, 2011). Lo stesso Thomas Kirsch è stato a sua volta personaggio di rilievo del mondo junghiano, essendo stato prima vice-presidente e poi presidente dell’International Association of Analytical Psychology, l’associazione mondiale che raccoglie gli analisti junghiani (l’equivalente di quello che è l’International Psychoanalytic Association in campo freudiano), nonché docente di psichiatria a Stanford: un pedigree davvero di grandissimo rilievo, dunque.
La classificazione proposta da Samuels delle correnti in cui si è diviso il pensiero post-junghiano, ripresa da Thomas Kirsch, distingueva tra: una Scuola Classica che proseguendo consapevolmente la tradizione di Jung, si concentra sul Sé e l’individuazione; una Scuola Evolutiva che riserva un’attenzione particolare all’infanzia nell’evoluzione della personalità adulta e pone altrettanto in rilievo l’analisi di transfert e controtransfert, risultando quella più vicina alla psicoanalisi classica; una Scuola Archetipica che si concentra, in terapia, sulle immagini, attribuendo poca importanza alle problematiche evolutive (p. 81).
Thomas Kirsch, però, propone anche delle correzioni alla classificazione originaria, rese necessarie dal trascorrere del tempo. Constata in primo luogo che la Scuola Archetipica (peraltro, a suo avviso, da subito quella meno riconosciuta come entità a sé stante) non ha subìto sviluppi, venendo piuttosto assorbita o meglio eliminata dalla scena. Malgrado, si potrebbe aggiungere, il fatto che il suo fondatore James Hillman sia tuttora probabilmente l’autore post-junghiano più letto nel mondo, l’unico, di fatto, che abbia conosciuto una vera popolarità anche fuori dall’ambiente clinico: prova ne sia che le sue opere principali sono pubblicate in italiano da Adelphi, editore assai visibile e non certo specializzato nella psicologia del profondo. In secondo luogo, Kirsch osserva che si è sviluppata una polarizzazione tra il tentativo di riportare la psicologia analitica, per così dire, alla purezza originaria e quello di operarne una fusione con la psicoanalisi. La prima tendenza è definita dallo stesso Kirsch Scuola Ultra-Classica. Gli ultra-classici valorizzerebbero come riferimento teorico le opere del solo Jung e al limite quelle della sua stretta collaboratrice Marie-Louise von Franz (colei che contribuì alla redazione di Mysterium Coniunctionis). La seconda tendenza (cioè quella fusionale) sarebbe sostenuta da coloro che, pur avvertendo nella lettura di Jung una profonda risonanza, non hanno trovato la propria analisi didattica junghiana soddisfacente, completando piuttosto la propria formazione in contesti neo-freudiani. Per conseguenza essi adottano le regole di astinenza e neutralità in senso psicoanalitico, danno più valore alla cornice psicoanalitica rispetto al rapporto psicoanalitico e attribuiscono più peso al transfert/controtransfert rispetto a immaginazione e immagini di sogni (p. 82). La qual cosa può risultare tutto sommato paradossale. È vero che l’interpretazione dei sogni è una tecnica sempre meno usata in psicologia del profondo, ma si tratta di un declino parallelo nel mondo junghiano e in quello freudiano: per Freud l’uso dei sogni corrispondeva originariamente alla via regia per l’inconscio. D’altra parte la cosiddetta svolta relazionale in psicoanalisi ha posto sempre più l’accento sul rapporto analista/paziente, abbandonando l’ideale del terapeuta come schermo bianco. Inoltre le regole tradizionali di astinenza e neutralità si sono nel frattempo molto evolute nel contesto della psicoanalisi tradizionale: l’analista che non risponde ad alcuna domanda è ormai una figura del passato; l’equidistanza tra Io, Es, Super-io e realtà esterna si è evoluta in un atteggiamento non giudicante verso il paziente (Gabbard, 2004). In un certo senso, dunque, sarebbe la psicoanalisi tradizionale a essersi spostata verso un atteggiamento più junghiano. Samuels (1985), del resto, aveva definito molti psicoanalisti contemporanei come junghiani inconsapevoli, avendo essi adottato una condotta della cura molto più simile a quella descritta da Jung (1929) rispetto a quella originariamente proposta da Freud (1912).
Purtroppo, questa di Thomas Kirsch è molto più una storia della progressiva espansione del movimento junghiano nelle diverse nazioni in cui è penetrato, che una storia dello sviluppo teorico della psicologia analitica. Anche soltanto l’impostazione strutturale del volume può rendere conto di ciò: i capitoli sono infatti intitolati essenzialmente ai diversi contesti geografici (La psicologia analitica a Zurigo; La psicologia analitica nel Regno Unito, etc.) e solo eccezionalmente a temi generali: su tutti la Storia del Gioco della Sabbia, sull’evoluzione della tecnica creata da Dora Kalff, e l’apprezzabile appendice su Gli Sviluppi della IAAP nel terzo millennio, firmata da Alessandra De Coro per questa edizione italiana.
L’impostazione di storia burocratica piuttosto che teorica, sacrifica di fatto lo spazio dedicato ai suoi singoli protagonisti, per quanto di rilievo. Non può che lasciare perplessi, in effetti, constatare che perfino ai più importanti collaboratori di Jung venga dedicata una pagina ciascuno: ciò vale per von Franz come per Emma Rauschenbach (moglie di Jung), Aniela Jaffé (che tra l’altro curò la cosiddetta autobiografia di Jung [1961]), Toni Wolff (che propose la locuzione psicologia complessa, adottata poi da Jung per designare il proprio modello), Franz Riklin (con cui Jung sviluppò il cosiddetto esperimento associativo; si vedano le pp. 36-44). Addirittura, due dei più principali autori post-junghiani come Adolf Guggenbühl-Craig e il summenzionato James Hillman vengono liquidati con mezza pagina ciascuno (pp. 50-51). Altro limite importante del testo è la superficialità delle ricerche storiche, condotte dall’autore per raccontare la storia del movimento junghiano lontano dai suoi centri principali (il mondo germanofono e quello anglosassone). Kirsch, per esempio, scrive: I lavori di Jung furono tradotti in Italia subito dopo la loro prima pubblicazione (p. 176). Si tratta di un’affermazione piuttosto singolare visto che le principali opere junghiane vennero pubblicate nel decennio 1911-1921 e la prima traduzione di un libro di Jung vide la luce, per merito di Giovanni Bollea, solo nel 1942.
Che dire, dunque, in conclusione? Bisogna, come già si è sottolineato, apprezzare lo sforzo dell’editore italiano ma anche sperare che il recente risveglio di interesse per Jung e la psicologia analitica renda possibile la pubblicazione di ulteriori studi sullo stesso tema.
Il narcisismo nelle relazioni di coppia: l’abuso psicologico e il ruolo mediatore della gelosia romantica
Il narcisismo si associa tipicamente a disfunzioni nelle relazioni interpersonali e ad agiti caratterizzati da una quota di aggressività, condotte prepotenti e vendicative. Uno studio analizza come questi comportamenti si declinano all’interno della relazione di coppia.
La letteratura ha dimostrato che il narcisismo è tipicamente associato a disfunzioni nelle relazioni interpersonali. Esso è caratterizzato da mancanza di empatia e senso pervasivo di grandiosità, i quali influenzano significativamente la tendenza ad agire dell’individuo, con la messa in atto di comportamenti disfunzionali, tra cui ad esempio l’aggressività interpersonale e le condotte prepotenti e vendicative. Tutti questi comportamenti sono strettamente legati alla qualità della relazione con il partner e, in particolare, alle diverse forme di abuso psicologico perpetrato all’interno della relazione di coppia (Brown et al., 2004).
Lo scopo del presente studio è analizzare le influenze dirette e indirette di due tipologie di narcisismo sull’abuso psicologico nelle relazioni di coppia, tenendo conto delle differenze di genere ed esplorando il ruolo mediatore della gelosia romantica; la quale è spesso riconosciuta come una delle principali cause di abuso psicologico nelle relazioni sentimentali (Buss, 2000).
Nello specifico, le due varianti di narcisismo sono definite come narcisismo grandioso e vulnerabile. Esse condividono determinate caratteristiche (ad es. fantasie grandiose e sfruttamento degli altri); ma differiscono per alcuni tratti rilevanti, i quali si ipotizza possano avere un’influenza diversa sull’abuso psicologico all’interno della relazione. Gli individui narcisistici grandiosi sono caratterizzati da arroganza, grandiosità, egoismo, mancanza di empatia e usano strategie disadattive per aumentare le loro opinioni su sé stessi. Queste strategie sono, in realtà, illusive, dal momento che i grandi narcisisti hanno bisogno di continue approvazioni e conferme da parte degli altri. Questa forma di narcisismo tende ad essere più frequente nei maschi rispetto alle femmine; al contrario, nessuna significativa differenza di genere emerge riguardo al narcisismo vulnerabile (Grijalva et al., 2015). Gli individui narcisisti vulnerabili, invece, tendono ad essere timidi, imbarazzati e ansiosi, con una fragile autostima che è influenzata e regolata dalle risposte degli altri. Questa forma di narcisismo è accompagnata da una ridotta felicità e soddisfazione per la vita, problemi psicopatologici (ad es. depressione, ansia e paranoia) e tende ad essere associato con attaccamento romantico ansioso e sensibilità al rifiuto.
L’abuso psicologico è una forma di violenza interpersonale che viene attuata attraverso un’ampia varietà di gesti e comportamenti (ad es. il dominio, il controllo, l’isolamento, le minacce fisiche e verbali). L’insieme di questi atteggiamenti comportano conseguenze significative e negative per il benessere psicologico, fisico e relazionale dei soggetti maltrattati.
La gelosia romantica è un sentimento comune e frequente all’interno della relazione di coppia e può essere definita da molteplici manifestazioni emotive, cognitive e comportamentali. La tendenza a provare sentimenti di gelosia all’interno delle relazioni sentimentali varia significativamente in base al sesso: le femmine tendono a provare sentimenti di gelosia più frequentemente e intensamente rispetto ai maschi (Aumer, Bellew, Ito, Hatfield e Heck, 2014). Quando la gelosia viene vissuta ad alto livello o sorge in risposta a situazioni infondate e immaginarie, può indurre una vasta gamma di effetti, influenzando in modo significativo il benessere degli individui e può avere un impatto negativo sulla soddisfazione generale della vita e sulla qualità delle relazioni. Numerosi studi hanno ampiamente documentato che l’eccessiva gelosia può portare ad atti di violenza sessuale, fisica e psicologica nei confronti del partner, o anche casi di omicidio e suicidio (O’Leary, Smith-Slep e O’Leary, 2007).
Il campione finale del presente studio comprendeva 473 partecipanti (213 maschi), di età compresa tra 18 e 30 anni, coinvolti in una relazione romantica stabile. Gli strumenti utilizzati sono:
Hypersensitive Narcissism Scale (HSNS; Fossati et al., 2009): è un questionario self-report, composto da 10 items, che valuta il narcisismo vulnerabile utilizzando affermazioni che riguardano sentimenti di ipersensibilità (ad es. “Spesso interpreto le osservazioni degli altri in modo personale”).
Narcissistic Personality Inventory (NPI-16: Ames, Rose, & Anderson, 2006; Fossati, Borroni, & Maffei, 2008): è un questionario self-report utilizzato per valutare il livello di narcisismo grandioso. È composto da 16 coppie di elementi, ciascuna costituita da due affermazioni opposte che il partecipante sceglie in base alle proprie convinzioni e sentimenti (ad es. “Sono più capace delle altre persone” e “C’è un molto che posso imparare da altre persone”).
Short Form of the Multidimensional Jealousy Scale (SF-MJS: Elphinston et al., 2011; Tani & Ponti, 2016), composto da 17 items. L’SF-MJS è un questionario che valuta la gelosia prendendo in considerazione tre dimensioni principali: la gelosia cognitiva, la gelosia emotiva e la gelosia comportamentale. Nello specifico, la prima dimensione si riferisce alla tendenza del soggetto ad avere sospetti, pensieri e dubbi relativi alla fedeltà del partner (ad es. “Sospetto che il mio partner veda segretamente qualcun altro del sesso opposto”); la seconda dimensione si riferisce alle risposte affettive del soggetto nei confronti di possibili minacce alla propria relazione (ad es. “Il tuo partner ti commenta quanto sia bello un particolare membro del sesso opposto”); infine, la terza dimensione valuta la presenza di comportamenti di controllo e intrusione messi in atto dal soggetto (ad es. “Guardo nei cassetti, la borsa o le tasche del mio partner”).
Multidimensional Measure of Emotional Abuse (MMEA: Bonechi& Tani, 2011b; Murphy & Hoover, 1999): è una scala self-report, composta da 28 items, utilizzata per valutare la presenza di abuso psicologico nella relazione di coppia negli ultimi sei mesi. In particolare, l’abuso psicologico viene analizzato sulla base di quattro dimensioni principali di questo costrutto: comportamenti restrittivi, denigrazione, ritiro ostile (comportamenti volti a punire il partner o aumentare l’ansia e l’insicurezza sulla relazione) e dominanza/intimidazione.
Nel complesso, i livelli di abuso psicologico all’interno delle relazioni di coppia erano elevati; quasi tutti i partecipanti (98,9%), infatti, hanno riferito che nei sei mesi precedenti si era verificata una forma di abuso psicologico nelle loro relazioni. Lo studio dimostra che le due forme di narcisismo sono entrambe legate all’abuso psicologico, ma in modi diversi. Il narcisismo vulnerabile, infatti, era collegato all’abuso psicologico solo indirettamente, attraverso il ruolo della gelosia romantica: i partecipanti che hanno riportato livelli elevati di questa dimensione tendono a provare un alto livello di gelosia nei confronti dei loro partner e, a loro volta, questa sensazione è un fattore di rischio significativo per l’abuso psicologico. Al contrario, il narcisismo grandioso era positivamente e direttamente associato all’abuso psicologico all’interno della relazione sentimentale. In altre parole, individui narcisistici grandiosi che sono indifferenti rispetto ai sentimenti del loro partner e hanno difficoltà a comprendere l’impatto dei loro comportamenti sugli altri, tendono ad attuare l’abuso psicologico attraverso comportamenti come isolamento, denigrazione, disprezzo e controllo del partner, al fine di mantenere alta la propria immagine personale e mantenere il dominio nella relazione. Le analisi finali dimostrano che questo modello era invariante per maschi e femmine.
Ci sono alcune limitazioni al presente studio: in primo luogo, la ricerca si basava solo su misure self-report; in secondo luogo, non è stata considerata la variabile di desiderabilità sociale; in terzo luogo, dato il disegno dello studio trasversale, è impossibile inferire relazioni casuali e determinare la direzione degli effetti osservati. Inoltre, sono state prese in considerazione solo le relazioni eterosessuali; sarebbe interessante esplorare il ruolo che queste variabili svolgono in altri tipi di relazioni. Infine, il modello testato non è esaustivo e altre variabili possono certamente svolgere un ruolo significativo nell’interazione tra questi costrutti (ad es. attaccamento ansioso).
Il rischio suicidario tra i giocatori d’azzardo
Il disturbo da gioco d’azzardo (DGA) viene definito come un persistente e ricorrente comportamento problematico di gioco d’azzardo che comporta difficoltà o disagio clinicamente significativi (American Psychiatric Association, 2013) con sintomi che si manifestano in un arco temporale di dodici mesi.
Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto
I giocatori d’azzardo problematici presentano delle frequenti difficoltà connesse alla sfera relazionale e lavorativa (Grant & Kim, 2001; National Opinion Research Center, 1999). Inoltre, comunemente, coloro che richiedono un trattamento presentano gravi problemi finanziari.
Le pratiche di gioco d’azzardo sono fortemente diffuse nel nostro paese. Una recente indagine ha riportato che il 42.9% della popolazione italiana tra i 15 e i 64 anni ha giocato d’azzardo almeno una volta nell’ultimo anno (Beato, 2016). Lo studio IPSAD, (Italian Population Survey on Alcohol and other Drugs), condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ifc-CNR), nella sua rilevazione relativa agli anni 2013-2014 ha evidenziato tassi del 76.6% di giocatori occasionali e quindi non a rischio di sviluppare una problematica conclamata, del 14.9% di giocatori a basso rischio, del 4% a rischio moderato e infine del 1.6% con problematiche evidenti di gioco d’azzardo.
È noto che il DGA si presenti spesso in concomitanza con altre condizioni psicopatologiche. Hartmann e Blaszczynski (2016) hanno realizzato una rassegna di studi longitudinali riguardanti la relazione tra DGA e altri disturbi, da cui è emerso che le principali condizioni associate sono i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, l’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio, il disturbo da uso di alcol e la dipendenza da nicotina. In letteratura sono state anche identificate associazioni tra il DGA e i disturbi del controllo degli impulsi (ad esempio, la cleptomania, il comportamento sessuale compulsivo, lo shopping compulsivo), presenti in comorbilità nel 18%-43% dei casi valutati (Black & Shaw, 2008; Derbyshire & Grant, 2015).
Sono sempre più in aumento gli studi che indagano la relazione tra il rischio di suicidio, inteso come un continuum che va dall’ideazione suicidaria ai tentativi di suicidio, e i comportamenti di gioco d’azzardo in campioni di soggetti con diverse caratteristiche di genere, età e diversi gradi di coinvolgimento e intensità delle problematiche di gioco d’azzardo. Numerosi studi sono stati infatti condotti nel panorama internazionale sia con campioni rappresentativi della popolazione generale sia con campioni clinici di giocatori d’azzardo problematici o disturbo diagnosticato secondo i criteri del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).
Il rischio suicidario in campioni non clinici di giocatori d’azzardo
Afifi e colleghi (2010) hanno esaminato un campione costituito da 10.056 donne canadesi di età pari o superiore ai 15 anni. È emersa una associazione positiva e significativa tra gioco d’azzardo problematico nel corso degli ultimi 12 mesi e due comuni categorie di rischio suicidario, ovvero ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, con indici di rischio di circa tre volte e mezzo per la prima categoria (OR = 3.6) e di quasi cinque volte per la seconda (OR = 4.7). Più recentemente uno studio svolto in Inghilterra da Cowlishaw e Kessler (2016) ha analizzato il fenomeno suicidario nei giocatori d’azzardo attraverso delle interviste condotte su 7.403 individui di età superiore ai 16 anni. Gli autori hanno rilevato che circa un quarto dei giocatori d’azzardo problematici riferiva di aver messo in atto un tentativo di suicidio nel corso della propria vita, mentre il 20% indicava di aver avuto una qualche forma di ideazione suicidaria nel corso dell’ultimo anno.
In uno studio pilota, Grant e colleghi (2014) hanno indagato la relazione tra forme sotto-soglia di DGA (definito come un punteggio compreso tra uno e tre ad una versione modificata della Structured Clinical Interview del DSM-5) e rischio suicidario in un campione di giovani adulti non in cerca di trattamento, di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Nell’insieme, i risultati indicano che l’ideazione suicidaria nei giocatori d’azzardo sotto-soglia sembra essere correlata ad una complessa interazione tra umore, ansia e disfunzione cognitiva. In particolare, gli aspetti del processo decisionale sembrano essere implicati in maniera centrale tanto nello sviluppo del DGA quanto nella variante con rischio suicidario.
In letteratura sono rari gli studi che hanno indagato il rischio suicidario in relazione a differenti livelli di coinvolgimento nelle attività di gioco d’azzardo. A tale scopo Moghaddam e colleghi (2015) hanno utilizzato i dati derivati dal National Epidemiological Survey on Alcohol and Related Conditions (NESARC) selezionando ben 13.578 soggetti che avevano fornito congiuntamente informazioni relative alle attività di gioco d’azzardo e ai comportamenti suicidari. Classificando il campione in cinque sottogruppi (non giocatori, giocatori a basso rischio, giocatori a rischio, giocatori d’azzardo problematici, giocatori d’azzardo patologici) hanno potuto fornire dati di prevalenza tanto dell’ideazione suicidaria quanto dei tentativi di suicidio, mostrando che l’ideazione suicidaria cresceva in relazione al grado di problematicità del comportamento di gioco con percentuali che andavano dal 24.5% tra i giocatori a basso rischio fino al 49.2% tra i giocatori patologici. Una tendenza simile alla precedente si manifestava rispetto ai tentativi di suicidio con il 6.6% dei giocatori a basso rischio fino al 18.3% dei giocatori patologici.
Un ulteriore filone di studi ha cercato di comprendere se il rischio suicidario sia una caratteristica intrinseca del DGA o se sia dovuta alla presenza di altri disturbi o dipendenze concomitanti (Black et al., 2015). In questo ambito, Newman e Thompson (2003) hanno attribuito il rischio suicidario tra le persone con DGA ad un fattore comune di malattia mentale, piuttosto che a fattori specifici del disturbo stesso. Più recentemente è stato proposto che il DGA possa rappresentare un fattore di rischio indipendente per il comportamento suicidario, pur riconoscendo la possibilità che vi siano altri fattori che impattano su tale rischio dati gli elevati tassi di comorbilità con altri disturbi di disturbi di Asse I e II (Bischof et al., 2015).
Il rischio suicidario in campioni clinici di giocatori d’azzardo
Numerosi studi hanno evidenziato l’esistenza di un’associazione significativa tra il disturbo da gioco d’azzardo (DGA) e i comportamenti suicidari in contesti clinici, dove pertanto i campioni esaminati erano costituiti da giocatori d’azzardo in cerca di trattamento o da soggetti già in cura per la presenza di una problematica diagnosticata.
Diverse ricerche hanno mostrato che tra i giocatori d’azzardo in cerca di trattamento è piuttosto comune la presenza di ideazione suicidaria, con tassi che vanno dal 25% all’85% (Sullivan et al, 1994; Ledgerwood et al, 2005), e sono anche frequentemente rilevati tentativi suicidari passati o correnti (Bischof et al., 2015).
Una recente ricerca italiana (Crusco et al., 2016) ha valutato la presenza di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio in un campione di soggetti in trattamento rilevando come il 41% dei partecipanti considerava il DGA come un fattore di rischio del comportamento suicidario. Guillou-Landreat e colleghi (2016) hanno condotto un importante studio in Francia, con lo scopo di identificare un profilo specifico di giocatori d’azzardo a rischio di comportamenti suicidari. Gli studiosi hanno incluso nell’indagine caratteristiche sociodemografiche, variabili relative alle abitudini, cognizioni e conseguenze derivanti dal gioco d’azzardo, impulsività, temperamento, presenza di comorbilità ed eventi di vita. Tale ricerca nasceva con l’obiettivo di consentire una individuazione precoce del rischio suicidario in soggetti con DGA o più in generale gioco d’azzardo problematico in cerca di trattamento, in modo da proporre percorsi terapeutici specifici. Dai risultati è emerso un elevato livello di suicidalità nei giocatori d’azzardo in cerca di trattamento con un tasso del 40.21% rilevato al momento della valutazione e del 20% nel corso della vita. Tra i fattori predittivi del rischio suicidario sono emersi: genere femminile, età più elevata, disoccupazione, presenza di conseguenze derivanti dal gioco d’azzardo sulla sfera familiare e finanziaria, disturbi d’ansia e dell’umore, livelli più elevati di ricerca della novità e di evitamento del danno. Un altro fattore predittivo era costituito dalle cognizioni relative al gioco d’azzardo (aspettative, distorsioni interpretative, illusione di controllo, controllo predittivo e incapacità di smettere di giocare) con un ruolo preponderante dell’incapacità percepita di smettere di giocare. Parte di questi risultati sono stati confermati in uno studio, pubblicato nel 2017 da Ronzitti e colleghi, condotto nel Regno Unito su un ampio campione di giocatori d’azzardo in cerca di trattamento (n=903) in cui la presenza di ideazione suicidaria è risultata associata a depressione, ansia e maggiore gravità del DGA.
Nell’insieme, i dati empirici derivanti dagli studi nazionali e internazionali sottolineano la necessità di esplorare la prevalenza e i fattori associati al rischio suicidario tanto in soggetti che presentano comportamenti di gioco d’azzardo a rischio quanto in campioni clinici. La comprensione dei meccanismi congiunti di compresenza di manifestazioni suicidarie in tali campioni potrà informare sia nella programmazione e divulgazione di campagne di sensibilizzazione ai rischi associati alle pratiche di gioco d’azzardo sia nelle fasi di assessment e trattamento all’interno dei servizi pubblici e privati che si occupano di problematiche connesse al gioco d’azzardo.
Gli effetti protettivi della riserva cognitiva sul funzionamento neuropsicologico in pazienti con epatopatia HCV
Il virus dell’epatite C è in grado di infettare e replicarsi nella maggior parte delle cellule e dei tessuti umani causando deficit eterogenei. Tuttavia, differenti studi dimostrano che un’elevata riserva cognitiva (CR) può essere un fattore protettivo per l’espressone di tali deficit.
L’epatite C è una malattia infettiva che colpisce in primo luogo il fegato. Essa rappresenta ancora oggi un problema di salute pubblica mondiale; ciò è determinato non soltanto dalla sua estrema diffusione (circa 180 milioni di persone infette nel mondo), ma anche dal fatto che circa il 65-95% dei soggetti HCV-positivi manifesta una cronicizzazione dell’infezione.
Il virus dell’epatite C (HCV o hepacavirus) è in grado di infettare e replicarsi nella maggior parte delle cellule e dei tessuti umani, anche nel SNC. Per questo in letteratura sono stati descritti deficit eterogenei in questa tipologie di pazienti: deficit di attenzione, apprendimento, memoria di lavoro, alterazione delle funzioni esecutive, ridotta velocità psicomotoria. (Forton et al., 2002; Hilsabeck et al., 2002; Monaco et al., 2015). Tuttavia, differenti studi (Bieliauskas et al., 2007; Sakamoto et al., 2013) dimostrano che un’elevata riserva cognitiva (CR) può essere un fattore protettivo per l’espressone di tali deficit.
Nel 2007, Bieliauskas et al. hanno esaminato la relazione tra la CR e le funzioni cognitive in 198 pazienti infetti dal virus dell’epatite C con fibrosi epatica avanzata. Gli autori hanno creato un punteggio della riserva cognitiva modellato sul metodo di Stern (2002), che includeva indici di rendimento educativo e occupazionale, nonché prestazioni in compiti di intelligenza cristallizzata (ad esempio vocabolario). Questo studio ha rivelato che, nonostante la stessa gravità della malattia del fegato, le persone con infezione da HCV e deterioramento cognitivo mostrano una bassa CR rispetto al gruppo di soggetti HCV positivi e con profili neurocognitivi entro i limiti normali.
Così come nei pazienti HIV, pazienti HCV con bassa riserva cognitiva sembrano essere più vulnerabili agli effetti cognitivi in presenza di infezione da HCV. Può essere che gli individui con bassa CR siano meno in grado di adattarsi cognitivamente ai cambiamenti neurologici o neurofisiologici causati dalle infezioni. In altre parole, i pazienti con infezione da HCV sembrano presentare un rischio significativamente maggiore di deterioramento cognitivo in presenza di bassa riserva cognitiva, soprattutto nei compiti di memoria, attenzione, velocità motoria e funzioni esecutive.
Nello studio di Sakamoto et al. (2013) vengono estesi i risultati dello studio precedente, valutando il ruolo della CR sul funzionamento neurocognitivo e sul funzionamento quotidiano in individui con infezione da HCV con malattia epatica lieve, rispetto ad un gruppo di controllo di soggetti sani. In particolar modo, i risultati di questo studio hanno supportato l’ipotesi che la riserva cognitiva possa svolgere un ruolo nell’espressione di deficit neurocognitivi negli individui con infezione da HCV. Nello specifico, gli individui HCV con bassa CR hanno avuto risultati significativamente peggiori nei domini di attenzione e fluenza, rispetto alle persone HCV con CR elevato e rispetto ad adulti sani. All’interno del gruppo HCV, una bassa CR era anche associata a deficit di memoria, disfunzione esecutiva e punteggi inferiori su misure di funzionamento giornaliero.
Tali risultati sottolineano i potenziali benefici protettivi di un’alta riserva cognitiva sul funzionamento neuropsicologico tra le persone con HCV e sono sostanzialmente coerenti con quelli di Bieliauskas et al. (2007). Da questi principali studi è possibile concludere che un’attività costante e una vita ricca di stimolazioni possano avere un ruolo chiave nel preservare il benessere dei pazienti con epatopatia HCV, così come accade per altre patologie.
Binge drinking: un’inversione di trend tra gli adolescenti americani
I risultati di alcuni recenti studi sul binge drinking e la depressione sottolineano la necessità di ripensare al concetto di comorbidità tra l’abuso di alcool e i sintomi depressivi, aprendosi alla possibilità che vi siano momenti critici nell’arco di vita nei quali tale associazione risulti più o meno forte.
Le nostre società sono in perenne mutamento e con esse cambiano le problematiche alle quali ogni individuo è chiamato a rispondere con conseguenze prevedibili sulla sua salute mentale e sul benessere generale. Tuttavia, evidenze sempre maggiori riportano come gli ultimi anni abbiano registrato un sensibile aumento dei sintomi depressivi nella popolazione mondiale e in particolare, per quanto riguarda gli adolescenti si è passati da un’incidenza dell’8,7%, riscontrata nel 2005, ad un allarmante 12,5%, registrato nel 2015 (Mojtabai, Olfson& Han, 2016). Similarmente, dopo il 2009 vi è stato un incremento dei pensieri suicidari, che aveva invece registrato un trend discendente nella decade tra il 1990 e i primi anni 2000, aumentando parallelamente il numero di suicidi portati a compimento.
Storicamente, è nota un’associazione tra l’abuso di alcool ed i sintomi depressivi (Pirkola et al., 1999; Foley et al., 2006) la cui direzionalità non è ancora stata adeguatamente chiarita: da un lato è possibile che gli adolescenti facciano uso di alcool come mezzo di auto-medicazione per gestire i sintomi depressivi, al contrario potrebbe invece essere proprio l’abuso di alcool ad esacerbare i sintomi depressivi.
Tuttavia, al netto di un costante aumento nei casi di depressione maggiore riscontrati tra i più giovani, si è assistito nelle ultime decadi ad un costante decremento nella tendenza degli adolescenti verso l’abuso di alcool (Miech, 2018), al contrario di quanto invece sta accadendo nella popolazione adulta, nella quale sintomi depressivi e binge drinking sono in crescita costante (Grant et al., 2017).
Possiamo ipotizzare due possibili spiegazioni: anche se il numero dei bevitori tra gli adolescenti è calato, è possibile che i binge-drinker rimanenti possano soffrire maggiormente di sintomi depressivi, puntando quindi verso un irrobustimento della connessione tra i due fenomeni. Alternativamente, è possibile che stia intervenendo nel tempo una progressiva dissociazione tra di essi, in tal caso sarebbe plausibile attribuire l’aumento dei sintomi depressivi ad altri fattori di rischio, magari meno incidenti in un’epoca diversa (come ad esempio il cyberbullismo). Inoltre, si è notato come il modificarsi dei trend che hanno contraddistinto le decadi precedenti sia avvenuto a ritmi diversi in differenti gruppi demografici: ad esempio le ragazze sono state quelle maggiormente interessate dall’aumento dei sintomi depressivi, mentre sono i ragazzi quelli che hanno visto il decremento più rapido nelle condotte di abuso di alcolici.
Keyes e colleghi (2019) hanno condotto delle analisi statistiche sui dati raccolti tra gli anni 1991 e 2018 nel contesto di uno studio longitudinale circa il consumo di droghe (MTF – Monitoring The Future studies), al quale hanno partecipato un campione estremamente vasto di adolescenti americani all’ultimo anno di scuola superiore (16-17 anni di età), per un totale di 68670 ragazzi. In primo luogo, è stato loro chiesto di rispondere a quattro item volti a cogliere la presenza di sintomi depressivi, secondariamente si è attestata la frequenza degli episodi di binge drinking nell’arco delle due settimane precedenti, definiti come l’aver bevuto 5 o più bevande alcoliche consecutivamente, infine si sono rilevati alcuni dati demografici come il sesso, il livello di scolarità dei genitori e l’etnia di appartenenza.
Le analisi compiute sul campione hanno confermato il trend discendente nell’abuso di alcolici tra i giovani, registrando un calo costante tra il 1997 (21,73%) e il 2018 (7,96%); i sintomi depressivi non hanno purtroppo seguito una decrescita equivalente, vedendo anzi la percentuale degli adolescenti coinvolti salire dall’8,02% registrato nel 2014 ad un 8,86% nel 2018. Le analisi di regressione lineare hanno evidenziato come nel 1991 i ragazzi che sperimentavano maggiormente i sintomi depressivi avessero probabilità di 1.74 volte superiori dei coetanei non depressi di tenere condotte di abuso di alcolici, però nel 2018 tale probabilità era calata a 1.46.
In relazione al genere e nel corso dei diversi anni, sono emerse delle differenze tra i due sessi: se nel 1991 la forza della relazione tra i due fenomeni era nella popolazione maschile di 1.7, rimanendo in positivo negli anni successivi, dopo il 2009 tale relazione diviene non significativa; per le ragazze invece, tale indice si è attestato sull’1.70 fino al 1995, iniziando a calare fino a diventare nulla solo dopo il 2016.
Anche il livello di istruzione genitoriale sembra assumere un peso diverso negli anni considerati, infatti il momento in cui la forza della relazione tra il binge drinking e i sintomi depressivi è risultata maggiore è stato il 1991 per coloro i cui genitori avessero un basso livello di istruzione, lo stesso accadeva nel 1997 per i figli di genitori con una maggiore scolarità. La relazione tra i due fenomeni perde il suo valore nel 2010 per quelli con i genitori meno scolarizzati e solo dopo il 2016 per i figli di individui con un alto livello di istruzione.
Da ultimo, nel considerare l’etnia di appartenenza si è riscontrato come nel 2001 si sia registrato il momento di correlazione maggiore tra abuso di alcol e sintomi depressivi per quanto riguarda i ragazzi di razza caucasica, digradando poi progressivamente ed in particolare dopo il 2016. Tra gli studenti Afroamericani la relazione ha avuto forza maggiore nel 1991, diventando non significativa solo dopo il 2006, mentre tra gli ispanici essa risulta essere nulla sia tra gli anni 2000 e 2009 che tra il 2017 e il 2018, dopo aver registrato il suo picco massimo nel 1995.
I risultati ottenuti da Keyes e colleghi (2019) sottolineano la necessità di ripensare al concetto di comorbidità tra l’abuso di alcool e i sintomi depressivi, se non per ridimensionare la relazione tra i due fenomeni, quantomeno aprendosi alla possibilità che vi siano momenti critici nell’arco di vita nei quali tale associazione risulti più o meno forte, come ad esempio dimostrato dalle differenze riscontrate tra gli adulti e gli adolescenti. Inoltre, è noto come i pattern di abuso di sostanze in età precoce siano altamente predittivi per lo sviluppo di una dipendenza in età adulta, in tal senso cogliere i periodi critici e le peculiarità legate ad ogni fase di vita permetterebbe ai professionisti della salute di ideare interventi preventivi mirati, così come percorsi riabilitativi che tengano conto di tali differenze.
Il gaming disorder è considerato una patologia, ma i videogiochi hanno anche dei vantaggi
La decisione dell’’Organizzazione Mondiale della Sanità di inserire ufficialmente il Gaming Disorder all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze comporta il riconoscimento formale della dipendenza dai videogiochi come una vera e propria malattia che necessita di una cura.
Il Gaming Disorder
Esiste davvero un’emergenza videogiochi? Durante la 72a World Health Assembly tenutasi a Ginevra al solo scopo di aggiornare l’undicesima versione dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di inserire ufficialmente il Gaming Disorder all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze. Che cosa comporta questo? Il riconoscimento formale della dipendenza dai videogiochi come una vera e propria malattia che necessita di una cura. In vigore, però, solo a partire dal 2022, la scelta di riconoscere tale patologia ha provocato un profondo dibattito ancora irrisolto all’interno della comunità scientifica sia per quanto riguarda la delicatezza della sua definizione sia per le evidenze empiriche a sostegno di ciò che, allo stato attuale della ricerca, sono pressoché scarse. Gli unici studi importanti a sostegno di tale diagnosi si riferiscono unicamente alle realtà asiatiche dove il problema è di certo più acuto vista la profonda simbiosi tra i videogames e la loro cultura. Come si presenta quindi tale patologia? Secondo l’OMS il Gaming Disorder si configura attraverso
una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da: un mancato controllo sul gioco, una maggiore priorità data al gioco a discapito delle attività quotidiane nonché gli interessi personali ed infine una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative in ambiti personali, familiari, sociali, ecc…
Inoltre i comportamenti descritti devono presentarsi per una durata di 12 mesi, anche in maniera discontinua. Tale definizione applicata al gaming offline, prende spunto da una diagnosi molto simile (ovvero l’Internet Gaming Disorder), inserita nel 2013 dall’American Psychiatric Association nella quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali. Secondo il DSM 5 sono ben nove i criteri comportamentali utili per inquadrare il paziente affetto da IGD. Senza stare ad elencarli tutti, dei nove criteri comportamentali evidenziati dal manuale diagnostico troviamo l’assuefazione (cioè l’aumentare progressivo del tempo passato a giocare), la provata difficoltà a staccarsi da un gaming convulso con la conseguente perdita del lavoro (nel caso degli adulti) e delle relazioni interpersonali. Tuttavia, visti i dati limitati inerenti l’eziologia del disturbo e il decorso clinico (Kuss et al. 2017), i critici hanno sostenuto che sono ancora necessari ulteriori chiarimenti riguardo alle caratteristiche distintive del disturbo; mentre il requisito che siano presenti solo cinque sintomi su nove crea un gruppo diagnostico eccessivamente eterogeneo. A confermare quanto sia debole la sintomatologia descritta nel DSM 5 ci pensa inoltre la Dott.ssa Viola Nicolucci che, in occasione di un’intervista rilasciata sul portale di OggiScienza, ci racconta come Christopher Ferguson, esperto dei media della Stetson University, abbia dimostrato alla Conference of Psychological Sciences avvenuta a marzo di quest’anno, quanto fosse fragile la sintomatologia descritta nel manuale diagnostico. A complicare ulteriormente il quadro clinico, è anche l’alto tasso di comorbilità tra IGD e altri disturbi, in particolare la depressione, l’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Liu et al. 2018; Gonzalez- Vega Bueso et al. 2018). Andrew Przybylski, psicologo sperimentale e direttore di ricerca presso l’Oxford Internet Institute, aveva presentato assieme a un gruppo di 35 ricercatori internazionali di cui fa parte Adriano Schimmenti, uno dei maggiori esperti italiani nell’ambito delle dipendenze comportamentali, una lettera aperta all’OMS in cui esprimevano forti perplessità e preoccupazione in risposta al possibile inserimento del Gaming Disorder nell’ICD-11 (Van Rooij. A., et all. 2018). Secondo la loro opinione, le persone che giocano ai videogiochi senza svilupparne un uso patologico sarebbero poi state stigmatizzate in modo inappropriato (Aarseth E, Bean AM, Boonen H, et al., 2017). In un articolo apparso sulla rivista Professional Psychology: Research and Practice dal titolo Videogame addiction: the push to patologize videogames (2011), Anthony Beam e collaboratori, tra cui lo stesso Ferguson, cercano di esaminare se la dipendenza da videogiochi si qualifichi o meno come un disturbo mentale, dal momento che molti aspetti dell’IGD rimangono concettualmente controversi tra ricercatori e clinici. Non è chiaro se i sintomi che implicano comportamenti problematici dovuti dall’interazione con i videogiochi debbano poi essere considerati come un nuovo disturbo o siano espressione di condizioni mentali sottostanti. Gli attuali approcci per comprendere la gaming addiction sono radicati nella ricerca sull’abuso di sostanze che non si traducono necessariamente in consumo dei media. L’articolo solleva inoltre importanti domande circa la validità delle prove, la stabilità del costrutto proposto e di come tale patologia clinica possa essere associata a dei normali comportamenti di routine esperiti con i videogiochi. (Beam A, et al., 2017). Infine, tramite la divisione Society for Media Psychology and Technology, la stessa American Psychology Association ha espresso diverse perplessità circa la decisione presa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in quanto le ricerche condotte nel tempo sulla dipendenza da videogiochi non hanno portato a nessun tipo di chiarezza definitiva. Senza alcun dato scientifico a supporto, la diagnosi di Gaming Disorder sembra perciò nascere dal terrore immotivato della gente verso questo strumento.
Le ricerche attuali
In passato, la maggior parte della ricerca fatta sui videogiochi si era concentrata a individuarne solo i potenziali effetti negativi. A oggi, invece, troviamo anche degli studi che si prefiggono di capire come un videogioco possa migliorare la salute, potenziare la flessibilità cognitiva (Glass. D. B., et al., 2013) o essere utile per alleviare la sintomatologia in alcuni disturbi come il PTSD (Kessler. H., et al., 2018).
Cosa ci spinge però a videogiocare? La risposta a tale quesito ce la provano a dare Richard M. Ryan, C. Scott Rigby e, ancora una volta, lo stesso Andrew Przybylski. Rifacendosi alla Self-determination theory o SDT (Deci e Ryan, 1985) i tre ricercatori hanno delineato, nello studio intitolato A Motivational Model of Video Game Engagement (2010), un modello empirico teorico motivazionale utile per comprendere e valutare quali sono i processi che spingono l’utente a giocare ai videogames oltre a stabilire le modalità in cui il coinvolgimento dei videogiochi può influenzare il loro benessere psicologico. Quanto dimostrato dai ricercatori suggerisce che sia l’appeal esercitato dai videogiochi che gli effetti provocati dal loro utilizzo si basano sulla loro capacità di soddisfare i bisogni di competenza, autonomia e relazionalità. La teoria dell’autodeterminazione difatti sostiene che, per poter essere felice, l’essere umano (inteso come organismo in grado di realizzare le sue capacità) deve poter soddisfare i tre naturali bisogni psicologici di base appena citati. Nel dettaglio, la ‘competenza’ evidenzia la padronanza nonché l’appagamento naturale che si ottiene nel sentirsi esperti e capaci in qualcosa. Nel mondo dei videogames questo aspetto lo ritroviamo ovunque…dal semplice shooter fino al classico Tetris. Con ‘autonomia’ intendiamo invece la capacità di decidere autonomamente, senza alcuna imposizione proveniente dall’esterno. Decidere con la propria testa ci fa sentire in armonia con il nostro Sé, la nostra identità, il nostro Io. Nei videogames ogni scelta che dobbiamo compiere è, pertanto, una scelta autonoma, decisa in totale libertà. Quest’abilità di poter influire autonomamente sull’ambiente virtuale mentre si sta giocando viene definita agency ed è un costrutto che ritroviamo nella teoria sociale cognitiva di Albert Bandura. Nei videogiochi pensati secondo la modalità dell’interactive storytelling in cui ogni nostra scelta comporterà una diversa conseguenza della storia, tale capacità è forse più evidente. È il caso di Detroit Become Human o della serie Life is Strange. Infine, l’ultimo bisogno da soddisfare, ovvero il bisogno di ‘relazionalità’, si riferisce alla necessità di sentirsi parte di un gruppo dove poter intrecciare relazioni e portare il proprio contributo. Tale aspetto è caratteristico dei videogiochi massively multiplayer online game (MMOG oMMO). I giochi MMO, in grado di gestire migliaia di giocatori connessi simultaneamente tramite la Rete, permettono ai giocatori di competere o interagire significativamente con altre persone in tutto il mondo. Qualche esempio? Infinite Crisis, League of Legends, Dota 2 o Fortnite, videogioco ideato dalla psicologa Celia Hodent.
I videogiochi e la salute: l’esempio di Pokémon Go
Come si sa, di videogiochi esistono tipologie e forme estremamente diverse. Pertanto, pensare al videogioco solo come forma di semplice intrattenimento sarebbe davvero molto riduttivo (Bittanti, 2004) perché si rischierebbe di non coglierne il reale significato e valore d’uso. Sono sempre più numerosi i titoli utilizzati a fini formativi o a supporto dei processi di apprendimento. Inoltre, in forte crescita, vi sono videogiochi che hanno come obiettivo la promozione del benessere fisico della persona. A proposito della salute, il grande beneficio offerto da questi artefatti elettronici sta proprio nella capacità di unire la componente ludica all’esercizio motorio, al contrario delle terapie tradizionali che richiedono esercizi monotoni e ripetitivi. In Superare le difficoltà psicologiche è un (video)gioco da ragazzi! Fare Play Therapy attraverso i videogames vi avevo già spiegato come molteplici aziende investano nei videogiochi a livello sanitario. Tra i tanti casi vale la pena ricordare (perché continua a fare notizia) l’utilizzo di Pokémon Go presso l’ospedale pediatrico C.S. Mott Children’s Hospital negli Stati Uniti. Il gioco in questione viene usato come terapia incoraggiando i bambini ricoverati (pazienti affetti da cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc…) a usare il videogioco negli spazi pubblici dell’ospedale, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti. Il suo uso, all’interno della struttura, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: muovendosi dal proprio letto, infatti, viene impedito agli arti dei giovani degenti di atrofizzarsi e, al contempo, viene favorita la creazione di relazioni sociali che, oltre a evitare che si sentano soli, allevia stati psichici come l’ansia o la depressione.
UTILIZZO DI POKEMON GO PRESSO IL C.S. MOTT CHILDREN’S HOSPITAL:
L’uso dei videogiochi in ambito didattico e sociale
Oltre l’ambito riabilitativo, i videogiochi possono avere anche altri importanti impieghi. Dall’apprendimento utile a fini didattici, il videogioco può anche esercitare una forte influenza pro sociale o fungere da cassa di risonanza per venire a contatto con le proprie emozioni. Per cercare di rendervi più chiaro quanto ho appena detto, vorrei riprendere alcuni estratti tratti dal libro Dentro il videogioco. Viaggio nella psicologia dei videogiochi e nei suoi ambiti applicativi edito da Ananke lab. In questo libro il collega Francesco Bocci, offre, assieme al supporto di altri autori e di Horizon PsyTech & Games una testimonianza concreta e operativa (merito anche alle ricerche convincenti) sulla tanto discussa pericolosità dei videogiochi. La visione che ne emerge è pertanto ottimistica. Ebbene, come può un videogioco insegnare? A differenza del classico libro, il videogame consente alla persona che gioca di fare esperienza diretta dei propri contenuti sebbene con alcuni limiti dovuti alla mediazione di uno schermo e all’uso del joystick. Tra i videogiochi più rappresentativi della condivisione di apprendimenti tra ambito videoludico e accademico troviamo, come ci suggerisce Francesco Italiano, Age of Empires una serie di videogiochi di genere strategico a tema storico che, in tempo reale, cala il giocatore in battaglie tra civiltà antiche. Con questo gioco viene permesso di imparare la storia ‘giocandola’. Un altro esempio molto interessante da citare riguardo l’apprendimento didattico è di sicuro Assassin’s Creed Origins in cui, grazie alla modalità Discovery Tour, si può usufruire di un’esplorazione interattiva dell’Antico Egitto ai tempi di Cleopatra. Recentemente, con Assassin’s Creed Odyssey, la modalità Discovery è stata estesa anche all’Antica Grecia. Senza alcun vincolo i giocatori potranno viaggiare attraverso 29 regioni del territorio ellenico.
LA MODALITA’ DISCOVERY TOUR IN ASSASSIN’S CREED:
L’apprendimento che si può esperire dall’interazione con i videogiochi non si ferma, però, qui. Un videogame può allenare anche una serie di skill: incrementare l’efficacia del processo decisionale, favorire lo svilupparsi dell’intelligenza emotiva o portare alla luce temi sensibili quali il suicidio, l’eutanasia, il bullismo oppure la consapevolezza della propria identità sessuale. In tutti i casi, il punto di forza dei videogiochi è comunque quello di rendere ludico l’apprendimento, stimolandone così la motivazione degli utenti e il loro coinvolgimento. L’aspetto motivazionale è molto importante per interiorizzare contenuti poiché l’interesse verso un ambito o uno stimolo rende il suo apprendimento molto più semplice e rapido (Antonietti, A., 1998).
Per quanto concerne lo studio degli effetti pro-sociali dell’interazione con i videogiochi, Luca Milani, l’autore del capitolo Il valore pro-sociale dei videogiochi, ci spiega come tale ricerca sia stata presa in considerazione dal punto di vista scientifico solamente verso i tardi anni Ottanta-metà anni Novanta. Interessante è il riferimento che il collega fa alla ricerca del 2012 di Greitmeyer e collaboratori. Nel loro studio intitolato Acting prosocially reduces retaliation. Effects of prosocial videogames on aggressive behavior, i ricercatori hanno evidenziato come giocare ai videogiochi con fini pro-sociali non solo sia in grado di diminuire il livello di aggressività, ma anche di promuovere l’empatia e l’effettivo comportamento pro-sociale di chi vi gioca. Questi risultati sono stati ottenuti con differenti versioni di giochi a contenuto pro-sociale e si sono sempre dimostrati significativi nei diversi esperimenti condotti da Greitmeyer e colleghi. Di particolare rilevanza poi è il fatto che i risultati ottenuti non fossero dipendenti né dal genere del giocatore né dalla predisposizione empatica o aggressiva dei partecipanti. L’uso di giochi pro-sociali può promuovere pertanto comportamenti positivi indipendentemente dalle caratteristiche del giocatore. In qualche maniera collegata alla ricerca di Greitmeyer è lo studio Playing prosocial video games increases empathy and decreases schadenfreude (Greitemeyer, T., Osswald. S., Brauer. M., 2010). Nello studio in questione i ricercatori hanno scoperto che quando i partecipanti coinvolti giocavano con simpatici personaggi chiamati Lemmings erano molto più propensi a sentirsi meno schadenfreude nei confronti delle altre persone. Per chi non lo sapesse con il termine schadenfreude (Heider, 1958) si intende una particolare forma di piacere che si prova di fronte alle disgrazie altrui. La ricerca ha quindi dimostrato e supportato l’ipotesi che l’esposizione ai contenuti di videogiochi con contenuti prosociali sia correlata positivamente all’aumento dell’empatia interpersonale e dei comportamenti prosociali, con la conseguente diminuzione della schadenfreude (Greitemeyer & Osswald, 2009, 2010).
Provare emozioni con i videogiochi
Prima di avviarmi verso la conclusione, rimane da trattare ancora la capacità dei videogiochi di suscitare delle emozioni. Come si può definire un’emozione? L’emozione è una manifestazione psico-fisiologica conscia che, oltre ad essere piacevole o spiacevole, regola anche l’interazione dell’individuo con l’ambiente. Come sostiene lo psicologo Gabriele Barone nel capitolo Videogiochi ed emozioni, il processo emotivo si può considerare come un costrutto multicomponenziale che si sviluppa per mezzo di cinque differenti costrutti. Il primo, detto arousal, consiste nel complesso di modificazioni corporee suscettibili alla risposta emotiva. Il secondo, detto appraisal, si riferisce alla componente cognitiva che si attiva per valutare la situazione in cui vi si trova. In merito a quest’ultima Frijda, (1989) Lazarus e Folkmann (1984) sostengono, però, che ce ne siano ben due tipi: il primary appraisal e il secondary appraisal. Il terzo costrutto, inerente alla motivazione o alla propensione all’azione, prepara l’organismo ad agire sull’ambiente che lo circonda. Il quarto riguarda gli strumenti espressivi come, ad esempio, quelli facciali mentre il quinto considera la componente soggettiva dell’analisi cognitiva. A discapito dell’intrattenimento piatto e lineare caratteristico della televisione, i videogiochi sono degli artefatti interattivi. E, in quanto tali, l’utente sperimenta su di essi una certa influenza. Tuttavia non è solo l’influenza diretta del giocatore nel videogioco a scatenare in lui un certo tipo di emozione, ma anche la tipologia stessa dei videogames con cui interagisce assieme ad alcune sue peculiarità. La dimensione di sfida, l’incalzare della musica in una determinata scena, l’identificazione con i personaggi (come ad esempio il personaggio di Kate in Life is Strange), gli aspetti grafici o l’immedesimazione nella storia sono tutti elementi che, abbinati tra di loro, possono produrre un feedback emotivo in noi molto diverso. Giocare a un videogioco ci può far commuovere, ci può rendere felici, ma ci può suscitare anche una profonda rabbia o, perché no, della frustrazione. Secondo Tan (1996), giocare ai videogiochi può causare nei giocatori tre tipi di emozioni: le F. emotions, le G. emotions e le A. Emotions.
F emotions (Fiction emotions)
Le emozioni chiamate F emotions o fiction emotions sono legate al mondo immaginario e a tutto ciò che scaturisce al suo interno. Anche se il giocatore sa di essere al sicuro e di non correre alcun rischio reale, non significa che l’esperienza di gioco non abbia su di lui un impatto emotivo molto forte. Pensate ai quartieri malfamati presenti in qualunque GTA o alle ambientazioni di Resident Evil. Le fiction emotions, di natura empatica, sono definite anche witness emotions (emozioni da testimoniare) e sono collegate alle preoccupazioni e/o agli interessi dei personaggi protagonisti del gioco. Secondo Tan, le situazioni che vivono i personaggi di un videogame non possono essere completamente comprese dai giocatori. In Max Payne per esempio, benché non si possa fare nulla per evitare l’omicidio della moglie e della figlia del protagonista, il giocatore sarà portato comunque a sperimentare la rabbia di Max e a impegnarsi con lui per vendicarsi. Sebbene questo videogioco sia forse il caso più significativo per spiegare al meglio le witness emotions, esistono molti altri videogiochi come Alan Wake, la serie Batman: Arkham o LIS che permettono al videogiocatore di sperimentarle.
G. emotions (Gameplay emotions)
Il gameplay è una caratteristica dei videogiochi che rappresenta la qualità dell’esperienza dell’interazione del giocatore con il gioco. Il termine è un neologismo inglese che letteralmente significa ‘giocare il gioco’ e in italiano viene reso generalmente con ‘esperienza di gioco’. Spesso confuso con la giocabilità, il gameplay è, al contrario, un concetto più ampio che comprende anche la trama del gioco e tutto ciò che coinvolge il giocatore. Le G. emotions o gameplay emotions non sono altro che le emozioni suscitate dalle nostre azioni condotte durante il gameplay e dalle conseguenti reazioni del gioco alle nostre mosse. Nello studio Why We Play Games: Four Keys to More Emotion Without Story ( Lazzaro, N. 2004) effettuato su un campione di 15 hardcore gamer, 15 giocatori occasionali e 15 non giocatori ci viene mostrato come, a partire dal tipo di gameplay, sia possibile sperimentare momento dopo momento una gamma di emozioni conosciute (come l’eccitazione, la frustrazione o la paura) nonché insolite (quali il disgusto, la fierezza/orgoglio o la schadenfreude) . Concentrandosi sulle 45 ore di registrazioni video dei primi due campioni (ed in particolare sull’osservazione dei segnali emotivi esperiti dalla mimica facciale e dal linguaggio verbale, non verbale e paraverbale degli stessi) i ricercatori hanno individuato l’esistenza di 4 chiavi che, se presenti all’interno del gameplay, possono sbloccare nel videogiocatore emozioni completamente indipendenti da quelle elicitate dalla storia. Le 4 chiavi in questione sono: hard fun, easy fun, altered states e the people factor.
A emotions (Artifacts emotion)
Il terzo gruppo di emozioni è relativo a tutte quelle manifestazioni emotive che derivano dall’estetica dell’artefatto in termini di caratteristiche tecniche (fluidità dei movimenti, grafica, dettagli etc.). Un videogioco tecnologicamente avanzato, con una grafica curata e magari accompagnato da visori per la VR, permetterà una maggiore immersività e ciò susciterà nei giocatori emozioni più forti e realistiche. Pensate a Blood and Thruth VR, Splinter Cell, Until Dawn o ancora a Resident Evil. Secondo Tan, più l’emozione esperita risulterà intensa, molto più facilmente un giocatore realizzerà che sta vivendo un’esperienza speciale, anche se ben consapevole che è di fronte ad un artefatto.
Conclusioni
Per quanto sia opinabile per alcuni pensare che un videogioco possa fare bene o essere fautore di una dipendenza, partire prevenuti è, secondo la mia personale opinione, oltremodo sbagliato. Nonostante l’OMS abbia assicurato attraverso le parole di Shekhar Saxena, direttore del Dipartimento di salute mentale, che il Gaming Disorder riguarderebbe solo una minoranza delle persone che giocano sono purtroppo ancora poche le evidenze scientifiche capaci di supportarne la diagnosi. La dipendenza di alcuni ragazzi verso determinati videogiochi, come ad esempio Fortnite, potrebbe essere il sintomo di qualche malessere più profondo (Markey, P. M., Ferguson, C. J., 2017) e non esserne a priori la causa. Continuare a demonizzare questo medium senza conoscerne anche i pregi e le opportunità che esso offre potrebbe rivelarsi inibente nonché causare dell’inutile panico morale.
La menopausa: cambiamenti psicologici e cognitivi
La menopausa costituisce un momento nella vita delle donne in cui non cambiano solo il corpo, la mente e il ruolo sociale, ma si trasforma il concetto di benessere e il significato che ognuna attribuisce ad esso. E’ importante stimolare nella donna la consapevolezza di questa fase di transizione e far sì che venga associata ad un momento positivo di crescita personale.
Silvia Peruzza – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre
La menopausa è un processo fisiologico definito come “permanente cessazione del ciclo mestruale dovuta all’esaurimento dell’attività ovarica” (Paoletti & Wenger, 2003, pag. 1337) e si considera avvenuta dopo un anno di assenza di cicli mestruali. Questo periodo è vissuto dalle donne non solo come processo biologico ma anche come “un’età della vita” caratterizzata da importanti mutamenti nel ruolo sociale e familiare.
In media, la menopausa avviene naturalmente verso i 50 anni di età, ma può anche avvenire artificialmente in seguito a interventi chirurgici come isterectomia e/o ovariectomia. In alcune donne si assiste alla cosiddetta menopausa precoce, che può avvenire anche prima dei 40 anni ed è spesso dovuta interventi chirurgici, chemio o radio terapia e cause genetiche.
Menopausa: i cambiamenti fisici
Il declino della funzionalità ovarica che caratterizza la menopausa avviene in seguito al calo di estrogeni, i principali ormoni femminili. Il periodo della menopausa è diviso nei seguenti sottoperiodi:
premenopausa: il periodo caratterizzato da cicli mestruali regolari;
perimenopausa: il periodo appena precedente la menopausa e che si conclude dopo una anno dalla menopausa, caratterizzato da cambiamenti nel ciclo mestruale;
postmenopausa: il periodo che inizia ad almeno un anno dall’ultimo ciclo mestruale.
Già qualche anno prima della menopausa si assiste ala presenza di cicli mestruali irregolari che segnalano l’inizio della funzionalità delle ovaie. Ciò avviene a causa di un’alterazione a livello del Sistema Nervoso Centrale, in particolare dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, che regola la funzione ovarica attraverso la secrezione di ormoni.
In seguito, durante la fase di transizione che caratterizza la perimenopausa, si assiste ad un progressivo aumento di FSH (ormone follicolo-stimolante) e ad un calo di estrogeni, cha causano un’alternanza tra periodi di amenorrea e sanguinamenti irregolari. In questa fase, si presentano anche i primi sintomi della menopausa. I più comuni sono quelli neurovegetativi: vampate di calore, palpitazioni e vertigini. In particolare, le vampate di calore, di origine vasomotoria e legate a modificazioni dei neurotrasmettitori, sono uno dei sintomi più invalidanti e più frequentemente riportati dalle donne. Esse si manifestano come un’intensa sensazione di calore che percorre tutto il corpo e si concludono con abbondante sudorazione. Spesso le vampate di calore avvengono durante la notte e sono responsabili di un altro tipo di disturbo molto comune, l’insonnia. Durante la menopausa, inoltre, si può assistere ad un aumento di peso, dolori articolari e disturbi sessuali. Infine, i sintomi che si manifestano più tardivamente sono quelli cardiovascolari che sono associati alla perdita dell’azione protettiva degli estrogeni. Diversi studi indicano che l’assunzione della terapia ormonale sostitutiva può essere utile per la riduzione dei sintomi fisici legati alla menopausa.
Menopausa: i cambiamenti psicologici
Durante la menopausa, moltissime donne accusano anche sintomi di tipo psicologico come ansia, depressione, sbalzi d’umore, irritabilità, difficoltà di memoria e concentrazione, astenia.
A causa di questi ultimi e dei concomitanti sintomi fisici, la menopausa è vista come un inevitabile periodo di cambiamento, molto spesso negativo. Questa visione negativa è, inoltre, strettamente associata a cambiamenti psicologici e sociali, reali o percepiti, associati al raggiungimento di un’età matura: malattie, accudimento o morte dei genitori, difficoltà ad accettare altri ruoli al di là della gestione dei figli (ormai divenuti adulti e fuori dall’abitazione familiare). Anzi, la depressione e l’ansia sembrano essere legati solo in un primo momento ai cambiamenti ormonali, ma piuttosto alle conseguenze psicosociali.
Dai dati di una ricerca svolta nel 2001, risulta che:
le condizioni contestuali (grado di istruzione, numero di figli), insieme alle modifiche di ruolo in ambito familiare risultano le variabili che incidono in modo evidente e rilevante come mediatori tra condizioni psicofisiche – quali la menopausa- e qualità soggettiva della vita. (Di Corrado et al., 2001, pag. 235)
Menopausa e funzionamento cognitivo
Molti studi di neuroscienze hanno indagato, già a partire dagli anni ’90, l’effetto degli ormoni sessuali sull’attività cerebrale. Nella review di Sherwin, l’autrice afferma che gli estrogeni agirebbero sul cervello per regolare la plasticità cerebrale e la concentrazione di alcuni neurotrasmettitori. Nello specifico, gli estrogeni, oltre ad agire regolando la disponibilità di serotonina e producendo effetti sull’umore, svolgerebbero un ruolo importante per quanto riguarda l’apprendimento e la memoria: l’ippocampo, l’area cerebrale implicata nei processi mnestici, contiene infatti dei recettori per gli estrogeni. Questi ultimi agiscono incrementando la sintesi di acetilcolina, il principale neurotrasmettitore coinvolto nei processi di memoria, ma anche favorendo la sinaptogenesi, cioè la creazione di nuove connessioni sinaptiche. Sempre questa autrice, dopo aver passato in rassegna numerosi studi volti ad indagare la relazione tra estrogeni e cognizione nelle donne di diverse età, conclude affermando che questi ormoni sostengono il funzionamento cognitivo, soprattutto quello mnestico.
Questa evidenza ben si lega al fatto che non poche donne in menopausa riportano di percepire difficoltà cognitive, soprattutto mnestiche, e queste sembrano aumentare anche dopo la fine della fase di transizione (perimenopausa). In particolare, sembra esserci una differenza significativa nella frequenza dei problemi di memoria riportati tra le donne in premenopausa (31%) e quelle in perimenopausa (41%). Questa percentuale arriva al 44% nelle donne in postmenopausa. I disturbi riguardanti la perdita di memoria fanno infatti parte dell’insieme dei sintomi caratteristici della menopausa, assieme a quelli più frequentemente nominati, come le vampate di calore.
Per verificare il legame tra menopausa e memoria, gli autori di uno studio pubblicato nel 2013 (Drogos e collaboratori) si sono chiesti se i disturbi di memoria percepiti soggettivamente correlassero con le prestazioni oggettive ad alcuni test neuropsicologici. Per testare questa ipotesi, gli autori hanno selezionato un campione di donne in menopausa (età media: 53 anni) che presentava una sintomatologia legata alle vampate di calore di intensità moderata/grave. I test somministrati erano sia questionari self-report che indagavano il funzionamento mnestico, l’umore e la sintomatologia legata alla menopausa, sia test cognitivi volti ad esaminare le prestazioni oggettive in compiti di memoria verbale, memoria logica, memoria visuospaziale, memoria di lavoro, attenzione visiva e uditiva. I risultati hanno indicato che, sebbene per tutte le donne esaminate le prestazioni ai test oggettivi fossero nella norma, queste ultime correlavano positivamente con l’intensità dei disturbi di memoria percepiti. Ciò ha portato gli autori a concludere che le donne riescono a percepire correttamente piccoli cambiamenti nelle loro prestazioni mnestiche, pur non rientrando in un quadro patologico.
Uno studio del 2015, invece, ha confrontato un gruppo di donne in premenopausa e un gruppo di donne in postmenopausa, esaminando i loro punteggi al MMSE (funzionamento cognitivo generale) e il livello di estrogeni. Oltre a confermare il fatto che il livello di estrogeni è significativamente più alto nelle donne in premenopausa, da questa ricerca emerge che il funzionamento cognitivo globale, sembra subire una diminuzione legata alla caduta nel livello di estrogeni durante la menopausa. Le donne in postmenopausa, infatti, hanno raggiunto un punteggio significativamente minore al MMSE rispetto alle donne in premenopausa e questo ha portato gli autori a concludere che la postmenopausa sia caratterizzata da una diminuzione nel funzionamento cognitivo.
Altri studi hanno voluto indagare le prestazioni delle donne in menopausa all’interno di domini cognitivi più specifici. Nella ricerca di Epperson e colleghi, un gruppo di donne, tutte in premenopausa all’inizio dello studio è stato sottoposto a più valutazioni neuropsicologiche nel corso di un numero variabile di anni. Alla fine della ricerca, la maggior parte delle donne era in postmenopausa. I dati dimostrano un decremento significativo durante la postmenopausa nelle prestazioni riguardanti la memoria verbale, cioè quella funzione che permette di immagazzinare e rievocare materiale verbale.
Altri studi, invece, hanno dimostrato cambiamenti riguardanti le funzioni esecutive, cioè le importanti funzioni di controllo di tutta l’attività cognitiva, responsabili di processi come la pianificazione, il monitoraggio e la modificazione del comportamento, il mantenimento e la distribuzione dell’attenzione. Nello studio di Elsabagh e colleghi, gli autori hanno sottoposto donne in postmenopausa di età compresa tra 49 e 67 anni a una serie di test neuropsicologici. Il campione è stato diviso in due gruppi: un primo gruppo di donne nella fase inziale della postmenopausa (≤ 5 anni dall’ultimo ciclo mestruale) e un secondo gruppo di donne nella fase di postmenopausa avanzata (> 5 anni dall’ultimo ciclo mestruale). Questi autori volevano verificare la presenza di differenze nelle prestazioni cognitive nei due gruppi. Dai risultati è emersa una differenza significativa nei test che misuravano flessibilità mentale e pianificazione: le donne in fase di postmenopausa avanzata eseguono performance più scadenti rispetto a quelle in fase di postmenopausa iniziale e ciò è risultato essere indipendente dall’età. Gli autori interpretano questo risultato affermando che potrebbe essere dovuto a differenze nel livello di estrogeni circolanti tra le due fasi della postmenopausa.
L’interesse dei ricercatori sul legame tra menopausa e funzionamento cognitivo è mantenuto vivo dal fatto che, con l’aumento dell’aspettativa di vita, aumenta di conseguenza anche il periodo che la donna vive in menopausa. Inoltre, poiché le donne sembrano essere più propense a sviluppare patologie neurodegenerative anche a causa della loro maggiore longevità rispetto agli uomini, focalizzarsi sul periodo della menopausa può essere utile per ricercare adeguate opportunità di prevenzione.
Menopausa e intervento biopsicosociale
I fattori biologici come le modificazioni ormonali, non solo quindi gli unici aspetti da considerare per migliorare la qualità di vita della donna in menopausa. Accanto a questi, vanno di certo presi in considerazione anche i fattori psicologici, cognitivi e sociali per stimolare nella donna la consapevolezza di questa fase di transizione e far sì che venga associata ad un momento positivo di crescita personale. E’ quindi importante che ogni intervento e presa in carico della donna in menopausa si focalizzino anche sugli aspetti psicosociali. Questo anche alla luce dei dati di alcune ricerche che affermano che la donna in menopausa, se adeguatamente informata e supportata, riesce a trovare un nuovo ed efficace equilibrio, caratterizzato da benessere fisico e psicologico. Questo contrasta con i pregiudizi negativi associati a questo periodo di vita.
La menopausa costituisce quindi una importante fase di transizione, in cui non cambiano solo il corpo, la mente e il ruolo sociale ma si trasforma il concetto di benessere e il significato che ogni donna attribuisce ad esso. Per tale motivo, è auspicabile la presenza di centri specializzati che offrano non solo la possibilità di svolgere controlli medici e ginecologici, ma anche educazione sanitaria circa i fattori di rischio e le particolarità di questo delicato periodo della vita, nonchè sostegno psicologico che aiuti la donna ad affrontare i cambiamenti e sviluppare il proprio benessere.
Dal Single Day al Single Positivity Movement
Dal Single Day al Single Positivity Movement: l’impegno di star dello spettacolo nel promuovere con orgoglio la visione dello status “single e felici” contro lo stigma sociale che li vuole “soli e tristi”.
L’11 novembre si celebra il Single Day, la Giornata Mondiale dei Single, ereditata dalla tradizione cinese e che non a caso ricade il giorno più solitario dell’anno, quello contenente interamente numeri 1 (11.11). Malgrado ciò, tale giorno è celebrato con grande orgoglio dai single e sta assumendo le dimensioni di vero e proprio movimento grazie all’impegno sociale di alcune star dello spettacolo nel farsene ambasciatrici.
Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura tutta una vita. (O. Wilde)
Sarà capitato almeno una volta a tanti di noi, particolarmente dai 30 anni in su, di esperire quella sensazione di imbarazzo davanti a chi, con molta o nulla delicatezza, faccia notare di non avere ancora un partner, un figlio, una casa, una carriera definita…facendo sentire la persona inadeguata, incompleta, sbagliata, spacciata. Di questo stigma sociale ne fanno le spese tanto gli uomini quanto le donne, con una pressione maggiormente esercitata sulle ultime. Perché la realtà è che, nonostante l’emancipazione femminile, la società odierna ci incastra ancora in questi dogmi, schemi di vita predefiniti e universali per tutti; come ci fosse un solo e unico modello di vita e realizzazione personale. E ancor di più, se non si rientra nel suddetto, non si possa considerarsi persone finite e appagate.
Da tale stigma ne sono parimenti afflitte donne comuni e popolari, e se alcune di loro vengono sopraffatte da tale visione, tutt’altro che subliminale, altre ne hanno fatto motivo di rivalsa, ergendosi a portavoce. Una di queste è Emma Watson, la celebre e talentuosa attrice divenuta un’icona nel ruolo di Hermione con la saga di Harry Potter. Proprio la signorina Granger, oggi attrice-attivista e ambasciatrice Onu, ha dichiarato in una delle sue ultime interviste di quanto sia stato duro per lei affrontare questo ultimo anno, a causa della stressante pressione sociale per il suo stato di single alla sua età:
Se non hai costruito una casa, se non hai un marito, se non hai fatto un figlio e hai compiuto 30 anni – se non sei in un momento assolutamente sicuro e stabile nella tua carriera, ma stai ancora cercando di capirci qualcosa … ti ritrovi con questa incredibile quantità di ansia.
L’attrice però, pur subendo tale pressione, ha colto l’occasione per riflettere su se stessa, lavorare su ciò che vorrebbe piuttosto che su ciò che dovrebbe essere, fino a realizzare di poter essere soddisfatta di sé e pienamente realizzata, pur non essendo in una relazione di coppia. Ha così coniato un nuovo termine con cui ama definirsi e che sta generando un eco planetario: “self-partnered”, in coppia con se stessa (un po’ come la 35enne inglese Sophie Tanner, che nel 2015 coniò il neologismo “sologamia” per definire l’atto di scegliere e sposare se stessa). L’interesse di molta gente famosa in riferimento a questo tema sta di fatto decretando l’ascesa del movimento Single Positivity, come commenta Lizzie Cernik su The Guardian, ovvero il supportare posizioni e messaggi come quelli veicolati da Emma Watson. E a farlo non solo i vip, anche le persone comuni dimostrano di abbracciare sempre più questo trend rifiutando l’idea che sia con l’associazione “matrimonio-casa-figli” la sola via della felicità e della realizzazione. Lo dimostrano i dati dell’ultimo sondaggio StubHub relativi al Single Day, in cui il 55 % dei single si è dichiarato felice e fiero del proprio status e il 32% ha eletto a maggioranza il brano “Single Lady” di Beyoncé come inno della categoria. A riprova che, anche nella e con la musica, stia cambiando l’antifona.
Personalmente, pur concordando su tutta la linea con quanto detto sinora, ad un’analisi neanche troppo capillare, mi sorge un dubbio. É corretto promuovere l’importanza di essere in primis in coppia con se stessi, rivolgendosi prettamente a un solo target, i single in questo caso? Il rischio di assumere posizioni così nette con una comunicazione fortemente orientata è quello di creare fraintendimenti e dicotomie, soprattutto nei più giovani. Sembra a tratti che uno status comporti maggiori vantaggi o viceversa rinunce rispetto a un altro e che le due categorie si auto-escludano.
E allora da un lato ci sarebbero i single: consapevoli, emancipati e appagati, perché bastevoli a se stessi e dall’altro le persone in coppia, che seguono il modello canonico. Queste ultime in particolare, le quali compiendo un lavoro più introspettivo su di sé potrebbero forse realizzare anch’esse di non avere bisogno di un partner, un figlio e un tetto stabile per sentirsi realizzate e appagate? Si passerebbe allora da una estremizzazione all’altra, da una esclusione all’altra e più di tutto si perderebbe il messaggio fondamentale e trasversale: essere in una relazione positiva e autentica con se stessi è la condizione sine qua non per il proprio benessere personale, indipendentemente dallo stato sentimentale e dal genere. Stare bene con il proprio sé e bastarsi, non può e non deve essere una scelta alternativa all’essere in coppia, non è privilegio dei single, è un diktat universale e, come tale, deve essere indistintamente promulgato. Inoltre, l’essere felicemente in coppia con se stessi, è garante e precursore di una relazione sana e stabile con il proprio partner, la quale preserva dal pericolo di restare imbrigliati in relazioni insoddisfacenti per la paura di stare da soli. Ritornando quindi agli esempi mutuati dal mondo dello spettacolo e al loro impegno meritevole nel contrastare lo stigma sociale di certe visioni radicate, il punto di attenzione sta nell’assumere una comunicazione neutrale e trasversale, scevra da targetizzazioni.
Il personaggio che, a mio avviso, meglio esprime il connubio della donna emancipata, indipendente e realizzata, pur essendo in coppia (prole annessa) lo si ritrova nella serie tv cult “Sex and the City”, con l’attrice Cynthia Nixon nel ruolo di Miranda.
Miranda Hobbes “Corporate Lawyer and Unmarried Woman” come viene presentata nella serie, la voce fuori del coro del mitico quartetto di amiche neyworkesi: determinata, talentuosa, indipendente, a tratti cinica e ostinatamente avversa ai canoni di bellezza e stile imposti dalla società, di cui ne subisce comunque lo stigma. Non immune da difetti e imperfezioni: la sua personalità drastica e disillusa con una tendenza al workaholic non le rendono facile le relazioni interpersonali, persino con le sue amiche più care. Miranda, per cui gli uomini seppur importanti non sono l’unico polo di interesse, vota la sua vita alla carriera e all’affermazione di sé piuttosto che al matrimonio; tuttavia nel corso della serie compie un percorso di crescita personale e rivalutazione di sé strabiliante. L’arrivo inaspettato della maternità la porta a scoprire lati di sé che non pensava nemmeno di avere, svelando allo spettatore e a se stessa le proprie vulnerabilità. Riesce persino a riconsiderare le sue ferme posizioni nel rapporto con l’altro sesso, giustificate dall’ambiente maschilista della sua professione con cui si scontra quotidianamente, finendo per ammorbidirsi senza mai deporre del tutto le armi, solo dopo essere riuscita a bilanciare nel giusto modo carriera e maternità single.
Viviamo in una società che ci opprime con l‘importanza dell’anima gemella a tutti i costi, terrorizzata dalla paura della solitudine nella misura in cui tale timore origini dall’errata credenza di poter essere completi solo se in coppia. Una società che spesso dimentica o non realizza quella che è l’unica e innegabile verità: la relazione più eterna, appagante ed equilibrata quanto difficile da conquistare e mantenere, è inscritta in ognuno di noi sin dal principio, ed è quella con se stessi. Proprio nella relazione positiva con il proprio sé sta la chiave per essere felici, anche in coppia. Miranda Hobbes ci insegna che la via per essere personalmente e professionalmente appagati non può prescindere da questo, e ci svela come, in fondo, anche la più spietata e incallita delle femministe, possa essere ugualmente felice e indipendente anche in una relazione di coppia (e figlio a carico).
Differenze di genere nella percezione della propria salute fisica e nella capacità di seguire uno stile di vita salutare
Oltre ai classici indici di rischio in grado di influenzare concretamente l’aspettativa di vita, sembrano esserci altri due fattori impliciti che modulano l’aderenza ad uno stile di vita sano: la percezione della salute personale e l’attitudine verso il mantenimento dei comportamenti salutari.
Secondo lo United Nation World Population prospect del 2015, l’aspettativa di vita media a livello globale sarebbe di 68 anni e 4 mesi per i maschi e 72 anni e 8 mesi per le femmine, numeri che sono cresciuti esponenzialmente nel corso dello sviluppo delle società moderne sia grazie all’avanzamento tecnologico che ha migliorato le condizioni generali di vita, così come al progresso in campo medico.
Oltre al genere, i fattori che influiscono sull’aspettativa di vita sono molteplici ed esulano dalla semplice assenza di malattia; tra questi, lo stile di vita di ogni individuo si può sicuramente considerare come uno dei fattori che incidono maggiormente, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha individuato nel proprio rapporto del 2002, quali siano i principali indici di rischio in grado di influenzare concretamente l’aspettativa di vita, come ad esempio il tabagismo, l’ipertensione, l’alcolismo, una vita sedentaria o essere in sovrappeso. Tuttavia, sono anche stati individuati due fattori impliciti che modulano l’aderenza ad uno stile di vita sano: la percezione della salute personale, ovvero la percezione individuale legata al proprio stato di salute, e l’attitudine verso il mantenimento dei comportamenti salutari, ossia la percepita capacità di aderire ad abitudini alimentari e comportamentali adeguate riducendo al minimo i comportamenti dannosi per la salute (Clark et al., 1991).
Così come nel caso dell’aspettativa di vita, sembra che il sesso di appartenenza influenzi anche la capacità di aderire ad un piano salutare: è stato infatti riscontrato da alcuni studi come le donne tendano ad avere una percezione di autoefficacia inferiore, specialmente per quanto riguarda il sostenere sul lungo termine delle modifiche comportamentali, mentre gli uomini risultano avere una percezione di autoefficacia maggiore (Chen & Gao, 2019; Solimeo et al., 2019; Bruce et Al., 2017); gli studi menzionati tuttavia, avevano la limitazione di basarsi su di un campione della popolazione generale, ovvero in assenza di patologie conclamate o invalidanti.
Con l’intento di approfondire il rapporto tra percezione della salute personale, percezione di autoefficacia e genere di appartenenza, Sood, Jenkins, Sood e Clark hanno condotto uno studio trasversale coinvolgendo 2724 soggetti, iscritti ad un programma di promozione della salute offerto dall’azienda presso la quale lavoravano. Sono stati raccolti dei dati anamnestici per ricostruire l’effettivo stato di salute di ogni individuo, in seguito i partecipanti hanno poi risposto ad un questionario per attestare la percezione circa il proprio stato fisico generale e valutare la propria capacità di aderire ad uno stile di vita sano: in particolare il questionario ha permesso di valutare una generale percezione della propria salute, il livello di attività fisica mantenuto e la capacità percepita di poter mantenere un buon livello di attività fisica (identificato come almeno mezz’ora di attività sportiva in quasi ogni giorno della settimana), il livello di confidenza circa la capacità di seguire una dieta, il livello di stress generale, un indice circa la soddisfazione generale della qualità di vita, il supporto percepito nel mantenere uno stile di vita sano da parte delle persone care ed infine una stima circa le proprie interazioni sociali.
Un numero statisticamente maggiore di uomini ha riportato problematiche come ipertensione, tabagismo e diabete mellito, inoltre gli uomini hanno dimostrato di essere più soggetti ad ipercolesterolemia. A dispetto di ciò, la percezione circa il proprio stato di salute è risultata essere equiparabile tra i soggetti femmine e maschi, dimostrando come a fronte di una condizione di salute generalmente peggiore gli uomini tendano a mantenere una percezione più positiva, se non a minimizzare la gravità della propria condizione di salute.
Gli uomini hanno dichiarato di avere un livello di attività fisica superiore alle donne e queste risultano inoltre meno sicure circa la propria capacità di riservare allo sport lo spazio dovuto; tuttavia sembra che il rispetto di un nuovo regime dietetico risulti essere meno problematico per le donne piuttosto che per gli uomini.
Per quanto riguarda i fattori psicosociali indagati, entrambi i sessi hanno riportato un livello simile di stress generale e del supporto ricevuto, sebbene le donne riferissero una maggiore propensione ad intrattenere rapporti sociali.
L’analisi fattoriale svolta sui dati raccolti ha poi individuato due modulatori: da un lato è stato identificato un generale dominio di autoefficacia, che come è già noto è fondamentale nel promuovere e mantenere uno stile di vita sano, sia incoraggiando una più ampia attitudine alla cura personale, che rinforzando o al contrario ostacolando il successo nei processi riabilitativi o terapeutici; dall’altro è stata isolata una componente più psicologica, rappresentata dallo stress e dal supporto sociale esperito. Anche una volta considerati età, BMI e condizioni di salute attuali, la differenza media riscontrata tra i due sessi risultava essere statisticamente rilevante.
I risultati di questo studio offrono l’opportunità di riflettere su come le differenze di genere riscontrate possano da ultimo avere un impatto rilevante sull’effettivo stato di salute dell’individuo, nel momento in cui queste pregiudichino una corretta adesione ad un regime salutare. Ad esempio, come suggerito dagli autori, sarebbe auspicabile implementare dei programmi mirati per migliorare la percezione di autoefficacia e con essa la motivazione alla modifica o al mantenimento di un sano stile di vita, per migliorare le possibilità di successo degli individui.
Ma davvero la psicoanalisi è inutile come l’omeopatia? – Il commento del Prof. Paolo Moderato all’articolo de L’Espresso
L’ennesima critica alla psicoanalisi? Uffa! La solita storia che non è scientifica? Gli psicoanalisti fanno spallucce? Che la psicoanalisi sia accusata di non essere scientifica non è una novità. Gli psicoanalisti hanno sempre puntato molto sulla loro diversità epistemologica, “diversamente scientifici“ dicono spesso di essere…
L’ennesima critica alla psicoanalisi? Uffa! La solita storia che non è scientifica? Gli psicoanalisti fanno spallucce? Queste potrebbero essere (sono) le reazioni all’articolo de L’Espresso con l’intervista a Gilberto Corbellini che riprende e approfondisce un articolo scritto dallo stesso Corbellini con Enrico Bucci per Tuttoscienze de La Stampa del 6 novembre scorso.
La frase incriminata di quell’articolo è la prima, in cui la sacra parola psicoanalisi viene desacralizzata, giustapponendola a varie pseudoscienze: “Gli insegnamenti delle pseudoscienze, con corsi di omeopatia, biodinamica, agopuntura, medicina tradizionale cinese, psicoanalisi stanno proliferando”. E poi l’accusa: “Tale deriva antiscientifica è sempre più spesso motivata da finanziamenti alle università da parte di enti locali o nazionali che intendono assecondare credenze che hanno portato voti, o da politici o da docenti collegati a imprese che commerciano prodotti presentati”.
Che la psicoanalisi sia accusata di non essere scientifica non è una novità. Gli psicoanalisti hanno sempre puntato molto sulla loro diversità epistemologica, “diversamente scientifici“ dicono spesso di essere. Ricordiamo il dibattito svoltosi alla New York University nel 1959 e ripreso nel libro curato da Sidney Hook Psicoanalisi e metodo scientifico (Einaudi 1967). Ricordiamo il verdetto dell’epistemologo Karl Popper: la psicoanalisi è una pseudoscienza perché i suoi assunti non sono falsificabili.
Già la domanda dell’intervistatrice “Cosa porta a giudicare la psicoanalisi una “pseudoscienza“? Solo il fatto che “non è falsificabile”?” fa capire come per alcuni la falsificabilità di una teoria sia un accessorio, più che un perno metodologico. Infatti Corbellini risponde, pacatamente, che non è un concetto banale, perché sta alla base del modello EBI, Evidence Based Interventions.
E qui arriviamo al concetto di efficacia. Si può valutare l’efficacia di una terapia della parola come si valuta l’efficacia di un farmaco o di una procedura medico – chirurgica? Dibattito aperto, molte opinioni, alcuni fatti: “non esiste un solo trial clinico che provi l’efficacia della psicoanalisi: peraltro sarebbe impossibile farlo”, queste le parole di Corbellini. Un altro fatto: la psicoanalisi – nelle sue varie contaminazioni e frammentazioni, negli Stati Uniti è stata a lungo il principale modello terapeutico. Si calcola che, negli anni ’60 e ’70, il 95% dei clinici americani abbia avuto un training psicoanalitico. La psicoanalisi era presente nei film – pensiamo alle opere di Hitchcock (“Io ti salverò”, “Marnie”) o a quelle di Woody Allen, ma anche il Federico Fellini onirico di “8 e ½” o il Santo Padre che Nanni Moretti immagina in cura presso uno psicanalista. Poi, negli anni Ottanta, la crisi, certificata dalla pubblicazione del DSM III, nel quale l’American Psychiatric Association divorzia dalle precedenti spiegazioni intrapsichiche di matrice psicoanalitica per rifugiarsi in una confort zone ateorica. Descrizione di sintomi, nessuna attribuzione eziologica. Senza dimenticare anche il ruolo giocato dall’abbandono (forzato) della teoria psicogenetica sull’autismo in favore di una spiegazione neurologica.
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Guarda il video “Le MUR, la psychanalyse à l’épreuve de l’autisme”
La teoria, ancora pervicacemente seguita dalle truppe Lacaniane, era un punto centrale di tutta la teoria psicoanalitica dello sviluppo: la sua rottamazione non è stata indolore per la psicoanalisi.
Quel che è certo è che i clinici statunitensi abbandonano la psicoanalisi in favore di altri modelli terapeutici. I primi terapeuti cognitivo comportamentali sono ex psicoanalisti delusi dagli insuccessi derivati dall’applicazione del loro sapere psicoanalitico. Corbellini attribuisce la crisi della psicoanalisi allo sviluppo delle neuroscienze. Io preferisco chiamare in causa lo sviluppo e la discesa in campo di tanti nuovi modelli psicoterapeutici, che si dimostrano fin da subito molto più efficaci ed efficienti nel trattare le nuove patologie da stress che affliggono la società del secondo dopoguerra. Parlo di discesa in campo, perché si è trattato di sfidare l’establishment clinico psicoanalitico, e il nascente mercato degli psicofarmaci, sul terreno della cura del disturbo psichico.
Negli Stati Uniti, la Psicoanalisi è in crisi. Secondo uno studio citato dal New York Post, dal 2003 ad oggi l’età media dei 3.109 analisti membri dell’American Psychoanalytic Association è salita di 4 anni, arrivando a quota 66. Sono più vecchi, perché sempre meno giovani sono interessati a seguire questa strada professionale, perché meno università propongono corsi di psicoanalisi e psicologia dinamica, perché sempre meno sono i pazienti che si rivolgono alla psicoanalisi: si è passati da una media di 8/10 clienti al giorno (tra il 1950 e il 1960), a una media di 2,75, il che significa che molti non hanno neanche un paziente da seguire.
In Italia, l’onda lunga della crisi alla fine è arrivata pure da noi, ma la nostra formazione universitaria è ancora impregnata di approcci clinici usurati, legati a una stagione che è cambiata, e non al passo con le necessità del nostro tempo. Corbellini va giù anche più duro, attribuendo l’insegnamento universitario di pseudoscienze al sostegno di lobby varie. Quanto a lobbying la psicoanalisi può insegnare molto, se si guarda a quello che è successo pochi anni fa in Francia, paese ad altissimo tasso psicoanalitico, dopo la pubblicazione di un rapporto critico verso l’efficacia delle cure psicoanalitiche. O alle reazioni suscitate dalla pubblicazione del Libro nero della psicoanalisi.
Di sicuro, per quanto riguarda l’insegnamento universitario della psicoanalisi, un ruolo lo gioca anche la struttura accademica del nostro paese, in cui mantenere lo status quo ante è più facile e comodo che innovare. Senza entrare in tecnicismi, la materia ha a che fare con le tabelle ministeriali e i settori disciplinari che definiscono gli insegnamenti dei corsi di laurea: cambiare è difficile e scomodo.
Molto più facile farlo nella formazione post universitaria, dove la formazione CBT fa da padrona: quella “psicoterapia cognitivo comportamentale – parole dell’intervistatrice – che dopo essere “andata di moda” per qualche anno, è ora accusata di superficialità: cura il sintomo ma non la causa dei disturbi”. L’affermazione è molto discutibile sotto diversi profili: la CBT è ancora molto di moda, è la più richiesta dai pazienti privati e la più sostenibile e facilmente erogabile dai servizi pubblici. Inoltre, è la più richiesta dagli studenti in formazione psicoterapeutica, che sanno che funziona, e che quando escono dalle scuole di specializzazione CBT hanno gli studi pieni di pazienti e sono subissati di richieste, cosa che non accade agli psicoanalisti, né negli Stati Uniti (vedi sopra) né in Italia.
La seconda affermazione, sulla superficialità della CBT, potremmo, con un gioco di parole, dire che è superficiale, e fuorviante per il lettore. Si tratta di un luogo comune antico, che ormai neanche gli psicoanalisti, almeno quelli più avveduti, ripetono più. In modo particolare, la terapia cognitivo comportamentale moderna, quella nota come di terza onda o 3G, di cui spesso si è parlato su queste pagine, non cura il sintomo, cura il problema del paziente: ancora più precisamente, cura la persona, ne indaga i processi eziopatologici che lo portano alla sofferenza e si focalizza sui processi terapeutici, cioè sui fattori realmente efficaci nella guarigione. La scomparsa del sintomo può essere considerata un effetto collaterale, non è ricercato, e non rappresenta il focus dell’intervento.
Quello del modello processuale in psicoterapia è un tema su cui molti di noi stanno lavorando, tema già affrontato altre volte in queste pagine da Sandra Sassaroli, Giovanni Ruggiero et al. Sarebbe auspicabile che anche L’Espresso si aggiornasse.
Lo smartphone come un prolungamento di sé e del proprio corpo – Breve scritto sulla dipendenza da smartphone
Per molti giovani, il proprio smartphone è diventato un prolungamento di sé e del proprio corpo, difficilmente se ne allontanano o separano, se non per breve tempo o su richiesta.
You would have to surgically remove a phone from a teenager because their whole life is ingrained in this device. (Mark Griffiths)
Lo sviluppo delle telecomunicazioni, così come il facile accesso economico a beni di consumo tecnologici alla portata di tutti, ha incrementato non solo il numero di smartphone ma i contesti in cui poterlo utilizzare, come ad esempio la scuola. Infatti, molti giovani hanno iniziato a frequentare le mura scolastiche con uno smartphone in mano, configurandosi come uno strumento non solo utile ma indispensabile per rimanere aggiornato con i corsi e i compiti.
È possibile rintracciare i primi contatti con gli strumenti digitali fin dalla prima infanzia: molti genitori o figure di riferimento utilizzano questo smartphone o tablet come rinforzi o per un intrattenimento prolungato, allo scopo di mitigare alcuni stati alterati del bambino (pianti, urla o lamentele aspecifiche). Tuttavia, non è sempre è una scelta ottimale: la digitalizzazione per le fasce di sviluppo va inserita gradualmente e non presentata a cascata, in quanto gli eccessivi stimoli da elaborare possono mettere in secondo piano alcuni processi cognitivi fondamentali per lo sviluppo socio-relazione, condizionando il bambino a trascurare il mondo esterno ed interno.
Uno dei motivi che può indurre ad usare con alta intensità e frequenza lo smartphone è sicuramente l’infinita quantità di contenuti e materiali a cui si può accedere; il libero accesso alla rete web aumenta notevolmente le possibilità di intrattenimento, incrementando il desiderio di usare e trascorrere più tempo possibile con lo smartphone.
Negli ultimi anni, gli studiosi hanno ipotizzato e teorizzato che è possibile rintracciare il desiderio da uso dello smartphone nel sistema di reward, ovvero il network corteccia-gangli della base-talamo implicato nella gratificazione e ricompensa in cui si vedono protagonisti i neurotrasmettitori dopamina e gaba, fondamentali per la componente motivazionale e di apprendimento alla base del desiderio da smartphone et simili.
Durante l’utilizzo di questo device il concetto stesso di temporalità si annulla, delimitando solo il contatto tra l’individuo e lo smartphone. Secondo Mihály Csíkszentmihályi (1987), l’impiego creativo ed adeguato di strumenti tecnologici, genera uno stato di profonda concentrazione, che aumenta i livelli di prestazione, tale evento viene definito flow (flusso, appunto). Ma a lungo termine, i suoi benefici positivi possono incrinarsi e ridurre le capacità di concentrazione.
Infatti l’utilizzo massivo di smartphone potrebbe influenzare le funzioni attentive e le performace soprattutto nel contesto di apprendimento dello sviluppo cognitivo, come la scuola. Secondo alcuni studi, l’attenzione selettiva, definita come l’abilità a contrastare la distrazione e a concentrare l’attenzione su alcuni stimoli (Làdavas e Berti, 2009), risulta ridotta nel tempo per cui l’elaborazione delle informazioni è minore, suggerendo una tendenza all’economia o risparmio cognitivo negativo per il raggiungimento di un obiettivo (Moisala 2016; Thornton 2014).
I processi di attenzione, suddivisi in selettiva, sostenuta, divisa e alternata richiedono l’elaborazione degli stimoli in modalità Bottom-Up o Top-Down: se questi stimoli sono eccessivi o pochi, si possono ridurre i tempi di elaborazione.
I bambini, soprattutto prima del raggiungimento del 3° anno di vita, hanno ridotti tempi di concentrazione ed attenzione sostenuta (minore o superiore a 5 min c.a) che incrementa di unità ogni due anni, come i processi di memorizzazione (span). Mentre un bambino di cinque anni può generalmente concentrarsi su un’attività dai 10 ai 25 minuti, in quanto aumentano i livelli di selezione degli stimoli ambientali, un bambino di 10 anni potrebbe essere in grado di impiegare il doppio del tempo (a seconda della natura di un’attività e di altri fattori organismici ed intrinsechi, come quanto è stanco o interessato).
Lo smartphone è uno strumento multitasking che produce premi e rinforzi ad intervalli, che influenza e stimola al suo utilizzo graduale e/o costante; in casi di eccessivo uso si avrà come risultato uno stato permanente di disattenzione. Numerosi psicologi arrivano al punto di sostenere che le continue distrazioni presenti sui nostri smartphone ‘ricablano’ il nostro cervello; l’uso a lungo termine degli smartphone ci sta ‘rendendo più stupidi’. Non solo, secondo uno studio della Rutgers University pubblicato da Journal of Behavioral Addictions, l’uso dello smartphone nelle pause – lavorative o da studio – impedirebbe al nostro cervello di ricaricarsi portando a livelli maggiore di distrazione rendendo molto difficile ripristinare l’attenzione su quello che si stava facendo.
Ironia della sorte, l’essere umano è biologicamente costruito per essere distratto facilmente.
Attention is a fickle friend. It is a partly uncontrollable by-product of our evolutionary make-up, with a penchant for pretty, shiny things regardless of their importance to the task at hand.
Con queste parole, contenute in un articolo del 2019 pubblicato su University Observer, l’attenzione viene descritta come volubile ed incontrollabile, con un debole per gli stimoli esteticamente stimolanti indipendentemente dalla loro importanza.
I nostri smartphone, così come i gadget elettronici associati, consentono alle nostre menti di distrarsi attraverso infinite notifiche, aggiornamenti e altri avvisi. Di conseguenza, secondo diverse ricerche, gli utenti degli smartphone continuano a controllare costantemente i loro dispositivi e interagiscono con loro anche a pochi minuti di distanza, proprio per questo vi è un costante rinforzo del circuito del reward. Sebbene tutti gli utenti di smartphone siano influenzati in maniera più o meno rilevante da questa tendenza a rimanere sempre online, i giovani sembrano essere particolarmente a rischio di cadute di attenzione. Non a caso, alle nuove generazioni è stata affidata l’etichetta di nativi digitali.
Per molti giovani, il proprio smartphone è diventato un prolungamento di sé e del proprio corpo, difficilmente se ne allontanano o separano, se non per breve tempo o su richiesta.
In alcune circostanze, andare in giro senza di esso, può causare molta ansia. Alcuni psicologi hanno persino coniato un termine per questo fenomeno: ansia da separazione telefonica o sindrome da disconessione, sintetizzato in nomofobia quale la paura patologica di non poter usare il telefono, perdendo la connessione con il mondo digitale.
Le recenti rassegne scientifiche, tra cui uno studio del 2017 a Hong Kong che ha coinvolto la popolazione cinese, riportano la percezione di un forte stato agitazione ed ansia quando non si è in possesso del proprio smartphone.
Il Dott. Kim Ki Joon, assistente professore di New Media e Human-Technology Interaction presso il Dipartimento di Media e Comunicazione dell’Università della Città di Hong Kong, suggerisce che tali risultati siano causati dalla percezione degli smartphone come parte di sé stessi, per questo le persone provano sentimenti di ansia e spiacevolezza quando sono separate dai loro telefoni.
L’uso smoderato e patologico può condurre a casi di nomofobia, che tendono ad essere particolarmente acuti tra adolescenti e giovani. Il professor Mark Griffiths, psicologo e direttore dell’Unità di ricerca sul gambling presso la Nottingham Trent University nel Regno Unito suggerisce come lo smartphone sia divenuto un dispositivo che consente all’individuo di controllare e gestire molti aspetti della propria vita; per questo, con tono puramente ironico, suggerisce l’utilizzo della chirurgia per rimuovere lo smartphone dalla vita di un adolescente.
Comportamento sessuale precoce e tentativi di suicidio negli adolescenti: una prospettiva globale
Il suicidio è la seconda causa di morte tra adolescenti e giovani adulti in tutto il mondo, ed è particolarmente diffuso nei paesi a basso e medio reddito (World Health Organization, 2018). Attualmente, ci sono prove emergenti riguardo al fatto che il comportamento sessuale precoce può essere associato ai tentativi di suicidio (Hallfors et al., 2004; Mota et al., 2010).
I rapporti sessuali nella prima adolescenza, infatti, possono aumentare il rischio di comportamento suicidario attraverso disturbi mentali e l’angoscia derivante dall’essere psicologicamente immaturi per gestire le relazioni sessuali (Santhya e Jejeebhoy, 2015).
Per fornire una comprensione globale su questo argomento, il presente studio mira ad indagare la relazione tra comportamenti sessuali e tentativi di suicidio, utilizzando dati provenienti da 38 paesi, i quali erano prevalentemente a basso o medio reddito.
L’analisi è stata limitata agli adolescenti di età compresa tra 12 e 15 anni (il campione finale comprendeva 116.820 adolescenti).
I tre comportamenti sessuali presi in considerazione sono: presenza/assenza di rapporti sessuali nel corso della vita, partner multipli e uso del preservativo.
Dunque, le domande di ricerca principali che si sono posti gli studiosi sono:
Avere rapporti sessuali o non avere mai avuto un rapporto sessuale influenza in quale modo i tentativi di suicidio o la probabilità di suicidio negli adolescenti?
Avere partner multipli aumenta la probabilità di rischio di suicidio?
Il mancato uso del preservativo, in particolare nell’ultimo rapporto, è in qualche modo legato alla probabilità che gli adolescenti hanno di suicidarsi?
Sono stati analizzati i dati disponibili pubblicamente del sondaggio Global Health School (GSHS); l’obiettivo principale di questo sondaggio era valutare e quantificare i fattori di rischio e di protezione delle principali malattie non trasmissibili.
Il tentativo di suicidio è stato indagato con la domanda: Negli ultimi 12 mesi, quante volte hai effettivamente tentato il suicidio?; la presenza di rapporti sessuali è stata, invece, valutata dalla domanda: Hai mai avuto rapporti sessuali?; mentre il numero di partner sessuali si basava sul quesito: Durante la tua vita, con quante persone hai avuto rapporti sessuali? e le opzioni di risposta erano 1 persona, 2 persone, 3 persone, 4 persone, 5 persone e ≥6 persone. Infine, l’uso del preservativo è stato valutato con la domanda: L’ultima volta che hai avuto rapporti sessuali, tu o il tuo partner avete usato un preservativo?
Le variabili di controllo includevano sesso, età, insicurezza alimentare, insonnia indotta dall’ansia e consumo di alcol.
In generale, la prevalenza dei rapporti sessuali precoci era del 13,2% (ragazzi 16,8%; ragazze 9,5%); mentre tra coloro che avevano avuto rapporti sessuali, la percentuale di più partner sessuali e il mancato uso del preservativo nel rapporto sessuale era rispettivamente del 52,4% e 41,8%.
Complessivamente, il 9,1% (ragazzi 8,8%; ragazze 9,3%) degli adolescenti del campione analizzato ha tentato il suicidio negli ultimi 12 mesi. La prevalenza dei tentativi di suicidio era molto più elevata tra coloro che avevano rapporti sessuali rispetto a quelli che non li avevano (19,0% vs. 6,3%). Tra i soggetti che hanno avuto rapporti sessuali, la prevalenza dei tentativi di suicidio è stata più alta tra chi ha avuto più partner sessuali rispetto a coloro che non ne hanno avuti (28.7% vs. 21.0%) e tra i partecipanti che non hanno usato il preservativo durante il rapporto rispetto a coloro che lo hanno usato (22.6% vs. 19.9%). È stata osservata un’associazione positiva e significativa tra i rapporti sessuali precoci e i tentativi di suicidio in 32 dei 38 paesi.
Diversi meccanismi possono spiegare l’associazione tra i rapporti sessuali precoci in adolescenza e il tentativo di suicidio.
Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli adulti che hanno riferito di aver avuto rapporti sessuali tra i 12 e i 14 anni avevano maggiori probabilità, rispetto a coloro che avevano avuto rapporti sessuali in età più avanzata, di avere numerosi problemi di salute mentale (Mota et al., 2010); e che quelli con disturbi mentali o alcuni tratti della personalità disturbanti hanno maggiori probabilità di tentare il suicidio (Bertolote et al., 2003).
Un’altra spiegazione plausibile è che i giovani adolescenti possono vivere i rapporti sessuali come angoscianti, a causa del mancato raggiungimento della piena maturità psicologica (Cauffman e Steinberg, 2000).
Il matrimonio precoce, le pratiche coercitive e la violenza sessuale possono spiegare in parte la relazione tra rapporti sessuali e tentativi di suicidio, in particolare tra le ragazze: è stato dimostrato, infatti, che la violenza sessuale è ampiamente associata a depressione e tentativi di suicidio.
Pertanto, sono necessarie ulteriori ricerche di natura qualitativa per fornire ulteriori informazioni sui meccanismi alla base della relazione tra i rapporti sessuali e il tentativo di suicidio negli adolescenti.
Alcuni approfondimenti sui fattori che influenzano l’associazione tra rapporti sessuali e suicidalità nei giovani adolescenti (in particolare tra coloro che hanno partner multipli), sono forniti dalle ricerche effettuale sul cosiddetto ‘sesso impersonale’. È stato suggerito che le persone che hanno praticato alti tassi di ‘sesso impersonale’ (impegnandosi nel sesso solo ai fini dell’atto) corrono un rischio maggiore di avere contesti familiari sfavorevoli, indicatori di salute negativi e insoddisfazione della vita in generale (Langstrom e Hanson, 2006), i quali probabilmente porteranno a maggiori tentativi di suicidio. È plausibile supporre che i partecipanti al presente studio con partner sessuali multipli siano anche coloro che praticano il sesso impersonale.
Un chiaro punto di forza dello studio è l’ampio e rappresentativo campione di adolescenti provenienti da più continenti e la presa in considerazione di una vasta gamma di variabili demografiche e comportamentali; tuttavia i risultati dell’attuale ricerca devono essere interpretati alla luce dei suoi limiti. Innanzitutto, lo studio era trasversale e pertanto non è possibile stabilire la causalità o le associazioni temporali. Sono necessarie ricerche future che utilizzino un disegno longitudinale, utile ad indagare la possibilità di affrontare direttamente con gli adolescenti i comportamenti sessuali, e valutare se questo può avere un impatto positivo sui tassi di suicidio dei giovani. In secondo luogo, è stato fatto affidamento su dati self-report, che avrebbero potuto essere influenzati da fattori come la desiderabilità sociale. In terzo luogo, intervistando solo gli studenti, il rischio di pregiudizio era molto alto, specialmente nei paesi in cui i tassi di frequenza scolastica sono bassi. Infine, i dati sulla natura dei rapporti sessuali non erano disponibili e, pertanto, sono necessarie ricerche future per stabilire in che modo fattori importanti come il consenso, il matrimonio e l’età del partner sessuale siano alla base della relazione tra i rapporti sessuali e la suicidalità nei giovani. In particolare, il consenso può essere un fattore fondamentale, in quanto le esperienze sessuali non consensuali possono essere associate ad un rischio più elevato di tentativi di suicidio.
In conclusione, questa ricerca globale sugli adolescenti ha riscontrato un alto tasso di rapporti sessuali precoci, nonché un’alta prevalenza di partner sessuali multipli e di mancato uso del preservativo; questo sembra essere correlato a un’aumentata probabilità di rischio suicidario nei giovani. Per questo, identificare i fattori di rischio sociale e comportamentale per i tentativi di suicidio negli adolescenti, è importante per permettere lo sviluppo di interventi mirati di trattamento e di prevenzione.
Emotional schema therapy: una lettura d’insieme
Secondo l’ Emotional Schema Therapy gli schemi emotivi, oltre a permetterci di concettualizzare emozioni ed esperienze, contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali e stili interpersonali che generano teorie implicite capaci di guidarci..
L’emozione porta con sé una costruzione socio-cognitiva dell’esperienza, dall’espressione alla regolazione emotiva. Proprio per questo si può ipotizzare uno schema attraverso cui ognuno di noi concettualizza le emozioni e tutta l’esperienza emotiva: il modo in cui esse si manifestano, cosa ci portano a pensare, a fare e come le regoliamo. Questi si chiamano “schemi emotivi” (Greenber, 2002) e contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali, stili interpersonali. Nel tempo vari autori hanno utilizzato varie etichette; ad esempio Linehan li chiama “miti emotivi” e Gottman “filosofie delle emozioni” (Gottman, Katz, Hooven, 1997).
Quando Leahy descrive l’Emotional Schema Therapy (EST) nel suo capitolo 12 del libro Trattamento integrato per i disturbi di personalità. Un approccio modulare (Livesley, Dimaggio, Clarkin, 2017), parte riagganciandosi alla teoria metacognitiva di Wells (Wells, 2012). Ne conosciamo bene i presupposti: fondamentalmente ciò che conta non è il contenuto dei pensieri (a cui Beck era tanto affezionato) quanto il processo, il modo in cui pensiamo ed il modo in cui trattiamo i nostri stessi pensieri. Le credenze metacognitive positive e negative fanno il loro gioco preparando il terreno a ruminazioni e rimuginii che a loro volta giustificano i sintomi depressivi o ansiosi. Ecco perché la terapia di Wells ha collezionato una serie di evidenze a favore del trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, della depressione, del disturbo ossessivo compulsivo, del disturbo da stress post-traumatico. Per fare questo, detached mindfulness e training attentivi sono la panacea di tutti i mali. Ma se c’è un aspetto importante che si nota in Wells è relativo alla concettualizzazione, al modo in cui spiega come si esplica la sindrome cognitivo-attentiva (CAS) che spinge a focalizzarsi troppo sul contenuto dei pensieri e su quello che essi rappresentano.
Sulla scia della teoria di Wells, Leahy (Leahy, 2002, 2003) sviluppa il modello dello schema emotivo. Proprio come per i pensieri, anche per le emozioni ognuno di noi ha e rinforza continuamente una propria teoria implicita, evidente da pensieri tipo “dalla tristezza non ne esco”, “la rabbia fa perdere il controllo”, “la vergogna è da bannare”. Fortunatamente l’autore coglie l’aspetto non sempre universale dell’esperienza emotiva la quale è, invece, storicamente e culturalmente condizionata. Ad esempio, la vergogna e la colpa sono emozioni che differenziano molto la cultura occidentale da quella orientale, l’urbanizzazione ci ha condotto verso emozioni sempre più complesse ed il modo in cui esse vengono espresse e condivise differenzia di molto etnie sparse nel mondo, per non parlare di come esse si siano diversificate nelle varie epoche storiche. Anche lo stile educativo e l’attaccamento che ne segue, ha una certa quota di responsabilità in questo senso. Resta l’indubbia base biologica ed evolutiva delle emozioni che lasciano poi molta variabilità alle variabili storiche, individuali e socio-culturali rispetto al modo in cui esse debbano essere vissute ed espresse e che si consolidano in miti, schemi, filosofie, ecc. Queste differenze, giustificano ovviamente anche l’estrema varianza nella psicopatologia. Basti pensare alla grande dicotomia tra pazienti inibiti-coartati e quelli disregolati che si differenziano in base alle strategie di regolazione emotiva adottate.
Gli schemi emotivi sono l’insieme delle credenze, spiegazioni, valutazioni e strategie sulle proprie e altrue emozioni e giustificano le reazioni di diverse persone di fronte allo stesso evento. Rappresentano le meta-credenze in merito alle cause, alla legittimità, alla normalità, alla durata e alla tollerabilità delle emozioni proprie e altrui. Gli obiettivi della EST sono relativi al miglioramento dell’elaborazione dell’emozione, aumentando la tolleranza e diminuendo la messa in atto di strategie che possono amplificarle o rinforzarle come il worry, la ruminazione oppure strategie comportamentali come l’uso di sostanze. Ma ognuno di questi coping è mantenuto da uno schema emotivo del tipo “solo bevendo posso controllare la mia tristezza” oppure “solo abbuffandomi lenisco la mia paura”. Per ottenere un miglioramento rispetto al modo in cui il paziente vive le proprie emozioni, si evidenziano e modificano le meta-credenze rispetto alle proprie emozioni e i coping che ne derivano senza entrare nel merito del contenuto dei pensieri (in tal senso, è chiara l’influenza di Wells) così da poter accettare e sperimentare in modo funzionale ogni tipo di emozione anche quelle che sembrano soverchianti o che appaiono incomprensibili o interminabili e perfino poco gestibili.
Leahy ha individuato quattordici dimensioni di schemi emotivi tra cui l’invalidazione, l’autoinvalidazione, la durata, la perdita di controllo, ecc. Per ognuna di esse pare che si faccia una valutazione in termini di pro e contro, vantaggi e svantaggi e questo sembra essere un po’ riduttivo considerando che spesso credenze e strategie di regolazione emotiva sono acquisite per apprendimento, a volte vicario, e sono rinforzati da eventi di vita, spesso di natura interpersonale. Eppure, questi eventi, sembrano essere poco contemplati mentre sappiamo quanto questo possa essere importante per favorire processi di differenziazione. Mi riesce difficile immaginare che un paziente dipendente abbandoni la sua strategia semplicemente ragionando sul “se mi appoggio sempre agli altri, continuerò a sentirmi incapace”. Lo stesso tipo di lavoro pare sia possibile rispetto alle credenze: dopo una specie di dialogo socratico il paziente comprende che non deve sentirsi in colpa se prova paura prima dell’esame, non deve vergognarsi dell’ansia appena il professore lo chiama per sostenere la prova o che, meglio ancora, non esistono emozioni giuste o sbagliate, buone o cattive ma che esse rappresentano tutte un ventaglio possibile dell’esperienze emotive umane. Bene, giustissimo. Eppure, nonostante questo, io stessa mi dico che arrossire allo sportello della posta oppure al cameriere a cui ordino è una cosa strana. Tuttavia di dialoghi socratici sulla vergogna ne ho fatti eccome!
Pare quindi che il modello parta come un modello meta-esperienziale e culmini con l’utilizzo di tecniche e strategie prettamente cognitive per lavorare sulle varie convinzioni circa lo schema emotivo e questo dovrebbe condurre alla modifica di pattern cognitivi e comportamentali, ovviamente anche “meta”, delle emozioni.
Mi chiedo poche cose, però me le chiedo?
E la componente incarnata delle emozioni? Il corpo, insomma, dove sta?
E i contenuti interpersonali? Dove sta la concettualizzazione rispetto al perché di fronte a determinate situazioni proviamo sempre determinate emozioni e compiamo, di conseguenza, sempre le stesse azioni?
Le stesse osservazioni valgono per il modello wellsiano, studiato, conosciuto e applicato da molti di noi nelle nostre sedute. Sappiamo che funziona, certamente, fin quando non incappiamo in grandi aspetti che riguardano il funzionamento umano: le emozioni, il corpo, la relazione con gli altri.
Leahy supera il limite intrinseco della teoria metacognitiva di Wells addentrandosi nel campo delle emozioni. Saggia, però, l’affermazione dello stesso autore secondo cui la EST deve essere integrata con altre tecniche e terapie. Questo appare giusto considerando che i pazienti con disturbi di personalità, soprattutto, sperimentano molto spesso problemi in relazione alle proprie emozioni, sia nella componente espressiva che regolatoria perché hanno schemi maladattivi interpersonali che li fanno soffrire. È però la compente interpersonale che spiega perché un paziente soffre di fronte a determinate situazioni oppure perché considera intollerabile ad esempio la tristezza e non la vergogna. C’è una complessità che non è vista dalla EST e che risiede nella rappresentazione che il paziente ha di sé stesso e degli altri. Una rappresentazione nata e costruita in una determinata storia di vita.
Insomma, le stesse limitazioni del modello di Wells le ritroviamo anche in Leahy. Ciò non toglie che in entrambi i casi ci siano molte prove a sostegno dell’efficacia dei modelli; ad esempio, recentemente, sono stati pubblicati dati relativi all’applicazione del trattamento metacognitivo coi pazienti borderline.
Fortunatamente viviamo in una epoca di integrazione che ci salva dalle varie limitazioni dei vari modelli e che ci permette di arricchire le nostre terapie plasmandole sulla soggettività del paziente che ci troviamo a trattare. Inoltre un altro elemento non scontato è legato alla relazione terapeutica, anch’essa in ombra nel modello di Leahy eppure è indispensabile in un lavoro in cui, come un chirurghi, apriamo, tagliamo, cuciamo elementi delicatissimi, proprio perché legati alle emozioni. Ma questo, evidentemente, è ad appannaggio di un lavoro d’insieme complesso, costruttivo, relazionale, impossibile da limitare alla sola tecnica.
Lo stroke correlato alla gravidanza, fenomeno raro ma con incidenza in aumento
L’ictus e le sue conseguenze sono la terza causa di morte in Italia e solo il 25% dei pazienti che riescono a sopravvivere guarisce completamente. La possibilità che una donna venga colpita da ictus ischemico o emorragico durante la gravidanza e il puerperio è un evento assolutamente raro, tuttavia è stato descritto come fenomeno in aumento.
Tanini M., Benifei F., Bagnulo I., Toccafondi A.
Ictus, epidemiologia
Ictus è un termine latino che significa “colpo” (in inglese stroke). Insorge, infatti, in maniera improvvisa: una persona in pieno benessere può accusare sintomi tipici che possono essere transitori, restare costanti o peggiorare nelle ore successive. In Italia l’ictus è la terza causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore e le neoplasie; causa il 10-12% di tutti i decessi per anno e rappresenta la prima causa di invalidità. Ogni anno si verificano in Italia circa 196.000 ictus, di cui il 20% sono recidive. Il 10-20% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese e un altro 10% entro il primo anno di vita. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi la metà è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza (Ministero della Salute 2013).
L’ictus ha provocato nel 2001 nel mondo circa 5 milioni e mezzo di morti, pari a poco meno del 10% dei morti totali. Nella macroregione EURO A, della quale fa parte l’Italia assieme a tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea allargata, l’ictus (identificato come patologia cerebrovascolare) è la seconda causa di mortalità complessiva (Mariotti S. 2005).
Lo stato pro coagulativo in gravidanza
La gravidanza è correlata ad uno stato di ipercoagulabilità, dovuto soprattutto agli effetti dei cambiamenti ormonali fisiologici, che possono influenzare i livelli plasmatici di fattori della coagulazione o di proteine anticoagulanti. Oltre a ciò, esistono fattori aggiuntivi che possono essere responsabili dello stato ipercoagulabile, come ad esempio i fattori ereditari di rischio trombotico quali: la mutazione del fattore V Leiden (che causa la resistenza alla proteina C attivata); la mutazione G20210A del gene della protrombina; i deficit della proteina S; i deficit della proteina C; i deficit di antitrombina. Talvolta i fattori ereditari possono combinarsi con le alterazioni coagulative caratteristiche della gravidanza dovute alle variazioni ormonali della stessa (Simoni P, Campello E. 2013).
Fenomeno raro ma in aumento
La possibilità che una donna venga colpita da ictus ischemico o emorragico durante la gravidanza e il puerperio è un evento assolutamente raro, tuttavia è stato descritto come fenomeno in aumento.
In uno studio che ha coinvolto 72.221 donne fra 50 e 79 anni di età, il 4,6 % di queste donne ha riferito di avere avuto un figlio dopo i 40 anni. Confrontando i tassi di ictus, infarto e mortalità per cause cardiovascolari nei 12 anni successivi il parto, in associazione all’età in cui le donne erano diventate mamme, i ricercatori hanno visto che alle gravidanze over 40 si associa un rischio lievemente maggiore di ictus sia ischemico, quello più frequente (da 2,4% a 3,8%), che emorragico (da 0,5% a 1%) (American Heart Association 2019). Alle stesse conclusioni era giunto uno studio del 2017 che aveva preso in esame gli anni dal 1990 al 2017 stimando che l’ incidenza di stroke fosse di 30 casi ogni 100.000 gravidanze (Swartz RH, et al. 2017).
Secondo una ricerca del Dipartimento di Medicina Clinica dell’Università X’ian condotta con una metanalisi riguardante oltre 3 milioni di donne sono stati registrati circa 150 mila eventi cardiovascolari nelle partecipanti, dai quali gli studiosi hanno fatto emergere l’associazione con le gravidanze (European Society of Cardiology 2018).
Le ipotesi sulla causa del fenomeno
Non è chiaro quale sia l’origine di questo aumento, seppur lieve, di incidenza di patologia cerebrovascolare nelle gravidanze e comunque nelle donne che hanno avuto una o più gestazioni.
Sicuramente la gravidanza determina un quadro di aumento dei fattori pro trombotici, in particolare nelle ultime settimane di gravidanza, inoltre il lavoro cardiaco deve aumentare per assicurare un adeguato apporto di ossigeno e nutrienti al comparto feto-placentare. Sembra, tuttavia, che a favorire questo fenomeno sia soprattutto lo stato infiammatorio indotto dagli ormoni che tipicamente aumentano in gravidanza ed un incremento del grasso addominale che spesso di associa alla gestazione.
Altro fenomeno che deve essere considerato è l’ aumento dell’età delle donne durante la gravidanza e l’ aumento di ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Conclusioni
Le patologie cerebrovascolari in gravidanza sembrano mostrare un trend in aumento, in particolare per quanto riguarda lo stroke. Tale aumento di incidenza è correlato sia allo stato di gravidanza che al puerperio. Sebbene l’ evento cerebrovascolare sia estremamente raro, negli ultimi 10 anni, si stima che l’ incidenza sia aumentata del 54%. E’ necessario sottolineare che nonostante tale aumento e la gravità degli esiti che tale patologia può determinare, l’ictus correlato alla gravidanza resta un fenomeno estremamente raro.