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Che impatto ha la nostra psiche sul nostro sistema immunitario?

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato variano le implicazioni a livello immunitario: nel caso dell’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico si osserva un aumento delle difese immunitarie, mentre con un attivazione dell’Asse Ipotalamo Ipofisi Surrene si assiste a uno scenario opposto.

 

Quando veniamo posti di fronte a situazioni o momenti della nostra vita stressanti, il nostro corpo può reagire in due modi:

– Attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS): conosciuto anche come risposta di attacco-fuga, l’attivazione di questo sistema porta a vari cambiamenti fisiologici, tra cui l’afflusso di sangue verso i muscoli, la dilatazione delle pupille, aumento del battito cardiaco, la vescica si rilassa e i processi digestivi vengono bloccati. Tutto ciò accade per favorire un’eventuale fuga oppure un ipotetico attacco (Kranner et al., 2010). L’attivazione del sistema nervoso simpatico è immediata, di alta intensità, ma breve.

– Attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA): quest’asse si attiva quando siamo posti in maniera duratura ad uno stimolo stressante, in tal caso il corpo inizierà a produrre cortisolo, conosciuto come ormone dello stress. Rispetto all’attivazione del sistema nervoso simpatico, l’HPA ci mette più tempo ad attivarsi, ha un intensità minore tuttavia perdura per più tempo (Kranner et al., 2010).

Il sistema immunitario è influenzato negativamente dai livelli di cortisolo presenti nel sangue, a tal punto che, quando siamo stressati, si denota un calo delle nostre difese immunitarie.

Partendo da questi presupposti, sempre più studi sperimentali stanno indagando la relazione tra psiche, stress e sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

L’attivazione dei due sistemi sopra citati è elicitata da stressor differenti. Nel caso del sistema nervoso simpatico ci dev’essere una situazione che evoca una risposta di attacco-fuga, solitamente si tratta di quelle situazioni dove la nostra vita viene messa a repentaglio. Al giorno d’oggi è raro che ci siano situazioni che attivano il sistema nervoso simpatico, è piuttosto molto più comune l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, elicitata da stimoli con valore più ‘soggettivo’. Ad esempio, avere alle porte un esame universitario può essere stressante per un ipotetico individuo A, mentre potrebbe non esserlo per un individuo B, delineando cosi il ruolo centrale della nostra mente nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e delle conseguenze negative sul nostro sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato, variano le risposte immunitarie; nel caso dell’attivazione del SNS si denota un aumento delle difese immunitarie, questo perché il corpo si prepara all’eventuale presenza di ferite o infezioni; mentre nel caso dell’attivazione del HPA le difese immunitarie calano a causa del cortisolo prodotto dalle surreni (Segerstrom & Miller, 2004).

Lo stress è inoltre correlato con disturbi psichici, come la depressione, e con disturbi fisici, come le malattie cardio vascolari, ma rimane ancora un punto interrogativo la relazione tra stress, HIV/AIDS e cancro (Cohen & Miller, 2007).

 

La valutazione del rischio: una strategia preventiva fondamentale per gestire i casi di femminicidio

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

 

I reati di maltrattamento in famiglia sono complessi, difficili da dimostrare in virtù della loro natura: avvengono nella sfera dell’intimità e delle relazioni affettive e spesso sono caratterizzati da un’iniziale mancanza di disponibilità da parte della donna di procedere contro il partner o l’ex partner, per una serie di dinamiche proprie del ciclo della violenza in cui la donna è confusivamente inglobata, come la dispercezione del sé per effetto dell’effrazione psichica del maltrattante. Nella aule dei tribunali, dove in più occasioni mi sono ritrovata a testimoniare in loro favore, inizialmente mi stupiva l’atteggiamento di moltissime donne che non erano animate da sentimenti di rancore o vendetta nei confronti del partner maltrattante, quanto piuttosto da un ardente desiderio di riscatto e possibilità di ricostruirsi un’esistenza serena, e finalmente libera.

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

Il principio cardine su cui si basa la valutazione del rischio è che la violenza è una scelta, influenzata da tutta una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta:

si può così ipotizzare, prevedere, valutare quali fattori hanno portato la persona a decidere di agire violenza e intervenire cercando di modificarli, ridurli o ancora meglio farli scomparire o neutralizzarli, riducendo così il rischio di recidiva (Baldry, 2016).

Nonostante i corposi istituti giuridici preposti al contrasto della violenza domestica, troppe volte nei casi di cronaca si legge di donne che avevano già presentato delle denunce per maltrattamenti o segnalato situazioni di violenza reiterate, a cui però non hanno fatto seguito interventi efficaci a garantire la tutela della loro incolumità e di quella dei loro figli.

Questo accade principalmente per due ragioni: da un lato si tende a sottovalutare il bisogno di protezione delle donne con la complicità di una lettura errata di quanto sta accadendo nella loro vita – scambiando ancora una volta la violenza con le dinamiche conflittuali – e dall’altro si tende a ritenere che una denuncia sia un’azione già sufficientemente esaustiva. E’ accertato, invece, come il momento della denuncia o la volontà palesata al partner di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza a esiti letali quali, il femminicidio.

La denuncia in se stessa si rivela insufficiente, se non opportunamente supportata da una puntuale valutazione del rischio da effettuare con la donna, tale da consentire l’assunzione di maggiore consapevolezza e autodeterminazione, e la messa a punto di un piano di sicurezza ad hoc che assicuri la sua salvaguardia in toto.

Si tratta, pertanto, di porre a sistema e in rete tutti gli attori – centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali, tribunali, case rifugio, presidi ospedalieri, rete familiare e amicale dove presenti – coinvolgendoli nel processo di presa in carico e gestione di quello specifico caso, ricordando che ogni storia di violenza è una storia a sé, con caratteristiche per certi versi simili, ma che comunque variano da una all’altra, tra cui ad esempio, il grado di consapevolezza della violenza subita, il livello di resilienza, la fase del ciclo della violenza, le strategie di coping già attuate per fronteggiare la violenza, gli aiuti esterni che la donna può aver richiesto.

Il Piano Strategico Nazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne 2017 – 2020, all’asse 4.3 ‘Perseguire e punire’, recependo il contenuto dell’art.51 della Convenzione di Istanbul, recita chiaramente che

Le donne che subiscono violenza hanno diritto a sentirsi tutelate e a ottenere giustizia dai tribunali il prima possibile, le situazioni di violenza vissute devono essere opportunamente investigate al fine di evitare il protrarsi di ulteriori violenze (…) garantire la tutela delle donne vittime di violenza attraverso un’efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità della vittima, gravità, reiterazione e recidiva del reato, attraverso procedure omogenee ed efficienti su tutto il territorio nazionale.

La reiterazione, la frequenza e l’escalation della violenza che connotano tale tipologia di reato hanno aperto la strada alla riflessione circa i cosiddetti ‘fattori di rischio’ e di ‘vulnerabilità’ presenti all’interno delle relazioni violente.

Ma come si definisce un fattore di rischio o di vulnerabilità, ed esiste una metodologia per individuarli?

Un fattore di rischio è una caratteristica del maltrattante, una circostanza della relazione la cui presenza aumenta la probabilità che si verifichi quel determinato comportamento. Individuare i fattori di rischio aiuta a leggere i campanelli d’allarme e a far sì che le donne – che forse non li hanno saputi attenzionare perché normalizzati – possano rileggerli nella narrazione del loro vissuto e della loro storia. Nel valutare il rischio occorre che tali fattori vengano sempre contestualizzati e distinti tra dinamici, sui quali è possibile intervenire (attuale pericolosità del reo, condizioni di scarsa autonomia della vittima, abuso di sostanze, ecc.), e statici, che comunque permangono in termini di impatto (ad esempio, una condanna avuta nel passato dal reo per maltrattamenti o altra tipologia di reato, minimizzazione della violenza, ecc.).

I fattori di vulnerabilità sono invece quelle caratteristiche delle vittime la cui presenza aumenta la difficoltà per la donna di sottrarsi alla violenza e quindi il rischio di recidiva.

Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati negli Stati Uniti e in Europa (Svezia, Scozia, Repubblica Ceca, Grecia e in Italia ormai da oltre 10 anni) vi è il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime), messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, ampiamente sviluppato e attuato in Italia, a partire dal 2006, con specifici protocolli con le Forze dell’Ordine da A.C. Baldry, e diffuso a centri antiviolenza e servizi territoriali attraverso specifica formazione.

In Italia, il progetto SARA per la valutazione del rischio di recidiva della violenza interpersonale all’interno di una relazione intima attuale o pregressa è il primo esperimento attivato e coordinato da Anna Costanza Baldry e realizzato all’interno dei programmi Daphne e Marie Curie Fellowship Reintegration Grants della Commissione Europea. La metodologia per la valutazione del rischio è iniziata in via di sperimentazione in Italia dapprima nel Lazio, e adesso è conosciuta e utilizzata a livello di tutte le 103 Questure che sono state formate a livello centrale del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine o a livello locale nelle singole Questure che ne hanno fatto richiesta. Lo stesso dicasi per l’Arma dei Carabinieri presso cui il metodo è stato illustrato all’interno di alcuni progetti.

Per valutazione del rischio si intende

quel complesso di azioni e valutazioni che tendono a fornire un quadro prognostico – quindi di previsione – circa la probabilità (rischio) di verificarsi di eventi o circostanze, in base a parametri che sono noti, e che possono mettere a repentaglio l’incolumità o la sicurezza di una persona (Baldry, 2016).

Lo scopo della valutazione del rischio di recidiva non è tanto quello di predire chi è a maggior rischio di reiterare la violenza o quale donna è a rischio di essere ri-vittimizzata dal suo partner o ex partner, ma di poter prevenire tale recidiva e l’escalation della violenza nelle relazioni intime, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e strategie nei confronti del reo per scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari (ordine di allontanamento dalla casa familiare, divieto di dimora o la custodia cautelare in carcere) o precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte trattamentali adeguate (Baldry, 2016).

Affrontare i casi di maltrattamento in famiglia e all’interno della coppia utilizzando tale metodologia rappresenta un’occasione importante per mettere a fuoco quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie che l’assenza di fattori di rischio non escluda la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile, così come la loro presenza non indica necessariamente che quell’autore della violenza persevererà nella sua condotta o ucciderà la sua partner.

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate, violenza da parte del partner o ex partner e adattamento psico-sociale includendo:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza
  • Escalation (sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze)
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari
  • Precedenti penali/condotte antisociali
  • Problemi relazionali
  • Problemi di lavoro o problemi finanziari
  • Abuso di sostanze
  • Disturbi mentali

Riguardo invece ai fattori di vulnerabilità della vittima il SARA – S annovera:

  • Condotta e atteggiamento incoerente nei confronti del reo
  • Estrema paura nei confronti del reo
  • Sostegno inadeguato alla vittima
  • Scarsa sicurezza di vita
  • Problemi di salute psicofisica, dipendenza

A tali fattori il SARA-S aggiunge anche la rilevazione della presenza di armi, bambini testimoni (violenza assistita) e child abuse.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatrice o l’operatore che effettua la valutazione del rischio con la donna, con il metodo S.A.R.A.- S, procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito della valutatrice o del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata, e se sia riferibile come lasso di tempo nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi) anche in termini di escalation e gravità.

Un punto di forza dello strumento consiste nell’integrare la valutazione dell’operatrice con quella della donna, che in prima persona fornirà la propria percezione rispetto alla violenza subìta e i rischi a essa connessi, elementi sui quali dovrà essere impostato con lei il lavoro di fuoriuscita dalla violenza e le eventuali strade percorribili. Così facendo la donna ha l’opportunità di essere al centro e protagonista del percorso da intraprendere, grazie alla restituzione del potere di scelta anche in condizione di elevato rischio di recidiva della violenza nella relazione.

Mi preme precisare che la valutazione del rischio è un processo dinamico, si parla infatti di Active Risk Assessment (ARA), e pertanto dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo per monitorare l’evoluzione del livello di rischio, senza tralasciare l’importanza di condividerla con le figure professionali (servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con lei in momenti diversi della sua storia.

Essendo la valutazione del rischio un processo dinamico, il livello del rischio può fluttuare nel tempo, ed è quindi opportuno eseguire il follow-up a intervalli di almeno 2-3 mesi. Vi sono, inoltre, alcune circostanze considerate critiche per quel che concerne il rischio di recidiva, che comportano la necessità di un’immediata ri-somministrazione, e tra queste:

  • la donna ha mostrato/riferito la sua intenzione di interrompere la relazione o di separarsi (preceduti da episodi di violenza o minacce di violenza all’interno della coppia);
  • la nascita di una nuova relazione, contrariamente alla volontà dell’ex partner (il concetto di vittima si estende anche al nuovo compagno, in questi casi, e a chiunque cerchi di fornire aiuto alla donna per uscire dal circolo della violenza);
  • presenza di dispute relative all’affidamento dei figli e al regime di visita;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per reato di maltrattamenti (o per tentato omicidio o per altri reati gravi).

Riassumendo, la compilazione della scheda di valutazione del rischio e la sua metodologia si rivela funzionale per attivare un virtuoso feedback bidirezionale tra la donna e l’operatrice al fine di:

  • monitorare in un lasso di tempo più circoscritto l’evolversi della violenza e ridefinirne il rischio di reiterazione nel breve e medio termine;
  • far emergere – e far acquisire – il livello di percezione/consapevolezza del rischio di reiterazione della violenza da parte della donna;
  • rimandare il rischio emerso attraverso un’adeguata restituzione, rileggendo con la donna le strategie adottate per ‘controllare’ le tipologie di violenza subita, divenuti veri e proprio habitus e rinforzo delle dinamiche proprie del circolo della violenza;
  • agire efficacemente sullo spostamento dell’attribuzione di responsabilità della violenza e sull’investimento di energia dall’esterno verso l’interno (centratura e focus sulla donna, e lavoro sul sé);
  • individuare e rileggere insieme, in ottica di genere, gli stereotipi culturali presenti, gli ostacoli (materiali, culturali, ecc.) che impediscono la fuoriuscita dal circolo della violenza scongiurando pericolose minimizzazioni;
  • definire e programmare le necessarie azioni progettuali tra i soggetti coinvolti, partendo dalla disamina di quegli indicatori che segnano un’apripista non trascurabile di possibili escalation della violenza;
  • offrire anche in una possibile sede di testimonianza processuale una chiave di lettura più nitida sul funzionamento delle dinamiche della violenza, al fine di orientare gli interventi futuri considerando gli indicatori di rischio emersi, e scongiurando processi di rivittimizzazione per la donna;
  • creare una robusta rete supportiva che offra un intervento multidisciplinare e che trasmetta finalmente alla donna il messaggio di non essere sola nel vissuto violento.

 

L’educatrice di asilo nido si trasforma in copertina di Linus – L’attaccamento come passaggio del testimone dal caregiver all’educatrice

Il presente articolo nasce dall’esperienza diretta dell’autrice maturata come educatrice di asilo nido.

A partire dai primi scambi tra madre e bambino si sviluppa il legame di attaccamento. Le specifiche modalità interattive esperite dalla diade portano allo sviluppo dei modelli operativi interni (MOI), grazie ai quali il bambino potrà crearsi aspettative, circa le risposte ai propri bisogni. Con l’ingresso al nido la figura dell’educatrice diviene centrale nel processo di crescita cognitiva, emotiva e sociale del piccolo: promotore di un sano sviluppo è il legame di attaccamento instaurato tra educatrice e bambino.

 

Cos’è il legame di attaccamento

Il legame di attaccamento, come teorizzato da John Bowlby, si sviluppa grazie ai primi scambi tra figura di riferimento (principalmente la madre) ed il bambino. Il motore dell’attaccamento non è dato, secondo l’autore, come sosteneva la psicoanalisi, dal nutrimento, ovvero dalla ricerca di cibo e dalla spinta alla sopravvivenza, quanto piuttosto dalle emozioni e dal riconoscimento delle stesse.

Bowlby dimostrò come l’instaurarsi di un adeguato stile di attaccamento comportasse lo sviluppo di una personalità armoniosa, affermando che l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba (Bowlby, 1982).

Sulla scorta dei modelli operativi interni (Bowlby, 1969; 1988), sviluppatisi grazie ai propri legami affettivi, il genitore si rapporta al bambino in un determinato modo, rispondendo alle sue richieste di attenzione in modo costante/incostante. Da tali input il bambino interiorizza, a propria volta, specifici schemi del Sé, dell’altro e del rapporto Sé-Altro, sviluppando un tipo di attaccamento sicuro o insicuro.

Nello specifico, se il caregiver si mostra responsivo e disponibile emotivamente, il bambino lo cercherà con fiducia nelle situazioni di stress, sicuro di poter essere consolato; di contro, un genitore imprevedibile e disponibile in modo incostante porterà allo sviluppo di un attaccamento insicuro, in quanto non in grado di contenere e regolare le emozioni cui il piccolo si trova a far fronte.

Un’adeguata sintonizzazione emotiva porta allo sviluppo di apprendimenti positivi, basati su cure sintoniche ai bisogni del piccolo (Van Der Kolk, 2015).

Le modalità relazionali co-costruite dalla diade bambino-madre durante l’infanzia verranno, poi, potenzialmente estese a tutti i rapporti futuri.

Il rapporto di attaccamento educatrice-bambino

Quando un bambino fa il suo ingresso al nido (età: 3 mesi-3 anni) si inizia, generalmente, con una prima fase di inserimento, della durata variabile e dipendente da fattori quali età del bambino, temperamento della madre e del bambino, precedenti esperienze di separazione dalla figura di riferimento, durante la quale l’educatrice, gradualmente, si inserisce nel rapporto diadico.

Questa fase di ambientamento è molto delicata e di forte impatto emotivo per tutti i soggetti coinvolti.

Mentre il bambino inizia ad esplorare il nuovo ambiente, l’educatrice ha modo di fare domande al caregiver al fine di ottenere informazioni su cui innescare il processo di conoscenza col piccolo.

La presenza della madre diverrà sempre più evanescente, fino a giungere al momento del ‘saluto alla porta’, dove, all’arrivo, l’educatrice accoglie il bambino per fare l’ingresso in classe e la madre resta all’esterno. Ciò decreta il termine della fase di inserimento.

Questi primi momenti, molto delicati ed importanti, rappresentano un’opportunità di studio per entrambi, bambino ed educatrice, risultando propedeutici allo stabilirsi del rapporto di attaccamento: la condivisione delle routines permetterà lo sviluppo di uno scenario ‘prevedibile’, grazie allo scandirsi di momenti ripetibili nella quotidianità, quali l’accoglienza, il cambio e la pulizia personale, il pranzo, il riposino, la merenda (Galardani, 201; Catarsi e Baldini, 2008; Weikert, 2005).

L’assimilazione delle routines funge, dunque, da vettore spaziale-temporale, orientando il bambino e dando lui sicurezza e costanza nella quotidianità (Corsaro, 1979).

L’educatrice costituisce l’anello di congiunzione e di comunicazione centrale nel sistema triangolare madre-educatrice-bambino (Fig.1), dove ogni elemento influenza l’omeostasi del sistema di attaccamento.

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Educatrice e bambini al nido: l'importanza di un attaccamento sicuro Fig. 1

Fig. 1 Sistema di attaccamento al nido

Gli adulti di riferimento svolgono un’importante funzione di scaffolding (Wood, Bruner, Ross, 1976) ovvero di sostegno, favorendo gli schemi di esplorazione e gioco del bambino. Ergo nell’ambiente nido l’educatrice diviene la bussola del bambino, cui rivolgersi nei momenti di conflitto, frustrazione, nonché condivisione delle emozioni positive.

Attaccamento sicuro educatrice-bambino 

All’arrivo nell’asilo nido il bambino si trova nel momento di massimo sviluppo dell’attaccamento: 8-25 mesi (Bolwlby, 1969).

Come dimostrato dagli studi di Howes, Rodning, Galuzzo e Myers (1998) la creazione di legami di attaccamento sicuro verso una o più educatrici è molto importante e costituisce la base per un sano sviluppo socio-emozionale e cognitivo del bambino, potendo, inoltre, compensare una relazione insicura con la madre. Ciò è stato ampiamente dimostrato in letteratura (Cassibba, 2009; Cassibba et al., 2000).

Il bambino invia costanti segnali sui propri bisogni ed il modo in cui essi vengono accolti dall’adulto lo porta a crearsi delle rappresentazioni interne su di sé e sull’altro, alimentando aspettative future. Rispondere in modo costante e coerente alle richieste del bambino conduce quest’ultimo a sviluppare fiducia nell’altro, rappresentato come individuo disponibile ed attento, e fiducia in sé, auto-rappresentato come soggetto degno di amore ed attenzioni.

La strategia idonea per le educatrici di asilo nido al fine di favorire un attaccamento sicuro è data dunque:

  • dall’interpretazione dei segnali inviati dai bambini;
  • da risposte costanti e coerenti a tali segnali.

L’educatrice deve mostrarsi disponibile, non solo fisicamente, ma soprattutto empaticamente, mantenendo il contatto oculare (a turno tra i vari bambini, ma sufficientemente lungo per ognuno), avvicinarsi a ciascuno, contenendo coloro che più ne necessitano.

È importante ed imprescindibile sintonizzarsi con i bisogni dei bambini, stimolando l’autonomia di ciascuno e sostenendo nel momento di difficoltà.

Strumento elettivo di cui l’educatrice deve fare buon uso è l’osservazione: per suo tramite riuscirà a tenere a mente il bambino, a pensarlo, cogliendo sfumature individuali e non cadendo in clichés.

Quando il piccolo percepirà l’educatrice come base sicura (Ainsworth et al., 1978; Bowlby, 1988) si sentirà libero e desideroso di esplorare l’ambiente, in grado di interagire con i pari ed acquisire nuove conoscenze (Bergin e Bergin, 2009), sperimentarsi e conoscersi, con la consapevolezza che, in caso di bisogno, avrà la sua ancora di salvezza sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato (Bowlby, 1988, p.10).

Attaccamento ed esplorazione possono, infatti, essere visti come sistemi complementari, laddove al disattivarsi dell’uno si attiva l’altro: è l’adulto che, ponendosi come base sicura, favorisce la regolazione dei due sistemi.

Ecco come l’educatrice si trasforma in copertina di Linus all’interno del nido: l’oggetto transizionale che il bambino porta con sé in sostituzione della propria madre per sentirsi non solo protetto, nell’ambiente nido è dato dalla presenza dell’educatrice di riferimento.

Non dimentichiamo, infatti, che nei primi 3 anni di vita si raggiungono le tappe di sviluppo più importanti legate al linguaggio, alla motricità, alla socialità, al controllo sfinterico e che dunque, il bambino co-costruisce la propria identità giorno dopo giorno.

D’altro canto le educatrici esperiscono dalla creazione di legami di attaccamento sicuro un maggior senso di efficacia educativa, contribuendo ad incrementare il senso di autostima ed abbassando il livello di stress, elevato in tale professione.

È dunque chiaro come il miglior modo per promuovere lo sviluppo del bambino nell’ambiente nido sia la creazione di legami di attaccamento sicuro.

 

Don’t feed the Trolls: dark side of online identity

When a provocative action has a function of fun, we witness the phenomenon of trolls: it is about people who deliberately try to create discussions or sow discord with negative comments, insults or provocations, trying to lengthen the time for discussion.

 

 Following the Digital Revolution, every internet user, even an inexperienced one, is creating an online identity, which shows the authenticity or inauthenticity of his way of being in offline life. The most important way in which one is inauthentic in the construction of online identity is the search for anonymity.

Anonymity, in fact, is characterized by the desire not to authenticate, to act in an invisible and sometimes provocative manner: this is one of a darkest side of web. When a provocative action has a function of fun, we witness the phenomenon of trolling: it is about people who deliberately try to create discussions or sow discord with negative comments, insults or provocations, trying to lengthen the time for discussion. In fact, acting like a troll is a game of false identity, performed without the consent of the other participants. The troll tries to be accepted as a legitimate user and intervenes as long as the other participants do not recognize the false identity or until the fun that the troll tries to act provocatively decreases. Online trolling is a practice of deceptive and destructive behavior in a social environment like the Internet, with no apparent instrumental purpose (Buckels, Trapnell, Paulhus, 2014). Trolls share many features of the classic Joker villain: a modern variant of the Trickster archetype of ancient folklore (Hyde, 1998). Just like the Joker, trolls act as chaos agents on the Net, taking advantage of emotional or crazy ‘hot-button issues’ in some way. If an unlucky person falls into their trap, the trolling intensifies for further, ruthless fun. This is why the novice Internet users are regularly warned with: ‘Don’t feed the trolls!’. But what can the willingness to create a troll identity depend on?

Shachaf and Hara (2010) have conducted interviews with the trolls of Wikipedia, finding topics such as boredom, attention research, revenge, pleasure, desire to cause damage to the community between their motivations expressed for trolling. In other research, Hardaker (2010) conducted a Content Analysis of Usenet posts that identified four main characteristics of trolling: aggression, deception, interruption and success. Therefore, neither the troll category nor the trolling action have a single fixed meaning. Each online tolling action can be presented as desirable or undesirable, depending on the purpose at the time of publication on the Internet. These actions also occur during online computer game sessions (Thacker & Grifths, 2012), online encyclopedias (Shachaf & Hara, 2010), online newspapers (Ruiz et al., 2011) and online petitions (Virkar, 2014). According to Ditrich and Sassenberg (2017), moreover, within the groups, Facebook, where not all members must necessarily adhere to the rules of the group itself, according to explicit or implicit rules, show deviant behavior.

According to a model based on the social identity approach regarding the responses to deviations of the rules in Facebook groups, the deviant members were perceived as a questioning of what the group represents, subverting the identity of the group itself. Following these perceptions of identity subversion, the members of the group, in turn, were motivated to check and exclude the ‘deviant’. It was noted that together with these behaviors, the participants usually ignore the contributions of those who have decided to exclude, not recalling them after reading the temporal sequence of the online group. This, however, does not seem to lead to the decadence of a social group, but promotes a ‘natural purification’ within the group itself, through the elimination of negative influences. Trolls within Facebook groups have been categorized as: grumpy fanatics, sadistic liars, illiterate and irrational bigots (Ditrich and Sassenberg, 2017).

But what happens when the expectations of truth placed in the communicated media act are not respected by the real profiles? On the contrary, what do the false profiles that have the aim of ‘trolling’ when they are ‘unmasked’ prove? From sentiment analysis conducted on 62 Facebook comments of real users and 54 comments and Facebook posts of fake profiles, a positivity emerges in both cases, which allows us to suppose the presence of a sense of pleasure and enjoyment both by the troll, who he thinks he has achieved his goal, and from real users who, instead, feel a sense of satisfaction in the ‘troll hunt’, in the pleasure of ‘unmasking the enemy’ (Papapicco & Quatera, 2019). Despite this pleasure in ‘troll hunting’, the creation of inauthentic online identities, such as those trolls, undermine the idea of ​​a ‘global village’ (McLuhan, 1964) that the Digital Revolution pursues.

Terapia Metacognitiva per pazienti sopravvissuti al cancro

Un recente studio pubblicato su Frontiers in Psychology (Fisher et al., 2019), ha indagato l’efficacia della Terapia Metacognitiva (MCT) su pazienti sopravvissuti al cancro che riportavano sintomi psicologici negativi in seguito alle cure, spesso particolarmente invasive, appena terminate.

 

In Inghilterra, negli ultimi 15 anni, vi è stato un incremento del 2% di pazienti affetti da cancro. Nonostante questi dati, la percentuale di sopravvissuti è pressoché raddoppiata in 40 anni (Cancer Research UK, 2017). Circa il 25% delle persone sopravvissute alla malattia, riportano in seguito alla fine delle cure sintomi ansiosi e depressivi (Hoffman et al., 2009), sintomi da stress-post traumatico (Swartzman et al., 2017) e una forte paura della ricomparsa del cancro (Simard & Savard, 2015).

Le terapie adottate per trattare pazienti sopravvissuti al cancro, attualmente, non si sono dimostrate sufficientemente efficaci (Faller et al., 2013), eccetto la Terapia Cognitivo-Comportamentale, che però, non si sofferma sui processi psicologici che stanno alla base della comorbilità dei sintomi solitamente presenti (Cook et al., 2015).

La Terapia Metacognitiva (MCT), derivata dalla teoria sulla psicopatologia di Wells e Matthews (1994), ovvero il Self-Regulatory Executive Function Model, offre un’alternativa alla CBT per il trattamento di pazienti sopravvissuti al cancro. Secondo questo modello, il disturbo psicologico viene mantenuto dalla cognitive-attentional syndrome (CAS), ovvero uno stile di pensiero perseverativo, ripetitivo e focalizzato su contenuti negativi e strategie di coping maladattive (Wells & Matthews, 1996).

Il presente studio (Fisher et al., 2019) si pone l’obiettivo di analizzare l’efficacia della MCT, misurata in tre differenti tempi (subito dopo il trattamento e in due follow-up a 3 e a 6 mesi), per pazienti con disturbi psicologici legati alla malattia della quale hanno sofferto. Il campione, composto da 20 soggetti, ha portato a termine l’Hospital Anxiety Depression Scale (HADS) e l’Impact of Events Scale-Revised (IES-R) per analizzare i sintomi relativi al trauma, la Fear of Cancer Recurrence Inventory (FCRI) e la Functional Assessment of Cancer Therapy-General (FACT-G) per l’impatto della malattia e la qualità della vita dopo le terapie ricevute e il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30) e il Cognitive Attentional Scale-1 (CAS-1) per misurare rispettivamente la presenza e la natura delle metacredenze e i componenti della CAS.

La MCT ha portato a riduzioni statisticamente significative della sintomatologia psicologica legata alla sopravvivenza al cancro, riduzioni mantenute in tutti e tre i tempi, fino al follow-up di 6 mesi. Nel campione analizzato, il 59% dei partecipanti era da considerarsi riabilitato sul piano dell’ansia e della depressione nella misurazione post-trattamento e il 52% nella misurazione di follow-up a 6 mesi. In conclusione, la MCT si è dimostrata in grado di eliminare la sintomatologia complessiva presente nel 75% dei pazienti analizzati (Fisher et al., 2019).

Nonostante i limiti del presente studio, come un campione statistico ridotto e un limitata diversità etnica e culturale dei partecipanti, i risultati sono da considerarsi positivi e hanno dimostrato la potenzialità della MCT come metodo terapeutico per coloro che sono sopravvissuti al cancro ma riportano ancora sintomi psicologici negativi in seguito alle cure ricevute (Fisher et al., 2019).

 

L’azienda come sistema complesso

L’organizzazione e le sue componenti (gli individui, i gruppi, la società) sono sistemi aperti delimitati da un confine che separa l’interno dall’esterno e al contempo permette gli scambi reciproci. La funzione regolatrice che governa gli scambi tra diversi sistemi è la leadership, idealmente collocata lungo tutto il confine.

 

Leadership e organizzazione

Le organizzazioni lavorative hanno primariamente due funzioni: contribuiscono a creare la nostra identità individuale e ci permettono di vivere l’appartenenza di gruppo. Un presupposto chiave nelle ricerche del Tavistock Istitute of Human Relations di Londra è quello di organizzazione come sistema, che deriva dalla Teoria dei Sistemi Aperti di Von Bertalanffy (1950), applicando la biologia allo studio sociale.

L’organizzazione e le sue componenti (gli individui, i gruppi, la società) sono sistemi aperti delimitati da un confine che separa l’interno dall’esterno e al contempo permette gli scambi reciproci. Questo confine è come la membrana per la cellula, come la pelle per l’individuo. Esistono quindi dei confini permeabili che separano l’individuo dal gruppo, i gruppi tra loro e rispetto all’organizzazione nel suo insieme e l’organizzazione dalla società. La vita produttiva di un’organizzazione (il compito primario, la mission) può essere descritta come una sequenza di processi:

  • risorse che attraversano il confine organizzativo in entrata (input),
  • processi che trasformano le risorse in prodotti (conversione) che trasferiscono i prodotti all’esterno (outcome).

In questo senso la funzione regolatrice che governa gli scambi tra diversi sistemi è la leadership, idealmente collocata lungo tutto il confine. Il confine (boundary) è più vicino ad uno spazio di relazione, una frontiera più che ad una barriera protettiva. Possiamo immaginare il confine come una porta sufficientemente solida da proteggere il contenuto al suo interno, ma anche sufficientemente mobile da permettere apertura e scambi con l’ambiente esterno. I confini dei gruppi e delle diverse unità aziendali sono presidiati dalla leadership che ha il compito costantemente di rinegoziarli e regolarne la flessibilità

La leadership si riferisce al processo di gestione del potere. Sono numerosissime le teorie e le ricerche condotte su questo tema. È necessario creare delle mappe per orientarsi in questo concetto così poliedrico. Propongo di assumere qui una prospettiva che vede la leadership come attributo situazionale e funzionale:

  • Situazionale: ha spazio di azione nella sua organizzazione e missione.
  • Funzionale: più che una posizione è una funzione, al servizio, che gestisca abilità e conoscenze delle persone, non solo dare ordini e controllare.

Leadership ed emozioni

La visione definita razionalistica, anaffettiva, dell’organizzazione, che considera le emozioni come limiti di cui in nome dell’efficienza bisogna liberarsi, è nettamente superata dal riconoscimento del ruolo cruciale dei fattori emotivi nel plasmare le relazioni umane e quindi anche il lavoro. Le relazioni che gli individui instaurano tra loro in team e con l’organizzazione, di cui sono parte, sono regolate in parte dal compito primario dell’organizzazione (la mission, il core business), ma in parte sono anche influenzate profondamente dai processi informali delle dinamiche emotive più in ombra. Nel compito primario, in altre parole, sono impliciti finalità e significativi bisogni emotivi. Come accade nei gruppi anche nelle organizzazioni coesistono due dimensioni: la struttura, una dimensione materiale, oggettiva, economica (l’hardware), e la cultura (il software), percezioni, vissuti, norme e valori. Questi fattori determinano nel complesso l’atmosfera emotivo relazionale che si respira in un gruppo. L’attenzione alla comunicazione, alla cooperazione nei gruppi e alla qualità delle relazioni ha permesso di riconoscere quanto di emozionale ci sia nei processi organizzativi, solitamente descritti come razionali. Le stesse decisioni dei leader sono in parte guidate dalle sue emozioni e sensazioni. D’altra parte, il coinvolgimento nel lavoro è connesso alla cultura e alla valenza emotiva dei valori e della vision dell’organizzazione.

Lavorare ad ogni livello genera ansia, essere leader ne genera di più. Se non riusciamo a padroneggiare emozioni negative, troviamo delle soluzioni per difenderci da tali vissuti. Le difese sono per lo più meccanismi inconsci in certa misura indispensabili per la sopravvivenza degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni, ma se non esplicitate e contenute possono essere molto limitanti. Le difese organizzative non padroneggiate si rivelano anti-task, distolgono l’attenzione e compromettono il compito pur di allontanare ansia e disagio e quindi sono estremamente costose in termini economici e di tempo, per esempio, isolamento, abbandono del gruppo o del compito (burnout, malattie psicosomatiche, elevati turnover), resistenze al cambiamento (sabotaggio del compito, svalutazione), diffusione della responsabilità, ossessività e irrigidimento nei controlli nelle procedure. Questi processi possono generare sofferenza disagio nelle persone che lavorano all’interno e influiscono negativamente sul clima e sul compito primario la produttività dell’organizzazione.

Funzioni della Leadership

Due prospettive nell’organizzazione:

  • i membri che lavorano al suo interno (che ruolo gli è stato assegnato, che funzione hanno, che vantaggi e che rischi, che legami) i quali possono avere resistenze al cambiamento per i costi emotivi che questo comporta;
  • i manager che esercitano un ruolo direttivo primariamente orientato alla gestione dell’innovazione e del cambiamento.

Nella cultura italiana il clima organizzativo può essere più partecipativo o più autoritario, ma il concetto di leadership resta intrecciato con la figura del capo (headship) e con il concetto di comando, del dare ordini. Nella cultura anglosassone si è articolato meglio il concetto della followership. La costruzione di una followership implica creazione di presupposti formativi, responsabilità e autorità che permettano ai dipendenti di funzionare come supporto della leadership (Perini, Vera 2001). Spostamento dell’attenzione dalla figura del leader alla relazione che si instaura tra il leader e i suoi follower. La gestione del rapporto con il proprio leader implica tre modalità fondamentali: obbedire, sfidare e sostenere.

Una linea di ricerca approfondita dal modello psicoanalitico riguarda l’autorità e il potere: se il potere è un attributo della persona, l’autorità è un attributo del ruolo. In questo senso il leader ha autorità e potere in funzione di un determinato compito istituzionale.

Anton Obholzer,  Psicoanalista e Docente del Leadership Centre di INSEAD, ritiene che la forza della leadership dipenda dal tre punti:

  1. il conferimento dall’alto (dai superiori);
  2. la sanzione dal basso (riconoscimento da parte dei subordinati);
  3. l’autorizzazione dall’interno (autolegittimazione all’esercizio dell’autorità).

Soffermandoci sul sanzionamento dal basso, emerge la possibilità per i follower di esercitare una certa quota di autorità nel proprio ruolo, un personale contributo ai processi organizzativi.

Tra le conseguenze della nostra cultura che sovrainveste il ruolo del leader e non tiene adeguatamente conto del ruolo dei follower, c’è un leader sovraccarico di stress e responsabilità. D’altro canto i leader delegano difficilmente, anche quando proprio quella quota di autorità dei follower di cui si parlava porterebbe miglioramenti all’organizzazione. Perché il leader non delega?

Teme di perdere il potere e non tollera di dover stare per un certo tempo senza diretto controllo su tutti i processi. In questo sono rinforzati spesso dai collaboratori che prediligono un atteggiamento di dipendenza che li protegga da un ruolo più autonomo e quindi più esposto ad errori e rischi. È possibile invece creare spazi di riflessione per aumentare la governance e la funzione della delega.

Un passaggio importante prendendo spunto dalla cultura anglosassone è quello di promuovere, al posto della dipendenza, l’interdipendenza tra leader e follower e una maggiore consapevolezza.

Una recente teorizzazione propone quattro funzioni fondamentali di un leader efficace, orientato alla relazione e non al comando:

  1. Stretching: sfidare le abitudini del team e assumere rischi orientati a promuovere il cambiamento e raggiungere i risultati. Funzione più difficile che espone il leader ad ambivalenze e grandi costi emotivi (ansia, stress o solitudine o colpa).
  2. Empowering: potenziare promuovere le risorse e lo sviluppo delle persone. Questa funzione presenta difficoltà proprio per le resistenze alla delega alimentate reciprocamente da leader e follower.
  3. Coaching: allenare, formare, riconoscere il potenziale individuale e aiutarne l’espressione. Questa funzione è gratificante, ma non esente da rischi di cadere in meccanismi di controllo più che di autonomia. Gli individui inconsapevoli sono sempre un limite perché sono inaffidabili quale che sia il loro ruolo. D’altra parte rendere il team più consapevole delle proprie risorse, emozioni e competenze porta in sé maggiore autonomia di pensiero minore conformismo. Follower consapevoli richiedono maggiori competenze, anche emotive, del leader per essere gestiti.
  4. Sharing: condividere informazioni, conoscenze, risorse, promuovere la comunicazione efficace. Questa funzione appare come il vertice delle competenze emotive del leader: richiede di condividere il know how sul quale si fonda la percezione del potere individuale, implica di accettare critiche, di riconoscere i propri errori e di fare i conti con i propri vissuti.

Leadership e cambiamento

La gestione di un’organizzazione implica un continuo processo di cambiamento. Se da un lato il cambiamento è inevitabile e l’innovazione vitale per l’organizzazione, dall’altra genera ansia e resistenze sia a livello conscio che inconsapevole. Il cambiamento genera invidia, gelosia, rivalità e paure. Nel proporre un cambiamento è necessario fissare tempi, risorse e modalità di attuazione, tenendo conto anche dei processi non espliciti, delle fantasie e delle paure che governano i comportamenti. Il cambiamento viene presentato con entusiasmo come desiderabile e utile, talvolta indispensabile, spesso però negando i costi altrettanto inevitabili che ogni cambiamento ha. Riconoscendoli, dandogli espressione e non negandoli da costi si trasformano in consapevolezza e migliore gestione. Esempio del capro espiatorio che si fa portavoce di resistenze presenti in forma latente nell’organizzazione. La posizione di chi si oppone (attacco-fuga di Bion) può diventare una risorsa se il leader la accoglie e la interpreta non solo come individuale, ma come possibile rappresentazione di dubbi, paure, resistenze e clima di gruppo.

Alcune buone pratiche del leader:

  • promuovere una cultura organizzativa che preveda l’espressione dei vissuti negativi, dia voce alle critiche e alle polemiche. Alcune imprese hanno introdotto l’advisory box una cassetta dei suggerimenti per raccogliere vissuti opinioni suggerimenti anonimi che nessuno ha il coraggio di portare direttamente;
  • promuovere l’apprendimento dagli errori senza negarli e alimentare le iniziative;
  • prevedere l’invidia: le buone idee mettono sempre  in ombra qualcuno;
  • tollerare l’ambivalenza (per esempio tra invidia ed emulazione) e il bisogno di dipendere dei follower;
  • gestire i conflitti: l’esperienza di far parte di un gruppo di lavoro promuove la collaborazione e l’appartenenza, ma anche l’incontro tra diversità. Proprio la diversità, che è un elemento fondante della strutturazione e della creatività del gruppo e dell’organizzazione, nello stesso tempo genera conflitto.

Manager e altri professionisti che sviluppano competenze emotive riconoscono più velocemente i conflitti emergenti nel team, le vulnerabilità da gestire, i processi decisionali, le relazioni informali che generano opportunità. Il leader consapevole promuove la creatività e l’innovazione nelle organizzazioni che cambiano.

 

La scienza del sesso e dell’olfatto. Una breve panoramica dell’olfattophilia

L’olfattophilia (nota anche come osmolagnia, osfresiolagnia e ozolagnia) è una paraphilia, in cui una persona prova eccitazione e piacere sessuale attraverso gli odori. La paraphilia (termine greco formato da para ‘oltre’ e filia ‘affinità’) indica l’insieme di condotte o comportamenti sessuali bizzarri verso un oggetto percepito attraverso i sistemi sensoriali.

Articolo basato sulla ricerca del Professore Mark Griffiths, che ci ha concesso gentilmente il permesso di adattare e tradurre il testo al contesto italiano ed ha collaborato nella stesura di questo articolo.

 

Il legame tra i canali olfattivi e la stimolazione erotica sessuale non è certamente una novità: lo dimostra l’ampia letteratura scientifica, così come le evidenze a livello etologico. Alcuni mammiferi, come i topi, durante la fase di accoppiamento producono una particolare secrezione ormonale, che sprigiona degli odori per attirare i possibili partner.

Anche il focus erotico dell’uomo è molto probabilmente associato agli odori corporei di un partner sessuale, compresi gli odori dei genitali. Nel 1999, Alan Hirsch e Jason Gruss hanno pubblicato nel Journal of Neurological and Orthopaedic Medicine and Surgery uno dei primi articoli che esaminavano la correlazione tra il sesso e l’olfatto. Gli stessi autori spiegano come:

Storicamente, alcuni odori sono stati considerati afrodisiaci, argomento di molto folklore e pseudoscienza. Nei resti vulcanici di Pompei, i vasi di profumo erano conservati nelle camere progettate per le relazioni sessuali. Gli antichi egizi si lavavano con olii essenziali; i sumeri hanno sedotto le loro donne con i profumi. Una relazione tra odore e attrazione sessuale è enfatizzata nei rituali tradizionali cinesi e praticamente tutte le culture hanno usato il profumo nei loro riti matrimoniali. Nella mitologia, i petali di rosa simboleggiavano il profumo e la parola deflowering descrive l’atto iniziale del sesso. La letteratura, abbonda di riferimenti alle dimensioni nasali come simbolici delle dimensioni falliche, come nel famoso dramma Cyrano De Bergerac. Fliess, nel suo concetto di naso fallico, descriveva formalmente un legame sottostante tra naso e fallo. La psicologia junghiana collega anche odori e sesso.

Non passa inosservato come nella società contemporanea, i profumi e le fragranze per le donne e le colonie per gli uomini sono quasi sempre commercializzati in modo ‘aggressive’ o sensuale, dove gli sponsor sono persone di successo, carismatiche, che rappresentano uno stereotipo di sensualità. Il mercato di produzione dei profumi è un business miliardario di euro, dove le icone pubblicitarie sembrano suggerire come un profumo possa regalare successo sociale e sessuale. Infatti Hirsch e Gruss riferiscono come:

(…) L’anatomia sostiene il legame tra odori e sesso: l’area del cervello attraverso la quale sperimentiamo gli odori, il lobo olfattivo, fa parte del sistema limbico (il cervello emotivo), l’area attraverso la quale derivano pensieri e desideri sessuali. Brill (1932) suggerisce che le persone si baciano per avvicinarsi il naso, in modo che possano annusarsi (il bacio eschimese). O forse si baciano per mettere insieme la bocca in modo che possano assaggiarsi l’un l’altro poiché la maggior parte di ciò che chiamiamo gusto dipende dall’olfatto.

Una delle più recenti aree di ricerca che ha per oggetto la correlazione olfatto-eccitazione sessuale riguarda i feromoni e il ruolo che giocano nell’attivazione dell’eccitazione. È noto che queste sostanze chimiche, prodotte e rilasciate da un animale (in particolare dai mammiferi e dagli insetti) nell’ambiente che abita, ha un’influenza sul comportamento o sulla fisiologia di altri della sua specie, così come esposto in diversi articoli firmati dal Prof. Mark Griffiths e dal Dr. Mark Sergeant. I feromoni giocano un ruolo sessuale importante in tutto il regno animale, ma la capacità dell’uomo di secernere queste sostanze chimiche è relativamente debole, per cui i suoi effetti sono plausibilmente molto sottili. Come notano Hirsch e Gruss:

All’interno del cervello umano, vicino alla parte superiore del naso c’è una caratteristica anatomica che ci dà motivo di credere che esistano i feromoni umani: l’organo vomeronasale. La sua funzione è sconosciuta, ma nei primati subumani, questa è l’area in cui i feromoni agiscono per aumentare le possibilità di procreazione. […] Quando eseguiamo un’azione più o meno faticosa, sudiamo attraverso le ghiandole endocrine. Ma quando siamo imbarazzati o eccitati sessualmente, sudiamo attraverso le ghiandole apocrine che rilasciano steroidi ad alta densità sotto le braccia e intorno ai genitali; il loro ruolo è sconosciuto. Nei primati subumani, le stesse ghiandole apocrine rilasciano feromoni.

Altre ricerche condotte dal Dr. Hirsch hanno dimostrato che il collegamento tra l’olfatto e la risposta sessuale è verosimile. In uno dei suoi studi è emerso che il 17% dei suoi pazienti con deficit olfattivi ha sviluppato una qualche disfunzione sessuale.

Nel 1999, uno studio di Hirsch e Gruss ha esaminato, in un campione di 31 partecipanti maschi americani (in un range di età compreso tra i 18 e i 60 anni), gli effetti che 30 odori diversi esercitavano sull’eccitazione sessuale maschile. I partecipanti all’esperimento sono stati sottoposti a vari test olfattivi e la loro eccitazione sessuale è stata misurata sperimentalmente attraverso l’uso di un pletismografo e valutata sulla base degli indici di misurazione del flusso sanguigno del pene. I test comprendevano 24 odorizzanti diversi oltre a 6 odorizzanti combinati. È emerso che tutti e 30 gli odori hanno prodotto un aumento del flusso sanguigno del pene. Gli autori hanno riferito che:

L’odore combinato di lavanda e torta di zucca ha avuto il massimo effetto, aumentando il flusso sanguigno del pene del 40%. Il secondo, in termini di efficacia, è stata la combinazione di liquirizia nera e ciambella, che ha aumentato il flusso mediano del sangue del pene del 31,5%. Gli odori combinati di torta di zucca e ciambella erano terzi, con un aumento del 20%. Il meno stimolante era il mirtillo rosso, che aumentava il flusso sanguigno del pene del 2%. […] Gli uomini con olfatto al di sotto del normale non differivano significativamente da quelli con olfatto normale, né i fumatori differivano significativamente dai non fumatori.

I risultati hanno supportato l’ipotesi che alcuni odori sarebbero responsabili dell’attivazione dell’eccitazione sessuale, così i due ricercatori hanno ipotizzato una serie di ragioni per cui questo accade:

Gli odori potrebbero indurre una risposta condizionata alla Pavloviana che ricorda ai soggetti i loro partner sessuali o i loro cibi preferiti. Tra le persone cresciute negli Stati Uniti, gli odori dei prodotti da forno sono più adatti a indurre uno stato chiamato ‘richiamo evocato olfattivo’. Probabilmente, gli odori – nel presente studio – hanno evocato un richiamo nostalgico con uno stato d’animo positivo, che ha influenzato il flusso sanguigno del pene. […] Oppure gli odori potrebbero semplicemente essere rilassanti. In altri studi, la lavanda è stata associata a sensazioni di rilassamento. Un’altra possibilità è che gli odori possono agire neurofisiologicamente […] Non possiamo escludere un effetto parasimpatico generalizzato, che aumenta il flusso sanguigno del pene […] Nel nostro esperimento, gli odori specifici che determinavano un aumento del flusso sanguigno del pene erano principalmente gli odori alimentari […]. Ciò supporta l’assioma secondo cui la via per il cuore di un uomo (e l’affetto sessuale) passa attraverso il suo stomaco […] Non possiamo certamente considerare gli odori proposti nel nostro esperimento come feromoni umani, quindi crediamo che abbiano agito attraverso percorsi diversi dai feromoni.

Poco dopo, Hirsch e colleghi hanno ripetuto lo stesso studio sulle femmine, misurando e valutando l’aumento del flusso sanguigno vaginale in relazione alla somministrazione di determinati stimoli olfattivi. I ricercatori hanno riscontrato effetti simili a quelli riportati nell’International Journal of Aromatherapy. Dai risultati è emerso che i maggiori aumenti del flusso sanguigno vaginale si registravano a seguito dei seguenti odori: caramelle e cetrioli (13%), torta di zucca e lavanda (11%) e cioccolato (4%).

Si fa presente che entrambi gli studi presentano dei chiari limiti, primi fra tutti le piccole dimensioni dei campioni di riferimento, gli odori selezionati dai ricercatori e il flusso sanguigno come unica misura di eccitazione. Gli odori che eccitano sessualmente possono essere molto specifici e, in alcuni casi, strani e/o bizzarri come, per esempio, l’emissione di gas intestinali (flatulenza). In un numero di Archives of Sexual Behavior del 2013, il Prof. Mark Griffiths ha pubblicato il primo caso di studio al mondo sull’eproctofilia (eccitazione sessuale da flatulenza). Griffiths si è imbattuto in prove aneddotiche di altri strani odori che attivano sessualmente l’individuo, come ha esposto in un articolo su 15 Feticci sorprendenti e strani, elencando al numero 11 il deodorante per ambienti:

Un utente di Reddit riferisce di essere stato eccitato, da adolescente, ogni volta che entrava in una stanza che utilizzava un marchio specifico e un profumo di deodorante per ambienti! Dopo alcune domande, si sospetta che il profumo si sia associato con la prima volta che ha guardato un porno. Altri utenti segnalano di essere stati accesi sessualmente da profumi o campioni degli stessi che sono stati inclusi nella rivista ‘Playboy’ (Archives of Sexual Behavior, 2013, pp. 1383–1386).

Esistono diverse parafilie accomunate dall’uso dell’olfatto, come l’antholagnia o meglio l’eccitazione che nasce dalla vista e/o dall’odore dei fiori. L’antholagnia, non presenta delle basi empiriche dimostrabili, eppure come descritto nel sito Web Kinkly :

Le persone con antholagnia in genere preferiscono determinati fiori, così come la maggior parte delle persone è eccitata sessualmente da determinati tipi di corpo. È probabile che si eccitino mentre visitano un negozio di fiori, un vivaio floreale o un giardino botanico. Possono anche cercare immagini di fiori online per gratificazione sessuale. La maggior parte delle persone con antholagnia impara a gestire le proprie condizioni e godersi una vita sessuale sana. Possono persino usare il profumo dei fiori durante i preliminari o i rapporti. Tuttavia, se l’antholagnia inizia a interferire con la vita professionale o personale di una persona, potrebbe voler cercare un trattamento riparatore. Il trattamento per l’antholagnia può consistere in terapie cognitive o comportamentali, psicoanalisi o ipnosi.

Un altro articolo del 2013 (Profumi che scatenano l’eccitazione sessuale) firmato da Susan Bratton, sintetizza le ricerche recenti (sebbene sia basato per la maggior parte sul libro di Daniel Amen Sex On The Brain del 2007). Più specificamente, l’articolo nota che:

La ricerca attuale suggerisce anche che il profumo del muschio ricorda da vicino quello del testosterone, l’ormone che migliora la libido sana in entrambi i sessi. Negli studi sui profumi, presso la Toho University in Giappone, è stato scoperto che gli oli essenziali floreali a base di erbe hanno un impatto sull’eccitazione sessuale nel sistema nervoso. Per stimolare il sistema nervoso simpatico si usa il gelsomino, il yang-ylang, la rosa, il patchouli, la menta piperita, i chiodi di garofano e i bois de rose. Per rilassare il sistema nervoso parasimpatico si utilizza il legno di sandalo, la marjoram, il limone, la camomilla o il bergamotto […]. Molti di questi profumi si trovano comunemente anche nel tè come menta piperita e camomilla. Molte candele sono profumate di rosa, gelsomino, patchouli, legno di sandalo e bergamotto.

Ci sono molti siti web che annoverano vari profumi, responsabili dell’eccitazione sessuale, e molti di questi sembrano basarsi sulla ricerca condotta dal Dr. Hirsch e dai suoi colleghi. La ricerca sul sesso, sull’olfatto e sull’olfattophilia sembra essere un’area in crescita, e si spera che lo scritto del Prof. Mark Griffiths, ed il presente adattamento, abbiano un piccolo ruolo nello stimolare la ricerca nell’area.

 

Pensieri brutti e cattivi. Ossessioni tabù: come liberarsene (2019) di A. Bartoletti – Recensione del libro

Pensieri brutti e cattivi: un testo che, in maniera originale, affronta il tema di alcune forme di ossessioni e, in modo chiaro, leggero ed esaustivo, accompagna il lettore interessato al tema, e ancor di più chi ne soffre, a scoprire come alcuni meccanismi della nostra mente, possano portarci in inganno, sofferenza e patologia.

 

Ma quali pensieri brutti e cattivi?

Come è stato ampiamente messo in luce negli ultimi anni, il Disturbo Ossessivo Compulsivo comprende diverse forme e manifestazioni dello stesso e, all’interno di Pensieri brutti e cattivi, Alessandro Bartoletti distingue ossessioni perfette e pulite, che comprendono ossessioni di perfezione, pulizia, simmetria, lavaggio, ordine, controllo ed ossessioni brutte, e cattive, aventi a che fare con contenuti del pensiero inerenti a violenza, sesso, blasfemia, immoralità, pazzia, morte. E’ soprattutto a queste ultime che il testo si dedica. L’aspetto che l’autore sottolinea come elemento distintivo fra le prime e le seconde avrebbe a che fare con un esasperato senso etico e morale che verrebbe minato, minacciato, da un contenuto altamente trasgressivo, disturbante, non accettabile, disgustoso, trasformando quei pensieri in tabù di cui spesso chi ne soffre prova vergogna anche a parlarne ad un professionista e a chiedere aiuto.

Il testo offre un elenco di pensieri brutti e cattivi ed informazioni su come riconoscerli. Tra i più frequenti: la paura di uccidere, di suicidarsi, di investire qualcuno involontariamente, paura di riscoprirsi omosessuale, possessioni demoniache, ossessioni di perdere il controllo ed impazzire, ossessioni esistenziali sul senso della vita e sulla morte, dubitatori patologici… Per ognuna di queste viene offerta una descrizione dei meccanismi insiti negli stessi e di come farne un identikit.

Elementi che accomunano questi pensieri diventano coscienziosità e scrupolosità, paura, eccessivo senso di responsabilità circa anche i contenuti della propria mente e senso di colpa, che cercano di essere gestiti e/o annullati mediante compulsioni che possono essere sia comportamentali che mentali.

Altro aspetto su cui l’autore si sofferma sono le tentate soluzioni messe in atto da chi ne soffre e che in realtà peggiorano ed esasperano il problema: repressione paradossale, neutralizzazione mentale, mettersi alla prova, evitamenti e coinvolgimenti precauzionali, ricerca di rassicurazione, ripasso mentale, compulsare e controllare, questionare la realtà. Per ciascuna di esse Alessandro Bartoletti spiega come le stesse determinano la persistenza e l’esasperazione del disturbo ossessivo.

Strategie per liberarsi dalle ossessioni…

Essendo l’autore uno psicologo e psicoterapeuta, specialista in psicoterapia breve strategica, descrive all’interno del testo una serie di tecniche e strategie di tradizione strategica, come l’appuntamento con la peggiore fantasia, pensare volontariamente al pensiero ossessivo, il rituale forzato, lo studio proibito e tante altre descritte in modo chiaro, leggero e pratico per chi volesse mettersi alla prova, senza per questo volere essere un testo self-help che si sostituisce all’intervento del professionista. Non mancano nell’ultima parte del testo alcuni estratti di casi clinici che aiutano il lettore ad entrare nel vivo dell’approccio dell’autore.

Un testo che ritengo diventi molto utile per chi soffre di queste forme di ossessioni e che va alla ricerca di informazioni a sua colpa o discolpa, un testo che evidenzia aspetti che in maniera condivisa vengono sottolineati anche da altri approcci che affrontano in maniera efficace il DOC, come informare il paziente su come funziona la nostra mente, individuare quelle tentate soluzioni che in realtà peggiorano il problema, fare in modo che la persona si metta all’opera per riuscire a liberarsi non dal pensiero, ma dall’angosciante paura che lo stesso genera e che, come l’autore stesso sottolinea, non è solo accettare, ma avere il coraggio di andare a guardare, fantasticare, immaginare, rendere ancora più assurde le cose assurde che la mente ci propone.

 

Single per scelta o per scarsa abilità? Un nuovo studio indaga i moderatori del successo nella ricerca di un partner

In società in cui la scelta del partner non viene mediata dai familiari, ma è deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro sono estremamente rilevanti.

 

Tutti sanno che la coda riccamente colorata del pavone esiste per una sola ragione, quella di attrarre una compagna: questo perché il costo evolutivo di avere un attributo tanto ingombrante, testimonia l’eccellenza dell’esemplare che la porta, auspicabilmente spingendo le femmine a scegliere proprio quel corredo genetico per procreare. Allo stesso modo un esemplare di alto rango nel branco o con maggiori capacità nel procacciare cibo e risorse, risulteranno irresistibili agli occhi delle femmine della loro specie.

Negli uomini, invece, i rituali di accoppiamento hanno presto finito per distaccarsi dalla selezione basata su indici di fitness genetica ed infatti, già nelle protosocietà che andavano costituendosi agli albori della nostra specie, le donne venivano date in sposa dalla propria famiglia che sceglieva il candidato socialmente più prestigioso (Apostolou, 2007; 2010), oppure esse venivano conquistate alla stregua di un bottino di guerra, a seguito di violenti scontri tra uomini, come testimoniato da evidenze storiche ed archeologiche (Ghiglieri, 1999; Bowles, 2009; Puts, 2016). Ancora oggi, nell’analizzare 190 popolazioni nomadi contemporanee, si riscontra come in circa il 70% di esse i matrimoni combinati siano una pratica comune, mentre in solo il 4% delle società avvengono matrimoni a seguito della libera selezione del partner (Apostolou, 2007).

Tuttavia, nelle nostre società industrializzate, siamo abituati a pensare la scelta del partner come frutto di una nostra deliberata scelta, guidata da principi come la compatibilità caratteriale, il sentimento reciproco, la condivisione di valori e interessi: secondo la teoria del mismatch evolutivo, la velocità con la quale sono cambiate le nostre società non ha permesso al processo di selezione di eliminare quelle caratteristiche che rendono meno facile per un individuo il formare una coppia nel nuovo ambiente.

In un contesto in cui la scelta del partner non fosse deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro, avrebbero avuto sicuramente un effetto meno deleterio di quanto non abbiano invece nella nostra società, dove ci si aspetta invece che gli individui selezionino il proprio partner senza la mediazione dei propri familiari, né tantomeno utilizzando la forza.

Apostolou, Papadopoulou, Christofi e Vrontis (2019) si sono preposti di indagare il ruolo di questi tre tratti nel predire il successo nell’accoppiamento (mating performance n.d.t), ipotizzando in particolare come essi possano rivestire un ruolo cruciale specialmente nella fase di formazione di una relazione intima, più che nel suo mantenimento.

Hanno raccolto i dati provenienti da 587 partecipanti (309 donne e 278 uomini) in differenti condizioni sentimentali: il 30% era infatti single, il 33% era sposato e il 3,6% divorziato, di questi il 41,7% riportava difficoltà in almeno una delle aree esaminate. I soggetti hanno poi risposto a diversi questionari circa la propria bravura percepita nell’intrattenere flirt con potenziali partner, della propria capacità di cogliere i segnali di interesse di altri e del proprio livello di timidezza. Da ultimo, gli autori hanno proposto una scala composta da cinque items per determinare il successo generale dell’individuo nell’iniziare e mantenere delle relazioni intime.

Dai risultati è emerso come il successo nell’accoppiamento risentisse maggiormente della scarsa capacità del soggetto di sostenere il flirt, seguita da una scarsa capacità di cogliere i segnali e in ultima battuta dalla timidezza dell’individuo. I ricercatori hanno poi condotto analisi di regressione logistica binomiale, creando delle variabili ad hoc distinguendo in due categorie, separando i soggetti più performanti sotto un particolare aspetto, da quelli meno performanti. La variabile dipendente era in questo caso la mating performance. I partecipanti con una bassa capacità di flirtare avevano una possibilità di 2,33 volte maggiore di avere scarsi risultati di successo nell’accoppiamento rispetto a quelli che si attribuivano una buona capacità nel farlo. Similarmente, i soggetti con scarsa capacità di cogliere i segnali provenienti da potenziali partner registravano una probabilità di 2,06 volte maggiore di avere scarso successo nelle relazioni intime rispetto ai soggetti che si riconoscevano una certa abilità nel percepire l’interesse degli altri. Da ultimo, i soggetti che riferivano maggiore timidezza avevano una possibilità di 1,62 volte superiore di trovarsi nella fascia inferiore di successo nella mating performance. Né il sesso, né l’età hanno dimostrato di avere interazioni significative sul successo nelle relazioni intime.

In futuro, altri studi si dovranno occupare di estendere i risultati ottenuti a contesti culturalmente differenti, così come a differenziare la performance nelle relazioni a lungo termine da quelle a breve termine, situazioni nelle quali è plausibile ipotizzare differenti pattern di influenza. Tuttavia, questo studio contribuisce ad ampliare il corpo di ricerche che sembra supportare la teoria del mismatch evolutivo e che rende ragione delle difficoltà riscontrate nelle società industrializzate nel formare e mantenere delle relazioni intime.

 

Che cos’è e come funziona una CEB (classe di esercizi di bioenergetica)

CEB è l’acronimo usato per indicare ‘classe di esercizi di bioenergetica’. Il termine classe denota un gruppo di almeno 4-5 persone che vengono guidate da un conduttore nello svolgere una pratica psico-corporea (sequenza armonica di movimenti), in un tempo specifico (1h e 30 min), con un determinato intervallo temporale (una volta a settimana), all’interno di un setting (ambiente protetto).

Silvia Di Evangelista – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Parole chiave: respiro, carica -scarica- rilassamento, movimenti emozionali, gruppo: strumento di regolazione interattiva

L’obiettivo è quello di sviluppare in ogni partecipante una maggiore consapevolezza della propria unità mente-corpo al fine di autoregolare l’attivazione fisica ed emotiva in alcuni momenti di difficoltà, come ad esempio quando uno stress dura a lungo (stress cronico). Tuttavia gli esercizi possono essere anche utilizzati individualmente, diventando così una pratica di self-help nel recupero del proprio benessere psico-fisico.

Alexander Lowen (psicoterapeuta e psichiatra statunitense 1910-2008, fondatore dell’Analisi Bioenergetica e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis) e sua moglie Leslie Lowen hanno messo a punto nel corso di più di vent’anni di lavoro terapeutico con i pazienti, dei programmi di lavoro corporeo, costituiti da esercizi fisici: gli esercizi bioenergetici. L’utilizzo di tale pratica favorisce l’equilibrio psicofisico durante situazioni di stress in cui vi è un’alterazione e modificazione del sistema nervoso, del sistema endocrino (Selye H., sindrome generale di adattamento, 1936) e del sistema immunitario (PNEI, Ader R., 1981).

Il respiro profondo e il grounding

L’esercizio base di una CEB è il grounding ovvero una posizione di stress in cui si è in posizione eretta, con i piedi distanziati di circa 25 cm, le punte leggermente in dentro e le ginocchia scarsamente piegate. In questa posizione la persona viene invitata a chiudere gli occhi, prestando attenzione alle sensazioni del corpo: il battito cardiaco, il ritmo del respiro, i piedi appoggiati a terra, potenziando così la sensibilità propriocettiva (corteccia somatosensoriale, nota come area S1).

Durante la posizione di grounding è stimolato un respiro profondo e calmo, in cui l’inspirazione procede dalla zona pelvica e si dirige verso l’alto, fino alla bocca e l’espirazione parte dalla bocca e scende verso il bacino. Questo tipo di respirazione attiva la modalità parasimpatica del sistema nervoso autonomo, riportando in equilibrio le funzioni del sistema neurovegetativo, avendo così benefici sul corpo e sulla mente. A livello corporeo infatti il respiro profondo bilancia il ritmo cardiaco e respiratorio, rallenta il polso, gestisce una corretta secrezione ormonale e l’aumento del rilassamento muscolare. A livello mentale invece respirare profondamente consente di calmare la tendenza a rimuginare, migliora il riposo e aumenta la resistenza allo stress.

Le prove scientifiche degli effetti calmanti della respirazione profonda sono arrivate da un team di ricercatori della Stanford University School of Medicine che ha scoperto un nuovo tipo di neuroni che collega il ritmo del respiro alla sensazione di allerta. Nel tronco encefalico è presente una subpopolazione neurale che controlla la respirazione e comunica direttamente con una struttura cerebrale, il locus coeruleus, coinvolta nelle risposte allo stress, nello stato di vigilanza generale, nella focalizzazione dell’attenzione. Kevin Yackle e il suo gruppo (2017) fecero un esperimento su alcuni topi, ai quali erano stati attentamente disattivati i neuroni connessi con la respirazione, osservando che, mentre in una prima fase gli animali non mostravano alcun cambiamento, quando venivano messi in gabbie non familiari, gli animali rimanevano tranquilli anche se erano sottoposti a stimoli che normalmente avrebbero elicitato una risposta di stress. Con questo esperimento è stato dimostrato come la disattivazione della subpopolazione neuronale generatrice dei ritmi respiratori, 175 neuroni del complesso di pre-Botzinger, sia connessa con la porzione del cervello coinvolta negli stati eccitatori.

Pertanto fare dei respiri profondi ha un effetto calmante perché non attiva quei neuroni collegati con il centro del cervello connesso agli stati di eccitazione.

Carica, scarica e rilassamento: i tre momenti della CEB

Una CEB si articola in tre momenti: carica-scarica-rilassamento. La tecnica bioenergetica sfrutta il meccanismo base dell’organismo vivente di carica, scarica, rilassamento. Infatti, quando l’organismo raggiunge un punto massimo di tensione (carica), inizia a cedere (scarica) l’energia in eccesso, arrivando al rilassamento muscolare. Il concetto di carica e scarica bioenergetica è analogo a quello di tremore neurogeno studiato da Peter Levine. Levine, attraverso un approccio ecologico, osservò che la reazione degli animali ad un evento pericoloso era quella di ‘scrollarsi’ via dal corpo la paura provata, attraverso delle vibrazioni corporee, ripristinando lo stato neurofisiologico antecedente l’evento traumatico. Dall’osservazione di tale reazione egli elaborò una metodologia di lavoro psico-fisiologico chiamata Somatic experiencing il cui principio di base consisteva nel processo di scarica dei processi fisiologici (attraverso vibrazioni corporee), in modo da supportare il sistema nervoso nel lasciar andare l’eccesso di attivazione. In questo modo veniva ripristinato l’equilibrio omeostatico dell’organismo. Lo stesso principio è condiviso dalla prospettiva bioenergetica che vede in un muscolo contratto un blocco dell’energia emozionale dovuto ad uno stress più o meno intenso. L’obiettivo degli esercizi bioenergetici è quello di sciogliere questo blocco emozionale, attraverso vibrazioni corporee indotte con posture stressanti come il grounding, per arrivare al limite della tolleranza e stimolare il corpo a cedere e riportare un processo fisiologico di autoregolazione psicofisica.

Durante la fase di rilassamento vengono svolti sia esercizi di rilascio muscolare che esercizi di massaggio con l’altro. Gli esercizi di rilascio muscolare stimolano a livello cognitivo la capacità di auto-osservazione, attraverso la mobilitazione di alcune sensazioni e di alcuni pensieri che solitamente sono al di fuori del campo di coscienza, aumentando così il grado di consapevolezza corporea. Gli esercizi di massaggio, vengono effettuati reciprocamente dai partecipanti, consistono in una lieve pressione su muscoli in tensione, inducono anch’essi ad uno stato di rilassamento, favoriscono la respirazione e la propriocezione oltre che un senso di contatto e di vicinanza nel gruppo.

Movimenti emozionali

In una CEB sono diversi gli esercizi che possono essere proposti: ci sono quelli di orientamento spaziale, quelli di carica e scarica energetica, esercizi più espressivi che utilizzano il suono della voce con diverse intensità, esercizi di allungamento, esercizi assertivi ed esercizi simili a quelli svolti in alcune pratiche come il pilates o la ginnastica dolce. Tuttavia ciò che caratterizza una CEB e la differenzia da altre attività corporee è l’utilizzo degli esercizi corporei come movimenti emozionali cioè movimenti che hanno una risonanza emotiva.

Questo vuol dire che l’obiettivo di esecuzione degli esercizi non è quello di realizzare una buona performance come nello sport. Il focus al contrario è quello di stimolare, ovvero incoraggiare ogni individuo nel dirigere l’attenzione sulle sensazioni del corpo ed osservare senza giudizio come le sensazioni fisiche siano legate alle proprie emozioni e ai pensieri.

Tutto questo ha lo scopo sia di regolare l’attivazione fisiologica, sia di sviluppare maggiore conspevolezza. Infatti grazie al lavoro corporeo è possibile aumentare la propria finestra di tolleranza (Siegel D., 1999) poiché si amplia la capacità di tollerare le sensazioni fisiche e gli stati emozionali. Inoltre gli studi di Kandel sulla plasticità neuronale dimostrano come l’apprendimento e la memorizzazione delle esperienze, attivino nuove reti neurali di risposta, che vengono consolidate con la ripetizione. Pertanto durante una CEB porre attenzione alle proprie esperienze percettive e la ripetizione di nuovi schemi senso-motorio-emozionali, genera nuovi apprendimenti. In questo modo l’individuo viene aiutato ad essere più consapevole e a modulare le proprie abituali forme di risposta agli stimoli interni ed esterni.

Il gruppo e l’apprendimento per imitazione in una CEB

In una CEB il gruppo svolge una funzione importante nel processo di regolazione emozionale e nello sviluppo di nuovi apprendimenti grazie ad una comunicazione imitativa. Infatti nell’ambito delle Neuroscienze, la scoperta dei neuroni specchio (Rizzolati et al., 1994) localizzati nella corteccia pre-motoria e connessi al sistema limbico, area del cervello responsabile dell’origine e della gestione delle emozioni, costituisce la base della comprensione relazionale e dell’empatia. Pertanto, grazie ai neuroni specchio, se l’altro compie un movimento, è possibile non solo percepire la sua azione, ma anche comprendere le intenzioni ed emozioni che sta provando. Infatti l’attivazione uditiva-motoria-cinestetica consente l’attivazione di questi neuroni provocando un rispecchiamento, permettendo cioè una comunicazione emozionale, veicolata dal linguaggio del corpo. Questa comunicazione pre-verbale, consente la regolazione delle proprie sensazioni ed emozioni nell’interazione con l’altro. Il conduttore all’inizio guida il percorso di una CEB con ritmi, intervalli, intensità, che poi vengono rimodulati dalla risposta dell’intero gruppo per creare una buona sintonia comunicativa.

Conclusioni

La CEB è uno strumento di promozione della salute che agisce a livello dei processi psico-fisiologici del corpo. Pur avendo degli effetti terapeutici non è un percorso di psicoterapia. Si tratta infatti di un lavoro esclusivamente corporeo, non verbale; manca il processo di elaborazione dell’esperienza emotiva che il paziente fa insieme allo psicoterapeuta, attraverso la riflessione e la costruzione di significato, traducendo il linguaggio del corpo in narrazione, favorendo così lo sviluppo di maggiore consapevolezza.

 

Sogni che fanno paura: il ruolo degli incubi nella regolazione emotiva

Da molto tempo ci si chiede quale sia la funzione dei sogni e, mentre per Freud questi veicolavano significati nascosti alla mente cosciente dell’individuo, oggi siamo più propensi a vederli come tracce mnestiche spesso casuali, che vengono riproposte durante il sonno ed aiuterebbero il consolidamento della memoria semantica.

 

Il sonno è un’attività fondamentale per il nostro organismo, durante le ore di riposo infatti il nostro corpo mette in atto una serie di processi atti a mantenere un funzionamento ottimale, in particolare rivolti al rallentamento delle funzioni neurovegetative e al recupero delle energie, sia fisiche che psichiche. Tuttavia, ci si è interrogati per lungo tempo su quale fosse la funzione dei sogni: se per Freud i sogni veicolavano significati nascosti alla mente cosciente dell’individuo, ad oggi siamo più propensi a vederli come tracce mnestiche spesso casuali, che vengono riproposte durante il sonno ed aiuterebbero il consolidamento della memoria semantica.

Sempre più studi sembrano poi evidenziare uno stretto rapporto tra il sonno ed i processi emotivi (Boyce, Glasgow, Williams e Adamantis, 2016; Perogamvros & Schwartz, 2012): in particolare è possibile osservare le conseguenze della deprivazione di sonno nei termini di una maggiore aggressività e di stati emotivi negativi, cosi come alcune problematiche strettamente connesse agli stati emotivi di un individuo, come la depressione o il PTSD, siano spesso accompagnati da perturbazioni del sonno o incubi intrusivi.

Tra le teorizzazioni circa la funzione dei sogni, vi è quella della minaccia simulata, che postula come il regno onirico possa fungere da simulazione offline, ovvero non immersa nella realtà bensì solo ideativa, che consenta di vivere l’esperienza di eventi potenzialmente minacciosi allenando di conseguenza delle abilità di evitamento o gestione del pericolo, mediante l’attivazione dei circuiti amigdalo-corticali coinvolti nell’emozione di paura, da ultimo risultando in risposte maggiormente adattive durante le ore di veglia (Revonsuo, 2000; Scarpelli, Bartolacci, D’Altri, Gorgoni e De Gennaro, 2019).

I sentimenti di paura sembrano essere presenti in maniera rilevante nell’attività onirica degli individui, differenziandosi nettamente da emozioni più sociali, come l’imbarazzo o la frustrazione, e costituendosi quindi come una categoria emozionale biologicamente rilevante e distinta (Revonsuo, 2000; Schwartz, 2004). Se si accetta l’ipotesi della funzione di regolazione emotiva, ci si aspetterebbe che ad una maggiore attivazione durante il sonno delle aree cerebrali coinvolte nella risposta alla paura (amigdala, corteccia cingolata, insula), corrisponda una minore attivazione di quelle stesse aree nelle ore di veglia. Ancora, ci si potrebbe aspettare durante gli stati di coscienza, un coinvolgimento maggiore dell’area coinvolta nella soppressione della paura, ovvero la corteccia prefrontale mediana, che agirebbe in tal senso a scopo compensatorio (Dunsmoor et al., 2019; Yoo et al., 2007).

Un recente articolo pubblicato su Human Brain Mapping espone i risultati ottenuti da Sterpenich, Perogamvros, Giulio Tononi e Schwartzin due esperimenti condotti sull’attività onirica mediante tecniche di neuroimaging, con l’obbiettivo di determinare in primis, se le regioni che si attivano in risposta alla paura durante l’addormentamento siano effettivamente sovrapponibili a quelle che servono questo scopo durante lo stato di veglia, secondariamente verificare se vi sia un legame, e di quale natura, tra le emozioni esperite in sogno e la risposta a stimoli emotivamente salienti quando il soggetto è sveglio.

Nel primo esperimento i 18 partecipanti sono stati svegliati svariate volte nel corso del loro sonno, talvolta durante la fase REM o durante una fase non-REM (N2), con la richiesta di riportare l’ultimo ricordo accessibile prima che suonasse la sveglia, per poi rispondere ad un intervista strutturata. Sono stati poi analizzati nel dettaglio i segnali EEG (elettroencefalogramma) appartenenti a quei soggetti che avevano riportato almeno un sogno in cui avessero sperimentato paura e un secondo in cui tale emozione non fosse presente, in ognuna delle fasi analizzate (REM e N2).

Nel secondo studio gli 89 partecipanti hanno risposto ad una batteria di questionari validati per indagare la qualità del sonno (PSQI, Buisse et al., 1989), la sonnolenza diurna (EES, Johns, 1991), depressione (BDI, Beck, Steere and Brown, 1996), ansia (STAI-T, Spielberg, Gorusch & Luschene, 1970), compilando inoltre un diario del sonno e dei sogni al fine di riportare la presenza di emozioni specifiche (rabbia, disgusto, tristezza, gioia, confusione, paura, frustrazione e imbarazzo) per la settimana antecedente la sessione di Risonanza Magnetica Funzionale, durante la quale i soggetti venivano esposti a stimoli a valenza negativa oppure neutra. Durante la risonanza magnetica funzionale, gli sperimentatori hanno inoltre rilevato i movimenti oculari e il diametro di dilatazione pupillare, usato come indice della risposta emotiva allo stimolo presentato durante il compito (Bradley, Miccoli, Escrig & Lang, 2008).

I risultati del primo studio hanno mostrato come l’esperienza della paura fosse associata con l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata mediana (quest’ultima specificatamente durante la fase REM), le quali sono attive anche durante lo stato di veglia in risposta a stimoli che elicitino paura. Il secondo studio ha invece riscontrato come i soggetti che riferissero un’incidenza maggiore della paura durante i propri sogni, avessero anche un’attivazione inferiore a livello dell’insula, dell’amigdala e della corteccia cingolata mediale durante la veglia, nonché una maggiore attivazione dell’area adibita alla soppressione della paura, ovvero la corteccia prefrontale mediana.

Complessivamente, i risultati ottenuti da Sterpenich e colleghi, supportano l’ipotesi di partenza che vivere emozioni di paura durante l’attività onirica ripagasse i soggetti con una maggiore soppressione di tali sentimenti negativi durante la veglia. Si rendono necessari studi ulteriori per ridefinire i modelli teoretici sulla funzionalità onirica, espandendo ad esempio le conoscenze circa le emozioni positive sperimentate durante il sonno e le risposte emotive che si attivano nel cervello degli individui.

 

Eziologia, comorbilità e correlati della disgrafia

A star is born: a (New) love is born?! – Lettura sistemica del film

Are you happy in this modern world? Una domanda, una sfida, perché chiedersi se si è felici dentro un mondo che ci suona stonato, costituto da assetti comportamentali stretti, a ridosso di aspettative ed apparenze, risulta essere un atto abbastanza complesso.

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

 

La felicità, se esiste, è qualcosa di voluto, niente a che fare con la somma dei successi. Per divenire e dunque essere sereni bisogna varcare un confine, oltre il quale lasciare andare i propri demoni e i propri fantasmi, altrimenti questi saranno fuoco e luce di un vivere quotidiano. La storia d’amore tra Jack e Ally non è altro che l’esempio diretto di quanto la ricerca della felicità possa unire, quanto pungere, due persone che eludono la propria responsabilità per la risoluzione di dolori e dissapori passati, sperando che l’unione coniugale possa essere sufficiente per un risarcimento emotivo.

A star is born è l’intreccio di due storie di orfanità e disorientamento, in cui il Nec Sine Te Nec Tecum Vivere Possum (Né con te, né senza di te) ne fa da cornice. Un po’ come la celeberrima frase di Elkaim, titolo di un suo libro Se mi ami, non amarmi, che sottolinea l’elemento paradossale di alcuni legami d’amore: da un lato il desiderio di essere amati, dall’altro la difficoltà a stare (emotivamente) in relazione che si esplica attraverso la distanza.

Scelti dal bisogno di essere adottati e risollevati dalle proprie ferite, i due protagonisti formano da subito una coppia: Jack, viene catturato da un singolare sguardo di lei, mentre Ally dalla (apparente) caparbietà dell’uomo, che crederà in lei, più di quanto lei stessa abbia mai creduto. “Io ti salverò” è il patto implicito che passa dentro questo folle amore, ma quale potenza misteriosa muove due persone sconosciute a unirsi per iniziare quella peripezia esistenziale complessa quanto avventata com’è la formazione della coppia? Sappiamo che la qualità dell’attaccamento provato con le figure significative sembra influenzare le modalità relazionali della coppia, mentre il sistema familiare di appartenenza funge da cornice in rapporto di sicurezza/protezione (Bolwby, 1982).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM:

A STAR IS BORN – Guarda il trailer del film:

La storia familiare di Jack è costellata da lutti e dipendenze patologiche: si sta in relazione condividendo gli stessi vissuti (di rabbia) e lo stesso bicchiere, come anestesia emotiva che isola dai rapporti affettivi e da un malessere legato alla perdita precoce di una madre morta di parto, all’assenza di un padre smarrito per le vie dell’alcol, mentre un fratello maggiore tenta di ricoprire un ruolo genitoriale frammentario. Ogni forma di dipendenza rappresenta un tentativo palliativo di colmare il senso di vuoto interiore, la paura di rimanere soli, ma soprattutto di mettere a tacere il disagio emotivo legato ad un accudimento disfunzionale avvenuto durante l’infanzia. Queste assenze e mancanze portano a lacune del senso di appartenenza, che Ally riesce dapprima a leggere e poi a scrivere “Tell me something, boy… Aren’t you tired tryin’ to fill that void?”. Quando si ha il cuore a pezzi, come una gruviera, chiediamo al partner di colmare i nostri vuoti, sperando che egli possa finalmente ricoprire un ruolo genitoriale, riparare l’originaria mancanza di affidabilità e possibilità di affidamento.

Di Ally si evince poco della sua storia familiare, sappiamo che è cresciuta con un padre da accudire, anche egli propenso all’uso del vino, ed una madre inesistente. Ally incontrando Jack, si imbatte nel suo alter ego maschile, uno specchio emotivo di sofferenze: si potrebbe parlare di incontro tra due disabilità emotive che, con un forte grado di insicurezza, tentano di arricchirsi affettivamente e reciprocamente. Questo meccanismo spesso funziona, ma la vera complicazione è che due insicurezze a braccetto non fanno un intero. Si corre dunque il rischio che la coppia diventi prettamente assistenziale e, come sosteneva Whitaker, attui una psicoterapia bilaterale, nel senso che all’interno della coppia ognuno fa la psicoterapia all’altro. L’amore viene scambiato come un guadagno, mentre in realtà rappresenta il cedere qualcosa di sé senza pretendere un favore in cambio per tale donazione (Withaker, 1990).

Ally mira al benessere dell’uomo che diverrà suo marito, bypassando quelli che sono i suoi bisogni emotivi, come quello di sapere di essere amata, apprezzata, accettata e compresa, oltre al desiderio di essere l’artista che adopera la canzone quale strumento per toccare l’animo delle persone.

In psicologia sistemica si parla di differenziazione come un equilibrio dinamico tra appartenenza e separazione. La differenziazione del Sé è strettamente relativa a ciò che Bowen definisce la “Posizione Io”, la posizione di adulto. Differenziarsi permette di acquisire tale posizione, diventando un “intero” e non più una “metà”, il contrario della differenziazione è dato dal livello di “Fusione dell’Io”. Quindi avremmo una coppia simbiotica se i partner non hanno sperimentato una propria individualizzazione, il contrario si verifica in caso di relazione basata su una simmetria (Bowen, 1980).

Gli elementi che contribuiscono alla durata di un rapporto sembrano coincidere con il concetto di appartenenza e separazione: la coppia mantiene il legame soprattutto grazie all’intimità, questo sembra provocare una continua ridefinizione nelle specifiche aree di appartenenza ed allo stesso modo spinge alla ricerca di una individuazione personale e quindi separazione, le coppie più solide sembrano essere infatti in grado di distinguere le proprie aree personali di individuazione. (Andolfi, 1999)

Tra Jack e Ally riscontriamo una coppia bilanciata o il vincolo tra due mezze unità?

L’inconscio di Jack lo porta a cogliere la loro specularità: egli, notando la trasformazione dell’amata, che da madre e psicoterapeuta diviene la semplice Ally, la penalizzerà per questo suo cambiamento di posizione attraverso l’umiliazione e l’aumento di una tossicità che porterà Jack all’estremo gesto. In questi termini il suicidio rappresenta non solo l’atto finale di un calamità emotiva, ma piuttosto di una dissociazione dalla realtà che non lo ha condotto alla costruzione dell’amore verso se stessi … e si sa che, per amare l’altro, bisogna aver creato una solida relazione con se stessi: solo iniziando ad amarsi, si può scegliere di amare ciò che piace! Di questo Jack si è punito, ovvero di non essersi innamorato di sé e conseguentemente di Ally in maniera autentica: probabilmente la donna gli ha garantito la sopravvivenza, ma non l’esistenza.

Prima di morire, Jack le lascerà una canzone inedita quale perdono delle sofferenze procuratele e la non rinuncia all’amore che deve continuare oltre la morte. Infatti, Ally renderà famosa la canzone con lo scopo di divulgare l’amore vero quanto la consapevolezza che, per essere felici, bisogna perdonare, saper lasciare e disinnescare le bombe emotive.

E’ mancata un relazione autentica, ma non il sentimento puro e vero, regia di una vita in bianco e nero. Ma l’amore non è sufficiente per definire la funzionalità di una relazione: i rapporti che funzionano sono quelli in cui vi è una simmetria e una parità di impegni e di responsabilità, per cui l’affidarsi è alla base! È un gioco di inconsapevolezze ed insicurezze dove poter aggiungere benessere al proprio stato di pace interiore, lo stesso che si è in grado di produrre da sé e per sé.

Resta l’amarezza del “No I’ll never love Don’t want to feel another touch…Don’t want to start another fire…Don’t want to know another kiss…No other name falling off my lips…Don’t want to give my heart away to another stranger”, perché rinunciare ad amare e dunque all’amore è come togliere la luce ad un cielo stellato: ne resterebbe solo il tenebre pallore.

 

A STAR IS BORN – Il brano “I’ll never love again”:

 

 

Manuale di intervento sul trauma (2019) di A. Montano e R. Borzì – Recensione del libro

Manuale di intervento sul trauma offre una panoramica completa, ma chiara ed essenziale, sul trauma e le sue implicazioni; guida il lettore in un percorso che prende in esame dati empirici e concettualizzazioni teoriche, ma allo stesso tempo che permette di identificare i materiali e le risorse utilizzabili nel lavoro clinico.

 

Nel corso della storia dell’umanità, pochi concetti sono stati al centro della riflessione clinica, ma anche esistenziale, come quello di trauma. Nel linguaggio comune, si parla di trauma come di un’esperienza opprimente, soverchiante, in grado di alterare la vita dell’individuo, uno spartiacque che separa nettamente un «prima» da un «dopo». Anche se di trauma si è parlato per millenni in tutte le culture del mondo, negli ultimi trent’anni si è assistito a un proliferare di studi empirici, di concettualizzazioni teoriche e di modelli di intervento che hanno accresciuto in modo esponenziale la nostra comprensione del ruolo del trauma nell’eziologia di una varietà di disturbi fisici e psicologici.

Il libro Manuale di intervento sul trauma di Antonella Montano e Roberta Borzì offre una panoramica completa, ma al tempo stesso chiara ed essenziale, di questi sviluppi, guidando il lettore in un percorso che – subito dopo una bella prefazione di Isabel Fernandez – comincia con l’inquadramento del trauma come ferita, la differenziazione tra i vari tipi di trauma e le differenti concettualizzazioni teoriche.

Prosegue quindi con il passare in rassegna, nel cap. 2, i disturbi del cosiddetto spettro post traumatico e le relative classificazioni diagnostiche. Il capitolo 3 illustra con chiarezza lo stato dell’arte attuale riguardante la neurobiologia del disturbo post traumatico, mentre il capitolo 4 – e questo costituisce senz’altro un elemento di grande originalità del volume – è invece dedicato agli individui Lesbian Gay and Bisexual  (LGB) sopravvissuti a esperienze traumatiche, una popolazione a lungo esclusa o non adeguatamente riconosciuta dalla clinica e dalla ricerca sul trauma. Il capitolo 5 passa in rassegna tutti i principali strumenti per la valutazione del paziente traumatizzato, mentre i capitoli 6, 7, e 8 portano avanti una dettagliata esplorazione delle conseguenze del trauma a livello fisico, della personalità, della sessualità, dell’umore e dei comportamenti di abuso e dipendenza. Il capitolo 9 spiega cosa si intenda per guarire da un trauma e in che cosa consista il lavoro con quelle che vengono individuate come le risorse del paziente traumatizzato. Infine, gli ultimi tre capitoli, riassumono gli approcci terapeutici, considerati particolarmente attuali, denominati top-down (dal piano cognitivo al piano fisico) e bottom-up (dal piano fisico al piano cognitivo), aggiungendo anche la descrizione degli interventi supplementari di educazione sul trauma e di gruppi di auto-mutuo aiuto, come il Forum de Il Vaso di Pandora o La Speranza dopo il Trauma (presso l’Istituto Beck).

La ricchezza di esempi, i dati empirici e materiali e le risorse utilizzabili nel lavoro clinico con i pazienti rendono questo libro un supporto davvero prezioso per tutti i professionisti della salute mentale che si trovano a lavorare con persone traumatizzate.

 

 

Bambini e metacognizione: sintomi, metacredenze e attention control in presenza o assenza di disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia sono fra i disturbi più comuni nei bambini e negli adolescenti, con una prevalenza stimata tra il 3 e il 20% (Costello et al., 2005); sono associati a numerosi problemi di sviluppo, psicosociali e psicopatologici come un cattivo rendimento scolastico e difficoltà con il gruppo di pari (Beesdo, Knappe & Pine, 2009). Inoltre, tendenze ansiose in giovane età possono predire lo sviluppo di patologie psichiatriche in età adulta (Bittner et al., 2007).

 

Le teorie cognitive sullo sviluppo dei disturbi d’ansia ipotizzano che l’individuo interpreti e processi le informazioni recepite dall’ambiente in maniera errata, associandole a emozioni ed eventi negativi (Beck et al., 1985). I modelli più recenti invece, come il modello metacognitivo, individuano nei processi automatici e riflessivi il cuore dei disturbi ansiosi. Nella teoria proposta da Wells & Matthews (1994), vi sono diversi fattori che influiscono sui bias tipici di questo genere di disturbi, tra i quali troviamo le credenze metacognitive (positive e negative), le strategie utilizzate dall’individuo per autoregolare le proprie emozioni e l’attention control (letteralmente controllo dell’attenzione), ovvero la capacità di inibire una risposta automatica dominante a favore di una meno accessibile ma presumibilmente più funzionale (Derryberry & Reed, 2002).

L’importanza dei processi attentivi e delle strategie di autoregolazione, viene esplicata nel Self-Regulatory Executive Function model (S-REF; Wells & Matthews, 1994), modello di riferimento della teoria e della terapia metacognitiva, all’interno del quale i disturbi psicologici sono associati allo stile di pensiero definito cognitive attentional syndrome (CAS). Il CAS rappresenta un pensiero caratterizzato da rimuginio, ruminazione e preoccupazione che fanno sì che il soggetto adotti strategie di coping maladattive per gestire le proprie sensazioni e i propri pensieri (Wells, 2009).

Diversi studi (Spada et al., 2010; Fernie et al., 2016) hanno confermato l’influenza dei processi attentivi e delle credenze metacognitive disadattive nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi d’ansia e depressivi negli adulti e l’obiettivo dello studio qui riportato, era quello di indagare il ruolo di questi processi in bambini e adolescenti con questi disturbi (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

La ricerca cross-sectional condotta dagli autori ha preso in considerazione 351 bambini (169 bambini con diagnosi di disturbo d’ansia come gruppo sperimentale e 182 bambini come gruppo di controllo) tra i 7 e i 14 anni.

A tutti i partecipanti sono stati somministrati il Revised Child Anxiety and Depression Scale – Child version (RCADS) per misurare i sintomi ansiosi e depressivi, l’Attentional Control Scale for Children (ACS-C) per avere una misura dell’attention control e il Metacognitions Questionnaire for Children (MCQ-C30) per indagare le credenze metacognitive positive e negative.

I risultati hanno mostrato che il gruppo sperimentale riportava un numero elevato di credenze metacognitive disfunzionali e punteggi più bassi di attention control rispetto al gruppo di controllo. In entrambi i gruppi, è stata individuata una correlazione positiva tra gravità dei sintomi e numero di credenze metacognitive disadattive, in particolar modo con le credenze positive sull’utilità della preoccupazione (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

In conclusione, nonostante i limiti dello studio come la mancanza di dati sul rapporto di causalità tra le variabili e la predominanza di un solo disturbo nel campione (Disturbo d’Ansia Generalizzata), i risultati suggeriscono che il modello metacognitivo potrebbe essere utilizzato per concettualizzare le caratteristiche psicologiche e i fattori del mantenimento della patologia in bambini e adolescenti con disturbi dello spettro ansioso o depressivo (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

 

Teoria Polivagale e Psicoterapia, ristabilire il ritmo della regolazione – Report dal workshop con Deb Dana

Nel corso di due giornate, Deb Dana mostra i risvolti applicativi della Teoria Polivagale in ambito psicoterapeutico, arricchendo l’evento formativo con numerosi esempi di osservazione e comprensione del proprio SNC e dimostrazioni di attività terapeutiche volte a un rimodellamento funzionale dello stesso.

 

 ISC International ha organizzato nelle giornate del 30 novembre e 1 dicembre a Milano un workshop condotto da Deb Dana, consulente specializzata nel lavoro sul trauma complesso di fama mondiale. È suo il merito di aver trasformato una teoria fondata sulla neurobiologia in una pratica clinica di riconosciuta efficacia.

In linea con le aspettative, Deb Dana dedica le due intere giornate formative ad illustrarci le ricadute applicative in ambito psicoterapeutico della Teoria Polivagale di Stephen Porges. Lo scopo formativo è quello di rendere applicabile, all’interno di una pratica clinica integrata, gli importanti contributi teorici della teoria di Porges, in cui riveste un ruolo fondamentale il Sistema Nervoso Autonomo, che, in caso di emozioni negative persistenti e disregolate, reagisce con stati di attivazione o difesa cronici producendo danni psicobiologici che incidono sulla salute mentale della persona.

È infatti il SNA, spiega Dana, ad occuparsi della segnalazione della presenza o assenza di una minaccia e lo fa attraverso tre stati autonomici al servizio della nostra sopravvivenza: lo stato ventro-vagale, lo stato simpatico e lo stato dorso-vagale.

Lo stato ventro-vagale permette la calma in assenza di minaccia, è lo stato della sicurezza che consente l’ingaggio sociale. Lo stato simpatico interviene invece al primo segnale di pericolo attivando una reazione di attacco o fuga che ci spinge quindi al movimento per ritrovare la via verso la riconquista di uno stato sicuro e sociale. Quando però il pericolo è estremo la risposta risiede nello stato dorso-vagale, una condizione protettiva di collasso che ci fa sentire congelati, assenti.

Il benessere psicofisico della persona prevede che queste tre componenti del SNA lavorino insieme, per questo motivo diventa importante accompagnare il paziente a familiarizzare con il proprio sistema per verificare le proprie personali risposte e il ruolo che esse hanno nel mantenimento del disagio psicologico.

Deb Dana invita in più momenti il pubblico a salire sul palco per dimostrare come si possa aiutare una persona a monitorare le sfumature della propria neurocezione per elevare la comprensione delle proprie esperienze. Quando il paziente riesce a identificare in modo prevedibile il proprio stato, si riduce infatti la sensazione di trovarsi fuori controllo; tale mappatura permette inoltre di interrompere l’automaticità determinata dalla storia di vita e consente di esercitare la capacità di separare lo stato dalla storia.

Altro concetto chiave della Teoria Polivagale, protagonista di questo evento formativo, è sicuramente quello della coregolazione, in virtù delle importanti ricadute nella pratica clinica. Se è vero che veniamo al mondo programmati per entrare in connessione con l’altro, la mancanza di opportunità di coregolazione durante l’infanzia costituisce un trauma che rende la coregolazione stessa pericolosa e interrompe quindi lo sviluppo di capacità coregolatorie, requisito indispensabile per sperimentare la sicurezza. A questo punto il SNA può rispondere con la mobilitazione tipica del simpatico (arrabbiandosi, lottando per l’attenzione) o con lo spegnimento tipico del dorso-vagale (silenzio, distanza, isolamento). Il sistema nervoso dei pazienti è quindi modellato più spesso in pattern di protezione che di connessione.

Deb Dana ci invita quindi a riflettere sull’importanza che ogni terapeuta si interroghi e sappia agire con consapevolezza sul proprio stato autonomico, perché solo attraverso l’offerta al paziente di segnali di sicurezza garantiti dal nostro stato ventro-vagale possiamo invitarlo alla connessione con noi: sono esperienze come queste a permettere ai pazienti di costruire nuovi pattern autonomici verso la scrittura di una storia diversa, più funzionale al benessere.

In estrema sintesi una psicoterapia basata sulla teoria Polivagale dovrebbe seguire quindi quelle che Dana chiama “le quattro R”:

  • Riconoscimento degli stati autonomici
  • Rispetto delle risposte di sopravvivenza adattiva
  • Regolazione/co-regolazione ventro-vagale
  • Riscrittura della propria storia autonomica

Il cambiamento del paziente è dunque possibile solo quando il suo sistema presenterà una regolazione ventro-vagale, l’unico compatibile con la sicurezza e quindi con la guarigione.

Infine la relatrice aggiunge, ai numerosi esempi di osservazione e comprensione del proprio SNC, dimostrazioni di attività terapeutiche volte ad un rimodellamento funzionale dello stesso, come per esempio quelle centrate sulla respirazione, il movimento o la prossimità. Si tratta di spunti interessantissimi che forse spingono al desiderio di una maggiore conoscenza di se stessi, del proprio modo di funzionare a livello di SNC prima ancora che all’ambizione di poterli introdurre con sicurezza all’interno della propria pratica clinica.

Un workshop molto interessante, che ha sicuramente offerto ai professionisti presenti nuove prospettive nell’ambito degli interventi terapeutici rivolti in particolar modo al trauma e agli stati di sofferenza da esso derivanti, non tradendo le aspettative legate alla grande fama di Deb Dana.

La sicurezza è il trattamento. (Porges)

Disturbi alimentari della sfera maschile: una riflessione storica su pregiudizi e stereotipi di genere

I disturbi del comportamento alimentare sono considerati ancora oggi patologie tipicamente femminili, tuttavia le prime descrizioni di questi disturbi riguardavano uomini.

 

Introduzione

I disturbi del comportamento alimentare sono stati considerati per lungo tempo patologie prevalentemente femminili, sia dall’opinione pubblica, che ancora oggi li reputa ‘malattie da femmine’, sia dalla ricerca psicologica, come testimoniato dall’enorme asimmetria di genere che si può trovare all’interno della ricerca scientifica e dal fatto che la maggior parte dei protocolli clinici e diagnostici siano standardizzati sulla popolazione femminile. Si consideri che solo con il DSM-5 (2012) è stato eliminato il criterio diagnostico di amenorrea (la mancanza del ciclo mestruale per almeno 3 cicli consecutivi) dell’anoressia nervosa, una variabile altamente genere-specifica che non aveva riscontro in altre patologie psichiatriche e che, per forza di cose, portava a limiti diagnostici con i pazienti di sesso maschile. Un pregiudizio, quello del ‘femminocentrismo’ dei disturbi alimentari, che ancora oggi resiste, come testimoniato dai target delle campagne di sensibilizzazione e dei servizi per la salute mentale.

Tuttavia negli ultimi anni si assiste a un crescente interesse verso i disturbi alimentari della sfera maschile, quasi a testimoniare un aumento delle suddette patologie e una deviazione dalla loro normale espressione clinica. In realtà, quasi paradossalmente, le prime descrizioni storiche del comportamento alimentare patologico riguardavano nello specifico individui di sesso maschile.

Le prime testimonianze

La più antica descrizione di quella che presumibilmente era anoressia risale all’XI secolo a.C. ad opera del medico persiano Avicenna, dove viene descritto il trattamento di un giovane principe che aveva smesso di alimentarsi in assenza di cause organiche (Balottin et al. 2003). Un altro esempio proveniente dalla storia antica, che sembra rimandare a comportamenti alimentari patologici che coinvolgono persone di sesso maschile, è quello descritto da Senofonte nell’Anabasi (429-354 a.C.):

L’indomani, per l’intera giornata, marciarono nella neve e molti caddero in preda alla bulimia. Senofonte, che era in retroguardia, si imbatteva nella gente crollata a terra, ma non riusciva a capire la causa del loro male. Poi un soldato, esperto di cose del genere, gli disse che erano chiari segni di bulimia.

Lo storico ateniese, con il termine bulimia (letteralmente fame da bue), descrive una condizione di fame estrema accompagnata da malessere, uno stato più simile al binge eating piuttosto che alla bulimia patologica vera e propria.

Si è parlato molto di ‘Sante Anoressiche’, donne religiose che dal decimo secolo in avanti divennero note per i lunghi digiuni a carattere mistico a cui si sottoponevano, come Santa Caterina da Siena e Beata Angela di Foligno, vicende che sono state interpretate come antesignani delle attuali forme di anoressia restrittiva. Meno conosciuta è la controparte maschile di tali comportamenti: i Padri del deserto, monaci anacoreti, che si narra trascorressero anni in condizioni di enormi restrizioni di cibo e acqua con la finalità di rinunciare ai desideri del corpo.

Leggendo queste testimonianze è necessario tenere conto che la nozione di patologia riferita a un fenomeno psicologico dipende sempre dal contesto storico e culturale, ma è comunque interessante vedere come tali condotte abbiano coinvolto l’interesse degli osservatori di quell’epoca.

Artisti della fame

Al fine di comprendere meglio il fenomeno delle condotte alimentari patologiche nei maschi, si considerino altri esempi, questa volta provenienti dal mondo della letteratura in epoca più moderna:

Poteva digiunare quanto voleva … ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea.

Questo breve estratto è tratto dal racconto Un digiunatore di Franz Kafka (1922), dove viene narrata la vita di un uomo che esprime il digiuno estremo come forma d’arte, seppur nascondendo gravi conflitti interiori. La vicenda narrata dallo scrittore boemo è storicamente accurata, in quanto effettivamente, dalla fine del XIX secolo fino agli anni 30, gli ‘artisti della fame’ erano soliti esibirsi in spettacolari digiuni prolungati mettendo in mostra i propri corpi scheletrici. Inoltre secondo alcuni autori le vicende narrate nel racconto sono in parte biografiche, probabilmente lo stesso Kafka ha sofferto di una forma di anoressia nervosa atipica, come testimoniato dall’ossessione per il corpo del digiunatore e la particolare capacità dell’autore di descriverne la personalità:

‘Perché io sono costretto a digiunare’ disse il digiunatore…’perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri’ Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba, convinzione di continuare a digiunare.

Un altro grande autore che in tempi recenti è stato ‘diagnosticato’ come portatore di un disturbo alimentare è Lord Byron. Sembra infatti che il poeta inglese fosse ossessionato dall’apparire magro:

Oggi per la prima volta da sei giorni ho mangiato normalmente anziché prendere i miei sei biscotti con il tè. Come vorrei non averlo fatto! Un po’ di vino e di pesce e ora la pesantezza, gli incubi e il torpore mi stanno uccidendo. Non sarò schiavo del mio appetito.

Jeremy Hugh Baron e Arthur Crisp (2003) hanno analizzato il carteggio del poeta concludendo che quest’ultimo ha probabilmente sofferto per almeno metà della sua breve vita di un disturbo alimentare (morì all’età di 36 anni), alternando periodi di anoressia e bulimia. Per quanto riguarda il caso di Lord Byron è interessante notare come abbia alcuni aspetti in comune con i dati epidemiologici provenienti dalla ricerca moderna sui disturbi alimentari nei maschi, come ad esempio l’esordio tardivo e la presenza di obesità pre-morbosa. Lord Byron, secondo le testimonianze dell’epoca, era un bambino ‘grassottello’ che, raggiunta la maggiore età, ha iniziato a essere insoddisfatto del suo corpo e a dimagrire molto velocemente:

Ho perso otto chili negli ultimi tempi usando ogni mezzo, mi vedo troppo grasso. Vorrei pesare 76 chili, poi smetterò di digiunare e fare esercizio.

I primi pazienti furono maschi

Il termine anoressia nervosa è stato per la prima volta usato nel 1870 da William Gull a Londra, tuttavia è possibile trovare descrizioni di tale patologia nella letteratura medica precedente e vi sono interessanti casi che riguardano proprio pazienti maschi. Quella che per molti è la prima descrizione medica dell’anoressia risale al 1689 ad opera del medico inglese Richard Morton e riguardava un ragazzo di 16 anni che:

[…] cadde gradualmente in una totale mancanza di appetito, provocata dal suo troppo studiare e dalle passioni della sua mente. Arrivò ad un’atrofia universale, struggendosi sempre di più di anno in anno, senza che ci fossero tosse, febbre o altri sintomi […] Ritengo che questa consunzione sia di natura nervosa pur coinvolgendo l’intero corpo.

75 anni dopo un altro medico britannico, Robert Whytt (1764), riprendendo il lavoro di Morton, descrisse il caso di un altro ragazzo questa volta di quattordici anni:

Un ragazzo di costituzione sottile e delicata, di vivace sentimento, il cui polso in salute batteva oltre 70 e 80 volte al minuto. Nel giugno 1757, è stato osservato di umore deflesso e pensieroso, con perdita dell’appetito e cattiva digestione[…] a metà luglio, quando ormai era ridotto a pelle e ossa, il suo polso in posizione orizzontale non superava i 39 battiti. A fine agosto, il suo malessere prendeva una svolta inaspettata: ha cominciato ad avere uno smodato desidero di cibo, che lo costringeva a mangiare ogni due ore per non sentirsi debole […] il suo polso batteva tra i 96 e i 110 battiti. Non ho potuto scoprire né la causa delle prime lamentele del paziente, né della svolta improvvisa e contraria, ma ho pensato che meritasse di essere menzionato come buon esempio di consunzione nervosa.

Un altro esempio degno di attenzione è quello pubblicato nel 1790 da Robert Willan, con il titolo Uno straordinario caso di astinenza, in cui l’autore descrive il lungo digiuno di un giovane uomo in inglese e il suo tragico epilogo con la morte:

Un giovane uomo dalla mente studiosa e malinconica, ha sviluppato diverse volte sintomi di indigestione negli anni 1784 e 1785. Il 21 gennaio del 1786, ha intrapreso un severo percorso di astinenza presumibilmente nella speranza di alleviare le sue spiacevoli lamentele. […] Si ritirò improvvisamente dagli affari, lasciando la società dei suoi amici, e prese alloggio in una strada isolata dove attuò il suo piano, che consisteva nell’astenersi da qualsiasi cibo solido e ogni tanto inumidirsi le labbra con acqua aromatizzata all’arancia.

Nel marzo del 1786 il medico visitò il paziente e rivelò quanto segue:

Era in quel momento emaciato in modo sorprendente, con i muscoli del viso completamente rimpiccioliti e con gli zigomi pronunciati, offrendo un’apparenza più che orribile. Il suo addome era concavo e l’ombelico ritirato per lo stato di collasso dell’intestino, la pelle e i muscoli addominali si restringevano sotto il bacino. I suoi arti si erano gravemente ridotti. Il suo corpo nel complesso suggeriva l’idea di uno scheletro.

Nei giorni successivi il giovane uomo sviluppò uno smodato desiderio di cibo e mangiò grandi quantità di pane con burro, per poi vomitare. Sembrò in un primo momento migliorare ma, alla fine dello stesso mese, riprese nuovamente a rifiutare il cibo e a diventare cupo e ritirato. Il paziente morì il settantatreesimo giorno di digiuno.

Problemi diagnostici

Le descrizioni in passato, seppur sporadiche, di disturbi alimentari della sfera maschile non sono state sufficienti a portare all’attenzione della ricerca psicologica gli uomini come portatori di tali patologie. Si consideri ad esempio che fino agli anni ’60 la teoria psicoanalitica aveva escluso gli uomini dalle riflessioni sulle condotte alimentari patologiche e solo successivamente li aveva considerati come casi ‘atipici’ (Dalla Ragione L. & Scoppetta M., 2009)

L’esclusione degli uomini dalla ricerca sulle condotte alimentari patologiche ha contribuito ad accrescere i pregiudizi di genere su questi disturbi e a escludere la possibilità di cure adeguate per i pazienti maschi. Resta da chiedersi quali siano le ragioni di tale asimmetria di genere e se questa sia effettivamente dovuta a un’incidenza maggiore dei disturbi alimentari nella popolazione femminile. Il fatto che gli uomini possano essere identificati come portatori di una patologia alimentare è da rimandare a molteplici fattori storici, sociali e culturali. Inoltre particolari caratteristiche dell’espressione clinica di tali disturbi renderebbero difficile l’inquadramento diagnostico. Alcune recenti evidenze provenienti dalla ricerca suggeriscono che i disturbi alimentari maschili potrebbero essere sottostimati in quanto:

  • Nei maschi manca un corrispettivo endocrinologico dell’amenorrea (Andersen, 1990); dati recenti supportano l’ipotesi di indagare nei ragazzi la perdita di interesse sessuale o l’abbassamento dei livelli di testosterone.
  • I ragazzi mascherano la restrizione alimentare con motivazioni socialmente accettabili come ad esempio il miglioramento della prestazione sportiva o evitare lo sviluppo di patologie mediche (Grabhorn et al., 2003).
  • L’indice di Massa Corporea (BMI) negli uomini non è un indicatore affidabile della gravità della patologia, in quanto negli uomini anche una condizione di normopeso può celare un disturbo alimentare (Mancini et al., 2018).
  • I maschi sono meno propensi a chiedere aiuto per un disturbo alimentare rispetto alla controparte femminile (Hay et al., 2005) e accedono ai percorsi di cura più tardi e per problematiche psicologiche correlate alla patologia alimentare (depressione, ansia, disturbi ossessivi) (Olivardia, 2007).

Prospettive future

In tempi recenti, come detto in precedenza, si è assistito ad un crescente interesse verso questi quadri clinici, tuttavia la diagnosi di disturbo alimentare nel maschio rimane tutt’oggi complicata: medici e psicologi tendono ancora ad associare i sintomi ad altre patologie, inoltre gli strumenti diagnostici non sono ancora adeguati all’inquadramento dei maschi portatori di disturbi alimentari. Di conseguenza, l’incidenza rimane sottostimata e i pazienti accedono a percorsi di cura adeguati con molto ritardo, accentuando la gravità della sintomatologia e i rischi ad essa connessi. In conclusione si evidenzia l’importanza di approfondire la comprensione dei disturbi alimentari nella popolazione maschile al fine di promuovere la messa a punto di strumenti diagnostici e percorsi terapeutici che tengano conto della prospettiva di genere.

 

Edward Lee Thorndike e il condizionamento strumentale – Introduzione alla Psicologia

Edward Lee Thorndike è uno psicologo statunitense nato a Williamsburg nel Massachusetts il 31 agosto 1874 e morto a Montrose, New York,  il 9 agosto 1949. Inizialmente insegnò psicologia alla Columbia University di New York, e in seguito diresse il dipartimento di psicologia dell’Institute of Educational Research.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Edward Lee Thorndike durante la prima guerra mondiale divenne presidente del comitato per la selezione dei soldati dell’esercito americano e successivamente presidente dell’associazione americana di psicologia e dell’accademia delle scienze.

I suoi principali interessi scientifici furono l’apprendimento e i processi a esso correlati.

Per questo intraprese diversi studi per comprendere al meglio come avvenissero questi meccanismi ma non focalizzandosi sull’introspezione, interesse condiviso in quel periodo, ma osservando il comportamento manifesto, derivante dall’interazione tra stimolo e risposta. Quindi, non era più importante comprendere tutto ciò che si verificava nel mezzo, ma solo ciò che si mostrava tra il prima e il dopo.

Alla base dell’apprendimento secondo Thorndike vi è l’associazione tra le impressioni sensoriali e gli impulsi all’azione. Tale relazione divenne nota col nome di connessione. Infatti, sono proprio queste connessioni che si rafforzano o si indeboliscono nella formazione o nell’estinzione di abitudini comuni. Di conseguenza la teoria di Thorndike fu definita connessionismo.

Le connessioni però, derivano dalla messa in atto di un processo di apprendimento. Così, partendo dalle teorie vigenti all’epoca sul condizionamento classico decise di approfondire l’effetto che le ricompense potevano avere sul processo di apprendimento stesso.

Il condizionamento strumentale

Fin dai primi esperimenti Thorndike si concentrò sulle situazioni rinforzanti e sul processo di apprendimento.

Nel suo più famoso esperimento osservò il comportamento di un gatto famelico rinchiuso all’interno di una gabbia (problem box), al di fuori della quale era posto del cibo. La gabbia era fornita di un meccanismo tramite il quale era possibile aprirla dall’interno.

Il gatto all’interno della gabbia cercava ripetutamente la maniera di uscire per poter raggiungere il cibo. In questo modo, si realizzavano diversi movimenti alla cieca, che portavano all’ottenimento casuale di diverse risposte giuste e sbagliate. I comportamenti provati dal gatto erano diversi, come graffiare, mordere, girare, ma alla fine riusciva ad uscire e a raggiungere il cibo solo premendo la leva/ da cui otteneva una risposta corretta. Thorndike notò, inoltre, che le risposte non corrette tendevano ad essere abbandonate; viceversa quelle corrette ad essere ripetute.

Il gatto, dunque, dopo diversi tentavi ed errori riusciva ad aprire la gabbia, e quando era rinchiuso nuovamente nella gabbia il tempo che impiegava per uscire diminuiva drasticamente.

Quindi, l’animale, dopo diversi tentativi, imparava correttamente ad azionare il meccanismo che consentiva di aprire la gabbia e ottenere il cibo.

Thorndike da questi risultati inferì che l’apprendimento avviene gradualmente per tentativi ed errori, che in un secondo momento portano al consolidamento del comportamento opportunamente rinforzato tramite delle ricompense. Tale assunto prenderà il nome di legge dell’effetto e dell’esercizio.

Gli studi di Thorndike, si differenziavano dal quelli sul condizionamento classico di Pavlov poiché la risposta prodotta dall’animale è un’azione che l’organismo compie sull’ambiente in merito a uno scopo.

Tale condizionamento fu definito da Thorndike strumentale.

Thorndike dai suoi esperimenti evinse tre leggi di apprendimento fondamentali:

  • la Legge dell’esercizio: l’apprendimento migliora grazie alla ripetizione delle prove. Comportamenti realizzati più di frequente hanno maggiori probabilità di essere impiegati in condizioni simili.
  • la Legge dell’effetto: l’apprendimento dipende dalle conseguenze del comportamento, per questo azioni seguite da rinforzo negativo tendono a estinguersi, mentre se seguite da rinforzo positivo saranno ripetute.
  • la Legge del trasferimento o generalizzazione: un comportamento acquisito in una data situazione tende ad essere riutilizzato in situazioni analoghe.

Oltre al campo dell’apprendimento Thorndike si dedicò alle abilità umane, in particolare si concentrò sull’intelligenza e sull’apprendimento verbale. Infatti, sviluppò dei test per misurare le capacità intellettuali dell’individuo come il CAV, costituito da item di completamento di frasi, di aritmetica, di comprensione e di ragionamento.

Ad oggi Thorndike è considerato uno dei più influenti psicologici contemporanei, inoltre è stato istituito un premio in suo onore dall’America Psychologial Association consegnato ai ricercatori più brillanti nel campo della psicologia educativa.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

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