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Vivere con i robot (2019) di Paul Dumouchel e Luisa Damiano – Recensione del libro

La creazione di robot che interagiscono alla pari con gli umani fa parte di un settore emergente dell’intelligenza artificiale: la robotica sociale. Paul Dumouchel e Luisa Damiano propongono nel saggio Vivere con i robot spunti di riflessione sull’interazione uomo-robot.

 

La robotica sociale

La robotica sociale si occupa della creazione di robot che si sostituiscono a umani o animali senza prenderne il posto, ma solo in determinati momenti e circostanze particolari. Con la parola sociale si vuol proprio enfatizzare l’aspetto relazionale: questi robot sono pensati per interagire alla pari con le persone in un sistema cooperativo e funzionale allo svolgimento di specifici compiti, in particolare nei servizi di assistenza a persone con bisogni speciali. Si tratta per esempio di prendersi cura a domicilio di persone anziane che hanno perso l’autonomia, mantenendole in contatto con parenti e team di medici; oppure di caregiver artificiali che si prendono cura di bambini in assenza dei genitori o, ancora, di animali da compagnia (come Paro, il cucciolo di foca robotico che, al pari di qualsiasi cucciolo di animale domestico, si fa accarezzare, risponde al richiamo, fa versi e in breve non ha alcuna funzione specifica se non quella di sostituire animali da compagnia in ospedali e case di riposo).

Uno dei campi applicativi più significativi è quello della mediazione terapeutica con bambini con bisogni speciali, in particolare bambini autistici, per i quali è fondamentale acquisire alcune competenze come comprendere le emozioni altrui e reagire in modo appropriato, ma anche riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, giocare rispettando il ruolo e il turno di ciascuno, imitare gli altri o imparare a cooperare. Negli anni Ottanta ha preso il via un importante progetto di ricerca sui cosiddetti giocattoli robotici terapeutici, robot creati per incoraggiare ed educare i bambini autistici all’interazione con gli altri, progetto che nel 2005 ha portato alla creazione di Kaspar. Kaspar è progettato per facilitare le interazioni tra bambini autistici e loro interlocutori – non solo altri bambini, con bisogni speciali o meno, ma anche terapisti, insegnanti e genitori, e come strumento terapeutico ed educativo volto a stimolare lo sviluppo delle competenze sociali di questi bambini. L’obiettivo a cui intende contribuire Kaspar è quello di supportare i bambini autistici nell’acquisizione e nel potenziamento di abilità sociali che per loro risultano problematiche.

Una relazione efficace: emozioni, zona perturbante ed etica dei robot

I robot sociali quindi entrano in relazione con i loro interlocutori umani. Cosa può rendere queste interazioni efficaci e convincenti, positive e durature? Come possono essere accettati come pari? Come può crearsi una forma di empatia? Non dimentichiamo che sono agenti artificiali che devono rapportarsi a persone con bisogni speciali, con delle difficoltà in una o più aree di funzionamento e, anzi, hanno lo scopo di favorire l’acquisizione di maggiori competenze proprio in quel dominio carente. L’aspetto e l’espressività dei robot sono punti fondamentali su cui gli Autori di Vivere con i robot si aprono a molte riflessioni. Allo stato attuale abbiamo due filoni di ricerca e applicativi, la robotica esterna e quella interna. La prima si occupa dell’espressione esteriore delle emozioni (pensiamo all’arrossire, al sorridere per esempio), mentre la seconda della produzione e regolazione fisiologica e psicologica delle emozioni. Questa suddivisione ha un risvolto applicativo: la robotica esterna si focalizza sullo sviluppo di robot antropomorfici che elicitino reazioni emozionali ed empatiche negli umani, il secondo approccio studia la creazione di una forma artificiale di regolazione affettiva che imiti quanto più possibile quella umana o animale.

Ma c’è la linea di demarcazione tra somiglianza e inquietudine che i ricercatori devono tener ben presente: è la cosiddetta zona perturbante, la uncanny valley, teorizzata negli anni Cinquanta da Masahiro Mori. Secondo questa ipotesi (che non è mai stata dimostrata scientificamente anche se da oltre quaranta anni è ritenuta valida dai ricercatori del settore) più i robot somigliano agli umani più è facile e confortevole interagire con loro, ma solo fino al raggiungimento di un certo grado di similarità, superato il quale il senso di familiarità si trasforma in inquietudine, disagio e ansia.

Gli Autori di Vivere con i robot si soffermano anche sull’aspetto etico: i robot sociali si trovano ad interagire con umani in situazioni che possono essere ambigue o incerte e devono operare delle scelte. Dotare i robot di moduli etici che ne vincolino le capacità di azione entro certe regole morali non deve sottrarci al rischio di riservargli un certo margine di azione e autonomia, pur entro limiti accettabili.

Noi e l’altro: la sfida della robotica sociale

La robotica sociale ci sfida all’esplorazione delle componenti messe in gioco nelle relazioni e nella socialità. Gli agenti artificiali dovranno essere sempre più autonomi nella coordinazione affettiva tra partner sociali che siano adulti, bambini, anziani o altri agenti artificiali, sia nel coordinare le azioni in funzione di un compito particolare sia nel coordinarsi reciprocamente nelle interazioni in funzione dell’altro.

Vivere con i robot di Dumouchel e Damiano è una acuta riflessione e analisi di teoria e pratica della robotica sociale: che svolgano la funzione di assistenti, facilitatori, educatori, i robot ci sostituiranno e affiancheranno sempre più spesso come partner sociali artificiali.

 

L’occhio umano coglie la fertilità nella donna che osserva: uno studio sui movimenti di esplorazione oculare

Per l’evoluzione di innumerevoli specie, tra le quali la nostra, è stata fondamentale la capacità di cogliere gli indizi di fertilità, che massimizzasse la probabilità che un corteggiamento e, auspicabilmente, l’accoppiamento, risultassero nel concepimento.

 

Tali indizi si presentano in una gamma estremamente variabile, a partire dallo sviluppo dei caratteri fisici che indicano l’inizio dell’età fertile (e.g. i caratteri sessuali secondari nell’uomo) e segnalano il dimorfismo sessuale, a quelli che segnalano il periodo di fertilità nei diversi momenti del ciclo mestruale o estrale, per segnalare ai potenziali partner il periodo di massima recettività sessuale.

Svariati studi hanno riscontrato come nella femmina umana le diverse fasi fertili siano accompagnate da sottili variazioni nell’aspetto estetico, da attribuirsi alle oscillazioni nei livelli di estradiolo e progesterone: le donne al picco della propria fase ovulatoria vengono in media giudicate come più attraenti (Roberts et al., 2004; Samson et al., 2011; Bobst and Lobmaier, 2012), sono riscontrabili cambiamenti nella forma del volto (Bobst and Lobmaier, 2012; Lobmaier et al., 2016; Oberzaucher et al., 2015), nella pigmentazione della pelle (Burriss et al., 2015; Jones et al., 2015) e nella simmetria dei tessuti adiposi (Manning et al., 1996; Scutt e Manning, 1996). Tuttavia, sebbene l’esistenza di tali variazioni sia appurata, alcune di esse possono essere troppo fini per venire percepite coscientemente da colui che osserva (e.g. la tonalità dell’incarnato), sebbene rimangano evidenze a sostegno del fatto che esse vengano computate ad un livello implicito, da ultimo influenzando gli atteggiamenti e comportamenti degli individui con i quali le donne vengono in contatto: ad esempio uno studio di Bobst e Lobmeier (2012) ha dimostrato come gli uomini tendano a sovrastimare le probabilità di ottenere un appuntamento con una donna nel picco fertile del proprio ciclo (Bobst and Lobmeier, 2012), oppure che le donne dimostrano in media una reazione di gelosia maggiore quando la pretendente al proprio partner si trova nella fase di fertilità, rispetto ad altri momenti del ciclo ovulatorio (Hurst et al., 2017).

Due possibilità sono state vagliate nel rendere ragione di queste differenze: da un lato l’ipotesi è che le persone processino le informazioni visive in entrata come di consueto e che i mutamenti che sono indizio della fertilità del soggetto abbiano un impatto soltanto a posteriori sul processo valutativo; alternativamente, è possibile che le differenze nelle caratteristiche estetiche influenzino le fasi precoci di scanning del volto condizionando il modo in cui tale esplorazione avviene o il tempo dedicato ad ogni fase perlustrativa. Un recente studio condotto da Necka e colleghi (2018) sembra portare indizi a sostegno della seconda ipotesi, rilevando come i soggetti si dimostrassero maggiormente disponibili verso altre donne nella fase più fertile del ciclo, basandosi sulla brevissima apparizione nel campo visivo (presentazione tachistoscopica di soli 500ms) dell’immagine dell’altra donna, supportando l’idea che le differenze assumano rilevanza già nelle fasi precoci di processing del viso.

Sempre Necka e colleghi hanno di recente condotto uno studio volto a comprendere come si modifichino i pattern di perlustrazione rivolta ai volti femminili (o scanpath) nelle varie fasi del loro ciclo mestruale, partendo dal presupposto che tali pattern, più che il tempo effettivo speso sui singoli elementi che lo compongono, rendono conto dell’accuratezza nel riconoscere volti già noti (Chuck et al., 2014).

Gli autori hanno analizzato i pattern di esplorazione di volti da parte di 54 soggetti di età compresa tra i 18 e i 23 anni, ai quali fossero state fornite istruzioni per lo svolgimento di un compito che celasse il vero intento degli sperimentatori e lo scopo dello studio; gli stimoli utilizzati, presentati ai partecipanti su di uno schermo per 1600ms, raffiguravano i visi con espressioni neutrali di 19 donne in differenti fasi del ciclo: da un lato i soggetti rappresentati si trovavano in tarda fase follicolare, ovvero nel momento più fertile (confermato dal rapporto tra estradiolo e progesterone misurato da un tampone salivare), in seguito la stessa donna veniva ritratta in una seconda immagine in fase luteinica mediana, corrispondente alla fase meno fertile del ciclo. Nell’analisi dell’esplorazione dello stimolo, si è deciso di dividere l’immagine presentata in quattro quadranti aventi come intersezione il naso del soggetto in essa raffigurato, definendole come AOI, o aree di interesse, valutando poi il tempo di fissazione dedicato ad ogni quadrante, le saccadi oculari, ovvero i rapidi movimenti di esplorazione devianti da un punto di osservazione e i riflessi di chiusura delle palpebre o blink. I pattern ottenuti sono stati codificati e analizzati da un software con lo scopo di rilevare le differenze eventuali nelle due condizioni dello stimolo: non sono state rilevate differenze significative nella frequenza con la quale ogni partecipante esplorasse ciascun quadrante, né nel tempo effettivo dedicato a tale esplorazione, rendendo irrilevante la fase di fertilità del soggetto. Un’analisi qualitativa dei movimenti oculari ha rivelato come i partecipanti tendessero a osservare la regione labiale molto precocemente nelle donne in fase ovulatoria, rispetto alle controparti in fase meno fertile; inoltre, l’esplorazione dei volti delle donne fertili comprendeva maggiori saccadi oculari su quadranti contigui sull’asse verticale, suggerendo un’attenzione maggiore rivolta alle relazioni di secondo-ordine tra i diversi elementi che compongono il volto umano.

I risultati dimostrano inoltre come i pattern esplorativi rivolti ai volti delle donne in fase fertile fossero meno variabili, tanto da poter essere usati per predire con moderata confidenza se il soggetto raffigurato in un’immagine appartenesse alla categoria fertile o non-fertile.

Le differenze riscontrate nei pattern di esplorazione del volto femminile suggeriscono che gli osservatori involontariamente modulano il proprio metodo di ricognizione visiva, accordando una maggiore attenzione a quelle relazioni spaziali tra le parti anatomiche del volto, in particolare quelle disposte sull’asse verticale, che sono state riscontrate, in studi condotti da altri, fondamentali per il riconoscimento dei volti (Goffeaux et al., 2009).

 

Voci: sulla differenza tra le allucinazioni uditive presenti in diagnosi di schizofrenia e in diagnosi di disturbo dissociativo

Alcuni studi hanno comparato le allucinazioni uditive di pazienti con disturbi di natura psicotica, a quelle sperimentate da pazienti provenienti da storie di post-trauma grave, arrivando a interessanti conclusioni.

 

Uno studio di riferimento è Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives: tra gli autori Dolores Mosquera, che si sta imponendo sulla scena della ricerca in ambito di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e disturbi dissociativi come un riferimento di assoluto spessore e di grande impatto scientifico.

In questo studio, è stato tentato un lavoro di ricapitolazione e review della letteratura inerente alcuni diagnosi specifiche, in relazione al tema allucinazioni uditive. Al di là dei quadri psicotici franchi, dove i soggetti sono colpiti da allucinazioni uditive che si manifestano attraverso la presenza di voci, esistono altri quadri diagnostici non afferenti allo spettro psicotico all’interno dei quali si osserva la presenza di sintomi di questo tipo, con caratteristiche simili: il disturbo di personalità borderline, disturbi dissociativi (DID: disturbo dissociativo d’identità), il PTSD.

Questo studio ipotizza inoltre una diversa concettualizzazione del sintomo delle voci, visto come SEMPRE proveniente da un disturbo dissociativo originario e trans-diagnostico alle varie forme di psicopatologia che lo “contengono”. Gli autori propongono in questo senso una lettura dell’allucinazione uditiva come di un sintomo di natura dissociativa, con però natura e potenza differenti a seconda dei diversi quadri.

L’articolo in primis distingue due diverse concettualizzazioni di disturbo dissociativo, tra loro in contrasto, usate a volte in modo sovrapposto:

  • la visione del disturbo dissociativo come un disturbo da disaggregazione (usando i termini originali usati da Janet) della personalità (a seguito di un trauma, la personalità si scinde in due o più parti, che poi proseguono il loro sviluppo in modo parallelo). Questa è la concettualizzazione “narrow” (stretta) del disturbo
  • la visione del disturbo dissociativo come stato mentale alterato/assorto/assorbito: questo modo di pensare il disturbo dissociativo è una visione definita nell’articolo “broad”, ovvero più ampia, dato che comprende in sé tutte le forme di alterazione della coscienza che si riscontrano nei quadri gravi di post trauma (come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’assorbimento totale di alcune forme eccessive di “daydreaming”).

Quello che è evidente, è che quando si parla di disturbo dissociativo, parliamo sia di una che dell’altra cosa, ossia della frammentazione della personalità, ma anche dell’alterazione dello stato della coscienza, la cui continuità e permanenza nel “qui ed ora” diventa “intermittente”.

Come secondo aspetto approfondito, gli autori tentano di de-enfatizzare la correlazione tra presenza di voci e disturbi psicotici, portando numerose evidenze letterarie a corroborare la loro tesi. In fase iniziale di concettualizzazione, Bleluer stesso descrisse la malattia mentale che avrebbe in seguito preso il nome di schizofrenia, come il risultato di uno “split” che avrebbe scisso la mente, “disunendola”: l’elemento delle allucinazioni uditive sarebbe apparso come centrale solo più tardi, con il lavoro di Schcneider e i suoi sintomi di primo e secondo rango, divenuti in seguito altamente connotanti la presenza di un disturbo psicotico. Gli autori vogliono mettere in evidenza come il sentire le voci sia da intendersi come un sintomo trans-diagnostico, non necessariamente da ascriversi al SOLO quadro di schizofrenia.

In più, attraverso il riferimento allo studio Hallucinations: A Systematic Review of Points of Similarity and Difference Across Diagnostic Classes (Waters & Fernyhough, 2017),  gli autori sottolineano come usare le caratteristiche stesse delle allucinazioni (provenienza esterna o interna) come marker per formulare diagnosi, pare essere un gesto azzardato, dato che pur in differenti quadri clinici, la natura fenomenica del sintomo parrebbe essere la stessa:

  • la natura del sintomo voce nel disturbo psicotico, nel disturbo borderline di personalità e nel PTSD, sembrerebbe essere la stessa, senza distinzioni significative (a recent review of AVH phenomenology, which was not limited to direct comparison studies, likewise concluded that AVH in PTSD and schizophrenia were experienced in quite similar ways);
  • la fenomenologia delle allucinazioni uditive nel disturbo schizofrenico, comparate a quelle osservate nei quadri di disturbi dissociativi gravi (DID), sembrerebbe invece presentare alcune differenze significative. In particolare in coloro che soffrono di DID, le voci sembrerebbero variare in maggiore intensità e presenza. Inoltre, nel DID sarebbero maggiormente comuni le voci “bambine” e le voci “mandatorie”, cioè aventi caratteristica di comando.

Gli autori in questo articolo usano il sintomo target voci per disquisire a proposito della differenza tra schizofrenia, disturbo borderline e disturbo dissociativo dell’identità. Ciò che questo articolo vuole suggerire e che dovrebbe essere tenuto a mente in senso clinico, è che la presenza di voci non necessariamente indica un disturbo psicotico, ma potrebbe essere anche essere letto come il segno di un disturbo di natura dissociativa in atto (likewise, the Schneiderian symptoms of voices conversing and voices commenting are not only not unique to schizophrenia, they are more common in DID).

Aspetti clinici

L’articolo, infine, si chiude con alcune riflessioni cliniche a riguardo del lavoro da fare con i pazienti uditori di voci:

  • per prima cosa, è opportuno indagare lo stato mentale del paziente all’epoca dell’esordio del sintomo (la prima voce);
  • è importante mettere a fuoco i trigger del sintomo: quale stato mentale/emozione, o quale persona in particolare, o ancora quale circostanza o luogo, è in grado di elicitare il sintomo;
  • dobbiamo chiederci, insieme col paziente: qual è l’obiettivo della voce, cosa ci vuole dire o dove ci vuole condurre con la sua presenza;
  • in particolare nei casi di disturbo dissociati­vo, è frequente un senso di maggiore alienità dell’allucinazione uditiva (voci bambine, voci imperative o molto ripetitive): in questi casi va ancor di più suggerito un tentativo di dialogo con la voce e un approccio empatico (la voce andrebbe considerata non come un sintomo da eliminare, ma qualcosa con cui entrare in relazione).

Indicazioni per i pazienti

In questo articolo vengono fornite alcune indicazioni di massima per pazienti che sentono le voci che debbano imparare in qualche modo a convivere con un sintomo di questo tipo:

  • é importante che il paziente si ascolti senza portare a compimento le indicazioni dettate da una voce imperativa, o senza drammatizzare o prestare attenzione eccessiva al contenuto della voce stessa. Una voce ignorata tenderà a presentarsi con più forza: per questo occorre che le si presti la dovuta attenzione, senza però troppo assecondarla;
  • per quanto riguarda il messaggio portato dalla voce, dobbiamo chiederci che attitudine, la voce, rappresenti (per esempio, un’attitudine protettiva per il sé, un’attitudine invece aggressiva verso gli altri), oppure che parte del sé voglia esprimere; gli autori sottolineano come spesso la funzione ultima di una voce sia protettiva (si veda Tabella 1);
  • il trattamento migliore, per pazienti con voci, è un trattamento mirato a migliorare il rapporto tra la persona stessa e le sue stesse voci: occorre dunque praticare un lavoro di accettazione.

TABELLA 1 allucinazioni uditiveTabella 1: possibili funzioni/goal delle voci

Conclusioni

L’ipotesi che gli autori formulano, in definitiva, è quella di considerare il sintomo delle voci come un aspetto dissociativo ANCHE nei quadri psicotici diagnosticati come schizofrenia. Questo è in continuità con l’idea storicamente difesa da Bleuler a riguardo della schizofrenia, considerata come stadio finale di un processo di “splitting” della mente, ovvero di dis-unione. Il sintomo delle voci sarebbe in questo caso trans-diagnostico e indicativo di uno stato di dissociazione in atto nella mente dell’individuo, che si manifesterebbe tuttavia in modi peculiari e differenti nella storia del singolo individuo.

 

Disturbo borderline di personalità e adolescenza: uno studio sulla valutazione del rischio suicidario

Il suicidio di per sé non è una malattia, ma il disturbo mentale è il fattore più frequente associato al suicidio. Qual è il rischio di suicidio in adolescenti con Disturbi di personalità, in particolare il Disturbo Borderline?

 

Valutare la predittività del rischio è particolarmente difficile a causa delle molteplici variabili che fanno parte della storia soggettiva di ciascun individuo. Inoltre, un riscontro comune rilevato tra i casi di suicidio è la comorbilità di più disturbi. Il suicidio di per sé non è una malattia, ma il disturbo mentale è il fattore più frequente associato al suicidio. In questo articolo viene trattato il rischio di suicidio di persone con Disturbi di personalità, in particolare il Disturbo Borderline.

Disturbi di personalità

Tra i vari disordini di personalità noti nella pratica clinica, il più frequente è certamente il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) che comporta suicidalità e comportamento aggressivo come criteri essenziali di malattia. Le persone affette da uno o più disturbi di personalità tentano o portano a compimento il suicidio, così come gli individui con diagnosi di una malattia depressiva (Gerson, J. Et al., 2002). Una rassegna degli studi psicologici ha rivelato che circa il 57% degli individui che aveva completato il suicidio ha avuto una diagnosi di disturbo di personalità (Isometsa, E.T. 2001). La presenza di uno o più disturbi di personalità rappresenta una significativa sfida per i professionisti ed i servizi di salute mentale, sia perché i comportamenti distruttivi spesso manifestano la natura permanente del disturbo, sia perché è probabile che siano stati visti da un professionista nel mese precedente al loro suicidio. Una serie di fattori rende il rilevamento e la gestione del rischio del suicidio estremamente difficile (Erlangsen, A., et al., 2011).

Nonostante la gravità del disturbo, pochi studi hanno esaminato il BPD negli adolescenti e l’applicazione di questa diagnosi per questa fascia di età rimane controversa. I pochi studi che hanno esaminato i suicidi di adolescenti affetti da disturbo borderline di personalità ne hanno evidenziato una più elevata probabilità di precedenti tentativi suicidari portati a termine (Brent et al., 1993), presentano inoltre caratteristiche quali: maggiore impulsività ed aggressività, vita sessuale più attiva ed eventi di vita stressanti (Horesh, Nachshoni, Wolmer, e Toren, 2009; Horesh, Orbach, Gothelf, Efrati, e Apter, 2003) rispetto ad adolescenti affetti da disturbo depressivo maggiore. Alcuni studi su pazienti adolescenti suggeriscono che le persone affette da disturbo borderline hanno una maggiore probabilità di presentare altre comorbidità diagnostiche, come disturbo da abuso di sostanze, disturbo della condotta (Grilo,Becker, Fehon, Edell, e McGlashan, 1996), disturbo bipolare (Kutcher, Marton, e Korenblum, 1990), e deficit di attenzione iperattività (Miller et al., 2008). I fattori di rischio più significativi per il comportamento suicidario identificati nella popolazione anziana sono: la malattia fisica, l’isolamento sociale, i problemi di relazione ed il lutto o una perdita (Hawton,K. Et al., 2006). Come si può intuire, sarebbe estremamente difficile identificare il rischio individualmente sulla base dei problemi quasi universali presenti in questa popolazione, come quelli sopra elencati (De Leo,D. et al., 2000 ).

Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è fortemente associato con il suicidio e con i comportamenti autolesivi e inoltre prevede una significativa compromissione funzionale in un certo numero di domini (Bender et al.,2001; Skodol et al., 2005; Yen et al., 2003). L’applicazione della diagnosi di BPD per questa fascia di età rimane controversa. Diversi fattori contribuiscono alla riluttanza verso tale diagnosi, come: lo sviluppo della personalità, la cui formazione continua per tutta l’adolescenza (Meijer, et al., 1998);  lo stigma del disturbo della personalità e lo sforzo di non applicare questa etichetta all’adolescente (Chanen. et al, 2004). Altri studi hanno riportato che le caratteristiche BPD degli adolescenti sono comparabili sintomatologicamente a quelle degli adulti (Becker, et al.,2002; Miller et al.,2008; Westen et al., 2003). La diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità negli adolescenti sembra meno stabile di quella degli adulti (Bondurant et al., 2004), anche se va comunque notato che la stabilità di diagnosi BPD negli adulti è stata recentemente messa in discussione (Grilo et al, 2004;. Shea et al., 2002; Zanarini et al.,2005).

BPD nella suicidalità degli adolescenti (Yen, Kerry Gagnon and Spirito)

Il presente studio ha preso in esame un campione di adolescenti ad alto rischio di suicidio, cioè ricoverati nell’unità psichiatrica infantile di un ospedale psichiatrico ed esaminato la prevalenza di Disturbo Borderline di Personalità nei soggetti che presentavano ricoveri consecutivi correlati a comportamenti suicidari. Sono stati confrontati soggetti con e senza BPD sulla base di caratteristiche, della storia di comportamenti suicidari, della comorbidità, della regolazione degli affetti e dell’aggressività per stabilire se i soggetti affetti da disturbo borderline abbiano un unico profilo clinico, distinto da quello di altre comorbidità psichiatriche ad alto rischio.

Campione

I partecipanti erano 119 adolescenti (32% maschi), di età compresa tra i 12 e i 18 anni (media = 15.3, SD = 1,4), reclutati dal febbraio 2006 al Marzo 2010 e che erano stati ricoverati in un ospedale psichiatrico per avere un elevato rischio di suicidio. Dei 119 partecipanti, 104 hanno partecipato anche all’intervista di follow-up dopo sei mesi.

Misure

A tutti i partecipanti sono state somministrate questionari per la raccolta delle informazioni demografiche, diagnosi, storia dei comportamenti suicidari e delle ideazioni autolesive. Quando è stato possibile, le interviste sono state somministrate anche ai genitori. In dettaglio:

  1. Schedule for affective disorders and schizophrenia for schoolaged children present and lifetime versions (K-SADS-PL) (Kaufman et al., 1997): è un’intervista diagnostica semi-strutturata che fornisce una valutazione affidabile e valida della psicopatologia del DSM-IV nei bambini e negli adolescenti. È stata utilizzata per determinare la diagnosi psichiatrica, l’attuale funzionamento psicosociale e il trattamento, la storia di abuso, e la storia familiare di malattia alla baseline. Comprende anche una valutazione semi-strutturata della gravità dell’ideazione suicidaria, dei pensieri ricorrenti di morte, della gravità degli atti suicidari, della letalità dei tentativi di suicidio e tendenze ad atti autolesivi non-suicidali.
  2. Childhoo interview for borderline personality disorders (CI-BPD): è un questionario diagnostico per la valutazione dei disturbi della personalità del DSM-IV (DIPD-IV) adattata ad un intervistato in età adolescenziale (Zanarini, Frankenburg, Sickel, & Young, 1996). Ogni criterio dei disturbi di personalità del DSM è stato valutato con più domande e codificato come assente, sottosoglia o presente. Il questionario diagnostico per la valutazione dei disturbi della personalità del DSM-IV, confrontato con altre interviste strutturate per la valutazione dei disturbi della personalità, presenta un’eccellente affidabilità inter-rater e test-retest (coefficiente kappa per il BPD = 0.94 e 0.85 rispettivamente), una buona consistenza interna (alfa di Cronbach = 0.80), affidabilità inter rater (k = 0.89) e validità convergente e concorrente (Sharp, Ha, Michonski, Venta,& Carbone, 2012).
  3. Beck Scale for Suicide Ideation (BSS) (Beck &Steer, 1991): è un questionario costituito da 21 item ideato per rilevare e misurare la gravità dell’ideazione suicidaria sperimentata nella settimana precedente negli adulti e negli adolescenti. I partecipanti rispondono agli item utilizzando una scala Likert a tre punti. Tale scala presenta un’eccellente coerenza interna (alfa di Cronbach= 0.92) e validità di contenuto/costrutto/concorrente in campioni di degenti adolescenti (Kumar &Steer, 1995; Steer R.A. , 1995 )e la storia familiare di malattia alla baseline. Comprende anche una valutazione semi-strutturata della gravità dell’ideazione suicidaria, dei pensieri ricorrenti di morte, della gravità degli atti suicidari, della letalità dei tentativi di suicidio e tendenze ad atti autolesivi non-suicidali.
  4. Suicide Ideation Questionnaire (SIQ) (Reynolds,1988): è uno strumento di 30 item auto-riportati progettato per valutare i pensieri suicidari vissuti dagli adolescenti durante il mese precedente. I partecipanti rispondono agli item utilizzando una scala Likert a 7 punti che va da 0 (non ho mai avuto questo pensiero) a 6 (quasi ogni giorno). La scala è stata sviluppata sulla base di prove su campo con oltre 2400 Campione. Presenta un’eccellente consistenza interna (alfa di Cronbach = 0.97).
  5. Functional assessment of self-mutilation (FASM) (Lloyd-Richardson et al., 2007): è uno strumento che valuta se un individuo ha avuto comportamenti di autolesionismo intenzionale (taglio o bruciature di pelle) nell’anno precedente. Il questionario consiste di due parti. La prima consiste in un elenco di comportamenti autolesivi in cui gli intervistati segnalano se hanno ricevuto cure mediche e con quale frequenza. La seconda parte può essere completata solo se è presente auto-mutilazione e si compone di 22 item che valutano i motivi di autolesionismo su una scala Likert a quattro punti (0 = mai, 3 = spesso). Il FASM è stato somministrato con successo a campioni adolescenti (Guertin, Lloyd-Richardson, Spirito, Donaldson, e Boergers, 2001; Lloyd-Richardson et al., 2007).
  6. Affect Intensity measure (AIM) (Larsen &Diener, 1987): è un questionario di 40 item auto-riportati con risposte su una scala Likert per la valutazione dell’intensità di una risposta affettiva dell’individuo. È costituita da tre sottoscale: intensità negativa, influenza positiva e reattività negativa (punteggi più alti indicano maggiore intensità/ reattività). L’Affect intensity measure ha alta affidabilità test-retest (0,81 per un intervallo di 3 mesi) e adeguata validità convergente e discriminante, ottima coerenza interna (alfa di Cronbach = 0.86).
  7. Aggression Questionnaire (AQ) (Buss& Perry, 1992): è un questionario di 34 item ampiamente utilizzato per valutare l’ostilità ed aggressività. È costituita da cinque sottoscale: aggressione fisica, aggressione verbale, rabbia, ostilità ed aggressione indiretta. Inoltre è previsto anche un punteggio totale. L’Aggression Questionnaire era somministrato sia nell’adolescente che nel genitore: in questo studio, ci riporterà dati sull’aggressività e sulla disregolazione comportamentale. Presenta una ottima coerenza interna (alfa di Cronbach per il rapporto del genitore = 0.95; per il bambino = 0.93).
  8. Emotion Regulation Checklist-Adapted (ERC) (Shields& Cicchetti, 1997): è un questionario di 24-item che può essere completato dai familiari adulti dell’adolescente. Questi soggetti sono invitati a valutare su scala Likert a 4 punti (1=quasi sempre, 4=quasi mai) l’intensità della responsabilità, la negatività, la reattività e l’intensità emotiva. Presenta buona coerenza interna (alfa di Cronbach di = 0.76).

Risultati

 Il 40% dei soggetti soddisfa i criteri di Disturbo Borderline di Personalità (gruppo BPD). I criteri riportati più frequentemente sono stati: comportamenti autolesivi (91,7% in Gruppo BPD, 70,8% nel gruppo non affetto da BPD), impulsività (85,4% nel gruppo BPD, 40,3% nel gruppo non affetto da BPD) e instabilità affettiva (85,4% nel gruppo BPD, 36,1% nel gruppo non affetto da BPD). Notevoli differenze tra i due gruppi sono state osservate per due criteri: disturbo nei rapporti (66,7% nel gruppo BPD vs. 5,6% nel gruppo non affetto da BPD) e rabbia (89,6% in BPD gruppo vs. 23,6% nel gruppo non affetto da BPD). Il gruppo BPD aveva un tasso di tentativi suicidari e una probabilità di uno storico di tentativi di suicidio più elevati del gruppo non affetto da BPD. I pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità tendono ad avere livelli più alti di ideazione suicidaria ed i suicidi di adolescenti con BPD sono i più frequenti e gravi. I nostri risultati indicano che i comportamenti autolesivi, sono altamente prevalenti tra i suicidi adolescenti indipendentemente dalla diagnosi e meno specifici di BPD. Non sono state riscontrate differenze nei livelli di letalità nei tentativi di suicidio riportati da BPD vs. gruppi non affetto da BPD. Inoltre, non vi erano differenze significative nella prevalenza di comportamenti autolesivi e grado di ideazione di suicidio tra i due gruppi.

Nel gruppo BPD sono state riscontrate anche comorbilità. I tassi di disturbo depressivo maggiore, disturbi dirompenti e qualsiasi disturbo da stress (disturbo da stress post-traumatico, stress acuto) erano significativamente differenti tra i due gruppi BPD e non affetto da BPD. Il costrutto che differiva sostanzialmente di più tra quelli con e senza BPD era l’aggressività. In particolare gli adolescenti con BPD sono stati valutati da i loro genitori come aventi più rabbia, ostilità e aggressione indiretta, tratti che sono coerenti con il costrutto BPD. Inoltre, escludendo il criterio di comportamento autolesivo, l’impulsività era il criterio di BPD più frequentemente riportato da coloro che hanno soddisfatto i criteri per BPD. Tale differenza nei punteggi di aggressione può spiegare il più alto rischio di tentativi di suicidio associato con BPD (come indicato da alti tassi di tentativi passati e maggiore probabilità di un tentativo di suicidio). Differenze non significative sono state osservate nella disregolazione affettiva rispetto ai suicidi degli adolescenti senza BPD .

Conclusione

I risultati del presente studio dimostrano che, rispetto ad altri adolescenti suicidari, il profilo clinico del Disturbo Borderline di Personalità è unico e suggerisce un aumento del rischio dei comportamenti suicidari. Pertanto il Disturbo Borderline di Personalità dovrebbe essere considerato nella valutazione del rischio di suicidio per gli adolescenti, in quanto il disturbo borderline di personalità è prevalente tra i suicidi adolescenti; i pazienti con disturbo borderline presentano più gravi condotte suicidarie, contrastando una percezione comune secondo cui i tentativi di suicidio di questi pazienti sono manipolativi o alla ricerca di attenzione e, quindi, meno gravi. I pazienti con disturbo borderline di personalità tendevano ad avere livelli più alti di ideazione suicidaria e i suicidi di adolescenti sono i più frequenti e gravi. I risultati indicano che i comportamenti autolesivi, sono altamente prevalenti tra i suicidi negli adolescenti indipendentemente dalla diagnosi: nel campione di adolescenti valutato, il più alto indice di diagnosi di comorbidità è stato osservato con disturbo depressivo maggiore e disturbo post-traumatico da stress, sindrome da deficit di attenzione e iperattività e disturbo oppositivo provocatorio. In particolare la dimensione di opposizione, è stata particolarmente predittiva di disturbo borderline in adolescenza (Burke &Strepp, 2012; Speranza et al., 2011). Gli adolescenti con Disturbo Borderline di Personalità sono stati valutati dai loro genitori con maggiore rabbia, ostilità e aggressività. Una limitazione importante del presente studio è la mancanza di una più approfondita valutazione dell’impulsività, per quanto l’impulsività sia un costrutto che sembra essere associato con vari gradi di rischio di comportamento suicidario (Yen et al., 2009).

 

Niccolò Fabi, il cantautore della gentilezza – Recensione dell’album Tradizione e tradimento (2019)

Tradizione e tradimento: un disco con arrangiamenti elaborati, ma anche portatore di messaggi profondi, al passo con la third wave della psicoterapia cognitiva, da assaporare nota dopo nota, ovviamente nel momento presente.

 

Cominciamo ad insegnare la gentilezza nelle scuole, che non è dote da educande, ma virtù da cavaliere (N. Fabi)

Credo che questa frase della canzone Prima della tempesta possa ben rappresentare lo spirito dell’ultimo disco di Niccolò Fabi, che definirei cantautore gentile. Quando parlo di gentilezza la mia mente volge lo sguardo ovviamente al mondo buddista, dove appunto la gentilezza amorevole (metta) rappresenta una delle quattro qualità incommensurabili dell’animo umano, lodata spesso dal Dalai lama (“La mia religione è la gentilezza”). Seppure non credo Niccolò Fabi frequenti i sentieri del Dharma, o almeno non ho mai letto dichiarazioni in tal senso, mi sono convinto, soprattutto leggendo i suoi testi, che il livello di consapevolezza e maturità di questo artista sia davvero molto alto e in ulteriore crescita, disco dopo disco. Appartiene ormai a un macabro immaginario collettivo la dolorosa vicenda umana dell’artista che nel 2010 ha perso una figlia di tre anni per meningite fulminante, ma che in quell’occasione ha dato prova di incredibile resilienza, trasformando la tragedia in un’occasione di condivisione e bene comune creando la Fondazione Parole di Lulù, impegnata in numerosissime attività benefiche (a partire dal commovente concerto con tanti artisti amici pochi mesi dopo il decesso).

Già in passato ci ha regalato canzoni-faro come Costruire  (“costruire è sapere e potere rinunciare alla perfezione”), che ho spesso usato anche in contesti terapeutici per i messaggi salutari che veicola. Tre anni fa era uscito l’ultimo album Una somma di piccole cose (2016), un disco prevalentemente acustico e bellissimo, a partire dal titolo delicato e pregnante.

Tradizione e tradimento è un disco con arrangiamenti più elaborati, che fa un uso sapiente e non fastidioso dell’elettronica e che soprattutto contiene delle canzoni bellissime. Ho notato che diversi brani includono delle ampie parti strumentali, che fanno “respirare” letteralmente le canzoni, dando anche il tempo di metabolizzare i testi.

Il disco si apre con la canzone Scotta che mi ha colpito per la frase “quando non si gira dall’altra parte l’arte non è una posa”, in linea con gli intenti costruttivi e ristrutturanti del messaggio di Fabi, insieme a una serie di bellissime immagini della splendida semplicità del quotidiano (“una caraffa di acqua e limone, un bacio accanto a un gelsomino”), che sono un po’ il marchio di fabbrica a mio avviso della suo stile lirico.

I temi spaziano dalla pace, come in A prescindere da me (“chi tace non è vero che acconsente solamente che il rifiuto non sempre trova le parole anche io modestamente non capisco ma resisto e ammutolisco dal disgusto”), all’ineluttabilità del movimento e del cambiamento delle cose (Amori con le ali), al dramma delle migranti del Mediterraneo (Migrazioni).

Merita una menzione speciale il brano Io sono l’altro, che può interessare molto gli psicoterapeuti come una sorta di inno all’empatia (“quelli che vedi sono solo i miei vestiti adesso facci un giro e poi mi dici”), e che è stato lanciato come primo singolo con un bellissimo video stile minimal-emotional.

Tradizione e tradimento è un disco davvero bello di un artista al passo con la third wave della psicoterapia cognitiva (ma forse lui di questo non è consapevole), da assaporare nota dopo nota, ovviamente nel momento presente.

 

TRADIZIONE E TRADIMENTO – GUARDA IL VIDEO DEL BRANO “IO SONO L’ALTRO”: 

Kummerspeck? Nessuna prova di aumento di peso dopo la fine di relazioni sentimentali

Nel presente studio, che ha coinvolto i ricercatori di Penn State, è stato approfondito il concetto tedesco di “kummerspeck”, che si riferisce all’eccessivo peso acquisito a causa del consumo emotivo e compulsivo di cibo.

 

È vero che la rottura di una relazione sentimentale può essere dolorosa e traumatica, ma “affogare il dolore” nel gelato per un giorno o due è davvero così dannoso per il nostro corpo?

Nel presente studio, che ha coinvolto i ricercatori di Penn State, è stato approfondito il concetto tedesco di “kummerspeck”, che si riferisce all’eccessivo peso acquisito a causa del consumo emotivo e compulsivo di cibo.

Van Strien e colleghi (2015) sottolineano che mangiare in risposta allo stress è un fenomeno biologico ed evolutivo, in quanto lo stress è associato all’attivazione dell’asse surrenale ipotalamo-ipofisario (HPA), che prepara il corpo alla lotta o alla fuga ed in genere diminuisce l’appetito (Papadimitriou&Priftis, 2009). Se la fine di una relazione può causare marcato stress, i ricercatori ipotizzano che l’alimentazione emotiva (abbuffarsi di cibo per ridurre l’umore negativo) può quindi portare a scelte alimentari non salutari e all’aumento di peso sia per uomini che per donne (Konttinen, Männistö, Sarlio-Lähteenkorva, Silventoinen & Haukkala, 2010; Leehr et al., 2015). In realtà, l’attuale studio dimostra che gli umani moderni non tendono ad ingrassare dopo una rottura relazionale.

Il team di ricerca ha condotto due studi per verificare la teoria secondo cui le persone potrebbero avere maggiori probabilità di ingrassare dopo la rottura di una relazione. Dunque, le ipotesi dello studio sono:

  1. i partecipanti esibiscono Kummerspeck in risposta allo scioglimento delle relazioni;
  2. questo effetto è più evidente nelle donne.

Nel primo esperimento, sono stati reclutati 581 partecipanti (261 uomini e 320 donne), con un’età media di 30,8 anni, i quali dovevano completare un sondaggio online sull’aumento o perdita di peso avvenuto entro un anno dalla rottura della relazione sentimentale. Lo strumento utilizzato è il “Sociosexuality”, il quale misura l’interesse in una relazione stabile, indagando nello specifico l’orientamento verso la monogamia rispetto al sesso occasionale (Penke e Asendorpf, 2008).

In conclusione, la maggior parte dei partecipanti (62,7%) non ha riportato variazioni di peso. I ricercatori sono rimasti sorpresi da questo risultato e hanno deciso di eseguire uno studio aggiuntivo e considerare altri fattori che possono contribuire alla variazione di peso dopo l’interruzione di una relazione sentimentale.

Per il secondo esperimento, sono stati reclutati 261 nuovi partecipanti (193 donne e 68 uomini) con un’età media di 28,76 anni; per effettuare un sondaggio diverso e più ampio rispetto a quello utilizzato nel primo studio. Nel nuovo sondaggio si è chiesto ai partecipanti se avessero mai sperimentato la rottura di una relazione a lungo termine e, di conseguenza, se avessero guadagnato o perso peso. Il sondaggio indagava anche quali fossero gli atteggiamenti dei partecipanti nei confronti del loro ex partner, quanto fosse impegnata la relazione, chi aveva avviato la rottura, se i partecipanti tendevano a mangiare emotivamente e quanto i partecipanti godono del cibo in generale. Per testare una propensione esistente per il consumo di cibo a scopo di “sedazione” emotiva, sono stati usati due items del questionario EADES (Ozier et al., 2007), nello specifico “mangio quando sono triste” e “mangio quando sono arrabbiato”.

Tutti i partecipanti (100%) hanno riferito di aver riscontrato una rottura delle relazioni. Nello specifico, la maggior parte dei partecipanti (86,2%) ha riferito di non essere ingrassato dopo la fine della relazione. Non vi era alcuna relazione tra sesso e segnalazioni di aumento di peso. Allo stesso modo, la maggior parte dei partecipanti (76,9%) ha riferito di non aver perso peso dopo la rottura della relazione e non c’è stata alcuna relazione tra la perdita di peso e il sesso. I partecipanti di sesso femminile che rispondono positivamente all’aumento di peso dopo il termine della relazione rivelano punteggi più alti di consumo emotivo rispetto alle donne che hanno risposto in modo negativo; questa differenza non è stata rilevata tra i partecipanti di sesso maschile. Infine, non c’è stata nessuna differenza significativa nei punteggi tra donne e uomini in relazione alla perdita di peso in seguito al termine del rapporto. Per quanto riguarda tutti gli altri elementi della relazione che sono stati indagati, non sembrano correlare all’aumento di peso in seguito alla rottura, e non sono state evidenziate differenze per il genere. L’unico dato che sembra essere significativo riguarda la credenza comune, ossia le persone (48,3%) più comunemente credevano che gli uomini non sperimentassero alcun cambiamento di peso; ma sostenevano, invece, che le donne sarebbero ingrassate dopo lo scioglimento della relazione (45,3%).

Dato che gli autori notano l’assenza generale di Kummerspeck nel presente studio, può semplicemente accadere che esista un rischio maggiore di mangiare troppo per far fronte alle emozioni di rottura negativa nelle donne che già usano il mangiare come meccanismo di coping. Infatti, le donne con una tendenza generale a mangiare per compensare il tumulto emotivo hanno sperimentato un cambiamento di peso dopo la rottura della relazione. In studi futuri, sarebbe interessante poter studiare questo fenomeno in campioni clinici. Ad esempio, le persone che possiedono livelli più elevati di ansia da attaccamento spesso hanno difficoltà a ridurre le capacità di regolazione emotiva (Shakory et al., 2015; Wilkinson, Rowe, Robinson &Hardman, 2018).

Questo studio ha avuto diversi punti di forza. L’età media in entrambi i campioni era di circa 30 anni, rappresentando quindi un buon modello dei massimi anni riproduttivi (Dunson, Baird & Colombo, 2004); e la maggior parte dei partecipanti riferiva di avere relazioni ed esperienze di rottura. Tuttavia, ci sono limiti a questa ricerca. I dati raccolti dai partecipanti sono self-report, di conseguenza le risposte sono suscettibili a pregiudizi di accettabilità e desiderabilità sociale. Inoltre, ai partecipanti sono state poste domande relative a un periodo compreso tra gli ultimi due anni e potrebbero avere difficoltà a richiamare e comunicare accuratamente le informazioni. Un’altra limitazione è la capacità di richiamare dettagli immediati post-relazione. Molti possono sentirsi così sconvolti dall’esperienza della rottura che non sono consapevoli del loro eccesso di cibo e dell’aumento di peso, o potrebbero essere in uno stato di negazione. In altre parole, le emozioni negative che derivano dalla conclusione della relazione potrebbero non consentire alla persona di percepire accuratamente i propri cambiamenti comportamentali e fisici in quel momento e, di conseguenza, non sono in grado di ricordare accuratamente quelle esperienze.

 

L’importanza di una corretta informazione per tutelare l’auto-immagine corporea nelle donne sottoposte a chirurgia della mammella

Si stima che in Italia, ogni anno, vengano impiantate più di 10.000 protesi mammarie, tuttavia esiste una certa diffidenza verso questo dispositivo. Tali sentimenti negativi sono legali al primo caso delle protesi difettose scoppiato in Francia nel 2011. A far precipitare nel panico centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo è stata la decisione di richiamare 30mila donne portatrici di protesi per rimuovere, in via cautelativa, gli impianti.

Stefano Giudici, Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Marco Tanini

 

Il 16 ottobre si è celebrato il ‘Bra Day 2019’ (Breast reconstruction awareness Day), la giornata internazionale per la consapevolezza sulla ricostruzione mammaria, a cura di Beautiful After Breast Cancer Italia Onlus e della Società Italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (Sicpre). Scopo dell’iniziativa è stato quello di informare adeguatamente le donne che si devono sottoporre a chirurgia della mammella contro l’allarmismo diffuso sulla possibilità che le protesi mammarie possano far insorgere un raro tipo di neoplasia.

L’ immagine corporea

La percezione del proprio corpo è una fonte essenziale di autocoscienza e identità personale e contribuisce alla regolazione del comportamento ed al mantenimento della salute fisica e mentale (Adriano Mauro E 2019).

Dall’inizio di questo secolo il corpo come rappresentazione, cosiddetto “corpo virtuale”, ha cominciato ad essere sempre più oggetto di studio da parte di discipline molto diverse fra loro. Dagli svariati studi effettuati: psichiatrici (Kolb L 1953, Schoenfeld W.A 1966), psicosociali, (Garner D. 1980), psicodinamici (Federn P. 1952), neurologici, (Casper RC. 1979), sociologici (Galimberti U 1983), sono emersi teorie e concetti in parte sovrapponibili, come ad esempio l’idea di corpo percepito, corpo rappresentato, corpo situato, corpo vissuto, corpo identificato, percezione corporea, corpo erogeno, corpo fantasmatico, confini corporei, immagine corporea, immagine posturale, idea di corpo e schema corporeo.

È Schilder a coniare, nel 1935, l’espressione immagine corporea, definendola come: l’immagine del nostro corpo che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il corpo appare a noi stessi (Schilder, 1935). Si tratta del primo tentativo di integrare l’aspetto fisiologico e neurologico relativo allo schema corporeo con l’aspetto più psicologico: la rappresentazione del corpo non è più quella descritta dall’anatomia, bensì risulta dall’esperienza dell’individuo nella sua interazione con l’ambiente. Nel 1988, Slade definisce l’immagine corporea come l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo, vale a dire la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo.

In questo senso l’immagine corporea, quale fonte fortemente connotante del concetto di sé, della propria connotazione sessuale e del concetto di bellezza può essere alterata a causa di malattie, traumi o interventi chirurgici che generano un’improvvisa e significativa modifica al proprio corpo (Giambra V. 2016).

Il sostegno alla corretta informazione

Il 16 ottobre si celebra il BRA Day, la Giornata internazionale per la consapevolezza della ricostruzione mammaria (Breast Reconstruction Awareness Day), in questo contesto è stato presentato il manifesto ‘Donna x donna’, un’iniziativa per informare correttamente le donne sullo stato dell’arte della ricostruzione mammaria e diffondere notizie corrette a fronte di allarmismi circa le protesi al silicone.

La dimensione del fenomeno

Si stima che in Italia, ogni anno, vengano impiantate più di 10.000 protesi mammarie, tuttavia esiste una certa diffidenza verso questo dispositivo. Tali sentimenti negativi sono legali al primo caso delle protesi difettose scoppiato in Francia nel 2011. A far precipitare nel panico centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo è stata la decisione transalpina di richiamare 30mila donne portatrici di protesi per rimuovere, in via cautelativa, gli impianti.

Il linfoma anaplastico a grandi cellule

Il motivo di allarme è dovuto ad una rarissima forma neoplastica, il linfoma anaplastico a grandi cellule (Alcl) legato, appunto, all’impianto delle protesi mammarie.

Si tratta di una rara forma di neoplasia a prognosi favorevole, se diagnosticata precocemente.

In base a quanto raccolto dal database del Ministero della Salute Italiano, negli ultimi 8 anni sono stati registrati 41 casi di Alcl su 411.000 protesi impiantate. Questo vuol dire che il rischio di ammalarsi di Alcl è dello 0,001%.

Sono circa 35.000 le donne che, ogni anno, in Italia si sottopongono a un impianto di protesi mammaria: il 63% con finalità estetiche, il 37% ricostruttive. Tale fenomeno è monitorato dal Ministero della Salute che ha attivato un Registro nazionale di questi dispositivi impiantabili, e a breve diverrà obbligatorio segnalare a questo ogni impianto di protesi mammaria. (Ministero Salute).

Il linfoma anaplastico a grandi cellule, oltre ad essere una forma estremamente rara è anche risolvibile se affrontato in tempo. Di solito è sufficiente rimuovere la protesi e la capsula fibrosa che si forma intorno ad essa. La sola terapia chirurgica di solito è risolutiva.

Le protesi che maggiormente si associano all’insorgenza di questa patologia sono quelle “testurizzate”, ovvero con la superficie ruvida anziché liscia, tuttavia questo dato non è certo perché in alcuni casi di insorgenza della neoplasia si è provveduto alla rimozione della protesi senza segnalare di quale tipo si trattasse.

Il fenomeno è comunque estremamente raro, tanto che la FDA americana non ha ritenuto di dover ritirare le protesi “ruvide” come invece è avvenuto in Francia.

L’ allarmismo che si è diffuso a causa di queste notizie ha spinto Beautiful After Breast Cancer Italia Onlus insieme alla Società Italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (Sicpre) ad elaborare un manifesto informativo per informare correttamente le donne che devono essere sottoposte a chirurgia della mammella.

Conclusioni

Le emozioni che si scatenano a seguito di una diagnosi che ancora oggi fa molta paura, come quella del cancro al seno, sono molteplici e spesso molto intense. La chirurgia della mammella, sebbene negli anni sia divenuta molto meno demolitiva, può ledere in maniera profonda l’autoimmagine femminile della donna. Oltre ad una diminuzione di invasività della chirurgia, si è ottenuto un netto miglioramento delle tecniche ricostruttive sul piano dell’outcome estetico.

È importante informare adeguatamente le donne candidate alla chirurgia in modo da poterle tranquillizzare e consentirgli di fare una scelta consapevole sul sottoporsi o meno a tecniche di chirurgia ricostruttiva

Anoressia Nervosa e Neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

L’Anoressia Nervosa fa parte dei Disturbi dell’Alimentazione e della nutrizione ed è caratterizzato, secondo il DSM-5, da una restrizione dell’apporto energetico relativo al fabbisogno quotidiano che induce una evidente perdita di peso, in relazione a sesso ed età. Queste persone mostrano, inoltre, una evidente paura di aumentare di peso e un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, nonostante una significativa magrezza.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Alla forma e al peso sono attribuiti dei significati importanti che agiscono direttamente sull’autostima e sul proprio valore personale. Quindi per ottenere i propri obiettivi in termini di peso è necessario si eserciti una forma costante di controllo sul cibo ingerito e di conseguenza sul peso.

Il controllo del peso restituisce una sensazione di autonomia e indipendenza e questo implica la messa in atto di comportamenti ritualizzati, preferenza per cibi e bevande dal basso apporto calorico, una tendenza ad alimentarsi molto lentamente, e, talvolta a sputarli.

Il corpo è vissuto da queste persone come il nemico contro cui combattere, i cui bisogni non sono né avvertiti né, tantomeno, soddisfatti.

In più, le persone con anoressia nervosa svolgono un’eccessiva attività fisica, una tendenza ad esporsi al freddo, oltreché la propensione a cucinare per gli altri e incoraggiarli a mangiare.

Evitano inoltre le situazioni sociali e mostrano un evidente calo dell’umore.

Neuroimaging e anoressia

In studi di Neuroimaging relativi all’Anoressia Nervosa è stata evidenziata la presenza di anomalie strutturali e funzionali in aree del cervello coinvolte nell’elaborazione della ricompensa (Kaye et al., 2013). In particolare, sono state evidenziate anomalie relative al cingolato anteriore, coinvolto nella valutazione emotiva e nella selezione della risposta, alla corteccia orbitofrontale, un’area centrale rispetto al legame tra cibo o altri tipi di ricompensa e risposta edonica, e lo striato ventrale, il quale include il nucleus accumbens. Lo striato ventrale è un’area centrale rispetto alla codifica del piacere di una ricompensa e alla sua salienza motivazionale, definita come il processo attraverso il quale uno stimolo è convertito da una rappresentazione neurale a un incentivo desiderato e attraente per il cui ottenimento una persona è predisposta a impegnarsi. I circuiti neurali che includono tali aree risultano coinvolti anche nella compulsività, e rivestono quindi una possibile significatività transdiagnostica.

Il Default Mode Network, rete neurale distribuita in diverse regioni, corticali e sottocorticali, si attiva generalmente durante le ore di riposo e di attività passive. Essa comprende regioni cerebrali quali il cingolato posteriore, il precuneo e parti della corteccia prefrontale. Tale network risulta maggiormente attivo a riposo piuttosto che durante compiti che implicano un coinvolgimento attentivo, e per questo si reputa che sia associato al pensiero indipendente da stimoli e alla riflessione esercitata su di sé (Raichle et al., 2001). In uno studio relativo allo stato di riposo/non attività (resting state) in pazienti guarite da Anoressia Nervosa è stata evidenziata una maggiore funzionalità connettiva tra il Default Mode Network, il precuneo e la corteccia prefrontale dorsolaterale (Cowdrey, Filippini, Park, Smith, &McCabe, 2012), evidenza che supporta l’ipotesi rispetto alla quale i network relativi allo stato di riposo/non attività che coinvolgono il processamento di informazioni autoreferenziali e il controllo cognitivo possano essere disfunzionali nell’Anoressia Nervosa (Lee et al., 2014). I risultati di studi relativi allo stato di riposo/non attività in pazienti con Anoressia Nervosa o in remissione supportano l’ipotesi che un maggiore controllo sul processamento della ricompensa, mediato da neurocircuiti modulatori top down, quali la corteccia prefrontale dorsolaterale (Kaye et al., 2009), potrebbe essere un fattore chiave nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa (Cowdrey et al., 2012). La presenza di maggiore attività in regioni deputate al processamento di informazioni autoreferenziali risulta coerente con la presenza di ruminazione rispetto al controllo dell’alimentazione, del peso e della forma corporea, fattore che viene considerato coinvolto nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa (Kaye et al., 2009).

E’ stato suggerito che le patologie legate ai processi di ricompensa emergano quando due distinte componenti, il Wanting motivazionale e il Liking edonico, diventano funzionalmente separate (Berridge et al., 2010). Ad esempio, nell’abuso di sostanze stupefacenti, è stata evidenziata la presenza di un maggiore desiderio dello stimolo associato a ricompensa, che può avvenire anche in presenza di una diminuzione del piacere tratto dallo stesso stimolo. Questo può portare ad un desiderio compulsivo di cercare e di assumere la sostanza, in assenza di qualsiasi piacere derivante dalla stessa  (Everitt& Robbins, 2005). Nell’Anoressia Nervosa, una simile dissociazione tra Wanting e Liking rispetto alla ricompensa costituita dal cibo potrebbe contribuire alla persistenza delle compulsioni legate al controllo estremo dell’alimentazione, del peso e della forma fisica (Robbins et al., 2012).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

 

Ansia per la matematica

L’ansia per la matematica è molto diffusa e può contribuire all’insuccesso dello studente, soprattutto quando le competenze sono già abbastanza deboli; è fondamentale che venga gestita nel migliore dei modi perché potrebbe essere svantaggiosa per tanti bambini.

 

Il ruolo del sentimento nella vita mentale è stato a lungo trascurato dalla ricerca; trascorso quasi un secolo di disinteresse scientifico, oggi le emozioni hanno conosciuto una sorta di rinascita, dopo che il cognitivismo le aveva dichiarate escluse dal suo ambito di indagine (Ledoux, 2014). Ma un modello della mente che esclude le emozioni è un ‘ben povero modello’ (Goleman, 1996).

Come ci insegnano le neuroscienze, il nostro cervello è un intreccio di pensieri ed emozioni e studiare i primi senza le seconde non darà mai una visione esatta della mente, che è più della semplice cognizione (Mingazzini, 2006).

L’emozione dell’ansia, in ambito scolastico, è stata spesso indagata in relazione alla disciplina matematica: la letteratura riporta infatti come questa materia eliciti vissuti emotivi negativi negli studenti (Lucangeli et. al., 2003).

L’innovazione concettuale portata dal modello metacognitivo ha consentito di mettere in luce come il successo in matematica non dipenda solo dall’effettiva abilità, ma anche dall’atteggiamento nei confronti della disciplina e che questo riguardi non solo l’alunno, ma anche il sistema scuola-famiglia con cui interagisce.

Daniela Lucangeli (2015) nell’intervento tenuto al XVI convegno nazionale dell’Istituto di Ortofonologia, sottolinea l’importanza delle emozioni che sottendono l’apprendimento:

Se un bambino mentre apprende fa fatica e sperimenta un’emozione di paura, tutte le volte che rimetterà in memoria quell’apprendimento metterà in memoria sia quella fatica che quell’emozione. Stabilizzerà quindi nel circuito di riorganizzazione che le neurofunzioni attivano sia l’apprendimento che il mantenimento dell’emozione disfunzionale.

Il disagio emotivo nell’apprendimento della matematica interessa un’ampia parte della popolazione scolastica: molti bambini e adulti manifestano agitazione o sintomi di malessere fisico durante lo svolgimento di un compito di matematica; questo può essere dovuto ad alcuni aspetti caratteristici della materia. La paura di sbagliare può essere attribuita al fatto che in matematica l’errore è generalmente indiscutibile, dato che esiste una sola risposta corretta, il timore di non sapere come procedere viene aggravato dall’impossibilità di ricorrere a strategie che di solito vengono usate per migliorare la propria prestazione in altri ambiti: diligenza, ordine, maggior impegno (Cornoldi, Zaccaria, 2015).

L’ansia per la matematica è molto diffusa e può contribuire all’insuccesso, soprattutto quando le competenze sono già di per se stesse abbastanza deboli; è fondamentale che venga gestita nel migliore dei modi perché può essere devastante per tanti bambini. Il ripetersi di emozioni negative come tristezza, ansia e paura associate all’apprendimento di questa materia portano all’evitamento del compito e alla rinuncia (Marsale, et al., 2013).

Nel nostro sistema educativo, quindi, ci sono forti emozioni sulle quali si basa l’apprendimento: il senso di colpa e la paura che nascono come sentimenti di autoregolazione, possono limitare fortemente l’azione se vengono vissute con impotenza e scarso livello di autostima.

Gli obiettivi (Cornoldi, Zaccaria, 2015) per un programma per la gestione dell’ansia sono:

  • riconoscere che l’ansia per la matematica è comune: analizzare meglio la propria ansia e scoprire che gli altri non ne sono esenti;
  • superare alcune idee stereotipate sulle difficoltà in matematica: riflessione di gruppo, ruolo dell’impegno;
  • individuare valide motivazioni per lo studio della matematica: sentire che è alla portata di tutti;
  • individuare situazioni che provocano uno stato di ansia;
  • individuare strategie utili per gestire situazioni d’ansia: provare con strategie immaginative. Individuare la propria strategia e metterla in pratica.

Resta indubbio che un lavoro metacognitivo efficace sulla matematica dovrebbe coinvolgere credenze e comportamenti non solo dei bambini, ma anche di insegnati e genitori.

Cercando di adottare didattiche efficaci nel potenziamento delle abilità cognitive alla base del calcolo, gli alunni in difficoltà possono acquisire le giuste competenze e sperimentare successo e nuova motivazione ad apprendere.

Davide Marsale, con Daniela Lucangeli e altri ricercatori (2013), hanno trovato nei giochi di prestigio interessanti spunti, hanno cercato di creare una condizione che interroghi il sistema cognitivo, susciti meraviglia e curiosità verso il mondo dei numeri e della logica e soprattutto stimoli la voglia di capire e di provare.

Queste strategie sono efficaci sia dal punto di vista scientifico che didattico.

Imparare a modulare le propria attività cerebrale? Oggi è possibile grazie al neurofeedback

Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare la modulazione della connettività tra due particolari aree cerebrali a soggetti con disturbo depressivo maggiore in remissione, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

 

Il neurofeedback è una procedura clinica nata dal biofeedback atta ad insegnare al soggetto che la utilizza l’automodulazione dei propri processi fisiologici o neurocognitivi.

Inizialmente si compievano solo misurazioni fisiologiche tramite il biofeedback: vengono applicati degli elettrodi sulla cute della persona, che ha di fronte a sé uno schermo raffigurante gli indici fisiologici, come temperatura corporea e tensione muscolare.

Grazie all’osservazione diretta dei propri livelli fisiologici, il soggetto ha la possibilità di trovare strategie atte ad agire sulla funzione presa in esame in quel momento, imparando così a modularla.

Con l’avvento del neurofeedback è possibile fare lo stesso osservando tuttavia le onde cerebrali tramite l’utilizzo di un elettroencefalogramma (EEG) e l’attivazione cerebrale tramite l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Sato et al., 2008).

Il neurofeedback è quindi una tecnica che consente di insegnare al soggetto come modulare la propria attività cognitiva, osservando la rappresentazione di quest’ultima in tempo reale.

In letteratura sono presenti molteplici studi che sottolineano gli effetti positivi su patologie mediche e psichiatriche date dall’utilizzo di queste tecniche; in particolare il biofeedback sembra essere efficace in patologie come emicrania, ipertensione essenziale, asma e ansia. L’efficacia di questo trattamento sta nella capacità dell’individuo di apprendere come agire su quegli indici fisiologici che favoriscono l’insorgere della patologia (Zhan et al., 2019).

Il corpo umano mette costantemente in atto meccanismi di autoregolazione in maniera automatica, senza che noi ce ne accorgiamo; questo processo è regolato dal nostro sistema neurovegetativo ed endocrino. Tuttavia non sempre la consapevolezza sulle nostre alterazioni fisiologiche è assente. Ad esempio, dopo uno sforzo fisico prolungato, si potrebbe percepire un aumento della propria frequenza cardiaca; una volta percepita siamo in grado di agire su di essa con varie strategie, per esempio concentrandoci sulla respirazione. Analogamente, tramite il biofeedback, è possibile imparare a modulare i livelli fisiologici di cui solitamente non percepiamo l’alterazione (Rao, 2008).

Il neurofeedback è stato sperimentato anche in capo psicopatologico: è noto in letteratura che quando i soggetti con una storia di disturbo depressivo maggiore (DDM) iniziano a fare esperienza di sentimenti come il senso di colpa, mostrano una connettività minore tra due particolari zone cerebrali, quali il lobo temporale destro anteriore (ATL) e l’area cingolata subgenuale anteriore (SCC); inoltre, stando alla teoria dell’impotenza appresa, la vulnerabilità al disturbo depressivo maggiore è data dalla tendenza a incolpare se stessi per un fallimento, con conseguente riduzione dei livelli di autostima (Abramson et al., 1978).

Partendo da questi presupposti teorici, Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare ai partecipanti la modulazione della connettività tra la ATL e la SCC, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

Con il fine di verificare questa ipotesi, i due ricercatori hanno condotto uno studio sperimentale su un gruppo di 28 soggetti con un disturbo depressivo maggiore in remissione. Per condurre la sperimentazione, si sono avvalsi del neurofeedback tramite risonanza magnetica: questa tecnica consente di vedere la propria attività cerebrale in tempo reale. In particolare è stata mostrata ai soggetti la connessione tra le aree ATL e SCC; accanto all’immagine del proprio encefalo, veniva mostrato un termostato, rappresentante il livello di attivazione della connessione tra le due zone cerebrali prese in esame.

Prima di sottoporsi al neurofeedback, i soggetti dovevano pensare a un evento che evocasse loro senso di colpa, e associarlo a una parola; in seguito quest’ultima veniva mostrata in fase di sperimentazione mentre erano sottoposti al neurofeedback (Zhan et al., 2019).

Inizialmente, quando veniva elicitato il senso di colpa tramite lo stimolo visivo (la parola precedentemente associata all’emozione in questione), si osservava un calo della connettività tra la ATL e la SCC. A quel punto si chiedeva ai partecipanti di trovare delle strategie per aumentare la connettività tra queste due aree: il loro compito era quindi quello di cercare di aumentare la temperatura del termostato rappresentante la connettività tra le due zone cerebrali (più aumentava, più c’era connettività tra la ATL e la SCC, e di conseguenza meno senso di colpa). Per influenzarne i livelli i soggetti dovevano trovare delle strategie mentali che andassero ad agire su di esso, (pensando ad un immagine in particolare o concentrandosi su cosa provavano in quel momento ecc), ogni partecipante aveva carta bianca per quel che riguarda le strategie da adottare per aumentare la temperatura del termometro.

I risultati dello studio perso in esame mostrano che, tramite il neurofeedback, i soggetti possono imparare a modulare la connettività tra le zone cerebrali deputate al senso di colpa. Così facendo, imparano a gestire questa emozione e a evitare un calo della propria autostima, traendo così dei benefici per prevenire eventuali ricadute.

Le implicazioni di questo studio sono principalmente di tipo clinico, tuttavia i ricercatori sottolineano la necessità di ulteriori studi sperimentali prima di introdurre il neurofeedback come possibile terapia per il disturbo depressivo maggiore (Zhan et al., 2019)

 

L’astrologia non funziona, ma ci crediamo. Un’analisi dei processi psicologici

Nella quotidianità si è spesso interrogati da amici, parenti o semplici conoscenti sul proprio segno zodiacale, ed allo stesso modo è molto comune trovare oroscopi su quotidiani, giornali, tv e internet. Tutto questo rientra nelle pratiche tipiche dell’Astrologia, una pseudoscienza particolarmente antica, che ancora oggi ha numerosi seguaci.

 

L’astrologia si basa sulla credenza che la posizione e i movimenti dei pianeti influenzino la personalità, i comportamenti e le azioni delle persone e che attraverso la ricognizione e l’interpretazione della posizione degli astri sia possibile prevedere il futuro individuale e collettivo (Zarka, 2009). Allo stesso modo, l’astrologia ritiene che in base alla posizione delle stelle e dei pianeti al momento della nascita sia possibile identificare un tema astrale (o tema natale) che permette di leggere e individuare le caratteristiche, attitudini e tendenze personali (Zarka, 2009).

Innumerevoli ricerche hanno dimostrato che l’Astrologia è una pseudoscienza basata su credenze e convinzioni prive di alcuna validità scientifica (Ben-Shakhar, & Barr, 2018; Smith, 2011; Zarka, 2009). Nonostante questo, dati della European Commission (2005) hanno evidenziato come il 13% dei cittadini europei considerino l’oroscopo una disciplina scientifica, mentre un’indagine della Doxa (1998) indica che circa il 30% degli italiani afferma di credere nell’astrologia, mentre il 40% circa afferma di credere che gli astri influenzino il carattere delle persone. Ad oggi le stime sul numero di persone che si affidano agli astrologi sono limitate, ma i rapporti Eurispes (2002; 2010) valutano tra i 10 e gli 11 milioni il numero di Italiani (intorno al 18%) che si rivolgono a consulti pseudoscientifici, con una media di 33.000 persone al giorno che chiedono consulti magici. Eurispes (2010) ha anche quantificato il numero di maghi e astrologi intorno alle 155.000 unità nel territorio italiano, inoltre “l’economia dell’occulto” è stata quantificata su cifre superiori ai cinque milioni di euro l’anno con tassi di evasione molto alti (Alibrandi, & Centorrino, 2014; Eurispes, 2002; 2010).

La psicologia si è occupata in diverse occasioni dell’astrologia, dimostrando da un lato l’infondatezza delle previsioni e dei profili caratteriali definiti attraverso l’oroscopo, dall’altro occupandosi della comprensione dei processi che portano le persone a crederci (Allum, 2011; Dean, & Kelly, 2003; Hamilton, 2001). In due larghi studi su un campione totale di oltre 15000 partecipanti, Hartmann, Reuter, e Nyborg (2006) hanno, infatti, verificato l’assenza di relazioni sia della data di nascita che del segno zodiacale con differenze nella personalità, e nei punteggi ai test di intelligenza, concludendo l’assenza di correlazioni fra caratteristiche psicologiche e le configurazioni zodiacali. In una grossa revisione di studi, Dean e Kelly (2003) hanno verificato il funzionamento delle pratiche astrologiche in situazioni controllate. Nello specifico, attraverso il confronto di quaranta studi che hanno testato l’affidabilità di circa 700 astrologi nell’associare i temi astrali di circa 1150 partecipanti ai corrispettivi profili personali e storie di vita, è emerso che gli astrologi tendono ad indovinare un numero di associazioni simile a quello che darebbe a caso un non astrologo. Altri test raccolti da Dean e Kelly (2003) hanno mostrato che chiedendo a dei partecipanti di scegliere l’interpretazione del proprio tema astrale tra un gruppo di profili resi anonimi, la percentuale di risposte corrette era assolutamente casuale, portando alla conclusione che non ci sono prove che la descrizione dell’oroscopo sia discriminante di una persona piuttosto che un’altra e che le descrizioni specifiche dei temi astrali possano in realtà adattarsi a tutti. Un’altra meta-analisi, riportata da Dean e Kelly (2003) su 25 studi che hanno coinvolto un totale di circa 5000 astrologi, ha approfondito il grado di accordo tra astrologi diversi nell’interpretare lo stesso tema astrale, con risultati di accordo simili a zero che enfatizzano l’arbitrarietà dell’oroscopo.

Risulta quindi paradossale come ci possa essere tutto questo interesse per l’astrologia nonostante non ci sia alcun fondamento scientifico a supporto di questa pratica. La psicologia ha quindi cercato di approfondire anche i meccanismi che portano le persone a crederci, notando come spesso chi utilizza l’oroscopo abbia la percezione che il profilo descritto si adatti perfettamente alla propria persona. Questo processo può essere facilmente spiegato attraverso l’effetto Barnum (Glick, Gottesman, & Jolton, 1989) o Effetto Forer (chiamato anche effetto di convalida soggettiva), che consiste in un fenomeno psicologico per cui le persone tendono a riconoscersi in affermazioni ed interpretazioni di personalità generali, molto comuni e vaghe, se sono convinti che siano state preparate appositamente per loro (Dickson, & Kelly, 1985). Uno studio classico su questa tematica è quello di Forer (1949) che ha condotto un esperimento con alcuni studenti del suo corso, chiedendo loro di compilare un test di personalità e di valutare quanto ritenessero che il profilo fornito individualmente dopo qualche giorno, fosse in linea con la loro personalità. Gli studenti fornirono punteggi molti alti di concordanza, nonostante, a loro insaputa, il professor Forer avesse fornito a tutti lo stesso profilo di personalità, creato con affermazioni generiche ed approssimative prese da un libretto di oroscopi acquistato in edicola (per maggiori dettagli sull’esperimento di Forer consulta l’articolo di State of Mind). Studi successivi (Dickson, & Kelly, 1985) hanno dimostrato che questo effetto è più forte se la persona che riceve la descrizione ritiene che l’analisi sia personalizzata ed esclusiva di sé e se chi effettua la descrizione viene percepito come “autorevole”. Allo stesso modo, le descrizioni ed interpretazioni costituite principalmente da tratti e caratteristiche positive tendono anche ad essere considerate maggiormente veritiere rispetto a quelle caratterizzate da aspetti negativi (Dickson, & Kelly, 1985), per questo motivo generalmente le previsioni astrologiche sono favorevoli e forniscono speranze che le rendono particolarmente attrattive riuscendo ad incuriosire anche alcuni scettici (Glick, et al., 1989).

Oltre l’uso di affermazioni generiche nelle quali è semplice riconoscersi, l’astrologia si fa forza della tendenza a verificare la vaga previsione astrologica a posteriori da parte degli utenti. Una frase generica come: “l’incontro con una persona cambierà la tua giornata”, potrebbe essere applicata a tantissimi contesti, persone e situazioni, ed è così vaga che è altamente probabile che si avveri, ma indipendentemente se l’incontro sia con un amico, parente, conoscente o collega si potrebbe poi giungere a confermare che quello che era stato predetto si è effettivamente avverato. Questo significa che chi va dall’astrologo o legge l’oroscopo potrebbe applicare inconsapevolmente un “bias di conferma” alle numerose dichiarazioni ambigue che riceve, trovando agganci a eventi accaduti nella propria vita che possano confermare previsioni astrologiche (Lindeman, 1998). Il bias di conferma, infatti, è un errore cognitivo che porta inconsapevolmente a ricercare, interpretare e attribuire maggiore credibilità alle informazioni che confermano le proprie idee, aspettative, ipotesi e credenze (Nickerson, 1998; Oswald, & Grosjean, 2004). Applicando questa forma di pensiero selettivo, è molto probabile che il cliente/lettore cercherà inconsapevolmente di adattare alla propria condizione le vaghe informazioni plausibili fornite dall’astrologo, ma dimenticando o trascurando quelle incompatibili. Allo stesso modo, in linea con gli studi sulla profezia che si auto-avvera (Jussim, 1986), chi crede all’astrologia e all’oroscopo, inconsapevolmente si comporterà in modo da far avverare le previsioni ricevute (Snyder, & Glick, 1986). Continuando con l’esempio precedente, se un ragazzo legge nel suo oroscopo che “l’incontro con una persona cambierà la tua giornata”, probabilmente in modo inconsapevole farà più attenzione alle relazioni con gli altri, cercherà di essere più socievole ed estroverso, aumentando le probabilità che l’oroscopo abbia ragione (per maggiori dettagli sulla profezia che si auto-avvera consulta l’articolo di State of Mind)!

L’astrologia condivide con le altre pseudoscienze la tendenza a fornire soluzioni facili alle difficoltà della vita, alimentando false speranze con ricette affascinanti e semplici da mettere in pratica (Ben-Shakhar, & Barr, 2018). Anche la promessa di sapere in anticipo il futuro riduce la paura e l’incertezza per quello che potrà accadere, e l’astrologia fornisce una serie di affermazioni piacevoli e lusinghiere in grado di offuscare la realtà dei fatti, specialmente in situazioni di particolare stress o difficoltà. Risulta quindi chiaro come l’astrologia basi il suo successo sullo sfruttamento a proprio favore di un insieme meccanismi psicologici che involontariamente fanno credere all’esistenza di qualcosa che non esiste (Lillqvist, & Lindeman, 1998). Alla luce di queste considerazioni, risulta fondamentale promuovere una cultura scientifica che permetta di discriminare le pratiche scientifiche da quelle pseudoscientifiche come l’astrologia, nonostante la popolarità ed il fascino illusorio che possano avere.

Ipnosi e terapia del dolore – Intervista al Professor Giuseppe De Benedittis

Le applicazioni dell’ipnosi, come trattamento in sé o come intervento complementare finalizzato alla gestione del dolore, coprono una nutrita varietà di ambiti per cui le ritroviamo nel dolore acuto e nel dolore cronico.

 

La terapia e la gestione del dolore, inteso e valorizzato come quinto segno vitale del paziente, hanno una storia relativamente recente.

Definendo il dolore come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di tale danno (IASP, 1986) viene spontaneo chiedersi quale strumento o approccio possa comprendere ed integrare il più ampio numero di questi aspetti nel processo di cura.

I tentativi per arginare quest’esperienza spiacevole, di cui, solo nel tempo, è stata riconosciuta la complessità, hanno accompagnato la storia dell’uomo fin dalle origini con i metodi più particolari, arrivando all’attuale approccio multidisciplinare.

Per questo e altri quesiti siamo andati ad intervistare il Professor Giuseppe De Benedittis, psichiatra e psicoterapeuta, anestesiologo e neurochirurgo. Giuseppe De Benedittis è Professore Associato di Neurochirurgia presso l’Università degli Studi di Milano (1986), Direttore del Centro per lo Studio e la Terapia del Dolore dell’Università di Milano (1988-), Responsabile dell’U.O. “Terapia del Dolore” dell’Ospedale Maggiore Policlinico IRCCS di Milano (2000-), Docente nella Scuola di Specializzazione in Neurochirurgia (1981-), in Medicina Fisica e Riabilitazione (1981-) e in Malattie del Sistema Nervoso dell’Università di Milano (1995).

Le applicazioni dell’ipnosi, come trattamento in sé o come intervento complementare finalizzato alla gestione del dolore, coprono una nutrita varietà di ambiti per cui le ritroviamo: nel dolore acuto (in chirurgia, ostetricia, odontoiatria, nel trattamento dei grandi ustionati…) e nel dolore cronico (cefalee croniche primarie, algie orofacciali, algie muscolo-scheletriche, mal di schiena aspecifico, dolore neuropatico, dolore oncologico, dolori viscerali e urogenitali, dolore psicogeno).

Nel Blue Book, di cui il Professor De Benedittis è stato uno degli autori, oltre a una sistematizzazione della letteratura scientifica evidence based essenziale e relativa alle principali applicazioni dell’ipnosi in medicina/chirurgia, in psichiatria/psicoterapia, in medicina psicosomatica e in popolazioni speciali, ritroviamo anche utili riferimenti per orientare il pubblico interessato all’ipnosi, tramite parti psico-educazionali e riferimenti di centri e professionisti presenti sul territorio nazionale, divisi per regione e per competenza.

Questo libro sembra anticipare uno degli attuali propositi del board dell’International Society of Hypnosis di portare l’ipnosi ad essere riconosciuta a pieno titolo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità fra i trattamenti efficaci in primis nella gestione del dolore.

Ipnosi e terapia del dolore: indice dell’intervista 

0:39 Ipnosi e gestione del dolore hanno avuto uno stretto legame fin dalle origini dell’ipnosi stessa. Quali sono state le prime applicazioni e come si declina questo legame oggi?

1:52 Ha curato assieme al dott. Claudio Mammini e al dott. Nicolino Rago Blue Book – Una guida all’ipnosi evidence based, che sistematizza la letteratura scientifica dell’ipnosi in base al grado di efficacia. Che sviluppo vede per l’ipnosi clinica e l’ipnoterapia ericksoniana in tal senso?

4:11 L’attenzione pubblica si sta mostrando sempre più sensibile verso la fibromialgia. Quali trattamenti possono giovare a chi soffre di questa sindrome? E l’ipnosi che ruolo può avere?

6:23 Nel Blue Book viene spesso citata l’ipnoanalisi. Ci può spiegare meglio in cosa consiste, quali sono i vantaggi che la rendono efficace e come la utilizza nella sua pratica clinica?

9:20 Una delle sfide in cui è attualmente impegnato è far riconoscere all’Organizzazione Mondiale della Sanità le applicazioni cliniche dell’ipnosi nel campo della terapia dolore. Ce ne può parlare?

 

GUARDA L’INTERVISTA IN VERSIONE INTEGRALE:

 

Adolescenti senza tempo (2018) di M. Ammaniti – Recensione del libro

Adolescenti senza tempo offre un interessante contributo all’analisi del cambiamento negli anni del concetto di adolescenza, proponendo un viaggio che coniuga teorie del passato e nuove ricerche.

 

Nel libro Adolescenti senza tempo, Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario dell’Università la Sapienza di Roma, offre un ricco contributo nell’esaminare il cambiamento negli anni del concetto di adolescenza, a partire dagli studi dei primi anni del ‘900 ai giorni nostri.

Sarebbe infatti anacronistico, per chi si relaziona con gli adolescenti di oggi, cercare chiavi di lettura nei libri di psicologia degli ultimi 50 anni, che fanno riferimento ad adolescenti contestualizzati in una società che non ha più nulla a che fare con la nostra società attuale. Per supportare questo punto di vista, Ammaniti accompagna il lettore in un viaggio interessante nelle teorie del passato, che parte dalla pubblicazione di Stanley Hall nel 1904 del suo manuale, che sancisce la nascita concettuale dell’adolescenza, per passare agli scritti di Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, dell’anno successivo, dove ha dedicato una parte alle trasformazioni della pubertà. In particolare si sofferma sulle teorie di Hall, confrontandole con le ricerche recenti sulla biologia e sullo sviluppo neurocerebrale che contraddistinguono questa fase della vita. L’aspetto contestualista viene proposto riprendendo il famoso studio di Margaret Mead sugli adolescenti dell’isola di Samoa e più recentemente l’idea di un cervello “culturalizzato” dell’antropologa Suparna Choudhury.

Il terzo capitolo è dedicato al famoso caso di Dora di Freud, che si legge sempre con grande piacere, per passare al quarto capitolo con gli scenari del dopoguerra, caratterizzati dall’irrompere di una gioventù ribelle e sovversiva, rappresentata nel mondo del cinema, con film che hanno segnato la storia come Gioventù Bruciata e Il seme della violenza, e nella letteratura degli anni ’50, con il famoso Il giovane Holden di J.D. Salinger. Da qui avviene una profonda linea di demarcazione nel modo giovanile, che inizia un movimento di separazione dal nido genitoriale, per avvicinarsi a un senso di identità gruppale, dove il ragazzo può sperimentare un nuovo senso di appartenenza, come viene raccontato nel quarto capitolo del libro insieme a storie di adolescenti, come il caso di Adriano.

Oggi sembra difficile, se non impossibile, inquadrare gli adolescenti nell’ottica delle generazioni precedenti. L’era digitale dei social network, a partire dalla generazione dei millennials, ha cambiato le carte in tavola nella costruzione del senso di identità di gruppo, lasciando spesso gli adolescenti di oggi smarriti e soli, con una grande difficoltà a costruire relazioni con i pari autentiche e nelle quali crescere attraverso un confronto costruttivo. Anche su questo tema vengono proposti diversi esempi clinici, con una chiave di lettura psicoanalitica e rivolta al bisogno narcisistico dei nuovi adolescenti di trovare un equilibrio tra il bisogno di identificazione e crisi di identità. Un’adolescenza che in alcuni casi sembra non avere mai fine. Il nono capitolo è dedicato alle caratteristiche ormonali e cerebrali tipiche di questa fase della vita, che possono portare in modo transitorio a un “disallineamento dello sviluppo” e che si può manifestare attraverso la messa in atto di comportamenti a rischio. Prendendo spunto da ricerche recenti, Ammaniti propone una disamina del comportamento digitale e dell’uso dei social network come canale per la ricerca di una nuova immagine di sé, mettendo in luce i rischi che ciò può comportare. L’ultimo capitolo è dedicato ai genitori, con i loro vissuti di smarrimento e senso di impotenza dai quali spesso vengono travolti, incapaci di trovare risposte di fronte a questi nuovi scenari.

Un libro molto interessante e ricco di spunti sui quali riflettere, su un argomento che appartiene a tutti noi, pur facendo parte di una generazione ormai démodé.

Riattivare i neuroni ‘’spenti’’ delle persone in stato di alterazione di coscienza? Potrebbe essere possibile grazie alle stimolazioni trans-craniche

Un recente studio mostra come alcuni tipi di stimolazione transcranica possano migliorare le funzioni uditive, visive, motorie e comunicative, ma non le capacità verbali di pazienti in stato di minima coscienza.

 

Quando parliamo di coscienza facciamo implicitamente riferimento alla vigilanza e alla consapevolezza: la prima riguarda la capacità della persona di rimanere deliberatamente sveglia, mentre la seconda si riferisce alla consapevolezza che l’individuo ha di se stesso e dell’ambiente circostante.

Può capitare che, dopo un trauma a livello cerebrale, si verifichi un’alterazione dello stato di coscienza. Le alterazioni di coscienza possono quindi riguardare la vigilanza, rappresentata da un continuum che va dalla veglia al coma, e la consapevolezza, nella quale abbiamo da una parte la piena consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante e all’opposto troviamo la totale assenza di queste facoltà cognitive.

Una delle alterazioni di coscienza maggiormente studiate in letteratura è lo stato di coma. Ippocrate lo definì come ‘’Il cadavere in sonno letargico”. La persona che si trova in questa condizione ha perso totalmente la consapevolezza di sé e dell’ambiente; anche la vigilanza risulta completamente assente, infatti il soggetto non può essere svegliato né con stimoli verbali né tramite stimoli dolorosi. È tuttavia diverso dalla morte cerebrale, dato che alcune funzioni cerebrali nello stato di coma rimangono attive (ad esempio, in alcuni casi il soggetto è in grado di respirare da solo) (Baruss, 2003).

Si parla di stato di minima coscienza (MCS) quando il soggetto mostra consapevolezza di sé e/o dell’ambiente minime, come ad esempio l’apertura degli occhi se stimolato, oppure seguire con lo sguardo uno stimolo visivo (Giacino et al., 2002). L’ MCS è una condizione clinica che si può verificare a seguito di danni cerebrali, o come evoluzione di stadi come il coma o lo stato vegetativo (presenza di vigilanza ma assenza di coscienza). Questa condizione è oggetto di molteplici studi sperimentali atti a trovare terapie efficaci: le due metodologie più indagate al momento sono la stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) e la ripetuta stimolazione magnetica transcranica (rTMS).

Entrambe sono metodologie non invasive, più nello specifico:

  • tDCS: tecnica di neuro-modulazione, che consiste nell’applicare due elettrodi sullo scalpo della persona che genereranno una corrente elettrica continua di 1-2mA; la stimolazione può essere anodica, nel caso si volesse provocare un’eccitazione delle zone stimolate, e catodica, per inibire le zone stimolate (Sadleir et al., 2010).
  • rTMS: tecnica di neuro-modulazione, basata su una bobina che genera un campo magnetico che va a interferire con l’attività elettrica neuronale; anche in questo caso è possibile applicare una stimolazione ad alta frequenza per eccitare, oppure a bassa frequenza per inibire, determinate zone cerebrali (Paulus,2005).

I ricercatori Yicong Lin e Yuping Wang hanno condotto uno studio sperimentale atto a verificare l’effetto di una stimolazione anodica tramite la tDCS e di una stimolazione ad alta frequenza tramite la rTMS su pazienti in stato di minima coscienza. Si tratta di uno studio pilota, infatti il campione era composto da due soggetti con condizioni cliniche simili, quindi entrambi in stato di MCS.

I due partecipanti sono stati suddivisi uno nella condizione sperimentale (veniva quindi stimolato tramite tDCS e rTMS) e uno nella condizione di controllo (nessuna stimolazione). Al fine di valutare l’efficacia del trattamento, i ricercatori hanno misurato il grado di severità del coma tramite degli appositi strumenti, come la Glasgow Coma Scale (GCS) prima, durante e dopo il trattamento.

I risultati mostrano un miglioramento significativo, che perdura nel tempo nel soggetto che è stato sottoposto alla stimolazione: in particolare si registra un miglioramento nelle funzioni uditive, visive, motorie e comunicative; rimangono tuttavia invariate le capacità verbali (Lin et al., 2019).

In conclusione, la stimolazione tramite la tDCS e la rTMS risulta essere efficace e in grado di apportare dei benefici ai soggetti in stato di minima coscienza; tuttavia i ricercatori suggeriscono il bisogno di ulteriori studi, per perfezionare e comprendere al meglio come utilizzare le suddette procedure cliniche, per massimizzarne gli effetti terapeutici (Lin et al., 2019).

 

Modulare la coscienza stimolando l’epitelio olfattivo? È possibile!

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa ha indagato il legame tra respiro e coscienza, due mondi apparentemente lontani, ma incredibilmente vicini, come già testimoniato dalle tecniche del respiro lento meditativo che possono arrivare a provocare veri e propri stati alterati di coscienza.

 

Negli ultimi anni la meditazione si sta diramando sempre di più anche in occidente, i suoi potenti effetti sulla mente e sul corpo sono stati riconosciuti dalla comunità scientifica e gli studi a riguardo hanno subito un notevole incremento. C’è un elemento di grande interesse che caratterizza le pratiche meditative: il controllo volontario del respiro. Le tecniche di respirazione lenta vengono impiegate in maniera versatile, nel caso della meditazione queste tecniche provocano dei veri e propri stati alterati di coscienza (Goleman, 1997). Lo stato modificato di coscienza si caratterizza per una percezione sempre più fine di sé, un distacco da tutti gli altri eventi e una concentrazione al momento presente. Il connubio intrigante tra respiro e coscienza ha spinto un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa a indagare questo legame apparentemente lontano, ma incredibilmente vicino.

Quali sono gli effetti delle tecniche di respirazione lenta sul nostro cervello?

Una considerevole mole di studi ha messo in evidenza come la meditazione abbia la capacità di modificare l’attività cerebrale, grazie all’EEG sappiamo che porta ad un incremento dell’attività theta (4-8 Hz) in molte regioni cerebrali (Aftanas et al., 2001). La respirazione lenta, direttamente collegata alla meditazione, è anch’essa in grado di elicitare notevoli modificazioni: quando su modelli animali hanno stimolato l’epitelio olfattivo con ritmi lenti è stata ritrovata la stessa frequenza a livello corticale. Negli animali il ritmo della respirazione riesce a sintonizzare l’attività di scarica di neuroni lontani dalla corteccia olfattiva. Questi pattern straordinari non sono osservabili nel caso di respirazione con la bocca e nel caso della tracheotomia. Una visione fin troppo semplicistica ha portato all’errore di considerare i neuroni olfattivi semplicemente come rilevatori di odori, oggi possiamo affermare che le loro capacità vanno ben oltre, questi neuroni se stimolati riescono addirittura a rispondere a stimoli di natura meccanica (Grosmaitre et al., 2007). Come correliamo quello che la ricerca ha individuato tramite l’elettrofisiologia con quello che la persona percepisce durante la meditazione? Le oscillazioni lente dovute alla respirazione individuate a livello corticale si associano a ciò che la persona esperisce: aumento dell’attenzione verso l’interno, miglior focalizzazione su quanto accade al momento presente, abbassamento dei livelli d’ansia e di stress (Goleman, 1997).

È possibile ricreare quello che accade durante la meditazione?

Assolutamente sì! Un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa, partendo dagli studi sulla meditazione, si sono focalizzati non tanto sulle tecniche meditative che hanno la respirazione lenta solo come effetto secondario, ma sono andati a indagare i correlati della respirazione lenta. Il loro lavoro nasce dall’ipotesi che l’accoppiamento respirazione-attività neurale sia in grado di modulare il comportamento e lo stato di coscienza nell’uomo. Quello che hanno fatto è stato ricreare una condizione simil-meditativa: per simulare la respirazione lenta della meditazione, hanno utilizzato un’apposita cannula nasale per stimolare periodicamente (8 secondi di stimolazione e 12 secondi senza stimolazione) l’epitelio olfattivo attraverso aria compressa inodore ad una frequenza di 0,05 Hz per 15 minuti. Questa frequenza specifica non è frutto del caso, ma è stata scelta in quanto replica le frequenze lente della respirazione nelle pratiche meditative (Arambula et al., 2001; Jerath et al., 2006). Per l’indagine sperimentale sono stati scelti 12 soggetti sani, ognuno ha preso parte a due sessioni diverse: una sperimentale che prevedeva la stimolazione nasale (detta “nasal stimulation”, NS) e una di controllo in cui la stimolazione era assente (detta “controllo session”, CS). Le due sessioni si sono svolte ad una settimana l’una dall’altra e in entrambi i casi i soggetti sono stati monitorati con l’EEG, successivamente i ricercatori hanno confrontato i dati raccolti ottenuti nelle due diverse fasi dell’esperimento.

Quello che emerge assume un’importanza enorme: unicamente nella fase post NS è stato registrato un aumento delle frequenze theta e delta nella corteccia orbitofrontale, prefrontale mediale (bilaterale per theta, destra per delta), giro paraippocampale, corteccia entorinale, corteccia cingolata destra e nel precuneo (Piarulli et al., 2018). Un altro aspetto importante che emerge dallo studio riguarda la direzione del flusso delle informazioni: nella condizione post stimolazione il flusso ha subito un’inversione rispetto alla condizione pre-stimolazione per la frequenza theta. Nella veglia la direzione del flusso delle informazioni è postero-anteriore, invece sia nel sonno REM che nel sonno NREM la direzione è antero-posteriore.

I soggetti hanno percepito qualcosa di diverso con la stimolazione nasale?

Le due sessioni a livello elettrofisiologico sono diverse tra di loro, i dati EEG indicano che accade sicuramente qualcosa nei soggetti, ma cosa hanno percepito veramente? Si sono accorti della differenza tra le due sessioni? I ricercatori sono riusciti a ricreare uno stato simil-meditativo?

Per indagare a fondo l’esperienza soggettiva vissuta da ogni singolo partecipante è stato utilizzato il Phenomenology of Consciousness Inventory (PCI). Questo strumento ha permesso di associare ai dati EEG il vissuto esperienziale dei partecipanti durante la stimolazione: queste persone hanno riportato di sentirsi come in uno stato modificato di coscienza, hanno percepito il tempo in maniera diversa e hanno notato un aumento dell’attenzione rivolta all’interno. Le sensazioni che emergono sono le stesse che provano coloro che praticano la meditazione, chi pratica determinate tecniche riesce a vivere uno stato modificato di coscienza e riesce anche focalizzarsi maggiormente su ciò che accade all’interno e non all’esterno. L’esperienza vissuta dai partecipanti allo studio si associa perfettamente con quanto registrato dall’EEG.

Ad oggi il tema della coscienza è tanto intrigante quanto complicato, la respirazione potrebbe essere un varco per far luce su questo mondo così difficile da comprendere. Questo lavoro è sorprendente perché permette di andare oltre il ruolo classico a cui siamo abituati della respirazione, inoltre, ci consente di capire quanto la sola respirazione sia in grado di aiutarci nell’arduo compito di comprendere la coscienza.

Change: sulla formazione e la soluzione dei problemi. (1974) di P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fisch – Recensione del libro

Change è un testo ricco di contenuti teorici ed aspetti pratici e operativi, nel quale Paul Watzlawick, John H. Weaklend e Richard Fisch hanno messo in luce la loro capacità di scrivere in maniera coinvolgente, cominciando a formulare sul panorama della psicologia aspetti di un approccio terapeutico innovativo e originale.

 

Di teoria del cambiamento ce n’è a bizzeffe, ma è la prima volta che in una teoria del cambiamento viene assunto seriamente ad oggetto di analisi il cambiamento stesso per accertare sia come si verifica spontaneamente sia come si può provocarlo

Così recita la prefazione del testo Change scritta direttamente da Milton Erickson, un testo edito nel 1974, ma fortemente innovativo e attuale per contenuti e stile.

Paul Watzlawick, John H. Weaklend e Richard Fisch, in questa opera hanno messo in luce la loro capacità di scrivere in maniera coinvolgente cominciando a formulare sul panorama della psicologia aspetti di un approccio terapeutico innovativo e del tutto originale, come conoscere problemi attraverso le loro soluzioni, il concetto di tentate soluzioni, la distinzione tra cambiamento di tipo 1 e cambiamento di tipo 2, l’utilizzo dei paradossi; un testo contenente contributi teorici uniti ad aspetti pratici ed operativi.

Cambiamento1 e Cambiamento 2

Come ben si deduce dal titolo, il tema centrale del testo è il cambiamento unito all’approfondimento di ciò che lo può favorire così come ciò che lo può ostacolare.

Interessante nota descritta dagli autori diventa la presentazione di come il terapeuta, riuscendo a conoscere come si è formato e come si mantiene il problema del paziente, possa strategicamente utilizzare lo stesso comportamento come prescrizione paradossale per favorirne il cambiamento.

Il testo parte con la distinzione tra cambiamento1 e cambiamento 2. Il primo rimanderebbe al concetto di omeostasi, ossia la tendenza di ogni organismo vivente, compreso l’uomo, a mantenere una sorta di stabilità interna al sistema, aspetto che spiegherebbe anche la resistenza al cambiamento stesso, e cambiamento 2 invece quando il cambiamento sarebbe introdotto nel sistema dall’esterno risultando non familiare e anche “poco logico”, ma l’originalità, la deviazione dalle comuni norme e regole ordinarie della logica, sono ciò che contraddistingue lo stile di pensiero degli autori e che, secondo gli stessi, faciliterebbe il cambiamento.

Nei vari capitoli si susseguono diversi modelli originali come “più di prima” dove spesso sono proprio le tentate soluzioni (altro concetto coniato dalla Scuola di Palo Alto) messe in atto dalla persona nel tentativo di provocare un cambiamento ad aumentare e generare il problema, individuando anche le tre modalità più frequenti come: negare il problema, tentare di cambiare una situazione immutabile, agire un cambiamento ad un livello sbagliato. Ognuno di questi concetti viene sempre accompagnato da spiegazioni ed esempi che ne facilitano la comprensione da parte del lettore.

Dal terribile semplificateur all’utipista

Altra distinzione interessante che viene proposta in termini di genesi e/o mantenimento dei problemi, è quella del terribile semplificatore e dal suo lato opposto l’utopista dove, se da una parte il primo tende a non voler vedere i problemi e negarli come si diceva precedentemente, dall’altra parte l’utopista è colui che vede soluzioni dove non ce ne sono. Sia in un senso che nel suo opposto, l’abilità del terapeuta deve risiedere nel riuscire a contemplare, guardando attraverso gli occhi del paziente, anche strategie a volte bizzarre, apparentemente magiche o illogiche, che possano servire a sbloccare lo stallo del paziente.

I paradossi

Altro tema centrale all’interno del testo e strumento terapeutico poi all’interno dell’approccio strategico è il ricorso ai paradossi, come quello del Sii spontaneo, che come ben fanno notare gli autori, come potrebbe  una richiesta di un comportamento che per sua natura dovrebbe avvenire spontaneamente, realizzarsi su richiesta? E in merito a tale paradosso gli esempi variano dall’ambito delle problematiche di coppia, all’ambito delle problematiche tra genitori e figli, ritrovabile anche nelle dinamiche dei disturbi del sonno, nei disturbi della sfera sessuale o anche in ambito sociale.

Gli autori sottolineano poi come aspetti essenziali per favorire un cambiamento2 diventerebbe agire nel qui ed ora, provando ad interrogarsi più su che cosa mantiene il problema oppure su che cosa una persona ha messo in atto fino a quel momento per favorire il cambiamento (tentate soluzioni), piuttosto che sul perché, che rimanderebbe al passato, tempo in cui non si può più agire in alcun modo, se non con un altro strumento descritto all’interno del testo ossia la ristrutturazione. Tale tecnica, riportando la descrizione che gli autori forniscono all’interno del testo, consiste nel

dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale e/o emozionale del soggetto e porlo in condizione di considerare i “fatti” che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare meglio la situazione anziché eluderla, perché il modo nuovo di guardare la realtà ne ha mutato completamente il senso.

Ed ancora

la ristrutturazione non cambia i fatti concreti ma il significato che il soggetto attribuisce alla situazione

perché come affermava già Epitteto:

non sono le cose in se stesse a preoccuparci ma le opinioni che ci facciamo di esse.

La pratica del cambiamento

Nel capitolo nono gli autori, dalla loro esperienza clinica e di ricerca, giungono a formulare un processo a quattro gradini attraverso il quale affrontare problemi:

  • Una definizione chiara del problema in termini concreti;
  • Un’analisi della soluzione  finora tentata;
  • Una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare;
  • La formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento.

Una messa a punto dunque di una strategia di problem solving, altamente funzionale ed efficace.

L’ultima parte del testo si arricchisce di esempi, offrendo anche spunti di tecniche e strategie paradossali applicate ad estratti di casi clinici per favorire il cambiamento e dove i titoli non possono non incuriosire o rimanere impressi nella mente del lettore; ne sono esempi il disoccultare l’occulto, pubblicizzare anziché nascondere, utilizzare la resistenza per abbattere la stessa, sabotaggio benevole ed il patto con il diavolo.

Un testo non recente, ma fortemente attuale, che con eleganza e maestria riesce a creare connessioni tra psicologa, filosofia, storia e discipline orientali, con aspetti innovativi senz’altro rispetto alle tradizioni psicoanalitiche che per molto tempo hanno dominato il mondo della psicologia e con contributi condivisi da altri orientamenti teorici come ad esempio, con la terapia cognitivo comportamentale con la quale condividono l’attenzione al presente, l’agire nel qui ed ora, il fornire un ruolo attivo al paziente e lavorare in termini di ristrutturazione, ognuno poi mantenendo le proprie specificità ed unicità. Un testo dunque che a mio avviso non può mancare nel bagaglio del professionista che opera per favorire il cambiamento.

 

Il dono nella cultura greca: dal dono al dono funesto

La pratica del dono, nelle culture arcaiche, come abbiamo visto, rientra nei comportamenti improntati alla reciprocità, ovvero all’obbligo di compiere, a fronte di un’azione, un’altra azione uguale in direzione contraria. Il dono è lo strumento con cui si creano i vincoli ospitali, che si passano in eredità all’interno del gruppo familiare. Questa pratica nell’antica Grecia veniva definita xenia, appunto ospitalità.

 

La pratica della Xenia veniva tutelata da Zeus xenios (protettore degli ospiti) il quale si fa anche garante della reciprocità ovvero che l’ospitante possa in futuro ricevere una eguale forma di assistenza.

La xenia si reggeva su un sistema di prescrizioni e consuetudini non scritte che si possono riassumere in tre regole di base:

  • il rispetto del padrone di casa verso l’ospite
  • il rispetto dell’ospite verso il padrone di casa
  • la consegna di un regalo d’addio all’ospite da parte del padrone di casa.

La strutturazione dello xenia creava un vincolo indissolubile tra ospitante e ospitato, tant’è che nell’Iliade, Glauco e Diomede, due guerrieri che militano su fronte opposti, sul campo di battaglia scoprono di essere legati dal vincolo dell’ospitalità. Infatti, Diomede, all’inizio del duello, indaga sulle origini di Glauco scoprendo che Oineo, padre di Diomede, aveva ospitato un tempo Bellerofonte, antenato di Glauco e si erano scambiati doni ospitali. A quel punto Diomede così si rivolge Glauco “io sono per te in Argo ospite caro, tu in Licia, se mai io giunga tra quel popolo”. A quel punto cessano le ostilità e si scambiano le armi.

Sempre nell’Iliade, vi è un caso di alterazione delle regole e del rituale dello xenia. Paride, che era ospite di Menelao, rapisce Elena non comportandosi da soggetto ospitato scatenando una guerra che durò parecchi anni delle città greche contro Troia, patria di Paride. Nell’Odissea, vi è un caso altrettanto significativo di ospitalità negata che contravviene alle norme comportamentali riconosciute. Ulisse da straniero bisognoso cerca di stabilire un vincolo relazionale chiedendo un dono ospitale a Polifemo. Quest’ultimo, negando ogni forma di ospitalità, risponde che lo avrebbe divorato per ultimo. Tra l’altro, al contrario di quanto avviene nelle regole dell’ospitalità in cui è il padrone di casa che offre doni agli ospiti, sono Ulisse e i suoi compagni che offrono in dono il vino a Polifemo. Il vino offerto risulta un dono avvelenato poiché serve per ubriacare Polifemo per poi poterlo accecare. Ulisse, nelle opere di Omero, è il creatore e fautore dei doni avvelenati. Nell’Iliade, infatti, crea e favorisce la costruzione del cavallo che serve a sconfiggere definitivamente i troiani.

Più tardi, Virgilio nell’Eneide fa dire a Laocoonte “timeo Danaos et dona ferentis” (Temo i greci anche quando/se portano doni) nel tentativo di dissuadere i troiani dall’accogliere il dono del cavallo e dal trasportarlo dentro le mura. Il dono senza un ricambio, ovvero quello a senso unico, è un dono ingannevole. Nella cultura Greca, vi sono tanti esempi di doni avvelenati. Sofocle nelle Trachinie racconta che Nesso, in punto di morte, aveva donato a Deianira un poco del suo sangue spacciandolo come un filtro amoroso. Quest’ultima, in preda alla gelosia, per riconquistare Eracle gli manda in dono una veste intrisa di questo sangue. Eracle muore in mezzo a dolori strazianti indossando la veste. La stessa sorte tocca alla futura sposa di Giansone, nella Medea di Euripide, che muore insieme al padre a seguito del dono ricevuto da Medea (una veste e una ghirlanda di fiori). In quest’opera c’è di più nel dono ingannevole. Medea, infatti, non solo attraverso un regalo malefico uccide la rivale in amore, ma per vendetta elimina i figli non dando all’ex marito la possibilità di una continuità generazionale. Euripide sembra voler dire che i doni ingannevoli e/o malefici servono a rompere i legami. Anche il dono di Zeus a Pandora contiene un regalo malefico onde potersi vendicare di Prometeo e degli uomini che avendo ricevuto il fuoco da quest’ultimo si mostravano gioiosi, baldanzosi ed alteri. Pandora, che in greco significa tutti i doni poiché ogni dio le fece un dono nel momento in cui stava per lasciare l’Olimpo, venne sulla Terra con un vaso donato da Zeus che, con una richiesta paradossale, le chiese di non aprirlo mai. Zeus sapeva benissimo che la sua richiesta avrebbe stimolato la curiosità di Pandora la quale, dopo essersi sposata, aprì il vaso e da lì uscirono tutti i mali. Alla fine, dal vaso uscì anche la speranza, che permise agli uomini di sopravvivere. La speranza, come vedremo in appresso, costituisce una delle caratteristiche e dimensioni fondamentali del dono in ambito generazionale.

Dal dono avvelenato, invece, nasce la patologia nelle relazioni. Scabini e Greco, individuano nel dono come forma di coercizione e controllo uno dei fattori scatenanti la suddetta patologia. Essi spiegano:

nelle relazioni familiari positive, le persone sentono di dovere molto agli altri, ma tale obbligazione è più dell’ordine della gratitudine che della coercizione. La patologia invece si annida là dove l’obbligatorietà è coatta, e dove il rapporto costi/benefici regge la relazione strutturalmente e non episodicamente. Infatti quando la coppia, o la famiglia, è ossessivamente centrata sul calcolo dare/avere, cioè sugli aspetti di controllo e reciprocità a breve termine, produce relazioni disturbate (1999).

Se il dono avvelenato o ingannevole comporta distruzione personale e sociale, il dono serve a legare, a creare legami. Nella cultura greca spesso gli dei donavano agli uomini e agli altri dei. Dionisio dona agli uomini l’ebbrezza e il vino; Demetra i cerali e il grano; Artemide gli animali selvatici e la caccia e così via. Gli dei donano per legarsi agli uomini o, al contrario, per legare gli uomini a loro. Zeus si adira con Prometeo perché aveva donato il fuoco agli uomini che erano diventati alteri nei confronti degli dei e, quindi, manda i mali con Pandora. Vi è anche uno scambio di doni tra gli stessi dei per fare legame. Hermes regala ad Apollo la lira per placare l’ira di quest’ultimo a cui aveva sottratto 50 vacche.

Il dono non serve semplicemente a riparare, ma, soprattutto, a difendere e ripristinare i legami. Un esempio, si trova nell’Iliade nella quale Achille offre la propria vita per vendicare l’amico Patroclo. Egli sapeva benissimo che affrontare Ettore significava o morire durante il duello o l’avverarsi della profezia di sua madre che la vittoria si sarebbe trasformata in una sconfitta poiché avrebbe comportato la sua futura morte.

Il dono come modalità di legame è presente anche all’interno degli insegnamenti della filosofia. Eschine, un allievo povero di Socrate, si trovò in difficoltà poiché il maestro riceveva molti regali e lui non era in grado di fargliene e gli disse:

Non trovo nulla da offrirti che sia degno di te e per questo solo m’accorgo di esser povero. Perciò ti dono l’unica cosa che possiedo, me stesso. Ti prego di gradire questo dono, qualunque sia, e pensa che gli altri, pur offrendoti molto, hanno tenuto per se stessi molto di più.

Socrate rispose:

e perché il dono che mi hai fatto non dovrebbe essere prezioso, a meno che tu non abbia poca stima di te? Avrò, dunque, cura di restituirti te stesso migliore di come ti ho ricevuto.

Per Socrate il dono è la filosofia. Questa affermazione, come riportata nell’Apologia, la fa davanti ai giudici nel processo in cui viene accusato di non venerare gli dei della città e di corrompere l’educazione dei giovani. Alla fine del suo discorso afferma di essere il dono di dio per la città. Egli sostiene che il filosofo ha l’obbligo, attraverso le sue analisi ed elaborazioni, di dire la verità e donarla alla città. Socrate, nell’Alcibiade minore, affronta il legame tra gli uomini e gli dei attraverso l’atto del donare. Nel dialogo, egli convince Alcibiade che è pericoloso accettare doni dagli dei così come chiederli poiché, spesso, portano con sé sia il trionfo che la caduta come la morte. Achille, l’eroe dell’Iliade, riceve dagli dei sia il trionfo – le vittorie in battaglia –  sia la morte. Neanche il contro dono inteso come restituzione è utile a questa causa. I sacrifici di Priamo agli dei non evitarono a Troia di capitolare. Il dialogo si chiude con Alcibiade che incorona Socrate con la corona sacrificale. Quest’ultima rappresenta il controdono di Alcibiate che tende a sottolineare la grandezza del maestro che lo aveva convinto attraverso la maieutica (A. Tagliapietra, 1994). Socrate, ancora una volta, sottolinea una tendenza della cultura greca arcaica a guardare al dono con molto sospetto poiché esso può essere avvelenato.

La concezione del dono in Platone la possiamo rilevare nel Protagora, in cui attraverso il mito di Prometeo e Epitemeo mostra come Zeus dona agli uomini la giustizia e il rispetto per una convivenza felice. Gli uomini erano stati messi sulla terra ed Epitemeo si era incaricato di provvedere, come ordinato da Zeus, a distribuire tutte le risorse naturali affinché potessero sopravvivere. La distribuzione non fu equa e ad un certo punto si accorse che aveva distribuito le risorse agli altri esseri viventi, lasciando indifeso il genere umano. A quel punto intervenne Promoteo il quale rubò ad Efesto il fuoco e ad Atena la perizia tecnica e li diede agli uomini. Quest’ultimi crebbero, si moltiplicarono, iniziarono a costruire i loro utensili e le loro dimore, ma combattevano e guerreggiavano tra di loro. Zeus, accortosi della confusione e la barbarie che regnava nel mondo degli uomini, ordinò a Hermes di distribuire le virtù politiche sotto forma di giustizia e rispetto. Platone indica una via, il dono ha origine e si esplica attraverso la trascendenza e porta con sé esigenze di giustizia. Vedremo più avanti come le esigenze etiche costituiscono uno dei poli su cui si costruiscono i legami intra e intergenerazionali.

Anche Aristotele, nel libro IV Etica a Nicomaco, inserisce il dono all’interno delle virtù etiche dell’uomo. Nel definire la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, il giusto amore per gli onori, la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore mette al centro l’atto del donare e del ricevere come modalità di giustizia. La liberalità è il punto d’origine che in sostanza definisce le successive virtù. Essa

è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali, l’uomo liberale donerà e spenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole che nelle grandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché, infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe le cose come si deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenientemente, mentre un prendere diversamente è il suo contrario.

La magnificenza discende dalla liberalità ed è riservata solo a chi possiede grandi patrimoni poiché possono permettersi di donare in grande. Discende dalla magnificenza la magnanimità ovvero essa è riservata a colui che si stima degno di grandi cose e lo è veramente. La magnanimità è rivolta all’onore, ovvero all’accattivarsi la stima degli altri senza, comunque, eccedere. Aristotele, infatti, teorizza che l’uomo è teso alla ricerca dell’onore (amore per gli onori) e il donare e il ricevere sia un mezzo con cui poter raggiungere lo scopo. A partire da questa categoria, egli analizza una serie di qualità psicologiche (la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore), alle quali è difficile dare spiegazioni sul piano razionale poiché come egli stesso più volte afferma il mezzo non ha un proprio nome. Non essendo collegati a nessun dato di tipo oggettivo, emerge la soggettività come metro di giudizio inserita all’interno della contestualità e, quindi, possono essere definiti rispetto agli opposti. La bonarietà, ad esempio, è da collegare all’ira ed agli eccessi d’ira (irascibilità) e risulta piuttosto complicato stabilire quando essi sono giustificati dalle situazioni o meno. L’affabilità è il frutto dell’essere adulatore o scorbutico e litigioso; la sincerità della millanteria e dell’ironia; il garbo dell’essere buffoni o rozzi; il pudore della virtù o del vizio. La lettura e l’analisi di Aristotele delle virtù come medietà tra l’eccesso e il difetto ha avuto grandi riscontri nei secoli successivi tant’è che ancora oggi si è soliti dire in medio stat virtus. A mio parere, l’aver legato le virtù al donare indica che esse siano frutto del legame sia intersoggettivo (la liberalità, la magnificenza, la magnanimità) che intrasoggettivo (la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore). In sostanza, sia le esigenze individuali sia quelle sociali trovano riscontro all’interno della contestualizzazione del legame. Inoltre, ciò che appare come un limite, ovvero il descrivere le esigenze intrasoggettive che Aristotele rimanda alle passioni, pone l’esigenza di indagare e analizzare contemporaneamente sia le esigenze etiche che quelle pulsionali. Più avanti vedremo che il legame è costituito da esigenze etiche definite dalla lealtà e dalla giustizia e da esigenze pulsionali come la speranza e la fiducia.

“Che cosa ci troveranno in lui?” Il fascino di alcuni tratti tipici della psicopatia

Un recente studio (Brazil &Forth, 2019) cerca di mettere in luce i motivi per i quali il genere femminile è spesso affascinato da alcuni tratti tipici della psicopatia.

 

Fedeltà, sincerità, ambizione, gentilezza, bell’aspetto, posizione sociale e disposizione di risorse sono solo alcune delle numerose caratteristiche che le persone ricercano in un potenziale partner e dalle quali sono attratte nelle prime fasi di una relazione romantica; questo avviene perché coloro che, almeno in parte, possiedono le qualità sopracitate sono spesso considerati compagni di vita meritevoli, in grado assicurare un rapporto affettivo stabile e soddisfacente (Moor, 2010).

Che cosa accade però nel momento in cui una persona si limita a fingere di essere così? Siamo davvero in grado di riconoscere la differenza tra ciò che realmente è e ciò che mostra?

Individui particolarmente abili a fingere, a ingannare e a giocare con le “regole del corteggiamento” sono quelli che nel linguaggio comune vengono definiti psicopatici.

Ma chi è realmente uno psicopatico? Il four-facet model, illustrato per la prima volta da Hare (2003), individua in quattro dimensioni psicologiche le peculiarità di questo disturbo: a livello interpersonale, lo psicopatico mostra un’elevata tendenza alla manipolazione, alla menzogna e a costruire rapporti superficiali; a livello affettivo, è comune la mancanza di rimorso e di preoccupazione per gli altri; a livello di stile di vita, si mostra disinibito, impulsivo e alla costante ricerca di sensazioni forti; infine, i tratti antisociali, lo rendono noncurante delle regole e dell’autorità e dotato di una scarsa capacità (e volontà) di controllare la rabbia.

Brazil e Forth (2019), in uno studio pubblicato su Evolutionary Psychological Science, si sono concentrati sul quadro scientifico evolutivo per individuare le caratteristiche che rendono uno psicopatico attraente agli occhi dell’altro sesso, indagando la loro capacità di fingere qualità positive e di mostrarsi accattivante manipolando il punto di vista altrui.

Alcune ricerche hanno sottolineato come, a livello evolutivo, molti tratti tipici della psicopatia possano essere stati utili per ottenere benefici dal prossimo, in particolare nell’ambito sessuale: i comportamenti di aggressività sessuale, di coercizione, di prevaricazione dell’altro e la capacità di esagerare le proprie doti positive, hanno permesso agli individui di trovare partner sessuali e di riprodursi con più facilità rispetto ad altri uomini che non adottavano questi comportamenti (Book et al., 2018).

La sexual exploitation hypothesis of psychopathy (letteralmente “l’ipotesi dello sfruttamento sessuale della psicopatia”) postulata dagli autori dello studio afferma che i tratti tipici della psicopatia si siano mantenuti nel tempo poiché utili a livello evoluzionistico: la capacità di imitare ingannevolmente il “modello di uomo ideale” avrebbe infatti facilitato la conquista dell’altro sesso permettendo a individui psicopatici di essere considerati la scelta migliore in ambito sessuale/relazionale (Brazil &Forth, 2019).

Per indagare quest’ipotesi, sono state utilizzate due ricerche sperimentali: la prima, che prevedeva un campione di 46 uomini con un’età compresa tra i 17 e i 25 anni, analizzava alcuni correlati della psicopatia (come tratti antisociali, intelligenza sociale e orientamento sessuale); la seconda, con un campione composto da 108 donne, si prefiggeva lo scopo di indagare la sexual exploitation hypothesis of psychopathy in un disegno sperimentale che prevedeva l’osservazione durante appuntamenti con eventuali partner romantici (sono state quindi prese in considerazione l’abilità di mostrarsi ingannevolmente migliore, di rientrare nelle preferenze attese delle donne, ecc.).

I risultati hanno mostrato che l’ipotesi testata nei due studi, sia supportata a livello preliminare e suggeriscono una valutazione più accurata dell’abilità di manipolare dello psicopatico e della tendenza alla donna di trovare affascinante alcune sue caratteristiche peculiari sia necessaria e auspicabile. Nel mondo delle relazioni romantiche, quindi, sembra vi siano particolari gesti, toni della voce, mimica facciale ed espressioni che gli psicopatici sono in grado di falsificare e che rendono le donne più vulnerabili al loro sottile quanto deleterio fascino.

 

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