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Single per scelta o per scarsa abilità? Un nuovo studio indaga i moderatori del successo nella ricerca di un partner

In società in cui la scelta del partner non viene mediata dai familiari, ma è deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro sono estremamente rilevanti.

 

Tutti sanno che la coda riccamente colorata del pavone esiste per una sola ragione, quella di attrarre una compagna: questo perché il costo evolutivo di avere un attributo tanto ingombrante, testimonia l’eccellenza dell’esemplare che la porta, auspicabilmente spingendo le femmine a scegliere proprio quel corredo genetico per procreare. Allo stesso modo un esemplare di alto rango nel branco o con maggiori capacità nel procacciare cibo e risorse, risulteranno irresistibili agli occhi delle femmine della loro specie.

Negli uomini, invece, i rituali di accoppiamento hanno presto finito per distaccarsi dalla selezione basata su indici di fitness genetica ed infatti, già nelle protosocietà che andavano costituendosi agli albori della nostra specie, le donne venivano date in sposa dalla propria famiglia che sceglieva il candidato socialmente più prestigioso (Apostolou, 2007; 2010), oppure esse venivano conquistate alla stregua di un bottino di guerra, a seguito di violenti scontri tra uomini, come testimoniato da evidenze storiche ed archeologiche (Ghiglieri, 1999; Bowles, 2009; Puts, 2016). Ancora oggi, nell’analizzare 190 popolazioni nomadi contemporanee, si riscontra come in circa il 70% di esse i matrimoni combinati siano una pratica comune, mentre in solo il 4% delle società avvengono matrimoni a seguito della libera selezione del partner (Apostolou, 2007).

Tuttavia, nelle nostre società industrializzate, siamo abituati a pensare la scelta del partner come frutto di una nostra deliberata scelta, guidata da principi come la compatibilità caratteriale, il sentimento reciproco, la condivisione di valori e interessi: secondo la teoria del mismatch evolutivo, la velocità con la quale sono cambiate le nostre società non ha permesso al processo di selezione di eliminare quelle caratteristiche che rendono meno facile per un individuo il formare una coppia nel nuovo ambiente.

In un contesto in cui la scelta del partner non fosse deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro, avrebbero avuto sicuramente un effetto meno deleterio di quanto non abbiano invece nella nostra società, dove ci si aspetta invece che gli individui selezionino il proprio partner senza la mediazione dei propri familiari, né tantomeno utilizzando la forza.

Apostolou, Papadopoulou, Christofi e Vrontis (2019) si sono preposti di indagare il ruolo di questi tre tratti nel predire il successo nell’accoppiamento (mating performance n.d.t), ipotizzando in particolare come essi possano rivestire un ruolo cruciale specialmente nella fase di formazione di una relazione intima, più che nel suo mantenimento.

Hanno raccolto i dati provenienti da 587 partecipanti (309 donne e 278 uomini) in differenti condizioni sentimentali: il 30% era infatti single, il 33% era sposato e il 3,6% divorziato, di questi il 41,7% riportava difficoltà in almeno una delle aree esaminate. I soggetti hanno poi risposto a diversi questionari circa la propria bravura percepita nell’intrattenere flirt con potenziali partner, della propria capacità di cogliere i segnali di interesse di altri e del proprio livello di timidezza. Da ultimo, gli autori hanno proposto una scala composta da cinque items per determinare il successo generale dell’individuo nell’iniziare e mantenere delle relazioni intime.

Dai risultati è emerso come il successo nell’accoppiamento risentisse maggiormente della scarsa capacità del soggetto di sostenere il flirt, seguita da una scarsa capacità di cogliere i segnali e in ultima battuta dalla timidezza dell’individuo. I ricercatori hanno poi condotto analisi di regressione logistica binomiale, creando delle variabili ad hoc distinguendo in due categorie, separando i soggetti più performanti sotto un particolare aspetto, da quelli meno performanti. La variabile dipendente era in questo caso la mating performance. I partecipanti con una bassa capacità di flirtare avevano una possibilità di 2,33 volte maggiore di avere scarsi risultati di successo nell’accoppiamento rispetto a quelli che si attribuivano una buona capacità nel farlo. Similarmente, i soggetti con scarsa capacità di cogliere i segnali provenienti da potenziali partner registravano una probabilità di 2,06 volte maggiore di avere scarso successo nelle relazioni intime rispetto ai soggetti che si riconoscevano una certa abilità nel percepire l’interesse degli altri. Da ultimo, i soggetti che riferivano maggiore timidezza avevano una possibilità di 1,62 volte superiore di trovarsi nella fascia inferiore di successo nella mating performance. Né il sesso, né l’età hanno dimostrato di avere interazioni significative sul successo nelle relazioni intime.

In futuro, altri studi si dovranno occupare di estendere i risultati ottenuti a contesti culturalmente differenti, così come a differenziare la performance nelle relazioni a lungo termine da quelle a breve termine, situazioni nelle quali è plausibile ipotizzare differenti pattern di influenza. Tuttavia, questo studio contribuisce ad ampliare il corpo di ricerche che sembra supportare la teoria del mismatch evolutivo e che rende ragione delle difficoltà riscontrate nelle società industrializzate nel formare e mantenere delle relazioni intime.

 

Che cos’è e come funziona una CEB (classe di esercizi di bioenergetica)

CEB è l’acronimo usato per indicare ‘classe di esercizi di bioenergetica’. Il termine classe denota un gruppo di almeno 4-5 persone che vengono guidate da un conduttore nello svolgere una pratica psico-corporea (sequenza armonica di movimenti), in un tempo specifico (1h e 30 min), con un determinato intervallo temporale (una volta a settimana), all’interno di un setting (ambiente protetto).

Silvia Di Evangelista – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Parole chiave: respiro, carica -scarica- rilassamento, movimenti emozionali, gruppo: strumento di regolazione interattiva

L’obiettivo è quello di sviluppare in ogni partecipante una maggiore consapevolezza della propria unità mente-corpo al fine di autoregolare l’attivazione fisica ed emotiva in alcuni momenti di difficoltà, come ad esempio quando uno stress dura a lungo (stress cronico). Tuttavia gli esercizi possono essere anche utilizzati individualmente, diventando così una pratica di self-help nel recupero del proprio benessere psico-fisico.

Alexander Lowen (psicoterapeuta e psichiatra statunitense 1910-2008, fondatore dell’Analisi Bioenergetica e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis) e sua moglie Leslie Lowen hanno messo a punto nel corso di più di vent’anni di lavoro terapeutico con i pazienti, dei programmi di lavoro corporeo, costituiti da esercizi fisici: gli esercizi bioenergetici. L’utilizzo di tale pratica favorisce l’equilibrio psicofisico durante situazioni di stress in cui vi è un’alterazione e modificazione del sistema nervoso, del sistema endocrino (Selye H., sindrome generale di adattamento, 1936) e del sistema immunitario (PNEI, Ader R., 1981).

Il respiro profondo e il grounding

L’esercizio base di una CEB è il grounding ovvero una posizione di stress in cui si è in posizione eretta, con i piedi distanziati di circa 25 cm, le punte leggermente in dentro e le ginocchia scarsamente piegate. In questa posizione la persona viene invitata a chiudere gli occhi, prestando attenzione alle sensazioni del corpo: il battito cardiaco, il ritmo del respiro, i piedi appoggiati a terra, potenziando così la sensibilità propriocettiva (corteccia somatosensoriale, nota come area S1).

Durante la posizione di grounding è stimolato un respiro profondo e calmo, in cui l’inspirazione procede dalla zona pelvica e si dirige verso l’alto, fino alla bocca e l’espirazione parte dalla bocca e scende verso il bacino. Questo tipo di respirazione attiva la modalità parasimpatica del sistema nervoso autonomo, riportando in equilibrio le funzioni del sistema neurovegetativo, avendo così benefici sul corpo e sulla mente. A livello corporeo infatti il respiro profondo bilancia il ritmo cardiaco e respiratorio, rallenta il polso, gestisce una corretta secrezione ormonale e l’aumento del rilassamento muscolare. A livello mentale invece respirare profondamente consente di calmare la tendenza a rimuginare, migliora il riposo e aumenta la resistenza allo stress.

Le prove scientifiche degli effetti calmanti della respirazione profonda sono arrivate da un team di ricercatori della Stanford University School of Medicine che ha scoperto un nuovo tipo di neuroni che collega il ritmo del respiro alla sensazione di allerta. Nel tronco encefalico è presente una subpopolazione neurale che controlla la respirazione e comunica direttamente con una struttura cerebrale, il locus coeruleus, coinvolta nelle risposte allo stress, nello stato di vigilanza generale, nella focalizzazione dell’attenzione. Kevin Yackle e il suo gruppo (2017) fecero un esperimento su alcuni topi, ai quali erano stati attentamente disattivati i neuroni connessi con la respirazione, osservando che, mentre in una prima fase gli animali non mostravano alcun cambiamento, quando venivano messi in gabbie non familiari, gli animali rimanevano tranquilli anche se erano sottoposti a stimoli che normalmente avrebbero elicitato una risposta di stress. Con questo esperimento è stato dimostrato come la disattivazione della subpopolazione neuronale generatrice dei ritmi respiratori, 175 neuroni del complesso di pre-Botzinger, sia connessa con la porzione del cervello coinvolta negli stati eccitatori.

Pertanto fare dei respiri profondi ha un effetto calmante perché non attiva quei neuroni collegati con il centro del cervello connesso agli stati di eccitazione.

Carica, scarica e rilassamento: i tre momenti della CEB

Una CEB si articola in tre momenti: carica-scarica-rilassamento. La tecnica bioenergetica sfrutta il meccanismo base dell’organismo vivente di carica, scarica, rilassamento. Infatti, quando l’organismo raggiunge un punto massimo di tensione (carica), inizia a cedere (scarica) l’energia in eccesso, arrivando al rilassamento muscolare. Il concetto di carica e scarica bioenergetica è analogo a quello di tremore neurogeno studiato da Peter Levine. Levine, attraverso un approccio ecologico, osservò che la reazione degli animali ad un evento pericoloso era quella di ‘scrollarsi’ via dal corpo la paura provata, attraverso delle vibrazioni corporee, ripristinando lo stato neurofisiologico antecedente l’evento traumatico. Dall’osservazione di tale reazione egli elaborò una metodologia di lavoro psico-fisiologico chiamata Somatic experiencing il cui principio di base consisteva nel processo di scarica dei processi fisiologici (attraverso vibrazioni corporee), in modo da supportare il sistema nervoso nel lasciar andare l’eccesso di attivazione. In questo modo veniva ripristinato l’equilibrio omeostatico dell’organismo. Lo stesso principio è condiviso dalla prospettiva bioenergetica che vede in un muscolo contratto un blocco dell’energia emozionale dovuto ad uno stress più o meno intenso. L’obiettivo degli esercizi bioenergetici è quello di sciogliere questo blocco emozionale, attraverso vibrazioni corporee indotte con posture stressanti come il grounding, per arrivare al limite della tolleranza e stimolare il corpo a cedere e riportare un processo fisiologico di autoregolazione psicofisica.

Durante la fase di rilassamento vengono svolti sia esercizi di rilascio muscolare che esercizi di massaggio con l’altro. Gli esercizi di rilascio muscolare stimolano a livello cognitivo la capacità di auto-osservazione, attraverso la mobilitazione di alcune sensazioni e di alcuni pensieri che solitamente sono al di fuori del campo di coscienza, aumentando così il grado di consapevolezza corporea. Gli esercizi di massaggio, vengono effettuati reciprocamente dai partecipanti, consistono in una lieve pressione su muscoli in tensione, inducono anch’essi ad uno stato di rilassamento, favoriscono la respirazione e la propriocezione oltre che un senso di contatto e di vicinanza nel gruppo.

Movimenti emozionali

In una CEB sono diversi gli esercizi che possono essere proposti: ci sono quelli di orientamento spaziale, quelli di carica e scarica energetica, esercizi più espressivi che utilizzano il suono della voce con diverse intensità, esercizi di allungamento, esercizi assertivi ed esercizi simili a quelli svolti in alcune pratiche come il pilates o la ginnastica dolce. Tuttavia ciò che caratterizza una CEB e la differenzia da altre attività corporee è l’utilizzo degli esercizi corporei come movimenti emozionali cioè movimenti che hanno una risonanza emotiva.

Questo vuol dire che l’obiettivo di esecuzione degli esercizi non è quello di realizzare una buona performance come nello sport. Il focus al contrario è quello di stimolare, ovvero incoraggiare ogni individuo nel dirigere l’attenzione sulle sensazioni del corpo ed osservare senza giudizio come le sensazioni fisiche siano legate alle proprie emozioni e ai pensieri.

Tutto questo ha lo scopo sia di regolare l’attivazione fisiologica, sia di sviluppare maggiore conspevolezza. Infatti grazie al lavoro corporeo è possibile aumentare la propria finestra di tolleranza (Siegel D., 1999) poiché si amplia la capacità di tollerare le sensazioni fisiche e gli stati emozionali. Inoltre gli studi di Kandel sulla plasticità neuronale dimostrano come l’apprendimento e la memorizzazione delle esperienze, attivino nuove reti neurali di risposta, che vengono consolidate con la ripetizione. Pertanto durante una CEB porre attenzione alle proprie esperienze percettive e la ripetizione di nuovi schemi senso-motorio-emozionali, genera nuovi apprendimenti. In questo modo l’individuo viene aiutato ad essere più consapevole e a modulare le proprie abituali forme di risposta agli stimoli interni ed esterni.

Il gruppo e l’apprendimento per imitazione in una CEB

In una CEB il gruppo svolge una funzione importante nel processo di regolazione emozionale e nello sviluppo di nuovi apprendimenti grazie ad una comunicazione imitativa. Infatti nell’ambito delle Neuroscienze, la scoperta dei neuroni specchio (Rizzolati et al., 1994) localizzati nella corteccia pre-motoria e connessi al sistema limbico, area del cervello responsabile dell’origine e della gestione delle emozioni, costituisce la base della comprensione relazionale e dell’empatia. Pertanto, grazie ai neuroni specchio, se l’altro compie un movimento, è possibile non solo percepire la sua azione, ma anche comprendere le intenzioni ed emozioni che sta provando. Infatti l’attivazione uditiva-motoria-cinestetica consente l’attivazione di questi neuroni provocando un rispecchiamento, permettendo cioè una comunicazione emozionale, veicolata dal linguaggio del corpo. Questa comunicazione pre-verbale, consente la regolazione delle proprie sensazioni ed emozioni nell’interazione con l’altro. Il conduttore all’inizio guida il percorso di una CEB con ritmi, intervalli, intensità, che poi vengono rimodulati dalla risposta dell’intero gruppo per creare una buona sintonia comunicativa.

Conclusioni

La CEB è uno strumento di promozione della salute che agisce a livello dei processi psico-fisiologici del corpo. Pur avendo degli effetti terapeutici non è un percorso di psicoterapia. Si tratta infatti di un lavoro esclusivamente corporeo, non verbale; manca il processo di elaborazione dell’esperienza emotiva che il paziente fa insieme allo psicoterapeuta, attraverso la riflessione e la costruzione di significato, traducendo il linguaggio del corpo in narrazione, favorendo così lo sviluppo di maggiore consapevolezza.

 

Sogni che fanno paura: il ruolo degli incubi nella regolazione emotiva

Da molto tempo ci si chiede quale sia la funzione dei sogni e, mentre per Freud questi veicolavano significati nascosti alla mente cosciente dell’individuo, oggi siamo più propensi a vederli come tracce mnestiche spesso casuali, che vengono riproposte durante il sonno ed aiuterebbero il consolidamento della memoria semantica.

 

Il sonno è un’attività fondamentale per il nostro organismo, durante le ore di riposo infatti il nostro corpo mette in atto una serie di processi atti a mantenere un funzionamento ottimale, in particolare rivolti al rallentamento delle funzioni neurovegetative e al recupero delle energie, sia fisiche che psichiche. Tuttavia, ci si è interrogati per lungo tempo su quale fosse la funzione dei sogni: se per Freud i sogni veicolavano significati nascosti alla mente cosciente dell’individuo, ad oggi siamo più propensi a vederli come tracce mnestiche spesso casuali, che vengono riproposte durante il sonno ed aiuterebbero il consolidamento della memoria semantica.

Sempre più studi sembrano poi evidenziare uno stretto rapporto tra il sonno ed i processi emotivi (Boyce, Glasgow, Williams e Adamantis, 2016; Perogamvros & Schwartz, 2012): in particolare è possibile osservare le conseguenze della deprivazione di sonno nei termini di una maggiore aggressività e di stati emotivi negativi, cosi come alcune problematiche strettamente connesse agli stati emotivi di un individuo, come la depressione o il PTSD, siano spesso accompagnati da perturbazioni del sonno o incubi intrusivi.

Tra le teorizzazioni circa la funzione dei sogni, vi è quella della minaccia simulata, che postula come il regno onirico possa fungere da simulazione offline, ovvero non immersa nella realtà bensì solo ideativa, che consenta di vivere l’esperienza di eventi potenzialmente minacciosi allenando di conseguenza delle abilità di evitamento o gestione del pericolo, mediante l’attivazione dei circuiti amigdalo-corticali coinvolti nell’emozione di paura, da ultimo risultando in risposte maggiormente adattive durante le ore di veglia (Revonsuo, 2000; Scarpelli, Bartolacci, D’Altri, Gorgoni e De Gennaro, 2019).

I sentimenti di paura sembrano essere presenti in maniera rilevante nell’attività onirica degli individui, differenziandosi nettamente da emozioni più sociali, come l’imbarazzo o la frustrazione, e costituendosi quindi come una categoria emozionale biologicamente rilevante e distinta (Revonsuo, 2000; Schwartz, 2004). Se si accetta l’ipotesi della funzione di regolazione emotiva, ci si aspetterebbe che ad una maggiore attivazione durante il sonno delle aree cerebrali coinvolte nella risposta alla paura (amigdala, corteccia cingolata, insula), corrisponda una minore attivazione di quelle stesse aree nelle ore di veglia. Ancora, ci si potrebbe aspettare durante gli stati di coscienza, un coinvolgimento maggiore dell’area coinvolta nella soppressione della paura, ovvero la corteccia prefrontale mediana, che agirebbe in tal senso a scopo compensatorio (Dunsmoor et al., 2019; Yoo et al., 2007).

Un recente articolo pubblicato su Human Brain Mapping espone i risultati ottenuti da Sterpenich, Perogamvros, Giulio Tononi e Schwartzin due esperimenti condotti sull’attività onirica mediante tecniche di neuroimaging, con l’obbiettivo di determinare in primis, se le regioni che si attivano in risposta alla paura durante l’addormentamento siano effettivamente sovrapponibili a quelle che servono questo scopo durante lo stato di veglia, secondariamente verificare se vi sia un legame, e di quale natura, tra le emozioni esperite in sogno e la risposta a stimoli emotivamente salienti quando il soggetto è sveglio.

Nel primo esperimento i 18 partecipanti sono stati svegliati svariate volte nel corso del loro sonno, talvolta durante la fase REM o durante una fase non-REM (N2), con la richiesta di riportare l’ultimo ricordo accessibile prima che suonasse la sveglia, per poi rispondere ad un intervista strutturata. Sono stati poi analizzati nel dettaglio i segnali EEG (elettroencefalogramma) appartenenti a quei soggetti che avevano riportato almeno un sogno in cui avessero sperimentato paura e un secondo in cui tale emozione non fosse presente, in ognuna delle fasi analizzate (REM e N2).

Nel secondo studio gli 89 partecipanti hanno risposto ad una batteria di questionari validati per indagare la qualità del sonno (PSQI, Buisse et al., 1989), la sonnolenza diurna (EES, Johns, 1991), depressione (BDI, Beck, Steere and Brown, 1996), ansia (STAI-T, Spielberg, Gorusch & Luschene, 1970), compilando inoltre un diario del sonno e dei sogni al fine di riportare la presenza di emozioni specifiche (rabbia, disgusto, tristezza, gioia, confusione, paura, frustrazione e imbarazzo) per la settimana antecedente la sessione di Risonanza Magnetica Funzionale, durante la quale i soggetti venivano esposti a stimoli a valenza negativa oppure neutra. Durante la risonanza magnetica funzionale, gli sperimentatori hanno inoltre rilevato i movimenti oculari e il diametro di dilatazione pupillare, usato come indice della risposta emotiva allo stimolo presentato durante il compito (Bradley, Miccoli, Escrig & Lang, 2008).

I risultati del primo studio hanno mostrato come l’esperienza della paura fosse associata con l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata mediana (quest’ultima specificatamente durante la fase REM), le quali sono attive anche durante lo stato di veglia in risposta a stimoli che elicitino paura. Il secondo studio ha invece riscontrato come i soggetti che riferissero un’incidenza maggiore della paura durante i propri sogni, avessero anche un’attivazione inferiore a livello dell’insula, dell’amigdala e della corteccia cingolata mediale durante la veglia, nonché una maggiore attivazione dell’area adibita alla soppressione della paura, ovvero la corteccia prefrontale mediana.

Complessivamente, i risultati ottenuti da Sterpenich e colleghi, supportano l’ipotesi di partenza che vivere emozioni di paura durante l’attività onirica ripagasse i soggetti con una maggiore soppressione di tali sentimenti negativi durante la veglia. Si rendono necessari studi ulteriori per ridefinire i modelli teoretici sulla funzionalità onirica, espandendo ad esempio le conoscenze circa le emozioni positive sperimentate durante il sonno e le risposte emotive che si attivano nel cervello degli individui.

 

Eziologia, comorbilità e correlati della disgrafia

A star is born: a (New) love is born?! – Lettura sistemica del film

Are you happy in this modern world? Una domanda, una sfida, perché chiedersi se si è felici dentro un mondo che ci suona stonato, costituto da assetti comportamentali stretti, a ridosso di aspettative ed apparenze, risulta essere un atto abbastanza complesso.

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

 

La felicità, se esiste, è qualcosa di voluto, niente a che fare con la somma dei successi. Per divenire e dunque essere sereni bisogna varcare un confine, oltre il quale lasciare andare i propri demoni e i propri fantasmi, altrimenti questi saranno fuoco e luce di un vivere quotidiano. La storia d’amore tra Jack e Ally non è altro che l’esempio diretto di quanto la ricerca della felicità possa unire, quanto pungere, due persone che eludono la propria responsabilità per la risoluzione di dolori e dissapori passati, sperando che l’unione coniugale possa essere sufficiente per un risarcimento emotivo.

A star is born è l’intreccio di due storie di orfanità e disorientamento, in cui il Nec Sine Te Nec Tecum Vivere Possum (Né con te, né senza di te) ne fa da cornice. Un po’ come la celeberrima frase di Elkaim, titolo di un suo libro Se mi ami, non amarmi, che sottolinea l’elemento paradossale di alcuni legami d’amore: da un lato il desiderio di essere amati, dall’altro la difficoltà a stare (emotivamente) in relazione che si esplica attraverso la distanza.

Scelti dal bisogno di essere adottati e risollevati dalle proprie ferite, i due protagonisti formano da subito una coppia: Jack, viene catturato da un singolare sguardo di lei, mentre Ally dalla (apparente) caparbietà dell’uomo, che crederà in lei, più di quanto lei stessa abbia mai creduto. “Io ti salverò” è il patto implicito che passa dentro questo folle amore, ma quale potenza misteriosa muove due persone sconosciute a unirsi per iniziare quella peripezia esistenziale complessa quanto avventata com’è la formazione della coppia? Sappiamo che la qualità dell’attaccamento provato con le figure significative sembra influenzare le modalità relazionali della coppia, mentre il sistema familiare di appartenenza funge da cornice in rapporto di sicurezza/protezione (Bolwby, 1982).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM:

A STAR IS BORN – Guarda il trailer del film:

La storia familiare di Jack è costellata da lutti e dipendenze patologiche: si sta in relazione condividendo gli stessi vissuti (di rabbia) e lo stesso bicchiere, come anestesia emotiva che isola dai rapporti affettivi e da un malessere legato alla perdita precoce di una madre morta di parto, all’assenza di un padre smarrito per le vie dell’alcol, mentre un fratello maggiore tenta di ricoprire un ruolo genitoriale frammentario. Ogni forma di dipendenza rappresenta un tentativo palliativo di colmare il senso di vuoto interiore, la paura di rimanere soli, ma soprattutto di mettere a tacere il disagio emotivo legato ad un accudimento disfunzionale avvenuto durante l’infanzia. Queste assenze e mancanze portano a lacune del senso di appartenenza, che Ally riesce dapprima a leggere e poi a scrivere “Tell me something, boy… Aren’t you tired tryin’ to fill that void?”. Quando si ha il cuore a pezzi, come una gruviera, chiediamo al partner di colmare i nostri vuoti, sperando che egli possa finalmente ricoprire un ruolo genitoriale, riparare l’originaria mancanza di affidabilità e possibilità di affidamento.

Di Ally si evince poco della sua storia familiare, sappiamo che è cresciuta con un padre da accudire, anche egli propenso all’uso del vino, ed una madre inesistente. Ally incontrando Jack, si imbatte nel suo alter ego maschile, uno specchio emotivo di sofferenze: si potrebbe parlare di incontro tra due disabilità emotive che, con un forte grado di insicurezza, tentano di arricchirsi affettivamente e reciprocamente. Questo meccanismo spesso funziona, ma la vera complicazione è che due insicurezze a braccetto non fanno un intero. Si corre dunque il rischio che la coppia diventi prettamente assistenziale e, come sosteneva Whitaker, attui una psicoterapia bilaterale, nel senso che all’interno della coppia ognuno fa la psicoterapia all’altro. L’amore viene scambiato come un guadagno, mentre in realtà rappresenta il cedere qualcosa di sé senza pretendere un favore in cambio per tale donazione (Withaker, 1990).

Ally mira al benessere dell’uomo che diverrà suo marito, bypassando quelli che sono i suoi bisogni emotivi, come quello di sapere di essere amata, apprezzata, accettata e compresa, oltre al desiderio di essere l’artista che adopera la canzone quale strumento per toccare l’animo delle persone.

In psicologia sistemica si parla di differenziazione come un equilibrio dinamico tra appartenenza e separazione. La differenziazione del Sé è strettamente relativa a ciò che Bowen definisce la “Posizione Io”, la posizione di adulto. Differenziarsi permette di acquisire tale posizione, diventando un “intero” e non più una “metà”, il contrario della differenziazione è dato dal livello di “Fusione dell’Io”. Quindi avremmo una coppia simbiotica se i partner non hanno sperimentato una propria individualizzazione, il contrario si verifica in caso di relazione basata su una simmetria (Bowen, 1980).

Gli elementi che contribuiscono alla durata di un rapporto sembrano coincidere con il concetto di appartenenza e separazione: la coppia mantiene il legame soprattutto grazie all’intimità, questo sembra provocare una continua ridefinizione nelle specifiche aree di appartenenza ed allo stesso modo spinge alla ricerca di una individuazione personale e quindi separazione, le coppie più solide sembrano essere infatti in grado di distinguere le proprie aree personali di individuazione. (Andolfi, 1999)

Tra Jack e Ally riscontriamo una coppia bilanciata o il vincolo tra due mezze unità?

L’inconscio di Jack lo porta a cogliere la loro specularità: egli, notando la trasformazione dell’amata, che da madre e psicoterapeuta diviene la semplice Ally, la penalizzerà per questo suo cambiamento di posizione attraverso l’umiliazione e l’aumento di una tossicità che porterà Jack all’estremo gesto. In questi termini il suicidio rappresenta non solo l’atto finale di un calamità emotiva, ma piuttosto di una dissociazione dalla realtà che non lo ha condotto alla costruzione dell’amore verso se stessi … e si sa che, per amare l’altro, bisogna aver creato una solida relazione con se stessi: solo iniziando ad amarsi, si può scegliere di amare ciò che piace! Di questo Jack si è punito, ovvero di non essersi innamorato di sé e conseguentemente di Ally in maniera autentica: probabilmente la donna gli ha garantito la sopravvivenza, ma non l’esistenza.

Prima di morire, Jack le lascerà una canzone inedita quale perdono delle sofferenze procuratele e la non rinuncia all’amore che deve continuare oltre la morte. Infatti, Ally renderà famosa la canzone con lo scopo di divulgare l’amore vero quanto la consapevolezza che, per essere felici, bisogna perdonare, saper lasciare e disinnescare le bombe emotive.

E’ mancata un relazione autentica, ma non il sentimento puro e vero, regia di una vita in bianco e nero. Ma l’amore non è sufficiente per definire la funzionalità di una relazione: i rapporti che funzionano sono quelli in cui vi è una simmetria e una parità di impegni e di responsabilità, per cui l’affidarsi è alla base! È un gioco di inconsapevolezze ed insicurezze dove poter aggiungere benessere al proprio stato di pace interiore, lo stesso che si è in grado di produrre da sé e per sé.

Resta l’amarezza del “No I’ll never love Don’t want to feel another touch…Don’t want to start another fire…Don’t want to know another kiss…No other name falling off my lips…Don’t want to give my heart away to another stranger”, perché rinunciare ad amare e dunque all’amore è come togliere la luce ad un cielo stellato: ne resterebbe solo il tenebre pallore.

 

A STAR IS BORN – Il brano “I’ll never love again”:

 

 

Manuale di intervento sul trauma (2019) di A. Montano e R. Borzì – Recensione del libro

Manuale di intervento sul trauma offre una panoramica completa, ma chiara ed essenziale, sul trauma e le sue implicazioni; guida il lettore in un percorso che prende in esame dati empirici e concettualizzazioni teoriche, ma allo stesso tempo che permette di identificare i materiali e le risorse utilizzabili nel lavoro clinico.

 

Nel corso della storia dell’umanità, pochi concetti sono stati al centro della riflessione clinica, ma anche esistenziale, come quello di trauma. Nel linguaggio comune, si parla di trauma come di un’esperienza opprimente, soverchiante, in grado di alterare la vita dell’individuo, uno spartiacque che separa nettamente un «prima» da un «dopo». Anche se di trauma si è parlato per millenni in tutte le culture del mondo, negli ultimi trent’anni si è assistito a un proliferare di studi empirici, di concettualizzazioni teoriche e di modelli di intervento che hanno accresciuto in modo esponenziale la nostra comprensione del ruolo del trauma nell’eziologia di una varietà di disturbi fisici e psicologici.

Il libro Manuale di intervento sul trauma di Antonella Montano e Roberta Borzì offre una panoramica completa, ma al tempo stesso chiara ed essenziale, di questi sviluppi, guidando il lettore in un percorso che – subito dopo una bella prefazione di Isabel Fernandez – comincia con l’inquadramento del trauma come ferita, la differenziazione tra i vari tipi di trauma e le differenti concettualizzazioni teoriche.

Prosegue quindi con il passare in rassegna, nel cap. 2, i disturbi del cosiddetto spettro post traumatico e le relative classificazioni diagnostiche. Il capitolo 3 illustra con chiarezza lo stato dell’arte attuale riguardante la neurobiologia del disturbo post traumatico, mentre il capitolo 4 – e questo costituisce senz’altro un elemento di grande originalità del volume – è invece dedicato agli individui Lesbian Gay and Bisexual  (LGB) sopravvissuti a esperienze traumatiche, una popolazione a lungo esclusa o non adeguatamente riconosciuta dalla clinica e dalla ricerca sul trauma. Il capitolo 5 passa in rassegna tutti i principali strumenti per la valutazione del paziente traumatizzato, mentre i capitoli 6, 7, e 8 portano avanti una dettagliata esplorazione delle conseguenze del trauma a livello fisico, della personalità, della sessualità, dell’umore e dei comportamenti di abuso e dipendenza. Il capitolo 9 spiega cosa si intenda per guarire da un trauma e in che cosa consista il lavoro con quelle che vengono individuate come le risorse del paziente traumatizzato. Infine, gli ultimi tre capitoli, riassumono gli approcci terapeutici, considerati particolarmente attuali, denominati top-down (dal piano cognitivo al piano fisico) e bottom-up (dal piano fisico al piano cognitivo), aggiungendo anche la descrizione degli interventi supplementari di educazione sul trauma e di gruppi di auto-mutuo aiuto, come il Forum de Il Vaso di Pandora o La Speranza dopo il Trauma (presso l’Istituto Beck).

La ricchezza di esempi, i dati empirici e materiali e le risorse utilizzabili nel lavoro clinico con i pazienti rendono questo libro un supporto davvero prezioso per tutti i professionisti della salute mentale che si trovano a lavorare con persone traumatizzate.

 

 

Bambini e metacognizione: sintomi, metacredenze e attention control in presenza o assenza di disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia sono fra i disturbi più comuni nei bambini e negli adolescenti, con una prevalenza stimata tra il 3 e il 20% (Costello et al., 2005); sono associati a numerosi problemi di sviluppo, psicosociali e psicopatologici come un cattivo rendimento scolastico e difficoltà con il gruppo di pari (Beesdo, Knappe & Pine, 2009). Inoltre, tendenze ansiose in giovane età possono predire lo sviluppo di patologie psichiatriche in età adulta (Bittner et al., 2007).

 

Le teorie cognitive sullo sviluppo dei disturbi d’ansia ipotizzano che l’individuo interpreti e processi le informazioni recepite dall’ambiente in maniera errata, associandole a emozioni ed eventi negativi (Beck et al., 1985). I modelli più recenti invece, come il modello metacognitivo, individuano nei processi automatici e riflessivi il cuore dei disturbi ansiosi. Nella teoria proposta da Wells & Matthews (1994), vi sono diversi fattori che influiscono sui bias tipici di questo genere di disturbi, tra i quali troviamo le credenze metacognitive (positive e negative), le strategie utilizzate dall’individuo per autoregolare le proprie emozioni e l’attention control (letteralmente controllo dell’attenzione), ovvero la capacità di inibire una risposta automatica dominante a favore di una meno accessibile ma presumibilmente più funzionale (Derryberry & Reed, 2002).

L’importanza dei processi attentivi e delle strategie di autoregolazione, viene esplicata nel Self-Regulatory Executive Function model (S-REF; Wells & Matthews, 1994), modello di riferimento della teoria e della terapia metacognitiva, all’interno del quale i disturbi psicologici sono associati allo stile di pensiero definito cognitive attentional syndrome (CAS). Il CAS rappresenta un pensiero caratterizzato da rimuginio, ruminazione e preoccupazione che fanno sì che il soggetto adotti strategie di coping maladattive per gestire le proprie sensazioni e i propri pensieri (Wells, 2009).

Diversi studi (Spada et al., 2010; Fernie et al., 2016) hanno confermato l’influenza dei processi attentivi e delle credenze metacognitive disadattive nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi d’ansia e depressivi negli adulti e l’obiettivo dello studio qui riportato, era quello di indagare il ruolo di questi processi in bambini e adolescenti con questi disturbi (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

La ricerca cross-sectional condotta dagli autori ha preso in considerazione 351 bambini (169 bambini con diagnosi di disturbo d’ansia come gruppo sperimentale e 182 bambini come gruppo di controllo) tra i 7 e i 14 anni.

A tutti i partecipanti sono stati somministrati il Revised Child Anxiety and Depression Scale – Child version (RCADS) per misurare i sintomi ansiosi e depressivi, l’Attentional Control Scale for Children (ACS-C) per avere una misura dell’attention control e il Metacognitions Questionnaire for Children (MCQ-C30) per indagare le credenze metacognitive positive e negative.

I risultati hanno mostrato che il gruppo sperimentale riportava un numero elevato di credenze metacognitive disfunzionali e punteggi più bassi di attention control rispetto al gruppo di controllo. In entrambi i gruppi, è stata individuata una correlazione positiva tra gravità dei sintomi e numero di credenze metacognitive disadattive, in particolar modo con le credenze positive sull’utilità della preoccupazione (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

In conclusione, nonostante i limiti dello studio come la mancanza di dati sul rapporto di causalità tra le variabili e la predominanza di un solo disturbo nel campione (Disturbo d’Ansia Generalizzata), i risultati suggeriscono che il modello metacognitivo potrebbe essere utilizzato per concettualizzare le caratteristiche psicologiche e i fattori del mantenimento della patologia in bambini e adolescenti con disturbi dello spettro ansioso o depressivo (Reinholdt-Dunne et al., 2019).

 

Teoria Polivagale e Psicoterapia, ristabilire il ritmo della regolazione – Report dal workshop con Deb Dana

Nel corso di due giornate, Deb Dana mostra i risvolti applicativi della Teoria Polivagale in ambito psicoterapeutico, arricchendo l’evento formativo con numerosi esempi di osservazione e comprensione del proprio SNC e dimostrazioni di attività terapeutiche volte a un rimodellamento funzionale dello stesso.

 

 ISC International ha organizzato nelle giornate del 30 novembre e 1 dicembre a Milano un workshop condotto da Deb Dana, consulente specializzata nel lavoro sul trauma complesso di fama mondiale. È suo il merito di aver trasformato una teoria fondata sulla neurobiologia in una pratica clinica di riconosciuta efficacia.

In linea con le aspettative, Deb Dana dedica le due intere giornate formative ad illustrarci le ricadute applicative in ambito psicoterapeutico della Teoria Polivagale di Stephen Porges. Lo scopo formativo è quello di rendere applicabile, all’interno di una pratica clinica integrata, gli importanti contributi teorici della teoria di Porges, in cui riveste un ruolo fondamentale il Sistema Nervoso Autonomo, che, in caso di emozioni negative persistenti e disregolate, reagisce con stati di attivazione o difesa cronici producendo danni psicobiologici che incidono sulla salute mentale della persona.

È infatti il SNA, spiega Dana, ad occuparsi della segnalazione della presenza o assenza di una minaccia e lo fa attraverso tre stati autonomici al servizio della nostra sopravvivenza: lo stato ventro-vagale, lo stato simpatico e lo stato dorso-vagale.

Lo stato ventro-vagale permette la calma in assenza di minaccia, è lo stato della sicurezza che consente l’ingaggio sociale. Lo stato simpatico interviene invece al primo segnale di pericolo attivando una reazione di attacco o fuga che ci spinge quindi al movimento per ritrovare la via verso la riconquista di uno stato sicuro e sociale. Quando però il pericolo è estremo la risposta risiede nello stato dorso-vagale, una condizione protettiva di collasso che ci fa sentire congelati, assenti.

Il benessere psicofisico della persona prevede che queste tre componenti del SNA lavorino insieme, per questo motivo diventa importante accompagnare il paziente a familiarizzare con il proprio sistema per verificare le proprie personali risposte e il ruolo che esse hanno nel mantenimento del disagio psicologico.

Deb Dana invita in più momenti il pubblico a salire sul palco per dimostrare come si possa aiutare una persona a monitorare le sfumature della propria neurocezione per elevare la comprensione delle proprie esperienze. Quando il paziente riesce a identificare in modo prevedibile il proprio stato, si riduce infatti la sensazione di trovarsi fuori controllo; tale mappatura permette inoltre di interrompere l’automaticità determinata dalla storia di vita e consente di esercitare la capacità di separare lo stato dalla storia.

Altro concetto chiave della Teoria Polivagale, protagonista di questo evento formativo, è sicuramente quello della coregolazione, in virtù delle importanti ricadute nella pratica clinica. Se è vero che veniamo al mondo programmati per entrare in connessione con l’altro, la mancanza di opportunità di coregolazione durante l’infanzia costituisce un trauma che rende la coregolazione stessa pericolosa e interrompe quindi lo sviluppo di capacità coregolatorie, requisito indispensabile per sperimentare la sicurezza. A questo punto il SNA può rispondere con la mobilitazione tipica del simpatico (arrabbiandosi, lottando per l’attenzione) o con lo spegnimento tipico del dorso-vagale (silenzio, distanza, isolamento). Il sistema nervoso dei pazienti è quindi modellato più spesso in pattern di protezione che di connessione.

Deb Dana ci invita quindi a riflettere sull’importanza che ogni terapeuta si interroghi e sappia agire con consapevolezza sul proprio stato autonomico, perché solo attraverso l’offerta al paziente di segnali di sicurezza garantiti dal nostro stato ventro-vagale possiamo invitarlo alla connessione con noi: sono esperienze come queste a permettere ai pazienti di costruire nuovi pattern autonomici verso la scrittura di una storia diversa, più funzionale al benessere.

In estrema sintesi una psicoterapia basata sulla teoria Polivagale dovrebbe seguire quindi quelle che Dana chiama “le quattro R”:

  • Riconoscimento degli stati autonomici
  • Rispetto delle risposte di sopravvivenza adattiva
  • Regolazione/co-regolazione ventro-vagale
  • Riscrittura della propria storia autonomica

Il cambiamento del paziente è dunque possibile solo quando il suo sistema presenterà una regolazione ventro-vagale, l’unico compatibile con la sicurezza e quindi con la guarigione.

Infine la relatrice aggiunge, ai numerosi esempi di osservazione e comprensione del proprio SNC, dimostrazioni di attività terapeutiche volte ad un rimodellamento funzionale dello stesso, come per esempio quelle centrate sulla respirazione, il movimento o la prossimità. Si tratta di spunti interessantissimi che forse spingono al desiderio di una maggiore conoscenza di se stessi, del proprio modo di funzionare a livello di SNC prima ancora che all’ambizione di poterli introdurre con sicurezza all’interno della propria pratica clinica.

Un workshop molto interessante, che ha sicuramente offerto ai professionisti presenti nuove prospettive nell’ambito degli interventi terapeutici rivolti in particolar modo al trauma e agli stati di sofferenza da esso derivanti, non tradendo le aspettative legate alla grande fama di Deb Dana.

La sicurezza è il trattamento. (Porges)

Disturbi alimentari della sfera maschile: una riflessione storica su pregiudizi e stereotipi di genere

I disturbi del comportamento alimentare sono considerati ancora oggi patologie tipicamente femminili, tuttavia le prime descrizioni di questi disturbi riguardavano uomini.

 

Introduzione

I disturbi del comportamento alimentare sono stati considerati per lungo tempo patologie prevalentemente femminili, sia dall’opinione pubblica, che ancora oggi li reputa ‘malattie da femmine’, sia dalla ricerca psicologica, come testimoniato dall’enorme asimmetria di genere che si può trovare all’interno della ricerca scientifica e dal fatto che la maggior parte dei protocolli clinici e diagnostici siano standardizzati sulla popolazione femminile. Si consideri che solo con il DSM-5 (2012) è stato eliminato il criterio diagnostico di amenorrea (la mancanza del ciclo mestruale per almeno 3 cicli consecutivi) dell’anoressia nervosa, una variabile altamente genere-specifica che non aveva riscontro in altre patologie psichiatriche e che, per forza di cose, portava a limiti diagnostici con i pazienti di sesso maschile. Un pregiudizio, quello del ‘femminocentrismo’ dei disturbi alimentari, che ancora oggi resiste, come testimoniato dai target delle campagne di sensibilizzazione e dei servizi per la salute mentale.

Tuttavia negli ultimi anni si assiste a un crescente interesse verso i disturbi alimentari della sfera maschile, quasi a testimoniare un aumento delle suddette patologie e una deviazione dalla loro normale espressione clinica. In realtà, quasi paradossalmente, le prime descrizioni storiche del comportamento alimentare patologico riguardavano nello specifico individui di sesso maschile.

Le prime testimonianze

La più antica descrizione di quella che presumibilmente era anoressia risale all’XI secolo a.C. ad opera del medico persiano Avicenna, dove viene descritto il trattamento di un giovane principe che aveva smesso di alimentarsi in assenza di cause organiche (Balottin et al. 2003). Un altro esempio proveniente dalla storia antica, che sembra rimandare a comportamenti alimentari patologici che coinvolgono persone di sesso maschile, è quello descritto da Senofonte nell’Anabasi (429-354 a.C.):

L’indomani, per l’intera giornata, marciarono nella neve e molti caddero in preda alla bulimia. Senofonte, che era in retroguardia, si imbatteva nella gente crollata a terra, ma non riusciva a capire la causa del loro male. Poi un soldato, esperto di cose del genere, gli disse che erano chiari segni di bulimia.

Lo storico ateniese, con il termine bulimia (letteralmente fame da bue), descrive una condizione di fame estrema accompagnata da malessere, uno stato più simile al binge eating piuttosto che alla bulimia patologica vera e propria.

Si è parlato molto di ‘Sante Anoressiche’, donne religiose che dal decimo secolo in avanti divennero note per i lunghi digiuni a carattere mistico a cui si sottoponevano, come Santa Caterina da Siena e Beata Angela di Foligno, vicende che sono state interpretate come antesignani delle attuali forme di anoressia restrittiva. Meno conosciuta è la controparte maschile di tali comportamenti: i Padri del deserto, monaci anacoreti, che si narra trascorressero anni in condizioni di enormi restrizioni di cibo e acqua con la finalità di rinunciare ai desideri del corpo.

Leggendo queste testimonianze è necessario tenere conto che la nozione di patologia riferita a un fenomeno psicologico dipende sempre dal contesto storico e culturale, ma è comunque interessante vedere come tali condotte abbiano coinvolto l’interesse degli osservatori di quell’epoca.

Artisti della fame

Al fine di comprendere meglio il fenomeno delle condotte alimentari patologiche nei maschi, si considerino altri esempi, questa volta provenienti dal mondo della letteratura in epoca più moderna:

Poteva digiunare quanto voleva … ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea.

Questo breve estratto è tratto dal racconto Un digiunatore di Franz Kafka (1922), dove viene narrata la vita di un uomo che esprime il digiuno estremo come forma d’arte, seppur nascondendo gravi conflitti interiori. La vicenda narrata dallo scrittore boemo è storicamente accurata, in quanto effettivamente, dalla fine del XIX secolo fino agli anni 30, gli ‘artisti della fame’ erano soliti esibirsi in spettacolari digiuni prolungati mettendo in mostra i propri corpi scheletrici. Inoltre secondo alcuni autori le vicende narrate nel racconto sono in parte biografiche, probabilmente lo stesso Kafka ha sofferto di una forma di anoressia nervosa atipica, come testimoniato dall’ossessione per il corpo del digiunatore e la particolare capacità dell’autore di descriverne la personalità:

‘Perché io sono costretto a digiunare’ disse il digiunatore…’perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri’ Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba, convinzione di continuare a digiunare.

Un altro grande autore che in tempi recenti è stato ‘diagnosticato’ come portatore di un disturbo alimentare è Lord Byron. Sembra infatti che il poeta inglese fosse ossessionato dall’apparire magro:

Oggi per la prima volta da sei giorni ho mangiato normalmente anziché prendere i miei sei biscotti con il tè. Come vorrei non averlo fatto! Un po’ di vino e di pesce e ora la pesantezza, gli incubi e il torpore mi stanno uccidendo. Non sarò schiavo del mio appetito.

Jeremy Hugh Baron e Arthur Crisp (2003) hanno analizzato il carteggio del poeta concludendo che quest’ultimo ha probabilmente sofferto per almeno metà della sua breve vita di un disturbo alimentare (morì all’età di 36 anni), alternando periodi di anoressia e bulimia. Per quanto riguarda il caso di Lord Byron è interessante notare come abbia alcuni aspetti in comune con i dati epidemiologici provenienti dalla ricerca moderna sui disturbi alimentari nei maschi, come ad esempio l’esordio tardivo e la presenza di obesità pre-morbosa. Lord Byron, secondo le testimonianze dell’epoca, era un bambino ‘grassottello’ che, raggiunta la maggiore età, ha iniziato a essere insoddisfatto del suo corpo e a dimagrire molto velocemente:

Ho perso otto chili negli ultimi tempi usando ogni mezzo, mi vedo troppo grasso. Vorrei pesare 76 chili, poi smetterò di digiunare e fare esercizio.

I primi pazienti furono maschi

Il termine anoressia nervosa è stato per la prima volta usato nel 1870 da William Gull a Londra, tuttavia è possibile trovare descrizioni di tale patologia nella letteratura medica precedente e vi sono interessanti casi che riguardano proprio pazienti maschi. Quella che per molti è la prima descrizione medica dell’anoressia risale al 1689 ad opera del medico inglese Richard Morton e riguardava un ragazzo di 16 anni che:

[…] cadde gradualmente in una totale mancanza di appetito, provocata dal suo troppo studiare e dalle passioni della sua mente. Arrivò ad un’atrofia universale, struggendosi sempre di più di anno in anno, senza che ci fossero tosse, febbre o altri sintomi […] Ritengo che questa consunzione sia di natura nervosa pur coinvolgendo l’intero corpo.

75 anni dopo un altro medico britannico, Robert Whytt (1764), riprendendo il lavoro di Morton, descrisse il caso di un altro ragazzo questa volta di quattordici anni:

Un ragazzo di costituzione sottile e delicata, di vivace sentimento, il cui polso in salute batteva oltre 70 e 80 volte al minuto. Nel giugno 1757, è stato osservato di umore deflesso e pensieroso, con perdita dell’appetito e cattiva digestione[…] a metà luglio, quando ormai era ridotto a pelle e ossa, il suo polso in posizione orizzontale non superava i 39 battiti. A fine agosto, il suo malessere prendeva una svolta inaspettata: ha cominciato ad avere uno smodato desidero di cibo, che lo costringeva a mangiare ogni due ore per non sentirsi debole […] il suo polso batteva tra i 96 e i 110 battiti. Non ho potuto scoprire né la causa delle prime lamentele del paziente, né della svolta improvvisa e contraria, ma ho pensato che meritasse di essere menzionato come buon esempio di consunzione nervosa.

Un altro esempio degno di attenzione è quello pubblicato nel 1790 da Robert Willan, con il titolo Uno straordinario caso di astinenza, in cui l’autore descrive il lungo digiuno di un giovane uomo in inglese e il suo tragico epilogo con la morte:

Un giovane uomo dalla mente studiosa e malinconica, ha sviluppato diverse volte sintomi di indigestione negli anni 1784 e 1785. Il 21 gennaio del 1786, ha intrapreso un severo percorso di astinenza presumibilmente nella speranza di alleviare le sue spiacevoli lamentele. […] Si ritirò improvvisamente dagli affari, lasciando la società dei suoi amici, e prese alloggio in una strada isolata dove attuò il suo piano, che consisteva nell’astenersi da qualsiasi cibo solido e ogni tanto inumidirsi le labbra con acqua aromatizzata all’arancia.

Nel marzo del 1786 il medico visitò il paziente e rivelò quanto segue:

Era in quel momento emaciato in modo sorprendente, con i muscoli del viso completamente rimpiccioliti e con gli zigomi pronunciati, offrendo un’apparenza più che orribile. Il suo addome era concavo e l’ombelico ritirato per lo stato di collasso dell’intestino, la pelle e i muscoli addominali si restringevano sotto il bacino. I suoi arti si erano gravemente ridotti. Il suo corpo nel complesso suggeriva l’idea di uno scheletro.

Nei giorni successivi il giovane uomo sviluppò uno smodato desiderio di cibo e mangiò grandi quantità di pane con burro, per poi vomitare. Sembrò in un primo momento migliorare ma, alla fine dello stesso mese, riprese nuovamente a rifiutare il cibo e a diventare cupo e ritirato. Il paziente morì il settantatreesimo giorno di digiuno.

Problemi diagnostici

Le descrizioni in passato, seppur sporadiche, di disturbi alimentari della sfera maschile non sono state sufficienti a portare all’attenzione della ricerca psicologica gli uomini come portatori di tali patologie. Si consideri ad esempio che fino agli anni ’60 la teoria psicoanalitica aveva escluso gli uomini dalle riflessioni sulle condotte alimentari patologiche e solo successivamente li aveva considerati come casi ‘atipici’ (Dalla Ragione L. & Scoppetta M., 2009)

L’esclusione degli uomini dalla ricerca sulle condotte alimentari patologiche ha contribuito ad accrescere i pregiudizi di genere su questi disturbi e a escludere la possibilità di cure adeguate per i pazienti maschi. Resta da chiedersi quali siano le ragioni di tale asimmetria di genere e se questa sia effettivamente dovuta a un’incidenza maggiore dei disturbi alimentari nella popolazione femminile. Il fatto che gli uomini possano essere identificati come portatori di una patologia alimentare è da rimandare a molteplici fattori storici, sociali e culturali. Inoltre particolari caratteristiche dell’espressione clinica di tali disturbi renderebbero difficile l’inquadramento diagnostico. Alcune recenti evidenze provenienti dalla ricerca suggeriscono che i disturbi alimentari maschili potrebbero essere sottostimati in quanto:

  • Nei maschi manca un corrispettivo endocrinologico dell’amenorrea (Andersen, 1990); dati recenti supportano l’ipotesi di indagare nei ragazzi la perdita di interesse sessuale o l’abbassamento dei livelli di testosterone.
  • I ragazzi mascherano la restrizione alimentare con motivazioni socialmente accettabili come ad esempio il miglioramento della prestazione sportiva o evitare lo sviluppo di patologie mediche (Grabhorn et al., 2003).
  • L’indice di Massa Corporea (BMI) negli uomini non è un indicatore affidabile della gravità della patologia, in quanto negli uomini anche una condizione di normopeso può celare un disturbo alimentare (Mancini et al., 2018).
  • I maschi sono meno propensi a chiedere aiuto per un disturbo alimentare rispetto alla controparte femminile (Hay et al., 2005) e accedono ai percorsi di cura più tardi e per problematiche psicologiche correlate alla patologia alimentare (depressione, ansia, disturbi ossessivi) (Olivardia, 2007).

Prospettive future

In tempi recenti, come detto in precedenza, si è assistito ad un crescente interesse verso questi quadri clinici, tuttavia la diagnosi di disturbo alimentare nel maschio rimane tutt’oggi complicata: medici e psicologi tendono ancora ad associare i sintomi ad altre patologie, inoltre gli strumenti diagnostici non sono ancora adeguati all’inquadramento dei maschi portatori di disturbi alimentari. Di conseguenza, l’incidenza rimane sottostimata e i pazienti accedono a percorsi di cura adeguati con molto ritardo, accentuando la gravità della sintomatologia e i rischi ad essa connessi. In conclusione si evidenzia l’importanza di approfondire la comprensione dei disturbi alimentari nella popolazione maschile al fine di promuovere la messa a punto di strumenti diagnostici e percorsi terapeutici che tengano conto della prospettiva di genere.

 

Edward Lee Thorndike e il condizionamento strumentale – Introduzione alla Psicologia

Edward Lee Thorndike è uno psicologo statunitense nato a Williamsburg nel Massachusetts il 31 agosto 1874 e morto a Montrose, New York,  il 9 agosto 1949. Inizialmente insegnò psicologia alla Columbia University di New York, e in seguito diresse il dipartimento di psicologia dell’Institute of Educational Research.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Edward Lee Thorndike durante la prima guerra mondiale divenne presidente del comitato per la selezione dei soldati dell’esercito americano e successivamente presidente dell’associazione americana di psicologia e dell’accademia delle scienze.

I suoi principali interessi scientifici furono l’apprendimento e i processi a esso correlati.

Per questo intraprese diversi studi per comprendere al meglio come avvenissero questi meccanismi ma non focalizzandosi sull’introspezione, interesse condiviso in quel periodo, ma osservando il comportamento manifesto, derivante dall’interazione tra stimolo e risposta. Quindi, non era più importante comprendere tutto ciò che si verificava nel mezzo, ma solo ciò che si mostrava tra il prima e il dopo.

Alla base dell’apprendimento secondo Thorndike vi è l’associazione tra le impressioni sensoriali e gli impulsi all’azione. Tale relazione divenne nota col nome di connessione. Infatti, sono proprio queste connessioni che si rafforzano o si indeboliscono nella formazione o nell’estinzione di abitudini comuni. Di conseguenza la teoria di Thorndike fu definita connessionismo.

Le connessioni però, derivano dalla messa in atto di un processo di apprendimento. Così, partendo dalle teorie vigenti all’epoca sul condizionamento classico decise di approfondire l’effetto che le ricompense potevano avere sul processo di apprendimento stesso.

Il condizionamento strumentale

Fin dai primi esperimenti Thorndike si concentrò sulle situazioni rinforzanti e sul processo di apprendimento.

Nel suo più famoso esperimento osservò il comportamento di un gatto famelico rinchiuso all’interno di una gabbia (problem box), al di fuori della quale era posto del cibo. La gabbia era fornita di un meccanismo tramite il quale era possibile aprirla dall’interno.

Il gatto all’interno della gabbia cercava ripetutamente la maniera di uscire per poter raggiungere il cibo. In questo modo, si realizzavano diversi movimenti alla cieca, che portavano all’ottenimento casuale di diverse risposte giuste e sbagliate. I comportamenti provati dal gatto erano diversi, come graffiare, mordere, girare, ma alla fine riusciva ad uscire e a raggiungere il cibo solo premendo la leva/ da cui otteneva una risposta corretta. Thorndike notò, inoltre, che le risposte non corrette tendevano ad essere abbandonate; viceversa quelle corrette ad essere ripetute.

Il gatto, dunque, dopo diversi tentavi ed errori riusciva ad aprire la gabbia, e quando era rinchiuso nuovamente nella gabbia il tempo che impiegava per uscire diminuiva drasticamente.

Quindi, l’animale, dopo diversi tentativi, imparava correttamente ad azionare il meccanismo che consentiva di aprire la gabbia e ottenere il cibo.

Thorndike da questi risultati inferì che l’apprendimento avviene gradualmente per tentativi ed errori, che in un secondo momento portano al consolidamento del comportamento opportunamente rinforzato tramite delle ricompense. Tale assunto prenderà il nome di legge dell’effetto e dell’esercizio.

Gli studi di Thorndike, si differenziavano dal quelli sul condizionamento classico di Pavlov poiché la risposta prodotta dall’animale è un’azione che l’organismo compie sull’ambiente in merito a uno scopo.

Tale condizionamento fu definito da Thorndike strumentale.

Thorndike dai suoi esperimenti evinse tre leggi di apprendimento fondamentali:

  • la Legge dell’esercizio: l’apprendimento migliora grazie alla ripetizione delle prove. Comportamenti realizzati più di frequente hanno maggiori probabilità di essere impiegati in condizioni simili.
  • la Legge dell’effetto: l’apprendimento dipende dalle conseguenze del comportamento, per questo azioni seguite da rinforzo negativo tendono a estinguersi, mentre se seguite da rinforzo positivo saranno ripetute.
  • la Legge del trasferimento o generalizzazione: un comportamento acquisito in una data situazione tende ad essere riutilizzato in situazioni analoghe.

Oltre al campo dell’apprendimento Thorndike si dedicò alle abilità umane, in particolare si concentrò sull’intelligenza e sull’apprendimento verbale. Infatti, sviluppò dei test per misurare le capacità intellettuali dell’individuo come il CAV, costituito da item di completamento di frasi, di aritmetica, di comprensione e di ragionamento.

Ad oggi Thorndike è considerato uno dei più influenti psicologici contemporanei, inoltre è stato istituito un premio in suo onore dall’America Psychologial Association consegnato ai ricercatori più brillanti nel campo della psicologia educativa.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

Cosa c’è che non va tra di noi? Un’analisi descrittiva delle problematiche sessuali nelle relazioni

Studiare i problemi sessuali spostando l’attenzione dall’individuo alla coppia e alla vita sessuale della coppia permette di ridurre la patologizzazione del singolo, e di raggiungere una più chiara comprensione dei meccanismi interni della coppia anziché prediligere la focalizzazione sulle mancanze di uno dei due.

 

Nell’ambito delle relazioni romantiche eterosessuali, vi sono diversi studi che hanno valutato la prevalenza delle disfunzioni sessuali negli uomini e nelle donne (Dunn, Croft & Hackett, 1999). Per i primi, i problemi più comuni riguardano l’eiaculazione precoce e le disfunzioni erettili, per le seconde l’ambito del desiderio sessuale (Laumann, Paik, Rosen, 1999).

Nonostante le numerose ricerche in materia, negli ultimi anni alcuni studiosi hanno sostenuto la necessità di studiare i problemi sessuali spostando l’attenzione dall’individuo alla coppia, analizzata come un tutt’uno: oltre a ridurre la patologizzazione del singolo, questa modalità di approccio ha permesso una più chiara comprensione dei meccanismi interni della coppia e le discrepanze tra i due partner anziché prediligere la focalizzazione sulle mancanze di uno dei due (Zilbergeld & Ellison, 1980).

Partendo da questi presupposti, gli autori del presente studio si sono posti l’obiettivo di indagare non tanto le disfunzioni sessuali vere e proprie nelle coppie, bensì tutti quei problemi che rendono la vita sessuale insoddisfacente per uno dei due partner o per entrambi. Per questo scopo, sono state prese in considerazione coppie eterosessuali di vecchia data, ed è stato domandato a entrambi i partner quali fossero per loro gli aspetti più problematici delle relazioni sessuale con il compagno o la compagna (Sutherland, Rehman & Fallis, 2019). Sono state distinte due tipologie di problemi: il primo tipo, legato al singolo individuo, è stato definito disfunzione sessuale mentre il secondo, relativo alla coppia, problema sessuale relazionale (MacNeil & Byers, 1997). L’importanza di questa distinzione sta nel fatto che anche in presenza di una disfunzione sessuale la coppia può non esperire problemi nell’atto sessuale poiché può aver trovato dei metodi efficaci per arginare questa disfunzione individuale. Al contrario, può capitare che coppie composte da partner senza alcuna disfunzione, nel momento dell’atto sessuale, incontrino difficoltà tali da non riuscire a godere di un’esperienza soddisfacente (Sutherland, Rehman & Fallis, 2019).

Gli autori del presente studio, per riuscire a individuare le problematiche sessuali più tipiche all’interno della coppia, hanno preso in considerazione 117 coppie eterosessuali che fossero sposate o conviventi da almeno due anni. A ogni partecipante è stato somministrato il Sexual Problem Questionnaire (SPQ), un questionario autosomministrato composto da 25 item relativi alle problematiche sessuali con il partner, il Sexual Functioning Questionnaire (SFQ), per valutare le eventuali disfunzioni sessuali, il Global Measure of Sexual Satisfaction (GMSEX) per la soddisfazione sessuale generale, il Quality of Marriage Index riferito alla soddisfazione per la relazione e l’International Personality Item Pool (IPIP) come indice di personalità. I dati hanno mostrato che i tre problemi principali legati alla sessualità, riportati sia dagli uomini che dalle donne sono: la frequenza delle relazioni sessuali (F = 85%; M = 84%), le modalità utilizzate per iniziare il rapporto (F = 85%; M = 84%) e l’interesse verso il rapporto sessuale (F=85%; M = 84%). Uomini e donne condividevano 8 dei 10 problemi legati alla sessualità riportati più di frequente.

Il risultato più rilevante della ricerca condotta da Sutherland e colleghi (2019) è stata la coerenza in termini di problemi sessuali e relazionali emersi. In particolare, i partecipanti hanno riferito che la frequenza delle relazioni sessuali, la modalità utilizzata per iniziare il rapporto e l’interesse verso il rapporto sessuale, non erano solamente le problematiche più comuni, ma anche le più gravi e condivise da entrambi i sessi. Nonostante i limiti dello studio, come la mancanza di un’indagine diretta e la sola presenza di misure self-report, esso è stato il primo studio condotto utilizzando misure che indagassero tutta l’area delle relazioni sessuali e delle disfunzioni prendendo in considerazione sia individui che coppie. Per le ricerche future gli autori suggeriscono di indagare le problematiche del desiderio sessuale che potrebbero condurre l’individuo a sviluppare un disturbo psicologico e/o a ledere permanentemente la relazione con il proprio partner.

Nasce CBT-Italia: la Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

COMUNICATO STAMPA

Il 5 dicembre 2019 è nata CBT-ItaliaSocietà Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale.

Ne danno il lieto annuncio i soci fondatori, clinici e accademici con una storia importante alle spalle e la voglia di scriverne una nuova nei prossimi anni.

L’intento di CBT-Italia è quello di diventare un polo di interesse e riferimento nazionale per tutti coloro che hanno a che fare, a vario grado e titolo, con la pratica e la teoria della CBT, nelle sue varie ramificazioni interne ma condivise e riconosciute a livello internazionale e ancorate a rigorosi processi di validazione empirica delle teorie e dei metodi utilizzati.

C’era bisogno di una nuova associazione? Pensiamo di sì, sia per offrire una casa ai “giovani” nuovi terapeuti formati nelle scuole non afferenti alle società esistenti (ma anche ai “vecchi” che non si riconoscono più in altre associazioni), sia per ridare significato al core della terapia cognitivo comportamentaleche consiste nel dare centralità nella formulazione del caso a credenze e processi cognitivi consapevoli e accertabili a bassa inferenza e nel razionale dell’intervento a un cambiamento esecutivamente controllabile, core che ultimamente si è un po’ perso in una pur rispettabile ambizione integrativa. Ciò dando spazio alle varie voci e alle varie generazioni che popolano l’arcipelago cognitivo-comportamentale.

CBT-Italia è quindi aperta a tutti i professionisti, e futuri professionisti, che hanno scelto la CBT come modello di riferimento clinico (a prescindere dalla scuola frequentata), che condividano i principi ispiratori della società e vogliano sentirsi ben rappresentati, rimanendo costantemente aggiornati e in contatto con tutti gli altri colleghi italiani.

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Attaccamento traumatico e co-regolazione: la neurobiologia della relazione – Report dal workshop con Janina Fisher

Nel caso di pazienti con attaccamento traumatico, il fine ultimo del trattamento è sviluppare le capacità di autoregolazione, entrando in contatto e in intimità con l’altro e costruendo un senso di integrazione del sé. La co-regolazione terapeuta-paziente avviene attraverso un’attenta sintonizzazione dei messaggi somatici inviati dal cliente.

 

Lo scorso 16 e 17 novembre la psicoterapeuta Janina Fisher, esperta a livello internazionale di trattamento dei traumi, ha tenuto a Roma un workshop sull’attaccamento traumatico e su come sia possibile trattare il paziente traumatizzato attraverso interventi di co-regolazione in cui il terapeuta attua un’attenta sintonizzazione con il paziente, una sintonizzazione veicolata prevalentemente a livello emotivo e somatico.

La dottoressa Fisher apre il workshop soffermandosi sulle dinamiche del processo di attaccamento, definito come la ricerca di un “porto sicuro”: i bambini hanno bisogno di una figura di riferimento, un caregiver che si prenda cura di loro e che offra protezione e rassicurazione quando sentono di essere in una situazione percepita come non sicura. Se il bambino può contare su di una figura di riferimento sufficientemente disponibile in caso di bisogno potrà sviluppare un attaccamento sicuro.

Il processo di attaccamento è mediato sul piano somatico: dato che il sistema nervoso del neonato è ancora immaturo la figura di attaccamento svolge una funzione di regolazione interattiva, attraverso la quale il bambino apprende, nell’interazione con il caregiver, come regolare i propri stati emotivi e fisici. Se il bambino percepisce la figura di attaccamento come inaffidabile o distante non riesce a sviluppare un attaccamento sicuro; ne risulta compromessa anche la capacità di autoregolare i propri stati fisici ed emotivi.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Workshop 2019 Fisher IMM1

 

Workshop 2019 Fisher IMM2

Imm 1 e 2 – Janina Fisher parla alla platea

Possiamo osservare differenti stili di attaccamento, ognuno dei quali combina specifiche strategie di avvicinamento e di evitamento alla figura di riferimento e conseguenti modalità di espressione emotiva e di autoregolazione; con il procedere del processo di sviluppo a ciascuno stile di adattamento si abbinano schemi cognitivi che determinano il modo di entrare in relazione della persona.

Nell’attaccamento sicuro il bambino impara, attraverso l’interazione con un caregiver percepito come affidabile, ad autoregolarsi, e, allo stesso tempo, a fidarsi della relazione. Nell’attaccamento insicuro-ambivalente, invece, il bambino ha difficoltà ad autoregolarsi e cerca di mantenere costante vicinanza con il caregiver, senza mai sentirsi, però, totalmente rassicurato dalla sua presenza; nell’attaccamento insicuro-evitante il bambino si rifugia nell’autoregolazione, evitando la regolazione interattiva con il caregiver; l’attaccamento disorganizzato è caratterizzato da difficoltà sia nell’autoregolazione che nella regolazione interattiva.

L’attaccamento disorganizzato è contraddistinto dal conflitto tra l’impulso di attaccarsi, entrando in relazione, e quello di attaccare o fuggire; i modelli di attaccamento relativi all’attaccamento disorganizzato nei bambini sono stati associati a un comportamento materno definito “spaventato o spaventoso”. Alcune persone sviluppano uno stile di attaccamento disorganizzato con tendenze preoccupate: provano una forte paura alla prospettiva di essere abbandonati, ma, al tempo stesso, sono sospettosi e tendono ad esprimere rabbia. Altre persone hanno, invece, uno stile di attaccamento disorganizzato con tendenze evitanti: vorrebbero entrare in relazione, ma si tengono a distanza e si allontanano chi si avvicina troppo. Tutte le dinamiche relative ai processi e agli stili di attaccamento entrano fortemente in gioco nella relazione terapeutica, che riattiva i modelli di attaccamento del cliente rispetto alla figura del terapeuta.

È frequente, nelle persone caratterizzate da un attaccamento traumatico, la presenza di uno stato di dissociazione strutturale della personalità: una parte del sé della persona vive nel presente, attuando condotte di interazione con l’ambiente, mentre un’altra parte del sé è rimasta ferma all’esperienza traumatica e mette in atto condotte di difesa (attacco/fuga, freezing, sottomissione, etc.) quando qualcosa, nell’esperienza presente del soggetto, rievoca il trauma.

Il terapeuta lavora con le parti dissociate, che vanno riportate alla coscienza, e che emergono sotto forma di memorie somatiche e attraverso agiti e identificazioni proiettive. Il terapeuta individua l’esperienza di attaccamento che manca alla persona e la offre, come sperimentazione, per permetterle di familiarizzare con un vissuto nuovo: relazionarsi con una figura di attaccamento rispondente ai suoi bisogni.

Nel caso di persone che hanno subito dei traumi a livello di attaccamento, il terapeuta è chiamato ad entrare in relazione con clienti che hanno imparato, sin dall’infanzia, a considerare le relazioni fonte di pericolo; la relazione con il terapeuta non fa eccezione. Di conseguenza il cliente è portato a vivere con difficoltà e paura l’instaurarsi di una relazione con il terapeuta.

Il terapeuta fa ricorso a tecniche mindfulness e agli interventi di psicoterapia sensomotoria, nell’ottica che solo attraverso la mediazione dei vissuti corporei il cliente possa avere complesso accesso ai propri vissuti e ritrovare il senso di integrità del sé compromesso dall’attaccamento traumatico. A questo proposito la Fisher cita Van der Kolk il quale afferma che:

Le parole non possono integrare le sensazioni e i pattern di azione disorganizzati che hanno origine dai segni più profondi del trauma.

Fine ultimo del trattamento è l’acquisizione della capacità, da parte del paziente, di attuare una corretta autoregolazione, entrando in contatto e in intimità con l’altro e costruendo un senso di integrazione del sé. Per promuovere ciò il terapeuta si avvale del linguaggio non verbale e della mediazione corporea; la co-regolazione terapeuta paziente avviene, quindi, attraverso un’attenta sintonizzazione dei messaggi somatici inviati dal cliente.

 

 

La tecnologia nelle nuove generazioni

Alcuni studiosi, come Mark Prensky (2001) ritengono che gli studenti sono cambiati radicalmente; non sono più le persone per cui il sistema educativo è stato pensato.

 

Oggi i ragazzi non sono solo cambiati rispetto al passato, né hanno semplicemente mutato il modo di parlare, vestirsi o agghindarsi, come era successo nelle generazioni passate. Si è verificata una grande trasformazione, tale da cambiare le cose in maniera così profonda da rendere impossibile tornare indietro: si tratta dell’arrivo e della rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del ventesimo secolo.

Gli studenti di oggi, dall’asilo all’università, rappresentano le prime generazioni cresciute con queste nuove tecnologie. Hanno speso la loro vita usando computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari e tutti gli altri strumenti dell’era digitale. La familiarità dei bambini con una tale varietà di  schermi interattivi ha plasmato il loro modo di apprendere, di conoscere e di comunicare e, contestualmente, il loro approccio alla realtà: per i nativi, il virtuale è realtà tanto quanto quella che si attua con i sensi, in presenza.

Per via del modo in cui sono cresciuti, è molto probabile che i cervelli dei nostri studenti si siano fisicamente modificati e siano diversi dai nostri. Che ciò sia comprovato oppure no, possiamo dire con certezza che anche i loro modelli cognitivi sono cambiati. Bisogna però sottolineare che la tecnologia rende liberi e migliori solo se la sviluppiamo e la utilizziamo in modo saggio (Prensky, 2013).

Siamo di fronte ad un apprendimento digitale, fino a qualche anno fa, i compiti si facevano a casa da soli o in piccolo gruppo, alcune volte si usava il telefono per confrontare i risultati, oggi si fanno i compiti insieme tramite Skype, si condividono i risultati tramite Wathsapp, si cercano molte più informazioni su internet piuttosto che sui libri. Questo tipo di studio ha modificato le modalità di apprendimento e la velocità della gestione delle informazioni; è cambiato il livello di attenzione e la velocità con cui arrivano gli input al cervello. Ormai si attua una modalità per cui non si esegue più un compito cognitivo alla volta e, come un pc, si può arrivare ad avere un numero troppo elevato di finestre aperte, con il rischio di andare in affaticamento mentale.

 Prensky parla di saggezza digitale derivante dall’intelligenza digitale, possibile solo in chi riesce ad approcciarsi nella misura migliore e maggiormente consapevole alle nuove tecnologie. Esiste però anche una stupidità digitale, tipica di persone che fanno un uso inappropriato della tecnologia, mettendo in atto comportamenti che manifestano quanto meno superficialità, come l’impadronirsi di materiale presente in rete senza preoccuparsi del copyright né di citare gli autori.

Prensky ha coniato il termine nativi digitali, proprio per indicare i bambini che hanno grande dimistichezza con gli strumenti tecnologici. Questa espressione sarebbe in opposizione con gli immigrati digitali, che saremmo noi adulti che dobbiamo riadattare la nostra mente a questo secondo linguaggio, sono le persone che, quando queste nuove tecnologie si sono diffuse, erano già adulte e quindi hanno avuto maggiore difficoltà, o addirittura non riescono, a impadronirsi della conoscenza e dell’uso di questi nuovi mezzi. Bortolato però ritiene che il termine esatto non sia nativi digitali, ma nativi analogici, perché questi strumenti sono sì digitali, ma l’interfaccia grafica con cui si presentano è analogica. Per questo i bambini li adorano.

Il termine nativi digitali indica la generazione di nati (negli Stati Uniti) dopo il 1985, anno di diffusione di massa del pc a interfaccia grafica e dei primi sistemi operativi Windows. In Italia, secondo Ferri, si parla di nativi digitali dalla fine degli anni novanta, quando i computer e internet sono entrati prepotentemente nella vita di tutti.

Gli studi di Ferri, professore ordinario di Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie per la didattica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra media e società, (Ferri, Allega, 2013) dimostrano che l’apprendimento di queste nuove generazioni è caratterizzato dal multitasking: studiano mentre ascoltando musica, mentre chattano con gli amici, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Questo nuovo modo di apprendere è caratterizzato dalla capacità di fare più cose contemporaneamente, ma quando pensiamo di stare facendo multitasking, stiamo solo passando da un’attività a un’altra molto velocemente, ma ogni volta c’è un costo cognitivo.

Gli adulti cercano sempre un manuale o degli strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarsi a esso, i nativi apprendono per esperienza, navigano tra i media in maniera non lineare e creativa. La loro mente è fatta in maniera differente essendo in grado fin da piccoli di distribuire l’attenzione su più dispositivi contemporaneamente, a differenza dei loro genitori monotasking che faranno fatica a capirli.

Daniel J. Levitin (2015), ha effettuato alcune ricerche ed è arrivato a sostenere che il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali. Si è visto che il multitasking aumenta la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, e di adrenalina, l’ormone del lotta o scappa, che può stimolare eccessivamente il cervello e causare annebbiamento o pensieri disturbati. Il multitasking crea un circolo vizioso di dipendenza dalla dopamina, premiando effettivamente il cervello a perdere la concentrazione e a cercare stimoli esterni.

 

Il sesso nella coppia e la pratica della non-monogamia eterosessuale: scambismo e poliamore

La cultura occidentale contemporanea onora la monogamia, sostenendola come uno standard morale ideale e come fondamento solido per la costruzione di interazioni sociali normative per individui, gruppi e istituzioni.

 

Shippers (2016) descrive questa monogamia istituzionalizzata e obbligatoria come:

Il dominio e la superiorità dell’etero-mascolinità, un insieme di aspettative culturali e un luogo sociale che offre agli individui una sola forma legittima di relazione intima.

Questo modello monogamo è idealizzato nella storia dell’amore culturale dominante in cui un uomo incontra, corteggia, conquista una donna e si innamorano per sempre. Il sesso gioca un ruolo speciale in questo contesto, fungendo da rappresentazione simbolica della fusione di una coppia e del sé. Il sesso, come spiegano Jackson e Scott (2004), è visto come ciò che tiene la relazione insieme e, se questo non funziona, l’intera relazione cade a pezzi. In quanto tale, la fedeltà sessuale e l’esclusività sono le parole chiave di queste relazioni. Di conseguenza, questa natura “obbligatoria” della monogamia eterosessuale etichetta identità e pratiche sfidanti e differenti come devianti e inferiori.

Il risultato di questa prescrizione culturale è l’affermarsi della superiorità maschile. Nello specifico, le idee maschili tradizionali riguardano la convinzione del possesso esclusivo delle donne come proprietà sessuale; oppure si allontanano dalle idee di proprietà per abbracciare la tradizionale nozione di genere della mascolinità come prestazione competitiva con altri uomini. Infine, attualmente molti uomini si concentrano sulla cooperazione e la comprensione, misurando il “successo” in termini di soddisfazione dei partner: questo spostamento segna una potente trasformazione nelle dinamiche di potere di genere.

Il presente studio analizza le conseguenze della variazione di questa regola culturale, valutando in che modo l’intimità con partner diversi influenza gli ideali di genere e le dinamiche di potere. In particolare, vengono prese in considerazione due diverse forme di relazioni multiple tra partner: scambismo e poliamore. Lo scambismo si riferisce all’impegno reciproco e consensuale della coppia in relazioni sessuali extraconiugali, mantenendo il coinvolgimento emotivo esclusivo all’interno della coppia. Esso include una vasta gamma di pratiche sessuali, tra cui quelle denominate “soft swap” (in cui può esistere un gioco sessuale con gli altri, ma il rapporto sessuale è riservato alla coppia) e “hard swap” (in cui entrambi i partner possono impegnarsi nel rapporto sessuale con uno o più partner). Indipendentemente dalla pratica sessuale, per gli scambisti, il coniuge o il partner è il loro unico e vero amore (Bergstrand e Sinski, 2010). Al contrario, i poliamanti si concentrano intensamente sull’intimità emotiva e sull’impegno con tutti i partner, credendo che sia valido e utile mantenere relazioni intime, sessuali e amorose con più di una persona (Haritaworn et al., 2006). Come lo scambismo, il poliamore può assumere molte forme e racchiudere comportamenti diversi (es. vivere insieme come un’unica famiglia, partner multipli esterni al nucleo familiare, condivisione di un unico partner aggiuntivo).

Per raccogliere i dati utili alla ricerca sono state condotte interviste approfondite e semi-strutturate, progettate per consentire ai partecipanti di far emergere argomenti, esperienze e sentimenti rilevanti per loro. La guida all’intervista includeva domande focalizzate sulla storia delle relazioni, su come e perché i partecipanti hanno deciso di non osservare la pratica monogama, su come hanno negoziato queste relazioni, sui vantaggi e le difficoltà associate alle diverse esperienze e, infine, sulle loro percezioni riguardo all’amore e alle differenze di genere.

Ciò che emerge dall’analisi dei dati è un tema univoco sia agli scambisti che ai poliamanti, ossia la presenza di un accordo iniziale che rivela sia il desiderio di esplorazione sessuale condiviso dalla coppia, sia la necessità di proteggere la relazione e controllare i sentimenti che il sesso extraconiugale potrebbe evocare. Per fare ciò, queste coppie creano dei limiti attorno al tipo di attività sessuale che è ritenuta ammissibile ed è la presenza e l’interazione con gli altri uomini che devono essere controllate. In questo caso, infatti, si evince chiaramente un’importante dinamica di genere: una donna che fa sesso con un’altra donna o la coppia che condivide rapporti sessuali con un’altra donna non è considerata minacciosa; al contrario, un altro uomo è visto come potenzialmente minaccioso perché in grado di sostituire il partner.

In questa configurazione, come spiega Schippers (2016), l’uomo è il soggetto desiderante e le donne sono oggetti del desiderio. Di conseguenza, queste donne sentono di lavorare insieme per il proprio piacere sessuale, ma anche, e soprattutto, per alimentare i desideri sessuali del partner. In altre parole, la ricompensa centrale del gioco sessuale femminile è la soddisfazione e il piacere degli uomini; questo rafforza il loro senso di mascolinità e il mantenimento del loro status di agente sessuale (la prospettiva di un altro uomo significherebbe gelosia, insicurezza e competizione), mentre le donne si esibiscono come oggetti stimolanti per loro. Tuttavia, queste pratiche sessuali scambiste sembrano rafforzare il sesso nella coppia eterosessuale. Nel caso in cui dalla pratica soft swap si aderisce alla pratica sessuale hard swap è necessario ridefinire regole, confini e limiti della pratica sessuale extraconiugale. Quindi, nello specifico, le coppie del presente studio hanno fatto affidamento su due strategie primarie e spesso collegate per contenere ed alleviare le paure e le insicurezze: 1) una comunicazione completamente onesta e 2) la creazione di regole per proteggere l’amore e l’impegno emotivo delle coppie. Gli obiettivi di queste strategie erano di favorire la comprensione e promuovere la fiducia nel fatto che il sesso con un’altra persone non avrebbe minato la connessione emotiva unica di una coppia. In questo senso, queste coppie hanno mantenuto gli aspetti chiave della gerarchia di genere e hanno valorizzato l’amore monogamo.

Mentre gli scambisti scollegano l’amore e il sesso per preservare la relazione d’amore unica e monogama prescritta dall’ideologia dell’amore romantico, i poliamanti sostengono che un rapporto intimo di amore e sessualità con una persona non impedisce relazioni simili con gli altri individui. Alcuni partecipanti di questo studio (3) hanno scelto il poliamore come una posizione puramente ideologica; cioè, credevano che la monogamia fosse una prescrizione sociale che limitasse la loro vita e quindi la rifiutavano. La maggior parte dei partecipanti, tuttavia, è emersa come poliamorosa perché voleva mantenere più relazioni intime importanti: alcuni erano scambisti che avevano scelto di passare alla poliamoria perché avevano sviluppato forti legami emotivi con i loro partner sessuali; altri si sono innamorati di una persona al di fuori dei loro matrimoni, ma erano ancora innamorati dei loro partner e insieme hanno deciso di diventare poliamorosi. Il resto dei partecipanti ha deciso congiuntamente come coppia di voler provare il poliamore come un modo per arricchire la propria vita ed espandere connessioni significative.

Indipendentemente da come i partecipanti sono entrati nelle relazioni poliamorose, molti hanno trovato la pratica di queste relazioni più impegnativa di quanto si aspettassero. Come gli scambisti hard swap, molti partecipanti poliamorosi hanno provato gelosia, ansia e paura di perdere i loro partner quando hanno iniziato a intrattenere relazioni amorose con altre persone (Mint, 2010). Per alcuni partecipanti (circa il 65%), queste emozioni diverse, come per gli scambisti, erano legate alle tradizionali dinamiche di genere. Anche in questo caso, era necessario stabilire delle regole che rientravano in due grandi categorie: quelle progettate per prevenire i sentimenti negativi e quelle create per mitigarli se si verificassero (Wolkomir, 2015). Due dei tipi più comuni di pratiche create per impedire sentimenti negativi sono stati la creazione di “potere di veto” riguardo ad altre relazioni (entrambe le persone potevano dire di no ad un evento, ad una persona o ad un tipo di attività sessuale che ha creato coercizione emotiva) e la conservazione di determinati spazi, esperienze ed eventi speciali per la coppia primaria (alcune coppie hanno concordato che avrebbero celebrato tutte le festività, i compleanni e gli eventi speciali insieme, altre ancora hanno riservato il sesso orale o altre pratiche sessuali solo l’uno per l’altro).

In sostanza, nonostante alcune dinamiche relazionali non siano state ancora annullate, le esperienze dei partecipanti con più amanti creano un’opportunità per sviluppare una nuova lente attraverso cui visualizzare relazioni intime, che non richiedono competizione o gerarchia di genere e permettono l’amore tra molti uguali. Questo studio, poiché si concentra principalmente su eterosessuali bianchi della classe media che praticano per lo più sesso diadico, si limita ad un’analisi delle relazioni connesse al potere di genere. Studiare altre configurazioni di relazioni poliamorose che incorporano varie identità sessuali o razziali e/o sesso triadico può consentire una maggiore comprensione delle dinamiche di genere, disuguaglianze razziali e sessuali (Schippers, 2016) e di come queste forme di intimità possano porre sfide al predominio maschile eterosessuale bianco. Infine, indagare come questi percorsi potrebbero essere diversi o problematici per gruppi differenti i e più emarginati rispetto ai partecipanti a questo studio fornirà una visione molto più sociologica delle complessità delle disuguaglianze interconnesse.

 

Le funzioni del gioco nel contesto evolutivo

Il concetto di gioco richiama un’attività di natura ricreativa, piacevole, intrinsecamente motivata e non finalizzata. Tuttavia, soffermandosi solo alle caratteristiche velleitarie connesse al suo specifico esercizio, si commetterebbe il rischio di trascurare le numerose competenze adattive e funzionali che il gioco consente di acquisire.

 

Il concetto di gioco richiama un’attività di natura ricreativa, piacevole, intrinsecamente motivata e non finalizzata, praticata sin dalle prime fasi della vita umana. Sarebbe tuttavia un errore, parlando di gioco, soffermarsi solo alle caratteristiche velleitarie connesse al suo specifico esercizio: si commetterebbe infatti il rischio di trascurare le numerose  competenze adattive e funzionali che proprio attraverso il gioco riescono ad essere acquisite, potenziate e mantenute nel tempo.

La prospettiva etologica è tra le prime ad evidenziare la funzione di apprendimento tipica del gioco praticato dai cuccioli di animale, i quali, simulando scene della vita quotidiana in un contesto scevro di intenti aggressivi, riescono a costruire l’immagine mentale di eventi che potrebbero accadere nella realtà e a sviluppare adeguati strumenti reattivi ai medesimi: si tratti di attacchi finalizzati alla difesa, al procacciamento di cibo, alla protezione dei propri simili o di se stessi, al confronto amoroso finalizzato all’accoppiamento, alle interazioni sociali e a tutte quelle attività utili al mantenimento e al potenziamento autoconservativo in una prospettiva di apprendimento evolutivo (Alcock, 2007).

Questa funzione di apprendimento attraverso il gioco appare mutuata dal genere umano che, nelle prime fasi della vita, si approccia alla sperimentazione di numerose attività evolutive proprio servendosi dell’esperienza ludica.

Vari studiosi della psicologia evolutiva si sono interessati a quest’aspetto, cercando di identificare, insieme alle varie funzioni che il gioco riveste nella vita del bambino, i motivi per i quali lo stesso vi dedica tanto tempo ed energia. Secondo la teoria di Spencer, a giocare una componente fondamentale nell’esercizio del gioco è la volontà di scaricare un surplus di energia che rimane dopo aver eseguito le azioni necessarie alla sopravvivenza, alla stregua di un vero e proprio sfogo (Berti, Bombi, 2013).

Di parere diverso è la teoria di Lazarus, che vede nel gioco un rilassamento, un’attività libera da costrizioni e vincoli che l’individuo sceglie di praticare arbitrariamente a seconda delle personali propensioni e condizioni ecologiche; Karl Groos sceglie invece di fissare l’attenzione sul fine didattico ed evolutivo del gioco, considerandolo una sorta di preesercizio delle abilità adulte necessarie all’evoluzione e al sostentamento (Berti, Bombi, 2013).

Ma è Piaget, nella sua prospettiva costruttivista, a sviluppare maggiormente l’aspetto didattico del gioco, evidenziandone la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo. Così si va dalle reazioni circolari del periodo senso motorio, in cui il gioco consiste più che altro nella ripetizioni circolare di attività considerate piacevoli a livello sensoriale, al gioco più concreto tipico del periodo preoperatorio (dai 2 ai 7 anni) che si manifesta con l’esplorazione ambientale, la manipolazione di oggetti e la conoscenza degli stessi tramite il contatto diretto. In questa fase il bambino si avvicina ai giochi, ne riconosce le caratteristiche e le peculiarità, li maneggia, li altera, li modifica, costruisce e trasforma, disfa e inventa, comprende le sequenze di mezzo-fine, lancia, afferra, mettendo alla prova una creatività direzionata essenzialmente su esperienze concrete e ambientali che seguono la direzione del suo pensiero, ancora limitato da un forte egocentrismo ( Piaget, 1936; 1945).

Ma nel periodo preoperatorio il gioco presenta anche connotazioni immaginative, legate perlopiù al pensiero magico, che lo rende in grado di risolvere situazioni problematiche (funzione liquidatoria), di anticipare e prevedere circostanze vissute con particolare ansia e difficoltà (funzione anticipatoria) e di correggere la realtà in tutte quelle situazioni che si sono evolute o concluse diversamente da come il bambino avrebbe desiderato (funzione compensatoria) (Berti, Bombi, 2013).

Già dai 18 mesi, quindi, il bambino comincia a maturare una funzionalità di pensiero simbolica, conferita dalla capacità di immaginare esistenti anche oggetti che spariscono da suo campo visivo, e dall’acquisizione della imitazione differita, ovvero la possibilità di riprodurre comportamenti che ha visto effettuare in fasi pregresse tenendoli a mente. In questa fase il gioco non è più solo una manipolazione concreta di oggetti, divenendo piuttosto una pratica simbolica, immaginativa, in cui l’oggetto ludico sta al posto di qualcosa del quale il bambino possiede già una rappresentazione mentale, e che nell’oggetto identifica per finta.

Lo sviluppo di tale capacità non risulta prescindibile, oltre che dalle maturazioni neurobiologiche, dalle relazioni sociali stabilite dal bambino soprattutto con l’adulto, che meglio di lui riesce a padroneggiare e a strutturare scene ludiche in cui vengono introdotti gradualmente il dialogo, l’interazione, l’immaginazione, il linguaggio emotivo.

Ed è proprio lo sviluppo delle competenze verbali, in evoluzione soprattutto a partire dai 2 anni, insieme all’accrescersi delle interazioni sociali nell’ambiente intra ed extra familiare (si pensi all’accesso agli asili e alle scuole di infanzia) a sviluppare la possibilità di sperimentare giochi di gruppo, in cui il bambino stabilisce regole da seguire, crea ruoli socio-drammatici, riesce ad immaginare caratteristiche che un oggetto non possiede, ad immaginare un oggetto che non esiste o un oggetto che non vede (Schaffer, 2015). Anche il gioco subisce, in questa fase, una trasformazione fortemente influenzata dalla relazione sociale, e se nei primi mesi di vita i bambini svolgono attività contemporanee, ma prive di eteroreferenzialità, a partire dai 3-4 anni, e soprattutto verso i 5, il gioco assume graduali connotazioni collaborative, grazie alle quali i bambini si uniscono consapevolmente in gruppo per realizzare attività condivise, ripartendo ruoli, compiti in vista del raggiungimento di un obiettivo comune (Berti, Bombi, 2013).

Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.

L’immaginazione che si sviluppa nel bambino a partire dai 4 anni viene definita da Fonagy (2003) l’esito dello sviluppo della mentalizzazione, la capacità cioè di attribuire stati mentali alle azioni altrui, e di immaginare che le stesse possano essere compiute con finalità emotive. Così non solo si riesce ad interpretare i propri stati d’animo, ma ci si rappresenta anche quelli altrui, etichettandoli di una matrice mentale.

Il bambino raggiunge questa competenza grazie alla mind-minddness, ovvero la capacità della madre di farlo sentire un oggetto pensante nella propria mente, e di stimolare in lui la rappresentazione di emozioni auto ed eterocentrate, attraverso una serie di abilità metacognitive che si esplicano essenzialmente grazie a social skills tipiche di questo periodo evolutivo: il far finta, momento nel quale il bambino simula scene di vita quotidiana che lo introducono alla capacità riflessiva, il parlare, dato come l’attività verbale garantisca l’accesso ad una buona interpretazione delle emozioni proprie, altrui e alla gestione di un buon vocabolario emotivo, e l’interazione con il gruppo dei pari, momento di relazione interpersonale che vede i bambini impegnati in attività ludiche immaginative, drammatizzate, fantasiose e in grado di spingerlo a pensare che cosa farebbe se si trovasse al posto di un’altra persona (Fonagy, Target, 2001). I bambini divengono così piccoli attori, drammaturghi delle proprie esistenze, e sono capaci di riflettere nella finzione stati d’animo emotivi dei quali già possiedono distinte rappresentazioni interne.

L’idea che il gioco svolga un ruolo importante anche dal punto di vista emotivo è stata condivisa da altri autori, quali Vygotskij, il quale sottolinea come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri (Berti, Bombi, 2013). .

In una prospettiva psicodinamica il gioco viene invece connotato di peculiarità fortemente simboliche e conflittuali.

Freud per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione. L’idea nasce dalla famosa interpretazione del gioco del rocchetto, grazie alla quale lo stesso Freud, osservando l’attività ciclica e ripetitiva con cui il nipotino Ernst, di 18 mesi, tirava un rocchetto all’esterno e all’interno della culla, comprese il significato simbolico connesso alla stessa: il continuo lancio avanti e indietro della spoletta di filo non rappresenta altro che il suo tentativo inconscio di regolare l’ansia derivata dall’assenza materna e quindi dal distacco dell’oggetto primario.

La funzione del gioco è dunque catartica, poiché consente al bambino di ripercorrere il suo dolore senza accedervi direttamente, nel tentativo di alleggerirlo e diventarne protagonista. La possibilità di poter autonomamente determinare le sorti dell’Oggetto – la madre – consente così la ripetizione attiva in una fase in cui le verbalizzazioni e la possibilità di fare esperienza sono ancora estremamente immature, ma il desiderio di mantenere un legame vivo e attivo con l’oggetto stesso, anche dopo la sua sparizione, si dimostra indispensabile (Freud, 1914).

In questa prospettiva il contenuto simbolico dei giochi praticati dai bambini di età diverse viene a riflettere gli aspetti problematici e conflittuali delle fasi dello sviluppo psico-sessuale e relazionale: costruire castelli o frecce consente di alimentare egocentrismo, onnipotenza e virilità, distruggere una torre di legno per poi ricostruirla significa potersi allontanare dalla madre garantendosi la possibilità del ricongiungimento, giocare a sporcarsi con il fango compensa l’infante per le restrizioni imposte dall’educazione al controllo degli sfinteri, giocare con bambole che scompaiono e riappaiono servono a dominare l’ansia per l’allontanamento della figura materna (Berti, Bombi, 2013).

Anche la Klein considera il gioco non solo come un’attività ludica e ricreativa tipica dello sviluppo infantile, ma come l’equivalente delle libere associazioni nella terapia freudiana, la modalità in cui i bambini esprimono conflitti individuali, paure, fantasie ed esperienze nella stessa forma arcaica dei sogni. Le dimensioni di fantasia, simulazione e reversibilità garantite dal gioco consentono al bambino di espellere e introiettare contenuti angoscianti, stati di persecuzione interna collegati ad esperienze evolutive potenzialmente disintegranti (Klein, 1932).  Ad esempio, recitare ruoli drammatici nel gioco può servire ad isolare le identificazioni ed espellere le figure persecutorie che una volta introiettate lo perseguitano dall’interno, provocando in lui stati di inesplorabile angoscia.

Dunque i giochi cambiano intensità e caratteristiche col mutare dell’angoscia del bambino: si presentano sadici e crudeli nella fase schizoparanoide, in cui l’angoscia persecutoria raggiunge livelli parossistici e di difficile dominazione interna, spingendolo alla volontà di distruggere l’oggetto primario materno per non venir a sua volta dallo stesso distrutto, per divenire più controllati nella seguente fase depressiva, durante la quale, nel bambino, si fa strada il desiderio di proteggere l’oggetto primario dalle proprie pulsioni distruttive (Klein, 1932;1933). Così, se nella fase schizoparanoide il bambino fa a pezzi bambole e pupazzi come si trattasse di un nemico da annientare, con l’insorgere della fase depressiva egli tende a ricostruire, a proteggere quegli stessi oggetti che aveva disintegrato, semplicemente perché non se ne sente più perseguitato (Klein, 1934). Ma il conflitto fa chiaro riferimento al rapporto con l’oggetto materno primario. E proprio qui risiede il valore fortemente simbolico del gioco che accompagna tutte le fasi dello sviluppo emotivo, fisico e cognitivo del bambino, alleviandone il peso e le difficoltà intrinseche.

Si comprende pertanto come l’osservazione del gioco infantile si riveli funzionale alla comprensione e al monitoraggio delle varie fasi dello sviluppo evolutivo, e come un attento studio interpretativo dello stesso consenta di identificare ciò che, attraverso la sua pratica, il bambino vuole intrinsecamente comunicare, relazionandosi all’adulto, a se stesso, al mondo.

 

Il dono nella cultura cristiana

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. 

 

La cultura cristiana non solo segue temporalmente quella ebrea, ma la porta a compimento. La venuta del Messia, tante volte annunciata e profetizzata, chiude il tempo dell’attesa rinsaldando il legame, messo in crisi dal peccato originale, tra Dio e gli uomini. Così come Abramo offre in olocausto il suo unico figlio Isacco, Dio dona suo figlio per la salvezza dell’umanità.

Donare la vita e donare se stessi sono i punti centrali dell’esperienza evangelica. Se all’inizio – nella genesi – Dio crea la vita e la dona come creazione, con la venuta di Gesù offre se stesso ovvero si fa uomo per la redenzione dell’umanità. Il salto sul piano logico e pratico non è da poco. Dio con Gesù non è più solo Colui che è, che guarda in maniera interessata lo svolgersi della vicenda umana, che manda mediatori come i profeti o i patriarchi, ma interviene in prima persona nella storia culturale dell’uomo. Dio il creatore si fa sostanza umana: la stessa sostanza che ha creato, di cui diventa partecipe e con la quale si identifica.

La nascita del Bambin Gesù porta con sé questa grande novità: Egli è dono e, nello stesso tempo, è l’essersi donato ovvero è dono di se stesso. Questa verità trascendentale sconvolge la logica categoriale poiché mette in crisi la relazione oggettuale, il rapporto tra l’io e l’oggetto, nel senso che il primo diventa, nello stesso tempo, oggetto e soggetto.

E’ oggetto in quanto dono di Dio agli uomini; è soggetto poiché è egli stesso che si dona. Mette in crisi, altresì, il rapporto tra l’io e l’altro che in Gesù si identificano all’interno di un rapporto ambivalente: Egli è figlio ma, nello stesso tempo, è padre. Eppure non sfugge in nessun momento di essere semplicemente figlio. L’altro è il padre e tutta l’umanità.

Questo sdoppiarsi sembra indicare il legame che lega Dio con gli uomini e questi tra di loro. I quattro evangelisti iniziano in maniera del tutto diversa i loro scritti:

  • Matteo lega Gesù al dono generazionale descrivendo la sua stirpe a partire da Abramo;
  • Marco allo stesso modo, lo inserisce all’interno della storia profetica d’Israele facendolo diventare il dono del Signore;
  • Giovanni descrive il dono simbolico facendo riferimento alla origine, alla sostanza di Gesù che in principio era il verbo, era la parola;
  • Luca lo inserisce all’interno della storia del suo tempo.

Gesù è il dono per antonomasia al di là e indipendentemente delle varie letture ed interpretazioni ivi compresi quelli degli evangelisti. Dio si dona facendosi trovare dentro una mangiatoia, diventato ultimo Lui che per definizione è il motore primo della storia umana.

Per i cristiani a Natale finisce il tempo dell’attesa dell’Antico Testamento: è il momento della realizzazione di tutte le profezie. Natale è, comunque, il momento dello scambio dei doni; di fronte al dono accorrono tutti, contraccambiando con quanto possono. La nascita dentro una mangiatoia, se da un lato dimostra che Dio si fa ultimo, dall’altro simboleggia la centralità del dono – Gesù che non ha bisogno di ulteriori sfarzi. Basta Lui a riempire la scena, non c’è bisogno d’altro. E’ dentro la mangiatoia che diventa il centro del mondo tant’è che i re magi partono da lontano per rendergli omaggio.

La suddetta concezione è emblaticamente rappresentata in tutti i quadri della sacra famiglia o in quelli in cui è presente il Bambin Gesù. La luce è emanata dal bambino ed irradia tutte le figure accanto. E’ così nella Natività di Federico Fiori, detto Barroccio, in cui la Madonna viene irradiata dalla luce proveniente dalla culla con il bambino; nella Santa Notte di Antonio Allegri, detto Correggio, nella quale l’adoratrice si mette la mano davanti agli occhi a mo’ di riparo per non essere abbagliata; nella Natività di Piero della Francesca; nell’Adorazione dei pastori di Gherardo Delle Notti, in cui i volti dei pastorelli vengono irradiati dalla luce proveniente dalla culla.

La luce esalta la figura rispetto allo sfondo mettendola in rilevo: è nel gioco delle luci e delle ombre che la materia pittorica prende forma e l’artista può esprimere il suo pensiero. Nella pittura sacra, l’artista esprime la luce divina che viene irradiata dalla stessa figura santa o divina.

San Bonaventura mette in relazione la luce con Dio affermando che Come la luce, Dio è la bellezza di tutte la cose. Se è la bellezza di tutte le cose, essa dona agli oggetti colore, brillantezza, rilievo, li mette al centro della scena. Il Bambin Gesù dona la luce al mondo, così come la sua morte a 33 anni di distanza lo riporta nelle tenebre, per farlo risplendere con la resurrezione. Durante la veglia pasquale si ripete più volte a lume di candela Cristo luce del mondo, mettendo in risalto il dono della luce del Signore.

Un’altra caratteristica della pittura sacra che rappresenta il dono – Gesù è la modalità con la quale la Madonna tiene o meglio non tiene il bambino. La presa è, quasi sempre, innaturale per una mamma: non lo tiene ma lo presenta, lo mette in mostra.

Esempi sono:

  • La Madonna di melagrana di S. Botticelli nella quale è possibile notare che la posizione del bambino è di equilibrio precario, potrebbe cadere in qualsiasi momento. E’ come se il bambino tendesse a scappare. L’indicazione potrebbe rappresentare la risposta di Gesù a Maria quando lo ritrovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. Di fronte alle preoccupazioni dei genitori, Gesù risponde: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?
  • La Maestà di Ognisanti di Giotto ripropone la stessa modalità che troviamo in quasi tutte le pitture sacre rappresentanti la Madonna con il bambino.

Gli artisti rappresentano il valore di dono di Gesù che la mamma offre al mondo.

Nella storiografia, nei Vangeli e nelle pitture sacre sono i pastori coloro a cui è annunciata la nascita del Messia, dando, metaforicamente, senso al buon pastore donato per condurre il gregge, per condurre l’umanità verso la giusta via: io sono la via, la verità e la vita.

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. Donare se stessi vuol dire non solo dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma dare ciò che si è e, in questo modo, fare legame con l’altro.

E. Bianchi sostiene che donare se stessi richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro. U. Morelli afferma:

È nel rispecchiamento con gli altri che costruiamo la nostra identità, fin dalle origini più elementari del nostro essere e della nostra esperienza; […] siamo esseri sociali che fin dalla più elementare costruzione di sé devono ciò che sono alle relazioni che vivono e all’educazione […] Un accesso alla gratuità e al dono è una delle possibilità di favorire le relazioni rispetto all’individualismo e la reciprocità rispetto all’utilitarismo.

Talmente profonda è la convinzione di Gesù dell’altro che, prima della passione, morte e resurrezione, lascia ai suoi apostoli un nuovo comandamento: amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi. E’ la presenza dell’altro che giustifica il donare se stessi.

E’ la comunione, nel senso originario del termine, che lega gli uni agli altri, in un vincolo indissolubile perché fondato sulla sacralità. Gesù conclude la divisione del pane e del vino nell’ultima cena esclamando: fate questo in memoria di me rendendo vivo e perpetuo nel tempo il legame.

La memoria richiama, rende presente, una figura al di là della corporeità perché il legame resta vivo al di là della presenza fisica. La comunione, simbolicamente però, è presenza corporea: questo è il mio corpo mangiatene tutti; questo è il mio sangue bevetene tutti ….. fate questo in memoria di me. Gesù dona il suo corpo, se stesso per legarsi in un tempo infinito che, in quanto tale, è un tempo senza tempo che solo le generazioni e i legami generazionali possono scandire.

Dio vive nel tempo senza tempo, in un eterno presente poiché attraverso il donarsi garantisce il suo esserci. Emblematici per la presenza sono due passi evangelici: dove due si riuniscono nel mio nome, io sarò con loro; tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia chiesa.

L’Ekklesia è la comunità dei battezzati che fanno unico corpo con il loro Signore e fra loro.  La chiesa, nell’accezione di San Paolo, è un corpo vivo che rende visibile la presenza del Signore. Nella prima lettera ai Corinzi scrive:

Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito […] Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

Tommaso d’Acquino nella Summa Theologica sostiene:

Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo […] Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti […] In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso.

La chiesa cattolica ha definito mistico il corpo della chiesa poiché esso è proiettato nel tempo senza tempo ovvero non finisce con la vita, ma continua a vivere nella vita ultraterrena e, quindi, nell’eternità. La comunione è il dono, l’elemento essenziale affinchè ci si senta parte viva del legame che, partendo dall’origine, oltrepassa tutte le generazioni unendole, attraverso la comunione dei santi, in un solo corpo.

E. Scabini e P. Donati sostengono:

E’ il corpo familiare a gestire il tempo. Il corpo familiare si struttura sullo scambio tra le generazioni, su quanto esse si sono fatte e si fanno di bene e di male. Lo scambio è il principio ed esso è governato tanto dall’ordine nel dare- ricevere, quanto dall’apertura amorevole verso l’altro, vale a dire dal dono ().

Cigoli, come vedremo in seguito, mette al centro della clinica del familiare e del sistema simbolico relazionale il corpo familiare.

Ancora San Paolo ci dice che bisogna donare con gioia. Ciò vuol dire che donare se stessi deve essere un atto di amore e non di egoismo e, solo un atto di gioia, può produrre legami profondi. Donare se stessi significa, ancora, una volta rinunciare ai propri interessi, all’utilità, al benessere sia fisico sia materiale, al proprio corpo.

Satana sul monte Gebel offre a Gesù, ricevendo un netto rifiuto, tutti i regni del mondo in cambio della sua ubbidienza. Satana è il portatore del dono avvelenato il quale si manifesta quasi sempre con grande magnificenza e bellezza. E’ così per la mela offerta ad Eva che era la più bella e splendente dell’albero della conoscenza; è così per i regni che vengono offerti a Gesù. Quest’ultimo, stando ai racconti evangelici, sapeva benissimo la sorte a cui sarebbe andato incontro, ma con un atto di profonda fiducia alla sua storia generazionale, rifiuta.

Donare se stessi vuol dire rinunciare. Un altro passo evangelico invita a scegliere: non si possono servire due padroni: Dio e il denaro. Il denaro, a mio modo di vedere, va inteso come simbolo della ricerca della propria utilità, del proprio benessere, della costruzione di una identità che guarda ai propri interessi pulsionali senza guardare all’altro. La ricerca del denaro, l’accumulo di ricchezza serve a dimostrare la propria potenza, a schiavizzare l’altro che diventa solo uno strumento per soddisfare i propri bisogni. La ricerca del denaro è, insomma, l’esatto contrario del donare se stessi come atto di rinuncia alle proprie istanze inconsce. Solo la rinuncia può portare alla formazione di legami.

D’altronde lo stesso Freud teorizza che per costruire i legami la pulsione deve essere inibita alla meta. La libido, liberandosi dalla ricerca del piacere sessuale, viene investita nell’altro inteso come sociale. E. Emmy dedica a questo tema una serie di quadri che hanno come tema conduttore Il ritorno di mammona, di cui mi pregio di aver scritto la presentazione della prima mostra tenuta a Catania presso la Catania Art Gallery. In queste opere l’artista ci porta, come ho scritto nella presentazione, all’interno di un mondo fortemente contrastato, che lei connota sapientemente in un miscuglio di tratti, idee, colori. Mammona porta con sé ricchezza ma non splende di luce. Quello di mammona è un mondo senza sole. In Mammona in volo il cielo rigato di nero crea un forte contrasto con la terra totalmente desolata, abbandonata e abitata da dinosauri. Gli occhi di mammona sono color oro: oro è il simbolo della ricchezza e ciò che attrae. La ricerca del denaro, della ricchezza, del piacere permettono la costruzione, al massimo, di relazioni ma non di legami duraturi, i quali sono possibili solo attraverso il dono. Mammona impersonifica il dono avvelenato che porta verso un mondo lugubre, rappresentato dal nero con il quale la Emmy dipinge sia la Fucina di mammona sia il mare in Mammona in arrivo.

Il dono avvelenato tenta come la mela dell’albero della conoscenza, ma non suscita emozioni come in Vieni, c’è una strada nel bosco in cui le monete fanno perdere colore alla vita per sprofondare nel buio, nel nero, o nella deprimente visione di Vaso con fiori dove i soldi sostituiscono lo splendore dei fiori. In un passo dei Vangeli Gesù ammonisce che è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli. Per entrare nel regno dei cieli si deve donare, e il dono principe è il donare se stessi.

Il dono di Gesù è totale: Egli dona il suo corpo e il suo spirito. Sulla croce dona il suo corpo ma, nello stesso tempo, anche il suo spirito: Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito. Credo che non ci sia dono più grande di quello della vita. Donare la vita vuol dire dare la nascita e la morte. L’atto della vita non si esaurisce con la nascita, come comunemente si pensa. La vita, come detto in precedenza, definisce un tempo che è segnato da due momenti: l’inizio e la fine. Non può esistere un tempo senza una delimitazione; se così fosse vivremmo in un tempo senza tempo. Non voglio entrare, in un’analisi del concetto di tempo che ha impegnato e continua a impegnare una moltitudine di filosofi e fisici. Io faccio mia la tesi che il tempo è una esperienza interiore che è magnificamente sintetizzata da Sant’Agostino il quale scrive: Se qualcuno non mi chiede cosa sia il tempo, io so cosa è. Ma se qualcuno mi chiede cosa sia, non lo so più.

Se il tempo è un’esperienza interiore è evidente che inizia con la nascita e finisce con la morte. Dio, quindi, dona la nascita e nello stesso tempo la morte. Per i cristiani la vita è un riparare, un modo per riguadagnare la serenità e la gioia dell’Eden: la morte è solo un passaggio necessario per godere della visione e contemplazione permanente di Dio. La morte non è un momento di dolore, ma la riconquista della felicità perduta se si è vissuti secondo i dettami evangelici. Al contrario, il dono della morte diventa avvelenato ovvero si va alla perdizione eterna. In ambedue i casi non finiscono i legami, poiché finisce la vita ma non l’esistenza.

I legami non si dissolvono senza la presenza perché è possibile richiamare quest’ultima attraverso la memoria. Le generazioni esistono perché l’esistenza non finisce con la morte e quindi è possibile richiamarne la presenza attraverso la memoria.

Gesù, nel donare se stesso, dona il suo corpo e la sua morte. Il corpo è il luogo della sofferenza: durante la passione viene martoriato e martirizzato, ma non c’è un momento in cui lo spirito venga intaccato. Mantiene la necessaria lucidità sia durante il martirio che sopra la croce. Egli sa che è la strada che deve percorrere per ritornare dal padre. Sulla croce potrà finalmente esclamare, prima di spirare, tutto è compiuto, non prima di aver per –donato i suoi aguzzini. Perdona perché sa bene che loro gli hanno donato la morte, ovvero il ricongiungimento con il padre. Finalmente dopo la resurrezione potrà risedere al suo posto.

 

Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione (2019) di C. Iacolino e B. Cervellione – Recensione del libro

Nel libro Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione gli autori hanno affrontato tematiche comuni della psicologia, quali stress e trauma, seppur guardandole da un diverso punto di vista, analizzando ad esempio il contesto dell’emergenza come non esclusivamente legato alle catastrofi naturali.

 

Il 22 Ottobre 2019 è uscito nelle librerie il volume Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione. Il libro affronta il tema della Psicologia dell’Emergenza soffermandosi in particolar modo sugli operatori che intervengono nei contesti di emergenza. Negli ultimi anni la psicologia dell’emergenza ha assunto una rilevanza fondamentale in molti ambiti della psicologia, affermandosi come scienza psicologica. Il Professore Calogero Iacolino e la Dottoressa Brenda Cervellione, con il loro libro hanno dato un nuovo contributo di ricerca in tale settore, affrontando delle tematiche seppur comuni nella psicologia, quali stress e trauma, guardandole da un diverso punto di vista. Attraverso due rassegne sistematiche, hanno esposto numerosi contributi di ricerca presenti in letteratura, sostenendo un diverso modo di vedere il contesto dell’emergenza, rispetto al pensiero comune, il quale è prettamente legato alle sole catastrofi naturali.

Il primo capitolo si apre con la definizione del concetto di “emergenza” con particolare attenzione allo “stato di emergenza”, seguito da un incalzante excursus sullo sviluppo della Psicologia dell’Emergenza sia a livello internazionale sia nel contesto italiano. La nascita della così detta disaster psychology sembra essere una condizione necessaria dati i numerosi eventi ad alta criticità che si sono susseguiti negli anni e che hanno causato numerose vittime e disagi psicosociali. Gli autori del libro presentano in modo accurato gli eventi più eclatanti che hanno comportato la nascita della Psicologia dell’Emergenza, indicando luoghi e date e, soprattutto, le indispensabili attività di intervento.

Elemento centrale della Psicologia dell’Emergenza è sicuramente il destinatario dell’intervento: la vittima. Tuttavia, classificate le diverse tipologie di vittime secondo la tassonomia presente in letteratura, gli autori hanno scelto di trattare un elemento altrettanto importante, senza il quale la vittima resterebbe sola con la propria sofferenza, e che paradossalmente potrebbe diventare indirettamente una vittima (vittima di terzo livello – secondo la classificazione di Taylor e Frazer, 1981, ora Iacolino & Cervellione, 2019), ovvero l’operatore dell’emergenza. In realtà, si tratta di operatori, al plurale, poiché le figure professionali che offrono il proprio contributo in situazioni emergenziali sono più di una. Infatti, gli operatori dell’emergenza e i fattori di rischio e di protezione, che entrano in gioco durante un intervento d’emergenza, sono i temi centrali dell’intero manuale.

Gli autori trattano il concetto di “soccorritore” sia come figura professionale sia volontaria, risaltandone similitudini, diversità e le motivazioni alla base dell’azione d’aiuto, concludono il capitolo concentrandosi sulla figura professionale dello Psicologo dell’Emergenza, indicandone le conoscenze e la capacità di vario tipo: generali, individuali e tecniche-professionali; codeste risultano essenziali allo Psicologo dell’Emergenza per possedere i requisiti del sapere, del saper fare e del saper essere.

Il secondo capitolo approfondisce il tema dello stress riscontrabile negli operatori dell’emergenza, introducendolo con un caso molto significativo. L’analisi degli effetti stressanti che il ruolo di soccorritore comporta, pone la sua attenzione su tutte le potenziali reazioni psichiche negative che l’evento scatena nell’operatore, non tralasciando, tuttavia, le ripercussioni positive, riguardanti le strategie di coping per far fronte agli eventi stressanti. Gli autori illustrano, inoltre, gli aspetti neuropsicologici alla base delle reazioni agli eventi stressanti, e quindi, i meccanismi neurologici in funzione all’attivazione del sistema di difesa difronte al pericolo.

Punto essenziale del capitolo è l’impatto psicologico dell’evento sul soccorritore, l’esplicazione del concetto di trauma, evento traumatico e tutte le variabili intervenienti, dalle caratteristiche individuali a quelle ambientali, le quali possono determinare un risvolto psicopatologico nei soccorritori come il Disturbo da Stress Post Traumatico, ma anche una Crescita post-traumatica. È interessante notare come gli autori, per ogni argomento trattato, riescano ad esporre sia aspetti negativi che positivi, questo lascia un margine di speranza, una virtù essenziale nell’ambito dell’emergenza, sia per le vittime dirette che per le vittime indirette. Difatti, nel libro sono presentati interventi psicosociali per gli operatori, con lo scopo di ridurre i fattori di rischio e aumentare i fattori di protezione. Tra gli interventi gli autori hanno approfondito: il CISD (Critical Incident Stress Debriefing, Mitchell, 1983), chiarificando la differenza tra il debriefing e il defusing che spesso vengono confusi, l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Shapiro, 2002), la psicoterapia ipnotica e la psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati a una rassegna sistematica della letteratura rispettivamente nazionale e internazionale. A livello nazionale, la rassegna esplora gli studi sul personale di soccorso e le loro reazioni psichiche, infatti, l’interesse è stato diretto verso tutte le caratteristiche individuali tipiche di un operatore dell’emergenza, ad esempio, stategie di coping, resilienza, tratti di personalità, ma anche selezionando le indagini sulla qualità della vita degli operatori e sui risvolti psicologici come PTSD, sindrome di burnout, trauma secondario e vicario. A livello internazionale, l’analisi è stata focalizzata sui fattori di rischio e di protezione delle professioni di aiuto. Anche in questo caso i temi ricercati sono state le caratteristiche personologiche e i risvolti psicologici. Gli autori riportano tutte le analisi degli articoli selezionati sulla base delle procedure di selezione ed esclusione, elaborando delle ottime riflessioni finali, concludendo il manuale con un capitolo riepilogativo e comparativo in termini di risultati nazionali e internazionali. Dalle rassegne emerge, dunque, una nuova classificazione delle vittime di terzo livello, includendo diverse tipologie di operatori delineando un nuovo modello (Taylor e Frazer, 1981, ora Iacolino & Cervellione, 2019).

Personalmente ho trovato la lettura del libro scorrevole e chiara, ho osservato una buona pianificazione strutturale degli argomenti trattati e un’accurata revisione della letteratura. Ritengo che sia un libro adatto agli studi universitari non solo psicologici, ma anche in ambito sanitario e sociale, poiché tratta argomenti vicini ad aspetti legati alle professioni d’aiuto; inoltre è indicato per corsi di perfezionamento e Master nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza e Psicotraumatologia. Ne consiglio la lettura a tutti coloro che abbiano interessi psicologici, e non solo nello specifico ambito dell’Emergenza.

 

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