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Asessualità e genere

La sessualità umana è caratterizzata da molteplici aspetti che si modificano e sviluppano nella cornice della società di riferimento. Assumono particolare rilevanza l’insieme di aspettative che la società rivolge ad una particolare categoria di individui circa il modo “adeguato” di vivere la propria sessualità.

 

Negli esseri umani, il parlare di sessualità non si esaurisce nel considerare l’orientamento sessuale di un individuo o la funzionalità del suo apparato riproduttivo, bensì vengono chiamati in causa molteplici altri aspetti personologici, sociali ed emotivi, che si modificano e sviluppano nella cornice della società di riferimento; a tal proposito assumono particolare rilevanza gli script o norme sessuali, ovvero l’insieme di aspettative che la società rivolge ad una particolare categoria di individui circa il modo “adeguato” di vivere la propria sessualità (Gagnon & Simon, 1973).

Un esempio può essere la tendenza, presente in molte culture tra le quali la nostra, a considerare come criterio di normalità della sessualità il fatto che essa venga consumata entro i confini di una relazione coniugale eterosessuale, trascurando o addirittura respingendo apertamente tutti i casi che esulino da questa configurazione ottimale. Al contempo però, è solitamente presente in queste culture un palese doppio standard, che prevede comportamenti diversi a seconda del genere dell’individuo considerato: è per esempio più tollerato che un uomo sperimenti sessualmente al di fuori di un contesto di una relazione esclusiva, mentre ci si aspetta che le donne si astengano dal fare lo stesso (Wiederman, 2005).

Sta assumendo negli ultimi anni una particolare rilevanza quella categoria di studi, definiti intersezionali, che si occupano di valutare come due o più aspetti identitari di un individuo intersechino, influenzando il suo comportamento e vissuto personale in funzione delle norme di riferimento ad essi associate. L’origine della parola viene fatta risalire all’uso che ne fece l’attivista politica Kimberley Crenshaw nel descrivere la condizione delle donne afroamericane, soggette ai pregiudizi rivolti alle persone di colore e al contempo vittime del sessismo riservato alle donne nelle società patriarcali occidentali, trovandosi di fatto all’incrocio (n.d.t.: intersection) tra due diversi condizionamenti socio-culturali. Nell’ambito della sessualità, tali studi si sono occupati di esaminare come la molteplicità delle identità di genere si intreccino con lo spettro degli orientamenti sessuali e con il grado di aderenza alle specifiche norme di genere rivolte all’individuo sulla base della sua appartenenza ad un sesso o all’altro, di fatto influenzandolo nelle cognizioni e nei comportamenti legati alla propria sfera intima e all’identità sessuale.

Tuttavia, le considerazioni fino a qui esposte partono dall’assunto di base che tutti, indistintamente, vivano e agiscano la propria sessualità in una qualche maniera, assunto che in realtà non andrebbe dato per scontato, come testimoniato dall’esistenza di una minoranza di persone che si identificano come asessuali. Più che essere considerato come assenza di un orientamento sessuale, l’asessualità si può piuttosto definire come una variante dello stesso, caratterizzato dalla propensione a stringere dei rapporti sentimentali nei quali l’atto sessuale può essere mai o raramente consumato (asessualità romantica), oppure dall’assenza di legami romantico-sentimentali nel contesto di un generale disinteresse per il sesso (asessualità aromantica). Essa di differenzia dall’astinenza sessuale perché non viene esperita dal soggetto come una privazione, ma come un genuino disinteresse verso le attività erotiche di coppia (non sempre è incluso in questo discorso l’autoerotismo).

Le informazioni demografiche raccolte da soggetti che si identificano come asessuali suggeriscono come tale identità sessuale sia caratterizzata da evidenti differenze di genere: il 64% dei soggetti infatti si identificava come femmina o “female-ish” (n.d.t.: circa-femminile), mentre solo il 13% si identificava come maschio o “male-ish” (Miller, 2012) ed è stato suggerito che tale disparità possa essere dovuta all’influenza delle norme sessuali di genere. Gli uomini potrebbero infatti esitare nell’identificarsi con un orientamento sessuale che violi la concezione dominante di mascolinità come legata all’espressione di virilità sessuale: gli uomini asessuali da un lato si trovano quindi a mettere in discussione quegli script che associano la mascolinità con la voracità sessuale ed al contempo, a causa di questi, si ritrovano emarginati (Przybylo, 2014). Tuttavia, è stato suggerito come alcuni uomini asessuali abbiano l’opportunità di identificarsi con quegli script che associano l’idea della mascolinità con l’iper-razionalità (Fahs, 2010) o con quelle sottoculture, come può essere un esempio quella dei nerd o geek, nei cui membri ci si aspetta un certo imbarazzo sociale ed un disinteresse verso il sesso a fronte di skills o conoscenze appartenenti al mondo scientifico-informatico (Bell, 2013; Kendall, 2000; Quail, 2011).

In questo senso le femmine che si identificano come asessuali, vanno a confermare lo script dominante per le donne bianche che prevede che esse provino un minor desiderio rispetto alla controparte maschile, o siano comunque meno consapevoli dei propri desideri sessuali: Fahs (2010) sottolinea come l’asessualità femminile rispecchi la tendenza conservatrice di spogliare le donne della propria agentività sessuale, relegandole in un’immagine pudica che tollera senza proteste la mancanza di piacere sessuale. Se da un lato però viene rispettata la visione della donna come sessualmente disinteressata, dall’altro l’asessualità si pone in netto contrasto con la compresente convinzione che la donna debba comunque dimostrarsi sempre disponibile di fronte alle richieste sessuali del maschio, di fatto rispecchiando la mentalità fortemente fallocentrica che contraddistingue le culture occidentali (Cerankowski&Milks, 2010).

Un interessante dato emerso dallo studio demografico di Miller (2012), suggerisce come una percentuale rilevante di persone (23%) non si identificasse con alcuna delle due polarità di genere, maschile vs. femminile, bensì si posizionasse nel range tra di esse compreso, mentre almeno il 10% degli intervistati si identificava come transgender, suggerendo come gli individui asessuali possano risultare più propensi a definirsi come sessualmente non conformi, risultando meno soggetti a quelle norme di genere imposte dagli script sessuali dominanti. Ad esempio, le donne asessuali potrebbero sentire di rispecchiare meno l’idea di femminilità attraverso quei comportamenti di cura dei vestiario e del corpo specificatamente volti a rendersi “sessualmente più appetibili” all’occhio maschile secondo i dettami della cultura dominante (Chasin, 2011).

Gli studiosi che negli anni ’60 e ’70 rivolsero la propria attenzione alle disforie di genere riportavano spesso come i propri pazienti avessero una condotta asessuale, attribuendone la causa alle cure ormonali che accompagnano la transizione nell’adeguamento di genere (Cohen-Kettenis&Pfafflin, 2009). E’ inoltre stato rilevato, che sotto le pressioni subite dalla società e, possiamo desumere, in particolare dalla società medica, molti pazienti che desideravano accedere alle operazioni di correzione dei caratteri sessuali si sono sentiti più al sicuro dichiarando di essere asessuali, temendo che il pregiudizio potesse ostacolare il proprio percorso di autodeterminazione in caso avessero dichiarato di avere un orientamento omosessuale (Cohen-Kettenis&Pfafflin, 2009; Ekins&King, 2006; Meyerowitz, 2002; Valentine, 2007).

Di recente, nel contesto di una ricerca più estesa sulle identità asessuali contemporanee, Gupta (2019) ha potuto condurre delle interviste qualitative con delle persone che si identificassero come asessuali, esaminando più da vicino il rapporto tra questo orientamento e le diverse identità di genere degli individui. I volontari intervistati si identificavano nella categoria donne (21), uomini (7), trans MtoF (1), altro/gender-fluid (1). Dei trenta partecipanti, ventisette si definivano asessuali, tre di loro si identificavano invece come “gray-Asexual”, ovvero quell’area grigia che sta tra la sessualità e l’asessualità, oppure demi-sessuale, ovvero che sperimentano attrazione sessuale solo nel contesto di una relazione di lungo termine. Il 63% si sono definiti romantici o demi-romantici (17%), ovvero stringendo relazioni di natura sentimentale ma non sessuale; di questa percentuale combinata, il 48% ha dichiarato un orientamento etero-romantico, il 12% si è definito omo-romantico e la rimanente parte (36%) si è identificata nella categoria bi-romantico, o pan-romantico, attratto cioè sentimentalmente da entrambi i sessi o aperto a ogni identità di genere; Il 17% degli intervistati si è definito invece aromantico.

L’autrice ha raccolto poi le testimonianze dei partecipanti, incontrati nella propria esperienza personale rispetto agli script a loro rivolti, in quanto individui di etnia caucasica, di ceto medio-alto, senza disabilità, presumibilmente cisgender ed eterosessuali. Nei confronti della mascolinità, tutti gli individui maschi intervistati hanno dichiarato di non sentire di rispecchiare il modello proposto dalla cultura di riferimento, definendosi solitari, nerd e comunque queer, sebbene soltanto un intervistato abbia riportato un effettivo isolamento dai pari; essi riportano inoltre la tendenza ad aggregarsi con altri ragazzi con una simile disposizione di disinteresse verso il sesso e il dating in generale.

I partecipanti hanno negato di aver fatto esperienza di forti pressioni legate al proprio orientamento asessuale, tre di essi attribuendo come causa il fatto che raramente venivano approcciati dalle ragazze con scopi puramente sessuali, non vivendolo quindi come una problematica costante. Sembra quindi che il fatto che l’agentività sessuale risieda, secondo lo script culturale di riferimento, nelle mani dell’uomo, renda di fatto l’asessualità maschile meno problematica. Altri tre intervistati attribuiscono la propria esperienza priva di conflitti legati all’asessualità al fatto che possa essere socialmente più accettato che un uomo si focalizzi sulla propria carriera piuttosto che sulle relazioni. Inoltre, un intervistato ha dichiarato come la condivisione della propria asessualità con i pari abbia incontrato reazioni favorevoli dagli altri uomini, che percepivano un’assenza di competitività in ambito romantico.

Contrariamente alle aspettative, tutti i racconti di episodi di conflittualità riportati dai partecipanti circa l’asessualità vedevano coinvolta una donna; spesso il pregiudizio circa la presunta voracità sessuale dei maschi ha ostacolato il tentativo dei rispondenti di stringere relazioni amicali o romantiche con donne di loro conoscenza, le quali si rivolgevano loro con sospetto e circospezione. Inoltre, rispecchiando due diverse posizioni circa l’assunzione che una frequentazione romantica debba includere il contatto sessuale, gli individui asessuali e le persone di altri orientamenti sessuali con le quali essi intraprendono frequentazioni, rischiano di trovarsi in un conflitto inconciliabile.

Nel rapporto con il genere femminile e gli stereotipi e script ad esso rivolto, le donne asessuali riconoscono come la propria condotta entri in aperto contrasto con le aspettative circa la disponibilità che ci si aspetta dalle donne di fronte alle avance sessuali maschili; due riportano episodi di ira e rabbia violenta da parte del partner, che è seguita al loro rifiuto di concedersi sessualmente. Diverse donne intervistate sentivano di discostarsi, nel loro modo di vestirsi e comportarsi, dall’aspettativa che la donna debba presentarsi come un oggetto sessuale.

Tuttavia, la maggioranza delle donne asessuali ha percepito che la propria asessualità venisse generalmente ben accettata in virtù della sua conformità con lo script che asserisce che la donna sia meno sessualizzata o incline al perseguire il proprio desiderio dell’uomo.

Le donne asessuali romantiche, specialmente quelle disponibili a concedersi sessualmente per compiacere il partner, sembrano riportare maggiore accettazione, attribuendone la ragione al preconcetto infondato che le donne non siano realmente interessate al sesso, ma lo usino come strumento per raggiungere il loro vero obbiettivo, ovvero una stabile relazione romantica: ben dieci delle donne intervistate (1/3 del campione) e nessun uomo, ha dichiarato di concedersi sessualmente al proprio partner pur non volendo su richiesta dello stesso o sotto la pressione percepita per conformarsi alla norma; cinque intervistate, quattro donne e una donna transessuale, hanno riportato di aver subito violenza sessuale. In questo senso le norme sessuali di genere compromettono la vita delle donne asessuali in maniera simile a quelle delle donne con altri orientamenti: è, infatti, nella nostra società, in qualche misura socialmente accettabile che le donne debbano soddisfare i desideri sessuali dei propri partner a discapito della propria inclinazione in merito (Gavey, 2005).

L’unica donna transessuale intervistata ha descritto un rapporto molto complesso con la propria asessualità, alla quale essa stessa attribuisce eziologia iatrogena a seguito degli interventi di riassegnazione genitale performati alla nascita (la donna era infatti anche intersessuale), oltre che ad una storia di abusi subiti e di una generale condizione di salute precaria. Da ultimo, solo un individuo si è identificato nella categoria Altro/Genderfluid, tuttavia, la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di sentirsi in qualche modo distanti dagli standard egemonici di mascolinità e femminilità rappresentati nella nostra società, di fatto provando un generale distacco da quelle etichette circa il genere di appartenenza.

Il contributo di Gupta (2019), ha permesso di cogliere uno spaccato della complessità riscontrabile all’intersezione tra rappresentazione di genere e orientamento asessuale, sottolineando ad esempio come il fatto che un determinato gruppo si astenga o non rispecchi l’ideale di mascolinità, possa non impedire loro di accedere a certi aspetti del privilegio riservato agli uomini; al contempo viene sottolineato come anche l’esperienza delle persone asessuali rispecchi le disparità subite a causa delle differenze di genere, in particolare verso l’autonomia sessuale concessa in diversa misura nei due sessi.

La natura rappresentazionale dello schema maladattivo interpersonale

La natura rappresentazionale dello schema è il giro di boa per la differenziazione. È imparare a distinguere il passato che torna sottoforma di altre scene con nuovi attori, nuove voci, nuove azioni, nel presente.

 

Terzo anno di scuola di specializzazione. Portai un caso in supervisione. Un paziente, lo ricordo ancora oggi, I., impiegato in banca, simpatico, sempre molto composto, un drop-out preannunciato nella mia testa, non si smuoveva e restava ancorato, nonostante ormai lo conoscesse a fondo, al suo schema. Agiva guidato da esso. Mesi di terapia connotati dal “non posso” e “non è il momento”.

Il supervisore dell’epoca mi chiese io come mi sentivo in seduta con lui. Ricordo ancora che eravamo in cerchio, in classe, ed a quella domanda mi risistemai sulla sedia rossa alla ricerca di una posizione che potesse aiutarmi a identificare l’emozione ricorrente. Risposi con un secco “Beh, come vuole che mi senta!?…sono impotente…non posso fare niente…non so che fare” agitando le braccia in segno di protesta. Tutta roba complessa ma, immediatamente chiara, non appena mi rivolse un’altra domanda: “impotente, ok…impotente…come quando?” Lo guardai e provai vergogna perché non afferrai subito. Anche qui: “ti stai vergognando…come quando?” E poi ecco. Vedo me stessa a 13 anni che, invece di pensare a come trascorrere le vacanze di Natale con le amiche, mi affanno a gestire situazioni troppo più grandi di me senza che le azioni servissero davvero a qualcosa. Vedo le cose andare per conto loro nonostante il mio impegno. Vedo la non accettazione dello stallo e la repulsione dei giorni sempre uguali. Vedo l’impotenza in una sera d’inverno. E poi vedo me stessa, a 8 anni, umiliata aspramente davanti a tutti dalla maestra perché avevo commesso un errore. Un 9×7 che proprio non voleva fare 63.

Eccole spiegate le emozioni: l’impotenza nella terapia e la vergogna in classe.

Con un sorriso e la voce tremolante alzai gli occhi e gli dissi: “ok, ora ho capito…il mio schema e quello del paziente si incastrano”. A quel punto tornammo sul caso di I., incapace a progettare, creare, sentirsi libero. Sentiva solo la costrizione del dover fare quello che gli altri volevano. Una costrizione spesso reale, a volte sentita.

Rividi il mio paziente dopo due giorni da quella supervisione e, dopo un episodio con il solito esito della rinuncia, gli chiesi: “ok, non può farlo, si sente impossibilitato, inetto…ok…lo capisco….ma incapace….come quando?”.

Ed ecco il sipario che si apre. Le luci sono quelle anni 80 nelle discoteche in cui si ballava Gimme! Gimme! Gimme! degli Abba. Luci scintillanti proiettate ovunque dalla Mirrorball. Gli attori sono i suoi più cari amici ed il fratello. Pare facesse molto caldo quella sera di luglio e voleva tanto gettarsi in pista, farsi vedere da A. e magari portala a bere un drink. Tutto possibile fin quando la voce del fratello non spunta chiara sottolineando la sua incapacità, il suo essere sciocco e stupido. Una voce che lo ridicolizza. Un viso che esprime disappunto.

Dopo di questo, le memorie associate ci portano all’estate dei 12 anni in cui invece di un giro in bici con i compagni bisognava aiutare il padre nel ridipingere la staccionata, non senza umiliazioni continue, quando piuttosto che scegliere come gestire l’afa di agosto, bisognava adeguarsi ad un qualcosa di già scritto e deciso. Da altri, ovviamente, che non si risparmiavano dal notare quanto fosse incapace nel fare quello che avrebbe voluto fare. Sappiamo bene che tutto ciò è l’abbattimento dell’autonomia e dell’esplorazione.

Ecco cosa si intende per natura rappresentazionale degli schemi interpersonali. È il giro di boa per la differenziazione. È imparare a distinguere il passato che torna sottoforma di altre scene con nuovi attori, nuove voci, nuove azioni, nel presente. È l’amico che incarna un fratello sprezzante, il cameriere che sembra avere le movenze di una madre, il docente che sembra avere gli occhi austeri di un padre.

Una sezione sostanziosa dell’albero decisionale della TMI (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019) si rivolge proprio a questo processo, per aiutare il paziente a riconoscere l’attivazione degli schemi interpersonali ed a sentirli collocati nel tempo oppure a vederli ripresentarsi nel qui e ora provando a conferirli un significato diverso.

Per poter fare questo, le tecniche immaginative, esperienziali, drammaturgiche sono molto utili per accedere ai ricordi prima e per poterli ridipingere, attraverso i rescripting, all’interno delle sedute. C’è infatti la possibilità di affrontare un padre, un fratello, un capo o di invitare una A. a bere una birra portando l’attenzione a come ci si sente mentre si immagina tutto questo. C’è la possibilità di ribaltare i piani di azione che sembrano già scritti in tutti gli aspetti automatici e procedurali dello schema maladattivo interpersonale (Dimaggio et al., 2019) Infatti, a tutto questo, segue la fase della promozione del cambiamento in cui, dopo aver rivisto, eventualmente, il contratto terapeutico, il paziente si impegna a scrivere un presente che sappia meno di passato.

Nel caso di I. si è trattato di provare a sentirsi inetti, ma anche efficaci. È stato provare a sentirsi schiacciare da un padre controllante e contemporaneamente a difendersene. È stato sentire che tutti gli altri incarnano quel determinato attore del passato ma ricordarsi che non è detto che sia così nel qui e ora.

Fin quando non ne siamo consapevoli lo subiamo. Lo schema, intendo. Fa il suo gioco. Con tutta la sua potente natura procedurale fatta di stati corporei e viscerali, emotivi, cognitivi che catapultano in determinati stati mentali e in pattern di azioni. E fin quando non le sfidiamo queste azioni correlate agli schemi interpersonali maladattivi, i risultati possono essere gli stessi.

Ci tengo sempre molto a sottolineare come un’abilità sia utile per il paziente ma anche per noi terapeuti. Ovviamente pure noi proviamo emozioni, stati fisiologici, assetti mentali interni legati ai nostri schemi personali. Questi vanni conosciuti, affinando le capacità di regolazione di essi, per evitare che possano condurci ad azioni anti-terapeutiche o all’innesco di cicli interpersonali problematici. Con I., infatti, avevo più volte pensato di dilazionare i nostri incontri, poi ho capito che ero io che, non riuscendo a tollerare la sua incapacità a cambiare effettivamente le sue azioni, e che questa era una roba tutta mia, facevo fatica a stare in seduta e oscillavo tra il disinvestimento e l’eccesso di sprono verso il nuovo, troppo precocemente, inducendo in lui emozioni negative e minando la relazione terapeutica.

Ecco perché, da quella supervisione, spesso mi chiedo “come quando?” ed ormai anche alcuni dei miei pazienti hanno imparato a farlo.

 

Ayahuasca: effetti, pericoli e possibili utilizzi terapeutici

Il tè di ayhuasca è stato utilizzato a lungo dalle popolazioni indigene del Sud America, per scopi medicinali, spirituali e culturali fin dai tempi precolombiani. La mescolanza delle culture indigene e dominatrici ha portato a ibridazioni del suo uso, che continuano ad evolversi attraverso le forze della globalizzazione.

Valentina Pozzesi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

L’ayahuasca

Ayahuasca si riferisce sia alla Banisteriopsis caapi, una liana che si trova nelle parti occidentali del bacino amazzonico, sia a un decotto preparato con B. caapi, che in genere contiene altre piante. Uno degli additivi più comuni al tè ayahuasca è la foglia di Psychotria viridis, una pianta della famiglia del caffè. In questo articolo, per evitare confusione, la pianta sarà indicata con il suo nome botanico, B. caapi e la preparazione del tè dato dalla combinazione di B. caapi e P. viridis semplicemente come ayahuasca.

La sinergia tra le rispettive sostanze psicoattive in B. caapi e in P. viridis genera una notevole interazione farmacocinetica. La B. caapi contiene alcaloidi di harmala, come l’harmina e la tetraidroarmina, che sono inibitori reversibili della monoammina ossidasi (MAO) a breve durata d’azione. Gli inibitori delle MAO sono una classe farmacologica di sostanze chimiche antidepressive che funzionano impedendo la rottura dei neurotrasmettitori monoaminici nel cervello (Julien, 1998). La P. viridis contiene dimetiltriptamina, o DMT, un potente allucinogeno che è attivo se assunto per via parenterale, ma non per via orale (Shulgin, 1976). Questo perché il tratto gastrointestinale contiene anche l’enzima monoamino ossidasi, che metabolizza oralmente DMT ingerito, molto prima che possa raggiungere il cervello. Tuttavia, quando la DMT viene ingerita in congiunzione con un inibitore MAO, come nel caso del tè ayahuasca, il suo metabolismo immediato viene ritardato, consentendo così di raggiungere il cervello (McKenna & Towers, 1984; Ott, 1999).

Da una prospettiva biomedica, quindi, gli effetti unici dell’ayahuasca sono una funzione della combinazione di DMT e del potenziamento degli alcaloidi di harmala psicoattiva (McKenna, Towers, & Abbott, 1984). Tuttavia, la spiegazione degli effetti dell’ayahuasca da parte delle popolazioni indigene amazzoniche coinvolge domini spirituali e forze soprannaturali.

Diffusione nel mondo

Il tè di ayhuasca è stato utilizzato a lungo dalle popolazioni indigene in paesi come il Brasile, l’Ecuador e il Perù per scopi medicinali, spirituali e culturali fin dai tempi precolombiani. La mescolanza delle culture indigene e dominatrici nel Sud America ha portato a ibridazioni dell’uso di ayahuasca, che continuano ad evolversi attraverso le forze della globalizzazione. Il Brasile è stato la sede di numerosi movimenti religiosi sincretisti che combinano elementi di uso indigeno dell’ayahuasca, spiritualismo africano e liturgia cristiana. Tra questi il ​​Santo Daime, fondato negli anni ’30 da Raimundo Irineu Serra; l’Uniao do Vegetal, fondata nel 1961 da Jose Gabriel da Costa; e il Barquinha, un gruppo, che si separò dal Santo Daime nel 1945 (MacRae, 2004). Verso la fine del XX secolo, i capitoli del Santo Daime e dell’Uniao do Vegetal hanno iniziato a essere stabiliti oltre i confini brasiliani, in paesi come Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Spagna e Stati Uniti.

La tecnologia, l’informazione e la comunicazione globale hanno fornito nuove strade per l’espansione dell’uso di preparati simili all’ayahuasca. Su internet si possono facilmente reperire tagli vivi o campioni essiccati di B. caapi, P. viridis e numerose altre piante che sono fonti botaniche per la dimetiltriptamina e gli alcaloidi di harmala (Halpern & Pope, 2001). Tuttavia, molte persone si sono fatte del male sperimentando analoghi ayahuasca in contesti ricreativi e tramite un utilizzo incontrollato di preparati non tradizionali (Brush, Bird, & Boyer, 2003; Sklerov, Levine, Moore, King, & Fowler, 2005; Callaway et al., 2006).

Legislazione

La bevanda denominata Ayahuasca non può essere classificata come una droga. Le piante naturali che la compongono, anche se contengono naturalmente del DMT, non sono incluse in alcun elenco di sostanze vietate. In Italia la DMT è inserita in Tabella I della lista di sostanze stupefacenti e psicotrope di cui all’art. 14 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/90 e successive modifiche, ma né la Psychotria viridis come pianta in toto, né parti di essa sono inserite in tale tabella. L’Ayahuasca è stata dichiarata sostanza non narcotica con due sentenze della Corte di Cassazione (Sezione IV, 6 ottobre 2005, n. 44229 e Sezione I, 16 febbraio 2007, n. 19056) e una Nota del Ministero della Salute (n. 6895-44021, del 30 dicembre 2010). In Europa sono stati emessi diversi provvedimenti giudiziari nei confronti degli adepti alla setta del Santo Daime. In particolare, in Olanda, nell’ottobre 1999 sono stati arrestati due dirigenti della setta che però sono stati assolti dal Tribunale di Amsterdam nel maggio 2000. Anche in Francia, nel novembre 1999, sono stati arrestati dirigenti delle Chiese del Daime: anche in questo caso la Corte d’Appello di Parigi, con sentenza del 13 gennaio 2005, ha prosciolto gli imputati emettendo una sentenza che di fatto legalizza in Francia l’uso rituale dell’Ayahuasca.  Dal maggio 2005 la Francia ha aggiunto la Banisteriopsis caapi e la Psychotria viridis nella lista delle sostanze psicoattive sottoposte a controllo.

La DMT è illegale negli Stati Uniti ed è inclusa nella Schedule I drug nel Controlled Substances Act. È inoltre inserita nell’elenco delle sostanze poste sotto il controllo dell’International Narcotics Control Board. Tra il 2006 e il 2009 alcune corti degli Stati Uniti hanno però deliberato a favore del solo uso religioso della Ayahuasca negli adepti delle chiese União do Vegetal e Santo Daime. La legalità del consumo di Ayahuasca in relazione a cerimoniali religiosi è stata a lungo dibattuta in Brasile (patria naturale di religioni quali il Santo Daime) e, dalla seconda metà degli anni ottanta, è stata legalizzata legando l’uso a contesti rituali e senza fini di lucro (Pichini, 2006).

Effetti e pericoli

Gli effetti psichici indotti dall’ayahuasca, analogamente a quanto accade per molte altre sostanze allucinogene, possono essere diversi da individuo a individuo. In uno studio effettuato sull’uomo sono stati valutati gli effetti di una singola somministrazione orale di due diversi dosaggi (0,6 mg di DMT/kg e 0,85 mg di DMT/kg) di una bevanda a base di Ayahuasca. L’assunzione della bevanda ha prodotto significative alterazioni percettive e ha generato uno stato d’animo positivo nei soggetti esaminati. Gli effetti hanno raggiunto la massima intensità in un periodo compreso tra 1,5 e 2 ore dopo l’assunzione (Riba et. al 2003). Tra le diverse testimonianze raccolte, è emerso che l’ayahuasca può portare all’insorgenza dei seguenti effetti psichici quali:

  • allucinazioni visive;
  • allucinazioni uditive;
  • visione di forme geometriche;
  • visione di colori brillanti e nitidi;
  • sensazione di trovarsi all’interno di altre dimensioni.

Oltre agli effetti psichici vi sono anche effetti fisici, alcuni dei quali possono rivelarsi pericolosi per la salute dell’individuo che assume la bevanda tra i quali (Riba et.al. 2003):

  • vomito;
  • diarrea;
  • vampate di calore;
  • tachicardia;
  • ipertensione.

Essendo presenti nel tè dei potenti inibitori delle MAO, essi possono bloccare la deaminazione della serotonina, incrementandone i livelli cerebrali. Questo effetto sembra essere alla base dell’effetto sedativo osservato negli utilizzatori della Ayahuasca (MCKenna , 2004). Inoltre, a causa dell’eccessivo incremento dei livelli di serotonina, può verificarsi l’insorgenza di una sindrome serotoninergica. Tale sindrome, che si manifesta con disturbi comportamentali (stati confusionali, ipomania, agitazione), disfunzione del sistema nervoso autonomo (diarrea, brividi, febbre, sudorazione, alterazioni della pressione arteriosa, nausea, vomito) e alterazioni neuromuscolari (mioclono, iperriflessia, tremore e difficoltà nella coordinazione dei movimenti), può risultare potenzialmente fatale (Lejoyeux et. al. 1994).

Ricerche e Possibili implicazioni terapeutiche

Numerosi studi sono stati condotti al fine di dimostrare l’utilità dell’ayahuasca come valido supporto al trattamento di disturbi psichiatrici e non solo (Callaway, 1994). Sono state, infatti, dimostrate delle potenziali applicazioni terapeutiche della pianta. Uno studio biomedico condotto su persone aderenti ad una delle chiese che utilizzano l’ayahusca, l’Uniao do Vegetal (UDV), ha indicato che l’ayahuasca può avere applicazioni terapeutiche per il trattamento di alcolismo, abuso di sostanze e possibilmente altri disordini. (Mc Kenna 2004). La somministrazione a lungo termine degli estratti dell’Ayahuasca, inoltre, potrebbe rivelarsi utile per il trattamento dei disturbi psichici sottesi da un deficit serotoninergico quali depressione, schizofrenia, calo dell’attenzione e sindrome ipercinetica (Callaway et el 2004). L’assunzione regolare del tè di Ayahuasca è stata associata a potenziali effetti immunomodulatori che potrebbero favorire un’attività di tipo antitumorale (Topping 1998), tuttavia, non esistono al momento sufficienti evidenze scientifiche a supporto di tale teoria. Infine, è stato osservato come l’Ayahuasca presenti proprietà in grado di alleviare i sintomi del morbo di Parkinson. Questo effetto è stato attribuito alla duplice capacità degli estratti della pianta di inibire le MAO-A, responsabili della degradazione della dopamina, e di stimolare al contempo il rilascio dello stesso neurotrasmettitore da parte delle cellule nigro-striatali (Schwarz et. al 2003).

Studi clinici condotti in Spagna hanno dimostrato che l’ayahuasca può essere usata tranquillamente in adulti sani normali, ma ha fatto poco per chiarire i suoi potenziali usi terapeutici. A causa dello stato giuridico mal definito dell’ayahuasca e della composizione botanica e chimica variabile, le indagini cliniche negli Stati Uniti, idealmente nell’ambito del protocollo Investigational New Drug (IND), sono complicate da questioni sia normative che metodologiche.

Naturalmente, nonostante i risultati preliminari ottenuti, prima di poter approvare simili applicazioni terapeutiche dell’ayahuasca sono necessari ulteriori e più approfonditi studi, che siano in grado di determinarne con esattezza l’effettiva efficacia terapeutica e la reale sicurezza d’uso, sia a breve che a lungo termine.

 

Terapie di terza ondata – Introduzione alla Psicologia

Le terapie di terza ondata sono tutte quelle nuove forme di psicoterapia che si evolvono a partire dalla terapia cognitiva standard, aventi come scopo un lavoro sui processi cognitivi che sostanziano e mantengono i differenti sintomi da cui deriva disagio mentale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

A partire dagli anni ’50 nascono e si sviluppano le terapie comportamentali, definite anche terapie di prima ondata, che traggono origine principalmente dagli studi sull’apprendimento realizzati rispettivamente da Pavlov, sul condizionamento classico, e da Thorndike e da Skinner, sul comportamento operante. Partendo da questi aspetti teorici divenne possibile studiare il comportamento, inteso come aspetto immediatamente riscontrabile, da cui si poteva inferire un determinato meccanismo mentale sottostante.

Successivamente, nacque il cognitivismo che aveva come focus lo studio dei processi cognitivi e non i comportamenti manifesti. Quindi, a partire dal funzionamento mentale e cognitivo era possibile inferire l’insorgenza di determinati comportamenti e di conseguenza di stati emotivi dolorosi. Questa seconda modalità di approcciarsi alla salute mentale fu definita seconda ondata. All’interno delle terapie della seconda ondata sono inoltre incluse quelle terapie integrate, nate sul finire degli anni ’80, che uniscono aspetti sia cognitivi sia comportamentali.

Le terapie della terza ondata, invece, si sviluppano negli anni successivi e si evolvono a partire dalla terapia cognitivo comportamentale (CBT). Il termine “terza ondata” fu usato per la prima volta da Hayes, psicologo comportamentista e fondatore dell’Acceptance and Commitment Therapy, nel 2004 all’interno di un articolo scientifico. Con il termine terapie di terza ondata ci si riferisce a tutte le nuove forme di psicoterapia che si evolvono a partire dalla terapia cognitiva standard, aventi come scopo un lavoro sui processi cognitivi che sostanziano e mantengono i differenti sintomi da cui deriva disagio mentale.

Esistono, dunque, diverse terapie di terza ondata, tutte caratterizzate dall’importanza dell’uso in terapia di esercizi esperienziali o attentivi, fondamentali nel favorire il cambiamento e l’apprendimento di nuove strategie funzionali e adattive. Per le terapie di terza ondata lo scopo del trattamento terapeutico non è la riduzione dei sintomi, ma raggiungere un maggiore e più flessibile ventaglio di alternative da cui trarre beneficio nel momento in cui si produce malessere mentale. Gli interventi di questo tipo si basano sull’accettazione, sull’apertura all’esperienza. L’obiettivo è capire i processi, ovvero le modalità di pensiero sottostanti che mantengono attivata l’emozione negativa derivante. Le terapie di terza ondata sono più contestuali ed esperienziali rispetto alla terapia cognitiva standard, meno teoriche, più focalizzate sulla funzione che sulla forma. Esse si basano sulla costruzione di alternative mentali e comportamentali ampie, flessibili ed efficaci, piuttosto che sull’eliminazione di problemi e dei sintomi in senso stretto. L’obiettivo finale è aumentare la flessibilità psicologica, per diventare consapevoli e aperti alle nuove esperienze, agendo in direzione delle cose considerate importanti per la persona.

Alcune terapia di terza generazione sono: l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT, Hayes, 1999), la Dialectical Behavior Therapy (DBT; Linehan, 1993), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Williams, & Teasdale, 2001), la Metagognitive Therapy (MCT; Wells, 2000).

ACT

L’ACT origina da un modello teorico-filosofico definito Relational Frame Theory, secondo cui il linguaggio deriva dall’abilità di relazionarsi agli eventi in modo arbitrario. Di conseguenza, la sofferenza psicologica consiste nell’applicare il linguaggio umano alle esperienze derivanti da stati interni, come pensieri, emozioni, ricordi. Tali processi mentali inducono l’individuo ad attribuire al pensiero un significato letterale col quale ci si fonde diventando tutt’uno col pensiero stesso. L’inflessibilità psicologica, dunque, da cui deriva malessere è determinata dall’evitamento delle esperienze, dalla fusione cognitiva con i pensieri disadattivi, dall’attaccamento al sé concettualizzato, da cui deriva una perdita di contatto con il presente, e dal non riuscire a seguire i propri valori.

Nell’ACT il benessere psicologico è un processo attivo in cui l’individuo si impegna ad accettare le emozioni e i pensieri esattamente come sono, applicando un processo di defusione dai pensieri considerati dolorosi o dannosi. Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a maggior benessere. Lo scopo dell’ACT è l’accettazione dei pensieri e delle emozioni e lo sviluppo di strategie adattive volte a raggiungere una vita soddisfacente, attraverso una modificazione del comportamento finalizzato costantemente a impegnarsi in azioni volte nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso.

Mindfulness

Il termine Mindfulness significa volgere l’attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo attraverso il quale si porta l’attenzione, la consapevolezza e l’accettazione al momento attuale (Hanh, 1987). L’obiettivo è eliminare sofferenza inutile, attraverso una comprensione attiva e profonda dei propri stati mentali. Secondo la tradizione originaria, la pratica della Mindfulness dovrebbe consentire di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda del proprio funzionamento.

Il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) in origine era un programma di intervento per pazienti affetti da dolore cronico o malattie terminali, ma successivamente fu usato anche per altre patologie fisiche e psicologiche. Gli evidenti risultati ottenuti dall’MBSR hanno permesso che tale protocollo si diffondesse anche in ambito di terapia cognitiva. Partendo dall’MBSR si sono sviluppati approcci più specifici tra cui la Mindfulness Based Cognitive Therapy (Segal, Teasdale e Williams, 2002).  Lo scopo di tale approccio è “aiutare gli individui a realizzare una trasformazione radicale nella loro relazione con i pensieri, con le emozioni e con le sensazioni fisiche che possono contribuire alle ricadute depressive” (Teper, Segal, & Inzlicht, 2013). In sostanza si tende a creare una nuova relazione con il proprio corpo e con le proprie esperienze, per uscire dai circoli viziosi che portano al manifestarsi del malessere.

MCT

La terapia metacognitiva o MCT, diversamente dagli altri approcci terapeutici, non si focalizza sulle distorsioni cognitive, ma su uno specifico pattern che prende il nome di Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS). Il CAS rappresenta l’insieme dei processi cognitivi che mantengono le emozioni negative, ovvero una serie di pensieri ripetitivi e ricorsivi come il rimuginio, la ruminazione, che portano a focalizzare l’attenzione sul problema specifico e che diventano causa della sofferenza stessa. La MCT distingue la cognizione dalla metacognizione, che consiste nel pensiero applicato al pensiero, ovvero un attento processo di controllo dei pensieri volto a valutare il contenuto die pensieri stessi. Quindi, le credenze metacognitive, ossia idee e teorie che ogni persona ha in merito al contenuto dei propri pensieri, determinano il malessere e le proprie emozioni negative, in quanto rappresentano il centro da cui deriva tutto. Il trattamento si focalizza sulla rimozione del CAS attraverso specifiche tecniche di spostamento dell’attenzione da ciò che crea sofferenza a nuovi scenari. Tuttavia è fondamentale che si rafforzino le conoscenze procedurali dei pazienti, per garantire loro di sviluppare nuove abilità, volte a rispondere a propri stati interni, più flessibili e decentrate.

Conclusioni

Le terapie cognitive di terza ondata, dunque, identificano nell’accettazione, nello spostamento dell’attenzione e nella pratica della mindfulness le strategie d’elezione per operare il cambiamento e implementare il benessere psicologico. In sintesi, piuttosto che focalizzarsi sul modificare direttamente gli eventi psicologici, questi interventi mirano a modificare i processi che mantengono gli stati psicologici presentati e la relazione dell’individuo con questi, attraverso strategie quali mindfulness, accettazione, spostamento dell’attenzione o defusione cognitiva.

Tutte le terapie di terza ondata sono largamente supportate da studi scientifici che ne attestano l’efficacia su gruppi specifici di popolazioni cliniche. Infatti, esistono numerosi studi di letteratura dai quali è possibile inferire i numerosi benefici riportati nella pratica clinica.

 

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Microbiota e il meccanismo dell’estinzione

Il microbiota è l’insieme dei microrganismi che convivono nell’organismo umano senza danneggiarlo. Si tratta principalmente di batteri e ne possiamo trovare tra le 500 e le 10.000.000 di specie. Il loro numero è circa 10 volte quello delle nostre cellule, tuttavia non si tratta solamente di batteri ma anche (in misura minore) di virus e miceti.

 

Lo sviluppo del microbiota umano avviene nei primi giorni di vita, ed è essenziale per la maturazione e lo sviluppo del sistema immunitario (Belkaid et al., 2014).

Nell’intestino umano troviamo il microbiota intestinale considerato il più ‘ricco’ e importante data la numerosità di batteri presenti, infatti si stima che la totalità di essi pesi all’incirca un chilogrammo.

Tuttavia non troviamo unicamente batteri buoni, ovvero che proteggono l’ospite (cioè noi), ma ci sono anche microrganismi le cui azioni hanno effetti nocivi sul nostro corpo; sono comunque minori rispetto a quelli considerati buoni, e inoltre quest’ultimi arginano e combattono i batteri che ci causano danni biologici.

L’intestino al giorno d’oggi viene considerato come un secondo cervello, questo perché i ricercatori hanno scoperto che si trovano al suo interno all’incirca 100 milioni di neuroni che comunicano bidirezionalmente con il sistema nervoso centrale (Belkaid et al., 2014).

È dimostrato come il secondo cervello possa inviare segnali di malessere al sistema nervoso centrale (per esempio il senso di nausea), ed è inoltre in grado di fissare ricordi legati al cibo.

È interessante notare che il 95% della serotonina (neurotrasmettitore deputato alla regolazione dell’umore) viene prodotta dalle cellule enterocromaffini che sono distribuite lungo la mucosa intestinale.

Partendo da queste ricerche, la comunità scientifica ha iniziato a chiedersi se si potesse riscontrare qualche relazione tra il microbiota, neuroni intestinali e alterazioni dell’umore (Zheng et al., 2016).

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature intitolato The microbiota regulate neuronal function and fear extinction learning descrive un esperimento condotto su alcuni topi alterando il loro microbiota tramite degli antibiotici. Ciò che hanno potuto osservare i ricercatori è, nei topi con microbiota modificato, un’alterazione dell’espressione genetica, che ha portato ad alterazioni dei neuroni e delle cellule gliali nella corteccia prefrontale mediale, deputata all’extinction learning quindi all’estinzione degli stimoli condizionati: per fare un esempio, il cane di Pavlov, dopo aver sentito la campanella più volte senza però ricevere la carne, smetteva di salivare (estinzione) (Chu, et al., 2019).

Inoltre tramite l’imaging a due fotoni transcranico, i ricercatori, hanno osservato un deficit nelle capacità di apprendimento, dato dal rimodellamento delle spine dendritiche dei neuroni della corteccia prefrontale mediale.

Tuttavia, se si ristabilisce il microbiota precedente, è possibile riosservare delle modificazioni encefaliche che riportano il topo al funzionamento cerebrale precedente.

Anche il metabolismo sembrerebbe essere influenzato dal microbiota, in particolare quattro metaboliti associati a disturbi neuropsichiatrici risultavano essere alterati nei topi con microbiota modificato.

Quindi l’alterazione del microbiota porterebbe ad una minor capacità da parte del nostro cervello di mettere in atto l’extinction learning, di conseguenza all’incapacità di non rispondere più ad uno stimolo condizionato (Chu, et al., 2019).

Partendo dal presupposto che il microbiota sia profondamente influenzato e modellato da ciò che mangiamo, i ricercatori hanno sottolineato l’impatto che potrebbe avere la nostra dieta su di esso e conseguentemente sul nostro sistema nervoso centrale. Ansia e depressione sembrano essere influenzate dal microbiota, tuttavia non ci sono ancora teorie ben definite trattandosi di un campo di ricerca piuttosto nuovo (Chu, et al., 2019).

 

Coercizione sessuale femminile e l’associazione con la pornografia e con i tratti del disturbo di personalità narcisistica e istrionica

Gli studi in letteratura si sono da sempre focalizzati sulla violenza sessuale maschile e la vittimizzazione femminile. Tuttavia, anche le donne aggrediscono sessualmente i loro partner, spesso passivi, e i ricercatori hanno sempre più riconosciuto le sfumature di come ciò potrebbe essere espresso (Grayston & De Luca, 1999; Ménard, Hall, Phung, Ghebrial e Martin, 2003).

 

Questo studio ha indagato i fattori che influenzano l’uso della coercizione sessuale da parte delle donne; in particolare, sono stati considerati l’utilizzo della pornografia e i tratti del disturbo di personalità narcisistica (NPD) e istrionica (HPD) associati a scarso controllo degli impulsi, regolazione emotiva e desiderabilità sessuale.

In generale, le donne con livelli più alti di narcisismo si impegnano nel sesso per soddisfare i loro bisogni di autoaffermazione, mostrano una comunicazione più negativa nei rapporti e reagiscono con persistenza e tattiche sessualmente coercitive dopo essere state rifiutate durante un avanzamento sessuale. Le caratteristiche che definiscono il disturbo istrionico di personalità, invece, includono un comportamento eccessivamente emotivo, impulsivo, che cerca attenzione, e una condotta sessuale inappropriata o competitiva. Manipolatrici emotive e intolleranti alla gratificazione ritardata, le donne con tratti di personalità istrionica chiedono continue conferme e attenzioni da parte di partner intimi (AlaviHejazi, Fatehizade, Bahrami, Etemadi, 2016).

La pornografia si riferisce a materiale sessualmente esplicito sviluppato e consumato per stimolare l’eccitazione sessuale, disponibile in forme differenti (ad es. fotografie e video) e accessibile anche online (Campbell &Kohut, 2017). La ricerca si è concentrata storicamente sul modo in cui l’esposizione a materiale pornografico influenza gli atteggiamenti e la condotta sessuale degli uomini; tuttavia, anche le donne si impegnano con la pornografia, sebbene in misura minore rispetto agli uomini (Ashton, McDonald e Kirkman, 2018; Rissel, Richters, de Visser, McKee, Yeung e Caruana, 2017). Nello specifico, sono stati presi in considerazione tre elementi che caratterizzano l’uso della pornografia femminile (interesse per la pornografia, sforzi per interagire con la pornografia e compulsività della pornografia); e viene indagata l’influenza di essi sui tratti di personalità narcisistici e istrionici.

La coercizione sessuale si trova sul continuum dell’aggressività sessuale ed è definita come “l’atto di usare pressione, alcol o droghe, o forzare il contatto sessuale con qualcuno contro la sua volontà” (Struckman-Johnson, Struckman-Johnson e Anderson, 2003). La coercizione sessuale può includere una serie di comportamenti che possono essere suddivisi in quattro categorie di crescente sfruttamento: (1) eccitazione sessuale (ad es. baci e tocchi persistenti), (2) manipolazione emotiva (ad es. ricatto, domande o utilizzo dell’autorità), (3) intossicazione da alcol e droghe (ad es. ubriacarsi intenzionalmente o approfittarne mentre è intossicato) e (4) forza fisica o minacce (ad es. uso di danni fisici).

Le ipotesi dello studio sono, dunque:

  • L’uso della pornografia e i tratti di personalità narcisistici e istrionici sono significativamente associati ad una maggiore incidenza di tre tipi di coercizione sessuale (eccitazione sessuale non verbale, manipolazione e inganno emotivo e sfruttamento dell’intossicazione).
  • L’uso della pornografia e i tratti della personalità non sono associati all’uso di un quarto tipo di coercizione sessuale (forza fisica o minacce).

Un totale di 142 donne, di età compresa tra 16 e 53 anni, hanno partecipato a questo studio e hanno compilato tre questionari, rispettivamente per la coercizione sessuale, l’uso della pornografia e i tratti del disturbo di personalità narcisistico e istrionico:

  • Scala della persistenza sessuale postrefusale (scala PSP, Struckman Johnson et al., 2003): riguarda il perseguire il contatto sessuale con un partner dopo che inizialmente si sono rifiutati, la scala indaga i diversi livelli di sfruttamento sessuale;
  • Inventario dell’uso della cyber-pornografia (CPUI, Grubbs, Sessoms, Wheeler e Volk, 2010);
  • Questionario diagnostico sulla personalità, 4a edizione (PDQ  4: Hyler, 1994).

In accordo con le ipotesi del presente studio, la pornografia è stata associata all’uso da parte delle donne della coercizione sessuale, in particolare dell’eccitazione sessuale non verbale (35,2%), della manipolazione emotiva e delle forme di inganno della coercizione sessuale (15,5%). Dato che solo una donna ha riferito di usare forza fisica o minacce, questa sottoscala non è stata inclusa nelle analisi successive. L’attuale ricerca ha confermato, inoltre, che i tratti dell’HPD erano significativamente associati allo sfruttamento dell’intossicazione (4,9%), spiegata dalla letteratura come il riflesso di un’eccessiva emotività, richieste di attenzione e uso di comportamenti provocatori per manipolare gli altri. Infine, non è stata osservata l’associazione ipotizzata tra tratti NPD sulla coercizione sessuale.

Questa scoperta potrebbe essere indicativa di somiglianze tra tratti NPD e HPD; pertanto, sarebbe utile che le indagini future lo esplorassero in modo più esplicito. Altri fattori che potrebbero essere significativi fattori di mediazione per la coercizione sessuale nelle donne, e quindi probabilmente produrranno risultati preziosi nella ricerca futura, includono l’influenza dell’alcool (Ménard et al., 2003) e la storia dell’abuso sessuale (Anderson, 1996; Russell & Oswald, 2001; 2002).

Nonostante gli sforzi per reclutare più partecipanti, questo studio è stato limitato dall’uso di un piccolo campione; pertanto, la generalizzabilità è limitata. Inoltre, le misure dei questionari prese in considerazione per studiare l’argomento delicato della diffusione della coercizione sessuale e i tratti del disturbo di personalità potrebbero aver provocato desiderabilità sociale o richiamo di pregiudizi. Infine, si raccomandano misure più ampie e dettagliate per le ricerche future. In particolare, è bene considerare la potenziale influenza di diversi tipi di materiali pornografici, distinguendo tra la pornografia violenta e non violenta; amatoriale e professionale. Queste differenze sessuali per quanto riguarda la frequenza e la forma dell’uso della pornografia potrebbero essere utili per studi futuri, con l’obiettivo di esaminare direttamente l’influenza di diversi tipi della pornografia utilizzata dalle donne per il loro comportamento sessualmente coercitivo, piuttosto che estrapolare dalla ricerca esistente focalizzata sul sesso maschile. Un altro limite è rappresentato dal fatto che il numero di elementi demografici presentati nel questionario è stato limitato, in parte a causa di rigide linee guida etiche; e quindi, di conseguenza, non si sono potute esaminare le differenze etniche in relazione alla coercizione sessuale.

 

Disturbo da Deficit dell’Attenzione e iperattività e Disturbo Borderline di Personalità: una sfida clinica nell’età adulta?

Nell’eterogeneo quadro psicodiagnostico, la letteratura di settore ci suggerisce come l’ADHD abbia una grande probabilità di associarsi in età adulta ai disturbi di personalità che nel DSM-IV TR venivano classificati nel cluster B ed in particolare con il disturbo antisociale e il disturbo borderline di personalità (BDP)

Federica Liso e Roberta Sciore – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto.

 

“…sono alcuni di quei bambini che troviamo alle feste dei nostri figli, nei bus o sul treno, nelle scuole o per la strada e che si mostrano continuamente agitati, in continuo movimento, che non riescono a stare mai fermi, che si dimenano continuamente e che i genitori trovano grande difficoltà a tenere “buoni”. Quando, poi, iniziano a frequentare la scuola sono quei bambini che le insegnanti non vorrebbero mai tenere: si alzano continuamente dal loro posto, danno fastidio ai compagni, non riescono a svolgere i compiti assegnati e finiscono spesso per cambiare banco, classe e talvolta anche la scuola. Il loro profitto scolastico, proprio per la ridotta capacità di concentrazione, è spesso scarso o comunque sufficiente e difficile è il loro rapporto con i coetanei, ma anche con gli adulti per la grande impulsività. La loro difficoltà viene percepita dai genitori e dagli insegnanti ma spesso, nel nostro paese, la diagnosi viene completamente non riconosciuta. In realtà questi bambini non hanno nessuna colpa, né tanto meno i loro genitori, che invece vengono spesso additati come incapaci a svolgere bene il proprio ruolo di educatori. Se il bambino risponde ad una serie di criteri clinici ben definiti dal mondo scientifico, la loro è una vera patologia organica e come tale meritevole di una precisa terapia. Solo con l’ausilio di una giusta terapia i bambini cambieranno radicalmente il loro modo di vivere e tutti, genitori, insegnati, compagni ma soprattutto il bambino, potranno finalmente cogliere la bellezza di una vita “normale”…” (AIFA, Associazione Italiana Famiglie ADHD)

Il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è un disturbo caratterizzato da inattenzione e/o iperattività ed impulsività (controllo inadeguato dell’attività motoria) che interferisce con lo sviluppo. Tali sintomi, secondo i criteri indicati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – DSM-5 (Apa, 2003), devono essere presenti prima dei 12 anni d’età in due o più contesti di vita (come ad esempio: a scuola, casa, lavoro). I problemi di condotta presenti nei bambini con ADHD (il “bambino onnipotente”) sono condizionati da complessi fattori psico – sociali ed antropologici che caratterizzano fortemente la condizione dell’infante e della famiglia moderna.

L’ADHD può manifestarsi con severità diverse: lieve con pochi sintomi a basso impatto nelle attività di vita quotidiana; moderato con sintomi maggiormente presenti e pervasivi; severo con sintomi particolarmente invalidanti con grande impedenza per il funzionamento sociale ed occupazionale.

ADHD in età adulta

Nel lavoro clinico e psicodiagnostico l’ADHD è molto ben riconosciuto ed identificato nella popolazione pediatrica, tant’è che il suo primo inquadramento risale al 1930 (Lange et al., 2010). Al contrario negli adulti le caratteristiche nosografiche di questo disturbo sono molto eterogenee e meno tipiche rispetto all’infanzia ed includono uno spettro più ampio di difficoltà nella regolazione emotiva e nelle attività funzionali di vita quotidiana. Rispetto agli specificatori proposti nell’iter diagnostico per i bambini, per gli adulti sarebbe necessario introdurre nelle linee guida insieme all’iperattività ed alle difficoltà di concentrazione altri sintomi come: la labilità affettiva, il temperamento irritabile, l’intolleranza allo stress, l’impulsività, la disorganizzazione e le difficoltà nel portare a termine un compito (Ward et al., 1993). Nell’evoluzione del quadro sindromico da adulti, si stima che una percentuale variabile tra il 15 ed il 65% di bambini con ADHD ne continui a soffrire anche da adulti, anche se con sintomi a volte sottosoglia e spesso non clinicamente significativi (Biederman et al., 2000). Da grandi sembrerebbe che questi pazienti abbiano una riduzione dell’impulsività ed una diffusione di una maggiore prevalenza delle difficoltà attentive. Tale aspetto potrebbe essere anche ricondotto ad una modifica nei compiti di apprendimento, sociali e poi lavorativi che diventano sempre più sfidanti nel corso dello sviluppo. Basti pensare ai grandi cambiamenti che vi sono nel passaggio tra la scuola primaria a quella secondaria.

Le difficoltà nelle funzioni esecutive come la pianificazione, l’eccessiva labilità attenzionale e quindi poi il raggiungimento degli scopi prefissati, risultano essere molto impattanti nel funzionamento di vita quotidiana. Anche le semplici incombenze di tutti i giorni richiedono una buona capacità di organizzare i diversi stimoli, produrre delle risposte cognitive e comportamentali flessibili, attendere spesso per ottenere una risposta (o una ricompensa) ed eventualmente cambiare con ecletticità lo script in caso d’insuccesso o d’inconvenienti.

Quando i bambini con ADHD crescono spesso non riescono ad esercitare tali competenze ed il rischio è quello di sviluppare una scarsa tolleranza alla frustrazione la quale può sfociare in sentimenti profondi d’inquietudine, grande suscettibilità alla noia e necessaria ricerca di attività stimolanti (“hight sensation seeking”). Tali aspetti spesso portano queste persone a problemi di dipendenza da sostanze e comportamentali (droghe, videogiochi, eccessivo sport), ad autolesionismo e spesso anche a problemi con la giustizia (Roy-Byrne et al., 1997; Barkley et al., 2008).

Le difficoltà di esecuzione possono da una parte far desistere la persona, la quale dall’esterno potrà essere etichettata come poco motivata o restia ad assumere incarichi onerosi, oppure dall’altra parte questo può rendere il soggetto un procrastinatore cronico con la presenza di condotte di controllo a-finalistiche che non permettono spesso di portare a termine le attività in tempi congrui. Tali modalità valgono soprattutto per i compiti molto impegnativi e in maniera più limitata per le attività stimolanti e piacevoli. Tutti questi aspetti, nei contesti interpersonali possono creare delle difficoltà importanti che possono portare la persona ad esiti di marginalità e di scarso investimento nei contesti sociali (Asherson, 2005).

In aggiunta agli aspetti pragmatici e di funzionamento di vita quotidiana, da un punto di vista clinico, gli adulti con ADHD sono una grande sfida per chi se ne occupa. Si stima che nella popolazione adulta generale la prevalenza di ADHD è del 2,5% (Heidbreder et al., 2015). Le complicazioni che si incontrano quando si tenta un inquadramento psicodiagnostico con questi pazienti in età adulta, spesso in assenza di segnalazione neuropsichiatrica infantile, sono riferite alla larga comorbilità con altre nosografie psichiatriche che la diagnosi di ADHD presenta negli adulti. Dalla letteratura (Torgesen et al., 2006; Subanski et al., 2007) si riscontra come più dell’80% di adulti con deficit di attenzione ed iperattività soffrono anche di: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, uso di sostanze patologico e disturbi di personalità. Esistono forti legami familiari e somiglianze neurobiologiche tra l’ADHD e questi diversi disturbi psichiatrici. I sintomi sovrapposti rappresentano una grande sfida per la diagnosi e il trattamento.

Le linee guida raccomandano che quando l’ADHD coesiste con altre psicopatologie negli adulti, la condizione più problematica dovrebbe generalmente essere trattata per prima. Il riconoscimento e il trattamento precoce dell’ADHD e delle sue comorbilità hanno il potenziale per cambiare la traiettoria long-life della salute mentale della persona, abbassandone la morbilità e determinando un grande innalzamento nella durata di vita stimata (Martin et al., 2017). Inoltre l’utilizzo di strumenti validati ed ad hoc nell’individuazione permette, non solo di fare delle diagnosi corrette, ma anche di trarre poi maggiore benefici dagli interventi evidence-based. Questi approcci presenti in letteratura per i pazienti adulti hanno come target: il potenziamento delle mastery di regolazione emotiva ed il miglioramento del funzionamento psicosociale (relazioni familiari, sociali, abilità di gestione di vita quotidiana e lavorative) (Biederman et al., 2009). La ricerca inoltre ci suggerisce che quando questi interventi vengono proposti precocemente con metodicità clinica possono modificare la traiettoria patologica dei bambini con ADHD, diminuendo la probabilità di comorbilità psichiatrica in età adulta (Biederman et al., 2009; Biederman et al., 1999).

ADHD e Disturbo Borderline di Personalità

Nell’eterogeneo quadro psicodiagnostico, la letteratura di settore ci suggerisce come l’ADHD abbia una grande probabilità di associarsi in età adulta ai disturbi di personalità che nel DSM-IV TR venivano classificati nel cluster B ed in particolare con il disturbo antisociale e borderline (BDP), mentre minori evidenze con i disturbi istrionico e narcistico (Fisher et al., 2002; May et al., 2000). Tra quelli dei cluster A e C è stata approfondita la comorbilità con il disturbo schizotipico e con il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (Ettinger et al., 2003).

Le statistiche riportano come prevalenza del disturbo di personalità borderline in campioni di ADHD adulti è stata stimata tra il 20,3 ed il 37% (Anckarsäter et al., 2006). L’associazione tra queste due categorie diagnostiche è stata storicamente investigata facendo ricorso alla similarità della sintomatologia clinica, soltanto nel 2011, Distel et al. hanno provato ad indagare il ruolo dei fattori genetici ed ambientali nella relazione tra i sintomi dell’ADHD ed i tratti di personalità del BDP. I partecipanti allo studio, 7233 persone di età compresa tra i 18 ed i 90 anni, tra loro o gemelli o fratelli, hanno compilato la Conners’ Adult ADHD Rating Scales (CAARS-S:SV) ed il Personality Assessment Inventory-Borderline Features Scale (PAI-BOR). Nel dettaglio in questo studio le analisi bivariate sono state eseguite per determinare la misura in cui i fattori genetici ed ambientali potevano influenzare la variazione nei sintomi di ADHD e BDP e la covarianza tra di loro. I risultati hanno mostrato come una stima compresa tra il 45 ed 36% della varianza tra BDP ed ADHD era spiegata dai fattori ereditari, mentre la restante era spiegata dalle influenze ambientali. La correlazione fenotipica tra i sintomi di BPT e ADHD è stata stimata a r = 0,59, e potrebbe essere spiegato per il 49% da fattori genetici e il 51% da fattori ambientali. Le correlazioni genetiche e ambientali tra i sintomi di BPT e ADHD erano rispettivamente di 0,72 e 0,51. L’eziologia condivisa tra i sintomi di BPT e ADHD è quindi una probabile causa per la comorbilità dei due disturbi. Tra le influenze ambientali, recentemente sono stati indagati anche l’eventuale impatto degli eventi traumatici. Lo studio longitudinale di Biederman et al., (2003) svolto su bambini con e senza ADHD per 10 anni ha mostrato come ADHD era un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di Disturbo da Stress Post Traumatico lungo il corso della vita. Rucklidge et al. 2006 hanno somministrato un questionario sui traumi infantili pregressi ad adulti con e senza ADHD, ed hanno riscontrato che il primo campione aveva punteggi più alti indicativi di maggiore esperienze traumatiche vissute. In particolare, l’abuso emotivo e l’abbandono erano riportati con grande frequenza; per le donne risultavano essere significativamente presenti il neglect fisico e l’abuso sessuale infantile.

Attuando una prospettiva clinica, i due disturbi hanno nuclei psicopatologici simili (in parte sovrapponibili) quali l’impulsività, la scarsa tolleranza alla frustrazione e la disregolazione emotiva. Nello specifico per impulsività si riferisce ad una difficoltà d’individuare i tempi congrui negli scambi interpersonali. Spesso queste persone vengono viste come prevaricanti ed invadenti degli spazi intersoggettivi degli altri. Così come la scarsa tolleranza alla frustrazione può comportare una reazione abnorme (spesso catastrofizzazione) davanti anche a negazioni minime con mutamenti bruschi e spesso imprevisti ed inspiegabili da parte dell’altro o una difficoltà ad attendere una ricompensa o un premio. La disregolazione emotiva, centrale nella psicopatologia del BPD, si configura nella proposizione coatta di strategie di regolazione emotiva disadattive quali la ruminazione, la soppressione, i comportamenti reattivi impulsivi o gli acting comportamentali. Rispetto all’ADHD le informazioni che provengono dal mondo della ricerca sulla tonalità emotiva di questi pazienti sono molto inferiori. Sembrerebbe che le emozioni negative influenzino negativamente i deficit neuropsicologici delle persone con deficit d’attenzione ed iperattività. Rash et al., nel 2012, hanno riscontrato come le persone con ADHD avessero un deficit della regolazione delle emozioni caratterizzato da incompetenza nella risposta emotiva sia sul piano fisiologico sia sulla risposta comportamentale non coordinata; in generale questi pazienti fanno fatica a spostare l’attenzione e poi elaborare stimoli di natura emotigena. In entrambe le diagnosi, ed in particolare nei casi di comorbilità, la disregolazione emotiva è un pattern sintomatologico nucleare e fonte di problematicità personale ed intersoggettiva. Nel complesso tutte queste difficoltà nella regolazione emotiva e comportamentale creano delle impedenze quotidiane molto pronunciate nelle relazioni e negli scambi sociali.

Quali spiegazioni si trovano in letteratura per spiegare il legame tra questi due disturbi? Da una parte vi sono dei ricercatori che hanno ipotizzato che tra ADHD e BPD vi possa essere una comune eziopatogenesi, ossia una condizione di “spettro” psicopatologico comune. Dall’altra parte c’è chi sostiene che tra le due entità vi sia una relazione “patoplastica” in cui vi sarebbe un influenza reciproca che condizionerebbe il decorso, la presentazione dei pattern sintomatologici e la risposta al trattamento (Philipsen et al., 2007; Miller et al., 2006). Rispetto a quale delle due spiegazioni abbia maggior peso esplicativo non vi è ancora una risposta univoca. Diversi studiosi inoltre, hanno ipotizzato che il temperamento ed alcuni tratti caratteriali potessero avere un ruolo nello sviluppo di ADHD e BPD. Van Dijke et al., 2012 hanno individuato tra le dimensioni di temperamento: l’evitamento del danno, la ricerca della novità e la dipendenza dalla gratificazione immediata. Tra le dimensioni caratteriali hanno invece elencato: l’autodirezionalità, la cooperatività e l’auto-trascendenza. I risultati hanno mostrato come le persone con sola ADHD avevano punteggi più alti per la ricerca della novità e bassi punteggi nell’evitamento dei danni, mentre i partecipanti con comorbilità tra ADHD e BPD avevano punteggi alti per la ricerca della novità. Nei fattori caratteriali, punteggi significativamente diversi sono stati riscontrati soltanto per le persone con BDP per l’autodirezionalità e la cooperazione (punteggi significativamente inferiori rispetto agli altri). Van Dijke et al., 2012 hanno concluso che la ricerca della novità sia un fattore temperamentale che lega ADHD e il BDP e che quindi tale predisposizione debba essere tenuta di conto non solo nelle ipotesi eziopatogenetiche quanto negli interventi di prevenzione e clinici in genere.

Nella pratica clinica, quando l’ADHD è in comorbilità con il Disturbo Borderline di personalità, determina un aumento di problemi aggiuntivi nella vita quotidiana, nei contesti terapeutici pubblici e privati. Si ritiene quindi necessario, in una situazione tanto complessa, l’attenta valutazione psicodiagnostica e neuropsicologica. In ogni singolo paziente è necessario trattare l’ADHD sulla base della gravità sintomatologica, sulle risorse personali e sociali a disposizione ed ovviamente sulle richieste fatte dal paziente stesso in seguito alla restituzione diagnostica. Frequentemente nella pratica clinica, la disattenzione e l’iperattività portano ad una grande difficoltà nel riuscire ad utilizzare le conoscenze e gli strumenti forniti dalla terapia. Pertanto, un trattamento neuropsicologico dedicato all’ADHD in comorbilità con BPD migliora gli esiti psicoterapeutici (Ebert et al., 2003). È importante sempre ricordare che una persona adulta che chiede un trattamento per un Disturbo Borderline della personalità che ha in comorbilità un disturbo da iperattività e disattenzione con molta probabilità avrà difficoltà nella pianificazione, strutturazione, concentrazione, organizzazione degli orari e degli schemi. Questi sono pazienti che spesso hanno una motivazione al trattamento molto fragile; l’entusiasmo iniziale è seguito frequentemente da frustrazione, noia e difficoltà di concentrazione sui temi centrali. Per evitare drop-out, tali aspetti dovrebbero essere sempre tenuti in mente nella pianificazione delle prassi di lavoro clinico. ADHD e BPD presentano inoltre alcune specifiche da considerare come la ricerca di stimoli a breve termine ed i comportamenti a rischio. Tali aspetti espongono i pazienti non solo a difficoltà interpersonali, ma anche a possibili esiti iatrogeni sul piano fisico. Sarebbe quindi utile utilizzare l’analisi funzionale al fine di identificare gli antecedenti (trigger) che anticipano i comportamenti disfunzionali che espongono la persona a rischi più o meno grandi per lei ed a volte per altri.

Una organizzazione valida del trattamento da proporre suggerito da Matthies e Philipsen 2014, potrebbe essere così strutturato:

  • psicoeducazione su entrambi i disturbi;
  • eventuale consulenza psichiatrica e spiegazione del relativo trattamento farmacologico;
  • comprensione delle situazioni d’insuccesso e dei comportamenti disfunzionali dovuto ai disturbi;
  • psicoterapia individuale e/o terapia di gruppo con l’obiettivo di potenziare il funzionamento comportamentale, sociale e lavorativo (social skills);
  • follow-up a lungo termine per favorire il mantenimento dei benefici dei trattamenti e prevenire le ricadute invalidanti.

Tali linee guida dovrebbero essere utilizzate nella pratica clinica come direttive generali. Da un punto di vista dell’intervento, la ricerca poco si è occupata di protocolli integrati per un tale quadro clinico complesso su un piano psicoterapeutico e neuropsicologico che richiede quindi ulteriori evidenze di efficacia.

Conclusioni

AHDH e BPD condividono alcune caratteristiche cliniche, in particolare l’impulsività e l’instabilità emotiva. Questi disturbi spesso co-occorrono ed entrambe le diagnosi hanno difficoltà più pronunciate che si intrecciano e che spesso sono difficili da trattare. Nel considerare la relazione tra ADHD e BPD, non si può trascurare il fatto che l’ADHD rappresenti un fattore di vulnerabilità nell’eziopatogenesi di diverse condizioni psicopatologiche di personalità e sintomatologiche in genere, non solo BDP. È auspicabile che future ricerche approfondiscano il ruolo dei fattori di rischio ambientali e personali che moderano la relazione tra l’ADHD e il disturbo borderline di personalità. Una tale sistematicità di ricerca permetterebbe di individuare e di trattare con maggior tempismo le variabili predisponenti alla strutturazione di una personalità patologica al fine di avere maggiori benefici dagli interventi e nel complesso migliore qualità di vita.

Quando gli uomini sono vittime di violenza e abuso domestico: la difficoltà ad aprirsi e a chiedere aiuto

Nonostante episodi di abuso e violenza domestica da parte di membri della famiglia o del partner vengano riportati più frequentemente da vittime femminili, tale fenomeno viene spesso denunciato da vittime maschili.

 

La presenza di violenza e abuso in ambito domestico costituisce una forma diffusa di violazione dei diritti umani in grado di danneggiare significativamente la salute e il benessere delle vittime coinvolte. L’abuso e la violenza domestica vengono definiti come qualsiasi tipo di episodio, isolato o ricorrente, di controllo coercitivo, violenza o abuso che avviene tra persone conviventi che abbiano più di 18 anni, a prescindere da genere e orientamento sessuale. Nonostante episodi di abuso e violenza domestica da parte di membri della famiglia o del partner vengano riportati più frequentemente da vittime femminili, tale fenomeno viene spesso denunciato da vittime maschili. Data la maggiore frequenza di abuso e violenza domestica rivolta a vittime femminili, i bisogni degli uomini che subiscono tali comportamenti sono spesso stati trascurati.

Una review recentemente condotta dall’università di Bristol si è quindi preposta lo scopo di approfondire quali siano gli impedimenti principali rispetto alla ricerca di aiuto da parte di vittime maschili di abuso e violenza domestica. Huntely e colleghi (2019) hanno analizzato 12 studi qualitativi, condotti tra il 2006 e il 2017, relativi all’esperienza di uomini maggiorenni che abbiano subito abuso e violenza domestica. Degli studi considerati idonei a seguito della ricerca bibliografica, 6 erano stati condotti nel Regno Unito, 4 negli USA, 1 in Svezia e 1 in Portogallo. Inoltre, 5 studi sono stati condotti con metodologia mista, unendo l’utilizzo di questionari a metodi di indagine di tipo qualitativo, quali interviste e focus group, mentre i restanti studi erano di tipo puramente qualitativo. Per l’analisi dei contenuti emergenti è stato utilizzato un approccio tematico interpretativo, tramite il quale sono stati identificati i temi principali che ricorrevano negli studi presi in esame per poi raggrupparli in tematiche sovraordinate.

Al termine delle analisi sono state identificate due tematiche principali: gli ostacoli che le vittime maschili avevano incontrato nell’aprirsi inizialmente rispetto all’abuso e alla violenza domestica e nel richiedere conseguentemente aiuto, e l’effettiva esperienza di intervento e supporto ricevuta. Rispetto ai principali ostacoli al confidarsi e al richiedere aiuto riportati dai partecipanti è emersa in particolare la paura di confidarsi rispetto all’aver subito abuso e violenza domestica, rilevata in 10 dei 12 studi presi in esame: le vittime maschili hanno infatti riportato non solo paura rispetto alla possibilità che la loro testimonianza non venisse considerata veritiera, ma anche di essere accusati ingiustamente di essere i perpetratori di tale violenza. I partecipanti hanno riportato anche timore rispetto alle possibili implicazioni pratiche derivanti dal richiedere aiuto, quali il dover lasciare il nucleo abitativo, l’impatto finanziario e professionale, le ritorsioni da parte del partner e la perdita della custodia dei figli.

Strettamente legato alla paura di confidarsi è risultato il tema della sfida alla mascolinità: le vittime avevano infatti timore di apparire e di sentirsi meno uomini nel riportare comportamenti abusanti nei loro confronti da parte del partner, fattore al quale si univano conseguentemente vergogna e negazione degli eventi. L’assunzione che l’abuso e la violenza domestica siano principalmente di tipo fisico risulta un deterrente per le vittime maschili rispetto alla possibilità di aprirsi rispetto a tale fenomeno, fattore che alimenta lo stigma sia da parte della società che da parte dell’individuo.

Un altro ostacolo alla richiesta di aiuto riportato dai partecipanti è stato la presenza di un senso di impegno nella relazione con il partner, rispetto al quale le vittime esprimevano preoccupazione. Molti degli uomini intervistati hanno infatti riportato il desiderio che i comportamenti abusanti finissero ma non la loro relazione con il partner, al quale si sentivano ancora emotivamente legati.

Nelle vittime maschili è stata inoltre evidenziata la presenza di scarsa fiducia in se stessi e di scoraggiamento rispetto alla possibilità che chiedere aiuto potesse essere effettivamente risolutivo, specialmente se i comportamenti abusanti risultavano di lunga data. E’ emerso inoltre che spesso le vittime non erano a conoscenza dell’esistenza di servizi dedicati a vittime di abuso e violenza domestica e, se ne conoscevano l’esistenza, non credevano potessero essere efficaci. I partecipanti hanno evidenziato il fatto che i servizi di supporto a vittime di abuso e violenza domestica sono spesso indirizzati a vittime femminili, e questo rende difficile la richiesta di aiuto sia per uomini eterosessuali che per uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini, i quali temono di non essere compresi.

Rispetto alla seconda tematica emersa, ovvero l’esperienza diretta di intervento e supporto da parte delle vittime, è emerso che i partecipanti avevano effettuato il primo contatto con i servizi a seguito di un momento di crisi, in cui amici o familiari erano risultati una fonte positiva di supporto. Per le vittime maschili di abuso e violenza domestica il mantenimento di confidenzialità è risultato fondamentale rispetto alla possibilità di chiedere aiuto ai servizi di supporto, e particolarmente apprezzata è risultata la possibilità di mantenere l’anonimato durante il primo contatto telefonico.

Nella relazione con le figure deputate al supporto, le vittime hanno espresso preferenze rispetto alla possibilità di ricevere aiuto da parte di professionisti di sesso femminile e rispetto al mantenimento di una continuità nella cura. Alcuni dei partecipanti, i quali intrattenevano rapporti sessuali con partner maschili, hanno inoltre riportato una mancanza di comprensione e di cura adeguata da parte dei professionisti, evidenziando inoltre come i servizi di supporto fossero orientati principalmente alla presa in carico di vittime eterosessuali e al fornire trattamenti che risultavano stereotipati rispetto al genere.

Le tematiche emerse dalla review di Huntley e colleghi (2019) mettono in luce aspetti comuni alle vittime femminili, come il timore di perdere l’affidamento dei figli, ma anche aspetti specifici delle vittime maschili, come la paura di essere accusati ingiustamente di essere i perpetratori dei comportamenti abusanti. Gli autori evidenziano l’importanza nella pratica clinica della creazione di servizi deputati all’aiuto e al supporto delle sole vittime maschili di abuso e violenza domestica, i quali devono essere inclusivi rispetto a tipologie diverse di mascolinità e di orientamento sessuale per accogliere la domanda d’aiuto in modo efficace.

Gamer e obesità: esiste una relazione tra gaming e obesità?

Nell’immaginario comune, i gamer, ovvero coloro che giocano ai videogames, sono persone che passano ore ed ore sdraiate sul divano con joystick in mano e circondate da patatine, bibite ed altro cibo spazzatura. Si è diffusa così l’idea che lunghe sessioni di gioco contribuiscono all’incremento della massa corporea, portando ad obesità.

 

Esiste davvero una relazione tra l’uso costante di videogiochi e obesità?

Molti ricercatori hanno così indagato l’esistenza di questa relazione, ma sono stati trovati risultati contrastanti (Kohorst et al., 2019). In base ad un sondaggio compilato da 412 partecipanti è stata dimostrata una relazione tra il tempo trascorso a giocare e una condizione di obesità grave (terzo grado). È stato dimostrato come i gamer con televisione in camera hanno una maggiore probabilità di essere gravemente obesi, e lo stesso risultato è stato riscontrato nei giovani gamer i cui genitori non impongono un limite temporale di gioco (Phan et al., 2019).

Markus Appel, psicologo della comunicazione e ricercatore presso l’Università di Wurzburg, insieme a Caroline Marker e al professore Timo Gnambs dell’Università di Johannes Kepler (Linz), hanno così condotto una meta analisi comprendente un totale di 20 studi (su 38 mila partecipanti) per fare chiarezza sul rapporto gaming-massa corporea.

Dall’analisi è emerso che, per quanto riguarda bambini e adolescenti, non vi è alcuna relazione tra uso di videogames e obesità: solo l’1% del sovrappeso di una persona può essere attribuito al tempo trascorso a giocare a console e videogames.

Per quanto riguarda gli adulti, invece, è emersa dall’analisi una leggera correlazione positiva tra uso di videogiochi e massa corporea.

Lo studio contraddice lo stereotipo del gamer, spiega il professor Appel.

Il professor Appel interpreta il risultato sulla base del fatto che spesso gli adulti gamer sono adolescenti che hanno portato avanti la propria passione per i videogames negli anni, rinunciando ad altri hobby più salutari, come ad esempio la corsa o altri sport. In base ai risultati dello studio di Phan e colleghi (2019) una possibile interpretazione del dato potrebbe esser letta nella chiave del limite genitoriale, controllo che nel caso di individui adulti e dunque autonomi non è più un fattore di protezione.

Il limite degli studi su cui si è basata la presente meta analisi risiede nel non aver indagato tutte le abitudini ipoteticamente connesse alla vita da gamer: il ripetuto consumo di cibo spazzatura e la mancanza di sonno. Un ulteriore limite risiede nel fatto di aver analizzato unicamente l’uso di videogames sedentari, ovvero di giochi che non spronano il giocatore al movimento. Studi recenti indagano infatti l’efficacia di programmi infantili per l’obesità basati sull’uso di videogame attivi, tra cui Wii Sports (Lamboglia, 2019).

 

L’ Attention Training Tecnique e i suoi effetti benefici sullo stress degli studenti universitari

Uno studio recentemente pubblicato su Frontiers in Psychology ha indagato gli eventuali effetti del Training Attentivo (Attention Training Tecnique – ATT) sullo stress, in un campione di studenti universitari di età compresa tra i 19 e i 43 anni.

 

Secondo il Self-Regulatory Executive Function model (S-REF) di Wells e Matthews (1994), le reazioni di stress sono dovute a pensieri rimuginativi sui quali ci concentriamo e che attivano la cosiddetta Cognitive Attentional Syndrome (CAS), ovvero una modalità di pensiero caratterizzata da processi di elaborazione dell’informazione focalizzati sul rimuginio.

Una tecnica sviluppata sulla teoria della CAS e utilizzata per intervenire sul pensiero rimuginante è l’ Attention Training Tecnique (ATT), il cui scopo è quello di dirigere l’attenzione su un compito uditivo. Inizialmente, il paziente viene invitato a concentrarsi su un suono dell’ambiente, come il ticchettio dell’orologio, senza lasciarsi distrarre da altri rumori (attenzione selettiva); secondariamente, il terapeuta induce il paziente a spostare l’attenzione su rumori più distanti come, per esempio, il rumore del traffico o il vociare delle persone per strada, senza lasciar andare del tutto il primo suono sul quale si era soffermato (cambio di attenzione; Wells, 1990).

Avendo l’ATT dimostrato la propria efficacia su disturbi dello spettro ansioso e depressivo, gli autori del presente studio (Myhr et al., 2019) si sono domandati se questi stessi effetti benefici si potessero ottenere anche sulle manifestazioni di stress, in particolare quello esperito dagli studenti universitari.

Le teorie di riferimento utilizzate nella ricerca sperimentale sono la Transaction Theory of Stress (Lazarus & Folkman, 1984), che vede nella situazione stressante una condizione che l’individuo non riesce ad affrontare efficacemente per la mancanza delle risorse necessarie e l’S-REF model che invece collega le manifestazioni di stress alla ruminazione, al rimuginio e alla sensazione del mancato controllo sui propri pensieri.

Lo studio si propone di indagare gli effetti dell’ Attention Training Tecnique sulla meta-preoccupazione di studenti universitari sotto stress; un gruppo sperimentale e uno di controllo, per un totale di 48 soggetti, sono stati reclutati al fine di analizzare l’ipotesi.

Ai partecipanti sono stati somministrati il Perceived Stress Scale 14 (PSS-14) e il Meta-WorryQuestionnaire (MWQ) per avere una misura rispettivamente dello stress percepito e del livello della meta-preoccupazione e sono state testate le differenze tra i due gruppi.

I risultati mostrano che vi è una differenza statisticamente significativa tra il gruppo che ha seguito l’ATT e il gruppo di controllo. Inoltre, il gruppo sperimentale, ha mostrato in seguito a 4 settimane di applicazione della tecnica, una diminuzione dello stress significativa e una diminuzione (non significativa) della meta-preoccupazione rispetto alla condizione iniziale.

Questi risultati preliminari aprono la strada a possibili ricerche future nel medesimo campo d’interesse, possibilmente con un campione più numeroso e variegato.

 

13 Novembre: la strage di Parigi e il Bataclan di Massimo Priviero

Era un venerdì, quel 13 novembre 2015. Anche a Parigi era una sera che si affacciava sul fine settimana, ma niente è andato come avrebbe dovuto. Le televisioni di tutto il mondo hanno seguito in diretta gli sviluppi di quella follia di cui tutti stati attoniti spettatori. Davanti a queste immagini che scorrono sui teleschermi la domanda è sempre “perché?”. Perché il terrorismo?

 

Era un venerdì, quel 13 novembre 2015. Anche a Parigi era una sera che si affacciava sul fine settimana, quando tutti cominciano a rilassarsi. Chi allo stadio a seguire una partita di calcio, chi a cena fuori con gli amici, chi a godersi un concerto.
Ma niente è andato come avrebbe dovuto andare.

Le televisioni di tutto il mondo hanno seguito in diretta gli sviluppi di quella follia di cui tutti ci siamo trovati ad essere attoniti spettatori.

L’effetto del terrorismo su ciascuno di noi

Davanti a queste immagini che scorrono sui teleschermi la domanda è sempre “perché?”. Perché il terrorismo? Cerchiamo di dare una risposta basandoci sul contributo del dottor Marco Cannavicci, psichiatra e criminologo, per conto del CEPIC (Centro Europeo Psicologia Investigazione e Criminologia).

L’atto terroristico, attraverso gesti eclatanti, spaventosi, volti a suscitare forti reazioni emotive, ha come obiettivo non tanto le singole vittime quanto tutta la comunità, tutta la popolazione che in qualche modo si identifica con le vittime. Vuoi per motivi di nazionalità, di cultura, di appartenenza religiosa. L’atto compiuto, amplificato dai media che diventano complici più o meno involontari di un progetto ben studiato, colpisce tutti noi modificando le nostre abitudini, le nostre reazioni, minano le nostre certezze, facendoci sentire insicuri anche a casa nostra.

La routine quotidiana viene spezzata e sostituita da un’insicurezza volta a minare i valori stessi della nostra società. Istintivamente si diventa più diffidenti, sospettosi, ostili verso quello che viene avvertito come una potenziale minaccia. E più avvertiamo che i rischi sfuggono al nostro controllo, più ci sentiamo minacciati, in pericolo, amplificando il nostro disagio. E soddisfacendo le aspettative di chi ha pianificato le aggressioni.

L’atto terroristico provoca in chi lo subisce una sottovalutazione del proprio ruolo e della propria possibilità di reazione e una parallela sopravvalutazione della forze e del potere di chi lo attua.

La suggestione inibisce il ragionamento

Di fronte alla prorompente ondata emotiva scatenata dall’atto terroristico si produce in chi ne resta coinvolto, anche solo come inerme spettatore, un condizionamento psicologico che dà luogo ad una suggestione collettiva, ossia un convincimento indotto da una forza esterna alla quale non si riesce ad opporsi con sufficiente fermezza.

Come ci spiega il filosofo John Dewey, la suggestione è una risposta istintiva, che sfugge al nostro controllo, e che si innesca in una situazione di sconvolgimento generando un’idea di soluzione che ci tolga dagli impicci.

Per arrivare ad una soluzione pratica, alla suggestione deve poter subentrare un processo di intellettualizzazione che approfondisca il pensiero iniziale osservando e mettendo a fuoco il problema. Da qui nascerà l’idea che anticipa la possibile soluzione. E’ il ragionamento che, verificando le ipotesi sulla base delle esperienze acquisite, indicherà quali conseguenze si verificheranno se l’idea verrà adottata.

Cosa fare?

Sempre dagli studi effettuati dal dottor Cannavicci (2019) emerge come la reazione più efficace agli atti terroristici sia di mantenere il più possibile la nostra quotidianità, le nostre abitudini, non consentendo che paura e smarrimento condizionino la nostra vita.

Difficile, certo, ma possibile. Un modo di affrontare la tragica notte di Parigi, e altre che le sono tristemente affini, ce lo propone una canzone, “Bataclan” appunto, che proprio quella sera ha preso vita e che ci viene raccontata dal suo autore.

Massimo Priviero racconta il suo “Bataclan”

 Accadde una sera di metà novembre. E avevo un concerto giusto il giorno dopo che, diversamente da quel che accadde per il novanta per cento dei casi, decisi di non annullare. Mi portai a casa l’emozione fragile e commossa di quella sera mentre cuore e testa continuavano a girare intorno all’attentato che c’era stato a Parigi. Parigi dolcissima. Carica di ricordi splendidi dei miei vent’anni quando ad esempio più volte mi era capitato di andarci e di mantenere i miei viaggi a prezzo ridotto suonando a qualche fermata di metropolitana. Dopo l’attentato, mi ritrovai a scrivere questa canzone quasi inevitabilmente e in modo del tutto naturale. Tuttavia non volevo che scoppiasse alcuna bomba. Mi sembrava stupido che questo accadesse quanto mi arrivava inutile una qualsiasi condanna che potevi facilmente fare riferendoti a un qualche criminale suicida. La dolcezza di un sentimento doveva vincere su qualsiasi morte, anche la più terribile, anche la più ingiusta. Vidi in televisione i genitori di Valeria (Solesin, la giovane vittima italiana), li sentii parlare della figlia con una nobiltà e con una serenità che mi commosse come poche volte mi era accaduto. Pensai che nessun accadimento avrebbe mai potuto vincere simile nobiltà. Pensai a quanto imbattibile è l’amore che lega una madre ad un figlio. Dunque delle bombe e degli spari non mi importava proprio più niente come non mi importava niente considerare quali mai potessero essere le misure giuste da prendere per fermare dei pazzi criminali. Non avevo conoscenza al riguardo. A quali potessero essere i modi migliori per arginare certe cose ci avrebbe pensato chi era preposto a farlo, inevitabilmente sbagliando come spesso i fatti hanno dimostrato. Tuttavia, amor vincit omnia è stato scritto. Oh, non mi riferisco all’amore da dare al fratello che ti spara in fronte, non credo neppure che sarei capace di farlo. Intendo ancora l’amore che nessuna morte può uccidere finché solo un frammento di questo potrà sopravvivere fors’anche in un angolo di memoria. Così pensando scrissi questo dialogo leggero tra Valeria e la sua mamma, così pensando mi venne di provare a fissare un sorriso bellissimo di una giovane donna partita senza paura per giocarsi le proprie carte di vita lungo un boulevard. Credo davvero che, in qualche modo, questa giovane vita non sia finita in una sera dentro ad un locale di Parigi. Immagino che questa continui, come se fosse stata fatta propria da tante altre giovani vite che si muovono per gli stessi boulevard in modo simile al suo. Un modo forte, bellissimo, carico di sole e desideroso in qualche misura di stringere la mano di chi si muove vicino a te. No, non credo affatto che la vita di Valeria Solesin sia finita una sera a Parigi in un locale chiamato Bataclan.

 

BATACLAN – LA CANZONE DI MASSIMO PRIVIERO:

 

Adottare comportamenti di sostenibilità ambientale. Cosa ci motiva?

Nonostante il forte interesse creato intorno alla problematica ambientale, non tutti condividono la necessità di cambiare le proprie abitudini e di impegnarsi in comportamenti a favore dell’ambiente (O’Brien, 2015). Per questo motivo la psicologia si è recentemente interessata ad approfondire quali fattori spingano le persone ad intraprendere condotte a supporto dell’ecologia.

 

Il 23 settembre 2019 la giovane attivista svedese Greta Thunberg ha tenuto un discorso sul clima particolarmente accorato al summit Onu, che ha fatto molto discutere i media di tutto il mondo (United Nations, 2019). In questo discorso, la giovane attivista ha rimproverato duramente i leader mondiali accusandoli di non fare abbastanza per fronteggiare l’emergenza climatica, e focalizzando l’attenzione sul fatto che la sostenibilità ambientale dovrebbe diventare la priorità delle politiche sociali di tutti i governi del pianeta (United Nations News, 2019).

Greta Thunberg è diventata il nuovo volto del movimento ambientalista di tutto il mondo, riuscendo a coinvolgere e sensibilizzare un numero sempre maggiore di persone intorno al climate change (SWG, 2019). Le nuove generazioni sembrano essere quelle che hanno recepito maggiormente la rilevanza di questa problematica (SWG, 2019), come dimostrato dalla straordinaria partecipazione degli studenti al 3° Global Strike For Future, un grande programma di eventi e manifestazioni di sensibilizzazione della popolazione mondiale sul tema dei cambiamenti climatici (Fridays for Future Italia, 2019).

La ricerca ha chiaramente dimostrato che i problemi ambientali sono il risultato del comportamento dell’uomo (Cook, et al., 2013; 2016; Trenberth, 2018), e che situazioni quali l’inquinamento dell’aria, l’aumento dei gas serra, la deforestazione, e la contaminazione delle acque sono conseguenze dirette dell’impatto degli esseri umani sulla natura (IPCC, 2014). Se in passato c’era meno consapevolezza della problematica ambientale, oggi sempre più persone decidono di apportare cambiamenti al proprio stile di vita assumendo comportamenti in linea con le richieste ambientali (Ballew, et al., 2019). Tuttavia, nonostante il forte interesse creato intorno a questa tematica, non tutti condividono la necessità di cambiare le proprie abitudini e di impegnarsi in comportamenti a favore dell’ambiente (O’Brien, 2015). Per questo motivo la psicologia si è recentemente interessata ad approfondire quali fattori spingano le persone ad intraprendere condotte a supporto dell’ecologia.

Alcuni studi basati sulla Self-Determination Theory (SDT; Ryan, & Deci, 2017), hanno iniziato ad indagare i fattori motivazionali che portano alla decisione di avere uno stile di vita a basso impatto ambientale. In una rassegna di studi, Pelletier, Baxter, e Huta (2011) hanno osservato che quando si è intrinsecamente motivati verso comportamenti a favore dell’ambiente si tende ad intraprendere con maggiore frequenza, continuità ed impegno attività quali: riciclo, riutilizzo prodotti, risparmio energetico e di risorse. La motivazione intrinseca, infatti, fa riferimento alla tendenza a svolgere una determinata azione per l’esclusivo piacere e la soddisfazione nel compierla (es. riciclare per il piacere di migliorare la qualità dell’ambiente) e si contrappone alla motivazione estrinseca che invece è caratterizzata dalla tendenza a fare qualcosa non per la condivisione o l’interesse dell’attività, ma per ottenere una conseguenza positiva o evitarne una negativa (es. riciclare per evitare una multa). Anche la motivazione estrinseca può promuovere l’uso di stili di vita eco-sostenibili, ma generalmente questa tipologia di motivazione è efficace solo nel breve periodo e tende a mantenere i comportamenti contingenti alla presenza dei fattori esterni (Ryan, & Deci, 2017). Riprendendo l’esempio precedente, se la motivazione è prettamente estrinseca, si potrebbe osservare una riduzione delle attività di riciclaggio appena le multe non vengono più fatte. Naturalmente, queste due tipologie di motivazione non sono categorie auto-escludenti, ma descrivono maggiormente un continuum, in cui ciascuna azione può essere guidata da una serie di motivi di natura più o meno intrinseca o estrinseca (Ryan, & Deci, 2017). Tuttavia, in generale, gli studi hanno messo in evidenza che, specialmente nei comportamenti a supporto dell’ambiente che risultano più difficili e quindi meno frequenti, è la motivazione intrinseca che riesce ad innescare il desiderio di intraprendere una determinata attività e che riesce a mantenerla stabile nel lungo termine, nonostante le avversità (Osbaldiston, & Sheldon, 2003).

Considerata l’importanza della motivazione intrinseca, risulta quindi cruciale identificare i fattori che possono promuovere questa forma di spinta verso uno stile di vita a basso impatto ambientale (Pelletier, 2002). Infatti, come è prevedibile, non tutti considerano la questione ambientale così fondamentale da apprezzare l’importanza di svolgere attività come differenziare i rifiuti, uscire a piedi, in bici, con i mezzi pubblici o acquistare prodotti eco-friendly. Tuttavia, in accordo con la teoria generale della SDT, i comportamenti eco-sostenibili che inizialmente sono motivati da fattori estrinsechi hanno la possibilità di essere internalizzati ed integrati con i propri valori diventando gradualmente più intrinsecamente motivati (Ryan, & Deci, 2017). Questo processo di internalizzazione ed integrazione è facilitato dalla presenza di contesti sociali che siano in grado di supportare la soddisfazione dei tre bisogni psicologi degli essere umani (autonomia, competenza e relazione).

Tra i contesti sociali che possono favorire o ostacolare l’internalizzazione dei comportamenti rispetto all’ambiente, risulta esserci l’organizzazione governativa di un paese che ha la responsabilità di definire e predisporre programmi di eco-sostenibilità a livello locale e nazionale (Pelletier, 2002). Diversi studi (Lavergne, Sharp, Pelletier, & Holtby, 2010; Marshall, Hine, & East, 2017) hanno mostrato che la percezione che i cittadini hanno delle politiche sull’ambiente del proprio governo è in relazione alla propria motivazione e ai comportamenti pro-ambiente riferiti. Nello specifico, se il cittadino percepisce che i programmi governativi per l’ambiente sono a sostegno dell’autonomia della comunità e degli individui, tende anche ad avere maggiore motivazione intrinseca ed anche un conseguente incremento di comportamenti eco-sostenibili. Al contrario, i governi percepiti come coercitivi nell’applicare i propri programmi a ridotto impatto ambientale sono associati a maggiore motivazione estrinseca da parte dei cittadini con una minore ricaduta sulla frequenza di azioni ecologiche. Oltre al supporto all’autonomia, diversi studi (Pelletier, & Sharp, 2008; Pelletier, & Aitken, 2014) suggeriscono che, per facilitare lo svolgimento di comportamenti pro-ambiente, i governi dovrebbero iniziare un percorso di sensibilizzazione centrato sull’impatto che il comportamento dei singoli individui possa avere sull’intera comunità. L’educazione ambientale dovrebbe quindi mettere in risalto le modalità che portano i singoli gesti ecosostenibili ad essere effettivamente d’aiuto per se stessi, ma anche per le future generazioni. Inoltre, per facilitare l’interiorizzazione di questi comportamenti eco-sostenibili, risulta indispensabile favorire la comprensione dei processi per cui un comportamento specifico possa effettivamente funzionare e spiegare le ragioni per cui sia importante implementarlo. Allo stesso modo, fornire un quadro ampio e completo di comportamenti eco-sostenibili da poter mettere in atto per salvare il pianeta può facilitare nel cittadino la volontà di trovare la forma più adatta per iniziare il cambiamento del proprio stile di vita.

La sostenibilità ambientale è stata definita la sfida da vincere a tutti i costi per la sopravvivenza dell’umanità (Guterres, 2019). Per questa ragione, motivare le persone a cambiare le proprie abitudini per permettere la tutela dell’ambiente e la riduzione dei rischi per il clima e la salute umana è diventato un compito di cruciale importanza. La psicologia, attraverso anche i contributi della Self-Determination Theory, sta portando avanti un filone di studi volti a comprendere quali strategie mettere in atto per favorire questo cambiamento. Risulta quindi chiara la necessità di una collaborazione di tutte le parti in causa verso l’applicazione di un piano di azione condiviso e lungimirante, che ottenga non solo cambiamenti provvisori, ma che promuova una piena internalizzazione della questione ambientalista in modo da avere risultati a lungo termine.

Il dono nella cultura romana: dal dono al senso di appartenenza

I romani al pari dei greci tenevano in maniera particolare all’ospitalità, anche se presero delle contromisure di ordine normativo e legale. Infatti, gli ospiti dovevano avere un lasciapassare che se, l’ospite era straniero, era un documento che attestava la sua identità e del paese o tribù da dove proveniva. Se l’ospite, invece, era legato da un vincolo di ospitalità, così come in Grecia, era dotato da una tessera hospitalis costituita da un oggetto diviso in due.

 

L’ospitalità romana trovava il massimo dell’espressione a tavola dove venivano preparati grandi pietanze e veri e propri spettacoli dedicati agli ospiti. L’invito ad un banchetto era un modo per poter legare rapporti sociali e personali. A tavola si parlava di politica, di filosofia, di arte, di musica, etc. Si racconta che Lucullo, conosciuto per l’estrema cura con cui preparava i banchetti e per la qualità dei cibi, invitò a cena Cicerone poiché quest’ultimo insinuava che se qualcuno fosse andato a casa di Lucullo senza preavviso avrebbe trovato un misero pasto. Lucullo invitò seduta stante Cicerone a cena senza preavvertire i cuochi e i camerieri dicendo al suo servo semplicemente di preparare e servire la cena nella sala Apollo. Il servo capì che il padrone avrebbe avuto ospiti importanti e fece servire una ricca cena. Il dono, ancora una volta, serve a far legame ma, anche, a dimostrare il proprio rango.

La sistematizzazione e la descrizione del dono, nella cultura latina, si deve a Cicerone con il De Officiis e a Seneca con il De beneficiis. I due termini indicano rispettivamente il rapporto o la relazione che si viene a creare tra ricevente e donatore (officium) e quella tra donatore e ricevente (beneficium). A. Accardi sostiene che ambedue gli autori costruiscono le loro opere sul beneficium come simbolo fondante la società creando e mantenendo i legami interpersonali. Per Cicerone il beneficium deve ispirarsi all’utilitas communis, mentre per Seneca sono benevolentia e amor che soli possono garantire la salvaguardia della relazione e della reciprocità.

Il dono inteso come modalità e/o simbolo per creare legami trova riscontro con gli studi di Mauss e Malinoski e, quindi, attiene al donare-ricevere e ricambiare. L’ Accardi, nel suo libro, mette l’accento sul contraccambiare e su come Seneca sostenga che il beneficium stia nell’atto del donare anche quando non vi è nessuna restituzione. Se non c’è contraccambio non si deve smettere di donare poiché, come sostiene Seneca, nullum perit. Al contrario, il donare senza ricevere niente in cambio, porta a guadagnare virtù e sapienza. La perdita legata alla mancata restituzione, invece, inficia il legame poiché se dal beneficium ci si attende un ritorno vuol dire che si dona con ingratitudine. Per Seneca si deve donare con humanitas, senza nessun tipo di arroganza onde evitare, da un lato, di mettere in difficoltà il ricevente e, dall’altro, di inserire il beneficium all’interno di un contesto di tipo economico come una pratica usuraia. Inoltre, in caso di mancata restituzione, bisogna perdonare il ricevente.

M.Lentano (2005), partendo dai lavori di Seneca e Cicerone, mette in risalto l’atto del donare nella cultura e negli usi e costumi dell’antica Roma facendo rilevare la natura del legame che si determina tra donatore e ricevente. Se si dona in maniera arrogante, senza humanitas, il rischio è di scatenare nel ricevente una reazione violenta che può anche portare all’uccisione del donatore. Se si riceve senza contraccambiare si passa come uomini poco onorevoli. Il donare, quindi, crea un obbligo nel ricevente tant’è che accettare un dono non è cosi semplice perché crea un obbligo. Il termine officium, relativo al contraccambiare, indica un dovere vincolante alla stessa stregua di una norma giuridica. Cicerone afferma che ricambiare un beneficio è anzi il più necessario fra tutti gli officia. Lantano riporta un’analisi dello storico francese Floro, il quale sostiene che la caduta di Cesare sia dovuta alla sua eccessive donazioni che hanno creato parecchio malcontento nella popolazione, che ha visto messa in pericolo la sua libertà. Riporta anche la descrizione di Polibio riguardo alla corona civica, un riconoscimento militare dovuto a chi salvava la vita di un commilitone in battaglia. L’incoronazione veniva fatta dal soldato salvato, che in questo modo si legava per sempre con il suo salvatore da un rapporto di riconoscenza. A volte i soldati salvati si rifiutavano e venivano costretti con la forza ad incoronare il compagno. Il rifiuto era dovuto alla particolare condizione in cui si sarebbe trovato da quel momento in poi ovvero quella di servatus, che a Roma indicava una persona che si assumeva un debito perenne che non poteva contraccambiare. Addirittura, da quel momento in poi, il salvatore costituiva un secondo padre per il salvato. Cicerone a questo proposito scrive che per tutta la vita viene venerato come un padre dal suo beneficato e riceve da lui tutti gli onori riservati al proprio genitore. Sempre Lantano fa rilevare che nella cultura latina la figura del padre è il beneficium datae vitae che fa nascere un legame incondizionato e non risarcibile poiché le eventuali controprestazioni che quest’ultimo potrebbe erogare a vantaggio del padre dipendono tutte, in ultima analisi, da quel primo beneficio paterno, senza dunque mai poterlo appieno eguagliare. I benificia paterni non si limitano soltanto al dare la vita ma, come riporta Livio, anche all’introdurre alla vita sociale e garantire la libertà. Inserendolo nella vita sociale, lo introduce anche alla patria che costituisce una meta struttura nel senso che è un antico parente che precede anche il padre biologico e concede gli stessi beneficia di quest’ultimo. Concedendo gli stessi beneficia comporta che gli abitanti sono sottoposti agli stessa officia. Il primo di questi obblighi è quello di essere costretti a dare la vita per la patria, la quale, come il padre, dà la vita ma può anche toglierla. E la toglie sotto l’ effetto del beneficium ovvero rendendo obbligato il ricevente.

Più avanti parleremo di un rito sociale presente in Sicilia – la fuitina – e di una storia tra reale e racconto – la baronessa di Carini – in cui si nota come questi concetti abbiano avuto una lunga storia. Inoltre, più avanti, analizzeremo anche il possesso dei figli che per la cultura greca e romana erano dei padri e nella nostra sono delle madri, con tutte le aberrazioni legate a questi accostamenti. Vorrei far notare come il confine tra dono e dono avvelenato nella cultura romana è sottilissimo ed anzi possiamo anche affermare che, in funzione del legame tra donante e ricevente, il dono contiene in sé ambedue gli elementi ovvero sia il benefico sia il veleno.

Il dono della vita affidata al padre trova riscontro anche nei riti quotidiani legati ai lari e ai penati. Era compito del capofamiglia occuparsi dell’edicola in cui venivano custoditi e offrire ad ogni pasto il cibo, in particolare, il sale, che purifica e conserva, e il farro primo cereale coltivato dai romani. L’offerta chiaramente era di natura simbolica e richiamava le origini (il farro) e la conservazione della discendenza (il sale). La vita è un beneficio che va custodito e conservato lungo l’arco delle generazioni: la presenza dei lari e dei penati all’interno della casa non fa altro che richiamare il principio del dono della vita. La posizione occupata dell’edicola all’entrata della casa indica che la storia di quella famiglia e dei suoi membri va letta attraverso le generazioni. L’occupazione dello spazio non è mai casuale, anche se spesso ci appare in questo modo, ma è la modalità di esprimere i legami che, come sembra ovvio, in base alla distanza sono percepiti come vicini o lontani. Per i romani non è sicuramente casuale, quindi, collocare i lari e i penati all’inizio della domus, non solo come protezione, come spesso è stato interpretato, ma ad indicare anche il luogo da cui tutto ha origine.

La nostra storia generazionale non solo ci protegge dalle intemperie della vita, ma, allo stesso tempo, costituisce, in senso lacaniano, il luogo dell’altro nel quale possiamo riconoscerci. Ripercorrendo lo stesso legame che lega i padri alla patria, a Roma vi erano anche i lari e i penati pubblici, che con le stesse modalità lega a sé gli abitanti. Tutti noi ci riconosciamo nel nostro paese, nella nostra regione, nel nostro stato. Non è un caso che differenziamo gli italiani dai tedeschi, gli austriaci dagli inglesi e così via. Ci riconosciamo all’interno di un contesto simbolico condiviso a cui ci sentiamo di appartenere. Il senso della patria, infatti, costituisce un processo di riconoscimento e sviluppa il senso di appartenenza. E’ un legame tanto forte quello che ci lega alla patria che, così come siamo disponibili a dare la vita per la nostra famiglia, per i nostri parenti, allo stesso modo la mettiamo al servizio della patria. Nei romani, un popolo essenzialmente di guerrieri, il dare la vita per la patria costituiva un modo per ricambiare il dono della vita che avevano ricevuto dai loro padri e dalle generazioni precedenti. Tanti poeti hanno dedicato poesie alla patria da Petrarca, a Carducci, a Leopardi, a Brecht, a Ungaretti e così via. Alcuni sono andati oltre esaltando le loro origini come Foscolo con la poesia A Zante e S. Mazza con Signuri, vogghiu briviscriri linguarrussisi (Signore, voglio rinascere linguaglossese), dedicate alle città che sono stati costretti ad abbandonare. La distanza, la lontananza, non rompe il legame, al contrario lo ravviva e lo rafforza riempiendolo di nostalgia.

Il dono serve a stabilire legami facendoci appartenere a un territorio, a una famiglia, a una stirpe, a una nazione, alla patria. Già Maslow ha messo in risalto che la base motivazionale che muove il comportamento umano oltre che dai bisogni fisiologici è determinata dal bisogno di appartenenza. Baumeister e Leary sostengono anch’essi che l’individuo sente il bisogno impellente di appartenere e, quindi, di formare relazioni. La matrice prima del senso di appartenenza viene identificata nella famiglia razionalizzandola con la consanguineità. Eppure le famiglie, lungo l’arco della trasmissione generazionale, fanno un lavoro al fine di conglobare i nuovi membri all’interno della loro stirpe. Alla nascita si sceglie il nome da dare al nuovo arrivato che generalmente era (attualmente questa tradizione è andata persa) quello del nonno/a paterno/a o materno/a a seconda dell’ordine di nascita. Il nome crea un legame immediato, ti chiami come tuo ……. Per dare senso a questo legame, anche quando l’antenato era defunto, così come detto in articoli precedenti, in Sicilia, durante la commemorazione dei defunti, quest’ultimi portavano, come quelli in vita nelle feste comandate, i doni. Il nome ed il cognome indicano che apparteniamo ad una famiglia, di cui siamo l’incarnazione dell’intera storia, ad un luogo, ad un territorio. Le storie familiari raccontate dai nonni o dai genitori hanno lo scopo di inglobarci all’interno della storia della nostra famiglia in modo da rappresentare la continuità generazionale. Il dramma vissuto dalle coppie che non possono avere figli e, quindi, garantire la continuità generazionale è il rovescio della medaglia del senso di appartenenza. E’ lo stesso dramma che vivono oggi molte famiglie con figli adottati le quali tentano, tante volte inutilmente, di far entrare i bambini adottati all’interno della loro storia generazionale e inevitabilmente si scontrano con la ricerca delle proprie origini da parte degli stessi ragazzi, una volta diventati adulti. Pensiamo per un attimo al dramma esistente qualche hanno fa sulla mancata nascita del figlio maschio che in quanto portatore e trasmettitore del cognome della famiglia poteva garantire la continuità generazionale.

Il nome e il cognome, soprattutto quest’ultimo, connotano, non solo che apparteniamo a quella famiglia, ma la stirpe di provenienza. In Sicilia per indicare la stirpe ogni famiglia aveva un sopranome che indicava le caratteristiche di provenienza e le peculiarità. La particolarità del sopranome era che non si perdeva mai neanche dopo il matrimonio. Infatti, le donne dopo il matrimonio magari perdevano il loro cognome indicandosi come la signora …. con il cognome del marito, ma restavano comunque x o tali con il sopranome. Un esempio di quanto affermato lo possiamo trovare nel libro Genti di linguarossa di S. Mazza (1).

Il nome ed il cognome, inoltre, ci danno informazioni sul luogo e il territorio da cui proveniamo. In ogni territorio e luogo vi sono nomi tipici di quel posto. A volte basta sentire il nome per capire da dove possa provenire il nostro eventuale interlocutore. Ciò è maggiormente valido per i cognomi i quali sono distribuiti all’interno di un territorio e luogo particolare. Tra l’altro cercando attraverso il cognome possiamo risalire all’origine delle famiglie. Giustamente Cigoli sostiene che con l’eredità non si trasmettono solo beni materiali, ma anche e soprattutto una storia familiare, che lui stesso insieme a Scabini ha indicato come il famigliare.

 

Jung e Neumann. Psicologia analitica in esilio. Il carteggio 1933-1959 – Recensione del libro

Nel quadro generale della Jung-Renaissance, la pubblicazione del carteggio tra Carl Gustav Jung e Erich Neumann rappresenta un evento importante per i cultori della psicologia analitica. Costituisce infatti una testimonianza dell’intenso rapporto tra Jung e colui che viene quasi universalmente riconosciuto come il suo più importante allievo.

 

Quella che potrebbe essere definita una vera e propria “Jung Renaissance” continua a riservare importanti sorprese. Dopo la pubblicazione del Libro rosso, dieci anni fa, sono apparsi, e sono stati rapidamente tradotti in italiano, nuovi epistolari e nuove trascrizioni dei Seminari, cioè delle lezioni che Jung teneva in forma privata per i suoi allievi (salvo quello su I sogni dei bambini, tenuto all’Università di Zurigo; sulle altre uscite recenti di opere junghiane, mi permetto di rimandare a Innamorati, 2018). Né questa ondata sembra avere termine, dato che grazie all’infaticabile lavoro di Sonu Shamdasani, il massimo esperto vivente di Jung, appariranno ben presto due ulteriori vere e proprie perle della collana degli inediti. Nel 2020, infatti, vedrà la luce la prima edizione del Libro nero, cioè di quella sorta di diario della pratica dell’immaginazione attiva, solo una parte del quale venne trascritta nel Libro rosso. Presumibilmente nel 2021, invece, saranno pubblicati i protocolli originali delle interviste che Aniela Jaffè condusse a Jung, per la redazione della cosiddetta autobiografia junghiana, cioè Ricordi, sogni, riflessioni (Jung, 1961). Come è noto, infatti, solo la primissima parte di quest’ultimo libro è direttamente riconducibile alla mano di Jung, mentre per il resto la sua segretaria Jaffé ricorse a propri appunti, basati su conversazioni che non vennero riportate, a quanto pare, in modo completamente fedele.

Nel quadro generale della Jung-Renaissance, la pubblicazione del carteggio tra Carl Gustav Jung e Erich Neumann rappresenta un evento importante per i cultori della psicologia analitica. Costituisce infatti una testimonianza dell’intenso rapporto tra Jung e colui che viene quasi universalmente riconosciuto come il suo più importante allievo. Edito per la prima volta in traduzione inglese nel 2015, l’epistolario Jung-Neumann ha avuto nella versione italiana una storia travagliata, prima di vedere definitivamente la luce quest’anno. L’editore Moretti & Vitali ha infatti pubblicato in prima istanza il libro nel 2016, con una copertina che recava “edizione italiana a cura di Luigi Zoja”. Ritirato rapidamente dal commercio, per imposizione della Fondazione Philemon, che cura le nuove edizioni junghiane, il libro è stato riedito quest’anno in una nuova veste, che riporta invece sotto il titolo “Edizione e introduzione a cura di Martin Liebscher”. Vale la pena di spiegare qual è la differenza tra il volume pubblicato tre anni fa e quello uscito quest’anno, in modo da comprendere la durissima reazione della Fondazione, di Shamdasani e di Liebscher di fronte alla “versione Zoja” del lavoro (Shamdasani, 2018; Liebscher, 2018).

Liebscher, che collabora da anni fianco a fianco con Shamdasani, allo University College London, aveva compiuto un lavoro estremamente accurato nelle edizioni da lui curate in inglese e tedesco. Non soltanto aveva trascritto (e tradotto) gli originali (in parte dattiloscritti e in parte manoscritti), ma aveva corredato il lavoro di un ampio saggio introduttivo e di un ponderoso apparato filologico e esplicativo, basato anche su materiale inedito (lettere di Jung accessibili solo negli archivi), che francamente non abbisognava di alcuna modifica. Al contrario, Luigi Zoja, nella qualità di curatore della versione 2016 dell’epistolario in italiano, decideva di intervenire sul lavoro di Liebscher. Così infatti orgogliosamente scriveva Zoja:

Per l’edizione italiana è stato svolto un ampio lavoro sulle note: molte sono state riadattate, alcune spostate e oltre 150 sono state aggiunte (queste ultime sono contrassegnate con ndt). Nel tentativo di accompagnare il lettore durante l’intero percorso, l’ampio saggio di Martin Liebscher è stato spezzato in tre parti: i primi capitoli sono stati posti all’inizio del carteggio, quelli riguardanti la pausa dovuta alla guerra al centro, e l’ultimo, che tratta dell’eredità di Neumann, dopo l’ultima lettera (ed. 2016, p. 19).

Lo scopo implicito ma evidente di “spezzare” in tre l’introduzione originale era quello di giustificare l’aggiunta di un ulteriore saggio introduttivo (“Prefazione all’edizione italiana”, ed. 2016, pp. 23-39), firmato dallo stesso Zoja, la cui utilità risultava però francamente discutibile. Zoja, va ricordato, è una figura tutt’altro che secondaria nel panorama junghiano non solo italiano, ma anche internazionale. Già presidente dello IAAP (cioè dell’associazione mondiale che raccoglie gli analisti junghiani), è autore di libri degni della massima considerazione, tra i quali si può ricordare almeno Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri), dedicato alla paternità. Non è quindi del tutto incomprensibile che la sua prefazione inizi con le parole “In diverse occasione ho ricordato che la psicoanalisi è stata una delle grandi rivoluzioni del XX secolo”, parole che sotto la penna di molti altri apparirebbero un po’ fuori luogo, nel voler introdurre le lettere tra due geni della psicologia del profondo in modo autoreferenziale. Ciò che però colpisce è che le pagine seguenti non aggiungano granché al saggio di Liebscher (cui più volte rimandavano), salvo voler interpretare la prima parte del carteggio come una sorta di proseguimento dell’analisi di Neumann con Jung:

Se in modo semi-consapevole i due tentarono un nuovo esperimento nel proseguire una analisi per iscritto, mai tentativo così difficile raggiunse un risultato così profondo. Durante questo rapporto il transfert del paziente e il controtransfert (detto anche transfert dell’analista) raggiunsero intensità e profondità difficilmente eguagliate nella storia dell’analisi. E non casualmente, proprio come in un’analisi, le lettere di Neumann includono anche sogni e immaginazioni (ed. 2016, p. 31).

Strana analisi sarebbe, però, quella in cui l’analizzando: critica l’analista e le critiche non vengono interpretate in senso transferale (cioè sul piano del rapporto), ma obiettivo (cioè sul piano del contenuto); formula precise domande e riceve specifiche dirette risposte; imposta il dialogo sul piano culturale e non viene deviato sul piano personale. Che poi il rapporto tra un maestro e un allievo (per quanto originale) sia sempre e comunque riconducibile a un fenomeno di transfert, può essere certo ammesso; ma difficilmente si troveranno elementi proiettivi, tracce di idealizzazione (come di svalutazione, del resto) nelle parole scritte da Neumann: questi, anzi, mostra una notevole obiettività nei confronti di Jung.

Veniamo invece al “lavoro sulle note”, che essendo marcare “ndt” coinvolgono anche la traduttrice Elisabeth Zoja. Confrontando l’edizione 2016 con quella 2019 si osserva che il numero delle pagine rimane costante (448 contro 449; uguale il numero di sedicesimi stampati). Questo significa che per non ampliare la lunghezza del volume, dopo aver inserito venti pagine di ulteriore introduzione, si poneva il problema di tagliare una parte dell’apparato critico originale; problema ulteriormente appesantito dalle “oltre 150” note aggiunte per l’occasione alle 700 circa originali. A cosa serviva compiere un simile lavoro? Presumibilmente a simulare che la curatela italiana avesse arricchito in qualche modo il lavoro compiuto da Liebscher, cosa che viene smentita ampiamente da un confronto tra l’edizione italiana del 2016 e quella del 2019 (che in pratica ripristina tutte le note originali, pur se lasciando in essere una parte delle 150 a suo tempo aggiunte).

Non è nostra intenzione proporre un resoconto sistematico delle differenze tra le due edizioni. Oltre a costituire una fatica improba ciò risulterebbe in uno scritto di assurda lunghezza e nessuna utilità pratica per il lettore eventuale. Offriremo però un piccolo campione di quanto era stato tagliato e quanto era stato introdotto nella prima versione italiana del carteggio. Premettiamo che, salvo non venga diversamente specificato, si farà riferimento alla numerazione delle note contenuta nell’edizione 2019.

Prendiamo come primo esempio la lettera 4N, cioè la prima lettera di Neumann di una certa importanza. Nel corso del testo vengono nominati tre personaggi importanti: Toni Wolff, Gustav Bally e Gerhard Adler, ai quali Liebscher aveva dedicato tre lunghe note. Ebbene, Zoja decideva di tagliare dieci righe dalla nota su Toni Wolff (n. 156) e di eliminare totalmente le note su Bally (n. 157) e Adler (n. 166). Dei tre, il lettore di Jung è più probabile che conosca la prima, a lungo collaboratrice e amante di Jung; la parte tagliata della nota conteneva però, tra l’altro, un’informazione certo non secondaria: il fatto che Neumann e Wolff rimasero in contatto epistolare fino alla morte di quest’ultima. Bally viene nominato di passaggio da Neumann a proposito di una controversia che ebbe con Jung. La nota (oltre a identificare Bally nel contesto storico) chiariva che si trattava di uno scambio di idee pubblicato sulla Neue Zürcher Zeitung (Bally, 1934; Jung, 1934b) a proposito del presunto antisemitismo dimostrato da Jung nel controverso scritto Situazione attuale della psicoterapia (Jung, 1934a). Per quanto la questione sia accennata in parte da Liebscher anche nel saggio introduttivo, certamente si tratta di informazioni che il lettore non iper-specialista merita di trovare in questo contesto. Anche Gerhard Adler è personaggio piuttosto noto ai cultori della psicologia analitica, ma trovare qualche notizia sui rapporti che intrattenne con Neumann difficilmente può essere considerato superfluo. Altre note eliminate da Zoja riguardano il sionismo (n. 170) e il movimento chassidico (n. 169; la nota specifica ricorda tra l’altro come all’argomento Neumann dedicò una conferenza e forse parti di un manoscritto perduto). Altre note di Liebscher venivano invece inutilmente amputate; in particolare quella che tenta di chiarire cosa intenda in un certo passaggio Neumann per “prospettiva goethiana” (n. 84).

Prendiamo come secondo esempio la lettera 5N. Qui Neumann allude per diverse righe al “dottor Kirsch”, a un suo articolo del quale Jung “avrà sicuramente sentito parlare”, a una replica dello stesso Neumann e a un contatto epistolare tra Jung e Krsch. Non si capisce perché il lettore italiano dovesse essere privato delle note che identificano il personaggio cui si allude nell’analista James Isaac Kirsch (n. 186), di quale articolo si trattasse e in che modo Neumann avesse risposto (n. 187); nonché della prima nota che illustra l’esordio dei contatti epistolari tra Jung e Kirsch (n. 188). Anche soppressa risultava la nota su Eva Kirsch (n. 162), moglie di James e a sua volta analista. Neumann cita anche uno scritto di Hugo Rosenthal, pedagogista ebreo tedesco non particolarmente noto al pubblico italiano, cui Liebscher dedica giustamente un’altra nota (n. 190), anch’essa soppressa originariamente dagli Zoja. Questi invece inserivano, per esempio, nell’apparato relativo alla stessa lettera, una nota sulle “funzioni” (pensiero, sentimento, sensazione, intuizione) nei Tipi psicologici di Jung, una che accenna alle differenze tra interpretazione freudiana e junghiana dei sintomi nevrotici, un’altra che chiarisce cosa siano i Protocolli dei Savi di Sion (nell’edizione del 2016, sono rispettivamente le nn. 162, 167, 166). Nei primi due casi si tratta di questioni da una parte ben note al lettore di Jung, dall’altra non certo sintetizzabili efficacemente in poche righe. Quanto ai Protocolli, il cui infausto titolo è conosciuto da chiunque abbia minimamente approfondito la questione “antisemitismo”, ampie informazioni sono reperibili in rete senza alcuno sforzo.

Si sarebbe potuto almeno sperare che la curatela italiana, presentandosi come lavoro ulteriore rispetto all’edizione originale, proponesse una particolare accuratezza nel lavoro. Così però certamente non è. Un paio di esempi al riguardo sono le note 269 e 271 alla lettera 8N. Assenti nell’edizione 2016, tali note vengono ripristinate sciattamente in quella 2019. Vi sono infatti contenute citazioni da Engels, Marx e Heine, che vengono riportate in inglese. Trattandosi di autori di lingua tedesca e nella fattispecie di opere delle quali esiste una traduzione italiana edita, la scelta può essere tacciata almeno di superficialità (sono state riportate le citazioni come si presentano nell’edizione in lingua inglese del Carteggio).

Rispetto a questi marginali difetti, comunque, lo sforzo di ricostruire una versione del libro più conforme al lavoro originale di Liebscher è stato compiuto sostanzialmente con successo. Bisogna esprimere la massima gratitudine agli editori Moretti & Vitali per aver reso disponibile l’opera in italiano e per essersi accollati l’impegno di stamparla due volte, non certo per propria colpa. Sul contenuto di Psicologia analitica in esilio ci ripromettiamo di tornare, dando un seguito a questa recensione.

 

Soddisfare i propri bisogni psicologici all’interno o all’esterno della relazione con il partner: quali gli effetti sulla stabilità della coppia?

Nonostante i benefici legati alla soddisfazione dei propri bisogni all’interno della coppia, tale contingenza non risulta sempre possibile; in questi casi, l’individuo tende a rivolgersi a persone esterne alla coppia. Se questo porta in prima battuta dei benefici all’individuo, in quanto permette di aumentare la probabilità di vedere i propri bisogni soddisfatti, può però avere degli effetti negativi sulla relazione con il partner.

 

Perché gli esseri umani formano e mantengono relazioni con gli altri? A tal proposito sono state ipotizzate cause differenti, come il soddisfacimento di un bisogno di appartenenza, il raggiungimento di un senso di sicurezza simile a quello provato nell’intimità della relazione madre-bambino e il raggiungimento di vantaggi dal punto di vista evolutivo. Seppur in assenza di accordo rispetto a una singola causa specifica, risulta evidente che il formare e mantenere delle relazioni permette agli esseri umani di soddisfare bisogni psicologici fortemente legati al proprio benessere, quali intimità, appartenenza, crescita personale e sicurezza.

In particolare, la relazione con il partner, costituendo uno dei legami affettivi più intimi per l’individuo, risulta spesso la fonte primaria per il soddisfacimento di tali bisogni. Nonostante i benefici legati alla soddisfazione dei propri bisogni all’interno della coppia, tale contingenza non risulta sempre possibile, per una possibile assenza del partner, per l’impossibilità di quest’ultimo di essere di supporto per ogni tipo di bisogno o per la necessità del partner di soddisfare i propri bisogni individuali. In questi casi, l’individuo tende a rivolgersi a persone esterne alla coppia, quali familiari, amici, conoscenti o estranei, per soddisfare i propri bisogni psicologici. Se questo porta in prima battuta dei benefici all’individuo, in quanto permette di aumentare la probabilità di vedere i propri bisogni soddisfatti, può però avere degli effetti negativi sulla relazione con il partner.

In un articolo recentemente pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin, Machia e Proulx (2019) hanno approfondito tramite tre studi differenti quali potessero essere gli effetti del soddisfacimento dei bisogni psicologici all’esterno della relazione di coppia sulla qualità e sulla stabilità di quest’ultima.

Il primo studio si è basato sui dati di un campione di 4681 partecipanti facenti parte dello studio longitudinale Midlife in the UnitedStates (MIDUS). Nello studio è stato chiesto ai partecipanti di riportare il grado di supporto emotivo in termini di ore mensili fornito dal partner o da persone esterne alla relazione di coppia. Inoltre, sono stati selezionati nel database MIDUS dati per ogni partecipante relativi alla qualità della propria relazione di coppia e alla presenza di pensieri relativi al porre fine a tale relazione. Al termine delle analisi, Machia e Proulx (2019) hanno evidenziato che la ricerca di supporto emotivo all’esterno della relazione di coppia ha effetti particolarmente negativi sulla relazione stessa: infatti, a prescindere dal grado di supporto emotivo offerto dal partner, ricevere soddisfazione rispetto ai propri bisogni psicologici all’esterno della relazione è risultato associato al valutare la propria relazione di coppia come meno stabile.

Per approfondire i risultati del primo studio ne è stato condotto un secondo, nel quale è stato indagato se il ricevere soddisfazione rispetto ai propri bisogni da parte di persone esterne alla relazione rendesse le persone più consapevoli della presenza di altre opzioni relazionali valide a cui rivolgersi oltre al partner, minando quindi la qualità e la stabilità della relazione di coppia. Per il secondo studio sono stati reclutati 413 studenti universitari ai quali è stato chiesto di compilare questionari self-report strutturati per indagare la qualità percepita delle alternative relazionali rispetto al partner, i pensieri relativi al concludere la propria relazione di coppia e la fonte del soddisfacimento di propri bisogni psicologici specifici. Al termine delle analisi è stato evidenziato che, se il soddisfare i propri bisogni psicologici all’interno della relazione di coppia è risultato associato negativamente con la qualità percepita delle alternative, il soddisfare tali bisogni con persone che non fossero il partner risultava associato a una valutazione positiva di tali alternative. Quest’ultima associazione risulta confermata anche prendendo in considerazione il livello di sostegno affettivo ricevuto dal proprio partner. Inoltre, è stato evidenziato che il soddisfacimento dei propri bisogni psicologici da persone esterne alla relazione di coppia risultava associato indirettamente a pensieri relativi al concluderla, e tale associazione risultava mediata dalla percezione positiva delle alternative relazionali al partner.

Tali risultati hanno trovato piena conferma in un terzo studio, per il quale sono state reclutate 40 coppie alle quali è stato richiesto di compilare gli stessi questionari dello studio precedente una volta alla settimana per un mese. Tale disegno di ricerca è stato impostato per valutare la tenuta nel tempo delle associazioni evidenziate al termine dello studio precedente, le quali sono state riconfermate anche a livello longitudinale.

Rispetto ai risultati emersi nei tre studi condotti, Machia e Proulx (2019) ipotizzano che sia possibile che nel momento in cui un individuo si trova a dover soddisfare i propri bisogni psicologici all’esterno della relazione di coppia, realizzi la presenza di alternative relazionali al partner, il quale non risulta l’unica relazione su cui fare affidamento. Questo non si traduce necessariamente con la ricerca di un’altra relazione di coppia, ma percepire che è possibile soddisfare i propri bisogni con persone esterne alla coppia permette all’individuo di considerare in modo maggiormente positivo ipotesi alternative, quali essere single, uscire con gli amici o trovare un altro partner in futuro, in quanto la soddisfazione dei propri bisogni psicologici non ne risulterebbe compromessa.

 

Connect di M. Moretti: un programma di promozione e prevenzione basato sulla teoria dell’attaccamento

Ad oggi, Connect è l’unico programma di parenting basato sull’attaccamento per genitori di ragazzi adolescenti. E’ un programma focalizzato sul potenziamento degli elementi di base che costituiscono un attaccamento sicuro: la funzione riflessiva genitoriale, la sensibilità e la mind-mindedness dei genitori, la collaborazione condivisa e una regolazione affettiva reciproca a livello diadico.

 

È ormai ben conosciuta la relazione tra la sicurezza dell’attaccamento nella relazione genitore-adolescente, la salute mentale e le funzioni socioemotive (Benson, Buehler & Gerard, 2008; Kobak, Zajac & Smith, 2009) ed è stato evidenziato a più riprese come un tipo di attaccamento sicuro sia associato ad una buona regolazione delle proprie emozioni e ad un processo di transizione sano verso l’autonomia durante l’adolescenza (Pascuzzo, Cyr & Moss, 2013). Anche se la maggioranza degli studi nell’ambito della teoria dell’attaccamento si sono concentrati sul significato delle relazioni d’attaccamento nella prima infanzia, o in età adulta, negli ultimi dieci anni si è assistito a un crescente interesse nell’applicazione della teoria dell’attaccamento alla comprensione degli adolescenti, anche per la promozione della salute mentale. Studi recenti indicano che, come i bambini più piccoli, anche gli adolescenti che hanno un tipo di attaccamento sicuro con i genitori vivono con meno stress il passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria, fanno meno esperienza della solitudine e della depressione, hanno meno probabilità di sperimentare l’uso di sostanze e sono più propensi a sentirsi sicuri e ad essere empatici con gli altri (Doyle & Moretti, 2001). Al contrario, l’attaccamento insicuro nell’adolescenza è associato ad una serie di problemi di salute mentale, tra cui anche l’abuso di sostanze psicoattive (Allen & Land, 1999). Anche se l’attaccamento ai genitori continua ad essere importante durante l’adolescenza, le funzioni del legame con i genitori cambiano. La vicinanza fisica al caregiver diventa meno importante rispetto all’infanzia e gli adolescenti si affidano sempre di più al gruppo dei pari quando sono in difficoltà. Ciò nonostante, gli adolescenti continuano a rivolgersi ai loro genitori come base sicura da cui negoziare l’autonomia ed iniziare ad esplorare. L’autonomia è facilitata dalla disponibilità, dall’impegno e dall’accettazione da parte dei genitori, in particolare a fronte dei conflitti e del processo di differenziazione dell’identità, caratteristici di questo periodo di sviluppo.

Partendo da questi presupposti teorici nasce il Programma Connect Parent Group (Moretti, Holland & Peterson, 1994; Moore, Moretti & Holland, 1998; Moretti, Holland & Moore, 2002), un programma di intervento evidence-based di sostegno della genitorialità che ha alla base la teoria dell’attaccamento. È stato sviluppato per offrire un programma attachment-based per genitori e altri caregiver di preadolescenti e adolescenti con seri problemi comportamentali e con altre difficoltà riguardanti la salute mentale, tra cui anche il disturbo da uso di sostanze (Moretti et al., 2004; Steele & Steele, 2018). Rifacendosi alle ricerche che mostrano come il supporto alla genitorialità rappresenti un rilevante fattore protettivo per lo sviluppo dei giovani, l’obiettivo del programma è quello di migliorare la sensibilità dei genitori, la sintonizzazione, l’empatia e di sviluppare una regolazione affettiva diadica efficace. Il programma mira, inoltre, a promuovere l’adattamento sociale, emotivo e comportamentale dei ragazzi. Ad oggi, Connect è l’unico programma di parenting basato sull’attaccamento per genitori di ragazzi adolescenti. E’ un programma focalizzato sul potenziamento degli elementi di base che costituiscono un attaccamento sicuro: la funzione riflessiva genitoriale, la sensibilità e la mind-mindedness dei genitori, la collaborazione condivisa e una regolazione affettiva reciproca a livello diadico.

Descrizione

Il programma ha una durata di 10 settimane, è proposto a cadenza settimanale ed è condotto in forma di gruppo (dove possono esserci massimo dieci partecipanti) da due professionisti certificati, denominati leader. L’obiettivo è quello di sostenere i genitori di pre-adolescenti e adolescenti con problemi comportamentali ed emotivi ad affrontare le tensioni e le questioni familiari con i figli in maniera più consapevole ed efficace. Ogni sessione ha la durata di 90 minuti e affronta argomenti chiave della comunicazione genitore-figlio sulla base di un insieme di contenuti e di procedure di conduzione specifiche. Ogni sessione inizia con la discussione su un aspetto dell’attaccamento specifico dell’adolescenza e su situazioni che comunemente mettono alla prova la relazione genitore-adolescente, viene condotta attraverso esempi, giochi di ruolo e didattica di contenuti presentati in forma esperienziale (Moretti et al., 2004; Steele & Steele, 2018). Connect introduce i genitori ai concetti tipici della teoria dell’attaccamento che vengono trattati ogni settimana, accompagnati da dispense per aiutare i genitori a riflettere su come questi si applicano al loro rapporto con i figli. Il modello che fa da base a questo programma di parenting si fonda su quattro passaggi fondamentali: ridurre i sentimenti di angoscia dei genitori; sviluppare la capacità riflessiva e la consapevolezza sull’attaccamento; incrementare le capacità dei genitori di fornire un rifugio e una base sicura; rafforzare il legame tra genitori e adolescenti (Steele & Steele, 2018).     

Evidenze

I partecipanti al progetto pilota erano 16 adolescenti (8 maschi; 8 femmine), di età compresa tra i 13 ed i 16 anni (M = 14.80, DS = 1,03) e i loro caregiver (13 madri biologiche, 1 matrigna, 2 madri adottive, 5 padri biologici, 3 padri adottivi). I ragazzi sono stati inclusi nel programma attraverso il loro invio da parte del Maples Adolescent Treatment Center, una struttura provinciale che risponde alle esigenze dei giovani con gravi disturbi comportamentali, di cui molti con disturbo da uso di sostanze. Gli adolescenti inclusi nel programma erano noti per avere una storia di problemi comportamentali molto gravi, come indicato dalle seguenti caratteristiche documentate sei mesi prima della loro ammissione al programma: il 44% non frequentava la scuola a causa della decisione di abbandonare l’istruzione (5 su 7); il 68% era stato cacciato da casa per qualche tempo; il 47% era stato accusato penalmente; il 31% era stato incarcerato; il 65% era stato segnalato per aver minacciato di uccidere o danneggiare qualcuno; il 53% aveva minacciato di uccidere o danneggiare gravemente se stessi (Moretti et al., 2004). Infine, i genitori hanno riferito che quasi un terzo (29,1%) degli adolescenti aveva fatto uso di alcol negli ultimi sei mesi e il 21,5% assunto droghe illecite (Moretti et al., 2015).

I genitori hanno completato una serie di test al momento dell’ammissione al programma e al suo termine, ma i ricercatori si sono focalizzati soprattutto su quanto emerso dalla Child Behavior Checklist (CBCL) di Achenbach e Edelbrock (1981), domande fatte ai genitori sul comportamento dei figli. Il CBCL è un test ampiamente utilizzato per problemi emotivi e comportamentali, del quale è stata dimostrata la validità e ai fini della valutazione sono state utilizzate tre scale: problemi comportamentali esternalizzanti, problemi comportamentali internalizzanti e problemi di comportamento totale. I genitori hanno compilato anche un questionario progettato per valutare le loro percezioni del gruppo genitoriale (Moretti et al., 2004) ed hanno utilizzato una scala di valutazione a quattro punti, da 1 (niente affatto) a 4 (molto), per valutare quanto utile trovassero l’educazione circa l’attaccamento: se il gruppo aumentava la loro comprensione del figlio, di se stessi e della propria famiglia; se avevano applicato le informazioni discusse nel gruppo sulla genitorialità con il proprio figlio; se si sentivano più efficaci nella genitorialità. I genitori hanno fornito, infine, un feedback scritto che riassumeva la loro esperienza del gruppo. I risultati hanno rivelato che i punteggi nel questionario effettuato dai genitori sono diminuiti significativamente in termini di esternalizzazione dei problemi e per quanto riguarda i problemi di comportamento totale nei figli. Nessuna differenza è stata trovata nella scala dei problemi di internalizzazione (Moretti et al., 2004). Per quanto riguarda il feedback dei genitori sul gruppo, la maggior parte dei genitori ha valutato positivamente il valore educativo dei concetti propri della teoria dell’attaccamento (utile nel 46% dei casi, molto utile nel 38%). I genitori hanno anche valutato positivamente il gruppo (utile nel 50% dei casi, molto utile nel 38%) nel migliorare la comprensione del figlio e nel migliorare la loro comprensione di se stessi come genitori (utile nel 33% dei casi, molto utile nel 46%). Allo stesso modo, la maggior parte dei genitori ritiene che il gruppo sia stato utile (50%) o molto utile (21%) nel comprendere la propria famiglia. La maggior parte dei genitori (87%) ha anche indicato di aver applicato le idee discusse nel gruppo alla genitorialità nella vita di tutti i giorni ed il 48% ha indicato che la relazione con il figlio era cambiata almeno in parte, mentre il 22% ha riportato importanti cambiamenti nella relazione. Anche l’efficacia percepita della genitorialità è stata valutata dai genitori come leggermente migliorata (64%) o notevolmente migliorata (14%) in funzione del gruppo. Alla fine, praticamente tutti i genitori (96%) si sono sentiti rispettati nel gruppo e la maggior parte (80%) si è sentita sicura e benvenuta. Le risposte scritte dei genitori hanno anche indicato che hanno trovato utile il gruppo. In particolare, i genitori hanno riportato l’utilità del gruppo nell’aiutarli ad ottenere una nuova prospettiva sulla loro relazione con l’adolescente e il proprio comportamento, suggerendo che esso abbia stimolato una maggiore capacità riflessiva (ibidem). I risultati del programma supportano l’utilità di un gruppo psico-educativo sull’attaccamento per genitori di adolescenti con gravi problemi comportamentali. Essi suggeriscono anche che il gruppo abbia contribuito a migliorare la qualità della relazione genitore-adolescente, fornendo le basi per un cambiamento positivo nel periodo post-terapia.

Sorprendentemente, pochi programmi per adolescenti hanno sostenuto approcci incentrati sulla teoria dell’attaccamento. Pertanto, i risultati di questo programma supportano la crescente consapevolezza che la teoria dell’attaccamento fornisce una struttura concettuale praticabile per lo sviluppo di efficaci programmi di intervento per gli individui in divenire.

La prevenzione del disturbo da uso di sostanze risulta essere fondamentale in età adolescenziale dove avviene spesso un primo incontro con le sostanze psicoattive (Ravenna, 1997). La famiglia risulta essere un importante fattore protettivo per l’adolescente e proprio sulla genitorialità alcuni programmi recenti hanno posto l’accento. In particolar modo, il programma Connect della Moretti, riprendendo concetti propri della teoria dell’attaccamento, li utilizza per rendere consapevoli i genitori di che importanza abbia una relazione positiva con i figli per il loro sviluppo e quanto la base sicura, fornita dai caregiver, possa essere una risorsa nell’affrontare questa fase di transizione verso l’autonomia (Moretti et al., 2004; Steele & Steele, 2018).

Attività fisica, sindrome depressiva e sindrome bipolare

Nell’ambito dell’attività fisica, si può ipotizzare che ci sia una differenza fra i pazienti che manifestano un episodio depressivo nell’ambito della sindrome bipolare e quelli che presentano una sindrome depressiva vera e propria.

 

Importante nell’ambito di un disturbo del tono dell’umore è saper distinguere fra un episodio depressivo vero e proprio e un episodio depressivo che compare nell’ambito di una sindrome bipolare. Il capire se il paziente è affetto da sindrome bipolare è particolarmente importante dal punto di vista farmacologico, in quanto, ad esempio, la somministrazione degli inibitori della ricaptazione della serotonina, farmaci di prima scelta nel trattamento della sindrome depressiva, possono determinare un viraggio dalla fase depressiva a quella maniacale. Inoltre, la sindrome bipolare ha un protocollo terapeutico psicofarmacologico differente. Molte ricerche sono state fatte per capire le differenze esistenti fra i diversi disturbi affettivi per poter fare una corretta diagnosi. Nell’ambito dell’attività fisica, si può ipotizzare che ci sia una differenza fra i pazienti che manifestano un episodio depressivo nell’ambito della sindrome bipolare e quelli che presentano una sindrome depressiva vera e propria. I primi mostrano in maniera meno marcata l’ipoattività, che raggiunge l’apice fra le 13 e le 15. I secondi palesano più marcata l’ipoattività al mattino. Essa decresce dalle 12 in poi, arrivando ad un maggiore grado di attività fra le 19 e le 22.

Keywords: attività fisica, sindrome depressiva, sindrome bipolare.

 

Generalmente, in ambito psicologico – psichiatrico, per fare diagnosi di un disturbo del tono dell’umore si rilevano i sintomi presentati dal paziente e si comparano con quelli presenti nel DSM 5.

Importante nell’ambito di un disturbo del tono dell’umore è saper distinguere fra un episodio depressivo vero e proprio e un episodio depressivo che compare nell’ambito di una sindrome bipolare. Chiaramente questo diventa facile da dirimere, laddove l’episodio depressivo ha fatto seguito ad un episodio maniacale o ipomaniacale. Il capire se il paziente è affetto da sindrome bipolare è particolarmente importante dal punto di vista farmacologico, in quanto, ad esempio, la somministrazione degli inibitori della ricaptazione della serotonina, farmaci di prima scelta nel trattamento della sindrome depressiva, potrebbe determinare un viraggio dalla fase depressiva a quella maniacale (Bowden, 2005). Inoltre, la sindrome bipolare ha un protocollo terapeutico psicofarmacologico differente.

Molte ricerche, con risultati deludenti, sono state fatte per capire se i disturbi affettivi siano associati a biomarcatori facilmente individuabili per poter fare una corretta diagnosi.

Altri studi hanno messo in evidenza che, frequentemente, associato ai disturbi del tono dell’umore, c’è un gene specifico, ma basare la diagnosi sull’aspetto genetico potrebbe essere fuorviante e difficoltoso (Cai e al., 2015).

Altre ricerche hanno considerato gli aspetti morfofunzionali del SNC e hanno rilevato che in questo tipo di disturbi ci sono delle alterazioni morfologiche e funzionali a carico dell’ippocampo e della corteccia orbitofrontale (Hori e al., 2016).

Un ulteriore filone di ricerca ha voluto investigare le eventuali differenze relative ai biomarcatori e alle alterazioni strutturali e funzionali del SNC che permettono di distinguere fra sindrome depressiva e un episodio depressivo della sindrome bipolare (Kinoshita e al., 2016). Allo stato attuale questo tipo di indagine ha prodotto scarsi risultati.

Successive ricerche hanno analizzato il livello di attività da prendere come indicazione utile per differenziare i diversi disturbi del tono dell’umore (Ono e al., 2015). Solitamente i disturbi affettivi sono accompagnati da alterazioni nell’ambito dell’attività fisica del paziente: infatti, ci può essere o un incremento o un decremento di essa. Solitamente nei pazienti affetti da un episodio depressivo, il livello di attività diminuisce (Burton e al., 2013), mentre nell’episodio maniacale o ipomaniacale si riscontra un’iperattività (Volkers, 2003). Nell’episodio depressivo che caratterizza la sindrome depressiva e il disturbo bipolare si notano delle differenze nell’attività fisica. Di fatto, nell’episodio depressivo della sindrome bipolare la diminuzione dell’attività fisica si manifesta nell’intera giornata, mentre nella sindrome depressiva l’ipoattività si contestualizza, soprattutto, nella prima parte della giornata (Bowden, 2005).

Una recente ricerca (Tanaka e al., 2018) ha ulteriormente confermato che i pazienti affetti da sindrome depressiva hanno una scarsa attività nelle prime ore del mattino e il livello di attività aumenta, seppure in maniera non marcata, dopo mezzogiorno per arrivare all’acume nell’intervallo temporale che va dalle 19 alle 22. L’episodio depressivo della sindrome bipolare ha un livello di minore attività nell’intera giornata, raggiungendo l’acume di ipoattività nella fascia oraria dalle 13 alle 15.

In conclusione, si può ipotizzare che ci sia una differenza nell’ambito dell’attività fisica fra i pazienti che manifestano un episodio depressivo nell’ambito della sindrome bipolare e quelli che presentano una sindrome depressiva vera e propria. I primi mostrano in maniera meno marcata l’ipoattività, che raggiunge l’apice fra le 13 e le 15. I secondi palesano più marcata l’ipoattività al mattino. Essa decresce dalle 12 in poi, arrivando ad un maggiore grado di attività fra le 19 e le 22.

 

Vivere con i robot (2019) di Paul Dumouchel e Luisa Damiano – Recensione del libro

La creazione di robot che interagiscono alla pari con gli umani fa parte di un settore emergente dell’intelligenza artificiale: la robotica sociale. Paul Dumouchel e Luisa Damiano propongono nel saggio Vivere con i robot spunti di riflessione sull’interazione uomo-robot.

 

La robotica sociale

La robotica sociale si occupa della creazione di robot che si sostituiscono a umani o animali senza prenderne il posto, ma solo in determinati momenti e circostanze particolari. Con la parola sociale si vuol proprio enfatizzare l’aspetto relazionale: questi robot sono pensati per interagire alla pari con le persone in un sistema cooperativo e funzionale allo svolgimento di specifici compiti, in particolare nei servizi di assistenza a persone con bisogni speciali. Si tratta per esempio di prendersi cura a domicilio di persone anziane che hanno perso l’autonomia, mantenendole in contatto con parenti e team di medici; oppure di caregiver artificiali che si prendono cura di bambini in assenza dei genitori o, ancora, di animali da compagnia (come Paro, il cucciolo di foca robotico che, al pari di qualsiasi cucciolo di animale domestico, si fa accarezzare, risponde al richiamo, fa versi e in breve non ha alcuna funzione specifica se non quella di sostituire animali da compagnia in ospedali e case di riposo).

Uno dei campi applicativi più significativi è quello della mediazione terapeutica con bambini con bisogni speciali, in particolare bambini autistici, per i quali è fondamentale acquisire alcune competenze come comprendere le emozioni altrui e reagire in modo appropriato, ma anche riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, giocare rispettando il ruolo e il turno di ciascuno, imitare gli altri o imparare a cooperare. Negli anni Ottanta ha preso il via un importante progetto di ricerca sui cosiddetti giocattoli robotici terapeutici, robot creati per incoraggiare ed educare i bambini autistici all’interazione con gli altri, progetto che nel 2005 ha portato alla creazione di Kaspar. Kaspar è progettato per facilitare le interazioni tra bambini autistici e loro interlocutori – non solo altri bambini, con bisogni speciali o meno, ma anche terapisti, insegnanti e genitori, e come strumento terapeutico ed educativo volto a stimolare lo sviluppo delle competenze sociali di questi bambini. L’obiettivo a cui intende contribuire Kaspar è quello di supportare i bambini autistici nell’acquisizione e nel potenziamento di abilità sociali che per loro risultano problematiche.

Una relazione efficace: emozioni, zona perturbante ed etica dei robot

I robot sociali quindi entrano in relazione con i loro interlocutori umani. Cosa può rendere queste interazioni efficaci e convincenti, positive e durature? Come possono essere accettati come pari? Come può crearsi una forma di empatia? Non dimentichiamo che sono agenti artificiali che devono rapportarsi a persone con bisogni speciali, con delle difficoltà in una o più aree di funzionamento e, anzi, hanno lo scopo di favorire l’acquisizione di maggiori competenze proprio in quel dominio carente. L’aspetto e l’espressività dei robot sono punti fondamentali su cui gli Autori di Vivere con i robot si aprono a molte riflessioni. Allo stato attuale abbiamo due filoni di ricerca e applicativi, la robotica esterna e quella interna. La prima si occupa dell’espressione esteriore delle emozioni (pensiamo all’arrossire, al sorridere per esempio), mentre la seconda della produzione e regolazione fisiologica e psicologica delle emozioni. Questa suddivisione ha un risvolto applicativo: la robotica esterna si focalizza sullo sviluppo di robot antropomorfici che elicitino reazioni emozionali ed empatiche negli umani, il secondo approccio studia la creazione di una forma artificiale di regolazione affettiva che imiti quanto più possibile quella umana o animale.

Ma c’è la linea di demarcazione tra somiglianza e inquietudine che i ricercatori devono tener ben presente: è la cosiddetta zona perturbante, la uncanny valley, teorizzata negli anni Cinquanta da Masahiro Mori. Secondo questa ipotesi (che non è mai stata dimostrata scientificamente anche se da oltre quaranta anni è ritenuta valida dai ricercatori del settore) più i robot somigliano agli umani più è facile e confortevole interagire con loro, ma solo fino al raggiungimento di un certo grado di similarità, superato il quale il senso di familiarità si trasforma in inquietudine, disagio e ansia.

Gli Autori di Vivere con i robot si soffermano anche sull’aspetto etico: i robot sociali si trovano ad interagire con umani in situazioni che possono essere ambigue o incerte e devono operare delle scelte. Dotare i robot di moduli etici che ne vincolino le capacità di azione entro certe regole morali non deve sottrarci al rischio di riservargli un certo margine di azione e autonomia, pur entro limiti accettabili.

Noi e l’altro: la sfida della robotica sociale

La robotica sociale ci sfida all’esplorazione delle componenti messe in gioco nelle relazioni e nella socialità. Gli agenti artificiali dovranno essere sempre più autonomi nella coordinazione affettiva tra partner sociali che siano adulti, bambini, anziani o altri agenti artificiali, sia nel coordinare le azioni in funzione di un compito particolare sia nel coordinarsi reciprocamente nelle interazioni in funzione dell’altro.

Vivere con i robot di Dumouchel e Damiano è una acuta riflessione e analisi di teoria e pratica della robotica sociale: che svolgano la funzione di assistenti, facilitatori, educatori, i robot ci sostituiranno e affiancheranno sempre più spesso come partner sociali artificiali.

 

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