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Lo smartphone come un prolungamento di sé e del proprio corpo – Breve scritto sulla dipendenza da smartphone

Per molti giovani, il proprio smartphone è diventato un prolungamento di sé e del proprio corpo, difficilmente se ne allontanano o separano, se non per breve tempo o su richiesta.

 

You would have to surgically remove a phone from a teenager because their whole life is ingrained in this device. (Mark Griffiths)

Lo sviluppo delle telecomunicazioni, così come il facile accesso economico a beni di consumo tecnologici alla portata di tutti, ha incrementato non solo il numero di smartphone ma i contesti in cui poterlo utilizzare, come ad esempio la scuola. Infatti, molti giovani hanno iniziato a frequentare le mura scolastiche con uno smartphone in mano, configurandosi come uno strumento non solo utile ma indispensabile per rimanere aggiornato con i corsi e i compiti.

È possibile rintracciare i primi contatti con gli strumenti digitali fin dalla prima infanzia: molti genitori o figure di riferimento utilizzano questo smartphone o tablet come rinforzi o per un intrattenimento prolungato, allo scopo di mitigare alcuni stati alterati del bambino (pianti, urla o lamentele aspecifiche). Tuttavia, non è sempre è una scelta ottimale: la digitalizzazione per le fasce di sviluppo va inserita gradualmente e non presentata a cascata, in quanto gli eccessivi stimoli da elaborare possono mettere in secondo piano alcuni processi cognitivi fondamentali per lo sviluppo socio-relazione, condizionando il bambino a trascurare il mondo esterno ed interno.

Uno dei motivi che può indurre ad usare con alta intensità e frequenza lo smartphone è sicuramente l’infinita quantità di contenuti e materiali a cui si può accedere; il libero accesso alla rete web aumenta notevolmente le possibilità di intrattenimento, incrementando il desiderio di usare e trascorrere più tempo possibile con lo smartphone.

Negli ultimi anni, gli studiosi hanno ipotizzato e teorizzato che è possibile rintracciare il desiderio da uso dello smartphone nel sistema di reward, ovvero il network corteccia-gangli della base-talamo implicato nella gratificazione e ricompensa in cui si vedono protagonisti i neurotrasmettitori dopamina e gaba, fondamentali per la componente motivazionale e di apprendimento alla base del desiderio da smartphone et simili.

Durante l’utilizzo di questo device il concetto stesso di temporalità si annulla, delimitando solo il contatto tra l’individuo e lo smartphone. Secondo Mihály Csíkszentmihályi (1987), l’impiego creativo ed adeguato di strumenti tecnologici, genera uno stato di profonda concentrazione, che aumenta i livelli di prestazione, tale evento viene definito flow (flusso, appunto). Ma a lungo termine, i suoi benefici positivi possono incrinarsi e ridurre le capacità di concentrazione.

Infatti l’utilizzo massivo di smartphone potrebbe influenzare le funzioni attentive e le performace soprattutto nel contesto di apprendimento dello sviluppo cognitivo, come la scuola. Secondo alcuni studi, l’attenzione selettiva, definita come l’abilità a contrastare la distrazione e a concentrare l’attenzione su alcuni stimoli (Làdavas e Berti, 2009), risulta ridotta nel tempo per cui l’elaborazione delle informazioni è minore, suggerendo una tendenza all’economia o risparmio cognitivo negativo per il raggiungimento di un obiettivo (Moisala 2016; Thornton 2014).

I processi di attenzione, suddivisi in selettiva, sostenuta, divisa e alternata richiedono l’elaborazione degli stimoli in modalità Bottom-Up o Top-Down: se questi stimoli sono eccessivi o pochi, si possono ridurre i tempi di elaborazione.

I bambini, soprattutto prima del raggiungimento del 3° anno di vita, hanno ridotti tempi di concentrazione ed attenzione sostenuta (minore o superiore a 5 min c.a) che incrementa di unità ogni due anni, come i processi di memorizzazione (span). Mentre un bambino di cinque anni può generalmente concentrarsi su un’attività dai 10 ai 25 minuti, in quanto aumentano i livelli di selezione degli stimoli ambientali, un bambino di 10 anni potrebbe essere in grado di impiegare il doppio del tempo (a seconda della natura di un’attività e di altri fattori organismici ed intrinsechi, come quanto è stanco o interessato).

Lo smartphone è uno strumento multitasking che produce premi e rinforzi ad intervalli, che influenza e stimola al suo utilizzo graduale e/o costante; in casi di eccessivo uso si avrà come risultato uno stato permanente di disattenzione. Numerosi psicologi arrivano al punto di sostenere che le continue distrazioni presenti sui nostri smartphone ‘ricablano’ il nostro cervello; l’uso a lungo termine degli smartphone ci sta ‘rendendo più stupidi’. Non solo, secondo uno studio della Rutgers University pubblicato da Journal of Behavioral Addictions, l’uso dello smartphone nelle pause – lavorative o da studio – impedirebbe al nostro cervello di ricaricarsi portando a livelli maggiore di distrazione rendendo molto difficile ripristinare l’attenzione su quello che si stava facendo.

Ironia della sorte, l’essere umano è biologicamente costruito per essere distratto facilmente.

Attention is a fickle friend. It is a partly uncontrollable by-product of our evolutionary make-up, with a penchant for pretty, shiny things regardless of their importance to the task at hand.

Con queste parole, contenute in un articolo del 2019 pubblicato su University Observer, l’attenzione viene descritta come volubile ed incontrollabile, con un debole per gli stimoli esteticamente stimolanti indipendentemente dalla loro importanza.

I nostri smartphone, così come i gadget elettronici associati, consentono alle nostre menti di distrarsi attraverso infinite notifiche, aggiornamenti e altri avvisi. Di conseguenza, secondo diverse ricerche, gli utenti degli smartphone continuano a controllare costantemente i loro dispositivi e interagiscono con loro anche a pochi minuti di distanza, proprio per questo vi è un costante rinforzo del circuito del reward. Sebbene tutti gli utenti di smartphone siano influenzati in maniera più o meno rilevante da questa tendenza a rimanere sempre online, i giovani sembrano essere particolarmente a rischio di cadute di attenzione. Non a caso, alle nuove generazioni è stata affidata l’etichetta di nativi digitali.

Per molti giovani, il proprio smartphone è diventato un prolungamento di sé e del proprio corpo, difficilmente se ne allontanano o separano, se non per breve tempo o su richiesta.

In alcune circostanze, andare in giro senza di esso, può causare molta ansia. Alcuni psicologi hanno persino coniato un termine per questo fenomeno: ansia da separazione telefonica o sindrome da disconessione, sintetizzato in nomofobia quale la paura patologica di non poter usare il telefono, perdendo la connessione con il mondo digitale.

Le recenti rassegne scientifiche, tra cui uno studio del 2017 a Hong Kong che ha coinvolto la popolazione cinese, riportano la percezione di un forte stato agitazione ed ansia quando non si è in possesso del proprio smartphone.

Il Dott. Kim Ki Joon, assistente professore di New Media e Human-Technology Interaction presso il Dipartimento di Media e Comunicazione dell’Università della Città di Hong Kong, suggerisce che tali risultati siano causati dalla percezione degli smartphone come parte di sé stessi, per questo le persone provano sentimenti di ansia e spiacevolezza quando sono separate dai loro telefoni.

L’uso smoderato e patologico può condurre a casi di nomofobia, che tendono ad essere particolarmente acuti tra adolescenti e giovani. Il professor Mark Griffiths, psicologo e direttore dell’Unità di ricerca sul gambling presso la Nottingham Trent University nel Regno Unito suggerisce come lo smartphone sia divenuto un dispositivo che consente all’individuo di controllare e gestire molti aspetti della propria vita; per questo, con tono puramente ironico, suggerisce l’utilizzo della chirurgia per rimuovere lo smartphone dalla vita di un adolescente.

Comportamento sessuale precoce e tentativi di suicidio negli adolescenti: una prospettiva globale

Il suicidio è la seconda causa di morte tra adolescenti e giovani adulti in tutto il mondo, ed è particolarmente diffuso nei paesi a basso e medio reddito (World Health Organization, 2018). Attualmente, ci sono prove emergenti riguardo al fatto che il comportamento sessuale precoce può essere associato ai tentativi di suicidio (Hallfors et al., 2004; Mota et al., 2010).

 

I rapporti sessuali nella prima adolescenza, infatti, possono aumentare il rischio di comportamento suicidario attraverso disturbi mentali e l’angoscia derivante dall’essere psicologicamente immaturi per gestire le relazioni sessuali (Santhya e Jejeebhoy, 2015).

Per fornire una comprensione globale su questo argomento, il presente studio mira ad indagare la relazione tra comportamenti sessuali e tentativi di suicidio, utilizzando dati provenienti da 38 paesi, i quali erano prevalentemente a basso o medio reddito.

L’analisi è stata limitata agli adolescenti di età compresa tra 12 e 15 anni (il campione finale comprendeva 116.820 adolescenti).

I tre comportamenti sessuali presi in considerazione sono: presenza/assenza di rapporti sessuali nel corso della vita, partner multipli e uso del preservativo.

Dunque, le domande di ricerca principali che si sono posti gli studiosi sono:

Avere rapporti sessuali o non avere mai avuto un rapporto sessuale influenza in quale modo i tentativi di suicidio o la probabilità di suicidio negli adolescenti?

Avere partner multipli aumenta la probabilità di rischio di suicidio?

Il mancato uso del preservativo, in particolare nell’ultimo rapporto, è in qualche modo legato alla probabilità che gli adolescenti hanno di suicidarsi?

Sono stati analizzati i dati disponibili pubblicamente del sondaggio Global Health School (GSHS); l’obiettivo principale di questo sondaggio era valutare e quantificare i fattori di rischio e di protezione delle principali malattie non trasmissibili.

Il tentativo di suicidio è stato indagato con la domanda: Negli ultimi 12 mesi, quante volte hai effettivamente tentato il suicidio?; la presenza di rapporti sessuali è stata, invece, valutata dalla domanda: Hai mai avuto rapporti sessuali?; mentre il numero di partner sessuali si basava sul quesito: Durante la tua vita, con quante persone hai avuto rapporti sessuali? e le opzioni di risposta erano 1 persona, 2 persone, 3 persone, 4 persone, 5 persone e ≥6 persone. Infine, l’uso del preservativo è stato valutato con la domanda: L’ultima volta che hai avuto rapporti sessuali, tu o il tuo partner avete usato un preservativo?

Le variabili di controllo includevano sesso, età, insicurezza alimentare, insonnia indotta dall’ansia e consumo di alcol.

In generale, la prevalenza dei rapporti sessuali precoci era del 13,2% (ragazzi 16,8%; ragazze 9,5%); mentre tra coloro che avevano avuto rapporti sessuali, la percentuale di più partner sessuali e il mancato uso del preservativo nel rapporto sessuale era rispettivamente del 52,4% e 41,8%.

Complessivamente, il 9,1% (ragazzi 8,8%; ragazze 9,3%) degli adolescenti del campione analizzato ha tentato il suicidio negli ultimi 12 mesi. La prevalenza dei tentativi di suicidio era molto più elevata tra coloro che avevano rapporti sessuali rispetto a quelli che non li avevano (19,0% vs. 6,3%). Tra i soggetti che hanno avuto rapporti sessuali, la prevalenza dei tentativi di suicidio è stata più alta tra chi ha avuto più partner sessuali rispetto a coloro che non ne hanno avuti (28.7% vs. 21.0%) e tra i partecipanti che non hanno usato il preservativo durante il rapporto rispetto a coloro che lo hanno usato (22.6% vs. 19.9%). È stata osservata un’associazione positiva e significativa tra i rapporti sessuali precoci e i tentativi di suicidio in 32 dei 38 paesi.

Diversi meccanismi possono spiegare l’associazione tra i rapporti sessuali precoci in adolescenza e il tentativo di suicidio.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli adulti che hanno riferito di aver avuto rapporti sessuali tra i 12 e i 14 anni avevano maggiori probabilità, rispetto a coloro che avevano avuto rapporti sessuali in età più avanzata, di avere numerosi problemi di salute mentale (Mota et al., 2010); e che quelli con disturbi mentali o alcuni tratti della personalità disturbanti hanno maggiori probabilità di tentare il suicidio (Bertolote et al., 2003).

Un’altra spiegazione plausibile è che i giovani adolescenti possono vivere i rapporti sessuali come angoscianti, a causa del mancato raggiungimento della piena maturità psicologica (Cauffman e Steinberg, 2000).

Il matrimonio precoce, le pratiche coercitive e la violenza sessuale possono spiegare in parte la relazione tra rapporti sessuali e tentativi di suicidio, in particolare tra le ragazze: è stato dimostrato, infatti, che la violenza sessuale è ampiamente associata a depressione e tentativi di suicidio.

Pertanto, sono necessarie ulteriori ricerche di natura qualitativa per fornire ulteriori informazioni sui meccanismi alla base della relazione tra i rapporti sessuali e il tentativo di suicidio negli adolescenti.

Alcuni approfondimenti sui fattori che influenzano l’associazione tra rapporti sessuali e suicidalità nei giovani adolescenti (in particolare tra coloro che hanno partner multipli), sono forniti dalle ricerche effettuale sul cosiddetto ‘sesso impersonale’. È stato suggerito che le persone che hanno praticato alti tassi di ‘sesso impersonale’ (impegnandosi nel sesso solo ai fini dell’atto) corrono un rischio maggiore di avere contesti familiari sfavorevoli, indicatori di salute negativi e insoddisfazione della vita in generale (Langstrom e Hanson, 2006), i quali probabilmente porteranno a maggiori tentativi di suicidio. È plausibile supporre che i partecipanti al presente studio con partner sessuali multipli siano anche coloro che praticano il sesso impersonale.

Un chiaro punto di forza dello studio è l’ampio e rappresentativo campione di adolescenti provenienti da più continenti e la presa in considerazione di una vasta gamma di variabili demografiche e comportamentali; tuttavia i risultati dell’attuale ricerca devono essere interpretati alla luce dei suoi limiti. Innanzitutto, lo studio era trasversale e pertanto non è possibile stabilire la causalità o le associazioni temporali. Sono necessarie ricerche future che utilizzino un disegno longitudinale, utile ad indagare la possibilità di affrontare direttamente con gli adolescenti i comportamenti sessuali, e valutare se questo può avere un impatto positivo sui tassi di suicidio dei giovani. In secondo luogo, è stato fatto affidamento su dati self-report, che avrebbero potuto essere influenzati da fattori come la desiderabilità sociale. In terzo luogo, intervistando solo gli studenti, il rischio di pregiudizio era molto alto, specialmente nei paesi in cui i tassi di frequenza scolastica sono bassi. Infine, i dati sulla natura dei rapporti sessuali non erano disponibili e, pertanto, sono necessarie ricerche future per stabilire in che modo fattori importanti come il consenso, il matrimonio e l’età del partner sessuale siano alla base della relazione tra i rapporti sessuali e la suicidalità nei giovani. In particolare, il consenso può essere un fattore fondamentale, in quanto le esperienze sessuali non consensuali possono essere associate ad un rischio più elevato di tentativi di suicidio.

In conclusione, questa ricerca globale sugli adolescenti ha riscontrato un alto tasso di rapporti sessuali precoci, nonché un’alta prevalenza di partner sessuali multipli e di mancato uso del preservativo; questo sembra essere correlato a un’aumentata probabilità di rischio suicidario nei giovani. Per questo, identificare i fattori di rischio sociale e comportamentale per i tentativi di suicidio negli adolescenti, è importante per permettere lo sviluppo di interventi mirati di trattamento e di prevenzione.

 

Emotional schema therapy: una lettura d’insieme

Secondo l’ Emotional Schema Therapy gli schemi emotivi, oltre a permetterci di concettualizzare emozioni ed esperienze, contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali e stili interpersonali che generano teorie implicite capaci di guidarci..

 

L’emozione porta con sé una costruzione socio-cognitiva dell’esperienza, dall’espressione alla regolazione emotiva. Proprio per questo si può ipotizzare uno schema attraverso cui ognuno di noi concettualizza le emozioni e tutta l’esperienza emotiva: il modo in cui esse si manifestano, cosa ci portano a pensare, a fare e come le regoliamo. Questi si chiamano “schemi emotivi” (Greenber, 2002) e contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali, stili interpersonali. Nel tempo vari autori hanno utilizzato varie etichette; ad esempio Linehan li chiama “miti emotivi” e Gottman “filosofie delle emozioni” (Gottman, Katz, Hooven, 1997).

Quando Leahy descrive l’Emotional Schema Therapy (EST) nel suo capitolo 12 del libro Trattamento integrato per i disturbi di personalità. Un approccio modulare (Livesley, Dimaggio, Clarkin, 2017), parte riagganciandosi alla teoria metacognitiva di Wells (Wells, 2012). Ne conosciamo bene i presupposti: fondamentalmente ciò che conta non è il contenuto dei pensieri (a cui Beck era tanto affezionato) quanto il processo, il modo in cui pensiamo ed il modo in cui trattiamo i nostri stessi pensieri. Le credenze metacognitive positive e negative fanno il loro gioco preparando il terreno a ruminazioni e rimuginii che a loro volta giustificano i sintomi depressivi o ansiosi. Ecco perché la terapia di Wells ha collezionato una serie di evidenze a favore del trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, della depressione, del disturbo ossessivo compulsivo, del disturbo da stress post-traumatico. Per fare questo, detached mindfulness e training attentivi sono la panacea di tutti i mali. Ma se c’è un aspetto importante che si nota in Wells è relativo alla concettualizzazione, al modo in cui spiega come si esplica la sindrome cognitivo-attentiva (CAS) che spinge a focalizzarsi troppo sul contenuto dei pensieri e su quello che essi rappresentano.

Sulla scia della teoria di Wells, Leahy (Leahy, 2002, 2003) sviluppa il modello dello schema emotivo. Proprio come per i pensieri, anche per le emozioni ognuno di noi ha e rinforza continuamente una propria teoria implicita, evidente da pensieri tipo “dalla tristezza non ne esco”, “la rabbia fa perdere il controllo”, “la vergogna è da bannare”. Fortunatamente l’autore coglie l’aspetto non sempre universale dell’esperienza emotiva la quale è, invece, storicamente e culturalmente condizionata. Ad esempio, la vergogna e la colpa sono emozioni che differenziano molto la cultura occidentale da quella orientale, l’urbanizzazione ci ha condotto verso emozioni sempre più complesse ed il modo in cui esse vengono espresse e condivise differenzia di molto etnie sparse nel mondo, per non parlare di come esse si siano diversificate nelle varie epoche storiche. Anche lo stile educativo e l’attaccamento che ne segue, ha una certa quota di responsabilità in questo senso. Resta l’indubbia base biologica ed evolutiva delle emozioni che lasciano poi molta variabilità alle variabili storiche, individuali e socio-culturali rispetto al modo in cui esse debbano essere vissute ed espresse e che si consolidano in miti, schemi, filosofie, ecc. Queste differenze, giustificano ovviamente anche l’estrema varianza nella psicopatologia. Basti pensare alla grande dicotomia tra pazienti inibiti-coartati e quelli disregolati che si differenziano in base alle strategie di regolazione emotiva adottate.

Gli schemi emotivi sono l’insieme delle credenze, spiegazioni, valutazioni e strategie sulle proprie e altrue emozioni e giustificano le reazioni di diverse persone di fronte allo stesso evento. Rappresentano le meta-credenze in merito alle cause, alla legittimità, alla normalità, alla durata e alla tollerabilità delle emozioni proprie e altrui. Gli obiettivi della EST sono relativi al miglioramento dell’elaborazione dell’emozione, aumentando la tolleranza e diminuendo la messa in atto di strategie che possono amplificarle o rinforzarle come il worry, la ruminazione oppure strategie comportamentali come l’uso di sostanze. Ma ognuno di questi coping è mantenuto da uno schema emotivo del tipo “solo bevendo posso controllare la mia tristezza” oppure “solo abbuffandomi lenisco la mia paura”. Per ottenere un miglioramento rispetto al modo in cui il paziente vive le proprie emozioni, si evidenziano e modificano le meta-credenze rispetto alle proprie emozioni e i coping che ne derivano senza entrare nel merito del contenuto dei pensieri (in tal senso, è chiara l’influenza di Wells) così da poter accettare e sperimentare in modo funzionale ogni tipo di emozione anche quelle che sembrano soverchianti o che appaiono incomprensibili o interminabili e perfino poco gestibili.

Leahy ha individuato quattordici dimensioni di schemi emotivi tra cui l’invalidazione, l’autoinvalidazione, la durata, la perdita di controllo, ecc. Per ognuna di esse pare che si faccia una valutazione in termini di pro e contro, vantaggi e svantaggi e questo sembra essere un po’ riduttivo considerando che spesso credenze e strategie di regolazione emotiva sono acquisite per apprendimento, a volte vicario, e sono rinforzati da eventi di vita, spesso di natura interpersonale. Eppure, questi eventi, sembrano essere poco contemplati mentre sappiamo quanto questo possa essere importante per favorire processi di differenziazione. Mi riesce difficile immaginare che un paziente dipendente abbandoni la sua strategia semplicemente ragionando sul “se mi appoggio sempre agli altri, continuerò a sentirmi incapace”. Lo stesso tipo di lavoro pare sia possibile rispetto alle credenze: dopo una specie di dialogo socratico il paziente comprende che non deve sentirsi in colpa se prova paura prima dell’esame, non deve vergognarsi dell’ansia appena il professore lo chiama per sostenere la prova o che, meglio ancora, non esistono emozioni giuste o sbagliate, buone o cattive ma che esse rappresentano tutte un ventaglio possibile dell’esperienze emotive umane. Bene, giustissimo. Eppure, nonostante questo, io stessa mi dico che arrossire allo sportello della posta oppure al cameriere a cui ordino è una cosa strana. Tuttavia di dialoghi socratici sulla vergogna ne ho fatti eccome!

Pare quindi che il modello parta come un modello meta-esperienziale e culmini con l’utilizzo di tecniche e strategie prettamente cognitive per lavorare sulle varie convinzioni circa lo schema emotivo e questo dovrebbe condurre alla modifica di pattern cognitivi e comportamentali, ovviamente anche “meta”, delle emozioni.

Mi chiedo poche cose, però me le chiedo?

  1. E la componente incarnata delle emozioni? Il corpo, insomma, dove sta?
  2. E i contenuti interpersonali? Dove sta la concettualizzazione rispetto al perché di fronte a determinate situazioni proviamo sempre determinate emozioni e compiamo, di conseguenza, sempre le stesse azioni?

Le stesse osservazioni valgono per il modello wellsiano, studiato, conosciuto e applicato da molti di noi nelle nostre sedute. Sappiamo che funziona, certamente, fin quando non incappiamo in grandi aspetti che riguardano il funzionamento umano: le emozioni, il corpo, la relazione con gli altri.

Leahy supera il limite intrinseco della teoria metacognitiva di Wells addentrandosi nel campo delle emozioni. Saggia, però, l’affermazione dello stesso autore secondo cui la EST deve essere integrata con altre tecniche e terapie. Questo appare giusto considerando che i pazienti con disturbi di personalità, soprattutto, sperimentano molto spesso problemi in relazione alle proprie emozioni, sia nella componente espressiva che regolatoria perché hanno schemi maladattivi interpersonali che li fanno soffrire. È però la compente interpersonale che spiega perché un paziente soffre di fronte a determinate situazioni oppure perché considera intollerabile ad esempio la tristezza e non la vergogna. C’è una complessità che non è vista dalla EST e che risiede nella rappresentazione che il paziente ha di sé stesso e degli altri. Una rappresentazione nata e costruita in una determinata storia di vita.

Insomma, le stesse limitazioni del modello di Wells le ritroviamo anche in Leahy. Ciò non toglie che in entrambi i casi ci siano molte prove a sostegno dell’efficacia dei modelli; ad esempio, recentemente, sono stati pubblicati dati relativi all’applicazione del trattamento metacognitivo coi pazienti borderline.

Fortunatamente viviamo in una epoca di integrazione che ci salva dalle varie limitazioni dei vari modelli e che ci permette di arricchire le nostre terapie plasmandole sulla soggettività del paziente che ci troviamo a trattare. Inoltre un altro elemento non scontato è legato alla relazione terapeutica, anch’essa in ombra nel modello di Leahy eppure è indispensabile in un lavoro in cui, come un chirurghi, apriamo, tagliamo, cuciamo elementi delicatissimi, proprio perché legati alle emozioni. Ma questo, evidentemente, è ad appannaggio di un lavoro d’insieme complesso, costruttivo, relazionale, impossibile da limitare alla sola tecnica.

 

Lo stroke correlato alla gravidanza, fenomeno raro ma con incidenza in aumento

L’ictus e le sue conseguenze sono la terza causa di morte in Italia e solo il 25% dei pazienti che riescono a sopravvivere guarisce completamente. La possibilità che una donna venga colpita da ictus ischemico o emorragico durante la gravidanza e il puerperio è un evento assolutamente raro, tuttavia è stato descritto come fenomeno in aumento.

Tanini M., Benifei F., Bagnulo I., Toccafondi A.

 

Ictus, epidemiologia

Ictus è un termine latino che significa “colpo” (in inglese stroke). Insorge, infatti, in maniera improvvisa: una persona in pieno benessere può accusare sintomi tipici che possono essere transitori, restare costanti o peggiorare nelle ore successive. In Italia l’ictus è la terza causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore e le neoplasie; causa il 10-12% di tutti i decessi per anno e rappresenta la prima causa di invalidità. Ogni anno si verificano in Italia circa 196.000 ictus, di cui il 20% sono recidive. Il 10-20% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese e un altro 10% entro il primo anno di vita. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi la metà è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza (Ministero della Salute 2013).

L’ictus ha provocato nel 2001 nel mondo circa 5 milioni e mezzo di morti, pari a poco meno del 10% dei morti totali. Nella macroregione EURO A, della quale fa parte l’Italia assieme a tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea allargata, l’ictus (identificato come patologia cerebrovascolare) è la seconda causa di mortalità complessiva (Mariotti S. 2005).

Lo stato pro coagulativo in gravidanza

La gravidanza è correlata ad uno stato di ipercoagulabilità, dovuto soprattutto agli effetti dei cambiamenti ormonali fisiologici, che possono influenzare i livelli plasmatici di fattori della coagulazione o di proteine anticoagulanti. Oltre a ciò, esistono fattori aggiuntivi che possono essere responsabili dello stato ipercoagulabile, come ad esempio i fattori ereditari di rischio trombotico quali: la mutazione del fattore V Leiden (che causa la resistenza alla proteina C attivata); la mutazione G20210A del gene della protrombina; i deficit della proteina S; i deficit della proteina C; i deficit di antitrombina. Talvolta i fattori ereditari possono combinarsi con le alterazioni coagulative caratteristiche della gravidanza dovute alle variazioni ormonali della stessa (Simoni P, Campello E. 2013).

Fenomeno raro ma in aumento

La possibilità che una donna venga colpita da ictus ischemico o emorragico durante la gravidanza e il puerperio è un evento assolutamente raro, tuttavia è stato descritto come fenomeno in aumento.

In uno studio che ha coinvolto 72.221 donne fra 50 e 79 anni di età, il 4,6 % di queste donne ha riferito di avere avuto un figlio dopo i 40 anni. Confrontando i tassi di ictus, infarto e mortalità per cause cardiovascolari nei 12 anni successivi il parto, in associazione all’età in cui le donne erano diventate mamme, i ricercatori hanno visto che alle gravidanze over 40 si associa un rischio lievemente maggiore di ictus sia ischemico, quello più frequente (da 2,4% a 3,8%), che emorragico (da 0,5% a 1%) (American Heart Association 2019). Alle stesse conclusioni era giunto uno studio del 2017 che aveva preso in esame gli anni dal 1990 al 2017 stimando che l’ incidenza di stroke fosse di 30 casi ogni 100.000 gravidanze (Swartz RH, et al. 2017).

Secondo una ricerca del Dipartimento di Medicina Clinica dell’Università X’ian condotta con una metanalisi riguardante oltre 3 milioni di donne sono stati registrati circa 150 mila eventi cardiovascolari nelle partecipanti, dai quali gli studiosi hanno fatto emergere l’associazione con le gravidanze (European Society of Cardiology 2018).

Le ipotesi sulla causa del fenomeno

Non è chiaro quale sia l’origine di questo aumento, seppur lieve, di incidenza di patologia cerebrovascolare nelle gravidanze e comunque nelle donne che hanno avuto una o più gestazioni.

Sicuramente la gravidanza determina un quadro di aumento dei fattori pro trombotici, in particolare nelle ultime settimane di gravidanza, inoltre il lavoro cardiaco deve aumentare per assicurare un adeguato apporto di ossigeno e nutrienti al comparto feto-placentare. Sembra, tuttavia, che a favorire questo fenomeno sia soprattutto lo stato infiammatorio indotto dagli ormoni che tipicamente aumentano in gravidanza ed un incremento del grasso addominale che spesso di associa alla gestazione.

Altro fenomeno che deve essere considerato è l’ aumento dell’età delle donne durante la gravidanza e l’ aumento di ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Conclusioni

Le patologie cerebrovascolari in gravidanza sembrano mostrare un trend in aumento, in particolare per quanto riguarda lo stroke. Tale aumento di incidenza è correlato sia allo stato di gravidanza che al puerperio. Sebbene l’ evento cerebrovascolare sia estremamente raro, negli ultimi 10 anni, si stima che l’ incidenza sia aumentata del 54%. E’ necessario sottolineare che nonostante tale aumento e la gravità degli esiti che tale patologia può determinare, l’ictus correlato alla gravidanza resta un fenomeno estremamente raro.

 

La mente dietro la fame (2019) di Stefania Rossi – Recensione del libro

La mente dietro la fame si pone l’obiettivo di favorire la consapevolezza dei meccanismi che determinano l’insorgere della fame emotiva, promuovendo, in chi si sente in lotta col cibo, l’acquisizione di uno stile di vita più sano, fondato su di un reale benessere psico-fisico.

 

Quante volte ci capita di mangiare più del necessario non perché abbiamo reale necessità di nutrirci, ma per placare uno stato di disagio? Non si tratta di fame fisica, ma di fame emotiva. Tra l’alimentazione e la psiche ci sono dei legami profondi e complessi.

La psicologa Stefania Rossi approfondisce, nel suo testo La mente dietro la fame, le dinamiche alla base della fame emotiva, proponendo degli spunti utili a comprendere e ad intervenire in modo efficace su tutti quei comportamenti alimentari che, se attuati costantemente, si rivelano dannosi per la nostra salute.

Può succedere di ricorrere al cibo non solo quando avvertiamo del malessere, ma anche come ricompensa per festeggiare qualcosa di positivo, perché spesso, fin da bambini, i cibi piacevoli al palato vengono offerti come premio. Il cibo, inoltre, rappresenta, a livello culturale, un veicolo di emozioni, associato ad occasioni sociali e a momenti di ritrovo e di condivisione familiare.

Noi siamo tutti, quindi, portati ad usare il cibo per regolare le emozioni, prediligendo, di frequente, l’assunzione di confort food, i cibi di conforto ad alto contenuto calorico (dolci, stuzzichini, etc.). È normale che ciò accada, di tanto in tanto, perché il cibo ha una componente edonistica: non è fonte solo di nutrimento, ma anche di piacere, per la vista e per il palato. Il problema si crea nel momento in cui ricorrere al cibo per ‘aggiustare’ l’umore diventa un comportamento ricorrente che sfocia nell’automatismo.

Il libro si pone l’obiettivo di favorire la consapevolezza dei meccanismi che determinano l’insorgere della fame emotiva, promuovendo, in chi si sente in lotta col cibo, l’acquisizione di uno stile di vita più sano, fondato su di un reale benessere psico-fisico.

Spesso chi mangia più del dovuto è in preda a costanti sensi di colpa e la difficoltà a rispettare la dieta determina un abbassamento del senso di autostima. La persona, inoltre, crede di non possedere sufficiente forza di volontà; pensare che sia solo una questione di forza di volontà è, al contrario, molto riduttivo.

Non possiamo ricondurre tutto al dovere, come se avere uno stile alimentare sano coincida con un regime alimentare restrittivo, che ci priva di tutte le cose che ci piacciono e che rappresenta un’imposizione che viene dall’esterno, per ‘il nostro bene’. Se interpretiamo la dieta in questo modo è naturale che sorga in noi un senso di ribellione, perché ci sembra di dover ignorare i nostri bisogni più naturali e autentici.

La strada descritta nel testo La mente dietro la fame non potrebbe essere più diversa; ci viene proposto di metterci in paziente ascolto delle nostre emozioni positive e negative, identificando e accogliendo i nostri stati d’animo, anche quelli più scomodi. In questo modo potremo trovare, tutte le volte che sentiamo l’impulso di ricorrere al cibo come antistress e regolatore dell’umore, delle soluzioni alternative, più in linea con il nostro benessere.

Questo comporta un impegno, ma non si tratta di sottostare a degli obblighi alimentari ‘perché è giusto’, bensì di scegliere, in piena consapevolezza e libertà, dei modi più adatti per soddisfare i nostri bisogni, partendo da noi stessi.

È importante che diventiamo consapevoli di come, inconsciamente, molte volte ci autosabotiamo, per poter finalmente liberarci dalla schiavitù di pensare costantemente alle diete e cominciare a goderci realmente il cibo per quello che è, senza caricarlo di altri significati.

Il testo propone alcuni strumenti per promuovere l’alimentazione consapevole, come la pratica della Mindfulness e il diario alimentare. Non si tratta solo di mettere in atto delle tecniche, ma di favorire l’accettazione delle nostre emozioni, migliorando il nostro stile di vita anche attraverso l’introduzione di abitudini nuove, come, ad esempio, incrementare l’attività fisica. Per perdere peso fare movimento è fondamentale perché, se ci limitiamo unicamente a restringere l’alimentazione, l’organismo si adatta al nuovo regime calorico rallentando il metabolismo.

In sintesi l’obiettivo del processo è molto di più che dimagrire: è imparare a conoscerci meglio e a prenderci cura di noi stessi, facendo sì che il cibo torni ad essere, piuttosto che una sorta di farmaco anti stress, fonte di piacere e di nutrimento.

 

Sesso e cooperatività inter-individuale: un modello animale

Le scimmie bonobo rappresentano un modello promettente per indagare la funzione della sessualità prosociale, in quanto le femmine di questa specie intrattengono tra di loro rapporti sessuali molto frequenti, accompagnati dall’instaurarsi di collaborazioni tra femmine della stessa comunità al fine di procacciare, difendere o condividere beni di consumo o per coordinare attacchi ai danni degli individui di sesso maschile.

 

L’attività sessuale nella specie umana, così come per tutti gli altri primati, non è confinata al periodo di fertilità della femmina, ma si estende anche ai periodi non fertili, come ad esempio durante l’amenorrea conseguente l’allattamento, durante la gravidanza o in menopausa; questa notevole recettività ha permesso che l’atto sessuale non esaurisse la propria potenzialità nella sola possibilità di un concepimento, bensì diventasse un importante momento della socializzazione e di costituzione di una coppia. L’attività erotica si è evoluta infatti nella specie umana e nelle altre specie monogame, come un momento di consolidamento di un rapporto diadico, ponendo gli individui in una relazione di fiducia reciproca, spesso implicando carattere di esclusività e di progettualità comune e, nell’eventualità che venga generata una prole, uno sforzo coordinato per il suo accudimento.

Tuttavia, osservando il comportamento socio-sessuale di specie a noi prossime, come le altre scimmie antropomorfe, è stato possibile riscontrare come tale attività non si consumasse esclusivamente nel contesto di uno scambio tra individui di sesso opposto, quindi verosimilmente con il fine ultimo della riproduzione, ma spesso vedesse coinvolti individui dello stesso sesso, sollevando l’ipotesi che vi potessero essere dei benefici secondari nell’utilizzare la sessualità come mezzo di socializzazione extra-diadica: al contrario di altre specie che si rivolgono ad esemplari del proprio sesso solo in assenza di un partner adeguato, in alcuni casi i rapporti con individui dello stesso sesso avvengono anche in presenza di potenziali partner sessuali disponibili o addirittura con frequenza equiparabile ai rapporti eterosessuali (Hohmann and Fruth, 2000; Idani, 1991; Ryu et al., 2015).

Sono state formulate diverse ipotesi sulle funzioni adattive di tale comportamento, che sembrano essere strettamente legate al contesto in cui esso emerge: nella maggioranza dei casi il comportamento sessuale verso individui dello stesso sesso si presenta infatti in associazione con comportamenti altamente coordinati e prosociali; talvolta sembra rappresentare un mezzo per abbassare la conflittualità interindividuale o come forma di riconciliazione dopo un conflitto. Il sesso tra individui dello stesso sesso può inoltre fungere da esercizio per l’affinamento dei rituali di accoppiamento adulti, oppure come mezzo per ‘tenere occupata’ la concorrenza che non potrà conseguentemente accoppiarsi e riprodursi.

Una prova a sostegno della teoria della cooperazione sociale indotta dai comportamenti omosessuali è legata ai cambiamenti fisiologici che accompagnano l’esperienza sessuale, come ad esempio l’innalzamento dei livelli periferici dell’ormone ossitocina, coinvolto, com’è noto, nel consolidamento dei legami sociali selettivi e nell’aumento dei comportamenti cooperativi in una moltitudine di specie, incluso l’Uomo (Gangestad and Grebe, 2017).

La ricerca, che si è focalizzata sul ruolo di tale ormone nel più ampio contesto della sessualità, ha riscontrato come esso correli positivamente con l’esibizione di un comportamento coordinato e cooperativo in relazioni sociali selettive, come ad esempio tra una madre e la sua prole (Feldman, 2012), tra i due membri di una coppia (Grewen et al., 2005; Schneiderman et al., 2012) e tra individui dall’alleanza comprovata (Crockforder al., 2013). Nell’essere umano e in altre scimmie antropomorfe, come ad esempio gli scimpanzè, vi sono evidenze a supporto dell’idea che il sistema dell’ossitocina endogena sia stato co-optato dalla sua originaria funzione legata alla maternità e la riproduzione, per facilitare la vicinanza emotiva e cooperatività in una gamma più ampia di partner sociali (De Dreu, 2012; Nagasawa et al., 2010; Samuni et al., 2017).

Tra i nostri cugini più prossimi, le scimmie bonobo (Pan Paniscus) rappresentano un modello particolarmente promettente per indagare la funzione della sessualità prosociale, in quanto le femmine di questa specie intrattengono tra di loro rapporti sessuali molto frequenti, al pari se non superiori a quelli consumati con la controparte maschile, accompagnati dall’instaurarsi di collaborazioni tra femmine della stessa comunità al fine di procacciare, difendere o condividere beni di consumo potenzialmente monopolizzabili, o per coordinare attacchi ai danni degli individui di sesso maschile.

Se da un lato quindi le attività erotiche tra scimmie femmine, ovvero strusciamenti genito-genitali o GG-rubbing, sono state riscontrate come mezzo di inclusione e vicinanza emotiva tra individui non consanguinei (Yamamoto, 2015; Goldstone et al., 2016), sembra che contrariamente a quanto avviene nella nostra specie lo stesso non avvenga con partner di sesso opposto e che l’atto sessuale non riproduttivo abbia lo scopo di ridurre l’aggressività sessuale maschile e di creare incertezze circa la paternità, che spiegherebbe l’insolita infrequenza di attacchi infanticidi in questa specie.

Un recente studio di Moscovice et al. (2019), condotto nella riserva naturale dei bonobo Bompusa presso LuiKotale, nella Repubblica democratica del Congo, ha permesso di analizzare il comportamento sessuale di una comunità di primati composta da una quarantina di individui consanguinei e non, mettendo in diretto confronto le attività sessuali che hanno visto impegnati individui di sesso opposto, con quelle dirette ad individui dello stesso sesso, in termini di comportamento cooperativo, vicinanza emotiva (dimostrata nei termini di una tolleranza alla prossimità fisica solitamente associata alla predilezione specifica per un individuo) e livelli di ossitocina periferica rilevata.

Le diverse coppie impegnate in comportamenti sessuali non riproduttivi sono state analizzate per determinare un Indice Composito di Relazione Diadica (n.d.t.: Dyadic Composite Relational Index su modello di Crockford et al., 2013), dedotto considerando tutti i comportamenti socialmente positivi comuni, come ad esempio il grooming (n.d.t.: toelettatura) o la prossimità fisica, i comportamenti sociali positivi rari, come l’offrire supporto all’interno di alleanze o condividere il cibo, ed infine i comportamenti sociali di stampo negativo, come l’aggressione interindividuale.

Sono state analizzate in questo modo 971 attività sessuali distinte, riscontrando come la maggioranza di esse vedesse coinvolti individui femmine (65%) e nella quasi totalità dei casi era rappresentata da uno strusciamento genitale. Un ulteriore 34% degli eventi erotici coinvolgeva diadi intersessuali, ma la maggioranza di tali eventi consisteva nella copulazione (83,5%); solo nell’1% delle osservazioni erano coinvolti due individui di sesso maschile.

La maggior parte di tali attività sessuali avveniva in concomitanza con il consumo di cibo, momento nel quale le femmine dei bonobo formano alleanze escludendo i maschi, anche con attacchi aggressivi. In linea con l’ipotesi degli autori, tali momenti erano caratterizzati da una predilezione statisticamente rilevante per i contatti erotici in diadi composte da femmine (Sex Preference Hypothesis). Al contempo, si è potuto constatare come allo strusciamento genito-genitale seguisse preferibilmente un periodo di vicinanza prossimale, rispetto a quanto avveniva nelle copule che vedevano coinvolti individui di sesso diverso (56% vs. 35%): si è riscontrato come esemplari che avessero una distanza <1 metro, avessero più probabilità di restare in prossimità l’uno dell’altro a seguito di uno strusciamento genitale rispetto a quanto avvenisse a seguito di un rapporto vaginale.

Per quanto riguarda i livelli di ossitocina rilevati nelle urine, si è riscontrato come le femmine di bonobo esibissero pattern di attivazione fisiologica differenti a seguito delle diverse attività sessuali: tale indice si innalzava in maniera rilevante a seguito delle interazioni tra due femmine ed in particolare al genital rubbing, al contrario, a seguito di una copula, i livelli di ossitocina apparivano inalterati rispetto alla baseline.

Per concludere, i risultati ottenuti dallo studio di Moscovice e colleghi (2019) supportano l’ipotesi che le interazioni sessuali che esulino dallo scopo riproduttivo possano fungere come un potente meccanismo per stringere alleanze tra membri dello stesso sesso, consentendo di guadagnare supporto sociale, condivisione delle risorse e mutua difesa.

 

L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale

Per diventare psicoterapeuti occorre un percorso lungo ed impegnativo in termini di tempo, finanziari ed emotivi. Dopo di che, la targhetta con la dicitura “Psicoterapeuta in…” può essere affissa. Eppure nessuno dice mai la verità perché, parallelamente a tutto questo, ai libri e agli esami, ci sono due grosse fette di formazione: la supervisione e la terapia personale.

Si suggerisce l’ascolto del brano Prospettiva Nevsy (Battiato, 1980) durante la lettura.

 

Per diventare psicoterapeuti occorre un percorso lungo ed impegnativo in termini di tempo, finanziari ed emotivi. Laurea. 5 anni (se va bene). Tirocinio ed esame di stato. 1 anno (se va bene). Specializzazione e discussione tesi altri 4 anni (se va bene). Dopo di che, la targhetta con la dicitura “Psicoterapeuta in…” può essere affissa. Fila tutto, vero? Ma nessuno dice mai la verità perché, parallelamente a tutto questo, ai libri, agli esami ci sono due grosse fette di formazione: la supervisione e la terapia personale. A cosa servono? Il supervisore è un collega più esperto dell’allievo e lo aiuta nella conduzione e nella gestione dei casi più complessi. La terapia è una comune psicoterapia in cui però il paziente è un terapeuta. Da qui la famosa battuta: “Un terapeuta che va da un altro terapeuta?” Sì, esatto, proprio così. Non è molto diverso dal dentista che va dal collega dentista o dal fisioterapista che si fa aiutare da un altro fisioterapista. Ma perché, quindi, aggiungere fatica alla fatica? Serve perché siamo umani, abbiamo le nostre personalità, i nostri schemi, che a volte ostacolano o rendono difficile la relazione con il paziente di turno così come nelle altre normali relazioni di vita. Nella terapia metacognitiva interpersonale si chiamano cicli interpersonali maladattivi (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). I pazienti li mettono in atto con gli altri, e noi possiamo essere l’altro di turno.

Perché la supervisione, a volte, è terapia e anche la terapia personale per un terapeuta è spesso anche supervisione? Il confine non è netto, le sovrapposizioni sono inevitabili e necessarie. Capita spesso, infatti, che in una supervisione individuale o di gruppo l’allievo cominci a parlare di casi clinici con piglio tecnico, atteggiamento distaccato e linguaggio accademico. Accade poi che, un intervento del supervisore o un feedback dei colleghi del gruppo, spalanchino delle porte faticosamente volute chiuse. Come una sorta di tsunami emotivo, quello che un attimo prima era un confronto tra colleghi, una richiesta di chiarimenti riguardo un paziente difficile, diventa un’esplorazione condivisa di stati mentali interni, schemi e strategie di coping che riguardano soprattutto l’allievo e solo in parte il paziente di cui si sta parlando.

Le emozioni possono essere di vergogna, dove, a fronte di un bisogno di sentirci apprezzati dal nostro tutor o di ricevere aiuto, possiamo percepire irrazionalmente e proceduralmente i suoi interventi come giudicanti. Ci rappresentiamo lo sguardo e la presenza degli altri come invalidanti, ci sentiamo umiliati, denigrati, si riattiva un’immagine di inadeguatezza che ci può portare a provare scetticismo e disprezzo verso il gruppo e il supervisore. Questo accade perché il supervisore può semplicemente incarnare l’altro di uno schema in cui appare umiliante, invalidante, poco caldo (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Se le lenti dello schema ce lo fanno rappresentare in questo modo, dalla supervisione si può uscire rotti, tristi, in preda alla vergogna, con la tendenza a non volerci tornare più.

Invece, il supervisore può aiutare a rintracciare questi temi e favorirne la discussione. Il risultato è che se si capisce che lo schema è pervasivo, c’è l’invito alla psicoterapia altrimenti con una manovra di differenziazione, il tutor torna ad essere colui che aiuta, valida e non giudica. L’allievo è più consapevole. La relazione è salva.

Cosa ricordiamo della nostra primissima supervisione? Cose tipo: “Vabbè non ci torno più”; “Mi legge nella testa, non potrò fregarlo, capirà che sono una buona a nulla”. Diciamo qualcosa tipo: “Non è proprio così, come dice lui. Il paziente è mio e so meglio di lui quello che sente”. Pensiamo che si sia sbagliato, che le supervisioni siano inutili, che ce la possiamo fare da soli, che in fondo non ne abbiamo bisogno, che la scuola di specializzazione e i corsi di formazione che seguiamo sono più che sufficienti, ecc. Oppure entriamo in una subroutine di subordinazione in cui diciamo sempre “si”, senza in realtà comprendere nel profondo quanto il supervisore ci sta dicendo in quel momento. Sentiamo la sua voce ma non ci arriva niente mentre annuiamo in modo dissociato.

Queste reazioni ci proteggono, ci fanno sentire al sicuro, più validi e più forti. Ma se continuassimo a seguire questi stati di coping, continueremmo a lavorare con difficoltà. Ad es., lo schema di inadeguatezza continuerebbe a riattivarsi coi pazienti, stavolta però, senza possibilità di condividere le nostre difficoltà. Situazione ancora più scomoda poi, quando capita (e capita spesso), che ancora novizi, e anche se non abbiamo particolari tratti psicopatologici, il supervisore ci inviti caldamente a iniziare una psicoterapia personale. In casi del genere oltre a percepirci inadeguati possiamo vederci anche vulnerabili, se non addirittura “malati”, ma come? Io psicoterapeuta che curo gli altri devo andare in terapia? Fortunatamente, almeno per chi scrive, ormai questi stati mentali interni dolorosi e di coping durano poco, siamo temprati e allenati a riconoscerli, anche grazie all’aiuto del gruppo o del supervisore, riusciamo a rispondere a essi. Ed è in questo senso che allora una seduta di supervisione si sovrappone ad una seduta di psicoterapia. La situazione, come abbiamo visto, attiva i nostri schemi: bisogni di cure, apprezzamento, inclusione, cooperatività. Inevitabilmente questo ci riporta a nostri vissuti personali, esperienze intime di vita, temi esistenziali sui quali per forza di cose il supervisore va ad intervenire, e lo fa in modo molto simile a come accade durante una seduta di psicoterapia personale.

Crediamo che la più grande utilità della supervisione stia nell’allenarci a stare nella relazione in modo funzionale. Che cosa vuol dire? Significa riconoscere i cicli interpersonali attivi, regolarli e risolverli. Significa usare in modo adattivo le self-disclosure, riconoscere e riparare le rotture terapeutiche. Significa distinguere quello che, in un preciso momento, è determinato dal paziente oppure nasce dall’attivarsi di schemi del terapeuta, riuscendo a riconoscerli assieme al paziente. E non per ultimo, significa utilizzare la relazione come parametro di andamento della terapia.

Cosa saremmo senza la supervisione? Forse saremmo ancora totalmente centrati su noi stessi, sempre alla ricerca di quell’apprezzamento speciale. Forse rischieremmo di accudire il paziente in crisi. Rischieremmo di sentirci deturpati nel ruolo se non chiama quando è in difficoltà. Staremmo a soffrire in modo indifferenziato quando il paziente interrompe la terapia o non migliora. Ma soprattutto, non saremmo capaci di differenziare e di utilizzare il nostro ragionamento interno come parte integrante della terapia al fine di una buona sintonizzazione. Se non avessimo imparato a ragionare in un’ottica mentalistica anche nella vita, forse non avremmo mai potuto insegnarlo ai nostri pazienti.

Inoltre la supervisione può aiutare a sviluppare un atteggiamento di apertura e curiosità mentale, accettando e osservando con curiosità quello che momento per momento emerge nelle sedute anche in merito alla relazione. Questo vuol dire riconoscere e riparare le rotture relazionali e metacomunicarle, come Safran e Muran ci insegnano, alla volta dello svelamento e della ricongiunzione funzionale (Safran e Muran, 2003). Questo è indispensabile in una psicoterapia basata sulla relazione e sulle emozioni anche negative o dolorose, quelle che sembrano eccessive o intollerabili.

Io ricordo (e neanche questa volta non riveliamo chi degli autori del presente articolo stia raccontando) che, quando, faticosamente ammetto, accettai l’invito del mio supervisore a fare la terapia personale, subito pensai che sarebbe stato carino sentire quello che, immagino, possano sentire alcuni dei miei pazienti. Quel batticuore giù al portone al primo appuntamento, il desiderio di prendere tempo utilizzando il bagno, il sentirsi autorizzati a prendere uno, due, tre fazzoletti per ogni lacrima. Ma una cosa che mi ha insegnato la terapia è: accedere al proprio mondo interno non sentendosi soli. E questo mi ha fatto vivere in modo diverso anche le supervisioni oltre che la terapia con i miei pazienti.

Durante una supervisione quindi non si parla solo del paziente (il suo funzionamento clinico ci è già chiaro e anche le procedure studiate da seguire le sappiamo). Si parla del terapeuta/allievo e dei suoi stati interni diacronici (vissuti durante la seduta col paziente) e sincronici (nel qui e ora della seduta di supervisione). Stesso processo avviene durante una seduta di psicoterapia. Il focus non è su cosa fare e non fare, dire e non dire in seduta. Il focus è su come si sta in seduta. La presentazione di un caso clinico in supervisione può essere infarcita di racconti dettagliati, valutazioni diagnostiche, formulazioni più o meno chiare e coerenti. Tuttavia due domande del supervisore saranno sempre le stesse: “Cosa provavi in quel momento” e “Cosa senti mentre ne parli adesso”? In questo le similitudini con specifici eventi narrativi raccontati durante la terapia personale sono evidenti. Una seduta di supervisione fatta in questo modo è come un film d’autore, faticosa e attivante mentre la si vive, appagante e chiarificatrice, quando si esce dallo studio, ti rimane dentro una settimana. Però esiste anche l’aspetto cooperativo e scherzoso, il gioco sociale, insomma. Noi col nostro supervisore ridiamo, scherziamo, portiamo i dolcetti. Insomma, non lavoriamo solo in modo serio e distaccato. E questo ha contribuito a lenire l’immagine che si può costruire nella mente rispetto al ruolo.

Sebbene in molte scuole di specializzazione la supervisione e la terapia personale non siano obbligatorie, abbiamo potuto toccarne con mano l’estrema utilità. Sotto tanti punti di vista, quelli che abbiamo cercato di approfondire in queste poche righe. Ormai sono anni che affrontiamo questo tipo di percorso ed abbiamo letteralmente imparato ad integrarlo nella prassi clinica. Come molti altri aspetti che riguardano il nostro lavoro anche questo qui, la relazione tra supervisione e terapia, può essere meglio compresa vivendola con apertura e cuiorsità.

C’è qualcosa che ricordi del tuo supervisore, Vito?

“Potrei raccontare tantissimi aneddoti ma non è questa la sede. Ricordo tutte le volte che mi riprende ma fa bene a farlo perché è quello che mi aiuta e ci aiuta a crescere. Subito dopo, però, mi incoraggia e mi sostiene”

E a te, Virginia, cosa ti viene in mente?

Io invece ricordo quando risponde, con estrema calma: “uhm, non lo so” …e, poi, non dimenticherò mai quando gli ho proposto l’esercizio del super-eroe e lui l’ha provato veramente!”

Ma vuoi vedere che abbiamo lo stesso supervisore?

 

La relazione terapeutica in terapia cognitivo comportamentale. Manuale per il professionista (2019) di Kazantis, Dattilio e Dobson – Recensione del libro

Sviluppare una sana relazione terapeutica consente di potenziare gli esiti di trattamento, prevenire e ridurre i drop-out e raggiungere i pazienti considerati difficili da trattare.

 

 Lungi dal considerare la terapia cognitivo comportamentale (CBT) come un mero insieme di tecniche e strategie, gli autori (N. Kazantis, F. M. Dattilio e K. S. Dobson) mettono in luce l’importanza di instaurare una buona relazione terapeutica con i pazienti al fine di fornire una psicoterapia veramente efficace.

È risaputo che per poter applicare specifiche strategie terapeutiche è innanzitutto necessario coinvolgere e ingaggiare il paziente nel percorso di trattamento. La capacità di creare un ambiente sicuro, protetto, rispettoso, non giudicante, accogliente e comprensivo è lo strumento essenziale su cui fondare l’intero processo terapeutico. Gli autori sostengono che la relazione terapeutica, al pari e prima dell’applicazione di altri strumenti, sia il principale agente di cambiamento in CBT.

Il testo fornisce spunti e suggerimenti pratici per guidare lo sviluppo di una sana relazione terapeutica, al fine di potenziare gli esiti di trattamento, prevenire e ridurre i drop-out e raggiungere i pazienti considerati difficili da trattare, come quelli che presentano gravi disturbi di personalità e psicopatologie di lunga data.

Dopo una prima parte dedicata alla definizione di relazione terapeutica (capitoli 1 e 2), il testo propone una serie di consigli ed esempi per adattare ogni fattore relazionale supportato empiricamente, ossia i fattori relazionali comuni a ogni tipo di psicoterapia (empatia espressa, considerazione positiva, alleanza di lavoro e feedback), in base alla formulazione del caso (capitolo 3).

I capitoli 4 e 5 ci offrono, rispettivamente, una definizione e una guida per l’uso dell’empirismo collaborativo e del dialogo socratico (metodi specifici dell’approccio CBT) come strumenti per motivare e coinvolgere il paziente nel trattamento.

I successivi capitoli (dal 6 al 11) illustrano come incorporare la relazione terapeutica nei vari aspetti strutturali di una seduta, negli interventi in seduta, negli homework, negli esperimenti comportamentali e cognitivi e nelle fasi di chiusura della terapia.

La parte finale del volume rivolge l’attenzione alla rilevanza della relazione terapeutica nella gestione dei dilemmi etici e nell’orientare le risposte emotive del terapeuta in seduta. Infine, un’ultimissima parte è dedicata all’applicazione delle abilità relazionali nel lavoro con coppie, famiglie, gruppi e adolescenti.

Il testo è rivolto a tutti i professionisti della salute mentale, in particolare a quei terapeuti CBT che avvertono il bisogno di colmare lacune nel padroneggiare gli aspetti relazionali e a tutti coloro che si trovano a dover affrontare e gestire pazienti resistenti o difficili da trattare, per i quali l’aspetto relazionale diventa la chiave per avviarsi alla risoluzione della psicopatologia presente.

 

Come il mantenimento di uno stato ansioso possa essere preferibile al rilassamento: il Disturbo d’Ansia Generalizzata

L’ansia indotta da rilassamento è stata studiata per la prima volta da Heide e Borkovec (1983), ma le cause sottostanti tale fenomeno non sono ancora state pienamente chiarite. Newman e Llera (2011) hanno ipotizzato a tal proposito il modello dell’evitamento del contrasto 

 

Il Disturbo d’Ansia Generalizzata (DAG) è un disturbo caratterizzato da preoccupazione e ansia incontrollabili ed eccessive relative a una quantità di eventi o di attività. La sintomatologia include irrequietezza, facile affaticamento, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, tensione muscolare e alterazioni del sonno.

Il rilassamento applicato, inteso da Öst (1987) come una forma di rilassamento muscolare progressivo in forma abbreviata, ha la funzione di permettere il rapido raggiungimento di uno stato di rilassamento in risposta a stimoli ansiosi tramite la contrazione e il successivo rilassamento di distretti muscolari specifici, riducendo in tal modo l’entità delle risposte ansiose. Per questo motivo, questa e altre tecniche di rilassamento, quali la respirazione diaframmatica e i training basati sulla mindfulness, vengono spesso incluse come componenti centrali nel trattamento del DAG.

Nonostante l’usuale efficacia di queste tecniche nel ridurre ansia e tensione fisiologica, in alcuni individui possono indurre un peggioramento dello stato ansioso. Tale fenomeno paradossale viene definito come ansia indotta da rilassamento e consiste nel presentarsi di un picco d’ansia, di tensione muscolare e di pensieri e immagini ansiosi nel momento in cui una persona si appresta a raggiungere uno stato di rilassamento. Gli individui più soggetti a sperimentare questo tipo di condizione sono proprio coloro che dovrebbero trarre maggiore beneficio dalle tecniche di rilassamento, ovvero le persone con disturbi d’ansia.

L’ansia indotta da rilassamento è stata studiata per la prima volta da Heide e Borkovec (1983), ma le cause sottostanti tale fenomeno non sono ancora state pienamente chiarite. Newman e Llera (2011) hanno ipotizzato a tal proposito il modello dell’evitamento del contrasto, nel quale è stato postulato che per le persone ansiose risulterebbe preferibile un mantenimento continuo della preoccupazione rispetto alla possibilità di entrare in uno stato di rilassamento con il rischio di incorrere successivamente in un brusco passaggio a emozioni negative in caso di eventi stressanti inaspettati.

L’ansia indotta da rilassamento potrebbe quindi essere dovuta al timore di un possibile contrasto negativo dal punto di vista emotivo e, quindi, al desiderio di mantenere uno stato emotivo costantemente negativo come protezione rispetto a tale evenienza.

Con l’intento di comprendere meglio il rapporto tra ansia indotta da rilassamento, disturbo d’ansia generalizzata ed evitamento del contrasto, Kim e Newman (2019) hanno condotto uno studio che è stato recentemente pubblicato sul Journal of Affective Disorders. I ricercatori hanno reclutato per lo studio 96 studenti universitari, i quali sono stati a loro volta suddivisi in tre gruppi a seguito della compilazione di due questionari self-report, il Genaralized Anxiety Questionnaire-IV e il Beck Depression Inventory-II.

I partecipanti includevano 32 persone con disturbo d’ansia generalizzata, 34 persone con Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) e 30 soggetti di controllo che non riportavano nessun disturbo. Nella prima fase dello studio i partecipanti sono stati guidati in un training di rilassamento, il quale comprendeva rilassamento applicato e respirazione diaframmatica, prima di essere esposti alla visione di video che potevano elicitare paura o tristezza. A questo punto ai partecipanti è stato chiesto di compilare una lista di domande strutturate per valutare il loro grado di sensibilità a bruschi cambiamenti nel loro stato emotivo.

Nella seconda fase i ricercatori hanno guidato nuovamente i partecipanti al rilassamento tramite il training precedente per poi sottoporgli un secondo questionario, strutturato invece per misurare l’ansia provata dai partecipanti durante la seconda sessione di rilassamento. Al termine dell’analisi dei dati è emerso che i partecipanti con disturbo d’ansia generalizzata risultavano maggiormente sensibili, rispetto ai partecipanti appartenenti agli altri due gruppi, a un brusco passaggio a stati emotivi negativi, quali paura e tristezza. Inoltre, la sensibilità al contrasto emotivo negativo è risultata mediare totalmente la relazione tra DAG e ansia indotta da rilassamento e parzialmente la relazione tra DDM e ansia indotta da rilassamento, andando a supporto del modello di Newman e Llera (2011).

I risultati dello studio di Kim e Newman (2019) si mostrano rilevanti in quanto permettono una migliore comprensione del fenomeno dell’ansia indotta da rilassamento, per la quale potrebbero essere implementate specifiche tecniche di esposizione che abbiano come obiettivo la desensibilizzazione rispetto al contrahesto emotivo negativo, aiutando i pazienti con disturbi d’ansia a poter usufruire pienamente degli effetti benefici delle tecniche di rilassamento e, in particolare, del rilassamento applicato.

 

Jung e Neumann. Psicologia analitica in esilio. Il carteggio 1933-1959 – Recensione del libro II parte

Se Jung è considerato il caposcuola della psicologia analitica, Neumann fu certamente uno dei suoi più importanti allievi e seguaci. Il rapporto tra i due iniziò nel 1933, quando Jung era già affermato (aveva 58 anni), Neumann (che ne aveva 28) si proponeva di diventare analista e Hitler in Germania aveva appena conquistato il potere…

 

Nella prima parte di questa recensione si è cercato soprattutto di raccontare le singolari vicende della traduzione italiana dell’epistolario tra Carl Gustav Jung e Erich Neumann, vicende che meritavano un resoconto dettagliato. Vale però la pena di tornare su questo volume, per cercare di approfondirne maggiormente il contenuto.

Se Jung è considerato il caposcuola della psicologia analitica, Neumann fu certamente uno dei suoi più importanti allievi e seguaci. Il rapporto tra i due iniziò nel 1933, quando Jung era già affermato (aveva 58 anni), Neumann (che ne aveva 28) si proponeva di diventare analista e Hitler in Germania aveva appena conquistato il potere. Neumann, ebreo berlinese e convinto sionista, decise ben presto di espatriare e trasferirsi in Palestina. Tuttavia, avendo conosciuto Jung in occasione di un suo seminario estivo a Berlino, si fermò a Zurigo per potersi sottoporre con lui ad analisi personale a scopo di formazione. Le primissime lettere testimoniano in effetti del primo appuntamento offerto al giovane candidato e del primo paziente che Jung gli inviò, già all’inizio del 1934, a testimonianza di una notevole stima nei suoi confronti. Dal canto suo, Neumann manifestò sempre una grande reverenza verso Jung ma non se ne sentì mai intimidito: in una lettera scritta prima del trasferimento a Tel Aviv (a metà 1934) l’allievo scrisse al maestro una lunga lettera (4N), nella quale chiedeva spiegazioni per la sua decisione di accettare la presidenza dell’Associazione medica internazionale di psicoterapia, che era ormai fortemente allineata sulle posizioni della sezione tedesca, già del tutto nazificata. In effetti l’Istituto psicoanalitico di Berlino era stato cancellato, si può dire, con un tratto di penna, dato che la psicoanalisi, fondata dall’ebreo Freud e praticata soprattutto da ebrei, era considerata dai nazisti entartete Wissenschaft, scienza degenerata. Al suo posto era sorto l’Istituto Goering, dal nome del noto psicoterapeuta, cugino dell’ancora più noto comandante della Luftwaffe. In questa situazione Jung, per di più, scrisse un articolo estremamente inopportuno per la situazione storica, nel quale parlava delle differenze tra ‘inconscio ariano’ e ‘inconscio ebraico’, ritenendo Freud e Adler inconsapevoli della propria Ombra (come tecnicamente la psicologia analitica definisce il lato oscuro della propria personalità), in questo si sarebbero dimostrati esponenti tipici del popolo ebraico (Jung, 1934a). L’articolo venne assai criticato soprattutto dallo psichiatra svizzero Gustav Bally (1934), al quale Jung rispose che non era certo sua intenzione assumere una posizione antisemita e che idee simili le aveva esposte in tempi non sospetti (Jung, 1934b). Evidentemente Bally fu convinto dalla risposta di Jung, o almeno dal suo successivo comportamento, dato che dopo la Seconda guerra mondiale ebbe occasione di parlare dello psichiatra svizzero in modo molto favorevole (Ellenberger, 1970). Jung, in effetti, aiutò diversi colleghi ebrei a espatriare e, come si è saputo anni dopo la sua morte, collaborò con il servizio segreto britannico.

Come si legge nell’ampio e indispensabile saggio introduttivo al carteggio Jung-Neumann, firmato da Martin Liebscher, la posizione di Jung suscitò lo sconcerto dei suoi diversi allievi di origine ebraica. James Kirsch, uno dei più noti, scrisse un intervento in cui, se da una parte difendeva Jung dall’accusa di antisemitismo da parte di Bally, dall’altra definiva assai unilaterali le sue posizioni (Liebscher, 2015, p. 31). La discussione tra Jung e Kirsch proseguì in una serie di lettere (pubblicate in: Jung, J. Kirsch, 2011). Jung però la chiuse eleggendo di fatto proprio Erich Neumann come proprio interlocutore rispetto alla questione ebraica, illudendo però ambedue gli interlocutori sul proprio interesse ad approfondire la cultura ebraica al fine di scrivere un saggio psicologico sull’argomento. Una tale impresa fu alla fine compiuta dallo stesso Neumann, il quale tenne un seminario dal titolo Seelenproblemen des modernen Juden (Problemi dell’anima degli ebrei moderni), che purtroppo è andato perduto. Neumann in effetti difese in pubblico Jung anche da Kirsch, ma nell’epistolario sembra in parte deluso dal proprio maestro. Questi, di fronte ai suggerimenti culturali in merito all’ebraismo contenuti nelle lettere di Neumann non sembra dare molto seguito, chiedendo piuttosto che questi gli parli del suo rapporto con la Palestina in quanto terra.

Se però Jung si dimostrò restio a discutere la cultura ebraica in generale, più volte ritornò su questioni teologiche nelle lettere a Neumann. Alcuni contenuti dell’epistolario risultano di particolare interesse per chi studi questo aspetto del pensiero junghiano. In questa sede si può ricordare almeno un chiarimento sugli spunti a proposito della psicologia di Dio, presenti soprattutto in Risposta a Giobbe (Jung, 1952a). Ufficialmente, Jung non considerava queste idee come una descrizione del divino, ma solo di come l’uomo si era trovato a descrivere il divino nella Bibbia (Jung, 1952b). Nelle lettere a Neumann, invece, questa cautela viene meno, e Jung può chiaramente affermare che Dio cerca l’uomo per diventare una cosa sola con esso (lettera 89J, p. 335) e che la ragione per cui lo cerca è che senza l’uomo Dio è inconscio (lettera 119J, pp. 390-393; per maggiori approfondimenti sulla teologia di Jung, mi permetto di rinviare a Innamorati, 2013).

Nel corso del tempo Neumann divenne, da semplice allievo, un riferimento importante per Jung, che a proposito della Storia delle origini della coscienza (Neumann, 1949a) si spinse a scrivere in una lettera:

In questo libro Lei sviluppa molti temi meglio di me e porta avanti parecchi aspetti su cui invece mi ero bloccato alle prime difficoltà (lettera 42J, p. 251).

In seguito, nella prefazione che Jung stesso scrisse al libro di Neumann, lo svizzero confermò la stessa opinione:

La sua opera mi giunge particolarmente gradita; essa infatti comincia proprio là dove anch’io, se mi fosse concessa un’altra vita, avrei iniziato a radunare i disiecta membra dei miei scritti, a selezionare e a organizzare in un insieme organico tutti quegli ‘spunti senza seguito’ (Jung, 1949, p. 225).

In effetti pare che nei convegni annuali di Eranos, che raccoglievano i principali esponenti della psicologia analitica (Neumann vi partecipò a partire dal 1948), le frequenti conversazioni informali tra Jung e Neumann tacitavano tutti gli astanti. Simili attenzioni da parte di Jung attirarono invidie sotterranee e anche l’esplicita ostilità da parte di membri influenti del gruppo degli allievi zurighesi, tra tutti Carl Alfred Meier e Jolande Jacobi: il prezioso saggio di Liebscher ricostruisce, facendo largo uso di documenti inediti, anche la storia dei rapporti tra Neumann e gli altri junghiani, spiegando così almeno parte dei motivi per cui, malgrado la considerazione in cui fu tenuto da Jung, la sua opera sia rimasta relativamente sottovalutata in seno al movimento junghiano, al punto che ambedue gli studi più ampi su tale movimento (Samuels, 1985; T. Kirsch, 2000) gli dedicano uno spazio sorprendentemente limitato.

In ogni caso proprio chi sia interessato ad approfondire lo studio di Erich Neumann troverà le maggiori motivazioni nella lettura di questo epistolario, dato che le lettere di Neumann sono più numerose, più ampie e gettano una luce molto significativa su quali fossero i suoi spunti di maggiore originalità rispetto a Jung. Inversamente, un documento significativo e inedito sulle specifiche riserve che Jung poteva nutrire a proposito delle idee di Neumann compare in appendice a questo epistolario. Si tratta di uno scritto che contiene le correzioni e le modifiche proposte da Jung per la pubblicazione in inglese di un altro importante libro neumanniano: Psicologia del profondo e nuova etica (Neumann, 1949b).

 

L’ipnosi può modificare il nostro atteggiamento?  

Moderne ricerche hanno dimostrato che l’ipnosi è in grado di modificare i comportamenti automatici cioè le associazioni apprese tra stimolo e risposta (abitudini).

 

Nella nostra vita quotidiana siamo costantemente portati a compiere delle scelte, dal cosa mangiare, al come vestirci, o alla persona con cui scambiare due parole; questi comportamenti sono guidati da atteggiamenti che possono essere impliciti o espliciti, con il termine atteggiamento si indica la disposizione della persona nel produrre risposte emotive o comportamentali orientate verso l’ambiente o se stessi.

Gli atteggiamenti definiti impliciti riflettono quei comportamenti o pensieri che vengono messi in atto in maniera automatica, inconsapevole e senza riflessione; mentre gli atteggiamenti espliciti sono scelte guidate da riflessioni che precedono l’azione.  Quando riceviamo dall’ambiente informazioni contraddittorie rispetto al nostro comportamento o modo di pensare (ad esempio considerare simpatica una persona che poi si rivela antipatica), tendiamo a cambiare il nostro atteggiamento esplicito, ma non quello implicito (Gawronski et al., 2006).

Inizialmente, stando alla teoria del processo duale, si pensava che la valutazione implicita fosse governata dalla memoria, in particolare dall’apprendimento di associazioni, mentre la valutazione esplicita dalle credenze cognitive; tuttavia i recenti studi sperimentali mostrano che anche l’atteggiamento implicito è modulato dalle credenze cognitive sottostanti (Van Dessel et al., 2019).

Uno dei metodi considerato oggi particolarmente utile nell’indagare le credenze implicite dei soggetti è l’ipnosi; quest’ultima consiste nell’indurre al soggetto uno stato di suggestione molto simile al sonno che viene indotto da un professionista (ipnotista); la differenza principale tra sonno e ipnosi è che, quest’ultima, è una condizione di concentrazione aumentata e focalizzata, a differenza del sonno (Oakley&Halligan 2013).

Moderne ricerche hanno dimostrato che l’ipnosi è in grado di modificare i comportamenti automatici cioè le associazioni apprese tra stimolo e risposta (abitudini); inoltre un recente studio pubblicato su Psychological Science ha mostrato come l’ipnosi sia in grado di modificare gli atteggiamenti impliciti, andando ad agire sulle credenze cognitive dell’individuo (Van Dessel et al., 2019).

Questi risultati hanno un impatto principalmente clinico, dato che i comportamenti automatici possono essere adattivi in certi casi, e quindi garantire un corretto funzionamento dell’individuo, mentre in altre situazioni possono essere maladattivi, andando ad incidere negativamente sulla vita della persona; per quel che riguarda gli atteggiamenti impliciti, è dimostrato in letteratura come essi abbiano un impatto negativo in disturbi come: fobie specifiche, depressione e disturbi di addiction (Becker et al., 2016), sottolineando così che, eventuali terapie basate sull’ipnosi possono modificare gli atteggiamenti impliciti portando probabilmente dei benefici, specialmente nei disturbi precedentemente elencati.

Tuttavia gli atteggiamenti impliciti non hanno un impatto solo sulla nostra salute psichica, ma governano il comportamento di tutti i giorni, come per esempio la nostra alimentazione. Uno studio ha modificato tramite l’ipnosi gli atteggiamenti impliciti riguardanti l’alimentazione sana (mangiare frutta e verdura) portando così i soggetti a mangiare più volentieri alimenti sani (Van Dessel et al., 2019).

Arrivati a questo punto sorge spontanea una domanda: come fa l’ipnosi a modificare i nostri atteggiamenti impliciti?

Precedentemente abbiamo detto che quando riceviamo dall’ambiente informazioni contrastanti con il nostro atteggiamento, tendiamo a cambiare quello esplicito ma non quello implicito; questo tuttavia non accade se l’informazione contrastante perviene mentre siamo in uno stato di trance ipnotica (Van Dessel et al.,2019).

Tramite l’ipnosi, l’ipnotista, in una prima fase fa un test per verificare il livello di suggestionabilità dell’individuo, chiedendogli di immaginare il braccio pesante, immobilizzato; se il test va a buon fine, allora, l’ipnotista procede dicendogli che la prossima informazione che riceverà la processerà ad un livello più profondo del solito, con più attenzione e più concentrazione (così che vada anche a modificare l’atteggiamento implicito oltre che l’esplicito). Subito dopo, l’ipnotista dà l’informazione contrastante con l’atteggiamento dell’individuo su un determinato ambito, andando cosi a modificare oltre che la parte esplicita anche la componente implicita dell’atteggiamento (Van Dessel et al., 2019).

Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: quando l’amore diventa una droga e il pensiero desiderante aumenta una narrazione a senso unico

Ogni essere umano esprime un naturale e profondo bisogno di dare e ricevere amore, finalizzato ad uno sviluppo psicofisico sano, ma quando questo sentimento viene scheggiato da frustrazioni o addirittura dall’assenza stessa di esso, la polarità dell’innamoramento oscilla fra l’estasi e il tormento.

Manuela Tedeschi e Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Non posso stare né con te, né senza di te (Ovidio)

Ovidio descrive bene una condizione che, a distanza di epoche e culture, è ancora presente ai giorni nostri. Egli descrive quell’angoscia intollerabile che si sperimenta al solo pensiero di perdere la persona amata, ma anche il bisogno di continuare ad aggrapparsi ad essa, nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative.

L’amore romantico, coinvolge la coppia in un intenso legame, caratterizzato da profonda intimità fisica ed emotiva (Acevedo & Aron, 2009), all’interno di una struttura dinamica di esperienze (Solomon, 1988). Questa struttura viene definita matura proprio perché caratterizzata dal bisogno dell’altro con una presenza interiorizzata del partner (Acevedo & Aron, 2009): ogni essere umano esprime questo naturale e profondo bisogno di dare e ricevere amore, finalizzato ad uno sviluppo psicofisico sano, che si esprime in diverse manifestazioni di attaccamento. Quando questo sentimento viene scheggiato da frustrazioni o addirittura dall’assenza stessa di esso, la polarità dell’innamoramento oscilla fra l’estasi e il tormento.

In questa polarità, all’estremo negativo è possibile sperimentare un disagio psichico, ma lungo il continuum della linea dell’amore, vi sono diverse sfumature di sofferenza.

L’innamoramento, rappresenta la fase iniziale di una relazione, quella più passionale, carica di energia, di aspettative, di emozioni positive e di desideri accesi verso l’altro; ma nel momento in cui l’oggetto del nostro desiderio non è più disponibile, oppure vi è una delusione affettiva o si va incontro ad un rifiuto, subentra uno stato di malessere o sofferenza definito “mal d’amore”, che può essere tradotto, in termini psicologici, come una ferita narcisistica o più semplicemente come una caduta dell’autostima.

Quando questa assenza di reciprocità si fa cronica, e si diventa i soli protagonisti attivi in questa storia d’amore, aumenta perciò la sofferenza fisica e psicologica, e si parla pertanto di “intossicazione d’amore” che, se diventa sempre più maladattiva, coincide con uno stato corrispondente alla dipendenza affettiva, definita anche “droga d’amore”.

L’essenza di ogni droga è inebriarti e poi distruggere tutto ciò che di razionale hai. In questo caso anche l’amore può diventare una droga, quando esso stesso non porta un’aggiunta benefica alla tua vita, ma porta alla distruzione della relazione con l’altro, anche con conseguenze negative a livello psico-fisico per la persona stessa.

Perché si finisce col drogarsi di amore? Dagli anni 2000, i ricercatori spostano il loro focus attentivo sulla neurobiologia del piacere e dei processi di ricompensa: la fase dell’innamoramento, infatti, include i seguenti elementi che coinvolgono le funzioni cerebrali su tre livelli, ovvero le sensazioni, le emozioni e le cognizioni (Esch, 2004). A livello emotivo (Aron, 2005), le emozioni sono del tutto intensificate e amplificate, con sentimenti di euforia e gioia; la persona amata diviene oggetto del desiderio e dei propri pensieri, percepita come assolutamente necessaria per vivere (dipendenza emotiva); e infine c’è una labilità emotiva notevole che porta ad un oscillamento dell’umore che va dall’estati alla disperazione, legato alla disponibilità dell’oggetto del desiderio.

Inoltre, i processi cognitivi, sono guidati da una potente motivazione (Reynaud, 2005): questo perché l’oggetto del nostro amore, assume un “significato speciale”, raggiunge un’importanza quasi primordiale. Tra i principali meccanismi cognitivi ritroviamo quindi un’attenzione focalizzata (fissazione), data dall’elevata salienza attribuita alla persona amata; una strategia ben pianificata che consiste nel sedurre ed essere sempre più vicino all’oggetto del nostro desiderio per raggiungere un’unione emotiva con esso; ed infine troviamo un’intensa ondata di energia, difatti l’intensità del sentimento incoraggia l’individuo a volere fare tutte le attività intellettuali, fisiche ed emotive con l’altra persona.

Tra i processi cognitivi che traboccano dalla normalità, vi è una forma di memoria di tipo pervasivo, infatti nella mente di chi è profondamente innamorato vengono rievocati ripetutamente ricordi e ogni scena di un film, ogni testo di una canzone e ogni poesia vengono associati alla persona amata. Infine, ciò che crea ancora più malessere nel dipendente affettivo sono i processi di pensiero invasivi, definiti come pensieri intrusivi dati dalla presenza ossessiva della persona amata nella propria mente.

Queste sono le basi teoriche che, negli ultimi decenni, hanno permesso di associare la relazione romantica ad una dipendenza, a livello comportamentale e neuropsicologico, come una vera e propria chimica. L’esperienza che si vive, sia sotto l’effetto di droghe che nella fase dell’innamoramento, include infatti simili processi, a livello cognitivo ed emotivo, quali: l’attenzione focalizzata, gli sbalzi d’umore, la bramosia, l’ossessione, la coazione, la distorsione di realtà, la dipendenza emotiva, i cambiamenti di personalità, l’assunzione di rischi e la perdita di autocontrollo (Fisher et al., 2010, Burkett and Young, 2012).

Tipico di ogni definizione di disturbo, sono le manifestazioni cognitive e comportamentali disadattive che si manifestano in modo pervasivo coinvolgendo la sfera cognitiva, affettiva ed interpersonale dell’individuo (DSM-5, 2014). Si parla quindi di dipendenza affettiva (Fisher 2006; Miller, 1987; Schaef, 1987; Sussman & Ames, 2008) quando l’amore impregna la vita quotidiana, esacerba comportamenti non controllati con una serie di conseguenze negative fino a divenire un vero e proprio disagio psicologico.

La dipendenza affettiva è un disturbo caratterizzato dall’instaurazione di un pattern problematico di relazioni affettive che determina un marcato disagio a sua volta associato alla ricerca delle stesse, nonostante vi sia la consapevolezza dei suoi effetti negativi (Reynaud, 2010). Questo tipo di dipendenza rientra nella categoria delle New Addiction, ed è una dipendenza di tipo comportamentale poiché non ha come oggetto alcuna sostanza. Il suo nucleo centrale infatti risiede nella relazione (psicosociale) con un altro significativo.

Quando l’amore diventa droga? Giddens (1998) si interroga sulle caratteristiche che definiscono l’amore una dipendenza:

  • In una prima fase, vi è quella sensazione di euforia, di ebrezza, di piacere connesso alla droga d’amore (definito anche come la sensazione di “essere ubriaco”), attivata, a livello neuropsicologico, da una maggiore produzione dopaminergica (tipica dello stato di dipendenza – reward dependence). Di conseguenza vi è quindi un’estrema ricerca dell’altro, perché ci dà quella sensazione di eccitazione che comporta un continuo aggrapparsi ad un qualcosa che momentaneamente ci fa star bene, nonostante la consapevolezza delle sue conseguenze negative, per non avere la classica crisi d’astinenza.
  • Vi è perciò la mancanza di una “presenza interiorizzata” del partner, che consiste nella necessità di incrementare la quantità di tempo in compagnia della persona amata, come se si dovesse aumentare sempre di più la dose (tolleranza) per raggiungere l’effetto desiderato. Questa presenza tangibile risulta essere, per la persona dipendente, un metodo efficace per far fronte a sentimenti di angoscia e disperazione che possono emergere in assenza della persona amata.
  • Si parla di dipendenza perché, vi è infatti un’incapacità a controllare il proprio comportamento, difatti il pensiero critico perde la sua funzione di interpretare correttamente la situazione, le azioni dell’altro e relative a sé stessi (perdita dell’Io).

Come ogni disturbo, anche la love addiction presenta dei criteri tipici delle dipendenze comportamentali. Sulla scia dei criteri del disturbo da uso di sostanze (DSM-IV), si è cercato di applicare gli stessi criteri evidenziando le problematiche della dipendenza affettiva. La domanda che fa da filtro è la seguente: “Ha mai avuto un persistente desiderio/bisogno di avere una relazione sentimentale per potersi sentire meglio o per cambiare umore?” (craving).

  1. Quantità considerevolmente aumentata del comportamento (bisogno di dosi notevolemente più elevate) per ottenere l’effetto emotivo desiderato, si traduce in un aumento del tempo trascorso a cercare l’amore (tolleranza).
  2. Mantenimento del comportamento disfunzionale anche quando ci si impegna nell’interromperlo, poiché la stessa “sostanza” è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza, sentimenti di disperazione, angoscia e solitudine quando non si è in una relazione (astinenza).
  3. Il comportamento è messo in atto in quantità maggiore o per un periodo più lungo di quanto previsto, si continua a investire di sentimento l’oggetto d’amore anche molto tempo dopo che la relazione si è interrotta (quantità maggiori/periodo prolungato).
  4. C’è un desiderio persistente o sforzi infruttuosi per ridurre o controllare il comportamento disfunzionale, la tendenza a sostituire immediatamente relazioni finite (abbandono/controllo).
  5. Una grande quantità di tempo dedicata ad attività necessarie per iniziare (o continuare) a mettere in atto il comportamento disfunzionale o per riprendersi dai suoi effetti, ad esempio passare le ore in chat-room su Internet alla ricerca di una nuova relazione (tempo impiegato).
  6. Importanti attività sociali, lavorative o ricreative sono abbandonate o ridotte a causa del comportamento disfunzionale, l’individuo potrebbe ignorare mansioni lavorative o familiari o ridurre l’impegno in hobby prosociali mentre è alla ricerca di una relazione sentimentale (attività abbandonate).
  7. Il comportamento continua ad essere messo in atto, nonostante la consapevolezza di avere un persistente e/o ricorrente problema di natura fisica o psicologica, che è stato probabilmente causato o aggravato dal comportamento disfunzionale, l’individuo potrebbe soffrire di depressione o subire una perdita finanziaria a causa della sua dipendenza affettiva, e tuttavia continuare a ricercare una relazione sentimentale (problemi fisici/psichici).

Più nello specifico, a livello psicologico/emotivo, la dipendenza affettiva presenta i seguenti sintomi, dove la paura rappresenta la connotazione emotiva che ne fa da sfondo: paura di perdere l’amore, paura dell’abbandono, paura dell’isolamento e della distanza, paura di mostrarsi per quello che si è, senso di colpa, senso di inferiorità nei confronti del partner, rancore e rabbia, coinvolgimento totale e vita sociale limitata, gelosia e possessività. Ma la paura copre in maniera velata il nucleo principale del disagio: scavando a fondo, infatti, ritroviamo persone che mostrano una bassa autostima e per questo come poco meritevoli di essere amate e quindi destinate a non essere ricambiate del sentimento che provano e dimostrano verso l’altro.

Il dipendente affettivo pertanto, ha una scarsa conoscenza e fiducia di se stesso, ricercando conferme nell’altro perché incapace nel trovarle in sé: idealizza quindi l’altro che gli dà valore e si trasforma così in una sorta di dipendenza, dalla quale fa fatica a distaccarsi. La relazione sentimentale, all’interno di questo quadro di dipendenza affettiva è definita immatura, in quanto caratterizzata da un profondo senso di incertezza e precarietà, come se il rapporto potesse finire da un momento all’altro, e da una forte ansia di separazione legata alla perdita dell’altro, incrementando il bisogno di aggrapparsi al partner (Acevedo & Aron, 2009).

L’amore romantico, racchiude la biografia, non di una, ma di due persone all’interno di un’unica narrativa, composta da ideali e da emozioni, portata avanti grazie all’impegno da parte di entrambi. Quando però questa relazione raggiunge il declino? Quando non si parla più di due persone all’interno di un’unica narrazione, ma quando prevale una dipendenza dell’altro, messa in gioco anche da meccanismi cognitivi, come il pensiero desiderante.

Difatti, la persona dipendente seleziona strategie cognitive, tra cui il pensiero desiderante, ovvero una modalità di elaborazione dei propri desideri (Caselli, 2017), che favoriscono il processo di ego-depletion (esaurimento dell’Io). Quest’ultimo, si riferisce all’idea che l’autocontrollo o la forza di volontà attingono ad una cerchia limitata di risorse mentali che possono essere esaurite. Quando l’energia per l’attività mentale è bassa, l’autocontrollo è in genere compromesso, il che sarebbe considerato uno stato di esaurimento dell’Io. In particolare, sperimentare uno stato di ego-depletion riduce la capacità di controllarsi in seguito.

Il pensiero o rimuginio desiderante è un processo cognitivo, consapevole e volontario, che coinvolge l’elaborazione di informazioni relative a un oggetto o attività piacevoli sia in forma immaginativa (imaginative prefiguration), come ad esempio la costruzione di immagini mentali dell’obiettivo desiderato (Kavanagh et al., 2009), sia in forma verbale (verbal perseveration), elaborando appunto la necessità di raggiungere l’obiettivo desiderato tramite un “discorso interno”, di tipo verbale, ripetitivo e con dichiarazioni auto-motivate (Caselli e Spada, 2010).

Descritta l’anatomia di questo processo, emerge che la sua funzione principale è quella di motivare all’azione concreta, poiché aiuta a mettere in evidenza, a far riaffiorare alla coscienza, le conseguenze positive, permettendo di assaporarle in anticipo.

Il pensiero desiderante fa parte della sfera comunicativa umana, difatti già dagli anni ’30, Vygotskij e Piaget avevano definito la concezione del linguaggio egocentrico all’interno dei processi comunicativi umani. Secondo Piaget, in questa forma di linguaggio, il bambino non ha consapevolezza che si possono avere punti di vista diversi dai suoi; mentre Vygotskij lo concepisce come un tipo di linguaggio interiore, che serve per guidare il pensiero, risolvere i problemi e pianificare le proprie azioni. Questo tipo di pensiero diventa però disfunzionale quando assume un valore disadattivo, soprattutto in associazione con scopi deleteri per l’individuo o quando è attivato in maniera non regolata; nello specifico, assume una valenza maladattiva nel momento in cui diviene una strategia di regolazione dell’esperienza del desiderio, fortemente associata e intensificante l’esperienza di craving, sintomo centrale delle dipendenze comportamentali.

Il rimuginio è quel fenomeno puramente cognitivo e completamente mentale, senza alcun correlato fisiologico, che si accompagna all’ansia e contribuisce al suo mantenimento e aggravamento (Borkovec et al., 1990). La sua caratteristica fondamentale è la ripetitività e la sua capacità pervasiva di occupare lo spazio mentale. Il corrispettivo inglese con il termine worry (la traduzione italiana – preoccupazione – non rende l’essenza del concetto), delinea con precisione le caratteristiche principali di questo fenomeno: la predominanza del pensiero verbale di valore negativo; l’evitamento cognitivo; l’inibizione dell’elaborazione emotiva (Borkovec, 1998).

Questo processo mentale condivide alcune caratteristiche tipiche con il pensiero desiderante, tra le quali una forte attenzione focalizzata (fissazione) su di sé, una natura di tipo ricorrente e perseverante ed infine un basso livello di consapevolezza metacognitiva; quest’ultima in particolare rappresenta uno scarso livello di percezione in merito al controllo e alla natura volontaria della sua attivazione. Questi aspetti tipici, sia del rimuginio che del pensiero desiderante, comportano un conseguente impatto negativo sulla regolazione degli stati emotivi. Quale essere pensante, l’uomo possiede una capacità autoriflessiva sul proprio funzionamento cognitivo: le meta-cognizioni sono difatti quella capacità di auto-osservare i proprio stati mentali, quel pensiero che si ha sul proprio pensiero e di conseguenza sulle nostre strategie di coping, ovvero di far fronte alle situazioni.

Dipendenza affettiva e pensiero desiderante implicazioni psicologiche - imm1

Oltre che da metacredenze negative che definiscono l’incontrollabilità del nostro pensiero (come ad esempio “i miei pensieri sono fuori dal mio controllo”), il rimuginio desiderante è sostenuto in particolare da metacredenze positive che, in modo disfunzionale ne sostengono l’utilità, mantenendo uno stato di eccitazione, oltre a fungere da strategia nella definizione della scelta migliore per sé stessi (Wells, 2012). Rimuginare sui propri desideri aiuta infatti a sentirsi motivati e a prendere la decisione migliore per se stessi. Creando questo reward positivo, rimuginare sui propri desideri, diventa un’abitudine che tende ad oscure il nucleo del disturbo, poiché “preoccuparmi mi aiuta a far fronte alla situazione”.

Da un punto di vista neuropsicologico, il rimuginio desiderante é associato al craving.  Esso rappresenta un’esperienza di desiderio, intenso ed incontrollabile, per un oggetto o per un’attività con lo scopo di ottenere l’effetto desiderato (Marlatt, 1978); tende inoltre a manifestarsi in diversi modi, tramite le intrusioni mentali, gli impulsi ad agire, gli stati emotivi e le sensazioni fisiche.

Infine, il pensiero desiderante ha importanti aspetti funzionali. A breve termine, aiuta a gestire il craving, spostando l’attenzione via dall’esperienza e verso un’elaborazione dell’obiettivo desiderato. Nel medio-lungo termine, porta però ad una escalation del craving, in quanto l’obiettivo desiderato è pervasivamente immaginato ma non raggiunto. Questa intensa esperienza di desiderio, a sua volta, porta l’obiettivo bramato ad essere percepito come l’unico, e sempre più urgente, metodo per raggiungere il sollievo da un distress ancora più forte.

L’anatomia tende ad essere simile, tra craving e rimuginio desiderante, ma si differenziano poiché il primo rappresenta un’esperienza motivazionale interna, mentre il secondo è uno stile di elaborazione delle informazioni. Detto ciò, sono in una relazione di mutua influenza (Caselli e Spada, 2011).

Tedeschi, Pappacena, Mancebo e Cavaiani (2019) hanno indagato la relazione tra dipendenza affettiva e pensiero desiderante all’interno di un campione di popolazione generale italiana (213 soggetti) e hanno trovato che il pensiero desiderante è risultato un predittore, oltre che della dipendenza affettiva, anche di altri fattori ad essa associati, quali la ruminazione, la tendenza al craving e l’autoconsapevolezza cognitiva. Si è riscontrato inoltre che l’autoconsapevolezza cognitiva ha effetti diretti sulla dipendenza affettiva e che questi sono influenzati da altre variabili.

Tra tutte si è osservato che una minore consapevolezza del proprio funzionamento cognitivo si associa ad una maggiore tendenza alla dipendenza affettiva. Tale effetto è moderato dal pensiero desiderante, dalla ruminazione e dalla tendenza al craving.

 


Pensiero Desiderante e Dipendenza Affettiva

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Artefatti digitali, apprendimento e setting terapeutico

Durante i processi di apprendimento e di pensiero (metacognizione), vediamo che gli artefatti digitali svolgono un ruolo di mediazione attraverso strumenti che favoriscono la riflessione e il dialogo. Usando gli artefatti, sia chi è già esperto, sia chi è alle prime armi, co-costruisce e apprende concetti e modelli per risolvere problemi e prendere decisioni.

 

La comunicazione non opera soltanto mediante rappresentazione del reale producendo simboli e segni, ma collegando nel tempo e nello spazio, individui, momenti, oggetti, contesti, situazioni. Il mondo contemporaneo si intreccia sempre di più con eventi e fatti di aree transnazionali, i media di ultima generazione consentono un elevato livello di adesione e si affermano come basamento per la dilatazione del tempo e degli orizzonti favorendo un processo più di unificazione e non di omogeneizzazione, dove vi sono tante eterogeneità collegate tra loro: le persone parlano differenti linguaggi, abitano in differenti luoghi e spazi, esprimono valori differenti e sono tutte immerse nella storia. Gli individui si interconnettono tessendo e ritessendo un’unica trama entro cui il parallelo mondo si ricrea in quel momento. Tutto questo nuovo modo di interagire nelle relazioni interpersonali ha profondamente modificato a livello di struttura il funzionamento del cervello umano, inoltre sono avvenute modificazioni anche all’interno dell’identità gruppale e individuale: tasselli culturali che arrivano dall’esterno e che si collocano all’interno del gruppo e dell’individuo creando una nuova identità. I new media, i social network, forum e blog oggi hanno un ruolo importante nelle dinamiche transculturali ed identitarie. È insito nei geni lo slancio verso l’altro diverso da sé, in noi c’è il gene del voler esplorare e realizzare nuove tecnologie. Artefatto “È il prodotto di un lungo processo evolutivo che ha portato l’uomo a sviluppare una massa cerebrale molto complessa…Si tratta insomma di una felice combinazione di doti naturali e apprendimento culturale” -Roversi 2004.

La Rete acquisisce lo status di medium e come tale viene vista come luogo dell’esperienza e territorio dell’abitare, diventa una parte del mondo che ci forgia e ci caratterizza, ed è anche qualcosa di più: non solo medium, ma meta-medium cioè incontro e crocevia tra tutti i media possibili e frame insostituibile e come tale entra a far parte del e nel nostro setting terapeutico. L’aspetto psicoeducativo viene riconosciuto dagli operatori e dai neuroscienziati come essenziale sia per lo sviluppo tipico sia per le situazioni di difficoltà. La comunicazione con lo sviluppo delle tecnologie digitali si è modificata e il nostro modo di lavorare, interagire, psicoeducare, si è trasformato di conseguenza a ciò. Strumenti concepiti per elaborare dati e per trattare le informazioni in maniera automatica si sono introdotti nel nostro ambito lavorativo. Allo stesso tempo i concetti di sapere, saper fare e saper essere, insiti nella formazione, si sono dovuti adeguare a questa rivoluzione di strumenti e metodiche tecnologiche, rivalutando l’assetto funzionale e strumentale della nostra formazione. Attraverso l’uso degli artefatti digitali l’uomo acquisisce nuovi schemi che gli permetteranno di usufruirne in maniera automatica; questi schemi vengono definiti brainframe:

Un brain frame è qualcosa di diverso da un atteggiamento, da una mentalità, pur essendo tutto questo e molto di più. Pur strutturando e filtrando la nostra visione del mondo, esso non è esattamente un paio di occhiali di tipo particolare- dato che un brainframe non è mai localizzato nella struttura superficiale della coscienza, ma nella sua struttura profonda – De Kerckhove 1991.

Per comprendere meglio il processo intuitivo ci viene in aiuto Kahneman (2002,2012), premio Nobel che ha dimostrato come esistono nel nostro sistema cognitivo, a livello neurologico e funzionale, due processi: uno intuitivo che genera impressioni, l’altro riflessivo che produce ragionamenti. L’intuizione secondo l’autore, ma anche per le scienze cognitive, è un processo dato da apprendimenti precedenti e che ci consente di poter gestire in maniera consona compiti complessi. Quindi questo ci permette, e lo consente ai ragazzi, di comprendere in maniera intuitiva come funziona un’App, poiché precedentemente avevamo fatto esperienza simile: la mente è in grado di simulare internamente tutte le sequenze da fare per poter procedere. Si affianca a quanto detto sopra e a supporto di ciò la scoperta dei neuroni bimodali (Rizzolati e Sinigaglia 2006), che conferma l’ipotesi del sistema simulativo dove vengono generate intuitivamente delle rappresentazioni. Gli artefatti digitali ci permettono di poter creare dei contesti di apprendimento, forme di simulazioni che consentono lo sviluppo di nuovi schemi a livello cognitivo e motorio modificando quello che è l’esperienza corporea. Gli studi di brain imaging hanno dimostrato come la dimensione multimodale (narrazione e interazione) delle App faciliti l’integrazione delle aree del lobo frontale, sede delle funzioni cognitive superiori e del lobo parietale sede delle funzioni visuospaziali. Noi possiamo usare questi ausili per favorire e potenziare il processo di apprendimento e sicuramente oggi questo è un percorso che motiva a apprendere non solo i ragazzi, ma tutti noi. Il nostro intervento è il favorire l’uso corretto del medium digitale, rispettando i tempi evolutivi della persona, attuando la nostra funzione di scaffolding: inducendo la costruzione delle competenze (Wood, Bruner, & Ross, 1976). Con l’avvento della tecnologia e l’uso del computer, si è verificato un cambiamento anche nei processi di apprendimento, ad esempio la relazione tra tutor e bambino è stata mediata dall’interazione tra macchina e bambino. L’individuo interagisce con gli oggetti digitali, con le App, pone le sue dita sullo schermo per valutarne gli esiti.

La connessione tra i due mondi è oggetto di studio, e ci fa riflettere sui processi in atto; se da un lato L’Accademia delle Scienze francese (Bach et al. 2003) realizza uno studio su I bimbi e gli schermi (L’enfans et les ècrans) giungendo a concludere che l’uso da parte dei bambini di età compresa tra i due e i cinque anni di tablet e altri ausili tecnologici, sono di sostegno per l’apprendimento di competenze logiche /esplorative, di contro sappiamo, anche da studi scientifici, che l’uso prolungato e selettivo di questi artefatti digitali senza la supervisione del caregiver può provocare danni alle future abilità relazionali. Questi possono essere di vario genere: dipendenze comportamentali, psicopatologie, isolamento, disturbi della condotta, ecc.

La ricerca neuroscientifica ha di recente fornito evidenze su alcuni meccanismi riguardanti l’apprendimento, il primo di questi è l’emulazione, essa è uno degli elementi fondamentali su cui si basano le strategie semplesse. Tali strategie vengono attivate dal nostro cervello per ridurre la complessità del mondo circostante permettendo di agevolare l’interazione con esso. Aspetto basilare della semplessità è l’attività creativa del cervello; questa consente di risolvere la complessità del mondo esterno creando percezioni compatibili con le intenzioni riguardo il futuro, la memoria del passato e le leggi del mondo esterno che ha interiorizzato. Il nostro cervello usa scorciatoie e ricorre ad anticipazioni percettive, si serve di frame di comprensione della realtà basate su isomorfismi, che gli consentono il riconoscimento delle forme e dei concetti senza il bisogno di un’analisi compiuta del dato.

Inoltre le ricerche ci forniscono le basi sulle quali poter costruire una nuova forma di insegnamento per i giovani: la neurodidattica. Ormai è acclarato che i processi di apprendimento sono in stretta connessione con i processi sinaptici e con gli stimoli ambientali e culturali, e che il cervello sia dotato di plasticità, inoltre le ricerche sui neuroni specchio mettono in rilievo come sia importante il nostro ruolo per le sue funzioni di modeling e scaffolding, potenziandolo con l’unione delle interfacce e l’istructional design, favorendo così l’ergonomia cognitiva.

Con questa innovazione che introduciamo nel nostro setting terapeutico non eliminiamo il precedente sistema di comunicazione, lo scopo è quello di ampliare le possibilità di contatto tra la persona e la sua famiglia, il terapeuta e la persona, la sua famiglia e il territorio, ecc.: in ultima analisi quindi la sinergia del processo terapeutico. Il setting digitale viene supportato dal digital device; tablet, lim, software, tutto ciò viene utilizzato per migliorare, arricchire, potenziare l’apprendimento e somministrare i training specifici. Il sistema diventa reticolare, ci si muove dall’ordine sistematico, lineare e sequenziale e dai tempi lunghi verso il disordine ipermediale (pensando e ispirandosi alla concezione di Morin, 1989, di Ordine e Disordine) e ai tempi brevi. Questo permetterà al paziente di apprendere anche attraverso il gioco, attuando forme di psicoeducazione nei suoi confronti e mettendo in atto così la nostra funzione di ex ducere, un compito di maieuta, facendo venire fuori le social skills life della persona. I dispositivi digitali e i nuovi ambienti interattivi gli consentiranno di poter usare atteggiamenti esplorativi e creativi, senza trascurare la dimensione sociale e dall’altro lato i terapeuti possono pensare all’orchestrazione e alla progettazione del processo terapeutico.

Durante i processi di apprendimento e di pensiero (metacognizione), vediamo che gli artefatti svolgono un ruolo di mediazione attraverso strumenti che favoriscono la riflessione e il dialogo. Usando gli artefatti, sia chi è già esperto, sia chi è alle prime armi, co-costruisce e apprende concetti, modelli per risolvere problemi e prendere decisioni. Gli ambienti di apprendimento personalizzati mettono i pazienti in posizione di controllo, con particolare attenzione alla motivazione verso le interfacce di apprendimento. Dagli studi di neuroscienze sappiamo come la compartecipazione ad attività di cooperazione, e la messa in pratica dei comportamenti collaborativi nei contesti di apprendimento, come nei piccoli gruppi, facilita il processo di apprendimento, andando ben oltre la mera acquisizione. La pratica fa agire e sviluppare importanti meccanismi, ad esempio la negoziazione del significato, l’apprendimento e la costruzione dell’identità. Partecipare alla realizzazione e al raggiungimento di obiettivi condivisi, impiegando risorse condivise, è un processo di appropriazione di aspetti sociali e culturali della conoscenza. In tutto ciò, gli artefatti digitali giocano un ruolo importante e gli approcci socio-culturali spostano l’attenzione dalla materialità degli strumenti stessi alle azioni svolte da noi psicologi e ai contesti in cui i media vengono usati.

Se il multimediale è un dispositivo semplesso (Berthoz, 2012), ovvero una strategia complessa scelta per risolvere problemi complessi, allora la metodologia per tale apprendimento sarà costituita da: micro learning, laboratorialità, apprendimento profondo e situato, semplessità. In quest’ottica si spostano le modalità dei training dalla trasmissione al dialogo e riusciamo a mettere le persone in grado di co-costruire mezzi di conoscenza.

Nella relazione terapeutica con i pazienti, ad esempio affetti da patologia rara, contemplo spesso l’introduzione degli artefatti digitali sia nello spazio di motricità sia in quello cognitivo, emozionale /affettivo, relazionale e sociale. Questo è un momento privilegiato, dove la persona si può esprime con tutte le sue potenzialità, sperimentando lo spazio e i suoi confini, i contrasti, la tensione e la distensione dei distretti muscolari. Le attività proposte sono libere e non strutturate, l’idea è quella di non rappresentare alcuna costrizione alla libera espressione corporea, si progettano delle attività e le si propongono al paziente, che può accettare o non accettare essendone stimolato o no. L’obiettivo è inizialmente il favorire la partecipazione, cosicché l’empirismo collaborativo venga man mano ad incrementarsi. Inizialmente il lavoro parte da attività di forma libera, che attraverso il perfezionamento degli automatismi porta a sensazioni motorie e ad una consapevolezza corporea globale. Per qualsiasi attività svolta in forma motoria (anche attraverso ausili digitali) si può utilizzare un cartellone e un dispositivo digitale (tavoletta grafica ad esempio) dove poter a fine seduta disegnare ciò che si è agito, con relativo emoticon e/o gif dell’emozione provata e la localizzazione sul corpo della sensazione corporea vissuta. Questo permette al paziente di poter avere accesso a più canali comunicativi sinergici tra loro che vengono usati in maniera adattiva; l’intento è la consapevolezza delle emozioni attraverso attività più complesse (secondo gli stadi di Piaget), per arrivare ad una padronanza di adattamento personale, anche di tipo creativo, delle difficoltà intellettive e motorie. In realtà nel contesto rieducativo e terapeutico si passa continuamente da una forma all’altra, le situazioni si evolvono costantemente, non si può attribuire un valore assoluto alle diverse categorie di attività ed esercizi, poiché è la persona stessa ad attribuirne il valore e il significato. Egli apprende durante questo iter terapeutico nuove realtà oggettive e, possedendo in sé capacità simbolo poietiche e plasticità neuronale, acquisisce e crea nuovi schemi comportamentali utilizzando anche le zone di sviluppo prossimale.

Possiamo notare come le attività inizialmente progettate per poter valutare e osservare una determinata area del paziente possono assumere un altro significato per il paziente stesso, sperimentando quest’ultimo azioni motorie spontanee, istintive, aggressive, regressive, di rifiuto del contatto e del dialogo, di chiusura, di apertura, di rigidità e di distensione. Quindi non è tanto la scelta dell’esercizio, quanto il saper dosare ed equilibrare in funzione delle caratteristiche della persona, delle motivazioni e del significato che attribuisce a quell’azione; ponendo sempre attenzione a non colludere con le bizze del paziente. Usando i nuovi ausili e artefatti possiamo sorvolare sulle difficoltà favorendo l’interconnessione e l’uso delle varie intelligenze, ed inoltre possiamo creare delle possibili reti, dei ponti per poter accedere al linguaggio dei nativi digitali, accostandoci al loro sistema comunicativo; tali collegamenti, da un lato permettono a noi operatori e formatori di aver chiaro il loro linguaggio da nerd e da cybernauti, dall’altro lato ci consentono di rendere più fruibile il percorso terapeutico e ciò che vogliamo prevenire e/o insegnare.

Tecnologia vs umanità (2019) di Gerd Leonhard – Recensione del libro

Siamo nel pieno della cosiddetta industry 4.0, periodo di profondi cambiamenti tecnologici che comportano nuove opportunità e responsabilità. Leonhard, con il suo libro Tecnologia vs umanità, ci propone un manifesto ispirato, un monito per il futuro e un insieme di riflessioni sull’utilizzo consapevole delle nuove tecnologie.

 

Un manifesto ispirato

Siamo sempre più immersi in un mondo digitalizzato in cui possiamo delegare e utilizzare le nuove tecnologie per effettuare i compiti più disparati: pagare una bolletta, fare la spesa, sapere che tempo fa chiedendolo ad uno smart speaker. Parliamo con i nostri amici più attraverso dispositivi digitali come app e molto meno dal vivo vis à vis. Siamo sempre più preoccupati di esserci persi qualcosa, temiamo di rimanere disconnessi (nomofobia): siamo degli obesi digitali, sempre connessi e tecnocentrici, focalizzati e sempre più dipendenti dalle tecnologie (pensiamo alla digifrenia, ovvero l’esperienza di cercare di esistere in più di un’incarnazione di se stessi allo stesso tempo in simultanea e in parallelo: profilo Twitter, profilo Facebook, profilo di posta elettronica, ecc., e a quanto ci rende ‘digitalmente vulnerabili’).

Dove ci porterà tutto questo? Possiamo cominciare a parlare di salute digitale e dieta digitale? Forse sì secondo l’Autore di Tecnologia vs umanità: dovremmo riflettere su quanto sia davvero necessario.

La società sta diventando sempre più automatizzata, stiamo abdicando al nostro potere di scelta per cedere il controllo alla tecnologia: prendiamo ad esempio Tripadvisor o Google Maps, o la personalizzazione del feed dei contenuti su un social network, che ci indicano dove è meglio andare o mangiare, cosa è meglio fare o leggere. Saremo ancora liberi di prendere decisioni che non siano basate sulla logica degli algoritmi? La domanda di fondo è: dobbiamo proprio farlo solo perché siamo in grado di farlo?

La sfida del rimanere umani

Le sfide che ci troviamo ad affrontare sono molteplici: dal punto di vista cognitivo siamo sempre più stimolati; le tecnologie sono sempre più combinate ed integrate, non più applicate solo a specifici campi; hanno sempre più miglioramenti ricorsivi, cioè che si sviluppano da sé (ad esempio, esistono già i primi modelli di robot capaci di riprogrammarsi o aggiornarsi autonomamente).

Ma sfide ancora più impegnative sono gli enormi passi evolutivi, passi che, se all’inizio sono graduali, manifestano il proprio impatto in maniera improvvisa: Leonhard li chiama megashift. L’Autore di Tecnologia vs umanità ne individua dieci che vanno dalla digitalizzazione alla schermizzazione, dalla automazione alla robotizzazione. In breve, tutto ciò che potrà essere digitalizzato lo sarà e sempre più saremo immersi in contesti automatizzati, con l’intermediazione di schermi, con conseguenze di decentralizzazione e virtualizzazione dei rapporti e delle interazioni.

La tendenza alla digitalizzazione e all’automatismo ci porta a considerare le persone quasi come macchine, come un sofisticato wetware, ovvero una versione di software in carne e ossa. Ma noi, come ci ricorda l’Autore, siamo qualcosa di più, qualcosa di diverso: siamo creatività, originalità, reciprocità, responsabilità ed empatia, norme ed etica. Viviamo l’esperienza di essere umani che è una esperienza olistica, esperienza che non si compone esclusivamente dalla somma delle parti che la compongono.

Alla legge dell’algoritmo, della macchina che si autogestisce secondo regole di logica e matematica, Leonhard si oppone e risponde con la definizione di androritmi, cioè degli esseri dotati di qualità umane, di mente, spirito o anima, di una parte che forse non siamo nemmeno in grado di definire o localizzare, ma che ci rende unici. La nostra umanità, compresa questa parte impalpabile, è qualcosa con cui dobbiamo confrontarci; qualcosa che dobbiamo proteggere e sforzarci di conservare. Non esiste una tecnologia che la replichi o sostituisca e non esisterà.

Per un’etica digitale

Le tecnologie digitali hanno indubbiamente avuto un impatto in diversi campi di applicazione, portando profondi cambiamenti e interrogativi culturali, pratici, etici. Ma le tecnologie, come tutti gli strumenti, sono neutre finché non vengono applicate: non è la tecnologia in sé responsabile, ma è l’uso che se ne fa a determinarne il valore etico.

Quello dell’autore di Tecnologia vs umanità è un invito a mantenere e tenere salde le doti tipicamente umane, l’empatia, la compassione, la coscienza, a non demonizzare questi strumenti, ma ad adottare un approccio proattivo e non passivo, di precauzione e non di imprudenza, di non lasciarci sedurre da scorciatoie e semplificazioni, di ricordarci che la mediazione e la simulazione della realtà non coincidono con la realtà stessa. Di agire consapevolmente, offline come online.

 

La Terapia Metacognitiva per bambini e adolescenti con Disturbo da Stress Post-traumatico

La Terapia Metacognitiva (MCT, Wells, 2009) si è dimostrata negli ultimi anni un’alternativa alle terapie tradizionalmente adottate per trattare adulti con Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD). Nonostante queste evidenze, non sono ancora presenti studi sulla sua efficacia su bambini e adolescenti.

 

Una ricerca recente ha esplorato gli effetti della Terapia Metacognitiva su un campione di bambini e adolescenti di età compresa tra gli 8 e i 19 anni (Simons&Kursawe, 2019).

Il Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD) è definito nel DSM-5 come un cluster di sintomi intrusivi, di evitamento, di iperarousal e di alterazioni negative dell’umore in seguito a un evento traumatico (American PsychiatricAssociation [APA], 2013) e affligge circa il 16% dei bambini e adolescenti esposti a un trauma nei primi anni di vita.

La Terapia Cognitivo-Comportamentale focalizzata sul trauma (Tf-CBT) è attualmente considerata la più efficace per il trattamento del PTSD nei giovani. La Tf-CBT si concentra sull’esposizione immaginativa, che consiste nell’invitare il paziente a ricordare nitidamente l’evento traumatico e a riviverlo nella sua mente, per ridurre l’ansia causata dai sintomi intrusivi (Dorsey et al., 2017).

Al contrario, secondo i principi della Terapia Metacognitiva (MCT), non sono tanto i contenuti della cognizione a dover essere modificati bensì il modo in cui i propri pensieri vengono gestiti: sono quindi processi come la soppressione del pensiero, la preoccupazione e la ruminazione ad alimentare i sintomi del disturbo e renderli perseveranti nel tempo (Wells, 2009). La presenza di sintomi intrusivi a seguito di una esperienza traumatica appartiene alla normale risposta di adattamento dell’organismo che mantiene uno stato di vigilanza per un certo lasso di tempo. Quando l’individuo tende a reagire rimuginando su questi stimoli o cercando in qualche modo di sopprimerli, può ottenere il risultato opposto: renderli più frequenti e disturbanti. Inoltre, le metacredenze positive (preoccuparmi mi aiuta, mi tiene al sicuro) e le metacredenze negative sull’incontrollabilità e la pericolosità del rimuginio (non posso smettere di preoccuparmi) facilitano un processo di cronicizzazione del quadro sintomatico tipico del PTSD (Fergus &Bardeen, 2017). Per quanto riguarda l’applicazione della MCT ai bambini e agli adolescenti disponiamo solo di due studi antecedenti relativi al  trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Simons et al., 2006; Esborn et al., 2018).

Il presente studio (Simons&Kursawe, 2019), pubblicato recentemente su Frontiers in Psychology, indaga gli effetti della MCT su bambini e adolescenti con PTSD, ponendosi l’obiettivo di valutare l’applicabilità della terapia in pazienti di questa fascia d’età.

È stato preso in considerazione un campione composto da 21 pazienti, dagli 8 ai 19 anni d’età, che soddisfacessero i criteri del PTSD così come riportati sul DSM-IV (APA, 2000): i partecipanti avevano subito in giovane età episodi di violenza, abusi sessuali, suicidio di una persona cara, incendio o incidente d’auto.

Sono stati somministrati, subito prima e subito dopo il trattamento: il Clinician-Administered PTSD Scale for Children and Adolescent(CAPS-CA), un’intervista semi-strutturata per misurare i sintomi del PTSD; la Revised Child Impact of Event Scale (CRIES-13), per verificare la presenza di sintomi intrusivi, di evitamento e di iperarousal; il Child PTSD Symptom Scale (CPSS), per misurare il livello di gravità dei sintomi (Simons&Kursawe, 2019).

Tutti i soggetti hanno partecipato a 14 sedute MCT, della durata di 40/50 minuti l’una. Lo scopo della terapia era quello di modificare le strategie maladattive di coping, come la soppressione dei pensieri, la ruminazione e il rimuginio e di insegnare ai partecipanti nuovi metodi più efficaci di entrare in rapporto con i sintomi intrusivi associati al trauma subito.

Grazie al trattamento, tutti i pazienti hanno mostrato una riduzione significativa dei sintomi e un numero compreso tra l’85% e il 95% di questi (sulla base della misura di esito utilizzata), era da considerarsi in completa remissione.

In confronto alla Tf-CBT, che per il trattamento di giovani affetti da PTSD richiede dalle 10 alle 12 sedute della durata di 90 minuti l’una, la MCT sembra essere più efficace richiedendo un minor numero di incontri da 40-50 minuti ciascuno (Simons & Kursawe, 2019).

Tra i limiti del presente studio gli autori citano la presenza di un solo terapeuta a condurre le sedute di MCT, un follow-up che ha contato solo 6 dei 21 partecipanti, un campione poco numeroso e la mancanza di un gruppo di controllo. Nonostante le limitazioni, la ricerca ha mostrato che MCT può essere applicata con esiti positivi e a seguito di futuri studi nello stesso campo, potrebbe rappresentare un’alternativa alla Tf-CBT per il trattamento di bambini e adolescenti con PTSD.

 

Genitori non si nasce…si diventa!

La cogenitorialità, ovvero l’unione delle pratiche che la coppia di genitori mette in atto per supportare il proprio figlio in un sano sviluppo personale, può essere osservata in concreto attraverso indici specifici, quali: la solidarietà, l’antagonismo, la divisione del lavoro e l’impegno reciproco.

 

…le famiglie che si adattano al meglio alle numerose sfide della vita sono in genere quelle in cui esiste una collaborazione supportiva fra gli adulti… (Minuchin, 1974)

Cosa significa essere un genitore? Qual è il compito da assolvere rispetto alla crescita del proprio figlio? In che modo la coppia coniugale cambia per diventare genitoriale?

La coppia coniugale si trasforma con l’arrivo di un figlio, diventa anche una coppia genitoriale: un sistema che vede due individui cooperare per la crescita di un terzo, ma che a sua volta evolve in una triade. Coniugi e bambino diventano così un “piccolo gruppo” di tipo multipersonale, tale non solo per la presenza di più individui, ma per le due linee di sviluppo interne che vengono a costituirsi in termini di processi di regolazione e di interiorizzazione delle relazioni.

Il processo di regolazione delle relazioni ci offre una misura di come un dato comportamento può avere un effetto regolativo o disregolativo sull’altro, assieme al processo di interiorizzazione delle relazioni che è in grado di contenere tutti quei significati personali, emotivi e profondi, con cui noi “leggiamo” quello specifico legame che ci lega all’altro.

Guardiamo in concreto questi processi: l’espressione di rabbia di un figlio viene accolta dai genitori, trovando ascolto. Al figlio viene insegnato a “normalizzare” un’emozione come la rabbia attraverso le parole, cercando dunque una connessione fra il proprio sentire e la causa di ciò. I genitori permettono in questo ascolto una regolazione dello stato emotivo del figlio, avviando un processo di razionalizzazione che permette al figlio di comprendere la sua rabbia senza agirla in maniera negativa o distruttiva (regolazione). Al contempo il figlio interiorizza una modalità di relazione aperta ed empatica, capace di offrire contenimento anche a stati emotivi negativi (interiorizzazione).

E’ dinanzi ad eventi di collera, richieste di autonomia, definizione di regole, richieste esplorative che un genitore “diventa” tale: sperimenta, fa tentativi, sbaglia e ripara, definendo così la propria funzione genitoriale. Questa funzione comprende tutte quelle pratiche che il genitore mette in atto per allevare i propri figli che sono accompagnate da: idee, credenze e aspettative che il genitore possiede, nonché da fattori emotivi, dunque emozionali.

L’unione della funzione genitoriale di entrambi i genitori ha permesso, a ricercatori e studiosi, di poter studiare il gruppo familiare non più attraverso il modello diadico (madre-bambino; padre-bambino; genitoreX-genitoreY), ma considerando il triangolo, come quella configurazione relazionale che costituisce la base del sistema emotivo della famiglia, sia essa nucleare o estesa. L’utilizzo di questa nuova configurazione, per l’analisi e la valutazione delle dinamiche familiari, permette di poter supportare nei percorsi alla genitorialità l’intero sistema in un’ottica che definisce come prezioso strumento la complessità della triade stessa evitando il rischio di “una parcellizzazione del sistema e una perdita del senso totale della relazione.”.

Tale cambiamento ci permette oggi di parlare di “cogenitorialità” , ovvero l’unione delle pratiche che la coppia genitoriale mette in atto per supportare il proprio figlio in un sano sviluppo personale. La cogenitorialità, può essere osservata in concreto attraverso indici specifici, quali: la solidarietà, l’antagonismo, la divisione del lavoro e l’impegno reciproco.

La solidarietà si configura come una forma di cooperazione intergenitoriale per cui vi è da parte del genitore un’agire che è esercitato e convalidato reciprocamente dall’altro, contribuendo ad un clima di integrità familiare.

L’antagonismo sulla quale invece si configurano i conflitti familiari, secondo cui appaiono maggiormente deleteri per la salute e l’adattamento del bambino, quelli riguardanti la gestione del figlio stesso, rispetto a quelli propriamente coniugali. L’antagonismo si configura come un’azione contraria all’indice della solidarietà, in cui il genitore convalida e sostiene l’agire dell’altro genitore. Nell’antagonismo vengono rilevate: reciproche svalutazioni, competitività ed una distanza fra le idee genitoriali. Quest’ultima ci indica la presenza di differenti credenze e dunque differenti pratiche che tendono a generare una disarmonia.

La divisione del lavoro, appare un compito determinante a cui entrambi i genitori devono assolvere sopratutto nella fase di transizione alla genitorialità, in particolare per tutti quei compiti “pratici” svolti per la sussistenza fisica del nascituro.

In ultimo, non per importanza, è considerato l’impegno reciproco inteso come “ago della bilancia” nelle dinamiche di invischiamento, impegno e disimpegno emozionale. Nel caso di invischiamento il genitore tende ad essere intrusivo rispetto al bambino cercando in lui sostegno emotivo, ancor prima che nel coniuge oppure affidando al figlio un potere decisionale inadeguato. All’estremo opposto si colloca il disimpegno emozionale in cui il disaccordo cogenitoriale genera una frattura comunicativa fra i coniugi, un ritiro rispetto ad un’esigenza di bisogno condiviso ed in ultimo una mancata risposta al problema sollevato.

I genitori, come architetti e capi della famiglia, creano relazioni in maniera congiunta. (J.P. McHale, 2010)

Nella relazione triadica il genitore crea dunque una relazione, rispondendo a bisogni, comportamenti e richieste che diventano via via sempre più strutturate. E’ in questa complessa costruzione che il genitore sperimenta:

  • la capacità di esercitare una funzione efficace ovvero di sperimentare, nel tempo, un’autoefficacia educativa, dapprima rilevabile nella capacità di risolvere il problema, in un secondo tempo nel prevenirlo;
  • la competenza genitoriale, ovvero quell’insieme di scelte ed atti che presuppongono alla base un’abilità trasversale che è quella di assolvere alla cura dei figli;
  • la soddisfazione, ovvero quella dimensione soggettiva dell’esperienza genitoriale;
  • l’attribuzione, ovvero la capacità e la tendenza del genitore a rintracciare “cause” ed “eventi” con un locus interno o esterno, rispetto a sé ed al bambino.

L’intero e le parti sono complementari ed indispensabili l’un l’altra. (Spiegel, 1971)

Benché esista dunque un’individualità ed un rapporto diadico che genera un grado necessario di separazione, una sana cogenitorilità opererà sempre per la costituzione di un triangolo eterogeneo ma al contempo integrato.

 

La normalità del male – La criminologia dei pochi, la criminalità dei molti (2019) di I. Merzagora – Recensione del libro

Autoritarismo, conformismo e deresponsabilizzazione; sordità della coscienza e negligenza; altrismo e pregiudizio nei confronti del diverso. Elementi centrali per lo sviluppo di intolleranza e razzismo che vengono sapientemente analizzati da Isabella Merzagora in La normalità del male.

 

Il libro pone a domanda centrale come possa accadere che un intero popolo o comunque migliaia, centinaia di migliaia di persone possano condividere il male estremo. Non si occupa degli omicidi isolati citati dalla cronaca (senza nulla togliere alla loro gravità, in Italia, è bene saperlo, se ne commettono meno di 400 l’anno, e il loro numero sarebbe in diminuzione) bensì si interroga sui massacri di massa compiuti nel secolo scorso e, più in generale, sul perché talvolta le società, oltre che i singoli, sembrano non tollerare più i diversi e de-umanizzarsi. Scrive infatti Isabella Merzagora che:

Se la criminologia è la scienza del male, è con i massacri di massa, commessi da intere masse, che deve confrontarsi.

Dell’intolleranza per i diversi e delle molteplici forme del razzismo si sono occupati autori come Zigmunt Bauman, Hannah Arendt, Elie Wiesel; tuttavia la criminologia ufficiale, sia in Italia sia all’estero, stranamente sembra avere spesso trascurato quest’ambito di riflessione (ad esempio, un’analisi delle tredici principali riviste scientifiche internazionali di criminologia dal 1990 al 1998 ha messo in luce che su 3138 articoli pubblicati solo uno era dedicato al genocidio!).

L’autrice intende colmare questa lacuna, grazie a un testo particolarmente ricco e articolato, densissimo di informazioni, e tuttavia scritto, come è nel suo stile, con un linguaggio sempre scorrevole, gradevole e accattivante.

All’introduzione seguono quattro parti principali, ciascuna delle quali è articolata in brevi capitoli:

  1. La criminologia dei diversi
  2. Il mondo sapeva
  3. La criminalità dei normali
  4. Estote parati

La criminologia dei diversi

Isabella Merzagora inizia a inquadrare l’argomento in una prospettiva generale, che deriva dalla riflessione contemporanea sul concetto di razza. Sembra oggi meno in voga il pregiudizio basato sulle caratteristiche biologiche ed immodificabili della razza (pregiudizio essenzialista): all’ineguaglianza biologica delle razze viene infatti man mano a sostituirsi l’assolutizzazione delle differenze tra culture, ovvero il razzismo culturalista.

Si tratta di un razzismo sottile, che pur non basandosi più apertamente sulla razza, fa delle differenze culturali un motivo di pregiudizio, separazione e discriminazione. Gli altri vengono considerati diversi, e inferiori, non più per il colore della pelle, ma per il colore della cultura e dei modi di vivere. Sono fonti particolarmente autorevoli (la commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio istituita presso la camera dei deputati ) a dirci che nel nostro paese sta diffondendosi ed è in crescita questo nuovo tipo di razzismo, o di altrismo: la sua essenza consiste infatti nel considerare l’altro diverso e minaccioso.

Come il razzismo tradizionale tuttavia l’altrismo va a finire dalla stessa parte: l’unità del genere umano è messa in discussione, l’altro è ritenuto inferiore al punto da essere de-umanizzato e demonizzato. Viene di conseguenza perseguitato non per ciò che fa, ma per ciò che è, ovvero diverso.

La domanda su come è possibile che persone comuni compiano dei crimini atroci non riferisce solo al passato e agli ebrei (da sempre termometro e specchio del livello di intolleranza raggiunto da una società), ma riguarda anche la contemporaneità e sempre più gli stranieri in genere.

Ci si chiede quindi se questo crescere dell’intolleranza per i diversi sia un fenomeno legato all’ignoranza e se le persone animate da pregiudizi razzisti siano solo un manipolo di zotici; se così fosse, basterebbe la cultura a metterci al riparo. Così però non è: anche se certamente ci sono anche gesti isolati e apparentemente sottoculturali, dietro le imprese culturali collettive di razzismo si ritrovano figure di intellettuali, che in modo più o meno diretto, le hanno alimentate. L’autrice passa in rassegna al riguardo gli scritti di Cesare Lombroso e di criminologi attivi al tempo della repubblica di Weimar. E sembra proprio l’opera di giuristi, psicopatologi, psichiatri e criminologi a porre le basi cosiddette scientifiche su cui verrà a reggersi il concetto di razza subumana (Untermenschentum). Una volta ritenuto verità scientifica il fatto che psicopatici e asociali esprimano una umanità inferiore, il passo che porta alle idee eugenetiche, all’igiene razziale e alle epurazioni naziste è breve.

Il mondo sapeva

E’ ormai assodato che nel XX secolo i genocidi hanno ucciso più esseri umani delle pur sanguinose guerre che l’hanno segnato (121 milioni di vittime nel primo caso, 82 milioni nel secondo). E’ dunque essenziale che la criminologia si chieda come mai la normale moralità possa essere sospesa in occasione dei genocidi. Tra di essi, l’antisemitismo e il suo culmine nella Shoah è stato il più studiato e presenta numerose teorie da prendere in considerazione. L’antisemitismo è poi la matrice prevalente di ogni razzismo e etnocentrismo, non foss’altro che per anzianità di servizio, dato che il pregiudizio contro gli ebrei ha una storia millenaria. Se è vero che l’antisemitismo è la madre di tutti i razzismi, sembra però riduttivo e fuorviante vedere alla base della Shoah soltanto la storia secolare dell’antisemitismo europeo. Ciò comporta, come scrive Isabella Merzagora, persino maggiore pessimismo: infatti i massacri possono ripetersi sotto parole d’ordine nuove e diverse.

Sinterizzando le principali considerazioni al riguardo.

La legge può essere intesa come assoluta e l’obbedienza all’autorità che la emana sempre necessaria, dimenticando che lo stesso concetto di legge non è assoluto, ma presuppone il rispetto della legge umana naturale.

Se si guarda ai processi dei gerarchi nazisti, questi per lo più sostenevano di essersi limitati a obbedire agli ordini.

Secondo Bauman, l’olocausto non rappresenta affatto una interruzione o una sospensione della modernità e della civiltà moderna, bensì un suo frutto: venne infatti portato avanti in modo del tutto moderno, ovvero pianificato, razionale, coordinato, e venne gestito da una burocrazia particolarmente efficiente. E’ probabilmente la stessa burocrazia, con la frammentazione delle procedure e la frantumazione dei compiti che la caratterizza, che ha consentito a chi partecipava a questa o quella funzione (es. stilare le liste dei deportati, arrestarli, metterli sul treno etc.) di non confrontarsi con il processo nel suo insieme e con le sue finalità omicide. Il problema veniva vissuto come tecnico e non come etico, in quanto le responsabilità, insieme alle funzioni, venivano distribuite e diluite.

Un’altra importante considerazione riferisce al conformismo. Isabella Merzagora cita in proposito i famosi esperimenti di Milgram (anni sessanta del novecento) sul conformismo; del gruppo di Adorno (anni quaranta) sulla personalità autoritaria; come pure le ricerche di Zimbardo (anni settanta) sul cosiddetto effetto Lucifero.

Mi limito a far cenno al lavoro di Zimbardo, forse meno noto (The Lucifer Effect. How Good People Turn Evil, 2007).

In breve, Zimbardo verificò in un esperimento presso l’università di Stanford, dove negli scantinati venne allestita una sorta di prigione, che uomini normalissimi, divisi in guardie e detenuti, potevano trasformarsi in pochi giorni in efferati aguzzini gli uni, e in vittime rassegnate gli altri. L’aggressività delle guardie fu tale che l’esperimento, che doveva durare due settimane, venne interrotto prima dello scadere della prima settimana.

La criminalità dei normali

Secondo Steiner, gli altruisti costituiscono non più del due per cento della popolazione; per Bauman chi è dotato di autonomia morale è l’eccezione. Anche gli studi sperimentali di Baron Cohen documentano che l’empatia non caratterizza affatto l’intera popolazione umana (Simon Baron Cohen, The Science of Evil, 2011).

Certo, anche durante il nazismo non mancarono i ribelli, i giusti e gli eroi. Furono però delle nette minoranze.

Oltre al conformismo, un fattore psicologico che rende possibile l’incrudelire contro un altro essere umano è la riduzione animalesca dell’avversario, ovvero la tendenza a negare le qualità più tipicamente umane delle proprie vittime per poter aggirare quella forza inibente dell’aggressività che è costituita dall’identificazione. Se una percezione distorta ci porta a leggere l’altro come subumano, cattivo, animale o addirittura un oggetto invece che un soggetto, la crudeltà non è difficile. Il comandante dei lager di Treblinka, intervistato anni dopo, spiega che le umiliazioni nei confronti dei prigionieri erano funzionali a far sì che i loro aguzzini non li percepissero come umani: la vittima deve essere degradata e de-umanizzata in modo che l’uccisore senta meno il peso della sua colpa. Analoghe dichiarazioni vennero rese da un protagonista del genocidio in Ruanda.

Secondo Bauman:

La responsabilità viene messa a tacere quando si erode la prossimità; essa può alla fine trasformarsi in avversione una volta che i soggetti umani a noi vicini siano stati trasformati in altri…essendo inestricabilmente legata alla prossimità umana, la morale sembra conformarsi alla legge della prospettiva ottica. Essa appare grande e massiccia quando è vicina all’occhio. Al crescere della distanza, la responsabilità verso gli altri si riduce, la dimensione morale dell’oggetto si sfoca, finché entrambe raggiungono il punto di fuga e spariscono dalla vista.

Estote parati

Scrive Isabella Merzogora: niente accade in modo identico. Forse non vediamo davanti a noi una parata nazista (anche se talvolta ce ne sono: su You Tube si può osservare una parata nazista di liceali a Taiwan nel 2016); sappiamo però che lo sterminio del diverso è un punto di arrivo, che si prepara in modo progressivo.

Esiste ancora e addirittura si irrobustisce l’altrismo, che reputa alcuni gruppi umani diversi, inferiori, minacciosi. L’affermazione non succederà più, e comunque non succederà a noi, è ingenuamente ottimista.

Un documento di una certa ampiezza e con connotazioni ufficiali (La piramide dell’odio in Italia, Relazione finale della Commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, approvata alla Camera dei deputati nel 2017), testimonia l’esistenza di una piramide dell’odio alla cui base si pongono stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile e offensivo normalizzato o banalizzante, e ai livelli superiori il linguaggio e i crimini di odio. Questi ultimi sono definiti come atti di violenza fisica, fino all’omicidio, perpetrati contro persone in base a qualche caratteristica come il sesso, l’orientamento sessuale, l’etnia, il colore della pelle o altro.

Un’altra ricerca effettuata nel 2015 da un think tank statunitense mostra l’Italia in pole position rispetto a paesi come la Francia, il Regno Unito, la Spagna e la Germania per quanto attiene la diffusione di pregiudizi nei confronti di minoranze quali rom, ebrei e musulmani. Amnesty International afferma che in Italia e nel mondo c’è una deriva sempre più veloce verso il razzismo, l’odio e la violenza.

La rete appare tutt’altro che estranea a questo fenomeno. L’impunità e l’anonimato che la caratterizzano sembrano favorire l’hate speech, l’opinione pubblica si trasforma in opinione digitale; nella comunicazione attraverso la rete l’altro non è presente. Come scrive Bauman, il venire meno della prossimità condiziona la morale, che finisce per uscire dal campo visivo.

Gli hate speech per di più trovano infinite casse di risonanza nelle fake news; qualsiasi notizia resterà vera per definizione finché qualcuno non si prenderà la briga di dimostrare la sua falsità. La nostra è diventata una democrazia dei creduloni. Aumentano in modo esponenziale i siti web razzisti: nel 1995 esisteva nel mondo un unico sito che incitava all’odio razziale, nel 1999 i siti erano 2500, nel 2004 erano diventati 4000. Certamente questo dato va parametrato all’aumento del traffico via web, tuttavia il dato non è certo confortante.

L’autrice conclude affermando che, sia a suo parere sia in relazione ai molti testi analizzati e citati, non c’è una causa sola dell’intolleranza e del razzismo, bensì ve ne sono diverse. Centralmente:

  • l’autoritarismo, il conformismo e la deresponsabilizzazione,
  • la sordità della coscienza e la negligenza per l’autonomia di giudizio,
  • l’altrismo e il pregiudizio nei confronti del diverso.

E’ quando gli altri sono visti come diversi da noi che cominciano i guai.

In definitiva. Un libro decisamente interessante, documentato, aggiornato, scorrevole; cattura dalla prima all’ultima pagina; costringe a riflettere; ci aiuta a sentirci responsabili di noi stessi e del tempo in cui viviamo.

 

Asessualità e genere

La sessualità umana è caratterizzata da molteplici aspetti che si modificano e sviluppano nella cornice della società di riferimento. Assumono particolare rilevanza l’insieme di aspettative che la società rivolge ad una particolare categoria di individui circa il modo “adeguato” di vivere la propria sessualità.

 

Negli esseri umani, il parlare di sessualità non si esaurisce nel considerare l’orientamento sessuale di un individuo o la funzionalità del suo apparato riproduttivo, bensì vengono chiamati in causa molteplici altri aspetti personologici, sociali ed emotivi, che si modificano e sviluppano nella cornice della società di riferimento; a tal proposito assumono particolare rilevanza gli script o norme sessuali, ovvero l’insieme di aspettative che la società rivolge ad una particolare categoria di individui circa il modo “adeguato” di vivere la propria sessualità (Gagnon & Simon, 1973).

Un esempio può essere la tendenza, presente in molte culture tra le quali la nostra, a considerare come criterio di normalità della sessualità il fatto che essa venga consumata entro i confini di una relazione coniugale eterosessuale, trascurando o addirittura respingendo apertamente tutti i casi che esulino da questa configurazione ottimale. Al contempo però, è solitamente presente in queste culture un palese doppio standard, che prevede comportamenti diversi a seconda del genere dell’individuo considerato: è per esempio più tollerato che un uomo sperimenti sessualmente al di fuori di un contesto di una relazione esclusiva, mentre ci si aspetta che le donne si astengano dal fare lo stesso (Wiederman, 2005).

Sta assumendo negli ultimi anni una particolare rilevanza quella categoria di studi, definiti intersezionali, che si occupano di valutare come due o più aspetti identitari di un individuo intersechino, influenzando il suo comportamento e vissuto personale in funzione delle norme di riferimento ad essi associate. L’origine della parola viene fatta risalire all’uso che ne fece l’attivista politica Kimberley Crenshaw nel descrivere la condizione delle donne afroamericane, soggette ai pregiudizi rivolti alle persone di colore e al contempo vittime del sessismo riservato alle donne nelle società patriarcali occidentali, trovandosi di fatto all’incrocio (n.d.t.: intersection) tra due diversi condizionamenti socio-culturali. Nell’ambito della sessualità, tali studi si sono occupati di esaminare come la molteplicità delle identità di genere si intreccino con lo spettro degli orientamenti sessuali e con il grado di aderenza alle specifiche norme di genere rivolte all’individuo sulla base della sua appartenenza ad un sesso o all’altro, di fatto influenzandolo nelle cognizioni e nei comportamenti legati alla propria sfera intima e all’identità sessuale.

Tuttavia, le considerazioni fino a qui esposte partono dall’assunto di base che tutti, indistintamente, vivano e agiscano la propria sessualità in una qualche maniera, assunto che in realtà non andrebbe dato per scontato, come testimoniato dall’esistenza di una minoranza di persone che si identificano come asessuali. Più che essere considerato come assenza di un orientamento sessuale, l’asessualità si può piuttosto definire come una variante dello stesso, caratterizzato dalla propensione a stringere dei rapporti sentimentali nei quali l’atto sessuale può essere mai o raramente consumato (asessualità romantica), oppure dall’assenza di legami romantico-sentimentali nel contesto di un generale disinteresse per il sesso (asessualità aromantica). Essa di differenzia dall’astinenza sessuale perché non viene esperita dal soggetto come una privazione, ma come un genuino disinteresse verso le attività erotiche di coppia (non sempre è incluso in questo discorso l’autoerotismo).

Le informazioni demografiche raccolte da soggetti che si identificano come asessuali suggeriscono come tale identità sessuale sia caratterizzata da evidenti differenze di genere: il 64% dei soggetti infatti si identificava come femmina o “female-ish” (n.d.t.: circa-femminile), mentre solo il 13% si identificava come maschio o “male-ish” (Miller, 2012) ed è stato suggerito che tale disparità possa essere dovuta all’influenza delle norme sessuali di genere. Gli uomini potrebbero infatti esitare nell’identificarsi con un orientamento sessuale che violi la concezione dominante di mascolinità come legata all’espressione di virilità sessuale: gli uomini asessuali da un lato si trovano quindi a mettere in discussione quegli script che associano la mascolinità con la voracità sessuale ed al contempo, a causa di questi, si ritrovano emarginati (Przybylo, 2014). Tuttavia, è stato suggerito come alcuni uomini asessuali abbiano l’opportunità di identificarsi con quegli script che associano l’idea della mascolinità con l’iper-razionalità (Fahs, 2010) o con quelle sottoculture, come può essere un esempio quella dei nerd o geek, nei cui membri ci si aspetta un certo imbarazzo sociale ed un disinteresse verso il sesso a fronte di skills o conoscenze appartenenti al mondo scientifico-informatico (Bell, 2013; Kendall, 2000; Quail, 2011).

In questo senso le femmine che si identificano come asessuali, vanno a confermare lo script dominante per le donne bianche che prevede che esse provino un minor desiderio rispetto alla controparte maschile, o siano comunque meno consapevoli dei propri desideri sessuali: Fahs (2010) sottolinea come l’asessualità femminile rispecchi la tendenza conservatrice di spogliare le donne della propria agentività sessuale, relegandole in un’immagine pudica che tollera senza proteste la mancanza di piacere sessuale. Se da un lato però viene rispettata la visione della donna come sessualmente disinteressata, dall’altro l’asessualità si pone in netto contrasto con la compresente convinzione che la donna debba comunque dimostrarsi sempre disponibile di fronte alle richieste sessuali del maschio, di fatto rispecchiando la mentalità fortemente fallocentrica che contraddistingue le culture occidentali (Cerankowski&Milks, 2010).

Un interessante dato emerso dallo studio demografico di Miller (2012), suggerisce come una percentuale rilevante di persone (23%) non si identificasse con alcuna delle due polarità di genere, maschile vs. femminile, bensì si posizionasse nel range tra di esse compreso, mentre almeno il 10% degli intervistati si identificava come transgender, suggerendo come gli individui asessuali possano risultare più propensi a definirsi come sessualmente non conformi, risultando meno soggetti a quelle norme di genere imposte dagli script sessuali dominanti. Ad esempio, le donne asessuali potrebbero sentire di rispecchiare meno l’idea di femminilità attraverso quei comportamenti di cura dei vestiario e del corpo specificatamente volti a rendersi “sessualmente più appetibili” all’occhio maschile secondo i dettami della cultura dominante (Chasin, 2011).

Gli studiosi che negli anni ’60 e ’70 rivolsero la propria attenzione alle disforie di genere riportavano spesso come i propri pazienti avessero una condotta asessuale, attribuendone la causa alle cure ormonali che accompagnano la transizione nell’adeguamento di genere (Cohen-Kettenis&Pfafflin, 2009). E’ inoltre stato rilevato, che sotto le pressioni subite dalla società e, possiamo desumere, in particolare dalla società medica, molti pazienti che desideravano accedere alle operazioni di correzione dei caratteri sessuali si sono sentiti più al sicuro dichiarando di essere asessuali, temendo che il pregiudizio potesse ostacolare il proprio percorso di autodeterminazione in caso avessero dichiarato di avere un orientamento omosessuale (Cohen-Kettenis&Pfafflin, 2009; Ekins&King, 2006; Meyerowitz, 2002; Valentine, 2007).

Di recente, nel contesto di una ricerca più estesa sulle identità asessuali contemporanee, Gupta (2019) ha potuto condurre delle interviste qualitative con delle persone che si identificassero come asessuali, esaminando più da vicino il rapporto tra questo orientamento e le diverse identità di genere degli individui. I volontari intervistati si identificavano nella categoria donne (21), uomini (7), trans MtoF (1), altro/gender-fluid (1). Dei trenta partecipanti, ventisette si definivano asessuali, tre di loro si identificavano invece come “gray-Asexual”, ovvero quell’area grigia che sta tra la sessualità e l’asessualità, oppure demi-sessuale, ovvero che sperimentano attrazione sessuale solo nel contesto di una relazione di lungo termine. Il 63% si sono definiti romantici o demi-romantici (17%), ovvero stringendo relazioni di natura sentimentale ma non sessuale; di questa percentuale combinata, il 48% ha dichiarato un orientamento etero-romantico, il 12% si è definito omo-romantico e la rimanente parte (36%) si è identificata nella categoria bi-romantico, o pan-romantico, attratto cioè sentimentalmente da entrambi i sessi o aperto a ogni identità di genere; Il 17% degli intervistati si è definito invece aromantico.

L’autrice ha raccolto poi le testimonianze dei partecipanti, incontrati nella propria esperienza personale rispetto agli script a loro rivolti, in quanto individui di etnia caucasica, di ceto medio-alto, senza disabilità, presumibilmente cisgender ed eterosessuali. Nei confronti della mascolinità, tutti gli individui maschi intervistati hanno dichiarato di non sentire di rispecchiare il modello proposto dalla cultura di riferimento, definendosi solitari, nerd e comunque queer, sebbene soltanto un intervistato abbia riportato un effettivo isolamento dai pari; essi riportano inoltre la tendenza ad aggregarsi con altri ragazzi con una simile disposizione di disinteresse verso il sesso e il dating in generale.

I partecipanti hanno negato di aver fatto esperienza di forti pressioni legate al proprio orientamento asessuale, tre di essi attribuendo come causa il fatto che raramente venivano approcciati dalle ragazze con scopi puramente sessuali, non vivendolo quindi come una problematica costante. Sembra quindi che il fatto che l’agentività sessuale risieda, secondo lo script culturale di riferimento, nelle mani dell’uomo, renda di fatto l’asessualità maschile meno problematica. Altri tre intervistati attribuiscono la propria esperienza priva di conflitti legati all’asessualità al fatto che possa essere socialmente più accettato che un uomo si focalizzi sulla propria carriera piuttosto che sulle relazioni. Inoltre, un intervistato ha dichiarato come la condivisione della propria asessualità con i pari abbia incontrato reazioni favorevoli dagli altri uomini, che percepivano un’assenza di competitività in ambito romantico.

Contrariamente alle aspettative, tutti i racconti di episodi di conflittualità riportati dai partecipanti circa l’asessualità vedevano coinvolta una donna; spesso il pregiudizio circa la presunta voracità sessuale dei maschi ha ostacolato il tentativo dei rispondenti di stringere relazioni amicali o romantiche con donne di loro conoscenza, le quali si rivolgevano loro con sospetto e circospezione. Inoltre, rispecchiando due diverse posizioni circa l’assunzione che una frequentazione romantica debba includere il contatto sessuale, gli individui asessuali e le persone di altri orientamenti sessuali con le quali essi intraprendono frequentazioni, rischiano di trovarsi in un conflitto inconciliabile.

Nel rapporto con il genere femminile e gli stereotipi e script ad esso rivolto, le donne asessuali riconoscono come la propria condotta entri in aperto contrasto con le aspettative circa la disponibilità che ci si aspetta dalle donne di fronte alle avance sessuali maschili; due riportano episodi di ira e rabbia violenta da parte del partner, che è seguita al loro rifiuto di concedersi sessualmente. Diverse donne intervistate sentivano di discostarsi, nel loro modo di vestirsi e comportarsi, dall’aspettativa che la donna debba presentarsi come un oggetto sessuale.

Tuttavia, la maggioranza delle donne asessuali ha percepito che la propria asessualità venisse generalmente ben accettata in virtù della sua conformità con lo script che asserisce che la donna sia meno sessualizzata o incline al perseguire il proprio desiderio dell’uomo.

Le donne asessuali romantiche, specialmente quelle disponibili a concedersi sessualmente per compiacere il partner, sembrano riportare maggiore accettazione, attribuendone la ragione al preconcetto infondato che le donne non siano realmente interessate al sesso, ma lo usino come strumento per raggiungere il loro vero obbiettivo, ovvero una stabile relazione romantica: ben dieci delle donne intervistate (1/3 del campione) e nessun uomo, ha dichiarato di concedersi sessualmente al proprio partner pur non volendo su richiesta dello stesso o sotto la pressione percepita per conformarsi alla norma; cinque intervistate, quattro donne e una donna transessuale, hanno riportato di aver subito violenza sessuale. In questo senso le norme sessuali di genere compromettono la vita delle donne asessuali in maniera simile a quelle delle donne con altri orientamenti: è, infatti, nella nostra società, in qualche misura socialmente accettabile che le donne debbano soddisfare i desideri sessuali dei propri partner a discapito della propria inclinazione in merito (Gavey, 2005).

L’unica donna transessuale intervistata ha descritto un rapporto molto complesso con la propria asessualità, alla quale essa stessa attribuisce eziologia iatrogena a seguito degli interventi di riassegnazione genitale performati alla nascita (la donna era infatti anche intersessuale), oltre che ad una storia di abusi subiti e di una generale condizione di salute precaria. Da ultimo, solo un individuo si è identificato nella categoria Altro/Genderfluid, tuttavia, la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di sentirsi in qualche modo distanti dagli standard egemonici di mascolinità e femminilità rappresentati nella nostra società, di fatto provando un generale distacco da quelle etichette circa il genere di appartenenza.

Il contributo di Gupta (2019), ha permesso di cogliere uno spaccato della complessità riscontrabile all’intersezione tra rappresentazione di genere e orientamento asessuale, sottolineando ad esempio come il fatto che un determinato gruppo si astenga o non rispecchi l’ideale di mascolinità, possa non impedire loro di accedere a certi aspetti del privilegio riservato agli uomini; al contempo viene sottolineato come anche l’esperienza delle persone asessuali rispecchi le disparità subite a causa delle differenze di genere, in particolare verso l’autonomia sessuale concessa in diversa misura nei due sessi.

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