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Amy – The girl behind the name (2015) – La LIBET nelle narrazioni

Una bella ragazza giovane, esuberante, con molto talento per la musica. La conosco quattro anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2011 ad appena 27 anni, con il film documentario Amy – The girl behind the name di Asif Capadia.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr.1) Amy – The girl behind the name

 

Mi soffermo a riflettere sulla sua sofferenza e sulle strategie adottate per fronteggiarla; in termini LIBET, sui temi dolorosi e i piani semi adattivi, consapevole della complessità del caso e della parzialità delle informazioni ricavate dalla voce di Amy nei filmati amatoriali, nelle interviste e nelle sue canzoni, raccolte per il documentario. In un esercizio di immaginazione  voglio incontrarla  al quarantesimo minuto circa del film, quando, soccorsa nella sua casa dagli amici allarmati da una vicina, dopo essere caduta e aver sbattuto la testa, è sporca, ‘la casa sporca, puzzava, con un bernoccolo quanto una pallina da golf’, come riferisce la sua migliore amica, dopo aver assunto alcol e anfetamine. Accetta di intraprendere un programma di riabilitazione a condizione che lo voglia suo padre. Suo padre le dice che sta bene, non ha bisogno di andare in terapia e decide di andare un giorno e poi tirarsi fuori.

Mi piace pensare che dopo alcuni incontri e aver maturato una motivazione sia lì, seduta di fronte e mi dica di avere un problema, di sentirsi persa, un pesce fuor d’acqua. Le chiedo a quale emozione si riferisce e mi risponde tristezza perché tutto le ricorda Blake; il sangue sul muro, il frigorifero…e ha cominciato a bere appena sveglia, senza mangiare e riducendosi così come appare, ‘è stato da irresponsabile’, dice. Le chiedo di raccontarmi un episodio specifico in cui si è sentita così e cosa ha fatto. Mi racconta di quando il ragazzo che frequentava, appunto Blake, le ha scritto il messaggio in cui le diceva di non voler lasciare la sua ragazza e che probabilmente sarebbero stati meglio come amici. Riferisce di essersi sentita folle, senza freni, di aver preso a pugni il muro. Le chiedo cosa ha pensato in quei momenti e risponde ‘deve desiderare di vedermi’, chiedo perché ‘deve?’, mi risponde che non è giusto che si dimentichi così in fretta di quello che c’è tra loro. Continuo chiedendo cosa significa questo per lei e risponde che significa essere debole e non amata come sua madre, continua dicendo che emula tutto lo schifo che la madre odia e che mai e poi mai ci passerebbe per quello che è accaduto a lei. Mi racconta che il padre è andato via di casa quando aveva tra i 9 e i 10 anni, aveva una relazione con un’altra donna da quando lei aveva 18 mesi ed era sempre stato molto assente nella sua crescita, la madre era debole tanto da non riuscire a porle alcun limite sin da bambina. Le chiedo cosa ha provato quando il padre è andato via di casa, cosa ha fatto e pensato. Risponde di essersi sentita strana; nervosa/allegra e di aver pensato: ‘posso fare quello che voglio, imprecare, truccarmi, bello!’ Si è tatuata, ha fatto piercing dappertutto, saltava la scuola, portava a casa il suo ragazzo, fumava erba. Sembrava aver reagito bene ma dopo qualche anno l’hanno portata da un medico che le ha prescritto un farmaco per la depressione. Dice che non sapeva cosa fosse la depressione ma sapeva di essere diversa.

Mi sembra di aver individuato i tre ABC; presente, invalidazione, apprendimento e inizia a delinearsi nella mia mente una concettualizzazione del caso che vede il disamore/indegnità come tema doloroso; i processi di metacontrollo, non posso tollerare di sentirmi non amata, debole, vuota e triste, come ho visto accadere a mia madre; il piano immunizzante, sostanze, relazioni estreme; il processo di invalidazione, rottura della relazione, rabbia, sostanze; esordio sintomatico, depressione, ‘back to black’.

Continuando la fantasia, decido a questo punto di condividere con la mia paziente la concettualizzazione che ho formulato e dico: ‘adesso le dirò l’idea che mi sono fatta del suo funzionamento che la fa stare così male, capisco che per lei è estremamente doloroso sentirsi così depressa ed è logico e comprensibile che si senta così, data la sua storia; è anche vero che la terapia può aiutarla a trasformare la depressione in tristezza. Sentirsi tristi è normale e talvolta utile perché ci comunica che c’è qualcosa da cambiare. Lei sta male perché quando il suo ragazzo ha deciso di stare con un’altra donna anziché con lei, così come è accaduto con suo padre da piccola, ha provato una profonda tristezza che l’ha fatta sentire debole e non amata e ha cercato di non sentire questo stato emotivo aiutandosi con le sostanze. E’ probabile che l’dea che si sia fatta di sé è di non poter sopportare di sentirsi inadeguata e non amata e di dover essere forte e spregiudicata nelle relazioni; tutto il contrario, come lei ha detto, di quello che è sua madre. Anche l’alcol e le altre sostanze è probabile che l’abbiano aiutata a non sentirsi non amata, debole e triste. La strategie che ha trovato per stare meglio (e lei ha fatto tutto quello che poteva, data la sua storia) l’hanno sicuramente aiutata in passato, ma ora sembrano non essere più sufficienti a proteggerla per non considerare il danno e i rischi per la salute, che già conosce’

 

Teatro Sociale e potenziamento dei processi di autonomia nella persona Down

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. In scena però non è la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi, ma ciò che è socialmente sottratto, occultato.

Capriotti Federica – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 La sindrome di Down è la causa più frequente di ritardo mentale. Ha una prevalenza di circa 1:700 nati vivi. Attualmente l’aspettativa di vita di un soggetto con la sindrome di Down è di circa 60 anni. In Italia i dati epidemiologici del Centro Internazionale dei Difetti Congeniti (CIDC) rilevano che la vita media dei soggetti con sindrome di Down è di 45-46 anni con una percentuale di sopravvivenza nella fascia di età tra i 45 e i 65 anni pari al 13%. In Italia vivono 49.000 soggetti con sindrome di Down (Arosio et al., 2004).

Sviluppo cognitivo nella sindrome di Down

I bambini con sindrome di Down oscillano tra un grado medio e un grado severo di disabilità intellettiva. Lo sviluppo cognitivo sembra subire ritardi importanti soprattutto dopo il secondo anno, in concomitanza con i rallentamenti dei processi di mielinizzazione (Barone, 2009). Si riscontrano difficoltà nel mantenere le abilità acquisite e la tendenza a utilizzare strategie non funzionali alla soluzione di problemi nuovi.

In età scolare e in adolescenza, l’elaborazione spaziale tende ad essere relativamente conservata in rapporto all’età verbale, mentre l’elaborazione verbale, alla base di alcuni compiti di memoria di lavoro o memoria a breve termine, risulta particolarmente deficitaria. La memoria a lungo termine sembra più compromessa rispetto ad altre forme di ritardo mentale (Barone, 2009).

Deficit nella competenza linguistica sono caratterizzati dalla presenza di competenze morfosintattiche deficitarie in compiti di produzione, comprensione e ripetizione di frasi. In uno studio volto a valutare le abilità lessicali e morfosintattiche in un gruppo di bambini con sindrome di Down con un’età mentale di 30 mesi, Vicari, Caselli e Tonucci hanno evidenziato che in questi soggetti la performance lessicale correlava con quella grammaticale, suggerendo in tal modo la possibile presenza di un ritardo nell’acquisizione lessicale e grammaticale che tuttavia non prende le sembianze di uno sviluppo atipico. Tali caratteristiche sembra siano ascrivibili a specificità della sindrome piuttosto che a un generalizzato effetto della disabilità intellettiva (Caselli et al., 2000).

Il teatro sociale come potenziamento dei processi di autonomia

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. Esso coniuga l’attenzione al livello teatrale e artistico con quella dello sviluppo di comunità, promuovendo esperienze di messa in gioco e messa in azione personale e collettiva (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

E’ una pratica innovativa che promuove la consapevolezza, la crescita e l’empowerment (Amerio, 2000) delle persone, dei gruppi e delle comunità utilizzando diversi tipi di linguaggi artistici, processi creativi e forme di performance. Ha come finalità la crescita e il cambiamento della singola persona, nel rapporto mente-corpo-emozioni-spirito, e della comunità locale, nella sua dimensione umana, sociale e culturale (De Marinis, 2000).

Il teatro sociale è uno spazio per rafforzare legami solidali e rigenerare coesione sociale con la creazione artistica di simboli e significati condivisi: sviluppa il benessere delle relazioni nei luoghi della comunità. Può quindi essere considerato a tutti gli effetti una pratica efficace e innovativa per promuovere il benessere e per formare degli operatori che si occupano di cura e educazione, inoltre favorisce il benessere e la salute delle comunità locali e delle loro reti sociali (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

Il teatro sociale è oggi una forma di teatro contemporaneo su cui criticamente si sta facendo chiarezza in termini storici, teorici e metodologici (De Marinis, 2000).

Uno degli aspetti del teatro sociale è quello della drammaturgia (l’arte di comporre drammi; trattato o precettistica sull’arte drammatica; in senso concreto, complesso delle opere drammatiche di un autore o di un periodo), l’azione che si occupa del dire “drammatico” della comunità: crea le condizioni perché la comunità possa compiere delle azioni di espressione-comunicazione, raccoglie e sviluppa i diversi linguaggi-esperienze con cui il gruppo/comunità comunica, ne coglie la specificità teatrale sul piano della performance e della comunicazione, li mette in contatto con l’orizzonte storico e simbolico di una più ampia collettività, li compone in un’azione di rappresentazione nei termini di un evento di comunità. La drammaturgia fa tutto questo in un costante dialogo tra poetica individuale e creatività collettiva (De Marinis, 2000).

L’altro che è in scena non è però la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi. La messa in scena di ciò che è socialmente sottratto, occultato è lo scandalo di questo teatro, il suo maggior rischio, ma anche il suo atto politico più significativo, tanto più rivoluzionario quanto più ciò che ci viene mostrato modifica la nostra percezione della realtà e ciò che prima avremmo detto brutto ora ci pare bello (De Marinis, 2000).

C’è in molti di questi spettacoli un’interazione comunicativa forte: ne nascono spettacoli che provocano, commuovono, ma raramente lasciano indifferenti, rivolti a, fatti per chi sta seduto là oltre la scena. Questa interazione segna anche l’estetica con una presenza di segni popolari, quotidiani, comuni.

Il laboratorio nel teatro sociale

Nel teatro sociale, il laboratorio, inteso come pratica creativa di gruppo sviluppata in una situazione extraquotidiana e orientata, in una dinamica relazione anche affettiva, all’autorappresentazione, offre una condizione particolarmente efficace di lavoro. Articolato in termini di conduzione sul modello dei riti di passaggio – separazione, margine, reintegrazione -, il modello generale del laboratorio di teatro sociale si sviluppa su tre percorsi (Pontremoli et al., 2007):

  • il training psicofisico, centrato sulla scoperta del corpo come strumento di espressione, comunicazione e di relazione;
  • il training relazionale, fatto di giochi ed esercizi, finalizzati alla formazione del gruppo attraverso l’esplorazione delle dinamiche di fiducia e conflitto;
  • l’esplorazione drammaturgica, attraverso l’improvvisazione, l’invenzione narrativa, la creazione di rappresentazioni.

Nelle tre fasi del laboratorio, gli stimoli forniti dal conduttore creano dei setting teatrali nei quali quella che viene agita è la totalità della persona e del gruppo, sul piano dei vissuti, dei linguaggi, dell’immaginario, del mondo simbolico e di valori a cui fa riferimento.

Attraverso l’esperienza laboratoriale (ed in particolar modo di quella teatrale) si può migliorare significativamente la qualità di vita e dare dignità a soggetti che spesso non hanno alcuna prospettiva di vita. E’ evidente che l’organizzazione di un laboratorio teatrale richiede risorse umane e materiali considerevoli. Il personale educativo e formativo, per esempio, dev’essere messo in grado di lavorare senza improvvisazione, avere conoscenze di base specifiche da aggiornare continuamente per raggiungere la massima professionalità (Associazione Italiana Persone Down).

Un’altra chance attraverso il teatro

La presenza di una persona con disagi in scena è un segno teatrale complesso. Innanzitutto è un frammento di realtà, qualcosa che ha il sapore della “vita vera”, soprattutto delle emozioni e dei sentimenti che appartengono all’esperienza della vita. In questa ricerca di una contiguità estrema c’è forse il bisogno di uscire dai confini di un teatro autoreferenziale tanto nella sua antropologia e sociologia quanto nei suoi linguaggi. Un desiderio di mondo (parlare “di” e “con” l’altro) ha attraversato, nei primi anni Novanta, una parte del teatro. In questo senso, anche il teatro di narrazione ha cercato oggetti di discorso reali e linguaggi affabulativi che ricostruissero nella comunicazione una condizione di comunità civile (De Marinis, 2000).

Lo strumento teatro diviene sociale nel momento in cui agisce per il bene di una comunità, a favore della trasformazione e del cambiamento (Pontremoli et al., 2007).

Se consideriamo il teatro una delle maggiori arti e se consideriamo le arti un modo per interagire con il contesto socioculturale in cui viviamo, giungeremo a considerare il teatro di cui ora discutiamo come l’arte sociale per eccellenza. Un’arte che parte dall’individuo per inserirlo in un gruppo; un gruppo che diventa famiglia prima, comunità dopo. Molti (critici, storici e filosofi) infatti, definiscono il teatro come l’arte delle arti, in quanto consente a più persone di comunicare l’una con l’altra, di crescere insieme, e di farlo attraverso modalità differenti. Arte dell’incontro, arte dello sguardo che si rispecchia nell’altro, nel corpo che si rispecchia in un altro corpo, del comunicare in senso naturale, come scambio biunivoco di energie. La teatralità si esprime potenziata nel disagio, quando si ha bisogno di stringere relazioni più strette, sincere e lo scambio diventa necessità di crescita, materiale e spirituale. La terapia diventa realizzazione di obiettivi e autorealizzazione. Questo è possibile primariamente, com’è chiaro, nell’accezione di un teatro fisico, dove i corpi si incontrano e le energie si scontrano, e la fusione è data da questo contrasto (Pontremoli et al., 2007). Il teatro non è di per sé sociale, ma diviene anch’esso un ambiente fertile all’insegnamento, alla pedagogia, alla crescita personale. Ne risulta l’altissimo valore ed efficacia del teatro come terapia, appunto, per vincere le proprie resistenze e rigidità, per capire le ragioni degli altri, per superare le diffidenze e gestire gli scontri. Il teatro, in mano all’operatore esperto, è una chiave per riconoscere ad ogni persona, anche la più difficile, il proprio valore, e nello stesso tempo non lasciarla prevaricare. Teatralizzare i conflitti è ben espresso dalla locuzione “facciamo come se”: in questa maniera diventa più facile superarli, perché li si guarda dall’esterno. I conflitti diventano racconto ed esperienza. Si può scoprire di avere in sé la capacità di raccontare, di esprimersi anche in forma semplice, e lo si fa in una atmosfera non giudicante in cui tutti collaborano e condividono le loro esperienze. Il teatro rimane insomma uno dei pochi ambienti in cui è possibile sperimentare le proprie potenzialità e le relazioni con l’altro, formare un gruppo e dare alle persone un senso di appartenenza e una comunanza di intenti. È un territorio privilegiato per creare un ambiente culturale, vivere in società in modo più consapevole e accettare le nostre reciproche diversità (Pontremoli et al., 2007).

Per un disabile, per un disagiato, per una qualunque persona in difficoltà, dimostrare le proprie qualità comunicative e artistiche rappresenta la possibilità di darsi un’altra chance, dimostrare al mondo e a sé stessi che si è in grado di percorrere altre vie da quella della sofferenza e della mancanza. L’effetto della necessità interiore e dunque anche l’evoluzione dell’arte coesistono, anche se solo per l’istante dell’azione scenica, giungendo ad un picco di emozionalità personale e collettivo (Pontremoli et al., 2007).

Chi ha modo di lavorare per persone con disabilità intellettiva si accorge, con il passare degli anni, di trovarsi di fronte ad una dimensione peculiare del vivere, della percezione di sé e del mondo. Fare teatro in questa dimensione pensando di poter applicare metodi, tecniche, categorie drammaturgiche, chiavi di lettura come si utilizzano comunemente con la normale attorialità non può che portare ad un lavoro superficiale, potenziale origine di frustrazioni nell’operatore e nei partecipanti, a meno che non si voglia produrre la solita performance adattata intorno agli stereotipi, spesso non supportati da una reale conoscenza (Anffas Milano).

Non possiamo ragionare sulla categoria “disabile intellettivo” come se descrivesse un tipo dai tratti univoci e definiti. Infatti, ed è una questione universale per il teatro, le proposte di lavoro devono procedere progressivamente verso una loro declinazione individuale, persona per persona; sarebbe impensabile un lavoro efficace racchiudendo tutto il gruppo nella stessa tipologia di esercizi e di proposte.

Gli elementi tecnici, pratici, psicologici del teatro permangono, ma subiscono limitazioni o totali impedimenti secondo la condizione cognitiva ed emozionale (e naturalmente fisica) del soggetto. La memoria, l’immaginario, il simbolico, l’autoanalisi e poi l’attenzione, che nel lavoro teatrale si deve districare consapevolmente tra processi percettivi, riflessivi e di fluttuazione, si presentano con limiti e potenzialità mutevoli, non solo da persona a persona, ma per lo stesso soggetto nel corso del tempo, e contrariamente a quanto potrebbe accadere per un sedicente normale, questo impasto condizionante non riesce a divenire consapevole e governabile. Tutto il lavoro è come in balia di una condizione che non può essere vista, valutata e sfruttata a pieno dall’interessato e, conseguentemente, tantomeno dall’operatore (Anffas Milano).

Spesso manca una visione d’insieme del lavoro, intesa non solo nello svolgersi della struttura, ma anche nella comprensione del suo senso. La preparazione della performance diventa allora la preparazione della propria porzione da mostrare, nell’impossibilità di abbracciare contemporaneamente i cinque piani attentivi (sé stesso, la parte drammaturgica, lo spazio, il compagno, il pubblico), con l’attenzione convogliata sugli aspetti pratici ed esteriori del dire e del fare.

Il rischio è quello di avere come termine di paragone la “normalità” e di far tendere a quella il risultato del laboratorio (Anffas Milano). Calare il Teatro nel mondo della disabilità intellettiva non significa riportarvi il teatro della norma con riduzioni di intenti, di pretese, o semplicemente semplificandolo. Significa creare un teatro specifico incontro per incontro, delle situazioni individuali e di gruppo, in cui la tecnica teatrale è continuamente messa in discussione, a volte utile a volte limitante, da riadattare, da buttare via, da reinventare completamente; impossibile e riduttivo tentare di sistematizzarla in metodi, perché spesso ciò che nel laboratorio abbiamo trovato oggi, domani sarà scomparso e la ripetizione non basterà a ricreare le medesime condizioni soggettive per il ritorno di una parola o di un gesto (Anffas Milano).

Scopo del teatro sociale è creare ritualità civile, fare comunità, stimolare la partecipazione di tutti al bene di tutti (Bernardi et al., 2014). Le esperienze del teatro sociale e di comunità appaiono non solo modello di integrazione sociale e di mirabile intesa tra ente pubblico, privati e associazioni, ma l’annuncio di una nuova politica.

Tutte le esperienze sono caratterizzate da una magnifica disponibilità degli operatori, che funzionano come animatori: oper-attori (Bernardi et al., 2014).

Emerge il ruolo dinamico dei soggetti pubblici, delle istituzioni (ASL, comuni, province, regioni, università), che trovano, nel promuovere questi percorsi, una dimensione diversa da quella imprigionata dal circuito programmazione-acquisto-controllo (Bernardi et al., 2014).

Il teatro sociale si fonda su un cambio radicale di prospettiva che mette in luce quanto normalmente resta nascosto dell’esperienza teatrale. Questo spostamento porta in primo piano le funzioni antropologiche e sociali della teatralità, dando luogo ad una serie di conseguenze quali l’allargamento della partecipazione all’esperienza, la rottura degli statuti codificati, l’apertura delle forme, la diversa e dinamica distribuzione delle funzioni teatrali, un rapporto proficuo tra cultura e sviluppo sociale, tra arte e vita che sviluppa nuove relazioni inedite e legami sociali (Bernardi et al., 2014).

Il lavoro di teatro sociale sembra sia adeguato, proprio per la sua capacità di dialogo, di confronto e di lavoro sulle potenzialità individuali e collettive, come strumento per costruire percorsi di Empowerment individuale e comunitario (Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute).

Il teatro sociale, attraverso la gestione dei rapporti orizzontale e non verticistica che lo caratterizza, vuole produrre un cambiamento personale che nel lavoro di gruppo diventa anche un cambiamento sociale, partecipazione e collaborazione.

Protagonisti, azioni e materie che agiscono su un palcoscenico, ci consentono di capire in che modo possiamo lavorare in termini di promozione della salute.

Il laboratorio teatrale e lo spettacolo conclusivo, posti in quest’ottica, oltre a registrare miglioramenti riguardanti la fonetica, la gestualità, la sicurezza di sè, il rispetto dell’altro e delle regole, hanno mostrato che far cooperare con pari dignità ragazzi con sindrome di Down e ragazzi normodotati, sia vincente soprattutto per le ripercussioni notevoli a livello di immagine sociale efficace sugli atteggiamenti e sulle motivazioni al cambiamento, favorendo lo sviluppo dei processi di inclusione e coesione sociale che raggiunge rapidamente un ampio numero di persone e avendo ricadute positive sulla qualità della vita dell’intera comunità.

 

Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo (2019) di W. Mischel – Recensione del libro

Walter Mischel è uno psicologo recentemente scomparso, padre di uno degli esperimenti più importanti della psicologia: Il test del marshmallow e autore del libro Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo.

 

Le domande che hanno mosso le sue indagini sono state quella di comprendere quale fosse il ruolo dell’abilità di posticipare una gratificazione (tradotto in autocontrollo) nello sviluppo psicologico della persona e se tale abilità possa essere appresa o risulti, invece, innata e immutabile.

Il marshmallow, caramella dolce e gommosa molto nota in America, è la gratificazione utilizzata negli esperimenti che iniziano negli anni 60 (in realtà non sono stati utilizzati solo questi tipi di dolciumi ma anche altri, ritenuti appetibili dai piccoli protagonisti).

Lo studio è stato condotto all’interno dell’Università di Standford su bambini di età prescolare ai quali era mostrata una ricompensa, un marshmallow per esempio; a questo punto erano sottoposti ad un dilemma: mangiarne uno subito o attendere per averne due?

I bambini venivano, pertanto, lasciati da soli in una stanza in compagnia sia della loro tentazione (con tanto di campanellino da suonare come strumento di resa) sia di tutte le divertenti e fantasiose strategie che avevano a loro disposizione per resistere nell’attesa.

Con un grande studio longitudinale, gli autori hanno trovato che il numero di secondi attesi andava a correlare con un più alto punteggio ai test di ammissione ai college, un indice di massa corporea inferiore, una maggiore autostima e una migliore tolleranza alla frustrazione, con maggiore adattamento allo stress nell’età adulta. Dati che risultano rilevanti a tal punto da ritenere questa variabile un perno piuttosto centrale della persona. L’autore parla di un sistema ‘caldo’ quello più impulsivo, meno mediato, emotivo (limbico) e di uno freddo cognitivo, razionale (della corteccia prefrontale) alla base della nostra presa di decisione. Attivare il secondo in favore del primo, concentrarsi sulle caratteristiche fredde dello stimolo significa, in buona sostanza, riuscire a resistere meglio alle tentazioni.

Ed ognuno di noi per far questo può utilizzare strategie diverse (i bambini dell’esperimento insegnano: chi canta, chi conta, chi si distrae, chi evita di guardarlo, chi lo immagina come se fosse una foto…). Ciò significa che possiamo effettivamente trasformare gli stimoli attraenti in qualcosa di più moderato ed emotivamente blando, non chiamando in causa la sola forza di volontà ma anche la corteccia prefrontale stessa, che può diventare in grado di ‘raffreddare’ stimoli per noi seducenti.

Riprodotti in setting diversi (popolazioni più svantaggiate per esempio) e con soggetti di età diversa, studi simili e affini hanno confermato negli anni che la capacità di posticipare la gratificazione ha visibili e profonde conseguenze nella salute fisica e mentale della persona.

L’aspetto della possibilità di apprendere tali strategie è ovviamente uno dei punti chiave e di svolta dell’autore, che sottolinea come sia più semplice insegnarle ad un bambino piuttosto che ad un adulto.

Il titolo del lavoro ha a che vedere con il marshmallow ma poi è molto di più. Nei capitoli successivi e nelle 300 pagine del libro, vengono via via approfondite varie tematiche: Quanto conta la genetica e quanto invece l’ambiente? In che modo posso prendere oggi delle decisioni che siano fruttuose per un ‘me futuro’? Che ruolo hanno ottimismo e fiducia in sé stessi nella propria crescita personale? Come si decide di essere cicale (che vivono nel presente) o operose formiche (dedite al futuro)? 

Vengono sviluppati numerosi concetti che possono mediare l’attivazione del sistema freddo o del sistema caldo: la distanza psicologica per esempio (la discrepanza temporale, spaziale o ipotetica rispetto al momento in cui prendiamo una decisione e l’effettiva realtà di quando ci troveremmo ad affrontarla realmente), oppure l’autodistanziamento (vedere le cose dall’esterno, come se fossimo ‘una mosca in un muro’ per attivare il sistema freddo), o ancora, il sistema immunitario psicologico che ci protegge dagli effetti negativi dello stress cronico e ci aiuta nella gestione di notizie terribili e il ruolo del Modelling di Bandura nell’auto ed etero indulgenza.

Viene inoltre fatta una ricca esplorazione dei piani ‘se allora’, che sarebbero protagonisti anche della possibilità di posticipare gratificazioni nella misura in cui ognuno di noi ha bisogno di configurarsi una sorta di piano da mettere in atto, che sia più concreto e meno vago possibile, che ci fornisca delle strategie da mettere in atto all’occorrenza (di tentazioni).

Un libro sull’autocontrollo non può ovviamente non toccare il tasto della forza di volontà, che viene descritta come una risorsa biologica vitale, ma non illimitata, facendo quindi luce sui modi in cui questa possa essere fortificata quando tende ad esaurirsi.

Pertanto appare evidente che alcune persone possono essere più abili di altre quando si tratta di resistere alle tentazioni (e tale differenza può essere vista già in età prescolare), ma è vero anche che non dobbiamo essere vittime della nostra storia biologica; concetti come forza di volontà non sono così statici e immutabili come, forse, è facile credere, ma possono essere appresi e regolati. La determinazione deve fare compagnia a strategie e motivazione per rafforzare la perseveranza.

Un ulteriore aspetto che l’autore riferisce più volte è che, se è evidente che l’autocontrollo possa favorire tutta una serie di risorse psicologiche per la persona, allo stesso tempo una rigidità nel costante e perseverante rinvio della gratificazione (quindi lavorare, risparmiare, faticare e ‘attendere sempre altri marshmallow’) può non rivelarsi una scelta saggia: a volte occorre godere della vita ‘come un cicala’ e non essere sempre previdenti ed operosi come le formiche.

Un altro aspetto importante del testo è il tentativo di Mischel di rendere tutto il suo contenuto rilevante e rilevabile nel contesto della politica pubblica. Si parla molto infatti di come poter utilizzare tutte queste conoscenze per aiutare i bambini che crescono in ambienti più deprivati a colmare le lacune e riscattarsi nella vita, imparando ad esprimere il loro potenziale. Intervenire sullo sviluppo delle funzioni esecutive è un passo da fare ed uno degli interventi citati è sicuramente quello della meditazione e della mindfulness. Non è più il ‘penso dunque sono’ di Cartesio, ma diventa ‘penso, dunque posso cambiare ciò che sono’.

Il testo, benché non si risparmi nella citazione di un numero molto ampio di studi e di studiosi, non appare come un manuale vero e proprio, poiché la qualità della scrittura, in prima persona, e la fruibilità del contenuto, lo rendono un libro piacevole e scorrevole, una sorta di saggio circa lo stato attuale di ciò che sappiamo in merito all’autocontrollo, da un punto di vista psicologico e neuroscientifico. Un argomento che è una parte importantissima del lavoro clinico di ogni terapeuta, ma anche un aspetto rilevante di ogni persona, una variabile che può essere coltivata sia in età infantile che adulta. Una lettura assolutamente consigliata.

 

IL MARSHMALLOW TEST – GUARDA IL VIDEO DELL’ESPERIMENTO:

La AAT: una ricerca esplorativa sull’efficacia di un programma di terapia assistita da cani negli adulti con disturbo dello spettro autistico.

La Terapia Assistita da Animali in pazienti adulti con Disturbi dello Spettro Autistico è un intervento che include un animale addestrato ed obiettivi terapeutici prestabiliti guidati da un terapeuta.

 

Il Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) è una condizione permanente nel corso della vita, caratterizzata da compromissione della comunicazione ed interazione sociale, del linguaggio e delle funzioni cognitive; identificata dalla presenza frequente di comportamenti ripetitivi ed interessi ristretti.

La Terapia Assistita da Animali (Animal-Assisted Therapy, AAT), è un tipo di terapia alternativa o complementare che coinvolge gli animali (es. cani, gatti, cavalli) come forma di trattamento; è stata prevalentemente indagata in bambini e adolescenti evidenziando risultati postivi e riduzione dei sintomi.

Lo studio di Wijker e colleghi (2019) esplora gli effetti della AAT, dimostrando come essa riduca i problemi psicosociali (es. stress, depressione e ansia), migliori la comunicazione sociale e l’autostima negli adulti con disturbo dello spettro autistico. Sebbene gli adulti con ASD mostrino un’elevata comorbilità con altri disturbi psicopatologici, gli interventi psicosociali sono stati poco studiati e i trattamenti efficaci per questi pazienti sono limitati. Perciò, l’attuale ricerca è di tipo esplorativo e lo scopo era ottenere maggiori informazioni sulla qualità, pertinenza e validità dell’intervento, nonché sugli ostacoli ed elementi facilitanti per la sua realizzazione.

L’AAT in pazienti adulti con ASD è un intervento che include un animale addestrato ed obiettivi terapeutici prestabiliti guidati da un terapeuta. Il campione finale dello studio comprendeva 27 partecipanti (range età 18- 60 anni) e 13 cani terapeutici addestrati.

Il protocollo di intervento consisteva in 10 sessioni settimanali, ciascuna della durata di un’ora; le valutazioni dell’efficacia del trattamento sono state effettuate dopo 10 e 20 settimane.

Ai partecipanti e terapisti è stato chiesto di compilare due diverse versioni del questionario di valutazione del processo (PEQ), il quale conteneva domande su soddisfazione, pertinenza, fattibilità e validità dell’intervento. La pertinenza e la fattibilità sono state valutate dai soggetti secondo la propria prospettiva e quella degli altri. Per indagare la qualità della sperimentazione e l’attuazione del programma AAT, invece, sono stati raccolti dati sulla qualità del campionamento e dell’intervento e descritti gli ostacoli e i facilitatori dell’attuazione del programma AAT. I dati sulla qualità del campionamento sono derivati dal database di ricerca, dalla descrizione delle procedure di assunzione e dalle interviste semi-strutturate con i terapeuti coinvolti nel reclutamento. La qualità dell’intervento, invece, è stata valutata utilizzando il feedback delle parti interessate e valutando l’aderenza (il numero di sessioni completate da un partecipante) e la fattibilità (la misura in cui gli elementi del programma sono stati eseguiti come previsto).

In generale, i risultati hanno mostrato una riduzione dello stress e dell’agorafobia e un miglioramento della consapevolezza e della comunicazione sociale. In relazione al livello di soddisfazione dell’intervento, i partecipanti erano tutti soddisfatti dell’AAT in quanto hanno indicato di aver vissuto esperienze positive come gioia, intuizione, riflessione e rilassamento. Sia i partecipanti che i terapisti hanno segnalato l’AAT come pertinente e fattibile, sia per se stessi che per altri adulti con ASD. Alcuni dei fattori che rendono tale l’intervento sono: un feedback diretto sul comportamento, un ambiente sicuro e rilassante e l’opportunità di toccare un altro essere vivente durante le sessioni di terapia. Ecco le parole di pazienti adulte con ASD che hanno partecipato allo studio:

Il contatto con gli animali è spesso senza etichette, senza pregiudizi, e facilita la ricezione di nuove informazioni e l’apprendimento di nuove abilità. Inoltre, non ci sono problemi di distanza fisica con gli animali.

L’ostacolo maggiormente evidenziato è stato il tempo limitato per completare tutti gli esercizi in una sessione; i terapisti hanno riportato diverse cause: a) bassa velocità di elaborazione del partecipante, b) tendenza del paziente a parlare spesso, c) eventi di vita del soggetto, d) difficoltà motorie e cognitive del paziente. Un esempio di esercizio è un gioco di ruolo in cui il partecipante inventa un personaggio che interagisce con l’animale; questo è stato valutato come stimolante e potrebbe rappresentare una sfida per gli adulti con ASD a causa di problemi di immaginazione e gioco di finzione. Allo stesso tempo, questa tipologia di esercizio è stata vissuta come difficile e non è stata eseguita completamente dal 30% dei pazienti. Inoltre, il protocollo terapeutico prescrive una corrispondenza fissa tra il cane terapeutico e il paziente. Se un diverso cane da terapia (es. uno più giocoso) sembrava offrire migliori opportunità ad un partecipante di raggiungere gli obiettivi terapeutici, era possibile apportare una modifica (avvenuta nel 15% dei soggetti partecipanti allo studio). Infine, cani da terapia alternativi sono stati utilizzati anche in sessioni in cui i volontari non erano disponibili per portare il loro cane da terapia nella posizione terapeutica o il cane da terapia originariamente assegnato era malato.

I partecipanti hanno avanzato ulteriori suggerimenti per una migliore implementazione dell’AAT nelle cure per la salute mentale: a) orari flessibili per le sessioni di terapia che facilitano i partecipanti con un programma di lavoro a tempo pieno; b) più sedi terapeutiche, al fine di ridurre i tempi di viaggio e l’energia; c) copertura assicurativa sanitaria per rendere la terapia accessibile a persone altrimenti non in grado di partecipare a questa ricerca. Sia i partecipanti che i terapisti hanno documentato l’importanza della condivisione delle informazioni sulla terapia e sui risultati della ricerca per informare le persone con ASD, operatori sanitari e parti interessate.

I soggetti di sesso femminile e i proprietari di cani erano sovra-rappresentati nel campione dello studio; pertanto, la generalizzazione degli effetti del trattamento dovrebbe essere fatta con cautela. Sarebbe opportuno, per studi futuri, includere un campione più grande, che comprenda più soggetti di sesso maschile e non proprietari di un cane.

In conclusione, sulla base dei risultati ottenuti, è possibile affermare che la terapia assistita da animali può essere considerata una preziosa aggiunta alle possibilità di trattamento per ridurre lo stress e migliorare la comunicazione sociale negli adulti con disturbo dello spettro autistico.

 

L’utilizzo della Stimolazione Transcranica a Correnti Dirette (tDCS) nei disturbi da uso di sostanze

Lo studio del cervello ha affascinato gli scienziati di ogni epoca e gli effetti della corrente su di esso sono stati oggetto di un immenso interesse scientifico e non. Negli ultimi anni, la tDCS è stata sempre più utilizzata nella ricerca clinica psichiatrica ed in quella neuroscientifica di base con risultati positivi per alcuni disturbi mentali.

Maria Carlucci – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

La Stimolazione Transcranica con Correnti Dirette (Transcranical Direct Current Stimulation o tDCS) è una metodica di stimolazione cerebrale non invasiva, capace di indurre cambiamenti funzionali nella corteccia cerebrale. La tDCS consiste essenzialmente nell’applicazione sullo scalpo di elettrodi eroganti una corrente continua di bassa intensità in grado di attraversare lo scalpo e influenzare le funzioni neuronali, trovando applicazione in numerosi ambiti clinici, diagnostici e di ricerca.

Se lo studio del cervello ha sempre suscitato grande fascino negli scienziati fin dall’antichità, gli effetti della corrente su di esso sono stati oggetto di un immenso interesse, scientifico e non, dal momento della sua scoperta in diverse parti del mondo. Gli effetti di un’incontrollata stimolazione del cervello, infatti, sono stati riportati fin dal passato.

Scribonius Largus (il fisico dell’imperatore romano Claudio), descrisse come, piazzando una torpedine viva sul capo per inviare una forte corrente elettrica, si potesse alleviare l’emicrania. Galeno di Pergamo, uno dei più grandi medici dell’antichità, e Plinio il vecchio descrissero risultati simili. Nel XI secolo, Ibn-Sidah, un fisico musulmano, suggerì di utilizzare un pesce gatto elettrico per il trattamento dell’epilessia. I metodi di stimolazione transcranica hanno dunque una lunga tradizione. Già intorno al 1800, quando Volta inventò la sua pila elettrica, i ricercatori cominciarono a studiare le applicazioni della corrente diretta in una varietà di disordini neurologici. Studiosi come Walsh (1773), Galvani (1791, 1797) e Volta stesso (1792) stabilirono che la stimolazione elettrica di varia durata potesse suscitare diversi effetti fisiologici. In casi riportati negli scritti dell’epoca, ma non ben documentati senza gli standard moderni, si affermò che i pazienti affetti da ictus cronico potessero trarre beneficio dall’applicazione diretta di corrente (Stagg & Nitsche, 2004). Il primo resoconto sistematico delle applicazioni cliniche della corrente galvanica è datato in questo periodo, quando Giovanni Aldini, il nipote di Galvani, e alcuni altri ricercatori utilizzarono la stimolazione transcranica come tecnica per curare la depressione. In breve tempo, nel XIX secolo, seguirono numerosi studi. Molti altri ricercatori utilizzarono nello stesso periodo la corrente galvanica per il trattamento di disordini mentali, ottenendo risultati non sempre soddisfacenti (Parent 2004).

Guardando alla storia più recente, l’utilizzo della terapia elettroconvulsiva e degli psicofarmaci e la mancanza di segnali neurofisiologici attendibili oscurarono l’utilizzo della corrente diretta sul sistema nervoso centrale come strumento terapeutico e di ricerca, specialmente nel campo della psichiatria. Tuttavia, la corrente galvanica continuò ad essere utilizzata senza interruzioni nel trattamento di disordini muscolo scheletrici e dolori periferici.

Questi primi sforzi in campo neurofisiologico, dunque, furono probabilmente abbandonati a causa della mancanza di metodi di valutazione affidabili. Quando nel 1998 fu possibile misurare gli effetti dell’applicazione di corrente diretta sulla corteccia motoria, a livello non invasivo, per mezzo della stimolazione magnetica transcranica, la tDCS diventò affidabile in termini di parametri quali l’intensità di stimolazione, la durata e la convalida degli effetti plastici che ne conseguono (Priori et al. 1998).

Gli studi di Priori (1998) seguiti da quelli di Nitsche e Paulus (2001), dimostrarono come una debole corrente diretta potesse effettivamente essere inviata a livello transcranico andando ad indurre cambiamenti bidirezionali nella corticale dipendenti dalla polarizzazione. In modo specifico, si notò che la corrente diretta anodica incrementava l’eccitabilità corticale, mentre quella catodica la decrementava. Si prospettò quindi il possibile utilizzo di questa tecnica al fine di analizzare la plasticità e l’eccitabilità cerebrale e come valida cura nel campo dei disordini neuropsichiatrici (Priori et al. 1998; Nitsche & Paulus 2001).

Negli ultimi anni, la tDCS è stata sempre più utilizzata nella ricerca clinica psichiatrica ed in quella neuroscientifica di base con risultati particolarmente positivi nella depressione maggiore. Oltre alla depressione, l’efficacia clinica della tDCS in psichiatria è stata valutata nell’ambito del disturbo bipolare, della schizofrenia, dei disturbi d’ansia e dei disturbi da uso di sostanze e addiction.

In questo ultimo ambito, recentemente, è stato osservato che l’applicazione della tDCS sulla corteccia dorsolaterale prefrontale (DLPFC) si è rivelata un utile strumento nella riduzione del craving sia nei disturbi da uso di sostanze che nelle dipendenze comportamentali, aprendo così, nuovi scenari di ricerca.

L’uso della tDCS nei Disturbi da Uso di Sostanze

Una recente revisione della letteratura ha individuato solamente 18 studi clinici randomizzati (RCT) che indagavano l’utilizzo della tDCS in soggetti con disturbo da uso di sostanza (le sostanze valutate erano alcol, caffeina, cannabis, cocaina, eroina, metamfetamine e nicotina); lo studio prendeva in considerazione 473 pazienti totali. Tra le 18 ricerche selezionate, 16 di esse hanno valutato l’utilizzo della tDCS sulla DLPFC ed 8 hanno evidenziato una riduzione del craving, mentre 2 coinvolgevano l’area fronto-parietale-temporale (FPT) e di esse 1 riportava una riduzione del craving.

In definitiva gli autori evidenziavano che i risultati positivi sul craving erano sostanzialmente equivalenti sia con tDCS anodica sulla DLPFC destra che con tDCS anodica sulla DLPFC sinistra. Dall’altro lato le limitazioni degli studi analizzati erano i campioni numericamente limitati (tra 12 e 49 soggetti), la mancanza di dati sull’efficacia a lungo termine e l’utilizzo di diversi protocolli e procedure di stimolazione (Lupi et al. 2017).

In questo scenario, nuove forme di trattamento che possano agire in maniera sinergica e complementare ai farmaci e alle altre terapie ufficialmente indicate sia nei SUDs che nei vari disturbi psichiatrici sono auspicabili e necessarie. Le tecniche di neuromodulazione si prestano particolarmente ad agire in sinergia con le altre terapie e stanno conducendo a una progressiva integrazione del paradigma recettoriale, proprio dell’approccio farmacologico, con quello “circuitale”, in cui le funzioni mentali sono correlate a specifici circuiti neurali, che a loro volta possono essere selettivamente modulati per scopi terapeutici o di ricerca. Tale integrazione trova il suo razionale nella fisiologia di base del sistema nervoso, secondo cui l’informazione viaggia tra i neuroni con una duplice codifica, elettrica e chimica. L’intervento combinato sulla componente elettrica dell’informazione (attraverso le tecniche di neuromodulazione) e su quella chimica (attraverso i farmaci) può consentire di ottenere effetti biologici sinergici e risultati terapeutici altrimenti irraggiungibili. Parimenti, le possibilità di integrazione della neuromodulazione con altre metodologie di approccio, quali la psicoterapia o la riabilitazione cognitiva, aprono scenari estremamente affascinanti che, partendo dal campo del trattamento psichiatrico, si inoltrano nell’indagine sul rapporto mente-cervello e sui meccanismi di plasticità e metaplasticità neurale che governano il rapporto individuo-ambiente, anche indipendentemente dai processi patologici e terapeutici.

D’altro canto, la tDCS presenta alcuni limiti, sia dal punto di vista prettamente strumentale, sia dal punto di vista dell’utilizzo. Per quanto riguarda l’ambito strumentale, un potenziale problema deriva dal fatto che gli strumenti della tDCS non sono standardizzati a livello mondiale. Questi strumenti infatti possono essere facilmente costruiti utilizzando l’attrezzatura e la tecnologia standardizzata nei laboratori di ingegneria anche al college o nelle università. Di conseguenza si possono trovare almeno una dozzina di strumentazioni tDCS differenti in tutti i laboratori di modulazione a livello mondiale, rendendone difficoltosa l’universalizzazione. Gli strumenti della tDCS, inoltre, non sono cambiati drasticamente dai tempi in cui la batteria fu scoperta per la prima volta. Pertanto la tecnologia convenzionale presenta determinati limiti. Questi includono la focalizzazione dell’area stimolata, la profondità di penetrazione ed il controllo della localizzazione del bersaglio.

In conclusione, possiamo dire che la tDCS si presenta comunque come una tecnica non invasiva, ben tollerata dai pazienti, i cui effetti collaterali sono ridotti al minimo. Questo la rende oggetto di un enorme interesse da parte di studiosi di diversi ambiti, tra cui quello clinico, in cui la ricerca delle cause che stanno alla base delle malattie e delle cure più appropriate per il loro trattamento non possono prescindere da una completa sicurezza per la salute del paziente. Tuttavia, anche se il numero di applicazioni cliniche della tecnica è cresciuto a livello esponenziale negli ultimi anni, allo stesso tempo la sua comparsa in ambito clinico ha suscitato la nascita di nuove questioni da dover risolvere. Molte sono le domande a cui dare ancora risposta, risposte che non sono ancora tutt’ora abbastanza precise, e molti sono ancora i quesiti da risolvere nella comprensione dell’esatto funzionamento della tDCS in determinati ambiti per poterne garantire l’utilizzo sicuro in campo clinico.

Sebbene la strada da percorrere per comprendere a fondo gli effetti ed i meccanismi d’azione di questa metodica sia ancora lunga, essa rappresenta tuttavia una tecnica ricca di potenziale, soprattutto nel campo delle addiction. Solo il proseguimento delle sperimentazioni permetterà di verificare la reale portata dei suoi effetti e determinare in futuro la possibilità di utilizzo in ambito clinico.

 

#thininspiration, quando la perdita di peso è una questione social: il caso di Instagram – Psicologia Digitale

I contenuti collegati al #thinspiration sono per lo più immagini con testi che incoraggiano a non mangiare o che esprimono disagio e sofferenza, sentimenti di tristezza, isolamento, senso di inutilità, desideri di autolesionismo o pensieri suicidari.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 5) #thininspiration, quando la perdita di peso è una questione social: il caso di Instagram

 

 La diffusione online di contenuti pro-ana (pro-anoressia) non è recente, risalgono anzi agli anni Novanta i primi blog e siti utilizzati per promuovere condotte autolesive, diete ed esercizi estremi.

Negli ultimi anni si è assistito a una migrazione della comunità pro-ana dai siti (statici, focalizzati esclusivamente sull’anoressia e facilmente rintracciabili dalla Polizia Postale che può chiuderli), verso piattaforme social come Instagram, più aperta e flessibile, che raggiunge velocemente un maggior numero di utenti oltre che più difficile da moderare e controllare. 

Instagram, non un social come gli altri: l’immagine al primo posto

Instagram incoraggia un confronto sociale basato su foto che nella maggior parte dei casi sono ritoccate; come mostrato da alcuni autori (ad esempio Hendrickse et al., 2017) da questo confronto si esce la maggior parte delle volte con un bagaglio di insoddisfazione corporea ed aspirazioni di magrezza eccessiva. Del resto, Instagram fonda il suo successo su contenuti visivi, sull’utilizzo di filtri e di hashtag per la diffusione di argomenti. Uno dei più popolari è #thinspiration, l’unione di thin, sottile, e inspiration, ispirazione. Viene usato per evidenziare contenuti che promuovono perdita di peso, esercizio fisico esagerato e comportamenti alimentari restrittivi con immagini di corpi in evidente sottopeso o estremamente sottili, immagini di ossa sporgenti, stomaci estremamente piatti o ancora di trasformazioni prima e dopo la perdita di peso.

Non mancano tentativi di arginare la condivisione di contenuti che possono istigare a comportamenti autolesivi, ovvero impedendo la pubblicazione di alcuni hashtag. Questi divieti imposti dalle piattaforme non sono riusciti a bloccare l’attività pro-ana sui social, infatti hashtag vietati come #thinspiration e #thinspo riappaiono leggermente modificati (ad es. #thinsp00) in modo da eludere i divieti, mentre una grande quantità di contenuti pro-ana fiorisce con tag alternativi come #bodycheck, #collarbones, #thighgapp, #bonespo, #anamia, #size00, #needtobeskinny, #brokenana, #secretsociety123 e #wanttobeskinny.

Thinstagrammers: ispirazione, slogan e consigli

Un numero sempre più ampio di utenti pro-ana (chiamati thinstagrammers) ha rivolto la propria attenzione a Instagram perché ogni contenuto può raggiungere facilmente un grande pubblico, grazie all’utilizzo di più hashtag sotto lo stesso post.

Instagram nasce come app visuale, dotata di numerosi filtri da applicare alle foto: la natura creativa di questo strumento può far apparire ‘artistiche e glamour’ anche condizioni come i disturbi alimentari. La componente estetica fa riferimento a canoni a volte esaltati nell’ambito della moda e ciò probabilmente attenua l’effetto disturbante che possono avere immagini forti come sporgenze ossee o autolesioni.

Ging e Garvey (2018) hanno analizzato i contenuti collegati al #thinspiration: sono per lo più immagini con testi che incoraggiano a non mangiare o che esprimono disagio e sofferenza, sentimenti di tristezza, isolamento, senso di inutilità, desideri di autolesionismo o pensieri suicidari. Non mancano suggerimenti su come mantenere e nascondere un disturbo alimentare, immagini di pasti a basso contenuto calorico, diete e piani di esercizi.

Instagram, come tutti i social network, incoraggia l’interattività: i thinstagrammers lo utilizzano in modo proattivo, ricercando automotivazione e senso di appartenenza ad una comunità che a volte viene chiamata in causa con alcuni giochi o sfide, le challenge. Si tratta di post in cui l’utente si impegna a fare o non fare alcune cose: ad esempio, digiuno o esercizio fisico eccessivo in cambio di like, o ancora chiedere ai follower di nominare un alimento che poi ci si asterrà dal mangiare per un determinato periodo di tempo. C’è anche una componente competitiva, in cui gli utenti sfidano gli altri a partecipare ai digiuni e chiedono dei #bodycheck, che consistono nel condividere peso e misure del corpo in modo che gli altri possano commentare i loro aggiornamenti, esponendosi a critiche o apprezzamenti sul loro peso.

La ricorsività con la quale hashtag pro-ana vengono pubblicati insieme ad altri (ad esempio #sad, #selfharmmm, #ansia, #depressedgirl, #bullied), svela una relazione del disturbo alimentare con altre problematiche, permettendoci così di avere una visione più ampia e contestualizzata.

Una parte di utenti utilizza hashtag correlati a #thinspiration per supportare attivamente e in maniera propositiva chi ha un disturbo alimentare: condividono informazioni su percorsi di guarigione, a chi rivolgersi per avere un aiuto professionale, ricette e suggerimenti per pasti sani ed equilibrati.

Instagram in seduta: spunti di riflessione

Se è importante essere prudenti nel correlare l’uso dei social media alla diffusione di comportamenti autolesivi, dall’altro è altrettanto importante considerare il ruolo che queste tecnologie svolgono: i social media possono da un lato offrire supporto, consigli e informazioni sui trattamenti, dall’altro possono rinforzare i sintomi e la credenza che si tratti di uno stile di vita invece che di una condizione di rischio quando non un vero e proprio disturbo.

Instagram può essere utilizzato nel processo di guarigione: informazioni sulle terapie, tracciamento dei progressi, informazioni su esercizi e pasti salutari, riduzione dello stigma, maggiore conoscenza del disturbo, supporto sociale. I professionisti della salute dovrebbero tenerne conto in seduta e nell’intero percorso terapeutico. Si può prendere in considerazione di ricavarsi uno spazio per un confronto su quanto emerso online, per indagare insieme la qualità delle informazioni raccolte, l’esperienza del paziente sui social; si può adottare un approccio ‘visivo’ al lavoro col paziente: predisporre dei task e un monitoraggio che siano altrettanto visual come Instagram. Ultimo ma non meno importante, esplorare gli aspetti positivi dell’avere il supporto online della community, che possono essere i followers o i profili seguiti; indagare che uso fa il paziente dei social media, a cosa è interessato. Non sono i social media ad essere ‘buoni’ o ‘cattivi’, ma è l’uso che se ne fa.

 


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La viralità del TikTok

TikTok è il fenomeno del momento che ha riscosso successo tra la Generazione Z dei nativi digitali (Prensky, 2001). Sono i ragazzi nati dal 1995 in poi gli utenti di TikTok, attualmente, il social network più popolare tra i giovanissimi.

 

Si tratta di un social lanciato in Cina nel 2016, conosciuto inizialmente come musical.ly. I fondatori Alex Zhu e Luyu Yang programmarono inizialmente una piattaforma con obiettivo educativo, ovvero di favorire l’apprendimento attraverso brevi video di 3 o 5 minuti. La piattaforma non ebbe successo e fu trasformata in un social network che incorporasse musica e video e avesse come target privilegiato gli adolescenti. Dopo aver creato un proprio profilo, infatti, gli utenti possono condividere video verticali e in loop tra i 15 e i 60 secondi di lunghezza. Un ampio toolkit di editing, con una gran varietà di filtri ed effetti, e una vasta libreria musicale, consente agli utenti di sintonizzare e personalizzare i propri contenuti con effetti brillanti, comici, coinvolgenti. Cosa si può fare con TikTok? I creatori possono aggiungere, remixare, salvare e scoprire brani e suoni tramite playlist, video e altro. Questo si collegherebbe al nome stesso del social che rimanderebbe al suono ritmico di un ticchettio di orologio, simbolo della natura breve dei video. Gli utenti di TikTok possono seguire gli account che preferiscono e apprezzarli con un cuoricino, commentare o condividere i video che preferiscono. Una funzione che rende esclusivo TikTok è l’utilizzo di una moneta virtuale che gli utenti possono acquistare per premiare i creatori dei contenuti maggiormente apprezzati, i quali acquistano ‘credito’ personale e gruppale.

Ma cosa motiva gli adolescenti ad iscriversi a TikTok? E come si struttura l’identità virtuale del consumatore di TikTok? Innanzitutto, a differenza degli altri social, gli utenti, su TikTok hanno un nome specifico e sono noti come musers o tik tokers. Secondo lo studio di Zuo e Wang (2019), la funzione principale della cultura popolare è l’intrattenimento e, quindi, la mission del social network TikTok è quella di divertire. La maggior parte dei brevi video su Tik Tok sono principalmente spiritosi, umoristici e divertenti. Gli utenti si divertono in TikTok rompendo la monotonia della vita reale in tempi brevi (Zuo & Wang, 2019, 3). Allo stesso tempo, per gli utenti che vogliono esprimersi, il processo di realizzazione di brevi video diventa un piacere e un piacersi.

L’operazione di ‘decentralizzazione’ di TikTok consente agli utenti di creare brevi video sempre e ovunque, di esprimere e mostrare la propria personalità attraverso la produzione e condivisione di brevi video. In particolare, la massiva partecipazione virtuale è motivata anche dalla presenza delle cosiddette challenge, le sfide. Se da un lato le sfide creano una sana competizione virtuale per ottenere maggior ‘credito’, essere notati dai brand o dagli influencer, dall’altro, l’imitazione di un video genera inevitabilmente l’espressione creativa dell’identità, al fine di essere più apprezzati. In altre parole, l’atteggiamento di un singolo individuo nel mondo offline è altamente influenzabile dal comportamento del gruppo in cui è inserito. Per rimanere in linea con il gruppo, l’individuo adeguerà costantemente il suo comportamento al feedback che il gruppo restituisce, in modo da seguirlo e imitarlo. Sempre dallo studio di Zuo e Wang (2019) emerge che i brevi video di Tik Tok si diffondono rapidamente, diventando altamente virali anche su altre piattaforme. E, essendovi in TikTok il principio imitativo, gli utenti seguiranno la tendenza popolare nella produzione dei contenuti. Per esempio, la popolare ‘danza delle alghe’ è diventata l’oggetto che più gli utenti TikTok tendono ad imitare. Per questo motivo, TikTok non solo incontra esigenze di intrattenimento, ma soddisfa anche i bisogni sociali degli utenti.

Infine, si può affermare che questo tipo di partecipazione non è solo espressione della cultura, ma anche un importante riflesso del dilemma del senso di appartenenza dell’utente al gruppo o alla generazione e di una necessità di una catarsi emotiva.

 

Il pensiero consapevole e il pensiero automatico – Il top down e il bottom up in psicoterapia

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento che verranno pubblicati su State of Mind nei prossimi giorni

 

Introduzione

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo. Questi secondi sono contenuti presenti solo in modo parziale alla coscienza e in questo senso coincidono in parte con il termine inconscio impiegato come aggettivo, sono processi che non sono elaborati al livello superiore, evoluzionisticamente più recente del cervello, rimanendo sul livello arcaico o intermedio e solo attraverso la ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale i tre livelli, possono arrivare alla consapevolezza (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017).

La contrapposizione dialettica che proporremo di ricomporre in una sintesi superiore si riproduce naturalmente anche quando si tratta di intervenire, tra chi considera interventi più efficaci quelli che operano sul pensiero razionale, e chi invece pensa che sia necessario toccare ciò che, utilizzando un’espressione di moda è incarnato, quel pensiero determinato da esperienze attivate da sensazioni corporee.

Sono elencati dai fautori dell’una e dell’altra posizione rischi e vantaggi che s’incontrerebbero nel privilegiare un intervento a scapito dell’altro.

Chi preferisce il top down sostiene che preferendo interventi bottom up la ‘componente artigianale’ (Sassaroli, Ruggiero, 2016) possa diventare prevalente rinunciando a ricercare gli aspetti più scientifici, più riproducibili, così da far ricorso alle abilità personali di terapeuti esperti più che a interventi programmati secondo progetti che si avvalgono della corretta e condivisa formulazione del caso. Conseguentemente se i processi fossero complessi e non replicabili anche la ricerca non riuscirebbe a evidenziare dati di efficacia su cui costruire miglioramenti progressivi. Si arriverebbe a una trasmissione sapienziale da maestro ad allievo che non farebbe progredire la psicoterapia. Inoltre, dal punto di vista clinico i processi top down sembrerebbero più promettenti, relativamente all’efficacia, degli altri interventi. Tra chi propende per questa posizione, si riconosce, comunque, che

I termini top down e bottom up sono sicuramente molto limitati e limitanti e finiscono per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico, riconoscibile e operazionalizzabile (Sassaroli, Ruggiero, 2016).

D’altra parte, Mancini (comunicazione in mailinglist SITCC) non riconosce la suddivisione perché fa riferimento a una bipartizione mente cervello inaccettabile. Si tratta di processi solo apparentemente opposti, ma in realtà fra loro ricorsivamente interconnessi.

Per chi è più favorevole al bottom up la conoscenza tacita, implicita e i processi che ne derivano sono difficilmente accessibili se non con tecniche che agiscono sul comportamento o sull’esperienza sensitiva-corporea.

Alcuni contenuti di pensiero possono essere meno soggetti al controllo esecutivo e cosciente e avere un carattere intrusivo, presentarsi alla mente improvvisamente e avere la natura di automatismi. I nostri modi di reagire mentalmente alle situazioni difficili possono realizzarsi con l’automaticità delle abitudini radicate. Questi automatismi sono accompagnati da una marcatura somatica con percezioni e sensazioni che riguardano il livello bottom-up dell’elaborazione.

Traumi ed esperienze di vita avverse, determinano alterazioni del normale funzionamento del sistema nervoso bloccando la normale elaborazione dell’esperienza e i processi che attivano diverse componenti, sensoriale, cognitiva, emozionale, semantica, corporea, diventano disfunzionali.

La compromissione del normale funzionamento psicologico comporta conseguentemente una difficoltà a elaborare e integrare in modo unitario e coerente le successive esperienze, determinando nei casi più gravi una disorganizzazione delle funzioni integrative della coscienza (Janet, 2016; van der Hart et al., 2011; van der Kolk, 2015).

Il malfunzionamento delle attività mentali superiori non permette di affrontare le difficoltà del paziente attraverso interventi top down e richiede l’applicazione di approcci e tecniche definite bottom up che agiscono sulle funzioni mentali evolutivamente più arcaiche (Liotti, Farina, 2011).

Ciò che emerge, comunque, dal dibattito teorico, e dall’esperienza clinica è che per produrre il cambiamento occorre agire sia sui processi alti, sia sui processi bassi, integrando strategia e tecniche, anche se la via dell’integrazione è ancora tutta da percorrere.

Un contributo a questo dibattito giunge anche da Kahneman (2013) che propone la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento occupandosi del giudizio, del processo decisionale e degli errori sistematici che si commettono in condizioni d’incertezza.

Alcune riflessioni a proposito del pensiero veloce e del pensiero lento

In molti disturbi psicopatologici si trovano bias che riguardano soprattutto quello che lo psicologo israeliano definisce sistema 1 o pensiero veloce. Decisioni dettate da preferenze intuitive contravvengono spesso le regole della scelta razionale, secondo la Prospect Theory il pensiero veloce opera automaticamente con un’elaborazione continua della memoria associativa e senza controllo volontario. Questa concettualizzazione sembrerebbe analoga a ciò che s’intende in letteratura per livello bottom up.

Il sistema 2 (pensiero lento) indirizza invece l’attenzione verso attività complesse e impegnative. Questo sistema è razionale. Le operazioni automatiche del sistema 1 (impressioni e sensazioni) generano idee complesse ma solo il sistema 2 elabora pensieri in serie ordinate di stadi, quindi opera al livello top down.

Le funzioni dei due sistemi secondo l’autore sono distinte, ma possono essere interconnesse.

Alcuni esempi che riguardano il pensiero veloce e il pensiero lento possono farci capire come l’interconnessione possa portare in alcune particolari situazioni a trasformare bias ed euristiche in decisioni razionali e scelte ponderate rispetto alle conseguenze, in altri termini a trasformare pensieri automatici negativi e idee irrazionali in modo da riportare l’attivazione fisiologica a essi correlata all’interno della finestra di tolleranza (Porges, 2016) che consente di regolare gli stati emotivi in modo funzionale.

Con il pensiero veloce ci orientiamo verso un rumore improvviso, leggiamo i segnali stradali, comprendiamo una frase semplice di nostro figlio. Il pensiero lento ci fa concentrare l’attenzione sulla voce del nostro partner che ci parla, cercare nella memoria per riconoscere un paesaggio, parcheggiare la macchina, controllare la logica di un’argomentazione.

Nel sistema 2 entrano in gioco in misura preminente i processi, attenzione, memoria, pensiero, nel sistema 1 sono preponderanti sensazioni e percezioni.

L’interazione tra i due sistemi è determinata dall’attività dell’uno che fornisce stimoli per l’altro. Quando il sistema 1 non riesce a rispondere come avviene di solito, chiede aiuto al sistema 2 che interviene per rimuovere l’impasse, correggere l’errore o, se volete, l’invalidazione del pensiero veloce. I due sistemi operano con il minimo sforzo e in modo efficiente.

Il funzionamento normale consente di fare previsioni appropriate al sistema 1 in situazioni conosciute, ma in condizioni d’incertezza è più probabile che commetta errori sistematici che spesso possono generare sofferenza.

D’altra parte, le illusioni percettive o cognitive dimostrano come sia impossibile spegnere il sistema 1 ma è altresì necessario considerare che sarebbe disadattivo mettere in discussione il nostro pensiero intuitivo. Ciò determinerebbe comunque errori di altro genere. Un giusto compromesso dovrebbe portarci a riconoscere i frame dove si può annidare l’errore, cercare di evitarlo, soprattutto quando l’errore è tanto grave da mettere in discussione l’ordine del sistema e soprattutto imparare da esso per portare la conoscenza a un livello superiore.

Il sistema 1 e il sistema 2 toccano sia i contenuti sia i processi mentali e possono determinare un buon adattamento o disfunzioni patologiche nei pazienti ed errori o manovre appropriate nei terapeuti. E’ proprio su questi ultimi che vogliamo porre l’attenzione  riprendendo un argomento di cui c’eravamo già occupati.

In un sistema autorganizzato il sé connette e rielabora l’esperienza attraverso processi autoreferenziali. L’errore rappresenta una perturbazione che attiva una costruzione che rimuove l’omeostasi e all’interno di una teoria critica cerca di andare oltre ciò che appare per individuare livelli più elevati di conoscenza. L’errore rendendo impossibile la coerenza dell’esperienza muove il sistema verso la modifica o l’abbandono del paradigma, riorganizzando i significati su modalità funzionali e che contemplano l’errore stesso come possibilità evolutiva. (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Il contributo delle neuroscienze

Sul cervello si sono succedute molte teorie: dualistiche (Cartesio), meccanicistiche (De la Mettrie), riflessologiche (Pavlov), della localizzazione delle funzioni, dell’architettura modulare (Fodor), del connessionismo e delle teorie motorie (Weiner) che non hanno ancora dato risultati definitivi sui fenomeni psichici, nonostante nuovi metodi e nuovi strumenti d’indagine ci hanno messo di recente nelle condizioni di avere a disposizione informazioni molto approfondite e specifiche, valide e affidabili.

Le neuroscienze, comunque, al momento non sono ancora in grado di fornire dati sui meccanismi interni del cervello tali da poterne spiegare il funzionamento. E’ possibile attendersi dalla ricerca sviluppi interessanti, anche se negli ultimi tempi prevale un certo scoramento rispetto ai risultati fin qui raggiunti e, parallelamente al numero notevole di ricerche condotte, aumentano le critiche riguardo all’impostazione teorica e metodologica di questi studi. In un recente interessante articolo Piattelli Palmerini (2015), dopo aver intervistato alcuni neuroscienziati di fama internazionale, conclude evidenziando

che sono tutt’altro che trascurabili le numerose correlazioni stabilite, grazie alle sofisticate tecniche di brain imaging e all’analisi di patologie, tra specifiche attività cognitive e specifiche regioni cerebrali. Si tratta di preziose e interessanti correlazioni, ma sono solo correlazioni. Perché una certa area cerebrale sia connessa, poniamo, alla presa di decisione, mentre una diversa area è connessa, poniamo, alla sintassi, per ora, nessuno ce lo può dire. Per capire cosa succeda entro tali aree, e perché vi succedano cose diverse, dobbiamo aspettare qualche rivoluzione scientifica, simile alla scoperta della struttura del DNA e poi del codice genetico.

Attualmente le neuroscienze rischiano di scambiare correlazioni con rapporti causali e di analizzare il funzionamento della mente riducendola al funzionamento cerebrale operando un riduzionismo a livello sub personale inutile per la psicologia e la psicopatologia.

Seguendo alcune indicazioni che emergono comunque dal dibattito in corso, potremmo condividere con Edelman (2006) che l’esperienza e l’apprendimento sono fondamentali per l’adattamento e sono paralleli al mutamento organico ed evolutivo.

Le funzioni cerebrali si formano secondo un processo interattivo e selettivo continuo. L’esperienza sensoriale è riconosciuta, classificata e categorizzata dal sistema nervoso che costruisce mappe del mondo. L’esperienza modifica il cervello, in particolare le aree interessate dai processi sopra descritti, con la possibilità che quelle esperienze generino informazioni (contenuti) archiviati in memoria che riemergono in presenza di eventi che richiamano strutture e processi preposti all’elaborazione delle risposte affettivo-emotive. Damasio (1994) descrive questo meccanismo della vita mentale che presuppone un forte legame tra somatico e mentale introducendo il concetto di marcatore somatico.

In definitiva, stando alle conoscenze attuali sembrerebbe possibile affermare che stati mentali e stati fisici sono complementari e i primi sono emergenti e interconnessi ricorsivamente con i secondi.

L’interessante è capire come alcune attivazioni del pensiero veloce, livello bottom up e del pensiero lento, livello top down possano manifestarsi e con quali conseguenze in terapia. Seguiamo alcune tracce lasciate da Kahneman (2013).

 

I contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia saranno argomento dei prossimi articoli.

 

Altri articoli sull’argomento:

 

L’Illusione del rischio zero: la risposta radicale della psiche umana all’incertezza

L’essere umano ha sviluppato vari meccanismi di difesa psichica per affrontare la paura dell’ignoto e per mantenere intatta la salute mentale nei confronti dei paradossi Reali. Tuttavia alcuni di questi meccanismi possono ritorcersi contro il soggetto.

 

In questo articolo si affronta l’illusione del rischio zero, basata sul rifiuto completo della percezione delle eventuali conseguenze di un’azione compiuta.

L’essere umano, sviluppando la capacità di autoconsapevolezza e di autocoscienza, legate alla evoluzione della corteccia insulare, della corteccia cingolata anteriore e della corteccia prefrontale mediale (Riehl, 2012), ha avuto l’opportunità di conoscere sé stesso, i suoi pensieri e l’effetto dell’ambiente che lo circondava. Questo sviluppo neurobiofisico ha favorito lo sviluppo di conoscenze e scienze, che gli permettessero di studiare la sua interiorità, come la filosofia, ma allo stesso tempo lo ha messo di fronte al principale problema: il sapere di non poter dominare l’ambiente e di essere soggetto alle sue mutazioni, soprattutto a quelle impreviste.

Per far fronte a ciò, la psiche umana ha sviluppato vari autoinganni e varie illusioni di certezza per rispondere alla sua impotenza nei confronti della Realtà (Goleman, 1995). Sigmund Freud, in alcuni suoi articoli (1894/1962, 1896/1966), ha identificato queste strategie come meccanismi di difesa, ovvero strumenti mentali attuati per difendere l’equilibrio psichico da pensieri legati al dolore e alla morte. Dunque, come riporta Umberto Galimberti (2018), il padre della psicoanalisi ha illustrato nelle sue teorie come l’apparato psichico dell’essere umano si leghi a vari elementi fisici e non, per creare un’illusione di dominio certo sull’ambiente in apparenza qualificabile e quantificabile.

La letteratura sui meccanismi di difesa è stata poi rivoluzionata da Fenichel (1946) che ha indicato come questi meccanismi possano esser stati una struttura di risposta psicologica all’ambiente per proteggere l’autostima. Sebbene i meccanismi di difesa abbiano un ruolo sano e adattivo nello sviluppo psicofisico dell’individuo, alcuni hanno un effetto boomerang nella società odierna, dovuto alla lentezza dell’evoluzione umana (Gottschall, 2015).

Uno di questi è l’Illusione a rischio zero: come indicato da Gerd Gigerenzer (2014), esso è il negare qualsiasi elemento di rischio in una particolare situazione che, invece, ne comporta il fattore, autoconvincendosi così di vivere in una situazione completamente certa e dominata. Questo meccanismo di difesa permette dunque di avere la sensazione di compiere azioni senza essere soggetti alle conseguenze, attuando quindi l’effetto comportamentale del “prendere la carota senza subire il bastone” (Bernstein, 1990).

Questa illusione è un rimedio che porta confort e sicurezza temporanea, ma la prosecuzione di questo comportamento può comportare, grottescamente se si pensa al suo principio, rischi anche molto gravi: di fatto, la frustrazione derivata dalla esposizione ai fatti del mondo è sana e imprescindibile per la crescita della persona (Castoldi, 2003), poiché ciò permette all’individuo di avere a che fare con le sfide offerte dall’ambiente e dalla stessa società, accompagnandolo in un percorso di maturazione psichica e fisica (Mattson,2014). Il confronto con i propri errori e la frustrazione che ne deriva permettono cambi di prospettiva funzionale e favoriscono lo sviluppo del carattere (Pepin, 2017), oltre ad una sensazione di vivere una vita piena di significato (Toshimasa et al, 2008).

Così, il rifiuto a prescindere di avere a che fare con delle conseguenze negative può portare a conseguenze sul piano fisico e psichico, come ad esempio la scarsa gestione dell’emotività e l’impulsività legata alla ricerca di gratificazione immediata (Baumeister, Heatherton, 1996) ed, in contesti ancora più delicati, lo strutturarsi di comportamenti oppositivi e di rifiuto nei confronti dell’ambiente sociale o comportamenti autolesionistici e anticonservativi. Il già citato Gerd Gigerenzer (2014) propone come soluzione una alfabetizzazione del rischio, ovvero un percorso di rinnovo accademico, psicologico e economico dove, assieme alle principali materie accademiche e lavorative, sia insegnato il principale portfolio conoscitivo e empirico sul calcolo del rischio, non esclusivamente statistico, legato anche a tecniche di sopravvivenza ancestrali e legate al sistema attacco-fuga che hanno ancora validità oggi: Gigerenzer usa come esempio il mancato disastro dell’US Airway 1549, dove la totale mancanza di vittime è stata dovuta ad un calcolo “di pancia” e istintivo da parte del pilota, cosa che non poteva accadere con il calcolo dei computer di volo (pag 34-37).

La sua proposta si trova in accordo con quella di altri studiosi del campo dell’incertezza, come il matematico e filosofo Nassim Nicholas Taleb, il quale, nei suoi testi divulgativi,  illustra come sia fondamentale il tenere in conto che ci possa essere sempre un elemento imprevisto che cambi l’equilibrio, da lui indicato con il nome di cigno nero (Taleb, 2007) e che sia fondamentale avere sempre una componente di risk taking per non essere soggetti passivi di forze esterne, soprattutto dal punto di vista economico-organizzativo (Taleb, 2018).

 

Dorian Gray: il discontrollo del piacere

Il ritratto di Dorian Gray è decisamente un romanzo moderno, capace di evocare riflessioni di estrema attualità e che descrive la personalità di un uomo pericoloso non solo per il prossimo, ma anche per se stesso. La smodata ricerca del piacere è una seducente arma a doppio taglio.

 

La bellezza dei romanzi dei secoli scorsi è rappresentata dalla loro capacità di risultare straordinariamente attuali. Il ritratto di Dorian Gray è di fatto una di quelle storie di immortale fascino celebre per i suoi contenuti. Scritto alla fine dell’Ottocento da Oscar Wilde, questo romanzo affronta, con uno stile narrativo semplice, ma incredibilmente raffinato, tematiche relative al desiderio e al piacere, dalla cupidigia alla lussuria, al flebile senso di colpa fino al completo disinteresse per l’altrui persona e l’evitamento di qualsiasi responsabilità.

Dorian Gray attraversa tutte queste fasi, vive l’esperienza a trecentosessanta gradi, soddisfacendo ogni suo istinto e lasciandosi trascinare da una smodata bramosia che lo condurrà, alle fine del romanzo, ad una fine ingloriosa. Egli infatti, giovane di eccezionale bellezza, viene inizialmente notato dal pittore Basil Hallward che ne fa il suo modello e che lo dipinge in svariate tele fino a creare un ritratto che, a detta dell’artista, possiede al suo interno il massimo della sua espressione artistica. Incuriosito dal soggetto dipinto, Lord Henry Wotton, aristocratico inglese cinico e provocatorio e amico del pittore, esprime il desiderio di conoscere il giovane Dorian, sebbene Basil ne sia all’inizio contrariato; una volta fatta la sua conoscenza, Lord Henry diviene per il ragazzo un esempio di vita da seguire e da imitare, in tutti i vizi e piacere materiali in cui viene trascinato.

Si potrebbe dire che a tratti il ruolo di protagonista dell’opera venga rivestito proprio da Lord Henry, le cui parole risuonano all’interno del romanzo e identificano  al meglio le tematiche affrontate dall’autore. Egli infatti, come diavolo tentatore scettico e indifferente ai valori morali maggiormente seguiti e rispettati al quel tempo, seduce il giovane Dorian con la forza dell’Edonismo, inteso proprio come ricerca ultima del piacere e sommo scopo verso cui protendere nella vita. La celeberrima frase (perdonatemi se aggiungo: alquanto inflazionata!) “Cedere ad una tentazione è l’unico modo di liberarsene” è l’elemento cardine intorno al quale ruota l’intera vicenda e viene pronunciata da Lord Henry all’inizio del romanzo, dopo aver dissertato sulla natura dell’istinto e del soddisfacimento del piacere attraverso il corpo e le azioni. “Ogni impulso che ci sforziamo di strangolare fermenta nella mente e ci intossica” e ancora “Vivete la vita prodigiosa che è in voi! Fate che per voi niente vada perduto. Cercate sempre nuove sensazioni, non abbiate paura di niente…” sono frasi, a mio parere, che racchiudono al meglio la filosofia di questo personaggio, il quale, con seducente dialettica, affascina Dorian che ne sperimenta così pienamente l’essenza.

Una volta presa la consapevolezza del suo mirabile splendore, Dorian Gray inizia a muoversi nell’ambiente aristocratico, di cui fa parte per nascita, travolto dalla libidine sfrenata e dalla noncuranza circa le sue azioni e le conseguenze che i suoi comportamenti hanno sulle altre persone, sprofondando poi nei bassifondi di una Londra tetra, dissoluta, viziosa. Il candore e l’innocenza, che il suo aspetto esteriore lascia trasparire in superficie, è una maschera che nasconde la vera anima di Dorian Gray, un’anima corrotta che si manifesta sulle crepe di quel dipinto straordinario ormai celato allo sguardo altrui.

Dorian Gray: narcisista, psicopatico, machiavellico, un esempio remoto di triade oscura? Senza entrare troppo nel dettaglio, è indubbio quanto Dorian Gray incarni in modo piuttosto preciso alcuni aspetti tipici di individui con tali caratteristiche. Il ragazzo possiede una bellezza sublime di cui prende realmente coscienza solo una volta conosciuto Lord Henry in presenza del dipinto; tuttavia quello stesso ritratto lo mette davanti all’inevitabile destino di qualsiasi essere umano, ovvero l’invecchiamento a causa dello scorrere del tempo che, se confrontato con la perfezione della tela, evoca in lui una terribile sensazione di vergogna e disperazione: “Perché lo hai dipinto? Verrà un giorno nel quale mi schernirà, mi schernirà orribilmente!” sono le parole di forte angoscia da lui pronunciate prima che il suo desiderio di eterna giovinezza venga effettivamente esaudito. Dorian Gray mostra di lì a breve un atteggiamento disprezzante, anticipato ed alimentato dal rapporto di amicizia con Lord Henry, in una sorta di ciclo idealizzante (e talvolta di gemellarità) (Dimaggio e Semerari, 2003), dal quale entrambi colgono piacere.

Il modo in cui abbandona Sybil Vane, la cui unica colpa è quella di non essere sufficientemente meravigliosa agli occhi del ragazzo (“Hai rovinato il romanzo della mia vita”), il quale la punisce selvaggiamente per aver distrutto il sentimento romantico di cui si era nutrito nelle sue fantasie, sottolinea eccezionalmente la freddezza, la totale mancanza di empatia nei confronti altrui e la sola considerazione di se stesso e del suo punto di vista. Con parole di profondo disprezzo conclude la relazione con la giovane donna (la ragazza verrà successivamente trovata morta suicida), il primo vero peccato che si stamperà indelebile sul noto ritratto. Dorian Gray diviene abile, allora, a raccontarsi una storia incredibilmente vantaggiosa per lui che Oscar Wilde descrive con ingegno:

La colpa era della ragazza, non sua. L’aveva sognata come una grande artista, le aveva dato il suo amore perché l’aveva creduta grande, e lei lo aveva deluso, era stata superficiale e indegna. (Wilde O.)

Per mezzo della sua bellezza apparentemente inscalfibile, la sua accentuata abilità di seduttore, lo sfruttamento del prossimo al solo scopo di soddisfare i suoi insaziabili appetiti, Dorian Gray vive nel mondo preoccupandosi esclusivamente dei piaceri più estremi da raggiungere, il tutto senza provare rimorso per nessuna delle sue deplorevoli azioni (addirittura l’omicidio dell’amico Basil) o per l’aver diffuso un sentimento di vergogna tra molte delle donne che, per ottenere il suo amore, hanno sfidato molte convenzioni sociali.

Sappiamo come il romanzo va a concludersi, Dorian Gray disteso a terra davanti al ritratto (tornato al suo originale splendore dopo il tentativo di pugnalare il soggetto dipinto), finalmente autentico nella sua deprecabile essenza di uomo dedito al piacere materiale, godimento sfrenato che lo ha divorato nel profondo.

Del resto “Per lui la bellezza era stata solo una maschera, la giovinezza una beffa” e questo Oscar Wilde lo evidenzia vividamente. Il ritratto di Dorian Gray è decisamente un romanzo moderno, capace di evocare riflessioni di estrema attualità, come accennato nelle prime righe dell’articolo, e che descrive la personalità di un uomo pericoloso non solo per il prossimo, ma anche per se stesso. La smodata ricerca del piacere è una seducente arma a doppio taglio; Dorian Gray non ha di per sé una natura malvagia, diventa in tal modo attraverso l’assidua sperimentazione di situazioni viziose che successivamente lo condannano alla disperazione.

“Qualunque cosa, a farla troppo spesso, diventa un piacere”, Oscar Wilde ci avverte, con il suo stile raffinato, di come possiamo facilmente perdere il controllo delle nostre azioni se, inebriati dal piacere dei sensi, ci lasciamo sopraffare da un istinto famelico che non siamo in grado di padroneggiare e regolare.

 

Gli occhi dell’Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è una forma di demenza molto invalidante ed il quadro clinico che ne consegue è complesso. Il paziente affetto da morbo di Alzheimer sviluppa infatti un declino cognitivo consistente e, in alcuni casi, a questo si affianca anche un disturbo psichico e comportamentale.

 

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza (Vanacore et al). L’Organizzazione Mondiale di Sanità stima infatti che il numero delle persone affette a livello mondiale si aggiri intorno ai 35,6 milioni. Questa patologia causa, a livello anatomico-cerebrale, un accumulo di beta amiloide che, precipitando all’interno della cellula, impedisce la respirazione e ne provoca la morte; al contempo abbiamo i cosiddetti grovigli neurofibrillari, costituiti da gomitoli di proteina TAU fosforilata, che concorrono anche questi alla morte cellulare (Nelson et al). Si ha quindi atrofia nelle zone limbiche, nelle cortecce entorinali, nell’ippocampo, nelle aree associative parietali e temporali.

Il quadro clinico che ne consegue è molto complesso e invalidante. Il paziente affetto da morbo di Alzheimer sviluppa infatti un declino cognitivo consistente in perdita di memoria, disorientamento spazio-temporale, afasia, aprassia, agnosia e deficit esecutivo. In alcuni casi, a questo quadro si affianca anche un disturbo psichico e comportamentale. È quindi facilmente comprensibile quanto possa essere invalidante questa demenza e quanto possa essere drammatica la quotidianità per il paziente affetto e per i suoi cari che giorno dopo giorno assistono impotenti non solo all’avanzamento dell’infermità mentale e fisica, ma anche alla retrocessione di ciò che secondo alcuni costituisce la più profonda essenza dell’essere umano: la sua memoria.

Sul morbo di Alzheimer sono state spese molte parole e molte teorie. La ricerca lavora ormai da decenni per trovare una cura; almeno per il momento però, dobbiamo arrenderci all’idea che ad oggi il progredire di questa malattia non può essere arrestato, al massimo rallentato. Molti film e molti romanzi ci aiutano a capire in cosa consista questa atroce patologia, ma trovo che il contributo più originale e allo stesso tempo più autentico possa essere accreditato al pittore William Utermolhen. Questo artista (1933-2007) fu un americano che passò buona parte della sua carriera a Londra lavorando come pittore. Nel 1995 gli fu diagnosticato il morbo di Alzheimer, ma Utermolhen decise di continuare comunque nel suo lavoro. Così dal 1996 al 2000 dipinse periodicamente un autoritratto. Le opere scaturite sono incredibili.

Notiamo che nel 1996 (l’anno dopo aver ricevuto la diagnosi) l’immagine è abbastanza integra, i tratti sono ben delineati e con confini precisi.

Un anno dopo la situazione era già cambiata. Il viso dell’uomo sembra non avere più una struttura umana, i tratti diventano confusi, imprecisi, la fronte dell’uomo raffigurato è sproporzionata e la figura lascia intravedere l’inizio di un declino cognitivo.

Nel 1998 la figura sembra essere ulteriormente deprivata di elementi. Notiamo infatti che la testa non è più attaccata ad un corpo come lo era stato nei ritratti precedenti, la figura è confusa, i tratti si fanno più grossi.

Nell’autoritratto del 1999 fatichiamo a comprendere che si tratti di un volto. La figura umana sembra essere totalmente disintegrata, non c’è nemmeno un elemento caratteristico del volto umano, rimane unicamente un blando tratto delineatore e l’uso dei colori che notiamo essersi incupiti.

Il disegno del 2000 è l’ultimo autoritratto. L’immagine è straziante, il tratto confuso, i colori spariti e gli occhi minuscoli. L’immagine di sé è ormai disintegrata, scissa, quasi inesistente.

Autoritratti William Utermolhen FIG 1

Figura 1: Autoritratti di William Utermolhen dal 1967 al 2000.

Quello che ci ha lasciato Utermolhen non è una semplice testimonianza di malattia. Utermolhen ci ha dato la possibilità di guardare la realtà attraverso gli occhi del morbo di Alzheimer. Sapevamo già che il paziente affetto da Alzheimer viene colpito da un declino cognitivo, ma credo che mediante questi dipinti sia possibile capire qualcosa in più, forse l’essenza della patologia.

Guardare queste opere ci spinge a riflettere su quanto sia disperata la condizione di demenza. In particolare la depersonalizzazione che questa malattia impone è forse ciò che la rende così crudele. Chi siamo noi senza la nostra memoria? Chi siamo senza la consapevolezza di noi stessi e delle relazioni che abbiamo?

 

Chemioterapia e deficit cognitivi: in cosa consiste il ‘chemobrain’ e come trattarlo

Deficit cognitivi vengono riportati in circa il 50% dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo.

 

I passi in avanti e le scoperte in ambito oncologico sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico, hanno permesso un notevole aumento del grado di sopravvivenza e della qualità della vita, anche in pazienti con tumori metastatici. Si riscontrano però frequenti casi di riduzione del funzionamento cognitivo in pazienti trattati per tumori non correlati al sistema nervoso centrale.

Questi deficit sembrerebbero emergere in particolar modo durante e dopo la chemioterapia, conseguentemente all’impatto a lungo termine della tossicità del trattamento, costituendo un’importante problematica rispetto alla qualità di vita della persona.

Questo fenomeno, chiamato ‘chemobrain’, viene spesso riferito dal paziente che percepisce un cambiamento nelle proprie abilità cognitive, ed è importante distinguere eventuali influenze a carico della modalità di gestione dello stress esperito in questa particolare fase di vita, dall’effettiva presenza di deficit neurocognitivi. Questi deficit vengono riportati nel 50% o più dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo, che induce ad ipotizzare un probabile coinvolgimento di fattori psicologici o una limitata raffinatezza per simili condizioni dei test neuropsicologici attualmente in uso.

Vari studi si sono focalizzati sul senso auto-percepito di una riduzione del funzionamento cognitivo da parte del paziente, ne sono un esempio i risultati ottenuti dai ricercatori del Wilmot Cancer Institute (New York studio) che hanno pubblicato sul Journal of Clinical Oncology uno studio che ha coinvolto 581 pazienti (età media 53 anni) provenienti da vari centri diagnostici statunitensi che lamentavano problemi cognitivi, e 364 donne sane come gruppo di controllo. Ciascuna partecipante ha eseguito un test, il Functional Assessment of Cancer Therapy-Cognitive Function o FACT-Cog, un questionario studiato per valutare sia la percezione personale dell’indebolimento cognitivo sia come questo venga percepito dagli altri. I risultati dello studio hanno mostrato come circa il 45% delle pazienti con cancro al senso sottoposte a chemioterapia manifesti un significativo senso di abbassamento delle prestazioni cognitive rispetto ai controlli (11%), mostrando inoltre la persistenza di queste difficoltà per almeno i 6 mesi successivi al trattamento nel 36,5% dei casi. Dall’osservazione di questi dati non può che emergere l’importanza dell’individuazione precoce di queste criticità al fine di una presa in carico che preveda i trattamenti riabilitativi più adeguati.

Spesso tuttavia, la percezione del proprio funzionamento non correla con la valutazione neuropsicologica e potrebbe essere alterata da fattori quali ansia, depressione, fatica e insonnia. Un’altra possibilità messa in luce dagli studi di neuroimmagine, per spiegare la difficoltà nell’individuare attraverso i test i deficit cognitivi riferiti, potrebbe riguardare il coinvolgimento di regioni del cervello non intaccate dalla patologia e dal trattamento, le quali metterebbero in atto delle strategie compensatorie in grado di condurre, all’interno di un contesto strutturato e privo di distrattori come quello valutativo, ad un punteggio nella norma. Si configura in questo modo la necessità di costruire degli strumenti adeguati che ci permettano di discriminare deficit di questo genere, rivolta alla ricerca futura.

Gli studi, principalmente inerenti il cancro al seno, colon rettale, ovarico e linfoma, mostrano una concordanza rispetto all’emergere dei deficit neurocognitivi, generalmente lievi o moderati e spesso transitori, coinvolgenti i processi di memoria, di attenzione, la velocità di elaborazione e le funzioni esecutive. Ma cosa avviene all’interno del cervello che causi queste modificazioni?

Studi sui modelli animali ci hanno permesso di individuare i meccanismi biologici critici per l’insorgenza dei deficit cognitivi e sembrerebbero orientarci verso l’azione di ciclofosfamide, doxorubicina e 5-fluorouracil sulla produzione di nuove cellule nell’ippocampo che verrebbe da queste sostanze soppressa. Struttura fondamentale per i processi di neurogenesi, nonché per la creazione di nuovi neuroni, l’ippocampo detiene un ruolo fondamentale per il funzionamento cognitivo e la sua compromissione si ripercuoterebbe conseguentemente sulla performance cognitiva. Delle disfunzioni mitocondriali sembrerebbero inoltre coinvolte nella disregolazione dell’attività delle citochine, correlata a deficit particolarmente sensibili ai test per le funzioni del lobo frontale. Un ulteriore fattore in grado di influire negativamente su questi processi è stato indagato da Michelle Monje, neuro-oncologa pediatrica alla Stanford University di Palo Alto in California che si è focalizzata sullo studio degli effetti della chemioterapia sulla microglia. Studiando un farmaco chemioterapico, il metotrexato, comunemente associato a problemi cognitivi a lungo termine, ha individuato nei tessuti cerebrali dei pazienti che avevano ricevuto metrotexato, rispetto a quelli che non l’avevano ricevuto, un’evidente esaurimento degli oligodentrociti ed una maggiore sottigliezza delle guaine mieliniche. Gli oligodendrociti sono delle cellule che svolgono la fondamentale funzione di mielinizzazione dei neuroni del sistema nervoso centrale, forniscono quindi ai neuroni la guaina mielinica, una sostanza che li riveste isolandoli e proteggendoli, ma soprattutto che fornisce loro l’abilità di trasmettere velocemente le informazioni. Una variazione a questo livello potrebbe condurre ad un rallentamento che si ripercuoterebbe sulla sfera cognitiva. Con la prosecuzione dello studio si è tentato di osservare se il trapianto di oligodendrociti sani nel cervello avrebbe portato ad una ripresa del funzionamento; tuttavia, nonostante il tentativo, è stata osservata la medesima disregolazione. La chemioterapia sembrerebbe dunque non agire direttamente sul decadimento e sulla scomparsa di queste cellule ma piuttosto sulla creazione di un ambiente a loro ostile. Ulteriori approfondimenti hanno identificato il metotrexato come agente intaccante la microglia, che come conseguenza a cascata porterebbe alla mancanza di oligodendrociti funzionanti.

Specie negli ultimi anni sono emerse innumerevoli ricerche finalizzate all’estensione della comprensione di queste tematiche, soprattutto in relazione al numero di persone che sembra riscontrarle. Oltre la chemioterapia questi effetti sembrerebbero indotti anche da altri tipi di trattamenti per sconfiggere il cancro, tra cui le terapie ormonali in pazienti con cancro al seno o alla prostata. Rimane tuttavia difficoltoso riuscire a selezionare il fattore causante queste problematiche in quanto vengono spesso affiancate tipologie differenti di presa in carico; l’intervento chirurgico, l’anestesia e la radioterapia sono infatti spesso parte della terapia, rendendo più complesso discernere i vari agenti causali.

Trattamento e presa in carico

Dal punto di vista farmacologico non sono ancora state individuate delle sostanze in grado di interagire con questi aspetti del nostro funzionamento. I trattamenti attualmente adottati riguardano l’attività fisica e cognitiva. Per quanto riguarda l’attività fisica è ormai risaputo l’effetto benefico che essa, in particolar modo l’attività aerobica, sembrerebbe in grado di sortire a livello strutturale e funzionale del cervello. Sembrerebbe infatti in grado di stimolare la neurogenesi, portando ad un aumento del volume di aree quali l’ippocampo e la corteccia prefrontale dorso laterale migliorando conseguentemente la formazione e il mantenimento di nuovi ricordi e le abilità correlate alle funzioni esecutive (shifting, problem solving, pianificazione ecc.). Ulteriori studi hanno inoltre osservato l’effetto benefico di attività quali lo yoga, il Qigong e il Tai Chi, che condurrebbero miglioramenti sul funzionamento della memoria, sul senso di fatica e sulla qualità della vita.

Per quanto riguarda invece la sfera cognitiva è possibile intervenire attraverso un percorso che preveda una valutazione neuropsicologica in grado di individuare dettagliatamente e approfonditamente il deficit esperito, da trattare in un secondo momento con esercizi mirati. Attraverso l’individuazione degli esercizi più appropriati in base alla funzione in questione, sarà possibile impostare un trattamento di riabilitazione cognitiva finalizzato al recupero delle funzioni cognitive deficitarie.

È in questi casi pertanto indicato rivolgersi ad un neuropsicologo che prenda in carico il caso, occupandosi degli aspetti diagnostici e riabilitativi.

 

Le capacità percettive degli arbitri fra simulazioni, azioni improprie e diverbi fra giocatori

Gli arbitri di calcio che dirigono le partite hanno una grande responsabilità: essi, infatti, devono prendere circa 137 decisioni nel corso dei novanta minuti della partita.

 

Queste decisioni riguardano la corretta applicazione delle regole di gioco. Uno dei compiti peculiari dell’arbitraggio è quello di stabilire quando il giocatore commette un’azione fallosa e che tipo di penalità assegnare. Connessa a tale responsabilità, c’è quella di dirimere le situazioni ambigue, ovvero fare in modo che la penalità sia assegnata al giocatore che è l’artefice del fallo, piuttosto che alla vittima del fallo stesso.

Nel contesto della partita, quindi, è importante accorgersi precocemente delle azioni scorrette che vengono compiute da qualche giocatore ai danni di qualcun altro. Gli arbitri dovrebbero essere formati maggiormente per notare tempestivamente le azioni scorrette, utilizzando dei filmati di partite, per prevenire le eventuali dispute che potrebbero sorgere nel corso del match. Ciò si può realizzare incrementando con un training percettivo la capacità di essere accurati, che consiste nell’eliminare gli elementi superflui dal campo percettivo per essere in grado di rilevare anche i minimi dettagli, necessari per decidere correttamente.

Keywords: arbitri di calcio, falli, simulazioni, training percettivo.

 

Gli arbitri di calcio che dirigono le partite hanno una grande responsabilità: infatti, come differenti studi hanno dimostrato (Helsen e Bultynch, 2004), essi devono prendere circa 137 decisioni nel corso dei novanta minuti della partita. Queste decisioni riguardano la corretta applicazione delle regole di gioco.

L’azione dell’arbitro risente dei riverberi che i vari soggetti sociali esercitano. Di fatto, l’attività arbitrale viene continuamente analizzata dai giocatori, dai tifosi che assistono alla partita nello stadio e da quelli che la guardano in televisione.

Uno dei compiti peculiari dell’arbitraggio è quello di stabilire quando il giocatore commette un’azione fallosa e che tipo di penalità assegnare. Connessa a tale responsabilità, c’è quella di dirimere le situazioni ambigue, ovvero fare in modo che la penalità sia assegnata al giocatore che è l’artefice del fallo, piuttosto che alla vittima del fallo stesso.

Nel contesto della partita, quindi, è importante accorgersi precocemente delle azioni scorrette che vengono compiute da qualche giocatore ai danni di qualcun altro (Canãl – Bruland, 2017). Spesso queste condotte danno origine a dispute verbali fra i giocatori delle squadre rivali, nelle quali uno sportivo accusa l’altro per il comportamento scorretto. In questo frangente, tocca all’arbitro dirimere la contesa, adoperandosi in modo da farla terminare e, soprattutto, evitare si ripercuota negativamente sulla partita. Talvolta questi scontri verbali degenerano fino ad arrivare a delle lotte corpo a corpo, connotate dalla violenza fisica. L’abilità dell’arbitro, quindi, è quella di prevenire tali episodi, accorgendosi subitaneamente dei comportamenti scorretti e, quindi, sanzionarli per evitare che degenerino in litigi verbali o fisici.

Già i giocatori di lunga esperienza sono esperti nel rendersi conto delle azioni ingannevoli compiute dai giocatori avversari con l’intento di far commettere un’azione fallosa ai rivali. Essi sono capaci di percepire questi tranelli e di non cadere in tali trappole (Jackson e al., 2006).

Questa competenza è presente anche negli arbitri di provata esperienza. A questo riguardo una ricerca di Renden e al. (2014) ha confrontato tale capacità degli arbitri con quella dei giocatori, facendo vedere loro dei filmati di alcuni match con l’obiettivo di accorgersi dei comportamenti scorretti e ambigui. Lo studio ha stabilito che sia i giocatori di lunga esperienza che gli arbitri con un numero maggiore di partite arbitrate sono capaci di rendersi conto precocemente delle azioni scorrette, con una prevalenza maggiore da parte dei giocatori.

Questo suggerisce che gli arbitri dovrebbero essere formati maggiormente per notare tempestivamente le azioni scorrette, utilizzando dei filmati di partite, per prevenire le eventuali dispute che potrebbero sorgere nel corso del match (Louis del Campo e al., 2018). Ciò si può realizzare incrementando con un training percettivo la capacità di essere accurati, che consiste nell’eliminare gli elementi superflui dal campo percettivo per essere in grado di rilevare anche i minimi dettagli, necessari per decidere correttamente (Put e al., 2016; van Biermen e al., 2018).

In conclusione, nella formazione dell’arbitro devono trovare posto i training percettivi con la finalità di aiutare il direttore di gara a focalizzare la sua attenzione sugli elementi rilevanti che possono permettere di prevenire le simulazioni e le azioni improprie compiute dai giocatori.

 

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto (2019) di Antonioli, Carolo, Morosini e Pezzolo – Recensione del libro

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto analizza in modo accurato la fenomenologia del maltrattamento e dell’abuso, prestando attenzione al nostro tempo storico e sociale e tenendo conto del lavoro integrato di più professionisti e delle criticità del percorso di accoglienza del minore.

 

 Vedo, Ascolto, Parlo… Ti Aiuto è un libro  che affronta il tema del maltrattamento e dell’abuso dell’infanzia cercando, sin dall’inizio, di posizionare lo sguardo sui bisogni di ascolto e comprensione dei bambini che vivono queste esperienze e sull’importanza e la necessità, per tutti gli operatori che intervengono nelle diverse situazioni di ascolto, di superare un “atteggiamento, ancora purtroppo diffuso, di disinteresse, silenzio, delega, negazione, fuga”.

Questa posizione è contenuta sin dal  titolo del libro, che ribadisce il concetto ribaltando la metafora delle tre scimmiette “Non vedo, non sento, non parlo” nella dichiarazione “Vedo, ascolto, parlo…(e) Ti aiuto”.

Il libro si apre con la presentazione di Gloria Soavi, presidente del Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’infanzia) che sottolinea l’importanza di una politica nazionale di prevenzione del maltrattamento, richiamando le direttive WHO, e prosegue con l’approfondimento del tema secondo quattro parallele linee direttrici: la prima di analisi e definizione del concetto di maltrattamento e abuso, la seconda di esplorazione delle nuove emergenze di maltrattamento, la terza di descrizione del percorso psico-sociale istituzionale di ascolto e di aiuto del minore e, infine, la quarta di analisi del risvolto giuridico con riferimento alle azioni di denuncia, segnalazione e referto e dell’ascolto protetto su mandato dell’Autorità Giudiziaria.

La prima linea di riflessione si concentra sulla definizione di maltrattamento e sulla complessità della comunicazione approfondendo le diverse tipologie di situazioni dalla rivelazione diretta alla comunicazione indiretta. La rivelazione è considerata il momento attraverso cui il bambino, grazie all’incontro con un operatore che raccoglie la sua storia, può dare voce agli eventi vissuti e iniziare il percorso di cura. Successivamente l’attenzione è posta sulle diverse tipologie di maltrattamento, dalla trascuratezza, al maltrattamento fisico, alla violenza assistita, sino all’esplorazione della definizione di abuso sessuale e dell’analisi del contesto in cui si compie, premessa per la valutazione psicologica e relazionale della vittima e per l’analisi e scelta del percorso terapeutico per la cura del trauma.

La seconda linea di riflessione affronta il tema delle nuove forme ed emergenze della violenza sui minori: dall’abuso in rete, al cyberbullismo, all’analisi dei minori autori di reato, alla violenza nelle migrazioni.

Sul tema dei minori autori di reato, dopo una presentazione teorica delle principali prospettive di analisi in ambito clinico e psico-sociale, si analizza il ruolo e gli atteggiamenti dei genitori di un figlio minorenne abusante: dall’estrema situazione di adesione formale al progetto, agli atteggiamenti di negazione, banalizzazione, ma soprattutto di evitamento delle problematiche familiari passate e presenti. L’attenzione è posta sulla difficoltà di accedere ad una mentalizzazione delle esperienze e dei sentimenti  legati agli eventi agiti dal figlio, con la diretta conseguenza di impedire anche a lui di avvicinarsi.

Sul tema dei minori migranti si descrivono in modo accurato gli aspetti invisibili del maltrattamento: da quelli che non sono  osservati e dichiarati dai mass media, a quelli connaturati con la migrazione stessa, come lo sradicamento, la perdita dell’appartenenza, dell’identità, della propria storia, sino a quelli annunciati ancor prima di iniziare la migrazione, come la violenza sulle donne o tra gli adulti, o nei vari punti di passaggio da un paese all’altro. La descrizione della complessità psicologica, sociale e culturale della migrazione dei minori e dei loro bisogni è accompagnata dalla presentazione di testimonianze che raccontano le drammatiche situazioni vissute nell’attraversamento di paesi, di deserti e di mari.

La terza linea di riflessione si concentra sul percorso istituzionale della presa in carico ribadendo l’importanza di un modello integrato e multidisciplinare di lavoro tra gli operatori: dalla terapia neuro-psicomotoria (quando manca la parola), all’intervento educativo e di prevenzione, sino ad un’interessante approfondimento sul tema del maltrattamento istituzionale, in cui vengono analizzate le problematiche amministrative-burocratiche che intervengono a esaltare o esacerbare situazioni già complesse di gestione del caso.

La riflessione che attraversa questo capitolo è centrata sul valore dell’integrazione professionale nel lavoro psico-sociale di prevenzione e cura e sulla necessità di un intervento multidisciplinare nella presa in carico del minore e della famiglia. A questo proposito viene presentata l’esperienza dei Girasoli dell’ Ulss 6 Euganea – Padova, l’équipe specialistica di contrasto al maltrattamento e all’abuso. Il modello proposto è realizzato anche in altre cinque équipe provinciali ed è stato attivato nel 2004 come parte di un progetto della Regione Veneto.

Conclude l’elaborazione un’appendice giuridica che analizza i temi della denuncia, segnalazione e referto nella comunicazione  di un reato perseguibile d’ufficio, analizzando le competenze degli operatori, dei servizi pubblici e degli operatori sanitari liberi- professionisti.

Il libro è accompagnato da alcune schede operative, concepite come una cassetta degli attrezzi, che permettono all’operatore di avere a portata di mano definizioni concettuali e strumenti metodologici nel lavoro psico-sociale: come ascoltare la rivelazione verbale, le tipologie di maltrattamento, la definizione dell’abuso sessuale, riconoscere e definire gli abusi digitali, riconoscere un minore autore di reato, la segnalazione e il percorso istituzionale, un facsimile per la segnalazione al dirigente e alla Procura della Repubblica.

Tra i diversi meriti delle autrici nell’analisi proposta nel libro è d’obbligo sottolineare quello di aver analizzato in modo accurato la fenomenologia del maltrattamento e abuso, prestando attenzione al nostro tempo storico e sociale; di aver valorizzato l’importanza di un approccio integrato di ascolto e presa in carico del minore; di aver sottolineato il valore di un modello di  “condivisione di pensieri e sguardi professionali differenti”  per un lavoro di accoglienza, ascolto, sostegno e cura attento al bambino vittima di maltrattamento; di aver ribadito la necessità di condividere modelli teorici di analisi del fenomeno e strumenti operativi in grado di guidare il lavoro dei diversi professionisti; e, infine, di aver sottolineato le criticità del percorso di accoglienza del minore, senza rinunciare alla descrizione dei processi e progetti per gestirle e superarle.

Ultimo, ma non ultimo, è la scelta dello stile di scrittura delle autrici che, attraverso un linguaggio chiaro ma tecnico-professionale e la presentazione di situazioni e flash reali, ha reso il libro uno strumento utile per tutti coloro che desiderano conoscere con competenza e profondità la realtà del maltrattamento nell’infanzia, in special modo per coloro che incontrano bambini e ragazzi (insegnanti, volontari, animatori, allenatori sportivi, catechisti, sacerdoti…).

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto  è un bel libro che descrive il delicato percorso della cura e che individua “nell’ascolto il principio dell’aiuto”. Vedo, ascolto, parlo….Ti Aiuto!

 

La ripresa dell’attività sessuale post-partum tra pazienti OASIS: differenze tra parto spontaneo e parto vaginale operativo

Le lesioni ostetriche dello sfintere anale (OASIS) sono lacerazioni perianali che possono avvenire in seguito al parto vaginale e comportano conseguenze anatomiche e funzionali che possono influenzare notevolmente l’attività e la funzione sessuale.

 

Lo scopo del presente studio era indagare la ripresa dell’attività sessuale e le variabili che influenzano questa attività a sei mesi dopo il parto, in pazienti con o senza OASIS, analizzati in base alla modalità di parto: parto spontaneo (SD) o parto vaginale operativo (OVD). Nello specifico, il parto vaginale operativo prevede l’applicazione alla testa del feto del forcipe o di una ventosa per gestire la seconda fase del travaglio e facilitare il parto.

La ricerca era di tipo osservazionale, trasversale e case-control, in cui erano presenti due gruppi: il gruppo sperimentale (costituito dalle donne con una storia di OASIS) e il gruppo di controllo (composto dalle donne senza una storia di OASIS). Il campione finale comprendeva 318 donne: 140 con OASIS primaria riparata e 178 donne senza OASIS. Sono stati raccolti dati demografici e ostetrici, allattamento al seno e sintomi di incontinenza urinaria e anale. Le pazienti sono state interrogate sulla ripresa dell’attività sessuale e hanno completato il questionario self-report specifico per i disturbi del pavimento pelvico nelle donne, ossia il prolasso degli organi pelvici e l’incontinenza urinaria: il Pelvic Organ Prolapse/Urinary Incontinence Sexual Questionnaire-12 (PISQ-12).

In generale, i risultati mostrano che la percentuale di pazienti con ripresa dell’attività sessuale a sei mesi dal parto era del 73%, senza differenze statisticamente significative tra i gruppi OASIS rispetto a quelli non OASIS. Tuttavia, sono state osservate delle differenze importanti quando è stata considerata la modalità del parto. Tra le donne senza OASIS che hanno avuto un parto spontaneo, il 98% ha ripreso il rapporto intimo a sei mesi dopo il parto. Sorprendentemente, dopo un OVD, il gruppo OASIS sembra riprendere l’attività sessuale prima del gruppo non OASIS. Questi risultati sono stati confermati confrontando le due diverse modalità di parto, indipendentemente dalla storia di OASIS, osservando che le donne con SD hanno ottenuto punteggi PISQ-12 più alti rispetto a quelli con OVD. Infine, per quanto riguarda l’influenza delle variabili demografiche e cliniche prese in considerazione, il modello di regressione logistica multivariata ha mostrato che solo l’età materna al momento del parto ha ottenuto un punteggio statisticamente significativo nella percentuale della ripresa dell’intimità; nello specifico le donne con età maggiore mostrano la percentuale più bassa. Inoltre, l’analisi ha mostrato che un parto vaginale operativo, rispetto a quello spontaneo, ha un’influenza negativa sul punteggio del questionario in relazione all’allattamento al seno. Questi risultati suggeriscono un evidente ruolo dello stato ormonale e di altri fattori soggettivi nella funzione sessuale post-partum.

Studi recenti hanno evidenziato che l’uso dell’episiotomia medio-laterale è associato ad una riduzione del tasso OASIS, in donne primipare e non. L’episiotomia è l’incisione della vulva e del perineo per ampliare il fondo della vagina e l’anello di tessuto perineale, finalizzata ad accorciare la seconda fase del parto e prevenire la produzione di rotture di terzo e quarto grado che richiedono una più complessa incisione chirurgica dopo l’intervento, ed ha un postoperatorio più difficile e doloroso. Allo stesso tempo, essa si utilizza per evitare un eccessivo allungamento dei muscoli del perineo, che a lungo tempo potrebbe provocare un prolasso genitale e incontinenza urinaria.

Inoltre, anche il peso del neonato è stato considerato un fattore di rischio per l’OASIS e, quindi, le donne con OASIS hanno partorito neonati più grandi di quelli senza OASIS. Infine, lo studio dimostra che la strumentazione utilizzata nel parto vaginale operativo provoca il più importante danno al pavimento pelvico, soprattutto nelle donne primipare e anche il tipo di strumento usato (es. forcipe o pinza) sembra essere significativamente correlato alla funzione sessuale.

Altri fattori di rischio che potrebbero influenzare la ripresa del rapporto intimo sono l’incontinenza urinaria e anale (fuoriuscita incontrollata di feci o gas, spesso presente nelle donne dopo il parto); pertanto, le donne con OASIS e sintomi di incontinenza urinaria (UI) e anale (AI) più gravi, hanno riportato una funzione sessuale peggiore dopo il parto e dopo il ritorno all’intimità. Infatti, indipendentemente dall’OASIS, anche i sintomi dell’IA sono stati associati a disturbi sessuali. Nel presente studio, è stato riscontrato che il danno perineale che causa sintomi di IA dovuti ad OASIS, o OVD senza OASIS, sembra avere una maggiore influenza sulla ripresa dell’attività sessuale.

Nonostante l’elevata prevalenza di sintomi di disfunzione del pavimento pelvico a sei mesi dopo il parto, compresi i disturbi sessuali, le donne spesso evitano di cercare un aiuto professionale a causa dell’imbarazzo e, solo una piccola percentuale di donne con AI, riferisce questi sintomi ad un medico di medicina generale o ad un reparto di uroginecologia.

Una prospettiva futura del presente studio potrebbe essere l’estensione del periodo del follow-up e l’approfondimento delle domande effettuate alle pazienti, non limitandosi soltanto a chiedere se e quando è avvenuta la ripresa dell’attività sessuale. Sarebbe stato interessante includere nel campione anche donne che hanno effettuato un cesareo, e quindi un’ulteriore modalità di parto. La ricerca ha diversi limiti: essendo uno studio case-control, non è stato possibile calcolare la prevalenza dei sintomi nei sottogruppi di pazienti e, a causa della trasversalità dello studio, non sono state ottenute informazioni su potenziali disfunzioni sessuali e disturbi della salute mentale prima e durante la gravidanza o in relazione ad altri fattori sociali e psicologici. Anche l’uso del questionario scelto per la ricerca potrebbe essere considerato un limite, in quanto è specifico per l’incontinenza urinaria ma non per l’incontinenza anale, per cui si potrebbe approfondire questa condizione e la sua influenza nel rapporto intimo. Inoltre, l’aggiunta dell’indice di funzione sessuale femminile o un’intervista face-to-face semistrutturata, anziché una singola misurazione del funzionamento sessuale con PISQ-12, avrebbe fornito una valutazione più valida e più completa del funzionamento sessuale. I principali punti di forza, invece, sono le grandi dimensioni del campione e l’analisi dettagliata in base alla modalità di parto, incluso un gran numero di parti con il forcipe.

In conclusione, una storia di OASIS ritarda la ripresa dell’attività sessuale tra le donne con SD. Tuttavia, una storia di OVD sembra avere un impatto maggiore su tale decisione, riflettendo in tal modo gli effetti a lungo termine di gravi traumi perineali e pelvici sulla sessualità post-partum.

 

Le insidie dell’empatia

Uno dei tentativi di superare l’impasse della debolezza dei modelli terapeutici, sviluppatosi negli ambienti della psichiatria fenomenologica e mutuato mano a mano da tutti gli orientamenti terapeutici, parte dal presupposto che l’altro resti sempre irraggiungibile alla comprensione razionale, però il suo mistero possa essere esplorato e carpito attraverso una nuova modalità, diventata via via sempre più pervasiva, accettata e considerata imprescindibile: l’empatia.

 

Il XX secolo è stato senza dubbio il periodo d’oro della psicoterapia: sono nati e si sono sviluppati e articolati moltissimi modelli, ognuno dei quali ha coltivato più o meno esplicitamente l’aspettativa quanto non la pretesa di descrivere il funzionamento della psiche, fornire una teoria esplicativa della patologia e decodificare i sintomi, predefinire i possibili percorsi terapeutici (arrivando all’estremo della manualizzazione delle terapie).

In quegli anni abbiamo assistito ad una fioritura di teorie, alcune delle quali cercavano un rapporto diretto con la biologia e la medicina rincorrendo il paradigma scientifico, altre invece rivendicando l’irriducibilità dell’umano al linguaggio scientifico, altre ancora alla ricerca di una qualche mediazione tra questi estremi. Un dato che accomunava tutti i modelli era l’estrema ricchezza della produzione teorica, che ha permesso l’elaborazione di teorie raffinate e minuziose sul funzionamento della psiche e sui meccanismi d’azione delle varie terapie, da un lato, e dall’altro ha svolto sotto traccia una funzione di rassicurazione del terapeuta nell’esercizio della propria professione, fornendo mappe e indicazioni per facilitare l’orientamento che espongono anche al rischio di essere utilizzate come schermo, creando un comodo e insidioso cuscinetto tra sé e l’altro.

Questa condizione non è durata a lungo: negli scorsi decenni il paradigma postmoderno ha fatto piazza pulita di questo atteggiamento positivo, demistificando il valore oggettivo delle teorie psicologiche (valide al massimo come più o meno utili costruzioni metaforiche) e lasciando di fatto il terapeuta senza appigli certi di fronte all’altro da sé. Una prima risposta a questa crisi epistemologica prima che clinica è stata la rincorsa ai “modelli integrati”, nella convinzione che mettere insieme letture diverse della realtà che singolarmente mostravano delle fragilità avrebbe permesso a queste di sostenersi a vicenda. Questa “moda” è tramontata tanto rapidamente quanto si era affermata, e questo non è affatto sorprendente: perché un’integrazione sia autentica, il primo evento che deve darsi è il contatto, ovverosia l’apprezzamento delle differenze, mentre invece questi tentativi partivano dal riconoscimento dei fattori comuni e mettevano insieme cose diverse con un atteggiamento epistemologico quantomeno discutibile.

Un altro tentativo di superare l’impasse della debolezza dei modelli terapeutici, sviluppatosi negli ambienti della psichiatria fenomenologica e mutuato mano a mano da tutti gli orientamenti terapeutici, fino ad interessare la psicoanalisi e alcune correnti del cognitivismo, parte dal presupposto che l’altro resti sempre irraggiungibile alla comprensione razionale, però il suo mistero possa essere esplorato e carpito attraverso una nuova modalità, che è diventata via via sempre più pervasiva, universale, accettata praticamente da tutti e da tutti considerata imprescindibile: è entrata in scena l’empatia.

Empatia e Filosofia

L’empatia è un concetto mutuato dalla filosofia a prima vista molto semplice: è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, sentire quello che l’altro sente, vivere quello che l’altro vive, conoscere i vissuti dell’altro come se fossero i propri. In qualche modo, l’empatia arriva a sopperire alla fragilità dei modelli terapeutici, garantendo la possibilità che l’esistenza dell’altro possa schiudersi davanti al terapeuta solo mediante una modifica della qualità dell’ascolto e del modo d’essere in relazione.

Nell’indagine filosofica sull’empatia, gli autori di riferimento sono Edith Stein e Max Scheler. Leggendo il libro della Stein si resta abbastanza colpiti dal fatto che il punto di partenza della filosofa sia un elogio al principio di riduzione fenomenologica della realtà, fondato sulla messa in discussione di tutto ciò di cui si può dubitare finché non restano solo i dati certi dell’esperienza, e poco dopo si dia per certa l’esistenza dell’empatia:

…dall’espressione del volto e dai gesti degli altri non solo so quel che vedo, ma anche quel che si nasconde nel loro intimo: così, ad esempio, sono in grado di vedere quando uno è triste dall’espressione del suo volto, anche nel caso in cui non provi un sincero sentimento di tristezza […] tutte queste datità relative all’esperienza vissuta estranea rimandano ad un genere di atti nei quali è possibile cogliere la stessa esperienza vissuta estranea. Su tali atti si basa quella particolare conoscenza che vogliamo ora indicare col termine empatia

La Stein descrive nel corso del libro le caratteristiche dell’atto empatico, senza mai metterlo in discussione: nell’atto empatico il soggetto si traspone nel vissuto dell’altro, vivendo quello che l’altro vive anche se non esattamente come se fosse l’altro (e questa è la principale differenza tra la Stein e i sostenitori dell’empatia ingenua, come Lipps).

Il punto di vista di Scheler è assai differente:

Nel capire ciò che l’altro prova noi cogliamo ancora, emotivamente, la qualità dell’emozione altrui senza che questa si trasferisca in noi o che si produca in noi un’identica emozione reale

All’empatia, contrappone un atteggiamento che lui chiama “simpatia”:

la simpatia non indica l’identità essenziale delle persone… l’autentica simpatia presuppone addirittura (come ultimo fondamento anche della differenza della loro reale esistenza) la pura differenza essenziale tra le persone

L’atteggiamento nella simpatia è caratterizzato pertanto dal simultaneo patire con l’altro ed essere in contatto con sé stessi.

Empatia e Neuroscienze

Esiste un filone di ricerca molto interessante, nell’ambito delle neuroscienze, che a prima vista ha molto a che vedere con l’empatia: la scoperta e lo studio dei neuroni specchio. Detto sinteticamente, è stato dimostrato che ogni essere umano ha dei neuroni (chiamati appunto “neuroni specchio”) che si attivano quando osservano un altro essere umano compiere un determinato movimento o provare una determinata emozione, nelle stesse aree cerebrali in cui si attivano nell’altro.

Questa attivazione neuronale è stata riscontrata e studiata per diverse attività umane, sia motorie che emozionali, tanto da far ipotizzare che questo processo possa essere anche alla base dei processi di apprendimento: il libro “Specchi nel cervello” compie una una disamina dello stato delle ricerche in questo campo.

Questi studi sono utilizzati dai sostenitori dell’empatia come delle prove a supporto di una base scientifica dei processi empatici, basati appunto sull’attività dei neuroni specchio. Il problema è che, facendo questo, si stabilisce un’analogia tra una singola emozione e il vissuto che la accompagna: l’empatia non permetterebbe solo di entrare in risonanza con un’emozione, percependola anche in sé, ma farebbe molto di più, permettendo al terapeuta di “vivere il vissuto dell’altro”, mentre negli studi sopra citati queste inferenze vengono esplicitamente negate:

la piena comprensione delle forme vitali altrui non è mai stata oggetto di indagine a livello sperimentale, né vi sono a tutt’oggi compiti di mentalizzazione disegnati espressamente per investigare l’attribuzione di stati mentali concernenti la forma o lo stile delle azioni (o delle reazioni emotive) osservate

Dalla sua comparsa nella scena della psicoterapia, l’empatia ha avuto pochi critici nel campo delle psicoterapie dinamiche ed esistenziali. Tra questi, va’ certamente ricordato Fritz Perls, il fondatore della Terapia della Gestalt, che su questo tema ha preso una posizione molto netta:

Ci sono di solito tre strade aperte al terapeuta, a prescindere dalla sua tendenza personale o dal suo approccio teorico. L’una è la simpatia o il coinvolgimento nel campo totale – la consapevolezza sia di sé che del paziente. L’altra è l’empatia: una specie di identificazione col paziente che esclude il terapeuta dal campo ed esclude pertanto metà del campo. Nell’empatia, l’interesse del terapeuta si accentra esclusivamente sul paziente e sulle sue reazioni. Infine c’è l’apatia, il disinteresse… evidentemente l’apatia non ci porterà da nessuna parte. […] il terapeuta che trattiene se stesso, per empatia col paziente, priva il campo del suo strumento principale: il suo intuito e la sua sensibilità verso i processi in atto nel paziente.[…] non ci può essere alcun contatto vero nell’empatia. Al peggio diventa confluenza.

Perls invita dunque il terapeuta a non cercare scorciatoie e ad essere, all’interno della relazione terapeutica, una persona reale, con i propri vissuti, la propria intuizione, le proprie caratteristiche, che incontra un’altra persona reale.

Esaminati i presupposti filosofici e i tentativi di giustificazione biologica (tra l’altro, è un po’ paradossale che si cerchi una legittimazione scientifica in ambienti che della non scientificità della psiche e della psicoterapia hanno fatto una bandiera ideologica), resta il sospetto che attorno all’empatia si aggirino due punti ciechi dell’attività terapeutica: l’onnipotenza narcisistica (nella presunzione di non aver bisogno di mappe per esplorare il territorio dell’altro, per quanto approssimative, ma di poterlo cogliere direttamente nella sua essenza) e la distanza dalla relazione con l’altro (se c’è solo l’altro, il terapeuta e i suoi vissuti sono al di fuori e quindi al sicuro dalla contaminazione emotiva dell’altro da sé).

 

Nessuno si salva da solo: il tradimento, la terapia di coppia, il perdono?

Nessuno si salva da solo narra di un amore ai tempi della crisi, dipingendo la realtà di una generazione che nasce e cresce fra il crollo del Muro di Berlino e l’11 settembre. Sin dalle prime scene si punta l’accento sulla disgregazione di un matrimonio da analizzare, e forse da recuperare, nel corso di una sanguinosa battaglia.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

 Nessuno si salva da solo è il racconto del sentimento amoroso, visto come forza capace di spezzare i vincoli delle barriere sociali. I due protagonisti provengono da ambienti differenti: Delia (Jasmine Trinca) è una biologa nutrizionista, una donna della middle class, ansiosa e seriosa, mentre Gaetano (Riccardo Scamarcio) è uno sceneggiatore di programmi televisivi, un provinciale di Ostia, bonario e semplice. Lui dinamico e dotato di una certa verve umoristica, lei assillata dalla sue nevrosi: è proprio questo incontro di caratteri, visioni del mondo e ambienti diversi, a fare del film un ritratto intimo e personale.

Gaetano e Delia sono una coppia separatasi anche a causa di un tradimento, che si incontra al ristorante per decidere come suddividere le vacanze con i figli. La visione del film ci porta a immergerci a capofitto dentro il dolore vivo del disfacimento di una storia d’amore, una storia di vita, frutto di due vite che intrecciandosi, si narrano da sole, e che arrivano allo scontro quando inizia la crisi coniugale. Dal film ben arriva l’accelerazione improvvisa di certi scontri, una sequela di frasi fatte, insulti coloriti, discussioni, buche di percorso in cui si cade quasi tutti, e quasi tutti allo stesso modo.

La coppia di protagonisti è tutto il film, satura la storia, ci sono solo loro, tutti gli altri sono sullo sfondo. Una storia come altre di due persone come altre in un’epica del quotidiano, due “imbecilli depressi”, loro stessi così si definiscono, dove la loro imbecillità e soprattutto la loro depressione è figlia e segno dei tempi, che instillano sfiducia e dispensano umiliazioni difficili da reggere.

Nessuno dei due ha il beneficio di scene in cui sviluppare una propria personalità senza che questa non sia funzionale all’armonia o al contrasto con l’altra. I protagonisti non esistono se non in funzione l’uno dell’altra, questo li rende vitali e sinceri anche in momenti molto “scritti” come la conversazione su Mike Tyson, in cui si parla di qualcosa per intendere tutt’altro (il tradimento).

In Nessuno si salva da solo si comincia quasi dalla fine, con il presente che scivola continuamente nel passato in modo naturale, fluido. Come per i pensieri e per la vita stessa, non esiste un ordine cronologico, non ci sono spiegazioni razionali. C’è l’emozione – filmata da una macchina da presa danzante – la rabbia e l’insofferenza; c’è la poesia contemplativa di un matrimonio sulla spiaggia e c’è quel piccolo appartamento disordinato in cui si sommano l’irrequietezza di una donna borghese che ha risposto all’eccentricità familiare con l’anoressia e la semplicità sana ma inconcludente di un uomo che un po’ si vergogna di due genitori che cantano a squarciagola “1950” di Amedeo Minghi.

Sergio Castellitto alla sua quinta prova per il cinema e alla terza trasposizione di un testo della moglie Margaret Mazzantini, propone una pellicola che narra un amore ai tempi della crisi, la rabbia che nasce dalla creatività frustrata di Gaetano, oramai asservitosi alle logiche della fiction di bassa qualità per rispondere alle difficoltà di mandare avanti una famiglia. In questo film, dotato di un tempismo sorprendente rispetto alla realtà di una generazione che nasce e cresce fra il crollo del Muro di Berlino e l’11 settembre, il regista stringe sin dalle prime scene sulla disgregazione di un matrimonio da analizzare e forse da recuperare nel corso di una battaglia combattuta davanti a una tavola apparecchiata in un ristorante e la volontà di scavare nella rabbia e nella frustrazione contemporanee senza indietreggiare. Lo spettatore incontra qui Delia e Gaetano, seduti al tavolo del ristorante, pieni di rabbia e risentimento, e con loro, poco a poco, ripercorre a ritroso la loro storia d’amore, che copre una vasta gamma di momenti: innamoramento, passione, progettualità, gelosia, traumi ed il tradimento che stravolge e ribalta equilibri e certezze.

La vita di coppia può essere sconvolta dal tradimento e quando lo si scopre spesso si mettono in atto delle modalità relazionali che minano la stabilità di ogni membro, si crea una frattura, la comunicazione diventa problematica e incomprensibile, la stabilità, la fiducia, le certezze, la lealtà vacillano. Tra le possibili cause di un tradimento verosimilmente possiamo annoverare la presenza di modalità relazionali che, nel corso del tempo, possono aver gravato sul rapporto, basate sostanzialmente sull’assenza, sul sacrificio, sull’evitamento: assenza di intimità nella vita di coppia; assenza di solidi confini che preservino la coppia da ingerenze esterne, come anche assenza di specifici spazi e tempi che appartengano alla sola coppia; il sacrificare le proprie esigenze personali allo scopo di dare vita ad un’unione ideale; la tendenza ad evitare i conflitti lasciandoli aperti ed irrisolti (Fiore, 2011).

In uno studio statunitense si è cercato di verificare i fattori individuali e di relazione che accompagnano l’infedeltà. Sono state esaminate le qualità di individui e coppie che si differenziano tra loro per la presenza (n = 19) e l’assenza (n = 115) di infedeltà, reclutate da uno studio clinico randomizzato di terapia coniugale. I risultati hanno indicato che le coppie infedeli hanno mostrato maggiore instabilità coniugale, disonestà, discussioni sulla fiducia, narcisismo e tempo trascorso separatamente. Il genere è emerso come un moderatore significativo di diversi effetti: gli uomini infedeli mostravano un maggiore uso di sostanze, erano più anziani e più sessualmente insoddisfatti (David et al., 2005).

Spesso ad una infedeltà seguono dinamiche deleterie; in uno studio condotto da Charny e Parnass è stato chiesto a due gruppi di terapeuti di descrivere uno specifico rapporto di coppia nel quale fosse stato vissuto un tradimento, un rapporto extraconiugale. Di 62 casi, 21 di questi (pari al 34%) si sono conclusi con il divorzio, secondo il giudizio dei terapeuti, a causa dell’infedeltà. In 27 casi, pari al 43,5%, i matrimoni sono stati preservati, ma in un’atmosfera disforica o negativa. In 4 casi, pari al 6%, i matrimoni proseguivano, ma venivano definiti con accezione negativa o di scarsa qualità oppure il futuro del matrimonio veniva messo ancora in dubbio. Solo in 9 casi, pari al 14,5%, i matrimoni sono rimasti intatti e caratterizzati da miglioramento e crescita.

L’analisi dell’impatto diretto del tradimento sui coniugi traditi ha mostrato che la maggior parte dei mariti e delle mogli tradite ha subito danni significativi alla propria immagine, alla propria sicurezza personale, alla propria fiducia sessuale, ha generato sentimenti di abbandono, tradimento della fiducia, sentimenti di rabbia, un moto di giustificazione a lasciare i loro coniugi. I giudizi dei terapeuti che riportavano i casi erano che ben l’89% dei coniugi traditi erano consapevoli dell’infedeltà o, anche se non lo riconoscevano, sapevano e che anche la maggior parte dei coniugi traditi che sostenevano consapevolmente di essersi opposti al comportamento del coniuge era inconsciamente in collusione con loro (Charny e Parnass,1995).

Che il tradimento sia noto o meno, la sofferenza che ne deriva è tanta e quando si decide di intraprendere un percorso di terapia di coppia, il perdono è uno degli aspetti problematici. Già nel 1998 lo scopo del Dipartimento Psychiatry and Human Behavior, della Brown University, a Providence (USA), è stato quello di descrivere un modello sintetico di perdono usando i costrutti di teorie multiple, tra cui il perdono, il recupero del trauma, i sistemi cognitivo-comportamentali, i sistemi familiari. Il perdono è concettualizzato come un processo costituito da tre fasi, ognuna delle quali ha componenti cognitive, comportamentali e affettive. Inoltre, queste fasi sembrano parallele alla risposta naturale di una persona allo stress traumatico. Innanzitutto, c’è una risposta all’impatto iniziale, poi c’è un tentativo di dare all’evento un qualche tipo di significato, o di inserirlo nel contesto, e infine la persona inizia ad andare avanti e riadattare. Il perdono è dunque concettualizzato come il raggiungimento di una visione realistica, non distorta ed equilibrata della relazione; una liberazione dai sentimenti negativi verso il partner e un diminuito desiderio di punirlo (Gordon e Baucom, 1998).

Il tradimento dunque può costituire un elemento doloroso, che però può permette una rinegoziazione delle regole nel rapporto ed apre nuovi canali comunicativi tra i partner che imparano nuovamente ad esprimere le proprie esigenze e ad accogliere in modo nuovo quelle dell’altro, costruendo un rapporto rinnovato sulla base di scelta e responsabilità, ed in questo contesto scopo della terapia cognitiva è quello di rendere chiaro il modo di pensare e comunicare dei partner per evitare le interpretazioni sbagliate. Nell’ultimo decennio infatti, con la sempre maggiore diffusione degli approcci cognitivi, ci si è orientati alla risoluzione delle problematiche coniugali e la terapia cognitiva ha individuato nelle persone con problemi di coppia uno schema di pensiero comune. I partner, frustrati nelle loro aspettative dal rapporto di coppia, diventano protagonisti di una danza disfunzionale, come in un circolo vizioso il partner deluso incrimina l’altro, che offeso, può attaccare o ritirarsi generando una reazione a catena (Trezza, 2013).

E’ fisiologico che nel tempo in una coppia si possano accumulare dei conflitti, così si inizia ad avvertire un senso di frustrazione e dolore. Guardiamo cosa accade a Delia e Gaetano: tra i due subentra la delusione, la scarsa comunicazione e l’incomprensione, arrivando a mettere in discussione il rapporto. I due cominciano a comunicare meno, ad incolparsi a vicenda, le ostilità e i fraintendimenti si sommano gli uni sugli altri, i due coniugi perdono di vista tutte le qualità positive l’uno dell’altro.

La terapia cognitiva ha mostrato come i coniugi possano imparare ad essere più ragionevoli adottando un atteggiamento più costruttivo e umile, a potenziare la loro capacità di rettificare e riconoscere i giudizi sbagliati che si danno del partner, considerando ipotesi alternative alle loro conclusioni negative. Perché, anche quando si crede di parlare lo stesso linguaggio, ciò che dice l’uno e ciò sente l’altro sono spesso due cose completamente diverse (Trezza, 2013).

Intraprendere un percorso a due, questa spinta al cambiamento, volta al miglioramento della vita della coppia stessa, può iniziare un passo alla volta. Beck la definisce la terapia dei 9 passi, esercizi utili alle coppie per affrontare le idee fuorvianti e frustranti. Si inizia dall’individuare, a partire dagli ABC, una reazione emotiva legata ad una situazione ed i pensieri automatici che ne derivano, allo scopo di determinare un collegamento tra le due cose. Successivamente si mettono in pratica esercizi immaginativi volti ad identificare i pensieri automatici negativi dai quali possono scaturire emozioni non del tutto comprensibili nelle dinamiche di coppia: ci si esercita ad individuarli nel momento in cui si profilano all’orizzonte della consapevolezza, ci si esercita ad individuare l’evento che li ha scatenati. Si passa poi a stabilire se i pensieri automatici siano attendibili, se ne valuta la ragionevolezza, perchè trovare la risposta razionale aiuta a vedere i propri pensieri automatici in prospettiva, si verifica che le ipotesi fatte corrispondano alla realtà e non alla fantasia (Fiore F., 2011).

Lo scopo è quello di riconfigurare il rapporto di coppia riconoscendone in una luce diversa le caratteristiche negative e valutando le alternative, per scegliere consapevolmente se portare avanti la relazione e tollerare, o concluderla scegliendo altro. La terapia di coppia è dunque pur sempre una nuova danza che si sceglie di fare in due, come i protagonisti del nostro film, che si muovono liberi nel balletto dei loro sentimenti, diventando testimoni di un messaggio che suona più o meno così: in solitudine e di solitudine si muore lentamente, mentre dove c’è condivisione, c’è la possibilità dell’alternativa, c’è salvezza.

 

NESSUNO SI SALVA DA SOLO – Guarda il trailer del film:

Competizione e sicurezza stradale – Come il fattore tempo innesca la competizione per la precedenza in strada 

La sicurezza stradale dipende da svariati fattori, infatti molti incidenti sono dovuti a distrazioni, ma molti altri altri sono causati da scelte sbagliate come elevata velocità e mancato rispetto della distanza dal ciclista/pedone.

 

La risorsa che sembra scarseggiare quando s’incontra in auto un ciclista o un pedone pare essere il tempo, ci sembra proprio che chi occupa la nostra corsia sia colpevole di farci perdere tempo.

Il ciclista o pedone, a volte costretto a camminare o pedalare da una vita sedentaria, deve scegliere tra accettare la minaccia di una sindrome metabolica o se confrontarsi con la fretta cronica del corriere con il furgone rosso o con i distratti e sbandanti utilizzatori di telefoni.

Perché entriamo in competizione? E perché la ben evidente fragilità del più debole in strada (cioè del pedone o ciclista) non ci muove a compassione, così da farci spingere il pedale del freno e a rinunciare a un po’ di tempo?

La teoria dei Sistemi Motivazionali Interpersonali di Giovanni Liotti e, in questo caso, la descrizione del sistema motivazionale competitivo può aiutarci a capire almeno alcune cose: il Sistema Competitivo o Agonistico si attiva quando si rende necessario definire ranghi o status all’interno di un gruppo, cioè delle posizioni di dominanza o sottomissione e prende forma alla presenza di una qualsiasi risorsa limitata, che nel nostro caso sembra proprio essere il tempo. Perché si configuri una situazione conflittuale, è necessario che i competitori abbiano la percezione che la risorsa (oggetto del contendere) sia necessaria e scarsa. Al contrario, se la risorsa è percepita come abbondante, la stessa, perché da tale situazione possa generarsi un conflitto, deve essere considerata come iniquamente o ingiustamente distribuita fra le parti. L’aspetto fondamentale è che, sia il concetto di scarsità che quello d’iniquità, prima ancora di essere elementi oggettivi, sono il frutto di una percezione soggettiva. Quando quindi le parti manifestano preferenze incompatibili fra loro circa la distribuzione della risorsa ritenuta necessaria e scarsa, fra i contendenti s’innesca una rappresentazione di vittoria/sconfitta, sicché il guadagno altrui è percepito come perdita della controparte e viceversa.

Il sistema quindi è attivato dalla percezione di una risorsa limitata, ma anche da segnali di sfida, dal giudizio, dalla derisione e colpevolizzazione. Le emozioni che si provano sono la collera, la paura se penso che l’altro abbia maggiori capacità, se sono sconfitto compare vergogna, che sua volta è seguita da umiliazione e tristezza. Nel vincitore si passa dalla collera a un sentimento di orgoglioso trionfo, che può mescolarsi con il disprezzo nei confronti dello sconfitto. Il sistema è disattivato dalla resa e sottomissione o perché c’è l’attivazione di un altro sistema motivazionale (Liotti, Monticelli 2008).

Se siamo attivi sulla competizione, interpreteremo la realtà in modo egocentrico, avremo un deficit di decentramento e ci concentreremo sui segnali di potenziale aggressione e inganno. Essere immersi in un clima competitivo ci farà essere rapidi nelle nostre valutazioni, rigidi, rigorosi e attenti ai segnali di pericolo, ma non in grado di realizzare un decentramento cognitivo per riuscire a capire il punto di vista e le ragioni del pedone/ciclista.

Nella subroutine di dominanza il soggetto tende a ricordare frequentemente ai subordinati la propria posizione ripetendo segnali di minaccia e dominanza. Nella subroutine di resa o sottomissione si emettono segnali di debolezza, inferiorità, disponibilità.

Se un comportamento perdura nel tempo, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria, negli animali l’aggressività seleziona i migliori, regola la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. Gli animali però si accordano nel non superare certi limiti (aggressività ritualizzata), il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura è quello più vicino a noi, cioè la scimmia e, come l’uomo, ha poca pietà per i suoi simili.

Se decidiamo di fare una manovra avventata per vincere la sfida della precedenza e guadagnare qualche secondo in più, potremmo esporre il più debole in strada (cioè chi non ha un abitacolo di un’auto come protezione di sé) a grossi rischi. I morti in strada aumentano, molti incidenti sono dovuti a distrazioni, molti altri invece sono causati da scelte sbagliate come elevata velocità e mancato rispetto della distanza dal ciclista/pedone. La soluzione per regolare tali situazioni è fornita dalla norma e dal codice stradale, ma sembra non funzionare.

Per passare dalla competizione all’agire cooperativo, si deve creare un periodo intermedio, dove emergano tolleranza e fiducia, dove può farsi strada un principio morale: il dovere di difendere il più debole in strada.

Il principio di difesa del più debole in strada, se praticato, si strutturerà stabilmente nelle nostre convinzioni interne e ci risparmierà conflitti quotidiani, ci condurrà a uno stato di armonia tra sentimento e ragione. Utilizzare quotidianamente in strada il nostro ‘potere di bene’ offrirà dei vantaggi anche al donatore: il controllo emotivo, il miglioramento dell’autostima, saranno inibiti i sentimenti di rabbia e colpa, donerà ottimismo. Il principio di difesa del più debole ci farà sentire più giusti, interi e connessi con l’altro.

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