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L’Illusione del rischio zero: la risposta radicale della psiche umana all’incertezza

L’essere umano ha sviluppato vari meccanismi di difesa psichica per affrontare la paura dell’ignoto e per mantenere intatta la salute mentale nei confronti dei paradossi Reali. Tuttavia alcuni di questi meccanismi possono ritorcersi contro il soggetto.

 

In questo articolo si affronta l’illusione del rischio zero, basata sul rifiuto completo della percezione delle eventuali conseguenze di un’azione compiuta.

L’essere umano, sviluppando la capacità di autoconsapevolezza e di autocoscienza, legate alla evoluzione della corteccia insulare, della corteccia cingolata anteriore e della corteccia prefrontale mediale (Riehl, 2012), ha avuto l’opportunità di conoscere sé stesso, i suoi pensieri e l’effetto dell’ambiente che lo circondava. Questo sviluppo neurobiofisico ha favorito lo sviluppo di conoscenze e scienze, che gli permettessero di studiare la sua interiorità, come la filosofia, ma allo stesso tempo lo ha messo di fronte al principale problema: il sapere di non poter dominare l’ambiente e di essere soggetto alle sue mutazioni, soprattutto a quelle impreviste.

Per far fronte a ciò, la psiche umana ha sviluppato vari autoinganni e varie illusioni di certezza per rispondere alla sua impotenza nei confronti della Realtà (Goleman, 1995). Sigmund Freud, in alcuni suoi articoli (1894/1962, 1896/1966), ha identificato queste strategie come meccanismi di difesa, ovvero strumenti mentali attuati per difendere l’equilibrio psichico da pensieri legati al dolore e alla morte. Dunque, come riporta Umberto Galimberti (2018), il padre della psicoanalisi ha illustrato nelle sue teorie come l’apparato psichico dell’essere umano si leghi a vari elementi fisici e non, per creare un’illusione di dominio certo sull’ambiente in apparenza qualificabile e quantificabile.

La letteratura sui meccanismi di difesa è stata poi rivoluzionata da Fenichel (1946) che ha indicato come questi meccanismi possano esser stati una struttura di risposta psicologica all’ambiente per proteggere l’autostima. Sebbene i meccanismi di difesa abbiano un ruolo sano e adattivo nello sviluppo psicofisico dell’individuo, alcuni hanno un effetto boomerang nella società odierna, dovuto alla lentezza dell’evoluzione umana (Gottschall, 2015).

Uno di questi è l’Illusione a rischio zero: come indicato da Gerd Gigerenzer (2014), esso è il negare qualsiasi elemento di rischio in una particolare situazione che, invece, ne comporta il fattore, autoconvincendosi così di vivere in una situazione completamente certa e dominata. Questo meccanismo di difesa permette dunque di avere la sensazione di compiere azioni senza essere soggetti alle conseguenze, attuando quindi l’effetto comportamentale del “prendere la carota senza subire il bastone” (Bernstein, 1990).

Questa illusione è un rimedio che porta confort e sicurezza temporanea, ma la prosecuzione di questo comportamento può comportare, grottescamente se si pensa al suo principio, rischi anche molto gravi: di fatto, la frustrazione derivata dalla esposizione ai fatti del mondo è sana e imprescindibile per la crescita della persona (Castoldi, 2003), poiché ciò permette all’individuo di avere a che fare con le sfide offerte dall’ambiente e dalla stessa società, accompagnandolo in un percorso di maturazione psichica e fisica (Mattson,2014). Il confronto con i propri errori e la frustrazione che ne deriva permettono cambi di prospettiva funzionale e favoriscono lo sviluppo del carattere (Pepin, 2017), oltre ad una sensazione di vivere una vita piena di significato (Toshimasa et al, 2008).

Così, il rifiuto a prescindere di avere a che fare con delle conseguenze negative può portare a conseguenze sul piano fisico e psichico, come ad esempio la scarsa gestione dell’emotività e l’impulsività legata alla ricerca di gratificazione immediata (Baumeister, Heatherton, 1996) ed, in contesti ancora più delicati, lo strutturarsi di comportamenti oppositivi e di rifiuto nei confronti dell’ambiente sociale o comportamenti autolesionistici e anticonservativi. Il già citato Gerd Gigerenzer (2014) propone come soluzione una alfabetizzazione del rischio, ovvero un percorso di rinnovo accademico, psicologico e economico dove, assieme alle principali materie accademiche e lavorative, sia insegnato il principale portfolio conoscitivo e empirico sul calcolo del rischio, non esclusivamente statistico, legato anche a tecniche di sopravvivenza ancestrali e legate al sistema attacco-fuga che hanno ancora validità oggi: Gigerenzer usa come esempio il mancato disastro dell’US Airway 1549, dove la totale mancanza di vittime è stata dovuta ad un calcolo “di pancia” e istintivo da parte del pilota, cosa che non poteva accadere con il calcolo dei computer di volo (pag 34-37).

La sua proposta si trova in accordo con quella di altri studiosi del campo dell’incertezza, come il matematico e filosofo Nassim Nicholas Taleb, il quale, nei suoi testi divulgativi,  illustra come sia fondamentale il tenere in conto che ci possa essere sempre un elemento imprevisto che cambi l’equilibrio, da lui indicato con il nome di cigno nero (Taleb, 2007) e che sia fondamentale avere sempre una componente di risk taking per non essere soggetti passivi di forze esterne, soprattutto dal punto di vista economico-organizzativo (Taleb, 2018).

 

Dorian Gray: il discontrollo del piacere

Il ritratto di Dorian Gray è decisamente un romanzo moderno, capace di evocare riflessioni di estrema attualità e che descrive la personalità di un uomo pericoloso non solo per il prossimo, ma anche per se stesso. La smodata ricerca del piacere è una seducente arma a doppio taglio.

 

La bellezza dei romanzi dei secoli scorsi è rappresentata dalla loro capacità di risultare straordinariamente attuali. Il ritratto di Dorian Gray è di fatto una di quelle storie di immortale fascino celebre per i suoi contenuti. Scritto alla fine dell’Ottocento da Oscar Wilde, questo romanzo affronta, con uno stile narrativo semplice, ma incredibilmente raffinato, tematiche relative al desiderio e al piacere, dalla cupidigia alla lussuria, al flebile senso di colpa fino al completo disinteresse per l’altrui persona e l’evitamento di qualsiasi responsabilità.

Dorian Gray attraversa tutte queste fasi, vive l’esperienza a trecentosessanta gradi, soddisfacendo ogni suo istinto e lasciandosi trascinare da una smodata bramosia che lo condurrà, alle fine del romanzo, ad una fine ingloriosa. Egli infatti, giovane di eccezionale bellezza, viene inizialmente notato dal pittore Basil Hallward che ne fa il suo modello e che lo dipinge in svariate tele fino a creare un ritratto che, a detta dell’artista, possiede al suo interno il massimo della sua espressione artistica. Incuriosito dal soggetto dipinto, Lord Henry Wotton, aristocratico inglese cinico e provocatorio e amico del pittore, esprime il desiderio di conoscere il giovane Dorian, sebbene Basil ne sia all’inizio contrariato; una volta fatta la sua conoscenza, Lord Henry diviene per il ragazzo un esempio di vita da seguire e da imitare, in tutti i vizi e piacere materiali in cui viene trascinato.

Si potrebbe dire che a tratti il ruolo di protagonista dell’opera venga rivestito proprio da Lord Henry, le cui parole risuonano all’interno del romanzo e identificano  al meglio le tematiche affrontate dall’autore. Egli infatti, come diavolo tentatore scettico e indifferente ai valori morali maggiormente seguiti e rispettati al quel tempo, seduce il giovane Dorian con la forza dell’Edonismo, inteso proprio come ricerca ultima del piacere e sommo scopo verso cui protendere nella vita. La celeberrima frase (perdonatemi se aggiungo: alquanto inflazionata!) “Cedere ad una tentazione è l’unico modo di liberarsene” è l’elemento cardine intorno al quale ruota l’intera vicenda e viene pronunciata da Lord Henry all’inizio del romanzo, dopo aver dissertato sulla natura dell’istinto e del soddisfacimento del piacere attraverso il corpo e le azioni. “Ogni impulso che ci sforziamo di strangolare fermenta nella mente e ci intossica” e ancora “Vivete la vita prodigiosa che è in voi! Fate che per voi niente vada perduto. Cercate sempre nuove sensazioni, non abbiate paura di niente…” sono frasi, a mio parere, che racchiudono al meglio la filosofia di questo personaggio, il quale, con seducente dialettica, affascina Dorian che ne sperimenta così pienamente l’essenza.

Una volta presa la consapevolezza del suo mirabile splendore, Dorian Gray inizia a muoversi nell’ambiente aristocratico, di cui fa parte per nascita, travolto dalla libidine sfrenata e dalla noncuranza circa le sue azioni e le conseguenze che i suoi comportamenti hanno sulle altre persone, sprofondando poi nei bassifondi di una Londra tetra, dissoluta, viziosa. Il candore e l’innocenza, che il suo aspetto esteriore lascia trasparire in superficie, è una maschera che nasconde la vera anima di Dorian Gray, un’anima corrotta che si manifesta sulle crepe di quel dipinto straordinario ormai celato allo sguardo altrui.

Dorian Gray: narcisista, psicopatico, machiavellico, un esempio remoto di triade oscura? Senza entrare troppo nel dettaglio, è indubbio quanto Dorian Gray incarni in modo piuttosto preciso alcuni aspetti tipici di individui con tali caratteristiche. Il ragazzo possiede una bellezza sublime di cui prende realmente coscienza solo una volta conosciuto Lord Henry in presenza del dipinto; tuttavia quello stesso ritratto lo mette davanti all’inevitabile destino di qualsiasi essere umano, ovvero l’invecchiamento a causa dello scorrere del tempo che, se confrontato con la perfezione della tela, evoca in lui una terribile sensazione di vergogna e disperazione: “Perché lo hai dipinto? Verrà un giorno nel quale mi schernirà, mi schernirà orribilmente!” sono le parole di forte angoscia da lui pronunciate prima che il suo desiderio di eterna giovinezza venga effettivamente esaudito. Dorian Gray mostra di lì a breve un atteggiamento disprezzante, anticipato ed alimentato dal rapporto di amicizia con Lord Henry, in una sorta di ciclo idealizzante (e talvolta di gemellarità) (Dimaggio e Semerari, 2003), dal quale entrambi colgono piacere.

Il modo in cui abbandona Sybil Vane, la cui unica colpa è quella di non essere sufficientemente meravigliosa agli occhi del ragazzo (“Hai rovinato il romanzo della mia vita”), il quale la punisce selvaggiamente per aver distrutto il sentimento romantico di cui si era nutrito nelle sue fantasie, sottolinea eccezionalmente la freddezza, la totale mancanza di empatia nei confronti altrui e la sola considerazione di se stesso e del suo punto di vista. Con parole di profondo disprezzo conclude la relazione con la giovane donna (la ragazza verrà successivamente trovata morta suicida), il primo vero peccato che si stamperà indelebile sul noto ritratto. Dorian Gray diviene abile, allora, a raccontarsi una storia incredibilmente vantaggiosa per lui che Oscar Wilde descrive con ingegno:

La colpa era della ragazza, non sua. L’aveva sognata come una grande artista, le aveva dato il suo amore perché l’aveva creduta grande, e lei lo aveva deluso, era stata superficiale e indegna. (Wilde O.)

Per mezzo della sua bellezza apparentemente inscalfibile, la sua accentuata abilità di seduttore, lo sfruttamento del prossimo al solo scopo di soddisfare i suoi insaziabili appetiti, Dorian Gray vive nel mondo preoccupandosi esclusivamente dei piaceri più estremi da raggiungere, il tutto senza provare rimorso per nessuna delle sue deplorevoli azioni (addirittura l’omicidio dell’amico Basil) o per l’aver diffuso un sentimento di vergogna tra molte delle donne che, per ottenere il suo amore, hanno sfidato molte convenzioni sociali.

Sappiamo come il romanzo va a concludersi, Dorian Gray disteso a terra davanti al ritratto (tornato al suo originale splendore dopo il tentativo di pugnalare il soggetto dipinto), finalmente autentico nella sua deprecabile essenza di uomo dedito al piacere materiale, godimento sfrenato che lo ha divorato nel profondo.

Del resto “Per lui la bellezza era stata solo una maschera, la giovinezza una beffa” e questo Oscar Wilde lo evidenzia vividamente. Il ritratto di Dorian Gray è decisamente un romanzo moderno, capace di evocare riflessioni di estrema attualità, come accennato nelle prime righe dell’articolo, e che descrive la personalità di un uomo pericoloso non solo per il prossimo, ma anche per se stesso. La smodata ricerca del piacere è una seducente arma a doppio taglio; Dorian Gray non ha di per sé una natura malvagia, diventa in tal modo attraverso l’assidua sperimentazione di situazioni viziose che successivamente lo condannano alla disperazione.

“Qualunque cosa, a farla troppo spesso, diventa un piacere”, Oscar Wilde ci avverte, con il suo stile raffinato, di come possiamo facilmente perdere il controllo delle nostre azioni se, inebriati dal piacere dei sensi, ci lasciamo sopraffare da un istinto famelico che non siamo in grado di padroneggiare e regolare.

 

Gli occhi dell’Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è una forma di demenza molto invalidante ed il quadro clinico che ne consegue è complesso. Il paziente affetto da morbo di Alzheimer sviluppa infatti un declino cognitivo consistente e, in alcuni casi, a questo si affianca anche un disturbo psichico e comportamentale.

 

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza (Vanacore et al). L’Organizzazione Mondiale di Sanità stima infatti che il numero delle persone affette a livello mondiale si aggiri intorno ai 35,6 milioni. Questa patologia causa, a livello anatomico-cerebrale, un accumulo di beta amiloide che, precipitando all’interno della cellula, impedisce la respirazione e ne provoca la morte; al contempo abbiamo i cosiddetti grovigli neurofibrillari, costituiti da gomitoli di proteina TAU fosforilata, che concorrono anche questi alla morte cellulare (Nelson et al). Si ha quindi atrofia nelle zone limbiche, nelle cortecce entorinali, nell’ippocampo, nelle aree associative parietali e temporali.

Il quadro clinico che ne consegue è molto complesso e invalidante. Il paziente affetto da morbo di Alzheimer sviluppa infatti un declino cognitivo consistente in perdita di memoria, disorientamento spazio-temporale, afasia, aprassia, agnosia e deficit esecutivo. In alcuni casi, a questo quadro si affianca anche un disturbo psichico e comportamentale. È quindi facilmente comprensibile quanto possa essere invalidante questa demenza e quanto possa essere drammatica la quotidianità per il paziente affetto e per i suoi cari che giorno dopo giorno assistono impotenti non solo all’avanzamento dell’infermità mentale e fisica, ma anche alla retrocessione di ciò che secondo alcuni costituisce la più profonda essenza dell’essere umano: la sua memoria.

Sul morbo di Alzheimer sono state spese molte parole e molte teorie. La ricerca lavora ormai da decenni per trovare una cura; almeno per il momento però, dobbiamo arrenderci all’idea che ad oggi il progredire di questa malattia non può essere arrestato, al massimo rallentato. Molti film e molti romanzi ci aiutano a capire in cosa consista questa atroce patologia, ma trovo che il contributo più originale e allo stesso tempo più autentico possa essere accreditato al pittore William Utermolhen. Questo artista (1933-2007) fu un americano che passò buona parte della sua carriera a Londra lavorando come pittore. Nel 1995 gli fu diagnosticato il morbo di Alzheimer, ma Utermolhen decise di continuare comunque nel suo lavoro. Così dal 1996 al 2000 dipinse periodicamente un autoritratto. Le opere scaturite sono incredibili.

Notiamo che nel 1996 (l’anno dopo aver ricevuto la diagnosi) l’immagine è abbastanza integra, i tratti sono ben delineati e con confini precisi.

Un anno dopo la situazione era già cambiata. Il viso dell’uomo sembra non avere più una struttura umana, i tratti diventano confusi, imprecisi, la fronte dell’uomo raffigurato è sproporzionata e la figura lascia intravedere l’inizio di un declino cognitivo.

Nel 1998 la figura sembra essere ulteriormente deprivata di elementi. Notiamo infatti che la testa non è più attaccata ad un corpo come lo era stato nei ritratti precedenti, la figura è confusa, i tratti si fanno più grossi.

Nell’autoritratto del 1999 fatichiamo a comprendere che si tratti di un volto. La figura umana sembra essere totalmente disintegrata, non c’è nemmeno un elemento caratteristico del volto umano, rimane unicamente un blando tratto delineatore e l’uso dei colori che notiamo essersi incupiti.

Il disegno del 2000 è l’ultimo autoritratto. L’immagine è straziante, il tratto confuso, i colori spariti e gli occhi minuscoli. L’immagine di sé è ormai disintegrata, scissa, quasi inesistente.

Autoritratti William Utermolhen FIG 1

Figura 1: Autoritratti di William Utermolhen dal 1967 al 2000.

Quello che ci ha lasciato Utermolhen non è una semplice testimonianza di malattia. Utermolhen ci ha dato la possibilità di guardare la realtà attraverso gli occhi del morbo di Alzheimer. Sapevamo già che il paziente affetto da Alzheimer viene colpito da un declino cognitivo, ma credo che mediante questi dipinti sia possibile capire qualcosa in più, forse l’essenza della patologia.

Guardare queste opere ci spinge a riflettere su quanto sia disperata la condizione di demenza. In particolare la depersonalizzazione che questa malattia impone è forse ciò che la rende così crudele. Chi siamo noi senza la nostra memoria? Chi siamo senza la consapevolezza di noi stessi e delle relazioni che abbiamo?

 

Chemioterapia e deficit cognitivi: in cosa consiste il ‘chemobrain’ e come trattarlo

Deficit cognitivi vengono riportati in circa il 50% dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo.

 

I passi in avanti e le scoperte in ambito oncologico sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico, hanno permesso un notevole aumento del grado di sopravvivenza e della qualità della vita, anche in pazienti con tumori metastatici. Si riscontrano però frequenti casi di riduzione del funzionamento cognitivo in pazienti trattati per tumori non correlati al sistema nervoso centrale.

Questi deficit sembrerebbero emergere in particolar modo durante e dopo la chemioterapia, conseguentemente all’impatto a lungo termine della tossicità del trattamento, costituendo un’importante problematica rispetto alla qualità di vita della persona.

Questo fenomeno, chiamato ‘chemobrain’, viene spesso riferito dal paziente che percepisce un cambiamento nelle proprie abilità cognitive, ed è importante distinguere eventuali influenze a carico della modalità di gestione dello stress esperito in questa particolare fase di vita, dall’effettiva presenza di deficit neurocognitivi. Questi deficit vengono riportati nel 50% o più dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo, che induce ad ipotizzare un probabile coinvolgimento di fattori psicologici o una limitata raffinatezza per simili condizioni dei test neuropsicologici attualmente in uso.

Vari studi si sono focalizzati sul senso auto-percepito di una riduzione del funzionamento cognitivo da parte del paziente, ne sono un esempio i risultati ottenuti dai ricercatori del Wilmot Cancer Institute (New York studio) che hanno pubblicato sul Journal of Clinical Oncology uno studio che ha coinvolto 581 pazienti (età media 53 anni) provenienti da vari centri diagnostici statunitensi che lamentavano problemi cognitivi, e 364 donne sane come gruppo di controllo. Ciascuna partecipante ha eseguito un test, il Functional Assessment of Cancer Therapy-Cognitive Function o FACT-Cog, un questionario studiato per valutare sia la percezione personale dell’indebolimento cognitivo sia come questo venga percepito dagli altri. I risultati dello studio hanno mostrato come circa il 45% delle pazienti con cancro al senso sottoposte a chemioterapia manifesti un significativo senso di abbassamento delle prestazioni cognitive rispetto ai controlli (11%), mostrando inoltre la persistenza di queste difficoltà per almeno i 6 mesi successivi al trattamento nel 36,5% dei casi. Dall’osservazione di questi dati non può che emergere l’importanza dell’individuazione precoce di queste criticità al fine di una presa in carico che preveda i trattamenti riabilitativi più adeguati.

Spesso tuttavia, la percezione del proprio funzionamento non correla con la valutazione neuropsicologica e potrebbe essere alterata da fattori quali ansia, depressione, fatica e insonnia. Un’altra possibilità messa in luce dagli studi di neuroimmagine, per spiegare la difficoltà nell’individuare attraverso i test i deficit cognitivi riferiti, potrebbe riguardare il coinvolgimento di regioni del cervello non intaccate dalla patologia e dal trattamento, le quali metterebbero in atto delle strategie compensatorie in grado di condurre, all’interno di un contesto strutturato e privo di distrattori come quello valutativo, ad un punteggio nella norma. Si configura in questo modo la necessità di costruire degli strumenti adeguati che ci permettano di discriminare deficit di questo genere, rivolta alla ricerca futura.

Gli studi, principalmente inerenti il cancro al seno, colon rettale, ovarico e linfoma, mostrano una concordanza rispetto all’emergere dei deficit neurocognitivi, generalmente lievi o moderati e spesso transitori, coinvolgenti i processi di memoria, di attenzione, la velocità di elaborazione e le funzioni esecutive. Ma cosa avviene all’interno del cervello che causi queste modificazioni?

Studi sui modelli animali ci hanno permesso di individuare i meccanismi biologici critici per l’insorgenza dei deficit cognitivi e sembrerebbero orientarci verso l’azione di ciclofosfamide, doxorubicina e 5-fluorouracil sulla produzione di nuove cellule nell’ippocampo che verrebbe da queste sostanze soppressa. Struttura fondamentale per i processi di neurogenesi, nonché per la creazione di nuovi neuroni, l’ippocampo detiene un ruolo fondamentale per il funzionamento cognitivo e la sua compromissione si ripercuoterebbe conseguentemente sulla performance cognitiva. Delle disfunzioni mitocondriali sembrerebbero inoltre coinvolte nella disregolazione dell’attività delle citochine, correlata a deficit particolarmente sensibili ai test per le funzioni del lobo frontale. Un ulteriore fattore in grado di influire negativamente su questi processi è stato indagato da Michelle Monje, neuro-oncologa pediatrica alla Stanford University di Palo Alto in California che si è focalizzata sullo studio degli effetti della chemioterapia sulla microglia. Studiando un farmaco chemioterapico, il metotrexato, comunemente associato a problemi cognitivi a lungo termine, ha individuato nei tessuti cerebrali dei pazienti che avevano ricevuto metrotexato, rispetto a quelli che non l’avevano ricevuto, un’evidente esaurimento degli oligodentrociti ed una maggiore sottigliezza delle guaine mieliniche. Gli oligodendrociti sono delle cellule che svolgono la fondamentale funzione di mielinizzazione dei neuroni del sistema nervoso centrale, forniscono quindi ai neuroni la guaina mielinica, una sostanza che li riveste isolandoli e proteggendoli, ma soprattutto che fornisce loro l’abilità di trasmettere velocemente le informazioni. Una variazione a questo livello potrebbe condurre ad un rallentamento che si ripercuoterebbe sulla sfera cognitiva. Con la prosecuzione dello studio si è tentato di osservare se il trapianto di oligodendrociti sani nel cervello avrebbe portato ad una ripresa del funzionamento; tuttavia, nonostante il tentativo, è stata osservata la medesima disregolazione. La chemioterapia sembrerebbe dunque non agire direttamente sul decadimento e sulla scomparsa di queste cellule ma piuttosto sulla creazione di un ambiente a loro ostile. Ulteriori approfondimenti hanno identificato il metotrexato come agente intaccante la microglia, che come conseguenza a cascata porterebbe alla mancanza di oligodendrociti funzionanti.

Specie negli ultimi anni sono emerse innumerevoli ricerche finalizzate all’estensione della comprensione di queste tematiche, soprattutto in relazione al numero di persone che sembra riscontrarle. Oltre la chemioterapia questi effetti sembrerebbero indotti anche da altri tipi di trattamenti per sconfiggere il cancro, tra cui le terapie ormonali in pazienti con cancro al seno o alla prostata. Rimane tuttavia difficoltoso riuscire a selezionare il fattore causante queste problematiche in quanto vengono spesso affiancate tipologie differenti di presa in carico; l’intervento chirurgico, l’anestesia e la radioterapia sono infatti spesso parte della terapia, rendendo più complesso discernere i vari agenti causali.

Trattamento e presa in carico

Dal punto di vista farmacologico non sono ancora state individuate delle sostanze in grado di interagire con questi aspetti del nostro funzionamento. I trattamenti attualmente adottati riguardano l’attività fisica e cognitiva. Per quanto riguarda l’attività fisica è ormai risaputo l’effetto benefico che essa, in particolar modo l’attività aerobica, sembrerebbe in grado di sortire a livello strutturale e funzionale del cervello. Sembrerebbe infatti in grado di stimolare la neurogenesi, portando ad un aumento del volume di aree quali l’ippocampo e la corteccia prefrontale dorso laterale migliorando conseguentemente la formazione e il mantenimento di nuovi ricordi e le abilità correlate alle funzioni esecutive (shifting, problem solving, pianificazione ecc.). Ulteriori studi hanno inoltre osservato l’effetto benefico di attività quali lo yoga, il Qigong e il Tai Chi, che condurrebbero miglioramenti sul funzionamento della memoria, sul senso di fatica e sulla qualità della vita.

Per quanto riguarda invece la sfera cognitiva è possibile intervenire attraverso un percorso che preveda una valutazione neuropsicologica in grado di individuare dettagliatamente e approfonditamente il deficit esperito, da trattare in un secondo momento con esercizi mirati. Attraverso l’individuazione degli esercizi più appropriati in base alla funzione in questione, sarà possibile impostare un trattamento di riabilitazione cognitiva finalizzato al recupero delle funzioni cognitive deficitarie.

È in questi casi pertanto indicato rivolgersi ad un neuropsicologo che prenda in carico il caso, occupandosi degli aspetti diagnostici e riabilitativi.

 

Le capacità percettive degli arbitri fra simulazioni, azioni improprie e diverbi fra giocatori

Gli arbitri di calcio che dirigono le partite hanno una grande responsabilità: essi, infatti, devono prendere circa 137 decisioni nel corso dei novanta minuti della partita.

 

Queste decisioni riguardano la corretta applicazione delle regole di gioco. Uno dei compiti peculiari dell’arbitraggio è quello di stabilire quando il giocatore commette un’azione fallosa e che tipo di penalità assegnare. Connessa a tale responsabilità, c’è quella di dirimere le situazioni ambigue, ovvero fare in modo che la penalità sia assegnata al giocatore che è l’artefice del fallo, piuttosto che alla vittima del fallo stesso.

Nel contesto della partita, quindi, è importante accorgersi precocemente delle azioni scorrette che vengono compiute da qualche giocatore ai danni di qualcun altro. Gli arbitri dovrebbero essere formati maggiormente per notare tempestivamente le azioni scorrette, utilizzando dei filmati di partite, per prevenire le eventuali dispute che potrebbero sorgere nel corso del match. Ciò si può realizzare incrementando con un training percettivo la capacità di essere accurati, che consiste nell’eliminare gli elementi superflui dal campo percettivo per essere in grado di rilevare anche i minimi dettagli, necessari per decidere correttamente.

Keywords: arbitri di calcio, falli, simulazioni, training percettivo.

 

Gli arbitri di calcio che dirigono le partite hanno una grande responsabilità: infatti, come differenti studi hanno dimostrato (Helsen e Bultynch, 2004), essi devono prendere circa 137 decisioni nel corso dei novanta minuti della partita. Queste decisioni riguardano la corretta applicazione delle regole di gioco.

L’azione dell’arbitro risente dei riverberi che i vari soggetti sociali esercitano. Di fatto, l’attività arbitrale viene continuamente analizzata dai giocatori, dai tifosi che assistono alla partita nello stadio e da quelli che la guardano in televisione.

Uno dei compiti peculiari dell’arbitraggio è quello di stabilire quando il giocatore commette un’azione fallosa e che tipo di penalità assegnare. Connessa a tale responsabilità, c’è quella di dirimere le situazioni ambigue, ovvero fare in modo che la penalità sia assegnata al giocatore che è l’artefice del fallo, piuttosto che alla vittima del fallo stesso.

Nel contesto della partita, quindi, è importante accorgersi precocemente delle azioni scorrette che vengono compiute da qualche giocatore ai danni di qualcun altro (Canãl – Bruland, 2017). Spesso queste condotte danno origine a dispute verbali fra i giocatori delle squadre rivali, nelle quali uno sportivo accusa l’altro per il comportamento scorretto. In questo frangente, tocca all’arbitro dirimere la contesa, adoperandosi in modo da farla terminare e, soprattutto, evitare si ripercuota negativamente sulla partita. Talvolta questi scontri verbali degenerano fino ad arrivare a delle lotte corpo a corpo, connotate dalla violenza fisica. L’abilità dell’arbitro, quindi, è quella di prevenire tali episodi, accorgendosi subitaneamente dei comportamenti scorretti e, quindi, sanzionarli per evitare che degenerino in litigi verbali o fisici.

Già i giocatori di lunga esperienza sono esperti nel rendersi conto delle azioni ingannevoli compiute dai giocatori avversari con l’intento di far commettere un’azione fallosa ai rivali. Essi sono capaci di percepire questi tranelli e di non cadere in tali trappole (Jackson e al., 2006).

Questa competenza è presente anche negli arbitri di provata esperienza. A questo riguardo una ricerca di Renden e al. (2014) ha confrontato tale capacità degli arbitri con quella dei giocatori, facendo vedere loro dei filmati di alcuni match con l’obiettivo di accorgersi dei comportamenti scorretti e ambigui. Lo studio ha stabilito che sia i giocatori di lunga esperienza che gli arbitri con un numero maggiore di partite arbitrate sono capaci di rendersi conto precocemente delle azioni scorrette, con una prevalenza maggiore da parte dei giocatori.

Questo suggerisce che gli arbitri dovrebbero essere formati maggiormente per notare tempestivamente le azioni scorrette, utilizzando dei filmati di partite, per prevenire le eventuali dispute che potrebbero sorgere nel corso del match (Louis del Campo e al., 2018). Ciò si può realizzare incrementando con un training percettivo la capacità di essere accurati, che consiste nell’eliminare gli elementi superflui dal campo percettivo per essere in grado di rilevare anche i minimi dettagli, necessari per decidere correttamente (Put e al., 2016; van Biermen e al., 2018).

In conclusione, nella formazione dell’arbitro devono trovare posto i training percettivi con la finalità di aiutare il direttore di gara a focalizzare la sua attenzione sugli elementi rilevanti che possono permettere di prevenire le simulazioni e le azioni improprie compiute dai giocatori.

 

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto (2019) di Antonioli, Carolo, Morosini e Pezzolo – Recensione del libro

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto analizza in modo accurato la fenomenologia del maltrattamento e dell’abuso, prestando attenzione al nostro tempo storico e sociale e tenendo conto del lavoro integrato di più professionisti e delle criticità del percorso di accoglienza del minore.

 

 Vedo, Ascolto, Parlo… Ti Aiuto è un libro  che affronta il tema del maltrattamento e dell’abuso dell’infanzia cercando, sin dall’inizio, di posizionare lo sguardo sui bisogni di ascolto e comprensione dei bambini che vivono queste esperienze e sull’importanza e la necessità, per tutti gli operatori che intervengono nelle diverse situazioni di ascolto, di superare un “atteggiamento, ancora purtroppo diffuso, di disinteresse, silenzio, delega, negazione, fuga”.

Questa posizione è contenuta sin dal  titolo del libro, che ribadisce il concetto ribaltando la metafora delle tre scimmiette “Non vedo, non sento, non parlo” nella dichiarazione “Vedo, ascolto, parlo…(e) Ti aiuto”.

Il libro si apre con la presentazione di Gloria Soavi, presidente del Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’infanzia) che sottolinea l’importanza di una politica nazionale di prevenzione del maltrattamento, richiamando le direttive WHO, e prosegue con l’approfondimento del tema secondo quattro parallele linee direttrici: la prima di analisi e definizione del concetto di maltrattamento e abuso, la seconda di esplorazione delle nuove emergenze di maltrattamento, la terza di descrizione del percorso psico-sociale istituzionale di ascolto e di aiuto del minore e, infine, la quarta di analisi del risvolto giuridico con riferimento alle azioni di denuncia, segnalazione e referto e dell’ascolto protetto su mandato dell’Autorità Giudiziaria.

La prima linea di riflessione si concentra sulla definizione di maltrattamento e sulla complessità della comunicazione approfondendo le diverse tipologie di situazioni dalla rivelazione diretta alla comunicazione indiretta. La rivelazione è considerata il momento attraverso cui il bambino, grazie all’incontro con un operatore che raccoglie la sua storia, può dare voce agli eventi vissuti e iniziare il percorso di cura. Successivamente l’attenzione è posta sulle diverse tipologie di maltrattamento, dalla trascuratezza, al maltrattamento fisico, alla violenza assistita, sino all’esplorazione della definizione di abuso sessuale e dell’analisi del contesto in cui si compie, premessa per la valutazione psicologica e relazionale della vittima e per l’analisi e scelta del percorso terapeutico per la cura del trauma.

La seconda linea di riflessione affronta il tema delle nuove forme ed emergenze della violenza sui minori: dall’abuso in rete, al cyberbullismo, all’analisi dei minori autori di reato, alla violenza nelle migrazioni.

Sul tema dei minori autori di reato, dopo una presentazione teorica delle principali prospettive di analisi in ambito clinico e psico-sociale, si analizza il ruolo e gli atteggiamenti dei genitori di un figlio minorenne abusante: dall’estrema situazione di adesione formale al progetto, agli atteggiamenti di negazione, banalizzazione, ma soprattutto di evitamento delle problematiche familiari passate e presenti. L’attenzione è posta sulla difficoltà di accedere ad una mentalizzazione delle esperienze e dei sentimenti  legati agli eventi agiti dal figlio, con la diretta conseguenza di impedire anche a lui di avvicinarsi.

Sul tema dei minori migranti si descrivono in modo accurato gli aspetti invisibili del maltrattamento: da quelli che non sono  osservati e dichiarati dai mass media, a quelli connaturati con la migrazione stessa, come lo sradicamento, la perdita dell’appartenenza, dell’identità, della propria storia, sino a quelli annunciati ancor prima di iniziare la migrazione, come la violenza sulle donne o tra gli adulti, o nei vari punti di passaggio da un paese all’altro. La descrizione della complessità psicologica, sociale e culturale della migrazione dei minori e dei loro bisogni è accompagnata dalla presentazione di testimonianze che raccontano le drammatiche situazioni vissute nell’attraversamento di paesi, di deserti e di mari.

La terza linea di riflessione si concentra sul percorso istituzionale della presa in carico ribadendo l’importanza di un modello integrato e multidisciplinare di lavoro tra gli operatori: dalla terapia neuro-psicomotoria (quando manca la parola), all’intervento educativo e di prevenzione, sino ad un’interessante approfondimento sul tema del maltrattamento istituzionale, in cui vengono analizzate le problematiche amministrative-burocratiche che intervengono a esaltare o esacerbare situazioni già complesse di gestione del caso.

La riflessione che attraversa questo capitolo è centrata sul valore dell’integrazione professionale nel lavoro psico-sociale di prevenzione e cura e sulla necessità di un intervento multidisciplinare nella presa in carico del minore e della famiglia. A questo proposito viene presentata l’esperienza dei Girasoli dell’ Ulss 6 Euganea – Padova, l’équipe specialistica di contrasto al maltrattamento e all’abuso. Il modello proposto è realizzato anche in altre cinque équipe provinciali ed è stato attivato nel 2004 come parte di un progetto della Regione Veneto.

Conclude l’elaborazione un’appendice giuridica che analizza i temi della denuncia, segnalazione e referto nella comunicazione  di un reato perseguibile d’ufficio, analizzando le competenze degli operatori, dei servizi pubblici e degli operatori sanitari liberi- professionisti.

Il libro è accompagnato da alcune schede operative, concepite come una cassetta degli attrezzi, che permettono all’operatore di avere a portata di mano definizioni concettuali e strumenti metodologici nel lavoro psico-sociale: come ascoltare la rivelazione verbale, le tipologie di maltrattamento, la definizione dell’abuso sessuale, riconoscere e definire gli abusi digitali, riconoscere un minore autore di reato, la segnalazione e il percorso istituzionale, un facsimile per la segnalazione al dirigente e alla Procura della Repubblica.

Tra i diversi meriti delle autrici nell’analisi proposta nel libro è d’obbligo sottolineare quello di aver analizzato in modo accurato la fenomenologia del maltrattamento e abuso, prestando attenzione al nostro tempo storico e sociale; di aver valorizzato l’importanza di un approccio integrato di ascolto e presa in carico del minore; di aver sottolineato il valore di un modello di  “condivisione di pensieri e sguardi professionali differenti”  per un lavoro di accoglienza, ascolto, sostegno e cura attento al bambino vittima di maltrattamento; di aver ribadito la necessità di condividere modelli teorici di analisi del fenomeno e strumenti operativi in grado di guidare il lavoro dei diversi professionisti; e, infine, di aver sottolineato le criticità del percorso di accoglienza del minore, senza rinunciare alla descrizione dei processi e progetti per gestirle e superarle.

Ultimo, ma non ultimo, è la scelta dello stile di scrittura delle autrici che, attraverso un linguaggio chiaro ma tecnico-professionale e la presentazione di situazioni e flash reali, ha reso il libro uno strumento utile per tutti coloro che desiderano conoscere con competenza e profondità la realtà del maltrattamento nell’infanzia, in special modo per coloro che incontrano bambini e ragazzi (insegnanti, volontari, animatori, allenatori sportivi, catechisti, sacerdoti…).

Vedo, Ascolto, Parlo…Ti Aiuto  è un bel libro che descrive il delicato percorso della cura e che individua “nell’ascolto il principio dell’aiuto”. Vedo, ascolto, parlo….Ti Aiuto!

 

La ripresa dell’attività sessuale post-partum tra pazienti OASIS: differenze tra parto spontaneo e parto vaginale operativo

Le lesioni ostetriche dello sfintere anale (OASIS) sono lacerazioni perianali che possono avvenire in seguito al parto vaginale e comportano conseguenze anatomiche e funzionali che possono influenzare notevolmente l’attività e la funzione sessuale.

 

Lo scopo del presente studio era indagare la ripresa dell’attività sessuale e le variabili che influenzano questa attività a sei mesi dopo il parto, in pazienti con o senza OASIS, analizzati in base alla modalità di parto: parto spontaneo (SD) o parto vaginale operativo (OVD). Nello specifico, il parto vaginale operativo prevede l’applicazione alla testa del feto del forcipe o di una ventosa per gestire la seconda fase del travaglio e facilitare il parto.

La ricerca era di tipo osservazionale, trasversale e case-control, in cui erano presenti due gruppi: il gruppo sperimentale (costituito dalle donne con una storia di OASIS) e il gruppo di controllo (composto dalle donne senza una storia di OASIS). Il campione finale comprendeva 318 donne: 140 con OASIS primaria riparata e 178 donne senza OASIS. Sono stati raccolti dati demografici e ostetrici, allattamento al seno e sintomi di incontinenza urinaria e anale. Le pazienti sono state interrogate sulla ripresa dell’attività sessuale e hanno completato il questionario self-report specifico per i disturbi del pavimento pelvico nelle donne, ossia il prolasso degli organi pelvici e l’incontinenza urinaria: il Pelvic Organ Prolapse/Urinary Incontinence Sexual Questionnaire-12 (PISQ-12).

In generale, i risultati mostrano che la percentuale di pazienti con ripresa dell’attività sessuale a sei mesi dal parto era del 73%, senza differenze statisticamente significative tra i gruppi OASIS rispetto a quelli non OASIS. Tuttavia, sono state osservate delle differenze importanti quando è stata considerata la modalità del parto. Tra le donne senza OASIS che hanno avuto un parto spontaneo, il 98% ha ripreso il rapporto intimo a sei mesi dopo il parto. Sorprendentemente, dopo un OVD, il gruppo OASIS sembra riprendere l’attività sessuale prima del gruppo non OASIS. Questi risultati sono stati confermati confrontando le due diverse modalità di parto, indipendentemente dalla storia di OASIS, osservando che le donne con SD hanno ottenuto punteggi PISQ-12 più alti rispetto a quelli con OVD. Infine, per quanto riguarda l’influenza delle variabili demografiche e cliniche prese in considerazione, il modello di regressione logistica multivariata ha mostrato che solo l’età materna al momento del parto ha ottenuto un punteggio statisticamente significativo nella percentuale della ripresa dell’intimità; nello specifico le donne con età maggiore mostrano la percentuale più bassa. Inoltre, l’analisi ha mostrato che un parto vaginale operativo, rispetto a quello spontaneo, ha un’influenza negativa sul punteggio del questionario in relazione all’allattamento al seno. Questi risultati suggeriscono un evidente ruolo dello stato ormonale e di altri fattori soggettivi nella funzione sessuale post-partum.

Studi recenti hanno evidenziato che l’uso dell’episiotomia medio-laterale è associato ad una riduzione del tasso OASIS, in donne primipare e non. L’episiotomia è l’incisione della vulva e del perineo per ampliare il fondo della vagina e l’anello di tessuto perineale, finalizzata ad accorciare la seconda fase del parto e prevenire la produzione di rotture di terzo e quarto grado che richiedono una più complessa incisione chirurgica dopo l’intervento, ed ha un postoperatorio più difficile e doloroso. Allo stesso tempo, essa si utilizza per evitare un eccessivo allungamento dei muscoli del perineo, che a lungo tempo potrebbe provocare un prolasso genitale e incontinenza urinaria.

Inoltre, anche il peso del neonato è stato considerato un fattore di rischio per l’OASIS e, quindi, le donne con OASIS hanno partorito neonati più grandi di quelli senza OASIS. Infine, lo studio dimostra che la strumentazione utilizzata nel parto vaginale operativo provoca il più importante danno al pavimento pelvico, soprattutto nelle donne primipare e anche il tipo di strumento usato (es. forcipe o pinza) sembra essere significativamente correlato alla funzione sessuale.

Altri fattori di rischio che potrebbero influenzare la ripresa del rapporto intimo sono l’incontinenza urinaria e anale (fuoriuscita incontrollata di feci o gas, spesso presente nelle donne dopo il parto); pertanto, le donne con OASIS e sintomi di incontinenza urinaria (UI) e anale (AI) più gravi, hanno riportato una funzione sessuale peggiore dopo il parto e dopo il ritorno all’intimità. Infatti, indipendentemente dall’OASIS, anche i sintomi dell’IA sono stati associati a disturbi sessuali. Nel presente studio, è stato riscontrato che il danno perineale che causa sintomi di IA dovuti ad OASIS, o OVD senza OASIS, sembra avere una maggiore influenza sulla ripresa dell’attività sessuale.

Nonostante l’elevata prevalenza di sintomi di disfunzione del pavimento pelvico a sei mesi dopo il parto, compresi i disturbi sessuali, le donne spesso evitano di cercare un aiuto professionale a causa dell’imbarazzo e, solo una piccola percentuale di donne con AI, riferisce questi sintomi ad un medico di medicina generale o ad un reparto di uroginecologia.

Una prospettiva futura del presente studio potrebbe essere l’estensione del periodo del follow-up e l’approfondimento delle domande effettuate alle pazienti, non limitandosi soltanto a chiedere se e quando è avvenuta la ripresa dell’attività sessuale. Sarebbe stato interessante includere nel campione anche donne che hanno effettuato un cesareo, e quindi un’ulteriore modalità di parto. La ricerca ha diversi limiti: essendo uno studio case-control, non è stato possibile calcolare la prevalenza dei sintomi nei sottogruppi di pazienti e, a causa della trasversalità dello studio, non sono state ottenute informazioni su potenziali disfunzioni sessuali e disturbi della salute mentale prima e durante la gravidanza o in relazione ad altri fattori sociali e psicologici. Anche l’uso del questionario scelto per la ricerca potrebbe essere considerato un limite, in quanto è specifico per l’incontinenza urinaria ma non per l’incontinenza anale, per cui si potrebbe approfondire questa condizione e la sua influenza nel rapporto intimo. Inoltre, l’aggiunta dell’indice di funzione sessuale femminile o un’intervista face-to-face semistrutturata, anziché una singola misurazione del funzionamento sessuale con PISQ-12, avrebbe fornito una valutazione più valida e più completa del funzionamento sessuale. I principali punti di forza, invece, sono le grandi dimensioni del campione e l’analisi dettagliata in base alla modalità di parto, incluso un gran numero di parti con il forcipe.

In conclusione, una storia di OASIS ritarda la ripresa dell’attività sessuale tra le donne con SD. Tuttavia, una storia di OVD sembra avere un impatto maggiore su tale decisione, riflettendo in tal modo gli effetti a lungo termine di gravi traumi perineali e pelvici sulla sessualità post-partum.

 

Le insidie dell’empatia

Uno dei tentativi di superare l’impasse della debolezza dei modelli terapeutici, sviluppatosi negli ambienti della psichiatria fenomenologica e mutuato mano a mano da tutti gli orientamenti terapeutici, parte dal presupposto che l’altro resti sempre irraggiungibile alla comprensione razionale, però il suo mistero possa essere esplorato e carpito attraverso una nuova modalità, diventata via via sempre più pervasiva, accettata e considerata imprescindibile: l’empatia.

 

Il XX secolo è stato senza dubbio il periodo d’oro della psicoterapia: sono nati e si sono sviluppati e articolati moltissimi modelli, ognuno dei quali ha coltivato più o meno esplicitamente l’aspettativa quanto non la pretesa di descrivere il funzionamento della psiche, fornire una teoria esplicativa della patologia e decodificare i sintomi, predefinire i possibili percorsi terapeutici (arrivando all’estremo della manualizzazione delle terapie).

In quegli anni abbiamo assistito ad una fioritura di teorie, alcune delle quali cercavano un rapporto diretto con la biologia e la medicina rincorrendo il paradigma scientifico, altre invece rivendicando l’irriducibilità dell’umano al linguaggio scientifico, altre ancora alla ricerca di una qualche mediazione tra questi estremi. Un dato che accomunava tutti i modelli era l’estrema ricchezza della produzione teorica, che ha permesso l’elaborazione di teorie raffinate e minuziose sul funzionamento della psiche e sui meccanismi d’azione delle varie terapie, da un lato, e dall’altro ha svolto sotto traccia una funzione di rassicurazione del terapeuta nell’esercizio della propria professione, fornendo mappe e indicazioni per facilitare l’orientamento che espongono anche al rischio di essere utilizzate come schermo, creando un comodo e insidioso cuscinetto tra sé e l’altro.

Questa condizione non è durata a lungo: negli scorsi decenni il paradigma postmoderno ha fatto piazza pulita di questo atteggiamento positivo, demistificando il valore oggettivo delle teorie psicologiche (valide al massimo come più o meno utili costruzioni metaforiche) e lasciando di fatto il terapeuta senza appigli certi di fronte all’altro da sé. Una prima risposta a questa crisi epistemologica prima che clinica è stata la rincorsa ai “modelli integrati”, nella convinzione che mettere insieme letture diverse della realtà che singolarmente mostravano delle fragilità avrebbe permesso a queste di sostenersi a vicenda. Questa “moda” è tramontata tanto rapidamente quanto si era affermata, e questo non è affatto sorprendente: perché un’integrazione sia autentica, il primo evento che deve darsi è il contatto, ovverosia l’apprezzamento delle differenze, mentre invece questi tentativi partivano dal riconoscimento dei fattori comuni e mettevano insieme cose diverse con un atteggiamento epistemologico quantomeno discutibile.

Un altro tentativo di superare l’impasse della debolezza dei modelli terapeutici, sviluppatosi negli ambienti della psichiatria fenomenologica e mutuato mano a mano da tutti gli orientamenti terapeutici, fino ad interessare la psicoanalisi e alcune correnti del cognitivismo, parte dal presupposto che l’altro resti sempre irraggiungibile alla comprensione razionale, però il suo mistero possa essere esplorato e carpito attraverso una nuova modalità, che è diventata via via sempre più pervasiva, universale, accettata praticamente da tutti e da tutti considerata imprescindibile: è entrata in scena l’empatia.

Empatia e Filosofia

L’empatia è un concetto mutuato dalla filosofia a prima vista molto semplice: è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, sentire quello che l’altro sente, vivere quello che l’altro vive, conoscere i vissuti dell’altro come se fossero i propri. In qualche modo, l’empatia arriva a sopperire alla fragilità dei modelli terapeutici, garantendo la possibilità che l’esistenza dell’altro possa schiudersi davanti al terapeuta solo mediante una modifica della qualità dell’ascolto e del modo d’essere in relazione.

Nell’indagine filosofica sull’empatia, gli autori di riferimento sono Edith Stein e Max Scheler. Leggendo il libro della Stein si resta abbastanza colpiti dal fatto che il punto di partenza della filosofa sia un elogio al principio di riduzione fenomenologica della realtà, fondato sulla messa in discussione di tutto ciò di cui si può dubitare finché non restano solo i dati certi dell’esperienza, e poco dopo si dia per certa l’esistenza dell’empatia:

…dall’espressione del volto e dai gesti degli altri non solo so quel che vedo, ma anche quel che si nasconde nel loro intimo: così, ad esempio, sono in grado di vedere quando uno è triste dall’espressione del suo volto, anche nel caso in cui non provi un sincero sentimento di tristezza […] tutte queste datità relative all’esperienza vissuta estranea rimandano ad un genere di atti nei quali è possibile cogliere la stessa esperienza vissuta estranea. Su tali atti si basa quella particolare conoscenza che vogliamo ora indicare col termine empatia

La Stein descrive nel corso del libro le caratteristiche dell’atto empatico, senza mai metterlo in discussione: nell’atto empatico il soggetto si traspone nel vissuto dell’altro, vivendo quello che l’altro vive anche se non esattamente come se fosse l’altro (e questa è la principale differenza tra la Stein e i sostenitori dell’empatia ingenua, come Lipps).

Il punto di vista di Scheler è assai differente:

Nel capire ciò che l’altro prova noi cogliamo ancora, emotivamente, la qualità dell’emozione altrui senza che questa si trasferisca in noi o che si produca in noi un’identica emozione reale

All’empatia, contrappone un atteggiamento che lui chiama “simpatia”:

la simpatia non indica l’identità essenziale delle persone… l’autentica simpatia presuppone addirittura (come ultimo fondamento anche della differenza della loro reale esistenza) la pura differenza essenziale tra le persone

L’atteggiamento nella simpatia è caratterizzato pertanto dal simultaneo patire con l’altro ed essere in contatto con sé stessi.

Empatia e Neuroscienze

Esiste un filone di ricerca molto interessante, nell’ambito delle neuroscienze, che a prima vista ha molto a che vedere con l’empatia: la scoperta e lo studio dei neuroni specchio. Detto sinteticamente, è stato dimostrato che ogni essere umano ha dei neuroni (chiamati appunto “neuroni specchio”) che si attivano quando osservano un altro essere umano compiere un determinato movimento o provare una determinata emozione, nelle stesse aree cerebrali in cui si attivano nell’altro.

Questa attivazione neuronale è stata riscontrata e studiata per diverse attività umane, sia motorie che emozionali, tanto da far ipotizzare che questo processo possa essere anche alla base dei processi di apprendimento: il libro “Specchi nel cervello” compie una una disamina dello stato delle ricerche in questo campo.

Questi studi sono utilizzati dai sostenitori dell’empatia come delle prove a supporto di una base scientifica dei processi empatici, basati appunto sull’attività dei neuroni specchio. Il problema è che, facendo questo, si stabilisce un’analogia tra una singola emozione e il vissuto che la accompagna: l’empatia non permetterebbe solo di entrare in risonanza con un’emozione, percependola anche in sé, ma farebbe molto di più, permettendo al terapeuta di “vivere il vissuto dell’altro”, mentre negli studi sopra citati queste inferenze vengono esplicitamente negate:

la piena comprensione delle forme vitali altrui non è mai stata oggetto di indagine a livello sperimentale, né vi sono a tutt’oggi compiti di mentalizzazione disegnati espressamente per investigare l’attribuzione di stati mentali concernenti la forma o lo stile delle azioni (o delle reazioni emotive) osservate

Dalla sua comparsa nella scena della psicoterapia, l’empatia ha avuto pochi critici nel campo delle psicoterapie dinamiche ed esistenziali. Tra questi, va’ certamente ricordato Fritz Perls, il fondatore della Terapia della Gestalt, che su questo tema ha preso una posizione molto netta:

Ci sono di solito tre strade aperte al terapeuta, a prescindere dalla sua tendenza personale o dal suo approccio teorico. L’una è la simpatia o il coinvolgimento nel campo totale – la consapevolezza sia di sé che del paziente. L’altra è l’empatia: una specie di identificazione col paziente che esclude il terapeuta dal campo ed esclude pertanto metà del campo. Nell’empatia, l’interesse del terapeuta si accentra esclusivamente sul paziente e sulle sue reazioni. Infine c’è l’apatia, il disinteresse… evidentemente l’apatia non ci porterà da nessuna parte. […] il terapeuta che trattiene se stesso, per empatia col paziente, priva il campo del suo strumento principale: il suo intuito e la sua sensibilità verso i processi in atto nel paziente.[…] non ci può essere alcun contatto vero nell’empatia. Al peggio diventa confluenza.

Perls invita dunque il terapeuta a non cercare scorciatoie e ad essere, all’interno della relazione terapeutica, una persona reale, con i propri vissuti, la propria intuizione, le proprie caratteristiche, che incontra un’altra persona reale.

Esaminati i presupposti filosofici e i tentativi di giustificazione biologica (tra l’altro, è un po’ paradossale che si cerchi una legittimazione scientifica in ambienti che della non scientificità della psiche e della psicoterapia hanno fatto una bandiera ideologica), resta il sospetto che attorno all’empatia si aggirino due punti ciechi dell’attività terapeutica: l’onnipotenza narcisistica (nella presunzione di non aver bisogno di mappe per esplorare il territorio dell’altro, per quanto approssimative, ma di poterlo cogliere direttamente nella sua essenza) e la distanza dalla relazione con l’altro (se c’è solo l’altro, il terapeuta e i suoi vissuti sono al di fuori e quindi al sicuro dalla contaminazione emotiva dell’altro da sé).

 

Nessuno si salva da solo: il tradimento, la terapia di coppia, il perdono?

Nessuno si salva da solo narra di un amore ai tempi della crisi, dipingendo la realtà di una generazione che nasce e cresce fra il crollo del Muro di Berlino e l’11 settembre. Sin dalle prime scene si punta l’accento sulla disgregazione di un matrimonio da analizzare, e forse da recuperare, nel corso di una sanguinosa battaglia.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

 Nessuno si salva da solo è il racconto del sentimento amoroso, visto come forza capace di spezzare i vincoli delle barriere sociali. I due protagonisti provengono da ambienti differenti: Delia (Jasmine Trinca) è una biologa nutrizionista, una donna della middle class, ansiosa e seriosa, mentre Gaetano (Riccardo Scamarcio) è uno sceneggiatore di programmi televisivi, un provinciale di Ostia, bonario e semplice. Lui dinamico e dotato di una certa verve umoristica, lei assillata dalla sue nevrosi: è proprio questo incontro di caratteri, visioni del mondo e ambienti diversi, a fare del film un ritratto intimo e personale.

Gaetano e Delia sono una coppia separatasi anche a causa di un tradimento, che si incontra al ristorante per decidere come suddividere le vacanze con i figli. La visione del film ci porta a immergerci a capofitto dentro il dolore vivo del disfacimento di una storia d’amore, una storia di vita, frutto di due vite che intrecciandosi, si narrano da sole, e che arrivano allo scontro quando inizia la crisi coniugale. Dal film ben arriva l’accelerazione improvvisa di certi scontri, una sequela di frasi fatte, insulti coloriti, discussioni, buche di percorso in cui si cade quasi tutti, e quasi tutti allo stesso modo.

La coppia di protagonisti è tutto il film, satura la storia, ci sono solo loro, tutti gli altri sono sullo sfondo. Una storia come altre di due persone come altre in un’epica del quotidiano, due “imbecilli depressi”, loro stessi così si definiscono, dove la loro imbecillità e soprattutto la loro depressione è figlia e segno dei tempi, che instillano sfiducia e dispensano umiliazioni difficili da reggere.

Nessuno dei due ha il beneficio di scene in cui sviluppare una propria personalità senza che questa non sia funzionale all’armonia o al contrasto con l’altra. I protagonisti non esistono se non in funzione l’uno dell’altra, questo li rende vitali e sinceri anche in momenti molto “scritti” come la conversazione su Mike Tyson, in cui si parla di qualcosa per intendere tutt’altro (il tradimento).

In Nessuno si salva da solo si comincia quasi dalla fine, con il presente che scivola continuamente nel passato in modo naturale, fluido. Come per i pensieri e per la vita stessa, non esiste un ordine cronologico, non ci sono spiegazioni razionali. C’è l’emozione – filmata da una macchina da presa danzante – la rabbia e l’insofferenza; c’è la poesia contemplativa di un matrimonio sulla spiaggia e c’è quel piccolo appartamento disordinato in cui si sommano l’irrequietezza di una donna borghese che ha risposto all’eccentricità familiare con l’anoressia e la semplicità sana ma inconcludente di un uomo che un po’ si vergogna di due genitori che cantano a squarciagola “1950” di Amedeo Minghi.

Sergio Castellitto alla sua quinta prova per il cinema e alla terza trasposizione di un testo della moglie Margaret Mazzantini, propone una pellicola che narra un amore ai tempi della crisi, la rabbia che nasce dalla creatività frustrata di Gaetano, oramai asservitosi alle logiche della fiction di bassa qualità per rispondere alle difficoltà di mandare avanti una famiglia. In questo film, dotato di un tempismo sorprendente rispetto alla realtà di una generazione che nasce e cresce fra il crollo del Muro di Berlino e l’11 settembre, il regista stringe sin dalle prime scene sulla disgregazione di un matrimonio da analizzare e forse da recuperare nel corso di una battaglia combattuta davanti a una tavola apparecchiata in un ristorante e la volontà di scavare nella rabbia e nella frustrazione contemporanee senza indietreggiare. Lo spettatore incontra qui Delia e Gaetano, seduti al tavolo del ristorante, pieni di rabbia e risentimento, e con loro, poco a poco, ripercorre a ritroso la loro storia d’amore, che copre una vasta gamma di momenti: innamoramento, passione, progettualità, gelosia, traumi ed il tradimento che stravolge e ribalta equilibri e certezze.

La vita di coppia può essere sconvolta dal tradimento e quando lo si scopre spesso si mettono in atto delle modalità relazionali che minano la stabilità di ogni membro, si crea una frattura, la comunicazione diventa problematica e incomprensibile, la stabilità, la fiducia, le certezze, la lealtà vacillano. Tra le possibili cause di un tradimento verosimilmente possiamo annoverare la presenza di modalità relazionali che, nel corso del tempo, possono aver gravato sul rapporto, basate sostanzialmente sull’assenza, sul sacrificio, sull’evitamento: assenza di intimità nella vita di coppia; assenza di solidi confini che preservino la coppia da ingerenze esterne, come anche assenza di specifici spazi e tempi che appartengano alla sola coppia; il sacrificare le proprie esigenze personali allo scopo di dare vita ad un’unione ideale; la tendenza ad evitare i conflitti lasciandoli aperti ed irrisolti (Fiore, 2011).

In uno studio statunitense si è cercato di verificare i fattori individuali e di relazione che accompagnano l’infedeltà. Sono state esaminate le qualità di individui e coppie che si differenziano tra loro per la presenza (n = 19) e l’assenza (n = 115) di infedeltà, reclutate da uno studio clinico randomizzato di terapia coniugale. I risultati hanno indicato che le coppie infedeli hanno mostrato maggiore instabilità coniugale, disonestà, discussioni sulla fiducia, narcisismo e tempo trascorso separatamente. Il genere è emerso come un moderatore significativo di diversi effetti: gli uomini infedeli mostravano un maggiore uso di sostanze, erano più anziani e più sessualmente insoddisfatti (David et al., 2005).

Spesso ad una infedeltà seguono dinamiche deleterie; in uno studio condotto da Charny e Parnass è stato chiesto a due gruppi di terapeuti di descrivere uno specifico rapporto di coppia nel quale fosse stato vissuto un tradimento, un rapporto extraconiugale. Di 62 casi, 21 di questi (pari al 34%) si sono conclusi con il divorzio, secondo il giudizio dei terapeuti, a causa dell’infedeltà. In 27 casi, pari al 43,5%, i matrimoni sono stati preservati, ma in un’atmosfera disforica o negativa. In 4 casi, pari al 6%, i matrimoni proseguivano, ma venivano definiti con accezione negativa o di scarsa qualità oppure il futuro del matrimonio veniva messo ancora in dubbio. Solo in 9 casi, pari al 14,5%, i matrimoni sono rimasti intatti e caratterizzati da miglioramento e crescita.

L’analisi dell’impatto diretto del tradimento sui coniugi traditi ha mostrato che la maggior parte dei mariti e delle mogli tradite ha subito danni significativi alla propria immagine, alla propria sicurezza personale, alla propria fiducia sessuale, ha generato sentimenti di abbandono, tradimento della fiducia, sentimenti di rabbia, un moto di giustificazione a lasciare i loro coniugi. I giudizi dei terapeuti che riportavano i casi erano che ben l’89% dei coniugi traditi erano consapevoli dell’infedeltà o, anche se non lo riconoscevano, sapevano e che anche la maggior parte dei coniugi traditi che sostenevano consapevolmente di essersi opposti al comportamento del coniuge era inconsciamente in collusione con loro (Charny e Parnass,1995).

Che il tradimento sia noto o meno, la sofferenza che ne deriva è tanta e quando si decide di intraprendere un percorso di terapia di coppia, il perdono è uno degli aspetti problematici. Già nel 1998 lo scopo del Dipartimento Psychiatry and Human Behavior, della Brown University, a Providence (USA), è stato quello di descrivere un modello sintetico di perdono usando i costrutti di teorie multiple, tra cui il perdono, il recupero del trauma, i sistemi cognitivo-comportamentali, i sistemi familiari. Il perdono è concettualizzato come un processo costituito da tre fasi, ognuna delle quali ha componenti cognitive, comportamentali e affettive. Inoltre, queste fasi sembrano parallele alla risposta naturale di una persona allo stress traumatico. Innanzitutto, c’è una risposta all’impatto iniziale, poi c’è un tentativo di dare all’evento un qualche tipo di significato, o di inserirlo nel contesto, e infine la persona inizia ad andare avanti e riadattare. Il perdono è dunque concettualizzato come il raggiungimento di una visione realistica, non distorta ed equilibrata della relazione; una liberazione dai sentimenti negativi verso il partner e un diminuito desiderio di punirlo (Gordon e Baucom, 1998).

Il tradimento dunque può costituire un elemento doloroso, che però può permette una rinegoziazione delle regole nel rapporto ed apre nuovi canali comunicativi tra i partner che imparano nuovamente ad esprimere le proprie esigenze e ad accogliere in modo nuovo quelle dell’altro, costruendo un rapporto rinnovato sulla base di scelta e responsabilità, ed in questo contesto scopo della terapia cognitiva è quello di rendere chiaro il modo di pensare e comunicare dei partner per evitare le interpretazioni sbagliate. Nell’ultimo decennio infatti, con la sempre maggiore diffusione degli approcci cognitivi, ci si è orientati alla risoluzione delle problematiche coniugali e la terapia cognitiva ha individuato nelle persone con problemi di coppia uno schema di pensiero comune. I partner, frustrati nelle loro aspettative dal rapporto di coppia, diventano protagonisti di una danza disfunzionale, come in un circolo vizioso il partner deluso incrimina l’altro, che offeso, può attaccare o ritirarsi generando una reazione a catena (Trezza, 2013).

E’ fisiologico che nel tempo in una coppia si possano accumulare dei conflitti, così si inizia ad avvertire un senso di frustrazione e dolore. Guardiamo cosa accade a Delia e Gaetano: tra i due subentra la delusione, la scarsa comunicazione e l’incomprensione, arrivando a mettere in discussione il rapporto. I due cominciano a comunicare meno, ad incolparsi a vicenda, le ostilità e i fraintendimenti si sommano gli uni sugli altri, i due coniugi perdono di vista tutte le qualità positive l’uno dell’altro.

La terapia cognitiva ha mostrato come i coniugi possano imparare ad essere più ragionevoli adottando un atteggiamento più costruttivo e umile, a potenziare la loro capacità di rettificare e riconoscere i giudizi sbagliati che si danno del partner, considerando ipotesi alternative alle loro conclusioni negative. Perché, anche quando si crede di parlare lo stesso linguaggio, ciò che dice l’uno e ciò sente l’altro sono spesso due cose completamente diverse (Trezza, 2013).

Intraprendere un percorso a due, questa spinta al cambiamento, volta al miglioramento della vita della coppia stessa, può iniziare un passo alla volta. Beck la definisce la terapia dei 9 passi, esercizi utili alle coppie per affrontare le idee fuorvianti e frustranti. Si inizia dall’individuare, a partire dagli ABC, una reazione emotiva legata ad una situazione ed i pensieri automatici che ne derivano, allo scopo di determinare un collegamento tra le due cose. Successivamente si mettono in pratica esercizi immaginativi volti ad identificare i pensieri automatici negativi dai quali possono scaturire emozioni non del tutto comprensibili nelle dinamiche di coppia: ci si esercita ad individuarli nel momento in cui si profilano all’orizzonte della consapevolezza, ci si esercita ad individuare l’evento che li ha scatenati. Si passa poi a stabilire se i pensieri automatici siano attendibili, se ne valuta la ragionevolezza, perchè trovare la risposta razionale aiuta a vedere i propri pensieri automatici in prospettiva, si verifica che le ipotesi fatte corrispondano alla realtà e non alla fantasia (Fiore F., 2011).

Lo scopo è quello di riconfigurare il rapporto di coppia riconoscendone in una luce diversa le caratteristiche negative e valutando le alternative, per scegliere consapevolmente se portare avanti la relazione e tollerare, o concluderla scegliendo altro. La terapia di coppia è dunque pur sempre una nuova danza che si sceglie di fare in due, come i protagonisti del nostro film, che si muovono liberi nel balletto dei loro sentimenti, diventando testimoni di un messaggio che suona più o meno così: in solitudine e di solitudine si muore lentamente, mentre dove c’è condivisione, c’è la possibilità dell’alternativa, c’è salvezza.

 

NESSUNO SI SALVA DA SOLO – Guarda il trailer del film:

Competizione e sicurezza stradale – Come il fattore tempo innesca la competizione per la precedenza in strada 

La sicurezza stradale dipende da svariati fattori, infatti molti incidenti sono dovuti a distrazioni, ma molti altri altri sono causati da scelte sbagliate come elevata velocità e mancato rispetto della distanza dal ciclista/pedone.

 

La risorsa che sembra scarseggiare quando s’incontra in auto un ciclista o un pedone pare essere il tempo, ci sembra proprio che chi occupa la nostra corsia sia colpevole di farci perdere tempo.

Il ciclista o pedone, a volte costretto a camminare o pedalare da una vita sedentaria, deve scegliere tra accettare la minaccia di una sindrome metabolica o se confrontarsi con la fretta cronica del corriere con il furgone rosso o con i distratti e sbandanti utilizzatori di telefoni.

Perché entriamo in competizione? E perché la ben evidente fragilità del più debole in strada (cioè del pedone o ciclista) non ci muove a compassione, così da farci spingere il pedale del freno e a rinunciare a un po’ di tempo?

La teoria dei Sistemi Motivazionali Interpersonali di Giovanni Liotti e, in questo caso, la descrizione del sistema motivazionale competitivo può aiutarci a capire almeno alcune cose: il Sistema Competitivo o Agonistico si attiva quando si rende necessario definire ranghi o status all’interno di un gruppo, cioè delle posizioni di dominanza o sottomissione e prende forma alla presenza di una qualsiasi risorsa limitata, che nel nostro caso sembra proprio essere il tempo. Perché si configuri una situazione conflittuale, è necessario che i competitori abbiano la percezione che la risorsa (oggetto del contendere) sia necessaria e scarsa. Al contrario, se la risorsa è percepita come abbondante, la stessa, perché da tale situazione possa generarsi un conflitto, deve essere considerata come iniquamente o ingiustamente distribuita fra le parti. L’aspetto fondamentale è che, sia il concetto di scarsità che quello d’iniquità, prima ancora di essere elementi oggettivi, sono il frutto di una percezione soggettiva. Quando quindi le parti manifestano preferenze incompatibili fra loro circa la distribuzione della risorsa ritenuta necessaria e scarsa, fra i contendenti s’innesca una rappresentazione di vittoria/sconfitta, sicché il guadagno altrui è percepito come perdita della controparte e viceversa.

Il sistema quindi è attivato dalla percezione di una risorsa limitata, ma anche da segnali di sfida, dal giudizio, dalla derisione e colpevolizzazione. Le emozioni che si provano sono la collera, la paura se penso che l’altro abbia maggiori capacità, se sono sconfitto compare vergogna, che sua volta è seguita da umiliazione e tristezza. Nel vincitore si passa dalla collera a un sentimento di orgoglioso trionfo, che può mescolarsi con il disprezzo nei confronti dello sconfitto. Il sistema è disattivato dalla resa e sottomissione o perché c’è l’attivazione di un altro sistema motivazionale (Liotti, Monticelli 2008).

Se siamo attivi sulla competizione, interpreteremo la realtà in modo egocentrico, avremo un deficit di decentramento e ci concentreremo sui segnali di potenziale aggressione e inganno. Essere immersi in un clima competitivo ci farà essere rapidi nelle nostre valutazioni, rigidi, rigorosi e attenti ai segnali di pericolo, ma non in grado di realizzare un decentramento cognitivo per riuscire a capire il punto di vista e le ragioni del pedone/ciclista.

Nella subroutine di dominanza il soggetto tende a ricordare frequentemente ai subordinati la propria posizione ripetendo segnali di minaccia e dominanza. Nella subroutine di resa o sottomissione si emettono segnali di debolezza, inferiorità, disponibilità.

Se un comportamento perdura nel tempo, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria, negli animali l’aggressività seleziona i migliori, regola la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. Gli animali però si accordano nel non superare certi limiti (aggressività ritualizzata), il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura è quello più vicino a noi, cioè la scimmia e, come l’uomo, ha poca pietà per i suoi simili.

Se decidiamo di fare una manovra avventata per vincere la sfida della precedenza e guadagnare qualche secondo in più, potremmo esporre il più debole in strada (cioè chi non ha un abitacolo di un’auto come protezione di sé) a grossi rischi. I morti in strada aumentano, molti incidenti sono dovuti a distrazioni, molti altri invece sono causati da scelte sbagliate come elevata velocità e mancato rispetto della distanza dal ciclista/pedone. La soluzione per regolare tali situazioni è fornita dalla norma e dal codice stradale, ma sembra non funzionare.

Per passare dalla competizione all’agire cooperativo, si deve creare un periodo intermedio, dove emergano tolleranza e fiducia, dove può farsi strada un principio morale: il dovere di difendere il più debole in strada.

Il principio di difesa del più debole in strada, se praticato, si strutturerà stabilmente nelle nostre convinzioni interne e ci risparmierà conflitti quotidiani, ci condurrà a uno stato di armonia tra sentimento e ragione. Utilizzare quotidianamente in strada il nostro ‘potere di bene’ offrirà dei vantaggi anche al donatore: il controllo emotivo, il miglioramento dell’autostima, saranno inibiti i sentimenti di rabbia e colpa, donerà ottimismo. Il principio di difesa del più debole ci farà sentire più giusti, interi e connessi con l’altro.

Le persone con tratti di personalità oscura possiedono abilità empatiche?

L’empatia è teorizzata come la capacità di comprendere e immaginare le emozioni e i pensieri delle altre persone, è considerata una caratterista centrale della specie umana, fondamentale per le interazioni sociali, infatti la mancanza di empatia in un individuo risulta spesso socialmente non accettabile (Persson & Kajonius, 2016).

 

Nel campo della psicologia della personalità, l’interesse dei ricercatori è di frequente rivolto allo studio dei tratti di personalità della ‘’triade oscura’’, che sono caratterizzati dalla violazione dei valori sociali e dallo stile interpersonale insensibile e manipolatorio; fanno parte di questa categoria il machiavellismo (tendenza a manipolare), la psicopatia (insensibilità) e il narcisismo (grandiosità) (Kajonius & Bjorkman, 2019).

Abbiamo detto che i tratti della triade oscura sono caratteristici di tre tipi di personalità, vediamoli in breve:

  • Psicopatici: individui caratterizzati da comportamenti anti-sociali, antagonismo e impulsività distruttiva.
  • Narcisisti: individui che presento sentimenti di grandiosità estremi, arroganza e tendenza a svalutare l’altro.
  • Machiavellici: individui fortemente manipolatori e opportunisti, sia nelle relazioni sociali che in quelle lavorative.

Ciò che accomuna queste personalità è la non curanza delle norme sociali e la mancanza di empatia.

L’intelligenza sociale, intesa come la capacità di relazionarsi con gli altri in maniera efficiente, correla positivamente con il narcisismo, mentre negativamente con la psicopatia e il machiavellismo. Quando si parla di empatia si può fare una distinzione tra abilità empatiche e disposizione empatica. La prima rappresenta le capacità empatiche della persona (che possono essere apprese o meno), mentre la seconda si riferisce alla disposizione, quindi alla tendenza della persona a empatizzare con l’altro, in questo caso si parla più di tratto di personalità, rappresenta quindi la tendenza naturale ad entrare in empatia con gli altri (Dziobek et al., 2008).

È risaputo in letteratura che individui con i tratti oscuri di personalità, non provano empatia verso le altre persone, tuttavia non è ancora chiaro se non hanno la capacità (intesa come abilità) oppure la disposizione (inteso come tratto) a provare empatia verso le altre persone.

Uno studio, pubblicato su Personality and individual Difference, si è proposto di comprendere la relazione tra empatia e triade oscura. Il campione era composto da 278 individui reclutati tramite una piattaforma online, in seguito è stato chiesto ai soggetti di compilare i seguenti questionari: Triade oscura di personalità (SD3), l’Interpersonal Reactivity Index (IRI) per misurare l’empatia come tratto e l’ability-based empathy (MET) per misurare l’empatia come abilità cognitiva.

Le analisi statistiche mostrano che la triade oscura non ha alcuna relazione con l’empatia intesa come abilità cognitiva appresa, tuttavia mostra una forte relazione negativa con l’empatia intesa come tratto di personalità.

Stando a questi risultati i ricercatori concludono che le personalità facenti parte della triade oscura avrebbero normali capacità (intese come abilità) empatiche, tuttavia non avrebbero la disposizione o la tendenza naturale ad empatizzare con l’altro (Kajonius & Bjorkman, 2019).

 

La testimonianza: invecchiamento ed emozioni

La ricerca sperimentale proposta è stata improntata con il fine di rilevare le differenze tra giovani e anziani nella rievocazione di eventi, osservando, inoltre, come diversi stati emotivi possano influenzare la testimonianza resa dai soggetti.

Fabiola Caruso – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

I cambiamenti dell’invecchiamento

Nel corso dell’invecchiamento, sullo stato psicologico dell’individuo, hanno effetto una serie di fattori non psicologici come i cambiamenti biologici, sociali e gli eventi di vita. Tra i cambiamenti biologici si registrano modificazioni a carico di quasi tutti gli organi e apparati, in particolare del sistema nervoso, di quelli cardiovascolare, respiratorio, endocrino, scheletrico e muscolare, digestivo, urinario e genitale. Si tratta di cambiamenti geneticamente predeterminati, dovuti sia a cause ambientali, sia a comportamenti individuali. Particolare importanza hanno i vissuti relativi alla propria immagine corporea e alla sessualità. Tra i cambiamenti sociali i principali sono il pensionamento e i cambiamenti della struttura familiare, con la perdita, rispettivamente, del ruolo lavorativo e del ruolo di genitore. Queste perdite possono essere più o meno drammatiche a seconda della centralità che questi ruoli avevano nell’identità dell’individuo. Eventi stressanti come malattie possono comportare invalidità anche solo temporanea, ma possono indurre o far emergere forme di depressione. Infine, l’esperienza della morte di una persona cara comporta, attraverso una serie di passaggi, una lunga fase di elaborazione del lutto e nei casi positivi, il recupero della capacità di stabilire nuove relazioni affettive.

I cambiamenti cognitivi

L’invecchiamento è un fenomeno multidimensionale e multidirezionale, dove diverse dimensioni seguono andamenti diversi; questo dato è riscontrabile anche al livello cerebrale, dove solo alcune aree appaiono maggiormente sensibili all’avanzare dell’età, tra le quali la corteccia prefrontale. Grazie alla plasticità neuronale si assiste ad una riorganizzazione funzionale che permette all’anziano di mantenere adeguati livelli di prestazione nonostante il declino biologico.

L’attenzione

L’attenzione può essere definita come la capacità del nostro sistema percettivo di selezionare tra le moltissime informazioni che colpiscono i nostri organi di senso quelle a cui siamo interessati e che siamo in grado di elaborare. L’attenzione selettiva è la capacità di ignorare l’informazione irrilevante per gli scopi del soggetto e di mettere a fuoco quella rilevante, facoltà che sembra diminuire nell’anziano, come dimostrato in alcuni studi sull’ascolto dicotico, ovvero in situazioni in cui vengono trasmesse informazioni diverse ai due orecchi con l’istruzione di ascoltare solo un messaggio ignorando l’altro (Rabbit, 1965). L’attenzione distribuita entra in gioco quando si devono svolgere due compiti contemporaneamente, come conversare e scrivere un appunto, risulta anch’essa meno efficiente nell’età avanzata. L’attenzione sostenuta o vigilanza è la capacità di mantenere una adeguata prestazione in compiti monotoni per periodi relativamente lunghi; nell’invecchiamento subentra una maggiore distraibilità dovuta alla ridotta capacità di inibire le informazioni irrilevanti. Si ritiene che l’inibizione sia un meccanismo molto importante nei processi cognitivi e che nell’invecchiamento subisca un declino che spiegherebbe il rallentamento dell’anziano durante l’esecuzione di diversi compiti cognitivi in cui, appunto, perderebbe tempo in operazioni inutili, tant’è vero che spesso le prestazioni dell’anziano sono più lente ma più accurate (Rabbit, 1965). L’attenzione è coinvolta in modo differente nelle diverse operazioni cognitive. Secondo Hascher e Zack alcuni processi sono automatici, ovvero, richiedono poche risorse cognitive, sono poco influenzati dallo svolgimento di un altro compito, come pure da una forte attivazione emozionale o da affaticamento. Altri processi sono controllati, cioè richiedono un investimento maggiore di risorse cognitive, sono sensibili alle istruzioni del compito, all’interferenza di un compito contemporaneo e allo stress (Cornoldi, 1986). Una stessa attività può essere svolta con processi controllati nella fase di apprendimento e poi con l’esperienza può svolgersi attraverso processi automatici. Nell’invecchiamento, il declino delle capacità attentive influenza principalmente i processi controllati, mentre attività guidate da processi automatici possono essere svolte ad un buon livello.

Apprendimento e memoria

Ratti e Amoretti (1991) hanno effettuato una rassegna delle ricerche sperimentali sulle prestazioni di memoria degli anziani. Da questa rassegna si evince che per quanto riguarda la memoria sensoriale non si riscontrano differenze con l’avanzare dell’età e anche per quanto riguarda la memoria a breve termine, la quantità di informazioni che può contenere non sembra variare con l’età, mentre quando l’informazione deve essere riorganizzata o resa disponibile per qualche scopo, le capacità degli anziani si mostrano peggiori di quelle dei giovani. Nell’invecchiamento la memoria a lungo termine è il sistema più danneggiato, in particolar modo, è più deteriorata quella che usiamo nella vita di tutti i giorni e che riguarda gli avvenimenti abbastanza recenti, mentre è più preservata quella che riguarda gli avvenimenti più remoti. Si è riscontrato un deficit che riguarda selettivamente la rievocazione, ovvero la ricerca di un elemento che si è appreso senza nessun aiuto o suggerimento esterno, mentre il riconoscimento è meno deteriorato e consiste nella capacità di distinguere l’elemento appreso se viene presentato in mezzo ad altri elementi nuovi. Questa situazione di divario è presente anche nei giovani, ma negli anziani è molto più accentuata e fa presupporre che la perdita di informazione avvenga a livello di recupero piuttosto che a livello di codifica. Inoltre, la tecnica di rievocazione guidata da suggerimenti dello sperimentatore sembra avvantaggiare più gli anziani che i giovani. Gli anziani mostrano un rallentamento della velocità della prestazione che è maggiormente presente nei compiti complessi. La prestazione degli anziani si avvicina a quella dei giovani nei compiti in cui ai soggetti non vengono date delle scadenze temporali. Inoltre è stata riscontrata negli anziani una difficoltà nell’uso spontaneo di strategie, sia nella fase di codifica e sia nella fase di recupero. È stata messa in evidenza negli anziani anche una difficoltà nell’elaborazione profonda degli item da memorizzare, come per esempio, un’elaborazione semantica invece di una visiva o fonetica, probabilmente dovuta a un problema di accesso alla memoria semantica. In aggiunta, è stato osservato che le situazioni sperimentali che studiano la prestazione dei soggetti anziani in compiti più simili ad un’esperienza d’esame che di vita quotidiana risultano, per l’anziano, particolarmente stressanti ed ansiogene, con l’effetto di far crollare la sua prestazione. Queste condizioni, ai giovani, risultano più familiari e frequenti, in quanto sono analoghe ai compiti scolastici e ai test di profitto. Inoltre, un alto livello di stress, un basso livello di motivazione al compito e una bassa autostima possono rendere l’anziano meno reattivo ed efficiente sul piano mentale.

La memoria autobiografica

La memoria autobiografica presenta, per chi la voglia studiare, un problema metodologico: non è quasi mai possibile riscontrare l’effettiva veridicità del materiale ricordato, non si può cioè valutare la correttezza del ricordo, dato che si tratta in gran parte di una ricostruzione sociale, in cui l’esperienza di un autentico ricordo è difficilmente distinguibile dalla narrazione che quell’evento ha subito nell’ambito familiare. Per questo nella ricerca si ricorre frequentemente a ricordi detti pubblici, come il Giro d’Italia, il presidente della Repubblica, il Festival di San Remo o un certo film. I ricordi autobiografici, compresi quelli pubblici, sembrano ben conservati nella memoria degli anziani. Andreani e collaboratori (1988) verificarono che esiste una perdita dei ricordi d’infanzia dopo i 70 anni. In generale la fascia d’età di cui si conservano meglio i ricordi è quella tra i 10 ed i 30 anni. Questo fenomeno può essere dovuto al fatto che in quegli anni accadono gli eventi più positivi e più emozionanti della vita, come l’indipendenza economica, le prime relazioni sentimentali importanti, la nascita dei figli. Oppure può essere dovuto dal fatto che i ricordi relativi a quegli anni siano stati codificati in corrispondenza della massima efficienza del sistema cognitivo dell’individuo, garantendo una migliore conservazione e possibilità di recupero dei ricordi anche dopo molto tempo.

Il linguaggio

Per quanto riguarda il lessico, la capacità di comprendere il significato delle parole sembra restare inalterata con il trascorrere del tempo, mentre la capacità di produrre le parole si riduce con l’avanzare dell’età. In particolare i processi più colpiti sono il ricordo di specifiche parole, la pianificazione di quello che si vuole dire, un rallentamento nella codifica e di conseguenza anche nella comprensione, soprattutto quando il materiale è sintatticamente complesso o con doppie negazioni dato che gravano sul la memoria di lavoro (MacKay, Abrams, 1996).

Emozioni

I processi cognitivi, sociali e affettivi sono intrinsecamente connessi. Pertanto, le emozioni hanno un ruolo decisivo nell’apprendimento, nella memoria, nelle motivazioni dell’individuo, in quanto facilitano o, al contrario, ostacolano tali processi, contribuendo al raggiungimento o meno degli obiettivi. Emozioni intense come la paura indotta da una minaccia per la propria vita, sono in grado di disturbare temporaneamente la  capacità di ricordare dati, nomi, nozioni, fatti ed eventi autobiografici, ossia compromettono per breve tempo la rievocazione di ricordi che appartengono alla memoria dichiarativa nelle sue componenti semantica ed episodica. In generale, l’effetto prevalente delle emozioni sulla registrazione e la rievocazione dei ricordi è positivo. Infatti, in circostanze che suscitano delle emozioni, siamo in grado di fissare particolari e dettagli che altrimenti ci sarebbero sfuggiti. Inoltre il ricordo di episodi autobiografici rilevanti in termini affettivo-emotivi persiste molto più a lungo e ci appare temporalmente più prossimo di quello relativo a fatti e circostanze che abbiamo vissuto come neutri. Numerosi esperimenti hanno dimostrato che l’emozione accresce l’efficienza della percezione e dell’attenzione durante la codifica e aumenta la probabilità che un’informazione sia ulteriormente elaborata ed organizzata (Brown e Kulik, flashbulb memories 1977; Schonfield 1980; Carstensen e Turk-charles, 1994). Una mole, non meno cospicua, di prove sperimentali, sostiene l’evidenza di una modulazione emozionale positiva delle fasi di consolidamento post-codifica, consistente nel rendere estremamente più probabile che un evento sia ritenuto e conservato nella forma di una traccia stabile e durevole (LeDoux, 1996; Steca e Caprara 2007). Anche sulla rievocazione si è dimostrato un effetto di rinforzo da parte dell’emozione, che oltre ad accrescere la probabilità che un’informazione sia recuperata, determina la sensazione di essere in possesso di un ricordo più vivido, presente, incisivo ed in grado, a sua volta, di generare emozione. Inoltre, la riattivazione di ricordi espliciti è facilitata quando le condizioni in cui ci troviamo sono simili a quelle che erano presenti al momento della registrazione: ci si riferisce sia al mondo fisico composto da immagini, suoni ed odori, che al mondo interiore composto da stati della mente, emozioni e modelli mentali. Le emozioni sono il cuore delle nostre relazioni sociali e permettono di agire nei contesti famigliari, culturali o sociali. Ma come cambiano e quali sono le emozioni dell’anziano? Secondo la teoria selettiva socioemotiva di Carstensen (2006), le emozioni sono dei processi psicologici centrali, la cui regolazione, all’aumentare dell’età, diventa più sofisticata poiché cambiano gli obiettivi che gli anziani si prefiggono. Si privilegiano emozioni positive e si minimizzano quelle negative. Queste modifiche sono dovute all’esperienza che gli individui hanno acquisito con l’età e alla consapevolezza che il tempo che resta è breve. Secondo tale teoria, la ristretta rete sociale degli anziani viene interpretata non in termini di disimpegno, ma come selezione di quelle relazioni che sono importanti, gratificanti, significative e che li ricompensino emotivamente rispetto a quelle superficiali. Secondo la teoria cognitiva affettiva di Labouvie-Vief (1996) gli anziani tendono a regolare le emozioni più frequentemente e spontaneamente dei giovani per adeguarsi alle norme sociali, evitando inutili conflitti. Nel corso della vita si passa da un controllo primario, volto all’influenza diretta sul mondo esterno, ad uno secondario, centrato sul Sé e sui cambiamenti intraindividuali (Schulz, 1998). Più che di cambiamenti emotivi, con l’avanzare dell’età, si osserva una maggiore modulazione delle emozioni, ciò spiega la maggiore stabilità dell’umore, la diminuzione della risposta psicofisiologica e la ridotta ricerca di emozioni. Gli aspetti emotivi positivi nell’invecchiamento, in assenza di ansia o depressione, non declinano con l’età e si potenziano, sfatando il mito dell’anziano triste e brontolone. Ciò nonostante, una delle emozioni più studiate è la depressione, dato che è una delle maggiori cause dei disordini della memoria, infatti, più una persona è depressa, peggiori saranno le prestazioni di memoria. Per trasferire qualcosa in memoria dobbiamo dedicare una certa quantità di sforzo al compito e focalizzarci su di esso per elaborare il materiale, collegarlo ad altre informazioni dato che la qualità del nostro ricordo dipende da quanto abbiamo elaborato il materiale appreso. Ogni singola esperienza, quindi, non stimola solo una singola risposta emotiva, ma anche alcune emozioni correlate. Caratteristica della vecchiaia è proprio l’accumulo di molte esperienze emotive, alle quali la mente attinge. I compiti più difficili, per i soggetti anziani, specialmente se depressi, sono quelli che richiedono un maggior sforzo per organizzare ed elaborare il materiale. Quindi possiamo sostenere che le emozioni giocano un importante ruolo nei processi cognitivi legati alla memoria, in quanto la forza dei ricordi dipende dal grado di attivazione emozionale indotto dall’apprendimento, per cui eventi ed esperienze vissute con una partecipazione emotiva di livello medio-alto vengono catalogati nella nostra mente come importanti e hanno una buona probabilità di venire successivamente ricordati. Inoltre, il cervello interagisce con il mondo e registra le diverse esperienze in modo tale per cui gli avvenimenti passati influiranno in modo diretto su come e che cosa impariamo, anche se di tali avvenimenti non necessariamente abbiamo un ricordo conscio, mentre la riattivazione di ricordi espliciti è facilitata quando le condizioni in cui ci troviamo sono simili, in termini di mondo fisico (immagini, suoni, odori) o interiore (stati della mente, emozioni, modelli mentali), a quelli che erano presenti al momento della registrazione ordinaria.

Lo stress

Secondo Aldwin e collaboratori, in tarda età, si assiste ad un passaggio da stress episodici, tipici dell’età adulta, a stress cronici, che possono riguardare la perdita di persone care o l’insorgenza di malattie, che possono influenzare i processi di coping. Gli eventi, in generale, possono essere soggettivamente vissuti come molto stressanti e risultare molto destrutturanti. Labouvie-Vief e collaboratori hanno riscontrato che gli anziani usano una combinazione di strategie di coping focalizzate sulla regolarizzazione delle emozioni e sulla maggiore accettazione del proprio stato, come controllo e soluzione degli eventi stressanti. Le persone anziane si mostrano con maggiori capacità di adattamento alle situazioni di avversità.

La testimonianza

Le scienze cognitive hanno dimostrato come la memoria sia un fenomeno dinamico e largamente ricostruttivo che consiste di diversi processi (percezione, codifica, immagazzinamento e recupero) su ciascuno dei quali possono agire fattori di distorsione cognitivi, emotivi, relazionali e culturali. La testimonianza è un processo complesso e multidimensionale, specie quando essa riguarda eventi traumatici. Infatti, non bisogna mai trascurare gli elementi contestuali ed emotivi che accompagnano non solo il racconto, ma l’intero processo di acquisizione e consolidamento dei ricordi. Un esempio di come la testimonianza sia largamente influenzata dalle caratteristiche emozionali dell’evento oggetto del ricordo è costituito dal cosiddetto effetto weapon focus (Loftus, Loftus e Messo,1987; Steblay, 1992), ovvero quel fenomeno che accade quando un elemento saliente in una scena (ad esempio l’arma impugnata dal criminale) si impone sull’attenzione, ponendo sullo sfondo e quindi oscurando altri elementi e dettagli presenti nella scena che verranno per questo ricordati in modo peggiore. Le caratteristiche del weapon focus sono consistentemente riscontrabili durante l’esperienza di un evento traumatico, in cui i particolari che il soggetto registra al momento del fatto, e quindi sotto spinta emotiva, sono i soli che riesce a rievocare. Il nostro bagaglio di memorie, quindi, si sviluppa attraverso processi di codifica, immagazzinamento e recupero largamente ricostruttivi e interpretativi. Per quanto riguarda gli aspetti di codifica, da numerose ricerche sul campo è emerso che il materiale che ha un significato si ricorda meglio di quello che non ce l’ha, informazioni presentate lentamente si ricordano in modo migliore rispetto a quelle presentate velocemente, informazioni concrete si ricordano meglio di quelle astratte, eventi inusuali si ricordano più facilmente di quelli comuni (Roediger e Gallo, 2002). In altri studi sperimentali (Cristianson, Loftus, 1991) si è verificato come si tende a ricordare con maggiore precisione un numero più elevato di elementi nel caso di situazioni emotivamente più cariche rispetto ad altre neutre. Per quanto attiene al recupero di un ricordo, esso avviene attraverso una ricostruzione di elementi che non sempre sono ben collegati tra loro e che subiscono influenze ambientali, culturali ed emotive. Questo dato è particolarmente significativo quando si parla di ricordi di eventi traumatici siano essi fisici o psichici.

Le fonti di distorsione nel ricordo di un evento

La ricerca ha individuato tre fonti di distorsione del ricordo. Quelle interne, cioè legate esclusivamente alle caratteristiche dell’osservatore. Quelle esterne, in cui le informazioni successive all’evento incidono sulla fissazione del ricordo del soggetto. Infine quelle relazionali, in cui la rievocazione può essere influenzata da aspetti relazionali e comunicativi con l’interlocutore durante la testimonianza. Le prime due forme di distorsione non sono dovute a specifici suggerimenti, mentre la terza incide fortemente nel corso delle tecniche di intervista e o di interrogatorio. Per quanto riguarda le fonti di distorsione interne ci si riferisce alle caratteristiche di suggestionabilità del soggetto ed alle abilità connesse al source monitoring, ovvero la capacità di identificare il contesto nel quale è avvenuto l’evento oggetto del ricordo. Il reality monitoring è uno specifico aspetto dell’identificazione della fonte del ricordo, che descrive la capacità di discriminare eventi interni (ad esempio immaginati) ed eventi esterni (ad esempio visti o uditi). La confusione o gli errori nel reality monitoring conducono ad un falso ricordo (Johnson, 2006). Rispetto ai fattori esterni all’individuo nella percezione e nel recupero del ricordo, oltre alle informazioni ricevute successivamente all’evento, studi di laboratorio (Baddeley et al., 2009) hanno individuato altre variabili da tenere in considerazione, quali la frequenza dell’esposizione all’evento, la durata dell’osservazione e la posizione dell’evento, cioè la collocazione di un singolo fatto in una serie più vasta di avvenimenti. Ad esempio, la durata di esposizione all’evento aumenta la possibilità di percezione e dunque di codifica, mentre, se si assiste a una sequenza di eventi, è più facile percepire e ricordare quelli che si sono verificati all’inizio (effetto primacy) e alla fine (effetto recency) rispetto a quelli nel mezzo. Le distorsioni della memoria possono, infine, dipendere anche dall’influenza di fattori relazionali e comunicativi, come suggerimenti, nuove informazioni e conoscenze che causano una distorsione del ricordo o producono, nei casi più estremi, un falso ricordo. Si presentano diversi effetti che scaturiscono dall’aggiunta di informazioni e da domande suggestive: tra questi ricordiamo l’effetto cosiddetto di suggestionabilità e di compiacenza. L’effetto compiacenza accade quando al soggetto vengono rivolte le stesse domande più volte, alla fine il testimone risponde con ciò che l’esaminatore vuole sentirsi dire (Fornari, 2008). La semplice ripetizione della stessa domanda nel caso di bambini può portare al ricordo di eventi mai avvenuti (Gulotta e Ercolin, 2004). I testimoni possono essere più o meno suscettibili a queste influenze.

Suggestionabilità e testimonianza

Le fonti di distorsione esterne (informazioni post-evento) interagiscono con le caratteristiche dell’individuo soggetto e della relazione tra esso e l’interlocutore nel plasmare la capacità di ricordare. Le influenze delle informazioni post-evento sulla memoria possono essere particolarmente subdole. Elizabeth Loftus ha condotto diverse ricerche che hanno posto l’attenzione sul potere esercitato da determinate tipologie di domande o suggerimenti esterni nel recupero di un evento vissuto. Ad esempio, è emerso che è sufficiente cambiare in una domanda una piccola parte, come l’articolo, per aumentare la probabilità di modifica di un ricordo (Loftus e Zanni, 1975, Loftus, 2005). Ad esempio, se si chiede hai visto un uomo o hai visto l’uomo la domanda cambia poiché nel primo caso si indica un individuo qualunque di genere maschile mentre, nel secondo caso, si fa riferimento ad un individuo specifico di cui si assume che l’interlocutore abbia conoscenza. Il fenomeno per cui l’aggiunta di informazioni suggestive porta a modificare il ricordo di un evento si chiama post-event misinformation effect, ossia l’effetto di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento (Loftus, 2005). Questo effetto può avvenire in situazioni sociali (Gabbert et al., 2004; Wright, Self, e Justice, 2000; Gulotta e Ercolin, 2004, Brainerd e Reyna, 2005) e non sociali (Lindsay, 1990; Loftus e Palmer, 1974). Diversi studi di laboratorio hanno cercato di analizzare i meccanismi che portano a modificare i ricordi. Un interessante studio è stato condotto da Crombag, Wagenaar e Van Koppen (1996) in merito allo scontro avvenuto tra un Boeing 747 e un palazzo di undici piani ad Amsterdam nell’ottobre del 1992. La televisione olandese riportò tutti i momenti dell’evento ma non trasmise alcuna immagine del momento dello schianto. I telegiornali riportarono la notizia del disastro per alcuni giorni. La ricerca, tesa a sondare il ricordo del terribile evento, evidenziò che 61 dei 93 studenti che parteciparono all’esperimento risposero in modo affermativo alla domanda: Hai visto in televisione il filmato del momento in cui l’aereo ha colpito il palazzo?. Tale domanda in realtà conteneva una falsa informazione, ovvero che il filmato dello schianto fosse stato mostrato in televisione. Inoltre, molti testimoni fornirono numerosi dettagli dell’inesistente video dell’impatto dell’aereo. È bene sottolineare che la suggestionabilità non implica solo aggiungere o modificare gli elementi di una scena, ma riguarda anche ricordare eventi mai vissuti (Hyman, Husband e Billings,1995; Loftus e Pickrell, 1995; Gulotta e Ercolin, 2004). A tale proposito, va considerato che affinché negli individui si crei un falso ricordo, è necessario che le fonti di distorsione rispondano a tre requisiti (De Leo, Scali e Caso, 2005):

  • l’evento suggerito deve essere plausibile, cioè deve trattarsi di qualcosa di possibile.
  • il soggetto dovrà anche costruire un’immagine del ricordo e una narrazione. Infatti, tutti i ricordi sono costruzioni che combinano conoscenze di base provenienti da varie fonti con esperienze personali, suggerimenti e richieste attuali (Bartlett, 1932).
  • è necessario che ci sia un errore nella valutazione della fonte, cioè che il soggetto creda che quell’informazione non sia stata creata da lui ma provenga dall’esterno.

Gisli H. Gudjonsson è uno dei più importanti studiosi di suggestione e ha condotto numerose ricerche tese ad analizzare come i soggetti reagiscono di fronte a situazioni e domande suggestive. Gudjonsson e collaboratori, attraverso alcuni studi hanno messo in luce che intelligenza, autostima, capacità mnestica e assertività, locus of control interno e capacità di agire strategie di coping sono fattori psicologici che risultano correlati negativamente con la suggestionabilità (Gudjonsson, 2003). Per poter studiare la suggestionabilità Gudjonsson (1984, 2003) costruì uno strumento per valutare la suscettibilità ad interrogatori coercitivi che si basa su due diversi aspetti della suggestionabilità, il cedimento (yielding) a domande suggestive e il cambio di risposta (shifting) quando è applicato un interrogatorio pressante. Il test consiste nel presentare un racconto e nel chiedere di riportare tutto ciò che si ricorda della storia. Dopo la fase di rievocazione il soggetto viene sottoposto a 20 domande delle quali 15 sono suggestive ed errate. Dopo aver risposto, alla persona viene detto che ha commesso un certo numero di errori, anche se non è vero. Inoltre, in modo vigoroso, viene richiesto di rispondere nuovamente alle domande, con la raccomandazione di essere più accurato. Il cedimento si riferisce alla suscettibilità dell’intervistato alle domande suggestive, mentre il cambio di risposta si riferisce al cambiamento in seguito all’interrogatorio pressante. La somma tra il numero di cambi e di cedimenti fornisce il punteggio totale ottenuto nella scala di suggestionabilità.

Lo stress e la rievocazione del ricordo

Tra i diversi fattori che possono incidere sulla rievocazione del ricordo uno particolarmente importante è lo stress. È importante sottolineare che uno stress eccessivo, come ad esempio assistere a una rapina violenta o all’omicidio di un proprio caro, può portare anche ad uno stato di dissociazione. In questi casi si può arrivare a non ricordare elementi centrali dell’evento o addirittura l’intero evento traumatico, in tal caso si parla di amnesia retrograda o dissociativa (Holmes et al, 2005; Loftus, 1993; Pezdek, 1994; Pezdek e Banks, 1996). Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento emotivo e la memoria dell’evento. Smith e colleghi (2004) studiarono un gruppo di studenti canadesi dell’Università di Toronto a sei mesi dall’attacco alle Twin Towers a New York. Gli autori sottoposero il campione ad un questionario per valutare la memoria dell’evento e quella autobiografica. Essi rilevarono una correlazione tra il grado di coinvolgimento emotivo e la qualità del ricordo. Nello specifico, i ricercatori notarono che all’aumentare del coinvolgimento emotivo diminuiva la memoria autobiografica ed aumentava quella relativa all’evento in questione. Lo studio di Grey e colleghi (2002) evidenzia che la memoria delle vittime di un trauma è frammentata e lacunosa, in particolare, relativamente ai momenti chiave dell’evento. Concludendo, ad oggi non è ancora chiaro se un elevato stress durante la fase di codifica o recupero porti ad un vantaggio o svantaggio mnestico. Le contraddittorie scoperte suggeriscono che la relazione tra stress e memoria sia complessa e dipenda da molteplici fattori biologici e psicologici, le cui interazioni meritano ulteriore approfondimento scientifico.

Attendibilità della testimonianza

L’attendibilità della testimonianza è strettamente connessa all’accuratezza di ciò che viene dichiarato, si tratta di determinare se il ricordo rifletta in maniera fedele tutti gli elementi che riguardano l’evento di cui si è stati testimoni. Attendibilità e accuratezza, quindi, riguardano gli aspetti percettivi, cognitivi e riproduttivi della testimonianza. I fattori che incidono sull’attendibilità e l’accuratezza della testimonianza, riguardano sia le condizioni in cui avviene la codifica dell’evento, come la natura dell’evento, la sua coloritura emotiva, i diversi elementi della scena (luogo, oggetti e persone presenti, loro collocazione spaziale, il volto e le loro azioni, ecc.),  sia le condizioni in cui avviene il recupero, come il tipo di prova di memoria a cui il soggetto è sottoposto (ricordo libero, guidato, ecc.), l’intervallo di tempo che intercorre tra la codifica dell’evento e del suo recupero. Inoltre, anche le convinzioni e i pregiudizi sociali delle persone, possono avere una grossa influenza fino a modificare il modo in cui un evento viene percepito. Spesso capita che nel ricordare un evento, possiamo correggere l’informazione in maniera inconsapevole, allo scopo di renderla concordante con le nostre aspettative. Incidono anche la presenza o assenza dell’intenzione di dover ricordare nel momento in cui si assiste all’episodio, la quantità di tempo che passa tra l’episodio e la testimonianza, la consapevolezza della differenza tra verità e menzogna e la volontà di voler dire la verità e quella di mentire.

La ricerca sperimentale

La ricerca sperimentale proposta è stata improntata con il fine di rilevare le differenze tra giovani e anziani nella rievocazione di eventi, osservando, inoltre, come diversi stati emotivi possano influenzare la testimonianza resa dai soggetti. È stata condotta su un totale di 144 soggetti, divisi in due gruppi principali, uno formato da 72 giovani con età media di 16,5 anni e quello degli anziani composto da 72 soggetti con età media di 76,5 anni. In un primo momento i soggetti sono stati sottoposti ad un test che rilevasse il loro stato emotivo, ovvero il Positive Affect and Negative Affect Scales (PANAS). Il PANAS (Watson et al., 1988) è uno degli strumenti più utilizzati per valutare gli stati affettivi positivi e negativi, composto da 20 aggettivi, 10 per la scala di affetto positivo (PA) e 10 per la scala di affetto negativo (NA). In particolare, la sottoscala PA riflette il grado in cui una persona si sente entusiasta, attiva e determinata, mentre la sottoscala NA fa riferimento ad alcuni stati spiacevoli generali come la rabbia, la colpa e la paura. Il soggetto deve valutare quanto si sente generalmente nel modo descritto dall’aggettivo, rispondendo su una scala Likert a 5 punti (1= per nulla, 2=poco, 3=moderatamente, 4=abbastanza, 5=molto). Esempi di aggettivi sono interessato, entusiasta, deciso, angosciato, ostile e nervoso. Dopo la somministrazione di questo test tutti i soggetti hanno ottenuto due punteggi, corrispondenti al proprio stato emotivo, positivo e negativo. In seguito i due gruppi sono stati entrambi suddivisi in 6 sottogruppi da 12 soggetti. Due sottogruppi di entrambi i gruppi principali hanno visionato un video divertente dalla durata di 5 minuti, altri due sottogruppi di entrambi i gruppi hanno visionato un video neutro sulla costruzione di una libreria della durata di 5 minuti e i restanti 2 sottogruppi hanno visionato un video negativo di 5 minuti sulla guerra di Pearl Harbor. I tre video sono stati introdotti nella sperimentazione per poter osservare se la loro visualizzazione inducesse un cambiamento emotivo nei soggetti. In seguito alla visione del filmato (divertente, neutro, negativo) i soggetti sono stati sottoposti nuovamente al PANAS, in modo da poter confrontare i punteggi ottenuti ai due test. In seguito troviamo il grafico che mostra le modificazioni dell’umore nei due gruppi in base ai video visionati.

Per quanto riguarda la visione del video neutro, possiamo osservare, per il gruppo dei giovani, un calo della sottoscala dell’affetto positivo (PA), probabilmente ciò lo si può spiegare ipotizzando che il video sia stato ritenuto un po’ noioso. Per il gruppo degli anziani si osserva un invariato stato emotivo. Per quanto riguarda la visione del video positivo, nel gruppo dei giovani si osserva una riduzione dei valori della sottoscala dell’affetto negativo (NA) e un lieve aumento della sottoscala dell’affetto positivo (PA). Nel gruppo degli anziani si evince un lieve aumento della sottoscala PA e i valori della sottoscala NA sono quasi invariati. Per quanto riguarda la visione del video negativo, il gruppo dei giovani mostra un lieve aumento dei valori della sottoscala NA, mentre la sottoscala PA è quasi invariata. Nel gruppo degli anziani si osserva una riduzione della sottoscala PA e un aumento della sottoscala NA; probabilmente questo effetto più marcato si può spiegare con il fatto che la maggior parte degli anziani ha vissuto in prima persona la seconda guerra mondiale mentre i giovani no. In generale, gli anziani hanno delle modificazioni emotive meno marcate rispetto ai giovani, in accordo con la teoria cognitiva affettiva di Labouvie-Vief secondo cui gli anziani tendono a regolare le emozioni più frequentemente e spontaneamente rispetto ai giovani, ad eccezione delle emozioni negative che hanno effetti maggiori nelle persone anziane. A questo punto i partecipanti hanno visionato il video di una rapina senza audio, ed hanno ricevuto le istruzioni di osservare bene il video in quanto avrebbero dovuto rispondere a delle domande su di esso. Le istruzioni precisavano di prestare attenzione in quanto il sapere di dover ricordare aumenta l’attendibilità della testimonianza. Il video è stato presentato senza audio in modo da poter permettere, in un momento successivo, l’introduzione di alcune informazioni fuorvianti e l’osservazione degli effetti che essi provocano nella testimonianza. Il video scelto rappresenta una rapina in banca, dato che rappresenta un evento carico emotivamente e quindi dovrebbe produrre una traccia mnestica abbastanza forte. Dopo la visione del filmato della rapina in banca ai soggetti è stato somministrato il Verbal Associative Fluency Test, che consiste in tre compiti di denominazione di parole, con il set di lettere FAS, infatti il test è a volte chiamato FAS. Ai soggetti è stato chiesto di scrivere tutte le parole che iniziano con la lettera dell’alfabeto indicata, escludendo i nomi propri, i numeri, ed alcune parole con un suffisso differente. Questo test è stato introdotto sia per testare la fluenza dei soggetti sia come distrazione. Successivamente ai 3 sottogruppi del gruppo dei giovani e ai 3 sottogruppi del gruppo degli anziani (visione video neutro, positivo, negativo) è stato fatto ascoltare un audio che descriveva la scena della rapina. Ai restanti 6 sottogruppi è stato fatto ascoltare un audio che descriveva il video della rapina, ma sono state inserite alcune informazioni errate, in modo da poter verificare se queste potessero falsificare il ricordo del video della rapina. In seguito ai soggetti è stato presentato un questionario a scelta multipla dove erano elencati 12 item, di cui 3 rappresentavano le parole corrette da dover riconoscere in quanto erano presenti nel video della rapina, 3 rappresentavano le parole critiche, ossia si riferivano al brano modificato, ma non erano realmente presenti nel video, ed altri 6 item erano di riempimento, ovvero non erano presenti né nel video e né nel brano ascoltato. Ai soggetti veniva data l’istruzione di rispondere al questionario facendo riferimento al video della rapina, indicando per ogni parola, attraverso una crocetta, se era presente nel filmato (si o no) e in che misura erano sicuri, dove 1 indicava tiro ad indovinare, 2 indicava non sono molto sicuro e 3 indicava sono molto sicuro. Per eseguire correttamente il questionario i soggetti avrebbero dovuto rispondere con una crocetta sul sì solo per le tre parole che erano realmente presenti nel video e con un no per le altre parole. Quindi la variabile dipendente di interesse era il numero di errori critici, ovvero la tendenza a riconoscere come appartenenti al video degli elementi inseriti solo nel brano. I risultati sono stati ottenuti effettuando un’analisi statistica fattoriale, un’ANOVA tra il gruppo dei giovani e quello degli anziani, tra la condizione fuorviante e quella di controllo, e tra le diverse tipologie di video (video positivo, negativo e neutro). I risultati, sui punteggi proporzionali medi degli item critici, non hanno evidenziato un effetto principale significativo del gruppo, in quanto sia i giovani che gli anziani hanno commesso un numero di errori simili (.37 i giovani e .35 gli anziani). È stato riscontrato un effetto principale significativo della condizione, in quanto la condizione fuorviante ha generato un maggior numero di errori (.44) rispetto alla situazione di controllo (.28). È stato inoltre riscontrato un effetto principale significativo del tipo di video dovuto al fatto che dopo il video negativo sono stati commessi in generale meno errori (negativo =.29, positivo=.41, neutro=.38). L’interazione a due vie tra i gruppi e le condizioni è risultata significativa in quanto il numero di errori nei giovani è stato simile nella condizione fuorviante (.39) e quella di controllo (.35), mentre negli anziani il numero di errori è stato maggiore nella condizione fuorviante (.49) rispetto a quella di controllo (.21). L’interazione a due vie tra i gruppi e i video non è risultata significativa, indicando che le emozioni abbiano agito in maniera simile in entrambi i gruppi. L’interazione a due vie tra le condizioni e i video è risultata significativa in quanto il numero di errori aumenta molto di più nella condizione fuorviante rispetto a quello della condizione di controllo dopo la visione del video negativo. Infine, l’interazione a tre vie tra gruppi, condizioni e tipo di video non è risultata significativa. Un’ANOVA effettuata solo sui giovani e solo sugli anziani ha evidenziato come nei giovani non ci siano effetti della condizione e del tipo di video sul numero degli errori. Invece, negli anziani è risultato significativo il tipo di condizione, in quanto gli anziani hanno commesso più errori nella condizione fuorviante. L’effetto del tipo di video è risultato marginalmente significativo. Tuttavia, l’interazione tra condizione e video è risultata significativa in quanto sono state soprattutto le emozioni negative a provocare un maggior numero di errori negli anziani nella condizione fuorviante rispetto a quella di controllo.

Conclusione

Una delle caratteristiche della vecchiaia è l’accumulo di molte esperienze emotive, alle quali la mente attinge. Le emozioni, appunto, giocano un importante ruolo nei processi cognitivi legati alla memoria, in quanto la forza dei ricordi dipende dal grado di attivazione emozionale indotto dall’apprendimento, per cui eventi ed esperienze vissute con molta partecipazione emotiva vengono catalogati nella nostra mente come importanti e hanno una buona probabilità di venire successivamente ricordati. La riattivazione di ricordi ci porta a provare le stesse emozioni che abbiamo provato quando vivevamo quel particolare ricordo. Il video con connotazione negativa che è stato utilizzato per la sperimentazione raffigurava la guerra di Pearl Harbor. Nel gruppo di partecipanti anziani, un discreto numero aveva vissuto in prima persona la tragedia della seconda guerra mondiale, e non è difficile ipotizzare che il video proiettato li abbia riportati indietro con la memoria fino a far rivivere quei tragici momenti. Le emozioni suscitate, qualsiasi esse siano, dal video negativo, hanno prodotto in generale un ricordo più accurato a sostegno del fatto che le informazioni cariche emotivamente vengono ricordate meglio di quelle neutre. Negli anziani, le emozioni negative hanno generato un maggior numero di errori nella condizione fuorviante, per cui possiamo attestare che gli anziani con un cattivo umore siano più inclini alla distraibilità e alla suggestionabilità. I giovani, contrariamente agli anziani, non presentano modificazioni di performance in base all’umore. Inoltre possiamo affermare che gli anziani sono più inclini al post-event misinformation effect, ossia all’effetto di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento, in quanto i risultati della ricerca mostrano appunto che gli anziani commettono più errori nella condizione fuorviante rispetto alla condizione di controllo. Nella sperimentazione si è potuto osservare, in accordo con quanto sostenuto da Ratti e Amoretti (1991) sul rallentamento della velocità della prestazione degli anziani in compiti complessi, come gli anziani abbiano impiegato più tempo rispetto ai giovani per completare la prova, circa un’ora per i giovani e un’ora e mezza per gli anziani. Inoltre, la diminuita capacità dell’anziano nell’ignorare le informazioni irrilevanti, potrebbe spiegare in parte il fatto che siano stati commessi più errori nella condizione fuorviante (potrebbero non essere riusciti ad inibire le informazioni fuorvianti ricevute successivamente).

 

L’amico immaginario 

Il bambino che usa la sua fantasia per creare un amico immaginario vitale a risolvere i suoi problemi è un bambino che lavora per la propria salute mentale, mantiene il contatto con la realtà coltivando nello stesso tempo il contatto con il mondo reale.

 

La tavola deve sempre essere apparecchiata per un commensale in più, anche se nessun ospite è in arrivo. Vostro figlio rifiuta di iniziare la cena se accanto a lui non c’è una sedia vuota, anche se nessuno si siederà.

Se è capitato anche a voi, non preoccupatevi: è arrivato l’amico immaginario!

Ma chi è un amico immaginario?

Il termine amico, o compagno immaginario si riferisce a un personaggio invisibile dotato di un suo nome proprio a cui si fa riferimento nella conversazione con altre persone o con cui si gioca direttamente per un certo periodo di tempo. Almeno per alcuni mesi riveste un senso di realtà per il bambino pur senza avere un’evidente base oggettiva. Di solito ha la stessa età del bambino o è di poco più piccolo.

Questa definizione esclude di conseguenza quel tipo di giochi immaginativi nei quali un oggetto è personificato o nei quali il bambino stesso assume il ruolo di persone appartenenti al suo ambiente.

Una spiegazione approfondita di questo fenomeno ci viene fornita da un libro, Il compagno immaginario, appunto, che ci offre una serie di testimonianze sul ruolo svolto da questa figura.

Perché un compagno immaginario?

L’invenzione di un compagno immaginario rappresenta una soluzione creativa a cui il bambino può ricorrere per far fronte ai suoi conflitti evitando di cadere in soluzioni patologiche e deve essere vista in funzione del suo bisogno di colmare uno specifico vuoto nel suo sviluppo personale e nella sua struttura di personalità, piuttosto che come necessità legata ad una specifica età.

La ricerca psicoanalitica del compagno immaginario mostra la pluralità di significati e funzioni che questo fenomeno può assumere. Agli estremi si trova, da un lato, la costruzione immaginaria di un bambino dotato di unica fantasia che resta sempre consapevole della natura fittizia del suo compagno e, dall’altro lato, una costruzione patologica sostitutiva dei rapporti con altri esseri umani e investita di concretezza allucinatoria.

La creazione di un compagno immaginario si colloca frequentemente in un periodo evolutivo intermedio tra una fase in cui il controllo delle istanze pulsionali è interamente gestito dalle autorità genitoriali e una fase in cui esso è introiettato e assunto dall’istanza del super io; tra le tante funzioni del compagno immaginario rientra quella di essere adoperato come portavoce di sentimenti particolarmente difficili o dolosi da esprimere per un bambino. In questi casi risulta più facile proiettare le proprie paure e speranze in un compagno immaginario e comunicarlo in questa forma piuttosto che ammettere che queste paure e questi desideri appartengono a lui; il compagno immaginario offre perciò la possibilità di comunicare in maniera indiretta sentimenti troppo intensi o dolosi

Otto Sperling, psicoanalista, ipotizza che un tale comportamento consenta al bambino di salvaguardare il proprio narcisismo attraverso la possibilità di attribuire gli ordini e le istanze educative dei genitori ad una creatura da lui stesso inventata.

Secondo il Dott. Humberto Nager, psichiatra, ciò di cui bisogna parlare non è tanto una condizione oggettiva di solitudine, quanto di un sentimento di solitudine che può insorgere anche in situazioni particolari, quali la nascita di un fratellino o una crisi familiare, che attivano nel bambino vissuti di abbandono e di trascuratezza.

Winnicott e il compagno immaginario

Per Winnicott il compagno immaginario è un rifugio per l’individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur tuttavia in relazione l’una con l’altra. Per quanto sembri un paradosso, la capacità di essere soli si sviluppa in presenza dell’atro. Il bambino ha bisogno della madre, al tempo stesso disponibile e discreta, per pensare, giocare, sentirsi sicuro e in relazione con il suo Io ed è questa esperienza preliminare di poter essere da solo in presenza di qualcuno che permette al bambino di sopportare momentaneamente la solitudine dell’assenza, senza essere sommerso dall’angoscia, dalla paura e dalla tristezza.

Riprodurre se stesso sdoppiando la propria immagine per metterla al posto dell’altro è il tentativo che fa l’Io per riconoscere la differenza e la singolarità di quest’altro che è ribelle ai suoi desideri, contesta la sua onnipotenza e lo mette a confronto con la sua mancanza.

Questi custodi narcisisti sono adoperati allo scopo di proteggere lo sviluppo di una rappresentazione di sé, soprattutto nei periodi di vulnerabilità, collegati all’età o a tensioni psichiche. Sono creati dai bambini e dagli adolescenti in risposta a bisogni evolutivi.

Un valido aiuto contro le frustrazioni

E’ sbagliato immaginare che il compagno immaginario sia un povero sostituto di compagni reali e non dobbiamo confondere l’uso nevrotico dell’immaginazione con quello sano. Il bambino che usa la sua fantasia per creare compagni immaginari vitali a risolvere i suoi problemi è un bambino che lavora per la propria salute mentale, mantiene il contatto con la realtà coltivando nello stesso tempo il contatto con il mondo reale. Il contatto con il mondo reale viene rafforzato dalle periodiche escursioni nel regno della fantasia. Diventa più facile tollerare le frustrazioni del mondo reale e accedere alle richieste della realtà se è possibile di tanto in tanto rifugiarsi in un mondo dove i desideri più profondi posso essere immaginativamente esauditi.

L’amico immaginario in età adulta

Generalmente i compagni immaginari scompaiono nel momento in cui il bambino ha imparato a padroneggiare le proprie paure.

Ma in alcuni casi e forme particolari l’amico immaginario può continuare ad esistere anche in età adulta. Un esempio citato nel libro è quello del poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa che viene preso ad esempio con i suoi eteronimi. Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, Pessoa scrive:

L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.

 

Terapia Metacognitiva per Pazienti con Disturbo da Uso di Alcol

Il Disturbo da Uso di Alcol (AUD) è definito dal DSM 5 come una patologia caratterizzata dall’incessante desiderio di consumare la sostanza (craving), una mancanza di controllo sul suo utilizzo e situazioni problematiche, pericolose e dannose in cui il soggetto si ritrova a causa del bere (APA, 2013).

 

Un utilizzo esagerato di alcol è anche stato associato a una maggior probabilità di sviluppare disturbi mentali, di tentativi di suicidio (Merrill et al., 1992) e di violenza domestica o abusi di minore (Leonard et al., 2001; Windom & Hiller-Sturmohofel, 2001).

Gli approcci attualmente utilizzati per intervenire sull’AUD si concentrano principalmente sui bias cognitivi, sui processi d’apprendimento e sulle credenze disfunzionali; in particolare, la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), si focalizza sul ruolo dell’alcol come rinforzo positivo al mantenimento del comportamento d’abuso (Caselli et al., 2018). Lo scopo della CBT per il trattamento del Disturbo da Abuso di Alcol è quello di identificare le situazioni problematiche che portano il soggetto all’uso della sostanza, aumentare il coinvolgimento in attività che non prevedono l’abuso di alcol e intaccare le resistenze emotive e comportamentali al cambiamento (es. Donohue et al., 2004). Nonostante i numerosi studi presenti sull’efficacia della CBT, questa terapia riporta ancora dei limiti: in primo luogo, dal punto di vista comportamentale, questa tecnica non fornisce una spiegazione del perché solo alcuni tra gli individui che consumano alcol perdono il controllo fino a sviluppare un disturbo; dal punto di vista cognitivo, invece, la CBT non riesce a mettere in luce il ruolo causale delle credenze irrazionali sull’eziologia del disturbo (Burtscheidt et al., 2002). Infine, i pazienti sottoposti alla CBT tendono a mostrare ricadute dopo 6/9 mesi dalla fine del trattamento (Magill and Ray, 2009).

Negli ultimi decenni, il Self-Regulatory Executive Function model (S-REF) di Wells e Matthews (1994) ha offerto una differente chiave di lettura sulla sintomatologia di alcuni disturbi psicologici e, nel caso dell’AUD, ha ipotizzato che uno dei motivi di ricaduta in pazienti sottoposti a CBT fosse dovuta ai sintomi metacognitivi residui (Spada & Wells, 2008).

La Terapia Metacognitiva (MCT), sviluppata ispirandosi ai principi teorici del S-REF (Wells, 2009), vede nella cognitive attentional syndrome (CAS) quel processo disfunzionale del pensiero, rimuginativo e ruminativo, che causa l’esordio e il mantenimento dei disturbi psicologici, in particolare quelli dello spettro ansioso e depressivo (Wells, 2009); ad alimentare il CAS sono le metacredenze positive e negative sul pensiero e sulla preoccupazione che influenzano negativamente le abitudini cognitive e comportamentali degli individui (Wells, 2009).

Nello studio qui riportato (Caselli et al., 2018), un campione composto da 5 pazienti affetti da AUD è stato dettagliatamente analizzato per testare l’efficacia, la validità e l’associazione a outcome positivi della MCT in tre differenti tempi: subito dopo il trattamento, in un follow-up a 3 mesi e in uno a 6 mesi.

Sono stati somministrati l’Alcohol Use Disorders Identification Test Consumption (AUDIT-C) per identificare le abitudini legate all’uso di alcolici, l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) per misurare ansia e depressione, la Positive Alcohol Metacognition Scale (PAMS) e la Negative Alcohol Metacognition Scale (NAMS) per avere un indice delle metacredenze positive e negative, la Penn Alcohol Craving Scale (PACS) per il livello di craving, la Quantity Frequency Scale (QFS) e la Cognitive Attentional Scale (CAS-A). Inoltre, tutti i pazienti hanno partecipato a 12 sedute settimanali di MCT, della durata di 45-60 minuti l’una.

I risultati dimostrano l’efficacia della MCT come approccio terapeutico per l’AUD nel campione analizzato: i pazienti hanno mostrato un miglioramento clinicamente significativo nell’auto-regolazione sia cognitiva che comportamentale. Inoltre, vi è stata una riduzione significativa del consumo settimanale di alcolici e degli episodi di binge drinking rispetto alla condizione pre-trattamento. I miglioramenti riportati sono stati mantenuti stabili anche nei follow-up a 3 e 6 mesi. In conclusione, la MCT si è dimostrata efficace e nessun paziente ha mostrato segni di peggioramento né nell’ansia e nella depressione né nel craving, spianando la strada a future ricerche nel campo dei comportamenti di dipendenza e abuso (Caselli et al., 2018).

 

Natale con i tuoi? Il microbiota intestinale ha qualcosa da dire in merito!

Cosa vi viene in mente pensando al Natale? Forse i regali, forse l’atmosfera di festa, le luci e le decorazioni, con un po’ di fortuna la neve, sicuramente le attese e temute abbuffate natalizie, ma per molti è sicuramente sinonimo di tempo passato in famiglia.

 

Per quanto nell’iconografia natalizia sia onnipresente il quadretto patinato fatto di parenti che si stringono attorno all’albero addobbato a festa, per momenti di comunione e dimostrazioni di affetto reciproco, la realtà che tutti conosciamo è ben diversa. Le festività in generale, e il Natale su tutte, costituiscono uno stress significativo per l’individuo, sia perché la routine quotidiana viene interrotta o comunque alterata, sia perché il ritorno in famiglia (talvolta obbligato) stravolge le distanze dai propri cari strategicamente contrattate durante il resto dell’anno.

In questo senso le statistiche dipingono un quadro sicuramente meno festivo e decisamente poco gioioso: Bergen e Hawton (2007) ad esempio, hanno riscontrato come i soggetti che riportassero problemi relazionali con il partner avessero il doppio delle possibilità di mettere in atto condotte autolesive nel periodo post-natalizio e addirittura come vi fosse un aumento del 250% del tasso di ospedalizzazione a seguito di un tentativo di suicidio per quei pazienti che avevano fatto abuso di alcool, ma senza storie pregresse di abuso alcolemico.

È stato poi riscontrato come il Natale rappresenti per il benessere fisico e psicologico un fattore di rischio ambientale ancora più rilevante quando questo non veniva trascorso con la propria famiglia di origine, bensì con la famiglia del partner (Mirza et al., 2004), sebbene non sia chiaro come ciò avvenga. Mirza e colleghi hanno inoltre dimostrato come problemi relazionali con i suoceri fossero associati a sintomatologia depressiva e ansia; addirittura, uno studio giapponese ha trovato che coabitare con i propri suoceri, sottoponesse le donne ad un rischio di tre volte maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari, rappresentando un trend assolutamente anomalo per questo tipo di sintomatologia, che generalmente affligge maggiormente la popolazione maschile (Ikeda et al., 2008).

Presi nel complesso, sia gli stravolgimenti relativi alle abitudini alimentari che gli stressor ambientali – dati in questo caso dalla presenza dei parenti (prossimi o acquisiti) – costituiscono dei modulatori già noti e riconosciuti come cruciali negli studi che si occupano di indagare il microbiota umano: recenti ricerche si stanno infatti occupando di svelare la connessione ed interdipendenza sempre più evidente e dimostrata, tra cervello e flora batterica intestinale, la quale funziona come una sorta di “organo metabolico” coinvolto in svariati processi iatrogeni, come ad esempio l’obesità (Turnbaugh et al., 2008) o la sindrome metabolica (Arora e Bäckhed, 2016). Tale interconnessione ha natura bidirezionale, tanto che si è iniziato a parlare di asse intestino/cervello e si è iniziato a formulare strategie di intervento che ripristinando la flora batterica intestinale, ad esempio mediante probiotici o trapianti fecali, comportino un miglioramento della sintomatologia accusata.

Le feste natalizie quindi, socialmente impegnative grazie alla presenza della famiglia, accompagnate da grandi abbuffate ed elevato consumo di alcolici, costituiscono la ricetta perfetta per l’alterazione del microbiota, che spiegherebbe anche parte del disagio psicologico che accompagna talvolta l’arrivo delle festività.

Un team di ricercatori (de Clercq et al., 2019), ha voluto testare se vi fosse una differenza empiricamente riscontrabile sulla flora batterica intestinale che supportasse (almeno in parte) i racconti aneddotici dell’incubo che costituisce, per alcuni, l’annuale pellegrinaggio presso la casa dei suoceri in occasione del Natale. Allo studio hanno partecipato ventiquattro soggetti, sedici sei quali hanno scelto di passare le festività a casa della famiglia del proprio partner, mentre i rimanenti otto avevano deciso di rimanere con la propria famiglia. I partecipanti sono stati istruiti nel compilare un dettagliato e quanto più possibile veritiero diario alimentare, questo ha permesso ai ricercatori di escludere che le eventuali differenze nel microbiota fossero dovute non tanto all’impatto del fattore familiare quanto all’assunzione di macronutrienti o alcool che differissero significativamente tra i due gruppi: per quanto vi fosse un aumento relativo nell’assunzione di grassi saturi e proteine di origine animale, non sono state riscontrate differenze apprezzabili tra i due gruppi. Oltre al diario alimentare che aveva come data di inizio il 21 Dicembre, i partecipanti hanno fornito inoltre due campioni di feci, raccolti rispettivamente la mattina del 23 Dicembre e la mattina del 27 Dicembre, giorno di fine dell’esperimento; le feci sono state poi analizzate con un procedimento di sequenziamento del DNA ribosomiale 16S.

È emerso come nei soggetti che avevano trascorso il Natale dai suoceri si riscontrassero cambiamenti maggiori del microbiota alfa fecale (Shannon index) rispetto a chi avesse trascorso le feste con la propria famiglia di origine. Inoltre, sono stati identificati due distinti profili di firma batterica che permettevano di distinguere tra le due condizioni famiglia vs. suoceri, comprendenti sette differenti specie i cui cambiamenti relativi erano riscontrabili nei due gruppi. Su tutte, la famiglia dei probioti Rumminococcaceae dominavano nel determinare le differenze riscontrate: il genere Rumminococcaceae_UCG-009 ha mostrato due pattern estremamente divergenti, registrando un aumento significativo nel gruppo che aveva trascorso le festività con la propria famiglia, mentre diminuiva nel gruppo che era ospite dai propri suoceri. Altri due generi di rumminococcaceae, rispettivamente UCG-002 ed NK4A214_group subivano invece un calo in entrambi i gruppi.

E’ interessante sapere che la diminuzione di questa famiglia è stata associata in letteratura alla depressione maggiore negli umani (Jiang et al., 2015) così come è stata riscontrata nei topi sottoposti a stress cronico (Bangsgaard Bendtsen et al., 2012): in tal senso quindi una diminuzione della presenza di Rumminococcaceae potrebbe indicare che non solo i soggetti che hanno preso parte ai festeggiamenti dei suoceri, ma anche chi avesse passato le feste in compagnia dei propri cari, potesse in realtà star risentendo di uno stress psico-fisico non indifferente.

Il presente studio porta con sé delle evidenti limitazioni: ad esempio la scelta circa il gruppo di parenti con i quali passare le festività Natalizie era stata lasciata ai partecipanti stessi, per cui potrebbe essere stata dettata già da una preferenza personale, magari decidendo di evitare la casa dei suoceri; inoltre la tecnica usata per ottenere il diario alimentare si basava sull’autocompilazione che, specialmente in occasione delle esagerazioni alimentari delle festività, potrebbe essere stata sottoposta a censura da parte dei partecipanti. Da ultimo, è auspicabile ampliare in futuro il campione sperimentale, che era estremamente piccolo in questo esperimento e gioverebbe invece di un ampliamento, per permettere di cogliere con più accuratezza i cambiamenti nella composizione del microbiota.

 

Disturbo della Coordinazione Motoria: relazione tra le abilità motorie e la qualità di vita

Le capacità motorie ricoprono un ruolo estremamente importante nello sviluppo di bambini e adolescenti. Non solo influenzano il concetto di sé fisico, sotto forma di autostima, ma hanno ripercussioni anche sulla salute mentale, infatti è stato osservato che bambini con scarse capacità motorie tendono ad avere una bassa autostima o in generale mostrano una minore soddisfazione di vita.

Giulia Balerci e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Lo sviluppo adeguato delle capacità motorie rende possibile l’adattamento al mondo esterno, amplificando le nostre possibilità, permettendoci di partecipare attivamente alla vita in società. Già nel 1993 Bushnell e Boudreau suggerivano che lo sviluppo motorio fosse un prerequisito per lo sviluppo di varie funzioni, prime fra tutte le competenze percettive e cognitive. A sostegno di tale tesi Piaget (1953) affermava che l’esperienza senso-motoria, affinata con l’esplorazione dell’ambiente, costituiva una tappa importante per lo sviluppo delle capacità cognitive dei bambini. Murray e colleghi (2006) hanno dimostrato che i bambini che erano in grado di stare in piedi prima dei loro coetanei nell’infanzia, da adulti mostravano delle performance migliori nei test che valutano la capacità di catalogare le informazioni (memoria di lavoro) rispetto ai bambini che erano in grado di stare in piedi molto più tardi.

Sulla base di questi risultati gli autori ipotizzarono l’esistenza di un legame tra lo sviluppo motorio precoce e le funzioni esecutive in età adulta. Sostenendo che una maggiore maturazione nei primi anni di vita dei circuiti neurali coinvolti nella funzione motoria potesse favorire lo sviluppo dei circuiti corticali e sottocorticali coinvolti nei processi cognitivi superiori in età adulta. Le competenze motorie sono necessarie in tutte quelle situazioni che dipendono dalle funzioni esecutive, che richiedono la capacità di definire gli obbiettivi, di pianificare il loro raggiungimento e di eseguirli concretamente.

Dall’insieme degli studi in letteratura emerge che vi è una stretta relazione tra capacità motorie e cognitive e che lo sviluppo adeguato o meno di entrambe si riflette sullo sviluppo degli apprendimenti e più in generale sul funzionamento della persona (Voza D., 2017). Le capacità motorie ricoprono un ruolo estremamente importante nello sviluppo di bambini e adolescenti. Non solo influenzano il concetto di sé fisico, sotto forma di autostima, ma hanno ripercussioni anche sulla salute mentale, infatti è stato osservato che bambini con scarse capacità motorie tendono ad avere una bassa autostima o in generale mostrano una minore soddisfazione di vita (Karras et al., 2019). L’autostima costituisce una parte centrale del concetto di sé che comprende l’insieme dei giudizi che un individuo sviluppa rispetto alle proprie competenze nei vari domini di vita, come l’ambito sociale, quello emotivo-affettivo, il successo a scuola e nelle attività fisiche. Una relazione molto interessante che emerge dallo studio di Schmidt, Blum, Valkanover e Conzelmann (2015) è quella fra attività fisica e senso di competenza. L’acquisizione della padronanza di una attività fisica rinforza la percezione di auto-efficacia che a sua volta porta ad un aumento della competenza fisica percepita, la quale aumenta il livello di autostima attraverso la mediazione dell’accettazione del proprio corpo. Spesso i bambini con DCD ottengono delle prestazioni scarse nelle attività fisiche (ad esempio nei giochi di squadra o negli sport che richiedono lo sviluppo ottimale delle capacità fine e grosso-motorie) e questo provoca un abbassamento del senso di competenza e dell’autostima generale che si può riflettere in comportamenti internalizzanti come il ritiro sociale. La prestazione motoria reale o percepita è legata anche ad un altro aspetto che dall’infanzia all’adolescenza acquisisce un ruolo sempre più importante, l’accettazione da parte dei pari, essenziale per il sostegno emotivo e il confronto sociale.

È sulla base di tali evidenze che riteniamo sia interessante e utile indagare le influenze che i disturbi dello sviluppo motorio, in particolare il Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria (DCD), possono avere sulla qualità di vita dei bambini.

Definizione di Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria

All’inizio del Novecento si sviluppa l’interesse verso i disturbi di tipo motorio, cresce l’attenzione nei confronti di quei bambini che vengono definiti goffi e maldestri. Collier sarà uno dei primi ad affrontare tali temi parlando di “goffaggine congenita” (Vaivre-Douret et al., 2011), seguito da Lippitt che fa riferimento al concetto di “scarsa coordinazione muscolare nei bambini”, Orton parla di “aprassia dello sviluppo o goffaggine anormale”, Ayres invece per descrivere la goffaggine che caratterizza questi bambini fa riferimento al termine “disprassia evolutiva”, Gordon, McKinley e Gubbay si riferiscono a tale condizione usando il termine “sindrome del bambino impacciato” (Van Waelvelde, De Weerdt e De Cock, 2005).

Nel corso degli anni sono stati usati molti termini diversi per descrive i bambini con difficoltà motorie, quali ad esempio disfunzione cerebrale minima, paralisi cerebrale minima, disprassia dello sviluppo, deficit dell’integrazione sensoriale, sindrome ipercinetica dell’infanzia, disturbo dell’apprendimento non-verbale, difficoltà motorie percettive. Per fare chiarezza di fronte all’ampia variabilità dei termini nel 1994 i maggiori esperti del campo si riunirono a Londra formando un gruppo interdisciplinare e decisero di utilizzare il termine Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione, come poi verrà descritto all’interno del DSM- III (e revisionato nella quarta e quinta versione) (Cermak e Larkin, 2002).

Il Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione (DCD) è classificato come disturbo motorio, all’interno della categoria dei disturbi dello sviluppo neurologico, ed è caratterizzato da un ritardo nell’acquisizione delle competenze motorie a partire dai primi stadi dello sviluppo, che interferisce significativamente con le attività della vita quotidiana e non può essere spiegato da una condizione medica (ad esempio, paralisi cerebrale, distrofia muscolare, o una malattia degenerativa), handicap visivo, disturbo pervasivo dello sviluppo e ritardo mentale (DSM-5, Americcan Psychiaatric Association, 2014). Per riferirsi ai bambini che presentano un deficit nello sviluppo della coordinazione motoria l’ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases), usa il termine Disordine Specifico dello Sviluppo della Funzione Motoria (SDDMF). Tali difficoltà si esprimono con un ritardo nell’acquisizione degli schemi motori di base (es. strisciare, rotolare, gattonare, afferrare, camminare, correre, lanciare).

Prevalenza

La prevalenza del DCD è stimata, nei bambini tra i 5 e gli 11 anni, tra il 5%-6%, con un rapporto maschio-femmina di 2:1 (DSM-5, 2014). L’impatto del DCD può essere diverso tra femmine e maschi. Sembra che le ricadute negative sulla competenza auto-percepita siano maggiori nelle femmine, che presentano livelli di auto-efficacia percepita e di autostima più bassi rispetto ai maschi. Le ragazze con problemi di coordinazione riportano livelli più bassi di competenza atletica, maggiori difficoltà a scuola e livelli più bassi di autostima rispetto ai maschi con bassi livelli di coordinamento e a ragazzi e ragazze senza difficoltà di movimento (Murray et al., 2006).

La partecipazione alle attività fisiche può essere influenzata dal differente valore sociale che maschi e femmine vi attribuiscono, per i ragazzi sembra che la prestazione atletica costituisca un aspetto importante nella definizione dello status sociale. La minore partecipazione alle attività fisiche da parte delle ragazze potrebbe essere legata anche alle minori pressioni che generalmente ricevono dagli altri e che invece aumentano nei confronti dei maschi (Cairney, Hay, Faught e Hawes, 2010). È possibile ipotizzare che i ragazzi vengono rilevati più spesso delle ragazze perché i genitori e gli insegnanti si aspettano maggiori prestazioni fisiche da loro. Così, anche lievi compromissioni nei ragazzi sono notate di più e vengono considerate più gravi rispetto allo stesso grado di compromissione presentato nelle femmine, che invece spesso viene trascurato. Non dobbiamo tralasciare che anche il contesto culturale nel quale si sviluppano i ragazzi esercita una forte influenza, ad esempio negli USA, la performance sportiva ha delle ricadute accademiche importanti (es. borse di studio). Inoltre sembra che i ragazzi presentino maggiori comportamenti esternalizzanti e questo li rende più “visibili” e aumenta le loro probabilità di entrare in contatto con gli operatori sanitari.

Eziologia

Il DCD è un disturbo eterogeneo, e le sue manifestazioni possono essere diverse e complesse. Sulla base della co-occorrenza del DCD con Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD), Disturbi dello Spettro Autistico e Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) è stata ipotizzata l’esistenza di una base genetica condivisa (DSM-5, American Psychiatric Association, 2014).

Ancora oggi l’eziologia e i meccanismi cognitivi coinvolti non sono chiari. Le cause principali sembrano essere: la prematurità, il disturbo di integrazione sensoriale, la compromissione dell’emisfero cerebrale dominante, l’anossia o l’ipossia. Le difficoltà motorie nei bambini con DCD potrebbero essere correlate a diversi tipi di disfunzione che possono coinvolgere il lobo parietale, il cervelletto, i gangli della base, l’ippocampo, l’assottigliamento del corpo calloso, disturbi oculo-motori o anomalie neuro-visie (Vaivre-Douret et al., 2011). Un dato interessante che emerge dalla letteratura riguarda proprio l’alterazione del funzionamento del lobo parietale inferiore, area deputata alla ricostruzione dell’immagine visiva e al suo orientamento nello spazio (Lewis, Vance, Maruff, Wilson e Cairney, 2008). Le significative difficoltà riscontrate dai bambini con DCD nel generare una rappresentazione visuo-spaziale accurata rispetto ad un’azione programmata, possono essere attribuite ad un deficit di immaginazione motoria. Le difficoltà nella gestione del controllo online del movimento sperimentate dai bambini con DCD sembrano dipendere dalla minore capacità di attivare le rappresentazioni interne dell’azione (Fuelscher, Williams, Enticott e Hyde, 2015). Da diversi studi sulla rotazione mentale, infatti, è emerso che i bambini con DCD ottenevano prestazioni peggiori in questo tipo di compiti rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico (Adams, Lust, Wilson e Steenbergen, 2014). Secondo gli autori le peggiori prestazioni nella condizione immaginata dovrebbero essere imputate ad una ridotta capacità di rappresentare internamente le coordinate visuo-spaziali dei movimenti programmati.

Partendo dal presupposto che l’immaginazione motoria determini l’attivazione di reti neurali simili a quelle che si attivano durante la pianificazione, l’esecuzione e il controllo dei movimenti reali, è possibile ipotizzare che le difficoltà che sperimentano i bambini con DCD siano causate da una immaturità nello sviluppo neuro-motorio, rilevata attraverso studi di neuroimaging, che colpisce in particolare proprio le aree preposte alla realizzazione e all’immagazzinamento delle rappresentazioni delle azioni (corteccia parietale posteriore e cervelletto). L’impatto di questo ritardo nello sviluppo è così forte che le prestazioni dei bambini con DCD sono state paragonate a quelle dei pazienti con danni alla corteccia parietale (Ferguson, Wilson e Smits-Engelsman, 2015).  Le difficoltà che i bambini con DCD sperimentano nell’integrazione dei segnali visivi collegati all’asse del corpo, sembrano essere legate alla compromissione del controllo cognitivo. Ad essere compromesse sono proprio le funzioni cognitive di livello superiore quali la pianificazione, la memoria di lavoro, l’inibizione, la meta cognizione e di particolare rilievo la capacità di codificare e rappresentare le caratteristiche spaziali e temporali indispensabili per l’organizzazione delle azioni coerenti con i propri obbiettivi e con il contesto (Rosenblum, Margieh e Engel-Yeger, 2015).

Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria e qualità di vita

I bambini con DCD sperimentano numerose difficoltà funzionali legate alla loro scarsa coordinazione motoria. Questi problemi possono includere difficoltà nel vestirsi, legare scarpe, usare utensili, andare in bicicletta, scrivere, nel praticare educazione fisica e nelle attività del tempo libero. Il DCD può avere effetti profondi su una serie di aspetti della vita dei bambini, e sembra persistere nell’adolescenza e nell’età adulta. Sebbene il Disturbo della Coordinazione Motoria sia principalmente un disturbo motorio, può avere un impatto sul funzionamento emotivo e psicosociale del bambino. Vi è dunque una relazione significativa tra abilità motorie, concetto di sé, accettazione sociale e qualità di vita. Quando si parla di qualità della vita ci si riferisce alla valutazione della soddisfazione di vita, la speranza, il concetto di sé e di benessere, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, cultura, valori e credenze. Riflette lo stato funzionale e di salute, il livello di dipendenza e la capacità di partecipare a occupazioni significative, motivanti e responsabilizzanti. Per la rilevazione del benessere nei bambini, accanto a tecniche narrative in cui il bambino è libero di esprimere il proprio pensiero riguardo a domande generali o specifiche si utilizzano principalmente test e questionari di autovalutazione (Scale Psichiatriche di Auto-somministrazione per Fanciulli e Adolescenti (SAFA, Cianchetti C. e Sannio Fancello G., 2001); Quality of Life profile Adolescent Version (QOLPAV, Raphael, Rukholm, Brown et al., 1996); Pediatric Quality of Life Inventory (PedsQL4.0GenericCoreScales; Varni, 2005)).

Dallo studio di Raz-Silbiger et al. (2015) emerge che sia i bambini con DCD che i loro genitori percepiscono livelli più bassi per quanto riguarda le competenze motorie, cognitive, psicosociali e in generale una qualità di vita inferiore rispetto a quella dei coetanei con sviluppo tipico. Dunque i bambini con DCD non solo mostrano un funzionamento motorio peggiore rispetto ai coetanei, ma presentano anche sintomi significativamente più gravi di depressione e ansia, minore autoefficacia e maggiori problemi di tipo socio-relazionale (Zwicker, J. G., et al. 2013). In uno studio ancora più recente (Karras, H. C et al., 2019) viene rilevato che sia i bambini con DCD che i loro genitori presentano una percezione della qualità di vita significativamente più bassa in numerosi campi, tra cui il benessere fisico, il benessere psicologico, gli stati d’animo e le emozioni, l’auto-percezione, l’autonomia, le relazioni parentali e la vita domestica, il sostegno sociale dei pari, l’ambiente scolastico e il bullismo. In particolare i genitori riferiscono che i loro bambini presentano disturbi emotivi e comportamentali significativamente più gravi rispetto ai coetanei.

I bambini con DCD tendono ad evitare di impegnarsi in attività fisiche essenzialmente a causa della loro paura di essere criticati, ridicolizzati e di essere bersaglio di bullismo da parte dei loro compagni, sperimentando un minor senso di auto-efficacia e una minore competenza auto-percepita rispetto alle loro abilità motorie (Payne, 2015). La paura del fallimento ripetuto non solo riduce il desiderio di partecipare a tali attività, vissute come sgradevoli, ma crea una sorta di circolo vizioso in cui l’angoscia legata alla possibilità di non riuscire porta al ritiro, che a sua volta diminuisce le opportunità di allenare le competenze necessarie (Cairney e Veldhuizen, 2013). Diversi studi hanno rilevato, nei bambini con DCD, livelli di partecipazione sociale inferiori rispetto ai coetanei con sviluppo tipico (Sylvestre, Nadeau, Charron, Larose e Lepage, 2013).

Questo è un dato importante considerando che la partecipazione dei bambini nei vari contesti della vita quotidiana, quali attività fisiche, giochi di squadra, sport e attività educative risulta essere di fondamentale importanza per lo sviluppo del senso di competenza, la definizione della propria identità e lo sviluppo sociale. Il grado di impegno fisico che queste attività richiedono può variare, ad esempio la maggior parte degli sport richiede capacità grosso-motorie, come l’equilibrio e la coordinazione, mentre le attività grafiche, come il disegno e la pittura richiedono capacità fine motorie. Le difficoltà motorie che sperimentano i bambini con DCD possono limitare la partecipazione a tale tipo di attività alimentando una spirale: questi bambini spesso non sono ben accolti dai loro coetanei e sperimentano una maggiore difficoltà nel partecipare alle attività motorie. Di conseguenza, la riduzione della partecipazione porta a non sviluppare una buona forma fisica, che a sua volta rende l’attività fisica ancora più impegnativa, con un conseguente ulteriore calo della partecipazione. La riduzione della partecipazione a questo tipo di attività porta ad un aumentano del comportamento sedentario, che accresce il rischio di sovrappeso e obesità.  La mancanza di pratica e le ridotte opportunità di partecipazione alle attività in cui i bambini si impegnano quotidianamente, si traduce in un divario ancora maggiore tra le capacità motorie dei bambini con DCD e quelle dei pari, con l’esito di un abbassamento significativo dell’autostima ed un incremento della tendenza al ritiro sociale (Cermak, S. A., 2015). Le difficoltà motorie, dunque, hanno un peso importante sulla salute fisica e possono determinare problemi emotivi e psicosociali secondari.

Dallo studio di Rahimi-Golkhandan et al. (2014) emerge che la maggiore sensibilità agli stimoli emotivamente significativi presentata dai bambini con DCD potrebbe essere spiegata dall’alterazione dell’attività delle regioni frontostriatali, coinvolte nella capacità inibitoria, in particolare rispetto a stimoli emotivi. Cummins, Piek e Dyck (2005) hanno rilevato nei bambini con difficoltà motorie livelli più bassi di accuratezza e di velocità nel rispondere agli stimoli delle emozioni facciali rispetto ai coetanei con sviluppo tipico. Secondo gli autori alla base di tale compromissione vi potrebbe essere l‘inadeguata capacità di elaborazione visuo-spaziale, riscontrata spesso nei bambini con DCD. Questo aspetto ha un forte impatto nella vita del bambino soprattutto a livello sociale, in quanto le capacità percettive sono necessarie per rilevare, interpretare e rispondere in maniera adeguata ai segnali sociali. È stato ipotizzato che la scarsa organizzazione percettiva che caratterizza i bambini con DCD potrebbe essere all’origine delle difficoltà nel riconoscimento delle emozioni e che tali difficoltà si potrebbero riflettere proprio nei comportamenti di internalizzazione (ritiro sociale, ansia e depressione) spesso riscontrati in questi bambini (Piek et al., 2008). Le difficoltà nel riconoscere ed elaborare segnali visuo-spaziali alterano la loro capacità di valutare e riconoscere le espressioni emotive degli altri, l’impossibilità di utilizzare tali informazioni per guidare il proprio comportamento ostacola la costruzione di relazioni sociali significative nei vari contesti di vita.

I questionari rivolti ai genitori, come il DCDQ (Questionario Sulla Coordinazione Motoria (The DCDQ ’07 ©B.N. Wilson), rivelano forti preoccupazioni rispetto ai propri bambini con DCD che, a causa delle loro scarse capacità motorie hanno difficoltà con molte attività quotidiane, come ad esempio pettinarsi, vestirsi, lavarsi i denti, allacciare le scarpe o abbottonarsi. Molti di questi bambini devono essere assillati dai genitori per vestirsi per andare a scuola, per alcuni di questi bambini è ancora necessaria la diretta supervisione e un aiuto fisico da parte dei genitori. Le ripercussioni che le difficoltà fine e grosso motorie hanno nello svolgimento delle attività quotidiane possono essere interpretate, erroneamente, da familiari, amici, insegnanti come svogliatezza, pigrizia, e mancanza di interesse da parte del bambino.

Lo studio di Green, D., & Payne, S. (2018) ha esplorato l’esperienza vissuta da adolescenti con DCD, i partecipanti hanno descritto la loro vita come un “duro lavoro” a causa dello sforzo richiesto per padroneggiare e svolgere le attività motorie quotidiane e lo sforzo cognitivo necessario per organizzare, il loro tempo e le loro attrezzature. Il DCD per questi adolescenti, non è solo un costrutto fisico, la frustrazione per la loro incapacità di svolgere attività che altri riescono facilmente a realizzare contribuisce allo sviluppo di un forte senso di inadeguatezza. Le difficoltà vissute dai giovani con DCD influenza il loro benessere emotivo e la loro partecipazione sociale.

È stato dimostrato che i bambini con DCD sono più a rischio nello sviluppare problemi psicosociali che influiscono sulla loro qualità di vita. Inoltre emergenti prove indicano che l’associazione tra DCD e scarsa salute mentale persiste nell’adolescenza e nell’età adulta. La scarsa auto-efficacia per le abilità motorie influisce sulla motivazione di bambini e ragazzi con DCD ad impegnarsi in attività sociali e fisiche, i genitori di questi bambini spesso ritengono che i loro figli siano socialmente vulnerabili, abbiano contatti sociali meno sviluppati e meno amici rispetto ai coetanei (Payne, S., 2015). Le ripercussioni possono essere preoccupanti, in quanto espongono maggiormente questi bambini e questi ragazzi al rischio di isolamento sociale. Dallo studio di Kennedy-Behr, Rodger e Mickan (2013) è emerso che durante il gioco libero, i bambini con probabile DCD sono maggiormente coinvolti in episodi di aggressione, partecipano meno ai giochi di gruppo e trascorrono una maggiore quantità di tempo ad osservare gli altri rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico. Presentano un maggior rischio di vittimizzazione da parte dei pari a scuola, legato soprattutto al fatto che vengono percepiti da parte dei compagni come diversi per quanto riguarda l’aspetto e in relazione alle loro prestazioni.

Alla luce di quanto emerge dalla letteratura è possibile ipotizzare che i problemi motori e le difficoltà psicosociali, come ad esempio la bassa autostima, lo scarso rendimento scolastico e la percezione di carente sostegno sociale vissute da bambini con DCD, possono costituire dei fattori di rischio per l’emergere di depressione, ansia ed altri disturbi che possono compromettere l’adattamento psicosociale dell’individuo (Karras et al. 2019). Le evidenze che possiamo ricavare dalla letteratura non devono però scoraggiare coloro che entrano in contatto con questi bambini, dobbiamo ricordare che l’ambiente nel quale il bambino cresce può influenzare il suo sviluppo. Spetta dunque ai genitori, agli insegnanti e a tutte quelle persone che entrano in contatto con loro ad educarli rendendoli consapevoli non solo dei propri limiti ma anche e soprattutto dei propri punti di forza, in modo da favorire la creazione di adeguate strategie adattive allo scopo di gestire, ridurre o tollerare le situazioni stressanti. In questo modo il bambino sarà più motivato a cimentarsi anche in quelle attività valutate come “rischiose” dal punto di vista fisico ed emotivo.

Uno dei punti di forza che caratterizza questi bambini è la loro grande creatività, queste figure di supporto hanno dunque il compito di indirizzare questa forza creativa verso obbiettivi positivi, incanalare questa energia in modo da far emergere le potenzialità, di cui spesso il bambino non è consapevole. Un compito importante è anche quello di individuare le attività che permettano al bambino di compensare i propri limiti attraverso i punti di forza (ad esempio il karate e il nuoto sembrano essere sport in cui i bambini con difficoltà motorie hanno minori difficoltà). Per aiutare il bambino ad affrontare e gestire le conseguenze emozionali legate alle difficoltà motorie è utile individuare quali sono le situazioni che generano un forte stress emotivo e discutere insieme sulle strategie da adottare per farvi fronte, stabilire quali sono i comportamenti e le reazioni adeguate. Un ulteriore aspetto sul quale si può lavorare è l’inclusione in classe, soffermandosi sulle caratteristiche proprie di ogni alunno, cercando di stimolare fra gli alunni un confronto positivo con le diverse sfaccettature dell’altro. Creare un ambiente che spinga a mettersi alla prova, che stimoli una riflessione sulla diversità che non deve essere considerata solo un ostacolo ma anche una risorsa.

Conclusione

I bambini con scarse capacità motorie presentano spesso difficoltà nel far fronte alle richieste sociali nei vari contesti di vita, a casa, a scuola, ma anche con i propri amici, questo fa sì che molte delle esperienze di condivisione e di interazione, come ad esempio giocare a calcio con i compagni di scuola o partecipare ad una sfida a squadre, fare lavori di gruppo in classe vengono vissute come spiacevoli ed evitate quando possibile. L’impossibilità di competere con i compagni in quelle attività che richiedono competenze motorie specifiche può portare il bambino ad essere deriso ed emarginato. Non ci sorprende dunque che questi bambini sperimentino un benessere emotivo inferiore rispetto ai coetanei con sviluppo tipico che purtroppo può sfociare in vere e proprie psicopatologie. Spesso i genitori dei bambini con deficit di coordinazione motoria, preoccupati per le difficoltà che il bambino sperimenta nel fare nuove amicizie, per i frequenti comportamenti aggressivi, e per il loro ritardo nel raggiungere gli obbiettivi scolastici tendono a spingere il bambino a provare e riprovare, ad applicarsi di più e a partecipare più spesso alle attività di gruppo allo scopo di motivarlo. In realtà l’effetto di queste raccomandazioni è quello di innescare una serie di pensieri negativi nel bambino, rispetto alla propria autostima legati all’incapacità di soddisfare le richieste dei genitori che a loro volta generano sentimenti di frustrazione. Il problema di fondo è legato al fatto che spesso si presta attenzione alle difficoltà con il quale il disturbo si manifesta senza riconoscerne l’origine, ovvero la difficoltà di coordinazione motoria. Ciò che un genitore, un insegnante o comunque una persona che entra in contatto con il bambino che presenta difficoltà motorie possono fare per favorire lo sviluppo di una buona capacità sociale ed emozionale è dare dei feedback positivi per i suoi tentativi e stimolare lo sviluppo di adeguate strategie di coping. Se la famiglia viene guidata da professionisti e specialisti del campo (psicologi, psicoterapeuti e psicomotricisti) riceverà l’aiuto necessario per comprendere le difficoltà vissute dal bambino e per costruire un ambiente più favorevole al suo sviluppo. Le capacità motorie devono essere considerate nella valutazione funzionale dei bambini in età scolare, in quanto non influenzano solo la possibilità di cimentarsi nelle attività scolastiche ma si riflettono nel funzionamento generale del bambino. È importante che tali aspetti siano inclusi nelle attività di screening, in modo tale da individuare precocemente specifiche difficoltà ed organizzare interventi altrettanto precoci, rivolti sia al dominio motorio che agli apprendimenti.

 

Autismi in pratica. 4 punti chiave per far funzionare la Token Economy

La Token Economy consiste nell’erogare rinforzatori simbolici (i gettoni/token) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino a quando non si arriva a un numero stabilito che permetterà l’accesso al rinforzatore vero e proprio. Quando si decide di presentare uno strumento del genere a un bambino con autismo bisogna rispettare una serie di accorgimenti.

 

La Token Economy, o economia a gettoni, viene proposta spessissimo dagli operatori per incrementare l’emissione di comportamenti desiderabili/adeguati da parte di bambini e/o ragazzi. Viene proposta perché, nonostante tutti i dubbi che suscita in chi si approccia ad essa per la prima volta, funziona! Inoltre, è adattabile ad età e funzionamenti diversi (“adattamento” è una parola chiave quando si ha a che fare con la disabilità!). Ma, concretamente, di che cosa si tratta?

Poniamo il caso che desideriamo alla follia quel robot da cucina che proprio non possiamo permetterci e che scopriamo che al supermercato X c’è una nuova raccolta di bollini. Se ne raccoglieremo a sufficienza, il robot potrà finalmente essere nostro. Che cosa faremo quindi? Andremo più spesso a fare la spesa nel supermercato X (comportamento bersaglio desiderato) e ci faremo dare i bollini (o gettoni, o token) così, quando ne avremo un numero sufficiente, precedentemente stabilito (o contrattato), potremo finalmente ritirare il nostro robot da cucina nuovo di zecca.

Ecco, in buona sostanza la Token Economy è questo. Si basa sul rinforzo positivo e consiste nell’erogare rinforzatori simbolici (i gettoni/token) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino a quando non si arriva a un numero precedentemente stabilito di token, che darà accesso al rinforzatore vero e proprio.

Quando si decide di presentare uno strumento del genere a un bambino con autismo bisogna rispettare una serie di accorgimenti.

Individuare in maniera operativa il comportamento che vogliamo incrementare (comportamento bersaglio). Questo significa che esso è già presente nel repertorio comportamentale del bambino, ma non con la frequenza attesa. La Token Economy non è adatta per insegnare nuovi comportamenti e, se la usassimo a questo scopo, non faremmo che generare frustrazione disincentivandone l’utilizzo.

Per evitare la perdita di motivazione, è consigliabile fare in modo che, le prime volte, sia più semplice accedere alla ricompensa, prevedendo ad esempio un numero ridotto di token da conquistare. Specie all’inizio, è bene non ricorrere allo stesso strumento per più comportamenti perché potrebbe confondere. Una volta che il suo funzionamento sarà acquisito si può (si deve?) fare.

Bisogna quindi stipulare un contratto: la persona deve essere a conoscenza di quello che ci aspettiamo da lui e di che cosa gli permetterà di guadagnare gettoni. Se si tratta di bambini piccoli o di individui con un funzionamento basso, sarà indispensabile, prima di proporre la nostra tabellina con la ricompensa finale, associare i token scelti (stelline? smile? monete? stickers di Harry Potter? Dipende da chi abbiamo davanti, ovviamente!) a un rinforzo tangibile. Ovvero, se sappiamo che per quella persona è molto gradita la cioccolata (perché abbiamo già fatto il nostro assessment delle preferenze) ogni volta che emetterà il comportamento target, noi elargiremo un pezzo di cioccolata e un gettone. Così quest’ultimo assumerà un valore che manterrà anche quando lo proporremo senza cioccolata. Con funzionamenti più alti è possibile associare la Token Economy a una storia sociale che chiarisca quali comportamenti verranno premiati e quali no, senza lasciare troppo spazio ad ambiguità.

I gettoni non si sottraggono a meno che ciò non sia specificato nel contratto (in questo caso però, se siamo di fronte a un individuo ansioso, il timore di perdere gettoni potrebbe offuscare la voglia di vincere la ricompensa finale). E dopo tutta questa teoria…la pratica?

Nella pratica clinica è possibile utilizzare la Token Economy con individui di ogni età e con differenti livelli di funzionamento. Si può usare per allungare i tempi di attesa e di permanenza a tavolino, per aumentare l’autonomia personale, per limitare i comportamenti di controllo verso gli altri, per promuovere la richiesta di aiuto come strategia per prevenire crisi comportamentali. Se ne possono costruire di semplici e complesse. Si tratta di uno strumento estremamente versatile ed efficace, se si tengono a mente questi consigli.

 

Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini – Recensione del libro

La vita di Rita Levi Montalcini si snoda per quasi un secolo di storia attraversando la seconda guerra mondiale, le leggi antirazziali, ricerche mediche pionieristiche e scoperte scientifiche coronate dal premio Nobel. In questo libro, lei ne ripercorre ogni tappa, intrecciandola con ricordi intimi e familiari e un punto di vista critico e mai banale.

 

L’originalità dello sguardo con cui l’autrice descrive eventi privati, pubblici e storici è ben rappresentata dallo stesso titolo scelto per la propria autobiografia, che si ispira a quello della celebre opera Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.

Scriveva nel 1509 il teologo e filosofo olandese:

 

Sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.

A distanza di mezzo millennio, la scienziata italiana sembra confermare un’affermazione così ardita con la sua stessa esperienza di vita, ricordando che:

La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, (..) mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.

Non solo. Raccontando la propria storia, si cimenta nell’ardito compito di valorizzare un altro demonizzato stigma dell’essere umano: l’imperfezione.

Senza seguire un piano prestabilito, ma guidata di volta in volta dalle mie inclinazioni e dal caso, ho tentato (…) di conciliare due aspirazioni inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: “Perfection of the life, or of the work”. Così facendo, e secondo le sue predizioni, ho realizzato quello che si può definire “inperfection of the life and of the work”. Il fatto che l’attività, svolta in modo così imperfetto, sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito (…) sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione. (Rita Levi Montalcini)

Cresciuta nell’alta borghesia torinese, Rita sin da bambina è giudicata come più introversa e meno talentuosa dei fratelli, che possiedono spiccate doti artistiche. Critica fin da giovanissima sulle convenzioni sociali che limitano la libertà femminile e che relegano la donna ad una condizione subordinata e domestica, decide solo in tarda adolescenza di dedicare i suoi studi ad un ambito universitario, quello della medicina, ancora prettamente maschile, rifuggendo dall’idea del matrimonio e dei figli. Iscritta alla facoltà di medicina di Torino, diventa presto tirocinante presso l’Istituto di Anatomia sotto la guida del professor Levi, di cui delinea un burbero quanto affettuoso e indimenticabile ritratto. Anche tra le mura dell’Istituto torinese non spicca per particolari doti scientifiche a confronto con i compagni, tra cui si annoverano nomi come quelli de futuro premio Nobel Renato Dulbecco. Rita non possiede innatamente il cosiddetto “pollice verde” per le preparazioni istologiche, trova noiose e improduttive le sue prime mansioni di ricerca e fallisce del tutto uno dei progetti scientifici che le vengono assegnati. Tuttavia, sfide ben più ardue la attendono negli anni successivi. L’avvento del fascismo e delle leggi razziali comporta un giro di boa nella vita dell’autrice così come in quella della sua famiglia, dei colleghi, dell’Italia e dell’Europa intera.

L’autobiografia Elogio dell’imperfezione si suddivide in quattro grandi capitoli. Se il primo capitolo è interamente dedicato ai ricordi familiari dell’infanzia e agli anni universitari della giovinezza, il secondo si concentra sugli anni della seconda guerra mondiale, così difficili, eppure indispensabili per formazione di quella predisposizione all’ottimistica tenacia e lungimiranza che costituisce la “sana” ed elogiata follia, foriera di conoscenza, elogiata da Erasmo da Rotterdam.

Rita, giovane studiosa ebrea, con le leggi razziali viene privata della possibilità di svolgere i suoi studi in università. Combattuta tra due prerogative apparentemente inconciliabili, la prosecuzione delle sue ricerche all’estero o la vita familiare accanto ai suoi cari in Italia, Rita si adopera ingegnosamente per perseguirle entrambe. Così i ricordi degli studi scientifici iniziano a legarsi curiosamente e indissolubilmente a scene di vita intime e familiari. La sua piccola camera da letto torinese viene trasformata in laboratorio, dove accorrono professore e colleghi, egualmente impossibilitati a svolgere le loro attività. Il microscopio, acquistato a spese della famiglia, la accompagna ad ogni suono di sirena quando, annunciati i bombardamenti, Rita stringe a sé il materiale più costoso per i suoi esperimenti nelle interminabili ore trascorse nei rifugi. E quando vivere in città diviene troppo pericoloso, il laboratorio si trasferisce in un angolo del soggiorno della casa di campagna. In quell’angolo, la studiosa può continuare gli studi sugli embrioni di pollo, ricavati dalle stesse uova che prima vengono acquistate nelle cascine vicine e, a fine esperimento, diventano ingredienti di torte e frittate cucinate e servite ai sospettosi e attoniti familiari. Guerra, tentate fughe e malattie spezzano alcuni legami sentimentali e di amicizia, così come ne creano e rinforzano altri.

Paradossalmente, solo con l’avvento del Dopoguerra in Italia, Rita prende la decisione di recarsi all’estero. Quella che doveva essere un’esperienza di studio di sei mesi si trasforma in un soggiorno trentennale negli Stati Uniti.  Proprio a quei trent’anni è dedicato il terzo capitolo del libro, in cui l’autrice delinea un affresco della società americana, traccia affettuosi ritratti dei più stretti amici e collaboratori e ripercorre il suo percorso di studi, ricordando le sue prime grandi scoperte scientifiche insieme ai dubbi, alle perplessità, alle sfide che le hanno precedute. Per i non addetti ai lavori questa rappresenta senza dubbio la parte più complessa dell’opera. Per quanto l’autrice cerchi di rendere fruibile al grande pubblico il suo campo di studio, la complessità dei temi trattati e la specificità dei termini utilizzati fa sì che alcune parti risultino più lente e meno chiare rispetto alle pagine precedenti. Per coloro che si occupano di neuroscienze, sarà tuttavia estremamente interessante ripercorrere quali fasi sperimentali e quali ipotesi hanno preceduto la scoperta del Nerve Growth Factor, il fattore di crescita neuronale per la quale la scienziata ha meritato il Nobel. Coloro che si occupano di ricerca saranno invece incuriositi dal singolare affresco delle procedure dell’epoca, in cui mancavano le attuali tecnologie e mezzi di comunicazione; fitti scambi epistolari, che Rita arricchiva con i disegni di ciò che osservava al microscopio, erano la prassi per fornire e ricevere pareri tra colleghi. Infine, per qualsiasi lettore, risulterà di impagabile valore l’esempio di “folle” tenacia nel perseguire quell’intuizione che inizialmente professori e colleghi, increduli, osteggiavano, e nell’affrontare i periodi di “stallo”, in cui il lavoro compiuto appariva fallimentare.

A concludere l’opera vi è il quarto capitolo, che non coincide con il gli ultimi anni di vita della scienziata, ma chiude il cerchio del percorso di studi e familiare delineato in precedenza. E’ il capitolo del rientro in Italia, del ricongiungimento con la famiglia e dell’apertura del centro per lo studio delle neuroscienze, da lei diretto, a Roma. Il lutto per la morte della madre e le difficoltà nel dirigere un istituto di ricerca in Italia sono un’ennesima sfida. Rita, come in passato, non si tira indietro. E, con questo ultimo esempio, sembra voler ribadire la profonda convinzione che, sia nello studio del “meraviglioso e quanto mai imperfetto cervello dell’Homo Sapiens” sia nella vita privata, limiti e imperfezioni siano inevitabili e non debbano diventare pretesti per arrestare il cammino prefissato.

Considerando in retrospettiva il mio lungo percorso, quello di coetanei e colleghi, (…) credo di poter affermare che, nella ricerca scientifica, nè il grado d’intelligenza, nè la capacità di eseguire e portare a termine con esattezza il compito intrapreso, siano i fattori essenziali per la riuscita e la soddisfazione personale. Nell’una e nell’altra contano maggiormente la totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà: in tal modo possiamo affrontare problemi che altri, più critici e più acuti, non affronterebbero.”

 

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