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Pensiero consapevole e automatico – I contributi di Kahneman

Kahneman evidenzia come alcuni bias cognitivi possano interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi errori del terapeuta è molto spesso la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Il primo articolo della serie, pubblicato il 09 Gennaio su State of Mind, si è concluso con il riferimento alle teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia. Nel presente articolo esamineremo nel dettaglio una parte di queste importanti teorie.

 

L’attenzione

L’attenzione può portarci alla cecità. Quando concentriamo la nostra attenzione, per un motivo o per l’altro, su determinati particolari, altri stimoli sono del tutto scotomizzati. L’esperimento The invisible gorilla ne è un esempio suggestivo: concentrati nel contare i passaggi della palla di una squadra di basket gli osservatori non si accorgono che a un certo momento il campo è attraversato da un gorilla.

Quando si diventa esperti di una materia l’attenzione che si applica diminuisce. Gli psicoterapeuti esperti, ad esempio, possono compiere errori proprio perché pigri nell’aprirsi a valutazioni diagnostiche o a possibilità terapeutiche alternative a quelle praticate di routine.

La legge del minimo sforzo si applica sia allo sforzo fisico sia allo sforzo cognitivo (Kahneman, 2013).

Spostare l’attenzione da un compito all’altro è faticoso, impegna la memoria di lavoro in un duro sforzo, soprattutto quando si hanno limiti di tempo, quindi meglio evitare sovraccarichi mentali e selezionare compiti facili cui prestare attenzione.

Memoria e attenzione selettive sono processi molto presenti in psicopatologia e impegnano il terapeuta a dividere la concentrazione sul compito dal controllo intenzionale dell’attenzione. Controllare se la manopola del gas è chiusa richiede uno sforzo notevole per un ossessivo, mentre per un cultore della letteratura il mantenere l’attenzione concentrata sul romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega non è faticoso e non richiede autocontrollo. Le tecniche di mindfulness, in questo senso aiutano ad avere un’esperienza ottimale, ad attivare uno stato di flusso che libera risorse da impegnare verso il compito che si svolge con piena consapevolezza.

Una trappola da “attenzione polarizzata è insita nel concetto stesso di “diagnosi. In proposito si legga il resoconto dell’esperimento noto come “la beffa di Roshenam”.  Quando si formula una diagnosi, automaticamente, si percepiscono tutti gli elementi che la confermano e si trascurano quelli che la metterebbero in dubbio. Lo stesso si verifica quando si ha un principale interesse di studio. I costrutti in quel dominio si arricchiscono e si raffinano e dunque colgono aspetti della realtà sempre più numerosi. E’ normale tra colleghi dirsi che se un certo paziente andrà in un certo studio si prenderà certamente una certa diagnosi e viceversa se andrà in un altro. C’è chi vede dappertutto disturbi dell’umore, chi riconosce deficit metacognitivi ovunque e chi percepisce tracce di disorganizzazione dell’attaccamento in ogni paziente. Per dirla come lo direbbe nostro nonno “ognuno ha le sue fisse” e trova continuamente motivi per convincersi della loro bontà e importanza.

L’energia mentale che s’impegna in compiti eseguiti dal sistema 2 genera stanchezza e può indurre errori intuitivi, perché viene meno la funzione di monitorare e controllare pensieri e azioni suggerite dal sistema 1. Esiste pertanto un principio di ottimizzazione (Lorenzini, Scarinci, 2013) del funzionamento mentale che può indurre bias sia in relazione ai processi di tipo 1 per cui l’intuizione ci porta a scegliere acriticamente, sia riguardo ai processi di tipo 2 per cui la pigrizia comporta un cattivo funzionamento della razionalità.

Un terapeuta deve lasciarsi guidare dall’intuizione clinica ed essere spregiudicato e creativo in quella che Popper definisce “la logica della scoperta” in cui è attivo il sistema 1, ma poi deve entrare in quella che Popper chiama “la logica della giustificazione” che richiede un’analisi critica in cui invece è attivo il sistema 2.  Questa seconda fase è quella che richiede più fatica per cui è la prima a cedere quando si lavora in situazioni di stanchezza o di stress. Paradossalmente, liberi dalla voce critica del sistema 2, si può sperimentare una sensazione di fluidità ed efficacia mista a gratificazione per la propria bravura, che è simile alla sensazione di essere particolarmente bravi a guidare che si ha sotto l’effetto dell’alcol che peggiora in realtà la performance, ma ancor di più la capacità critica verso la performance stessa con un saldo positivo in termini di autoefficacia e dei conti per spese di riparazione della vettura. Un terapeuta stanco commette più errori e contemporaneamente si sente più bravo.

La riflessione su cosa pensiamo e su come pensiamo è oggetto del dibattito che si sta sviluppando di recente tra i cognitivisti.

Wells (2012) rileva come la tendenza a preoccuparsi eccessivamente, a ruminare, a focalizzare l’attenzione sulla minaccia e a far fronte al problema per mezzo dell’evitamento cognitivo possano interferire con il normale processo di adattamento psicologico e condurre a un pensiero costantemente orientato al pericolo e, quindi, al mantenersi dei sintomi (sindrome cognitiva-attentiva).

L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012). Questa modalità può essere riportata all’eccessivo controllo del sistema 2.

Alla disattivazione del sistema 2 fa riscontro una modalità di pensiero che troviamo in alcuni disturbi gravi di personalità (schizotipici, schizoidi, paranoici) o psicotici in cui l’over-inclusion, l’inclusione in una classe di elementi che “intuitivamente” possono presentare caratteristiche analoghe determina un grave distacco dal principio di realtà. Questi processi possono essere riportati all’eccessiva attivazione del sistema 1 e alla contestuale inattività del sistema 2.

In forme non patologiche questi processi possono interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi bias del terapeuta è lo stesso che ritroviamo alla base di molte patologie e cioè la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

L’associazione delle idee

Somiglianza, contiguità e causalità sono le tre leggi che Hume pose alla base dell’associazione delle idee. La memoria associativa combina le idee in associazioni consapevoli e inconsapevoli. Sappiamo che le nostre emozioni e i nostri comportamenti possono essere innescati da eventi di cui spesso siamo inconsapevoli.

Una parte importante del lavoro terapeutico ha, infatti, come obiettivo il miglioramento dell’autoriflessività, monitorare pensieri emozioni e comportamenti per portarli alla consapevolezza.

Alcuni esperimenti dimostrano che se, per esempio, si è sensibilizzati a pensare alla vecchiaia si tende ad agire come vecchi, così come comportarsi da vecchi rafforza il pensiero della vecchiaia. I nessi reciproci sono frequenti nella rete associativa ”mettono in relazione il passato con il presente e creano aspettative sul futuro”. (Kahneman, 2013).

Allo stesso modo potremmo dire che un terapeuta che percepisca il paziente come irrimediabilmente malato e non veda in lui risorse positive, ma solo deficit e sintomi, attiverà un fattore di mantenimento e cronicizzazione.

In termini causali, altresì, gli stimoli cui siamo sottoposti hanno un peso notevole nelle decisioni, il sistema 1 fornisce impressioni che possono trasformarsi in convinzioni che guidano scelte e azioni.  Migliorare le capacità di mastery consente di individuare le cause dei nostri stati emotivi ricorsivi e disadattivi e di intervenire sugli stati interni da cui sono generati, correggendo bias associativi che potrebbero farci credere che sono gli eventi a determinare l’intensità e la durata delle nostre emozioni. Anche il disputing empirico, logico e pragmatico è una tecnica molto utile allo scopo.

Fluidità cognitiva

La fluidità cognitiva si contrappone alla tensione cognitiva determinata da un problema che chiama all’opera il sistema 2. Quando tutto scorre, le cose vanno bene, il tutto è facile siamo sul sistema 1.

Possiamo però avere delle illusioni, non solo ottiche, ma di memoria e di pensiero. Vari esperimenti hanno dimostrato come siano possibili in uno stato di fluidità cognitiva le illusioni (Kahneman, 2013). Un primo elemento che entra in gioco è l’impressione di familiarità, qualcosa già visto in precedenza, con qualità di déjà vu, ci dà maggiore fluidità. Inoltre se qualcosa rende più facile i meccanismi associativi, tenderà a condurre il soggetto a credenze viziate da errori. La frequente ripetizione di un’affermazione diventa, per esempio, una verità, la familiarità dell’espressione la rende vera.

Gli studi sulle illusioni di verità ci indicano anche che riducendo la tensione cognitiva possiamo rendere più vere alcune affermazioni, ma anche che la mobilitazione del sistema 2, più analitico, porta una modalità più impegnativa ma anche più funzionale in alcuni casi rispetto al sistema intuitivo.

Poiché tutto porta a concludere che il lavoro migliore si faccia quando sono attivi e cooperativi entrambi i sistemi 1 e 2 ce la potremmo cavare dicendo che bisogna essere a un tempo intuitivi, creativi e critici, ma questo è un auspicio difficile da tradurre in pratica e allora è più facile distinguere i due momenti. Il tempo della seduta è quello dell’immersione nella relazione con il paziente, della creatività immediata e della fluidità, mentre il tempo della revisione critica e della progettazione delle mosse successive è quello tra una seduta e l’altra magari con l’aiuto di un supervisore che funge da “sistema 2 esterno”.

Un ruolo importante sulla fluidità cognitiva, sulla creatività e le intuizioni di coerenza lo svolge anche l’umore positivo.

Si crea dunque un circolo virtuoso positivo per cui con un paziente con cui stiamo bene lavoriamo meglio e questo ce lo fa sentire sempre più gradevole. Ciò può portare progressivamente ad abbassare il livello di supervisione del sistema 2 incorrendo in errori senza assolutamente avvedersene. Ovviamente si dà anche il caso inverso con quei pazienti che non si ha voglia di trattare.

In sostanza la funzione principale del sistema 1 è quella di garantire regolarità agli avvenimenti che ci perturbano, cioè costruire schemi d’idee associative che rappresentano la struttura degli eventi della nostra vita. Previsioni e aspettative guidano così il nostro agire e determinano relazioni causali tra gli eventi.

Il sistema 1 ci fa risparmiare tempo e fatica perché salta alle conclusioni. Se le conclusioni tendono a essere corrette il costo di un errore può essere sopportato, ma se la posta in gioco è alta e la situazione incerta meglio avvalersi del sistema 2. Il primo tende a credere, ”quello che si vede è l’unica cosa che c’è”, per dirla con Kahneman, il secondo a dubitare e considerare le informazioni in modo sistematico e analitico. Il sistema 1, quindi, influenza anche le decisioni più razionali.

Esso fornisce valutazioni di base per l’adattamento. Valuta se le situazioni sono positive o negative e dal punto di vista evolutivo tutto ciò è estremamente importante. Calcola somiglianze e differenze, nessi causali, disponibilità, prototipi. Valuta in base ad una scala d’intensità che è applicata a dimensioni diverse e calcola più di quanto sarebbe necessario generando risposte rapide (euristiche) a domande difficili senza richiamare il sistema 2 che in alcune circostanze per pigrizia avvalla la risposta euristica.

Insomma il sistema 1 è sì un po’ approssimativo ma per questo molto rapido e spesso la rapidità è più importante dell’assoluta precisione, talaltra è l’inverso. L’affetto, l’umore e le emozioni determinano le valutazioni del sistema 1 con il bene placido del sistema 2 che assume per così dire un atteggiamento accomodante. Per questo spesso è necessario andare a cercare “quello che non c’è” perché questa ricerca potrebbe aprirci prospettive diverse e fornirci elementi che possano aiutare a prendere decisioni più razionali. Un po’ come quando si è innamorati, si vedono solo le caratteristiche positive della persona che stiamo frequentando. A quel punto dovremmo chiederci cosa c’è che non va in questa persona, qual è la sua “ombra”, quali sono le sue caratteristiche negative? E con il paziente cosa non ho visto, cosa non ho considerato, cosa mi potrebbe sfuggire?

D’altronde, se avessimo sempre attivo quel criticone del sistema 2 quale partner supererebbe lo screening iniziale meticoloso? non ci innamoreremmo e la specie si estinguerebbe.

 

Nei prossimi articoli saranno analizzati gli ulteriori contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia

 

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Silenzio ed espressione dell’inconscio: il silenzio comunicativo nella seduta psicoanalitica

Attualmente il ruolo scientifico e culturale del silenzio è tornato ad essere soggetto di interesse e di studio. Uno dei silenzi che sta attraendo nuovamente la curiosità, del quale parleremo nell’articolo, è quello nella seduta psicoanalitica

 

Il silenzio, nella sua definizione di evitamento del rumore superfluo derivato dalle innovazioni delle tecnologie comunicative e lavorative, è tornato di grande interesse nella cultura accademica e di massa  (Gross, 2018). Il valore benefico di passare del tempo fisico ed emotivo senza distrazioni e/o sovraccarico di stimoli sensoriali è stato riconfermato sia dal punto di vista psicologico (Price-Mitchell, 2013) che dal punto di vista fisiologico (Novotney, 2011). Assieme alla ricerca di spazi igienicamente silenziosi, la letteratura divulgativa suggerisce che esso sia accompagnato da altre attività ancestrali dell’evoluzione umane, come passare del tempo nella Natura (Schuling, Van Herpen, de Nooij, de Groot e  Speckens, 2018) o attuare esercizi fisici (Lieberman, 2012).

Una tipologia di silenzio che ha attirato nuovamente l’attenzione da parte del panorama psicologico e non è quello legato alla seduta psicanalitica (di Diodoro, 2019). L’approccio psicanalitico, che in questi anni ha avuto una riscoperta e una rinnovata popolarità (Burkeman, 2016), ha come assoluto fondamento il flusso di comunicazione verbale da parte del paziente (Ezriel, 1972). Come indica lo psichiatra Fabrizio Asoli (2019), il silenzio all’interno delle terapie psicanalitiche è infatti visto esternamente o a primo impatto come un fatto negativo, come un qualcosa che a prima vista possa inficiare il rapporto terapeutico rallentando così il percorso del paziente o peggio invalidare il percorso di analisi.

In realtà, come specifica sempre Asoli, è il contrario: questo silenzio è l’utilizzo del tempo nel quale lo psicanalista permette al paziente di adattarsi all’ambiente e all’atmosfera terapeutica, creando una relazione costruita sull’empatia e sulla fiducia. Di fatto, anche attraverso l’assenza di parole ed attraverso l’utilizzo della comunicazione para e non verbale, il paziente contestualizza feedback riguardanti l’ambiente e le sue sensazioni sul processo terapeutico (Liegner, 1974).

Permettendo al paziente di stare in silenzio, il terapeuta gli lascia spazio alle riflessioni e alle emozioni, facendo sì che esso possa poi iniziare il suo percorso analitico con più sicurezza: uno degli errori meno preferibili da attuare, se non assolutamente da evitare, da parte dell’analista, è quello di dare l’idea di avere fretta o imporre dei totali limiti di tempo alle sedute e al processo terapeutico, così da rovinarlo (Cicerone, 2019). Al contrario, permettere che ci siano spazi vuoti di parole crea la sensazione che non ci sia inibizione verbale, dando vita ad un percorso più sereno e conciliato fra le due parti, soprattutto se il paziente manifesta sintomatiche nevrotiche (Levy, 1958). L’utilizzo degli spazi vuoti deve così diventare uno strumento di base per i terapeuti, una risorsa preziosa che porti beneficio e fluidità al rapporto analitico col paziente (Sabbadini, 2006).

Come disse Paul Watzlawick “non si può non comunicare” (1971) e il silenzio nella seduta psicanalitica può essere, nei tempi e negli spazi giusti, uno dei migliori tipi di comunicazione terapeutica.

 

L’abuso di alcol nella schizofrenia e nel disturbo schizoaffettivo

In un recente studio è stata esplorata la possibile eziologia alla base della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare il disturbo da uso di alcol in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo

 

La schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo sono inclusi, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), nella sezione dei disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici. Essi causano un’evidente e significativa disabilità, i cui sintomi principali includono allucinazioni, deliri, disorganizzazione del pensiero e decadimento cognitivo. Nel disturbo schizoaffettivo, i sintomi psicotici si verificano in concomitanza con i disturbi dell’umore, depressione o mania. Nonostante questi disturbi non abbiano un’alta prevalenza nella popolazione, tra coloro che soffrono di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo il disturbo da uso di alcol (AUD) è molto comune e contribuisce al peggioramento dei sintomi rispetto ai soggetti che non presentano comorbilità con un disturbo da uso di sostanze. Infatti, gli individui con disturbi psicotici hanno il rischio tre volte maggiore di consumare alcolici rispetto alla popolazione generale. Per gli individui che hanno la schizofrenia, l’AUD è associato a depressione, suicidio, non aderenza ai farmaci, problemi fisici cronici, aggressività, violenza, incarcerazione e alti tassi di ricovero in ospedale. Quali sono le cause di questa co-occorrenza? In un recente studio (Archibald, Brunette, Wallin, & Green, 2019) è stata esplorata la possibile eziologia della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare l’AUD in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo; lo studio ha inoltre proposto linee guida per un’interazione più efficace tra trattamenti farmacologici e psicosociali.

In primo luogo, numerosi studi supportano l’idea che alcuni fattori genetici possano portare ad un aumento del rischio per lo sviluppo di schizofrenia e disturbo da uso di sostanze. Questi studi sono stati integrati con teorie più recenti che hanno sottolineato l’importanza dell’interazione tra vulnerabilità genetica e ambientale nell’emergere della sintomatologia psicotica. La teoria è riconosciuta come teoria dei due colpi (Rosenthal, 1970) e sostiene che il rischio genetico per la schizofrenia associata al consumo di alcol durante l’adolescenza aumenti il rischio di comorbilità tra il disturbo psicotico e il disturbo da uso di sostanze nell’età adulta. Un’ulteriore teoria che spiega l’elevato tasso del disturbo da uso di sostanze tra gli individui affetti da schizofrenia è l’ipotesi dell’automedicazione (Khantzian, 1997) la quale suggerisce che le persone usino sostanze per trovare sollievo dai sintomi o nel tentativo di ridurre gli effetti collaterali derivanti dai trattamenti antipsicotici. Sebbene clinicamente plausibile, questa teoria non è stata supportata dalla ricerca. La teoria più recente, riconosciuta come ipotesi di dipendenza primaria o sindrome da deficit di ricompensa (Khokhar, Dwiel, Henricks, Doucette, & Green, 2018), sostiene che la co-occorrenza tra schizofrenia e disturbo da uso di sostanze possa essere correlata ad una disregolazione del sistema di ricompensa mesocorticolimbica nel cervello. Altre variabili che sono state prese in considerazione come possibile eziologia della comorbilità dei due disturbi sono: scarso sviluppo cognitivo, inadeguato funzionamento sociale, effetti della povertà e ambienti sociali poveri.

Il trattamento ottimale combina l’intervento farmacologico e altre modalità terapeutiche, per lo più interventi psicosociali, per affrontare sia il disturbo psicotico che l’AUD. In breve, per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, sebbene pochi studi abbiano esaminato gli effetti dei farmaci (ad es. naltrexone, disulfiram e acamprosate) che trattano l’AUD tra gli individui con disturbi psicotici, sono presenti sufficienti prove della sicurezza e dei potenziali benefici dei farmaci per incoraggiarne un maggiore utilizzo in questa popolazione. In relazione ai trattamenti psicosociali, invece, sembra avere risultati soddisfacenti sia nel trattamento della AUD che della schizofrenia la terapia di gruppo che utilizza la terapia cognitivo comportamentale, la terapia di potenziamento motivazionale e la gestione delle emergenze. Quest’ultima comporta ricompense concordate, immediate e tangibili, per rafforzare comportamenti positivi, come la frequenza del trattamento o l’astinenza dalle sostanze alcoliche. Vengono utilizzati anche interventi più intensivi, tra cui il trattamento della comunità assertiva (ACT) e programmi residenziali, che sembrano avere risultati positivi sul benessere delle persone affette da disturbi dello spettro schizofrenico e AUD. L’ACT è un modello di cura che offre una gamma di servizi completi (attività di sensibilizzazione della comunità, disponibilità 24 ore su 24 per comunicazioni di emergenza, trattamenti farmacologici e comportamentali per il disturbo da sostanze) attraverso un team multidisciplinare. I programmi residenziali, infine, possono essere particolarmente indicati per i senzatetto o per coloro che non hanno avuto una risposta ottimale ad altre tipologie di intervento. Gli alcolisti anonimi sono sottoutilizzati tra soggetti con AUD e disturbi psicotici ricorrenti, è più opportuno utilizzare un programma di riunioni a 12 fasi chiamato doppio recupero anonimo. Nello specifico, il doppio recupero anonimo è un programma in 12 fasi su misura per le persone con malattie mentali e disturbi associati all’uso di sostanze. Infatti, le persone che hanno disturbi psicotici traggono beneficio dall’educazione e dal sostegno che ricevono partecipando, tuttavia le persone che hanno psicosi acute potrebbero non essere in grado di tollerare queste riunioni. Le prove a sostegno di questo trattamento mostrano tassi più elevati di astinenza, una migliore aderenza ai farmaci psichiatrici e un miglioramento del funzionamento personale per coloro che hanno partecipato a gruppi a doppio focus rispetto a quelli che hanno partecipato solo ad alcolisti anonimi. La ricerca sull’efficacia di questi interventi e sull’eziologia della comorbilità tra disturbi dello spettro schizofrenico e AUD è ancora in corso.

 

Loot Boxes: quando i videogames rischiano di diventare gioco d’azzardo

Le Loot Boxes sono dei pacchetti premio, dal contenuto segreto, all’interno dei videogames che possono essere acquistati attraverso soldi o punti ottenuti nell’ottica di migliorare l’esperienza di gioco. Numerosi studiosi hanno notato come le Loot Boxes condividano numerose caratteristiche strutturali e meccanismi psicologici con il gioco d’azzardo.

 

Probabilmente il termine il Loot Boxes (o loot crate) al grande pubblico risulta particolarmente oscuro, e spesso anche tra gli utilizzatori di videogames si può trovare chi ne ignora definizione e caratteristiche. Le Loot Boxes sono dei pacchetti premio all’interno dei videogames che possono essere acquistati attraverso soldi (generalmente con carta di credito) o punti ottenuti durante il gioco. Ciò che c’è all’interno di queste Loot Boxes è segreto e può variare, ma permette di migliorare l’esperienza di gioco attraverso contenuti, accessori e caratteristiche non ottenibili regolarmente (Griffiths, 2018). Per questo motivo, i video-giocatori sono stimolati  ad acquisire questi forzieri premio per sperare che all’interno ci siano oggetti rari o introvabili che possano aiutarli a migliorare ed andare avanti. Tuttavia, quando i gamers acquistano le Loot Boxes non hanno la possibilità di sapere in anticipo il contenuto o il valore delle ricompense e si ritrovano quindi ad acquistare con soldi veri contenuti virtuali completamente casuali (Drummond & Sauer, 2018).

Queste peculiarità delle Loot Boxes hanno portato numerosi studiosi a notare come condividano numerose caratteristiche strutturali e numerosi meccanismi psicologici tipici del gioco d’azzardo (Griffiths, 2019). Gli effetti sonori e visivi generati dall’apertura di una Loot Boxes sono molto simili a quelli tipici delle slot machines con colori accesi intermittenti e suoni ripetitivi che attirano l’attenzione (Drummond & Sauer, 2018). Inoltre, gli algoritmi sottostanti le Loot Boxes generalmente tendono a favorire l’erogazione di premi ad alto valore dopo che sono stati aperti un numero variabile di scatole premio precedenti e questo tipo di programma di rinforzamento è molto comune in diverse tipologie di gioco d’azzardo (Drummond & Sauer, 2018; Griffiths, 1996). Questo processo viene definito rinforzo a rapporto variabile e consiste nel rendere la ricompensa, a seguito di un’attività, imprevedibile per l’individuo che non sa quando riceverà il premio (Fester, & Skinner 1957). I video-giocatori potrebbero infatti aprire un numero sempre maggiore di Loot Boxes spinti dalla speranza di ricevere una ricompensa di alto valore (Drummond & Sauer, 2018; Griffiths, 1996).

Drummond and Sauer (2018) hanno condotto una analisi su 22 videogames contenenti Loot Boxes analizzando se fossero classificabili secondo i cinque criteri che definiscono un attività come gioco d’azzardo: 1) è presente uno scambio di denaro o di beni; 2) lo scambio di denaro, oggetti o beni è determinato da un evento il cui risultato è sconosciuto; 3) Il risultato dell’attività è, almeno in parte, dovuto al caso; 4) la mancata partecipazione all’attività permette di non avere alcuna perdita; 5) la ricompensa ha un valore maggiore della prima spesa effettuata per partecipare all’attività. I due autori concludono nel loro report per il parlamento australiano (Environment and Communications References Committee, 2018, pag. 32) che quasi la metà dei videogames esaminati ha soddisfatto tutti i criteri, e più di un quinto dei videogames permette anche agli utenti di incassare le vincite virtuali convertendole in soldi reali, costituendo, secondo il loro punto di vista, chiaramente una forma di gioco d’azzardo.

Ulteriori studi hanno approfondito la relazione tra Loot Boxes e rischio di sviluppare problemi legati al gambling, confermandone il legame (Griffiths, 2019; Macey, & Hamari, 2019; Zendle, & Cairns, 2018; 2019). Se da un lato, infatti, le persone che hanno già difficoltà legate al gioco d’azzardo patologico potrebbero trovare nei videogames che implementano le Loot Boxes un’ulteriore rischio per perpetrare la tendenza a spendere soldi in attività ludiche basate sulla scommessa, dall’altro lato le numerose caratteristiche che accomunano le Loot Boxes e il gambling possono agire da “ponte” per la promozione di problemi legati al gioco d’azzardo per i videogiocatori (Zendle, Cairns, Barnett, & McCall, 2020). Questo pericolo può essere particolarmente saliente per i videogiocatori più giovani che tendono ad essere più vulnerabili all’acquisto impulsivo ed eccessivo di Loot Boxes e potrebbero essere portati con maggiore probabilità a passare dallo scommettere in modo virtuale dei videogames alle scommesse con soldi reali (Griffiths, 2019). Nonostante tra gli esperti ci sia consenso sulla possibile associazione tra alcune forme di Loot Boxes ed il gioco d’azzardo patologico, gli studi sulla tematica sono ancora limitati (Griffiths, 2019). Per questo motivo, numerosi paesi hanno aperto tavoli tecnici e istituito commissioni specifiche sulla tematica per stabilire se ci siano le basi per classificare le Loot Boxes come attività di gambling e se fosse quindi necessario regolarizzare le Loot Boxes secondo la legislazione applicata ai giochi d’azzardo.

Le commissioni e le agenzie per il Gioco d’azzardo di sedici paesi (Austria, Francia, Gibilterra, Irlanda, Isola di Man, Jersey, Lettonia, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, e Stato di Washington negli Stati Uniti) hanno firmato nel 2018 una dichiarazione di impegno nella regolamentazione del gioco d’azzardo a causa delle preoccupazioni riguardanti la sottile linea tra gioco e gioco d’azzardo (Gambling Commission, 2018). Questo gruppo di lavoro che si è successivamente allargato con l’inserimento di Danimarca, Finlandia e Cipro, ha stilato un documento finale congiunto anche con il contributo di Australia, Estonia e Germania che ha sottolineato come ciascun paese sia chiamato ad implementare una regolamentazione delle Loot Boxes secondo i criteri di gioco d’azzardo applicati a livello nazionale con l’intento di trovare pratiche comuni anche a livello internazionale (Gaming Regulators European Forum, 2019). In tal senso Belgio ed Olanda (Belgian Gaming Commission, 2018; Kansspelautoriteit, 2018) sono intervenuti classificando alcune forme di Loot Boxes come gioco d’azzardo e quindi applicando a questi videogames le stesse leggi per giochi come slot-machines, lotterie e scommesse. Altri paesi come Germania e Francia (Autorité de régulation des jeux en ligne, 2018 Kommission für Jugendmedienschutz, 2018) hanno invece stabilito che, secondo le leggi nazionali, non possono essere classificate come vero e proprio gioco d’azzardo, ma che condividono diversi aspetti con il gambling e che sono quindi necessarie ulteriori analisi ed approfondimenti anche attraverso linee guida condivise a livello internazionale. In Italia, la tematica resta ancora poco affrontata e sicuramente a destare maggiore sorpresa è che sebbene in altri paesi la discussione si sia intrapresa già da diversi anni, al 2019 in Italia sembra non essersi accorti della questione.

Eppure le Loot Boxes sono un fenomeno estremamente ampio e globale e gli acquisti di contenuti, accessori, e caratteristiche all’interno dei videogames hanno un giro finanziario che è stato stimato intorno ai 90 billioni di dollari nel 2017 (Editorial, 2018). Le aziende di videogames ed intrattenimento, infatti, tendono a sottostimare il fenomeno, portando Electronic Arts (una delle più grandi aziende di videogiochi nel mondo) a definire le Loot Boxes meccanismi a sorpresa equiparabili agli Ovetti Kinder (Digital, Culture, Media and Sport Committee, 2019), ma in seguito alle indicazioni dei diversi paesi si sono comunque mostrate in grado di trovare compromessi per fornire esperienze di gioco sempre più piacevoli riducendo il rischio di conseguenze negative per gli utenti senza grosse ripercussioni sui profitti aziendali (McCaffrey, 2019). Risulta quindi necessario iniziare un percorso di identificazione delle strategie di regolamentazione più adatte alle Loot Boxes che coinvolga tutte le parti in causa verso una responsabilità sociale nell’uso delle stesse nei videogiochi (King, & Delfabbro, 2019). Naturalmente, l’intento di una regolamentazione non sarebbe quello di demonizzare le Loot Boxes o i videogames che le utilizzano, ma semplicemente rendere più consapevoli gli utenti dei rischi collegati a queste pratiche e cercare di evitare che vengano utilizzate forme di monetizzazione predatorie (King, & Delfabbro, 2019) che vadano a discapito degli utenti, specialmente i più giovani.

 

Scuola: integrare l’integrazione. Prospettive a confronto

L’inclusione di alunni con disabilità è da sempre un tema centrale per la pedagogia della scuola italiana. È una pratica attiva che dà luogo a un processo di crescita per gli alunni con disabilità, ma anche per i loro compagni.

Maddalena Mauri e Silvia Busti Ceccarelli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Infatti, secondo la pedagogia italiana, crescere è un processo individuale che ha però le proprie fondamenta nel rapporto e nella relazione con gli altri; per questo la scuola si propone di essere una comunità educante, che accoglie ogni alunno con l’obiettivo di fornire le condizioni ideali a consentirne il massimo sviluppo (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Linee Guida per l’Integrazione Scolastica degli alunni con disabilità

Da un punto di vista giuridico, la tutela di tale diritto è garantita dalla norma costituzionale del diritto allo studio, la quale, interpretata alla luce della legge 59/1997 e del DPR 275/1999, prevede che le scuole, con autonomia e flessibilità, garantiscano le condizioni migliori perché avvenga lo sviluppo e la crescita formativa di ciascun alunno (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

L’Italia presenta una delle legislazioni più avanzate in materia di garanzia di diritto allo studio degli alunni con disabilità (Caturano 2016).

La costituzione italiana sancisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità sociale e siano uguali dinnanzi alla legge, e che sia dovere della Repubblica rimuovere ogni ostacolo che impedisca il pieno sviluppo dei cittadini.

All’interno delle scuole speciali e delle classi differenziali, è stato fin da subito evidente il problema dell’emarginazione sociale degli alunni con disabilità. Grazie alle leggi 118/71 e alla successiva 517/77 venne predisposto che l’obbligo scolastico dovesse avvenire in classi normali, stabilendo con chiarezza presupposti, strumenti e finalità che l’intero consiglio di classe deve attuare al fine di garantire l’integrazione scolastica dell’alunno con disabilità e infine inserendo la possibilità dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno. La legge 104/92 prevede per l’alunno con disabilità un percorso formativo individualizzato, che a livello fattuale si applichi tramite il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI). Data l’importanza di tali documenti, è necessario che nella loro stesura vengano coinvolte amministrazione scolastica, organi pubblici di cura della persona e famiglie. Inoltre è necessario che vengano sottoposti a verifiche e modifiche in itinere (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Nel 2001, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha approvato la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health – ICF) raccomandandone l’uso agli stati membri. L’ICF, incarnando perfettamente la visione sociale e non soltanto sanitaria della disabilità, prevede un’attenzione alle potenzialità complessive e alle diverse risorse della persona oltre che al contesto, personale, naturale, sociale e culturale in cui esse possono esprimersi. Il modello introdotto dall’ICF è quello bio-psico-sociale, che correla le condizioni di salute della persona alle risorse e agli ostacoli ambientali presenti. La Diagnosi Funzionale elaborata dagli enti di cura è oggi redatta in base al modello ICF (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). Nel prossimo futuro il Profilo Dinamico Funzionale andrà a formare, insieme alla Diagnosi Funzionale, il Profilo di Funzionamento, nuovo documento che sarà redatto secondo ICF.

Con la legge 59/1997 è stata attribuita alle istituzioni scolastiche autonomia nella realizzazione dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, il cui obiettivo primario deve essere lo sviluppo delle competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione e nella relazione e socializzazione. Tali scopi possono essere raggiunti tramite una pianificazione attenta e precisa degli interventi educativi, formativi e riabilitativi così come previsto dal PEI. È il Dirigente scolastico ad essere il garante dell’offerta formativa che viene progettata ed attuata dall’istituzione scolastica per tutti gli studenti, dunque, anche quelli con disabilità. Il Piano dell’Offerta Formativa (POF) deve prevedere la possibilità di dare risposte precise ad esigenze educative individuali; in quest’ottica, la presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso, un’emergenza, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema già individuata in via previsionale e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

La definizione di integrazione o inclusione degli alunni con disabilità prevede che essi facciano esperienze e apprendano insieme agli altri, condividendo obiettivi e strategie, e non soltanto stando accanto agli altri. Per non disattendere questo obiettivo è necessario che la programmazione delle attività sia realizzata da tutti i docenti curricolari insieme all’insegnante di sostegno. L’intero corpo docente è chiamato a organizzare i curricula in funzione delle diverse attitudini cognitive, a gestire la classe e i materiali e a utilizzare strategie scolastiche in relazione ai bisogni di tutti gli alunni. Le strategie favorevoli da adottare comprendono: l’apprendimento cooperativo, il lavoro di gruppo e a coppie, il tutoring, l’apprendimento per scoperta, la suddivisione del tempo in tempi, l’utilizzo di mediatori didattici, di ausili informatici. È importante che gli insegnati predispongano il materiale in formato multimediale per favorire gli alunni che utilizzano supporti informatici (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). Nelle ore in cui non è presente l’insegnante per le attività di sostegno esiste il rischio che per l’alunno con disabilità non ci sia una adeguata tutela del suo diritto allo studio. È quindi compito di tale insegnante coordinare la rete delle attività anche in sua assenza, in modo che l’integrazione venga pienamente raggiunta (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). La documentazione relativa alla programmazione deve essere disponibile alla famiglia, la quale prende visione e può approvare il piano formativo. La famiglia ha diritto a partecipare alla stesura del PDF e del PEI, e alle loro successive verifiche. I rapporti tra famiglia e istituzione scolastica devono avvenire nella logica di supporto alle famiglie, le quali devono essere costantemente informate e coinvolte (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). È importantissimo, soprattutto nel passaggio tra un grado e l’altro di istruzione, il fascicolo individuale dell’alunno con disabilità, il quale deve essere previsto a partire dall’inizio del percorso formativo del bambino. La documentazione dovrà essere completa e sufficientemente articolata per consentire alla nuova scuola di progettare al meglio i propri interventi. Nelle fasi di passaggio è consentito che l’insegnante del ciclo già frequentato partecipi alle fasi di accoglienza e di inserimento nel grado successivo. Il PEI dell’alunno con disabilità prevede un progetto che innalzi la qualità di vita del bambino o ragazzo che va al di là del percorso scolastico, con percorsi che ne sviluppino sia il senso di autoefficacia e autostima, sia le competenze necessarie a vivere in contesti di esperienza comune (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Grazie alla sopracitata legislatura e alle garanzie che da essa ne derivano, in meno di 20 anni (dal 1995 al 2013) gli alunni con disabilità integrati all’interno della scuola sono passati da 108.000 a 220.000, mentre gli insegnanti per le attività di sostegno da 35.000 a 102.000 (Caturano, 2016).

Evidence Based Education

La letteratura internazionale riporta, come risultato di studi di meta-analisi, che l’efficacia delle azioni nel campo dell’inclusione deve tener conto non solo delle strategie prescelte ma anche di altre variabili di grande importanza: l’organizzazione, le relazioni, la metodologia di lavoro, la disponibilità e la formazione dei docenti, le alleanze che si stabiliscono tra tutti i soggetti implicati.

L’Education Endowment Foundation (EEF), nel Regno Unito, si è occupata di sviluppare una guida per gli insegnanti e le scuole per l’adozione di approcci e strategie didattiche basate su evidenze scientifiche. Sono stati presi in esame 33 differenti strategie, tra le quali l’apprendimento cooperativo, l’utilizzo di tecnologie digitali, il feedback, il tutoring tra pari, l’apprendimento per scoperta, la metacognizione e l’autocontrollo, offrendo anche per ciascuno utili elementi di fattibilità (durata, costi, effetti stimati).

In Italia, nonostante la lunga storia di integrazione ed inclusione scolastica degli alunni con disabilità, costruita dal basso, dalle scuole, la quale pone il nostro paese in una posizione di avanguardia rispetto a molti altri paesi europei, manca una tradizione di ricerca empirica di efficacia degli interventi, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2011 nemmeno cita il modello italiano nel suo report. Questo aspetto può portare ad evidenziare alcune criticità: in Italia è prevalente un modello biomedico di assistenzialità, che si evidenzia con un crescente numero di certificazioni di disabilità; in molti casi il disagio viene patologizzato, con un conseguente dispendio di risorse ed energie, ma senza un efficace riconoscimento dei reali bisogni dell’alunno (Caturano, 2016).

Dalla Teoria alla Pratica

Come ci ricordano Ianes e Canevaro (2015) realizzare un buon intervento di integrazione scolastica è solo il primo passo verso quella che possiamo definire una scuola inclusiva, cioè una scuola che riconosce e valorizza pienamente tutte le differenze superando la dicotomia ‘alunni con BES’ vs ‘tutti gli altri’. In una scuola inclusiva il punto di arrivo, come ricorda don Milani, la giustizia, è l’equità, il fare parti uguali tra disuguali distribuendo le risorse secondo i bisogni di ciascuno. In quest’ottica, è importante che la figura dell’insegnante di sostegno si trasformi radicalmente ed entri a tutti gli effetti a fare parte di un corpo docenti che lavora in compresenza, senza essere colui a cui è delegata la gestione del singolo alunno con maggiori difficoltà. Così l’intero corpo docenti diventerebbe vero protagonista dell’integrazione, senza più affidarla solo a qualcuno (Ianes, 2015).

Nel volume Buone prassi di integrazione scolastica (Ianes e Canevaro, 2015), gli autori hanno reso disponibili 20 esempi di progetti realizzati presso scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e di secondo grado. Si tratta di una testimonianza preziosa in quanto spesso l’integrazione che viene fatta da anni con impegno nelle scuole italiane non lascia traccia: così l’intelligenza collettiva si perde e i professionisti si trovano isolati nella reiterazione di pratiche sempre uguali poco a rischio di contaminazione. Gli autori evidenziano alcuni elementi in comune a tutti i progetti che mantengono però una propria identità e originalità suggerendo l’importanza dell’utilizzo della creatività nel lavoro con la disabilità. Ecco di seguito quelle che vengono definite le costanti significative delle buone prassi raccontate e alcuni esempi tratti dai singoli progetti riportati nel testo.

1. Una forte collaborazione tra gli insegnanti. All’interno di un progetto volto a promuovere le abilità metacognitive in tre classi quarte della scuola primaria il presupposto da cui partono gli insegnanti per descrivere il lavoro svolto è che per praticare integrazione sia necessario coinvolgere l’intero corpo docenti e non solo l’insegnante di sostegno. Nello specifico, all’interno delle classi coinvolte vi è un alunno con difficoltà prevalentemente nell’aera socioaffettiva che il corpo docenti ha seguito con particolare attenzione nel corso del percorso proposto, adottando nei suoi confronti comportamenti simili in modo da creare una coerenza nella gestione educativa del bambino evitando così di proporre modelli di comportamenti differenti e pertanto confusivi.

2. Un’idea forte, unificante, che caratterizza la prassi: il razionale alla base del progetto è solido. Il secondo progetto descritto nel volume ha avuto come obiettivo quello di lavorare sui prerequisiti grafici per la scrittura in un gruppo di 10 bambini dell’ultimo anno della scuola d’infanzia e si è basato sulla didattica del gesto grafico che sottolinea l’importanza di lasciare spazio alla spontaneità del bambino. Sono state quindi proposte attività di gioco con le braccia, le mani e le dita, con i pregrafismi in verticale, giochi grafo-motori e di stimolazione dei prerequisiti motori. Il progetto è stato valutato con dei test standardizzati pre-post dimostrando l’efficacia dell’intervento.

3. Un’apertura all’esterno e un utilizzo delle risorse del territorio. Le prassi per una buona integrazione non si esauriscono nel PEI, ma confluiscono in un progetto di vita più ampio incoraggiando gli alunni a uscire dalla scuola e a esplorare l’ambiente circostante. È il caso ad esempio della prima e seconda classe di secondaria coinvolte in un progetto di educazione ambientale che ha previsto lo studio di diverse tipologie di insetti e altri materiali biologici trovati all’esterno spontaneamente dai ragazzi (coleotteri, cavallette, cimici, resti alimentari, crani d’uccello, etc..). Da questi materiali sono state ottenute delle realizzazioni permanenti esposte in mostre locali che hanno visto la partecipazione attiva degli alunni, i quali hanno contribuito nella preparazione degli allestimenti e nell’accompagnamento del pubblico con le spiegazioni di quanto raccolto. Gli alunni diversamente abili della scuola e delle classi coinvolte sono stati attivi e propositivi all’interno del progetto, anche nei confronti dei compagni.

4. Gli alunni sono i soggetti attivi della costruzione della loro conoscenza. Gli alunni vengono guidati verso l’acquisizione di nuove competenze che possano renderli soggetti attivi, autonomi e consapevoli. In questa direzione si muove ad esempio l’utilizzo di una didattica che prevede un approccio metacognitivo allo studio, soprattutto a partire dalla ricerca di materiali interattivi e multimediali per alunni con DSA e BES. Per quanto riguarda la scelta degli esercizi, vengono proposti ai ragazzi direttamente su computer o LIM dei file interattivi che permettono di operare un controllo sul proprio apprendimento con feedback immediato. Nel processo di studio, l’alunno viene lasciato libero di scegliere quali parti del testo nascondere e ripetere a voce alta, rendendolo principale responsabile del proprio processo di apprendimento con una modalità ingaggiante e al contempo supportiva.

5. Si rompono le barriere tra ordini di scuola e tra classi: alunni di diverse classi e scuole si trovano a lavorare insieme. Tra i molti progetti che hanno visto la cooperazione tra alunni e insegnanti di diverse classi e scuole citiamo un lavoro di integrazione realizzato in un Istituto Professionale per operatori e tecnici dell’abbigliamento, che è associato a un Istituto d’arte con il quale condivide diverse collaborazioni. Inoltre, l’Istituto Professionale collabora con una scuola dell’infanzia ubicata ai piani inferiori. Il progetto ha quindi coinvolto tutte le studentesse con disabilità presenti nell’Istituto Professionale, le classi prima, seconda e quarta dell’Istituto e quattro sezioni della scuola dell’infanzia e si è posto come obiettivo quello di fornire agli alunni occasioni di incontro in cui stabilire nuove relazioni, oltre alla creazione di opere d’arte e alla loro esposizione.

6. Le relazioni inclusive e solidali tra compagni di scuola con le loro varie diversità sono la trama indispensabile per tessere l’integrazione: la prima risorsa per l’integrazione sono i compagni. In un progetto a carattere biennale con bambini della scuola dell’infanzia e primaria sono stati attuati percorsi formativi volti a incrementare le abilità prosociali al fine di migliorare il livello di interazione e di empatia verso i compagni con disabilità. Tale formazione, all’interno della scuola dell’infanzia, ha previsto a) la creazione di situazioni ludico-ricreative in aula inserendo materiali che stimolassero l’esplorazione sensoriale in modo da essere più motivante e fruibile anche per gli alunni con disabilità, b) l’avvio di un programma di simulazione dei deficit visivi e motori di cui sono portatori alcuni compagni e c) il modellamento, da parte delle insegnanti, dei comportamenti adeguati verso i compagni disabili messi in atto dai bambini spontaneamente attraverso il rinforzo positivo. Con i bambini della scuola primaria il programma formativo si è basato principalmente su a) un programma operativo di educazione prosociale e b) sul modellamento di atteggiamenti adeguati nei confronti del bambino con pluridisabilità.

7. L’apprendimento cooperativo in piccoli gruppi eterogenei. Troviamo un chiaro esempio di tale prassi nella metodologia utilizzata nel progetto sopra citato volto a promuovere le abilità metacognitive nelle quarte della scuola primaria, in cui le tre classi coinvolte sono state divise in quattro sottogruppi eterogenei di 12/13 bambini. In questo modo è stato possibile agevolare il controllo degli apprendimenti e delle abilità acquisite da ciascuno e prestare più attenzione all’integrazione degli alunni con maggiori difficoltà.

8. La crescita psicologica di tutti gli alunni. Il progetto educativo sullo sviluppo delle intelligenze multiple attuato in una scuola dell’infanzia si è posto come finalità quella di valorizzare le abilità di ogni bambino, fornendo loro occasioni per sperimentarsi in differenti attività dando spazio alle diverse forme di intelligenza (intrapersonale, interpersonale, esistenziale, linguistica, matematica, naturalistica, visivo-spaziale, musicale, cinestetica, digitale, civica e di cittadinanza), adottando una modalità ludico-narrativa. L’innovatività di un progetto simile risiede nel fatto di dare agli alunni la possibilità di operare utilizzando molti linguaggi differenti senza dover padroneggiare per forza il classico canale linguistico e logico-matematico.

9. Il Piano Educativo Individualizzato o il Piano Didattico Personalizzato si raccordano con la programmazione di classe. Se gli strumenti della programmazione individualizzata non si integrano con quella della classe, si creano le condizioni per ulteriori frammentazioni. È pertanto importante conciliare i progetti mirati ai singoli alunni con gli obiettivi più estesi al gruppo classe, come emerge chiaramente da un progetto per lo sviluppo della comunicazione attuato nella classe terza di una scuola primaria, in cui sono stati portati avanti tre interventi in parallelo: 1. un percorso di danzaterapia per rispondere ai bisogni affettivo-relazionali dell’intero gruppo classe; 2. un progetto di corrispondenza epistolare tra un alunno con disabilità e un alunno di un’altra scuola, successivamente esteso a tutta la classe; 3. un progetto specifico di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) per un altro alunno con disabilità.

10. Il coinvolgimento della famiglia. Coinvolgere le famiglie è un passaggio molto importante affinché la ricchezza del programma di inclusione non si esaurisca tra le mura scolastiche: organizzare un lavoro di rete attorno al bambino è infatti fondamentale per dare continuità e coerenza all’intervento. All’interno del progetto individualizzato per la promozione dell’integrazione e dello sviluppo delle autonomie di un alunno frequentante la prima classe di scuola secondaria di primo grado, è stato possibile perseguire gli obiettivi in un lavoro di rete con le strutture sanitarie e la famiglia del ragazzo. Quest’ultima ha rappresentato un partner primario nell’intervento, ricevendo anche un supporto a domicilio dagli operatori di un’associazione attiva sul territorio limitrofo e coordinato con l’intervento scolastico.

11. La replicabilità. Gli autori dei diversi progetti sopra citati non solo hanno mostrato disponibilità alla condivisione del proprio bagaglio esperienziale, ma lo hanno organizzato e presentato in modo preciso e sistematico, spesso fornendo anche esempi concreti di schede e materiali utilizzati o evidenze sperimentali dell’efficacia degli interventi tramite misurazioni pre-post. Tutto questo permette alla comunità scientifica e clinica di crescere, soprattutto a fronte del fatto che la letteratura scientifica scarseggia in merito, e le prassi per l’intervento per l’inclusione scolastica rischiano di rimanere un tema intrappolato tra le mura di classe.

Il ruolo dello psicologo

All’interno di uno scenario così complesso e in cambiamento, è importante che i diversi professionisti facciano rete e che il mondo educativo e quello scientifico si incontrino per costruire insieme dei modelli di lavoro per inclusione efficaci e replicabili ma che lascino al contempo margini per la personalizzazione dell’intervento. In stretta collaborazione con altre figure professionali quali pedagogisti, educatori e insegnanti, lo psicologo si inserisce quindi come figura ponte tra mondo scolastico, strutture socio-sanitarie e famiglie, per progettare e monitorare l’intervento con una raccolta dati qualitativa e quantitativa che sia utile direttamente sul campo e in un’ottica più ampia di ricerca scientifica.

 

I percorsi clinici della psicologia (2018) a cura di D. Rebecchi – Recensione del libro

Ne I percorsi clinici della psicologia viene spiegato come la definizione di percorsi clinici standardizzati, tracciati all’interno di un’organizzazione a matrice dell’attività della psicologia clinica, ha come obiettivo il governo clinico e delle risorse in termini di sostenibilità e applicabilità.

 

Il Sistema Sanitario Nazionale sta attraversando un momento particolarmente critico per una serie di ragioni inerenti alla capacità di mantenere livelli di assistenza in grado di rispondere ai bisogni e alle aspettative crescenti di benessere psico-fisico dei cittadini. Proprio per questo è necessario porre attenzione all’accessibilità dei servizi, all’appropriatezza dei trattamenti, all’efficacia e all’efficienza degli interventi, alla qualità delle cure.

Il volume I percorsi clinici della psicologia, realizzato da psicologi e psicoterapeuti del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Modena e curato da Daniela Rebecchi, rappresenta un ottimo esempio di come la riflessione clinica e l’impegno di tradurla in prassi operative basate su evidenze scientifiche consenta di orientare adeguate scelte organizzative all’interno di un quadro di sistema che tenga in debita considerazione il corretto impiego delle risorse disponibili.

La definizione di percorsi clinici standardizzati, tracciati all’interno di un’organizzazione a matrice dell’attività della psicologia clinica, ha come obiettivo il governo clinico e delle risorse in termini di sostenibilità e applicabilità.

I percorsi che hanno come target le aree del ciclo vitale e come riferimento la domanda di salute partono dalle criticità delle diverse fasi della vita e indicano strategie e modelli operativi specifici per l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, e la terza età.

Disagio e patologie emergenti con cause multifattoriali sono indicati e trattati con interventi multidisciplinari flessibili e una presa in carico che coinvolge non solo le famiglie, ma l’intera comunità.

La metodologia e la costruzione dei percorsi sono basate su dati epidemiologici, evidenze scientifiche, linee guida e documenti normativi di riferimento, sono presenti inoltre un’accurata sitografia e bibliografia.

Esistono, d’altra parte, ormai evidenze scientifiche che dimostrano i benefici in termini di miglioramento della qualità di vita e diminuzione dei costi sanitari degli interventi di psicologia clinica, tanto da spingere l’Organizzazione Mondiale della Sanità a definire ingiustificata la riduzione dei fondi e il conseguente limitato accesso alle cure psicoterapeutiche.

La pratica della valutazione degli esiti è sottolineata dagli autori del volume, come necessaria per rendicontare la corrispondenza agli obiettivi normativi e aziendali e per dimostrare l’efficacia, l’appropriatezza e la sostenibilità degli interventi.

Gli strumenti del governo clinico descritti nel libro I percorsi clinici della psicologia definiscono standard assistenziali che riguardano il trattamento gruppale cognitivo-comportamentale per i disturbi d’ansia in infanzia e preadolescenza, la valutazione e il trattamento della depressione in gravidanza e nel post partum, la valutazione e il trattamento del gioco d’azzardo patologico, gli interventi psicologici al paziente in cardiologia riabilitativa e molti altri ancora, complessivamente sono quindici e tutti prescrivono i criteri d’inclusione ed esclusione, il tipo di valutazione e l’intervento da compiere.

Il testo curato da Daniela Rebecchi è un vero manuale operativo che facilità le decisioni da prendere, un ottimo riferimento per chi in altre aziende sanitarie vuole adeguare a standard definiti le prassi operative per migliorare l’efficacia, l’efficienza e la qualità dei servizi.

 

Invecchiamento, massa muscolare e tessuto adiposo, come questi tre fattori influenzano l’intelligenza fluida

Invecchiare ha un effetto dannoso sull’intelligenza fluida dell’individuo, la quale è definita come la capacità di affrontare problemi logici nuovi indipendentemente dalle conoscenze acquisite; in parallelo, l’invecchiamento porta anche ad un aumento del tessuto adiposo e alla perdita della muscolatura.

 

L’invecchiamento è un naturale processo biologico che porta cambiamenti a livello del sistema nervoso, immunitario ed endocrino. Attualmente non è stata individuata nessuna causa singola che determini questo fenomeno, bensì sono stati individuati molteplici fattori tra cui è possibile citare i danni che l’ambiente causa nel tempo e la programmazione della nostra genetica che porta a questi cambiamenti (Salthouse, 2009).

Con l’invecchiamento è possibile riscontrare un normale e fisiologico calo delle funzioni cognitive, in particolare si evidenzia una diminuzione della performance nei test di memoria episodica, nelle funzioni esecutive e nelle abilità visuo-spaziali; inoltre l’invecchiare ha un effetto dannoso sull’intelligenza fluida dell’individuo, la quale è definita come la capacità di affrontare problemi logici nuovi indipendentemente dalle conoscenze acquisite (Salthouse, 2009).

A livello biologico il calo di tutte queste funzioni cognitive è dato dall’atrofia della corteccia prefrontale; tuttavia, in parallelo all’impoverimento cognitivo, l’invecchiamento porta anche ad un aumento del tessuto adiposo e alla perdita della muscolatura ovvero la sarcopenia. Questi cambiamenti a livello fisico portano a loro volta ad un impoverimento delle funzioni cognitive, infatti l’obesità è associata ad un declino cognitivo e ad un maggior rischio di sviluppare una demenza, e questo accade perché l’accumulo di tessuto adiposo porta ad una serie di infiammazioni (Hotamisligil, 2006).

Un alto indice di massa corporea (BMI) è correlato con l’aumento dei markers infiammatori che portano a loro volta ad un declino cognitivo, in particolare delle funzioni esecutive.

Un recente studio condotto da Spauwen nel 2017 mostra che una massa muscolare elevata potrebbe essere un fattore protettivo contro lo sviluppo della demenza. (Spauwen et al., 2017).

Stando a recenti studi, l’intelligenza fluida è influenzata dal livello di muscolatura; si tratta in tal caso di una relazione positiva dove più il livello muscolare aumenta più l’intelligenza fluida si conserva nel tempo.

In particolare una ricerca pubblicata su Brain, Behavior, and Immunity ha condotto uno studio longitudinale della durata di 6 anni su un campione di 4331 persone di mezza età (con età media di 65 anni) (Klinedinst et al., 2019) la cui ipotesi centrale era che il tessuto adiposo viscerale fosse correlato con l’intelligenza fluida. I risultati di questo studio mostrano che una riduzione del tessuto adiposo porta ad un aumento delle capacità cognitive, in particolare dell’intelligenza fluida; questo avverrebbe perché un aumento del tessuto adiposo conduce ad un aumento dei linfociti, i quali a loro volta correlano negativamente con l’intelligenza fluida, infatti lo stato di infiammazione risulta essere dannoso. Una possibile spiegazione è che i linfociti agiscano a livello dell’asse intestino–cervello tramite il nervo vago, causando un cambiamento microbiotico, che porterebbe, oltre che ad un calo di intelligenza fluida, anche all’aumento di rischio per quel che riguarda lo sviluppo di malattie tra cui l’Alzheimer, la schizofrenia e la sclerosi multipla.

Gli autori di questo articolo suggeriscono che per mantenere una buona capacità cognitiva nel corso degli anni è importante l’attività fisica e il mangiare sano; ciò consentirebbe di evitare l’accumulo di grasso e favorirebbe un corretto sviluppo muscolare (Klinedinst et al., 2019).

 

Il transfert nel trattamento dei disturbi gravi di personalità: dialogo con Otto Kernberg – Report

Lo scorso 14 dicembre il CdPR – Centro di Psicoanalisi Romano – ha organizzato una giornata di studio incentrata sul ruolo esercitato dal transfert nel trattamento dei disturbi gravi di personalità, con protagonista Otto Kernberg.

 

Dopo i saluti iniziali del Prof. Meterangelis, presidente del CdPR, il Prof. Kernberg comincia il proprio intervento con la definizione di personalità sana e patologica, per poi descrivere le caratteristiche della personalità affetta dal narcisismo patologico e come esse si traducano a livello di identità, di affetti e di comportamenti.

L’approccio terapeutico proposto, di impostazione psicodinamica, presuppone l’utilizzo del transfert del paziente, del controtransfert del terapeuta e di libere associazioni. Nello specifico, il transfert narcisistico è caratterizzato dall’incapacità, da parte del paziente, di accettare la dipendenza dal terapeuta. Il paziente tende ad operare una svalutazione del processo terapeutico, attraverso dinamiche di cui è inconsapevole. Si può attivare invidia per l’abilità del terapeuta e una conseguente oscillazione tra senso di superiorità e complementare senso di inferiorità.

Dopo aver descritto le caratteristiche dei principali tipi di transfert nei disturbi gravi di personalità, il Prof. Kenberg delinea, attraverso l’illustrazione di alcuni casi clinici, come il paziente si pone rispetto alle relazioni, inclusa la relazione con il terapeuta, alla luce dei tratti di personalità da cui è caratterizzato. Il paziente narcisista, ad esempio, arriva in terapia perché prova un vuoto relazionale causato dalla difficoltà di strutturare relazioni profonde con persone significative. Il transfert schizoide, invece, è caratterizzato dalla frammentazione degli affetti, cui corrisponde un senso frammentato del sé, come pure frammentaria è l’esperienza degli altri significativi.

Otto Kernberg il ruolo del transfert per trattare i disturbi gravi di personalita

Immagine 1: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Si  tratta di pazienti che appaiono distanti e che possono determinare, nel terapeuta, un senso di confusione; al paziente può capitare di sentirsi invaso o controllato, se avverte il terapeuta come “troppo vicino”. La chiarificazione verbale, in un quadro come questo, può risultare difficoltosa e il terapeuta è chiamato, ponendo attenzione al proprio controtransfert, ad avere particolare apertura rispetto agli stati affettivi che si sviluppano in lui in seguito alla relazione col paziente.

La seconda parte dei lavori è incentrata sull’esposizione, da parte della dott.ssa Anna Maria Segni, di un caso clinico di cui il Prof. Kernberg effettua la supervisione. La paziente presenta, secondo Kernberg, un isolamento relazionale di matrice narcisistica, non schizoide; è idonea ad un trattamento psicodinamico tradizionale. La terapia si trova in una situazione di stallo in cui il controtransfert della terapeuta è caratterizzato da un intenso senso di noia e di costrizione. Kernberg afferma che il controtransfert rispetto ad un paziente narcisista è, di frequente, connotato dalla sensazione di essere “controllati” dal paziente.

La paziente in questione presenta una modalità estremamente richiedente di entrare in terapia: si aspetta comprensione assoluta e delega all’analista la responsabilità esclusiva della buona riuscita dell’analisi. In questa ottica il terapeuta non è colui che aiuta il paziente ad acquisire consapevolezza, ma è quello che “deve avere le risposte giuste”; la paziente non è mai soddisfatta degli interventi dell’analista, coerentemente con un transfert di tipo narcisistico.

Otto Kernberg il ruolo del transfert per trattare i disturbi gravi di personalita

Immagine 2: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Il tema dell’invidia è dominante e si presenta spesso, declinato nella relazione con l’analista, con le colleghe di lavoro e con il mondo in generale. Il Prof. Kernberg commenta, a questo proposito, che l’invidia rappresenta un sentimento universale, ma, nella personalità narcisistica, essa è centrale perché:

  • è una manifestazione di aggressività che nasce dal riconoscimento, accompagnato da un conseguente senso di frustrazione, di qualcosa di buono di cui si è privi;
  • il narcisista non è mai stato amato, dato che l’amore è stato sostituito da ammirazione;
  • il  narcisista spesso è cresciuto come un’estensione del genitore, cosa che lo porta ad interpretare l’indipendenza come rottura del legame.

Il linguaggio viene usato come un meccanismo di difesa per tenere a distanza sia il terapeuta che le relazioni in generale; nel caso in esame la paziente non accetta gli interventi della propria analista perché, se lo facesse, dovrebbe accettare che l’analista è dotata di competenze di cui lei è priva, cosa che la espone al rischio di essere controllata.

I pazienti non caratterizzati da tratti narcisistici desiderano avere uno scambio con il terapeuta; vogliono condividere se stessi con l’analista per ricevere comprensione. Le personalità narcisiste, al contrario, non riescono a provare questo desiderio di relazione perché temono la dipendenza.

Il paziente parla per avvincere l’analista o parla per sé stesso ad un analista percepito, al massimo, come un ascoltatore interessato. Di conseguenza l’analista prova noia per l’assenza di relazione e per il senso di impotenza nato dal fatto che il paziente ha un modo aggressivo di imporre la propria presenza.

E’ necessario interpretare il transfert del paziente per far funzionare il processo terapeutico, presentando le interpretazioni sotto forma di ipotesi di lavoro, nonostante l’analista possa avere timore di nuocere al paziente; è importante, per l’analista, tenere presente che anche i pazienti più gravi dispongono di meccanismi di difesa potenti, grazie ai quali sono in grado di essere parte attiva del processo terapeutico, ponendosi con senso critico rispetto all’analista e ai suoi interventi.

Immagine 1: l'intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 3: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 4: l'intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 4: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Linguaggio emotivo e teoria della mente

Sembra che il linguaggio emotivo svolga un ruolo fondamentale durante l’infanzia nello sviluppo della consapevolezza del sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro-sociali ed empatici.

 

A partire dagli anni ’90 si è consolidato un filone di studio finalizzato ad ipotizzare un possibile legame tra linguaggio e teoria della mente, intesa come la capacità di un soggetto di rappresentarsi in termini mentali le azioni altrui, connotandole di peculiarità in grado di esperire ed interpretare stati d’animo e intenzionalità emotive. È stato ampiamente dimostrato che tale competenza si sviluppa a partire dai 4 anni, periodo evolutivo in cui i bambini risultano in grado di superare positivamente il test della “falsa credenza”, finalizzato ad identificare lo sviluppo della capacità metarappresentazionale negli esseri umani (Perner e Wimmer, 1983). Nello specifico, il bambino che raggiunge questa fase di sviluppo cognitivo è in grado di rappresentarsi la realtà sotto punti di vista diverso dal proprio, scostandosi così dall’egocentrismo che fino ad allora ne ha guidato i ragionamenti. A partire da questa fase evolutiva il bambino comprende che il mondo non è regolato solo dai suoi personali bisogni e desideri, ma anche dalle credenze, dai desideri, dalle conoscenze degli altri: un progresso raggiunto grazie anche all’acquisizione di abilità strumentali e cognitive tra le quali rientrano l’interazione sociale e le competenza linguistiche. Tutto ciò che riesce a stimolare l’espressione e l’interazione sociale è infatti in grado di sviluppare nel bambino la consapevolezza dell’esistenza fisica e psichica dell’altro, e questo risulta fortemente accentuato laddove il bambino ha maggiori possibilità di scambio verbale. A tal proposito è stato accertato che i bambini inseriti in famiglie più numerose, e dunque maggiormente esposti allo stimolo verbale, sono in grado di sviluppare un linguaggio più flessibile e un vocabolario lessicale più ampio e variegato rispetto ai meno esposti, sebbene le caratteristiche dello sviluppo linguistico possano subire modifiche individuali specifiche: sembra infatti che le competenze linguistiche del bambino risultino migliori con la madre che con i fratelli e gli altri componenti della famiglia, e che, in età prescolare, le relazioni verbali con i fratelli siano più frequenti rispetto a quelle tenute con gli amici (Lecce, Pagnin, 2007).

Studi di diversa natura hanno evidenziato un’alta correlazione tra competenze linguistiche e sviluppo della teoria della mente (TOM), sia in bambini prescolari (Jenkins e Astington, 1996) che scolarizzati (Astington e Pelletier, 2005). In particolare i bambini sottoposti al Test of Early Language Development, volto a misurare le capacità linguistiche recettive ed espressive, hanno rivelato una forte correlazione tra abilità linguistiche e performance nei compiti di falsa credenza (Jenkins e Astington, 1996). In particolare i suddetti studi hanno evidenziato come le abilità linguistiche, assieme all’ampiezza della famiglia e all’età dei soggetti, possano essere considerate un buon predittore dell’abilità di mentalizzazione; i bambini con maggiori competenze nel test del linguaggio hanno dunque mostrato maggiore capacità di comprensione delle falsa credenza e delle emozioni anche a distanza di uno o due anni, indipendentemente dall’età (Dunn et al., 1991) e dal background familiare (Cutting e Dunn, 1999). Non è tuttavia stato dimostrato il contrario: la performance che un bambino ottiene in un compito di falsa credenza non è in grado di predire le sue abilità linguistiche (Astington e Jenkins, 1999).

Il linguaggio capace di agevolare lo sviluppo della teoria della mente e delle emozioni sociali non corrisponde tuttavia a quello rigido e prescrittivo che spesso le madri tendono ad usare con i propri figli in vista dell’apprendimento verbale, ma soprattutto del linguaggio fornito di connotazioni emotive e flessioni psicologiche volte e condividere stati d’animo, impressioni e cognizioni.

È stato infatti dimostrato come i bambini che utilizzano un linguaggio con riferimenti a stati emotivi siano più in grado di comprendere gli stati mentali psicologici, di raffigurarseli e utilizzarli per predire le emozioni proprie e altrui (Bretherton e Beeghky, 1982).

In particolare, il riferimento al linguaggio emotivo (che cosa pensi, che cosa provi) e una maggiore importanza data alle esperienze emozionali del bambino risultano utili ai fini della comprensione di azioni e comportamenti, di memorie relative alle proprie esperienze e a quelle altrui, della disparità tra i propri ricordi, le proprie convinzioni e ciò che esiste nella realtà (Lecce e Pagnin, 2007). I bambini che parlano più degli stati d’animo propri o altrui sono maggiormente in grado di accedere all’universo degli stati psicologici, e dunque sono capaci di padroneggiare le emozioni più facilmente anche nel contesto sociale e ludico. In particolare i bambini più competenti nel linguaggio emotivo dimostrano anche maggiori abilità nello svolgimento del gioco immaginativo, del far finta, che si è rilevato altamente correlato con lo sviluppo della teoria della mente (Fonagy e Target, 2001).

Gli studi di Katherine Nelson (1973, cit. in Meins, 1999), hanno poi specificato l’esistenza di due modalità differenti attraverso cui può essere appreso il linguaggio: la modalità referenziale e quella espressiva, delle quali la prima si presenta maggiormente diretta al processo di denominazione degli oggetti e la seconda più connessa all’interazione sociale. Malgrado quest’ultima potrebbe sembrare maggiormente relazionata ad una più agevole acquisizione di scambio emotivo e sociale, è stato tuttavia rilevato come le caratteristiche proprie della modalità espressiva, quali l’imitazione, la mancanza di flessibilità e i bassi livelli di comprensibilità, la rendano meno foriera di sviluppo metacognitivo ed emozionale rispetto alla modalità referenziale, caratterizzata da aspetti maggiormente flessibili, esplorativi e interattivi. Si è infatti appurato che le madri con linguaggio espressivo utilizzano soprattutto frasi congelate, stereotipate e di tipo descrittivo, mentre le madri con linguaggio referenziale si mostrano maggiormente descrittive e flessibili nei loro approcci linguistici col bambino, tanto da sviluppare in lui capacità esplorative, creative, di apprendimento e di interazione (Meins, 1999). I bambini figli di madri con questo tipo di linguaggio mostrano anche un attaccamento sicuro, hanno maggiori competenza di problem solving, sviluppano abilità espressive nel gioco simbolico e possono contare su un più ampio vocabolario emotivo.

I bambini che parlano di emozioni sono anche i bambini che hanno maggiori interazioni sociali, dunque. E questo processo di condivisione ed esplicitazione delle emozioni, denominato socializzazione emotiva, dopo una funzionale acquisizione all’interno della diade materna e del nucleo familiare, può essere utilmente potenziato anche in ambito extra-familiare. A tal proposito gli studi sperimentali di Lecce e Pagnin (2007) hanno dimostrato come un’adeguata stimolazione del linguaggio emotivo dei bambini all’asilo di infanzia possa risultare un fattore di potenziamento dell’acquisizione di teoria della mente e capacità di regolazione emotiva inter ed intrapersonale. L’ipotesi delle studiose è volta a dimostrare l’importanza dell’esposizione al linguaggio emotivo e del suo potenziamento sin dalle prime fasi della vita, nella prospettiva di suscitare nel bambino competenze emotive quali la verbalizzazione delle emozioni, la regolazione delle stesse e la mentalizzazione.

Al fine di dimostrare l’ipotesi è stato allestito un setting sperimentale all’interno di un asilo-nido, dove, con l’aiuto delle educatrici, bambini al di sotto dei 3 anni sono stati sottoposti alla lettura di otto storie emozionanti i cui i protagonisti (due conigli chiamati Ciro e Beba) sperimentavano di volta in volta emozioni quali paura, rabbia, felicità, tristezza: al termine della storia le emozioni vissute dai coniglietti e dai bambini sono state rese oggetto di discussione con le insegnanti.

I testi delle storie erano caratterizzati dalla presenza di un lessico psicologico più accentuato rispetto a quelli solitamente utilizzati per i bambini in quella fascia di età. Nel contempo le educatrici hanno partecipato ad incontri di acquisizione e aggiornamento circa l’importanza della socializzazione e dell’esperienza emotiva, mentre i bambini sono stati sollecitati con domande stimolo finalizzate alla discussione emotiva durante incontri a cadenza giornaliera nell’arco di due mesi. L’efficacia dell’intervento è stata documentata a mezzo di varie fonti: le educatrici hanno testimoniato come al termine del trattamento i bambini siano risultati più pronti alla comprensione emotiva propria e dell’altro, maggiormente competenti nella produzione lessicale emotiva e nella prestazione di aiuto e conforto ai compagni. Competenze di cui i genitori hanno testimoniato la generalizzazione anche in ambito domestico e familiare, dove i bambini si sono mostrati maggiormente inclini a comportamenti di altruismo, comprensione, socializzazione.

L’esperimento ha confermato dunque l’ipotesi di partenza, volta a dimostrare come un adeguato potenziamento del linguaggio emotivo sin dalla prima infanzia contribuisca allo sviluppo della consapevolezza del Sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro sociali ed empatici dalla stessa ispirati (Lecce e Pagnin, 2007).

 

Giuliano Macca: ritratto di un’epoca

L’artista incarna la psicologia inconscia dell’epoca in cui vive, reagendo al tema psicologico cruciale con cui l’uomo si sta confrontando in quel dato periodo storico. Giuliano Macca, con le sue opere, rispecchia e quasi urla ferocemente le gioie e i dolori dei nostri tempi.

 

Si dice che ogni artista abbia sempre incarnato l’Anima del suo tempo.

Vi è un bellissimo paragrafo nell’epilogo de La Guarigione del Sé di Heinz Kohut, L’anticipazione della psicologia del Sé da parte dell’artista, in cui l’autore esprime proprio questo concetto. L’artista focalizza la psicologia inconscia della sua epoca, reagisce al tema psicologico cruciale con cui l’uomo si confronta in un dato periodo, richiama al compito psicologico dominante. L’artista agisce, per così dire, per procura della sua generazione: non solo della popolazione generale, ma anche dei ricercatori scientifici della scena sociopsicologica.

L’arte, che ai tempi di Freud incarnava i vissuti dell’Uomo Colpevole, in balia di libido sessuale e istinto di morte, si scomponeva e si scindeva ai tempi di Kohut con il cubismo, l’espressionismo astratto, con Picasso, Pollock, Kandinskij, che hanno segnato il passaggio a una diversa prospettiva e a un completo nuovo paradigma. Nasce l’uomo post-moderno.

Viviamo in un’epoca impregnata di narcisismo, inteso come l’estrema lotta del proprio sé per emergere combattendo contro le vessazioni della società e del tempo, disintegrato nelle pulsioni feroci, quel Sé nucleare disperso nell’inconscio che in un istante affiora e illumina il vuoto che lo circonda, fragile, costantemente a rischio frammentazione, ma impellente: deve esserci, rinascere, deve lasciare traccia. E in questo caos in cui emotività e società si mischiano, emerge un giovane artista, siciliano, classe ‘88: Giuliano Macca.

Cuori di Cristallo, la sua ultima mostra. Stradismo il movimento da lui creato, “da strada intesa come vita cruda”. Se c’è qualcuno che rispecchia e urla quasi ferocemente le gioie e i dolori dei nostri tempi, Kohut probabilmente avrebbe scelto lui.

Arte contemporanea che ritorna al figurativo, al volto, agli occhi, che esprimono il bisogno di essere visti, che a volte scompaiono per poi ricomparire dove nessuno avrebbe pensato. Volti frammentati, scomposti, presi forse nell’attimo in cui la vitalità nascosta dai colori scuri e mortiferi brilla di luce propria, mentre compiono un movimento che li definisce, vivi, senzienti. Nella quasi totale mancanza di speranza e certezza, i Millenials non possono permettersi di perdere completamente la forma, hanno bisogno di un aggancio, di qualcosa di definito e definibile. Di un volto, degli occhi. Volti, occhi, figure, che devono farsi vedere, che intasano, anche spasmodicamente, i social. L’artista condivide questa motivazione con i suoi coetanei, sebbene si auguri un ritorno ai volti reali, al romanticismo della strada nel mondo della supremazia digitale. Ed è così che appare: taglio moderno, jeans strappati, bellissime camicie vintage, gli occhi di chi si è perso e ritrovato in notti brave e lunghissime, giovane tra i giovani.

Arte che diventa necessaria a se stessa, il bisogno di creare e di esprimersi si manifesta nell’utilizzo di pezzetti di carta e bic, persino banconote, perché l’arte è inarrestabile, illumina, e, come Macca stesso afferma, depura, pulisce.

E in questa rabbia assertiva di scarabocchi e pennellate rosse, eccola. Lei, la senza tempo, la Donna, la Grande Madre che accompagna l’umanità sin dalle origini. I pizzi, le acconciature, gli sguardi timorosi o penetranti, quasi ottocenteschi, richiamano una purezza non perduta, ma nascosta nella donna di oggi. Una punta di desiderio in quegli occhi, una posa lasciva, esprimono ancora la potente sensualità.

E infine gli abbracci, l’uomo rappresentato quasi sempre di spalle o semicoperto, indefinito, lasciando il posto a colei che richiama la perfezione dell’epoca classica, passando per gli anni dell’eros freudiano e di Klimt, Schiele, che incarna la balena di Giona junghiana pronta a divorare allegoricamente e scenicamente l’uomo, e infine il sé frammentato, un cuore di cristallo, in costante tensione verso l’ideale kohutiano.

Di seguito alcune opere dell’artista:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tratti di personalità della triade oscura e aggressività in adolescenti e giovani adulti

La presenza di tratti della triade oscura in adolescenza, periodo di crisi e cambiamenti, risulta un indicatore di un aumento dei livelli di aggressività correlata al comportamento deviante.

 

Il comportamento deviante di adolescenti e giovani adulti è un argomento di grande interesse e responsabilità sociale. La ricerca in questo settore ha il ruolo di chiarire i fattori che determinano, facilitano e mantengono il comportamento criminale e quelli che contribuiscono alla sua diminuzione. La ricerca sta facendo passi avanti nell’identificare i fattori di rischio per lo sviluppo del comportamento antisociale e, di conseguenza, proporre interventi di prevenzione mirati ed efficaci al fine di ridurre la criminalità e i costi derivanti.

Il presente studio mira ad identificare i fattori interni che possono prevedere qualsiasi comportamento deviante negli adolescenti e nei giovani, analizzando il ruolo predittivo dei tratti accentuati della personalità nel manifestare un comportamento aggressivo.

Sebbene le cause della devianza siano diverse, i predittori comportamentali più forti del crimine sono l’aggressività e il comportamento antisociale. L’aggressività può presentarsi in forma verbale, fisica e sociale (comportamenti non violenti orientati alla distruzione delle relazioni sociali). Studi recenti hanno osservato che i maschi sono più inclini all’aggressione fisica, le femmine a quella sociale, mentre le differenze di genere per l’aggressione verbale non sono significative (Cairns et al., 1989; Farrell et al., 2005). Sulla base di questi risultati la prima ipotesi dell’attuale studio è:

  • Ci sono differenze di genere nell’aggressività degli adolescenti. Essa è declinata in ipotesi secondarie:
    • I ragazzi hanno un livello più alto di aggressività fisica rispetto alle ragazze.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di aggressività verbale rispetto ai ragazzi.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di ostilità rispetto ai ragazzi.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di rabbia rispetto ai ragazzi.

Alcuni tipi di personalità socialmente avversi (Kowalski, 2001), hanno attirato molti ricercatori. Questi sono il narcisismo, il machiavellismo e la psicopatia che insieme formano la cosiddetta triade oscura. Questi tratti di personalità condividono alcune caratteristiche come egocentrismo e manipolazione, ma si differenziano anche tra loro. Gli elementi distintivi del machiavellismo sono mancanza di empatia, emozione, affettività e pianificazione strategica; il narcisismo è descrivibile come una battaglia tra fantasie grandiose e insicurezza latente. Le azioni dei narcisisti sono volte al rafforzamento dell’ego e alimentano i comportamenti autodistruttivi (Morf e Rhodewalt, 2001). La psicopatia è caratterizzata da mancanza di affetto, bassa empatia, assenza di autocontrollo, ricerca di sensazioni estreme e comportamenti antisociali. Gli individui psicopatici sono spesso senza scrupoli, sono calmi in situazioni difficili e hanno fiducia in sé stessi. A differenza dei machiavellici, gli psicopatici mostrano comportamenti distruttivi per sé e gli altri. La presenza di tratti della triade oscura in adolescenza, periodo di crisi e cambiamenti, risulta un indicatore di un aumento dei livelli di aggressività correlata al comportamento deviante. Secondo la letteratura recente, si presume che la psicopatia adolescenziale dovrebbe manifestarsi allo stesso modo degli adulti e, seguita dal machiavellismo, risulta essere il tratto più ‘oscuro’ che conduce a comportamenti violenti. Per quanto riguarda il narcisismo, esso sembra essere significativamente correlato con i comportamenti a rischio. Sulla base di ciò, la seconda e la terza ipotesi dell’attuale studio sono:

  • I tratti di personalità della triade oscura sono positivamente associati a comportamenti aggressivi.
  • L’età è un moderatore nelle relazioni tra i tratti di personalità oscura e il comportamento aggressivo.

Il campione finale comprendeva 134 soggetti tra i 15 e i 28 anni (34 maschi e 79 femmine).

Lo strumento utilizzato per misurare l’aggressività è il The Aggression Questionnaire (BPAQ; Buss & Perry, 1992), il quale contiene 29 items suddivisi in quattro sottoscale: aggressività fisica, aggressività verbale, rabbia e ostilità. I tratti della personalità oscura sono stati misurati usando lo Short Dark Triad (SD-3; Paulhus & Williams, 2002), composto da 27 items valutanti i livelli di narcisismo, machiavellismo e psicopatia su cui esprimere accordo o disaccordo.

Dai risultati emergono differenze di genere statisticamente significative nelle forme di aggressione: l’aggressività fisica è più evidente nei maschi, la rabbia e l’ostilità sono più pronunciate nelle femmine; l’aggressività verbale non mostra significative differenze. Questi dati confermano la prima ipotesi. Per dimostrarla, gli autori sono partiti dall’idea che gli uomini siano attivati ​​più facilmente dagli stimoli emotivi con potenziale aggressivo e abbiano maggiori difficoltà nella regolazione emotiva rispetto alle donne. I risultati dello studio hanno mostrato che in contesti emotivi con elevato grado di attivazione dell’aggressività le differenze di genere sono relativamente basse, mentre in contesti emotivi con basso o medio livello di attivazione dell’aggressività le differenze di genere sono elevate a favore degli uomini.

In relazione ai tre tratti della personalità oscura, solo la psicopatia è positivamente associata all’aggressività fisica, verbale e alla rabbia. L’ostilità, invece, è associata positivamente al machiavellismo e negativamente al narcisismo. Anche la seconda ipotesi dunque è confermata. Questi risultati mostrano che gli adolescenti che esprimono il piacere di fare del male e che non hanno empatia sono più inclini all’aggressività fisica e verbale e hanno un livello inferiore di autocontrollo quando devono regolare i loro comportamenti ed emozioni, manifestando livelli più alti di rabbia. Per verificare la terza ipotesi è stata condotta un’analisi di moderazione da cui si evince che l’età modera parzialmente la relazione tra narcisismo e aggressività fisica (maggiore è l’età, crescente è l’effetto sull’aggressività fisica) e tra machiavellismo e aggressività fisica (minore è l’età più forte è l’effetto del machiavellismo sull’aggressività fisica). Sulla base di ciò, la terza ipotesi è confermata tranne che per il tratto della psicopatia. Ciò può essere giustificato dalle esperienze di vita, in quanto adolescenti di età superiore ai 18 anni partecipano a contesti di vita sempre più complessi in cui il loro ego può essere facilmente messo in pericolo; oppure, nel caso del machiavellismo, le abilità di manipolazione migliorano e l’aggressività non diventa più necessaria come prima.

I limiti di questo studio sono: utilizzo di strumenti self-report, desiderabilità sociale, trasversalità dello studio che non può mostrare la causalità, campione con scarsa ampiezza e composto prevalentemente da donne. Un’implicazione per il futuro potrebbe essere incentivare gli interventi di prevenzione alla criminalità e i programmi psicoeducativi per aumentare la consapevolezza degli effetti degli atti aggressivi sugli altri e su sé stessi.

 

Il razzismo e la discriminazione legata all’appartenenza a un gruppo etnico: uno sguardo ai fenomeni e alle loro conseguenze

Il razzismo può essere definito in generale come insieme di comportamenti, pratiche, credenze e pregiudizi che sono alla base di ingiuste disuguaglianze tra gruppi nella società basate sull’etnia, sulla cultura o sulla religione.

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La discriminazione basata sull’etnia si verifica quando tali comportamenti e le pratiche ad essi associati sfociano in disuguaglianze e ingiustizie tra i diversi gruppi all’interno della stessa società (Berman e Paradies, 2010). Questa definizione comprende diverse forme di razzismo, come la violenza razziale, ma anche forme più sottili come l’esclusione basata sull’appartenenza ad un gruppo etnico. La discriminazione basata sull’etnia può verificarsi a livello individuale, interpersonale, sociale e della comunità.

I bambini e i giovani sono particolarmente vulnerabili gli effetti dannosi del razzismo (Sanders-Phillips, 2009; Williams e Mohammed, 2009). Il razzismo ha il potenziale per influenzare negativamente lo sviluppo dei bambini e giovani adulti, con conseguenze negative per la salute e il benessere, sia durante infanzia che nelle altri restanti fasi della vita (Priest, Paradies et al., 2013).

Ciò include esperienze dirette di razzismo in cui i bambini e i giovani stessi sono gli obiettivi, ma anche esperienze vicarie come ascoltare abusi o essere testimoni di atti di razzismo (Kelly, Becares et al., 2012; Priest, Paradies et al., 2012).

In assenza di razzismo, i benefici della diversità culturale producono una migliore produttività, creatività tra gli studenti e un migliore livello di benessere nelle scuole (Pagina 2007).

Soprattutto le scuole si configurano come luoghi chiave nella vita di bambini e giovani dove si sperimentano le varie dinamiche delle relazioni tra pari, oltre che essere essenziali per l’apprendimento accademico e le abilità sociali (Mansouri e Jenkins, 2010). Le scuole sono anche luoghi privilegiati in cui i bambini imparano a relazionarsi in contesti culturali di diversità e imparano a comprendere la propria identità e senso culturale di appartenenza in una società multiculturale (Walton, Priest et al., 2014). Inoltre le scuole svolgono un ruolo importante nella formazione degli atteggiamenti verso la diversità culturale e la comprensione del razzismo (Paluck e Green, 2009; Walton, Priest et al., 2013). Le scuole, come microcosmo della società, riflettono anche più ampi atteggiamenti sociali verso la diversità culturale e il razzismo. In quanto ambiente interculturale, molto spesso sono presenti tensioni e atteggiamenti di razzismo (Mansouri e Jenkins, 2010).

Durante il corso della vita, i bambini che sperimentano una qualche forma di razzismo e discriminazione diretta e/o indiretta,  possono sviluppare più tardi nel corso della vita problemi di salute fisica e/o mentale. Inoltre, le recenti ricerche suggeriscono che anche le esperienze indirette possono influenzare lo sviluppo del bambino arrecando problematiche relative alla salute (Kelly, Becares et al., 2012).

Globalmente, il razzismo sta ricevendo crescente attenzione come fattore importante per la salute psicofisica (Braveman, Egerter et al., 2011). E’ presente infatti un corpo crescente di prove epidemiologiche che mostrano forti associazioni tra razzismo subito e problemi di salute in età adulta riscontrati in gruppi di minoranze appartenenti a Paesi con economia meno sviluppata  (Brondolo, Brady et al., 2011, Brondolo, Hausmann et al., 2011). C’è anche un crescente numero di studi che considera gli effetti della discriminazione razziale sul bambino e sulla salute giovanile (Priest, Paradies et al., 2013). Questi studi mostrano una forte correlazione tra razzismo ed esiti negativi sulla salute mentale nell’età infantile e giovanile. Tra i disturbi presenti si riscontrano ansia, depressione, uso di sostanze e problemi comportamentali. Ulteriori studi stanno dimostrando come sia presente anche una correlazione tra razzismo subito e l’insorgenza di patologie relative alla salute fisica, come basse difese immunitarie o disturbi alimentari e obesità.

Uno studio condotto in Australia nel 2011 da LEAD Education (The Localities accepting and embracing diversity) ha esaminato le esperienze raccontate dal personale e dagli studenti di nove scuole nel distretto di Victoria (Priest, Perry et al., 2014).

I dati sono stati raccolti tramite questionari self-report. Le variabili esplorate hanno riguardato anche l’atteggiamento nei confronti della diversità culturale e gli esiti in termini di salute mentale degli studenti in relazione ad esperienze di razzismo.

I questionari indirizzati allo staff hanno indagato e raccolto, oltre ai dati anagrafici, la presenza o assenza di esperienze dirette di razzismo all’interno del contesto scolastico, testimonianze di episodi di razzismo anche nei confronti di genitori e la qualità delle relazioni interculturali all’interno della comunità scolastica.

I questionari indirizzati agli alunni hanno avuto lo scopo di indagare la presenza/assenza di atteggiamenti di eguaglianza nei confronti di tutti gli studenti, indipendentemente dall’etnia o dal background, di esperienze dirette o indirette di razzismo e presenza/assenza di sentimenti di tristezza e solitudine negli studenti.

I questionari sono stati distribuiti a 444 membri del personale scolastico (48,9% di donne con fascia di età media di 35-39 anni). La maggior parte del personale è nato in paesi di lingua inglese e il 13,4% (n = 59) è nato in paesi non di lingua inglese.

I questionari indirizzati agli studenti, hanno riguardato un campione di 264 studenti (54,2% femmine) con un’età media di 11,2 anni (DS = 2,2). Circa un terzo degli studenti (37,6%) era nato in paesi di lingua inglese come i loro genitori, il 29,3% era nato in paesi di lingua inglese ma aveva genitori nati in paesi esteri, il 25,1% di studenti era nato in paesi non anglofoni come i loro genitori e infine l’8 % non conosceva la provenienza di uno o entrambi i genitori.

I risultati hanno mostrato che mentre la maggior parte del personale ha riferito che la loro scuola promuoveva una cultura dell’uguaglianza, appartenenza e sostegno alla diversità, quasi la metà dello staff ha tuttavia riferito di aver visto o vissuto esperienze dove i loro studenti erano vittime di episodi di razzismo da parte di altri studenti.

Oltre un terzo (33,2%) degli studenti ha riportato esperienze dirette di razzismo a scuola e oltre un quinto (22,5%) ha sperimentato almeno una forma di razzismo diretto ogni giorno.

Esperienze di razzismo diretto e indiretto riferite dagli studenti sono state riscontrate come abbastanza comuni, con quasi la metà degli studenti nati in paesi non anglofoni che hanno sperimentato almeno una forma di razzismo diretto una o più volte al mese, in particolare la più comune sembrava essere verbale (gli veniva detto di non essere australiani). Quasi un quarto degli studenti ha dichiarato di avere subito almeno un tipo di razzismo diretto ogni giorno.

Le esperienze indirette di razzismo sono state più comuni delle esperienze dirette: due terzi degli studenti hanno riferito di aver visto o sentito altri studenti venire chiamati con nomi o presi in giro a causa del loro background culturale.

Inoltre i risultati hanno mostrato come gli studenti delle classi elementari abbiano subito un maggior numero di episodi di razzismo rispetto agli studenti delle scuole secondarie. Studenti nati in paesi stranieri con genitori non australiani hanno riportato un maggior numero di esperienze di razzismo diretto.

Esperienze di razzismo hanno avuto effetti dannosi sul benessere degli studenti come si evidenzia dalla presenza di sentimenti di solitudine e di tristezza in tutti i gruppi demografici.

La maggior parte degli studenti ha segnalato alti livelli di promozione di eguaglianza da parte dei loro insegnanti e da altri adulti presenti a scuola.

Solo la metà degli studenti ha riportato atteggiamenti positivi verso studenti appartenenti ad altri gruppi culturali.

Questi risultati sostengono fortemente la necessità di efficaci interventi scolastici per prevenire la discriminazione attraverso l’istituzione di cambiamenti organizzativi e politici. Questi risultati suggeriscono inoltre che gli interventi per promuovere una cultura dell’uguaglianza a scuola possano avere un impatto positivo sulle esperienze ed emozioni di solitudine per tutti gli studenti.

Il contrasto tra le esperienze degli studenti e le percezioni del personale potrebbe significare che alcuni membri del personale non siano pienamente consapevoli del comportamento discriminatorio che si svolge tra le mura scolastiche. Le esperienze di razzismo subite dagli studenti e gli effetti risultanti di queste esperienze potrebbero dover essere comunicate in modo più chiaro al personale scolastico al fine di creare un maggior supporto e favorire interventi più specifici a favore della promozione della diversità culturale.

Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto? Intervista al Dott. Nicola Petrocchi

Compassion Focused Therapy (CFT), un approccio molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che, in modo gentile e non giudicante, ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie o secondarie.

 

I pazienti hanno bisogno di sentire il cambiamento e non soltanto di capire razionalmente.

Nel presente articolo verrà condiviso quanto emerso da un’intervista fatta a Nicola Petrocchi (ndr: il video delll’intervista integrale è riportato a fine articolo), rappresentante italiano dell’approccio Compassion Focused Therapy (CFT) e verrà approfondito il rapporto che intercorre fra quest’ultimo e la dimensione emotiva del paziente.

La CFT è un approccio multimodale che incorpora i contributi provenienti da diversi ambiti della terapia cognitivo comportamentale, dalle neuroscienze, dalle teorie evoluzionistiche e dalle filosofie buddhiste. La CFT si affaccia sul panorama della terapia cognitivo comportamentale di terza generazione e prende piede in Inghilterra a partire dal 2005 grazie ai lavori di Paul Gilbert, diffusi anche in Italia grazie alla collaborazione diretta di Nicola Petrocchi con lo stesso Paul Gilbert.

Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto?

Nicola Petrocchi spiega come la Compassion Focused Therapy nasca proprio per rispondere a questa domanda.

Lo stesso Paul Gilbert, terapista cognitivo comportamentale, notò come alcuni suoi pazienti non riuscivano a cambiare il loro stato di sofferenza solo mediante le tradizionali tecniche di ristrutturazione cognitiva; i pazienti infatti riferivano, seppur diventati abili nell’individuare i propri errori di pensiero ed effettuare una ristrutturazione cognitiva in autonomia, di non “sentirli propri.”

Petrocchi riporta il racconto dello stesso P. Gilbert circa una sua paziente divenuta molto brava nell’applicare la ristrutturazione cognitiva, nel saper sviluppare pensieri alternativi e più funzionali, ma il limite consisteva nel “non sentire quei pensieri come veri”. Paul Gilbert, a tal proposito, sospettò che nella mente del paziente ci fosse qualcosa di “spento, off-line”, tale ragionamento comportò lo spostamento verso una domanda: quale emozione, sistema emotivo e motivazionale in questi pazienti, soprattutto molto autocritici, sembrerebbe essere spento? A tal proposito Paul Gilbert, in riferimento ai contributi delle neuroscienze, ha cominciato a spostare la sua attenzione sull’esistenza di tre sistemi di regolazione emotiva che, come ricorda Nicola Petrocchi, è utile spiegare in terapia anche ai nostri pazienti. Tre sistemi di regolazione emotiva con una loro specifica funzionalità: uno è il sistema di minaccia (threat system) che ci consentirebbe di sperimentare un insieme di emozioni come paura, rabbia e disgusto, emozioni che sarebbero protettive per l’essere umano, ossia si attiverebbero in risposta ad elementi di minaccia. Ma la cosa interessante nel lavoro di Paul Gilbert fu individuare ed approfondire il ruolo di altri due sistemi emotivi e motivazionali associati ad emozioni positive, ma con effetti e funzioni diverse: il sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive system) o sistema dopaminergico, energizzante, utile alla ricerca di risorse sociali, o di cibo e che offre al corpo un aumento di energia; ed infine un terzo sistema denominato sistema calmante (soothing system) di bassa attivazione che consente di sperimentare un senso di calma, di pace e di rilassamento, da non fraintendere con lo stato di addormentamento. Un simpatico esempio al quale Nicola Petrocchi fa riferimento per spiegare questo terzo sistema di regolazione emotivo ha a che fare con il comportamento osservabile nei gatti, i quali, una volta riusciti a sfuggire alle minacce, soddisfatti dal quantitativo di cibo, riescono ad entrare in uno stato di quiescenza in cui non dormono, ma attingono alle risorse del sistema parasimpatico.

Petrocchi sottolinea come in terapia è frequente individuare nei pazienti alti livelli di attivazione del sistema di minaccia, ma anche alti livelli legati al drive system con manifestazioni di orgoglio, superiorità, ricerca di stimoli; molti pazienti sembrano invece non riuscire a sperimentare le emozioni attinenti al sistema calmante, perché quelle sensazioni risulterebbero quasi essere associate ad una condizione di minaccia in quanto non familiari, o perché sperimentate come una perdita di controllo di se stessi o dell’ambiente e dunque una maggiore sensazione di vulnerabilità.

In tal senso, la CFT lavora proprio nell’allenare la persona a sviluppare maggiori abilità di percepire queste emozioni calmanti aumentando per l’appunto tale sistema emotivo e motivazionale, in quanto se non si riesce in questa impresa, sottolinea Nicola Petrocchi, il solo lavoro sulla dimensione cognitiva con i pazienti non consentirebbe il cambiamento. Una ricerca del 2008 di Paul Gilbert, ha dimostrato che avere alti livelli di emozioni positive di carattere energizzante non proteggerebbe quanto alti livelli del sistema calmante. L’attivazione del sistema calmante si accompagna inoltre a cambiamenti come aumento di ossitocina e maggiore variabilità interbattito, dunque cambiamenti anche fisiologici (più funzionali per l’organismo) ed oggettivamente riscontrabili.

Senso di colpa e vergogna: quale ruolo nella sofferenza del paziente e come lavora la CFT

Per rispondere a questa seconda domanda, Petrocchi ricorda che l’approccio della Compassion Focused Therapy, diversamente da molti altri approcci, affonda le sue origini nella psichiatria e psicologia evoluzionistica e molti fenomeni, oggetto di lavoro all’interno della CFT, si possono comprendere ricordando che noi siamo dei mammiferi, ma a differenza degli animali abbiamo subito un processo evolutivo, ed in tale processo abbiamo sviluppato un senso del sé con funzioni superiori che ci distinguono dagli animali, comprendente anche una serie di funzioni come ad esempio la capacità di andare avanti e indietro nel tempo, di prevedere eventi futuri, cosa che per l’appunto gli animali sembrerebbero non possedere. Nicola Petrocchi da tale premessa si ricollega al fatto che l’essere umano è un animale ipersociale, ovvero che alla pari di altri bisogni, sperimenterebbe il bisogno di essere visto bene dal resto del gruppo. Colpa e/o vergogna fungerebbero da segnali che il proprio senso di appartenenza sarebbe compromesso o minacciato.

Nella Compassion Focused Therapy, a differenza della tradizionale distinzione presente in letteratura tra colpa e vergogna, si va ad osservare da quale sistema motivazionale queste due emozioni scaturiscono.

La colpa sarebbe direttamente connessa al sistema motivazionale di accudimento e pertanto, spiega Nicola Petrocchi, al percepire di tale emozione sentiamo il bisogno di mettere in atto un comportamento riparativo; se invece proviamo vergogna, il sistema motivazionale sarebbe più connesso al rango, dove l’accudimento sarebbe poco rilevante e l’emozione molto più collegata a tutelare e riparare la propria immagine.

Dopo tale premessa, Nicola Perrocchi ci spiega come si lavora con il paziente in merito a queste due emozioni. Dalla psicoeducazione, dove si spiega ed approfondisce quanto esposto sopra, ad esercizi che allenino e sviluppino una mente compassionevole, capace di riconoscere la sofferenza in se stessi e negli altri ed essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza. Un esempio che Petrocchi cita durante l’intervista è l’esercizio della sedia compassionevole, dove il sé compassionevole possa parlare alla parte di sé che prova vergogna, che vorrebbe nascondersi, che sente di non essere degno di appartenere al gruppo, e dunque si aiuta il paziente ad uscire da uno stato di motivazione che lo incastra generando sofferenza, attivando una motivazione compassionevole che possa in qualche modo regolare le emozioni che in quel momento lo fanno soffrire, sviluppando la capacità di auto-calmarsi, sospendendo il giudizio e l’autocritica, allenandosi contemporaneamente anche ad aprirsi e ricevere la compassione che viene dagli altri.

Petrocchi inoltre, tiene a sottolineare che seppur la compassione deriverebbe dall’attivazione del sistema di accudimento, esisterebbero delle differenze sostanziali tra un sistema di accudimento e sistema calmante e compassionevole. Mentre il sistema di accudimento si attiverebbe con i propri familiari, la compassione ha molte più opportunità di attivarsi in modo più esteso anche a persone non facenti parte della nostra linea genetica.

Un sistema motivazionale dunque diverso dal sistema di accudimento e che per essere tale, deve rivolgersi agli altri quanto a noi se stessi.

Inoltre, continua a spiegare Petrocchi, quando siamo in un sistema di accudimento, chi accudisce reprimerebbe l’empatia verso se stesso per prendersi cura dell’altro, mentre quando siamo nel sistema compassionevole questo cosa non avverrebbe, in quanto la sensibilità alla sofferenza ed il voler fare qualcosa per alleviarla è rivolta all’altro, quanto a se stessi.

CFT: con quali pazienti è più efficace?

L’aspetto “ambizioso” della Compassion Focused Therapy, sottolinea Petrocchi, non è quello di rappresentare l’ennesima terapia, ma di fare terapia creando connessione tra i contributi provenienti dalle psicologie evoluzionistiche, dalle teorie dell’attaccamento, dalle neuroscienze e che mettono in luce la complessità dell’essere umano.

In tal senso, secondo Petrocchi la CFT, può essere considerato un approccio transdiagnostico che potrebbe predisporre il paziente a maggiori benefici verso qualunque percorso psicoterapeutico o indistintamente dal suo problema iniziale (l’unica condizione ancora incerta riguarderebbe i pazienti con tratti di psicopatia, ma sono in corso studi in Portogallo che stanno svolgendo approfondimenti in merito). I benefici di un intervento di Compassion Focused Therapy, in una fase iniziale di un percorso psicoterapeutico, riguarderebbero, secondo i sostenitori di tale approccio, lo sviluppo di quel sistema calmante e, di conseguenza, della capacità auto-calmarsi nella persona, associato anche, a livello fisiologico, a cambiamenti più funzionali per l’organismo, come ad esempio l’aumento di ossitocina ed l’aumento della variabilità interbattito (o HRV), che consentirebbero un maggior equilibrio e bilanciamento tra sistema nervoso simpatico e sistema nervoso parasimpatico.

Per ulteriori approfondimenti  rispetto a quest’ultime informazioni, e soprattutto in riferimento al ruolo della variabilità interbattito (HRV) e disagio psichico, Petrocchi ci rimanda ad una sua ultima pubblicazione. In tale articolo vengono condivisi i risultati di una ricerca che metterebbe in evidenza come i pazienti che ad inizio terapia presentano una variabilità interbattito più bassa, sperimenterebbero anche maggiori difficoltà di aderenza alla terapia e maggiori casi si droup–out. Secondo sempre la ricerca contenuta nell’articolo a cui si riferisce Petrocchi, pazienti con una variabilità interbattito più alta, sarebbero pazienti in grado di beneficiare maggiormente degli effetti di una psicoterapia.

Un’ultima informazione che Petrocchi ci ha anticipato durante l’intervista ha a che fare con l’applicazione della CFT alla terapia di gruppo e la realizzazione in corso di un manuale in merito.

Compassion Focused Therapy, un approccio dunque molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che in modo gentile e non giudicante ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie come paura, rabbia e dolore, o secondarie come nel caso della colpa e della vergogna!

 

COMPASSION FOCUSED THERAPY – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE A NICOLA PETROCCHI:

La (scarsa) comprensibilità dell’Intelligenza Artificiale

L’Intelligenza Artificiale (IA) è trasversale e ubiqua, ma come ci si può fidare di qualcosa che non si conosce del tutto? E che per giunta macina all’interno della sua architettura la nostra privacy? Quale sinergia potrebbe sviluppare il binomio uomo-macchina, quando mancano fiducia e trasparenza?

 

L’intelligenza artificiale (IA) ha plaghe oscure. Ci limitiamo a citarne due: l’esigenza di comprensibilità dell’Artificial Intelligence (eXplainabilty – XAI) e l’intelligenza artificiale come fonte di fake news (faker).

Di seguito ci si concentrerà sulla prima questione.

Secondo uno schema di asimmetria informativa, gli utenti finali (cittadini, pazienti, manager, enti che si occupano della regolamentazione, policy makers, ecc.) non sono in grado di capire la qualità del processo decisionale adottato da numerosi sistemi basati sull’IA e il loro risultato, come o perché sia stata raggiunta una determinata decisione e se i relativi risultati siano realmente vantaggiosi e/o siano perfettibili.

Il deep learning – le tecniche di apprendimento profondo delle reti neurali che stanno alla base dell’IA – si avvale di algoritmi capaci di risolvere problemi con un elevato grado di accuratezza. Tali algoritmi hanno bisogno di addestramento. Il training si basa nel far fagocitare agli algoritmi un gran volume di dati relativi soprattutto agli individui. L’essere umano è quindi centrale nel ciclo di produzione della IA — Human-in-the-loop Artificial Intelligence (HitlAI). Questi dati sono da considerarsi materia prima dell’IA. In tale ottica, la privacy stessa rischia di diventare un input di tale processo produttivo.

Inoltre, nasce un’importante geometria tra big data (anche visivi, con la produzione e diffusione massiva di immagini e video), debunking, addestramento, debugging (o debug).

Oltre che nelle maggiori capacità di apprendimento, grazie a livelli qualitativi crescenti dei dati, le tecniche di apprendimento profondo e gli algoritmi si accrescono nel tempo per complessità, pervasività e delicatezza dei settori che se ne avvalgono, quali ad esempio:

  • la sanità: ad esempio, possono diagnosticare una patologia più rapidamente e con maggiore precisione dei medici stessi;
  • la giustizia: possono influenzare persino il tempo che una persona condannata per un reato trascorrerà in prigione;
  • il sistema economico e finanziario: nella gestione patrimoniale e dei rischi nella gestione dei dati finanziari;
  • la meteorologia: in cui le nuove tecnologie riescono a prevedere dove e quando cadrà un fulmine entro un raggio di 30 chilometri con un anticipo che va da 10 a 30 minuti, lanciando in certi casi l’allerta ancora prima che inizi il temporale; l’algoritmo ha imparato a riconoscere le condizioni che favoriscono lo scoccare della saetta analizzando i dati raccolti in dieci anni da 12 stazioni meteo svizzere, distribuite in aree urbane o di montagna;
  • la sicurezza (cybersicurity);
  • l’arte: un esempio per tutti,  la Gioconda che può assumere un’espressione accigliata, increspare le labbra, seguire i movimenti degli spettatori con gli occhi;
  • la guida autonoma, cioè le automobili che guidano in maniera autonoma: è un tipico esempio di un ambiente Human-in-the-loop poiché vi è la mediazione della presenza umana; l’auto guida da sola, ma l’uomo ha il volante in mano e, qualora essa si trovi in una situazione di empasse, lascia i comandi all’uomo.

La lista delle prestazioni non solo si allunga includendo il riconoscimento e le elaborazioni di immagini, l’istruzione, i trasporti, l’industria, il terziario, ma persino la sentiment-analysis. Essa è il campo di ricerca che, ricorrendo al machine learning, analizza testi di diversa natura per enucleare quali emozioni tendono a richiamare e ad evocare (Sasson, 2019).

L’IA è dunque trasversale e ubiqua, sicché domandarsi e comprendere fino a che punto ci si può fidare dell’apprendimento profondo è imprescindibile.

Come ci si può fidare di qualcosa che non si conosce del tutto? E che per giunta macina all’interno della sua architettura la nostra privacy? Come si può lavorare per far fronte a problemi di grande responsabilità collaborando con macchine che non si conoscono a fondo? E quale sinergia potrebbe sviluppare il binomio uomo-macchina, quando mancano fiducia e trasparenza?

Si tratta del tema della cosiddetta “scatola nera” (black box) contenente le intricate architetture di apprendimento automatico dell’IA. In tal senso, le reti neurali profonde sono talmente opache che potrebbe non conoscersi persino quale variabile/parametro abbia contribuito a quale aspetto del risultato prodotto. Pertanto, generalmente, le reti neurali riescono con grande accuratezza a realizzare i loro task, ad adottare una decisione e a produrre un risultato, ma allo stesso tempo appare estremamente complesso dare un senso ai tanti milioni di neuroni coinvolti in tale sofisticato processo.

Sorge sicché un trade-off: la portata nei guadagni di precisione nel decision-making degli algoritmi avviene a spese della trasparenza sul loro modo di apprendere, di lavorare e di produrre un risultato (ad esempio, sul piano predittivo).

La trasparenza algoritmica è volta ad acquisire la capacità di scandagliare – individuando la fonte dei flussi di dati sfruttati e creati dai sistemi di IA –, di descrivere e di replicare accuratamente i meccanismi mediante i quali tali modelli adottano determinate decisioni e imparano ad adattarsi al contesto. Non solo, la trasparenza algoritmica aiuta a comprendere le cause di una decisione errata da parte del modello e a intervenire con correttivi che ne evitino la replica. Infatti, le reti neurali artificiali, pur molto performanti, ovviamente non sono esenti da errori. Di conseguenza, è imprescindibile realizzare attività di debugging (individuazione e correzione di uno o più errori – bug – rilevati in fase di addestramento o di testing o dell’utilizzo finale dell’algoritmo).

Il problema della scatola nera diventa ancora più grave considerando che i neuroni possono essere ingannati, cioè appositamente indotti all’errore tramite artifizi sperimentati in laboratorio. Per di più, tali metodiche di inganno sono semplici. Ad esempio, è facile trarre in errore la rete neurale utilizzando immagini di individui che ad essa appaiono invece come astratte immagini geometriche; la rete potrebbe vedere linee sinuose e scambiarle per una stella marina o strisce bianche e gialle per uno scuolabus (Castelvecchi, 2019).

Gli shock a livello sistemico sono facilmente immaginabili ipotizzando che i suddetti meccanismi possano essere hackerizzati ai fini, ad esempio, di destabilizzare il sistema finanziario o di rendere vulnerabile la diagnostica del sistema sanitario o creare buchi nei sistemi di sicurezza.

 Sul rapporto fiduciario tra l’uomo e l’apprendimento profondo bisogna perciò essere cauti, come suggeriscono molti data scientist: i sistemi d’IA utilizzano – e, in particolare gli algoritmi, fagocitano – dati relativi agli esseri umani e alla loro sfera privata; possono influenzarne preferenze, comportamenti e scelte; produrre un impatto rilevante sul piano emotivo e dal punto di vista etico, nonché sul piano legale (come le pervasive attività di profilazione, la privacy, la mercificazione dei dati personali, i bias algoritmici discriminatori – per genere, classe sociale, etnia, area geografica, confessione religiosa, sistema valoriale, ecc. – con conseguenti limiti ai diritti umani fondamentali dell’individuo). Il risultato della performance dell’apprendimento profondo potrebbe finire per essere manipolatorio e/o confusivo.

Consideriamo un caso inquietante ed eloquente di medicina preventiva. La capacità di apprendimento dell’IA eccelle in un sofisticato riconoscimento di pattern per determinare gli eventi di presaging dei segnali. Se si ipotizza di arrivare a sostituire alle metodiche attuali un sistema di deep learning con capacità predittive circa il tumore al seno, durante la fase di training gli algoritmi si serviranno di enormi dataset di vecchie mammografie classificate secondo le donne che hanno sviluppato la malattia. Dopo tale addestramento, la rete neurale artificiale potrebbe aver imparato – a differenza di quella biologica – a riconoscere specificatamente e con estrema precisione i marcatori tumorali predittivi del cancro. Ma con un problema non di poco momento: la rete non è in grado di illustrare come riesce a saperlo, vale a dire come è in grado di inferire la futura patologia dai marcatori (Castelvecchi, 2019). Per la donna la scelta di una mastectomia preventiva – alla luce del proprio patrimonio genetico – è già squassante. Ma se poi è una macchina – seppure molto accurata nelle sue previsioni – a suggerirla, senza nemmeno essere in grado di darne le spiegazioni, l’impatto emotivo e psicologico è dirompente. La scelta ha una portata drammatica. Anche il profilo etico è in primo piano. Altro esempio: nella maggior parte dei paesi, quando una banca nega un fido, il diritto prevede che essa deve darne spiegazione al cliente. Ebbene, un algoritmo di apprendimento profondo non è in grado di farlo (Castelvecchi, 2019).

Sia il diritto di decifrare l’apprendimento profondo con i suoi algoritmi, sia – correlatamente – una maggiore fiducia nei confronti dello stesso, sono essenziali per accrescere a livello sistemico un approccio più friendly verso l’IA e, quindi, per implementarla su larga scala (Ribeiro, Singh, Guestrin, 2016).

La questione della fiducia è ulteriormente complessa, in quanto le relative esigenze sono funzionali al contesto. Se capire gli algoritmi che supportano suggerimenti circa i programmi televisivi non è di importanza cruciale per la stragrande maggioranza degli utenti, diventa essenziale capire il funzionamento del deep learning con i suoi algoritmi in situazioni di maggiore vulnerabilità degli utenti (Intel – AI spiegabile, consultabile al link). Assumere decisioni di diagnosi nell’assistenza sanitaria o formulare strategie militari avvalendosi di un sistema basato sull’IA esigono una comprensione accurata del processo decisionale sottostante.

Fa da ausilio alla scarsa trasparenza del deep learning l’IA spiegabile – un sistema fondato su regole per spiegare le azioni della IA (come e perché adotta determinate decisioni e produce determinati risultati).

La necessità fondamentale dell’IA spiegabile risponde a una molteplicità di esigenze: rende la tecnologia più trasparente; è importante per rilevare errori e pregiudizi nei dati che potrebbero indurre ad assumere scelte errate o ingiuste; serve a garantire conformità normativa, equità, etica e mancanza di pregiudizi. Ad esempio, l’efficacia di contrastare i reati finanziari potrebbe essere notevolmente migliorata implementando modelli di apprendimento più accurati. Ma consideriamo anche la difficoltà di spiegare ai regolatori tutto questo.

Ciò rinvia ad alcuni dei problemi legati all’IA spiegabile, alcuni dei quali verranno di seguito richiamati:

  • Molti algoritmi dell’IA vanno oltre la comprensione umana – a volte persino di coloro che li hanno creati – e certamente al di là di quella della maggior parte degli utenti finali. Di conseguenza, a volte una spiegazione non sarebbe fruttuosa.
  • È necessario trovare un compromesso tra prestazioni e spiegabilità. Qualora ciascuno step di un modello di IA dovesse essere esplicitato, il processo sarebbe destinato ineludibilmente a rallentare a detrimento del numero di applicazioni e di ulteriori progressi.
  • E’ pressoché impossibile convenire su una nozione univoca di “spiegabilità”: essa è infatti funzione del contesto, dell’innovazione tecnologica, dei settori coinvolti, dei fruitori, dell’epoca in cui viviamo.
  • Essa potrebbe entrare in conflitto con gli interessi delle imprese: spiegare algoritmi e deep learning significa divulgare idee e inficiare la protezione dei segreti industriali a pregiudizio della proprietà intellettuale. Si crea un problema di copyright se algoritmi e deep learning diventano eccessivamente trasparenti. Ciò scoraggerebbe la R&S, gli investimenti, l’innovazione, il progresso, la crescita.
  • Le operazioni di debugging sono tra le più importanti e difficili per la messa a punto di un algoritmo, ma sono anche tra le più delicate poiché vi è il rischio di introdurre nuovi errori nel tentativo di correggere, tramite il debug, quelli esistenti.
  • E’ urgente una disciplina per il sistema di apprendimento automatizzato. Il Codice etico elaborato dalla Commissione Europea individua le pietre miliari nei principi di trasparenza, accountability, solidità, affidabilità tecnica, affinché sia preservata l’autonomia degli individui e il controllo sulle modalità operative dei sistemi stessi d’IA. Tale percorso risulta analogo a quello già tracciato dal GDPR sulla questione della trasparenza degli algoritmi, in particolare agli artt. 12, 13, 21, 22. L’ultimo, specificatamente, prevede che qualora una decisione sia stata adottata in assenza di intervento umano, bensì solo per mezzo di un processo automatico, l’individuo i cui dati fanno riferimento si può avvalere del diritto di ricevere spiegazioni su come detta decisione sia stata intrapresa (Iozzia, 2019).

 

La culla vuota e i social media: Instagram e l’esperienza del lutto a seguito di un aborto spontaneo

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno dell’aborto.

 

Nella cultura occidentale, forse per scaramanzia, sicuramente per limitare il numero di persone al corrente dei fatti, viene insegnato alle gestanti che sia opportuno nascondere al mondo la gravidanza almeno per i primi tre mesi. Nonostante l’interruzione di gravidanza avvenga spontaneamente in assenza di patologie cooccorrenti, indicando verosimilmente una ‘selezione naturale infra-uterina’ legata alla salute dell’embrione, questo evento viene spesso vissuto dalle donne con sentimenti di colpa, vergogna e inadeguatezza, che incrinano proprio il senso identitario. Eppure, una percentuale stimata tra il 9 e il 20% di tutte le gravidanze non vengono portate a termine a causa di eventi spontanei, rappresentando quindi un fenomeno estremamente comune e largamente sottovalutato, specialmente se consideriamo i rischi a medio-lungo termine per le donne (ed i partner) che ne fanno esperienza, come ad esempio un aumento nell’incidenza di sintomi depressivi, della sintomatologia ansiosa e di PTSD (Bellhouse et al., 2019; Farren et al., 2016; Kolte et al., 2015) anche per alcuni anni a seguito della perdita. Alcuni studi hanno denunciato una mancanza di supporto e di informazioni adeguate da parte del personale medico coinvolto, così come un sentimento di forte isolamento sociale, vissuto dalle donne nel silenzio e segretezza (ma anche dai loro compagni: vedi Miller, Temple-Smith & Bilardi, 2019).

Con la nascita delle community online e dei forum e, in tempi più recenti con l’avvento dei social media, i contenuti presentati all’utente sono divenuti progressivamente più specifici e cuciti sulla persona, donando virtualmente un senso di appartenenza ad ogni individuo dotato di accesso alla Rete e mettendo in contatto persone che condividono esperienze, sentimenti o ideali, a prescindere dalla loro posizione geografica.

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage (n.d.t.: #hoavutounabortospontaneo) per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno; l’introduzione di questo hashtag, riconosciuto e utilizzato dalle utenti negli anni a seguire, ha circoscritto uno spaccato del vissuto delle donne e delle loro famiglie.

Un recente studio di Mercier, Senter, Webster e Henderson Riley (2019) ha analizzato 200 post contenenti l’hashtag #ihadamiscarriage, con l’intento di coglierne i temi ricorrenti e le modalità espressive ad essi correlate: i post selezionati si focalizzavano sull’esperienza dell’interruzione della gravidanza, escludendo quindi le condivisioni circa una generale infertilità, i post che menzionassero la morte post-natale (non assimilabile all’aborto spontaneo) o che affrontassero la tematica del cambiamento corporeo o controllo del peso. Si è anche scelto di escludere gli hashtag postati dalle utenti in occasione del 15 Ottobre, Giornata mondiale per la sensibilizzazione sulla perdita perinatale e infantile e di quelle ricorrenze legate alla maternità come la Festa della Mamma e Pasqua. Da ultimo, i post contenenti video sono stati esclusi dal campione, in quanto la loro codifica avrebbe richiesto modalità differenti da quelle operate sul testo, sulle emoji e le immagini.

I contenuti dei post analizzati sono stati fatti confluire in cinque categorie generali: 1- l’aborto in quanto evento fisico e medicalmente correlato, 2- come esperienza sociale, 3- come esperienza emotivamente complessa, 4- gli effetti sull’identità personale e familiare 5- meccanismi di coping e di elaborazione dell’esperienza traumatica.

I post che si focalizzavano sull’esperienza medica, includevano immagini legate alle visite negli ospedali, alla chirurgia e alle procedure diagnostiche e le ecografie: tra questi spesso ricorreva il momento in cui la coppia riceveva la notizia dell’assenza di battito fetale, decretando la fine della gravidanza. Le date legate a momenti cruciali della gravidanza e la sua interruzione, venivano vissute come anniversari, anche per diverso tempo dopo la perdita.

Spesso l’intento era di offrire conforto e solidarietà per altre persone al pari del riceverle, talvolta attraverso frasi motivazionali attribuibili ad altri; i post che veicolavano il tema della rabbia esprimevano spesso emozioni di colpevolizzazione, rabbia verso il proprio corpo o verso Dio, quelli che si focalizzavano sul rimorso ripercorrevano invece azioni commesse o che avrebbero potuto prevenire la tragedia avvenuta, colpevolizzandosi per non essere riuscite a portare a termine la gravidanza ed esprimendo sentimenti conflittuali nel concedersi di andare avanti dopo l’esperienza dell’aborto.

Inoltre, l’interruzione di gravidanza veniva descritta come un evento determinante nella vita della donna che ne fa esperienza, elicitando riflessioni sulla propria identità di madre, padre o di genitori; i partner venivano poi menzionati per il loro ruolo supportivo durante e dopo l’evento, in post spesso accompagnati da immagini raffiguranti la coppia o gesti di unione come mani che si stringono o famiglie riunite.

L’impatto maggiore sul senso di identità sembra avvenire nelle donne che hanno subito molteplici interruzioni spontanee di gravidanza, alle quali ci si riferisce tra gli utenti di Instagram mediante l’hashtag #RPL (Recurrent Pregnancy Loss); in queste donne l’esperienza pregressa ha aumentato preoccupazione e ansia circa una possibile gravidanza o per quella in corso, temendo sintomi che possano essere precursori di un’altra interruzione di gravidanza, come ad esempio paura di riscontrare perdite ematiche o nel percepire dolori addominali.

Il tema religioso sembra ricorrere in quei post che si occupano dell’aspetto ristorativo e di guarigione, al pari della memoria dell’avvenuta perdita, che le utenti onorano in modi disparati: piantando un albero, tatuandosi, dando un nome al bambino, etc. Molti post facevano riferimento alla necessità di ricercare supporto psicologico per fare fronte alla sintomatologia ansiosa o alla depressione, così come ad altre pratiche di cura di sé come lo sport, attraverso la nutrizione salutare e la cura della persona.

È stato suggerito da Pittman e Reich (2016), che le piattaforme che si servono primariamente di immagini, come Instagram o Facebook, risultino più efficaci nell’alleviale il senso di solitudine e isolamento rispetto ad altri social media, come ad esempio Twitter. Di sicuro, la variegata, complessa, dolorosa esperienza di interruzione spontanea di gravidanza necessita di una modalità di espressione e condivisione che faccia fronte alla mancanza (incomprensibile) di rituali e consuetudini socialmente tramandate che facciano entrare questo vissuto, comune a tante donne, nell’esperienza collettiva: Instagram in tal senso permette alle donne di entrare a far parte di una comunità più estesa della propria ristretta cerchia di contatti.

 

I condizionamenti sociali nella formazione della personalità

La formazione della nostra personalità passa attraverso un processo di crescita in cui si consolidano aspetti genetici che ci sono propri, ma anche influenze che su di noi vengono esercitate dall’ambiente che ci circonda, come la società.

 

La società ha su di noi delle precise aspettative che ci comunica attraverso i modelli che impone ai suoi membri. Ciascuna, infatti, fa capo ad un prototipo per definire i tratti della persona ideale che vengono apprezzati e quelli che, viceversa, vengono disapprovati. Ogni cultura propone un differente programma di comportamento e pertanto favorisce modelli diversi per la socializzazione.

Studi sull’interazione individuo-società hanno dettagliato questo processo. Vediamone alcuni.

Partiamo dagli studi di William James che, a fine ‘800, pubblica una delle sue opere più importanti, Principi di psicologia, che introduce il concetto di “sé empirico”, basato sull’esperienza e sulla pratica, che si articola in un sé materiale (il proprio corpo, i genitori, la casa), un sé sociale (il modo in cui si viene percepiti dagli altri) e un sé spirituale (il proprio essere interiore). L’uomo metterebbe quindi in atto delle funzioni adattive per relazionarsi all’ambiente e ogni azione che compie sarebbe una risposta al mondo esterno.

Una prosecuzione del pensiero di James è l’interazionismo simbolico, un approccio che si sviluppa negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900, che sottolinea come la società abbia una natura pluralistica e come norme e regole sociali abbiano di conseguenza un valore relativo, il che comporta che anche il sé socialmente strutturato si formi in modo dipendente da queste variabili.

L’interazionismo simbolico si basa su tre principi:

  • gli esseri umani reagiscono al ciò che li circonda in base al significato che gli attribuiscono;
  • il significato attribuito è un prodotto sociale, condiviso con gli altri individui cha fanno parte del suo contesto;
  • questo significato attribuito viene interpretato dall’individuo e messo in atto nelle sue azioni.

In linea con questa corrente troviamo Charles Horton Cooley, sociologo, che riafferma l’idea di come ciò che l’individuo diventa con lo sviluppo sia in stretta dipendenza con i rapporti che intrattiene con l’ambiente e le persone che lo circondano. Suo è il concetto del “looking glass self” (io riflesso) che vuole appunto spiegare come ciascuno viene ad impersonare l’immagine che gli altri gli rimandano di sé stesso.

L’io riflesso è costituito da tre elementi:

  • il modo in cui ci raffiguriamo, ossia quello che pensiamo gli altri vedano di noi stessi;
  • come pensiamo che gli altri vi reagiscano;
  • come, a nostra volta, reagiamo alla reazione che percepiamo negli altri, interpretandola e modellando su di essa il nostro concetto dell’io, che ne può uscire rafforzato o diminuito.

In altri termini si può dire che secondo Cooley le persone, crescendo, diventano capaci di impegnarsi per dare di sé l’immagine più rispondente possibile alle aspettative della società e di chi le circonda.

George Herbert Mead, considerato uno dei fondatori della psicologia sociale, in sintonia con Cooley, ritiene che l’individuo sia un prodotto della società in cui vive, ma va oltre tale presupposto arrivando ad affermare che il “sé” non fa parte della persona fin dalla sua nascita, bensì si viene costituendo nell’interazione con altri individui e con la società. Il “sé” è formato da due parti distinte: l’“io” e il “me”.

L’“io” è costituito dalla risposta che viene fornita dall’organismo agli atteggiamenti degli altri. Il “me” è il concetto di sé che ci si forma in relazione agli altri significativi e la cui costituzione ha luogo via via che l’individuo cresce ed assorbe gli atteggiamenti e i modi di dire organizzati degli altri. Da principio ogni risposta è automatica, in seguito, sul modello delle altre persone, si impara ad apprendere il loro comportamento e a giudicare i propri atti come se si fosse qualcun altro.

Lo sviluppo si articola quindi secondo Mead in tre fasi:

  • l’imitazione (che è una semplice copia del comportamento degli altri senza capire cosa si sta facendo);
  • il gioco libero (che ha inizio quando si comincia a sostenere dei ruoli diversi dai propri abituali);
  • il gioco organizzato (o la capacità di assumere i ruoli di più persone contemporaneamente).

Dalla fusione di questi atteggiamenti ha luogo “l’altro generalizzato”, l’atteggiamento con cui l’intera collettività assume il comportamento del gruppo a cui appartiene. Funziona come uno strumento di controllo sociale che serve alla comunità per esercitare una sorveglianza sul comportamento dei singoli individui che la compongono. L’altro generalizzato servirà anche all’individuo come punto di riferimento per giudicare il suo comportamento.

Delle fasi dello sviluppo e della formazione della personalità si è occupato Paul Henry Mussen, psicologo, stabilendo che attraverso il processo di crescita ciascuno ha modo di formare la propria specifica e pertanto unica identità, che corrisponde alle esperienze che ha vissuto fino a quel momento. Tuttavia, queste non gli appartengono totalmente, ma esprimono anche l’ambiente nel quale si è mosso, il contesto relazionale, gli incontri fatti, in altre parole tutto ciò che ha alle spalle.

Si può affermare che la società svolga sugli individui che ne fanno parte una sorta di “pressione” che influenza la direzione del loro sviluppo, imprimendo pregiudizi e stereotipi che indirizzano verso la formazione di talune caratteristiche ad essa utili.

Va detto che, almeno per ora, non appare possibile distinguere nettamente tra le conseguenze che sulla formazione della personalità hanno le strutture cerebrali rispetto a quelle dell’esperienza ambientale.

Inoltre, il tipo di adulto che la società presenta ai suoi membri non è assoluto e universale, ma può variare a seconda delle condizioni e dei diversi periodi in cui ci si trova. Può quindi subire delle variazioni spazio-temporali e, anche all’interno di una stessa società, le diverse classi sociali e le categorie che la compongono possono avere un’idea differente di quanto ci si aspetta da loro in conseguenza del fatto che esse non ricoprono uguali ruoli.

 

La Gelosia: tra romanticismo e patologia

La gelosia nasce dalla paura e non, come si crede di solito, dall’amore. Dovrebbe essere intesa come la paura di amare. Spesso l’amore viene confuso con il possesso senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso.

 

Francesco Algarotti, saggista del ‘700, afferma che:

la gelosia ha da entrare nell’amore, come nelle vivande la noce moscata. Ci ha da esser, ma non si ha da sentire,

La contessa Maria de Champagne nel De Amore di Andrea Cappellano, quasi a voler confermare quanto sostenuto da Algarotti, rispondendo a una richiesta di due in procinto di diventare amanti, sostiene che “ ….Chi non è geloso non può amare”. Queste definizioni riportano una visione romantica della gelosia dando voce alle teorie che sostengono che essa è il contraltare dell’amore. La Dott.ssa Frandina, autrice insieme al Prof. Giusti del libro Terapia della Gelosia e dell’Invidia, sostiene che la gelosia romantica è quella

delle ardenti passioni, delle contrastanti emozioni, degli attimi traditi, del dico non dico, di una verità pubblica e di una menzogna privata. …. È la memoria di odori, è un messaggio rubato, è un gioco di intrecci e di passioni che ci emoziona, ci avvicina all’altro, ce ne allontana.

La visione romantica della gelosia, da non confondere con la gelosia romantica, tende a sottolineare che essa è un elemento essenziale dell’esperienza amorosa. Spesso il luogo comune ci porta a pensare che se una persona ama tanto non può fare a meno di essere gelosa. Eppure se cerchiamo la definizione di gelosia in un qualsiasi dizionario troviamo che essa è un  “ansioso tormento provocato dal timore di perdere la persona amata ad opera di altri”.

La gelosia nasce, dunque, dalla paura, non già, come si crede di solito, dall’amore. La gelosia, quindi, dovrebbe essere intesa come la paura di amare. In apparenza spesso in psicoterapia, in situazioni di crisi affettive sia matrimoniali che di fidanzamento o convivenza, sentiamo frasi del tipo “gli/le ho chiesto di allontanarsi (o mi sono allontanato/a) per capire se sento il suo bisogno, se sono geloso/a” ed, ancora, “mi sono accorto/a che non è geloso/a e quindi non mi ama”. Spesso l’amore viene confuso con il possesso tant’è che le persone a cui siamo affettivamente legate siamo abituati a considerarle una cosa personale (“la mia ragazza” o “mio marito”, “il mio amico”, “mio figlio”) e ragioniamo, anche senza esserne consapevoli, come se effettivamente ci appartenessero.

Marcel Proust, in contrasto con la visione romantica della gelosia, scrive che “la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore”. Spesso per amore si intende una specie di monopolio, una possessività, senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso.

Il Prof. Volterra, autore del libro La Gelosia il Mostro dagli Occhi Verdi, sostiene che

lo stereotipo… è che la gelosia sia indice di amore quando è invece indice d’insicurezza per chi ce l’ha ed è un sentimento negativo e distruttivo, che fa soffrire sia chi ne è tormentato che la vittima.

Roland Barthes, celebre saggista e semiologo francese, mettendo in risalto la contraddizione tra razionalità e irrazionalità spesso presente nella gelosia, scrive:

Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri (1977).

Da un lato, capiamo che l’essere gelosi comporta sofferenza e spesso non aderenza alla realtà, dall’altro, sembra che ci sia una forza invisibile che ci spinge a dubitare, a cercare, ad agire in modo sbagliato, a soffocare chi ci sta accanto.

Il prof. Zino, psicoanalista autore del saggio Gelosia, sostiene che

la domanda di analisi può presentare la gelosia come qualcosa da cui vuole difendersi, e rispetto ad essa invoca un argine, al limite una scomparsa; ma insieme avvertiamo con evidenza che la gelosia è ciò da cui il soggetto stesso è più catturato, e non può farne a meno. E’ la sua trappola ma ama il proprio carceriere. E’ la sua identità.

La gelosia, quindi, diventa un modalità patologica con cui si esprime l’amore.

Ma l’amore cos’è? Da dove nasce? Sono domande a cui non riusciamo a dare risposta. Non abbiamo ancora capito, o non siamo riusciti a dare spiegazioni scientificamente valide, sulle modalità per cui ci leghiamo ad una persona a fronte di milioni o miliardi di altri simili. Non siamo riusciti a spiegarci fino in fondo il cos’è e il come mai il cuore si mette in subbuglio di fronte ad una persona. Ciò che riusciamo a studiare, ad analizzare, a ricercare sono gli effetti ovvero le modalità di espressione dell’amore. Se ognuno di noi analizzasse il perché “amo”, troverebbe sicuramente una miriade di risposte e tra queste anche “perché sono geloso”.

Una delle espressioni dell’amore è l’attaccamento. Grazia Attili, nel suo libro Attaccamento e Amore, sostiene che la struttura che assume un legame sentimentale, le distorsioni dell’amore e la scelta del partner, siano da ricondurre alle aspettative che ciascuno di noi ha su stesso e sugli altri, esito della prima relazione avuta con la propria figura di attaccamento.

Il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa ha condotto una ricerca su Attaccamento romantico e sottotipi di gelosia ed ha esaminato la relazione tra stili di attaccamento e le cinque componenti della gelosia romantica identificate da Sbrana e coll. (2004): (a) autostima, (b) paranoia, (c) ossessività, (d) controllo del partner, (e) paura di abbandono, rilevando lo stile di attaccamento e la gelosia romantica attraverso due questionari multi-item: ECR (Brennan et al., 1998) e QUEGE (Sbrana et al., 2004).

I risultati mostrano che i soggetti con stili di attaccamento caratterizzati da maggiore ansietà (preoccupato e timoroso evitante) presentano punteggi maggiori ad ogni dimensione della gelosia romantica, rispetto ai soggetti con stile di attaccamento caratterizzato da bassa ansietà (Sicuro e Distanziante). Questi risultati sembrano avvalorare l’ipotesi che la gelosia rappresenti un indicatore aspecifico di una sottostante vulnerabilità personologica e/o psicopatologica.

Oscar Wilde scriveva che

le donne insignificanti sono sempre gelose dei loro mariti, le belle non lo sono mai. Sono sempre così occupate a essere gelose dei mariti delle altre.

I risultati della ricerca e l’affermazione di Oscar Wilde ci indicano che bisogna avere una grande sicurezza personale per non cadere nella sofferenza, nella rabbia, nell’ansia della gelosia. Infatti, il sofferente di gelosia nel momento in cui ha la certezza dell’inganno, reale o presunto che sia, prova un sentimento di grave perdita, di lutto non solo verso il rapporto ma, soprattutto, verso il proprio sé a cui reagisce con rabbia, vendetta, lamento e, nei casi più gravi, paranoia.

La Dott.ssa Frandina (op. cit.) afferma che

il timore di perdere l’affetto della persona amata è legato alla soddisfazione dei bisogni di sicurezza affettiva, di contenimento, di holding. Alla base di questa forma di gelosia c’è la convinzione che la persona amata ci appartenga, il timore che qualcuno che sentiamo come rivale possa portarcela via, la previsione che, se ciò dovesse accadere, l’immagine del Sé risulterebbe profondamente colpita.

Esemplificativo a questo proposito risulta il dialogo che riportiamo tra Otello e Desdemona:

Otello: Quel fazzoletto che mi era tanto caro, e te l’avevo dato io, e tu l’hai dato a Cassio.
Desdemona: No: sulla mia vita e sull’anima mia. Mandatelo a chiamare e domandatelo a lui.
Otello: Guardati, anima dolce, dallo spergiuro. Guardati! Sei sul letto di morte.
Desdemona: Lo so: non per morirci ora.
Otello: Sì. Subito. E dunque confessa apertamente il tuo peccato; perché il negarlo in ogni suo punto con giuramento, non potrà smuovere mai né soffocare questa certezza che mi strazia. Devi morire.
Desdemona: Domani mi ucciderai. Lasciami vivere stanotte.
Otello: Ah, resisti?
Desdemona: Solo mezz’ora…
Otello: Ora. È deciso. Subito.
Desdemona: Il tempo di dire una preghiera.

Il Prof. Zino (op. cit.) ritiene che la ratio della gelosia è che

il bisogno di avere un senso, un fondamento, non passa più dall’amore ma dal risentimento. Come sappiamo quest’ultimo è una delle figure dell’odio, del lavoro dell’odio. La gelosia non è un discorso dell’amore … ma un discorso dell’odio. L’inganno, il sospetto, la malafede, diventano il nutrimento del geloso. Ed allora non sa più parlare d’amore.

Una citazione di Francois de La Rochefoucauld dà, meglio di mille parole, la dimensione dello scarto che c’è tra gelosia e amore: “nella gelosia c’è più egoismo che amore”.

La gelosia non essendo né “sinonimo” né “contrario” di amore, è una spinta irrazionale che devasta il legame affettivo e, spesso, produce l’effetto contrario a quello desiderato. Karl Kraus afferma che “la gelosia è un abbaiare di cani che attira i ladri”. Paradossalmente, a volte le profezie si auto avverano. Vi è un bellissimo film degli anni ’60 Il Magnifico Cornuto di Antonio Pietrangeli in cui il protagonista dopo aver commesso un adulterio inizia a sospettare della moglie che fino ad allora aveva tenuto un comportamento irreprensibile. La segue, la fa seguire, la tormenta con i suoi dubbi e i suoi sospetti, fino a quando, vittima di un incidente, non si convince che era stato colpito da una malattia (la gelosia) che gli procurava ansia e tormenti inutili. Peccato che la moglie nel frattempo, stanca delle continue illazioni, inizia una relazione con il medico che lo ha in cura.

La gelosia è una malattia? Difficile rispondere a questa domanda. In effetti il DSM non la elenca tra le patologie. Eppure in tutte le definizioni finora date abbiamo parlato di ansia, depressione, identità gelosa, strutturazione del Sé, ferita narcisistica, etc. Sul piano letterario e artistico, la gelosia è da sempre stata giustificata, anche nei casi più drammatici, come una componente essenziale dell’amore. Nell’Otello, da un lato, proviamo compassione per Desdemona che viene uccisa ingiustamente in base alla diceria di Cassio, ma dall’altro giustifichiamo lo stesso Otello, che una volta insinuatosi il dubbio, non poteva comportarsi in maniera diversa. Eppure egli aveva un’altra possibilità: credere e avere fiducia in Desdemona. Credere e avere fiducia nell’amore. La mancanza di fiducia e la scelta di Otello, sul piano scientifico non può non portarci ad una serie di riflessioni.

Però anche su questo piano si è molto dibattuto ed, in particolare, fino a che punto la gelosia può essere considerata normale e quando diventa patologica.

Nei comportamenti della persona gelosa si trovano due elementi che sono presenti nelle forme patologiche: offensività (il controllo) e la difensività (competitività). La persona gelosa può cioè intervenire o mantenere il controllo su potenziali “concorrenti” (persone, ma anche situazioni o ambienti) che si profilano, nell’idea che questi elementi possano separarlo dalla persona che ritiene “sua”. Altrimenti, c’è la gelosia offensiva, cioè quella in cui la persona agisce in assenza di reali o attuali concorrenti. Questa distinzione non è netta, perché la gelosia porta comunque a leggere come attuali o potenziali minacce elementi che invece altri non vedrebbero così, e va riferita semmai all’atteggiamento della persona amata, se cioè l’origine sia una infedeltà o promiscuità o atteggiamento ambiguo o libertino da parte del partner, oppure se la gelosia sia una modalità automatica di fissare la relazione nonostante una fedeltà senza ombre e l’assenza di minacce concrete. I tratti patologici della gelosia sono, quindi, da riferire alla visione reale o meno della situazione affettiva e del comportamento del partner. Ciò vuole anche dire che vi è un continuum tra gelosia e le forme di gelosia patologica. A questo livello il problema non è provare gelosia, cosa a cui va incontro ogni essere umano nel corso della sua esistenza, ma il modo di elaborare e strutturare le relazioni affettive.

Nell’ambito della gelosia patologica si distinguono, in base alle caratteristiche formali delle idee di gelosia, tre grandi gruppi:

  1. La gelosia ossessiva in cui il soggetto, così come avviene nel disturbo ossessivo compulsivo, ha bisogno di controllare continuamente il comportamento della moglie/marito. Alla base c’è un’idea ossessiva, la paura di essere abbandonato e lasciato dalla persona amata, a cui segue una compulsione costituita, spesso, da lunghi e quotidiani interrogatori, dal controllo della castità dell’abbigliamento del partner, dal controllo della corrispondenza, etc. Essi passano gran parte del loro tempo alla ricerca di comportamenti del partner che possono lenire la sofferenza di una ideazione di perdita.
  2. La Sindrome di Mairet in cui la gelosia è assimilata ad idee prevalenti in cui il desiderio di possesso e il senso di perdita divengono pervasive e tutta la vita ruota intorno a queste “idee prevalenti”. Alcuni autori hanno definito i soggetti colpiti da questa sindrome come contraddistinti da “iperstesia gelosa” in quanto le idee di gelosia tendono a riempire tutto il campo esperienziale. Questi soggetti, infatti, non sono solo gelosi all’interno delle relazioni di coppia ma anche in tutti gli altri aspetti della vita. Anche se queste idee mantengono un confronto con la realtà vengono vissuti dal contesto socio-culturale di riferimento come abnormi e patologici.
  3. La Gelosia Delirante o Sindrome di Otello in cui il soggetto si auto convince dell’infedeltà del partner e va continuamente alla ricerca di elementi che possono giustificare le sue supposizioni iniziali. In questo tipo di gelosia il soggetto non è interessato all’infedeltà del partner ma piuttosto a fargli/le ammettere la sua colpa. La vita di coppia diventa un misto di interrogatori e giustificazioni. Anche quando raggiunge il suo scopo ovvero una confessione, magari non reale ma dettata semplicemente dalla stanchezza di estenuanti interrogatori, l’ansia non si placa ma continua con la stessa intensità. Per quest’ultima caratteristica il presupposto di questo tipo di gelosia sembra essere la propria autoaffermazione con il contemporaneo annullamento dell’altro/a.

 

Disturbo Ossessivo-Compulsivo: Terapie Cognitivo-Comportamentale e Metacognitiva di gruppo a confronto

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), con una prevalenza lifetime nella popolazione di circa il 2%, rappresenta una patologia psichiatrica debilitante e cronica (Kessler et al., 2005), tanto da essere classificato come uno dei 10 disturbi più debilitanti del mondo (World Health Organization, 1999).

 

Sia che si tratti della sua forma individuale che di gruppo, la terapia per il trattamento del DOC attualmente raccomandata e più validata dai dati empirici (es. Olatunji et al., 2013) è la Cognitivo-Comportamentale (CBT), in particolare la tecnica di esposizione e prevenzione della risposta (ERP; Heyman, Mataix-Cols & Fineberg, 2006). Nonostante l’efficacia della CBT per il DOC sia stata validata attraverso numerosi trial randomizzati, la generalizzabilità di questi studi è limitata a causa della rigida metodologia utilizzata, che nella maggior parte dei casi non prevede l’applicazione della tecnica in contesti clinici e ospedalieri “naturali”. L’assistenza sanitaria necessita ancora di valutazioni obiettive sull’efficacia delle terapie per il DOC nella pratica clinica (Sackett et al., 1996).

Il primo obiettivo dello studio preso in esame (Papageorgiou et al., 2018), coerentemente con quanto riportato qui sopra, era quello di analizzare sistematicamente gli esiti della CBT di gruppo per adulti che avevano seguito una terapia a livello ambulatoriale per trattare il DOC, per un periodo di 5 anni. In seguito, una volta ottenuti i primi risultati dell’analisi, il secondo obiettivo era quello di valutare l’efficacia di un approccio alternativo alla CBT per il trattamento del DOC, ovvero la Terapia Metacognitiva di gruppo (MCT; Wells, 2009). La scelta di introdurre la MCT era dovuta ai notevoli risultati riportati in letteratura dalla terapia per pazienti con DOC (Fisher & Wells, 2005).

Secondo il modello teorizzato da Wells (1997), gli individui affetti da DOC esperiscono pensieri intrusivi che sono direttamente collegati con le metacredenze sottostanti. Sono queste credenze a guidare i processi disadattivi del pensiero chiamato cognitive attentional syndrome (CAS). Vi sono due tipologie principali di metacredenze, ovvero le credenze sulla pericolosità del pensiero e le credenze sulla inevitabile necessità di mettere in atto le compulsioni.

La prima tipologia di metacredenze (definita anche “fusion belief”), riguarda la cosiddetta fusione pensiero-azione, ovvero la convinzione che il solo pensare a qualcosa faccia sì che questo accada nella realtà (es. ho pensato che potrei investire qualcuno con la macchina, quindi sicuramente ciò avverrà) o che un evento è già accaduto (es. tornando a casa ho sicuramente investito qualcuno con la macchina, perché adesso questo timore mi attanaglia); la seconda tipologia di metacredenze riguarda le convinzioni sulle compulsioni, ovvero sui rituali che guidano le risposte alla preoccupazione causata dalle ossessioni (es. devo fare il giro del quartiere ripercorrendo i miei passi fino a quando smetto di pensare di aver investito qualcuno).

Nel modello di Wells (1997), il CAS riguarda la ruminazione, il monitoraggio delle minacce e i comportamenti disadattivi che rappresentano il mezzo utilizzato dal paziente DOC per combattere l’ansia procurata dalle ossessioni.

Nel presente studio (Papageorgiou et al., 2018), per raggiungere i due obiettivi di ricerca menzionati poco fa, gli autori hanno potuto seguire 95 pazienti per 5 anni, che hanno acconsentito a sottoporsi al trattamento MCT di gruppo, e 125 al trattamento CBT.

I risultati hanno mostrato che, coerentemente con le informazioni presenti in letteratura che riguardano l’efficacia della CBT per il trattamento del DOC, il 28% dei pazienti che ha ricevuto il trattamento non ha riportato miglioramenti statisticamente significativi. I pazienti trattati con MCT hanno riportato miglioramenti significativi rispetto al gruppo CBT: l’86,3% dei pazienti nella ha risposto positivamente al trattamento rispetto al 64% nella CBT.

In conclusione, nonostante alcune differenze significative, sia la CBT che la MCT di gruppo sono da considerarsi interventi efficaci quando erogati in un contesto clinico per un lungo periodo di tempo (Papageorgiou et al., 2018).

 

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