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Natale e solidarietà: nel periodo natalizio siamo tutti più buoni? – Intervista al Prof. Francesco Ambrogetti

Si avvicina il Natale, le piazze si popolano di banchetti della solidarietà che ci invitano a donare. E’ vero che in questo periodo dell’anno “siamo tutti più buoni” ed aderiamo con maggior facilità alle cause sociali? Che cosa succede nel nostro cervello quando facciamo un’offerta?

 

Abbiamo intervistato Francesco Ambrogetti, che da oltre vent’anni si occupa di raccolta fondi per organizzazioni come Unicef, WWF e Croce Rossa; docente dal 2011 all’Università di Forlì, è stato responsabile di finanza innovativa presso il Fondo di sviluppo del capitale delle Nazioni Unite (UNCDF) e ha lavorato in Sudafrica, promuovendo campagne di sensibilizzazione in tema di AIDS, in Asia a sostegno della salute riproduttiva femminile.

Intervistatrice (I): Quanto c’è di autentico e, al contempo, di indotto nel gesto di donare o di aderire ad un’organizzazione umanitaria in questo particolare periodo dell’anno?


Francesco Ambrogetti (F.A.): Senza dubbio, i dati mostrano che in Italia, così come in altri Paesi, dicembre è il mese in cui si registra il più alto livello di donazioni; addirittura, per alcune organizzazioni, fino al 50-60% dell’intero ammontare raccolto in tutto l’anno. La donazione, infatti, viene attivata in risposta ad un complesso di emozioni – dunque a livello subconscio ed istintivo – e di valori nei quali crediamo e siamo stati educati. Per chi festeggia o è immerso nell’atmosfera del Natale, soprattutto in un Paese tradizionalmente cattolico come l’Italia, il dono può diventare una parte essenziale del proprio essere. Siamo, per così dire, predisposti emozionalmente ed educati valorialmente. Il problema sta nel fatto che esistano moltissime organizzazioni no-profit.
A Natale, allora, tendiamo a donare alle organizzazioni a cui abbiamo sempre donato, piuttosto che aderire a nuove cause sociali, a meno che queste ultime non abbiano notevole visibilità e producano un effetto chiaramente più forte dal punto di vista emozionale. E’ il caso dello tsunami in Asia del 26 dicembre 2004.

I: Cosa succede nel nostro cervello quando decidiamo di sostenere un’organizzazione? Donare aumenta la nostra autostima? Ci fa sentire più accettati socialmente?

F.A.: Il nostro cervello è complicatissimo e le neuroscienze hanno appena iniziato a capire cosa succede quando proviamo determinate emozioni o quando prendiamo decisioni, incluso il donare. Per chi è interessato ad approfondire l’argomento, rimando al mio libro Emotionraising. Neuroscienze applicate al fundraising (Maggioli Editori, 2013). Come detto, le donazioni sono attivate da un articolato meccanismo neurobiologico, in cui vengono coinvolte alcune aree del cervello che rilasciano neurotrasmettitori ed ormoni. In più, il processo psicologico ci “forza” ad agire e, una volta effettuata la donazione, ci sentiamo meglio, grazie al rilascio della dopamina, neurotrasmettitore che controlla i meccanismi del piacere, della ricompensa, dell’attenzione. Ci sono alcune teorie ed esperimenti sul cosiddetto “warm glow”, ossia sull’idea che donare migliori la nostra autostima e quella degli altri, come mettersi un paio di guanti quando fa freddo. Tuttavia, il vero driver sono, appunto, le emozioni e i valori: essi sono evolutivamente e culturalmente parte del nostro modo di essere (e del nostro cervello). Cosa succede dopo il dono e come noi ci giustifichiamo per averlo fatto, così come a seguito di un acquisto, interessa, invece, la parte razionale del nostro cervello – inclusa l’autostima – ma non rappresentano il motivo o la forza che ci fa agire.

I: Ci sono parole, immagini, colori, suoni che, secondo la Sua esperienza, funzionano meglio in una campagna sociale?

F. A.: La maggior parte del nostro cervello processa immagini, perciò, senz’altro, foto e video risultano molto più efficaci rispetto alle sole parole. Tuttavia – questo è un elemento importante – immagini, suoni e colori hanno un’efficacia solo e soltanto all’interno di una storia che raccontiamo, o di un caso che presentiamo. Sono le storie, attraverso le immagini, i suoni e i colori che catturano l’attenzione e, quando presentano un bisogno chiaro a cui rispondere e una call to action semplice ed evidente, motivano la gente ad agire.

I: La strategia comunicativa per una raccolta fondi cambia in base al destinatario? E’ più difficile emozionare un anglosassone rispetto ad un italiano? Ha riscontrato delle differenze tra uomini e donne?

F. A.: Secondo me, non è una questione di cultura. Ho lavorato e raccolto fondi in tante parti del mondo e, fondamentalmente, non cambia essere anglosassone o tailandese. Quello che cambia, però, è l’audience a cui ci rivolgiamo. Troppo spesso le organizzazioni pensano che un messaggio vada bene per chiunque. Non è così. Le emozioni ed il messaggio funzionano per audience specifiche, sia dal punto di vista della composizione socio-demografica, sia dal punto di vista dei valori. Sulla differenza tra uomini e donne è difficile generalizzare, ma in linea di principio i dati dimostrano che le donne siano più generose, più attive e più sensibili nel supportare una causa o un’organizzazione.

I: Ci sono emozioni o messaggi sui quali non dobbiamo fare leva quando si tratta di fundraising?

F. A.: Difficile anche qui generalizzare. Dipende, come detto, dall’audiuence, dalla causa e dalla campagna. I dati dimostrano, però, che le emozioni negative, come paura, rabbia, tristezza siano, per ragioni evolutive, molto più potenti nel catturare l’attenzione e nello stimolare comportamenti corretti. Naturalmente, non sono sufficienti se non vengono accostate in modo esplicito ad un obiettivo: la donazione che cosa contribuirà a risolvere? Ciò genera un’emozione positiva nel donatore.

I: I giovani sono più sensibili rispetto agli adulti su determinate tematiche? Pensiamo al fenomeno Greta Thunberg, che è stata in grado di mobilitare studenti di tutto il mondo. Qual è il segreto? Forse, ancora una volta, l’emozione?

F. A.: Non credo sia corretto utilizzare categorie come giovani (fino a che età?) o millennials (tutti coloro sotto i quarant’anni). C’è una grande differenza tra un quindicenne, un ventenne o un trentenne. E’ vero, però, che le nuove generazioni siano culturalmente molto più coinvolte da tematiche globali come il problema del cambiamento climatico. Detto ciò, i ragazzi sono anche più esigenti: vogliono capire quale possa essere, in concreto, il loro impatto, non si fidano delle organizzazioni e non hanno la disponibilità economica delle generazioni precedenti. Non credo ci sia un modello, ma la semplice richiesta di donazione non funziona con target più giovani.

I: Come è cambiato nell’ultimo decennio il Suo lavoro? E’ mutato il modo di fare comunicazione nel sociale?

F. A.: E’ cambiato tutto direi. Prima il fundraising era un lavoro a 360 gradi, che spaziava dalle sponsorizzazioni aziendali alle cartoline. Oggi è diventato super specializzato (se sei un digital fundraising non sei un major donor specialist) e più strategico.
La chiave non è più semplicemente la beneficienza, ma come fare innamorare dell’organizzazione e della missione i tuoi sostenitori. Un po’ come fanno le grandi marche e aziende che non vendono più soltanto un prodotto. Attualmente lavoro in UNICEF internazionale, dove mi occupo di supporter engagement. In precedenza, presso l’UNCDF (United Nations Capital Development Fund), ho creato e lanciato il primo prodotto di investimento (SDGA) nella Borsa di New York (NYSE, New York Stock Exchange), allineato con gli obiettivi del Millennio, “Sustainable development Goals”. In sostanza, un paniere di azioni di imprese che rispettano criteri di sostenibilità nei Paesi più poveri.

 

Di cosa parliamo quando parliamo di mindfulness

Ogni nuova tecnica, compresa la mindfulness, attraversa una serie di fasi: dopo la fase iniziale di innesco della novità segue la fase delle aspettative gonfiate, cui succede la disillusione. Dopodiché può avere inizio un approccio più costruttivo alla tecnica che fa approdare alla successiva fase di applicabilità e produttività del nuovo strumento.

 

Commento all’articolo Dove sono le prove dell’efficacia della Mindfulness? che riprende Mind The Hype: A Critical Evaluation and Prescriptive Agenda for Research on Mindfulness and Meditation (Van Dam N. T. et al. 2017), pubblicato su Perspectives on Psychological Science nell’ottobre 2017. Lo studio è citato su Le Scienze (edizione italiana di Scientific American), più conosciuta come Mente & Cervello.

Interessante notare come la stessa rivista nel gennaio 2013 pubblichi l’articolo I sentieri della meditazione: effetti benefici di una pratica millenaria sull’equilibrio del cervello e la salute del corpo.

Un team composto da 15 psicologi e ricercatori facenti capo dall’australiano Nicholas Van Dam afferma che i potenziali vantaggi della mindfulness sono messi in ombra dalle affermazioni iperboliche e dalle speculazioni economiche. Meditazione e allenamenti di mindfulness sono un’industria da 1,1 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.

La dott.ssa Ruth Baer, professoressa di psicologia presso la Kentucky University ed associata all’Oxford Mindfulness Centre dell’Università di Oxford, che ho avuto il piacere di conoscere in occasione del Master in Clinical Mindfulness, spiega questo fenomeno con la teoria sul ciclo dell’iperbole (Hype Cycle): ogni nuova tecnica attraversa una serie di fasi che si intersecano a livello di due variabili, visibilità e maturità.

Dopo la fase iniziale del technology trigger (innesco per così dire della novità), la fase delle aspettative gonfiate (all’apice sull’asse della visibilità) fa assurgere la tecnica in questione allo status di rimedio universale.

Fatalmente, ad eccessive aspettative succede la disillusione, dopodiché può avere inizio un approccio più costruttivo alla tecnica (slope of enlightenment) che fa approdare, con il raggiungimento della maturità, alla successiva fase di applicabilità e produttività del nuovo strumento.

La Mindfulness non fa eccezione.

Il trigger sono le ricerche di Jon Kabat Zinn, che negli anni settanta dimostra l’efficacia delle tecniche di meditazione di tradizione buddhista nel trattamento dello stress e del dolore cronico presso l’Università del Massuchusetts, e la Dialectical Behavior  Therapy di Marsha Linehan, che dagli anni ’80 dimostra come mindfulness ed accettazione in sinergia con le strategie volte al cambiamento siano efficaci nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità.

Il crescente interesse sui risultati raggiunge il culmine: la copertina del Time del febbraio 2014 titola Mindfulness Revolution e si iniziano ad intuire i potenziali interessi enormi legati allo sfruttamento della popolarità delle tecniche di consapevolezza, la cui diffusione capillare coincide anche con la sua fase di massima indefinitezza.

E’ necessario attraversare una fase di disillusion per poter prendere contatto con quella che veramente è la potenzialità della mindfulness, attraverso una ricerca rigorosa e quantificabile dei risultati.

Le pubblicazioni scientifiche, una sessantina fino al  2000, nel solo anno 2016 sono 677.

E ci ricolleghiamo al tema dell’articolo, cioè l’indefinitezza delle ricerche.

E’ soprattutto la mancanza di una definizione comune di cosa esattamente si vada a misurare con la mindfulness a creare scetticismo nel gruppo di ricercatori di cui sopra (non sappiamo se questi ricercatori siano a loro volta meditatori esperti, presumo di no). Come hanno scritto Van Dam e colleghi: Non esiste una definizione tecnica universalmente accettata di mindfulness né un ampio accordo sugli aspetti più dettagliati del concetto a cui si riferisce.

Questa affermazione si spiega in parte col fatto che l’esperienza nella tradizione buddhista non è esattamente traducibile per il praticante occidentale.

Inoltre, vi sono diversi tipi di meditazione, ciascuno con proprie caratteristiche.

Le ricerche che andrò a citare riguardano la meditazione di consapevolezza o mindfulness, derivata dalla meditazione Vipassana, alla base delle applicazioni terapeutiche della meditazione a partire dagli anni ’70.

Le due abilità fondamentali che andiamo ad allenare con la mindfulness sono l’attenzione e la consapevolezza, in una maniera peculiare: con volontà, accettazione, gentilezza, non giudizio.

Tutte le definizioni di mindfulness fornite dai principali ricercatori sono sostanzialmente analoghe e riprendono le qualità originariamente contenute nel termine ‘sati’ (lingua indiana Pali utilizzata nella forma liturgica del buddhismo) che connota consapevolezza, attenzione e ricordo.

Westen: la Consapevolezza è il radar della coscienza. Essa monitora continuamente l’ambiente interno ed esterno dell’individuo, il quale può essere consapevole degli stimoli senza che essi siano al centro dell’attenzione. L’attenzione è un processo di focalizzazione della consapevolezza, nella quale viene fornita un’accresciuta sensibilità ad un range limitato di esperienze.

Kabat- Zinn: prestare attenzione, nel momento presente, in modo non giudicante.

Marlett e Kristeller: portare attenzione completa all’esperienza del momento presente con accettazione e gentilezza.

Bishop: autoregolazione dell’attenzione sull’esperienza immediata, con curiosità, apertura e accettazione.

Germer: consapevolezza dell’esperienza presente con accettazione, amichevolezza, non giudizio.

Linehan: focalizzare la mente nel momento presente senza giudizio e attaccamento (o avversione), con apertura e curiosità nei confronti della fluidità del momento.

Per riassumere cito Didonna (2010) che definisce la mindfulness uno stato di coscienza caratterizzato da attenzione consapevole, libera da valutazioni e focalizzata nel presente, verso l’esperienza interna ed esterna e priva di reazioni verso di essa, definizione che chiarisce come sia possibile osservare anche il contenuto della mente: nella psicologia buddhista, la mente è uno degli organi di senso.

Pertanto, il ricercatore (serio) occidentale conosce esattamente il COSA sta misurando, e cioè la capacità di osservare, prestare attenzione, essere consapevoli, e il COME: in modo non giudicante, con apertura, curiosità, accettazione.

Due parole per spiegare cosa si intende per non giudicante: è un approccio alla percezione esperienziale, non concettuale, evitando di mediare l’esperienza la percepiamo nella sua natura essenziale anziché secondo il giudizio che le attribuiamo. Per semplificare, per giudizio possiamo intendere le tre principali modalità di approccio all’esperienza elencate dalla psicologia buddista: l’attaccamento, l’evitamento, l’avversione.

Durante la meditazione, il facilitatore invita spesso i presenti ad osservare le eventuali distrazioni (pensieri, sensazioni corporee, emozioni) prendendo semplicemente atto della loro comparsa e lasciandole andare senza giudicarle e senza giudicare sé stessi per la distrazione, semplicemente tornando a focalizzare l’attenzione sul respiro (utilizzato come ancora al qui e ora, come semplice oggetto di concentrazione).

Nel prosequio del percorso, oltre alla focalizzazione dell’attenzione (meditazione concentrativa) si acquisisce la capacità di ampliare la propria consapevolezza degli stimoli esistenti, e di ridurre la propria reattività alle manifestazioni interne.

L’accettazione è la capacità di stare in contatto con l’esperienza disagevole, creando con essa il rapporto più utile per noi, evitando inutili sforzi per cambiare la sua frequenza o forma, soprattutto quando tale esperienza non è modificabile o quando fare questo incrementerebbe il disagio psicologico.

E’ un atteggiamento attivo, mentre la rassegnazione è passiva.

La mindfulness è uno strumento attentivo, non spirituale, anche per i buddhisti.

E’ vedere le cose nel modo in cui esse sono. La psicologia buddhista è affascinante e complicata, per cui non cercherò di approfondire perché non utile in questa sede.

Mi limito a ciò che interessa al ricercatore occidentale (il meditatore buddhista dice state cercando di dimostrare quello che noi sappiamo da 2.500 anni).

Ciò che il ricercatore è interessato a misurare è se le persone più mindful nel senso indicato dalle definizioni di cui sopra godono di maggiore salute.

Se sì, gli interessa scoprire se la capacità di mindfulness aumenta con l’allenamento, e in quale modo funziona tale allenamento.

Prima di parlare dei benefici della mindfulness, vorrei mettere in luce una importante condizione di base, e cioè che  l’osservazione del momento presente è utile solo se non giudicante: se la consapevolezza dei propri contenuti mentali è giudicante e reattiva si rischia di amplificare eventuali vissuti depressivi.

E’ pertanto molto importante la cura del training: durante le otto settimane standard di trattamento dei vari protocolli (MBSR e MBCT i più conosciuti) viene posta molta attenzione alla corretta esecuzione degli esercizi (per semplificare) e soprattutto alla condivisione in gruppo dei vissuti legati all’esperienza personale.

Non ci sono evidenze di effetti avversi peculiari agli interventi mindfulness based rispetto ad altri tipi di intervento, sebbene  vi siano dei parametri da rispettare nella scelta dei soggetti (stiamo parlando della popolazione clinica) da inserire nei protocolli.

La misurazione delle capacità viene effettuata soprattutto attraverso questionari di autovalutazione, integrati con un test comportamentale che corregga la tendenza a dare risposte non corrispondenti alla reale percezione.

I principali questionari di autovalutazione sono:

  • Mindful Attention Awareness Scale (MAAS)
  • Kentucky Inventory of Mindfulness Skills (KIMS)
  • Freiburg Mindfulness Inventory (FMI)
  • Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ), soprattutto nella sua versione abbreviata, che misura le sottoscale osservazione, descrizione, consapevolezza nell’agire, non-giudizio, non-reattività con 15 item invece dei 39 della versione estesa.

Molti degli studi su mindfulness e meditazione, contestano Van Dam e colleghi, sono mal progettati, indeboliti da definizioni incoerenti della mindfulness e spesso privi di un gruppo di controllo per escludere l’effetto placebo.

Una recente meta analisi (Khoury et al. 2013) valuta l’efficacia di 209 studi, per un totale di circa 12.000 partecipanti trattati con MBSR (riduzione dello stress basata sulla mindfulness), MBCT (trattamento delle ricadute depressive), MBRP (trattamento delle dipendenze basato sulla mindfulness), MBCP (trattamento mindfulness genitori e bambini).

Svariate le patologie oggetto delle ricerche: disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze, psicosi, disturbi dell’attenzione, della personalità e altri; dolore fisico, cancro, obesità, artrite ecc.

Sono stati usati quattro gruppi di controllo: nessun trattamento, trattamento con terapie supportive o tecniche di rilassamento, trattamento con terapia cognitiva, trattamento farmacologico.

Le ricerche sono significative rispetto al gruppo di controllo che non è stato trattato, soprattutto per quanto concerne l’ansia e la depressione, modesta efficacia sul dolore; si rileva una modesta efficacia anche rispetto agli altri gruppi di controllo.

La meta-analisi quantifica le effect-size in small (risultati dell’ordine dello .20), medium (.50), large (.80).

Gli effetti positivi sono presenti al follow-up per diversi mesi.

Una seconda recente meta analisi (Goldberg et al., 2018), simile alla prima per quanto concerne la durata del trattamento (8 settimane) e la numerosità del campione, ma effettuata solo su depressione, ansia e dipendenze (non generico stress), presenta una comparazione con cinque gruppi di controllo: non trattati, trattamento breve, placebo, trattamento non specifico, trattamento evidence-based.

I trattamenti basati sulla mindfulness dimostrano un effetto large rispetto ai trattamenti ‘informali’ (soprattutto per quanto concerne i disturbi d’ansia), e un effetto small rispetto agli altri trattamenti evidence-based.

Si può quindi concordare con Van Dam e colleghi sui piccoli numeri, tuttavia l’interpretazione di tali risultati stabilisce che un trattamento basato sulla mindfulness ha (almeno) la stessa efficacia degli altri interventi, compreso il trattamento farmacologico. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

Nello specifico, il protocollo MBSR si mostra efficace per la riduzione dello stress in popolazione non clinica (professionisti della salute mentale, studenti) e nella riduzione di stress e sintomi psicologici in pazienti affetti da malattie invalidanti tra cui cancro e dolore cronico.

Il protocollo MBCT ha effetti importanti sulla prevenzione delle ricadute depressive (pazienti che hanno avuto 3 o più episodi) , mostrando efficacia pari all’assunzione di farmaci antidepressivi. Ci sono ricerche anche in merito al limite di tale trattamento, cioè la sua applicabilità ai pazienti in fase di remissione: si sta testando la sua efficacia anche su persone nella fase attiva della patologia.

Una citazione a parte per quanto concerne gli studi basati su DBT (Dialectical Behavior Therapy) o ACT (Acceptance and committment therapy), non inclusi nelle meta-analisi citate.

Il protocollo DBT ha mostrato risultati importanti nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, e promettenti appaiono le ricerche per quanto concerne i disturbi dell’alimentazione e da abuso di sostanze.

Il protocollo ACT mostra evidenze consistenti su un’ampia gamma di disturbi, in particolare sulle dipendenze.

Infine, una meta analisi del 2015 (Gu, Strauss, Bond & Cavanagh, 2015) compara le ricerche sui meccanismi che permettono di migliorare benessere e salute mentale attraverso la partecipazione ad un protocollo basato sulla mindfulness.

I risultati di tali ricerche evidenziano un aumento della salute psicologica e fisica attraverso l’incremento di capacità che riguardano l’aumento della consapevolezza, la riduzione della reattività cognitiva che si traduce in minore ruminazione depressiva, la minore reattività emozionale o capacità di recupero più veloce dopo uno stress, l’aumento della capacità di autocompassione, il mantenimento della propria capacità valutativa anche in situazione di stress.

Nel considerare i risultati finora esaminati, di per sé incoraggianti, si tenga presente che si riferiscono ad osservazioni della durata di otto settimane (salvo eccezioni).

L’efficacia della mindfulness è direttamente proporzionale alla pratica quotidiana a casa, e questa è difficilmente misurabile.

Sarebbe interessante poter avere un ipotetico database in cui le migliaia di persone che praticano regolarmente da anni la meditazione riportassero i loro risultati anche solo soggettivi.

Recentemente le tecniche di neuroimaging hanno iniziato ad avvalorare la tesi secondo cui il cervello dei meditatori esperti presenterebbe modifiche strutturali legate alla maggiore o minore attivazione di aree specifiche.

Obiettivo della ricerca neuroscientifica è comprendere i sistemi neuronali utilizzati per raggiungere gli stati meditativi e determinare gli effetti di una pratica regolare di mindfulness sull’attività e sulla struttura del cervello.

La meditazione è associata sia agli effetti di stato che di tratto, vale a dire che le modifiche non sono limitate allo stato meditativo, ma si stabilizzano con la pratica prolungata nel tempo (vale a dire otto settimane come minimo):

si ritiene che gli effetti di tratto siano la conseguenza di trasformazioni stabili e durature nell’attività e nella struttura del cervello. La comprensione degli effetti di stato chiarirà il motivo per cui la mindfulness possa essere utile in terapia per affrontare ricordi dolorosi o reazioni emotive improvvise, mentre la comprensione degli effetti a lungo termine aiuterà a comprendere il motivo per cui la mindfulness si rivela utile nel trattamento di condizioni croniche quali la depressione e l’ansia generalizzata (Treadway-Lazar, 2008).

La complessità stessa della meditazione rappresenta una sfida, perché afferisce a circuiti neuronali differenti che si alternano in un tempo molto limitato: si passa in pochi istanti dall’essere concentrati sul proprio respiro alla distrazione per un pensiero, allo sforzo per riportare l’attenzione dove era, al perdersi in un’immagine legata all’infanzia…

Vi sono pertanto risultati contraddittori nelle ricerche che a partire dagli anni ’60 utilizzano l’EEG per esaminare le modificazioni nell’attività cerebrale durante la meditazione: le differenze sono ascrivibili in buona parte al fatto che pratiche meditative diverse possono produrre pattern di attività cerebrale peculiare a seconda che siano incentrate sul rilassamento (aumento di attività theta e delta) oppure sulla concentrazione intensiva (alfa e beta).

Lo stesso accade per quanto riguarda gli studi di neuroimaging, anche se vi sono alcuni riscontri coerenti a tutti gli studi: durante la meditazione vi è attivazione della corteccia prefrontale dorso-laterale (associata all’attenzione e alla presa di decisioni esecutiva) con cambiamenti di tratto di maggiore ispessimento corticale (particolarmente visibile nei meditatori esperti); una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore (integrazione di attenzione, motivazione, controllo motorio); attivazione dell’insula (enterocezione) con implicazioni interessanti sul ruolo che anomalie nella funzionalità insulare risultano avere in numerosi disturbi psichiatrici.

L’utilizzo di ricerche longitudinali potrà aggiungere informazioni interessanti sulle applicazioni cliniche della mindfulness, che viene già utilizzata nel trattamento di diverse patologie tra le quali anche quelle di area psichiatrica.

Ora, non so cosa ne pensiate, ma credo che la moltitudine di persone che pratica la meditazione (che, ricordiamo, esiste da oltre 2.500 anni anche se ancora non veniva chiamata mindfulness e non era soggetta a tentativi di standardizzazione) non sia particolarmente interessata a valutarne la portata scientifica: godono dei benefici, quali che essi siano, in termini di qualità della vita, e questo pare sufficiente.

Vorrei terminare con una citazione del Dalai Lama che, con la consueta ironia, concede agli scienziati occidentali (con cui ha un dialogo aperto) la facoltà di dimostrare scientificamente l’inefficacia della psicologia buddhista, nel tal caso smetteremo di insegnarla.

Quindi, che ne dite di spegnere il pc, e provare a sperimentare di persona?

Se volete ci sono le mie tracce audio sull’album Sediamo Assieme alla pagina facebook dedicata.

 

“We will build a Wall”: la leadership negativa

Nella sua definizione accademica e manageriale, la leadership è legata ad atteggiamenti comunicativi di apertura. Tuttavia, fra gli abbattimenti dei confini degli Stati, percepiti come conseguenza della globalizzazione, e l’ampliarsi della figura della Piazza sui social media, è riemersa una tipologia di leadership legata al rifiuto dell’empatia e della diplomazia. Questa leadership sta ottenendo consensi, avendo come esempi l’ascesa politica di Donald Trump e di Matteo Salvini. Ne segue una breve contestualizzazione del fenomeno.

 

La leadership è una delle tematiche più analizzate nella storia recente della psicologia e delle scienze umane, essendo questa una capacità ritenuta fondamentale per la società lavorativa (Pearce, Manz 2005), per il mondo accademico e scolastico (Bryman, 2007; Bogler, 2001) ed infine per la vita quotidiana (George, Sims, Mclean e Mayer,2007). Per sua definizione, la leadership è legata a atteggiamenti considerati positivi dal punto di vista interpersonale, come l’intelligenza emotiva (Goleman, 2000), l’importanza data ad una immagine sana e positiva, il creare un senso di comunità, il creare un ambiente aperto alla creatività e il creare un senso di identità propria e gruppale (Pearce, 2007). Tuttavia, con l’abbattimento delle barriere fisico-culturali percepite come conseguenza della globalizzazione e le innovazioni della comunicazione via social media, si è diffusa una nuova visione di leadership attuale, ovvero quella della “leadership negativa”.

Per leadership negativa si intende lo stile di leadership basata sulla negazione, sul rifiuto, sulla difesa delle proprie posizioni a priori e sulla critica (Chou, 2019). Sebbene questi elementi interpersonali siano considerati come atti che possono influenzare negativamente l’atto comunicazionale, attualmente il loro utilizzo come strumenti di leadership è recepito positivamente dal pubblico generale (Chou, 2019), poiché la negazione e la critica a priori crea un senso di sicurezza e un ritorno radicale al senso di identità, elementi che le comunità, soprattutto occidentali, sentono esser state minacciate gravemente (Galimberti, 2018): oltretutto, l’atteggiamento negativo rafforza il senso del “Noi vs Voi” gruppale identificato da Bion (1952), delineando così dei confini all’interno dei quali ci si possa sentire protetti.

Questa tipologia di leadership sta ricevendo consensi soprattutto nei paesi aventi una cultura di stampo patriarcale, poiché la leadership negativa impone una figura dominante basata sull’uso dell’aggressività, dell’attacco diretto, del rifiuto alla diplomazia e alla difesa ad oltranza del tradizionalismo: l’esempio più evidente è l’ascesa politica a pieno consenso generale di Trump (Riggio, 2018) negli Stati Uniti e di Salvini in Italia (Antonelli, 2019).

Un chiaro esempio di come questa leadership sia tornata popolare è la contestualizzazione del “cattivismo” (Fontana, 2018), ovvero l’utilizzo di elementi comunicativi volti principalmente a compiere azioni di denigrazione e offesa nei confronti di un certo target, violando le regole implicite culturali vigenti. Come detto prima nell’articolo, l’attuazione di questo tipo di leadership sta ricevendo dei responsi positivi, poiché essa è la tipologia di leadership legata alla visione politica del populismo (Polito, 2018), ovvero la visione più influente nel panorama politico-culturale attuale (Lewis, 2019).

Attualmente la leadership negativa è soggetto di interesse accademico e manageriale (Davenport, 2007), soprattutto per il ruolo che essa ha nel far percepire il mondo dai frequentatori della rete e dei social media (Robecchi, 2015). Principalmente, questo fenomeno è in fase di contestualizzazione  per prevenire le conseguenze negative che sono emerse (Pennstate, 2018), come lo sciacallaggio in rete nei confronti delle minoranze (Davidson, Warmsley, Macy e Weber, 2012) .

 

Il dolore nella Sclerosi Multipla: eterogeneità clinica e nuove prospettive di trattamento con tecniche di neurostimolazione non invasiva

La sclerosi multipla (SM) è una malattia neurologica ad esordio prevalente in età giovane-adulta (20-40 anni), che coinvolge il sistema nervoso centrale (SNC) mediante un meccanismo autoimmune che ha come bersaglio la mielina. Il dolore rappresenta un sintomo frequente ed eterogeneo in tale patologia, ma spesso trascurato e non adeguatamente trattato; risulta, inoltre, particolarmente invalidante, influendo negativamente sulla qualità della vita e sul tono dell’umore.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

La prevalenza complessiva della sintomatologia dolorosa nei pazienti con sclerosi multipla è variabile ed è stata riportata, in differenti studi, dal 33,8% al 86%. Tale sintomo risulta più frequentemente associato all’età avanzata, ad una lunga durata e/o una maggiore gravità della malattia. In tale patologia, il dolore presenta una marcata eterogeneità clinica e viene classicamente distinto in tre grandi categorie: dolore neuropatico, dolore nocicettivo e misto.

Il dolore neuropatico centrale, correlato a lesioni che colpiscono la mielina (lesioni demielinizzanti) in aree del sistema nervoso centrale implicate nella percezione ed elaborazione di stimoli sensitivi tattili e/o dolorosi, è la forma più caratteristicamente associata a tale patologia e, a sua volta, si suddivide in tre forme principali: l’ongoing neuropathic pain, la nevralgia del trigemino e il segno di Lhermitte.

L’ongoing neuropathic pain, detto anche ongoing extremity pain, è un dolore subcontinuo più frequentemente localizzato a carico degli arti inferiori, descritto spesso come bruciore, come fastidioso formicolio o come un insieme di “punture di spillo”. La prevalenza varia dal 12 al 28% ed è correlato a lesioni lungo le vie spino-talamo-corticali, che veicolano le informazioni relative a stimoli dolorosi, con conseguente alterazione nei meccanismi di regolazione della percezione del dolore (nocicezione).

La nevralgia trigeminale ha una prevalenza del 2-5% nei pazienti con SM e si caratterizza per attacchi di dolore intenso (paragonato ad una “scossa” elettrica), ma di breve durata (secondi), a carico del volto, nei territori di pertinenza della I, II o III branca del n. trigemino. La patogenesi di tali attacchi,  spontanei o evocati da minime stimolazioni tattili del viso o del cavo orale, sono frequentemente riferibili a lesioni demielinizzanti a livello dei nuclei del n. trigemino del tronco encefalico.

Il segno di Lhermitte, presente nel 12% dei pazienti con SM, è una sensazione transitoria e di breve durata descritta come “scossa elettrica” o “fastidio” che si irradia tipicamente lungo il collo e la schiena, ma che talora può interessare anche gli arti;  è  spesso evocato da movimenti specifici, come la flesso-estensione o latero-flessione del collo. Tale fenomeno si correla con lesioni demielinizzanti del midollo spinale, spesso con coinvolgimento di sedi specifiche, come le colonne dorsali.

A cavallo tra il dolore di tipo neuropatico e nocicettivo, vi è il dolore definito “misto”: in tale categoria rientrano gli spasmi tonici dolorosi e il dolore correlato a spasticità.

I primi, che arrivano a interessare l’11% dei pazienti, sono abbastanza specifici nella SM; consistono in spasmi muscolari dolorosi mono o bilaterali, di durata inferiore ai 2 minuti, che si presentano con frequenza pluriquotidiana, più frequentemente agli arti.

Il dolore correlato a spasticità è molto diffuso e può interessare sino al 50% dei soggetti. Al contrario degli spasmi tonici dolorosi, di breve durata, esso è meno intenso ma subcontinuo. Entrambi i tipi di dolore sono imputabili ad una compromissione delle vie corticospinali da lesioni cerebrali (capsula interna, dei peduncoli cerebrali) o del midollo spinale, con conseguente ipereccitabilità motoria e aumento del tono muscolare.

Il dolore nocicettivo non è specifico della patologia e spesso si associa a problematiche legate alla gravità di malattia e alla disabilità, che comportano una ridotta mobilità e il mantenimento di posture viziate per periodi prolungati. In tale categoria rientrano infatti i dolori muscolo-scheletrici indotti da anomalie posturali e il mal di schiena (“Back pain”). Rientrano in tale classificazione anche il dolore associato a neurite ottica (8%), caratterizzato da una sensazione di fastidio o “peso” in sede retrorbitaria secondario all’infiammazione del nervo ottico, e i dolori secondari ai trattamenti farmacologici specifici per tale patologia.

Inoltre, nei soggetti affetti da SM, è stato dimostrato che le cefalee primarie, in particolare l’emicrania, si manifestano con una prevalenza maggiore rispetto a quella della popolazione generale, arrivando a colpire il 30-40% dei soggetti (Truini A. et al. 2013; Solaro C. et al. 2018).

A fronte di tale eterogeneità di dolore, che nel singolo paziente può manifestarsi anche in più forme tra loro associate, la diagnosi riveste un ruolo centrale al fine della scelta del trattamento ottimale. Negli ultimi anni, la ricerca clinica ha messo a punto diversi strumenti di screening per distinguere il dolore neuropatico, nocicettivo e misto. Il Douleur Neuropathique Questionnaire 4 (DN4) utilizza sia domande rivolte al paziente che valutazioni fisiche del dolore e dei disturbi sensitivi, raggiungendo una maggiore sensibilità e specificità rispetto allo screening che si basa solo sull’intervista al paziente. Il Neuropathic Pain Symptom Inventory (NPSI) risulta particolarmente utile per differenziare le caratteristiche del dolore neuropatico e comprende 12 item, di cui 10 item dedicati a indagare la qualità della sintomatologia dolorosa e 2 item volti a studiarne la durata (Solaro C. et al. 2018).

Nella Sclerosi Multipla, il trattamento del dolore, e in particolar modo del dolore neuropatico, rappresenta una sfida terapeutica, in quanto le terapie farmacologiche attualmente proposte sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi non sufficienti per ottenere una remissione completa della sintomatologia. Come evidenziato dalla Consensus Conference Italiana sul dolore neuropatico, il trattamento farmacologico si avvale di principi attivi appartenenti a svariate classi farmacologiche, tra cui gli antiepilettici (gabapentin, pregabalin, levetiracetam, lamotrigina, carbamazepina), gli antidepressivi (duloxetina), i cannabinoidi, gli oppioidi; nelle forme miste associate a spasticità o spasmi tonici dolorosi, hanno indicazione i cannabinoidi e i miorilassanti (baclofen, dantrolene, diazepam, tizanidina) (Paolucci S. et al. 2016).

Dati incoraggianti in merito a nuove opzioni terapeutiche emergono da studi su metodiche di neurostimolazione non invasiva, come la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e la Stimolazione a Corrente Continua Transcranica (t-DCS) e Spinale (s-DCS). Sfruttando rispettivamente i campi magnetici (TMS) ed elettrici (DCS), tali metodiche permettono di modulare l’eccitabilità del sistema nervoso centrale in modo sicuro, non invasivo e ben tollerato. Nella TMS, uno stimolatore (coil) viene appoggiato al cuoio capelluto del soggetto e genera un campo elettrico che, convertito in campo magnetico, è in grado di stimolare o inibire l’attività delle aree corticali sottostanti a seconda della frequenza di stimolazione. Una stimolazione a bassa frequenza (minore di 1 Hz) va a ridurre l’eccitabilità corticale, una stimolazione a frequenza maggiore (maggiore o uguale a 5 Hz) è in grado di incrementarla. La TMS, la cui efficacia terapeutica è stata dimostrata per il trattamento di molteplici patologie psichiatriche e neurologiche, come la depressione, l’ictus ischemico, la Malattia di Parkinson, è tuttavia una metodica costosa e necessita di un apparecchio di notevoli dimensioni, che la rende adatta ad applicazioni in ambito ospedaliero.

La DCS è, al contrario, una metodica poco costosa e viene erogata mediante un apparecchio portatile di piccole dimensioni, che consentirebbe un uso anche in ambito ambulatoriale e domiciliare. Applicando un elettrodo sulla cute del capo (per la stimolazione transcranica) o del dorso (per la stimolazione spinale), è possibile erogare una stimolazione elettrica indolore, il cui effetto sul sistema nervoso dipende dalla polarità dell’elettrodo (anodo o catodo) utilizzato. La stimolazione anodica incrementa l’eccitabilità nervosa sottostante (stimolazione eccitatoria), quella catodica la riduce (stimolazione inibitoria). Come per la TMS, è stato documentato che la t-DCS ha un impatto su una gamma di funzioni motorie, somatosensoriali, visive, affettive e cognitive ed ha dimostrato un potenziale terapeutico in molteplici patologie neurologiche e psichiatriche.

Nel trattamento del dolore, evidenze positive sono ormai ampiamente documentate con entrambe le metodiche nell’ambito di patologie come la fibromialgia e le cefalee primarie (emicrania e la cefalea cronica quotidiana). E’ stato inoltre riportato che tali trattamenti, applicati a livello delle aree della corteccia somatosensoriale o motoria, sono in grado di diminuire la sensazione di dolore riferita dal paziente e aumentare la soglia del dolore misurata con valutazioni cliniche e strumentali, sia in soggetti sani che in soggetti affetti da sintomatologia dolorosa. Si ipotizza che tale effetto sia imputabile ad una modulazione della nocicezione mediante il coinvolgimento di interi circuiti che presiedono al controllo del dolore e che comprendono aree cerebrali, come il talamo, situate in sede ben più profonda rispetto al sito di stimolazione.

Per quanto concerne specificatamente il dolore neuropatico, diverse evidenze hanno dimostrato l’efficacia, anche se transitoria, della TMS e della t-DCS applicate a livello della corteccia motoria primaria. A seguito di tali studi, l’impiego della t-DCS è stato raccomandato (evidenza di livello C) nel dolore neuropatico cronico degli arti inferiori secondario a lesioni del midollo spinale (Palm U. et al. 2014).

Evidenze sulla possibile efficacia di tali opzioni terapeutiche sono emerse anche per il dolore Sclerosi Multipla, e in particolare per il dolore neuropatico.

Studi caso-controllo hanno riportato che il trattamento con t-DCS anodica, applicata in corrispondenza dell’area motoria primaria controlaterale al lato affetto dalla sintomatologia dolorosa, mediante sedute della durata di 20 minuti ripetute per 5 giorni consecutivi, ha comportato un miglioramento significativo dei punteggi alle scale di valutazione del dolore neuropatico, con un beneficio clinico persistente ad un mese dal termine del trattamento. E’ descritto inoltre che l’applicazione sulla corteccia somatosensoriale primaria dei pazienti con SM  è in grado di migliorare i disturbi di tipo sensitivo a livello controlaterale (Mori F. et al. 2010).

Interessanti evidenze sul trattamento del dolore neuropatico in SM sono emerse dall’utilizzo della DCS spinale, in cui la stimolazione anodica viene effettuata applicando l’elettrodo sulla cute del dorso a livello della decima vertebra toracica. Pregresse evidenze scientifiche avevano dimostrato che la stimolazione a tale livello era in grado di inibire specifiche risposte riflesse al dolore, misurabili con metodiche neurofisiologiche, come il riflesso nocicettivo di flessione e la sommazione temporale, sia in soggetti sani che in pazienti affetti da sintomatologia dolorosa, come le cefalee (Perrotta A. et al. 2016; Cogiamanian F. et al. 2011).

Un recente studio ha evidenziato come sessioni di s-DCS della durata di 20 minuti, ripetute per 10 giorni, abbiano comportato un significativo e prolungato beneficio sul dolore neuropatico in pazienti affetti da SM. Si ipotizza che l’effetto della DCS spinale si estrinsechi mediante la modulazione  di specifici neuroni sensoriali spinali, detti wide dynamic range (WDR). Tali neuroni sono in grado di variare plasticamente la loro eccitabilità in modo graduale, in funzione della frequenza e dell’intensità della stimolazione, in un fenomeno noto come wind-up; questa proprietà consente il passaggio dall’elaborazione sensitiva da tattile a dolorosa ed è considerata fondamentale per l’analisi discriminativa della sensazione di dolore e nella genesi e mantenimento del dolore cronico. Inoltre, l’eccitabilità dei neuroni WDR è strettamente associata all’attività dei recettori NMDA, che sono parimenti considerati coinvolti nella patogenesi del dolore neuropatico nella SM (Berra E. et al. 2019).

In conclusione, benchè gli studi sulle tecniche non invasive nel trattamento del dolore nella Sclerosi Multipla siano ancora poco numerosi e condotti su campioni di pazienti relativamente ridotti, essi suggeriscono come tali metodiche, non invasive, ben tollerate e, nel caso della DCS, a basso costo e potenzialmente auto-somministrabili, possano avere un ruolo promettente per il trattamento del dolore neuropatico, in particolare come terapia aggiuntiva nei casi di dolore farmaco-resistente o in pazienti che presentano scarsa tolleranza al trattamento farmacologico.

 

Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e disturbo borderline di personalità (BPD) negli adulti: una review sui loro collegamenti e rischi

I sintomi dell’ADHD nell’età adulta differiscono dalla sintomatologia presente nell’infanzia (presenza maggiore di sintomi internalizzanti piuttosto che esternalizzanti), senza però diminuire il loro impatto sul funzionamento quotidiano. Essi si associano ad un elevato numero di comorbilità psichiatriche, tra cui il disturbo borderline di personalità.

 

Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è caratterizzato principalmente da tre gruppi di sintomi: disattenzione, iperattività e impulsività. La frequenza del disturbo è in aumento in bambini e adolescenti; inoltre, la statistica dimostra che almeno il 50% dei bambini con ADHD soddisfa i criteri per questa diagnosi anche nell’età adulta.

I sintomi dell’ADHD nell’età adulta differiscono dalla sintomatologia presente nell’infanzia (si verifica una presenza maggiore di sintomi internalizzanti piuttosto che esternalizzanti), tuttavia interferiscono notevolmente con il funzionamento quotidiano e sono associati ad un elevato numero di comorbilità psichiatriche. Tra queste, il disturbo borderline di personalità (BPD). Le manifestazioni principali di questo disturbo riguardano una pervasiva instabilità nella regolazione degli affetti, controllo degli impulsi, e immagine di sé. La letteratura conferma l’esistenza di un’associazione significativa tra diagnosi di BPD negli adulti e sintomi di ADHD nell’infanzia, suggerendo quindi che l’ADHD potrebbe rappresentare un fattore di rischio evolutivo per il BPD. Alcune tra le principali caratteristiche comuni ad entrambi i disturbi sono l’impulsività, la disregolazione delle emozioni e la compromissione della sfera interpersonale e relazionale; per questo motivo la diagnosi differenziale risulta spesso complicata.

L’attuale studio presenta una revisione dei dati disponibili riguardanti:

  • la prevalenza della co-insorgenza di ADHD e BPD negli adulti,
  • le somiglianze cliniche e le differenze tra i due gruppi,
  • la loro eziologia e i fattori di rischio coinvolti,
  • i percorsi di sviluppo che potenzialmente collegano i due disturbi.

L’obiettivo principale è, quindi, ottenere una miglior comprensione dei collegamenti tra i due disturbi e, di conseguenza, individuare opzioni di trattamento per gli adulti che presentano entrambe le diagnosi, ma anche progettare interventi precoci per prevenire lo sviluppo della BPD nei bambini e negli adolescenti con sintomi di ADHD.

In relazione al primo obiettivo, fornire dati sulla co-insorgenza di ADHD e BPD negli adulti, sono stati effettuati numerosi studi in letteratura che hanno confermato come una percentuale significativa di soggetti mostri un’elevata correlazione tra questi due disturbi. Un problema critico è, però, la sovrapposizione sintomatica riguardo ad alcune dimensioni chiave, che rende complicata la diagnosi differenziale e la comprensione della frequente ricorrenza tra essi. Nello specifico, queste dimensioni su cui gli autori si sono concentrati sono l’impulsività e la disregolazione emotiva, ma anche la bassa autostima e le relazioni interpersonali disturbate.

Per quanto riguarda l’impulsività, è stata identificata come la dimensione che ha la maggior sovrapposizione tra ADHD e BPD e anche come il tratto che mostra una maggior compromissione nei pazienti. Da un punto di vista neuropsicologico, i dati di neuroimaging funzionale mostrano una disfunzione frontale del controllo inibitorio (coerentemente con gli studi comportamentali); nello specifico i pazienti con BPD presentano disfunzioni prefrontali nelle regioni orbitofrontali, dorsomediali e dorsolaterali quando svolgono compiti di controllo degli impulsi, mentre gli adulti con l’ADHD mostrano un’attività disturbata principalmente nelle regioni prefrontali ventrolaterali e mediali. Pertanto, i dati comparativi sull’impulsività indicano due direzioni: in primo luogo, potrebbe esserci un sottogruppo di individui con BPD con alti livelli di impulsività di tratto e questi individui sembrano corrispondere alla tipologia BPD+ADHD; in secondo luogo, a differenza dell’ADHD, l’impulsività della BPD potrebbe essere intrinsecamente correlata alla disregolazione emotiva; ovvero, in condizioni altamente stressanti, gli individui con BPD mostrano comportamenti impulsivi più pronunciati, mentre in ADHD i comportamenti impulsivi sembrano essere meno dipendenti dallo stress.

Per quanto riguarda la disregolazione emotiva, invece, è stato riscontrato da ricerche recenti che i pazienti con BPD sperimentano una durata più lunga di tensione avversa e un ritorno più lento al loro stato affettivo di base. Nell’ADHD, la disregolazione delle emozioni è stata sottovalutata fino a poco tempo fa, sebbene si tratti di un sintomo associato ad un funzionamento interpersonale significativamente compromesso. La ricerca ha dimostrato che la disregolazione emotiva nell’ADHD è simile a quella riscontrata nel BPD, inclusa una maggiore instabilità e intensità delle emozioni e un lento ritorno alla base emotiva; tuttavia, pochi studi hanno confrontato direttamente la disregolazione emotiva in ADHD, BPD e BPD+ADHD. Nel complesso, questi studi sottolineano che la disregolazione delle emozioni è chiaramente sovrarappresentata nell’ADHD rispetto ai controlli sani ed è stato sostenuto che questa potrebbe essere una caratteristica chiave del disturbo. Le basi neuropsicologiche dei deficit di regolazione delle emozioni nell’ADHD e nella BPD sono ancora per lo più sconosciute. Nell’ADHD, ci sono due ipotesi principali: l’ipotesi del discontrollo, secondo cui la disregolazione delle emozioni è guidata dagli stessi processi cognitivi e neurali che guidano l’ADHD nei deficit di controllo esecutivo; e l’ipotesi di affettività, che afferma che la disregolazione emotiva è correlata in modo specifico ai processi neurali di regolazione emotiva, separati da quelli che portano a sintomi di ADHD. Ad oggi, l’evidenza accumulata in letteratura sta sostenendo maggiormente l’ipotesi dell’affettività. Per quanto riguarda la BPD, una revisione critica degli studi di fMRI, ha concluso che la disregolazione emotiva era associata all’aumentata attività dell’amigdala e alla diminuzione dell’attività all’interno delle regioni prefrontali, suggerendo una rete inibitoria fronto-limbica compromessa.

I problemi interpersonali si trovano spesso in entrambi i disturbi e sono correlati alla riduzione della qualità della vita e dell’autostima. Nella BPD, le difficoltà interpersonali sono un sintomo centrale del disturbo, definito da relazioni instabili ed intense con un’alternanza tra idealizzazione e svalutazione, nonché elevata sensibilità interpersonale e sforzi per evitare l’abbandono. Un elevato numero di studi ha dimostrato che le difficoltà interpersonali nella BPD sono correlate sia alla disregolazione delle emozioni che all’impulsività, ma in termini di mentalizzazione, ossia la capacità di comprendere le intenzioni e gli stati mentali propri e altrui. Di conseguenza, dunque, questi risultati hanno suggerito che la disregolazione emotiva, l’impulsività e la mentalizzazione potrebbero compromettere il funzionamento interpersonale nella BPD.

Nell’ADHD, invece, i problemi interpersonali sono stati concettualizzati come consecutivi alla triade dei sintomi fondamentali, ossia disattenzione, impulsività e iperattività. Studi sulla mentalizzazione e l’empatia in soggetti ADHD+BPD, hanno dimostrato punteggi significativamente bassi e una gravità maggiore dei sintomi, ipotizzando, quindi, che la presenza di mentalizzazione, empatia e regolazione emotiva prima dello sviluppo possano impedire la persistenza di ADHD nell’adulto e l’emergenza di comorbilità con i disturbi di personalità.

Tra i fattori di rischio coinvolti e l’eziologia dei disturbi, gli autori hanno enfatizzato il ruolo svolto da un ambiente infantile invalidante, caratterizzato nello specifico da: abuso sessuale, fisico ed emotivo, intolleranza verso l’espressione di esperienze emotive e l’esposizione precoce alle avversità. Inoltre, la maggior parte degli studi supportano l’interazione e la correlazione gene-ambiente nello sviluppo di BPD e ADHD, con tassi di ereditarietà diversi per ciascun disturbo: le stime di ereditarietà nell’ADHD sono comprese tra il 70 e l’80% (i fattori genetici, quindi, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia dell’ADHD); mentre la letteratura della BPD rimane relativamente sottosviluppata in questo campo (indicativamente le stime di ereditarietà si aggirano introno al 30-40%).

Tra le teorie della patogenesi del BPD più riconosciute in letteratura vi è quella proposta da Linehan, secondo cui la BPD deriva dalle interazioni tra fattori biologici e psicosociali, in particolare fra temperamento ed esperienze avverse e traumatiche durante l’infanzia. L’età di insorgenza della BPD è un argomento controverso, ma la maggior parte della ricerca ora ritiene che la diagnosi di BPD possa essere stabilita nell’adolescenza, e sintomi dall’età di 12 anni predicono il funzionamento psicosociale durante la transizione all’età adulta. Dal punto di vista della durata della vita, vi sono evidenze che sostengono una diminuzione della sintomatologia di BPD con l’età. L’insorgenza dell’ADHD, invece, è più precoce; recentemente, tuttavia, le basi del neurosviluppo del disturbo sono state messe in discussione, in quanto alcune evidenze sostengono che l’ADHD ad insorgenza adulta sia un’entità clinica distinta e le vie di sviluppo coinvolte nell’ADHD ad esordio precoce e tardivo differiscono, pur condividendo gli stessi meccanismi neurali generali e ambientali, a causa della pressione ambientale o dei fattori preventivi.

I due disturbi condividono diversi tratti temperamentali, tra cui la ricerca di novità e l’evitamento del danno. Inoltre, recenti studi hanno evidenziato una significativa comorbilità di entrambi i disturbi con la diagnosi di disturbo bipolare, caratterizzato principalmente da instabilità affettiva.

In conclusione, sono state ipotizzate quattro possibili spiegazioni sul perché i due disturbi si verificano frequentemente:

  • l’ADHD può essere un precursore dello sviluppo della BPD;
  • BPD e ADHD possono corrispondere sia ad espressioni diverse dello stesso disturbo piuttosto che a due entità cliniche distinte;
  • ADHD e BPD possono essere distinti disturbi che condividono comuni fattori di rischio eziologico;
  • la presenza di un disturbo può aumentare il rischio di sviluppare l’altro.

Per quanto riguarda le possibilità di trattamento, gli interventi preventivi dovrebbero riguardare le dimensioni del tratto, nonché i fattori di rischio ambientale condivisi da ADHD e BPD durante l’infanzia, al fine di migliorare i risultati delle persone a rischio.

 

Hard skills e soft skills nel CV: significato, differenze e come inserirle nel curriculum

Quando si crea un curriculum, il primo aspetto su cui si focalizza l’attenzione sono ovviamente le competenze che il candidato andrà ad esporre nel documento. Le competenze infatti rappresentano il cardine di un CV, dato che i datori di lavoro andranno alla ricerca della coincidenza tra competenze ricercate e richieste.

Negli ultimi anni si è sentito parlare sempre di più di soft skills, ma è lecito pensare anche al termine opposto, ovverosia hard skills. Ebbene, non si tratta di un’espressione di fantasia, ma viene utilizzata per davvero nei curriculum. Vediamo la differenza tra le due tipologie, e come inserirle all’interno del proprio CV.

Soft skills: le competenze “non tangibili”

Le soft skills, come suggerisce il titolo del paragrafo, sono le competenze non tangibili. E’ un’espressione un po’ infelice, a dir la verità: si tratta comunque di competenze che hanno un riscontro più che importante nel lavoro, ma non trovano un riconoscimento concreto.

Ciò che è rilevante in una soft skill è l’intelligenza emozionale, dunque tutto l’ampio ventaglio di abilità strettamente collegate al pathos di una persona: capacità di lavorare in gruppo, senso di empatia e integrità morale, capacità di ascolto, spirito di motivazione, resistenza a situazioni di conflitti lavorativi, sensibilità comunicativa verso un interlocutore, creatività e quant’altro. Come è facile capire, queste abilità non sono riconosciute da qualche attestato, ma provengono dal profondo del candidato e aiutano il datore di lavoro a comprendere meglio il suo atteggiamento.

Hard skills: gli “attrezzi del mestiere”

Naturalmente le hard skills rappresentano il rovescio della medaglia: si tratta di tutte quelle competenze “concrete”, che possono avere un riscontro reale e che possono quindi essere misurate e quantificate entro certi limiti.

Tra le hard skills, citiamo ad esempio il livello di conoscenza di una lingua. Le hard skills sono competenze valutabili nell’immediato: a differenza delle soft skills, valutabili soltanto sul lungo periodo (in quanto l’attitudine dipende anche dal contesto), le hard skills danno immediatamente un’immagine chiara del bagaglio lavorativo e culturale del candidato.

Oltre alle lingue, altre “hard skill” sono sicuramente quelle relative all’utilizzo di un determinato software, macchinario o tecnologia specifica atta allo svolgimento di una mansione, manuale o non manuale. Inoltre, se ha partecipato a cicli formativi di settore, in cui hai appreso conoscenze tecniche; allora è proprio il caso di farne menzione.

Hard skills e soft skills: alcuni consigli per la scrittura

Sia le hard skills, sia le soft skills richiedono alcuni particolari dettagli da seguire per la scrittura, tra i quali:

1.     L’ortografia. Un’ortografia curata e priva di errori non è solo apprezzabile a livello visivo, ma sottolinea anche un’attitudine precisa e minuziosa del candidato.

2.     Il lessico. Anche la scelta di un lessico appropriato denota caratteristiche importanti del candidato, riconducibili tanto alle soft skills quanto alle hard skills. In riferimento alle prime, il lessico è importante perché indica sicurezza in sé (con l’utilizzo di termini tecnici approfonditi); in riferimento alle seconde, perché danno dimostrazione di conoscere davvero il lavoro che si è svolto, e di essere quindi pronti culturalmente e lavorativamente alla prossima posizione.

3.     Il layout: Utilizza una struttura testuale che permetta al lettore di individuare facilmente le core skills, ovvero le abilità più importanti per il la posizione per la quale ti stai candidando. L’uso di elenchi puntanti, con morigeratezza, potrebbe essere d’aiuto.

4.     La chiarezza: Consiglio utile soprattutto per le hard skills che molto spesso hanno caratteristiche e terminologie molto tecniche. Fai in modo che le tue skills vengano enunciate in maniera corretta senza cadere troppo in tecnicismi che potrebbero distorcere l’efficacia della tua spiegazione agli occhi di un recruiter che non sempre è chiamato a conoscere tutti gli aspetti tecnici di una mansione, soprattutto se si sta occupando della prima fase di recruiting.

5.     La sintesi. Il miglior modo per presentare sia le hard skills, sia le soft skills è la sintesi. In media un datore di lavoro non dedicherà più di un minuto alla lettura, dunque è bene esporre in primo piano e sinteticamente le proprie competenze.

LinkedIn: un importante strumento di rilevazione delle tue skills

Un ultimo aspetto su cui bisogna prestare particolare attenzione è la cura dei propri social network, sia nel caso in cui vogliate inserirli nel CV, sia nel caso contrario.

Nel primo caso infatti i datori di lavoro dedicheranno senz’altro qualche minuto alla consulta dei profili sui vostri social: da qui, infatti, emergono importanti dettagli sulla vostra personalità e sulla vostra potenziale condotta in azienda. Avere social curati, privi di commenti inopportuni o di contenuti sgradevoli aiuta a crearsi un’immagine positiva (meglio ancora se il candidato, tramite i propri profili, dimostrerà interesse verso il settore lavorativo di appartenenza).

In quest’ottica, LinkedIn può essere la chiave di volta. Tramite questa piattaforma dedicata ai profili lavorativi, infatti, ciascun utetente, può aggiungere delle skills che lo rappresentano e fare in modo che gli utenti che fanno parte della sua audience, possano confermarle.

La conferma delle skills da parte di terzi soggetti, affermerebbe la validità delle tue abilità grazie al parere di persone con cui hai lavorato o collaborato.

I recruiter potrebbero tenere in conto quest’aspetto.

La capacità di mentalizzazione come possibile fattore di resilienza per un miglior utilizzo di social e videogames

La mentalizzazione è ciò che permette di sperimentare sé stessi, gli altri e il mondo come sufficientemente prevedibili, gestibili e modificabili e di sentire, dunque, di appartenere a un tutto abbastanza coerente e non estraneo.

 

Il 57% della popolazione italiana di età compresa tra i 16 e i 64 anni, corrispondente a circa 17 milioni di persone, ha giocato ai videogiochi negli ultimi 12 mesi.

Il 57% della popolazione mondiale e il 92% di quella italiana è collegata a internet; youtube e whatsapp risultano le piattaforme social più attive.

Videogiochi e social hanno rivoluzionato la quotidianità e sono entrati a far parte integrante del tempo libero (e non) modificando modalità di comunicazione, relazione e cognizione; le nuove tecnologie e internet hanno permesso all’uomo di aprirsi confini inediti di interazione, apprendimento, immaginazione e sperimentazione di sé prima impensabili che hanno praticamente stravolto le concezioni di tempo e spazio così com’erano concepite prima di allora: oggi è possibile raggiungere in brevissimo tempo (quasi istantaneamente) persone a migliaia di km di distanza. Nonostante queste tecnologie abbiano reso possibile il vasto incremento e la diffusione delle conoscenze, ciò che ancora non risulta possibile è sapere, con precisione scientifica, quale sarà la forma e le caratteristiche precise di questi nuovi territori scoperti, creati o ampliati proprio dalla new technology.

Oggi molti si chiedono se e in quale misura questo cambiamento tecnologico possa portare a un miglioramento o ad un peggioramento della qualità della vita, soprattutto dei propri figli e delle generazioni future. Ondate di genitori chiedono a medici e psicologi il reale impatto dell’utilizzo di social e videogiochi e cercano disperatamente e giustamente un vademecum, delle linee guida da seguire che li facciano sentire sereni come madri, padri, adulti di riferimento.

Le informazioni appaiono spesso complesse e controverse, ad esempio: i videogiochi facilitano l’apprendimento e la socializzazione, i videogiochi violenti rendono i ragazzi aggressivi, l’utilizzo dei social espone i ragazzi al pericolo di essere adescati, ecc.; tutte queste e molte altre affermazioni possono essere considerate vere se, e solo se, vengano ben contestualizzate (quali tipi di giochi tecnologici facilitano gli apprendimenti e per quali bambini? In quali condizioni le immagini violente utilizzate da alcuni videogiochi aumentano la possibilità di far emergere comportamenti aggressivi nei ragazzi? Ecc.). Nei confronti della tecnologia possono essere messi in atto due atteggiamenti e comportamenti agli antipodi: la paura e la diffidenza con conseguenti condotte di evitamento e svalutazione oppure un’accettazione e un utilizzo impulsivo e acritico. Entrambi questi atteggiamenti possono portare a delle problematiche, siano esse di natura relazionale, sociale o di pericolo personale (ad es. fatica nel comprendere i figli e vietare a priori l’utilizzo di tecnologie, diffondere immagini di minori nella rete senza conoscerne i pericoli ecc.).

L’utilizzo di videogiochi può certamente sviluppare alcune capacità cognitive come le competenze visuomotorie, di coordinazione mani, dita, occhi, il pensiero strategico e il problem solving; può anche promuovere l’apprendimento di regole di situazioni sociali così come può rappresentare, al pari di qualsiasi altra attività ludica, un contesto di elaborazione emotiva e di conoscenza e confronto delle proprie capacità. D’altra parte, l’uso di videogiochi violenti può aumentare la possibilità di utilizzare strategie violente in situazioni sociali per via dei meccanismi di apprendimento sociale (come osservazione e imitazione).

A mio avviso, ciò che permette di valutare e agire in modo funzionale e coerente rispetto all’uso o meno di social e videogames è la capacità dell’adulto di monitorare ad una giusta distanza il ragazzo e affiancarlo in una riflessione attenta e propositiva, stimolando un processo di valutazione il più possibile critico e autonomo rispetto alle proprie scelte di gioco e di uso delle tecnologie. Sarebbe opportuno, cioè, creare il più possibile una terra di collegamento tra la tecnologia e il ragazzo e tra il ragazzo e l’adulto, data dalla promozione e dal consolidamento della capacità di mentalizzazione.

La capacità di mentalizzazione è un costrutto centrale per la psicologia dello sviluppo e della personalità. Il concetto prende forma a partire da psicoanalisti e teorici dell’attaccamento e viene descritto come funzione essenziale di uno sviluppo sano del soggetto e strettamente derivante dalla bontà della relazione primaria con il caregiver (Fonagy, Target 2001; Bowlby1989). Mentalizzare significa essere in grado di immaginare lo stato mentale proprio o di un altro soggetto, come una credenza, un desiderio o un’emozione, senza che tale stato sia realmente e totalmente provato o condiviso dal soggetto stesso; ciò permetterebbe, così, di costruire e attivare rappresentazioni di sé e dell’altro per meglio adattarsi ai contesti interpersonali.

La capacità di prevedere e interpretare atteggiamenti, speranze, conoscenze e piani altrui facilita la lettura dei propri stati mentali in un circolo virtuoso e porta ad un vantaggio individuale e sociale in termini di flessibilità e gradi di libertà rispetto al bisogno di sicurezza e affermazione. Mentalizzare è ciò che permette di sperimentare sé stessi, gli altri e il mondo come sufficientemente prevedibili, gestibili e modificabili e di sentire, dunque, di appartenere a un tutto abbastanza coerente e non estraneo.

La funzione di mentalizzazione, o funzione riflessiva, è una procedura automatica che si attiva nell’interpretazione dell’azione umana ma può essere sviluppata e incrementata nella relazione con gli adulti di riferimento.

Entrando nello specifico, ad esempio, una delle finalità raggiunte dalla capacità di mentalizzare, è quella di discriminare tra realtà e finzione e questo risulta molto importante nel momento in cui le caratteristiche di alcuni giochi virtuali confondono realtà e finzione: immersività, sensazione di presenza e agentività (possibilità di modificare e controllare lo scenario) portano spesso il fruitore a vivere in un ambiente virtuale emozioni e sensazioni reali. Le emozioni, i pensieri e le credenze che si formano negli ambienti virtuali sono spesso reali e richiedono un contenitore di senso al pari di tutti gli altri eventi mentali generati in situazioni considerate reali.

Le nuove tecnologie aprono a nuove e numerose possibilità di azione e interazione, di apprendimento e di divertimento ma anche a nuove immagini di sé, dell’altro e del mondo; ciò che l’adulto è chiamato a fare è accompagnare il processo di formazione di identità dei ragazzi e ciò deve tenere in considerazione e utilizzare in modo costruttivo queste nuove immagini sapendo che esse non possono né essere negate né accettate acriticamente.

 

Cyber-razzismo: come si diffonde online l’hate speech e quali conseguenze può comportare

La forma di hate speech online legato alle caratteristiche fenotipiche degli individui (es. caratteristiche del viso, colore della pelle) o all’affiliazione ad un gruppo etnico, culturale e territoriale acquisisce i contorni di quello che viene definito cyber-razzismo (Back, 2002).

 

Un tema attuale e particolarmente controverso è sicuramente quello dell’hate speech (tradotto generalmente in italiano in incitamento all’odio) che, nonostante sia largamente utilizzato, è un termine che non ha oggi una definizione univoca. Dal punto di vista normativo, il riferimento con maggiore autorevolezza è presentato nell’appendice alla raccomandazione n. (97) 20 del 30 ottobre 1997 realizzato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. In questo documento viene definito hate speech quel fenomeno che ricopre

tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basato sull’intolleranza, tra cui: intolleranza espressa da nazionalismo aggressivo ed etnocentrismo, discriminazione e ostilità nei confronti di minoranze, migranti e persone di origine immigrata (Committee of Ministers – Council of Europe, 1997, pag. 107).

Una sempre maggiore preoccupazione della diffusione del fenomeno, anche attraverso la promulgazione via internet, ha attirato l’attenzione della politica, dei professionisti e degli studiosi. In Italia il 30 ottobre 2019  è stata approvata una mozione, con prima firmataria la senatrice Liliana Segre, per istituire una commissione straordinaria per la prevenzione ed il contrasto dei fenomeni di odio, intolleranza, razzismo, antisemitismo e neofascismo, che pervadono la scena pubblica accompagnandosi sia con atti e manifestazioni di esplicito odio e persecuzione contro singoli e intere comunità (Segre et al., 2019, pag. 120). Sempre nel 2019 è uscita la quarta edizione della mappa dell’Intolleranza realizzata dall’Osservatorio Italiano sui diritti Vox (2019) che ha identificato la presenza sui social network di un crescente livello di intolleranza raziale nei confronti di migranti, musulmani ed ebrei. L’analisi condotta da Vox – Osservatorio Italiano sui diritti, tra marzo e maggio 2019, ha evidenziato rispetto al 2018 un netto aumento di tweet con oggetto l’odio verso i migranti (15% in più rispetto al 2018), verso gli ebrei (6% in più rispetto il 2018), e verso i mussulmani (7% in più rispetto il 2018).

Questa forma di hate speech online legato alle caratteristiche fenotipiche degli individui (es. caratteristiche del viso, colore della pelle) o all’affiliazione ad un gruppo etnico, culturale e territoriale acquisisce i contorni di quello che viene definito cyber-razzismo (Back, 2002). Il cyber-razzismo si configura, infatti, come una forma di razzismo a tutti gli effetti caratterizzato da contenuti online offensivi, denigratori e discriminatori su base razziale (Bliuc, Faulkner, Jakubowicz, & McGarty, 2018; Keum, & Miller, 2018). Un gruppo di ricercatori australiani (Bliuc, et al., 2018) ha condotto una revisione sistematica delle ricerche scientifiche sul cyber-razzismo per identificarne le fonti, i canali e le strategie di comunicazione, gli obiettivi, e le potenziali conseguenze. I risultati principali di questa rassegna hanno messo in evidenza che gli episodi di cyber-razzismo messi in atto da singoli individui non avvengono esclusivamente sui social network, ma anche nei commenti dei siti internet, nei gruppi di chat e nei video di youtube. Un aspetto sicuramente peculiare fa riferimento ad episodi di cyber-razzismo di gruppo che si esplicitano in siti-web e forum ‘tematici’ a sfondo razziale (il più famoso è Stormfront; Bowman-Grieve, 2009), con l’intento di reclutare nuovi elementi nel gruppo, promuovere lo sviluppo di un senso identitario, propagandare attraverso internet il pensiero razzista e le ideologie estremiste. Riguardo le strategie di comunicazione, la rassegna di Bliuc, et al. (2018) ha evidenziato che gli individui che pubblicano materiale razzista online tendono ad: esasperare o inventare la presenza di privilegi esclusivi del gruppo vittimizzato a scapito del proprio gruppo di appartenenza (es. ‘clandestini ospitati in alberghi di lusso, italiani nelle tende’; Genoviva, 2016); etichettare diversamente, banalizzare e negare gli episodi di razzismo (‘gli insulti ai calciatori di colore sono semplice folklore’; Mastrodonato, 2019); usare battute, barzellette e canzoncine a sfondo razziale per cercare di normalizzare il razzismo (‘senti che puzza, scappano anche i cani…’; Naletto, 2009); denigrare il gruppo vittimizzato accusando e diffamando in modo stereotipato gli appartenenti al gruppo (‘Gli ebrei sono falsari storici, attaccati al denaro ed usurai’; CDEC, 2019); creare panico sociale, generando reazioni esagerate nei confronti di un gruppo vittimizzato per renderlo agli occhi della società una minaccia all’ordine morale (‘i musulmani sostengono il terrorismo internazionale’; CDEC, 2017).

Indipendentemente dalle modalità con cui il razzismo in rete viene espresso, esso ha comunque delle conseguenze sia sugli individui sia su gruppi di persone. Il cyber-razzismo, infatti, crea nelle vittime esiti simili al razzismo offline, come alti livelli di ansia e depressione, stress e percezione di ingiustizia e discriminazione (Bliuc, et al., 2018; Keum & Miller, 2018). Un altro aspetto da tenere in considerazione è che la frequente esposizione online a contenuti razzisti e di incitamento all’odio possono contribuire ad una desensibilizzazione emotiva portando a legittimare maggiormente l’aggressione verbale (Soral, Bilewicz, & Winiewski, 2018). Con la diminuzione delle reazioni emotive negative al linguaggio offensivo e discriminatorio c’è un maggiore rischio che le persone credano al contenuto diffamatorio e diventino maggiormente accondiscendenti a trattare quelle affermazioni come linee guida (per esempio nel caso di politiche anti-migratorie; Soral et al., 2018).

In linea generale, come sottolineato da Keum e Miller (2018), è importante tenere a mente che considerare quello che avviene su internet come meno importante o meno reale sia estremamente pericoloso. Sottovalutare forme di razzismo esclusivamente perché avvengono in una realtà virtuale può avere delle profonde ripercussioni nella realtà fisica, ed è anzi evidente che l’anonimato online possa promuovere il proliferare dell’hate speech, portando le persone a ricorrere ad espressioni ed opinioni razziste in modo più esplicito rispetto a quanto si farebbe in interazioni offline (Keum, & Miller, 2018). Per questi motivi sembra chiara la necessità di mettere in atto programmi di intervento preventivi ed educativi che educhino ad un uso consapevole di internet, rendendo gli utenti maggiormente coscienti di quello che condividono e facilitare la comprensione del materiale presente in rete.

Autismi in pratica. Comportamenti problema o che ci mettono alla prova

Quello dei comportamenti problema nell’autismo (ma non solo) è un tema estremamente vasto e non si può certo pensare di esaurirlo in un articolo. Ma partiamo.

 

Innanzitutto, è interessante notare come, quelli che per noi sono comportamenti-problema, per gli anglofoni siano challenging behaviours, dicitura che potremmo tradurre con comportamenti sfidantiSe ci pensiamo, i comportamenti-problema mettono alla prova genitori e operatori perché costituiscono, in un qualche senso, un’anomalia che va ‘risolta’.

Ma quando un comportamento sfidante diventa un problema? I casi sono fondamentalmente 4:

  • il comportamento mette in pericolo l’individuo;
  • il comportamento mette in pericolo gli altri;
  • il comportamento ostacola l’accesso all’esperienza;
  • il comportamento ostacola l’apprendimento.

Per intenderci, non è un problema che Stefano guardi la lavatrice in funzione perché affascinato dal movimento circolare del cestello. Può essere strano forse o, come si diceva prima, anomalo perché si discosta dagli interessi tipici di un bambino della sua stessa età, ma non è un problema. Lo diventa nel momento in cui Stefano trascorre davanti alla lavatrice tutta la sua giornata e non mangia, non gioca, non impara perché completamente assorbito da questa attività e, magari, quando mamma decide che è ora di fare altro o, semplicemente, non ci sono più panni da lavare, piange, grida, si dispera e tira calci.

Che fare dunque in questi casi? Lanalisi funzionale, of course! L’analisi funzionale permette di capire la funzione di quel comportamento, perché ogni comportamento ne ha una. In psicoterapia si ricorre a questo strumento per identificare i meccanismi che generano e mantengono comportamenti apparentemente disfunzionali, come fuggire da un aperitivo in cui è presente il ragazzo che ci piace perché ci sentiamo goffe e imbarazzate. Ecco, in un caso del genere la funzione del comportamento di fuga è l’evitamento dell’ansia. Lavorerò quindi, in stanza di terapia, sulla gestione di quest’ultima.

Per quanto riguarda i comportamenti problema nell’autismo, il criterio è lo stesso: ne indago la funzione per capire come intervenire al meglio. Consideriamo poi che nell’autismo ci sono difficoltà a livello comunicativo, perciò spesso la crisi rappresenta l’unico modo per comunicare una qualche forma di disagio (ma una volta afferrato il punto, noi saremo prontissimi a fornire strategie alternative più funzionali, ovviamente!).

Teniamo a mente che le funzioni del comportamento si possono ridurre a 4:

  • attenzione;
  • accesso al tangibile;
  • fuga o evitamento;
  • stimolazione sensoriale.

La tabella seguente (Fig. 1) dovrebbe chiarire questo elenco, e specifica anche il tipo di rinforzo che mantiene il comportamento.

 

Autismo cosa sono i comportamenti problema e come intervenire Fig 1

Fig. 1: esempi di comportamento con relativa funzione e tipo di rinforzo

Si potrebbe pensare che, eliminando il rinforzo, il comportamento lentamente si estinguerà. Ma se l’insegnante finge che Carlo non ci sia non è detto che il bimbo la smetterà di girarle la faccia ed è quasi certo che sarà frustratissimo perché un suo bisogno verrà disatteso. L’estinzione potrà funzionare solo se associata all’insegnamento di un comportamento sostitutivo, ovvero di un comportamento più funzionale che possa assolvere quella stessa funzione. Nella prossima tabella (Fig 2) qualche esempio.

 

Autismo cosa sono i comportamenti problema e come intervenire Fig 2

Fig. 2 Esempi di comportamenti sostitutivi che favoriscono l’estinzione dei comportamenti problema

Quindi, per riassumere, i comportamenti problema sono tali solo se in qualche modo interferiscono significativamente con la vita dell’individuo e del suo ambiente. Essi ci comunicano qualcosa e tramite l’analisi funzionale potremo capire di che cosa si tratta e quali possono essere le alternative più desiderabili per rispondere alla stessa funzione.

 

Che impatto ha la nostra psiche sul nostro sistema immunitario?

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato variano le implicazioni a livello immunitario: nel caso dell’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico si osserva un aumento delle difese immunitarie, mentre con un attivazione dell’Asse Ipotalamo Ipofisi Surrene si assiste a uno scenario opposto.

 

Quando veniamo posti di fronte a situazioni o momenti della nostra vita stressanti, il nostro corpo può reagire in due modi:

– Attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS): conosciuto anche come risposta di attacco-fuga, l’attivazione di questo sistema porta a vari cambiamenti fisiologici, tra cui l’afflusso di sangue verso i muscoli, la dilatazione delle pupille, aumento del battito cardiaco, la vescica si rilassa e i processi digestivi vengono bloccati. Tutto ciò accade per favorire un’eventuale fuga oppure un ipotetico attacco (Kranner et al., 2010). L’attivazione del sistema nervoso simpatico è immediata, di alta intensità, ma breve.

– Attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA): quest’asse si attiva quando siamo posti in maniera duratura ad uno stimolo stressante, in tal caso il corpo inizierà a produrre cortisolo, conosciuto come ormone dello stress. Rispetto all’attivazione del sistema nervoso simpatico, l’HPA ci mette più tempo ad attivarsi, ha un intensità minore tuttavia perdura per più tempo (Kranner et al., 2010).

Il sistema immunitario è influenzato negativamente dai livelli di cortisolo presenti nel sangue, a tal punto che, quando siamo stressati, si denota un calo delle nostre difese immunitarie.

Partendo da questi presupposti, sempre più studi sperimentali stanno indagando la relazione tra psiche, stress e sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

L’attivazione dei due sistemi sopra citati è elicitata da stressor differenti. Nel caso del sistema nervoso simpatico ci dev’essere una situazione che evoca una risposta di attacco-fuga, solitamente si tratta di quelle situazioni dove la nostra vita viene messa a repentaglio. Al giorno d’oggi è raro che ci siano situazioni che attivano il sistema nervoso simpatico, è piuttosto molto più comune l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, elicitata da stimoli con valore più ‘soggettivo’. Ad esempio, avere alle porte un esame universitario può essere stressante per un ipotetico individuo A, mentre potrebbe non esserlo per un individuo B, delineando cosi il ruolo centrale della nostra mente nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e delle conseguenze negative sul nostro sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato, variano le risposte immunitarie; nel caso dell’attivazione del SNS si denota un aumento delle difese immunitarie, questo perché il corpo si prepara all’eventuale presenza di ferite o infezioni; mentre nel caso dell’attivazione del HPA le difese immunitarie calano a causa del cortisolo prodotto dalle surreni (Segerstrom & Miller, 2004).

Lo stress è inoltre correlato con disturbi psichici, come la depressione, e con disturbi fisici, come le malattie cardio vascolari, ma rimane ancora un punto interrogativo la relazione tra stress, HIV/AIDS e cancro (Cohen & Miller, 2007).

 

La valutazione del rischio: una strategia preventiva fondamentale per gestire i casi di femminicidio

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

 

I reati di maltrattamento in famiglia sono complessi, difficili da dimostrare in virtù della loro natura: avvengono nella sfera dell’intimità e delle relazioni affettive e spesso sono caratterizzati da un’iniziale mancanza di disponibilità da parte della donna di procedere contro il partner o l’ex partner, per una serie di dinamiche proprie del ciclo della violenza in cui la donna è confusivamente inglobata, come la dispercezione del sé per effetto dell’effrazione psichica del maltrattante. Nella aule dei tribunali, dove in più occasioni mi sono ritrovata a testimoniare in loro favore, inizialmente mi stupiva l’atteggiamento di moltissime donne che non erano animate da sentimenti di rancore o vendetta nei confronti del partner maltrattante, quanto piuttosto da un ardente desiderio di riscatto e possibilità di ricostruirsi un’esistenza serena, e finalmente libera.

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

Il principio cardine su cui si basa la valutazione del rischio è che la violenza è una scelta, influenzata da tutta una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta:

si può così ipotizzare, prevedere, valutare quali fattori hanno portato la persona a decidere di agire violenza e intervenire cercando di modificarli, ridurli o ancora meglio farli scomparire o neutralizzarli, riducendo così il rischio di recidiva (Baldry, 2016).

Nonostante i corposi istituti giuridici preposti al contrasto della violenza domestica, troppe volte nei casi di cronaca si legge di donne che avevano già presentato delle denunce per maltrattamenti o segnalato situazioni di violenza reiterate, a cui però non hanno fatto seguito interventi efficaci a garantire la tutela della loro incolumità e di quella dei loro figli.

Questo accade principalmente per due ragioni: da un lato si tende a sottovalutare il bisogno di protezione delle donne con la complicità di una lettura errata di quanto sta accadendo nella loro vita – scambiando ancora una volta la violenza con le dinamiche conflittuali – e dall’altro si tende a ritenere che una denuncia sia un’azione già sufficientemente esaustiva. E’ accertato, invece, come il momento della denuncia o la volontà palesata al partner di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza a esiti letali quali, il femminicidio.

La denuncia in se stessa si rivela insufficiente, se non opportunamente supportata da una puntuale valutazione del rischio da effettuare con la donna, tale da consentire l’assunzione di maggiore consapevolezza e autodeterminazione, e la messa a punto di un piano di sicurezza ad hoc che assicuri la sua salvaguardia in toto.

Si tratta, pertanto, di porre a sistema e in rete tutti gli attori – centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali, tribunali, case rifugio, presidi ospedalieri, rete familiare e amicale dove presenti – coinvolgendoli nel processo di presa in carico e gestione di quello specifico caso, ricordando che ogni storia di violenza è una storia a sé, con caratteristiche per certi versi simili, ma che comunque variano da una all’altra, tra cui ad esempio, il grado di consapevolezza della violenza subita, il livello di resilienza, la fase del ciclo della violenza, le strategie di coping già attuate per fronteggiare la violenza, gli aiuti esterni che la donna può aver richiesto.

Il Piano Strategico Nazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne 2017 – 2020, all’asse 4.3 ‘Perseguire e punire’, recependo il contenuto dell’art.51 della Convenzione di Istanbul, recita chiaramente che

Le donne che subiscono violenza hanno diritto a sentirsi tutelate e a ottenere giustizia dai tribunali il prima possibile, le situazioni di violenza vissute devono essere opportunamente investigate al fine di evitare il protrarsi di ulteriori violenze (…) garantire la tutela delle donne vittime di violenza attraverso un’efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità della vittima, gravità, reiterazione e recidiva del reato, attraverso procedure omogenee ed efficienti su tutto il territorio nazionale.

La reiterazione, la frequenza e l’escalation della violenza che connotano tale tipologia di reato hanno aperto la strada alla riflessione circa i cosiddetti ‘fattori di rischio’ e di ‘vulnerabilità’ presenti all’interno delle relazioni violente.

Ma come si definisce un fattore di rischio o di vulnerabilità, ed esiste una metodologia per individuarli?

Un fattore di rischio è una caratteristica del maltrattante, una circostanza della relazione la cui presenza aumenta la probabilità che si verifichi quel determinato comportamento. Individuare i fattori di rischio aiuta a leggere i campanelli d’allarme e a far sì che le donne – che forse non li hanno saputi attenzionare perché normalizzati – possano rileggerli nella narrazione del loro vissuto e della loro storia. Nel valutare il rischio occorre che tali fattori vengano sempre contestualizzati e distinti tra dinamici, sui quali è possibile intervenire (attuale pericolosità del reo, condizioni di scarsa autonomia della vittima, abuso di sostanze, ecc.), e statici, che comunque permangono in termini di impatto (ad esempio, una condanna avuta nel passato dal reo per maltrattamenti o altra tipologia di reato, minimizzazione della violenza, ecc.).

I fattori di vulnerabilità sono invece quelle caratteristiche delle vittime la cui presenza aumenta la difficoltà per la donna di sottrarsi alla violenza e quindi il rischio di recidiva.

Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati negli Stati Uniti e in Europa (Svezia, Scozia, Repubblica Ceca, Grecia e in Italia ormai da oltre 10 anni) vi è il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime), messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, ampiamente sviluppato e attuato in Italia, a partire dal 2006, con specifici protocolli con le Forze dell’Ordine da A.C. Baldry, e diffuso a centri antiviolenza e servizi territoriali attraverso specifica formazione.

In Italia, il progetto SARA per la valutazione del rischio di recidiva della violenza interpersonale all’interno di una relazione intima attuale o pregressa è il primo esperimento attivato e coordinato da Anna Costanza Baldry e realizzato all’interno dei programmi Daphne e Marie Curie Fellowship Reintegration Grants della Commissione Europea. La metodologia per la valutazione del rischio è iniziata in via di sperimentazione in Italia dapprima nel Lazio, e adesso è conosciuta e utilizzata a livello di tutte le 103 Questure che sono state formate a livello centrale del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine o a livello locale nelle singole Questure che ne hanno fatto richiesta. Lo stesso dicasi per l’Arma dei Carabinieri presso cui il metodo è stato illustrato all’interno di alcuni progetti.

Per valutazione del rischio si intende

quel complesso di azioni e valutazioni che tendono a fornire un quadro prognostico – quindi di previsione – circa la probabilità (rischio) di verificarsi di eventi o circostanze, in base a parametri che sono noti, e che possono mettere a repentaglio l’incolumità o la sicurezza di una persona (Baldry, 2016).

Lo scopo della valutazione del rischio di recidiva non è tanto quello di predire chi è a maggior rischio di reiterare la violenza o quale donna è a rischio di essere ri-vittimizzata dal suo partner o ex partner, ma di poter prevenire tale recidiva e l’escalation della violenza nelle relazioni intime, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e strategie nei confronti del reo per scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari (ordine di allontanamento dalla casa familiare, divieto di dimora o la custodia cautelare in carcere) o precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte trattamentali adeguate (Baldry, 2016).

Affrontare i casi di maltrattamento in famiglia e all’interno della coppia utilizzando tale metodologia rappresenta un’occasione importante per mettere a fuoco quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie che l’assenza di fattori di rischio non escluda la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile, così come la loro presenza non indica necessariamente che quell’autore della violenza persevererà nella sua condotta o ucciderà la sua partner.

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate, violenza da parte del partner o ex partner e adattamento psico-sociale includendo:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza
  • Escalation (sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze)
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari
  • Precedenti penali/condotte antisociali
  • Problemi relazionali
  • Problemi di lavoro o problemi finanziari
  • Abuso di sostanze
  • Disturbi mentali

Riguardo invece ai fattori di vulnerabilità della vittima il SARA – S annovera:

  • Condotta e atteggiamento incoerente nei confronti del reo
  • Estrema paura nei confronti del reo
  • Sostegno inadeguato alla vittima
  • Scarsa sicurezza di vita
  • Problemi di salute psicofisica, dipendenza

A tali fattori il SARA-S aggiunge anche la rilevazione della presenza di armi, bambini testimoni (violenza assistita) e child abuse.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatrice o l’operatore che effettua la valutazione del rischio con la donna, con il metodo S.A.R.A.- S, procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito della valutatrice o del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata, e se sia riferibile come lasso di tempo nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi) anche in termini di escalation e gravità.

Un punto di forza dello strumento consiste nell’integrare la valutazione dell’operatrice con quella della donna, che in prima persona fornirà la propria percezione rispetto alla violenza subìta e i rischi a essa connessi, elementi sui quali dovrà essere impostato con lei il lavoro di fuoriuscita dalla violenza e le eventuali strade percorribili. Così facendo la donna ha l’opportunità di essere al centro e protagonista del percorso da intraprendere, grazie alla restituzione del potere di scelta anche in condizione di elevato rischio di recidiva della violenza nella relazione.

Mi preme precisare che la valutazione del rischio è un processo dinamico, si parla infatti di Active Risk Assessment (ARA), e pertanto dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo per monitorare l’evoluzione del livello di rischio, senza tralasciare l’importanza di condividerla con le figure professionali (servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con lei in momenti diversi della sua storia.

Essendo la valutazione del rischio un processo dinamico, il livello del rischio può fluttuare nel tempo, ed è quindi opportuno eseguire il follow-up a intervalli di almeno 2-3 mesi. Vi sono, inoltre, alcune circostanze considerate critiche per quel che concerne il rischio di recidiva, che comportano la necessità di un’immediata ri-somministrazione, e tra queste:

  • la donna ha mostrato/riferito la sua intenzione di interrompere la relazione o di separarsi (preceduti da episodi di violenza o minacce di violenza all’interno della coppia);
  • la nascita di una nuova relazione, contrariamente alla volontà dell’ex partner (il concetto di vittima si estende anche al nuovo compagno, in questi casi, e a chiunque cerchi di fornire aiuto alla donna per uscire dal circolo della violenza);
  • presenza di dispute relative all’affidamento dei figli e al regime di visita;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per reato di maltrattamenti (o per tentato omicidio o per altri reati gravi).

Riassumendo, la compilazione della scheda di valutazione del rischio e la sua metodologia si rivela funzionale per attivare un virtuoso feedback bidirezionale tra la donna e l’operatrice al fine di:

  • monitorare in un lasso di tempo più circoscritto l’evolversi della violenza e ridefinirne il rischio di reiterazione nel breve e medio termine;
  • far emergere – e far acquisire – il livello di percezione/consapevolezza del rischio di reiterazione della violenza da parte della donna;
  • rimandare il rischio emerso attraverso un’adeguata restituzione, rileggendo con la donna le strategie adottate per ‘controllare’ le tipologie di violenza subita, divenuti veri e proprio habitus e rinforzo delle dinamiche proprie del circolo della violenza;
  • agire efficacemente sullo spostamento dell’attribuzione di responsabilità della violenza e sull’investimento di energia dall’esterno verso l’interno (centratura e focus sulla donna, e lavoro sul sé);
  • individuare e rileggere insieme, in ottica di genere, gli stereotipi culturali presenti, gli ostacoli (materiali, culturali, ecc.) che impediscono la fuoriuscita dal circolo della violenza scongiurando pericolose minimizzazioni;
  • definire e programmare le necessarie azioni progettuali tra i soggetti coinvolti, partendo dalla disamina di quegli indicatori che segnano un’apripista non trascurabile di possibili escalation della violenza;
  • offrire anche in una possibile sede di testimonianza processuale una chiave di lettura più nitida sul funzionamento delle dinamiche della violenza, al fine di orientare gli interventi futuri considerando gli indicatori di rischio emersi, e scongiurando processi di rivittimizzazione per la donna;
  • creare una robusta rete supportiva che offra un intervento multidisciplinare e che trasmetta finalmente alla donna il messaggio di non essere sola nel vissuto violento.

 

L’educatrice di asilo nido si trasforma in copertina di Linus – L’attaccamento come passaggio del testimone dal caregiver all’educatrice

Il presente articolo nasce dall’esperienza diretta dell’autrice maturata come educatrice di asilo nido.

A partire dai primi scambi tra madre e bambino si sviluppa il legame di attaccamento. Le specifiche modalità interattive esperite dalla diade portano allo sviluppo dei modelli operativi interni (MOI), grazie ai quali il bambino potrà crearsi aspettative, circa le risposte ai propri bisogni. Con l’ingresso al nido la figura dell’educatrice diviene centrale nel processo di crescita cognitiva, emotiva e sociale del piccolo: promotore di un sano sviluppo è il legame di attaccamento instaurato tra educatrice e bambino.

 

Cos’è il legame di attaccamento

Il legame di attaccamento, come teorizzato da John Bowlby, si sviluppa grazie ai primi scambi tra figura di riferimento (principalmente la madre) ed il bambino. Il motore dell’attaccamento non è dato, secondo l’autore, come sosteneva la psicoanalisi, dal nutrimento, ovvero dalla ricerca di cibo e dalla spinta alla sopravvivenza, quanto piuttosto dalle emozioni e dal riconoscimento delle stesse.

Bowlby dimostrò come l’instaurarsi di un adeguato stile di attaccamento comportasse lo sviluppo di una personalità armoniosa, affermando che l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba (Bowlby, 1982).

Sulla scorta dei modelli operativi interni (Bowlby, 1969; 1988), sviluppatisi grazie ai propri legami affettivi, il genitore si rapporta al bambino in un determinato modo, rispondendo alle sue richieste di attenzione in modo costante/incostante. Da tali input il bambino interiorizza, a propria volta, specifici schemi del Sé, dell’altro e del rapporto Sé-Altro, sviluppando un tipo di attaccamento sicuro o insicuro.

Nello specifico, se il caregiver si mostra responsivo e disponibile emotivamente, il bambino lo cercherà con fiducia nelle situazioni di stress, sicuro di poter essere consolato; di contro, un genitore imprevedibile e disponibile in modo incostante porterà allo sviluppo di un attaccamento insicuro, in quanto non in grado di contenere e regolare le emozioni cui il piccolo si trova a far fronte.

Un’adeguata sintonizzazione emotiva porta allo sviluppo di apprendimenti positivi, basati su cure sintoniche ai bisogni del piccolo (Van Der Kolk, 2015).

Le modalità relazionali co-costruite dalla diade bambino-madre durante l’infanzia verranno, poi, potenzialmente estese a tutti i rapporti futuri.

Il rapporto di attaccamento educatrice-bambino

Quando un bambino fa il suo ingresso al nido (età: 3 mesi-3 anni) si inizia, generalmente, con una prima fase di inserimento, della durata variabile e dipendente da fattori quali età del bambino, temperamento della madre e del bambino, precedenti esperienze di separazione dalla figura di riferimento, durante la quale l’educatrice, gradualmente, si inserisce nel rapporto diadico.

Questa fase di ambientamento è molto delicata e di forte impatto emotivo per tutti i soggetti coinvolti.

Mentre il bambino inizia ad esplorare il nuovo ambiente, l’educatrice ha modo di fare domande al caregiver al fine di ottenere informazioni su cui innescare il processo di conoscenza col piccolo.

La presenza della madre diverrà sempre più evanescente, fino a giungere al momento del ‘saluto alla porta’, dove, all’arrivo, l’educatrice accoglie il bambino per fare l’ingresso in classe e la madre resta all’esterno. Ciò decreta il termine della fase di inserimento.

Questi primi momenti, molto delicati ed importanti, rappresentano un’opportunità di studio per entrambi, bambino ed educatrice, risultando propedeutici allo stabilirsi del rapporto di attaccamento: la condivisione delle routines permetterà lo sviluppo di uno scenario ‘prevedibile’, grazie allo scandirsi di momenti ripetibili nella quotidianità, quali l’accoglienza, il cambio e la pulizia personale, il pranzo, il riposino, la merenda (Galardani, 201; Catarsi e Baldini, 2008; Weikert, 2005).

L’assimilazione delle routines funge, dunque, da vettore spaziale-temporale, orientando il bambino e dando lui sicurezza e costanza nella quotidianità (Corsaro, 1979).

L’educatrice costituisce l’anello di congiunzione e di comunicazione centrale nel sistema triangolare madre-educatrice-bambino (Fig.1), dove ogni elemento influenza l’omeostasi del sistema di attaccamento.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Educatrice e bambini al nido: l'importanza di un attaccamento sicuro Fig. 1

Fig. 1 Sistema di attaccamento al nido

Gli adulti di riferimento svolgono un’importante funzione di scaffolding (Wood, Bruner, Ross, 1976) ovvero di sostegno, favorendo gli schemi di esplorazione e gioco del bambino. Ergo nell’ambiente nido l’educatrice diviene la bussola del bambino, cui rivolgersi nei momenti di conflitto, frustrazione, nonché condivisione delle emozioni positive.

Attaccamento sicuro educatrice-bambino 

All’arrivo nell’asilo nido il bambino si trova nel momento di massimo sviluppo dell’attaccamento: 8-25 mesi (Bolwlby, 1969).

Come dimostrato dagli studi di Howes, Rodning, Galuzzo e Myers (1998) la creazione di legami di attaccamento sicuro verso una o più educatrici è molto importante e costituisce la base per un sano sviluppo socio-emozionale e cognitivo del bambino, potendo, inoltre, compensare una relazione insicura con la madre. Ciò è stato ampiamente dimostrato in letteratura (Cassibba, 2009; Cassibba et al., 2000).

Il bambino invia costanti segnali sui propri bisogni ed il modo in cui essi vengono accolti dall’adulto lo porta a crearsi delle rappresentazioni interne su di sé e sull’altro, alimentando aspettative future. Rispondere in modo costante e coerente alle richieste del bambino conduce quest’ultimo a sviluppare fiducia nell’altro, rappresentato come individuo disponibile ed attento, e fiducia in sé, auto-rappresentato come soggetto degno di amore ed attenzioni.

La strategia idonea per le educatrici di asilo nido al fine di favorire un attaccamento sicuro è data dunque:

  • dall’interpretazione dei segnali inviati dai bambini;
  • da risposte costanti e coerenti a tali segnali.

L’educatrice deve mostrarsi disponibile, non solo fisicamente, ma soprattutto empaticamente, mantenendo il contatto oculare (a turno tra i vari bambini, ma sufficientemente lungo per ognuno), avvicinarsi a ciascuno, contenendo coloro che più ne necessitano.

È importante ed imprescindibile sintonizzarsi con i bisogni dei bambini, stimolando l’autonomia di ciascuno e sostenendo nel momento di difficoltà.

Strumento elettivo di cui l’educatrice deve fare buon uso è l’osservazione: per suo tramite riuscirà a tenere a mente il bambino, a pensarlo, cogliendo sfumature individuali e non cadendo in clichés.

Quando il piccolo percepirà l’educatrice come base sicura (Ainsworth et al., 1978; Bowlby, 1988) si sentirà libero e desideroso di esplorare l’ambiente, in grado di interagire con i pari ed acquisire nuove conoscenze (Bergin e Bergin, 2009), sperimentarsi e conoscersi, con la consapevolezza che, in caso di bisogno, avrà la sua ancora di salvezza sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato (Bowlby, 1988, p.10).

Attaccamento ed esplorazione possono, infatti, essere visti come sistemi complementari, laddove al disattivarsi dell’uno si attiva l’altro: è l’adulto che, ponendosi come base sicura, favorisce la regolazione dei due sistemi.

Ecco come l’educatrice si trasforma in copertina di Linus all’interno del nido: l’oggetto transizionale che il bambino porta con sé in sostituzione della propria madre per sentirsi non solo protetto, nell’ambiente nido è dato dalla presenza dell’educatrice di riferimento.

Non dimentichiamo, infatti, che nei primi 3 anni di vita si raggiungono le tappe di sviluppo più importanti legate al linguaggio, alla motricità, alla socialità, al controllo sfinterico e che dunque, il bambino co-costruisce la propria identità giorno dopo giorno.

D’altro canto le educatrici esperiscono dalla creazione di legami di attaccamento sicuro un maggior senso di efficacia educativa, contribuendo ad incrementare il senso di autostima ed abbassando il livello di stress, elevato in tale professione.

È dunque chiaro come il miglior modo per promuovere lo sviluppo del bambino nell’ambiente nido sia la creazione di legami di attaccamento sicuro.

 

Don’t feed the Trolls: dark side of online identity

When a provocative action has a function of fun, we witness the phenomenon of trolls: it is about people who deliberately try to create discussions or sow discord with negative comments, insults or provocations, trying to lengthen the time for discussion.

 

 Following the Digital Revolution, every internet user, even an inexperienced one, is creating an online identity, which shows the authenticity or inauthenticity of his way of being in offline life. The most important way in which one is inauthentic in the construction of online identity is the search for anonymity.

Anonymity, in fact, is characterized by the desire not to authenticate, to act in an invisible and sometimes provocative manner: this is one of a darkest side of web. When a provocative action has a function of fun, we witness the phenomenon of trolling: it is about people who deliberately try to create discussions or sow discord with negative comments, insults or provocations, trying to lengthen the time for discussion. In fact, acting like a troll is a game of false identity, performed without the consent of the other participants. The troll tries to be accepted as a legitimate user and intervenes as long as the other participants do not recognize the false identity or until the fun that the troll tries to act provocatively decreases. Online trolling is a practice of deceptive and destructive behavior in a social environment like the Internet, with no apparent instrumental purpose (Buckels, Trapnell, Paulhus, 2014). Trolls share many features of the classic Joker villain: a modern variant of the Trickster archetype of ancient folklore (Hyde, 1998). Just like the Joker, trolls act as chaos agents on the Net, taking advantage of emotional or crazy ‘hot-button issues’ in some way. If an unlucky person falls into their trap, the trolling intensifies for further, ruthless fun. This is why the novice Internet users are regularly warned with: ‘Don’t feed the trolls!’. But what can the willingness to create a troll identity depend on?

Shachaf and Hara (2010) have conducted interviews with the trolls of Wikipedia, finding topics such as boredom, attention research, revenge, pleasure, desire to cause damage to the community between their motivations expressed for trolling. In other research, Hardaker (2010) conducted a Content Analysis of Usenet posts that identified four main characteristics of trolling: aggression, deception, interruption and success. Therefore, neither the troll category nor the trolling action have a single fixed meaning. Each online tolling action can be presented as desirable or undesirable, depending on the purpose at the time of publication on the Internet. These actions also occur during online computer game sessions (Thacker & Grifths, 2012), online encyclopedias (Shachaf & Hara, 2010), online newspapers (Ruiz et al., 2011) and online petitions (Virkar, 2014). According to Ditrich and Sassenberg (2017), moreover, within the groups, Facebook, where not all members must necessarily adhere to the rules of the group itself, according to explicit or implicit rules, show deviant behavior.

According to a model based on the social identity approach regarding the responses to deviations of the rules in Facebook groups, the deviant members were perceived as a questioning of what the group represents, subverting the identity of the group itself. Following these perceptions of identity subversion, the members of the group, in turn, were motivated to check and exclude the ‘deviant’. It was noted that together with these behaviors, the participants usually ignore the contributions of those who have decided to exclude, not recalling them after reading the temporal sequence of the online group. This, however, does not seem to lead to the decadence of a social group, but promotes a ‘natural purification’ within the group itself, through the elimination of negative influences. Trolls within Facebook groups have been categorized as: grumpy fanatics, sadistic liars, illiterate and irrational bigots (Ditrich and Sassenberg, 2017).

But what happens when the expectations of truth placed in the communicated media act are not respected by the real profiles? On the contrary, what do the false profiles that have the aim of ‘trolling’ when they are ‘unmasked’ prove? From sentiment analysis conducted on 62 Facebook comments of real users and 54 comments and Facebook posts of fake profiles, a positivity emerges in both cases, which allows us to suppose the presence of a sense of pleasure and enjoyment both by the troll, who he thinks he has achieved his goal, and from real users who, instead, feel a sense of satisfaction in the ‘troll hunt’, in the pleasure of ‘unmasking the enemy’ (Papapicco & Quatera, 2019). Despite this pleasure in ‘troll hunting’, the creation of inauthentic online identities, such as those trolls, undermine the idea of ​​a ‘global village’ (McLuhan, 1964) that the Digital Revolution pursues.

Terapia Metacognitiva per pazienti sopravvissuti al cancro

Un recente studio pubblicato su Frontiers in Psychology (Fisher et al., 2019), ha indagato l’efficacia della Terapia Metacognitiva (MCT) su pazienti sopravvissuti al cancro che riportavano sintomi psicologici negativi in seguito alle cure, spesso particolarmente invasive, appena terminate.

 

In Inghilterra, negli ultimi 15 anni, vi è stato un incremento del 2% di pazienti affetti da cancro. Nonostante questi dati, la percentuale di sopravvissuti è pressoché raddoppiata in 40 anni (Cancer Research UK, 2017). Circa il 25% delle persone sopravvissute alla malattia, riportano in seguito alla fine delle cure sintomi ansiosi e depressivi (Hoffman et al., 2009), sintomi da stress-post traumatico (Swartzman et al., 2017) e una forte paura della ricomparsa del cancro (Simard & Savard, 2015).

Le terapie adottate per trattare pazienti sopravvissuti al cancro, attualmente, non si sono dimostrate sufficientemente efficaci (Faller et al., 2013), eccetto la Terapia Cognitivo-Comportamentale, che però, non si sofferma sui processi psicologici che stanno alla base della comorbilità dei sintomi solitamente presenti (Cook et al., 2015).

La Terapia Metacognitiva (MCT), derivata dalla teoria sulla psicopatologia di Wells e Matthews (1994), ovvero il Self-Regulatory Executive Function Model, offre un’alternativa alla CBT per il trattamento di pazienti sopravvissuti al cancro. Secondo questo modello, il disturbo psicologico viene mantenuto dalla cognitive-attentional syndrome (CAS), ovvero uno stile di pensiero perseverativo, ripetitivo e focalizzato su contenuti negativi e strategie di coping maladattive (Wells & Matthews, 1996).

Il presente studio (Fisher et al., 2019) si pone l’obiettivo di analizzare l’efficacia della MCT, misurata in tre differenti tempi (subito dopo il trattamento e in due follow-up a 3 e a 6 mesi), per pazienti con disturbi psicologici legati alla malattia della quale hanno sofferto. Il campione, composto da 20 soggetti, ha portato a termine l’Hospital Anxiety Depression Scale (HADS) e l’Impact of Events Scale-Revised (IES-R) per analizzare i sintomi relativi al trauma, la Fear of Cancer Recurrence Inventory (FCRI) e la Functional Assessment of Cancer Therapy-General (FACT-G) per l’impatto della malattia e la qualità della vita dopo le terapie ricevute e il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30) e il Cognitive Attentional Scale-1 (CAS-1) per misurare rispettivamente la presenza e la natura delle metacredenze e i componenti della CAS.

La MCT ha portato a riduzioni statisticamente significative della sintomatologia psicologica legata alla sopravvivenza al cancro, riduzioni mantenute in tutti e tre i tempi, fino al follow-up di 6 mesi. Nel campione analizzato, il 59% dei partecipanti era da considerarsi riabilitato sul piano dell’ansia e della depressione nella misurazione post-trattamento e il 52% nella misurazione di follow-up a 6 mesi. In conclusione, la MCT si è dimostrata in grado di eliminare la sintomatologia complessiva presente nel 75% dei pazienti analizzati (Fisher et al., 2019).

Nonostante i limiti del presente studio, come un campione statistico ridotto e un limitata diversità etnica e culturale dei partecipanti, i risultati sono da considerarsi positivi e hanno dimostrato la potenzialità della MCT come metodo terapeutico per coloro che sono sopravvissuti al cancro ma riportano ancora sintomi psicologici negativi in seguito alle cure ricevute (Fisher et al., 2019).

 

L’azienda come sistema complesso

L’organizzazione e le sue componenti (gli individui, i gruppi, la società) sono sistemi aperti delimitati da un confine che separa l’interno dall’esterno e al contempo permette gli scambi reciproci. La funzione regolatrice che governa gli scambi tra diversi sistemi è la leadership, idealmente collocata lungo tutto il confine.

 

Leadership e organizzazione

Le organizzazioni lavorative hanno primariamente due funzioni: contribuiscono a creare la nostra identità individuale e ci permettono di vivere l’appartenenza di gruppo. Un presupposto chiave nelle ricerche del Tavistock Istitute of Human Relations di Londra è quello di organizzazione come sistema, che deriva dalla Teoria dei Sistemi Aperti di Von Bertalanffy (1950), applicando la biologia allo studio sociale.

L’organizzazione e le sue componenti (gli individui, i gruppi, la società) sono sistemi aperti delimitati da un confine che separa l’interno dall’esterno e al contempo permette gli scambi reciproci. Questo confine è come la membrana per la cellula, come la pelle per l’individuo. Esistono quindi dei confini permeabili che separano l’individuo dal gruppo, i gruppi tra loro e rispetto all’organizzazione nel suo insieme e l’organizzazione dalla società. La vita produttiva di un’organizzazione (il compito primario, la mission) può essere descritta come una sequenza di processi:

  • risorse che attraversano il confine organizzativo in entrata (input),
  • processi che trasformano le risorse in prodotti (conversione) che trasferiscono i prodotti all’esterno (outcome).

In questo senso la funzione regolatrice che governa gli scambi tra diversi sistemi è la leadership, idealmente collocata lungo tutto il confine. Il confine (boundary) è più vicino ad uno spazio di relazione, una frontiera più che ad una barriera protettiva. Possiamo immaginare il confine come una porta sufficientemente solida da proteggere il contenuto al suo interno, ma anche sufficientemente mobile da permettere apertura e scambi con l’ambiente esterno. I confini dei gruppi e delle diverse unità aziendali sono presidiati dalla leadership che ha il compito costantemente di rinegoziarli e regolarne la flessibilità

La leadership si riferisce al processo di gestione del potere. Sono numerosissime le teorie e le ricerche condotte su questo tema. È necessario creare delle mappe per orientarsi in questo concetto così poliedrico. Propongo di assumere qui una prospettiva che vede la leadership come attributo situazionale e funzionale:

  • Situazionale: ha spazio di azione nella sua organizzazione e missione.
  • Funzionale: più che una posizione è una funzione, al servizio, che gestisca abilità e conoscenze delle persone, non solo dare ordini e controllare.

Leadership ed emozioni

La visione definita razionalistica, anaffettiva, dell’organizzazione, che considera le emozioni come limiti di cui in nome dell’efficienza bisogna liberarsi, è nettamente superata dal riconoscimento del ruolo cruciale dei fattori emotivi nel plasmare le relazioni umane e quindi anche il lavoro. Le relazioni che gli individui instaurano tra loro in team e con l’organizzazione, di cui sono parte, sono regolate in parte dal compito primario dell’organizzazione (la mission, il core business), ma in parte sono anche influenzate profondamente dai processi informali delle dinamiche emotive più in ombra. Nel compito primario, in altre parole, sono impliciti finalità e significativi bisogni emotivi. Come accade nei gruppi anche nelle organizzazioni coesistono due dimensioni: la struttura, una dimensione materiale, oggettiva, economica (l’hardware), e la cultura (il software), percezioni, vissuti, norme e valori. Questi fattori determinano nel complesso l’atmosfera emotivo relazionale che si respira in un gruppo. L’attenzione alla comunicazione, alla cooperazione nei gruppi e alla qualità delle relazioni ha permesso di riconoscere quanto di emozionale ci sia nei processi organizzativi, solitamente descritti come razionali. Le stesse decisioni dei leader sono in parte guidate dalle sue emozioni e sensazioni. D’altra parte, il coinvolgimento nel lavoro è connesso alla cultura e alla valenza emotiva dei valori e della vision dell’organizzazione.

Lavorare ad ogni livello genera ansia, essere leader ne genera di più. Se non riusciamo a padroneggiare emozioni negative, troviamo delle soluzioni per difenderci da tali vissuti. Le difese sono per lo più meccanismi inconsci in certa misura indispensabili per la sopravvivenza degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni, ma se non esplicitate e contenute possono essere molto limitanti. Le difese organizzative non padroneggiate si rivelano anti-task, distolgono l’attenzione e compromettono il compito pur di allontanare ansia e disagio e quindi sono estremamente costose in termini economici e di tempo, per esempio, isolamento, abbandono del gruppo o del compito (burnout, malattie psicosomatiche, elevati turnover), resistenze al cambiamento (sabotaggio del compito, svalutazione), diffusione della responsabilità, ossessività e irrigidimento nei controlli nelle procedure. Questi processi possono generare sofferenza disagio nelle persone che lavorano all’interno e influiscono negativamente sul clima e sul compito primario la produttività dell’organizzazione.

Funzioni della Leadership

Due prospettive nell’organizzazione:

  • i membri che lavorano al suo interno (che ruolo gli è stato assegnato, che funzione hanno, che vantaggi e che rischi, che legami) i quali possono avere resistenze al cambiamento per i costi emotivi che questo comporta;
  • i manager che esercitano un ruolo direttivo primariamente orientato alla gestione dell’innovazione e del cambiamento.

Nella cultura italiana il clima organizzativo può essere più partecipativo o più autoritario, ma il concetto di leadership resta intrecciato con la figura del capo (headship) e con il concetto di comando, del dare ordini. Nella cultura anglosassone si è articolato meglio il concetto della followership. La costruzione di una followership implica creazione di presupposti formativi, responsabilità e autorità che permettano ai dipendenti di funzionare come supporto della leadership (Perini, Vera 2001). Spostamento dell’attenzione dalla figura del leader alla relazione che si instaura tra il leader e i suoi follower. La gestione del rapporto con il proprio leader implica tre modalità fondamentali: obbedire, sfidare e sostenere.

Una linea di ricerca approfondita dal modello psicoanalitico riguarda l’autorità e il potere: se il potere è un attributo della persona, l’autorità è un attributo del ruolo. In questo senso il leader ha autorità e potere in funzione di un determinato compito istituzionale.

Anton Obholzer,  Psicoanalista e Docente del Leadership Centre di INSEAD, ritiene che la forza della leadership dipenda dal tre punti:

  1. il conferimento dall’alto (dai superiori);
  2. la sanzione dal basso (riconoscimento da parte dei subordinati);
  3. l’autorizzazione dall’interno (autolegittimazione all’esercizio dell’autorità).

Soffermandoci sul sanzionamento dal basso, emerge la possibilità per i follower di esercitare una certa quota di autorità nel proprio ruolo, un personale contributo ai processi organizzativi.

Tra le conseguenze della nostra cultura che sovrainveste il ruolo del leader e non tiene adeguatamente conto del ruolo dei follower, c’è un leader sovraccarico di stress e responsabilità. D’altro canto i leader delegano difficilmente, anche quando proprio quella quota di autorità dei follower di cui si parlava porterebbe miglioramenti all’organizzazione. Perché il leader non delega?

Teme di perdere il potere e non tollera di dover stare per un certo tempo senza diretto controllo su tutti i processi. In questo sono rinforzati spesso dai collaboratori che prediligono un atteggiamento di dipendenza che li protegga da un ruolo più autonomo e quindi più esposto ad errori e rischi. È possibile invece creare spazi di riflessione per aumentare la governance e la funzione della delega.

Un passaggio importante prendendo spunto dalla cultura anglosassone è quello di promuovere, al posto della dipendenza, l’interdipendenza tra leader e follower e una maggiore consapevolezza.

Una recente teorizzazione propone quattro funzioni fondamentali di un leader efficace, orientato alla relazione e non al comando:

  1. Stretching: sfidare le abitudini del team e assumere rischi orientati a promuovere il cambiamento e raggiungere i risultati. Funzione più difficile che espone il leader ad ambivalenze e grandi costi emotivi (ansia, stress o solitudine o colpa).
  2. Empowering: potenziare promuovere le risorse e lo sviluppo delle persone. Questa funzione presenta difficoltà proprio per le resistenze alla delega alimentate reciprocamente da leader e follower.
  3. Coaching: allenare, formare, riconoscere il potenziale individuale e aiutarne l’espressione. Questa funzione è gratificante, ma non esente da rischi di cadere in meccanismi di controllo più che di autonomia. Gli individui inconsapevoli sono sempre un limite perché sono inaffidabili quale che sia il loro ruolo. D’altra parte rendere il team più consapevole delle proprie risorse, emozioni e competenze porta in sé maggiore autonomia di pensiero minore conformismo. Follower consapevoli richiedono maggiori competenze, anche emotive, del leader per essere gestiti.
  4. Sharing: condividere informazioni, conoscenze, risorse, promuovere la comunicazione efficace. Questa funzione appare come il vertice delle competenze emotive del leader: richiede di condividere il know how sul quale si fonda la percezione del potere individuale, implica di accettare critiche, di riconoscere i propri errori e di fare i conti con i propri vissuti.

Leadership e cambiamento

La gestione di un’organizzazione implica un continuo processo di cambiamento. Se da un lato il cambiamento è inevitabile e l’innovazione vitale per l’organizzazione, dall’altra genera ansia e resistenze sia a livello conscio che inconsapevole. Il cambiamento genera invidia, gelosia, rivalità e paure. Nel proporre un cambiamento è necessario fissare tempi, risorse e modalità di attuazione, tenendo conto anche dei processi non espliciti, delle fantasie e delle paure che governano i comportamenti. Il cambiamento viene presentato con entusiasmo come desiderabile e utile, talvolta indispensabile, spesso però negando i costi altrettanto inevitabili che ogni cambiamento ha. Riconoscendoli, dandogli espressione e non negandoli da costi si trasformano in consapevolezza e migliore gestione. Esempio del capro espiatorio che si fa portavoce di resistenze presenti in forma latente nell’organizzazione. La posizione di chi si oppone (attacco-fuga di Bion) può diventare una risorsa se il leader la accoglie e la interpreta non solo come individuale, ma come possibile rappresentazione di dubbi, paure, resistenze e clima di gruppo.

Alcune buone pratiche del leader:

  • promuovere una cultura organizzativa che preveda l’espressione dei vissuti negativi, dia voce alle critiche e alle polemiche. Alcune imprese hanno introdotto l’advisory box una cassetta dei suggerimenti per raccogliere vissuti opinioni suggerimenti anonimi che nessuno ha il coraggio di portare direttamente;
  • promuovere l’apprendimento dagli errori senza negarli e alimentare le iniziative;
  • prevedere l’invidia: le buone idee mettono sempre  in ombra qualcuno;
  • tollerare l’ambivalenza (per esempio tra invidia ed emulazione) e il bisogno di dipendere dei follower;
  • gestire i conflitti: l’esperienza di far parte di un gruppo di lavoro promuove la collaborazione e l’appartenenza, ma anche l’incontro tra diversità. Proprio la diversità, che è un elemento fondante della strutturazione e della creatività del gruppo e dell’organizzazione, nello stesso tempo genera conflitto.

Manager e altri professionisti che sviluppano competenze emotive riconoscono più velocemente i conflitti emergenti nel team, le vulnerabilità da gestire, i processi decisionali, le relazioni informali che generano opportunità. Il leader consapevole promuove la creatività e l’innovazione nelle organizzazioni che cambiano.

 

La scienza del sesso e dell’olfatto. Una breve panoramica dell’olfattophilia

L’olfattophilia (nota anche come osmolagnia, osfresiolagnia e ozolagnia) è una paraphilia, in cui una persona prova eccitazione e piacere sessuale attraverso gli odori. La paraphilia (termine greco formato da para ‘oltre’ e filia ‘affinità’) indica l’insieme di condotte o comportamenti sessuali bizzarri verso un oggetto percepito attraverso i sistemi sensoriali.

Articolo basato sulla ricerca del Professore Mark Griffiths, che ci ha concesso gentilmente il permesso di adattare e tradurre il testo al contesto italiano ed ha collaborato nella stesura di questo articolo.

 

Il legame tra i canali olfattivi e la stimolazione erotica sessuale non è certamente una novità: lo dimostra l’ampia letteratura scientifica, così come le evidenze a livello etologico. Alcuni mammiferi, come i topi, durante la fase di accoppiamento producono una particolare secrezione ormonale, che sprigiona degli odori per attirare i possibili partner.

Anche il focus erotico dell’uomo è molto probabilmente associato agli odori corporei di un partner sessuale, compresi gli odori dei genitali. Nel 1999, Alan Hirsch e Jason Gruss hanno pubblicato nel Journal of Neurological and Orthopaedic Medicine and Surgery uno dei primi articoli che esaminavano la correlazione tra il sesso e l’olfatto. Gli stessi autori spiegano come:

Storicamente, alcuni odori sono stati considerati afrodisiaci, argomento di molto folklore e pseudoscienza. Nei resti vulcanici di Pompei, i vasi di profumo erano conservati nelle camere progettate per le relazioni sessuali. Gli antichi egizi si lavavano con olii essenziali; i sumeri hanno sedotto le loro donne con i profumi. Una relazione tra odore e attrazione sessuale è enfatizzata nei rituali tradizionali cinesi e praticamente tutte le culture hanno usato il profumo nei loro riti matrimoniali. Nella mitologia, i petali di rosa simboleggiavano il profumo e la parola deflowering descrive l’atto iniziale del sesso. La letteratura, abbonda di riferimenti alle dimensioni nasali come simbolici delle dimensioni falliche, come nel famoso dramma Cyrano De Bergerac. Fliess, nel suo concetto di naso fallico, descriveva formalmente un legame sottostante tra naso e fallo. La psicologia junghiana collega anche odori e sesso.

Non passa inosservato come nella società contemporanea, i profumi e le fragranze per le donne e le colonie per gli uomini sono quasi sempre commercializzati in modo ‘aggressive’ o sensuale, dove gli sponsor sono persone di successo, carismatiche, che rappresentano uno stereotipo di sensualità. Il mercato di produzione dei profumi è un business miliardario di euro, dove le icone pubblicitarie sembrano suggerire come un profumo possa regalare successo sociale e sessuale. Infatti Hirsch e Gruss riferiscono come:

(…) L’anatomia sostiene il legame tra odori e sesso: l’area del cervello attraverso la quale sperimentiamo gli odori, il lobo olfattivo, fa parte del sistema limbico (il cervello emotivo), l’area attraverso la quale derivano pensieri e desideri sessuali. Brill (1932) suggerisce che le persone si baciano per avvicinarsi il naso, in modo che possano annusarsi (il bacio eschimese). O forse si baciano per mettere insieme la bocca in modo che possano assaggiarsi l’un l’altro poiché la maggior parte di ciò che chiamiamo gusto dipende dall’olfatto.

Una delle più recenti aree di ricerca che ha per oggetto la correlazione olfatto-eccitazione sessuale riguarda i feromoni e il ruolo che giocano nell’attivazione dell’eccitazione. È noto che queste sostanze chimiche, prodotte e rilasciate da un animale (in particolare dai mammiferi e dagli insetti) nell’ambiente che abita, ha un’influenza sul comportamento o sulla fisiologia di altri della sua specie, così come esposto in diversi articoli firmati dal Prof. Mark Griffiths e dal Dr. Mark Sergeant. I feromoni giocano un ruolo sessuale importante in tutto il regno animale, ma la capacità dell’uomo di secernere queste sostanze chimiche è relativamente debole, per cui i suoi effetti sono plausibilmente molto sottili. Come notano Hirsch e Gruss:

All’interno del cervello umano, vicino alla parte superiore del naso c’è una caratteristica anatomica che ci dà motivo di credere che esistano i feromoni umani: l’organo vomeronasale. La sua funzione è sconosciuta, ma nei primati subumani, questa è l’area in cui i feromoni agiscono per aumentare le possibilità di procreazione. […] Quando eseguiamo un’azione più o meno faticosa, sudiamo attraverso le ghiandole endocrine. Ma quando siamo imbarazzati o eccitati sessualmente, sudiamo attraverso le ghiandole apocrine che rilasciano steroidi ad alta densità sotto le braccia e intorno ai genitali; il loro ruolo è sconosciuto. Nei primati subumani, le stesse ghiandole apocrine rilasciano feromoni.

Altre ricerche condotte dal Dr. Hirsch hanno dimostrato che il collegamento tra l’olfatto e la risposta sessuale è verosimile. In uno dei suoi studi è emerso che il 17% dei suoi pazienti con deficit olfattivi ha sviluppato una qualche disfunzione sessuale.

Nel 1999, uno studio di Hirsch e Gruss ha esaminato, in un campione di 31 partecipanti maschi americani (in un range di età compreso tra i 18 e i 60 anni), gli effetti che 30 odori diversi esercitavano sull’eccitazione sessuale maschile. I partecipanti all’esperimento sono stati sottoposti a vari test olfattivi e la loro eccitazione sessuale è stata misurata sperimentalmente attraverso l’uso di un pletismografo e valutata sulla base degli indici di misurazione del flusso sanguigno del pene. I test comprendevano 24 odorizzanti diversi oltre a 6 odorizzanti combinati. È emerso che tutti e 30 gli odori hanno prodotto un aumento del flusso sanguigno del pene. Gli autori hanno riferito che:

L’odore combinato di lavanda e torta di zucca ha avuto il massimo effetto, aumentando il flusso sanguigno del pene del 40%. Il secondo, in termini di efficacia, è stata la combinazione di liquirizia nera e ciambella, che ha aumentato il flusso mediano del sangue del pene del 31,5%. Gli odori combinati di torta di zucca e ciambella erano terzi, con un aumento del 20%. Il meno stimolante era il mirtillo rosso, che aumentava il flusso sanguigno del pene del 2%. […] Gli uomini con olfatto al di sotto del normale non differivano significativamente da quelli con olfatto normale, né i fumatori differivano significativamente dai non fumatori.

I risultati hanno supportato l’ipotesi che alcuni odori sarebbero responsabili dell’attivazione dell’eccitazione sessuale, così i due ricercatori hanno ipotizzato una serie di ragioni per cui questo accade:

Gli odori potrebbero indurre una risposta condizionata alla Pavloviana che ricorda ai soggetti i loro partner sessuali o i loro cibi preferiti. Tra le persone cresciute negli Stati Uniti, gli odori dei prodotti da forno sono più adatti a indurre uno stato chiamato ‘richiamo evocato olfattivo’. Probabilmente, gli odori – nel presente studio – hanno evocato un richiamo nostalgico con uno stato d’animo positivo, che ha influenzato il flusso sanguigno del pene. […] Oppure gli odori potrebbero semplicemente essere rilassanti. In altri studi, la lavanda è stata associata a sensazioni di rilassamento. Un’altra possibilità è che gli odori possono agire neurofisiologicamente […] Non possiamo escludere un effetto parasimpatico generalizzato, che aumenta il flusso sanguigno del pene […] Nel nostro esperimento, gli odori specifici che determinavano un aumento del flusso sanguigno del pene erano principalmente gli odori alimentari […]. Ciò supporta l’assioma secondo cui la via per il cuore di un uomo (e l’affetto sessuale) passa attraverso il suo stomaco […] Non possiamo certamente considerare gli odori proposti nel nostro esperimento come feromoni umani, quindi crediamo che abbiano agito attraverso percorsi diversi dai feromoni.

Poco dopo, Hirsch e colleghi hanno ripetuto lo stesso studio sulle femmine, misurando e valutando l’aumento del flusso sanguigno vaginale in relazione alla somministrazione di determinati stimoli olfattivi. I ricercatori hanno riscontrato effetti simili a quelli riportati nell’International Journal of Aromatherapy. Dai risultati è emerso che i maggiori aumenti del flusso sanguigno vaginale si registravano a seguito dei seguenti odori: caramelle e cetrioli (13%), torta di zucca e lavanda (11%) e cioccolato (4%).

Si fa presente che entrambi gli studi presentano dei chiari limiti, primi fra tutti le piccole dimensioni dei campioni di riferimento, gli odori selezionati dai ricercatori e il flusso sanguigno come unica misura di eccitazione. Gli odori che eccitano sessualmente possono essere molto specifici e, in alcuni casi, strani e/o bizzarri come, per esempio, l’emissione di gas intestinali (flatulenza). In un numero di Archives of Sexual Behavior del 2013, il Prof. Mark Griffiths ha pubblicato il primo caso di studio al mondo sull’eproctofilia (eccitazione sessuale da flatulenza). Griffiths si è imbattuto in prove aneddotiche di altri strani odori che attivano sessualmente l’individuo, come ha esposto in un articolo su 15 Feticci sorprendenti e strani, elencando al numero 11 il deodorante per ambienti:

Un utente di Reddit riferisce di essere stato eccitato, da adolescente, ogni volta che entrava in una stanza che utilizzava un marchio specifico e un profumo di deodorante per ambienti! Dopo alcune domande, si sospetta che il profumo si sia associato con la prima volta che ha guardato un porno. Altri utenti segnalano di essere stati accesi sessualmente da profumi o campioni degli stessi che sono stati inclusi nella rivista ‘Playboy’ (Archives of Sexual Behavior, 2013, pp. 1383–1386).

Esistono diverse parafilie accomunate dall’uso dell’olfatto, come l’antholagnia o meglio l’eccitazione che nasce dalla vista e/o dall’odore dei fiori. L’antholagnia, non presenta delle basi empiriche dimostrabili, eppure come descritto nel sito Web Kinkly :

Le persone con antholagnia in genere preferiscono determinati fiori, così come la maggior parte delle persone è eccitata sessualmente da determinati tipi di corpo. È probabile che si eccitino mentre visitano un negozio di fiori, un vivaio floreale o un giardino botanico. Possono anche cercare immagini di fiori online per gratificazione sessuale. La maggior parte delle persone con antholagnia impara a gestire le proprie condizioni e godersi una vita sessuale sana. Possono persino usare il profumo dei fiori durante i preliminari o i rapporti. Tuttavia, se l’antholagnia inizia a interferire con la vita professionale o personale di una persona, potrebbe voler cercare un trattamento riparatore. Il trattamento per l’antholagnia può consistere in terapie cognitive o comportamentali, psicoanalisi o ipnosi.

Un altro articolo del 2013 (Profumi che scatenano l’eccitazione sessuale) firmato da Susan Bratton, sintetizza le ricerche recenti (sebbene sia basato per la maggior parte sul libro di Daniel Amen Sex On The Brain del 2007). Più specificamente, l’articolo nota che:

La ricerca attuale suggerisce anche che il profumo del muschio ricorda da vicino quello del testosterone, l’ormone che migliora la libido sana in entrambi i sessi. Negli studi sui profumi, presso la Toho University in Giappone, è stato scoperto che gli oli essenziali floreali a base di erbe hanno un impatto sull’eccitazione sessuale nel sistema nervoso. Per stimolare il sistema nervoso simpatico si usa il gelsomino, il yang-ylang, la rosa, il patchouli, la menta piperita, i chiodi di garofano e i bois de rose. Per rilassare il sistema nervoso parasimpatico si utilizza il legno di sandalo, la marjoram, il limone, la camomilla o il bergamotto […]. Molti di questi profumi si trovano comunemente anche nel tè come menta piperita e camomilla. Molte candele sono profumate di rosa, gelsomino, patchouli, legno di sandalo e bergamotto.

Ci sono molti siti web che annoverano vari profumi, responsabili dell’eccitazione sessuale, e molti di questi sembrano basarsi sulla ricerca condotta dal Dr. Hirsch e dai suoi colleghi. La ricerca sul sesso, sull’olfatto e sull’olfattophilia sembra essere un’area in crescita, e si spera che lo scritto del Prof. Mark Griffiths, ed il presente adattamento, abbiano un piccolo ruolo nello stimolare la ricerca nell’area.

 

Pensieri brutti e cattivi. Ossessioni tabù: come liberarsene (2019) di A. Bartoletti – Recensione del libro

Pensieri brutti e cattivi: un testo che, in maniera originale, affronta il tema di alcune forme di ossessioni e, in modo chiaro, leggero ed esaustivo, accompagna il lettore interessato al tema, e ancor di più chi ne soffre, a scoprire come alcuni meccanismi della nostra mente, possano portarci in inganno, sofferenza e patologia.

 

Ma quali pensieri brutti e cattivi?

Come è stato ampiamente messo in luce negli ultimi anni, il Disturbo Ossessivo Compulsivo comprende diverse forme e manifestazioni dello stesso e, all’interno di Pensieri brutti e cattivi, Alessandro Bartoletti distingue ossessioni perfette e pulite, che comprendono ossessioni di perfezione, pulizia, simmetria, lavaggio, ordine, controllo ed ossessioni brutte, e cattive, aventi a che fare con contenuti del pensiero inerenti a violenza, sesso, blasfemia, immoralità, pazzia, morte. E’ soprattutto a queste ultime che il testo si dedica. L’aspetto che l’autore sottolinea come elemento distintivo fra le prime e le seconde avrebbe a che fare con un esasperato senso etico e morale che verrebbe minato, minacciato, da un contenuto altamente trasgressivo, disturbante, non accettabile, disgustoso, trasformando quei pensieri in tabù di cui spesso chi ne soffre prova vergogna anche a parlarne ad un professionista e a chiedere aiuto.

Il testo offre un elenco di pensieri brutti e cattivi ed informazioni su come riconoscerli. Tra i più frequenti: la paura di uccidere, di suicidarsi, di investire qualcuno involontariamente, paura di riscoprirsi omosessuale, possessioni demoniache, ossessioni di perdere il controllo ed impazzire, ossessioni esistenziali sul senso della vita e sulla morte, dubitatori patologici… Per ognuna di queste viene offerta una descrizione dei meccanismi insiti negli stessi e di come farne un identikit.

Elementi che accomunano questi pensieri diventano coscienziosità e scrupolosità, paura, eccessivo senso di responsabilità circa anche i contenuti della propria mente e senso di colpa, che cercano di essere gestiti e/o annullati mediante compulsioni che possono essere sia comportamentali che mentali.

Altro aspetto su cui l’autore si sofferma sono le tentate soluzioni messe in atto da chi ne soffre e che in realtà peggiorano ed esasperano il problema: repressione paradossale, neutralizzazione mentale, mettersi alla prova, evitamenti e coinvolgimenti precauzionali, ricerca di rassicurazione, ripasso mentale, compulsare e controllare, questionare la realtà. Per ciascuna di esse Alessandro Bartoletti spiega come le stesse determinano la persistenza e l’esasperazione del disturbo ossessivo.

Strategie per liberarsi dalle ossessioni…

Essendo l’autore uno psicologo e psicoterapeuta, specialista in psicoterapia breve strategica, descrive all’interno del testo una serie di tecniche e strategie di tradizione strategica, come l’appuntamento con la peggiore fantasia, pensare volontariamente al pensiero ossessivo, il rituale forzato, lo studio proibito e tante altre descritte in modo chiaro, leggero e pratico per chi volesse mettersi alla prova, senza per questo volere essere un testo self-help che si sostituisce all’intervento del professionista. Non mancano nell’ultima parte del testo alcuni estratti di casi clinici che aiutano il lettore ad entrare nel vivo dell’approccio dell’autore.

Un testo che ritengo diventi molto utile per chi soffre di queste forme di ossessioni e che va alla ricerca di informazioni a sua colpa o discolpa, un testo che evidenzia aspetti che in maniera condivisa vengono sottolineati anche da altri approcci che affrontano in maniera efficace il DOC, come informare il paziente su come funziona la nostra mente, individuare quelle tentate soluzioni che in realtà peggiorano il problema, fare in modo che la persona si metta all’opera per riuscire a liberarsi non dal pensiero, ma dall’angosciante paura che lo stesso genera e che, come l’autore stesso sottolinea, non è solo accettare, ma avere il coraggio di andare a guardare, fantasticare, immaginare, rendere ancora più assurde le cose assurde che la mente ci propone.

 

Single per scelta o per scarsa abilità? Un nuovo studio indaga i moderatori del successo nella ricerca di un partner

In società in cui la scelta del partner non viene mediata dai familiari, ma è deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro sono estremamente rilevanti.

 

Tutti sanno che la coda riccamente colorata del pavone esiste per una sola ragione, quella di attrarre una compagna: questo perché il costo evolutivo di avere un attributo tanto ingombrante, testimonia l’eccellenza dell’esemplare che la porta, auspicabilmente spingendo le femmine a scegliere proprio quel corredo genetico per procreare. Allo stesso modo un esemplare di alto rango nel branco o con maggiori capacità nel procacciare cibo e risorse, risulteranno irresistibili agli occhi delle femmine della loro specie.

Negli uomini, invece, i rituali di accoppiamento hanno presto finito per distaccarsi dalla selezione basata su indici di fitness genetica ed infatti, già nelle protosocietà che andavano costituendosi agli albori della nostra specie, le donne venivano date in sposa dalla propria famiglia che sceglieva il candidato socialmente più prestigioso (Apostolou, 2007; 2010), oppure esse venivano conquistate alla stregua di un bottino di guerra, a seguito di violenti scontri tra uomini, come testimoniato da evidenze storiche ed archeologiche (Ghiglieri, 1999; Bowles, 2009; Puts, 2016). Ancora oggi, nell’analizzare 190 popolazioni nomadi contemporanee, si riscontra come in circa il 70% di esse i matrimoni combinati siano una pratica comune, mentre in solo il 4% delle società avvengono matrimoni a seguito della libera selezione del partner (Apostolou, 2007).

Tuttavia, nelle nostre società industrializzate, siamo abituati a pensare la scelta del partner come frutto di una nostra deliberata scelta, guidata da principi come la compatibilità caratteriale, il sentimento reciproco, la condivisione di valori e interessi: secondo la teoria del mismatch evolutivo, la velocità con la quale sono cambiate le nostre società non ha permesso al processo di selezione di eliminare quelle caratteristiche che rendono meno facile per un individuo il formare una coppia nel nuovo ambiente.

In un contesto in cui la scelta del partner non fosse deliberata e spontanea, caratteristiche come l’abilità nel flirtrare, la capacità di individuare un potenziale pretendente e la timidezza nell’approcciare l’altro, avrebbero avuto sicuramente un effetto meno deleterio di quanto non abbiano invece nella nostra società, dove ci si aspetta invece che gli individui selezionino il proprio partner senza la mediazione dei propri familiari, né tantomeno utilizzando la forza.

Apostolou, Papadopoulou, Christofi e Vrontis (2019) si sono preposti di indagare il ruolo di questi tre tratti nel predire il successo nell’accoppiamento (mating performance n.d.t), ipotizzando in particolare come essi possano rivestire un ruolo cruciale specialmente nella fase di formazione di una relazione intima, più che nel suo mantenimento.

Hanno raccolto i dati provenienti da 587 partecipanti (309 donne e 278 uomini) in differenti condizioni sentimentali: il 30% era infatti single, il 33% era sposato e il 3,6% divorziato, di questi il 41,7% riportava difficoltà in almeno una delle aree esaminate. I soggetti hanno poi risposto a diversi questionari circa la propria bravura percepita nell’intrattenere flirt con potenziali partner, della propria capacità di cogliere i segnali di interesse di altri e del proprio livello di timidezza. Da ultimo, gli autori hanno proposto una scala composta da cinque items per determinare il successo generale dell’individuo nell’iniziare e mantenere delle relazioni intime.

Dai risultati è emerso come il successo nell’accoppiamento risentisse maggiormente della scarsa capacità del soggetto di sostenere il flirt, seguita da una scarsa capacità di cogliere i segnali e in ultima battuta dalla timidezza dell’individuo. I ricercatori hanno poi condotto analisi di regressione logistica binomiale, creando delle variabili ad hoc distinguendo in due categorie, separando i soggetti più performanti sotto un particolare aspetto, da quelli meno performanti. La variabile dipendente era in questo caso la mating performance. I partecipanti con una bassa capacità di flirtare avevano una possibilità di 2,33 volte maggiore di avere scarsi risultati di successo nell’accoppiamento rispetto a quelli che si attribuivano una buona capacità nel farlo. Similarmente, i soggetti con scarsa capacità di cogliere i segnali provenienti da potenziali partner registravano una probabilità di 2,06 volte maggiore di avere scarso successo nelle relazioni intime rispetto ai soggetti che si riconoscevano una certa abilità nel percepire l’interesse degli altri. Da ultimo, i soggetti che riferivano maggiore timidezza avevano una possibilità di 1,62 volte superiore di trovarsi nella fascia inferiore di successo nella mating performance. Né il sesso, né l’età hanno dimostrato di avere interazioni significative sul successo nelle relazioni intime.

In futuro, altri studi si dovranno occupare di estendere i risultati ottenuti a contesti culturalmente differenti, così come a differenziare la performance nelle relazioni a lungo termine da quelle a breve termine, situazioni nelle quali è plausibile ipotizzare differenti pattern di influenza. Tuttavia, questo studio contribuisce ad ampliare il corpo di ricerche che sembra supportare la teoria del mismatch evolutivo e che rende ragione delle difficoltà riscontrate nelle società industrializzate nel formare e mantenere delle relazioni intime.

 

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