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Linguaggio emotivo e teoria della mente

Sembra che il linguaggio emotivo svolga un ruolo fondamentale durante l’infanzia nello sviluppo della consapevolezza del sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro-sociali ed empatici.

 

A partire dagli anni ’90 si è consolidato un filone di studio finalizzato ad ipotizzare un possibile legame tra linguaggio e teoria della mente, intesa come la capacità di un soggetto di rappresentarsi in termini mentali le azioni altrui, connotandole di peculiarità in grado di esperire ed interpretare stati d’animo e intenzionalità emotive. È stato ampiamente dimostrato che tale competenza si sviluppa a partire dai 4 anni, periodo evolutivo in cui i bambini risultano in grado di superare positivamente il test della “falsa credenza”, finalizzato ad identificare lo sviluppo della capacità metarappresentazionale negli esseri umani (Perner e Wimmer, 1983). Nello specifico, il bambino che raggiunge questa fase di sviluppo cognitivo è in grado di rappresentarsi la realtà sotto punti di vista diverso dal proprio, scostandosi così dall’egocentrismo che fino ad allora ne ha guidato i ragionamenti. A partire da questa fase evolutiva il bambino comprende che il mondo non è regolato solo dai suoi personali bisogni e desideri, ma anche dalle credenze, dai desideri, dalle conoscenze degli altri: un progresso raggiunto grazie anche all’acquisizione di abilità strumentali e cognitive tra le quali rientrano l’interazione sociale e le competenza linguistiche. Tutto ciò che riesce a stimolare l’espressione e l’interazione sociale è infatti in grado di sviluppare nel bambino la consapevolezza dell’esistenza fisica e psichica dell’altro, e questo risulta fortemente accentuato laddove il bambino ha maggiori possibilità di scambio verbale. A tal proposito è stato accertato che i bambini inseriti in famiglie più numerose, e dunque maggiormente esposti allo stimolo verbale, sono in grado di sviluppare un linguaggio più flessibile e un vocabolario lessicale più ampio e variegato rispetto ai meno esposti, sebbene le caratteristiche dello sviluppo linguistico possano subire modifiche individuali specifiche: sembra infatti che le competenze linguistiche del bambino risultino migliori con la madre che con i fratelli e gli altri componenti della famiglia, e che, in età prescolare, le relazioni verbali con i fratelli siano più frequenti rispetto a quelle tenute con gli amici (Lecce, Pagnin, 2007).

Studi di diversa natura hanno evidenziato un’alta correlazione tra competenze linguistiche e sviluppo della teoria della mente (TOM), sia in bambini prescolari (Jenkins e Astington, 1996) che scolarizzati (Astington e Pelletier, 2005). In particolare i bambini sottoposti al Test of Early Language Development, volto a misurare le capacità linguistiche recettive ed espressive, hanno rivelato una forte correlazione tra abilità linguistiche e performance nei compiti di falsa credenza (Jenkins e Astington, 1996). In particolare i suddetti studi hanno evidenziato come le abilità linguistiche, assieme all’ampiezza della famiglia e all’età dei soggetti, possano essere considerate un buon predittore dell’abilità di mentalizzazione; i bambini con maggiori competenze nel test del linguaggio hanno dunque mostrato maggiore capacità di comprensione delle falsa credenza e delle emozioni anche a distanza di uno o due anni, indipendentemente dall’età (Dunn et al., 1991) e dal background familiare (Cutting e Dunn, 1999). Non è tuttavia stato dimostrato il contrario: la performance che un bambino ottiene in un compito di falsa credenza non è in grado di predire le sue abilità linguistiche (Astington e Jenkins, 1999).

Il linguaggio capace di agevolare lo sviluppo della teoria della mente e delle emozioni sociali non corrisponde tuttavia a quello rigido e prescrittivo che spesso le madri tendono ad usare con i propri figli in vista dell’apprendimento verbale, ma soprattutto del linguaggio fornito di connotazioni emotive e flessioni psicologiche volte e condividere stati d’animo, impressioni e cognizioni.

È stato infatti dimostrato come i bambini che utilizzano un linguaggio con riferimenti a stati emotivi siano più in grado di comprendere gli stati mentali psicologici, di raffigurarseli e utilizzarli per predire le emozioni proprie e altrui (Bretherton e Beeghky, 1982).

In particolare, il riferimento al linguaggio emotivo (che cosa pensi, che cosa provi) e una maggiore importanza data alle esperienze emozionali del bambino risultano utili ai fini della comprensione di azioni e comportamenti, di memorie relative alle proprie esperienze e a quelle altrui, della disparità tra i propri ricordi, le proprie convinzioni e ciò che esiste nella realtà (Lecce e Pagnin, 2007). I bambini che parlano più degli stati d’animo propri o altrui sono maggiormente in grado di accedere all’universo degli stati psicologici, e dunque sono capaci di padroneggiare le emozioni più facilmente anche nel contesto sociale e ludico. In particolare i bambini più competenti nel linguaggio emotivo dimostrano anche maggiori abilità nello svolgimento del gioco immaginativo, del far finta, che si è rilevato altamente correlato con lo sviluppo della teoria della mente (Fonagy e Target, 2001).

Gli studi di Katherine Nelson (1973, cit. in Meins, 1999), hanno poi specificato l’esistenza di due modalità differenti attraverso cui può essere appreso il linguaggio: la modalità referenziale e quella espressiva, delle quali la prima si presenta maggiormente diretta al processo di denominazione degli oggetti e la seconda più connessa all’interazione sociale. Malgrado quest’ultima potrebbe sembrare maggiormente relazionata ad una più agevole acquisizione di scambio emotivo e sociale, è stato tuttavia rilevato come le caratteristiche proprie della modalità espressiva, quali l’imitazione, la mancanza di flessibilità e i bassi livelli di comprensibilità, la rendano meno foriera di sviluppo metacognitivo ed emozionale rispetto alla modalità referenziale, caratterizzata da aspetti maggiormente flessibili, esplorativi e interattivi. Si è infatti appurato che le madri con linguaggio espressivo utilizzano soprattutto frasi congelate, stereotipate e di tipo descrittivo, mentre le madri con linguaggio referenziale si mostrano maggiormente descrittive e flessibili nei loro approcci linguistici col bambino, tanto da sviluppare in lui capacità esplorative, creative, di apprendimento e di interazione (Meins, 1999). I bambini figli di madri con questo tipo di linguaggio mostrano anche un attaccamento sicuro, hanno maggiori competenza di problem solving, sviluppano abilità espressive nel gioco simbolico e possono contare su un più ampio vocabolario emotivo.

I bambini che parlano di emozioni sono anche i bambini che hanno maggiori interazioni sociali, dunque. E questo processo di condivisione ed esplicitazione delle emozioni, denominato socializzazione emotiva, dopo una funzionale acquisizione all’interno della diade materna e del nucleo familiare, può essere utilmente potenziato anche in ambito extra-familiare. A tal proposito gli studi sperimentali di Lecce e Pagnin (2007) hanno dimostrato come un’adeguata stimolazione del linguaggio emotivo dei bambini all’asilo di infanzia possa risultare un fattore di potenziamento dell’acquisizione di teoria della mente e capacità di regolazione emotiva inter ed intrapersonale. L’ipotesi delle studiose è volta a dimostrare l’importanza dell’esposizione al linguaggio emotivo e del suo potenziamento sin dalle prime fasi della vita, nella prospettiva di suscitare nel bambino competenze emotive quali la verbalizzazione delle emozioni, la regolazione delle stesse e la mentalizzazione.

Al fine di dimostrare l’ipotesi è stato allestito un setting sperimentale all’interno di un asilo-nido, dove, con l’aiuto delle educatrici, bambini al di sotto dei 3 anni sono stati sottoposti alla lettura di otto storie emozionanti i cui i protagonisti (due conigli chiamati Ciro e Beba) sperimentavano di volta in volta emozioni quali paura, rabbia, felicità, tristezza: al termine della storia le emozioni vissute dai coniglietti e dai bambini sono state rese oggetto di discussione con le insegnanti.

I testi delle storie erano caratterizzati dalla presenza di un lessico psicologico più accentuato rispetto a quelli solitamente utilizzati per i bambini in quella fascia di età. Nel contempo le educatrici hanno partecipato ad incontri di acquisizione e aggiornamento circa l’importanza della socializzazione e dell’esperienza emotiva, mentre i bambini sono stati sollecitati con domande stimolo finalizzate alla discussione emotiva durante incontri a cadenza giornaliera nell’arco di due mesi. L’efficacia dell’intervento è stata documentata a mezzo di varie fonti: le educatrici hanno testimoniato come al termine del trattamento i bambini siano risultati più pronti alla comprensione emotiva propria e dell’altro, maggiormente competenti nella produzione lessicale emotiva e nella prestazione di aiuto e conforto ai compagni. Competenze di cui i genitori hanno testimoniato la generalizzazione anche in ambito domestico e familiare, dove i bambini si sono mostrati maggiormente inclini a comportamenti di altruismo, comprensione, socializzazione.

L’esperimento ha confermato dunque l’ipotesi di partenza, volta a dimostrare come un adeguato potenziamento del linguaggio emotivo sin dalla prima infanzia contribuisca allo sviluppo della consapevolezza del Sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro sociali ed empatici dalla stessa ispirati (Lecce e Pagnin, 2007).

 

Giuliano Macca: ritratto di un’epoca

L’artista incarna la psicologia inconscia dell’epoca in cui vive, reagendo al tema psicologico cruciale con cui l’uomo si sta confrontando in quel dato periodo storico. Giuliano Macca, con le sue opere, rispecchia e quasi urla ferocemente le gioie e i dolori dei nostri tempi.

 

Si dice che ogni artista abbia sempre incarnato l’Anima del suo tempo.

Vi è un bellissimo paragrafo nell’epilogo de La Guarigione del Sé di Heinz Kohut, L’anticipazione della psicologia del Sé da parte dell’artista, in cui l’autore esprime proprio questo concetto. L’artista focalizza la psicologia inconscia della sua epoca, reagisce al tema psicologico cruciale con cui l’uomo si confronta in un dato periodo, richiama al compito psicologico dominante. L’artista agisce, per così dire, per procura della sua generazione: non solo della popolazione generale, ma anche dei ricercatori scientifici della scena sociopsicologica.

L’arte, che ai tempi di Freud incarnava i vissuti dell’Uomo Colpevole, in balia di libido sessuale e istinto di morte, si scomponeva e si scindeva ai tempi di Kohut con il cubismo, l’espressionismo astratto, con Picasso, Pollock, Kandinskij, che hanno segnato il passaggio a una diversa prospettiva e a un completo nuovo paradigma. Nasce l’uomo post-moderno.

Viviamo in un’epoca impregnata di narcisismo, inteso come l’estrema lotta del proprio sé per emergere combattendo contro le vessazioni della società e del tempo, disintegrato nelle pulsioni feroci, quel Sé nucleare disperso nell’inconscio che in un istante affiora e illumina il vuoto che lo circonda, fragile, costantemente a rischio frammentazione, ma impellente: deve esserci, rinascere, deve lasciare traccia. E in questo caos in cui emotività e società si mischiano, emerge un giovane artista, siciliano, classe ‘88: Giuliano Macca.

Cuori di Cristallo, la sua ultima mostra. Stradismo il movimento da lui creato, “da strada intesa come vita cruda”. Se c’è qualcuno che rispecchia e urla quasi ferocemente le gioie e i dolori dei nostri tempi, Kohut probabilmente avrebbe scelto lui.

Arte contemporanea che ritorna al figurativo, al volto, agli occhi, che esprimono il bisogno di essere visti, che a volte scompaiono per poi ricomparire dove nessuno avrebbe pensato. Volti frammentati, scomposti, presi forse nell’attimo in cui la vitalità nascosta dai colori scuri e mortiferi brilla di luce propria, mentre compiono un movimento che li definisce, vivi, senzienti. Nella quasi totale mancanza di speranza e certezza, i Millenials non possono permettersi di perdere completamente la forma, hanno bisogno di un aggancio, di qualcosa di definito e definibile. Di un volto, degli occhi. Volti, occhi, figure, che devono farsi vedere, che intasano, anche spasmodicamente, i social. L’artista condivide questa motivazione con i suoi coetanei, sebbene si auguri un ritorno ai volti reali, al romanticismo della strada nel mondo della supremazia digitale. Ed è così che appare: taglio moderno, jeans strappati, bellissime camicie vintage, gli occhi di chi si è perso e ritrovato in notti brave e lunghissime, giovane tra i giovani.

Arte che diventa necessaria a se stessa, il bisogno di creare e di esprimersi si manifesta nell’utilizzo di pezzetti di carta e bic, persino banconote, perché l’arte è inarrestabile, illumina, e, come Macca stesso afferma, depura, pulisce.

E in questa rabbia assertiva di scarabocchi e pennellate rosse, eccola. Lei, la senza tempo, la Donna, la Grande Madre che accompagna l’umanità sin dalle origini. I pizzi, le acconciature, gli sguardi timorosi o penetranti, quasi ottocenteschi, richiamano una purezza non perduta, ma nascosta nella donna di oggi. Una punta di desiderio in quegli occhi, una posa lasciva, esprimono ancora la potente sensualità.

E infine gli abbracci, l’uomo rappresentato quasi sempre di spalle o semicoperto, indefinito, lasciando il posto a colei che richiama la perfezione dell’epoca classica, passando per gli anni dell’eros freudiano e di Klimt, Schiele, che incarna la balena di Giona junghiana pronta a divorare allegoricamente e scenicamente l’uomo, e infine il sé frammentato, un cuore di cristallo, in costante tensione verso l’ideale kohutiano.

Di seguito alcune opere dell’artista:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tratti di personalità della triade oscura e aggressività in adolescenti e giovani adulti

La presenza di tratti della triade oscura in adolescenza, periodo di crisi e cambiamenti, risulta un indicatore di un aumento dei livelli di aggressività correlata al comportamento deviante.

 

Il comportamento deviante di adolescenti e giovani adulti è un argomento di grande interesse e responsabilità sociale. La ricerca in questo settore ha il ruolo di chiarire i fattori che determinano, facilitano e mantengono il comportamento criminale e quelli che contribuiscono alla sua diminuzione. La ricerca sta facendo passi avanti nell’identificare i fattori di rischio per lo sviluppo del comportamento antisociale e, di conseguenza, proporre interventi di prevenzione mirati ed efficaci al fine di ridurre la criminalità e i costi derivanti.

Il presente studio mira ad identificare i fattori interni che possono prevedere qualsiasi comportamento deviante negli adolescenti e nei giovani, analizzando il ruolo predittivo dei tratti accentuati della personalità nel manifestare un comportamento aggressivo.

Sebbene le cause della devianza siano diverse, i predittori comportamentali più forti del crimine sono l’aggressività e il comportamento antisociale. L’aggressività può presentarsi in forma verbale, fisica e sociale (comportamenti non violenti orientati alla distruzione delle relazioni sociali). Studi recenti hanno osservato che i maschi sono più inclini all’aggressione fisica, le femmine a quella sociale, mentre le differenze di genere per l’aggressione verbale non sono significative (Cairns et al., 1989; Farrell et al., 2005). Sulla base di questi risultati la prima ipotesi dell’attuale studio è:

  • Ci sono differenze di genere nell’aggressività degli adolescenti. Essa è declinata in ipotesi secondarie:
    • I ragazzi hanno un livello più alto di aggressività fisica rispetto alle ragazze.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di aggressività verbale rispetto ai ragazzi.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di ostilità rispetto ai ragazzi.
    • Le ragazze hanno un livello più alto di rabbia rispetto ai ragazzi.

Alcuni tipi di personalità socialmente avversi (Kowalski, 2001), hanno attirato molti ricercatori. Questi sono il narcisismo, il machiavellismo e la psicopatia che insieme formano la cosiddetta triade oscura. Questi tratti di personalità condividono alcune caratteristiche come egocentrismo e manipolazione, ma si differenziano anche tra loro. Gli elementi distintivi del machiavellismo sono mancanza di empatia, emozione, affettività e pianificazione strategica; il narcisismo è descrivibile come una battaglia tra fantasie grandiose e insicurezza latente. Le azioni dei narcisisti sono volte al rafforzamento dell’ego e alimentano i comportamenti autodistruttivi (Morf e Rhodewalt, 2001). La psicopatia è caratterizzata da mancanza di affetto, bassa empatia, assenza di autocontrollo, ricerca di sensazioni estreme e comportamenti antisociali. Gli individui psicopatici sono spesso senza scrupoli, sono calmi in situazioni difficili e hanno fiducia in sé stessi. A differenza dei machiavellici, gli psicopatici mostrano comportamenti distruttivi per sé e gli altri. La presenza di tratti della triade oscura in adolescenza, periodo di crisi e cambiamenti, risulta un indicatore di un aumento dei livelli di aggressività correlata al comportamento deviante. Secondo la letteratura recente, si presume che la psicopatia adolescenziale dovrebbe manifestarsi allo stesso modo degli adulti e, seguita dal machiavellismo, risulta essere il tratto più ‘oscuro’ che conduce a comportamenti violenti. Per quanto riguarda il narcisismo, esso sembra essere significativamente correlato con i comportamenti a rischio. Sulla base di ciò, la seconda e la terza ipotesi dell’attuale studio sono:

  • I tratti di personalità della triade oscura sono positivamente associati a comportamenti aggressivi.
  • L’età è un moderatore nelle relazioni tra i tratti di personalità oscura e il comportamento aggressivo.

Il campione finale comprendeva 134 soggetti tra i 15 e i 28 anni (34 maschi e 79 femmine).

Lo strumento utilizzato per misurare l’aggressività è il The Aggression Questionnaire (BPAQ; Buss & Perry, 1992), il quale contiene 29 items suddivisi in quattro sottoscale: aggressività fisica, aggressività verbale, rabbia e ostilità. I tratti della personalità oscura sono stati misurati usando lo Short Dark Triad (SD-3; Paulhus & Williams, 2002), composto da 27 items valutanti i livelli di narcisismo, machiavellismo e psicopatia su cui esprimere accordo o disaccordo.

Dai risultati emergono differenze di genere statisticamente significative nelle forme di aggressione: l’aggressività fisica è più evidente nei maschi, la rabbia e l’ostilità sono più pronunciate nelle femmine; l’aggressività verbale non mostra significative differenze. Questi dati confermano la prima ipotesi. Per dimostrarla, gli autori sono partiti dall’idea che gli uomini siano attivati ​​più facilmente dagli stimoli emotivi con potenziale aggressivo e abbiano maggiori difficoltà nella regolazione emotiva rispetto alle donne. I risultati dello studio hanno mostrato che in contesti emotivi con elevato grado di attivazione dell’aggressività le differenze di genere sono relativamente basse, mentre in contesti emotivi con basso o medio livello di attivazione dell’aggressività le differenze di genere sono elevate a favore degli uomini.

In relazione ai tre tratti della personalità oscura, solo la psicopatia è positivamente associata all’aggressività fisica, verbale e alla rabbia. L’ostilità, invece, è associata positivamente al machiavellismo e negativamente al narcisismo. Anche la seconda ipotesi dunque è confermata. Questi risultati mostrano che gli adolescenti che esprimono il piacere di fare del male e che non hanno empatia sono più inclini all’aggressività fisica e verbale e hanno un livello inferiore di autocontrollo quando devono regolare i loro comportamenti ed emozioni, manifestando livelli più alti di rabbia. Per verificare la terza ipotesi è stata condotta un’analisi di moderazione da cui si evince che l’età modera parzialmente la relazione tra narcisismo e aggressività fisica (maggiore è l’età, crescente è l’effetto sull’aggressività fisica) e tra machiavellismo e aggressività fisica (minore è l’età più forte è l’effetto del machiavellismo sull’aggressività fisica). Sulla base di ciò, la terza ipotesi è confermata tranne che per il tratto della psicopatia. Ciò può essere giustificato dalle esperienze di vita, in quanto adolescenti di età superiore ai 18 anni partecipano a contesti di vita sempre più complessi in cui il loro ego può essere facilmente messo in pericolo; oppure, nel caso del machiavellismo, le abilità di manipolazione migliorano e l’aggressività non diventa più necessaria come prima.

I limiti di questo studio sono: utilizzo di strumenti self-report, desiderabilità sociale, trasversalità dello studio che non può mostrare la causalità, campione con scarsa ampiezza e composto prevalentemente da donne. Un’implicazione per il futuro potrebbe essere incentivare gli interventi di prevenzione alla criminalità e i programmi psicoeducativi per aumentare la consapevolezza degli effetti degli atti aggressivi sugli altri e su sé stessi.

 

Il razzismo e la discriminazione legata all’appartenenza a un gruppo etnico: uno sguardo ai fenomeni e alle loro conseguenze

Il razzismo può essere definito in generale come insieme di comportamenti, pratiche, credenze e pregiudizi che sono alla base di ingiuste disuguaglianze tra gruppi nella società basate sull’etnia, sulla cultura o sulla religione.

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La discriminazione basata sull’etnia si verifica quando tali comportamenti e le pratiche ad essi associati sfociano in disuguaglianze e ingiustizie tra i diversi gruppi all’interno della stessa società (Berman e Paradies, 2010). Questa definizione comprende diverse forme di razzismo, come la violenza razziale, ma anche forme più sottili come l’esclusione basata sull’appartenenza ad un gruppo etnico. La discriminazione basata sull’etnia può verificarsi a livello individuale, interpersonale, sociale e della comunità.

I bambini e i giovani sono particolarmente vulnerabili gli effetti dannosi del razzismo (Sanders-Phillips, 2009; Williams e Mohammed, 2009). Il razzismo ha il potenziale per influenzare negativamente lo sviluppo dei bambini e giovani adulti, con conseguenze negative per la salute e il benessere, sia durante infanzia che nelle altri restanti fasi della vita (Priest, Paradies et al., 2013).

Ciò include esperienze dirette di razzismo in cui i bambini e i giovani stessi sono gli obiettivi, ma anche esperienze vicarie come ascoltare abusi o essere testimoni di atti di razzismo (Kelly, Becares et al., 2012; Priest, Paradies et al., 2012).

In assenza di razzismo, i benefici della diversità culturale producono una migliore produttività, creatività tra gli studenti e un migliore livello di benessere nelle scuole (Pagina 2007).

Soprattutto le scuole si configurano come luoghi chiave nella vita di bambini e giovani dove si sperimentano le varie dinamiche delle relazioni tra pari, oltre che essere essenziali per l’apprendimento accademico e le abilità sociali (Mansouri e Jenkins, 2010). Le scuole sono anche luoghi privilegiati in cui i bambini imparano a relazionarsi in contesti culturali di diversità e imparano a comprendere la propria identità e senso culturale di appartenenza in una società multiculturale (Walton, Priest et al., 2014). Inoltre le scuole svolgono un ruolo importante nella formazione degli atteggiamenti verso la diversità culturale e la comprensione del razzismo (Paluck e Green, 2009; Walton, Priest et al., 2013). Le scuole, come microcosmo della società, riflettono anche più ampi atteggiamenti sociali verso la diversità culturale e il razzismo. In quanto ambiente interculturale, molto spesso sono presenti tensioni e atteggiamenti di razzismo (Mansouri e Jenkins, 2010).

Durante il corso della vita, i bambini che sperimentano una qualche forma di razzismo e discriminazione diretta e/o indiretta,  possono sviluppare più tardi nel corso della vita problemi di salute fisica e/o mentale. Inoltre, le recenti ricerche suggeriscono che anche le esperienze indirette possono influenzare lo sviluppo del bambino arrecando problematiche relative alla salute (Kelly, Becares et al., 2012).

Globalmente, il razzismo sta ricevendo crescente attenzione come fattore importante per la salute psicofisica (Braveman, Egerter et al., 2011). E’ presente infatti un corpo crescente di prove epidemiologiche che mostrano forti associazioni tra razzismo subito e problemi di salute in età adulta riscontrati in gruppi di minoranze appartenenti a Paesi con economia meno sviluppata  (Brondolo, Brady et al., 2011, Brondolo, Hausmann et al., 2011). C’è anche un crescente numero di studi che considera gli effetti della discriminazione razziale sul bambino e sulla salute giovanile (Priest, Paradies et al., 2013). Questi studi mostrano una forte correlazione tra razzismo ed esiti negativi sulla salute mentale nell’età infantile e giovanile. Tra i disturbi presenti si riscontrano ansia, depressione, uso di sostanze e problemi comportamentali. Ulteriori studi stanno dimostrando come sia presente anche una correlazione tra razzismo subito e l’insorgenza di patologie relative alla salute fisica, come basse difese immunitarie o disturbi alimentari e obesità.

Uno studio condotto in Australia nel 2011 da LEAD Education (The Localities accepting and embracing diversity) ha esaminato le esperienze raccontate dal personale e dagli studenti di nove scuole nel distretto di Victoria (Priest, Perry et al., 2014).

I dati sono stati raccolti tramite questionari self-report. Le variabili esplorate hanno riguardato anche l’atteggiamento nei confronti della diversità culturale e gli esiti in termini di salute mentale degli studenti in relazione ad esperienze di razzismo.

I questionari indirizzati allo staff hanno indagato e raccolto, oltre ai dati anagrafici, la presenza o assenza di esperienze dirette di razzismo all’interno del contesto scolastico, testimonianze di episodi di razzismo anche nei confronti di genitori e la qualità delle relazioni interculturali all’interno della comunità scolastica.

I questionari indirizzati agli alunni hanno avuto lo scopo di indagare la presenza/assenza di atteggiamenti di eguaglianza nei confronti di tutti gli studenti, indipendentemente dall’etnia o dal background, di esperienze dirette o indirette di razzismo e presenza/assenza di sentimenti di tristezza e solitudine negli studenti.

I questionari sono stati distribuiti a 444 membri del personale scolastico (48,9% di donne con fascia di età media di 35-39 anni). La maggior parte del personale è nato in paesi di lingua inglese e il 13,4% (n = 59) è nato in paesi non di lingua inglese.

I questionari indirizzati agli studenti, hanno riguardato un campione di 264 studenti (54,2% femmine) con un’età media di 11,2 anni (DS = 2,2). Circa un terzo degli studenti (37,6%) era nato in paesi di lingua inglese come i loro genitori, il 29,3% era nato in paesi di lingua inglese ma aveva genitori nati in paesi esteri, il 25,1% di studenti era nato in paesi non anglofoni come i loro genitori e infine l’8 % non conosceva la provenienza di uno o entrambi i genitori.

I risultati hanno mostrato che mentre la maggior parte del personale ha riferito che la loro scuola promuoveva una cultura dell’uguaglianza, appartenenza e sostegno alla diversità, quasi la metà dello staff ha tuttavia riferito di aver visto o vissuto esperienze dove i loro studenti erano vittime di episodi di razzismo da parte di altri studenti.

Oltre un terzo (33,2%) degli studenti ha riportato esperienze dirette di razzismo a scuola e oltre un quinto (22,5%) ha sperimentato almeno una forma di razzismo diretto ogni giorno.

Esperienze di razzismo diretto e indiretto riferite dagli studenti sono state riscontrate come abbastanza comuni, con quasi la metà degli studenti nati in paesi non anglofoni che hanno sperimentato almeno una forma di razzismo diretto una o più volte al mese, in particolare la più comune sembrava essere verbale (gli veniva detto di non essere australiani). Quasi un quarto degli studenti ha dichiarato di avere subito almeno un tipo di razzismo diretto ogni giorno.

Le esperienze indirette di razzismo sono state più comuni delle esperienze dirette: due terzi degli studenti hanno riferito di aver visto o sentito altri studenti venire chiamati con nomi o presi in giro a causa del loro background culturale.

Inoltre i risultati hanno mostrato come gli studenti delle classi elementari abbiano subito un maggior numero di episodi di razzismo rispetto agli studenti delle scuole secondarie. Studenti nati in paesi stranieri con genitori non australiani hanno riportato un maggior numero di esperienze di razzismo diretto.

Esperienze di razzismo hanno avuto effetti dannosi sul benessere degli studenti come si evidenzia dalla presenza di sentimenti di solitudine e di tristezza in tutti i gruppi demografici.

La maggior parte degli studenti ha segnalato alti livelli di promozione di eguaglianza da parte dei loro insegnanti e da altri adulti presenti a scuola.

Solo la metà degli studenti ha riportato atteggiamenti positivi verso studenti appartenenti ad altri gruppi culturali.

Questi risultati sostengono fortemente la necessità di efficaci interventi scolastici per prevenire la discriminazione attraverso l’istituzione di cambiamenti organizzativi e politici. Questi risultati suggeriscono inoltre che gli interventi per promuovere una cultura dell’uguaglianza a scuola possano avere un impatto positivo sulle esperienze ed emozioni di solitudine per tutti gli studenti.

Il contrasto tra le esperienze degli studenti e le percezioni del personale potrebbe significare che alcuni membri del personale non siano pienamente consapevoli del comportamento discriminatorio che si svolge tra le mura scolastiche. Le esperienze di razzismo subite dagli studenti e gli effetti risultanti di queste esperienze potrebbero dover essere comunicate in modo più chiaro al personale scolastico al fine di creare un maggior supporto e favorire interventi più specifici a favore della promozione della diversità culturale.

Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto? Intervista al Dott. Nicola Petrocchi

Compassion Focused Therapy (CFT), un approccio molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che, in modo gentile e non giudicante, ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie o secondarie.

 

I pazienti hanno bisogno di sentire il cambiamento e non soltanto di capire razionalmente.

Nel presente articolo verrà condiviso quanto emerso da un’intervista fatta a Nicola Petrocchi (ndr: il video delll’intervista integrale è riportato a fine articolo), rappresentante italiano dell’approccio Compassion Focused Therapy (CFT) e verrà approfondito il rapporto che intercorre fra quest’ultimo e la dimensione emotiva del paziente.

La CFT è un approccio multimodale che incorpora i contributi provenienti da diversi ambiti della terapia cognitivo comportamentale, dalle neuroscienze, dalle teorie evoluzionistiche e dalle filosofie buddhiste. La CFT si affaccia sul panorama della terapia cognitivo comportamentale di terza generazione e prende piede in Inghilterra a partire dal 2005 grazie ai lavori di Paul Gilbert, diffusi anche in Italia grazie alla collaborazione diretta di Nicola Petrocchi con lo stesso Paul Gilbert.

Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto?

Nicola Petrocchi spiega come la Compassion Focused Therapy nasca proprio per rispondere a questa domanda.

Lo stesso Paul Gilbert, terapista cognitivo comportamentale, notò come alcuni suoi pazienti non riuscivano a cambiare il loro stato di sofferenza solo mediante le tradizionali tecniche di ristrutturazione cognitiva; i pazienti infatti riferivano, seppur diventati abili nell’individuare i propri errori di pensiero ed effettuare una ristrutturazione cognitiva in autonomia, di non “sentirli propri.”

Petrocchi riporta il racconto dello stesso P. Gilbert circa una sua paziente divenuta molto brava nell’applicare la ristrutturazione cognitiva, nel saper sviluppare pensieri alternativi e più funzionali, ma il limite consisteva nel “non sentire quei pensieri come veri”. Paul Gilbert, a tal proposito, sospettò che nella mente del paziente ci fosse qualcosa di “spento, off-line”, tale ragionamento comportò lo spostamento verso una domanda: quale emozione, sistema emotivo e motivazionale in questi pazienti, soprattutto molto autocritici, sembrerebbe essere spento? A tal proposito Paul Gilbert, in riferimento ai contributi delle neuroscienze, ha cominciato a spostare la sua attenzione sull’esistenza di tre sistemi di regolazione emotiva che, come ricorda Nicola Petrocchi, è utile spiegare in terapia anche ai nostri pazienti. Tre sistemi di regolazione emotiva con una loro specifica funzionalità: uno è il sistema di minaccia (threat system) che ci consentirebbe di sperimentare un insieme di emozioni come paura, rabbia e disgusto, emozioni che sarebbero protettive per l’essere umano, ossia si attiverebbero in risposta ad elementi di minaccia. Ma la cosa interessante nel lavoro di Paul Gilbert fu individuare ed approfondire il ruolo di altri due sistemi emotivi e motivazionali associati ad emozioni positive, ma con effetti e funzioni diverse: il sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive system) o sistema dopaminergico, energizzante, utile alla ricerca di risorse sociali, o di cibo e che offre al corpo un aumento di energia; ed infine un terzo sistema denominato sistema calmante (soothing system) di bassa attivazione che consente di sperimentare un senso di calma, di pace e di rilassamento, da non fraintendere con lo stato di addormentamento. Un simpatico esempio al quale Nicola Petrocchi fa riferimento per spiegare questo terzo sistema di regolazione emotivo ha a che fare con il comportamento osservabile nei gatti, i quali, una volta riusciti a sfuggire alle minacce, soddisfatti dal quantitativo di cibo, riescono ad entrare in uno stato di quiescenza in cui non dormono, ma attingono alle risorse del sistema parasimpatico.

Petrocchi sottolinea come in terapia è frequente individuare nei pazienti alti livelli di attivazione del sistema di minaccia, ma anche alti livelli legati al drive system con manifestazioni di orgoglio, superiorità, ricerca di stimoli; molti pazienti sembrano invece non riuscire a sperimentare le emozioni attinenti al sistema calmante, perché quelle sensazioni risulterebbero quasi essere associate ad una condizione di minaccia in quanto non familiari, o perché sperimentate come una perdita di controllo di se stessi o dell’ambiente e dunque una maggiore sensazione di vulnerabilità.

In tal senso, la CFT lavora proprio nell’allenare la persona a sviluppare maggiori abilità di percepire queste emozioni calmanti aumentando per l’appunto tale sistema emotivo e motivazionale, in quanto se non si riesce in questa impresa, sottolinea Nicola Petrocchi, il solo lavoro sulla dimensione cognitiva con i pazienti non consentirebbe il cambiamento. Una ricerca del 2008 di Paul Gilbert, ha dimostrato che avere alti livelli di emozioni positive di carattere energizzante non proteggerebbe quanto alti livelli del sistema calmante. L’attivazione del sistema calmante si accompagna inoltre a cambiamenti come aumento di ossitocina e maggiore variabilità interbattito, dunque cambiamenti anche fisiologici (più funzionali per l’organismo) ed oggettivamente riscontrabili.

Senso di colpa e vergogna: quale ruolo nella sofferenza del paziente e come lavora la CFT

Per rispondere a questa seconda domanda, Petrocchi ricorda che l’approccio della Compassion Focused Therapy, diversamente da molti altri approcci, affonda le sue origini nella psichiatria e psicologia evoluzionistica e molti fenomeni, oggetto di lavoro all’interno della CFT, si possono comprendere ricordando che noi siamo dei mammiferi, ma a differenza degli animali abbiamo subito un processo evolutivo, ed in tale processo abbiamo sviluppato un senso del sé con funzioni superiori che ci distinguono dagli animali, comprendente anche una serie di funzioni come ad esempio la capacità di andare avanti e indietro nel tempo, di prevedere eventi futuri, cosa che per l’appunto gli animali sembrerebbero non possedere. Nicola Petrocchi da tale premessa si ricollega al fatto che l’essere umano è un animale ipersociale, ovvero che alla pari di altri bisogni, sperimenterebbe il bisogno di essere visto bene dal resto del gruppo. Colpa e/o vergogna fungerebbero da segnali che il proprio senso di appartenenza sarebbe compromesso o minacciato.

Nella Compassion Focused Therapy, a differenza della tradizionale distinzione presente in letteratura tra colpa e vergogna, si va ad osservare da quale sistema motivazionale queste due emozioni scaturiscono.

La colpa sarebbe direttamente connessa al sistema motivazionale di accudimento e pertanto, spiega Nicola Petrocchi, al percepire di tale emozione sentiamo il bisogno di mettere in atto un comportamento riparativo; se invece proviamo vergogna, il sistema motivazionale sarebbe più connesso al rango, dove l’accudimento sarebbe poco rilevante e l’emozione molto più collegata a tutelare e riparare la propria immagine.

Dopo tale premessa, Nicola Perrocchi ci spiega come si lavora con il paziente in merito a queste due emozioni. Dalla psicoeducazione, dove si spiega ed approfondisce quanto esposto sopra, ad esercizi che allenino e sviluppino una mente compassionevole, capace di riconoscere la sofferenza in se stessi e negli altri ed essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza. Un esempio che Petrocchi cita durante l’intervista è l’esercizio della sedia compassionevole, dove il sé compassionevole possa parlare alla parte di sé che prova vergogna, che vorrebbe nascondersi, che sente di non essere degno di appartenere al gruppo, e dunque si aiuta il paziente ad uscire da uno stato di motivazione che lo incastra generando sofferenza, attivando una motivazione compassionevole che possa in qualche modo regolare le emozioni che in quel momento lo fanno soffrire, sviluppando la capacità di auto-calmarsi, sospendendo il giudizio e l’autocritica, allenandosi contemporaneamente anche ad aprirsi e ricevere la compassione che viene dagli altri.

Petrocchi inoltre, tiene a sottolineare che seppur la compassione deriverebbe dall’attivazione del sistema di accudimento, esisterebbero delle differenze sostanziali tra un sistema di accudimento e sistema calmante e compassionevole. Mentre il sistema di accudimento si attiverebbe con i propri familiari, la compassione ha molte più opportunità di attivarsi in modo più esteso anche a persone non facenti parte della nostra linea genetica.

Un sistema motivazionale dunque diverso dal sistema di accudimento e che per essere tale, deve rivolgersi agli altri quanto a noi se stessi.

Inoltre, continua a spiegare Petrocchi, quando siamo in un sistema di accudimento, chi accudisce reprimerebbe l’empatia verso se stesso per prendersi cura dell’altro, mentre quando siamo nel sistema compassionevole questo cosa non avverrebbe, in quanto la sensibilità alla sofferenza ed il voler fare qualcosa per alleviarla è rivolta all’altro, quanto a se stessi.

CFT: con quali pazienti è più efficace?

L’aspetto “ambizioso” della Compassion Focused Therapy, sottolinea Petrocchi, non è quello di rappresentare l’ennesima terapia, ma di fare terapia creando connessione tra i contributi provenienti dalle psicologie evoluzionistiche, dalle teorie dell’attaccamento, dalle neuroscienze e che mettono in luce la complessità dell’essere umano.

In tal senso, secondo Petrocchi la CFT, può essere considerato un approccio transdiagnostico che potrebbe predisporre il paziente a maggiori benefici verso qualunque percorso psicoterapeutico o indistintamente dal suo problema iniziale (l’unica condizione ancora incerta riguarderebbe i pazienti con tratti di psicopatia, ma sono in corso studi in Portogallo che stanno svolgendo approfondimenti in merito). I benefici di un intervento di Compassion Focused Therapy, in una fase iniziale di un percorso psicoterapeutico, riguarderebbero, secondo i sostenitori di tale approccio, lo sviluppo di quel sistema calmante e, di conseguenza, della capacità auto-calmarsi nella persona, associato anche, a livello fisiologico, a cambiamenti più funzionali per l’organismo, come ad esempio l’aumento di ossitocina ed l’aumento della variabilità interbattito (o HRV), che consentirebbero un maggior equilibrio e bilanciamento tra sistema nervoso simpatico e sistema nervoso parasimpatico.

Per ulteriori approfondimenti  rispetto a quest’ultime informazioni, e soprattutto in riferimento al ruolo della variabilità interbattito (HRV) e disagio psichico, Petrocchi ci rimanda ad una sua ultima pubblicazione. In tale articolo vengono condivisi i risultati di una ricerca che metterebbe in evidenza come i pazienti che ad inizio terapia presentano una variabilità interbattito più bassa, sperimenterebbero anche maggiori difficoltà di aderenza alla terapia e maggiori casi si droup–out. Secondo sempre la ricerca contenuta nell’articolo a cui si riferisce Petrocchi, pazienti con una variabilità interbattito più alta, sarebbero pazienti in grado di beneficiare maggiormente degli effetti di una psicoterapia.

Un’ultima informazione che Petrocchi ci ha anticipato durante l’intervista ha a che fare con l’applicazione della CFT alla terapia di gruppo e la realizzazione in corso di un manuale in merito.

Compassion Focused Therapy, un approccio dunque molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che in modo gentile e non giudicante ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie come paura, rabbia e dolore, o secondarie come nel caso della colpa e della vergogna!

 

COMPASSION FOCUSED THERAPY – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE A NICOLA PETROCCHI:

La (scarsa) comprensibilità dell’Intelligenza Artificiale

L’Intelligenza Artificiale (IA) è trasversale e ubiqua, ma come ci si può fidare di qualcosa che non si conosce del tutto? E che per giunta macina all’interno della sua architettura la nostra privacy? Quale sinergia potrebbe sviluppare il binomio uomo-macchina, quando mancano fiducia e trasparenza?

 

L’intelligenza artificiale (IA) ha plaghe oscure. Ci limitiamo a citarne due: l’esigenza di comprensibilità dell’Artificial Intelligence (eXplainabilty – XAI) e l’intelligenza artificiale come fonte di fake news (faker).

Di seguito ci si concentrerà sulla prima questione.

Secondo uno schema di asimmetria informativa, gli utenti finali (cittadini, pazienti, manager, enti che si occupano della regolamentazione, policy makers, ecc.) non sono in grado di capire la qualità del processo decisionale adottato da numerosi sistemi basati sull’IA e il loro risultato, come o perché sia stata raggiunta una determinata decisione e se i relativi risultati siano realmente vantaggiosi e/o siano perfettibili.

Il deep learning – le tecniche di apprendimento profondo delle reti neurali che stanno alla base dell’IA – si avvale di algoritmi capaci di risolvere problemi con un elevato grado di accuratezza. Tali algoritmi hanno bisogno di addestramento. Il training si basa nel far fagocitare agli algoritmi un gran volume di dati relativi soprattutto agli individui. L’essere umano è quindi centrale nel ciclo di produzione della IA — Human-in-the-loop Artificial Intelligence (HitlAI). Questi dati sono da considerarsi materia prima dell’IA. In tale ottica, la privacy stessa rischia di diventare un input di tale processo produttivo.

Inoltre, nasce un’importante geometria tra big data (anche visivi, con la produzione e diffusione massiva di immagini e video), debunking, addestramento, debugging (o debug).

Oltre che nelle maggiori capacità di apprendimento, grazie a livelli qualitativi crescenti dei dati, le tecniche di apprendimento profondo e gli algoritmi si accrescono nel tempo per complessità, pervasività e delicatezza dei settori che se ne avvalgono, quali ad esempio:

  • la sanità: ad esempio, possono diagnosticare una patologia più rapidamente e con maggiore precisione dei medici stessi;
  • la giustizia: possono influenzare persino il tempo che una persona condannata per un reato trascorrerà in prigione;
  • il sistema economico e finanziario: nella gestione patrimoniale e dei rischi nella gestione dei dati finanziari;
  • la meteorologia: in cui le nuove tecnologie riescono a prevedere dove e quando cadrà un fulmine entro un raggio di 30 chilometri con un anticipo che va da 10 a 30 minuti, lanciando in certi casi l’allerta ancora prima che inizi il temporale; l’algoritmo ha imparato a riconoscere le condizioni che favoriscono lo scoccare della saetta analizzando i dati raccolti in dieci anni da 12 stazioni meteo svizzere, distribuite in aree urbane o di montagna;
  • la sicurezza (cybersicurity);
  • l’arte: un esempio per tutti,  la Gioconda che può assumere un’espressione accigliata, increspare le labbra, seguire i movimenti degli spettatori con gli occhi;
  • la guida autonoma, cioè le automobili che guidano in maniera autonoma: è un tipico esempio di un ambiente Human-in-the-loop poiché vi è la mediazione della presenza umana; l’auto guida da sola, ma l’uomo ha il volante in mano e, qualora essa si trovi in una situazione di empasse, lascia i comandi all’uomo.

La lista delle prestazioni non solo si allunga includendo il riconoscimento e le elaborazioni di immagini, l’istruzione, i trasporti, l’industria, il terziario, ma persino la sentiment-analysis. Essa è il campo di ricerca che, ricorrendo al machine learning, analizza testi di diversa natura per enucleare quali emozioni tendono a richiamare e ad evocare (Sasson, 2019).

L’IA è dunque trasversale e ubiqua, sicché domandarsi e comprendere fino a che punto ci si può fidare dell’apprendimento profondo è imprescindibile.

Come ci si può fidare di qualcosa che non si conosce del tutto? E che per giunta macina all’interno della sua architettura la nostra privacy? Come si può lavorare per far fronte a problemi di grande responsabilità collaborando con macchine che non si conoscono a fondo? E quale sinergia potrebbe sviluppare il binomio uomo-macchina, quando mancano fiducia e trasparenza?

Si tratta del tema della cosiddetta “scatola nera” (black box) contenente le intricate architetture di apprendimento automatico dell’IA. In tal senso, le reti neurali profonde sono talmente opache che potrebbe non conoscersi persino quale variabile/parametro abbia contribuito a quale aspetto del risultato prodotto. Pertanto, generalmente, le reti neurali riescono con grande accuratezza a realizzare i loro task, ad adottare una decisione e a produrre un risultato, ma allo stesso tempo appare estremamente complesso dare un senso ai tanti milioni di neuroni coinvolti in tale sofisticato processo.

Sorge sicché un trade-off: la portata nei guadagni di precisione nel decision-making degli algoritmi avviene a spese della trasparenza sul loro modo di apprendere, di lavorare e di produrre un risultato (ad esempio, sul piano predittivo).

La trasparenza algoritmica è volta ad acquisire la capacità di scandagliare – individuando la fonte dei flussi di dati sfruttati e creati dai sistemi di IA –, di descrivere e di replicare accuratamente i meccanismi mediante i quali tali modelli adottano determinate decisioni e imparano ad adattarsi al contesto. Non solo, la trasparenza algoritmica aiuta a comprendere le cause di una decisione errata da parte del modello e a intervenire con correttivi che ne evitino la replica. Infatti, le reti neurali artificiali, pur molto performanti, ovviamente non sono esenti da errori. Di conseguenza, è imprescindibile realizzare attività di debugging (individuazione e correzione di uno o più errori – bug – rilevati in fase di addestramento o di testing o dell’utilizzo finale dell’algoritmo).

Il problema della scatola nera diventa ancora più grave considerando che i neuroni possono essere ingannati, cioè appositamente indotti all’errore tramite artifizi sperimentati in laboratorio. Per di più, tali metodiche di inganno sono semplici. Ad esempio, è facile trarre in errore la rete neurale utilizzando immagini di individui che ad essa appaiono invece come astratte immagini geometriche; la rete potrebbe vedere linee sinuose e scambiarle per una stella marina o strisce bianche e gialle per uno scuolabus (Castelvecchi, 2019).

Gli shock a livello sistemico sono facilmente immaginabili ipotizzando che i suddetti meccanismi possano essere hackerizzati ai fini, ad esempio, di destabilizzare il sistema finanziario o di rendere vulnerabile la diagnostica del sistema sanitario o creare buchi nei sistemi di sicurezza.

 Sul rapporto fiduciario tra l’uomo e l’apprendimento profondo bisogna perciò essere cauti, come suggeriscono molti data scientist: i sistemi d’IA utilizzano – e, in particolare gli algoritmi, fagocitano – dati relativi agli esseri umani e alla loro sfera privata; possono influenzarne preferenze, comportamenti e scelte; produrre un impatto rilevante sul piano emotivo e dal punto di vista etico, nonché sul piano legale (come le pervasive attività di profilazione, la privacy, la mercificazione dei dati personali, i bias algoritmici discriminatori – per genere, classe sociale, etnia, area geografica, confessione religiosa, sistema valoriale, ecc. – con conseguenti limiti ai diritti umani fondamentali dell’individuo). Il risultato della performance dell’apprendimento profondo potrebbe finire per essere manipolatorio e/o confusivo.

Consideriamo un caso inquietante ed eloquente di medicina preventiva. La capacità di apprendimento dell’IA eccelle in un sofisticato riconoscimento di pattern per determinare gli eventi di presaging dei segnali. Se si ipotizza di arrivare a sostituire alle metodiche attuali un sistema di deep learning con capacità predittive circa il tumore al seno, durante la fase di training gli algoritmi si serviranno di enormi dataset di vecchie mammografie classificate secondo le donne che hanno sviluppato la malattia. Dopo tale addestramento, la rete neurale artificiale potrebbe aver imparato – a differenza di quella biologica – a riconoscere specificatamente e con estrema precisione i marcatori tumorali predittivi del cancro. Ma con un problema non di poco momento: la rete non è in grado di illustrare come riesce a saperlo, vale a dire come è in grado di inferire la futura patologia dai marcatori (Castelvecchi, 2019). Per la donna la scelta di una mastectomia preventiva – alla luce del proprio patrimonio genetico – è già squassante. Ma se poi è una macchina – seppure molto accurata nelle sue previsioni – a suggerirla, senza nemmeno essere in grado di darne le spiegazioni, l’impatto emotivo e psicologico è dirompente. La scelta ha una portata drammatica. Anche il profilo etico è in primo piano. Altro esempio: nella maggior parte dei paesi, quando una banca nega un fido, il diritto prevede che essa deve darne spiegazione al cliente. Ebbene, un algoritmo di apprendimento profondo non è in grado di farlo (Castelvecchi, 2019).

Sia il diritto di decifrare l’apprendimento profondo con i suoi algoritmi, sia – correlatamente – una maggiore fiducia nei confronti dello stesso, sono essenziali per accrescere a livello sistemico un approccio più friendly verso l’IA e, quindi, per implementarla su larga scala (Ribeiro, Singh, Guestrin, 2016).

La questione della fiducia è ulteriormente complessa, in quanto le relative esigenze sono funzionali al contesto. Se capire gli algoritmi che supportano suggerimenti circa i programmi televisivi non è di importanza cruciale per la stragrande maggioranza degli utenti, diventa essenziale capire il funzionamento del deep learning con i suoi algoritmi in situazioni di maggiore vulnerabilità degli utenti (Intel – AI spiegabile, consultabile al link). Assumere decisioni di diagnosi nell’assistenza sanitaria o formulare strategie militari avvalendosi di un sistema basato sull’IA esigono una comprensione accurata del processo decisionale sottostante.

Fa da ausilio alla scarsa trasparenza del deep learning l’IA spiegabile – un sistema fondato su regole per spiegare le azioni della IA (come e perché adotta determinate decisioni e produce determinati risultati).

La necessità fondamentale dell’IA spiegabile risponde a una molteplicità di esigenze: rende la tecnologia più trasparente; è importante per rilevare errori e pregiudizi nei dati che potrebbero indurre ad assumere scelte errate o ingiuste; serve a garantire conformità normativa, equità, etica e mancanza di pregiudizi. Ad esempio, l’efficacia di contrastare i reati finanziari potrebbe essere notevolmente migliorata implementando modelli di apprendimento più accurati. Ma consideriamo anche la difficoltà di spiegare ai regolatori tutto questo.

Ciò rinvia ad alcuni dei problemi legati all’IA spiegabile, alcuni dei quali verranno di seguito richiamati:

  • Molti algoritmi dell’IA vanno oltre la comprensione umana – a volte persino di coloro che li hanno creati – e certamente al di là di quella della maggior parte degli utenti finali. Di conseguenza, a volte una spiegazione non sarebbe fruttuosa.
  • È necessario trovare un compromesso tra prestazioni e spiegabilità. Qualora ciascuno step di un modello di IA dovesse essere esplicitato, il processo sarebbe destinato ineludibilmente a rallentare a detrimento del numero di applicazioni e di ulteriori progressi.
  • E’ pressoché impossibile convenire su una nozione univoca di “spiegabilità”: essa è infatti funzione del contesto, dell’innovazione tecnologica, dei settori coinvolti, dei fruitori, dell’epoca in cui viviamo.
  • Essa potrebbe entrare in conflitto con gli interessi delle imprese: spiegare algoritmi e deep learning significa divulgare idee e inficiare la protezione dei segreti industriali a pregiudizio della proprietà intellettuale. Si crea un problema di copyright se algoritmi e deep learning diventano eccessivamente trasparenti. Ciò scoraggerebbe la R&S, gli investimenti, l’innovazione, il progresso, la crescita.
  • Le operazioni di debugging sono tra le più importanti e difficili per la messa a punto di un algoritmo, ma sono anche tra le più delicate poiché vi è il rischio di introdurre nuovi errori nel tentativo di correggere, tramite il debug, quelli esistenti.
  • E’ urgente una disciplina per il sistema di apprendimento automatizzato. Il Codice etico elaborato dalla Commissione Europea individua le pietre miliari nei principi di trasparenza, accountability, solidità, affidabilità tecnica, affinché sia preservata l’autonomia degli individui e il controllo sulle modalità operative dei sistemi stessi d’IA. Tale percorso risulta analogo a quello già tracciato dal GDPR sulla questione della trasparenza degli algoritmi, in particolare agli artt. 12, 13, 21, 22. L’ultimo, specificatamente, prevede che qualora una decisione sia stata adottata in assenza di intervento umano, bensì solo per mezzo di un processo automatico, l’individuo i cui dati fanno riferimento si può avvalere del diritto di ricevere spiegazioni su come detta decisione sia stata intrapresa (Iozzia, 2019).

 

La culla vuota e i social media: Instagram e l’esperienza del lutto a seguito di un aborto spontaneo

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno dell’aborto.

 

Nella cultura occidentale, forse per scaramanzia, sicuramente per limitare il numero di persone al corrente dei fatti, viene insegnato alle gestanti che sia opportuno nascondere al mondo la gravidanza almeno per i primi tre mesi. Nonostante l’interruzione di gravidanza avvenga spontaneamente in assenza di patologie cooccorrenti, indicando verosimilmente una ‘selezione naturale infra-uterina’ legata alla salute dell’embrione, questo evento viene spesso vissuto dalle donne con sentimenti di colpa, vergogna e inadeguatezza, che incrinano proprio il senso identitario. Eppure, una percentuale stimata tra il 9 e il 20% di tutte le gravidanze non vengono portate a termine a causa di eventi spontanei, rappresentando quindi un fenomeno estremamente comune e largamente sottovalutato, specialmente se consideriamo i rischi a medio-lungo termine per le donne (ed i partner) che ne fanno esperienza, come ad esempio un aumento nell’incidenza di sintomi depressivi, della sintomatologia ansiosa e di PTSD (Bellhouse et al., 2019; Farren et al., 2016; Kolte et al., 2015) anche per alcuni anni a seguito della perdita. Alcuni studi hanno denunciato una mancanza di supporto e di informazioni adeguate da parte del personale medico coinvolto, così come un sentimento di forte isolamento sociale, vissuto dalle donne nel silenzio e segretezza (ma anche dai loro compagni: vedi Miller, Temple-Smith & Bilardi, 2019).

Con la nascita delle community online e dei forum e, in tempi più recenti con l’avvento dei social media, i contenuti presentati all’utente sono divenuti progressivamente più specifici e cuciti sulla persona, donando virtualmente un senso di appartenenza ad ogni individuo dotato di accesso alla Rete e mettendo in contatto persone che condividono esperienze, sentimenti o ideali, a prescindere dalla loro posizione geografica.

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage (n.d.t.: #hoavutounabortospontaneo) per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno; l’introduzione di questo hashtag, riconosciuto e utilizzato dalle utenti negli anni a seguire, ha circoscritto uno spaccato del vissuto delle donne e delle loro famiglie.

Un recente studio di Mercier, Senter, Webster e Henderson Riley (2019) ha analizzato 200 post contenenti l’hashtag #ihadamiscarriage, con l’intento di coglierne i temi ricorrenti e le modalità espressive ad essi correlate: i post selezionati si focalizzavano sull’esperienza dell’interruzione della gravidanza, escludendo quindi le condivisioni circa una generale infertilità, i post che menzionassero la morte post-natale (non assimilabile all’aborto spontaneo) o che affrontassero la tematica del cambiamento corporeo o controllo del peso. Si è anche scelto di escludere gli hashtag postati dalle utenti in occasione del 15 Ottobre, Giornata mondiale per la sensibilizzazione sulla perdita perinatale e infantile e di quelle ricorrenze legate alla maternità come la Festa della Mamma e Pasqua. Da ultimo, i post contenenti video sono stati esclusi dal campione, in quanto la loro codifica avrebbe richiesto modalità differenti da quelle operate sul testo, sulle emoji e le immagini.

I contenuti dei post analizzati sono stati fatti confluire in cinque categorie generali: 1- l’aborto in quanto evento fisico e medicalmente correlato, 2- come esperienza sociale, 3- come esperienza emotivamente complessa, 4- gli effetti sull’identità personale e familiare 5- meccanismi di coping e di elaborazione dell’esperienza traumatica.

I post che si focalizzavano sull’esperienza medica, includevano immagini legate alle visite negli ospedali, alla chirurgia e alle procedure diagnostiche e le ecografie: tra questi spesso ricorreva il momento in cui la coppia riceveva la notizia dell’assenza di battito fetale, decretando la fine della gravidanza. Le date legate a momenti cruciali della gravidanza e la sua interruzione, venivano vissute come anniversari, anche per diverso tempo dopo la perdita.

Spesso l’intento era di offrire conforto e solidarietà per altre persone al pari del riceverle, talvolta attraverso frasi motivazionali attribuibili ad altri; i post che veicolavano il tema della rabbia esprimevano spesso emozioni di colpevolizzazione, rabbia verso il proprio corpo o verso Dio, quelli che si focalizzavano sul rimorso ripercorrevano invece azioni commesse o che avrebbero potuto prevenire la tragedia avvenuta, colpevolizzandosi per non essere riuscite a portare a termine la gravidanza ed esprimendo sentimenti conflittuali nel concedersi di andare avanti dopo l’esperienza dell’aborto.

Inoltre, l’interruzione di gravidanza veniva descritta come un evento determinante nella vita della donna che ne fa esperienza, elicitando riflessioni sulla propria identità di madre, padre o di genitori; i partner venivano poi menzionati per il loro ruolo supportivo durante e dopo l’evento, in post spesso accompagnati da immagini raffiguranti la coppia o gesti di unione come mani che si stringono o famiglie riunite.

L’impatto maggiore sul senso di identità sembra avvenire nelle donne che hanno subito molteplici interruzioni spontanee di gravidanza, alle quali ci si riferisce tra gli utenti di Instagram mediante l’hashtag #RPL (Recurrent Pregnancy Loss); in queste donne l’esperienza pregressa ha aumentato preoccupazione e ansia circa una possibile gravidanza o per quella in corso, temendo sintomi che possano essere precursori di un’altra interruzione di gravidanza, come ad esempio paura di riscontrare perdite ematiche o nel percepire dolori addominali.

Il tema religioso sembra ricorrere in quei post che si occupano dell’aspetto ristorativo e di guarigione, al pari della memoria dell’avvenuta perdita, che le utenti onorano in modi disparati: piantando un albero, tatuandosi, dando un nome al bambino, etc. Molti post facevano riferimento alla necessità di ricercare supporto psicologico per fare fronte alla sintomatologia ansiosa o alla depressione, così come ad altre pratiche di cura di sé come lo sport, attraverso la nutrizione salutare e la cura della persona.

È stato suggerito da Pittman e Reich (2016), che le piattaforme che si servono primariamente di immagini, come Instagram o Facebook, risultino più efficaci nell’alleviale il senso di solitudine e isolamento rispetto ad altri social media, come ad esempio Twitter. Di sicuro, la variegata, complessa, dolorosa esperienza di interruzione spontanea di gravidanza necessita di una modalità di espressione e condivisione che faccia fronte alla mancanza (incomprensibile) di rituali e consuetudini socialmente tramandate che facciano entrare questo vissuto, comune a tante donne, nell’esperienza collettiva: Instagram in tal senso permette alle donne di entrare a far parte di una comunità più estesa della propria ristretta cerchia di contatti.

 

I condizionamenti sociali nella formazione della personalità

La formazione della nostra personalità passa attraverso un processo di crescita in cui si consolidano aspetti genetici che ci sono propri, ma anche influenze che su di noi vengono esercitate dall’ambiente che ci circonda, come la società.

 

La società ha su di noi delle precise aspettative che ci comunica attraverso i modelli che impone ai suoi membri. Ciascuna, infatti, fa capo ad un prototipo per definire i tratti della persona ideale che vengono apprezzati e quelli che, viceversa, vengono disapprovati. Ogni cultura propone un differente programma di comportamento e pertanto favorisce modelli diversi per la socializzazione.

Studi sull’interazione individuo-società hanno dettagliato questo processo. Vediamone alcuni.

Partiamo dagli studi di William James che, a fine ‘800, pubblica una delle sue opere più importanti, Principi di psicologia, che introduce il concetto di “sé empirico”, basato sull’esperienza e sulla pratica, che si articola in un sé materiale (il proprio corpo, i genitori, la casa), un sé sociale (il modo in cui si viene percepiti dagli altri) e un sé spirituale (il proprio essere interiore). L’uomo metterebbe quindi in atto delle funzioni adattive per relazionarsi all’ambiente e ogni azione che compie sarebbe una risposta al mondo esterno.

Una prosecuzione del pensiero di James è l’interazionismo simbolico, un approccio che si sviluppa negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900, che sottolinea come la società abbia una natura pluralistica e come norme e regole sociali abbiano di conseguenza un valore relativo, il che comporta che anche il sé socialmente strutturato si formi in modo dipendente da queste variabili.

L’interazionismo simbolico si basa su tre principi:

  • gli esseri umani reagiscono al ciò che li circonda in base al significato che gli attribuiscono;
  • il significato attribuito è un prodotto sociale, condiviso con gli altri individui cha fanno parte del suo contesto;
  • questo significato attribuito viene interpretato dall’individuo e messo in atto nelle sue azioni.

In linea con questa corrente troviamo Charles Horton Cooley, sociologo, che riafferma l’idea di come ciò che l’individuo diventa con lo sviluppo sia in stretta dipendenza con i rapporti che intrattiene con l’ambiente e le persone che lo circondano. Suo è il concetto del “looking glass self” (io riflesso) che vuole appunto spiegare come ciascuno viene ad impersonare l’immagine che gli altri gli rimandano di sé stesso.

L’io riflesso è costituito da tre elementi:

  • il modo in cui ci raffiguriamo, ossia quello che pensiamo gli altri vedano di noi stessi;
  • come pensiamo che gli altri vi reagiscano;
  • come, a nostra volta, reagiamo alla reazione che percepiamo negli altri, interpretandola e modellando su di essa il nostro concetto dell’io, che ne può uscire rafforzato o diminuito.

In altri termini si può dire che secondo Cooley le persone, crescendo, diventano capaci di impegnarsi per dare di sé l’immagine più rispondente possibile alle aspettative della società e di chi le circonda.

George Herbert Mead, considerato uno dei fondatori della psicologia sociale, in sintonia con Cooley, ritiene che l’individuo sia un prodotto della società in cui vive, ma va oltre tale presupposto arrivando ad affermare che il “sé” non fa parte della persona fin dalla sua nascita, bensì si viene costituendo nell’interazione con altri individui e con la società. Il “sé” è formato da due parti distinte: l’“io” e il “me”.

L’“io” è costituito dalla risposta che viene fornita dall’organismo agli atteggiamenti degli altri. Il “me” è il concetto di sé che ci si forma in relazione agli altri significativi e la cui costituzione ha luogo via via che l’individuo cresce ed assorbe gli atteggiamenti e i modi di dire organizzati degli altri. Da principio ogni risposta è automatica, in seguito, sul modello delle altre persone, si impara ad apprendere il loro comportamento e a giudicare i propri atti come se si fosse qualcun altro.

Lo sviluppo si articola quindi secondo Mead in tre fasi:

  • l’imitazione (che è una semplice copia del comportamento degli altri senza capire cosa si sta facendo);
  • il gioco libero (che ha inizio quando si comincia a sostenere dei ruoli diversi dai propri abituali);
  • il gioco organizzato (o la capacità di assumere i ruoli di più persone contemporaneamente).

Dalla fusione di questi atteggiamenti ha luogo “l’altro generalizzato”, l’atteggiamento con cui l’intera collettività assume il comportamento del gruppo a cui appartiene. Funziona come uno strumento di controllo sociale che serve alla comunità per esercitare una sorveglianza sul comportamento dei singoli individui che la compongono. L’altro generalizzato servirà anche all’individuo come punto di riferimento per giudicare il suo comportamento.

Delle fasi dello sviluppo e della formazione della personalità si è occupato Paul Henry Mussen, psicologo, stabilendo che attraverso il processo di crescita ciascuno ha modo di formare la propria specifica e pertanto unica identità, che corrisponde alle esperienze che ha vissuto fino a quel momento. Tuttavia, queste non gli appartengono totalmente, ma esprimono anche l’ambiente nel quale si è mosso, il contesto relazionale, gli incontri fatti, in altre parole tutto ciò che ha alle spalle.

Si può affermare che la società svolga sugli individui che ne fanno parte una sorta di “pressione” che influenza la direzione del loro sviluppo, imprimendo pregiudizi e stereotipi che indirizzano verso la formazione di talune caratteristiche ad essa utili.

Va detto che, almeno per ora, non appare possibile distinguere nettamente tra le conseguenze che sulla formazione della personalità hanno le strutture cerebrali rispetto a quelle dell’esperienza ambientale.

Inoltre, il tipo di adulto che la società presenta ai suoi membri non è assoluto e universale, ma può variare a seconda delle condizioni e dei diversi periodi in cui ci si trova. Può quindi subire delle variazioni spazio-temporali e, anche all’interno di una stessa società, le diverse classi sociali e le categorie che la compongono possono avere un’idea differente di quanto ci si aspetta da loro in conseguenza del fatto che esse non ricoprono uguali ruoli.

 

La Gelosia: tra romanticismo e patologia

La gelosia nasce dalla paura e non, come si crede di solito, dall’amore. Dovrebbe essere intesa come la paura di amare. Spesso l’amore viene confuso con il possesso senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso.

 

Francesco Algarotti, saggista del ‘700, afferma che:

la gelosia ha da entrare nell’amore, come nelle vivande la noce moscata. Ci ha da esser, ma non si ha da sentire,

La contessa Maria de Champagne nel De Amore di Andrea Cappellano, quasi a voler confermare quanto sostenuto da Algarotti, rispondendo a una richiesta di due in procinto di diventare amanti, sostiene che “ ….Chi non è geloso non può amare”. Queste definizioni riportano una visione romantica della gelosia dando voce alle teorie che sostengono che essa è il contraltare dell’amore. La Dott.ssa Frandina, autrice insieme al Prof. Giusti del libro Terapia della Gelosia e dell’Invidia, sostiene che la gelosia romantica è quella

delle ardenti passioni, delle contrastanti emozioni, degli attimi traditi, del dico non dico, di una verità pubblica e di una menzogna privata. …. È la memoria di odori, è un messaggio rubato, è un gioco di intrecci e di passioni che ci emoziona, ci avvicina all’altro, ce ne allontana.

La visione romantica della gelosia, da non confondere con la gelosia romantica, tende a sottolineare che essa è un elemento essenziale dell’esperienza amorosa. Spesso il luogo comune ci porta a pensare che se una persona ama tanto non può fare a meno di essere gelosa. Eppure se cerchiamo la definizione di gelosia in un qualsiasi dizionario troviamo che essa è un  “ansioso tormento provocato dal timore di perdere la persona amata ad opera di altri”.

La gelosia nasce, dunque, dalla paura, non già, come si crede di solito, dall’amore. La gelosia, quindi, dovrebbe essere intesa come la paura di amare. In apparenza spesso in psicoterapia, in situazioni di crisi affettive sia matrimoniali che di fidanzamento o convivenza, sentiamo frasi del tipo “gli/le ho chiesto di allontanarsi (o mi sono allontanato/a) per capire se sento il suo bisogno, se sono geloso/a” ed, ancora, “mi sono accorto/a che non è geloso/a e quindi non mi ama”. Spesso l’amore viene confuso con il possesso tant’è che le persone a cui siamo affettivamente legate siamo abituati a considerarle una cosa personale (“la mia ragazza” o “mio marito”, “il mio amico”, “mio figlio”) e ragioniamo, anche senza esserne consapevoli, come se effettivamente ci appartenessero.

Marcel Proust, in contrasto con la visione romantica della gelosia, scrive che “la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore”. Spesso per amore si intende una specie di monopolio, una possessività, senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso.

Il Prof. Volterra, autore del libro La Gelosia il Mostro dagli Occhi Verdi, sostiene che

lo stereotipo… è che la gelosia sia indice di amore quando è invece indice d’insicurezza per chi ce l’ha ed è un sentimento negativo e distruttivo, che fa soffrire sia chi ne è tormentato che la vittima.

Roland Barthes, celebre saggista e semiologo francese, mettendo in risalto la contraddizione tra razionalità e irrazionalità spesso presente nella gelosia, scrive:

Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri (1977).

Da un lato, capiamo che l’essere gelosi comporta sofferenza e spesso non aderenza alla realtà, dall’altro, sembra che ci sia una forza invisibile che ci spinge a dubitare, a cercare, ad agire in modo sbagliato, a soffocare chi ci sta accanto.

Il prof. Zino, psicoanalista autore del saggio Gelosia, sostiene che

la domanda di analisi può presentare la gelosia come qualcosa da cui vuole difendersi, e rispetto ad essa invoca un argine, al limite una scomparsa; ma insieme avvertiamo con evidenza che la gelosia è ciò da cui il soggetto stesso è più catturato, e non può farne a meno. E’ la sua trappola ma ama il proprio carceriere. E’ la sua identità.

La gelosia, quindi, diventa un modalità patologica con cui si esprime l’amore.

Ma l’amore cos’è? Da dove nasce? Sono domande a cui non riusciamo a dare risposta. Non abbiamo ancora capito, o non siamo riusciti a dare spiegazioni scientificamente valide, sulle modalità per cui ci leghiamo ad una persona a fronte di milioni o miliardi di altri simili. Non siamo riusciti a spiegarci fino in fondo il cos’è e il come mai il cuore si mette in subbuglio di fronte ad una persona. Ciò che riusciamo a studiare, ad analizzare, a ricercare sono gli effetti ovvero le modalità di espressione dell’amore. Se ognuno di noi analizzasse il perché “amo”, troverebbe sicuramente una miriade di risposte e tra queste anche “perché sono geloso”.

Una delle espressioni dell’amore è l’attaccamento. Grazia Attili, nel suo libro Attaccamento e Amore, sostiene che la struttura che assume un legame sentimentale, le distorsioni dell’amore e la scelta del partner, siano da ricondurre alle aspettative che ciascuno di noi ha su stesso e sugli altri, esito della prima relazione avuta con la propria figura di attaccamento.

Il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa ha condotto una ricerca su Attaccamento romantico e sottotipi di gelosia ed ha esaminato la relazione tra stili di attaccamento e le cinque componenti della gelosia romantica identificate da Sbrana e coll. (2004): (a) autostima, (b) paranoia, (c) ossessività, (d) controllo del partner, (e) paura di abbandono, rilevando lo stile di attaccamento e la gelosia romantica attraverso due questionari multi-item: ECR (Brennan et al., 1998) e QUEGE (Sbrana et al., 2004).

I risultati mostrano che i soggetti con stili di attaccamento caratterizzati da maggiore ansietà (preoccupato e timoroso evitante) presentano punteggi maggiori ad ogni dimensione della gelosia romantica, rispetto ai soggetti con stile di attaccamento caratterizzato da bassa ansietà (Sicuro e Distanziante). Questi risultati sembrano avvalorare l’ipotesi che la gelosia rappresenti un indicatore aspecifico di una sottostante vulnerabilità personologica e/o psicopatologica.

Oscar Wilde scriveva che

le donne insignificanti sono sempre gelose dei loro mariti, le belle non lo sono mai. Sono sempre così occupate a essere gelose dei mariti delle altre.

I risultati della ricerca e l’affermazione di Oscar Wilde ci indicano che bisogna avere una grande sicurezza personale per non cadere nella sofferenza, nella rabbia, nell’ansia della gelosia. Infatti, il sofferente di gelosia nel momento in cui ha la certezza dell’inganno, reale o presunto che sia, prova un sentimento di grave perdita, di lutto non solo verso il rapporto ma, soprattutto, verso il proprio sé a cui reagisce con rabbia, vendetta, lamento e, nei casi più gravi, paranoia.

La Dott.ssa Frandina (op. cit.) afferma che

il timore di perdere l’affetto della persona amata è legato alla soddisfazione dei bisogni di sicurezza affettiva, di contenimento, di holding. Alla base di questa forma di gelosia c’è la convinzione che la persona amata ci appartenga, il timore che qualcuno che sentiamo come rivale possa portarcela via, la previsione che, se ciò dovesse accadere, l’immagine del Sé risulterebbe profondamente colpita.

Esemplificativo a questo proposito risulta il dialogo che riportiamo tra Otello e Desdemona:

Otello: Quel fazzoletto che mi era tanto caro, e te l’avevo dato io, e tu l’hai dato a Cassio.
Desdemona: No: sulla mia vita e sull’anima mia. Mandatelo a chiamare e domandatelo a lui.
Otello: Guardati, anima dolce, dallo spergiuro. Guardati! Sei sul letto di morte.
Desdemona: Lo so: non per morirci ora.
Otello: Sì. Subito. E dunque confessa apertamente il tuo peccato; perché il negarlo in ogni suo punto con giuramento, non potrà smuovere mai né soffocare questa certezza che mi strazia. Devi morire.
Desdemona: Domani mi ucciderai. Lasciami vivere stanotte.
Otello: Ah, resisti?
Desdemona: Solo mezz’ora…
Otello: Ora. È deciso. Subito.
Desdemona: Il tempo di dire una preghiera.

Il Prof. Zino (op. cit.) ritiene che la ratio della gelosia è che

il bisogno di avere un senso, un fondamento, non passa più dall’amore ma dal risentimento. Come sappiamo quest’ultimo è una delle figure dell’odio, del lavoro dell’odio. La gelosia non è un discorso dell’amore … ma un discorso dell’odio. L’inganno, il sospetto, la malafede, diventano il nutrimento del geloso. Ed allora non sa più parlare d’amore.

Una citazione di Francois de La Rochefoucauld dà, meglio di mille parole, la dimensione dello scarto che c’è tra gelosia e amore: “nella gelosia c’è più egoismo che amore”.

La gelosia non essendo né “sinonimo” né “contrario” di amore, è una spinta irrazionale che devasta il legame affettivo e, spesso, produce l’effetto contrario a quello desiderato. Karl Kraus afferma che “la gelosia è un abbaiare di cani che attira i ladri”. Paradossalmente, a volte le profezie si auto avverano. Vi è un bellissimo film degli anni ’60 Il Magnifico Cornuto di Antonio Pietrangeli in cui il protagonista dopo aver commesso un adulterio inizia a sospettare della moglie che fino ad allora aveva tenuto un comportamento irreprensibile. La segue, la fa seguire, la tormenta con i suoi dubbi e i suoi sospetti, fino a quando, vittima di un incidente, non si convince che era stato colpito da una malattia (la gelosia) che gli procurava ansia e tormenti inutili. Peccato che la moglie nel frattempo, stanca delle continue illazioni, inizia una relazione con il medico che lo ha in cura.

La gelosia è una malattia? Difficile rispondere a questa domanda. In effetti il DSM non la elenca tra le patologie. Eppure in tutte le definizioni finora date abbiamo parlato di ansia, depressione, identità gelosa, strutturazione del Sé, ferita narcisistica, etc. Sul piano letterario e artistico, la gelosia è da sempre stata giustificata, anche nei casi più drammatici, come una componente essenziale dell’amore. Nell’Otello, da un lato, proviamo compassione per Desdemona che viene uccisa ingiustamente in base alla diceria di Cassio, ma dall’altro giustifichiamo lo stesso Otello, che una volta insinuatosi il dubbio, non poteva comportarsi in maniera diversa. Eppure egli aveva un’altra possibilità: credere e avere fiducia in Desdemona. Credere e avere fiducia nell’amore. La mancanza di fiducia e la scelta di Otello, sul piano scientifico non può non portarci ad una serie di riflessioni.

Però anche su questo piano si è molto dibattuto ed, in particolare, fino a che punto la gelosia può essere considerata normale e quando diventa patologica.

Nei comportamenti della persona gelosa si trovano due elementi che sono presenti nelle forme patologiche: offensività (il controllo) e la difensività (competitività). La persona gelosa può cioè intervenire o mantenere il controllo su potenziali “concorrenti” (persone, ma anche situazioni o ambienti) che si profilano, nell’idea che questi elementi possano separarlo dalla persona che ritiene “sua”. Altrimenti, c’è la gelosia offensiva, cioè quella in cui la persona agisce in assenza di reali o attuali concorrenti. Questa distinzione non è netta, perché la gelosia porta comunque a leggere come attuali o potenziali minacce elementi che invece altri non vedrebbero così, e va riferita semmai all’atteggiamento della persona amata, se cioè l’origine sia una infedeltà o promiscuità o atteggiamento ambiguo o libertino da parte del partner, oppure se la gelosia sia una modalità automatica di fissare la relazione nonostante una fedeltà senza ombre e l’assenza di minacce concrete. I tratti patologici della gelosia sono, quindi, da riferire alla visione reale o meno della situazione affettiva e del comportamento del partner. Ciò vuole anche dire che vi è un continuum tra gelosia e le forme di gelosia patologica. A questo livello il problema non è provare gelosia, cosa a cui va incontro ogni essere umano nel corso della sua esistenza, ma il modo di elaborare e strutturare le relazioni affettive.

Nell’ambito della gelosia patologica si distinguono, in base alle caratteristiche formali delle idee di gelosia, tre grandi gruppi:

  1. La gelosia ossessiva in cui il soggetto, così come avviene nel disturbo ossessivo compulsivo, ha bisogno di controllare continuamente il comportamento della moglie/marito. Alla base c’è un’idea ossessiva, la paura di essere abbandonato e lasciato dalla persona amata, a cui segue una compulsione costituita, spesso, da lunghi e quotidiani interrogatori, dal controllo della castità dell’abbigliamento del partner, dal controllo della corrispondenza, etc. Essi passano gran parte del loro tempo alla ricerca di comportamenti del partner che possono lenire la sofferenza di una ideazione di perdita.
  2. La Sindrome di Mairet in cui la gelosia è assimilata ad idee prevalenti in cui il desiderio di possesso e il senso di perdita divengono pervasive e tutta la vita ruota intorno a queste “idee prevalenti”. Alcuni autori hanno definito i soggetti colpiti da questa sindrome come contraddistinti da “iperstesia gelosa” in quanto le idee di gelosia tendono a riempire tutto il campo esperienziale. Questi soggetti, infatti, non sono solo gelosi all’interno delle relazioni di coppia ma anche in tutti gli altri aspetti della vita. Anche se queste idee mantengono un confronto con la realtà vengono vissuti dal contesto socio-culturale di riferimento come abnormi e patologici.
  3. La Gelosia Delirante o Sindrome di Otello in cui il soggetto si auto convince dell’infedeltà del partner e va continuamente alla ricerca di elementi che possono giustificare le sue supposizioni iniziali. In questo tipo di gelosia il soggetto non è interessato all’infedeltà del partner ma piuttosto a fargli/le ammettere la sua colpa. La vita di coppia diventa un misto di interrogatori e giustificazioni. Anche quando raggiunge il suo scopo ovvero una confessione, magari non reale ma dettata semplicemente dalla stanchezza di estenuanti interrogatori, l’ansia non si placa ma continua con la stessa intensità. Per quest’ultima caratteristica il presupposto di questo tipo di gelosia sembra essere la propria autoaffermazione con il contemporaneo annullamento dell’altro/a.

 

Disturbo Ossessivo-Compulsivo: Terapie Cognitivo-Comportamentale e Metacognitiva di gruppo a confronto

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), con una prevalenza lifetime nella popolazione di circa il 2%, rappresenta una patologia psichiatrica debilitante e cronica (Kessler et al., 2005), tanto da essere classificato come uno dei 10 disturbi più debilitanti del mondo (World Health Organization, 1999).

 

Sia che si tratti della sua forma individuale che di gruppo, la terapia per il trattamento del DOC attualmente raccomandata e più validata dai dati empirici (es. Olatunji et al., 2013) è la Cognitivo-Comportamentale (CBT), in particolare la tecnica di esposizione e prevenzione della risposta (ERP; Heyman, Mataix-Cols & Fineberg, 2006). Nonostante l’efficacia della CBT per il DOC sia stata validata attraverso numerosi trial randomizzati, la generalizzabilità di questi studi è limitata a causa della rigida metodologia utilizzata, che nella maggior parte dei casi non prevede l’applicazione della tecnica in contesti clinici e ospedalieri “naturali”. L’assistenza sanitaria necessita ancora di valutazioni obiettive sull’efficacia delle terapie per il DOC nella pratica clinica (Sackett et al., 1996).

Il primo obiettivo dello studio preso in esame (Papageorgiou et al., 2018), coerentemente con quanto riportato qui sopra, era quello di analizzare sistematicamente gli esiti della CBT di gruppo per adulti che avevano seguito una terapia a livello ambulatoriale per trattare il DOC, per un periodo di 5 anni. In seguito, una volta ottenuti i primi risultati dell’analisi, il secondo obiettivo era quello di valutare l’efficacia di un approccio alternativo alla CBT per il trattamento del DOC, ovvero la Terapia Metacognitiva di gruppo (MCT; Wells, 2009). La scelta di introdurre la MCT era dovuta ai notevoli risultati riportati in letteratura dalla terapia per pazienti con DOC (Fisher & Wells, 2005).

Secondo il modello teorizzato da Wells (1997), gli individui affetti da DOC esperiscono pensieri intrusivi che sono direttamente collegati con le metacredenze sottostanti. Sono queste credenze a guidare i processi disadattivi del pensiero chiamato cognitive attentional syndrome (CAS). Vi sono due tipologie principali di metacredenze, ovvero le credenze sulla pericolosità del pensiero e le credenze sulla inevitabile necessità di mettere in atto le compulsioni.

La prima tipologia di metacredenze (definita anche “fusion belief”), riguarda la cosiddetta fusione pensiero-azione, ovvero la convinzione che il solo pensare a qualcosa faccia sì che questo accada nella realtà (es. ho pensato che potrei investire qualcuno con la macchina, quindi sicuramente ciò avverrà) o che un evento è già accaduto (es. tornando a casa ho sicuramente investito qualcuno con la macchina, perché adesso questo timore mi attanaglia); la seconda tipologia di metacredenze riguarda le convinzioni sulle compulsioni, ovvero sui rituali che guidano le risposte alla preoccupazione causata dalle ossessioni (es. devo fare il giro del quartiere ripercorrendo i miei passi fino a quando smetto di pensare di aver investito qualcuno).

Nel modello di Wells (1997), il CAS riguarda la ruminazione, il monitoraggio delle minacce e i comportamenti disadattivi che rappresentano il mezzo utilizzato dal paziente DOC per combattere l’ansia procurata dalle ossessioni.

Nel presente studio (Papageorgiou et al., 2018), per raggiungere i due obiettivi di ricerca menzionati poco fa, gli autori hanno potuto seguire 95 pazienti per 5 anni, che hanno acconsentito a sottoporsi al trattamento MCT di gruppo, e 125 al trattamento CBT.

I risultati hanno mostrato che, coerentemente con le informazioni presenti in letteratura che riguardano l’efficacia della CBT per il trattamento del DOC, il 28% dei pazienti che ha ricevuto il trattamento non ha riportato miglioramenti statisticamente significativi. I pazienti trattati con MCT hanno riportato miglioramenti significativi rispetto al gruppo CBT: l’86,3% dei pazienti nella ha risposto positivamente al trattamento rispetto al 64% nella CBT.

In conclusione, nonostante alcune differenze significative, sia la CBT che la MCT di gruppo sono da considerarsi interventi efficaci quando erogati in un contesto clinico per un lungo periodo di tempo (Papageorgiou et al., 2018).

 

Amy – The girl behind the name (2015) – La LIBET nelle narrazioni

Una bella ragazza giovane, esuberante, con molto talento per la musica. La conosco quattro anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2011 ad appena 27 anni, con il film documentario Amy – The girl behind the name di Asif Capadia.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr.1) Amy – The girl behind the name

 

Mi soffermo a riflettere sulla sua sofferenza e sulle strategie adottate per fronteggiarla; in termini LIBET, sui temi dolorosi e i piani semi adattivi, consapevole della complessità del caso e della parzialità delle informazioni ricavate dalla voce di Amy nei filmati amatoriali, nelle interviste e nelle sue canzoni, raccolte per il documentario. In un esercizio di immaginazione  voglio incontrarla  al quarantesimo minuto circa del film, quando, soccorsa nella sua casa dagli amici allarmati da una vicina, dopo essere caduta e aver sbattuto la testa, è sporca, ‘la casa sporca, puzzava, con un bernoccolo quanto una pallina da golf’, come riferisce la sua migliore amica, dopo aver assunto alcol e anfetamine. Accetta di intraprendere un programma di riabilitazione a condizione che lo voglia suo padre. Suo padre le dice che sta bene, non ha bisogno di andare in terapia e decide di andare un giorno e poi tirarsi fuori.

Mi piace pensare che dopo alcuni incontri e aver maturato una motivazione sia lì, seduta di fronte e mi dica di avere un problema, di sentirsi persa, un pesce fuor d’acqua. Le chiedo a quale emozione si riferisce e mi risponde tristezza perché tutto le ricorda Blake; il sangue sul muro, il frigorifero…e ha cominciato a bere appena sveglia, senza mangiare e riducendosi così come appare, ‘è stato da irresponsabile’, dice. Le chiedo di raccontarmi un episodio specifico in cui si è sentita così e cosa ha fatto. Mi racconta di quando il ragazzo che frequentava, appunto Blake, le ha scritto il messaggio in cui le diceva di non voler lasciare la sua ragazza e che probabilmente sarebbero stati meglio come amici. Riferisce di essersi sentita folle, senza freni, di aver preso a pugni il muro. Le chiedo cosa ha pensato in quei momenti e risponde ‘deve desiderare di vedermi’, chiedo perché ‘deve?’, mi risponde che non è giusto che si dimentichi così in fretta di quello che c’è tra loro. Continuo chiedendo cosa significa questo per lei e risponde che significa essere debole e non amata come sua madre, continua dicendo che emula tutto lo schifo che la madre odia e che mai e poi mai ci passerebbe per quello che è accaduto a lei. Mi racconta che il padre è andato via di casa quando aveva tra i 9 e i 10 anni, aveva una relazione con un’altra donna da quando lei aveva 18 mesi ed era sempre stato molto assente nella sua crescita, la madre era debole tanto da non riuscire a porle alcun limite sin da bambina. Le chiedo cosa ha provato quando il padre è andato via di casa, cosa ha fatto e pensato. Risponde di essersi sentita strana; nervosa/allegra e di aver pensato: ‘posso fare quello che voglio, imprecare, truccarmi, bello!’ Si è tatuata, ha fatto piercing dappertutto, saltava la scuola, portava a casa il suo ragazzo, fumava erba. Sembrava aver reagito bene ma dopo qualche anno l’hanno portata da un medico che le ha prescritto un farmaco per la depressione. Dice che non sapeva cosa fosse la depressione ma sapeva di essere diversa.

Mi sembra di aver individuato i tre ABC; presente, invalidazione, apprendimento e inizia a delinearsi nella mia mente una concettualizzazione del caso che vede il disamore/indegnità come tema doloroso; i processi di metacontrollo, non posso tollerare di sentirmi non amata, debole, vuota e triste, come ho visto accadere a mia madre; il piano immunizzante, sostanze, relazioni estreme; il processo di invalidazione, rottura della relazione, rabbia, sostanze; esordio sintomatico, depressione, ‘back to black’.

Continuando la fantasia, decido a questo punto di condividere con la mia paziente la concettualizzazione che ho formulato e dico: ‘adesso le dirò l’idea che mi sono fatta del suo funzionamento che la fa stare così male, capisco che per lei è estremamente doloroso sentirsi così depressa ed è logico e comprensibile che si senta così, data la sua storia; è anche vero che la terapia può aiutarla a trasformare la depressione in tristezza. Sentirsi tristi è normale e talvolta utile perché ci comunica che c’è qualcosa da cambiare. Lei sta male perché quando il suo ragazzo ha deciso di stare con un’altra donna anziché con lei, così come è accaduto con suo padre da piccola, ha provato una profonda tristezza che l’ha fatta sentire debole e non amata e ha cercato di non sentire questo stato emotivo aiutandosi con le sostanze. E’ probabile che l’dea che si sia fatta di sé è di non poter sopportare di sentirsi inadeguata e non amata e di dover essere forte e spregiudicata nelle relazioni; tutto il contrario, come lei ha detto, di quello che è sua madre. Anche l’alcol e le altre sostanze è probabile che l’abbiano aiutata a non sentirsi non amata, debole e triste. La strategie che ha trovato per stare meglio (e lei ha fatto tutto quello che poteva, data la sua storia) l’hanno sicuramente aiutata in passato, ma ora sembrano non essere più sufficienti a proteggerla per non considerare il danno e i rischi per la salute, che già conosce’

 

Teatro Sociale e potenziamento dei processi di autonomia nella persona Down

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. In scena però non è la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi, ma ciò che è socialmente sottratto, occultato.

Capriotti Federica – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 La sindrome di Down è la causa più frequente di ritardo mentale. Ha una prevalenza di circa 1:700 nati vivi. Attualmente l’aspettativa di vita di un soggetto con la sindrome di Down è di circa 60 anni. In Italia i dati epidemiologici del Centro Internazionale dei Difetti Congeniti (CIDC) rilevano che la vita media dei soggetti con sindrome di Down è di 45-46 anni con una percentuale di sopravvivenza nella fascia di età tra i 45 e i 65 anni pari al 13%. In Italia vivono 49.000 soggetti con sindrome di Down (Arosio et al., 2004).

Sviluppo cognitivo nella sindrome di Down

I bambini con sindrome di Down oscillano tra un grado medio e un grado severo di disabilità intellettiva. Lo sviluppo cognitivo sembra subire ritardi importanti soprattutto dopo il secondo anno, in concomitanza con i rallentamenti dei processi di mielinizzazione (Barone, 2009). Si riscontrano difficoltà nel mantenere le abilità acquisite e la tendenza a utilizzare strategie non funzionali alla soluzione di problemi nuovi.

In età scolare e in adolescenza, l’elaborazione spaziale tende ad essere relativamente conservata in rapporto all’età verbale, mentre l’elaborazione verbale, alla base di alcuni compiti di memoria di lavoro o memoria a breve termine, risulta particolarmente deficitaria. La memoria a lungo termine sembra più compromessa rispetto ad altre forme di ritardo mentale (Barone, 2009).

Deficit nella competenza linguistica sono caratterizzati dalla presenza di competenze morfosintattiche deficitarie in compiti di produzione, comprensione e ripetizione di frasi. In uno studio volto a valutare le abilità lessicali e morfosintattiche in un gruppo di bambini con sindrome di Down con un’età mentale di 30 mesi, Vicari, Caselli e Tonucci hanno evidenziato che in questi soggetti la performance lessicale correlava con quella grammaticale, suggerendo in tal modo la possibile presenza di un ritardo nell’acquisizione lessicale e grammaticale che tuttavia non prende le sembianze di uno sviluppo atipico. Tali caratteristiche sembra siano ascrivibili a specificità della sindrome piuttosto che a un generalizzato effetto della disabilità intellettiva (Caselli et al., 2000).

Il teatro sociale come potenziamento dei processi di autonomia

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. Esso coniuga l’attenzione al livello teatrale e artistico con quella dello sviluppo di comunità, promuovendo esperienze di messa in gioco e messa in azione personale e collettiva (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

E’ una pratica innovativa che promuove la consapevolezza, la crescita e l’empowerment (Amerio, 2000) delle persone, dei gruppi e delle comunità utilizzando diversi tipi di linguaggi artistici, processi creativi e forme di performance. Ha come finalità la crescita e il cambiamento della singola persona, nel rapporto mente-corpo-emozioni-spirito, e della comunità locale, nella sua dimensione umana, sociale e culturale (De Marinis, 2000).

Il teatro sociale è uno spazio per rafforzare legami solidali e rigenerare coesione sociale con la creazione artistica di simboli e significati condivisi: sviluppa il benessere delle relazioni nei luoghi della comunità. Può quindi essere considerato a tutti gli effetti una pratica efficace e innovativa per promuovere il benessere e per formare degli operatori che si occupano di cura e educazione, inoltre favorisce il benessere e la salute delle comunità locali e delle loro reti sociali (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

Il teatro sociale è oggi una forma di teatro contemporaneo su cui criticamente si sta facendo chiarezza in termini storici, teorici e metodologici (De Marinis, 2000).

Uno degli aspetti del teatro sociale è quello della drammaturgia (l’arte di comporre drammi; trattato o precettistica sull’arte drammatica; in senso concreto, complesso delle opere drammatiche di un autore o di un periodo), l’azione che si occupa del dire “drammatico” della comunità: crea le condizioni perché la comunità possa compiere delle azioni di espressione-comunicazione, raccoglie e sviluppa i diversi linguaggi-esperienze con cui il gruppo/comunità comunica, ne coglie la specificità teatrale sul piano della performance e della comunicazione, li mette in contatto con l’orizzonte storico e simbolico di una più ampia collettività, li compone in un’azione di rappresentazione nei termini di un evento di comunità. La drammaturgia fa tutto questo in un costante dialogo tra poetica individuale e creatività collettiva (De Marinis, 2000).

L’altro che è in scena non è però la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi. La messa in scena di ciò che è socialmente sottratto, occultato è lo scandalo di questo teatro, il suo maggior rischio, ma anche il suo atto politico più significativo, tanto più rivoluzionario quanto più ciò che ci viene mostrato modifica la nostra percezione della realtà e ciò che prima avremmo detto brutto ora ci pare bello (De Marinis, 2000).

C’è in molti di questi spettacoli un’interazione comunicativa forte: ne nascono spettacoli che provocano, commuovono, ma raramente lasciano indifferenti, rivolti a, fatti per chi sta seduto là oltre la scena. Questa interazione segna anche l’estetica con una presenza di segni popolari, quotidiani, comuni.

Il laboratorio nel teatro sociale

Nel teatro sociale, il laboratorio, inteso come pratica creativa di gruppo sviluppata in una situazione extraquotidiana e orientata, in una dinamica relazione anche affettiva, all’autorappresentazione, offre una condizione particolarmente efficace di lavoro. Articolato in termini di conduzione sul modello dei riti di passaggio – separazione, margine, reintegrazione -, il modello generale del laboratorio di teatro sociale si sviluppa su tre percorsi (Pontremoli et al., 2007):

  • il training psicofisico, centrato sulla scoperta del corpo come strumento di espressione, comunicazione e di relazione;
  • il training relazionale, fatto di giochi ed esercizi, finalizzati alla formazione del gruppo attraverso l’esplorazione delle dinamiche di fiducia e conflitto;
  • l’esplorazione drammaturgica, attraverso l’improvvisazione, l’invenzione narrativa, la creazione di rappresentazioni.

Nelle tre fasi del laboratorio, gli stimoli forniti dal conduttore creano dei setting teatrali nei quali quella che viene agita è la totalità della persona e del gruppo, sul piano dei vissuti, dei linguaggi, dell’immaginario, del mondo simbolico e di valori a cui fa riferimento.

Attraverso l’esperienza laboratoriale (ed in particolar modo di quella teatrale) si può migliorare significativamente la qualità di vita e dare dignità a soggetti che spesso non hanno alcuna prospettiva di vita. E’ evidente che l’organizzazione di un laboratorio teatrale richiede risorse umane e materiali considerevoli. Il personale educativo e formativo, per esempio, dev’essere messo in grado di lavorare senza improvvisazione, avere conoscenze di base specifiche da aggiornare continuamente per raggiungere la massima professionalità (Associazione Italiana Persone Down).

Un’altra chance attraverso il teatro

La presenza di una persona con disagi in scena è un segno teatrale complesso. Innanzitutto è un frammento di realtà, qualcosa che ha il sapore della “vita vera”, soprattutto delle emozioni e dei sentimenti che appartengono all’esperienza della vita. In questa ricerca di una contiguità estrema c’è forse il bisogno di uscire dai confini di un teatro autoreferenziale tanto nella sua antropologia e sociologia quanto nei suoi linguaggi. Un desiderio di mondo (parlare “di” e “con” l’altro) ha attraversato, nei primi anni Novanta, una parte del teatro. In questo senso, anche il teatro di narrazione ha cercato oggetti di discorso reali e linguaggi affabulativi che ricostruissero nella comunicazione una condizione di comunità civile (De Marinis, 2000).

Lo strumento teatro diviene sociale nel momento in cui agisce per il bene di una comunità, a favore della trasformazione e del cambiamento (Pontremoli et al., 2007).

Se consideriamo il teatro una delle maggiori arti e se consideriamo le arti un modo per interagire con il contesto socioculturale in cui viviamo, giungeremo a considerare il teatro di cui ora discutiamo come l’arte sociale per eccellenza. Un’arte che parte dall’individuo per inserirlo in un gruppo; un gruppo che diventa famiglia prima, comunità dopo. Molti (critici, storici e filosofi) infatti, definiscono il teatro come l’arte delle arti, in quanto consente a più persone di comunicare l’una con l’altra, di crescere insieme, e di farlo attraverso modalità differenti. Arte dell’incontro, arte dello sguardo che si rispecchia nell’altro, nel corpo che si rispecchia in un altro corpo, del comunicare in senso naturale, come scambio biunivoco di energie. La teatralità si esprime potenziata nel disagio, quando si ha bisogno di stringere relazioni più strette, sincere e lo scambio diventa necessità di crescita, materiale e spirituale. La terapia diventa realizzazione di obiettivi e autorealizzazione. Questo è possibile primariamente, com’è chiaro, nell’accezione di un teatro fisico, dove i corpi si incontrano e le energie si scontrano, e la fusione è data da questo contrasto (Pontremoli et al., 2007). Il teatro non è di per sé sociale, ma diviene anch’esso un ambiente fertile all’insegnamento, alla pedagogia, alla crescita personale. Ne risulta l’altissimo valore ed efficacia del teatro come terapia, appunto, per vincere le proprie resistenze e rigidità, per capire le ragioni degli altri, per superare le diffidenze e gestire gli scontri. Il teatro, in mano all’operatore esperto, è una chiave per riconoscere ad ogni persona, anche la più difficile, il proprio valore, e nello stesso tempo non lasciarla prevaricare. Teatralizzare i conflitti è ben espresso dalla locuzione “facciamo come se”: in questa maniera diventa più facile superarli, perché li si guarda dall’esterno. I conflitti diventano racconto ed esperienza. Si può scoprire di avere in sé la capacità di raccontare, di esprimersi anche in forma semplice, e lo si fa in una atmosfera non giudicante in cui tutti collaborano e condividono le loro esperienze. Il teatro rimane insomma uno dei pochi ambienti in cui è possibile sperimentare le proprie potenzialità e le relazioni con l’altro, formare un gruppo e dare alle persone un senso di appartenenza e una comunanza di intenti. È un territorio privilegiato per creare un ambiente culturale, vivere in società in modo più consapevole e accettare le nostre reciproche diversità (Pontremoli et al., 2007).

Per un disabile, per un disagiato, per una qualunque persona in difficoltà, dimostrare le proprie qualità comunicative e artistiche rappresenta la possibilità di darsi un’altra chance, dimostrare al mondo e a sé stessi che si è in grado di percorrere altre vie da quella della sofferenza e della mancanza. L’effetto della necessità interiore e dunque anche l’evoluzione dell’arte coesistono, anche se solo per l’istante dell’azione scenica, giungendo ad un picco di emozionalità personale e collettivo (Pontremoli et al., 2007).

Chi ha modo di lavorare per persone con disabilità intellettiva si accorge, con il passare degli anni, di trovarsi di fronte ad una dimensione peculiare del vivere, della percezione di sé e del mondo. Fare teatro in questa dimensione pensando di poter applicare metodi, tecniche, categorie drammaturgiche, chiavi di lettura come si utilizzano comunemente con la normale attorialità non può che portare ad un lavoro superficiale, potenziale origine di frustrazioni nell’operatore e nei partecipanti, a meno che non si voglia produrre la solita performance adattata intorno agli stereotipi, spesso non supportati da una reale conoscenza (Anffas Milano).

Non possiamo ragionare sulla categoria “disabile intellettivo” come se descrivesse un tipo dai tratti univoci e definiti. Infatti, ed è una questione universale per il teatro, le proposte di lavoro devono procedere progressivamente verso una loro declinazione individuale, persona per persona; sarebbe impensabile un lavoro efficace racchiudendo tutto il gruppo nella stessa tipologia di esercizi e di proposte.

Gli elementi tecnici, pratici, psicologici del teatro permangono, ma subiscono limitazioni o totali impedimenti secondo la condizione cognitiva ed emozionale (e naturalmente fisica) del soggetto. La memoria, l’immaginario, il simbolico, l’autoanalisi e poi l’attenzione, che nel lavoro teatrale si deve districare consapevolmente tra processi percettivi, riflessivi e di fluttuazione, si presentano con limiti e potenzialità mutevoli, non solo da persona a persona, ma per lo stesso soggetto nel corso del tempo, e contrariamente a quanto potrebbe accadere per un sedicente normale, questo impasto condizionante non riesce a divenire consapevole e governabile. Tutto il lavoro è come in balia di una condizione che non può essere vista, valutata e sfruttata a pieno dall’interessato e, conseguentemente, tantomeno dall’operatore (Anffas Milano).

Spesso manca una visione d’insieme del lavoro, intesa non solo nello svolgersi della struttura, ma anche nella comprensione del suo senso. La preparazione della performance diventa allora la preparazione della propria porzione da mostrare, nell’impossibilità di abbracciare contemporaneamente i cinque piani attentivi (sé stesso, la parte drammaturgica, lo spazio, il compagno, il pubblico), con l’attenzione convogliata sugli aspetti pratici ed esteriori del dire e del fare.

Il rischio è quello di avere come termine di paragone la “normalità” e di far tendere a quella il risultato del laboratorio (Anffas Milano). Calare il Teatro nel mondo della disabilità intellettiva non significa riportarvi il teatro della norma con riduzioni di intenti, di pretese, o semplicemente semplificandolo. Significa creare un teatro specifico incontro per incontro, delle situazioni individuali e di gruppo, in cui la tecnica teatrale è continuamente messa in discussione, a volte utile a volte limitante, da riadattare, da buttare via, da reinventare completamente; impossibile e riduttivo tentare di sistematizzarla in metodi, perché spesso ciò che nel laboratorio abbiamo trovato oggi, domani sarà scomparso e la ripetizione non basterà a ricreare le medesime condizioni soggettive per il ritorno di una parola o di un gesto (Anffas Milano).

Scopo del teatro sociale è creare ritualità civile, fare comunità, stimolare la partecipazione di tutti al bene di tutti (Bernardi et al., 2014). Le esperienze del teatro sociale e di comunità appaiono non solo modello di integrazione sociale e di mirabile intesa tra ente pubblico, privati e associazioni, ma l’annuncio di una nuova politica.

Tutte le esperienze sono caratterizzate da una magnifica disponibilità degli operatori, che funzionano come animatori: oper-attori (Bernardi et al., 2014).

Emerge il ruolo dinamico dei soggetti pubblici, delle istituzioni (ASL, comuni, province, regioni, università), che trovano, nel promuovere questi percorsi, una dimensione diversa da quella imprigionata dal circuito programmazione-acquisto-controllo (Bernardi et al., 2014).

Il teatro sociale si fonda su un cambio radicale di prospettiva che mette in luce quanto normalmente resta nascosto dell’esperienza teatrale. Questo spostamento porta in primo piano le funzioni antropologiche e sociali della teatralità, dando luogo ad una serie di conseguenze quali l’allargamento della partecipazione all’esperienza, la rottura degli statuti codificati, l’apertura delle forme, la diversa e dinamica distribuzione delle funzioni teatrali, un rapporto proficuo tra cultura e sviluppo sociale, tra arte e vita che sviluppa nuove relazioni inedite e legami sociali (Bernardi et al., 2014).

Il lavoro di teatro sociale sembra sia adeguato, proprio per la sua capacità di dialogo, di confronto e di lavoro sulle potenzialità individuali e collettive, come strumento per costruire percorsi di Empowerment individuale e comunitario (Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute).

Il teatro sociale, attraverso la gestione dei rapporti orizzontale e non verticistica che lo caratterizza, vuole produrre un cambiamento personale che nel lavoro di gruppo diventa anche un cambiamento sociale, partecipazione e collaborazione.

Protagonisti, azioni e materie che agiscono su un palcoscenico, ci consentono di capire in che modo possiamo lavorare in termini di promozione della salute.

Il laboratorio teatrale e lo spettacolo conclusivo, posti in quest’ottica, oltre a registrare miglioramenti riguardanti la fonetica, la gestualità, la sicurezza di sè, il rispetto dell’altro e delle regole, hanno mostrato che far cooperare con pari dignità ragazzi con sindrome di Down e ragazzi normodotati, sia vincente soprattutto per le ripercussioni notevoli a livello di immagine sociale efficace sugli atteggiamenti e sulle motivazioni al cambiamento, favorendo lo sviluppo dei processi di inclusione e coesione sociale che raggiunge rapidamente un ampio numero di persone e avendo ricadute positive sulla qualità della vita dell’intera comunità.

 

Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo (2019) di W. Mischel – Recensione del libro

Walter Mischel è uno psicologo recentemente scomparso, padre di uno degli esperimenti più importanti della psicologia: Il test del marshmallow e autore del libro Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo.

 

Le domande che hanno mosso le sue indagini sono state quella di comprendere quale fosse il ruolo dell’abilità di posticipare una gratificazione (tradotto in autocontrollo) nello sviluppo psicologico della persona e se tale abilità possa essere appresa o risulti, invece, innata e immutabile.

Il marshmallow, caramella dolce e gommosa molto nota in America, è la gratificazione utilizzata negli esperimenti che iniziano negli anni 60 (in realtà non sono stati utilizzati solo questi tipi di dolciumi ma anche altri, ritenuti appetibili dai piccoli protagonisti).

Lo studio è stato condotto all’interno dell’Università di Standford su bambini di età prescolare ai quali era mostrata una ricompensa, un marshmallow per esempio; a questo punto erano sottoposti ad un dilemma: mangiarne uno subito o attendere per averne due?

I bambini venivano, pertanto, lasciati da soli in una stanza in compagnia sia della loro tentazione (con tanto di campanellino da suonare come strumento di resa) sia di tutte le divertenti e fantasiose strategie che avevano a loro disposizione per resistere nell’attesa.

Con un grande studio longitudinale, gli autori hanno trovato che il numero di secondi attesi andava a correlare con un più alto punteggio ai test di ammissione ai college, un indice di massa corporea inferiore, una maggiore autostima e una migliore tolleranza alla frustrazione, con maggiore adattamento allo stress nell’età adulta. Dati che risultano rilevanti a tal punto da ritenere questa variabile un perno piuttosto centrale della persona. L’autore parla di un sistema ‘caldo’ quello più impulsivo, meno mediato, emotivo (limbico) e di uno freddo cognitivo, razionale (della corteccia prefrontale) alla base della nostra presa di decisione. Attivare il secondo in favore del primo, concentrarsi sulle caratteristiche fredde dello stimolo significa, in buona sostanza, riuscire a resistere meglio alle tentazioni.

Ed ognuno di noi per far questo può utilizzare strategie diverse (i bambini dell’esperimento insegnano: chi canta, chi conta, chi si distrae, chi evita di guardarlo, chi lo immagina come se fosse una foto…). Ciò significa che possiamo effettivamente trasformare gli stimoli attraenti in qualcosa di più moderato ed emotivamente blando, non chiamando in causa la sola forza di volontà ma anche la corteccia prefrontale stessa, che può diventare in grado di ‘raffreddare’ stimoli per noi seducenti.

Riprodotti in setting diversi (popolazioni più svantaggiate per esempio) e con soggetti di età diversa, studi simili e affini hanno confermato negli anni che la capacità di posticipare la gratificazione ha visibili e profonde conseguenze nella salute fisica e mentale della persona.

L’aspetto della possibilità di apprendere tali strategie è ovviamente uno dei punti chiave e di svolta dell’autore, che sottolinea come sia più semplice insegnarle ad un bambino piuttosto che ad un adulto.

Il titolo del lavoro ha a che vedere con il marshmallow ma poi è molto di più. Nei capitoli successivi e nelle 300 pagine del libro, vengono via via approfondite varie tematiche: Quanto conta la genetica e quanto invece l’ambiente? In che modo posso prendere oggi delle decisioni che siano fruttuose per un ‘me futuro’? Che ruolo hanno ottimismo e fiducia in sé stessi nella propria crescita personale? Come si decide di essere cicale (che vivono nel presente) o operose formiche (dedite al futuro)? 

Vengono sviluppati numerosi concetti che possono mediare l’attivazione del sistema freddo o del sistema caldo: la distanza psicologica per esempio (la discrepanza temporale, spaziale o ipotetica rispetto al momento in cui prendiamo una decisione e l’effettiva realtà di quando ci troveremmo ad affrontarla realmente), oppure l’autodistanziamento (vedere le cose dall’esterno, come se fossimo ‘una mosca in un muro’ per attivare il sistema freddo), o ancora, il sistema immunitario psicologico che ci protegge dagli effetti negativi dello stress cronico e ci aiuta nella gestione di notizie terribili e il ruolo del Modelling di Bandura nell’auto ed etero indulgenza.

Viene inoltre fatta una ricca esplorazione dei piani ‘se allora’, che sarebbero protagonisti anche della possibilità di posticipare gratificazioni nella misura in cui ognuno di noi ha bisogno di configurarsi una sorta di piano da mettere in atto, che sia più concreto e meno vago possibile, che ci fornisca delle strategie da mettere in atto all’occorrenza (di tentazioni).

Un libro sull’autocontrollo non può ovviamente non toccare il tasto della forza di volontà, che viene descritta come una risorsa biologica vitale, ma non illimitata, facendo quindi luce sui modi in cui questa possa essere fortificata quando tende ad esaurirsi.

Pertanto appare evidente che alcune persone possono essere più abili di altre quando si tratta di resistere alle tentazioni (e tale differenza può essere vista già in età prescolare), ma è vero anche che non dobbiamo essere vittime della nostra storia biologica; concetti come forza di volontà non sono così statici e immutabili come, forse, è facile credere, ma possono essere appresi e regolati. La determinazione deve fare compagnia a strategie e motivazione per rafforzare la perseveranza.

Un ulteriore aspetto che l’autore riferisce più volte è che, se è evidente che l’autocontrollo possa favorire tutta una serie di risorse psicologiche per la persona, allo stesso tempo una rigidità nel costante e perseverante rinvio della gratificazione (quindi lavorare, risparmiare, faticare e ‘attendere sempre altri marshmallow’) può non rivelarsi una scelta saggia: a volte occorre godere della vita ‘come un cicala’ e non essere sempre previdenti ed operosi come le formiche.

Un altro aspetto importante del testo è il tentativo di Mischel di rendere tutto il suo contenuto rilevante e rilevabile nel contesto della politica pubblica. Si parla molto infatti di come poter utilizzare tutte queste conoscenze per aiutare i bambini che crescono in ambienti più deprivati a colmare le lacune e riscattarsi nella vita, imparando ad esprimere il loro potenziale. Intervenire sullo sviluppo delle funzioni esecutive è un passo da fare ed uno degli interventi citati è sicuramente quello della meditazione e della mindfulness. Non è più il ‘penso dunque sono’ di Cartesio, ma diventa ‘penso, dunque posso cambiare ciò che sono’.

Il testo, benché non si risparmi nella citazione di un numero molto ampio di studi e di studiosi, non appare come un manuale vero e proprio, poiché la qualità della scrittura, in prima persona, e la fruibilità del contenuto, lo rendono un libro piacevole e scorrevole, una sorta di saggio circa lo stato attuale di ciò che sappiamo in merito all’autocontrollo, da un punto di vista psicologico e neuroscientifico. Un argomento che è una parte importantissima del lavoro clinico di ogni terapeuta, ma anche un aspetto rilevante di ogni persona, una variabile che può essere coltivata sia in età infantile che adulta. Una lettura assolutamente consigliata.

 

IL MARSHMALLOW TEST – GUARDA IL VIDEO DELL’ESPERIMENTO:

La AAT: una ricerca esplorativa sull’efficacia di un programma di terapia assistita da cani negli adulti con disturbo dello spettro autistico.

La Terapia Assistita da Animali in pazienti adulti con Disturbi dello Spettro Autistico è un intervento che include un animale addestrato ed obiettivi terapeutici prestabiliti guidati da un terapeuta.

 

Il Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) è una condizione permanente nel corso della vita, caratterizzata da compromissione della comunicazione ed interazione sociale, del linguaggio e delle funzioni cognitive; identificata dalla presenza frequente di comportamenti ripetitivi ed interessi ristretti.

La Terapia Assistita da Animali (Animal-Assisted Therapy, AAT), è un tipo di terapia alternativa o complementare che coinvolge gli animali (es. cani, gatti, cavalli) come forma di trattamento; è stata prevalentemente indagata in bambini e adolescenti evidenziando risultati postivi e riduzione dei sintomi.

Lo studio di Wijker e colleghi (2019) esplora gli effetti della AAT, dimostrando come essa riduca i problemi psicosociali (es. stress, depressione e ansia), migliori la comunicazione sociale e l’autostima negli adulti con disturbo dello spettro autistico. Sebbene gli adulti con ASD mostrino un’elevata comorbilità con altri disturbi psicopatologici, gli interventi psicosociali sono stati poco studiati e i trattamenti efficaci per questi pazienti sono limitati. Perciò, l’attuale ricerca è di tipo esplorativo e lo scopo era ottenere maggiori informazioni sulla qualità, pertinenza e validità dell’intervento, nonché sugli ostacoli ed elementi facilitanti per la sua realizzazione.

L’AAT in pazienti adulti con ASD è un intervento che include un animale addestrato ed obiettivi terapeutici prestabiliti guidati da un terapeuta. Il campione finale dello studio comprendeva 27 partecipanti (range età 18- 60 anni) e 13 cani terapeutici addestrati.

Il protocollo di intervento consisteva in 10 sessioni settimanali, ciascuna della durata di un’ora; le valutazioni dell’efficacia del trattamento sono state effettuate dopo 10 e 20 settimane.

Ai partecipanti e terapisti è stato chiesto di compilare due diverse versioni del questionario di valutazione del processo (PEQ), il quale conteneva domande su soddisfazione, pertinenza, fattibilità e validità dell’intervento. La pertinenza e la fattibilità sono state valutate dai soggetti secondo la propria prospettiva e quella degli altri. Per indagare la qualità della sperimentazione e l’attuazione del programma AAT, invece, sono stati raccolti dati sulla qualità del campionamento e dell’intervento e descritti gli ostacoli e i facilitatori dell’attuazione del programma AAT. I dati sulla qualità del campionamento sono derivati dal database di ricerca, dalla descrizione delle procedure di assunzione e dalle interviste semi-strutturate con i terapeuti coinvolti nel reclutamento. La qualità dell’intervento, invece, è stata valutata utilizzando il feedback delle parti interessate e valutando l’aderenza (il numero di sessioni completate da un partecipante) e la fattibilità (la misura in cui gli elementi del programma sono stati eseguiti come previsto).

In generale, i risultati hanno mostrato una riduzione dello stress e dell’agorafobia e un miglioramento della consapevolezza e della comunicazione sociale. In relazione al livello di soddisfazione dell’intervento, i partecipanti erano tutti soddisfatti dell’AAT in quanto hanno indicato di aver vissuto esperienze positive come gioia, intuizione, riflessione e rilassamento. Sia i partecipanti che i terapisti hanno segnalato l’AAT come pertinente e fattibile, sia per se stessi che per altri adulti con ASD. Alcuni dei fattori che rendono tale l’intervento sono: un feedback diretto sul comportamento, un ambiente sicuro e rilassante e l’opportunità di toccare un altro essere vivente durante le sessioni di terapia. Ecco le parole di pazienti adulte con ASD che hanno partecipato allo studio:

Il contatto con gli animali è spesso senza etichette, senza pregiudizi, e facilita la ricezione di nuove informazioni e l’apprendimento di nuove abilità. Inoltre, non ci sono problemi di distanza fisica con gli animali.

L’ostacolo maggiormente evidenziato è stato il tempo limitato per completare tutti gli esercizi in una sessione; i terapisti hanno riportato diverse cause: a) bassa velocità di elaborazione del partecipante, b) tendenza del paziente a parlare spesso, c) eventi di vita del soggetto, d) difficoltà motorie e cognitive del paziente. Un esempio di esercizio è un gioco di ruolo in cui il partecipante inventa un personaggio che interagisce con l’animale; questo è stato valutato come stimolante e potrebbe rappresentare una sfida per gli adulti con ASD a causa di problemi di immaginazione e gioco di finzione. Allo stesso tempo, questa tipologia di esercizio è stata vissuta come difficile e non è stata eseguita completamente dal 30% dei pazienti. Inoltre, il protocollo terapeutico prescrive una corrispondenza fissa tra il cane terapeutico e il paziente. Se un diverso cane da terapia (es. uno più giocoso) sembrava offrire migliori opportunità ad un partecipante di raggiungere gli obiettivi terapeutici, era possibile apportare una modifica (avvenuta nel 15% dei soggetti partecipanti allo studio). Infine, cani da terapia alternativi sono stati utilizzati anche in sessioni in cui i volontari non erano disponibili per portare il loro cane da terapia nella posizione terapeutica o il cane da terapia originariamente assegnato era malato.

I partecipanti hanno avanzato ulteriori suggerimenti per una migliore implementazione dell’AAT nelle cure per la salute mentale: a) orari flessibili per le sessioni di terapia che facilitano i partecipanti con un programma di lavoro a tempo pieno; b) più sedi terapeutiche, al fine di ridurre i tempi di viaggio e l’energia; c) copertura assicurativa sanitaria per rendere la terapia accessibile a persone altrimenti non in grado di partecipare a questa ricerca. Sia i partecipanti che i terapisti hanno documentato l’importanza della condivisione delle informazioni sulla terapia e sui risultati della ricerca per informare le persone con ASD, operatori sanitari e parti interessate.

I soggetti di sesso femminile e i proprietari di cani erano sovra-rappresentati nel campione dello studio; pertanto, la generalizzazione degli effetti del trattamento dovrebbe essere fatta con cautela. Sarebbe opportuno, per studi futuri, includere un campione più grande, che comprenda più soggetti di sesso maschile e non proprietari di un cane.

In conclusione, sulla base dei risultati ottenuti, è possibile affermare che la terapia assistita da animali può essere considerata una preziosa aggiunta alle possibilità di trattamento per ridurre lo stress e migliorare la comunicazione sociale negli adulti con disturbo dello spettro autistico.

 

L’utilizzo della Stimolazione Transcranica a Correnti Dirette (tDCS) nei disturbi da uso di sostanze

Lo studio del cervello ha affascinato gli scienziati di ogni epoca e gli effetti della corrente su di esso sono stati oggetto di un immenso interesse scientifico e non. Negli ultimi anni, la tDCS è stata sempre più utilizzata nella ricerca clinica psichiatrica ed in quella neuroscientifica di base con risultati positivi per alcuni disturbi mentali.

Maria Carlucci – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

La Stimolazione Transcranica con Correnti Dirette (Transcranical Direct Current Stimulation o tDCS) è una metodica di stimolazione cerebrale non invasiva, capace di indurre cambiamenti funzionali nella corteccia cerebrale. La tDCS consiste essenzialmente nell’applicazione sullo scalpo di elettrodi eroganti una corrente continua di bassa intensità in grado di attraversare lo scalpo e influenzare le funzioni neuronali, trovando applicazione in numerosi ambiti clinici, diagnostici e di ricerca.

Se lo studio del cervello ha sempre suscitato grande fascino negli scienziati fin dall’antichità, gli effetti della corrente su di esso sono stati oggetto di un immenso interesse, scientifico e non, dal momento della sua scoperta in diverse parti del mondo. Gli effetti di un’incontrollata stimolazione del cervello, infatti, sono stati riportati fin dal passato.

Scribonius Largus (il fisico dell’imperatore romano Claudio), descrisse come, piazzando una torpedine viva sul capo per inviare una forte corrente elettrica, si potesse alleviare l’emicrania. Galeno di Pergamo, uno dei più grandi medici dell’antichità, e Plinio il vecchio descrissero risultati simili. Nel XI secolo, Ibn-Sidah, un fisico musulmano, suggerì di utilizzare un pesce gatto elettrico per il trattamento dell’epilessia. I metodi di stimolazione transcranica hanno dunque una lunga tradizione. Già intorno al 1800, quando Volta inventò la sua pila elettrica, i ricercatori cominciarono a studiare le applicazioni della corrente diretta in una varietà di disordini neurologici. Studiosi come Walsh (1773), Galvani (1791, 1797) e Volta stesso (1792) stabilirono che la stimolazione elettrica di varia durata potesse suscitare diversi effetti fisiologici. In casi riportati negli scritti dell’epoca, ma non ben documentati senza gli standard moderni, si affermò che i pazienti affetti da ictus cronico potessero trarre beneficio dall’applicazione diretta di corrente (Stagg & Nitsche, 2004). Il primo resoconto sistematico delle applicazioni cliniche della corrente galvanica è datato in questo periodo, quando Giovanni Aldini, il nipote di Galvani, e alcuni altri ricercatori utilizzarono la stimolazione transcranica come tecnica per curare la depressione. In breve tempo, nel XIX secolo, seguirono numerosi studi. Molti altri ricercatori utilizzarono nello stesso periodo la corrente galvanica per il trattamento di disordini mentali, ottenendo risultati non sempre soddisfacenti (Parent 2004).

Guardando alla storia più recente, l’utilizzo della terapia elettroconvulsiva e degli psicofarmaci e la mancanza di segnali neurofisiologici attendibili oscurarono l’utilizzo della corrente diretta sul sistema nervoso centrale come strumento terapeutico e di ricerca, specialmente nel campo della psichiatria. Tuttavia, la corrente galvanica continuò ad essere utilizzata senza interruzioni nel trattamento di disordini muscolo scheletrici e dolori periferici.

Questi primi sforzi in campo neurofisiologico, dunque, furono probabilmente abbandonati a causa della mancanza di metodi di valutazione affidabili. Quando nel 1998 fu possibile misurare gli effetti dell’applicazione di corrente diretta sulla corteccia motoria, a livello non invasivo, per mezzo della stimolazione magnetica transcranica, la tDCS diventò affidabile in termini di parametri quali l’intensità di stimolazione, la durata e la convalida degli effetti plastici che ne conseguono (Priori et al. 1998).

Gli studi di Priori (1998) seguiti da quelli di Nitsche e Paulus (2001), dimostrarono come una debole corrente diretta potesse effettivamente essere inviata a livello transcranico andando ad indurre cambiamenti bidirezionali nella corticale dipendenti dalla polarizzazione. In modo specifico, si notò che la corrente diretta anodica incrementava l’eccitabilità corticale, mentre quella catodica la decrementava. Si prospettò quindi il possibile utilizzo di questa tecnica al fine di analizzare la plasticità e l’eccitabilità cerebrale e come valida cura nel campo dei disordini neuropsichiatrici (Priori et al. 1998; Nitsche & Paulus 2001).

Negli ultimi anni, la tDCS è stata sempre più utilizzata nella ricerca clinica psichiatrica ed in quella neuroscientifica di base con risultati particolarmente positivi nella depressione maggiore. Oltre alla depressione, l’efficacia clinica della tDCS in psichiatria è stata valutata nell’ambito del disturbo bipolare, della schizofrenia, dei disturbi d’ansia e dei disturbi da uso di sostanze e addiction.

In questo ultimo ambito, recentemente, è stato osservato che l’applicazione della tDCS sulla corteccia dorsolaterale prefrontale (DLPFC) si è rivelata un utile strumento nella riduzione del craving sia nei disturbi da uso di sostanze che nelle dipendenze comportamentali, aprendo così, nuovi scenari di ricerca.

L’uso della tDCS nei Disturbi da Uso di Sostanze

Una recente revisione della letteratura ha individuato solamente 18 studi clinici randomizzati (RCT) che indagavano l’utilizzo della tDCS in soggetti con disturbo da uso di sostanza (le sostanze valutate erano alcol, caffeina, cannabis, cocaina, eroina, metamfetamine e nicotina); lo studio prendeva in considerazione 473 pazienti totali. Tra le 18 ricerche selezionate, 16 di esse hanno valutato l’utilizzo della tDCS sulla DLPFC ed 8 hanno evidenziato una riduzione del craving, mentre 2 coinvolgevano l’area fronto-parietale-temporale (FPT) e di esse 1 riportava una riduzione del craving.

In definitiva gli autori evidenziavano che i risultati positivi sul craving erano sostanzialmente equivalenti sia con tDCS anodica sulla DLPFC destra che con tDCS anodica sulla DLPFC sinistra. Dall’altro lato le limitazioni degli studi analizzati erano i campioni numericamente limitati (tra 12 e 49 soggetti), la mancanza di dati sull’efficacia a lungo termine e l’utilizzo di diversi protocolli e procedure di stimolazione (Lupi et al. 2017).

In questo scenario, nuove forme di trattamento che possano agire in maniera sinergica e complementare ai farmaci e alle altre terapie ufficialmente indicate sia nei SUDs che nei vari disturbi psichiatrici sono auspicabili e necessarie. Le tecniche di neuromodulazione si prestano particolarmente ad agire in sinergia con le altre terapie e stanno conducendo a una progressiva integrazione del paradigma recettoriale, proprio dell’approccio farmacologico, con quello “circuitale”, in cui le funzioni mentali sono correlate a specifici circuiti neurali, che a loro volta possono essere selettivamente modulati per scopi terapeutici o di ricerca. Tale integrazione trova il suo razionale nella fisiologia di base del sistema nervoso, secondo cui l’informazione viaggia tra i neuroni con una duplice codifica, elettrica e chimica. L’intervento combinato sulla componente elettrica dell’informazione (attraverso le tecniche di neuromodulazione) e su quella chimica (attraverso i farmaci) può consentire di ottenere effetti biologici sinergici e risultati terapeutici altrimenti irraggiungibili. Parimenti, le possibilità di integrazione della neuromodulazione con altre metodologie di approccio, quali la psicoterapia o la riabilitazione cognitiva, aprono scenari estremamente affascinanti che, partendo dal campo del trattamento psichiatrico, si inoltrano nell’indagine sul rapporto mente-cervello e sui meccanismi di plasticità e metaplasticità neurale che governano il rapporto individuo-ambiente, anche indipendentemente dai processi patologici e terapeutici.

D’altro canto, la tDCS presenta alcuni limiti, sia dal punto di vista prettamente strumentale, sia dal punto di vista dell’utilizzo. Per quanto riguarda l’ambito strumentale, un potenziale problema deriva dal fatto che gli strumenti della tDCS non sono standardizzati a livello mondiale. Questi strumenti infatti possono essere facilmente costruiti utilizzando l’attrezzatura e la tecnologia standardizzata nei laboratori di ingegneria anche al college o nelle università. Di conseguenza si possono trovare almeno una dozzina di strumentazioni tDCS differenti in tutti i laboratori di modulazione a livello mondiale, rendendone difficoltosa l’universalizzazione. Gli strumenti della tDCS, inoltre, non sono cambiati drasticamente dai tempi in cui la batteria fu scoperta per la prima volta. Pertanto la tecnologia convenzionale presenta determinati limiti. Questi includono la focalizzazione dell’area stimolata, la profondità di penetrazione ed il controllo della localizzazione del bersaglio.

In conclusione, possiamo dire che la tDCS si presenta comunque come una tecnica non invasiva, ben tollerata dai pazienti, i cui effetti collaterali sono ridotti al minimo. Questo la rende oggetto di un enorme interesse da parte di studiosi di diversi ambiti, tra cui quello clinico, in cui la ricerca delle cause che stanno alla base delle malattie e delle cure più appropriate per il loro trattamento non possono prescindere da una completa sicurezza per la salute del paziente. Tuttavia, anche se il numero di applicazioni cliniche della tecnica è cresciuto a livello esponenziale negli ultimi anni, allo stesso tempo la sua comparsa in ambito clinico ha suscitato la nascita di nuove questioni da dover risolvere. Molte sono le domande a cui dare ancora risposta, risposte che non sono ancora tutt’ora abbastanza precise, e molti sono ancora i quesiti da risolvere nella comprensione dell’esatto funzionamento della tDCS in determinati ambiti per poterne garantire l’utilizzo sicuro in campo clinico.

Sebbene la strada da percorrere per comprendere a fondo gli effetti ed i meccanismi d’azione di questa metodica sia ancora lunga, essa rappresenta tuttavia una tecnica ricca di potenziale, soprattutto nel campo delle addiction. Solo il proseguimento delle sperimentazioni permetterà di verificare la reale portata dei suoi effetti e determinare in futuro la possibilità di utilizzo in ambito clinico.

 

#thininspiration, quando la perdita di peso è una questione social: il caso di Instagram – Psicologia Digitale

I contenuti collegati al #thinspiration sono per lo più immagini con testi che incoraggiano a non mangiare o che esprimono disagio e sofferenza, sentimenti di tristezza, isolamento, senso di inutilità, desideri di autolesionismo o pensieri suicidari.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 5) #thininspiration, quando la perdita di peso è una questione social: il caso di Instagram

 

 La diffusione online di contenuti pro-ana (pro-anoressia) non è recente, risalgono anzi agli anni Novanta i primi blog e siti utilizzati per promuovere condotte autolesive, diete ed esercizi estremi.

Negli ultimi anni si è assistito a una migrazione della comunità pro-ana dai siti (statici, focalizzati esclusivamente sull’anoressia e facilmente rintracciabili dalla Polizia Postale che può chiuderli), verso piattaforme social come Instagram, più aperta e flessibile, che raggiunge velocemente un maggior numero di utenti oltre che più difficile da moderare e controllare. 

Instagram, non un social come gli altri: l’immagine al primo posto

Instagram incoraggia un confronto sociale basato su foto che nella maggior parte dei casi sono ritoccate; come mostrato da alcuni autori (ad esempio Hendrickse et al., 2017) da questo confronto si esce la maggior parte delle volte con un bagaglio di insoddisfazione corporea ed aspirazioni di magrezza eccessiva. Del resto, Instagram fonda il suo successo su contenuti visivi, sull’utilizzo di filtri e di hashtag per la diffusione di argomenti. Uno dei più popolari è #thinspiration, l’unione di thin, sottile, e inspiration, ispirazione. Viene usato per evidenziare contenuti che promuovono perdita di peso, esercizio fisico esagerato e comportamenti alimentari restrittivi con immagini di corpi in evidente sottopeso o estremamente sottili, immagini di ossa sporgenti, stomaci estremamente piatti o ancora di trasformazioni prima e dopo la perdita di peso.

Non mancano tentativi di arginare la condivisione di contenuti che possono istigare a comportamenti autolesivi, ovvero impedendo la pubblicazione di alcuni hashtag. Questi divieti imposti dalle piattaforme non sono riusciti a bloccare l’attività pro-ana sui social, infatti hashtag vietati come #thinspiration e #thinspo riappaiono leggermente modificati (ad es. #thinsp00) in modo da eludere i divieti, mentre una grande quantità di contenuti pro-ana fiorisce con tag alternativi come #bodycheck, #collarbones, #thighgapp, #bonespo, #anamia, #size00, #needtobeskinny, #brokenana, #secretsociety123 e #wanttobeskinny.

Thinstagrammers: ispirazione, slogan e consigli

Un numero sempre più ampio di utenti pro-ana (chiamati thinstagrammers) ha rivolto la propria attenzione a Instagram perché ogni contenuto può raggiungere facilmente un grande pubblico, grazie all’utilizzo di più hashtag sotto lo stesso post.

Instagram nasce come app visuale, dotata di numerosi filtri da applicare alle foto: la natura creativa di questo strumento può far apparire ‘artistiche e glamour’ anche condizioni come i disturbi alimentari. La componente estetica fa riferimento a canoni a volte esaltati nell’ambito della moda e ciò probabilmente attenua l’effetto disturbante che possono avere immagini forti come sporgenze ossee o autolesioni.

Ging e Garvey (2018) hanno analizzato i contenuti collegati al #thinspiration: sono per lo più immagini con testi che incoraggiano a non mangiare o che esprimono disagio e sofferenza, sentimenti di tristezza, isolamento, senso di inutilità, desideri di autolesionismo o pensieri suicidari. Non mancano suggerimenti su come mantenere e nascondere un disturbo alimentare, immagini di pasti a basso contenuto calorico, diete e piani di esercizi.

Instagram, come tutti i social network, incoraggia l’interattività: i thinstagrammers lo utilizzano in modo proattivo, ricercando automotivazione e senso di appartenenza ad una comunità che a volte viene chiamata in causa con alcuni giochi o sfide, le challenge. Si tratta di post in cui l’utente si impegna a fare o non fare alcune cose: ad esempio, digiuno o esercizio fisico eccessivo in cambio di like, o ancora chiedere ai follower di nominare un alimento che poi ci si asterrà dal mangiare per un determinato periodo di tempo. C’è anche una componente competitiva, in cui gli utenti sfidano gli altri a partecipare ai digiuni e chiedono dei #bodycheck, che consistono nel condividere peso e misure del corpo in modo che gli altri possano commentare i loro aggiornamenti, esponendosi a critiche o apprezzamenti sul loro peso.

La ricorsività con la quale hashtag pro-ana vengono pubblicati insieme ad altri (ad esempio #sad, #selfharmmm, #ansia, #depressedgirl, #bullied), svela una relazione del disturbo alimentare con altre problematiche, permettendoci così di avere una visione più ampia e contestualizzata.

Una parte di utenti utilizza hashtag correlati a #thinspiration per supportare attivamente e in maniera propositiva chi ha un disturbo alimentare: condividono informazioni su percorsi di guarigione, a chi rivolgersi per avere un aiuto professionale, ricette e suggerimenti per pasti sani ed equilibrati.

Instagram in seduta: spunti di riflessione

Se è importante essere prudenti nel correlare l’uso dei social media alla diffusione di comportamenti autolesivi, dall’altro è altrettanto importante considerare il ruolo che queste tecnologie svolgono: i social media possono da un lato offrire supporto, consigli e informazioni sui trattamenti, dall’altro possono rinforzare i sintomi e la credenza che si tratti di uno stile di vita invece che di una condizione di rischio quando non un vero e proprio disturbo.

Instagram può essere utilizzato nel processo di guarigione: informazioni sulle terapie, tracciamento dei progressi, informazioni su esercizi e pasti salutari, riduzione dello stigma, maggiore conoscenza del disturbo, supporto sociale. I professionisti della salute dovrebbero tenerne conto in seduta e nell’intero percorso terapeutico. Si può prendere in considerazione di ricavarsi uno spazio per un confronto su quanto emerso online, per indagare insieme la qualità delle informazioni raccolte, l’esperienza del paziente sui social; si può adottare un approccio ‘visivo’ al lavoro col paziente: predisporre dei task e un monitoraggio che siano altrettanto visual come Instagram. Ultimo ma non meno importante, esplorare gli aspetti positivi dell’avere il supporto online della community, che possono essere i followers o i profili seguiti; indagare che uso fa il paziente dei social media, a cosa è interessato. Non sono i social media ad essere ‘buoni’ o ‘cattivi’, ma è l’uso che se ne fa.

 


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La viralità del TikTok

TikTok è il fenomeno del momento che ha riscosso successo tra la Generazione Z dei nativi digitali (Prensky, 2001). Sono i ragazzi nati dal 1995 in poi gli utenti di TikTok, attualmente, il social network più popolare tra i giovanissimi.

 

Si tratta di un social lanciato in Cina nel 2016, conosciuto inizialmente come musical.ly. I fondatori Alex Zhu e Luyu Yang programmarono inizialmente una piattaforma con obiettivo educativo, ovvero di favorire l’apprendimento attraverso brevi video di 3 o 5 minuti. La piattaforma non ebbe successo e fu trasformata in un social network che incorporasse musica e video e avesse come target privilegiato gli adolescenti. Dopo aver creato un proprio profilo, infatti, gli utenti possono condividere video verticali e in loop tra i 15 e i 60 secondi di lunghezza. Un ampio toolkit di editing, con una gran varietà di filtri ed effetti, e una vasta libreria musicale, consente agli utenti di sintonizzare e personalizzare i propri contenuti con effetti brillanti, comici, coinvolgenti. Cosa si può fare con TikTok? I creatori possono aggiungere, remixare, salvare e scoprire brani e suoni tramite playlist, video e altro. Questo si collegherebbe al nome stesso del social che rimanderebbe al suono ritmico di un ticchettio di orologio, simbolo della natura breve dei video. Gli utenti di TikTok possono seguire gli account che preferiscono e apprezzarli con un cuoricino, commentare o condividere i video che preferiscono. Una funzione che rende esclusivo TikTok è l’utilizzo di una moneta virtuale che gli utenti possono acquistare per premiare i creatori dei contenuti maggiormente apprezzati, i quali acquistano ‘credito’ personale e gruppale.

Ma cosa motiva gli adolescenti ad iscriversi a TikTok? E come si struttura l’identità virtuale del consumatore di TikTok? Innanzitutto, a differenza degli altri social, gli utenti, su TikTok hanno un nome specifico e sono noti come musers o tik tokers. Secondo lo studio di Zuo e Wang (2019), la funzione principale della cultura popolare è l’intrattenimento e, quindi, la mission del social network TikTok è quella di divertire. La maggior parte dei brevi video su Tik Tok sono principalmente spiritosi, umoristici e divertenti. Gli utenti si divertono in TikTok rompendo la monotonia della vita reale in tempi brevi (Zuo & Wang, 2019, 3). Allo stesso tempo, per gli utenti che vogliono esprimersi, il processo di realizzazione di brevi video diventa un piacere e un piacersi.

L’operazione di ‘decentralizzazione’ di TikTok consente agli utenti di creare brevi video sempre e ovunque, di esprimere e mostrare la propria personalità attraverso la produzione e condivisione di brevi video. In particolare, la massiva partecipazione virtuale è motivata anche dalla presenza delle cosiddette challenge, le sfide. Se da un lato le sfide creano una sana competizione virtuale per ottenere maggior ‘credito’, essere notati dai brand o dagli influencer, dall’altro, l’imitazione di un video genera inevitabilmente l’espressione creativa dell’identità, al fine di essere più apprezzati. In altre parole, l’atteggiamento di un singolo individuo nel mondo offline è altamente influenzabile dal comportamento del gruppo in cui è inserito. Per rimanere in linea con il gruppo, l’individuo adeguerà costantemente il suo comportamento al feedback che il gruppo restituisce, in modo da seguirlo e imitarlo. Sempre dallo studio di Zuo e Wang (2019) emerge che i brevi video di Tik Tok si diffondono rapidamente, diventando altamente virali anche su altre piattaforme. E, essendovi in TikTok il principio imitativo, gli utenti seguiranno la tendenza popolare nella produzione dei contenuti. Per esempio, la popolare ‘danza delle alghe’ è diventata l’oggetto che più gli utenti TikTok tendono ad imitare. Per questo motivo, TikTok non solo incontra esigenze di intrattenimento, ma soddisfa anche i bisogni sociali degli utenti.

Infine, si può affermare che questo tipo di partecipazione non è solo espressione della cultura, ma anche un importante riflesso del dilemma del senso di appartenenza dell’utente al gruppo o alla generazione e di una necessità di una catarsi emotiva.

 

Il pensiero consapevole e il pensiero automatico – Il top down e il bottom up in psicoterapia

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento che verranno pubblicati su State of Mind nei prossimi giorni

 

Introduzione

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo. Questi secondi sono contenuti presenti solo in modo parziale alla coscienza e in questo senso coincidono in parte con il termine inconscio impiegato come aggettivo, sono processi che non sono elaborati al livello superiore, evoluzionisticamente più recente del cervello, rimanendo sul livello arcaico o intermedio e solo attraverso la ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale i tre livelli, possono arrivare alla consapevolezza (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017).

La contrapposizione dialettica che proporremo di ricomporre in una sintesi superiore si riproduce naturalmente anche quando si tratta di intervenire, tra chi considera interventi più efficaci quelli che operano sul pensiero razionale, e chi invece pensa che sia necessario toccare ciò che, utilizzando un’espressione di moda è incarnato, quel pensiero determinato da esperienze attivate da sensazioni corporee.

Sono elencati dai fautori dell’una e dell’altra posizione rischi e vantaggi che s’incontrerebbero nel privilegiare un intervento a scapito dell’altro.

Chi preferisce il top down sostiene che preferendo interventi bottom up la ‘componente artigianale’ (Sassaroli, Ruggiero, 2016) possa diventare prevalente rinunciando a ricercare gli aspetti più scientifici, più riproducibili, così da far ricorso alle abilità personali di terapeuti esperti più che a interventi programmati secondo progetti che si avvalgono della corretta e condivisa formulazione del caso. Conseguentemente se i processi fossero complessi e non replicabili anche la ricerca non riuscirebbe a evidenziare dati di efficacia su cui costruire miglioramenti progressivi. Si arriverebbe a una trasmissione sapienziale da maestro ad allievo che non farebbe progredire la psicoterapia. Inoltre, dal punto di vista clinico i processi top down sembrerebbero più promettenti, relativamente all’efficacia, degli altri interventi. Tra chi propende per questa posizione, si riconosce, comunque, che

I termini top down e bottom up sono sicuramente molto limitati e limitanti e finiscono per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico, riconoscibile e operazionalizzabile (Sassaroli, Ruggiero, 2016).

D’altra parte, Mancini (comunicazione in mailinglist SITCC) non riconosce la suddivisione perché fa riferimento a una bipartizione mente cervello inaccettabile. Si tratta di processi solo apparentemente opposti, ma in realtà fra loro ricorsivamente interconnessi.

Per chi è più favorevole al bottom up la conoscenza tacita, implicita e i processi che ne derivano sono difficilmente accessibili se non con tecniche che agiscono sul comportamento o sull’esperienza sensitiva-corporea.

Alcuni contenuti di pensiero possono essere meno soggetti al controllo esecutivo e cosciente e avere un carattere intrusivo, presentarsi alla mente improvvisamente e avere la natura di automatismi. I nostri modi di reagire mentalmente alle situazioni difficili possono realizzarsi con l’automaticità delle abitudini radicate. Questi automatismi sono accompagnati da una marcatura somatica con percezioni e sensazioni che riguardano il livello bottom-up dell’elaborazione.

Traumi ed esperienze di vita avverse, determinano alterazioni del normale funzionamento del sistema nervoso bloccando la normale elaborazione dell’esperienza e i processi che attivano diverse componenti, sensoriale, cognitiva, emozionale, semantica, corporea, diventano disfunzionali.

La compromissione del normale funzionamento psicologico comporta conseguentemente una difficoltà a elaborare e integrare in modo unitario e coerente le successive esperienze, determinando nei casi più gravi una disorganizzazione delle funzioni integrative della coscienza (Janet, 2016; van der Hart et al., 2011; van der Kolk, 2015).

Il malfunzionamento delle attività mentali superiori non permette di affrontare le difficoltà del paziente attraverso interventi top down e richiede l’applicazione di approcci e tecniche definite bottom up che agiscono sulle funzioni mentali evolutivamente più arcaiche (Liotti, Farina, 2011).

Ciò che emerge, comunque, dal dibattito teorico, e dall’esperienza clinica è che per produrre il cambiamento occorre agire sia sui processi alti, sia sui processi bassi, integrando strategia e tecniche, anche se la via dell’integrazione è ancora tutta da percorrere.

Un contributo a questo dibattito giunge anche da Kahneman (2013) che propone la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento occupandosi del giudizio, del processo decisionale e degli errori sistematici che si commettono in condizioni d’incertezza.

Alcune riflessioni a proposito del pensiero veloce e del pensiero lento

In molti disturbi psicopatologici si trovano bias che riguardano soprattutto quello che lo psicologo israeliano definisce sistema 1 o pensiero veloce. Decisioni dettate da preferenze intuitive contravvengono spesso le regole della scelta razionale, secondo la Prospect Theory il pensiero veloce opera automaticamente con un’elaborazione continua della memoria associativa e senza controllo volontario. Questa concettualizzazione sembrerebbe analoga a ciò che s’intende in letteratura per livello bottom up.

Il sistema 2 (pensiero lento) indirizza invece l’attenzione verso attività complesse e impegnative. Questo sistema è razionale. Le operazioni automatiche del sistema 1 (impressioni e sensazioni) generano idee complesse ma solo il sistema 2 elabora pensieri in serie ordinate di stadi, quindi opera al livello top down.

Le funzioni dei due sistemi secondo l’autore sono distinte, ma possono essere interconnesse.

Alcuni esempi che riguardano il pensiero veloce e il pensiero lento possono farci capire come l’interconnessione possa portare in alcune particolari situazioni a trasformare bias ed euristiche in decisioni razionali e scelte ponderate rispetto alle conseguenze, in altri termini a trasformare pensieri automatici negativi e idee irrazionali in modo da riportare l’attivazione fisiologica a essi correlata all’interno della finestra di tolleranza (Porges, 2016) che consente di regolare gli stati emotivi in modo funzionale.

Con il pensiero veloce ci orientiamo verso un rumore improvviso, leggiamo i segnali stradali, comprendiamo una frase semplice di nostro figlio. Il pensiero lento ci fa concentrare l’attenzione sulla voce del nostro partner che ci parla, cercare nella memoria per riconoscere un paesaggio, parcheggiare la macchina, controllare la logica di un’argomentazione.

Nel sistema 2 entrano in gioco in misura preminente i processi, attenzione, memoria, pensiero, nel sistema 1 sono preponderanti sensazioni e percezioni.

L’interazione tra i due sistemi è determinata dall’attività dell’uno che fornisce stimoli per l’altro. Quando il sistema 1 non riesce a rispondere come avviene di solito, chiede aiuto al sistema 2 che interviene per rimuovere l’impasse, correggere l’errore o, se volete, l’invalidazione del pensiero veloce. I due sistemi operano con il minimo sforzo e in modo efficiente.

Il funzionamento normale consente di fare previsioni appropriate al sistema 1 in situazioni conosciute, ma in condizioni d’incertezza è più probabile che commetta errori sistematici che spesso possono generare sofferenza.

D’altra parte, le illusioni percettive o cognitive dimostrano come sia impossibile spegnere il sistema 1 ma è altresì necessario considerare che sarebbe disadattivo mettere in discussione il nostro pensiero intuitivo. Ciò determinerebbe comunque errori di altro genere. Un giusto compromesso dovrebbe portarci a riconoscere i frame dove si può annidare l’errore, cercare di evitarlo, soprattutto quando l’errore è tanto grave da mettere in discussione l’ordine del sistema e soprattutto imparare da esso per portare la conoscenza a un livello superiore.

Il sistema 1 e il sistema 2 toccano sia i contenuti sia i processi mentali e possono determinare un buon adattamento o disfunzioni patologiche nei pazienti ed errori o manovre appropriate nei terapeuti. E’ proprio su questi ultimi che vogliamo porre l’attenzione  riprendendo un argomento di cui c’eravamo già occupati.

In un sistema autorganizzato il sé connette e rielabora l’esperienza attraverso processi autoreferenziali. L’errore rappresenta una perturbazione che attiva una costruzione che rimuove l’omeostasi e all’interno di una teoria critica cerca di andare oltre ciò che appare per individuare livelli più elevati di conoscenza. L’errore rendendo impossibile la coerenza dell’esperienza muove il sistema verso la modifica o l’abbandono del paradigma, riorganizzando i significati su modalità funzionali e che contemplano l’errore stesso come possibilità evolutiva. (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Il contributo delle neuroscienze

Sul cervello si sono succedute molte teorie: dualistiche (Cartesio), meccanicistiche (De la Mettrie), riflessologiche (Pavlov), della localizzazione delle funzioni, dell’architettura modulare (Fodor), del connessionismo e delle teorie motorie (Weiner) che non hanno ancora dato risultati definitivi sui fenomeni psichici, nonostante nuovi metodi e nuovi strumenti d’indagine ci hanno messo di recente nelle condizioni di avere a disposizione informazioni molto approfondite e specifiche, valide e affidabili.

Le neuroscienze, comunque, al momento non sono ancora in grado di fornire dati sui meccanismi interni del cervello tali da poterne spiegare il funzionamento. E’ possibile attendersi dalla ricerca sviluppi interessanti, anche se negli ultimi tempi prevale un certo scoramento rispetto ai risultati fin qui raggiunti e, parallelamente al numero notevole di ricerche condotte, aumentano le critiche riguardo all’impostazione teorica e metodologica di questi studi. In un recente interessante articolo Piattelli Palmerini (2015), dopo aver intervistato alcuni neuroscienziati di fama internazionale, conclude evidenziando

che sono tutt’altro che trascurabili le numerose correlazioni stabilite, grazie alle sofisticate tecniche di brain imaging e all’analisi di patologie, tra specifiche attività cognitive e specifiche regioni cerebrali. Si tratta di preziose e interessanti correlazioni, ma sono solo correlazioni. Perché una certa area cerebrale sia connessa, poniamo, alla presa di decisione, mentre una diversa area è connessa, poniamo, alla sintassi, per ora, nessuno ce lo può dire. Per capire cosa succeda entro tali aree, e perché vi succedano cose diverse, dobbiamo aspettare qualche rivoluzione scientifica, simile alla scoperta della struttura del DNA e poi del codice genetico.

Attualmente le neuroscienze rischiano di scambiare correlazioni con rapporti causali e di analizzare il funzionamento della mente riducendola al funzionamento cerebrale operando un riduzionismo a livello sub personale inutile per la psicologia e la psicopatologia.

Seguendo alcune indicazioni che emergono comunque dal dibattito in corso, potremmo condividere con Edelman (2006) che l’esperienza e l’apprendimento sono fondamentali per l’adattamento e sono paralleli al mutamento organico ed evolutivo.

Le funzioni cerebrali si formano secondo un processo interattivo e selettivo continuo. L’esperienza sensoriale è riconosciuta, classificata e categorizzata dal sistema nervoso che costruisce mappe del mondo. L’esperienza modifica il cervello, in particolare le aree interessate dai processi sopra descritti, con la possibilità che quelle esperienze generino informazioni (contenuti) archiviati in memoria che riemergono in presenza di eventi che richiamano strutture e processi preposti all’elaborazione delle risposte affettivo-emotive. Damasio (1994) descrive questo meccanismo della vita mentale che presuppone un forte legame tra somatico e mentale introducendo il concetto di marcatore somatico.

In definitiva, stando alle conoscenze attuali sembrerebbe possibile affermare che stati mentali e stati fisici sono complementari e i primi sono emergenti e interconnessi ricorsivamente con i secondi.

L’interessante è capire come alcune attivazioni del pensiero veloce, livello bottom up e del pensiero lento, livello top down possano manifestarsi e con quali conseguenze in terapia. Seguiamo alcune tracce lasciate da Kahneman (2013).

 

I contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia saranno argomento dei prossimi articoli.

 

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