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I bias cognitivi rivolti alle policy del nudging

Tradizionalmente, per indurre un cambiamento comportamentale a livello individuale e collettivo, la scatola degli attrezzi dei policy-makers è dotata in primis di divieti, obblighi, sussidi, sanzioni, tassazione, politica dei prezzi. Grazie alla sostituzione di tali attrezzi – in parte obsoleti e non più competitivi nel costo – con altri di nuova generazione, si sta implementando in modo crescente il nudging.

 

E’ una policy di soft power per scoraggiare un’azione o il consumo di un bene/servizio (demerit good) – ovvero incoraggiarne altri (merit goods); in più, è una policy low cost fondata sulla moral suasion. E in tempi di conti pubblici critici, tale requisito non è di poco momento.

La celeberrima immagine è quella dell’animale adulto che dà una piccola spinta al cucciolo per aiutarlo a superare un ostacolo o a buttarsi in un’esperienza che lo spaventa, ma che lo premia nel lungo periodo per la sua stessa sopravvivenza.

La teoria del nudge di Thaler (Nobel per l’Economia nel 2017) ha contribuito al consolidarsi dell’economia comportamentale e a utilizzarla nell’analisi e valutazione delle politiche pubbliche. La batteria di strumenti comprende: i bias cognitivi – tra cui il framing effect – e la moral suasion, che sopperiscono alla mancanza di volontà dell’individuo, spesso inducendolo a scelte miopi di appagamento immediato a scapito di quelle (più costose) lungimiranti di lungo periodo.

Numerosi paesi infatti sfruttano positivamente taluni errori sistematici, persuadendo e incoraggiando tramite piccole, ma efficaci ‘spinte gentili’ (nudging), i soggetti verso comportamenti virtuosi sul piano individuale e per la collettività.

Anche il settore privato (ad esempio nel marketing) si avvale del nudging con successo.

La fortuna dello sviluppo delle politiche di nudge è collegata essenzialmente ad almeno tre circostanze: i) l’idea che noi siamo ‘Uomini’ e non ‘Econi’ (Thaler, Sunstein): soggetti fallaci, che si confondono, si contraddicono, dimenticano, le cui previsioni sono per lo più imprecise e distorte. Niente a che fare con l’onniscente e ottimizzante homo oeconomicus (l’Econe); ii) nel 2010, in UK, viene costituita un’unità di ricerca, il Behavioural Insight Team, volta ad attuare, validare e adattare politiche pubbliche basate sul nudging; iii) Sunstein, professore alla Harvard Law School di Economia comportamentale (applicazione dei concetti di psicologia cognitiva alla comprensione delle decisioni economiche), viene nominato dal Presidente Obama capo dell’Ufficio dell’Informazione e delle Regole. Secondo la sua linea, un governo otterrebbe buoni risultati ‘sospingendo’, suggerendo, più che imponendo. Le regole devono diventare l’opzione naturale per una collettività che le sceglie in quanto ritenute migliori e senza che ciò pregiudichi le libertà di scelta.

La filosofia su cui si fonda tale policy è il ‘paternalismo libertario’ di Thaler e Sunstein. Benché libertarismo e paternalismo siano ossimori (Sunstein e Thaler, 2003b), gli autori del nudging, Thaler e Sunstein, creano un ponte tra queste due sponde (Sunstein e Thaler, 2003a): da un lato, ‘paternalisticamente’, si decide che una scelta o un comportamento sia migliore per i singoli e per la collettività – tutelare la salute fisica, l’ambiente, risparmiare per la pensione, ecc. – e dall’altra, non si introducono obblighi né divieti. Se da una parte si spingono le persone a preferire le scelte migliori per loro, allo stesso tempo si lasciano inalterate tutte le opzioni loro possibili (da cui l’aggettivo ‘libertario’). Una leggera spinta verso un comportamento più virtuoso a beneficio dell’individuo e della società può mai essere etichettato pregiudizievole della libertà individuale? Una leggera modifica dell’architettura della scelta, infatti, non è equiparabile a una limitazione della libertà: il soggetto è stimolato a imboccare pattern decisionali che altrimenti avrebbe ignorato per i naturali limiti della razionalità, soprattutto quando si trova a operare in condizioni di incertezza.

Il ragionamento è soggetto a confusioni, cantonate – la maggior parte delle quali rientrano nell’ampia categoria dei bias cognitivi e a naïves semplificazioni. Basti pensare al mental accounting, termine coniato da Thaler per indicare che nella mente non tutti i soldi sono uguali e, di conseguenza, vengono posti in appositi cassetti mentali che aiutano il soggetto a decidere su come allocarli (nel cassetto A si trovano quelli destinati al ménage familiare, in quello B all’istruzione dei figli, nel D vanno quelli per il tempo libero, nel cassetto E i risparmi che si accumulano nel tempo, ecc.).

Ma non è solo la razionalità a essere limitata; lo è anche la volontà, pure nella capacità di autocontrollo. Nelle scelte intertemporali, miopi sul breve periodo vs quelle ottimizzanti di lungo periodo, l’individuo è portato a cedere al canto delle Sirene piuttosto che a essere un pianificatore lungimirante che fa rotta verso la strada di casa (Elstern, 2005).

A tale mix di cedimenti sia nella razionalità sia nella volontà un supporto viene appunto dal nudging. Uno dei temi più cari alla teoria dei nudge è l’opzione di default. Tali opzioni costituiscono scelte predefinite che divengono effettive quando il decision-maker non intraprende azioni per cambiarle. Consiste, quindi, nell’abilità dell’architetto strutturare una situazione o una modalità di vendita di un prodotto/servizio perché l’individuo privilegi la situazione di base senza che senta la necessità di scegliere e fare cambiamenti (status quo bias). Sulla base di tale bias, la strategia degli individui è ‘scegliere di non scegliere’. La situazione attuale viene presa come punto di riferimento (focal point), e qualsiasi mutamento (opt-out) viene considerato una perdita (di varia natura: costi fisici, cognitivi, di tempo, emotivi, ecc.).

Johnson e Goldstein hanno osservato le percentuali di donatori di organi nei paesi europei, rispetto alla popolazione, enucleando due categorie di paesi: uno – che sembrerebbe molto generoso – dove la quasi totalità dei cittadini è donatrice e un secondo – apparentemente più egoista – in cui, invece, i valori sono molto più bassi. Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che l’architettura di un programma di policy riesce a dirigere le scelte di massa a beneficio dell’intera collettività e a gratificare (attraverso il rilascio di dopamina) il singolo donatore, con l’atto del futuro dono. L’architettura della scelta diventa quindi dirimente per la sanità pubblica e per il numero di vite salvate tramite trapianto di organi.

L’opzione di default è l’opzione di partenza e, quindi, la modalità in cui la donazione degli organi è strutturata. Nel gruppo dei paesi con i tassi più alti (l’Austria con il 99% della popolazione), l’opzione di default è quella del silenzio-assenso per cui si è automaticamente donatori e, in vita, si può semmai esprimere la volontà di uscire dal programma (sistema opt-out).

Nei paesi con i tassi più bassi (come la Germania, con il 12 per cento), invece, l’opzione di default è non donare, a meno che in vita si decida di aderire al programma di donazione (sistema opt-in).

La libertà è garantita in entrambe le situazioni, ma il risultato, di fatto, dipende da quale è l’opzione di default. In entrambi i casi la popolazione si appiattisce allo status quo (status quo bias), e quindi al default bias (le persone replicano le scelte passate, si comportano allo stesso modo e vengono prese dalla pigrizia persino quando le circostanze richiederebbero un cambiamento). Si può allora sfruttare in maniera strategica la tendenza al default, avvalendosi dell’umana e generalizzata tendenza a evitare scelte impegnative e pensieri spiacevoli; a risparmiare energia, all’inerzia. Di fatto, quando sono indecise, le persone aderiscono a quanto fanno gli altri (effetto gregge) o, semplicemente, a non far nulla.

Istituti finanziari del nord Europa hanno impostato i clienti come investitori etici. Se qualcuno desidera sottoscrivere fondi non etici, deve firmare una specifica lettera. In pratica, puntano sulla pigrizia dell’utente.

Il Massachusetts General Hospital, per migliorare la salute dei propri dipendenti, ha usato due accorgimenti presso la mensa: evidenziare con un segnale tipo semaforo il livello di benessere dei cibi in vendita (verde per le insalate, rosso per gli hamburger); mettere ad altezza occhi i cibi più salutari e abbassare il junk food. In due anni, secondo i dati della ricerca, vi è stato un calo del 39% nel consumo di cibo spazzatura.

In UK le utilities di luce e gas hanno inviato ai clienti lettere con frasi del tipo: 9 persone su 10 nel tuo quartiere pagano la bolletta con regolarità; il consumo della tua abitazione è superiore alla media del tuo vicinato. La ricerca dimostra che chi ha ricevuto simili pungoli ha pagato più velocemente il debito e ridotto il consumo elettrico.

Anche in questi due ultimi esempi è bastato cambiare il frame per ottenere risultati efficaci.

Altro esempio di nudging è ispirato alla Fun Theory (something as simple as fun is the easiest way to change people’s behaviour for the better). Per il loro interesse – fare moto – si invoglia all’azione le persone, vincendo la loro naturale pigrizia, puntando sul divertimento. A Stoccolma, nella metropolitana di Odenplan, proprio accanto alla scala mobile, è stata creata una bellissima scala dove i gradini sono configurati e disegnati come la tastiera di un pianoforte e i gradini, calpestandoli, emettono ciascuno una nota di pianoforte (Piano Stairs).

Tuttavia, le contestazioni sulle politiche pubbliche basate sul nudging non hanno tardato: il conduttore tv ultraconservatore Glenn Beck ha etichettato Sunstein l’’uomo più pericoloso d’America’: i suoi ‘buoni consigli’ sono una limitazione delle libertà individuali. Sugden ha criticato l’uso del nudging per le politiche pubbliche perché in qualche modo avalla e sfrutta i bias stessi e le ‘cascate informative’, processi per cui le scelte errate compiute da alcuni in anticipo, inducono altri soggetti a trascurare le proprie informazioni e valutazioni in base all’ipotesi che coloro che hanno deciso per primi, erano consapevoli di cosa stessero facendo. Oppure, un individuo che decide in ritardo tenta di evitare le conseguenze sulla propria reputazione dovute a scelte contrastanti da quella modale. Si tratta insomma di un effetto gregge che amplifica e rende collettivi i bias cognitivi. Perciò, le politiche di nudging possono finanche amplificare gli errori cognitivi compiuti da altri, lavorando contro altre importanti politiche, tipicamente di debiasing. Il ‘paternalismo liberale’ – con i suoi escamotage – rischia di trasformarsi in un sottile metodo di controllo intrusivo – e persino manipolatorio – della sfera economica nella libertà del cittadino di decidere cosa sia davvero meglio per sé.

Forse, più che di ‘pungoli’, ci sarebbe bisogno di porre le persone nelle condizioni di scegliere consapevolmente, sollecitando quello che Kahneman definisce ‘pensiero lento’, ossia il sistema di pensiero riflessivo, intenzionale e logico, che secondo gli esperimenti verrebbe attivato quando l’individuo pone attenzione, le/gli vengono forniti più elementi di giudizio e tempo sufficiente per operare la scelta.

Al di là del dibattito sul ruolo della libertà del cittadino, l’applicazione e la diffusione del nudge costituiscono una innovazione forte di evidence based policy, cioè del ricorso a policy validate empiricamente con approcci rigorosi.

 

Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik.

Al presente articolo seguono altri due importanti contibuti dell’autore sul tema:
2 – Theodor Reik e la comprensione psicoanalitica
3 – Riflessioni meta-cognitive dello psichiatra psicoterapeuta sul metodo della consultazione terapeutica bi-sistemica singola: domande sistematiche, ‘skilled intuition’ e interpretazione precoce

 

 

Abstract

In questo lavoro affronto il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della mia consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik. A tale idea di consultazione sono giunto dopo avere precedentemente trasformato la prima visita psichiatrica in una terapia a seduta singola. Spesso i pazienti vengono da noi una o due volte in tutto e quindi la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione in quanto deve anche stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. Deve essere bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, sistematico-analitica ed intuitiva. Anche Reik dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua ‘response’ globale al paziente. L’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso.

Parole Chiave: prima visita psichiatrica, terapia a seduta singola, consultazione terapeutica bi-sistemica singola, processo duale, intuizione, unipatia, comprensione, Theodor Reik.

English abstract

In this paper I face dual-process (intuition and analysis) as the heart of my single bi-systemic therapeutic consultation and of Theodor Reik’s psychoanalytic comprehension. I arrived at such idea of consultation after previously transforming first psychiatric visit into a single session therapy. Often patients come to us once or twice at all, so first psychiatric visit has already to be a therapeutic act. Therapy must be intended as a consultation because it has also to stimulate patient’s self-healing resources. It has to be bi-systemic because, at the same time, systematic-analytic and intuitive. Also Reik gives importance to conjectural intuition and to next rational comprehension, appreciating therapist’s subjectivity, his inner self-observation and his global response to the patient. Intuition can be found not only by free associations and free floating attention, but also by a therapist’s systematic research. The interactive dynamic between the two actors, also caused by several cycles of question-answer always more targeted, can bring to the explicative intuition of the case.

Key Words: first psychiatric visit, single session therapy, single bi-systemic therapeutic consultation, dual-process, intuition, unipathy, comprehension, Theodor Reik.

Introduzione

Nel 2007 applicai il modello manageriale della Qualità Totale ad un’ipotesi riorganizzativa del Dipartimento di Salute Mentale che tendesse all’eccellenza, partendo da un cambiamento radicale della prima visita psichiatrica (Gherardi, 2007). In un mio articolo del 2014, ho poi proposto di trasformare la prima visita psichiatrica tradizionale (PVP) in una terapia a seduta singola (TSS) e, successivamente, in una consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS), in quanto i pazienti vengono spesso da noi una o due volte in tutto e quindi, la prima visita deve essere già un atto terapeutico. Nel 1985 partecipai ad una ricerca presso il servizio psichiatrico territoriale di Imola sugli autodimessi di quell’anno (8,6 %) (Gallo, et al. 1988). La maggioranza di tali autodimessi (2 su 3) erano rappresentati da prime visite, che interrompevano il rapporto alle prime consultazioni in quasi la metà dei casi (il 47,7 % dopo 1-3 consultazioni). Nel corso del 2011, il 28,5 % delle mie prime visite psichiatriche private ha avuto con me solo un incontro, l’11,4 % due in tutto. Nel 2012 tali percentuali sono lievemente diminuite, rispettivamente al 26,4 % e all’8 %. In sintesi, nella libera professione psichiatrica, circa un paziente su quattro viene da noi una volta in tutto (Gherardi, 2014).

La terapia va intesa come una consultazione, perché è finalizzata anche a stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. E’ bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, è sistematico-analitica ed intuitiva nelle modalità d’indagine e di cura (teoria del processo duale). Il terapeuta infatti usa, contemporaneamente, la parte conscia ed inconscia della propria mente, per comprendere e curare. In modo particolare, utilizza l’intuizione dell’inconscio, una forma di intelligenza propria dei suoi strati più superficiali, la logica del processo primario. La CTBS è quindi una forma di consultazione terapeutica anche intuitiva in quanto, come sostiene Jung (1921), chi intuisce carica anche l’oggetto intuito di un influsso inconscio. Non si possono infatti separare le forme epistemologiche di comprensione dell’altro e di se stessi dalle forme conseguenti di terapia. Rimando il lettore allo splendido articolo di Mauro Fornaro sulla validità epistemologica dell’intuizione nella clinica psicoterapeutica (2011). Comunque, non sempre abbiamo bisogno di utilizzare la nostra intuizione per comprendere pienamente il paziente durante la prima visita. Spesso bastano infatti le nostre abilità sistematico-analitiche.

Recentemente ho partecipato ad uno studio osservazionale prospettico sui processi cognitivi diagnostici in medicina generale, da cui è emerso come i medici di medicina generale usino strategie diagnostiche ‘miste’, ma prevalentemente quelle ultrarapide e rapide, più intuitive, rispetto a quelle lente, più analitiche, per fare diagnosi (Ehrlich, S. et al. 2018). Ho poi utilizzato la stessa scheda sui processi cognitivi diagnostici utilizzati dal medico di famiglia con le mie prime visite psichiatriche private del 2018 e del primo semestre 2019. In tali 18 mesi ho utilizzato l’intuizione pura ‘solo’ in circa 3 pazienti su 10 (nel 32,5 % delle donne e nel 32,7 % degli uomini) e prevalentemente un’intuizione di tipo cognitivo, piuttosto che il ‘gut feeling’. Come dice infatti Reik, la verità è come una donna che non può essere sempre conquistata nello stesso modo e l’essenza della tecnica psicoanalitica è il raggiungimento e la chiarificazione della verità interiore del paziente (Reik, 1948).

Nel mio lavoro del 2014 avevo anche considerato il concetto bioniano di ‘mente binoculare intuitiva’ nell’osservazione non sensoriale del paziente (Bion, 1970). Per Bion risulta fondamentale, a tal fine, l’assenza di memoria, comprensione e desiderio e, secondo lui, anche l’apparato sensoriale può essere d’intralcio all’intuizione psicoanalitica in seduta.

L’osservazione psicoanalitica non riguarda le impressioni sensoriali e gli oggetti percepibili attraverso i sensi. La consapevolezza dei concomitanti sensoriali dell’esperienza emotiva è un impedimento all’intuizione della realtà da parte dello psicoanalista.

Anche per un operatore che, come me, valorizza molto le abilità intuitive del terapeuta, tali affermazioni mi sono sembrate eccessive e mi hanno stimolato ancora di più a riflettere su che cosa consista veramente il processo intuitivo nella sua essenza. Ho perciò attentamente studiato un libro di Duccio Sacchi del 2010 sul pensiero di Theodor Reik riguardo all’ascolto ed alla comprensione psicoanalitica (Reik, 1935 & 1948). Reik nacque a Vienna nel 1888 e morì a New York nel 1969. Psicologo, psicoanalista, fu allievo e amico di Freud. Ritenendo che Reik sia riuscito tanti decenni fa (il 1935 ed il 1948 sono gli anni della prima pubblicazione dei suoi due libri sull’ascolto e sulla comprensione psicoanalitica, da me tradotti dall’inglese e sintetizzati nel presente lavoro) ad avvicinarsi al ‘nocciolo’ dell’intuizione e quindi alla vera comprensione del paziente, ho deciso di scrivere il presente contributo per vedere la CTBS alla luce del suo pensiero illuminante, al fine di un ulteriore chiarimento, evoluzione e potenziamento di tale strategia terapeutica. Come psicologo psicoanalista, Reik è riuscito, con concetti psicoanalitici, ad essere antesignano del modello cognitivo del processo duale (ragionamento intuitivo ed analitico), oggi largamente accettato per la sua validità epistemologica ed empirica (Kahneman, 2011).

Ovviamente, non ci sono ancora in letteratura internazionale studi di efficacia sulla CTBS, in quanto rappresenta un mio modello di intervento molto specifico, da me ancora sottoposto ad ulteriore elaborazione ed indagato per ora parzialmente sotto il profilo diagnostico, coi primi risultati riportati in sintesi precedentemente nel presente lavoro. Per quanto attiene all’efficacia della TSS, da cui deriva il mio metodo, rimando il lettore ai dati abbastanza aggiornati riportati nel libro sulla TSS di Cannistrà e Piccirilli (2018). La TSS tende a massimizzare l’efficacia terapeutica del singolo incontro rispetto a quello tradizionale. Sarebbe interessante condurre in futuro uno studio di comparazione tra TSS e CTBS per vedere se quest’ultima riesce a massimizzare ulteriormente l’efficacia della TSS.

Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Non possiamo più ritenere la PVP come riservata esclusivamente al processo valutativo, diagnostico e di impostazione di un piano terapeutico, ma come un atto terapeutico. Per passare dalla PVP alla TSS ed infine alla CTBS, sono transitato attraverso la Psicoterapia a Seduta Singola (PSS) di Moshe Talmon, ritenuta la forma più breve di psicoterapia, ma non una forma di psicoterapia breve (Talmon, 1990). Per l’analisi della letteratura a riguardo, rimando il lettore ad un mio articolo del 2008. La PSS è un intervento molto più vicino ad una tecnica ‘open-ended’ che ad una psicoterapia breve, perché, in realtà, né il terapeuta né il paziente sanno all’inizio della seduta quale sarà la durata della cura, anche se si erano accordati precedentemente di vedersi una volta in tutto. Dopo la PSS, il terapeuta deve lasciare la porta aperta al paziente, che lo può ricontattare in caso di bisogno. Talmon si propone di ottenere il massimo, sfruttando l’opportunità del primo incontro. Convoglia le risorse del paziente verso la guarigione naturale, scegliendo il metodo meno intrusivo e meno restrittivo, aiutandolo ad aiutarsi da sé, nella cornice del continuo processo di cambiamento tipico dell’uomo. Tale approccio è proposto a pazienti e terapeuti che sono disponibili e motivati a prendersi cura fin dall’inizio del problema. Può utilizzare varie tecniche terapeutiche, purché l’approccio sia adattato alla singola persona, senza costringerla dentro un rigido modello teorico. Solo così infatti l’individuo si sentirà veramente ascoltato e compreso. Considerare tale seduta completa in sé stessa, olistica, terapeutica fin dall’inizio e come se fosse l’ultima, è l’atteggiamento mentale fondamentale.

La consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Deve essere sistematico-analitica e, al tempo stesso, intuitiva. E’ un’esperienza di co-pilotaggio, con il terapeuta con le sue competenze ed il paziente con le sue capacità attuali e potenziali di auto-terapia. Il terapeuta deve anche usare il suo inconscio per intuire il paziente e quindi, aiutarlo ad auto-intuirsi per potersi veramente auto-curare. Sull’intuizione rimando il lettore a due mie rassegne della letteratura, dove avevo sviluppato un’idea di terapia intuitiva in psichiatria e psicoterapia (2009 e 2011). In linea con il modello bi-sistemico della mente proposto da Kahneman (due processi di pensiero: il sistema 1, veloce, automatico, intuitivo; il sistema 2, lento, logico e riflessivo) (Kahneman, 2011), ho proposto il modello bi-sistemico della CTBS, al tempo stesso clinico e psicologico, diagnostico e terapeutico, sistematico-analitico ed intuitivo, ovvero conscio ed inconscio. Per rivelare il paziente a se stesso. Con questa forma di intersoggettività primaria, con questo ‘intelligere’ (saper collegare, connettere) inconscio, riusciamo in meno tempo e più facilmente a cogliere l’essenza del paziente e a formulare e ad adottare terapeuticamente un’ipotesi esplicativa profonda.

 

Insonnia: il metodo semplice per (ri)addormentarsi in 7 minuti (2019), di E. Rolla – Recensione del libro.

Insonnia approfondisce temi di grande importanza per la popolazione generale: il sonno e l’insonnia. Enrico Rolla ha affrontato queste questioni in modo chiaro, completo e professionale, realizzando un manuale per i non addetti ai lavori interessati, ma anche un valido riferimento per il professionista che opera per il benessere della persona.

 

 “L’insonnia è un male che affligge quasi dieci milioni di italiani nella sua forma cronica e il 45% della popolazione nella sua forma transitoria”, per non tralasciare il numero di persone che presenta questo problema antecedentemente, in seguito o congiuntamente ad altre forme di disagio psichico (depressione e disturbi d’ansia) e di coloro che pensano di aver risolto il problema delegando ad un farmaco, il quale con il trascorrere del tempo, diminuisce i suoi effetti terapeutici aumentandone quelli negativi.

In questo scenario Insonnia, rappresenta una valida risorsa e risposta a tale problema.

Poter addormentarsi quando si è stanchi e poter deporre un peso che si è portato per tanto tempo, è una delizia, è un fatto meraviglioso.  (Hermann Hesse)

Nel suo ultimo lavoro il grande Prof. Enrico Rolla, ha affrontato e approfondito un tema centrale per la salute della popolazione generale e lo ha fatto in modo chiaro, completo e professionale realizzando un manuale contenente utili consigli per i non addetti ai lavori interessati al tema, ma anche un valido riferimento per il professionista che opera per il benessere della persona.

Insonnia infatti, partendo da un’ampia panoramica su cosa sia il sonno, le sue fasi e gli studi in merito alla quantità di sonno necessaria per età, prosegue illustrando cosa intendiamo per insonnia, quali sono i diversi tipi di insonnia e i fattori causali, entrando poi nel vivo della Terapia Cognitivo Comportamentale per il trattamento dell’insonnia e dei protocolli validati dalle scienze.

Enrico Rolla, all’interno del suo lavoro, ci mostra come procede un intervento terapeutico in tal senso. Dopo un’attenta fase valutativa e di monitoraggio, grazia ad esempio ai questionari e al Diario del sonno che sono contenuti all’interno del testo, si passa all’approfondimento e la spiegazione del programma di trattamento nelle sue varie fasi:

  1. Fase educativa dove vengono fornite spiegazioni sul sonno, igiene del sonno, problematiche relative alla sua mancanza e  relativi programmi di intervento.
  2. L’utilizzo del diario del sonno in cui annotare le ore di sonno, la qualità, il tempo impiegato per addormentarsi la sera e quello per riaddormentarsi quando ci si sveglia di notte.
  3. Valutare la presenza di eventuali disturbi d’ansia o depressione.
  4. Valutare il resoconto storico dell’insonnia, misurando l’efficienza del sonno tramite diario del sonno e relative schede presenti nel testo.
  5. Utilizzare questionari per misurare la gravità dell’insonnia e approfondire atteggiamenti che la persona attua nei confronti del sonno.
  6. Valutare la presenza di comportamenti e abitudini che possono peggiorare il problema.
  7. Individuare le credenze disfunzionali sul sonno, gli sforzi che il soggetto mette in atto per riaddormentarsi, ecc
  8. Insegnare una buona igiene del sonno.
  9. Monitorare i risultati che solitamente si ottengono in poche settimane (4-5).

All’interno del libro vengono inoltre approfondite tecniche come il rilassamento muscolare progressivo, la respirazione diaframmatica o profonda, l’ipnosi e l’autoipnosi, e il valore aggiunto viene rappresentato dalla disponibilità di poterle mettere in pratica grazie alla presenza di file audio che diventano un valido aiuto al training.

Si parla ancora di altre interessanti tecniche come il controllo dello stimolo, la terapia della restrizione del sonno e le tecniche paradossali.

Essere un buon dormitore, in fondo, significa soltanto non pensare al sonno. (Enrico Rolla)

Non viene tralasciato l’aspetto cognitivo tra gli obiettivi del lavoro in studio e tra gli interventi illustrati, all’interno di Insonnia l’attenzione viene posta anche al riconoscere e individuare gli errori di pensiero che i pazienti sviluppano in riferimento al sonno e la relativa assenza dello stesso. Come evidenzia l’autore infatti, non è raro sentire in studio pazienti che riferiscono di aver sviluppato problematiche con il sonno e relativa insonnia proprio a seguito di singoli episodi, i quali sono stati vissuti in maniera catastrofica e con un atteggiamento particolarmente ansioso. Non mancano persone che si impongono di andare a dormire in maniera rigida ad una certa ora, di dover dormire un certo numero di ore o persone che si approcciano al sonno con un atteggiamento profetico “di colui/colei che sa già che passerà un’altra notte insonne…”, predisponendosi in una condizione della profezia che si autoavvera (effetto Pigmalione).

Ma non si può non pensare di aver paura di non dormire. Cosa fare allora? Anche in questo caso Enrico Rolla spiega come  si possa intervenire con tecniche e strategie terapeutiche, trasformando le aspettative (da catastrofiche) a risultati (efficaci ed efficienti). Ne sono esempio l’appuntamento giornaliero con le proprie preoccupazioni, dove la persona dovrà pensare volontariamente, per l’appunto, alle proprie preoccupazioni per un tempo stabilito.

Concluderei riportando alcuni consigli che l’autore ci offre:

  1. Andare a letto quando si ha veramente sonno.
  2. Fare in modo che la camera da letto sia in un posto tranquillo e lontano da fonti luminose.
  3. Dedicare il letto solo al sonno, al sesso e nient’altro.
  4. Limitare il tempo dedicato a guardare uno schermo luminoso prima di andare a letto, come tv, tablet e cellulari.
  5. Seguire delle routine della buona notte, (ad esempio preparando una tisana, leggendo un buon libro, meditando, …).
  6. Limitare i sonnellini pomeridiani.
  7. Mantenere delle accortezze rispetto a ciò che si mangia durante i pasti serali.
  8. Evitare l’assunzione di alcol, caffeina, fumo nelle ore serali in quanto sostanze eccitanti.
  9. Se ci si sveglia durante la notte, non rimanere più di 15-20 minuti a letto, ma alzarsi e cambiare stanza e riprovare a tornare a letto non appena si percepirà nuovamente sonno.

Un libro ricco di informazioni, materiale pronto all’uso, grafici, illustrazioni, file audio e, dunque, non soltanto un ricettario, ma un vero strumento alla portata di tutti e, come lo stesso autore suggerisce, “con l’esercizio, tutti possono diventare “normali o buoni dormitori” e finalmente raccontare che l’insonnia non è più un problema”.

 

Nascono prima le emozioni negative o la metacognizione?

Matthews e Wells hanno ipotizzato nel loro modello che le credenze metacognitive potrebbero precedere l’insorgenza di emozioni negative e disfunzionali. Uno studio ha cercato di esplorare questa eventualità.

 

Secondo il Self-Regulatory Function Model (S-REF), le emozioni negative sono influenzate da determinate credenze metacognitive che inducono l’individuo a reagire allo stress in maniera disfunzionale (Matthews& Wells, 1994). Rimane però una questione aperta se esista un rapporto di causalità tra fattori metacognitivi e sintomi emotivi presenti nei disturbi psicologici.

Secondo il S-REF, così come formulato da Matthews e Wells (1994), le credenze metacognitive dovrebbero precedere temporalmente l’insorgere di emozioni negative e disfunzionali. Il S-REF, inoltre, ipotizza che la sofferenza psicologica sia associata a uno stile di pensiero definito Cognitive Attentional Syndrome (CAS), che rappresenta uno stato di pensiero negativo e ripetitivo (come la ruminazione e il rimuginio) che intensifica le risposte emotive dell’individuo (Wells, 2009).

Per indagare il rapporto causa-effetto che intercorre tra metacognizione ed emozioni negative, in particolare quelle presenti nei disturbi d’ansia e depressivi, gli autori del presente studio (Capobianco et al., 2019) hanno analizzato due campioni statistici composti 265 soggetti.

Sono stati somministrati l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) e il Meta-cognitions Questionnaire 30 (MCQ-30) per tre volte in un periodo di 2 mesi.

Lo studio è stato condotto utilizzando lo Structural equation modeling (SEM), un modello in grado di individuare le relazioni di causalità presente tra due o più variabili (Berrington et al., 2006).

I risultati hanno mostrato che, per quanto riguarda i sintomi emotivi dei disturbi d’ansia piuttosto che per quelli depressivi, le credenze metacognitive potrebbero esserne un predittore affidabile. In questo caso, infatti, sarebbero proprio le metacognizioni a precedere l’insorgere di emozioni negative. Tuttavia, l’effetto osservato dell’ansia sulle credenze metacognitive esperite dagli individui, ha suggerito una notevole reciprocità nelle relazioni causali e temporali coerente con i presupposti teorici del modello S-REF. I risultati, nel caso dei sintomi emotivi della depressione, al contrario, non hanno mostrato relazioni causali e temporali significative (Capobianco et al., 2019).

 

La terapia con le fiabe

Nel variegato panorama delle psicoterapie si sta facendo spazio, già da qualche anno, la pratica della fiaba terapia, ovvero la cura dei disagi psicologici attuata mediante la produzione, l’interpretazione, il racconto e la drammatizzazione di episodi attingenti al mondo fiabesco.

 

 La fiaba terapia è una modalità terapeutica che stimola direttamente l’attività fantasmatica del soggetto, tanto adulto quanto bambino, consentendo l’insorgenza di una fase regressiva che lo conduce indietro, ad un tempo passato, fino alla rievocazione di un conflitto traumatico precedentemente vissuto e non rielaborato. La funzione catartica della fiaba fa leva sui suoi connotati fortemente simbolici, grazie ai quali è possibile elaborare contenuti inconsci senza ricorrere al meccanismo della rimozione; rivivere situazioni negative, stemperate da un clima rassicurante e protettivo garantito dal lieto fine, una sorta di compensazione dall’impotenza infantile, grazie alla quale il soggetto può tornare a regolare i propri moti psichici, così come gli eventi della sua vita, munito di energia e determinazione in vista di finalità adattive.

Alla stregua del mito e della leggenda, la fiaba è caratterizzata dal contenuto simbolico: ed è proprio questa sua peculiarità intrinseca a renderla una terapia di elezione soprattutto con i bambini, nel cui universo psichico proprio il ricorso al simbolo garantisce un accesso privilegiato.

Nel paziente infantile l’inesplorabilità tipica del conflitto inconscio risulta infatti amplificata da contesti emotivi immaturi, deficit di verbalizzazione e differenziazione dalla realtà: si rivela pertanto indispensabile l’utilizzo di terapie che, pur conservando le caratteristiche proprie della psicoanalisi, siano in grado di superarne le limitazioni evidenziate.

In questo senso l’utilizzo della fantasia costituisce una valida modalità di accesso al contenuto inconscio del bambino. Nello specifico la trama fiabesca dipinge un mito che il bambino può esplorare in via del tutto immaginativa e questo gli consente di far riaffiorare il materiale inconscio non elaborato e di ottenere la visione integrata di un’esperienza frammentaria, non risolta e quindi patologica (Sordano, 2006). Inoltre l’immaginario costituisce un campo esplorativo illimitato delle possibili esperienze vitali, a mezzo del quale il bambino può sperimentare percorsi e adottare soluzioni senza le compromissioni irreversibili proprie dell’approccio realistico (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972; Valente, 1995).

L’elemento magico dello strumento fiabesco consente la rielaborazione della realtà traumatica e conflittuale tramite una serie di passaggi simbolici che costituiscono l’intreccio formale tipico della fiaba, ovvero la perdita di un membro della famiglia e l’allontanamento dell’eroe da casa (evento modificante), l’imposizione di un divieto all’eroe e una sua infrazione (trasgressione), la comparsa di un antagonista (aggressore) che ha il compito di ostacolare il recupero dell’equilibrio iniziale attraverso una serie di trappole e malefici, l’intervento di un personaggio magico grazie al quale l’eroe otterrà la sconfitta del malvagio e guadagnerà la salvezza (Propp, 1928).

Questo canovaccio si ripete nella fiaba come un filo conduttore immutabile grazie al quale la realtà psichica del bambino viene ridotta ad una serie di modelli operativi simbolici che le caratteristiche dei personaggi – più che altro simili ad archetipi- riescono a rispecchiare fedelmente: così l’eroe rappresenta il Sé inteso come totalità psicofisica del bambino, ma anche l’Io che riesce a mantenere un dialogo con i conflitti interni, l’antagonista incarna il nemico, il cattivo, l’ostacolo alla realizzazione del Sé, mentre l’alleato è l’amico che viene in soccorso dell’eroe e lo aiuta a sconfiggere il male.

Tale fissità di ruoli ricalca la stereotipia delle figure familiari e consente di rielaborare il rapporto conflittuale che il bambino ha con ognuna di esse. La strega rappresenta un femminile potenzialmente distruttivo nel cui ritratto è possibile intravedere le caratteristiche di una madre intrusiva che il bambino avverte come minacciosa carceriera del Sé. Ella tiene prigioniero l’eroe oppure avvelena la principessa costringendola ad un sonno eterno: dunque il pericolo non è tanto il divoramento o la distruzione quanto la condanna all’immobilizzazione e la liberazione dal sortilegio dell’eroe simboleggia in questo senso l’affrancamento del bambino dal corpo materno (Santagostino, 2006).

Il mostro può spesso rappresentare una figura genitoriale distruttiva e indistruttibile, capace di rigenerarsi e presentarsi sotto mille forme diverse, sfuggendo ad ogni possibile controllo. In questo senso il genitore appare come un caos indistinto in cui convivono bene e male, possibilità di salvezza e distruzione: una figura mostruosa tipica della fase uroborica in cui il bambino si sente prigioniero della madre e invischiato con lei in un tutto indifferenziato (Neumann, 1980).

Al contrario le fate costituiscono l’idealizzato positivo della madre: sono il seno buono, l’oggetto materno che protegge e difende dal pericolo. Il ruolo della fata è anche quello di conferire poteri attivi ai protagonisti restituendo libertà, forza e coraggio: ella concede senza chiedere nulla in cambio, rappresenta un femminile simbolico che non abbandona l’eroe nel momento del pericolo e lo aiuta senza legarlo a sé (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

La figura della vecchietta, la cui conformazione estetica potrebbe simboleggiare una bruttezza anche interiore, si pone in uno stadio intermedio tra l’archetipo della strega cattiva e la bontà della fata salvifica identificabile con l’archetipo della madre buona. Ella non offre all’eroe la liberazione, ma comparendo all’improvviso sul suo cammino lo aiuta a liberarsi dai malefici e a guadagnare la salvezza. Questo potrebbe rappresentare il senso metaforico di un passaggio tra la considerazione negativa e quella positiva della madre, una sorta di oggetto transizionale grazie al quale il bambino può sviluppare e reintroiettare una visione materna meno persecutoria (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

 Storie presentate da bambini affetti da disturbi disorganizzati si concludono negativamente, lasciando intravedere la convinzione dell’impossibilità di salvezza in situazioni dolorose. Molto spesso si tratta di storie in cui l’aggressività verso il genitore viene simbolizzata nella presenza di figura nefaste che avranno la meglio sui buoni. Al contrario i bambini ansiosi tendono ad applicare all’eroe la medesima immobilità che caratterizza il loro contesto emotivo, perennemente alla ricerca di una salvezza concedibile solo da un’entità superiore che tuttavia non arriva o non arriva mai in tempo. Il bambino ansioso è passivo, insicuro, preoccupato, e si mostra diffidente anche verso la magia che nelle sue storie non assume un ruolo salvifico.

Anche nei bambini aggressivi sono i cattivi ad avere la meglio, ma se questo costituisce un epilogo funesto per i piccoli pazienti affetti da disturbi dell’umore, al contrario per questi altri si tratta di un lieto fine: è con gioia che bambini caratterizzati da personalità oppositive elaborano mentalmente la distruzione del buono appannaggio del malvagio, a testimonianza di un’aggressività endogena che nella fiaba si slatentizza in via simbolica (Sordano, 2006).

È a questo punto che giunge l’intervento terapeutico della fiabazione: il bambino, dopo aver inventato una storia e averla esposta al conduttore, sotto la guida di quest’ultimo sarà chiamato alla risoluzione della stessa; e non dovrà farlo avvalendosi dell’elemento magico in cui ogni cosa torna a posto per mano di una volontà inconoscibile e soprannaturale, ma dovrà trovare da solo soluzione nuove e creative in grado di liberare l’eroe (Propp, 1928).

Nella fiaba di Hansel e Gretel, ad esempio, la salvezza non proviene dall’intervento magico, ma dall’astuzia dei due fratelli che riescono a far finire nel pentolone la strega cattiva che voleva divorarli (White, 2015). Nella fiaba dei tre porcellini l’elemento salvifico viene individuato nel legame raggiunto dai tre fratellini che si alleano per far finire nella pentola di olio bollente il lupo cattivo: alleanza che simboleggia altresì la conclusione della rivalità fraterna per l’accesso alle risorse genitoriali, accompagnata dal naturale passaggio dall’infanzia all’adolescenza in cui gli investimenti affettivi trasmigrano da un legame esclusivamente verticale- bambino genitore- ad uno orizzontale- legame tra pari (Sordano, 2006).

Quando l’eroe riesce a raggiungere la salvezza grazie alle sue doti di astuzia e maestria egli si trasforma da salvato in salvatore, e ciò consente l’acquisizione di competenze, autostima e sicurezza necessarie alla strutturazione funzionale del Sé. In questo contesto anche il senso di colpa potrà trovare una risoluzione interiore e l’aggressività verrà sublimata, neutralizzata, resa inerme di fronte alla costruttività interiore (Sordano, 2006; Kaes, 1993).

Molto spesso il raggiungimento di una dimensione evolutiva viene agevolato dall’utilizzo della fiaba all’interno di contesti collettivi: il bambino racconta la sua storia di fronte a un gruppo di pari guidati da un conduttore il cui compito è quello di contenere la sua angoscia, fare da specchio al suo disagio, aiutarlo ad assumere nuovi punti di vista e nuove prospettive. La parola nel gruppo ha il potere di aprire prospettive inconsce e insondabili, senza contare che i ragazzi, trovandosi insieme in un unico contesto, sperimentano una velleità relazionale che li pone in una dimensione collaborativa. Tutti vogliono aiutare l’eroe a salvarsi dal maligno e ciascuno offre il proprio contributo perché ciò possa avvenire.

Così i componenti del gruppo imparano a pensare alla relazione più che al singolo personaggio e la trama della fiaba diviene lo strumento per favorire una comunicazione inconscia tra i partecipanti e costruire un confronto tra i modelli dell’Io e le molteplici possibilità di essere del Sé (Sordano, 2006). Man mano che la struttura gruppale acquisterà relazione e coesione interna l’emergere di strutture grafiche o narrative sarà sempre meno collegato all’intenzionalità cosciente del singolo e farà maggior riferimento al registro del corpo e dell’immaginario collettivo, mostrandosi in grado di attuare un decentramento dal Sé e dai temi ricorrenti della propria storia per divenire parte di una nuova matrice relazionale (Sordano, 2006; Neri, 1996).

 

La scoperta dell’intelligenza. Alfred Binet e la storia del primo test (2019) di E. Cicciola – Recensione del libro

La scoperta dell’intelligenza racconta i contributi di Binet, i cui meriti storici sono legati soprattutto alla fondazione dell’Année Psychologique, la prima rivista francese interamente dedicata alla psicologia scientifica e al test di intelligenza messo a punto, pubblicato come Scala metrica dell’intelligenza.

 

Il nome di Binet è (o dovrebbe essere) noto a tutti gli studenti e i cultori di psicologia come quello dell’autore del primo test di intelligenza infantile (la scala di Binet o scala di Binet-Simon). Tuttavia, Alfred Binet (nato Alfredo Binetti) non è certo stato oggetto di una mole di studi monografici minimamente proporzionale alla sua importanza storica. Si tratta peraltro di un destino che lo accomuna a tutti i numerosi grandi personaggi della psicologia, della psichiatria e della psicoterapia francesi di fine Ottocento. Una storiografia incentrata sul mondo anglosassone e su quello germanofono ha posto a lungo in secondo piano tanto Binet quanto personaggi come Théodule Ribot (l’iniziatore della psicologia scientifica francese), Paul Dubois (che inventò una psicoterapia di tipo cognitivista cinquant’anni prima di Albert Ellis), Hippolyte Bernheim (che praticò una psicoterapia ipno-suggestiva, influenzando gli inizi della psicoanalisi). Addirittura Pierre Janet, il vero padre della psicoterapia moderna, tuttora attende una vera e propria rivalutazione; mentre Jean-Martin Charcot viene ricordato spesso solo perché occasione della svolta decisiva degli interessi del giovane Freud.

Di fatto, questa monografia di Elisabetta Cicciola è la prima dedicata integralmente a Binet, e non solo, in lingua italiana e fortunatamente colma la lacuna in modo più che adeguato. Restituisce infatti dello psicologo francese un’immagine articolata, un ruolo storico più ampio di quello – pur fondamentale – di iniziatore degli studi per la costruzione dei test di intelligenza.

Ciò che in senso assoluto caratterizzò il percorso teorico di Binet fu essenzialmente un solido ancoraggio empirico-sperimentale: sue espressioni tipiche erano: l’anima della psicologia sperimentale è il controllo; piccoli fatti raccolti di prima mano; il futuro della psicologia è nei piccoli fatti. L’esperimento, tuttavia, aveva senso in quanto si caratterizzava per la misurazione, secondo Binet:

Lo scopo della scienza è considerare ogni fenomeno come una grandezza e applicare una misura a questa grandezza. Ogni scienza progredisce più o meno rapidamente verso questo ideale matematico.

I suoi interessi furono estremamente vari. La psychologie du raisonnement (La psicologia del ragionamento, 1886) si inseriva nella tradizione francese di ispirazione associazionista dei Taine e dei Ribot (che negli stessi anni pubblicava monografie sulla memoria, la volontà e l’attenzione). Etude de psychologie expérimentale (Studio di psicologia sperimentale, 1888) aveva un titolo piuttosto vago (e che risentiva ancora dell’accezione ribotiana di sperimentale semplicemente come non-filosofico; cfr. Innamorati, 2005) ma conteneva spunti diversi e interessanti, compresa una sezione sul feticismo, che peraltro è disponibile anche tradotta in italiano (Binet, 2005). On Double Consciousness (Sulla doppia coscienza/personalità, 1890) e Les altérations de la personnalité (Le alterazioni della personalità, 1892) si concentravano sulla personalità multipla e altri temi studiati all’epoca sia da Ribot che da Pierre Janet, che da poco aveva pubblicato L’automatismo psicologico (Janet, 1889), vero punto di svolta del suo pensiero in psicopatologia.

Tuttavia già si vedeva nelle nuove opere di Binet un certo distanziamento dalla tradizione associazionista che aveva segnato i suoi esordi. Nel 1891, del resto, Binet aveva iniziato un’attività sperimentale vera e propria nel primo laboratorio di psicologia fisiologica francese all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, diretto dal 1899 da Henri Beaunis. Binet, dapprima volontario, ne divenne condirettore nel 1892 e poi direttore unico, al posto di Beaunis, a partire dal 1894. Proprio nel 1894 uscivano La psychologie des grands calculateurs (La psicologia delle persone dotate dei grandi calcolatori) e Introduction à la psychologie expérimentale (Introduzione alla psicologia sperimentale), nei quali Binet esponeva tra l’altro le proprie ricerche sugli individui dotati di eccezionali capacità di memoria e di calcolo. In effetti, sottolinea Cicciola, nella tradizione di ricerca tedesca le ricerche esperimentali volgevano unicamente su individui normali (tanto che sperimentatore e soggetto sperimentale, spesso ambedue studenti universitari, potevano sovente scambiarsi il ruolo); al contrario Binet condusse studi anche sui giocatori di scacchi, i grandi calcolatori, i prestigiatori, gli attori, i drammaturghi, i pittori, gli artisti e gli alienati. I ‘soggetti sperimentali’ di Binet appartenevano dunque a un’ampia gamma di individui a volte ‘ordinari’ e altre volte invece ‘straordinari’ (p. 65).

Sempre a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, Binet iniziava a occuparsi di psicologia infantile e pedagogia. I primi frutti di questo nuovo impegno furono La fatigue intellectuelle (La fatica intellettuale, 1899), in cui Binet raccoglieva i propri risultati empirici sull’influenza del lavoro mentale sull’affaticamento anche fisico; La suggestibilité (La suggestionabilità, 1900), dedicato alla psicologia della testimonianza infantile. Uno studio che anticipava singolarmente Jean Piaget fu L’étude expérimentale de l’intelligence (Lo studio sperimentale dell’intelligenza, 1903), dove Binet raccoglieva i frutti di ricerche longitudinali sullo sviluppo intellettuale delle figlie. Scrive al riguardo Cicciola:

La metodologia utilizzata fu ampia e incrociata allo scopo di ottenere un controllo significativo […] Non erano rari inoltre i momenti in cui egli arrivava perfino a ingannare i soggetti sperimentali pur di ottenere delle risposte autentiche. Binet fu in tal senso un vero ‘affabulatore’, arrivando spesso a svelare il ‘vero’ tramite l’imbroglio(p. 52).

Ma Binet non finì mai di ampliare il proprio eclettico orizzonte: in L’âme et le corps (L’anima e il corpo, 1905) oltre agli studi sperimentali confluivano considerazioni di ordine filosofico sui rapporti tra fisico e mentale; in Les révélations de l’écriture d’après un control scientifique (Le rivelazioni della scrittura sulla base di un controllo scientifico, 1906), Binet esponeva invece le proprie ricerche nell’ambito della grafologia, disciplina che, nata in Francia con Jean-Hippolyte Michon, aveva ricevuto un forte impulso grazie alla pubblicazione, nel 1888, di La scrittura e il carattere, di Jules Crépieux-Jamin (che diventò famoso per la perizia con cui dimostrò l’innocenza di Dreyfus, l’ufficiale ebreo ingiustamente accusato di tradimento).

Ma i meriti storici di Binet sono legati soprattutto alla fondazione (con Beaunis) dell’Année Psychologique, la prima rivista francese interamente dedicata alla psicologia scientifica, tuttora in vita; e al test di intelligenza messo a punto con Simon nel 1904 e pubblicato per la prima volta proprio sull’Année Psychologique nel 1905, come Scala metrica dell’intelligenza. Il test nasceva dalla necessità (soprattutto a un fine pedagogico) di uscire dalla vaghezza della terminologia messa a punto dagli alienisti per classificare un’intelligenza anormale, soprattutto nei bambini. All’epoca si distingueva tra ‘idioti’, ‘imbecilli’ e ‘deboli mentali’ (in ordine decrescente di gravità) ma nessun criterio preciso consentiva una distinzione sensata e condivisa tra diversi periti. Binet e Simon realizzarono un metodo di diagnosi differenziale in grado di fissare il livello intellettivo dei bambini arretrati, confrontandolo con quello dei bambini della stessa età o con un livello analogo (p. 163).

La scala comprendeva nella sua versione originale trenta brevissime prove di difficoltà crescente, finalizzate a classificare la capacità dei bambini di giudicare, comprendere, ragionare, le tre modalità di espressione dell’intelligenza secondo Binet e Simon. Il test conobbe due revisioni, nel 1908 e nel 1911 (l’ultima versione fu firmata soltanto da Binet, per ragioni storicamente non chiarite). Già dalla seconda versione, tuttavia, la Scala assumeva l’aspetto di un vero e proprio test, nel senso moderno, e soprattutto la misura non aveva più come riferimento il rapporto tra normalità e anormalità ma si basava sul concetto di ‘età mentale’:

Gli autori decisero di assegnare a ogni prova un ‘livello di età’, definito come l’età più giovane alla quale un bambino di intelligenza normale dovrebbe essere in grado di completare il compito con successo. Il bambino iniziava il test con compiti per l’età più giovane e procedeva finché non era più in grado di completarli. L’età associata con gli ultimi compiti che poteva affrontare corrispondeva alla sua ‘età mentale’ e il livello intellettivo generale era calcolato sottraendo l’età mentale dalla reale età cronologica (p. 181).

La scala venne a questo punto adattata anche per l’età adulta e Binet previde giustamente le sue grandi potenzialità applicative anche in ambito giudiziario e militare. In effetti, una versione adattata del test venne utilizzata già durante la Prima guerra mondiale negli Stati Uniti, rendendo assai più efficiente l’operazione di reclutamento. Fu questo a risultare poi l’impulso decisivo nelle ricerche testologiche sull’intelligenza.

Il dono nella cultura ebraica: la fiducia e la speranza nell’attesa

L’ebraismo è un sistema di vita in cui tutti i momenti sono vissuti sul piano religioso. Non vi è, infatti, nessuna distinzione tra religione e cultura ebraica poiché quest’ultima più che essere una ortodossia è una ortoprassi ovvero un sistema di codici etici e sociali scritti nelle tavole della legge.

 

D’altronde, l’ebraismo nasce con l’esodo dall’Egitto nel momento in cui Dio dona le tavole della legge a Mosè. La Torà è composta da cinque libri (il pentateuco) frutto del dono profetico ricevuto da Mosè che in contatto mistico con Dio li compilò. Il primo libro tratta della genesi dell’universo e dell’uomo, i quali sono un dono di Dio. In effetti, il legame tra Dio e il mondo è contraddistinto dal dono gratuito senza nessun tipo di ricompensa.

Tale relazione contraddistingue la cultura ebraica da tutte le altre culture ovvero il donare non presuppone nessuna ricompensa o ricambio. Ciò che Dio si aspetta è l’assoluta ubbidienza soprattutto da parte dell’uomo che ha creato a sua immagine e somiglianza e lo mette subito alla prova nel giardino dell’eden ponendolo di fronte all’albero della conoscenza, del bene e del male. L’uomo sceglie il dono del male rappresentato dal serpente e ciò comporta la sua caduta dall’Eden.

Ecco il dono malefico, ingannevole, velenoso come frutto del male che, nella cultura ebraica, si contrappone al bene che risiede in Dio. Contrapposizione che non riguarda Dio poiché egli precede il male essendo il creatore di tutte le cose compreso il male personificato da Satana. D’altronde è il serpente creato da Dio che offre la mela ad Eva.

Il dono di Dio, quindi, è un dono buono mentre può essere velenoso quello che viene da Satana e dallo scambio tra gli uomini. Un’altra caratteristica del dono di Dio è che esso prevede la rinuncia. Eva dovrebbe rinunciare alla bella mela offerta dal serpente, Adamo dovrebbe rinunciare all’offerta di Eva così come Abramo deve rinunciare alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio di fronte all’offerta di Dio. Se l’uomo saprà rinunciare così come ha fatto Abramo potrà entrare in stretto contatto con Dio, potrà fare legame con Dio. Abramo rinuncia alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio per dare compimento al progetto di Dio e riceve in dono una nuova casa, una nuova terra, una nuova generazione che per la sua età non avrebbe potuto più avere.

Mosè, il grande condottiero, scelto per portare il popolo ebreo dall’Egitto nella terra promessa, deve rinunciare ed è costretto a guardare da lontano la terra d’Israele. Il popolo liberato nel deserto deve rinunciare al vitello d’oro per avere le tavole della legge. Chi non rinuncia, Caino, è costretto ad errare nel deserto, a vivere in assenza di legami anche se guadagna la vita. Ecco il segreto: si deve rinunciare per guadagnare. Gli uomini che non intendono rinunciare cadono dalla torre, costruiscono su pilastri precari poiché la vera forza sono i legami.

Nel Libro dei Numeri viene descritta la pena a cui sono sottoposti coloro che non hanno saputo rinunciare costruendo il vitello d’oro. Essi sono costretti a girovagare nel deserto per 40 anni e molti di loro non vedranno la terra promessa. Ida Magli sostiene che il rito della circoncisione comporta la perdita di una parte che assomiglia ad una parte femminile. Il rituale della circoncisione che serve a stabilire il patto con Dio, indipendentemente dal giudizio della Magli, comporta la rinuncia ad una parte del prepuzio e sul piano simbolico sembra richiamare la rinuncia necessaria per stabilire il legame con Dio. La circoncisione, inoltre, deve essere praticata inesorabilmente l’ottavo giorno dopo la nascita e il numero 8, secondo la tradizione ebraica, richiama simbolicamente ciò che va oltre il naturale. Il maschio attraverso la circoncisione va oltre il naturale avvicinandosi a Dio contribuendo a perfezionare la natura.

Dio, spesso, nell’Antico Testamento viene visto come iroso, vendicativo, irascibile, etc. Al contrario, nella Torà si hanno molteplici esempi del perdono di Dio. Perdona Adamo ed Eva, andandoci a parlare subito dopo la caduta, perdona Abramo restituendogli il figlio Isacco, perdona l’umanità durante il diluvio universale salvando Noè e tutte le specie animali e vegetali, perdona Mosè per aver rotto le tavole della legge facendogli vedere la terra promessa, e cosi via. Essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, Giuseppe perdona i suoi fratelli che lo avevano venduto agli egiziani. Il termine perdono letteralmente significa donare completamente la vendetta e, quindi, è un dono rafforzato. Nella concezione ebraica è il dono di Dio per non rompere il legame con l’uomo e, di conseguenza, è il dono da offrire anche per fare legame tra gli uomini.

V. Pavoncello ipotizza che si ravvisa nella creazione stessa, nel suo continuo essere creata, un atto di grazia e un incessante perdonare e, quindi, si può immaginare un Dio perdonante nella sua essenza creatrice. Chiaramente se vi è il perdono, deve esserci un preesistente stato di colpa, che egli individua nei primi istanti della creazione nel momento in cui nelle cose create vi era una mancanza di essenza, ovvero di presenza di Dio che si librava solamente nelle acque. E’ per farsi perdonare questa mancata presenza che ritorna sulla Terra popolandola di tutte le specie animali e vegetali, e dividendo le acque dona l’asciutto.

Anche in questo caso il perdonare comporta la rinuncia ovvero rinunciare al senso di onnipotenza e scoprire le proprie imperfezioni. E’ quello che mette in atto Giuda, fratello di Giuseppe, che si offre al posto del fratello Beniamino come ostaggio sentendosi in colpa per il rapimento e la vendita. Pavoncello, nel cercare di confermare l’assenza dalla Terra, mette in risalto il valore dell’acqua, intrisa della presenza di Dio, nella cultura ebraica.

Il dono dell’acqua è l’essenza purificatrice: tutti i riti di purificazione avvengono attraverso l’acqua. I pozzi contenenti il dono prezioso dell’acqua sono i luoghi dell’incontro dove nascono anche nuovi amori, ma oltre a liberarci dall’arsura possono anche avvelenarci mettendo in rilevo che il dono ha un doppio effetto liberatorio o nefasto. Dio si serve dell’acqua per purificare ma anche per punire come nel diluvio universale.

Un’altra caratteristica del dono nella cultura ebraica è l’attesa di un evento che dovrà avvenire in un tempo non definito. L’attesa messianica, ovvero di un tempo in cui l’agnello potrà tranquillamente convivere con il lupo, può essere definita come la fiducia trascendentale che la speranza non sarà delusa.

Adorno sostiene che il pathos del dono stia tutto nell’attesa. La cultura ebraica ha riempito e continua a riempire questo vuoto con la fiducia e la speranza che saranno contraccambiati da Dio. A. Luzzato avverte che l’errare degli ebrei in cerca della terra promessa è legato, da un lato, alla colpa per aver tradito il giuramento ai piedi del monte Sinai e, dall’altro, alla fiducia e alla speranza che la dispersione finirà in un tempo di restaurazione che sarà contraddistinto da giustizia e pace. O. Di Grazia sostiene che la fiducia e la speranza legate all’attesa risiedano non tanto in quello che dovrà avvenire ma in ciò che è avvenuto. E’ il legame tra Dio e l’uomo, che troviamo sin dal primo rigo della Genesi, che infonde fiducia e speranza. Il vuoto dell’attesa, quindi, si riempie con ciò che viene trasmesso dalle generazioni precedenti che giustifica la speranza e la fiducia. Di Grazia nel suo articolo si chiede quando l’attesa finirà che cosa succederà, si esaurirà la speranza come forza redentrice? A questa domanda risponde no perché la speranza e la fiducia risiedono nel legame con l’altro ovvero nel rispetto dei dettami della Torà.

Fiducia e speranza sostengono la relazione, ed essendo quest’ultima predeterminata come sostiene Cigoli, sta alle generazioni passate trasmetterle. Il dono, l’atto del donare, trova la necessaria linfa nella fiducia e nella speranza che si esplica nei passaggi generazionali. Scabini e Cigoli ne Il famigliare sostengono che

il dono è inteso come espressione di un atto fiduciario; all’origine di un nuovo legame vi è un open gift, un’apertura di credito che, se ricambiata con un altro dono, che è in genere non equivalente, ma migliore, dà luogo a una relazione sociale – ed ancora – il dono ….. è una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro ed ha alla sua origine un quid gratuito.

La famiglia, una comunità, vive nella misura in cui può sperimentare il tempo dell’attesa che si riempie delle azioni tipiche dell’atto del donare così come individuate da Mauss dare, ricevere, ricambiare. Il tempo dell’attesa è un tempo psicologico che se riempito dalla fiducia e dalla speranza porta benefici come la costituzione del legame sociale e relazionale; al contrario, la mancanza di fiducia e speranza comportano la morte della relazione e/o la patologia.

Un brillante esempio letterario c’è lo dà Elizabeth Jane Howard ne Il tempo dell’attesa nel momento in cui fa dire alle piccole Clary e Polly:

Il fatto è che se una madre perde un bambino può sempre averne un altro, ma di madre invece ognuno ne ha una soltanto.

Dalla biografia dell’autrice sappiamo che da piccola le era morta la mamma e che il padre era dedito alle belle donne e addirittura molestò la stessa figlia (dono avvelenato trasmesso dalle generazioni precedenti). La Howard si sposò giovanissima per scappare dal padre e ben presto lasciò sia il marito che la figlia nata dal matrimonio. Da quel momento ebbe molti uomini e mariti. Il dono avvelenato proveniente dalle generazioni precedenti non dà fiducia e speranza nelle relazioni sia di carattere coniugale che genitoriale. La vita apparentemente dissoluta della Howard trova spiegazione proprio nel dono avvelenato ricevuto.

S. Parise, a tal proposito, mette in risalto che per Freud il senso dell’attesa ovvero il tempo psicologico è legato alla fuga dal dispiacere:

… tanto piu frustrante è il momento che si vive, tanto più lunga e I’attesa della sua fine. Al contrario, il tempo sembra fermarsi nell’attimo in cui il desiderio trova il suo oggetto.

M. M. Khan sostiene:

Attendere fa parte della natura dell’uomo. Da tempo immemorabile l’uomo attende qualcuno, o con devozione attende a qualcuno: una divinità, un dio, una persona amata (…). Gli enigmi e i paradossi dell’attesa sono fra le creazioni più nobili della mente e dell’animo dell’uomo. Tutti coloro che hanno intrapreso grandi viaggi negoziano l’attesa (…). L’attesa è l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruirsi i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. L’attesa, la lunga attesa, può essere salute e può essere malattia. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta….

Penelope nella sua lunga attesa non perse mai la fiducia e la speranza di ritrovare il suo amato marito Ulisse. Il senso dell’attesa, quindi, sono la fiducia e la speranza, che trova i suoi riscontri all’interno delle trasmissioni generazionali.

 

Leggere previene la demenza?

La demenza è un deterioramento cognitivo globale che presenta caratteristiche di progressività e irreversibilità, l’eziopatogenesi è organica.

 

Per fare diagnosi di demenza ci dev’essere un calo delle funzioni cognitive rispetto ad un precedente livello di funzionamento; si stima che il 5% dei soggetti con età superiore ai 65 anni soffra di demenza, l’incidenza sembra aumentare sempre di più negli anni, si stima infatti che nel 2030 i casi di demenza saranno il doppio rispetto ad adesso, questo perché la longevità aumenta sempre di più, e più si avanza con l’età più la probabilità di avere una demenza aumenta (Prince et al., 2013).

Una delle classificazioni eziologiche principali è costituita da demenze primarie e demenze secondarie.

Le demenze primarie sono tutte quelle demenze di tipo degenerativo di cui non è nota l’eziopatogenesi. La demenza primaria più frequente è la malattia di Alzheimer, in questo caso si sa cosa accade a livello cerebrale, cioè la formazione di placche amiloidi e ammassi neuro-fibrillari, tuttavia è sconosciuto il motivo per cui vengano a formarsi.

Le demenze secondarie sono quadri di degenerazione cognitiva dove le cause eziologiche sono identificabili; sono infatti alterazioni date da condizioni neurologiche, metaboliche ed endocrine. Un esempio di questa tipologia di demenza è la demenza vascolare (danni cerebrali dati da ictus).

I fattori di rischio attualmente associati alla demenza sono sette: diabete, ipertensione, obesità, fumo di sigarette, depressione, inattività cognitiva e basso livello di istruzione (Lewis at al., 2016).

Uno studio longitudinale della durata di 17 anni, pubblicato nel 2019 sulla rivista Neurology, è stato condotto su 983 adulti (avevano tutti più di 65 anni), suddivisi in istruiti, ovvero tutti coloro che avevano più di quattro anni di scolarità (746 individui), e in analfabeti, ovvero tutti coloro con meno di 4 anni di scolarità (237 soggetti); i risultati di questo studio mostrano che le persone analfabete, quindi che non sanno o che hanno scarse abilità nel leggere o nello scrivere, hanno una probabilità tre volte superiore di sviluppare una demenza primaria; inoltre gli effetti dell’analfabetismo sembrano essere diversi per genere, difatti le donne analfabete mostrano più rischio di sviluppare una demenza rispetto agli uomini; la degenerazione cognitiva sembra essere più lenta, una volta iniziata, negli individui con molti anni di scolarità, tuttavia quest’ultimo è un dato controverso, dato che studi diversi, hanno trovato risultati differenti.

Pare quindi che una continua stimolazione cognitiva attraverso la lettura e lo studio, possa giovare ed agire come uno dei fattori protettivi nei confronti delle demenze primarie (Renteria et al., 2019).

Fitspiration: non è tutto oro quello che luccica

L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale, caratterizzato dall’insieme di percezioni e valutazioni dell’individuo in merito al proprio aspetto fisico. Per molto tempo si è assistito alla promozione di ideali estetici irrealistici, sopratutto legati all’estrema magrezza, ma negli ultimi anni questa tendenza si sta invertendo, virando dalla thinspiration alla fitspiration. Ma questi trend sono davvero così diversi?

Alice Nannini – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

Introduzione

L’immagine corporea è stata inizialmente definita da Schilder come l’immagine del proprio corpo nella mente, il modo in cui questa appare a se stessi (Schilder, 1935). È una rappresentazione soggettiva che possiede una componente percettiva (come la persona percepisce e valuta la forma del proprio corpo), affettiva (quali sentimenti nutre verso il proprio corpo), attitudinale (a livello cognitivo, cosa pensa e conosce del proprio corpo) e comportamentale (Slade, 1994) e che comprende la persona nella sua globalità. Tale costrutto multidimensionale risulta quindi rilevante, poiché caratterizzato dall’insieme di percezioni e valutazioni dell’individuo in merito al proprio aspetto fisico (Cash & Pruzinsky, 2002).

Alla base dell’immagine corporea occorre distinguere due elementi: “body image evaluation”, ossia la soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto riconducibile al livello di concordanza o discrepanza tra percezione del fisico e ideali estetici interiorizzati, e “body image investiment”, inteso come l’importanza psicologica attribuita al proprio aspetto. Tale investimento può avvenire secondo due modalità: la salienza motivazionale (valore dato alla cura di sè per apparire al meglio o aumentare la propria capacità di attrazione) e la salienza dell’autovalutazione (motivo per cui la persona giudica il proprio aspetto come parte integrante del senso di sé o del valore attribuito al sé) (Cash, Melnyk & Hrabosky, 2004). La costruzione dell’immagine corporea deriva da un insieme di fattori biologici, psicologici e socio-culturali e riveste un ruolo fondamentale in adolescenza, un periodo critico connotato da sfide continue da fronteggiare e cambiamenti fisici evidenti che rendono necessario ridefinire e ri-mentalizzare il corpo e la sua rappresentazione. Proprio in età adolescenziale si assiste ad un incremento dell’insoddisfazione corporea, prodotta dalla scontentezza per la forma generale del proprio corpo o la dimensione di parti di esso (Thompson, Heinberg, Altabe & Tantleff-Dunn, 1999) e che appare strettamente implicata nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi alimentari (Attie & Brooks-Gunn, 1989; Polivy & Herman, 2002; Stice & Shaw, 2002) e di comportamenti alimentari problematici, come la tendenza a seguire diete dimagranti (Huon, Lim, Walton, Hayne, &  Gunewardene, 2000).

Secondo il Modello Tripartito dell’Influenza, proposto da Thompson e colleghi (1999), esistono tre fattori che incidono sullo sviluppo dei problemi correlati ad una percezione negativa del proprio corpo e ai disturbi alimentari: i pari, i genitori e i mass media. L’influenza di queste variabili socioculturali è mediata da due processi: l’interiorizzazione dell’ideale di bellezza proposto dalla società e la tendenza al confronto sociale. (Thompson et al., 1999; Keery, Van Den Berg & Thompson, 2004; Nerini, Stefanile & Mercurio, 2009). Il primo si riferisce all’accettazione e incorporazione degli standard trasmessi dai media che divengono principi e norme in grado di guidare il comportamento (Cafri, Yamamiya, Brannick  & Thompson, 2005; Cash, 2005). Il secondo processo è alla base della Teoria del confronto sociale di Festinger (1954), per cui le persone tendono continuamente a valutare le proprie capacità e caratteristiche mediante il confronto con gli altri e ciò può avvenire con una modalità “downward” (verso il basso), se il paragone avviene con persone ritenute più sfortunate sotto certi aspetti, o ”upward” (verso l’alto), se si verifica con individui percepiti come socialmente migliori. Quest’ultima tipologia è quella che può produrre effetti negativi sull’umore e sull’autovalutazione (Gibbons & Gerard, 1989; Wheeler & Miyake, 1992). Inoltre, è emerso che l’internalizzazione degli ideali mediatici precede e predice il confronto sociale, che a sua volta determina sentimenti negativi e insoddisfazione corporea (Rodgers, McLean & Paxton, 2015): i media continuano a veicolare e promuovere determinati canoni estetici che sono in un primo momento interiorizzati e assorbiti e in seguito trasmessi e rinforzati dalle interazioni sociali, diventando il canale primario di auto ed etero valutazione ed esercitando pressioni sia sul livello di soddisfazione corporea che sul comportamento (Stefanile, Pisani, Matera & Guiderdoni, 2010).

In passato, e soprattutto a partire dagli anni ’90, tv, riviste e giornali hanno supportato l’ideale di magrezza (thin ideal beauty) quale simbolo di status sociale, capace di incarnare potere, determinazione, successo e avvenenza. L’epoca dei corpi “perfetti” ma irrealistici, fisici androgini, scheletrici e stereotipati. I soggetti più vulnerabili a queste influenze sono proprio i giovani (Brown & Whiterspoon,2002): alcuni studi hanno dimostrato che una breve esposizione a immagini di donne magre incrementa l’insoddisfazione corporea ed emozioni negative (Botta, 1996; Anschutz, Engels, Becker & Van Strien, 2010), mentre un’esposizione prolungata risulta direttamente correlata ad ansia, umore depresso, disturbi alimentari, bassa autostima, dipendenza da esercizio fisico (Stice & Whitenton, 2002). Le immagini mediatiche rendono normativo il thin ideal beauty e propongono continuamente corpi oggettivati sessualmente. Come specificato da Volpato (2011), la persona è ridotta a mero oggetto sessuale quando il suo valore è confinato alla capacità di attrarre sessualmente, visto come puro strumento del volere e piacere altrui; ciò può condurre all’auto-oggettivazione, per cui si interiorizza la prospettiva dell’altro (pensando e trattando se stessi come oggetto del desiderio altrui) e si giunge ad una costante sorveglianza del corpo in grado di indurre stati d’ansia e di diminuire la consapevolezza degli stati interni (Fredrickson e Roberts, 1997). Il focus è posto unicamente su attributi corporei osservabili, limitando le risorse cognitive e incidendo su interessi e prestazioni.

Con l’avvento di internet, e in seguito dei social media, l’influenza sull’immagine corporea si è ulteriormente ampliata e modificata. Viviamo costantemente connessi e l’uso dei social è ormai parte integrante della quotidianità, soprattutto per adolescenti e giovani adulti (Kuss & Griffiths, 2011), soddisfando il bisogno di appartenenza alla comunità e consentendo la costruzione di un’identità sociale (Marino et al., 2016). A differenza di altri media, tali piattaforme mostrano una natura prettamente attiva e interattiva e riflettono valori, desideri e preoccupazioni degli utenti (Fuchs, 2017). Gli aspetti positivi legati all’opportunità di possedere uno spazio online in cui scambiarsi informazioni, creare e mantenere relazioni, esprimere se stessi e accrescere le conoscenze sul mondo circostante, non devono però distogliere l’attenzione dai potenziali rischi e pericoli derivanti dall’utilizzo dei social media, in particolare dall’impatto che questi hanno sulla salute psicofisica. Diverse ricerche sperimentali si sono occupate della relazione tra uso dei social, immagine corporea e disturbi alimentari (Holland & Tiggermann, 2016), mostrando come a mediare l’associazione tra social media e insoddisfazione corporea sia il confronto basato sull’aspetto fisico (Fardouly & Vartanian, 2015; Fardouly, Pinkus & Vartanian, 2017).

Blog Pro-Ana e Thinspiration

A partire dalla fine degli anni ’90 negli Stati Uniti, e dai primi anni del 2000 in Italia, si è assistito all’emergere di forum e blog “Pro-Ana” (a favore dell’anoressia) che incitano all’estrema magrezza, al perfezionismo, al sacrificio e controllo alimentare e consentono lo scambio di informazioni e trucchi (“tips and tricks”) su come perdere peso. Nello specifico, la filosofia pro-ana è considerata un vero e proprio stile di vita per i suoi seguaci e permette la creazione di un’identità di gruppo, divenendo fonte di supporto e condivisione sociale. È stato dimostrato che la partecipazione di persone non affette da un disturbo alimentare a questi siti web è associata ad un’alta spinta alla magrezza, perfezionismo e insoddisfazione corporea (Custers & Van der Bulck, 2009), oltre che bassa autostima (Bardone-Cone & Grass, 2007); mentre in coloro che già manifestano problematiche alimentari può aggravare la sintomatologia, correlando con stress, emotività negativa, maggiore lunghezza dei ricoveri, prognosi meno favorevole, impatto negativo su insoddisfazione corporea e dieta (Gale, Channon, Larner & James, 2016; Rodgers, Lowy, Halperin & Franko, 2016).

Uno dei termini frequentemente rintracciabili visitando questi siti è “thinspo”, abbreviazione della parola inglese “thinspiration”, composto da “thin”, magro, e “inspiration”, ispirazione: nato inizialmente per superare la pressione mediatica legata ai Pro-ana (con siti chiusi e oscurati da diversi paesi europei), gli hashtag #thinspiration e #thinspo si sono presto diffusi sui social, dove si ritrovano migliaia e migliaia di immagini che celebrano la magrezza come valore assoluto ed esaltano corpi emaciati. I contenuti tipici della Thinspiration, glorificando la restrizione calorica estrema, mantengono atteggiamenti e comportamenti orientati al thin ideal beauty (Ghaznavi & Taylor, 2015; Talbot, Gavin, van Steen & Morey, 2017) e sostengono le credenze tipiche della psicopatologia dei disturbi alimentari. In seguito alla crescente preoccupazione e all’allarme dovuto a tali temi, alcuni social hanno cercato di arginare il problema: Instagram, piattaforma incentrata sull’immagine e sul photo-sharing (condivisione di foto), che spopola tra i giovani under 35, già dal 2012 ha messo al bando molteplici hashtag incriminati. Nonostante questo, le community continuano a riorganizzarsi e ad arginare i divieti, creando nuovi account e nuove etichette con varianti lessicali e proseguendo così la diffusione della filosofia Pro-Ana.

Fitspiration

Accanto al proliferare dei siti web Pro-ED (Pro-Eating Disorders, a favore dei disturbi alimentari, che oltre ai Pro-Ana includono anche i Pro-Mia, a favore della bulimia) si sono affermati i cosiddetti “Healthy living blog”, dedicati alla vita sana, che attraverso informazioni su nutrizione ed esercizio fisico si propongono di migliorare la salute delle persone. Gli argomenti trattati da questi blog, pur non riguardando in maniera palese comportamenti patologici e disfunzionali, sono risultati potenzialmente dannosi per coloro che già hanno problematiche col cibo e con l’immagine corporea (Boepple & Thompson, 2014; Lynch, 2010).

Su Internet e soprattutto sui social media è nato un nuovo trend, con contenuti simili agli Healthy living blog, che ha acquisito in breve tempo notevole popolarità: la “Fitspiration”, dalla fusione di Fit e Ispiration, letteralmente ispirazione al fitness. Ad ottobre 2017 sono state condivise ben 48 milioni di immagini su Instagram usando l’hashtag Fitspo, abbreviazione di Fitspiration. Ha cominciato a diffondersi un nuovo ideale di bellezza, come dimostrato dalle innumerevoli foto accompagnate da messaggi e didascalie che ritraggono corpi tonici, atletici, forti (Boepple, Ata, Rum & Thompson, 2016; Boepple & Thompson, 2016). Più precisamente, sotto questo termine sono racchiusi due tipi di ideali, quello atletico (fisico asciutto, bassa percentuale di grasso e aspetto tonico) e quello muscoloso (con gambe e braccia ben definite, addominali evidenti e massa muscolare predominante).

È possibile evidenziare come quest’inversione di tendenza da thin a fit, tipica degli ultimi anni, possa essere riconducibile a due aspetti socioculturali: il primo che concerne un rafforzamento nella valutazione positiva di un fisico femminile relativamente muscoloso, con corpi scolpiti considerati sempre più attraenti e desiderabili (Rodgers et al., 2018), e il secondo che riguarda un incremento delle preoccupazioni da parte della popolazione maschile per il proprio aspetto fisico e in particolare per il livello di muscolosità, osservabile negli alti tassi di utilizzo di steroidi anabolizzanti androgeni (Sagoe, Molde, Andreassen, Torsheim & Pallesen, 2014).

Il focus apertamente dichiarato sul fitness, che l’European Health & Fitness Association (EHFA) definisce come: “stato dinamico di benessere fisico, psicologico e sociale, risultante dalla pratica di un’attività motoria adeguata alle capacità, possibilità ed esigenze-preferenze di ciascun individuo che assume la responsabilità della propria salute”, non deve però trarre in inganno. Gli account Fitspiration, che imperversano sul web e propongono uno stile di vita salutare attraverso l’esercizio fisico e la corretta alimentazione, nascondono infatti numerose insidie. Boepple e Thompson (2016) hanno comparato i contenuti relativi ai siti di Thinspiration con quelli provenienti dai siti Fitspiration e hanno evidenziato che, sebbene i primi fossero maggiormente correlati alla perdita di peso e all’impulso alla magrezza, entrambi (rispettivamente 88% e 80%) presentavano messaggi colpevolizzanti sul peso o sul corpo e stigmatizzanti verso il sovrappeso, termini oggettivanti e suggerimenti per diete ipocaloriche e restrizione alimentare.

Analogamente, Alberga e colleghe (2018) hanno analizzato 360 post di Fitspiration e Thinspiration su Instagram, Tumblr e Twitter, rintracciando diverse similitudini, con immagini focalizzate per entrambi su aspetto fisico e apparenza, foto sessualmente allusive e messaggi che incoraggiavano a ridurre l’introito calorico. Sono stati anche confrontate 734 immagini, di cui 269 relative a Thinspiration, 189 a Fitspiration e 276 a Bonespiration (corpi magrissimi e ossa sporgenti) su tre piattaforme, Instagram, Twitter e We Heart It: nonostante i contenuti Fitspiration presentassero generalmente corpi più muscolosi, un sottogruppo di immagini era simile a quelle Thinspiration nell’evidenziare clavicole, costole e colonna vertebrale, enfatizzando l’ideale della magrezza (Talbot et al., 2017). Un esperimento condotto su 130 studentesse universitarie, di età compresa tra 17 e 30 anni, ha rilevato che l’esposizione a immagini Fitspiration incrementa l’insoddisfazione corporea, l’umore negativo e il bisogno di praticare esercizio fisico e mangiar sano (Tiggerman & Zaccardo, 2015).

Eppure alcuni studi hanno rimarcato delle differenze principali tra Thinspiration e Fitspiration. Harris e colleghi (2016) hanno trovato che su Twitter i messaggi Thinspo riguardavano maggiormente tematiche di perdita di peso, purging, binging, disturbi alimentari e il desiderio di possedere una certa caratteristica o tipo di corpo, mentre quelli Fitspo erano più inclini a includere alimentazione sana, esercizio fisico e forza. Inoltre, mentre i mittenti della fitspiration erano soprattutto aziende e organizzazioni, quelli thinspiration riguardavano soprattutto i contenuti di singole persone. Un’altra analisi, eseguita sempre su Twitter, ha mostrato come i contenuti Fitspiration abbiano principalmente una valenza positiva (Tiggermann, Churches, Mitchell & Brown, 2018).

Carrotte e colleghe (2017) hanno invece indagato le caratteristiche dei contenuti Fitspo su Instagram, Facebook, Twitter e Tumblr, trovando che, su 415 post esaminati ben 295 erano relativi solo a fitness ed esercizi, e in particolare le donne apparivano tipicamente magre e toniche, mentre gli uomini muscolosi. Emerge una sovra rappresentazione di un certo tipo di ideale corporeo a cui sono soggetti entrambi i sessi, che combina il fitness con magrezza o muscolosità, suggerendo come si possa essere adeguati solo in un determinato modo (Tiggermann & Zaccardo, 2016). Un’altra ricerca si è occupata di esaminare la natura di immagini e testi presenti sui post Fitspiration (Deighton-Smith & Bell, 2018): dall’analisi di contenuto su 1000 immagini di Instagram, è emerso che gli individui erano tipicamente rappresentati in modi sessualmente oggettivanti, incoraggiando così l’auto-oggettivazione; mentre dall’analisi dei testi su 400 immagini sono stati identificati alcuni temi comuni, ad esempio “fit è sexy”, “le tue scelte ti definiscono”, “piacere e perseveranza attraverso il dolore”, esaltando l’attività fisica come mezzo per raggiungere certi ideali estetici e perpetuando la cultura dell’apparenza.

Holland e Tiggermann (2017) hanno condotto un’analisi comparativa tra un campione di 101 donne che pubblicavano su Instagram immagini Fitspiration e un campione di 102 donne che condividevano immagini di viaggio. Quelle del primo gruppo riportavano punteggi significativamente più elevati in merito a impulso alla magrezza, bulimia, impulso alla muscolosità, emotività negativa ed esercizio compulsivo (quest’ultimo si riflette nel senso soggettivo di essere obbligati o spinti ad esercitarsi, priorità dell’esercizio fisico sulle altre attività e distress in caso di incapacità di allenarsi); almeno un quinto di queste donne erano a rischio di sviluppare un disturbo alimentare rispetto a chi pubblicava immagini di viaggio.

Negli uomini appare evidente che il fitness e la muscolosità siano componenti chiave nella costruzione del concetto di sé e dell’autostima. Le preoccupazioni del genere maschile sono soprattutto rivolte all’incremento di peso e di massa muscolare, evidenziando livelli più elevati di insoddisfazione corporea e una maggiore possibilità di incorrere in disturbi alimentari o dismorfia muscolare (Furnham & Calman, 1998). Palmer (2015) ha studiato gli effetti della Fitspiration sul genere maschile, rilevando che la maggioranza di essi si servivano dei contenuti offerti sui social per accrescere la propria conoscenza e migliorare la routine di allenamento e di conseguenza il proprio aspetto esteriore. Non solo, i partecipanti di sesso maschile effettuavano confronti di tipo downward e il loro scopo principale era rendere gli altri gelosi della propria forma fisica. Pur mostrandosi selettivi nella ricerca di immagini e consapevoli della manipolazione e artificiosità di alcune di esse, i contenuti a cui erano esposti mantenevano lo stereotipo di iper mascolinità esercitando pressioni sul fisico ideale da esibire.

Un altro studio (Robinson et al., 2017) ha messo in rilievo che la visione di immagini relative all’ideale atletico conduceva a maggior insoddisfazione corporea rispetto a quelle che esaltavano il thin ideal beauty, e che le immagini Fitspiration presentavano promesse ingannevoli, portando a credere che impiegando tempo e sforzi sufficienti sarebbe stato possibile sviluppare il proprio corpo. Inoltre, le immagini di fitness erano fonte di ispirazione, ma di fatto non conducevano ad un conseguente cambiamento comportamentale. In contrasto, uno studio di tipo longitudinale ha specificato che l’interiorizzazione dell’ideale del corpo atletico, così come accade per quello magro, risulta deleterio, inducendo nei soggetti forti sensi di colpa in caso di mancata sessione di allenamento, predicendo in particolare l’esercizio compulsivo, ma non l’insoddisfazione corporea o la dieta (Homan, 2010).

Alcuni autori (Vaterlaus, Patten, Roche & Young, 2015), utilizzando focus group e interviste, hanno osservato che più della metà dei 34 partecipanti (tra i 18 e 25 anni) che possedevano Instagram, Pinterest o Facebook seguivano account Fitspo per rimanere motivati. È stato però riconosciuto che quelli che condividono contenuti relativi a dieta ed attività fisica spesso esercitano una forma di “ditigal bragging” (millanteria digitale), elevando la propria autostima e senso di realizzazione e celebrando i risultati raggiunti, ma al tempo stesso inducendo negli altri sentimenti di vergogna per il proprio corpo e stile di vita. Occorre anche menzionare il contributo di Libero magazine, una rivista digitale che si occupa di promozione della salute mentale e di condivisione di storie su ansia, depressione, disturbi alimentari, che, a partire dal 2014 circa, ha lanciato su diversi social l’hashtag StopFitspiration per rendere consapevoli dei danni connessi ai messaggi Fitspiration e sostenere un approccio più positivo e più bilanciato col fitness e col proprio corpo.

Ippocrate, conosciuto come il padre della medicina, sosteneva che:

Se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute.

Il trend Fitspiration è stata creato per perseguire uno stile di vita salutare, ponendo in primo piano proprio l’importanza di svolgere attività fisica e curare l’alimentazione, in antitesi alla Thinspiration. Gli utenti dei social che seguono la Fitspiration riferiscono effettivamente anche benefici: si sentono parte di una comunità, ricevono supporto sociale, hanno accesso a numerose informazioni sulla salute, si sentono più motivati e percepiscono maggior senso di controllo personale. Eppure questo fenomeno, come emerge chiaramente da molteplici ricerche, presenta aspetti problematici: privilegia ideali fisici non generalizzabili né raggiungibili da tutti, con messaggi e testi che possono generare ansia, preoccupazioni, percezioni negative sul proprio corpo, sentimenti di inadeguatezza, atteggiamenti estremi nei confronti dell’esercizio fisico e anche disordini del comportamento alimentare. L’insoddisfazione corporea esperita può a sua volta esitare in isolamento sociale, vergogna, depressione e altri tipi di distress psicologico. È uno specchio che riflette una cultura ossessionata dalla forma fisica e dall’aspetto esteriore, che in realtà promuove, almeno in parte, comportamenti disfunzionali o potenzialmente dannosi e che ci invita a riflettere sul confine spesso labile tra salute e patologia. Risulta fondamentale predisporre innanzitutto interventi psicoeducativi, per informare sulle modalità con cui certi messaggi sui social media possono incidere sull’immagine di sé, su pensieri e comportamenti delle persone. Sono sicuramente necessarie ulteriori ricerche per approfondire un tema così ampiamente diffuso e in continua espansione, per comprendere altresì la sua influenza sul benessere dei giovani e degli adulti e sulle ricadute a breve/lungo termine, determinando i fattori di rischio individuali e i differenti tipi di contenuto associati con esperienze negative o positive del movimento Fitspiration.

Oculus quest: la realtà virtuale di Facebook – Psicologia digitale

La realtà virtuale o virtual reality (VR) consiste nella simulazione di un ambiente tridimensionale che può essere esplorato e con cui è possibile interagire usando dispositivi come visori, guanti e controller. La VR trova applicazione in diversi ambiti: dai videogiochi al cinema, dai viaggi alla medicina, dal turismo al settore educativo.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 4) Oculus quest: la realtà virtuale di Facebook

 

 Diverse aziende, come Google, Sony per la Playstation e Samsung, stanno investendo anche nello sviluppo di strumenti per la realtà virtuale. Attualmente sono disponibili diverse tipologie di visori, da quelli più economici, ma con prestazioni limitate, fino a quelli più avanzati. In breve le soluzioni possono andare dal cardboard, economico e semplice, in cui basta inserire lo smartphone per riprodurre un ambiente virtuale grazie ai sensori giroscopici del telefono, passando per i visori da collegare al pc o a una console, più potenti, ma con la limitazione della mobilità dell’utente a causa dei cavi, fino ai visori standalone o all in one, chiamati così perché non necessitano di pc, console o smartphone e con prestazioni maggiori rispetto alle altre tipologie.

Oculus VR, la condivisione della realtà virtuale

Oculus VR, società acquistata da Facebook cinque anni fa, concentra le sue risorse e i suoi sforzi esclusivamente sulla produzione di visori sempre più raffinati e avanzati. In questi anni ha lanciato Oculus GO, Oculus Rift e la versione Rift 6. L’ultimo prodotto è Oculus Quest, un visore standalone che quindi funziona senza essere collegato al pc o a un altro dispositivo con cui è possibile giocare ad uno dei 53 giochi disponibili (alcuni adattati da altre piattaforme, ad esempio Angry Birds VR, e altri creati appositamente), oppure immergersi in documentari, concerti e film vivendo esperienze come ad esempio visitare destinazioni sparse per il mondo, vagare nella savana o assistere ad un concerto.

Con Oculus Quest vengono tracciati i movimenti sia in piedi che da seduti, l’ambiente ed eventuali ostacoli possono intralciare gli spostamenti. Ha diverse funzionalità: roomscale, in cui ci si muove in un’area di gioco di 2 metri quadrati; standing, che permette di interagire con gli elementi del gioco mentre si è in piedi, accovacciati, girandosi o raggiungendo oggetti sul pavimento; stationary o sitting, che consente di giocare/esplorare da seduti. Oculus Quest è in grado di tracciare anche le mani servendosi dei controller Oculus Touch con cui si effettuano le operazioni nella realtà virtuale (prendere oggetti, stringere la mano, colpire, indicare, premere, ecc.).

Indossare un visore e dei guanti per usare dei controller e immergersi in esperienze virtuali fa pensare ad una forma di isolamento. Oculus Quest invece è pensato per non isolare l’utente dalla realtà circostante, ma anzi per creare esperienze partecipative e condivisibili. L’aspetto del coinvolgimento e della condivisione è valorizzato ed incentivato sia online che dal vivo. Attraverso il visore o l’app collegata è possibile accedere a Oculus Home da cui si possono condividere foto, video, streaming con gli amici di Facebook; il visore si può anche collegare tramite bluetooth a smartphone o Chromecast per estendere l’esperienza su altri dispositivi vicini.

Ambiti di applicazione

I visori VR hanno molti ambiti di applicazione: dal gaming con giochi di sport, d’azione, avventura o fantasy, al ramo industriale, dell’istruzione e della medicina. Pensiamo, ad esempio, alla progettazione di video e film o, ancora, in ambito educativo come strumento per apprendere in maniera immersiva e coinvolgente: ad esempio, TeenDrive365 è un programma di Toyota che utilizza Oculus Rift come simulatore di guida durante i corsi per la patente. Nel settore della salute pensiamo a dispositivi che hanno modelli tridimensionali del corpo umano che permettono di avere una visione completa in maniera non invasiva prima di effettuare l’operazione, o nella riabilitazione di pazienti, aiutandoli a riacquistare le funzioni cognitive e motorie. Nell’ambito della psicologia clinica viene utilizzato per l’esposizione in un ambiente controllato, per esempio nel trattamento di fobie, ansia e stress. La fedeltà della riproduzione porta gli utenti a sperimentare effettivamente le risposte fisiologiche che sperimenterebbero nella situazione reale (Martens et al., 2019; Wiederhold e Riva, 2019).

Le applicazioni della VR portano a vivere esperienze totalmente immersive in cui, pur essendo consapevoli della finzione, veniamo guidati dai nostri sensi in situazioni che percepiamo come reali in tutto e per tutto. La cosa che accomuna tutte le applicazioni è che l’utente diventa il protagonista dell’esperienza, entra in mondi nuovi in cui poter interagire, in cui può sperimentare e mettersi alla prova in diverse situazioni e ambiti.

 


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L’intelligenza artificiale fra utopie, distopie, pregiudizi algoritmici

Negli ultimi anni si sta assistendo a un incessante sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Per quanto l’IA porti interessanti e utili innovazioni, può nascondere risvolti inquietanti: la possibile evoluzione secondo cui essa riesca a superare le capacità stesse degli esseri umani e i bias cognitivi da essa generati.

 

Il mondo dell’intelligenza artificiale (IA) ormai sommerge il nostro quotidiano, anche nelle tradizioni più ataviche quali la preghiera. Sì, perché siamo arrivati al rosario digitale. Il dispositivo eRosary è un bracciale che si attiva facendo il segno della croce. E’ dotato di una croce intelligente che memorizza tutti i dati connessi all’applicazione.

Nel lavoro vengono analizzati due aspetti inquietanti dell’IA. Il primo riguarda la possibile evoluzione secondo cui essa riesca a superare le capacità stesse degli esseri umani in ogni settore. Il secondo aspetto riguarda i bias cognitivi generati dalla IA tramite i pregiudizi algoritmici.

La capacità di apprendimento di programmi estraendo pattern di dati è il machine learning o apprendimento automatico (sotto-settore dell’IA, che studia algoritmi che migliorano con l’esperienza). Tale processo di apprendimento rinvia alle reti neurali artificiali.

All’interno di una rete neurale artificiale, i neuroni vengono organizzati per strati/livelli (se sono più di due livelli, tale architettura è il deep learning o apprendimento strutturato profondo o apprendimento gerarchico. “Profondo” sta a significare appunto “su più livelli”). I neuroni di ciascuno strato sono connessi solo a quelli dello strato immediatamente superiore e a quello subito inferiore. Le interconnessioni fra strati avvengono attraverso pesi numerici. Naturalmente, in questo processo di trasmissione, i neuroni posizionati a livello apicale (cd. livello nascosto) si limitano a ricevere informazioni dallo strato inferiore. Secondo un sistema di bottom-up, è lo strato di base ad acquisire input esterni: un neurone di base è in grado di processare, ad esempio, le informazioni relative a uno specifico punto (pixel) derivante da una macchina fotografica. L’intera struttura acquisisce un’immagine – quella di un elefante, ad esempio – da uno strato all’altro tramite i pesi numerici. E’ anche possibile che, sempre mediante tali interconnessioni, l’immagine scenda di nuovo, fino a quando l’intera struttura è pienamente in sintonia così da riconoscere l’immagine dell’elefante. Per il training si usano gli “algoritmi di retropropagazione dell’errore” (backpropagation), attraverso cui si rivedono i pesi della rete neurale in caso di errori (la rete propaga all’indietro l’errore in modo che i pesi delle connessioni vengano aggiornati in modo più appropriato). E’ un processo iterativo. Una rete neurale si presenta quindi come un sistema “adattivo” durante la fase di apprendimento, compiendo un processo di “trial and errors”. Che il sistema abbia raggiunto la sintonia è indicato da un pattern di neuroni posizionati al livello basso, che “spara” tale informazione allo strato superiore. Dopo un allenamento costituito da milioni di immagini dell’elefante, finalizzato a un apprendimento autonomo (i sistemi di deep learning, infatti, migliorano le prestazioni all’aumentare dei dati), finalmente la macchina da sola è in grado di riconoscere un elefante (“apprendimento non supervisionato”). La rete neurale apprende quindi in modo autonomo come analizzare i dati grezzi e come svolgere un compito di riconoscimento visivo (classificare un individuo/oggetto riconoscendone, autonomamente, le caratteristiche).

L’apprendimento profondo consente ai computer una progressiva quantità di applicazioni, tra cui il riconoscimento facciale come strumento di sorveglianza in paesi come la Cina. La società della sorveglianza digitale è inaccettabile. Emblematica la protesta dello scorso 24 agosto a Hong Kong. Nel video virale appaiono manifestanti vestiti in nero, con il volto coperto e con gli ombrelli, l’icona della volontà di frapporre uno strato di stoffa oscurante tra l’occhio pervasivo dello Stato e il proprio spazio personale. “Quello non è un lampione”, afferma un tweet virale di un manifestante, “è un lampione intelligente dotato di videocamera e tecnologia di riconoscimento facciale. I manifestanti li stanno abbattendo”. Le informazioni vengono trasmesse immediatamente in tutta la Cina: abbattere quel palo costituisce la metafora di segare il tronco da cui si alimenta il potere repressivo delle autorità. Non a caso i migliori sistemi di riconoscimento facciale sono cinesi e, non a caso, la Microsoft non vende più tecnologie di IA a governi autoritari. Il tema è di attualità anche in Italia: la Polizia di Stato ha attivato il sistema SARI (Sistema Automatico per il Riconoscimento delle Immagini) basato su questo tipo di tecnologie. Si sono generate polemiche sull’ampiezza del database – 16 milioni di volti – poiché si teme una massiccia schedatura della popolazione (“Riconoscimento facciale in tempo reale: quello che vediamo nei film è realtà, 16 milioni di volti schedati”, settembre 2018, reperibile al LINK).

Un’altra pietra miliare nei progressi dell’apprendimento è stata la vittoria di Deep Blue dell’IBM nella sfida a scacchi del campione mondiale nel 1997. Deep Blue è comunque una “IA ristretta”, in quanto la macchina ha come unica capacità quella di giocare a scacchi, pur superando l’uomo. Così pure rimane una “IA ristretta” la forma di “apprendimento profondo con rinforzo” (reinforcement learning), una tecnica di apprendimento della macchina (esempio, il giocatore-macchina di “Breakout”, che scoprì la strategia vincente cui nessun umano aveva fino ad allora pensato). Tale forma di apprendimento è mutuata dalla psicologia comportamentista: il premio acquisito per un successo ottenuto (qui il punteggio) stimola a ripetere la stessa cosa.

Oggi il dibattito si è esteso all’“IA forte” o “IA di livello umano”, chiamata pure “IA generale” (IAG), che riesce a eguagliare – se non a superare – le capacità cognitive umane in ogni campo. Ci si arriverà? Ciò è auspicabile? Le macchine ci renderanno obsoleti? Che cosa significherà essere umani nell’era della “vita digitale”? (Tegmark, 2018).

La “vita digitale” rappresenta l’evoluzione cosmica ineludibile. E’ una evoluzione desiderabile, perché l’esito sarà quasi sicuramente buono, risponderebbe un “utopista digitale”. Di contro, un’altra schiera di sviluppatori e data scientist – i “tecnoscettici” – sostiene che preoccuparsi dell’evoluzione a livello vitale della IA significa imboccare un percorso potenzialmente dannoso – “rallentare la marcia della IA” stessa – distraendo risorse dal problema centrale: gli avanzamenti della IA. Quindi, entrambe le correnti di pensiero non si preoccupano di una possibile “vita digitale”, sebbene con argomenti affatto diversi. La terza via è il movimento della “IA benefica”: è realistico pensare di arrivare nel lungo periodo a una IA di livello umano, sebbene sia necessario prendere precauzioni ex ante, cioè misure di sicurezza perché la macchina non si rivolti contro l’uomo. Una “IA benefica” contribuirebbe a risolvere molte piaghe, quali guerre, cambiamenti climatici, giustizia sociale. Tuttavia, affinché tale utopia non si tramuti in distopia – l’uomo che soccombe alla macchina -, core della ricerca deve essere la sicurezza dell’IA (Tegmark, 2018). In altri termini, mantenere ben salde le briglie della macchina mentre essa avanza.

Un secondo tema cruciale del dibattito è quello dei bias cognitivi che possono essere generati dalla stessa IA tramite pregiudizi algoritmici. In un contesto esterno, complesso e in continua trasformazione, nel processo decisionale l’uomo ricorre a scorciatoie – le euristiche – per rendere più semplice e veloce l’adozione di una decisione. Tali scorciatoie, se sono errate, diventano bias cognitivi, costrutti fondati al di fuori di ogni giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie, su discriminazioni e gender.

Trasposti nell’IA, le ricadute possono diventare pericolosissime. Rimanendo nel campo del riconoscimento facciale, ricercatori del MIT Media Lab in uno studio del 2018, “Gender Shades”, hanno verificato l’accuratezza di alcuni sistemi di riconoscimento facciale dell’IBM. La ricerca ha dimostrato una precisione pari al 99% nel riconoscimento di uomini bianchi e solo del 34% per le donne dalla carnagione scura. Motivo di un così ampio gap nella percentuale di errore è che gli algoritmi usati da questi sistemi si sono basati su soggetti prevalentemente di tipo maschile e di carnagione chiara. Vale a dire, i volti neri erano meno presenti nei database usati per realizzare i software di riconoscimento e, di conseguenza, venivano identificati con maggiore difficoltà. Per comprendere fino in fondo il senso del problema, basti pensare a due circostanze: il pregiudizio insito nel sistema è stato del tutto ignorato fino a quando non è intervenuta un’audit indipendente; la quantità di dati che gli algoritmi analizzano è oggi costantemente in aumento (siamo nel campo dei big data) e, dunque, la probabilità di nascondere l’errore sempre più in profondità è destinata a crescere.

Analoga circostanza anche per il software di reclutamento del personale di Amazon: il bias privilegiava le assunzioni maschili. Ci sono voluti anni per rendersi conto dell’errore e molti tentativi per correggerlo. La probabilità di incorrere in alcuni di tali bias – quelli sessisti – si ridurrebbe se più donne lavorassero nell’IA (Rossi, 2019).

Nel settore della giustizia, affidare a un algoritmo il giudizio su un crimine o sulla possibilità che questo si verifichi è un’interferenza indebita e pericolosa. Ad esempio, in UK, uno studio realizzato da un organismo a tutela dei diritti e libertà nel paese ha evidenziato come il set di dati, già discriminatori in origine, consolidassero i pregiudizi minando diritti fondamentali. Alla base di tale bias c’è una duplice circostanza: in primo luogo, ci si è occupati di mappare zone urbane considerate più a rischio, concentrando gli sforzi della polizia verso quelle aree; in secondo luogo, si sono analizzati dati e informazioni sia di potenziali criminali sia di vittime, cercando di prevenirne le azioni. La sovrapposizione di questi due sistemi e la possibilità di utilizzare un enorme stock di serie storiche, unite alla velocità con cui si possono elaborare risposte, dovrebbero garantire un accurato “risk assessment” del crimine. Ma la vita reale è più complessa: le serie storiche non riescono a inferire a sufficienza le tendenze comportamentali del futuro, in primis perché le condizioni socio-economiche evolvono (Giribaldi, 2019).

Nello studio L’intelligenza artificiale può essere sessista e razzista: è ora di renderla equa (Schiebinger e Zou, 2018) è stato criticato come gli sviluppatori e i data scientist non abbiano insegnato alle macchine a riconoscere le minoranze sottorappresentate nella società. Sicuramente, un ordine di problemi deriva da come vengono raccolti i dati che alimentano gli algoritmi e i software. ImageNet, ad esempio, è un database di immagini utilizzato da moltissimi sistemi di visione automatizzati: il 45% di queste immagini viene dagli Stati Uniti, dove però vive solo il 4% della popolazione mondiale; le immagini provenienti da Cina e India (che insieme contano il 36% della popolazione mondiale) contribuiscono solo per il 3% al database! I sistemi di riconoscimento facciale già in commercio, quando hanno a che fare con donne di colore, sbagliano spesso (il 35% delle volte) nel riconoscere il genere, rispetto a quando le donne sono di carnagione chiara (0,8%). Nel 2015, Google si scusava (Burchia, 2015) perché un suo software aveva etichettato “gorilla” due afroamericani… e tuttora rischi di questo genere non sembrano scongiurati giacchè, nell’applicazione, la ricerca di termini quali “scimpanzé” e “scimmia” non conduce a risultati… (Simonite, 2018).

Per minimizzare i rischi urge un’etica dei dati. E in questo è importante il ruolo dell’Europa con un Codice Etico secondo cui l’IA non dovrà danneggiare la dignità, la sicurezza fisica, psicologica e finanziaria degli esseri umani. Anche il Consiglio d’Europa, con una Dichiarazione adottata nel febbraio 2019 (“Declaration by the Committee of Ministers on the manipulative capabilities of algorithmic processes”), mette in guardia contro il pericolo di discriminazione sociale causata dagli algoritmi. Sicché, il futuro dell’IA dipenderà dalla capacità di risolvere la questione dei bias cognitivi.

Ma non solo. Oltre i bias ci sono altre categorie di gravi errori. Ad agosto 2017, due chatbot progettati da Facebook cominciano a comunicare fra loro con un linguaggio incomprensibile persino dai ricercatori che li avevano progettati. A marzo 2018, in Arizona, un’auto a guida autonoma investe uccidendo la ciclista Elain Herberg. Il safety driver a bordo non è riuscito a frenare.

Questo genere di notizie generano un clima di insicurezza e angoscia nelle società, poiché l’IA sembra scappare di mano all’uomo e ci si rende conto di un’afasia tra uomo e macchina.

Ci avviciniamo a una “società della paura” man mano che ci avviciniamo a una “vita digitale”?

 

Trauma e stress psicosociale modificano il nostro sistema dopaminergico? 

Non è ancora chiaro il meccanismo tramite il quale stress acuti inducano un’attivazione del sistema dopaminergico, ma anche un unico evento stressante può modificare il sistema dopaminergico, alterando così la responsività dell’individuo a futuri stimoli. 

 

Quando si parla di avversità psicosociali ci si può riferire o a traumi veri e propri, quindi situazioni nelle quali la vita della persona è stata messa a repentaglio, o ha subito gravi lesioni/violenze, oppure a stress psicosociale, quindi situazioni come l’abbandono, la perdita di un familiare, i cambiamenti di lavoro.

È noto in letteratura che gli eventi traumatici aumentano il rischio di disturbi mentali (Carlsson&Carlsson, 1990); sembrerebbe che questa vulnerabilità nelle persone traumatizzate sia data da un’alterazione delle vie dopaminergiche (Bloomfiedl et al., 2019).

La dopamina è un neurotrasmettitore che è principalmente coinvolto nei meccanismi di ricompensa, quindi stimoli come il sesso, il cibo e sostanze stupefacenti provocano un rilascio di dopamina, aumentando così la ricerca di questi stimoli da parte dell’individuo; viene rilasciata dalla substantia nigra ed inoltre è in relazione con il sistema nervoso simpatico, causando l’accelerazione del battito cardiaco, oppure l’aumento della pressione sanguigna (Kapur& Mann, 1992).

Non è ancora chiaro il meccanismo tramite il quale stress acuti inducano un’attivazione del sistema dopaminergico, ma è risaputo che anche un solo ed unico evento stressante è in grado di modificare il sistema dopaminergico, andando così ad alterare la responsività dell’individuo a futuri stimoli.

Gli individui traumatizzati percepiscono la minaccia in maniera più intensa ed esagerata, rispetto ad individui che non hanno subito traumi; inoltre la produzione della dopamina sembra essere maggiore negli individui con una storia di traumi (Kapur& Mann, 1992).

Anche la risposta dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA), che è la risposta del corpo allo stress prolungato, sembra essere alterata; l’attivazione di quest’asse porta alla produzione del cortisolo, noto come ormone dello stress.

Il sistema dopaminergico, oltre ad essere alterato nei soggetti traumatizzati, è alterato anche nelle persone che fanno esperienza di stress psicosociale, andando così a compromettere la percezione della minaccia – che verrà percepita con più intensità, rispetto ad un soggetto con un sistema dopaminergico nella norma – ed aumentando la vulnerabilità dell’individuo a sviluppare disturbi mentali, come ad esempio, ma non solo, la depressione, la schizofrenia e i disturbi di addiction (Bloomfiedl et al., 2019).

Caregivers di persone con demenza e mindfulness

Le demenze portano a una progressiva e inesorabile riduzione dell’autonomia, che rende necessario l’intervento del caregiver, un compito stressante e ricco di sfide. Rendere più sostenibile il caregiving giornaliero può portare molti benefici nel lungo periodo. Gli interventi basati sulla mindfulness si sono dimostrati utili per supportare i familiari di persone con demenza.

Maria Gazzotti – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

 Con l’avanzare dell’età il nostro organismo subisce profondi cambiamenti e, oltre ai mutamenti tipici dell’invecchiamento sano, che comprende comunque un declino delle abilità cognitive, aumenta esponenzialmente l’incidenza delle patologie dementigene. Il termine demenza indica una malattia cronica degenerativa ad esordio insidioso con un progressivo peggioramento cognitivo; é caratterizzata da deficit che coinvolgono la sfera cognitiva, emotiva, comportamentale e funzionale, con una progressiva perdita dell’autonomia che porta a dipendere dagli altri.

L’invecchiamento della popolazione é uno dei cambiamenti della società odierna che spicca maggiormente e che porta con sé un aumento di tutte le patologie croniche legate all’età, comprese le demenze, fattore che ha reso il decadimento cognitivo un problema di salute pubblica di rilevanza sempre maggiore, al punto che nel 2012 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’ADI (Alzheimer’s Disease International) hanno definito questa patologia una priorità mondiale di salute pubblica.

Le demenze colpiscono ad oggi circa 47 milioni di persone nel mondo e il numero è in aumento (Liu et al., 2017). Secondo alcune proiezioni, i casi di demenza potrebbero aumentare drasticamente nei prossimi 30 anni nei paesi occidentali, con 7.7 milioni di nuovi casi all’anno (1 ogni 4 secondi). Considerando nello specifico la situazione italiana, si stima che il numero di persone con demenza superi il milione e che siano circa 3 milioni le persone coinvolte nell’assistenza dei loro cari (Ministero della Salute).

Come detto sopra, uno degli aspetti caratteristici delle patologie dementigene é la progressiva ed inesorabile riduzione dell’autonomia, che rende necessario l’intervento di una persona, spesso un familiare, come un figlio o il coniuge, che possa assistere il malato, un compito stressante e ricco di sfide dal momento che spesso i caregivers si trovano a dover bilanciare tra le richieste del caregiving e quelle legate alla propria vita personale, sociale e lavorativa. È comprensibile come i caregivers possano trovarsi a sperimentare emozioni negative, tristezza, preoccupazione, sconforto, rabbia, senso di impotenza, con difficoltà a comprendere e ad accettare la malattia o comunque ad adattarsi ai cambiamenti della persona cara e della relazione. I figli si trovano ad affrontare un complesso capovolgimento dei ruoli, nel quale diventa il figlio colui che si prende cura del genitore, in modo nettamente più accentuato nei casi di demenza rispetto a quelli di invecchiamento non patologico; nel caso in cui il caregiver sia il coniuge si ha un altrettanto profondo sconvolgimento della relazione, nella quale uno dei due coniugi deve ora accudire l’altro, spesso fronteggiando contemporaneamente i cambiamenti della propria vita che, come detto sopra, sopraggiungono anche nei casi di invecchiamento non patologico.

Prendersi cura di un familiare affetto da malattie croniche ha generalmente effetti negativi come stress cronico, isolamento sociale, riduzione della salute fisica, difficoltà emotive, maggiore uso di farmaci, maggiori rischi di ansia e depressione, alti costi finanziari e personali, compromissione della salute e del benessere (Whitebird et al., 2012; Oken et al., 2010). È noto poi come prolungati alti livelli di stress predispongano proprio allo sviluppo di patologie psicologiche e fisiche (Liu et al., 2017;  Kor et al., 2019). Il burden legato a questo ruolo impatta sul benessere e sulla qualità della vita del caregiver con conseguenze anche nella gestione pratica della situazione, aumentando le probabilità di istituzionalizzazione del paziente. Rendere più sostenibile il caregiving giornaliero nel lungo periodo, riducendo lo stress e migliorando la salute mentale dei caregivers, può contribuire a ritardare l’istituzionalizzazione riducendo così anche i costi per la società (Liu et al., 2017; Kor et al., 2019).

Si ipotizza che il numero di caregivers di persone con demenza triplicherà nei prossimi anni arrivando a 131.5 milioni nel 2050 (Kor et al., 2019) e, proprio perché un numero sempre maggiore di famiglie si trova ad avere un familiare con decadimento cognitivo, e per le difficoltà che questo compito implica, sta diventando sempre più importante concentrarsi sulla condizione dei caregivers e su come sia possibile migliorarla (Whitebird et al., 2012; Oken et al., 2010).

Diversi studi si sono quindi occupati della ricerca di metodi che potessero mitigare gli effetti negativi di tale condizione, partendo dall’idea che rendere le persone maggiormente in grado di gestire lo stress cronico che si trovano ad affrontare giornalmente, possa portare benefici a lungo termine.

 Sono stati svolti numerosi interventi psicosociali, come il fornire informazioni, supporto sociale e skills training che hanno però portato a risultati non del tutto soddisfacenti nel ridurre il distress dei caregivers. Infatti, nonostante i caregivers possano diventare sempre più competenti e sviluppare sempre maggiori abilità utili a prendersi cura della persona cara, permarrà comunque il burden e ci saranno inevitabilmente momenti nei quali si sentiranno sopraffatti; è proprio qui che entra in gioco la mindfulness (Liu et al., 2017).

La mindfulness trae origine dal buddhismo e può essere definita come un particolare tipo di attenzione focalizzata sul momento presente, di consapevolezza non giudicante e di accettazione dell’esperienza (Whitebird et al., 2012). Gli elementi caratteristici della mindfulness sono la consapevolezza, che consente di affrontare con flessibilità e padronanza i pensieri e le emozioni negative, e l’accettazione non giudicante del momento presente. Il trattamento di mindfulness consiste nel ridurre lo stress, nell’imparare a gestire le emozioni attraverso la consapevolezza, nell’accettare la propria esperienza così com’è (Whitebird et al.,2012) ed è associata al benessere psicologico;  proprio le sue caratteristiche sopra descritte sono considerate degli antidoti potenzialmente efficaci contro svariate forme di stress psicologico, come ruminazione, ansia, preoccupazione, paura e rabbia (Keng, Smoski & Robins, 2011).

Negli studi presi in considerazione sono stati conservati interventi basati sulla mindfulness la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) e l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), con buone evidenze del fatto che possano essere utilizzati come interventi supportivi standard per i familiari di persone con demenza (Liu et al., 2017; Kor et al., 2019).

I trattamenti basati sulla mindfulness possono aiutare i caregivers a sviluppare un atteggiamento di caregiving accettante e non giudicante, a rispondere a stimoli esterni, come ad esempio i problemi comportamentali, in modo meno reattivo e impulsivo, a sviluppare una maggiore pazienza nel gestire le diverse situazioni, a favorire un aumento dell’accettazione delle problematiche, prerequisito fondamentale per l’adattamento ai cambiamenti continui a cui inevitabilmente la diade caregiver-paziente va incontro (van Boxel et al., 2019). Aiuta inoltre ad essere consapevoli delle proprie reazioni inutili, dei pattern di pensiero automatico e a distaccarsi da questo pilota automatico per potersi relazionare in modo meno faticoso e più efficace (Liu et al., 2017).

É rappresentativo il vissuto di una una caregiver che ha riportato come, assumendo un atteggiamento più mindful, riusciva ad evitare di discutere con la madre che le chiedeva ripetutamente le stesse cose, sviluppando così una relazione più armoniosa e meno stressante (Kor et al., 2019).

Gli interventi basati sulla mindfulness rivolti a questo tipo di caregivers sono stati strutturati generalmente con incontri di gruppo a cadenza settimanale o bisettimanale per un totale che si aggira attorno agli 8 incontri, della durata di 90-120 minuti ciascuno, spesso con lo svolgimento di esercizi anche a casa; alcuni esempi di esercizi svolti sono quelli di consapevolezza del respiro, delle sensazioni corporee e dell’esperienza cognitiva ed emotiva (Kor et al., 2019; Oken et al., 2010).

I familiari di persone affette da demenza tendono a pensare ripetutamente al passato e al futuro e questa tecnica può aiutarli a rispondere agli stimoli interni ed esterni in modo meno impulsivo, più riflessivo e consapevole, aumentando le abilità di coping, portando a concentrarsi sull’esperienza presente nel qui ed ora con un’accettazione non giudicante e riducendo pensieri ripetitivi e ruminanti, con un effetto su preoccupazione, ruminazione, depressione, ansia e stress associati (Whitebird et al., 2012).

Prove crescenti mostrano che i programmi basati sulla mindfulness sono associati ad una riduzione di molteplici dimensioni psicologiche negative, come stress percepito, sintomi depressivi, aumento della qualità di vita, mentre minori sono le prove a sostegno di un effetto significativo sul burden e sull’ansia (Liu et al., 2017).

Il training mindfulness é breve, efficace, con costi relativamente contenuti e può essere una soluzione alternativa o aggiuntiva agli interventi convenzionali per i caregivers. Questo tipo di training é inoltre risultato ben accetto ai caregivers, infatti circa il 70% tende a completare tutte le sessioni previste dimostrando buona adesione al trattamento (Liu et al., 2017).

Gli effetti a lungo termine dei trattamenti basati sulla mindfulness non sono ancora stati stabiliti con certezza e saranno necessari studi futuri su larga scala e condotti rigorosamente per confermare i risultati ed approfondire gli effetti specifici su ansia e burden.

Per concludere, gli studi condotti fino ad ora hanno portato a risultati promettenti che indicano questo tipo di trattamenti come buoni interventi per i caregivers di persone con demenza, dotati inoltre del grande vantaggio di basarsi su esercizi e tecniche che, una volta imparati, possono essere utilizzati per gestire lo stress e le sfide del caregiving quotidianamente.

Le truffe romantiche o sentimentali (romance scam) online come fenomeno psicosociale persuasivo

Le truffe romantiche, chiamate anche truffe sentimentali (romantic scam o romance scam nel mondo anglosassone) online sono un fenomeno criminale in forte diffusione definito da specifiche caratteristiche che vanno dallo stato psicosociale vissuto dalla vittima alle tecniche persuasive manipolatorie utilizzate dai criminali.

 

Le truffe romantiche online sono un fenomeno criminale in forte crescita in alcuni paesi (in particolare USA, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed altri Italia inclusa), ma molto probabilmente si sta espandendo anche in tutti quei paesi dove è diffuso l’uso di social network.

Le truffe romantiche avvengono soprattutto nel web e sono commesse da criminali (sempre più frequentemente da gruppi criminali) che falsificando la propria identità (molto frequentemente anche se non sempre) sfruttano in maniera non etica e manipolatoria una relazione di fiducia instaurata con l’intenzione di depredare finanziariamente la vittima. La relazione fiduciaria implica specifici aspetti cognitivi, emotivi e motivazionali all’interno della comunicazione tra la vittima e il criminale il quale si presenta inizialmente come persona assolutamente affidabile, corretta dal punto di vista etico e semplicemente orientato alla ricerca di un rapporto socialmente significativo (amicizia, matrimonio, convivenza, etc.).

Solo nel 2016 sono stati segnalati all’FBI americana 15.000 reati ascrivibili alle truffe romantiche, circa 2.500 in più rispetto all’anno precedente, con un totale stimato di danni diretti finanziari superiori a 230 milioni di dollari (FBI, 2018), mentre in Gran Bretagna, sempre relativamente al 2016, la BBC News segnala 3.889 vittime, 39 milioni di sterline di danni diretti. L’Internet Crime Complaint Center (IC3) dell’FBI ha identificato nelle truffe romantiche il crimine online che produce la maggior quantità di perdite finanziarie per le vittime (FBI, 2018).

I criminali sfruttano a loro favore il fisiologico bisogno di relazionarsi, socialmente espresso più o meno consapevolmente dalla vittima, per costruire un copione, una narrazione convincente per arrivare a “spingerla” nella condizione di prestare aiuto (quasi sempre economico) facendo leva sul solido e coinvolgente rapporto di fiducia precedentemente stabilito. Questa dinamica psicosociale avviene con modalità piuttosto veloci per il fatto che si tratta quasi sempre di rapporti a distanza che prevedono di conseguenza interazioni comunicative molto diverse da quelle più tradizionali vis à vis.

Sono presenti, nello sviluppo di relazioni a distanza di questo tipo, sia processi di maggiore disinibizione che di maggiore idealizzazione del potenziale partner, il che rende il rapporto contemporaneamente ed inizialmente più veloce ed inteso rispetto allo scenario tradizionale dove invece si percepiscono maggiori informazioni (sia positive che non) durante la conoscenza diretta. L’abilità persuasiva del criminale consiste nell’utilizzare le specifiche conoscenze di queste dinamiche psicosociali in modo non etico, ma molto efficace, per manipolare il comportamento della vittima.

La situazione attuale relativa a questo crimine è particolarmente drammatica quanto attualmente sottostimata dalla nostra società, anche per il fatto che, per ragioni psicosociali, molto frequentemente vi è una grande resistenza psicologica delle vittime nel riportare pubblicamente i reati (per i sentimenti di vergogna e/o paura conseguenti al sentirsi giudicati come stupidi, sciocchi, ingenui, etc.) e per il fatto che, anche se denunciano l’accaduto agli organi competenti (la polizia postale nel nostro paese), non ottengono nella stragrande maggioranza dei casi nessuna giustizia legale, il che rende pressoché impossibile recuperare quindi anche i danni economici.

Oltre ai danni finanziari diretti (quanto effettivamente i criminali riescono ad estorcere alle loro vittime) vi sono da considerare anche i danni economici indiretti dovuti al deterioramento dello stato finanziario/patrimoniale e le problematiche psicosociali (problematiche stress correlate, ansia, depressione, rischio suicidario, etc.) provocate alle vittime ed alla rete sociale connessa a loro (figli, parenti, etc.).

Il recupero dei danni economici perpetrati alle vittime delle truffe romantiche è molto difficoltoso per l’estrema problematicità nel risalire alla vera identità del criminale che generalmente si trova in un paese diverso rispetto a quello del truffato al fine di scongiurare qualsiasi azione legale/inevestigativa da parte dello stesso.

La frode avviene perché vi è la concomitanza di vari elementi che rendono maggiormente “vulnerabile” la vittima. Questi elementi concernono sia caratteristiche psicologiche delle vittime (basso autocontrollo, impulsività, il forte desiderio di trovare un partner, etc.), sia fattori contestuali relativi ai truffati (come ad esempio aver da poco vissuto un evento traumatico o comunque fortemente stressante come una separazione o altro) sia la capacità persuasiva del criminale. Il criminale conoscendo (esplicitamente o meno) l’importanza dei fattori psicologici e contestuali appena menzionati relativi la vittima, dopo aver effettuato una selezione dei possibili bersagli attraverso le molte informazioni a disposizione sul web (spesso del tutto gratuitamente, si pensi ai social media quali facebook…), chiede loro il contatto avviando quindi, nel caso di risposta positiva, il copione narrativo persuasivo finalizzato alla richiesta (che può essere esplicita o meno) di denaro. Tessendo questa “ragnatela persuasiva” comunicativa il truffatore asseconda i bisogni psicosociali della vittima per instaurare un solido ed emotivamente positivo rapporto di fiducia che preparerà il “terreno” per la richiesta di denaro vera e propria, molto frequentemente connotata da un carattere di urgenza e necessità imminente (che molto spesso possiede un aspetto percepito dalla vittima come negativo, tragico o pericoloso per il presunto partner, ma che può talvolta essere connotato anche positivamente nel caso assuma la forma di preziosa occasione da cogliere molto velocemente).

Nel settore della psicologia scientifica vi è stato molto recentemente lo sforzo di individuare alcune caratteristiche psicologiche che rendono le vittime più vulnerabili nei confronti delle truffe romantiche (Coutlee, Politzer, Hoyle, & Huettel, 2014; Cross, 2019; Hadlington, 2017; McCoul, 2001; Modic & Lea, 2013; Whitty, 2013; Zuckerman, 2000), ma rimane da chiarire se alcune dimensioni quali, ad esempio, l’impulsività e lo scarso autocontrollo riscontrato in queste ricerche siano caratteristiche precedenti all’interazione manipolatoria o siano la conseguenza del processo di innamoramento molto frequente nel caso delle truffe sentimentali. Personalmente ho il piacere di essere in contatto con alcuni di questi colleghi pionieri di questo specifico settore quali il prof. David Modic della Cambridge University (UK) e la prof.ssa Monica Whitty della Melbourne University (AU), ma sono convinto che anche il lavoro sulla persuasione svolto dal prof. Robert Cialdini, professore presso l’Arizona State University (USA), pur non avendo trattato specificamente le truffe romantiche, possa esser molto utile nel gettare luce su questo fenomeno psicosociale.

Anche lo stesso prof. Cialdini, durante una comunicazione personale avvenuta poche settimane fa in merito proprio a questo tema, mi ha espresso la convinzione che analizzare attraverso la prospettiva della persuasione il fenomeno delle romance scam può aiutare a comprenderlo meglio come fenomeno psicosociale (comunicazione personale, 23 ottobre 2019). In estrema sintesi i processi persuasivi identificati dal prof. Cialdini (Cialdini, 2009) sono: la reciprocità (dobbiamo contraccambiare un favore che ci viene offerto/proposto), l’autorità (siamo più propensi ad accettare una richiesta se arriva da chi giudichiamo come autorevole/competente), il consenso sociale (a parità di altre condizioni tendiamo ad adottare scelte comportamentali condivise da un gruppo numeroso di persone), la scarsità (siamo propensi ad attribuire un valore maggiore a qualcosa che percepiamo come scarsamente disponibile), l’impegno e la coerenza (anche se apparentemente poco significativi, una volta effettuata una scelta o un comportamento, abbiamo la tendenza ad effettuare scelte o comportamenti futuri coerenti con quelli effettuati precedentemente) e la piacevolezza percepita di chi emette il messaggio persuasivo (preferiamo accettare richieste da persone che ci piacciono o, in misura maggiore, che abbiamo la percezione che piacciamo loro).

Risulta molto interessante leggere il fenomeno delle truffe romantiche con la prospettiva offerta dalla comunicazione persuasiva, perché permette di comprenderne le dinamiche ed estrapolare delle informazioni utili per prevenirne il fenomeno criminoso.

Le conseguenze finanziarie e psicosociali delle romance scam o truffe romantiche sono in genere molto pesanti per gli intensi sensi di colpa, l’ansia, la depressione (talvolta anche con pericolo suicidario), lo stress e la frustrazione di non poter avere né giustizia legale (molto spesso si tratta di crimini avvenuti internazionalmente, quindi praticamente non perseguibili), né di recuperare l’aspetto economico, né di poter beneficiare del supporto sociale per la paura di essere oggetto di giudizi negativi da parte della loro stessa rete sociale significativa (in genere le vittime non ne parlano nemmeno con i parenti più stretti o gli amici). A questa condizione occorre aggiungere anche che, in seguito al crimine, vi è in genere la scarsa capacità di ricostruire facilmente un rapporto di fiducia nei confronti di altre persone il che indebolisce ulteriormente la possibilità di essere supportati socialmente (professionalmente o meno) in maniera efficace.

Minando il senso di fiducia, le romance scams producono un effetto molto negativo e potenzialmente pericoloso perché da una parte depauperano le risorse sociali positive potenzialmente benefiche per il truffato, dall’altra promuovono un senso di sfiducia nei confronti del proprio futuro, conducendo la vittima ad un pericoloso pessimismo che alimenta un fenomeno di impotenza appresa.

Le conseguenze delle truffe sentimentali sono connotate dagli aspetti psicosociali sopra menzionati che non devono essere sottovalutati per i pesanti costi individuali e sociali che comportano. Vi è la necessità di una risposta sociale, istituzionale e politica che fornisca da un lato un piano di prevenzione attraverso una corretta informazione relativa questo fenomeno, dall’altro un più efficace supporto psicologico, legale e finanziario alle vittime di questa tipologia di crimini finalizzato a contenerne i danni psicosociali.

 

La rana bollita: una storia di ansia, attacchi di panico e cambiamento (2017) di M. Innorta – Recensione del libro

Marina Innorta ripercorre, in La rana bollita, il personale vissuto con il disturbo di ansia, partendo dal culmine della sua manifestazione nelle forme più estreme fino al punto di ripresa e rinascita, senza la pretesa di offrire soluzioni finali e universali su come liberarsene.

 

La protagonista del libro usa la metafora della rana bollita, riconoscendosi in quella rana che annaspa ormai da anni nel pentolone sempre più caldo dell’ansia.

Ella è tuttavia conscia della deriva a cui sta andando incontro, così, pur stremata e debilitata, trova la forza di reagire, tirando una zampata e saltando fuori dal pentolone, prima di restarci secca, anzi bollita.

Il principio della rana bollita e la metafora dell’ansia

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. (N. Chomsky)

Il principio della rana bollita IMM 1

Il filosofo americano Noam Chomsky si è servito del principio metaforico della rana bollita per spiegare determinati comportamenti sociali in merito all’accettazione passiva di vessazioni, perdita di etica e valori da parte di Società e Popoli, fino a giungere alla deriva assoluta. Pur non essendoci basi scientifiche che dimostrino il principio (né si tratta di un possibile esperimento da replicare!), esso ben si presta a spiegare la capacità di adattamento dell’uomo. Per tale ragione il principio è stato assunto come metafora della vita nel trattare temi correlati al cambiamento, soprattutto in sociologia e psicologia. Convivere con il disturbo di ansia è infatti un esempio calzante di come la natura umana tenda a tollerare il dolore in piccole dosi, incorporandolo, invece che dargli voce e spazio. Perché le ansie cercano disperatamente di dirci qualcosa, di essere ascoltate, e dinanzi a rifiuto o indifferenza alzano il calibro della manifestazione con reazioni e somatizzazioni più o meno pesanti. Per contro, le persone spesso raddoppiano la dose di resistenza ad esse, animate da quel “in fondo non è poi così grave, va bene anche così”, ignorando che, così facendo, altro non fanno che predisporsi alla “bollitura”.

Una storia di ansia: sintomi e vissuto

La rana bollita inizia con il racconto di un anonimo pomeriggio di novembre quando, a seguito dell’ennesimo attacco di panico, la protagonista, stoica sofferente di disturbi di ansia da anni, si ferma e forse per la prima volta si chiede (realizzandone la risposta): “ma devo proprio sopportare che sia così?”. Inizia di lì il suo percorso verso questa paura senza nome e spesso invisibile che è l’ansia. La protagonista descrive con vividezza e chiarezza la convivenza fisica e psichica con l’ansia e gli attacchi di panico, da lei definiti “giri di giostra al luna-park del terrore”. Un ruolo fondamentale lo giocano “le ragazze della cantina”, a cui lei ricorre per umanizzare lo svilente e incessante lavorio mentale che precede e segue ogni decisione, risolvendosi alla fine con evitamento e/o rinuncia. Le ragazze della cantina sono le voci interne, quelle parti di sé spesso in combutta tra loro, che scalpitano per essere ascoltate: vi è la Bambina lamentosa che strilla e l’Adolescente ribelle sempre contro tutto e tutti, la Perfettina perennemente insoddisfatta, la Contabile con la sua mania dei bilanci e il Giudice che emette sentenze, ovvero condanne senza possibilità di appello. Al centro regna sovrana sua maestà la Ragione, detentore del “fare la cosa giusta” e infine vi è una Saggia vecchina, sempre in disparte, che anche quando si espone resta inascoltata.

Il Sistema Nervoso è ipereccitabile e così si tende a fare tutto più veloce: pensieri, battito cardiaco, respiro… si vive in affanno, con la paura di non arrivare mai, di non fare mai in tempo; è ciò che la protagonista definisce “vivere con il pilota automatico inserito”. Il rapporto con il tempo per una persona ansiosa è una corsa continua con la mente che scappa sempre più in avanti delle gambe, fa voli pindarici tra ricordi passati e proiezioni (preoccupazioni) future, fino quasi a perdere il contatto con l’ambiente circostante. Ne consegue la sensazione di essere assente a sé stessi, perennemente disconnessi, in un altrove irrazionale che nel presente non accade.

La protagonista infine evidenzia, e sottilmente denuncia, lo stigma sociale di cui si è preda quando si soffre di disturbi mentali, ancor più in caso di uno tanto intangibile quanto indefinito come l’ansia. “La salute mentale non è un argomento da pausa caffè” afferma. La società considera spesso gli ansiosi “malati colpevoli”, le cui caratteristiche non sono un reale disagio bensì debolezza del carattere. E per contro, chi ne soffre, se ne vergogna e tace.

Antidoti, naturali e non, contro l’ansia

Partendo dal presupposto che, quando si parla di disturbi di ansia non vi è una cura preconfezionata, né è nell’intento dell’autrice offrire la sua come esempio, ella si limita a raccontare gli ingredienti che le sono stati salvifici contro la stretta morsa dell’ansia. Alcuni di questi li considera universali e benefici a priori, altri rispecchiano più le predisposizioni personali.

Tra le diverse pratiche vi è la mindfulness che, insegnando a essere presente a sé stessi, induce alla consapevolezza e al dialogo con sé. L’autrice afferma quanto sia stato per lei fondamentale dialogare con la propria ansia, guardarla in faccia e darle un nome: paura. Perché è a cominciare dal momento in cui si affronta una paura, o anche solo la si definisce, che essa appare meno minacciosa. Altro antidoto è stato coltivare le proprie passioni: scrivere sul suo blog “il suo luogo calmo dove trovare rifugio dal caos e dal rumore del mondo”. La psicoterapia, consigliata dal medico di famiglia e accettata sin dal principio di buon grado, e il rapporto più controverso con la terapia farmacologica a cui ha ricorso sin dall’inizio con largo uso di ansiolitici rifiutando però, in seconda fase, gli antidepressivi. Infatti, il trattamento farmacologico in presenza di ansia allo stato cronico si basa ad oggi su una combinazione di ansiolitici (in prima fase) e antidepressivi se il disturbo persiste (ndr.).

Vi è poi un ingrediente che potrebbe considerarsi comune e universale per una vita equilibrata, ovvero il contatto con la natura, quello che la protagonista chiama “Vitamina N”. Il potere curativo della natura sta nel riportare l’individuo al tempo presente, al qui ed ora, immergendosi nel flusso della vita riconnettendosi solo con le cose importanti, essenziali. La cura agisce nella misura in cui si riesce ad abbassare il volume del frastuono interno dei pensieri e focalizzarsi sull’attimo presente; si percepirà allora il fruscio delle foglie, il rumore del vento, il dolce suono delle onde del mare e ci si sentirà più ancorati al tempo presente e alla terra. Il mare, in particolare, è considerato l’ansiolitico naturale per eccellenza per il suo comprovato potere calmante.

Infine, lo sport all’aria aperta e in generale il praticare attività sportive, considerato come una sfida con sé stessi il cui superamento sta tutto nella costanza con cui ci si applica. Questo è molto evidente nella corsa (che è infatti l’attività praticata dalla protagonista) dove spostare l’asticella del limite ogni volta più in là non è solo una motivante sfida con sé stessi, bensì è il modo migliore per recuperare l’autoefficacia perduta. L’autoefficacia è la fiducia che si ripone nelle possibilità di successo delle proprie azioni, è la percezione di riuscire a fare accadere le cose; laddove essa manchi o viene meno, lì si insinua la disperazione. Con lo sport, quel senso di impotenza e fallimento si riduce ad ogni obiettivo prefissato e superato e la fiducia rinnovata porta naturalmente a fissarne uno più grande, una distanza più lunga.

Va da sé che, essendo l’ansia un disturbo frastagliato e destabilizzante, fare ciò che fa star bene non è sempre un percorso lineare e scevro da resistenze, sorgeranno sempre dei contro più ragionevoli dei pro a dominare la partita. L’arma vincente sta nel mettersi in ascolto di sé stessi, affidarsi alle proprie risorse interne e perseguire in ciò che fa star bene, provando a sovrastare quelle paure paralizzanti.

Chiavi di volta e considerazioni finali

In conclusione, alcune riflessioni maturate e atteggiamenti di cui l’autrice ha preso consapevolezza e che l’hanno aiutata a saltar fuori dal pentolone dell’ansia:

  • L’importanza di chiedere: chiedere porta con sé la paura del rifiuto, l’ammissione di vulnerabilità e fragilità; è il fare i conti con l’incertezza, che è ciò che le persone ansiose meno tollerano. Si riesce ad uscire da questo vicolo cieco vedendo la richiesta come affermazione della propria volontà più che della vulnerabilità. Chiedere è sapere quel che si vuole, ma non riuscire a ottenerlo da soli; è sapere però di meritarlo e come tale è un gesto di forza e non di debolezza. Questo vale non solo nell’ambito professionale, ma anche e soprattutto in quello personale, altrimenti si finisce inconsciamente per pretendere che gli altri ci capiscano telepaticamente quando più ne avremmo bisogno. E gli altri, pur conoscendoci bene, non sono nella nostra testa e non possono sapere di cosa abbiamo bisogno se non glielo si dice.
  • Coltivare la gratitudine: la mente ha una naturale e malsana tendenza a trattenere e cogliere le cose dolorose e negative piuttosto che positive, a focalizzarsi su quello che manca piuttosto che su ciò che si ha. Coltivare la gratitudine significa fare lo sforzo di focalizzarsi invece sulle cose che si hanno, quelle che danno gioia, perché tanto qualcosa mancherà sempre, ma focalizzarsi su quello è un auto-condanna all’infelicità.
  • Accettarsi e prendersi la responsabilità della propria vita e felicità: è di fatto vivere la propria vita, anche se non soddisfa le aspettative altrui, o comporta scelte anti-convenzionali. Vale la pena rinunciare all’approvazione degli altri per trovare il proprio equilibrio e un sano rapporto con la realtà, afferma la protagonista. È diventare parte attivi nel processo di cura, prendersi carico del proprio percorso terapeutico senza delegare allo specialista o allo psicofarmaco. È questa l’unica cura efficace che lei ha potuto veramente provare e da cui ha tratto beneficio, pur non eliminando definitivamente i suoi disturbi.

Il concetto alla base di questo ultimo assunto è che, pur essendo controverso definire l’ansia una malattia, è impossibile pensare che per guarirne basti un intervento esterno. Allora bisogna rimettere in discussione la propria relazione con il mondo, prendersi la responsabilità della propria condizione e mettersi in cammino per venirne a capo, perché nessun altro potrà farlo al posto nostro. Così come nessuno assicura la risoluzione assoluta del problema, ma un miglioramento e una pacifica convivenza con il disturbo sono assolutamente possibili. Il trattamento dell’ansia non può prescindere dalla consapevolezza di come si esperisce l’ansia. L’ansia è la paura immaginaria di quel che potrebbe accadere, non di ciò che realmente sta accadendo; la minaccia è nella testa preda di paure irrazionali, e non nel presente. Nel momento in cui lo si realizza e ci si radica sull’attimo presente, l’ansia gradatamente si acquieta, e con essa anche quel rumoroso e devastante lavorio mentale. E quando ciò accade, sembra per assurdo che il tempo scorra quasi lento o semplicemente alla sua giusta velocità.

 

I meccanismi neurobiologici della Terapia Metacognitiva

Uno studio recentemente pubblicato su Frontiers in Psychology, indaga i meccanismi neurobiologici che stanno alla base dei cambiamenti clinici osservabili nei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo in Terapia Metacognitiva (Winter et al., 2019).

 

Grazie all’utilizzo delle tecniche di neuroimaging, negli ultimi anni i meccanismi neurobiologici correlati alle modificazioni cognitive e comportamentali negli individui che seguono una terapia sono stati largamente indagati; tuttavia, sono ancora sconosciuti i motivi per i quali la psicoterapia abbia un ruolo nella modificazione dei substrati neurali (Yang et al., 2014).

Gli autori del presente studio (Winter et al., 2019) si sono posti l’obiettivo di analizzare gli effetti della Terapia Metacognitiva (MCT), in pazienti affetti da Disturbo Ossessivo-Compulsivo resistenti al trattamento (trOCD).

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), quando trattato con sedute di psicoterapia e psicofarmaci adeguati, ha una percentuale di remissione compresa tra il 20% e il 70% a seconda del tipo di trattamento seguito dal paziente e dalla gravità dei sintomi (così come definiti dai criteri del DSM 5; Fisher & Wells, 2005). La Terapia Metacognitiva, per quanto si distacchi dalle tecniche terapeutiche attualmente più accreditate per il trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, si sta dimostrando una tecnica promettente per questo genere di pazienti, concentrandosi sullo stile del pensiero piuttosto che sul suo contenuto (van derHeiden et al., 2016); gli effetti neuropsicologici della MCT, tuttavia, sono ancora in parte sconosciuti.

Grazie alle tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia a emissione di positroni (PET) e l’elettroencefalogramma (EEG), le basi neurobiologiche del DOC sono state ampiamente studiate, individuando nell’iperattività del circuito cortico-striato-talamo-corticale (CSTC) il correlato neurologico del disturbo (Linden, 2006; Saxena et al., 2001).

Anche l’amigdala svolge un ruolo importante nei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo, poiché responsabile delle emozioni di ansia e paura tipiche dei pazienti con questo disturbo (Milad&Rauch, 2012): è proprio a causa del coinvolgimento dell’amigdala che la Deep Brain Stimulation (DBS), che se utilizzata per il DOC ha come target la stimolazione di quest’ultima e del nucleo della stria terminale (BNST), si sta dimostrando una tecnica terapeutica innovativa e efficace nel trattamento del trOCD (Naesström, Blomstedt&Bodlund, 2016).

Nello studio qui riportato (Winter et al., 2019), a un soggetto con trOCD di 51 anni sono stati impiantati due elettrodi per la DBS. Il paziente mostrava sintomi di controllo e di ordine e simmetria con esordio negli anni ’80. Il protocollo di ricerca prevedeva tre fasi: la prima consisteva nella misurazione delle local field potential (LFP), ovvero della corrente elettrica prodotta dall’amigdala e dal nucleo delle stria terminale (BNST), prima del trattamento. La seconda nella somministrazione di 5 sedute di Terapia Metacognitiva e la terza nel controllo delle LFP e dei sintomi residui del Disturbo Ossessivo-Compulsivo tramite l’Obsessive-Compulsive Disorder-scale (OCD-S).

I sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, in seguito alle sedute di Terapia Metacognitiva, erano significativamente diminuiti. Inoltre, le analisi effettuate tramite gli elettrodi del BNST, hanno mostrato una modificazione della LFP in seguito alla terapia, in particolare del comportamento oscillatorio neuronale: questi risultati dimostrano una correlazione tra MCT e modificazioni neuronali in pazienti con trOCD (Winter et al., 2019).

Nonostante i limiti della ricerca, come la presenza di un solo soggetto, i risultati aprono la strada a futuri studi riguardanti gli effetti della Terapia Metacognitiva sui meccanismi neurobiologici del Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

 

La self disclosure e i rischi degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali nella relazione terapeutica

Il lavoro della collega Alessia Zoppi “La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva?” propone una serie di stimoli davvero intrigante. Tra i tanti risponderò ad alcuni, invitando altri colleghi a proseguire questo dibattito.

 

Alessia Zoppi si chiede quali siano i rischi che gli psicoterapeuti corrono quando gestiscono la relazione terapeutica e che potrebbero dipendere dal loro orientamento  teorico. Dopo aver accennato ai problemi degli psicoanalisti, sospesi tra i due poli opposti “dell’austero neutralismo di freudiana memoria o l’empatico relazionale di ferencziana memoria” (peccato che la collega non ne abbia approfondito lo sviluppo storico di questi due poli in psicoanalisi) Zoppi affronta i possibili rischi relazionali in psicoterapia cognitivo comportamentale: “La terapia cognitiva, diversamente dalla psicoanalisi, ha tre grandi aree di problematicità:  1) un’attenzione settoriale al disturbo;  2) il trattamento solo del sintomo con il rischio di nuove ricadute e cronicizzazione;  3) la mancanza, spesso, nel terapeuta della terapia personale che protegge dalla manifestazione di proiezioni, agiti transferali, incapacità di gestione del controtransfert, motivazioni disfunzionali alla terapia”.

A queste osservazioni critiche della collega risponderò sia contrastando le sue vedute che accettandole nei loro aspetti più acuti. È vero che la psicoterapia cognitivo comportamentale fornisce un’attenzione strategicamente preferenziale al sintomo, attenzione che Zoppi denomina “settoriale”. È comprensibile che a una collega psicodinamica questa attenzione al sintomo possa sembrare un limite. Il problema è che rimproverare di questo atteggiamento la psicoterapia cognitivo comportamentale è sostanzialmente un fraintendimento, perché questa attenzione “settoriale” al disturbo e al sintomo non è un limite ma una consapevole scelta strategica e che corrisponde a una visione, la visione cognitivo comportamentale del funzionamento mentale, della sofferenza mentale, del processo terapeutico e, se vogliamo, del mondo.

La terapia cognitivo comportamentale non crede in livelli successivi di profondità dell’attività mentale e non ritiene affatto che il lavoro sul sintomo sia un lavoro superficiale. Al contrario, nel cognitivismo clinico lavorare sul sintomo significa lavorare sul processo stesso della sofferenza mentale. Questo è riconosciuto anche da alcuni esponenti degli sviluppi più recenti e relazionali della psicoterapia cognitivo comportamentale, come ad esempio Antonio Semerari (2015), il quale ha raccontato correttamente come questa tradizione clinica nacque proprio come un recupero della psicologia più interessata agli stati coscienti e controllabili e quindi più vicina alla psicologia del buon senso che non cercava significati inconsci e reconditi nel sintomo. Il lavoro di Beck (1979) o, in Italia, di Lorenzini e Sassaroli (1987) sulle credenze catastrofiche o sui circoli viziosi della paura della paura risponde proprio all’intuizione di cercare i meccanismi di perpetuazione della sofferenza nel sintomo stesso, attraverso processi ricorsivi di auto alimentazione degli stati disfunzionali di tipo rimuginativo (Fisher e Wells, 2009). Non basta. Secondo il modello cognitivo andare nel profondo, come poi confermato dalla ricerca sulla metacognizione di Wells (Fisher e Wells, 2009), può essere una condizione di aggravamento dei processi psicopatologici perché a rischio di aumentare il rimuginio.

Ribadisco però che il fatto che la collega Zoppi non sia consapevole di questi aspetti della psicoterapia cognitivo comportamentale è più che comprensibile data la sua formazione psicodinamica. Chiediamoci però, assumendoci le nostre responsabilità, se questo equivoco non dipenda da un difetto di comunicazione dell’ambiente cognitivo italiano che, insistendo troppo da alcuni anni su un pur benvenuto aggiornamento del paradigma cognitivo in termini relazionali ed emozionali abbia -in parte e tuttavia significativamente- rinunciato alla missione di diffondere una corretta conoscenza di cosa sia la terapia cognitivo comportamentale. Spunta il timore che nelle recenti svolte integrazioniste il lavoro sul sintomo, pur ancora presente, non sia più considerato centrale. E quindi non c’è per nulla un problema della Zoppi che non ha capito ma un nostro problema che non ci siamo spiegati.

Dirò poi alla collega Zoppi che l’opinione che lavorare solo sul sintomo significhi il rischio di ricadute è plausibile da un punto di vista psicodinamico ma è smentita non solo da alcuni dati di ricerca (accanto ad altri che invece dicono il contrario, certo; ormai la situazione dei dati empirici sta diventando caotica) ma soprattutto è in contraddizione proprio con quel verdetto di Dodo spesso invocato da chi, a torto o a ragione e compresa la collega Zoppi, lo usa per mettere in dubbio i successi della terapia cognitivo comportamentale nei disturbi d’ansia e dell’umore. È questo un interessante caso di una particolare declinazione del verdetto di Dodo, quel verdetto scientifico per il quale tutte le terapie hanno vinto a pari merito e che però nei discorsi clinici più informali tende a trasformarsi -chissà perché- sempre più in un dato a sfavore della terapia cognitiva. In due parole: tutti hanno vinto e allora chi godeva del favore delle linee guida come unico vincitore almeno per alcuni disturbi, ovvero la terapia cognitivo comportamentale, in realtà ha perso, e ha perso perché i suoi risultati sarebbero superficiali, focalizzati solo sul sintomo o temporanei o, peggio, artificiali, artefatti di laboratorio o di università irriproducibili nella realtà clinica. Naturalmente si tratta di una diceria non facilmente testimoniabile dato che circola nei discorsi di corridoio e non nelle pubblicazioni a stampa

Passando al problema dell’analisi personale, si potrebbe rispondere alla Zoppi che forme di terapia cognitivo comportamentale che la prevedono esistono e Zoppi correttamente le cita. Il problema è però che Zoppi sembra dare per scontato che i principi del paradigma psicodinamico valgano anche per ogni altro orientamento mentre, anche in questo caso, occorre notare che la terapia cognitiva non è, almeno al momento, “restia” all’analisi personale come scrive Zoppi ma semplicemente non la ritiene indispensabile perché non crede in un livello profondo di conoscenza personale o di scoperta di sé e ancor meno nel transfert o nel controtransfert. E per quanto riguarda quegli sviluppi relazionali della psicoterapia cognitivo comportamentale che la prevedono, essi pongono una serie di problemi teorici e clinici non indifferenti troppo complessi da trattare qui. Il problema non è introdurre o meno l’analisi personale, ma introdurla senza ripensare e, se è il caso, esplicitamente lasciarsi alle spalle i principi del paradigma clinico cognitivo comportale in relazione al rapporto tra formazione e analisi personale. Il rischio è trasformare questo inserimento nella solita iniziativa eclettica che sta diventando la vera debolezza dell’ambiente cognitivo in senso lato, un ambiente ombrello in cui si infila di tutto.

Andiamo però al vero nocciolo della critica della Zoppi, quello più intrigante e quello nel quale siamo al tempo stesso in disaccordo e in accordo. Ovvero l’accusa che la psicoterapia cognitivo comportamentale sarebbe particolarmente propensa alla pratica della self disclosure e a rischio delle derive relazionali più deteriori legate a questo intervento terapeutico. Sarebbe facile cavarsela rispondendo che la self disclosure è un intervento che non fa parte delle procedure caratteristiche delle terapie cognitivo comportamentali. Esse agiscono sulle distorsioni di pensiero attraverso tecniche che sono certamente condivise tra paziente e terapeuta ma che non concepiscono questa esperienza di condivisione relazionale come risolutivamente curativa in sé come avviene in altri casi compresa la self disclosure, in cui c’è un aspetto cognitivo, ovvero di normalizzazione del disagio giudicante  che il paziente sente verso i propri stati d’animo, ma soprattutto c’è un aspetto relazionale: la normalizzazione funziona non per il suo contenuto tecnico ma perché il terapista crea quella situazione di massima condivisione che è la self disclosure, la rivelazione di sé all’altro, la rottura della parete. Quindi accusare i terapeuti cognitivo comportamentale di essere a rischio di abuso di self disclosure è una contraddizione, a voler essere pedanti.

E però confessiamolo: questa è una risposta pedante. Chiediamoci invece: e se avesse ragione Zoppi?  E se malgrado tutte le teorie fosse concretamente possibile che il terapeuta cognitivo sia a rischio di un eccesso di accudimento e condivisione con il paziente? Nella mia privata e aneddotica esperienza personale so che questa accusa contro di noi è tradizionalmente coltivata in ambienti psicodinamici. E temo che potrebbe non essere del tutto infondata. Osserviamo che effettivamente fin dall’inizio la terapia cognitivo comportamentale, perfino nell’interpretazione in teoria freddamente razionalistica che ne diede Aaron Beck, si presentò come una procedura ben più validante e accogliente per il paziente rispetto alle psicoterapie psicodinamiche strettamente ortodosse in voga all’epoca, negli anni ’60. Come è noto, Beck iniziò il suo percorso verso il cognitivismo da psicoanalista studiando i depressi, che allora erano interpretati analiticamente come pazienti inconsciamente affetti da stati di rabbia e invidia. Beck ebbe l’idea che la loro depressione fosse fondata non su pulsioni di rivalsa aggressiva verso qualcuno ma da pensieri tristi di perdita di senso e di investimento nel futuro. Sentirsi dire cose di così semplice buon senso fu probabilmente molto validante per i pazienti di Beck, che forse si sentirono finalmente riconosciuti nel loro senso di perdita di vitalità e non più colpevolizzati per supposti stati di rabbia. Certo che sono strane queste doppie accuse che circolano nelle bettole della psicoterapia: insomma, questa terapia cognitivo comportamentale è troppo fredda o è troppo accogliente?

In seguito le cose sono andate perfino peggio, almeno dal punto di vista della collega Zoppi. La propensione al versante accogliente è aumentata. Abbiamo già visto come Beck fosse fin dall’inizio più validante degli psicoanalisti suoi coetanei. Seguirono poi gli sviluppi costruttivisti e relazionali, ad esempio quelli di Guidano e Liotti in Italia o la Schema Therapy di Young negli Stati Uniti che nacquero in contrapposizione a Beck accusato di freddezza razionalistica e quindi raccomandarono un ulteriore aggiustamento relazionale di tipo accogliente e validante. Perché accogliente e validante? Ma proprio perché questi nuovi sviluppi nascono accusando la psicoterapia di Beck di essere troppo fredda! E questa è una grande differenza con la psicoanalisi che invece ha sempre curato anche un versante confrontativo e negoziativo con il paziente, ad esempio in Kernberg o anche come accade nel modello Rotture e Riparazioni di Safran e Muran (2003), un modello relazionale che, quando si vanno a leggere i trascritti riportati nel libro, mostrano pagine e pagine di ferme negoziazioni e analisi ben poco accoglienti sugli aspetti più confrontativi della relazione. E nemmeno una validazione! Almeno nei trascritti riportati nel libro, nemmeno una volta che il terapista dica: capisco come lei deve sentirsi in questo momento in cui i frutti della terapia sembrano scarsi.

Al contrario! Nel trascritto il terapista Safran (o Muran?) riferisce al paziente come si sente lui terapista, ovvero messo sotto pressione! È il solito modo un po’ passivo aggressivo degli psicoanalisti di usare il loro controtrasfert facendo sentire il paziente in debito ogni qual volta sorge la lamentela del: ma cosa diamine stiamo facendo? E loro subito a suonare la campanella del controtransfert: oddio, che fa?! Mi sento pressato! Eppure il paziente sta solo lamentando la mancanza di risultati, il persistere della sofferenza! Una tipica situazione in cui ogni terapista cognitivo forse un po’ servizievolmente (siamo un po’ cagnolini noi cognitivisti, ammettiamolo) validerebbe il paziente, magari riformulando il caso, cercando insieme al paziente nuove spiegazioni e nuovi interventi fornendo il razionale, insomma come si dice al giorno d’oggi? Ah si, stimolerebbe il sistema motivazionale cooperativo. Ma leggiamo assieme Safran e Muran nella mia traduzione. Ho tradotto una tipica manovra dei due autori di Disembedding (disimpegno, potremmo tradurre) da un attacco di una paziente insoddisfatta seguita da una Exploration of construal, qualcosa che in campo cognitivo chiameremmo esplorazione delle alternative (Safran e Muran, 2000, pag. 165-166)

Disembedding

P.: E questo in che modo mi aiuterà?

T.: Bene … è difficile rispondere in astratto

P.: Non sono interessata in risposte astratte. Voglio una risposta diretta e concreta

T.: Mi piacerebbe rispondere alla sua domanda ma la mia esperienza è che se mi sento così pressato per me è difficile pensare in maniera chiara

P.: Bene, allora dica qualcosa che mi mostri come lavoreremo così posso vedere cosa sta accadendo

T.: Guardi … anche se dice questo … Io sento lo stesso tipo di pressione ad agire (perform)

P.: Bene, allora dica qualcosa di significativo

T.: Mi piacerebbe, ma io sento come se ci stessi provando e nulla di quello che dico la soddisfa, mi sento confuso (at a loss)

Mio commento. Il tono del paziente è sicuramente aggressivo, ma la richiesta di interventi operativi non è irrazionale da un punto di vista cognitivo. Il terapista invece risponde parlando di un suo stato d’animo personale (I feel so pressured) avviandosi verso una tecnica di analisi della relazione il cui obiettivo è analizzare l’aggressività del paziente; un terapista cognitivo probabilmente proporrebbe l’esplorazione di una riformulazione del caso che porti a nuovi interventi operativi il cui razionale è naturalmente condiviso con il paziente. Il tutto accennando prudentemente anche alla rabbia ma senza estrarla dalla relazione. La tecnica di Safran e Muran è sicuramente interessante e ha i suoi pro e i suoi contro. Tra i pro il suo essere nel qui ed ora dello scambio relazionale. Tra i contro il rischio di ulteriormente irritare il paziente, perché l’effetto è molto personalizzante e finiscono per generare un senso di: “ti ho beccato caro paziente, vedi come mi metti sotto pressione!” C’è da dire che in questi timori non siamo soli: anche Bateman e Fonagy varie volte consigliano ardentemente di non fare troppe analisi della relazione (loro dicono: del transfert) con pazienti con disturbo di personalità, pena il surriscaldamento agonistico dell’atmosfera (Allen, Fonagy, & Bateman, 2008). Ma torniamo a seguire Safran e Muran.

Exploration of construal

P.: Non sente che la settimana scorsa era sprecata?

T.: Mi sembra chiaro che lei non era felice la settimana scorsa e questo è quello che conta

Tipica descrizione passivo aggressiva da psicoanalista: riformulo disinnescando l’insoddisfazione del paziente e indirizzandolo verso il suo stato emotivo

T.: mi vuole dire in che modo si è sprecata (la settimana)?

T.: Bene… a rischio di ipersemplificare, è come se lei abbia due strategie di base per ottenere quello che vuole dalla gente  e nessuna funziona. Una è permettere che le facciano il lavaggio del cervello, accondiscendere e in qualche modo farsi privare di qualcosa di molto importante. L’altra è uscire fuori come un toro…

T.: Non so qual è l’alternativa a queste due strategie ma voglio lavorare con lei per trovarne una. Le pare che ne valga la pena?

P.: Si

In questa seconda parte ci sentiamo più vicini a Safran e Muran. L’ultima frase in particolare la pronuncerebbe ogni terapista cognitivo comportamentale. La differenza sta nella tensione interpersonale della prima parte, che Safran e Muran magistralmente incrementano mentre probabilmente noi cognitivisti, sempre un po’ troppo amichevoli e non così freddi e razionalistici come vogliamo far sembrare, ce la giocheremmo maggiormente sul piano della validazione alla Carl Rogers.

Dobbiamo ammetterlo: gli psicoanalisti quando parlano di relazione sanno parlare anche di ferme prese di posizione del terapeuta che mettono il paziente di fronte alle sue responsabilità. Oddio, hanno anche quel loro inimitabile modo, un po’ da verginelle molestate, di colpevolizzare il paziente a colpi di controtransfert. Che è un modo di fare self disclosure molto diverso da chi cerca la condivisione come facciamo dalle nostre parti. Di certo non nutrono tante paure di perderlo o di farlo andare via questo paziente, paure che invece sembrano il timore pervasivo degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali, sempre troppo timorosi di essere troppo freddi o troppo distanzianti.

Un esempio di questa nostra debolezza? Leggiamo questa citazione di alcuni tra i nostri migliori colleghi: “Un terapeuta, diciamo di orientamento cognitivo, invita una paziente con disturbo alimentare a scrivere un diario alimentare. Le spiega il razionale, la paziente non scrive il diario. Un altro terapeuta cognitivista invita un paziente con ansia sociale a esporsi alle situazioni temute, dopo avergli spiegato il razionale dell’intervento, i costi dell’evitamento e via dicendo. Il paziente dice di aver capito, ma non si espone. (…) La spiegazione è chiara, formulata con pacatezza ed empatia, ma il paziente rifiuta. Alla gentile insistenza del clinico reagisce con veemenza, o vera e propria rabbia” (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, , pp. 307-310, 2018).

Devo dire che si tratta di una citazione che rileggo spesso perché mi ci sento rispecchiato con una certa fedeltà e un certo disagio. Mi riconosco in questo quadro catastrofico, in cui io, povero psicoterapeuta cognitivo comportamentale, sono chiaramente terrorizzato, mi sento sul serio a rischio altissimo di perdere il paziente anche qualora facessi la mia terapia “con pacatezza ed empatia” ma niente, il paziente mi manderebbe a quel paese: “reagisce con veemenza, o vera e propria rabbia” E tutto questo perché? Forse perché avrei troppa paura di essere troppo freddo e distanziante. Che il paziente scopra il bluff e intraveda dietro la facciata validante, dietro la maschera di Carl Rogers il mio ghigno razionalista alla Aaron Beck che evidentemente non sarei capace di mascherare. Nella mia esperienza sono le stesse paure dei nostri allievi più giovani fin dai primi anni di training, quelle di perdere il paziente, e a quanto pare non ce ne liberiamo mai del tutto, noi terapisti cognitivi. Non per nulla ci siamo inventati il fantasma interno del paziente difficile, il mostro che ci molla li in seduta e se ne va perché sbagliamo una parola. Insomma siamo un po’ tremebondi. Chiaro che poi leggi Safran e Muran e ti cambia la vita: finalmente qualcuno che ci insegna a tenere al suo posto il paziente, dopo gli eccessi di accoglienza dei cognitivisti, Beck compreso.

Forse siamo un po’ traumatizzati, forse siamo sempre un po’ dissociati, abbiamo bisogno di tanto holding, di una madre sufficientemente buona, di un Winnicot che ci contenga nel suo abbraccio. Anche se poi questo Winnicot chissà perché lo chiamiamo sempre Bowlby, facendo un bel po’ di confusione tra clinica e scienza sperimentale, tra contenimento in seduta e attaccamento ma che ci vuoi fare, è l’eclettismo cognitivo sempre un po’ confusivo. Se queste sono le paure dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale medio è possibile che Zoppi abbia in parte ragione e che la tentazione di essere estremamente accogliente fino a scadere nell’accudimento e di esagerare nell’usare la self disclosure potrebbe essere dietro l’angolo. Ed è così: lo confesso, talvolta ho questa tentazione, anche se in teoria come cognitivista comportamentale ortodosso (sinistra fama) non dovrei nemmeno sapere cosa sia, questa self disclosure. Ma ormai questa bestia è stata sdoganata, i buoi sono scappati ed è inutile chiudere i cancelli. E Zoppi mi ha beccato.

Tuttavia si dovrà pur rispondere alla collega Zoppi che non tutti gli psicoterapeuti cognitivo comportamentali sono così. E non parlo solo dei freddi colleghi cognitivisti standard seguaci di Beck, che ormai si sono guadagnata la nomea di gelidi ortodossi da mummificare insieme ai loro colleghi freudiani altrettanto ortodossi. E infatti non è così, dato che esistono anche cognitivisti relazionalisti che diffidano esplicitamente della self disclosure! È il caso ad esempio di Bruno Bara, che nel suo libro “Il Terapeuta Relazionale” nel capitolo dedicato alla self disclosure (2018, pp. 155-158) non la raccomanda affatto! Anzi, Bara diffida questo intervento. Eppure lui è il più relazionalista dei cognitivisti. E poi occorre ricordare alla collega Zoppi quel che lei sa già bene e ammette: che accanto a psicoterapeuti cognitivo comportamentali che rifiutano la self disclosure esistono anche psicoanalisti, guarda caso relazionalisti, che invece la raccomandano da Ferenczi in poi. Certo, alcuni hanno la manica larga, ancora Ferenczi, mentre altri la accolgono con grande prudenza e giudizio e solo nei termini di svelare al paziente gli stati interni stimolati dalla dialettica transfert – controtransfert, come se non erro diceva il padre fondatore della svolta relazionale Stephen Mitchell (Mitchell, Aron, Harris, & Suchet, 1999).

Quello che voglio dire è che forse il problema della deriva accuditiva è un problema di tutti. E questo è vero per tante ragioni. Me ne viene in mente un’altra giusto ora! E qual è? È che, per ammissione della stessa Zoppi, tra i vari argomenti a favore della prevalenza degli aspetti relazionali prevalgono spesso quelli basati sul già citato verdetto di Dodo e dei fattori comuni, fattori che spesso presentano una intensa caratterizzazione relazionale ancora una volta con una forte propensione al versante accuditivo. La prova? Basti leggere Michael Lambert, il pontefice massimo dei fattori comuni in persona quando li descrive, questi fattori comuni: sono quasi tutti caldi, di tipo accogliente: empatia (empathy), calore (warmth), accettazione (acceptance) e, giusto un po’ più duro ma comunque validante, l’incoraggiamento a assumersi rischi (encouragement of risk taking), per poi proseguire con comprensione empatica, (empathic understanding), cura e rispetto (positive regard) (Lambert e Barley, 2001). La stessa Zoppi quando parla dei fattori aspecifici scrive: “identificazione con il terapeuta, calore del terapeuta, empatia, alleanza terapeutica”. Anche in psicoanalisi la svolta relazionale che culmina in Mitchell passa anche attraverso la psicologia del se di Kohut che valida e accoglie il bisogno di auto realizzazione del paziente, chiamandolo narcisismo sano. Si tratta comunque una svolta che privilegia il versante validativo. L’eccesso di accudimento non è quindi un rischio della sola svolta relazionale cognitiva, ma di ogni svolta relazionale.

E se non fosse un problema solo della svolta relazionale? Se fosse in atto una festa dell’accoglienza (non sono derisorio: sto parlando anche di me stesso) che però sembra farci capire perché ormai tutti noi siamo a rischio di esagerare in accudimento. Eppure tutti noi sappiamo che l’aspetto accogliente non esaurisce il campo d’azione dei fattori comuni. Esso comprende anche la negoziazione su scopi e compiti.

In conclusione propongo che occorrerebbe riflettere tutti su questa possibile deriva accuditiva che ci affligge nello sviluppo moderno della psicoterapia invece di rilanciarci l’accusa a vicenda. Tutti noi -chi più chi meno- siamo influenzati dal relazionalismo compresi quelli che si atteggiano a ortodossi. Il modello di Liotti insiste molto sul fatto che si debba distinguere la cooperazione dall’agonismo e dall’accudimento. Idea giusta ma dobbiamo chiederci perché mentre agonismo e cooperazione sono ben distinti possa invece risultare più difficile distinguere la cooperazione dall’accudimento. Forse perché la definizione di cooperazione è fatta in negativo? Sappiamo cosa la cooperazione non è: essa non è accudimento e non è agonismo. Bene, ma operativamente cosa è? A volte mi sorge il dubbio che a definirla operativamente la cooperazione finirebbe spesso per somigliare pericolosamente all’intervento razionalistico, la bestia nera dei relazionalisti.

Viene da chiedersi se il miglior modo per insegnare agli allievi come evitare la deriva accuditiva sia proprio quello di recuperare un apprendimento -certo ragionato e non meccanico e tanto meno dogmatico- delle tecniche standard: formulazione condivisa del caso, negoziazione condivisa degli obiettivi, proposta e condivisione del razionale del trattamento, esecuzione tecnica (disputa, questioning ed esposizione comportamentale) eseguita per carità cooperativamente e infine monitoraggio dell’andamento, anche questo condiviso.

Tutte procedure che se ben fatte proteggono il terapeuta dalla deriva accuditiva e che al tempo stesso contengono tutto il necessario per creare e gestire un’alleanza terapeutica. Come dite? Che in queste tecniche c’è una componente relazionale? Che tutto quell’onnipresente “condiviso” lo dobbiamo ai colleghi relazionalisti? E sia: ammettiamolo ringraziando Carl Rogers, Sandor Ferenczi, Richard Sterba, Phillis Greenacre, Ralph Greenson, Donald Winnicot, Heinz Kohut ed Edward Borin, Victor Meyer, Ira Turkat, David Lane, Michael Bruch e anche Judith Beck (leggiamoci il suo contributo sull’alleanza terapeutica nella seconda edizione del Basic and Beyond; c’è perfino una concessione alla self disclosure!) oltre che Gianni Liotti.

Grazie Liotti, sul serio; anche se rimaniamo diffidenti verso la forzata ricerca di una serie di interventi relazionali alla ricerca della cooperazione come esito: ecco dove potrebbe celarsi il rischio accuditivo, nella ricerca della cooperazione come esito e non come connotazione. Parafrasando John Lennon, la cooperazione è quello che capita mentre stai facendo altro, come ad esempio le tecniche (fatte bene). Poi se ci sarà una rottura ne parleremo, si chiama rinegoziazione. Oppure per chi lo preferisce si può usare il disembedding passivo aggressivo alla Safran e Muran. A me lascia perplesso: Signora mia paziente, così mi mette sotto pressione!

Un laboratorio dedicato allo studio della mente dei bambini: il MinDevLab di Milano – Intervista al Prof. H.S. Bulf

Parliamo di bambini, parliamo di ricerca. Parliamo di quel che accade nella mente umana nei primi mesi di vita. Un argomento che molto spesso affascina clinici, ricercatori ma anche i meno esperti.

 

Da sempre la ricerca in questo campo ha cercato di rispondere a numerosi interrogativi, tanto facili da sollevare quanto difficili da indagare, avvalendosi di strumenti sempre più evoluti e compiendo così molti passi in avanti nella comprensione dei processi cognitivi e percettivi dei più piccoli.

Tra i laboratori di ricerca ad oggi più all’avanguardia, troviamo il MinDevLab di Milano: una realtà che vanta studi innovativi, i cui risultati hanno un notevole impatto, sia sulla comunità scientifica nazionale e internazionale, che sui tanti genitori ed educatori che si rivolgono al centro per comprendere meglio lo sviluppo cognitivo del bambino.

Per conoscere le attività del laboratorio, i temi e le metodologie di ricerca, abbiamo intervistato il Prof. Herman Sergio Bulf.

Intervistatore (I): Salve Prof. Bulf, e grazie per l’intervista. Lei è Professore di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Milano Bicocca e ricercatore presso il MinDevLab. Ci parli del laboratorio: come è nato e quali sono le vostre attività?

HB: Il MidDevLab è uno dei pochi laboratori in Italia che si occupano di studiare la mente dei bambini prima che inizino a parlare. L’obiettivo è quello di comprendere come si sviluppa la mente nelle prime fasi dello sviluppo, quando il cervello è estremamente plastico, e come il cervello si organizza modificando la propria anatomia e funzionalità in base agli stimoli che riceve. Studiamo in particolare quando emergono, e come si sviluppano, le capacità percettive e cognitive nei primi mesi di vita. Il laboratorio è nato grazie all’interesse dei ricercatori del MindDevLab, e in particolare delle Prof.sse Chiara Turati e Viola Macchi Cassia, per l’indagine dello sviluppo cognitivo precoce.

I: Quali sono i principali temi di ricerca su cui lavorate?

HB: Le nostre ricerche hanno l’obiettivo di indagare come i bambini di pochi mesi di vita riconoscono volti con diverse espressioni emotive, se sono in grado di comprendere sequenze di gesti e azioni, e come rispondono al tocco sociale. Siamo inoltre interessati a comprendere se i bambini sono in grado di discriminare tra insiemi di diversa numerosità e se sanno comprendere l’ordine con sui si susseguono diversi eventi in una sequenza. Tutte queste capacità sono fondamentali per l’emergere di competenze più complesse e astratte, come ad esempio le competenze comunicative e linguistiche.

I: Come è nato il suo interesse per queste determinate aree di ricerca? C’è stato un episodio o un momento in cui ha capito che questa sarebbe stata la sua strada o è più una passione maturata nel tempo?

HB: Mi sono letteralmente innamorato dello studio delle competenze cognitive e percettive precoci quando ero uno studente di psicologia dello sviluppo. Ho capito che indagare il funzionamento della nostra mente in età estremamente precoci è fondamentale non solo per meglio comprendere i meccanismi di funzionamento della mente adulta, ma anche per identificare marcatori precoci di eventuali disturbi dello sviluppo, consentendo così di intervenire quando la plasticità del cervello è massima.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

 

Bambini e ricerca le attivita del MinDevLab - Intervista al Prof. H. Bulf IMM 1

Imm. 1 – Prof. Herman Sergio Bulf

Bambini e ricerca le attivita del MinDevLab - Intervista al Prof. H. Bulf IMM 3

Imm. 2 – I ricercatori del MinDevLab di Milano

I: Come si sono evolute, nel corso degli anni, le metodologie di ricerca utilizzate nel laboratorio?

HB: Tutte le metodologie che utilizziamo sono innocue per i bambini, di breve durata, e si basano sui comportamenti spontanei dei bambini che ancora non parlano e non rispondono a istruzioni verbali. Nel laboratorio vengono utilizzate sia misure comportamentali che neurofisiologiche. Il laboratorio era inizialmente organizzato per rilevare misure di tipo comportamentale che consistono nell’osservazione dei tempi di fissazione visiva del bambino. Ad esempio, mostriamo la bambino due diverse immagini e osserviamo se il bambino ne osserva una per più tempo. Questo ci consente di capire se il bambino riesce a discriminare tra le due immagini e se ha delle preferenze visive. Una decina d’anni fa, grazie ad un importante finanziamento europeo ricevuto dalla Prof.ssa Turati, abbiamo potuto acquistare sistemi per misurare l’attività neurofisiologica. Ad esempio, siamo in grado di misurare l’attività cerebrale del bambino in risposta agli stimoli, come ad esempio volti o oggetti.

I: Come si svolge una giornata tipo nel vostro laboratorio?

HB: Nel laboratorio c’è sempre molto fermento. Oltre ai ricercatori lavorano infatti nel laboratorio dottorandi e assegnisti di ricerca. Il tempo è dedicato alla messa a punto degli strumenti per le ricerche, ai contatti con i genitori, e soprattutto all’osservazione dei bambini. Ad ogni bambino e ai suoi genitori viene dedicata circa un’ora. Al bambino diamo infatti il tempo di adattarsi al nuovo ambiente e spieghiamo ai suoi genitori gli obiettivi della ricerca. L’osservazione sperimentale ha invece una durata limitata, di una decina di minuti circa, per potersi adeguare alle limitate capacità di attenzione e concentrazione dei bambini così piccoli.

I: Un lavoro e una mission, i vostri, che hanno grande impatto a livello internazionale. Con quali Università e/o altri centri di ricerca collaborate?

HB: Il laboratorio ha una forte caratterizzazione internazionale. Collaboriamo infatti con altri importanti centri di ricerca in Europa, Stati Uniti e Giappone, che come noi hanno l’obiettivo di studiare il funzionamento delle mente nella prima infanzia. Ad esempio, siamo attualmente coinvolti in un progetto europeo che prevede un network di cinque laboratori europei. Oltre al MinDevLab partecipano al progetto due laboratori inglesi, uno svedese e uno olandese. L’obiettivo è quello di indagare le competenze cognitive nella prima infanzia con tecnologie all’avanguardia che permettono di osservare il comportamento del bambino in contesti ecologici.

I: Il MinDevLab è una realtà innovativa e stimolante. Ho avuto modo di vedere che partecipate anche a eventi come La notte europea dei ricercatori proprio per sensibilizzare e informare i cittadini sull’importanza del fare ricerca. Come risponde il territorio alle vostre attività?

HB: La possibilità di incontrare i cittadini è fondamentale, sia perché ci permette di far conoscere la nostra realtà, sia per sensibilizzare sull’importanza di indagare le competenze precoci dei bambini. Oggi infatti sappiamo che i bambini sono estremamente competenti: fin dalla nascita possiedono capacità percettive e cognitive insospettabili fino a qualche decennio fa, quando non esistevano metodologie adeguate per rilevarle. Le risposte a eventi come La notte europea dei ricercatori sono sempre molto positive, e rappresentano uno stimolo importante per la nostra ricerca.

I: Immagino che trovare il campione per le vostre ricerche non sia sempre facile. In che modo reclutate i vostri piccoli partecipanti?

HB: Ogni mese scriviamo alle famiglie dei nuovi nati, e abbiamo una buona percentuale di risposta, circa il 20%. Le famiglie che partecipano alle nostre ricerche chiedono di tornare, per partecipare alle osservazioni destinate ai bambini più grandi. I bambini coinvolti nelle nostre ricerche hanno dai 3 mesi ai 24 mesi di età, ma sono coinvolti anche bambini più grandi, in età prescolare. Per partecipare basta prendere un appuntamento tramite una telefonata al laboratorio.

I: Quali sono, se ci sono, i dubbi o le perplessità più frequenti manifestati dai genitori? E, ovviamente, come possiamo tranquillizzarli a riguardo?

HB: I genitori vogliono comprendere quali sono gli obiettivi della ricerca, e si assicurano che le metodologie utilizzate non siano invasive. I genitori sono accanto al loro bambino in ogni fase dell’osservazione. Vengono coinvolti e tranquillizzati spiegando che i nostri sistemi sono innocui e che vengono utilizzati ormai da decenni dai diversi laboratori che si occupano di studiare la mente dei bambini ad età così precoci. Inoltre, i ricercatori sono a disposizione non solo per spiegare a fondo gli obiettivi della ricerca, ma anche per rispondere a eventuali dubbi e domande.

I: Quali sono le direzioni (e anche le ambizioni) future del MinDevLab?

HB: Una delle direzioni future è sicuramente quella di potenziare la comprensione dei processi cognitivi di bambini a rischio di sviluppo problematico, al fine di identificare indicatori di rischio precoci e di implementare interventi che possano sfruttare la plasticità cerebrale che caratterizza queste prime fasi dello sviluppo.

I: Concludo con una piccola curiosità personale: qual è stato il risultato a suo avviso più sorprendente emerso dalle vostre ricerche?

HB: Il comprendere che le limitate capacità attentive e percettive dei bambini sono in realtà un vantaggio per lo sviluppo, perché permettono al bambino di selezionare le informazioni più rilevanti e adeguate al suo sviluppo. E che a volte i bambini sono più bravi degli adulti! Ad esempio, i bambini di pochi mesi sono in grado di discriminare i contrasti fonetici di tutte le lingue del mondo, mentre questa capacità viene persa nel corso dello sviluppo, come conseguenza della sintonizzazione percettiva sui contrasti fonetici del nostro ambiente linguistico.

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