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Il sesso nella coppia: parliamone!

Una ricerca recente ha analizzato la correlazione tra la soddisfazione sessuale delle coppie e la loro capacità di comunicare efficacemente riguardo agli argomenti legati alla sessualità (Mallory, Stanton, & Handy, 2019).

 

Nei rapporti di coppia, riuscire a comunicare in maniera efficace è senza dubbio essenziale per mantenere un buon equilibrio; non fanno eccezione gli argomenti legati alla sessualità: alcuni studi, infatti, hanno evidenziato che parlare della propria sessualità (sexual communication) con il partner, è fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento di una sana relazione sessuale (Masters & Masters, 1980).

Una ricerca condotta nel 2006, per esempio, ha dimostrato che le coppie che lamentavano difficoltà sessuali tra di loro avevano anche più problemi di sexual communication rispetto alle coppie con una vita sessuale soddisfacente (Kelly, Strassberg,& Turner, 2006). Allo stesso tempo, anche coppie con difficoltà a parlare tra di loro di problematiche sessuali o non, vedevano la loro vita sessuale compromessa la maggior parte delle volte (Reese et al., 2014).

Secondo alcuni autori (Metts&Cupach, 1989), la sexual communication comprende sia la self-dislosure sulla sessualità, ovvero la disponibilità a parlare con il proprio partner delle preferenze e dei desideri sessuali (Harris, Monahan&Hovick, 2014) sia la frequenza della comunicazione, ossia quanto spesso le coppie discutono tra di loro dell’argomento.

In letteratura, sono presenti diversi studi riguardo alla connessione tra la sexual communication e le varie dimensioni della sessualità che, ognuna in maniera differente, sembrano risentire di una scarsa comunicazione. Queste dimensioni sono il desiderio sessuale (Mark &Lasslo, 2018), la funzione erettile (Hawton, Catalan, & Fagg, 1992), la lubrificazione femminile (Graham et al., 2004), l’eiaculazione (compresi i problemi di eiaculazione precoce maschile) e l’eventuale dolore provato durante la penetrazione (Meston et al., 2004).

Nel presente studio, gli autori si sono prefissi l’obiettivo di indagare la causalità e la forza della correlazione tra sexual communication e soddisfazione sessuale della coppia attraverso un’analisi di 48 testi presenti in letteratura pubblicati dal 1980 al 2017, che complessivamente riportavano dati di 12.145 soggetti (Mallory et al., 2019).

I risultati hanno mostrato una correlazione positiva tra sexual communication, in tutti i domini indagati (desiderio sessuale, eccitazione, erezione, lubrificazione femminile, eiaculazione e dolore), e soddisfazione generale della coppia riguardo al sesso, ma la forza delle associazioni era varabile tra i diversi settori. In particolare, per quanto riguarda il desiderio e l’orgasmo, la correlazione era più forte nelle donne che negli uomini.

La sexual communication svolge quindi un ruolo particolarmente rilevante nel facilitare il desiderio sessuale delle donne: un ampio studio svolto in Gran Bretagna, riporta una correlazione negativa tra la facilità nel parlare di sesso e la mancanza di interesse per i rapporti sessuali di coppia sia nel campione maschile che in quello femminile (Graham et al., 2017), ma nelle donne sembra avere un effetto più forte, probabilmente perché il desiderio femminile tende ad essere reattivo piuttosto che spontaneo (Both & Everaerd, 2002).

In conclusione, sebbene lo studio riportato possegga alcuni limiti, tra cui il fatto di possedere solo dati self-report e una mancanza di dati longitudinali dei soggetti analizzati, si tratta della prima ricerca su larga scala effettuata sull’associazione tra sexual communication e funzioni sessuali che potrebbe avere importanti implicazioni per il perfezionamento degli interventi di coppia per migliorare la comunicazione e la soddisfazione sessuale (Mallory et al., 2019).

Pensiero consapevole e pensiero automatico – Intuizione e bias in psicoterapia

Il pensiero intuitivo può essere distorto e quindi va corretto per eliminare bias, che saranno comunque ineludibili, ma più piccoli e d’altra parte senza intuizioni predittive, non vi sarebbero informazioni da raccogliere. Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni.

Il presente contributo è il quarto di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

 

I giudizi intuitivi

Chi non ha mai espresso un giudizio con sicurezza basandosi su un’intuizione?

Spesso anche in campo clinico i giudizi sono un mix d’intuizione e analisi. Antonio non è riuscito a superare eventi critici nella sua vita. Oggi deve affrontare un grave lutto. Riuscirà a elaborarlo? Una percentuale di colleghi propenderebbe per una risposta negativa inerendo causalmente il fatto che Antonio non è riuscito, con non riuscirà a farlo.

Naturalmente i fattori che potrebbero influenzare il risultato sono molti. Un elemento di correzione attivato dal sistema 2 potrebbe essere la percentuale di persone che elaborano un lutto in maniera adattiva. Questa percentuale determina la probabilità a priori che Antonio elabori il lutto. In questo caso la probabilità a priori è quella che riguarda l’intera popolazione cui Antonio appartiene e che in genere nella quasi totalità dei casi elabora i lutti e prosegue a vivere.

La predizione intuitiva, non regressiva, può essere distorta e quindi va corretta per eliminare bias di sovrastima e sottostima del valore. Gli errori saranno comunque ineludibili, ma saranno più piccoli e d’altra parte le predizioni vanno collegate alle prove, ma senza intuizioni predittive, senza pre-comprensione, come direbbe Gadamer (2000) non vi sarebbero informazioni da raccogliere.

Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni. Anche le aspettative sul paziente vanno controllate, giacché possono determinare il successo o il fallimento del trattamento. Intuire che il paziente ha uno ‘spazio prossimale’ di miglioramento molto limitato con un’attribuzione errata può comportare un insuccesso terapeutico, ma anche immaginare margini di cambiamento troppo ampi può portare allo stesso risultato.

La fallacia della narrazione

Nello sforzo di comprendere il mondo, le storie esplicative si snodano sui pochi eventi accaduti e non sui molti che hanno avuto luogo.

Questo vale per la narrazione che il terapeuta si fa sul paziente ma anche per la narrazione che il paziente fa di sé a se stesso (auto immagine) e agli altri (immagine sociale). Ciò è tanto vero che si può arrivare a dire che la terapia ha come scopo la modificazione della narrazione che il paziente ha di se stesso.

Andiamo alla ricerca di cause, eventi salienti che si possano associare a effetti. Inclinazioni e caratteristiche di personalità vanno, ad esempio, a definire l’intero comportamento di una persona e ‘l’effetto alone’ ci porta a basare il giudizio estendendo una caratteristica specifica a tutte le altre qualità.

Un paziente che ha subito un ricovero in SPDC sarà più grave di uno che non abbia subito ricoveri; se un paziente ha difficoltà d’interazione, mi aspetto che sia evitante e avverta una sensazione d’inadeguatezza; il paziente che valuto come dotato di buone risorse susciterà maggiori aspettative di miglioramento e viceversa.

Si costruisce spesso la migliore narrazione con le informazioni limitate che si hanno a disposizione, ignorando la nostra ignoranza. Meno dati vincolanti si hanno più la nostra fantasia è libera di creare a piacimento.

L’illusione di sapere, altresì, determina ‘il bias del senno del poi’ che costruisce ciò che è accaduto con le informazioni che si hanno a disposizione al tempo T1 ma che non erano state previste al tempo T0 e fa sì che si dimentichino le credenze e le predizioni originarie.

Non si valuta in sostanza il processo decisionale ma ex-post il risultato negativo o positivo. Nei resoconti degli storici tutto torna perfettamente e sembra che le cose non potessero andare che nel modo in cui sono andate, gli stessi chiamati a fare previsioni hanno la lungimiranza di una talpa miope con la congiuntivite.

Inoltre, i meccanismi del sistema 1 ci fanno percepire il mondo più ordinato e coerente di quello che è, con l’illusione di prevederlo e controllarlo ci rassicuriamo di fronte all’incertezza dell’esistenza. Le sorprese, però, non mancano e gli eventi che in modo casuale si affacciano nella vita sono spesso imprevisti e imprevedibili come testimoniano le molte storie di cui i pazienti ci fanno partecipi durante il percorso di cura.

L’illusione di validità

Con poche prove riusciamo a costruire con i sistemi 1 e 2 delle buone narrazioni cui crediamo perché sono condivise magari da persone cui vogliamo bene o riteniamo fonti autorevoli e affidabili.

Nella ricostruzione delle storie evolutive dei pazienti quante volte sentiamo dire ‘si è fatto sempre così’, ‘il nonno ci ha trasmesso queste convinzioni che ci sono servite per affrontare il mondo’.

Un altro elemento che determina l’illusione di validità è l’abilità e la competenza: ‘Se l’ha detto lui…’. Quando la fonte è ritenuta e certificata (dalla comunità professionale o scientifica ad esempio) competente le valutazioni sono credute affidabili, almeno fino a prova contraria.

La sicumera con cui si è certi di alcune previsioni è determinata in larga parte dalla sicurezza soggettiva ed espelle il caso da qualsiasi spiegazione.

Insomma siamo tendenzialmente creduloni e presuntuosi.

La realtà, però, è complessa e difficile da capire e le semplificazioni riduzionistiche possono essere di aiuto, anche se si rivelano a distanza illusorie.

Spesso la sicurezza con la quale affrontiamo un problema si rivela poco accurata, mentre l’insicurezza può essere più informativa, in sostanza bisogna essere prudenti nel fare previsioni, se ne possono fare a breve termine, mentre più complesse e difficili sono quelle a lungo termine e soprattutto occorre sempre tenere in considerazione la validità in termini di probabilità.

Gli psicologi clinici fanno buone predizioni a breve termine, durante la seduta terapeutica, ma non riescono a fare previsioni a lungo termine. E’ necessario perciò prendere in considerazione i limiti della propria competenza, feed-back a distanza di anni non è possibile averli e il futuro del paziente è sconosciuto e imprevedibile.

Come possiamo ritenere di aver operato correttamente? Su quali parametri possiamo misurare non la guarigione ma almeno il miglioramento? Sulla diminuzione dei segni e dei sintomi o sulla scomparsa degli stessi? Sulla qualità della vita? Sulla soddisfazione? Per quanto tempo dovrebbe mantenersi la remissione dei sintomi o uno stato di benessere?

Non dimentichiamoci che noi siamo soltanto un piccolo evento nella vita del paziente e che le cose accadono perché accadono.

La supervisione

La visione esterna può portare ad aggiustamenti della visione interna. L’attenzione su indizi trascurati, dati e informazioni sulla classe in cui rientra il caso, altre prove che può farci rilevare un supervisore, ci permettono di fare aggiustamenti appropriati sugli scenari che si sono messi a punto.

L’ottimistica sicurezza della visione interna può essere mitigata nel considerare ciò che potrebbe andare storto o sfuggirci.

Il bias ottimistico ci porta a persistere indipendentemente dagli ostacoli e a scartare una visione esterna e l’hybris può farci credere di essere superiori alla maggior parte degli altri individui nelle qualità che entrano in gioco nel caso specifico (Kahneman, 2013).

Il bias dell’ottimismo può essere spiegato in parte con il wishful thinking e in parte con il principio del vedere ciò che c’è, tipico del sistema 1. Non consideriamo le probabilità a priori, ci concentriamo sul nostro obiettivo, teniamo in considerazione solo la nostra influenza e trascuriamo le variabili esterne in un’illusione di controllo che ci rende troppo sicuri di ciò che crediamo.

Una valutazione adeguata dell’incertezza è una pietra angolare della razionalità contro l’ottimismo intriso di sicumera.

Il ricorso a una buona supervisione consente la costruzione di punti di vista plurimi sia in relazione all’approccio terapeutico verso il problema, sia rispetto alle implicazioni personali che si manifestano nella relazione; è fondamentale per incrementare la consapevolezza degli schemi di sé come persona e come psicoterapeuta che influenzano nel bene o nel male la concettualizzazione del caso.

 

Altri articoli sull’argomento:

Motivazione e attività sportiva: le principali teorie

Tra le teorie relative alla motivazione emerge come un clima orientato sul compito sembra favorire l’impegno e si correla a risposte affettive funzionali, come per esempio il divertimento e la soddisfazione; invece, un clima orientato sulla prestazione solitamente produce un impegno limitato e risposte poco funzionali.

 

Nel corso degli anni sono state elaborate, attraverso gli studi sulla motivazione, diverse teorie a riguardo (De Beni & Moè, 2000; Harter, 1978; Atkinson, 1964).

Una delle prime teorie che è stata elaborata è quella di Atkinson (1964), che si configura come la prima teoria motivazionale alla riuscita e riprende il conflitto di Lewin, aggiungendo la componente emotiva. L’obiettivo principale della motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità mediante il raggiungimento di successi, svolgendo attività a cui viene attribuita importanza da parte di chi le svolge (De Beni & Moè, 2000).

In accordo con gli studi di Atkinson (1964), la motivazione alla riuscita dipende da due componenti motivazionali, che sono presenti negli individui in specifiche situazioni, si contrappongono reciprocamente e sono mutualmente escludentesi; la prima è la tendenza al successo (o speranza di riuscita), che implica la motivazione e quindi porta il soggetto ad affrontare i compiti; la seconda è la tendenza ad evitare i fallimenti (o paura degli insuccessi), che produce nell’individuo un atteggiamento di evitamento o ritiro nei confronti delle situazioni e a lungo andare porta alla demotivazione (De Beni & Moè, 2000).

Gli individui che hanno un’alta tendenza al successo scelgono dei compiti di media difficoltà, rispetto a quelli che hanno precedentemente svolto, le cui possibilità di successo rimangono elevate. Una volta che il successo è stato raggiunto, l’individuo tende ad attribuire il proprio successo alle proprie capacità, quindi presenta un locus of control interno. Da ciò si attiva un meccanismo che spinge il soggetto alla ricerca di compiti sempre più ardui, affinchè egli possa partecipare alle sfide ed utilizzare delle soluzioni sempre più efficaci ed alternative (De Beni & Moè, 2000).

Le emozioni che risulterebbero legate alla motivazione al successo sono: la fiducia nella riuscita, il desiderio di affrontare il compito, la soddisfazione e l’orgoglio; esse si manifestano anche prima che l’individuo raggiunga il successo (De Beni & Moè, 2000).

La motivazione ad evitare il fallimento, invece, produce nell’individuo la tendenza a svolgere dei compiti più semplici, in quanto il successo e la riuscita sono sempre facilmente raggiungibili (De Beni & Moè, 2000).

Se il soggetto, che è motivato ad evitare gli insuccessi, deve svolgere dei compiti troppo complessi e ne ricava degli insuccessi, le cause dei propri insuccessi vengono attribuite alla difficoltà del compito, alla sfortuna o alla mancanza di aiuto, pertanto presenta un locus of control esterno (De Beni & Moè, 2000).

Le emozioni associate, in questo caso, sono: vergogna anticipata, dovuta al fatto di sentirsi inadeguati rispetto agli altri o alla sensazione di non avere le giuste capacità per farcela; apatia o rassegnazione (prima di affrontare il compito), ansia o pensieri negativi circa il raggiungimento degli obiettivi (mentre sta svolgendo il compito) (De Beni & Moè, 2000).

Harter (1978), in un suo studio, si pose come obiettivo quello di analizzare l’influenza della valutazione individuale del proprio livello di competenza sulla prestazione.

Ritenendo che la motivazione fosse uno dei principali fattori che determina la condotta umana, il modello di Harter (1978), pone in relazione la motivazione di competenza e il successo: se aumenta la motivazione aumenta anche il successo. Questo modello prende in considerazione anche l’insuccesso; infatti in accordo con lo studioso, se decresce la motivazione, aumenta l’insuccesso (Harter, 1978).

Harter (1978), durante il suo studio, ha analizzato tre tipologie di successo (alto, medio e basso) e tre tipi diversi di rinforzo verbale, che sono: incoraggiamento, svalutazione ed assenza di rinforzo ed ha analizzato nei bambini gli effetti combinati con la valutazione, la prestazione e le aspettative.

I risultati di questi studi, hanno dimostrato come i bambini più piccoli siano dipendenti dall’approvazione sociale e come questa influisca significativamente su come si percepiscono, indipendentemente dal fatto che la performance sia stata adeguata o meno.

I bambini più grandi, al contrario, formulano i loro giudizi personali in base ai loro effettivi successi ed utilizzano i feedbacks sociali per valutare gli insuccessi.

Harter (1978), infine, ritiene che i bambini imparino ad usare dei sistemi critici di valutazione se fin dai primi anni hanno ricevuto dei rinforzi positivi da parte degli adulti, i quali sono utili per stimolarli o proseguire nel loro tentativo di diventare competenti nelle loro attività (Harter, 1978).

Questa teoria risulta importante per altri concetti chiave che verranno ripresi ed approfonditi da altre teorie della motivazione (De Beni & Moè, 2000).

La teoria dell’automotivazione, elaborata da Deci e Ryan (1985), ritiene che le persone, per svolgere un’attività, siano guidate e sostenute dalla curiosità e dal desiderio di testare le proprie abilità mediante l’esercizio in varie attività, ma hanno anche bisogno di esercitare altre forme di controllo, tra cui per esempio quelle sul tipo di compito o situazione da affrontare; hanno quindi bisogno di scegliere. L’autodeterminazione, dunque, consiste nella scelta di svolgere un’azione che è dettata dal libero arbitrio, separata da bisogni o forze esterne.

La teoria dell’autodeterminazione, pertanto ritiene che se il soggetto sceglie deliberatamente una specifica situazione, il livello di motivazione viene mantenuto o si incrementa per il compito, se invece percepisce che il compito è stato imposto dall’esterno, il soggetto si sentirà meno autodeterminato e meno motivato intrinsecamente. Dalle precedenti e da queste considerazioni è possibile affermare che alla base di un comportamento autodeterminato ci sia il bisogno di sentirsi artefici dei propri comportamenti e di scegliere il tipo di compito e come dev’essere svolto (Deci & Ryan, 1985).

La suddetta teoria prevede anche che gli individui siano motivati quando si sentono competenti ed accettati. La scelta di una specifica attività, avverrà in funzione delle abilità possedute e verso quelle mansioni che permettono al soggetto non solo di mettersi alla prova, ma anche di essere approvati socialmente (De Beni & Moè, 2000).

Per quanto riguarda la teoria dell’orientamento motivazionale è stata elaborata da Nicholls (1984; 1992), Dweck (1986) e Ames (1992) ed è diventata una delle più popolari teorizzazioni in ambito sportivo.

Questa teoria, prende in considerazione oltre le caratteristiche individuali e il clima motivazionale che è presente nei vari contesti dove dimostrare competenza risulta importante (Bortoli & Robazza, 2004). Secondo Bortoli e Robazza (2004), un clima orientato sul compito favorisce l’impegno e si correla a risposte affettive funzionali, come per esempio il divertimento e la soddisfazione, invece, un clima orientato sulla prestazione solitamente produce un impegno limitato e risposte poco funzionali.

Nella teoria dell’orientamento motivazionale vengono individuate due prospettive principali, che sono: quella orientata sul compito e quella orientata sull’Io (Bortoli & Robazza, 2004).

Quando un atleta è orientato sul compito, è concentrato sul compito, su quello che sta facendo, sulle operazioni necessarie per raggiungere un obiettivo; i suoi obiettivi principali sono acquisire abilità e conoscenze, impegnarsi, cercare di migliorare sempre di più la prestazione (Bortoli & Robazza, 2004).

Se questi obiettivi il soggetto li raggiunge, egli si sentirà competente e soddisfatto. Con l’orientamento orientato sul compito, quindi, la sensazione di competenza è auto-riferita ed i criteri che definiscono il successo personale sono l’esperienza soggettiva di miglioramento della performance o della capacità di eseguire una determinata mansione (Bortoli & Robazza, 2004).

Quando, invece, un atleta è orientato sull’Io, l’enfasi viene posta sul fatto di superare gli altri, di vincere, di dimostrare che possiede maggiori abilità; in questo caso la percezione di competenza e successo, sono etero-riferiti e dipendono dal confronto con gli altri (Bortoli & Robazza, 2004).

L’orientamento al successo e all’io sono indipendenti e non si escludono vicendevolmente, negli individui possono coesistere ed essere presenti in diversi gradi di combinazione (Roberts, Tresure, & Kavussanu, 1992).

Infatti, un atleta può dimostrare un alto orientamento in una dimensione e basso nell’altra, oppure alto o basso orientamento in tutte e due. Le quattro categorie che ne potrebbero derivare sono: alto orientamento sull’io e basso sul compito, alto orientamento sull’Io e sul compito, basso orientamento sul compito e alto sull’Io, basso orientamento sul compito e sull’Io (Bortoli & Robazza, 2004).

È importante conoscere il grado di orientamento, per comprendere i processi motivazionali che sono insiti in ogni individuo, in quanto alcuni studi hanno dimostrato che per l’atleta possedere un elevato grado di motivazione orientata sul compito ed un orientamento elevato sull’Io, sia più funzionale (Duda & Treasure, 2001).

Gli atleti che possiedono queste caratteristiche possono ricavare la percezione soggettiva di competenza e di successo da più fonti e sono capaci di focalizzarsi, flessibilmente, o sul compito o sull’Io in tempi e circostanze diverse (Cox, 2002).

Un alto orientamento sul compito, unito ad un alto orientamento sull’Io, funge da fattore protettivo di fronte alle conseguenze negative, derivate a loro volta dalla percezione di scarsa abilità in situazioni di prestazione scadente, con degli effetti positivi dal punto di vista motivazionale (Cox, 2002).

Da quest’approccio derivano alcune considerazioni applicative; per gli allenatori è importante comprendere le caratteristiche motivazionali degli atleti, ma anche essere consapevoli del clima motivazionale da loro prodotto (Duda & Treasure, 2001).

Il profilo maggiormente disfunzionale è invece quello costituito da un basso orientamento sul compito e sull’Io, che è maggiormente frequente nelle giovani atlete (Cox, 2002).

Inoltre, anche il modo in cui gli atleti percepiscono le proprie abilità rappresenta un elemento determinante; infatti, un atleta orientato sull’Io e che si percepisce scarsamente competente, mostrerà demotivazione ad affrontare una sfida, in quanto ha paura dell’insuccesso (Duda & Treasure, 2001).

Proprio per questa ragione, è importante utilizzare delle strategie volte ad incrementare l’orientamento sul compito. Alcune strategie che potrebbero essere utilizzate per raggiungere questo scopo sono l’incoraggiamento, l’individualizzazione e l’autoriferimento dei criteri di prestazione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, i risultati di un atleta non devono essere confrontati con quelli di altri atleti, piuttosto vanno evidenziati gli obiettivi individuali che devono essere migliorati (Duda & Treasure, 2001).

Ogni atleta dev’essere consapevole del suo livello di capacità e di abilità, rispetto al quale vanno valutati, dopo un periodo di allenamento, i progressi e le prestazioni. È importante anche che l’impegno, la partecipazione e il miglioramento personale degli atleti, vengano sempre riconosciuti e valorizzati da parte dell’allenatore, affinchè si possa garantire un’esperienza sportiva positiva e gratificante, anche dal punto di vista motivazionale (Duda & Treasure, 2001).

Il fascino (non troppo) discreto delle fake

Malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa, si sta assistendo a una crescente difficoltà di distinguere il falso dal vero. Le fake possiedono un fascino (non troppo) discreto. Ma qual è il segreto di tanto fascino?

 

Quante donne andate sul rogo perché la leggenda popolare riteneva fossero streghe possedute dal maligno: più fake di così… si muore!

E, ancora, l’Inquisizione, che ha mietuto vittime sulla base di fondamenti che potrebbero paragonarsi ai peggiori regimi autoritari!

La diceria degli untori…la dice lunga! Ciò che distingue l’attuale dal passato sono la velocità e la diffusione della diceria degli untori.

Per andare ai fatti più recenti, durante la guerra in Iraq (1993-2011), molto nota è l’artata fake di un povero cormorano – divenuto l’icona di quella guerra – il cui piumaggio era intriso di petrolio. Ma c’era un piccolo particolare non sfuggito agli ornitologi: a quel tempo nella zona non erano presenti cormorani di tale specie. Altro che icona; una vera bufala!

Corsi e ricorsi delle fake. Non è la sostanza che cambia, ma la loro tecnologia, poiché la componente umana rimane immutata al fondo di tutto ciò e così pure le motivazioni: manipolare, dirigere l’opinione pubblica, fare propaganda, spostare l’elettorato, destabilizzare, esaltare, denigrare, mettere al bando, ridicolizzare, stupire. Le fake sono alla base della teoria della cospirazione; vengono ideate per nascondere la realtà dei fatti (hoax); hanno lo scopo di sponsorizzare (clickbait); infine, consistono in puro divertissement o in mero errore.

Molte sono le piaghe delle fake:

  • Rappresentano causa ed effetto dell’analfabetismo funzionale.
  • Data la loro velocità nella viralizzazione, minano le capacità cognitive dei soggetti, in quanto pregiudicano il momento della riflessione e l’esigenza di approfondire le fonti e i contenuti delle informazioni (fact-checking).
  • Inficiano, di conseguenza, il processo decisionale in quanto fondato – almeno parzialmente – su informazioni distorte.
  • Sono all’origine di pregiudizi, astio verso l’alterità, divisioni, faziosità, fratture sociali, opinioni eterodirètte.
  • Possono spostare le percezioni di massa attraverso la demagogia e l’“effetto gregge”.
  • La saturazione informativa induce tramite un sistema di “risparmio cognitivo” – secondo la terminologia dei “massmediologi” – a sposare acriticamente argomenti sostenuti da nessun fondamento scientifico – o di altra natura – se non quello di una “autorevole” assertività.
  • E poi, entra in gioco l’emotività che corrobora le fake con il prevalere del soggettivo sull’oggettivo, mediante la diffusione di pezzi costruiti non tanto sui fatti bensì su architetture evocative con forte valore simbolico: è la transizione dal resoconto dei fatti al racconto/storytelling. Questo è il caso della post-verità (post-truth), che nel 2016 l’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno: la verità dei contenuti è subordinata all’apparenza e a ciò che essa suscita nella sfera emotiva. Il fatto viene così percepito come veridico sulla base di emozioni e sensazioni che tali notizie suscitano sul loro “consumato-re”, senza che quest’ultimo si preoccupi di effettuare alcuna analisi concreta circa la veridicità dei fatti. Sostanzialmente, alla base della post-verità vi è il bias di conferma: i soggetti tendono a enucleare dai fatti esclusivamente gli aspetti e i pezzi che confermano le proprie convinzioni e credenze pre-esistenti. Ciò fa sì che l’individuo resti confinato nel suo ristretto ecosistema informativo (c.d. bolle di filtraggio). Nel 2017, il termine “post-verità” tornò in auge come conseguenza della polemica sull’uso dell’espressione “fatti alternativi” (“alternative facts”) a cui ricorse – “arrampicandosi sugli specchi” – la portavoce presidenziale degli Stati Uniti, Kellyanne Conway, riguardo alla nota vicenda del giorno dell’inaugurazione della Presidenza di Donald Trump.
  • Dal punto di vista tecnologico, la mistificazione informativa si sta rapidamente evolvendo e assumendo strutture poliformiche. È in atto una sorta di trasformismo sempre più sofisticato: dal semplice acquisto di like e dagli account falsi, l’escalation ha portato alle deep-fake – traducibili in “falsi realistici” -, alle fake-face, alla fake-people e così via.

Corollario è la progressiva difficoltà di distinguere il falso dal vero. E ciò malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa.

Insomma, il fascino (non troppo) discreto delle fake…

Ma qual è il segreto di tanto fascino?

In premessa, si può considerare la peggiore forma di disinformazione quella che avviene mediante le fake-true (o fake truth), cioè tramite false verità, che hanno il vantaggio di non destare scetticismo nell’utente di media cultura.

Nel lavoro ci soffermiamo in particolare sul loro “fascino segreto”, analizzando le possibili motivazioni per cui facciano tanta presa. Specificatamente, ci serviremo dell’economia comportamentale in un contesto di incertezza.

Le fake-true sono notizie vere riproposte con incalzante successione. Tale artato meccanismo provoca nell’utente una sorta di “capogiro” che, facendogli perdere lucidità e piena presenza, deforma nella sua mente la realtà ingigantendola. Quindi, si tratta di fatti rigorosamente autentici ma accostati in modo – potremmo affermare ossessivo – da ottenere un risultato distorto.

È possibile che, nel caso di cattive notizie, tale deformazione renda la realtà apparentemente più grave e/o spaventevole. L’individuo, non più pienamente presente a se stesso all’interno del vortice in cui viene frullato, si ritrova in una situazione affatto confusiva. Non è più in grado di orientarsi ed è ipotizzabile, dunque, che sperimenti una situazione in condizioni di incertezza (soggettiva).

Soffermiamoci, in particolare, su una deformazione di natura negativa. La nostra scelta è giustificata dal fatto che le cattive notizie corrono più veloci e rimangono più impresse nella memoria di quelle buone. A parole tutti desiderano le buone notizie, nei fatti (quasi) tutti vanno a caccia di quelle brutte: terrorismo, cronaca nera, ingiustizie, tradimenti, disgrazie, cataclismi.

Lo psicologo sociale Baumeister (2001) afferma che, nelle reazioni umane, “il male è più forte del bene” (“bad is stronger than good”): le spiacevoli emozioni, i genitori duri e autoritari, le sgradevoli risposte hanno un impatto maggiore della corrispondente realtà controfattuale; le informazioni negative penetrano più a fondo di quelle positive e tendono a persistere nei ricordi.

Il passo successivo nella presente analisi consiste nell’assumere che per l’individuo la cattiva notizia viene percepita come una perdita subìta. In tal caso, possiamo giustificare che le cattive notizie rimangono più impresse nella memoria di quelle buone sulla base della Prospect Theory (Teoria dei Prospetti), una teoria delle decisioni formulata dagli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky (1979). Essa spiega come opera tale perdita sulle emozioni del soggetto attraverso l’attitudine psicologica dell’“avversione alle perdite”.

La teoria – validata anche dall’economia sperimentale – afferma che le perdite producono sull’individuo un impatto maggiore rispetto ai guadagni, anche quando essi siano uguali in valore assoluto. Di conseguenza, le persone preferiscono evitare una perdita piuttosto che realizzare un guadagno, sebbene di pari entità.

Il meccanismo per cui quando perdiamo qualcosa l’emozione (negativa) è molto più forte e persistente di quando guadagniamo qualcosa trova fondamento anche nella teoria della “spinta gentile” di Thaler e Sunstein (2009).

Sia la formulazione teorica sia la validazione empirica offrono dunque possibili spiegazioni perché le fake-true attecchiscano e si viralizzino con particolare facilità.

Chapeau!

Ma essendo così robuste e resilienti, per combatterle non sono sufficienti gli algoritmi destinati a scovarle. Il mondo è più complesso e intossicato da interessi colossali: sono quindi necessari la libertà, il pluralismo mediatico e lo spirito critico.

Sta di fatto che la reazione alle fake truth è possibile, ma non riposa negli algoritmi bensì nel cervello delle persone e nell’onestà dell’informazione.

Probabilmente un cambio epocale, dove l’intelligenza artificiale assolve uno scarso ruolo in quanto vanno a prevalere le reti neurali biologiche su quelle artificiali.

 

L’ecstasy o MDMA può avere effetti terapeutici?

L’ecstasy o etilenediossimetanfetamina (MDMA) è una droga illegale in Italia, tuttavia alcuni ricercatori sostengono che il suo utilizzo in ambito psichiatrico possa essere utile per alcuni disturbi mentali.

 

Per quel che riguarda gli effetti che provoca a coloro che la consumano, si denota principalmente un aumento dell’energia percepita e dell’empatia; d’altra parte causa sintomi come astinenza e tolleranza, di conseguenza è stata classificata come una droga ad alto rischio di dipendenza (Cohen, 1995).

Alcuni psichiatri, specialmente in America, stanno sperimentando l’utilizzo di questa sostanza su pazienti con problemi di ansia sociale, in contemporanea, si ricerca anche come rendere sicuro l’utilizzo di questa sostanza, dato che, anche se dovesse risultare efficace per la cura di questo tipo di disturbo, il rischio sarebbe quello di indurre al contempo una dipendenza, quindi un disturbo di addiction da MDMA.

Come tutte le sostanze che provocano dipendenza, l’assunzione di MDMA provoca un’attivazione del circuito dopaminergico della ricompensa, che a sua volta provoca un aumento di motivazione per la ricerca e il consumo della sostanza. E’ importante sottolineare che, il sistema dopaminergico della ricompensa è adattivo e imperativo per la sopravvivenza, è grazie ad esso se quando siamo affamati ricerchiamo il cibo o se quando abbiamo freddo cerchio il calore (Volkow et al., 2011).

Le droghe ingannano il nostro cervello provocando un’ondata innaturale di dopamina nel circuito della ricompensa; l’aumento di questo neurotrasmettitore, che una droga in media provoca, è estremamente più alto e più rapido di quello ottenuto mangiando o durante un atto sessuale; si instaura cosi una dipendenza verso la sostanza.

L’utilizzo di MDMA provoca oltre che ad un aumento di dopamina, anche un aumento di serotonina, neurotrasmettitore deputato nella regolazione dell’umore, del desiderio sessuale e dei comportamenti sociali (Heifets et al., 2019).

Uno studio pubblicato su Science Translation Medicine ha condotto una sperimentazione su topi per capire come la MDMA agisca a livello cerebrale aumentando la socialità e l’empatia, e come ridurre il rischio di dipendenza. Per fare ciò hanno somministrato 2 milligrammi per kilogrammo (mg/kg) di MDMA a dei topi, tuttavia con questa dose non si osservava un aumento della socialità, hanno quindi aumentato la quantità portandola a 7.5 mg/kg osservando cosi un aumento del comportamento sociale (Heifets et al., 2019). Per osservare l’aumento della socialità, i ricercatori hanno messo tutti i topi assieme in una stanza e hanno notato che quelli che avevano ricevuto la dose da 7.5 mg/kg interagivano per più tempo (30 minuti) con altri topi, mentre il campione di controllo che aveva ricevuto un placebo si intratteneva con i suoi simili per un massimo di 10 minuti.

In seguito, hanno messo i topi che avevano ricevuto la dose difronte a due gabbie, una era quella nella quale avevano ricevuto la dose (gabbia A), mentre l’altra era una gabbia ‘’neutra’’ (gabbia B). Nel caso di dipendenza il topo sarebbe dovuto tornare nello stesso luogo in cui aveva assunto precedentemente la sostanza quindi nella gabbia A. Lo studio ha mostrato che questo non accadeva per i topi a cui era stata somministrata la dose da 7.5 mg/kg, ma si verificava per coloro che avevano ricevuto una dose superiore (15 mg/kg) (Heifets et al., 2019).

I ricercatori concludono affermando che la MDMA è in grado di aumentare i comportamenti sociali mediante un aumento di serotonina, inoltre, individuando la dose giusta per un essere umano, è possibile evitare gli effetti della dipendenza patologica, tuttavia sottolineano la necessità di ulteriori trial clinici per comprendere la dose adeguata che non crei dipendenza nell’essere umano (Heifets et al., 2019).

 

I capricci dei bambini

Comunemente considerati come comportamenti oppositivi di ‘non obbedienza’ i capricci rappresentano qualcosa di più profondo, un tentativo del bambino di comunicare il suo malessere nell’hic et nunc, e come tali vanno indagati per darvi il giusto significato.

 

Cos’è un capriccio?

Normalmente si utilizza il termine capriccio per intendere un comportamento non consono o, comunque, non desiderabile, esibito in una data situazione: ecco allora che capriccio diventa per un genitore il pianto disperato del bambino durante il momento della spesa, le urla incontenibili, il buttarsi a terra per strada, il non obbedire alle richieste dell’adulto, specie in contesti sociali, dove la preoccupazione principale di quest’ultimo diventa quella di non fare brutta figura o, comunque, l’essere classificato come cattivo genitore.

Questo è cosa rappresenta un capriccio per un adulto!

Ma cos’è davvero il capriccio? Cosa rappresenta per il bambino?

Il capriccio è generato da un forte momento di frustrazione che il bambino non riesce a gestire con i mezzi e gli strumenti a sua disposizione: il pianto, gli scatti d’ira non sono altro che richieste di aiuto che il piccolo invia all’adulto. Tutto ciò che per l’adulto risulta ‘una scenata senza motivo’, un comportamento immotivato da non esibire, magari perché ciò che il bambino vuole lo si farà in un secondo momento, per il bambino non è che una richiesta di attenzione.

Un bambino non piange senza motivo. Il problema è che, troppo spesso, tale motivo sfugge all’occhio di un adulto, immerso nella freneticità dell’agire quotidiano.

Di fronte all’adulto il bambino è disposto all’obbedienza fino alle radici dello spirito.

Ma quando l’adulto gli chiede che egli rinunci, in favor suo, al comando del motore che sospinge la creatura secondo norme e leggi inalterabili, il bambino non può obbedire. Sarebbe come pretendere di fargli interrompere lo spuntare dei denti nel periodo della dentizione.

I capricci e le disobbedienze dei bambini non sono altro che aspetti di un conflitto vitale fra l’impulso creatore e l’amore verso l’adulto, il quale non lo comprende.

Quando, invece di trovare obbedienza, insorge un capriccio, l’adulto deve pensare sempre a cotesto conflitto e individuarvi la difesa di un gesto vitale necessario allo sviluppo del bambino (Montessori, 1938).

I capricci sono normalmente esibiti dai bambini ma essi si intensificano in particolare nella fascia 2/3 anni, non a caso nota come ‘i terribili 2 anni’. Spiegamone il motivo: il bambino raggiunge, a partire da tale età, una maggiore consapevolezza nello sviluppo cognitivo, linguistico, motorio, sfinterico, nonché una maggiore indipendenza; proprio in virtù di ciò, egli ama sperimentarsi, non sottostando alle regole imposte dall’adulto, che spesso rappresentano un freno verso la scoperta del mondo e di se stesso.

A questa età i piccoli si esprimono spesso con il ‘no’, rigettando le richieste del genitore (dell’adulto in generale), anche solo per il gusto di non compiacere, perché ora iniziano a percepirsi come unità separate dal caregiver, sviluppando una propria identità. Ecco come l’espressione del capriccio diventa affermazione di sé: per mezzo di parole quali ‘no’, ‘io’, ‘mio’ il bambino sperimenta la propria libertà, modellando la sua personalità. L’obiezione traduce il pensiero individuale e come tale fa parte del normale processo di crescita.

Come far fronte al capriccio

Nel momento in cui il bambino fa i capricci occorre soffermarsi ad analizzare cosa li ha generati: bisogna indossare le lenti del bambino per leggere la situazione dal suo punto di vista.

È molto importante precisare come il bambino non sia un adulto in miniatura ma un soggetto in costante sviluppo. Da sottolineare come esista un rapporto inversamente proporzionale tra regolazione emotiva ed età, ovvero più si è piccoli meno si riesce a controllare le proprie emozioni.

All’età di due anni la personalità del bambino inizia a plasmarsi ed in virtù delle maggiori competenze linguistiche siamo erroneamente portati a considerarli più maturi rispetto a quanto non siano. Nella prima infanzia il cervello cambia rapidamente, sviluppando assai rapidamente nuove connessioni cerebrali ed eliminando quelle non necessarie, processo noto come pruning sinaptico e da Edelman (1987) ribattezzato come darwinismo sinaptico. La corteccia prefrontale, area del cervello deputata ai più complessi compiti cognitivi, tra cui l’autoregolazione, non è ancora matura, continuando il suo sviluppo fino all’inizio dell’età adulta (Lenroot, Giedd, 2006; Giedd, 2004).

Nella pratica se un bambino vuole un gelato e l’adulto gli dice che lo compreranno dopo aver terminato la spesa, è molto probabile che il primo inizi a piangere perché il suo bisogno in quel dato momento non è stato soddisfatto. Il bambino non possiede appieno la visione della temporalità, e la concezione del posticipare non è contemplata nella sua mentalità, al contrario, ogni bisogno, desiderio ed emozione riguarda il qui ed ora.

Nei più piccoli, il carattere egocentrico, ossia immediato e irreversibile, del pensiero è un ostacolo ad ogni introspezione: la presa di coscienza dell’azione propria inizia dunque con quella dei suoi risultati e soltanto in seguito si risale con un duplice sforzo di inversione rispetto a questo orientamento iniziale e di decentramento o confronto, alla coscienza del meccanismo stesso di tale azione (Piaget, 1979, p. 266).

Come si fronteggia un capriccio?

Partiamo dal presupposto che le regole sono importanti, per cui il genitore non deve avere né un atteggiamento troppo lassista, accondiscendendo ad ogni richiesta del bambino, né troppo autoritario tappando l’espressione del piccolo. La giusta soluzione sta nel mezzo per cui occorre saper essere autorevoli, spiegando le motivazioni per le quali ci si aspetta un determinato comportamento in una data situazione, utilizzando sempre un linguaggio consono e comprensibile al piccolo.

Urlare non serve a nulla ed arrabbiarsi a propria volta col piccolo, imprecando, ordinandogli di smetterla non farà altro che incrementare la sua frustrazione, stabilendo un circolo vizioso.

Occorre ‘calmarsi per calmare’ sintonizzarsi empaticamente col bambino, fargli sentire la nostra presenza, parlargli, spiegandogli che capiamo la sua rabbia, cercare una soluzione. In tal modo egli si sentirà accolto e compreso.

L’adulto possiede proprie strategie di coping e problem solving, acquisite negli anni, per rilassarsi e ritrovare la serenità interiore (ad esempio c’è chi conta fino a dieci, chi fa dei respiri più lunghi, chi intrattiene un dialogo interiore…): fermiamoci a pensare a come il bambino, al contrario, non può contare solo su se stesso e tramite il capriccio egli ci sta comunicando che non riesce a comprendere e far fronte ad una situazione, anzi, ci sta chiedendo di aiutarlo, per capirla, etichettarla e, quindi, fronteggiarla.

In conclusione è propedeutico immedesimarsi col piccolo al fine di decodificare il capriccio e, anziché sgridarlo, donargli gli strumenti per comunicare nel giusto modo.

Capiamo allora come le giuste strategie utilizzino l’empatia, favorendo una connessione tra adulto e bambino su base emotiva: mettendoci mentalmente nei suoi panni potremmo realmente aiutare il piccolo ad etichettare, comprendere e gestire la situazione, in un primo momento per nostro tramite e via via in modo sempre più autonomo. La capacità di mentalizzare, espressione ultima dell’autoregolazione favorisce, secondo Bateman e Fonagy (2006), la comprensione esplicita ed implicita dei propri e degli altrui comportamenti, giungendo a dare significato agli stati mentali che li sottendono.

Il tutto favorisce lo sviluppo della comunicazione assertiva, portando l’individuo a saper esprimere senza remora i propri bisogni, libero da inibizioni ed insicurezze.

Pensiero consapevole e automatico – I bias che influenzano il terapeuta

Talvolta durante il lavoro clinico si incappa in bias cognitivi, in schemi che imprigionano e influenzano la percezione e la rappresentazione della realtà e fanno saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci e influenzare l’efficacia del terapeuta.

Il presente contributo è il terzo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

La legge dei piccoli numeri

Spesso basiamo le nostre inferenze rifacendoci alla legge dei grandi numeri, scegliendo però un campione troppo ristretto. Con campioni piccoli il rischio di ottenere risultati senza senso è molto alto. Quando la legge dei grandi numeri vale anche per i piccoli numeri, il bias generale è quello che favorisce la certezza rispetto al dubbio.

Per questo è importante un’attenta lettura degli studi scientifici su campioni grandi e non fidarsi di osservazioni aneddotiche su pochi casi o singole esperienze.

Cerchiamo attraverso il sistema 1 di avere conoscenza certa da poche osservazioni, un “effetto alone” che ci fa credere, per esempio, di capire molto bene una persona di cui sappiamo pochissimo. Arriva un paziente all’osservazione è molto ordinato nell’aspetto, chiede educatamente se può mettersi seduto, si scusa per i due minuti di ritardo. Si accende la lampadina e il clinico salta alla conclusione: è un ossessivo! Il che va pure bene se invece di considerarla una conclusione, la riteniamo semplicemente un’ipotesi di lavoro da verificare.

L’effetto alone, presente anche nella vita di tutti i giorni ci fa anche pensare che se uno possiede una caratteristica positiva ne abbia anche molte altre che nella nostra mente sono a essa correlate. Per questo nell’ossessivo ci aspetteremo di notare altri segni e sintomi coerenti con l’ipotesi.

Interviene in questo caso anche una modalità di pensare in termini causali, che scotomizza la possibilità che i comportamenti sopra descritti siano semplicemente casuali e non siano raggruppabili e regolari. Lo schema ci imprigiona e influenza la percezione e rappresentazione della realtà e ci fa saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci.

L’effetto ancoraggio

Quando dobbiamo assegnare un valore, partiamo da un valore disponibile che assume una funzione di ancoraggio per successivi aggiustamenti. L’effetto priming con l’attivazione selettiva dell’attenzione e di ricordi comparabili con l’ancoraggio produce una coerenza associativa. Numeri alti o bassi attivano idee che producono associazioni e ancorano la valutazione.

L’effetto ancoraggio va quindi tenuto in considerazione in ogni giudizio poiché il sistema 1 rende alcune informazioni più accessibili al sistema 2 che ha invece il compito di elaborarle. Le ancore casuali producono il loro effetto, indipendentemente dalla loro verosimiglianza.

Questo è il motivo per cui la calunnia, anche quando si dimostra del tutto fallace è efficace secondo il ragionamento “ non sarà del tutto vero, ma qualcosa deve pur esserci”. Insomma una volta che ci siamo messi in testa una cosa cacciarla non è semplice.

Basti pensare alle informazioni che ci sono fornite da un collega che ci invia un paziente. Il nostro pensiero è influenzato da quanto ci racconta, soprattutto se stimiamo il collega e lo riteniamo molto autorevole, anche se non ne siamo pienamente consapevoli (effetto priming) i dati che ci fornisce rappresentano una guida che può limitare la nostra valutazione, indirizzando l’attenzione, la memoria e facilitando associazioni che producono un ancoraggio il cui effetto può essere fuorviante.

La stessa necessità di avere una diagnosi categoriale seguendo i segni e i criteri del DSM 5 può essere fuorviante in relazione a una diagnosi interpretativo-esplicativa che ci dia il funzionamento del paziente, la dinamica dello scompenso e i fattori di mantenimento del disagio, più utile ai fini della comprensione e del trattamento. La sola diagnosi categoriale ci fornisce solo il prototipo di un paziente e trascura una serie di specificità che definiscono la complessità di quella particolare persona, ancorandoci a strategie d’intervento predefinite o all’esperienza accumulata nel trattamento di quella diagnosi, o alla disponibilità di protocolli e linee guida in letteratura.

L’euristica della disponibilità

La facilità di recuperare dalla memoria un consistente numero di esempi condiziona il giudizio relativo a una categoria cui gli esempi sono riferiti.

Eventi salienti, avvenimenti drammatici, esperienze personali, rappresentano potenziali bias di disponibilità cui resistere è faticoso anche perché la fluidità del ricordo e la salienza del contenuto sono più importanti del numero complessivo dei ricordi.

Immaginate che nella casistica del Dr. Pinco il numero di pazienti con disturbo di personalità narcisistico sia considerevolmente maggiore rispetto a qualsiasi altro disturbo. Il giudizio del terapeuta in questione su un paziente sarà influenzato dall’euristica della disponibilità. E’ possibile, pertanto, che si tenda a diagnosticare maggiormente un disturbo piuttosto che un altro, o se si sono ottenuti numerosi successi, a riprodurre quei trattamenti utilizzati di prassi, escludendo la possibilità che nel caso specifico possano determinare un insuccesso.

In questo tipo di errore incorrono soprattutto i superspecialisti cui arrivano sempre casi già selezionati, mentre ne sono più protetti i colleghi alle prime armi che, assediati da dubbi e incertezze, rischiano meno di prendere “lucciole per lanterne”.

Euristica dell’affetto

La raccolta di una grande mole d’informazioni che oggi con la rete più di ieri siamo propensi a fare suscita emozioni e crea aspettative e bias.

La facilità con cui un fobico si rappresenta i rischi crea una reazione emotiva di paura e a sua volta la paura influenza il giudizio e la decisione rispetto al pericolo. Le persone si formano opinioni e prendono decisioni, affrontano o evitano eventi, esprimendo le proprie emozioni senza esserne pienamente consapevoli.

L’euristica dell’affetto (Slovic, Lichtenstein, 1968) sostituisce la risposta a una domanda, “che sensazione provo?” con una domanda diversa, “cosa ne penso?”. D’altra parte è ciò che sostiene Damasio: le valutazioni emotive sono centrali nel processo decisionale e possono anche portarci a prendere buone decisioni.

L’importante è avere la perspicacia di analizzare le situazioni valutando costi e benefici di scelte e comportamenti. Un conto è controllare il sopraggiungere di un’auto prima di attraversare la strada, un altro è restare bloccati sulle strisce pedonali in virtù della notizia letta sul giornale di un uomo morto investito da un’auto mentre attraversava.

Forse chiunque eviterebbe di attraversare la strada se per una settimana tutti i mass media avessero dato notizie dei numerosissimi pedoni morti nell’ultimo mese con statistiche di raffronto annuali che testimoniano di un incremento vertiginoso dei casi. Si aggiunga che nei media una notizia catastrofica (ad esempio un treno che deraglia) rende degne di essere riportate notizie della stessa area che altrimenti non avrebbero trovato spazio (un casello di passaggio a livello che s’incendia, un guasto agli scambi in stazione, il dissesto dei binari per il terremoto).

Siamo, in continuazione sollecitati da una “cascata di disponibilità” su tantissimi argomenti compresi quelli clinici che esercitano una forte influenza sui nostri stati emotivi (mood congruity effect).

Il bias della rappresentatività

I giudizi di rappresentatività sono guidati da stereotipi, che hanno in sé qualcosa di vero ma quel qualcosa può farci ignorare altre informazioni, per questo l’euristica è fuorviante.

Se una persona, per esempio, riferisse di sentire delle voci potremmo pensare di essere in presenza di un esordio psicotico, con la possibilità di scartare l’ipotesi che le voci possano essere l’effetto collaterale di un farmaco assunto dalla persona stessa.

I dati epidemiologici ci dicono che il rapporto di prevalenza del disturbo istrionico di personalità è sbilanciato a favore delle femmine. Se ci fosse chiesto di formulare una diagnosi in due soggetti di sesso opposto di cui uno solo è affetto dal disturbo e che presentassero entrambi una marcata ricerca d’attenzione, l’euristica della rappresentatività ci influenzerebbe nel giudizio, soprattutto se la vigilanza del sistema 2 che riduce l’eccessiva fiducia in sé non si attivasse.

Detto in altri termini siamo vittime dei nostri pregiudizi molto più di quanto pensiamo.

Negli anni 70 in un famoso esperimento Rosenhan (1973) decise di verificare se soggetti senza disturbi psichiatrici sarebbero stati ricoverati erroneamente in reparti psichiatrici.  Reclutò dei volontari e gli chiese di recarsi in strutture psichiatriche per essere ricoverati.  Al colloquio di accettazione gli pseudo pazienti lamentarono di sentire delle voci e un senso d’insoddisfazione per la vita. Alle domande rivolte in sede di colloquio, altresì, i pazienti risposero in modo sincero secondo la loro esperienza. Tutti furono ricoverati e dimessi a distanza di tempo con diagnosi di schizofrenia in remissione.

Rosenhan fece un ulteriore esperimento avvisò l’equipe curante di una struttura di ricovero che nei successivi 3 mesi avrebbero fatto richiesta di ricovero alcuni pseudo-pazienti. Gli psichiatri individuarono un 10% di pazienti simulatori e i membri dello staff un 20% di persone sospette. Pessime intuizioni dato che Rosenhan non aveva inviato nessun finto paziente.

C’è in sostanza ciò che vedo e ciò che vedo è coerente con il pensiero associativo. Questi bias aggiunti all’ignoranza (scarsa attenzione alla probabilità statistica) e alla pigrizia (poca attenzione al compito) determinano errori. La ricetta da seguire è mettere in discussione la “valenza diagnostica” delle prove.

Un’altra fonte di bias è la sostituzione della probabilità con la plausibilità, in questo caso un’illusione cognitiva saliente ci fa scegliere. Un paziente è ricoverato in una comunità socio-riabilitativa per due anni e sta molto meglio, ha risolto gran parte dei suoi problemi e adotta comportamenti adattivi, è plausibile che anche fuori della comunità si adatti funzionalmente alle varie situazioni che si troverà a fronteggiare. Con sorpresa e incredulità scopriamo, però, che la plausibilità non si correla con la probabilità. Infatti, una larga percentuale di pazienti che soggiornano in strutture residenziali è soggetto al fenomeno del revolving door.

Esempi e statistiche

E’ più facile imparare da casi individuali rappresentativi che da dati statistici. E’ più facile inferire il generale dal particolare che dedurre il particolare dal generale. Perché vi sia apprendimento è importante stupire (Nisbett, Borgida, 1975).

Nella formazione, come anche in psicoterapia, l’integrazione di diversi canali comunicativi (iconico, sonoro, ecc) possono essere più efficaci del solo parlato. Mostrare video di sedute terapeutiche, suggerire la visione di film (Coratti et al. 2012), può favorire un terreno d’incontro tra paziente e terapeuta capace di creare sintonia e alimentare una più forte alleanza terapeutica. In altre parole fare esperienza concreta è molto più efficace per il cambiamento sia in contesti formativi, sia terapeutici (da cui la superiorità delle terapie che prevedono l’esposizione).

La letteratura è ricca di esempi e casi da cui trarre insegnamenti. L’esperienza è maestra di vita come scrive Jung:

Colui che vuol conoscere l’animo umano non imparerà quasi nulla dalla psicologia sperimentale. Dobbiamo consigliargli di appendere a un chiodo la scienza esatta, di spogliarsi del suo abito di scienziato, di dire addio a questo suo tipo di ricerca e di camminare per il mondo con cuore umano, nel terrore delle prigioni, dei manicomi, degli ospedali; di vedere le taverne dei sobborghi, i bordelli, le bische, i salo­ni della società elegante, la borsa, i comizi socialisti, le chiese, i revival e le estasi delle sette; di provare nella propria carne amore e odio, le passioni sotto tutte le forme. Allora ritornerà carico di una scienza ben più ricca di quella che gli avrebbero dato i manuali alti un piede e potrà essere per i malati un vero conoscitore dell’animo umano (Jung, 1959).

Regressione verso la media

Le ricompense funzionano meglio delle punizioni quando operiamo in addestramento. Le fluttuazioni, però, di un processo casuale portano alla regressione verso la media: le performance migliori tendono a peggiorare e quelle peggiori a migliorare.

La difficoltà a tenere presente il fenomeno è dovuta al sistema 1 propenso a dare interpretazioni causali, perciò se ottengo risultati positivi con i pazienti sono un bravo clinico. I gruppi estremi tendono a regredire verso la media, dobbiamo, per esempio, aspettarci che i pazienti più gravi tenderanno a stare meglio indipendentemente dal nostro intervento.

Attenzione, quindi, ad attribuirsi falsi meriti! Ed anche colpe immeritate, insomma siamo molto meno influenti di quanto pensiamo e questo schiaffo alla nostra onnipotenza è una benefica carezza rispetto al peso della responsabilità.

Per avere un risultato certo che l’intervento sia stato efficace, abbiamo sempre bisogno di confrontare un gruppo sperimentale con un gruppo di controllo cui non è stato applicato il trattamento e verificare se i pazienti del gruppo sperimentale migliorano più di quanto sia giustificabile dalla regressione verso la media.

 

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La gelosia: il modello relazionale simbolico

La famiglia è il luogo dove convivono l’ethos e il pathos. Senza il pathos l’amore diventa sterile, mentre senza l’ethos resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento. A questo livello si collocano due tipi di gelosia: una legata all’ethos, definita come “sana”, e l’altra legata al pathos, più diffusa e irrazionale.

 

La famiglia – scrive Vittorio Cigoli – è il luogo dove convivono l’ethos (cioè l’alta assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro/a) e il pathos (che è la facoltà squisitamente umana di sentire le gioie e le pene dell’incontro profondo). Senza il pathos l’amore diventa sterile, forzato, piatto. Senza l’ethos resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento, e non permette lo sviluppo del legame, necessario per affrontare le tappe che la vita ci propone. Non è semplice farli convivere, ma neppure impossibile.

L’ethos è il “patto fiduciario” della relazione coniugale che ha nel matrimonio il suo atto esplicito ed è caratterizzato dai seguenti elementi, così come individuati dagli stessi autori: la comune attrattiva, la consensualità, la consapevolezza, l’impegno a rispettarlo, la delineazione di un fine.

Il Pathos è “l’incastro di bisogni, desideri e paure “ e fa riferimento “all’attrattiva, cioè ciò che ha attratto i due nella stessa orbita, che è un misto di bisogni, di speranza e di difesa da pericoli che i partner si aspettano di trattare nel rapporto di coppia”.

E’ evidente che l’ethos fa riferimento all’esplicito, al razionale, mentre il pathos ad esigenze emotive che nella maggior parte dei casi sfuggono alla nostra consapevolezza, tant’è che sempre i nostri autori individuano due tipi di patto, uno dichiarato e l’altro segreto. Quello dichiarato può essere condensato nelle promesse matrimoniali, mentre quello segreto invece è rappresentato da tutte le istanze emotive ed affettive che si ricercano nell’altro.

A questo primo livello si collocano due tipi di gelosia: una legata all’ethos e l’altra legata al pathos.

Quella legata all’ethos viene definita come gelosia “sana”, è quella che avvertiamo quando si profila una minaccia “concreta” alla nostra relazione affettiva, ovvero quando ci sono minacce esplicite alle promesse matrimoniali come ad esempio la presenza di un’altra persona e il non ricevere le giuste attenzioni.

La gelosia, comunque, è perlopiù legata al pathos. Bolwby sostiene che la gelosia è

una risposta emotiva legata al pericolo di perdita e sottrazione del partner, che è connessa a reazioni di angoscia, rabbia e aggressività che hanno la funzione di proteggere la relazione stessa .

Freud  distingue tre forme di gelosia tutte legate ad istanze inconsce:

1) La gelosia competitiva che è

essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore, e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa essere distinta dal resto; infine, da sentimenti ostili verso il più fortunato rivale e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa. Anche se la chiamiamo normale, questa gelosia non è certo interamente razionale, ossia determinata dalla situazione attuale, proporzionata alle circostanze affettive e sotto il completo controllo dell’Io cosciente; anzi essa è profondamente radicata nell’inconscio, è la continuazione dei primissimi impulsi della vita affettiva infantile e trae origine dal complesso edipico o da quello fratello-sorella del primo periodo sessuale. (Freud, 1905)

2) La gelosia proiettiva legata alle proprie trasgressioni e/o infedeltà o al desiderio di infedeltà che vengono rimosse. Per esigenze super egoiche non si rimuove l’idea del tradimento e si tende a proiettarlo sull’altro/a. La proiezione ci permette di dar voce a questi impulsi senza entrare in conflitto con noi stessi.

3) La gelosia delirante che è un disturbo psicopatologico caratterizzato dalla convinzione, spesso infondata, che il proprio partner sia infedele. Tale convinzione porta a mettere in atto una serie di comportamenti (ricerca di indizi, domande assillanti, interpretazioni non reali, allusioni, etc) al fine di provare l’infedeltà contestata. Un esempio di questa forma irrazionale di gelosia è la Sindrome di Otello ripresa proprio dal dramma di Otello, che malgrado le rassicurazioni di Desdemona, decide che essa deve morire per una sua presunta infedeltà. Per Freud tale forma di gelosia nasce, come per la gelosia proiettiva, da esigenze super egoiche legate ad una propria infedeltà. In questo caso, però, l’oggetto della relazione sessuale e/o la fonte di attrazione è dello stesso sesso. La gelosia delirante, quindi, è una forma di omosessualità latente. Essa è un

tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte, essa potrebbe essere descritta (nel caso dell’uomo) mediante la formula: non sono io che lo amo, è lei che lo ama. (Freud, 1905)

Oltre a Freud e molti altri psicoanalisti, vari autori mettono in relazione la gelosia con il pathos ovvero con istanze emotive che per la psicanalisi hanno sede nell’inconscio.

Dicks, psicoanalista britannico, definisce il legame di coppia come l’incastro di due mondi interni, da intendersi, come il tentativo più o meno cosciente, di risolvere attraverso l’unione le problematiche individuali. Secondo l’autore, questo incontro può portare ad un’evoluzione positiva o, al contrario, ad una collusione propiziatrice di una relazione distorta. In particolare si tende a respingere aspetti di sé negativi forzando l’altro a rivestire quei contenuti che non possono essere assunti in proprio perché dolorosi e inaccettabili.

Robin Skynner afferma che

La moglie e il marito si sono scelti reciprocamente su una base altamente percettivo-intuitiva (presumibilmente fondata su informazioni non verbali) così che le relazioni e i ruoli che essi adottano, e in cui “cadono” entrambi, sono strettamente correlati. A un livello superficiale essi possono essersi scelti reciprocamente per somiglianza o differenza da qualche figura genitoriale, ma se si va più in profondità si trova a una somiglianza crescente in aspetti fondamentali ma negati del back-ground modellante, e risulta, in seguito ad un attento esame, che i mondi intimi delle coppie sono sempre più condivisi.

All’interno del modello relazionale simbolico, le esigenze narcisistiche (tipiche della gelosia competitiva) e le esigenze superegoiche (tipiche della gelosia proiettiva e della gelosia delirante), in cui l’altro diventa indispensabile per la nostra sicurezza e per le nostre relazioni, costituiscono ciò che E. Scabini e V. Cigoli hanno definito  “l’anti-patto” in cui “l’intesa relazionale è nulla, lo scambio è impossibile perché l’altro non è percepito nella sua realtà e nel suo bisogno; egli è piuttosto il contenitore dei propri aspetti rifiutati e non riconosciuti che vengono proiettati nell’altro”.

Non ci si sposa con l’altro in quanto tale, ma si sposano singoli aspetti come “ho sposato questo di te” o “ho sposato quest’altro di te”. Questi elementi hanno portato Cigoli ad inserire all’interno dell’Intervista Clinica Generazionale, un metodo e un modello di lavoro con le coppie, una domanda precisa: Che cosa ha sposato del suo/a partner?

Al contrario, cioè la perfezione del patto si “configura come un’intesa di coppia che appoggia e alimenta l’unicità e l’irripetibilità della persona amata, accettata nei suoi limiti e desiderata nelle sue caratteristiche: sposo te perché sei tu” (E. Scabini –  V. Cigoli). Le relazioni familiari si caratterizzano per uno scambio simbolico in cui si dà all’altro ciò che si pensa e auspica abbia bisogno e, nel contempo, avendo fiducia che l’altro ricambierà con un “equivalente simbolico”. Secondo il modello relazionale simbolico questo scambio avviene attraverso un “dono”.

C’è una celebre frase del jazzista R. Gualazzi che riesce a cogliere il valore del dono all’interno della relazione

l’unione fa la forza e se ognuno rimanesse aperto alle esperienze altrui senza essere troppo geloso nel donare ciò che ha appreso, questo scambio genererebbe una inevitabile evoluzione.

Goldbout, come riportato da Cigoli ne Il Famigliare, sostiene che il “dono” è

una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro e ha alla sua origine un quid di gratuito.

In questo approccio la fiducia diventa elemento essenziale dello scambio. Al contrario, l’incapacità di donare e la perversione del dono (con un uso prettamente strumentale e di definizione di rapporti di potere) costituiscono le forme della patologia relazionale.

Cigoli nell’Albero della Discendenza (op. cit) individua in un quadro di famiglia, La festa di San Nicola di Steen conservato al Rijsksmusumeum di Amsterdam, la rappresentazione pittorica della “magia del dono”. Nell’opera i figli presenti sono preoccupati dei regali ricevuti o che devono ricevere. La bimba viene invitata dalla madre a farle vedere la bambola ricevuta in dono, un altro figlio piange per non aver avuto nessun regalo e viene invitato dalla nonna dietro la tenda dove c’è un dono anche per lui, il padre invita il figlio più piccolo a guardare in alto da dove potrebbero arrivare i regali. Tutta la famiglia è preoccupata per i doni da dare ai figli. La magia del dono è “un segno del bene incondizionato che deve venire dalle generazioni precedenti”.

Nel Dono di Natale di M. G. Deledda, in un contesto di povertà assoluta, il papà di Lia porta in dono alla famiglia un fratellino che ha acquistato a mezzanotte precisa la notte di Natale le cui ossa non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Il papà dà una grande gioia alla famiglia portando il Divino Bambino.

Al contrario, nella novella di Verga La roba viene descritto il dramma della mancanza del dono, dell’incapacità di donare. L’analfabeta Mazzarò è il contadino che diventa ricchissimo a forza di lavoro e sacrifici e che per evitare di sperperare e dividere il suo patrimonio non si sposa e non ha figli. Diventato vecchio, dovendosi confrontare con la morte, uccide parte del suo bestiame nel tentativo di portarselo con sé nell’aldilà in quanto dopo la morte, e Mazzarò ne è purtroppo cosciente, la “roba” accumulata in vita non varrà più niente. L’incapacità a donare porta all’annullamento del sé, alla mancanza di prospettive.

L’incapacità a donare non è visibile solo sui beni materiali, ma anche nel non riuscire a dare all’altro ciò di cui ha bisogno e necessità. Nadia Somma e Mario De Maglie, nell’analizzare la Madame Bovary di Flaubert, concentrano la loro attenzione sul dramma di Berthe, la figlia nata dal matrimonio con Chalrles Bovary. Flaubert fa stare Berthe sullo sfondo, quasi in un cantuccio e Emma Bovary non prende mai in considerazioni i bisogni della figlia in quanto desiderava un figlio maschio. Emma prova un grande dolore quando le nasce una figlia femmina in quanto

una donna ha continui impedimenti. Ha un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene. (Madame Bovary, Flaubert)

Si avverte che Berthe si sente abbandonata, la mancanza di dono materno sicuramente la espone ad insicurezza e a perdere la speranza e la fiducia, come vedremo fra poco di poter essere ricambiata sul piano affettivo. Come abbiamo precedentemente detto, inoltre, il vissuto di abbandono può portare alla gelosia ossessiva.

La gelosia, quindi, potrebbe essere frutto di un dono “perverso” e in quanto tale, così come le caratteristiche di gelosia individuate da Freud, non può che portare alla patologia di tipo relazionale.

Cosi come descritto da E. Scabini e V. Cigoli, la relazione perversa e patologica, attraverso la quale uno dei membri tenta di avere il dominio e la sudditanza dell’altro, si esplica con “il bisogno di possedere l’altro e di ridurlo alla propria mercé con l’uso di tecniche quali la seduzione, la minaccia, la delegittimazione, l’umiliazione, l’opposizione fredda, la corruzione”. Tale bisogno è  talmente “imperioso” che diventa “l’unico modo di vivere la vita, la discordia può contrassegnare fortemente la vita intera di coppia”. La gelosia diventa uno degli elementi con cui poter realizzare il suddetto piano attraverso ad esempio la segregazione o l’allontanamento dagli amici e dalla vita sociale il partner.

Il dono da solo comunque non basterebbe ad individuare l’asse simbolico della relazione familiare. Infatti gli autori ritornando alle relazione tra ethos e pathos identificano in fiducia e speranza le qualità del polo affettivo e in giustizia e lealtà quelle del polo etico. Jurkovic, come citato dagli stessi autori, sostiene che “giustizia e fiducia sono ingredienti essenziali nelle relazioni familiare sane”. Ovviamente il loro opposto costituisce l’area insana che Scabini e Cigoli individuano nel diabolico che diventa “ciò che spezza la connessione e il legame e non consente il riconoscimento e la comprensione”.

Nel polo affettivo la fiducia diventa l’elemento essenziale affinché avvenga lo scambio relazionale dell’equivalente simbolico. Se uno dei partner non ha fiducia e speranza di essere ricambiato si inserisce la patologia relazionale ed un terreno fertile per la nascita di sentimenti di gelosia. Quest’ultimi possono nascere secondo questo modello o per l’incapacità a donare (mancanza di fiducia che l’altro possa ricambiare) o per incapacità a ricambiare. Infatti, nell’ambito dello scambio relazionale, se da un lato esiste un dono, dall’altro deve esistere un debito. Nel caso di uno scambio relazionale sano il debito deve essere positivo. Con un debito negativo il soggetto ha un’effettiva incapacità a ricambiare. Il modello, comunque non può essere letto e analizzato come lineare, ma circolare. Un soggetto con un debito negativo non ha speranza e fiducia nel donare e il mancato dono non fa altro che rafforzare un debito negativo e, quindi, l’incapacità a ricambiare.

Se applichiamo, infatti, il modello dello scambio relazionale alle tre forme di gelosia individuate da Freud possiamo vedere che:

  1. nella gelosia competitiva, da un lato, non dona perché non ha fiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità (ferita narcisistica) e, dall’altro, ha un debito negativo rispetto alla propria evoluzione personale (complesso edipico e rapporti fratello-sorella) e, quindi, si sente incapace di ricambiare;
  2. nella gelosia proiettiva non dona perché non ha fiducia nella propria fedeltà e, in quanto, infedele si sente incapace di ricambiare;
  3. nella gelosia delirante non dona perché non ha fiducia nella propria eterosessualità e in quanto tale si sente incapace di ricambiare (debito negativo).

Nel modello relazionale simbolico un altro elemento essenziale è l’intergenerazionalità e la transgenerazionalità che con Scabini e Cigoli possiamo sintetizzare nel Famigliare.

I nostri autori scrivono “il famigliare lega tra di loro i vivi e i morti, le generazioni passate e quelle future”. Già nelle definizioni di Freud sulla gelosia troviamo questa dimensione, poiché il mancato scambio è legato ad esigenze inconsce che fanno riferimento alle relazioni con le figure primarie (padre, madre, fratello, sorella, etc.) anche se restano ancorate allo sviluppo individuale e non vengono analizzate dal punto di vista delle relazioni familiari.

Il famigliare però è qualcosa in più rispetto alle relazioni familiari. Esso è:

la matrice simbolica del legame tra i sessi, le generazioni e le stirpi e dà sostanza simbolica alle singole famiglie e alle varie forme familiari. La famiglia come gruppo sociale primario che lega tra loro generi e generazioni e che produce incessantemente il passaggio tra natura e cultura può far luce sugli aspetti generativi-degenerativi delle strutture simboliche – L’inconscio diventa: – il sedimento e custode di tutto ciò che è accaduto nello scambio tra famiglie e stirpi.

Ecco che per poter comprendere la gelosia all’interno del modello relazionale-simbolico, si devono prendere in considerazione:

  • la relazione coniugale che è caratterizzata sulla reciprocità del dono e del debito e si basa sul patto fiduciario;
  • la relazione genitoriale si basa sulla cura responsabile dei figli;
  • la relazione tra stirpi che è basata sulla cura dell’eredità.

 

Credenze di mascolinità: come l’eccessiva ricerca di virilità può portare a problemi di salute?

Il termine ‘virilità precaria’ indica la credenza che la propria mascolinità e virilità debbano essere dimostrate tramite comportamenti di forza e di dominio e può portare ad effetti negativi sulla salute.

 

È noto in letteratura che gli eventi stressanti portano a una maggior produzione di cortisolo, un tipo di ormone, conosciuto come ormone dello stress; il rilascio di cortisolo è dato dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che riflette la naturale risposta dell’organismo alla presenza di stressors prolungati (Cohen, 2007).

Il cortisolo ha in sé una funzione adattiva, viene infatti messo a disposizione dall’organismo allo scopo di consentirci di affrontare una situazione stressante, provocando un aumento della glicemia e dei grassi nel sangue, mettendo così a disposizione l’energia di cui il corpo ha bisogno per fronteggiare la situazione stressante; inoltre vengono liberate catecolamine tra cui l’adrenalina e la noradrenalina, provocando così un aumento della pressione sanguigna. Una volta terminata la circostanza stressante, il corpo si rilassa e ritorna ad una condizione di quiete data dalla minor concentrazione di cortisolo nel sangue (Juster, McEwen, &Lupien, 2010).

Una sovra-attivazione che perdura nel tempo dell’asse HPA può portare ad alti rischi di sviluppare diverse problematiche tra cui problemi cardiovascolari, disfunzioni metaboliche, danni cognitivi ed un aumento generale della mortalità (Juster et al., 2010).

Uno dei fattori che potrebbe portare ad un aumento significativo di cortisolo, è un tipo di credenza, denominata ‘virilità precaria’ la quale consiste nel credere che la propria mascolinità e virilità debbano essere dimostrate tramite comportamenti di forza e di dominio, e che la debolezza per l’uomo sia qualcosa di inaccettabile. E’ dimostrato in letteratura come le persone che hanno questo tipo di credenze tendano anche a mettere in atto più frequentemente comportamenti dannosi per la propria salute (come ad esempio fumare, bere alcol, mangiare male) rispetto a coloro che non ricercano costantemente la virilità e la mascolinità (Courtenay, 2000); inoltre la virilità precaria è anche associata ad una scarsa cura della propria salute, a una mancata ricerca di cure preventive, e alla noncuranza di eventuali terapie nel caso di problemi di salute.

Una ricerca pubblicata sul giornale Psychology Of Men & Masculinities (Himmelstein, Kramer, & Springer, 2018), ha indagato che impatto hanno sull’individuo le credenze di mascolinità. La ricerca ha messo in luce che non tutti coloro che hanno alti livelli di credenze sulla mascolinità hanno alti livelli di cortisolo; infatti, solo gli individui che temevano di perdere lo status di ‘uomo virile’ mostravano una correlazione positiva significativa con i livelli di cortisolo.

I ricercatori sottolineano l’impatto clinico di questa ricerca, dato che individui con credenze di mascolinità preminenti hanno più problemi di salute fisica e psichica legati appunto alla presenza eccessiva e duratura di cortisolo (Himmelstein et al., 2018).

 

Harry Potter – La LIBET nelle narrazioni

Tutti lo conoscono, o quanto meno lo hanno sentito nominare almeno una volta. E’ il mago più famoso del mondo, ed ha solo 11 anni: Harry Potter.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 2) Harry Potter

 

La fama di Harry lo precede per via del suo passato. Il piccolo mago infatti, da pochissimi mesi al mondo, assiste all’uccisione dei suoi genitori (in particolare della madre) da parte del mago più crudele di sempre: Lord Voldemort, il quale cerca poi di uccidere anche lui con una potentissima maledizione, senza però riuscirci perché la stessa gli rimbalza addosso, distruggendolo.

Diventato orfano, Harry viene dato in affidamento ai suoi zii, da sempre ‘babbani’, che non appartengono cioè il mondo della magia. Proprio per questo motivo allevano il piccolo Harry come se fosse un mostro. Sono del tutto anaffettivi, vivono la presenza di Harry in casa come un peso, cosa che li porta a maltrattarlo continuamente, con commenti sprezzanti sulla sua natura magica, sui suoi genitori morti, o sulla sua persona in generale, talvolta essendo addirittura violenti. Come se non bastasse, Harry è costretto a subire costantemente le vessazioni del viziatissimo cugino.

Tutto ciò diventa base fertile per lo sviluppo di un tema di minaccia terrifica da parte del piccolo mago.

Alla luce di ciò è comprensibile come nel corso dei film emerga spesso un vissuto di fragilità da parte del ragazzo, che nonostante dimostri di avere grandi doti magiche, non si sente mai all’altezza delle situazioni in cui si trova.

Essere solo per Harry significa essere debole e indifeso, è per questo che quando riesce finalmente ad iniziare la scuola di magia di Hogwarts e conosce quelli che diventeranno poi i suoi migliori amici (Ron ed Hermione), Harry capisce finalmente cosa significa avere una famiglia, degli amici, cosa significa dare e ricevere amore. Questa condizione lo rende felice, lo completa e soprattutto lo tutela da quel senso di solitudine e fragilità. Proprio per questo Harry sviluppa un senso di protezione verso le persone che ama, che diventa per lui un dovere, un imperativo di vita. Harry, così, impara a controllare le situazioni di minaccia buttandocisi a capofitto, proprio al fine di evitare che qualcuno si faccia male. Ecco che allora affina gli incantesimi, migliora la tecnica e impara ad utilizzare la magia al meglio che può per essere sempre in prima linea a difendere gli amici. Non a caso Harry mostra di essere tanto più performante, quanto più sente avvicinarsi la minaccia. Infatti, è proprio quando i suoi amici o le persone che ama sono in pericolo, che il suo piano prescrittivo emerge maggiormente: è infatti il momento in cui ad Harry riescono gli incantesimi più difficili o mostra capacità e doti degne di un mago molto esperto, che in condizioni di bassa attivazione non mostrerebbe.

Gli anni passano, Harry frequenta il terzo anno della scuola di magia. Ha una cerchia di amici folta e amorevole, i professori lo hanno accolto come un figlio, così come le famiglie dei suoi amici; ha da poco ritrovato anche il suo padrino (Sirius Black), e tutto sembra procedere a gonfie vele. Momenti di difficoltà ci sono stati per via della minaccia dei seguaci di Voldemort, ma Harry è sempre riuscito a cavarsela con le sue forze, forte dell’amore di chi ha avuto vicino.

E’ a questo punto però che le voci su un possibile ritorno del mago oscuro si fanno sempre più consistenti, generando panico e terrore nel mondo della magia. Harry rimane inevitabilmente colpito da questo: il ritorno di Voldemort significherebbe per lui risvegliare i mostri del suo passato, tornare ad avere un contatto con le sue sensibilità dolorose di solitudine, e quindi di fragilità e debolezza. Senza contare che il ritorno di Voldemort (e la possibilità di perdere quanto ora ha di più caro), porterebbero alla luce il vissuto traumatico che l’ha reso famoso.

Ecco che Harry inizia ad avere i primi incubi.

Ma la vera rottura del suo piano si avverte quando, al termine del ‘Torneo 3 Maghi’ (un torneo tra le tre principali scuole di magia esistenti) Harry, intrappolato dai seguaci di Voldemort, assiste inerme al ritorno del mago oscuro, il quale uccide davanti ai suoi occhi un suo caro amico.

Per la prima volta Harry Potter non riesce a controllare una situazione di minaccia, il suo piano prescrittivo fallisce.

I lasciti di questo evento perseguiteranno Harry nelle fasi successive della narrazione.

Gli incubi notturni si aggravano, inizia a soffrire di frequenti allucinazioni, flashback relativi all’evento, spesso anche con episodi dissociativi. Per fortuna è di un personaggio di fantasia che stiamo parlando, perciò ad Harry è bastato scuotere la bacchetta magica per eliminare l’origine dei suoi problemi e tornare a condurre una vita serena ed equilibrata.

Nel mondo della psicoterapia invece, sarebbe stato sicuramente necessario qualche passaggio in più!

Pensiero consapevole e automatico – I contributi di Kahneman

Kahneman evidenzia come alcuni bias cognitivi possano interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi errori del terapeuta è molto spesso la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Il primo articolo della serie, pubblicato il 09 Gennaio su State of Mind, si è concluso con il riferimento alle teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia. Nel presente articolo esamineremo nel dettaglio una parte di queste importanti teorie.

 

L’attenzione

L’attenzione può portarci alla cecità. Quando concentriamo la nostra attenzione, per un motivo o per l’altro, su determinati particolari, altri stimoli sono del tutto scotomizzati. L’esperimento The invisible gorilla ne è un esempio suggestivo: concentrati nel contare i passaggi della palla di una squadra di basket gli osservatori non si accorgono che a un certo momento il campo è attraversato da un gorilla.

Quando si diventa esperti di una materia l’attenzione che si applica diminuisce. Gli psicoterapeuti esperti, ad esempio, possono compiere errori proprio perché pigri nell’aprirsi a valutazioni diagnostiche o a possibilità terapeutiche alternative a quelle praticate di routine.

La legge del minimo sforzo si applica sia allo sforzo fisico sia allo sforzo cognitivo (Kahneman, 2013).

Spostare l’attenzione da un compito all’altro è faticoso, impegna la memoria di lavoro in un duro sforzo, soprattutto quando si hanno limiti di tempo, quindi meglio evitare sovraccarichi mentali e selezionare compiti facili cui prestare attenzione.

Memoria e attenzione selettive sono processi molto presenti in psicopatologia e impegnano il terapeuta a dividere la concentrazione sul compito dal controllo intenzionale dell’attenzione. Controllare se la manopola del gas è chiusa richiede uno sforzo notevole per un ossessivo, mentre per un cultore della letteratura il mantenere l’attenzione concentrata sul romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega non è faticoso e non richiede autocontrollo. Le tecniche di mindfulness, in questo senso aiutano ad avere un’esperienza ottimale, ad attivare uno stato di flusso che libera risorse da impegnare verso il compito che si svolge con piena consapevolezza.

Una trappola da “attenzione polarizzata è insita nel concetto stesso di “diagnosi. In proposito si legga il resoconto dell’esperimento noto come “la beffa di Roshenam”.  Quando si formula una diagnosi, automaticamente, si percepiscono tutti gli elementi che la confermano e si trascurano quelli che la metterebbero in dubbio. Lo stesso si verifica quando si ha un principale interesse di studio. I costrutti in quel dominio si arricchiscono e si raffinano e dunque colgono aspetti della realtà sempre più numerosi. E’ normale tra colleghi dirsi che se un certo paziente andrà in un certo studio si prenderà certamente una certa diagnosi e viceversa se andrà in un altro. C’è chi vede dappertutto disturbi dell’umore, chi riconosce deficit metacognitivi ovunque e chi percepisce tracce di disorganizzazione dell’attaccamento in ogni paziente. Per dirla come lo direbbe nostro nonno “ognuno ha le sue fisse” e trova continuamente motivi per convincersi della loro bontà e importanza.

L’energia mentale che s’impegna in compiti eseguiti dal sistema 2 genera stanchezza e può indurre errori intuitivi, perché viene meno la funzione di monitorare e controllare pensieri e azioni suggerite dal sistema 1. Esiste pertanto un principio di ottimizzazione (Lorenzini, Scarinci, 2013) del funzionamento mentale che può indurre bias sia in relazione ai processi di tipo 1 per cui l’intuizione ci porta a scegliere acriticamente, sia riguardo ai processi di tipo 2 per cui la pigrizia comporta un cattivo funzionamento della razionalità.

Un terapeuta deve lasciarsi guidare dall’intuizione clinica ed essere spregiudicato e creativo in quella che Popper definisce “la logica della scoperta” in cui è attivo il sistema 1, ma poi deve entrare in quella che Popper chiama “la logica della giustificazione” che richiede un’analisi critica in cui invece è attivo il sistema 2.  Questa seconda fase è quella che richiede più fatica per cui è la prima a cedere quando si lavora in situazioni di stanchezza o di stress. Paradossalmente, liberi dalla voce critica del sistema 2, si può sperimentare una sensazione di fluidità ed efficacia mista a gratificazione per la propria bravura, che è simile alla sensazione di essere particolarmente bravi a guidare che si ha sotto l’effetto dell’alcol che peggiora in realtà la performance, ma ancor di più la capacità critica verso la performance stessa con un saldo positivo in termini di autoefficacia e dei conti per spese di riparazione della vettura. Un terapeuta stanco commette più errori e contemporaneamente si sente più bravo.

La riflessione su cosa pensiamo e su come pensiamo è oggetto del dibattito che si sta sviluppando di recente tra i cognitivisti.

Wells (2012) rileva come la tendenza a preoccuparsi eccessivamente, a ruminare, a focalizzare l’attenzione sulla minaccia e a far fronte al problema per mezzo dell’evitamento cognitivo possano interferire con il normale processo di adattamento psicologico e condurre a un pensiero costantemente orientato al pericolo e, quindi, al mantenersi dei sintomi (sindrome cognitiva-attentiva).

L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012). Questa modalità può essere riportata all’eccessivo controllo del sistema 2.

Alla disattivazione del sistema 2 fa riscontro una modalità di pensiero che troviamo in alcuni disturbi gravi di personalità (schizotipici, schizoidi, paranoici) o psicotici in cui l’over-inclusion, l’inclusione in una classe di elementi che “intuitivamente” possono presentare caratteristiche analoghe determina un grave distacco dal principio di realtà. Questi processi possono essere riportati all’eccessiva attivazione del sistema 1 e alla contestuale inattività del sistema 2.

In forme non patologiche questi processi possono interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi bias del terapeuta è lo stesso che ritroviamo alla base di molte patologie e cioè la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

L’associazione delle idee

Somiglianza, contiguità e causalità sono le tre leggi che Hume pose alla base dell’associazione delle idee. La memoria associativa combina le idee in associazioni consapevoli e inconsapevoli. Sappiamo che le nostre emozioni e i nostri comportamenti possono essere innescati da eventi di cui spesso siamo inconsapevoli.

Una parte importante del lavoro terapeutico ha, infatti, come obiettivo il miglioramento dell’autoriflessività, monitorare pensieri emozioni e comportamenti per portarli alla consapevolezza.

Alcuni esperimenti dimostrano che se, per esempio, si è sensibilizzati a pensare alla vecchiaia si tende ad agire come vecchi, così come comportarsi da vecchi rafforza il pensiero della vecchiaia. I nessi reciproci sono frequenti nella rete associativa ”mettono in relazione il passato con il presente e creano aspettative sul futuro”. (Kahneman, 2013).

Allo stesso modo potremmo dire che un terapeuta che percepisca il paziente come irrimediabilmente malato e non veda in lui risorse positive, ma solo deficit e sintomi, attiverà un fattore di mantenimento e cronicizzazione.

In termini causali, altresì, gli stimoli cui siamo sottoposti hanno un peso notevole nelle decisioni, il sistema 1 fornisce impressioni che possono trasformarsi in convinzioni che guidano scelte e azioni.  Migliorare le capacità di mastery consente di individuare le cause dei nostri stati emotivi ricorsivi e disadattivi e di intervenire sugli stati interni da cui sono generati, correggendo bias associativi che potrebbero farci credere che sono gli eventi a determinare l’intensità e la durata delle nostre emozioni. Anche il disputing empirico, logico e pragmatico è una tecnica molto utile allo scopo.

Fluidità cognitiva

La fluidità cognitiva si contrappone alla tensione cognitiva determinata da un problema che chiama all’opera il sistema 2. Quando tutto scorre, le cose vanno bene, il tutto è facile siamo sul sistema 1.

Possiamo però avere delle illusioni, non solo ottiche, ma di memoria e di pensiero. Vari esperimenti hanno dimostrato come siano possibili in uno stato di fluidità cognitiva le illusioni (Kahneman, 2013). Un primo elemento che entra in gioco è l’impressione di familiarità, qualcosa già visto in precedenza, con qualità di déjà vu, ci dà maggiore fluidità. Inoltre se qualcosa rende più facile i meccanismi associativi, tenderà a condurre il soggetto a credenze viziate da errori. La frequente ripetizione di un’affermazione diventa, per esempio, una verità, la familiarità dell’espressione la rende vera.

Gli studi sulle illusioni di verità ci indicano anche che riducendo la tensione cognitiva possiamo rendere più vere alcune affermazioni, ma anche che la mobilitazione del sistema 2, più analitico, porta una modalità più impegnativa ma anche più funzionale in alcuni casi rispetto al sistema intuitivo.

Poiché tutto porta a concludere che il lavoro migliore si faccia quando sono attivi e cooperativi entrambi i sistemi 1 e 2 ce la potremmo cavare dicendo che bisogna essere a un tempo intuitivi, creativi e critici, ma questo è un auspicio difficile da tradurre in pratica e allora è più facile distinguere i due momenti. Il tempo della seduta è quello dell’immersione nella relazione con il paziente, della creatività immediata e della fluidità, mentre il tempo della revisione critica e della progettazione delle mosse successive è quello tra una seduta e l’altra magari con l’aiuto di un supervisore che funge da “sistema 2 esterno”.

Un ruolo importante sulla fluidità cognitiva, sulla creatività e le intuizioni di coerenza lo svolge anche l’umore positivo.

Si crea dunque un circolo virtuoso positivo per cui con un paziente con cui stiamo bene lavoriamo meglio e questo ce lo fa sentire sempre più gradevole. Ciò può portare progressivamente ad abbassare il livello di supervisione del sistema 2 incorrendo in errori senza assolutamente avvedersene. Ovviamente si dà anche il caso inverso con quei pazienti che non si ha voglia di trattare.

In sostanza la funzione principale del sistema 1 è quella di garantire regolarità agli avvenimenti che ci perturbano, cioè costruire schemi d’idee associative che rappresentano la struttura degli eventi della nostra vita. Previsioni e aspettative guidano così il nostro agire e determinano relazioni causali tra gli eventi.

Il sistema 1 ci fa risparmiare tempo e fatica perché salta alle conclusioni. Se le conclusioni tendono a essere corrette il costo di un errore può essere sopportato, ma se la posta in gioco è alta e la situazione incerta meglio avvalersi del sistema 2. Il primo tende a credere, ”quello che si vede è l’unica cosa che c’è”, per dirla con Kahneman, il secondo a dubitare e considerare le informazioni in modo sistematico e analitico. Il sistema 1, quindi, influenza anche le decisioni più razionali.

Esso fornisce valutazioni di base per l’adattamento. Valuta se le situazioni sono positive o negative e dal punto di vista evolutivo tutto ciò è estremamente importante. Calcola somiglianze e differenze, nessi causali, disponibilità, prototipi. Valuta in base ad una scala d’intensità che è applicata a dimensioni diverse e calcola più di quanto sarebbe necessario generando risposte rapide (euristiche) a domande difficili senza richiamare il sistema 2 che in alcune circostanze per pigrizia avvalla la risposta euristica.

Insomma il sistema 1 è sì un po’ approssimativo ma per questo molto rapido e spesso la rapidità è più importante dell’assoluta precisione, talaltra è l’inverso. L’affetto, l’umore e le emozioni determinano le valutazioni del sistema 1 con il bene placido del sistema 2 che assume per così dire un atteggiamento accomodante. Per questo spesso è necessario andare a cercare “quello che non c’è” perché questa ricerca potrebbe aprirci prospettive diverse e fornirci elementi che possano aiutare a prendere decisioni più razionali. Un po’ come quando si è innamorati, si vedono solo le caratteristiche positive della persona che stiamo frequentando. A quel punto dovremmo chiederci cosa c’è che non va in questa persona, qual è la sua “ombra”, quali sono le sue caratteristiche negative? E con il paziente cosa non ho visto, cosa non ho considerato, cosa mi potrebbe sfuggire?

D’altronde, se avessimo sempre attivo quel criticone del sistema 2 quale partner supererebbe lo screening iniziale meticoloso? non ci innamoreremmo e la specie si estinguerebbe.

 

Nei prossimi articoli saranno analizzati gli ulteriori contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia

 

Altri articoli sull’argomento:

 

Silenzio ed espressione dell’inconscio: il silenzio comunicativo nella seduta psicoanalitica

Attualmente il ruolo scientifico e culturale del silenzio è tornato ad essere soggetto di interesse e di studio. Uno dei silenzi che sta attraendo nuovamente la curiosità, del quale parleremo nell’articolo, è quello nella seduta psicoanalitica

 

Il silenzio, nella sua definizione di evitamento del rumore superfluo derivato dalle innovazioni delle tecnologie comunicative e lavorative, è tornato di grande interesse nella cultura accademica e di massa  (Gross, 2018). Il valore benefico di passare del tempo fisico ed emotivo senza distrazioni e/o sovraccarico di stimoli sensoriali è stato riconfermato sia dal punto di vista psicologico (Price-Mitchell, 2013) che dal punto di vista fisiologico (Novotney, 2011). Assieme alla ricerca di spazi igienicamente silenziosi, la letteratura divulgativa suggerisce che esso sia accompagnato da altre attività ancestrali dell’evoluzione umane, come passare del tempo nella Natura (Schuling, Van Herpen, de Nooij, de Groot e  Speckens, 2018) o attuare esercizi fisici (Lieberman, 2012).

Una tipologia di silenzio che ha attirato nuovamente l’attenzione da parte del panorama psicologico e non è quello legato alla seduta psicanalitica (di Diodoro, 2019). L’approccio psicanalitico, che in questi anni ha avuto una riscoperta e una rinnovata popolarità (Burkeman, 2016), ha come assoluto fondamento il flusso di comunicazione verbale da parte del paziente (Ezriel, 1972). Come indica lo psichiatra Fabrizio Asoli (2019), il silenzio all’interno delle terapie psicanalitiche è infatti visto esternamente o a primo impatto come un fatto negativo, come un qualcosa che a prima vista possa inficiare il rapporto terapeutico rallentando così il percorso del paziente o peggio invalidare il percorso di analisi.

In realtà, come specifica sempre Asoli, è il contrario: questo silenzio è l’utilizzo del tempo nel quale lo psicanalista permette al paziente di adattarsi all’ambiente e all’atmosfera terapeutica, creando una relazione costruita sull’empatia e sulla fiducia. Di fatto, anche attraverso l’assenza di parole ed attraverso l’utilizzo della comunicazione para e non verbale, il paziente contestualizza feedback riguardanti l’ambiente e le sue sensazioni sul processo terapeutico (Liegner, 1974).

Permettendo al paziente di stare in silenzio, il terapeuta gli lascia spazio alle riflessioni e alle emozioni, facendo sì che esso possa poi iniziare il suo percorso analitico con più sicurezza: uno degli errori meno preferibili da attuare, se non assolutamente da evitare, da parte dell’analista, è quello di dare l’idea di avere fretta o imporre dei totali limiti di tempo alle sedute e al processo terapeutico, così da rovinarlo (Cicerone, 2019). Al contrario, permettere che ci siano spazi vuoti di parole crea la sensazione che non ci sia inibizione verbale, dando vita ad un percorso più sereno e conciliato fra le due parti, soprattutto se il paziente manifesta sintomatiche nevrotiche (Levy, 1958). L’utilizzo degli spazi vuoti deve così diventare uno strumento di base per i terapeuti, una risorsa preziosa che porti beneficio e fluidità al rapporto analitico col paziente (Sabbadini, 2006).

Come disse Paul Watzlawick “non si può non comunicare” (1971) e il silenzio nella seduta psicanalitica può essere, nei tempi e negli spazi giusti, uno dei migliori tipi di comunicazione terapeutica.

 

L’abuso di alcol nella schizofrenia e nel disturbo schizoaffettivo

In un recente studio è stata esplorata la possibile eziologia alla base della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare il disturbo da uso di alcol in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo

 

La schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo sono inclusi, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), nella sezione dei disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici. Essi causano un’evidente e significativa disabilità, i cui sintomi principali includono allucinazioni, deliri, disorganizzazione del pensiero e decadimento cognitivo. Nel disturbo schizoaffettivo, i sintomi psicotici si verificano in concomitanza con i disturbi dell’umore, depressione o mania. Nonostante questi disturbi non abbiano un’alta prevalenza nella popolazione, tra coloro che soffrono di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo il disturbo da uso di alcol (AUD) è molto comune e contribuisce al peggioramento dei sintomi rispetto ai soggetti che non presentano comorbilità con un disturbo da uso di sostanze. Infatti, gli individui con disturbi psicotici hanno il rischio tre volte maggiore di consumare alcolici rispetto alla popolazione generale. Per gli individui che hanno la schizofrenia, l’AUD è associato a depressione, suicidio, non aderenza ai farmaci, problemi fisici cronici, aggressività, violenza, incarcerazione e alti tassi di ricovero in ospedale. Quali sono le cause di questa co-occorrenza? In un recente studio (Archibald, Brunette, Wallin, & Green, 2019) è stata esplorata la possibile eziologia della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare l’AUD in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo; lo studio ha inoltre proposto linee guida per un’interazione più efficace tra trattamenti farmacologici e psicosociali.

In primo luogo, numerosi studi supportano l’idea che alcuni fattori genetici possano portare ad un aumento del rischio per lo sviluppo di schizofrenia e disturbo da uso di sostanze. Questi studi sono stati integrati con teorie più recenti che hanno sottolineato l’importanza dell’interazione tra vulnerabilità genetica e ambientale nell’emergere della sintomatologia psicotica. La teoria è riconosciuta come teoria dei due colpi (Rosenthal, 1970) e sostiene che il rischio genetico per la schizofrenia associata al consumo di alcol durante l’adolescenza aumenti il rischio di comorbilità tra il disturbo psicotico e il disturbo da uso di sostanze nell’età adulta. Un’ulteriore teoria che spiega l’elevato tasso del disturbo da uso di sostanze tra gli individui affetti da schizofrenia è l’ipotesi dell’automedicazione (Khantzian, 1997) la quale suggerisce che le persone usino sostanze per trovare sollievo dai sintomi o nel tentativo di ridurre gli effetti collaterali derivanti dai trattamenti antipsicotici. Sebbene clinicamente plausibile, questa teoria non è stata supportata dalla ricerca. La teoria più recente, riconosciuta come ipotesi di dipendenza primaria o sindrome da deficit di ricompensa (Khokhar, Dwiel, Henricks, Doucette, & Green, 2018), sostiene che la co-occorrenza tra schizofrenia e disturbo da uso di sostanze possa essere correlata ad una disregolazione del sistema di ricompensa mesocorticolimbica nel cervello. Altre variabili che sono state prese in considerazione come possibile eziologia della comorbilità dei due disturbi sono: scarso sviluppo cognitivo, inadeguato funzionamento sociale, effetti della povertà e ambienti sociali poveri.

Il trattamento ottimale combina l’intervento farmacologico e altre modalità terapeutiche, per lo più interventi psicosociali, per affrontare sia il disturbo psicotico che l’AUD. In breve, per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, sebbene pochi studi abbiano esaminato gli effetti dei farmaci (ad es. naltrexone, disulfiram e acamprosate) che trattano l’AUD tra gli individui con disturbi psicotici, sono presenti sufficienti prove della sicurezza e dei potenziali benefici dei farmaci per incoraggiarne un maggiore utilizzo in questa popolazione. In relazione ai trattamenti psicosociali, invece, sembra avere risultati soddisfacenti sia nel trattamento della AUD che della schizofrenia la terapia di gruppo che utilizza la terapia cognitivo comportamentale, la terapia di potenziamento motivazionale e la gestione delle emergenze. Quest’ultima comporta ricompense concordate, immediate e tangibili, per rafforzare comportamenti positivi, come la frequenza del trattamento o l’astinenza dalle sostanze alcoliche. Vengono utilizzati anche interventi più intensivi, tra cui il trattamento della comunità assertiva (ACT) e programmi residenziali, che sembrano avere risultati positivi sul benessere delle persone affette da disturbi dello spettro schizofrenico e AUD. L’ACT è un modello di cura che offre una gamma di servizi completi (attività di sensibilizzazione della comunità, disponibilità 24 ore su 24 per comunicazioni di emergenza, trattamenti farmacologici e comportamentali per il disturbo da sostanze) attraverso un team multidisciplinare. I programmi residenziali, infine, possono essere particolarmente indicati per i senzatetto o per coloro che non hanno avuto una risposta ottimale ad altre tipologie di intervento. Gli alcolisti anonimi sono sottoutilizzati tra soggetti con AUD e disturbi psicotici ricorrenti, è più opportuno utilizzare un programma di riunioni a 12 fasi chiamato doppio recupero anonimo. Nello specifico, il doppio recupero anonimo è un programma in 12 fasi su misura per le persone con malattie mentali e disturbi associati all’uso di sostanze. Infatti, le persone che hanno disturbi psicotici traggono beneficio dall’educazione e dal sostegno che ricevono partecipando, tuttavia le persone che hanno psicosi acute potrebbero non essere in grado di tollerare queste riunioni. Le prove a sostegno di questo trattamento mostrano tassi più elevati di astinenza, una migliore aderenza ai farmaci psichiatrici e un miglioramento del funzionamento personale per coloro che hanno partecipato a gruppi a doppio focus rispetto a quelli che hanno partecipato solo ad alcolisti anonimi. La ricerca sull’efficacia di questi interventi e sull’eziologia della comorbilità tra disturbi dello spettro schizofrenico e AUD è ancora in corso.

 

Loot Boxes: quando i videogames rischiano di diventare gioco d’azzardo

Le Loot Boxes sono dei pacchetti premio, dal contenuto segreto, all’interno dei videogames che possono essere acquistati attraverso soldi o punti ottenuti nell’ottica di migliorare l’esperienza di gioco. Numerosi studiosi hanno notato come le Loot Boxes condividano numerose caratteristiche strutturali e meccanismi psicologici con il gioco d’azzardo.

 

Probabilmente il termine il Loot Boxes (o loot crate) al grande pubblico risulta particolarmente oscuro, e spesso anche tra gli utilizzatori di videogames si può trovare chi ne ignora definizione e caratteristiche. Le Loot Boxes sono dei pacchetti premio all’interno dei videogames che possono essere acquistati attraverso soldi (generalmente con carta di credito) o punti ottenuti durante il gioco. Ciò che c’è all’interno di queste Loot Boxes è segreto e può variare, ma permette di migliorare l’esperienza di gioco attraverso contenuti, accessori e caratteristiche non ottenibili regolarmente (Griffiths, 2018). Per questo motivo, i video-giocatori sono stimolati  ad acquisire questi forzieri premio per sperare che all’interno ci siano oggetti rari o introvabili che possano aiutarli a migliorare ed andare avanti. Tuttavia, quando i gamers acquistano le Loot Boxes non hanno la possibilità di sapere in anticipo il contenuto o il valore delle ricompense e si ritrovano quindi ad acquistare con soldi veri contenuti virtuali completamente casuali (Drummond & Sauer, 2018).

Queste peculiarità delle Loot Boxes hanno portato numerosi studiosi a notare come condividano numerose caratteristiche strutturali e numerosi meccanismi psicologici tipici del gioco d’azzardo (Griffiths, 2019). Gli effetti sonori e visivi generati dall’apertura di una Loot Boxes sono molto simili a quelli tipici delle slot machines con colori accesi intermittenti e suoni ripetitivi che attirano l’attenzione (Drummond & Sauer, 2018). Inoltre, gli algoritmi sottostanti le Loot Boxes generalmente tendono a favorire l’erogazione di premi ad alto valore dopo che sono stati aperti un numero variabile di scatole premio precedenti e questo tipo di programma di rinforzamento è molto comune in diverse tipologie di gioco d’azzardo (Drummond & Sauer, 2018; Griffiths, 1996). Questo processo viene definito rinforzo a rapporto variabile e consiste nel rendere la ricompensa, a seguito di un’attività, imprevedibile per l’individuo che non sa quando riceverà il premio (Fester, & Skinner 1957). I video-giocatori potrebbero infatti aprire un numero sempre maggiore di Loot Boxes spinti dalla speranza di ricevere una ricompensa di alto valore (Drummond & Sauer, 2018; Griffiths, 1996).

Drummond and Sauer (2018) hanno condotto una analisi su 22 videogames contenenti Loot Boxes analizzando se fossero classificabili secondo i cinque criteri che definiscono un attività come gioco d’azzardo: 1) è presente uno scambio di denaro o di beni; 2) lo scambio di denaro, oggetti o beni è determinato da un evento il cui risultato è sconosciuto; 3) Il risultato dell’attività è, almeno in parte, dovuto al caso; 4) la mancata partecipazione all’attività permette di non avere alcuna perdita; 5) la ricompensa ha un valore maggiore della prima spesa effettuata per partecipare all’attività. I due autori concludono nel loro report per il parlamento australiano (Environment and Communications References Committee, 2018, pag. 32) che quasi la metà dei videogames esaminati ha soddisfatto tutti i criteri, e più di un quinto dei videogames permette anche agli utenti di incassare le vincite virtuali convertendole in soldi reali, costituendo, secondo il loro punto di vista, chiaramente una forma di gioco d’azzardo.

Ulteriori studi hanno approfondito la relazione tra Loot Boxes e rischio di sviluppare problemi legati al gambling, confermandone il legame (Griffiths, 2019; Macey, & Hamari, 2019; Zendle, & Cairns, 2018; 2019). Se da un lato, infatti, le persone che hanno già difficoltà legate al gioco d’azzardo patologico potrebbero trovare nei videogames che implementano le Loot Boxes un’ulteriore rischio per perpetrare la tendenza a spendere soldi in attività ludiche basate sulla scommessa, dall’altro lato le numerose caratteristiche che accomunano le Loot Boxes e il gambling possono agire da “ponte” per la promozione di problemi legati al gioco d’azzardo per i videogiocatori (Zendle, Cairns, Barnett, & McCall, 2020). Questo pericolo può essere particolarmente saliente per i videogiocatori più giovani che tendono ad essere più vulnerabili all’acquisto impulsivo ed eccessivo di Loot Boxes e potrebbero essere portati con maggiore probabilità a passare dallo scommettere in modo virtuale dei videogames alle scommesse con soldi reali (Griffiths, 2019). Nonostante tra gli esperti ci sia consenso sulla possibile associazione tra alcune forme di Loot Boxes ed il gioco d’azzardo patologico, gli studi sulla tematica sono ancora limitati (Griffiths, 2019). Per questo motivo, numerosi paesi hanno aperto tavoli tecnici e istituito commissioni specifiche sulla tematica per stabilire se ci siano le basi per classificare le Loot Boxes come attività di gambling e se fosse quindi necessario regolarizzare le Loot Boxes secondo la legislazione applicata ai giochi d’azzardo.

Le commissioni e le agenzie per il Gioco d’azzardo di sedici paesi (Austria, Francia, Gibilterra, Irlanda, Isola di Man, Jersey, Lettonia, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, e Stato di Washington negli Stati Uniti) hanno firmato nel 2018 una dichiarazione di impegno nella regolamentazione del gioco d’azzardo a causa delle preoccupazioni riguardanti la sottile linea tra gioco e gioco d’azzardo (Gambling Commission, 2018). Questo gruppo di lavoro che si è successivamente allargato con l’inserimento di Danimarca, Finlandia e Cipro, ha stilato un documento finale congiunto anche con il contributo di Australia, Estonia e Germania che ha sottolineato come ciascun paese sia chiamato ad implementare una regolamentazione delle Loot Boxes secondo i criteri di gioco d’azzardo applicati a livello nazionale con l’intento di trovare pratiche comuni anche a livello internazionale (Gaming Regulators European Forum, 2019). In tal senso Belgio ed Olanda (Belgian Gaming Commission, 2018; Kansspelautoriteit, 2018) sono intervenuti classificando alcune forme di Loot Boxes come gioco d’azzardo e quindi applicando a questi videogames le stesse leggi per giochi come slot-machines, lotterie e scommesse. Altri paesi come Germania e Francia (Autorité de régulation des jeux en ligne, 2018 Kommission für Jugendmedienschutz, 2018) hanno invece stabilito che, secondo le leggi nazionali, non possono essere classificate come vero e proprio gioco d’azzardo, ma che condividono diversi aspetti con il gambling e che sono quindi necessarie ulteriori analisi ed approfondimenti anche attraverso linee guida condivise a livello internazionale. In Italia, la tematica resta ancora poco affrontata e sicuramente a destare maggiore sorpresa è che sebbene in altri paesi la discussione si sia intrapresa già da diversi anni, al 2019 in Italia sembra non essersi accorti della questione.

Eppure le Loot Boxes sono un fenomeno estremamente ampio e globale e gli acquisti di contenuti, accessori, e caratteristiche all’interno dei videogames hanno un giro finanziario che è stato stimato intorno ai 90 billioni di dollari nel 2017 (Editorial, 2018). Le aziende di videogames ed intrattenimento, infatti, tendono a sottostimare il fenomeno, portando Electronic Arts (una delle più grandi aziende di videogiochi nel mondo) a definire le Loot Boxes meccanismi a sorpresa equiparabili agli Ovetti Kinder (Digital, Culture, Media and Sport Committee, 2019), ma in seguito alle indicazioni dei diversi paesi si sono comunque mostrate in grado di trovare compromessi per fornire esperienze di gioco sempre più piacevoli riducendo il rischio di conseguenze negative per gli utenti senza grosse ripercussioni sui profitti aziendali (McCaffrey, 2019). Risulta quindi necessario iniziare un percorso di identificazione delle strategie di regolamentazione più adatte alle Loot Boxes che coinvolga tutte le parti in causa verso una responsabilità sociale nell’uso delle stesse nei videogiochi (King, & Delfabbro, 2019). Naturalmente, l’intento di una regolamentazione non sarebbe quello di demonizzare le Loot Boxes o i videogames che le utilizzano, ma semplicemente rendere più consapevoli gli utenti dei rischi collegati a queste pratiche e cercare di evitare che vengano utilizzate forme di monetizzazione predatorie (King, & Delfabbro, 2019) che vadano a discapito degli utenti, specialmente i più giovani.

 

Scuola: integrare l’integrazione. Prospettive a confronto

L’inclusione di alunni con disabilità è da sempre un tema centrale per la pedagogia della scuola italiana. È una pratica attiva che dà luogo a un processo di crescita per gli alunni con disabilità, ma anche per i loro compagni.

Maddalena Mauri e Silvia Busti Ceccarelli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Infatti, secondo la pedagogia italiana, crescere è un processo individuale che ha però le proprie fondamenta nel rapporto e nella relazione con gli altri; per questo la scuola si propone di essere una comunità educante, che accoglie ogni alunno con l’obiettivo di fornire le condizioni ideali a consentirne il massimo sviluppo (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Linee Guida per l’Integrazione Scolastica degli alunni con disabilità

Da un punto di vista giuridico, la tutela di tale diritto è garantita dalla norma costituzionale del diritto allo studio, la quale, interpretata alla luce della legge 59/1997 e del DPR 275/1999, prevede che le scuole, con autonomia e flessibilità, garantiscano le condizioni migliori perché avvenga lo sviluppo e la crescita formativa di ciascun alunno (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

L’Italia presenta una delle legislazioni più avanzate in materia di garanzia di diritto allo studio degli alunni con disabilità (Caturano 2016).

La costituzione italiana sancisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità sociale e siano uguali dinnanzi alla legge, e che sia dovere della Repubblica rimuovere ogni ostacolo che impedisca il pieno sviluppo dei cittadini.

All’interno delle scuole speciali e delle classi differenziali, è stato fin da subito evidente il problema dell’emarginazione sociale degli alunni con disabilità. Grazie alle leggi 118/71 e alla successiva 517/77 venne predisposto che l’obbligo scolastico dovesse avvenire in classi normali, stabilendo con chiarezza presupposti, strumenti e finalità che l’intero consiglio di classe deve attuare al fine di garantire l’integrazione scolastica dell’alunno con disabilità e infine inserendo la possibilità dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno. La legge 104/92 prevede per l’alunno con disabilità un percorso formativo individualizzato, che a livello fattuale si applichi tramite il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI). Data l’importanza di tali documenti, è necessario che nella loro stesura vengano coinvolte amministrazione scolastica, organi pubblici di cura della persona e famiglie. Inoltre è necessario che vengano sottoposti a verifiche e modifiche in itinere (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Nel 2001, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha approvato la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health – ICF) raccomandandone l’uso agli stati membri. L’ICF, incarnando perfettamente la visione sociale e non soltanto sanitaria della disabilità, prevede un’attenzione alle potenzialità complessive e alle diverse risorse della persona oltre che al contesto, personale, naturale, sociale e culturale in cui esse possono esprimersi. Il modello introdotto dall’ICF è quello bio-psico-sociale, che correla le condizioni di salute della persona alle risorse e agli ostacoli ambientali presenti. La Diagnosi Funzionale elaborata dagli enti di cura è oggi redatta in base al modello ICF (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). Nel prossimo futuro il Profilo Dinamico Funzionale andrà a formare, insieme alla Diagnosi Funzionale, il Profilo di Funzionamento, nuovo documento che sarà redatto secondo ICF.

Con la legge 59/1997 è stata attribuita alle istituzioni scolastiche autonomia nella realizzazione dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, il cui obiettivo primario deve essere lo sviluppo delle competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione e nella relazione e socializzazione. Tali scopi possono essere raggiunti tramite una pianificazione attenta e precisa degli interventi educativi, formativi e riabilitativi così come previsto dal PEI. È il Dirigente scolastico ad essere il garante dell’offerta formativa che viene progettata ed attuata dall’istituzione scolastica per tutti gli studenti, dunque, anche quelli con disabilità. Il Piano dell’Offerta Formativa (POF) deve prevedere la possibilità di dare risposte precise ad esigenze educative individuali; in quest’ottica, la presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso, un’emergenza, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema già individuata in via previsionale e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

La definizione di integrazione o inclusione degli alunni con disabilità prevede che essi facciano esperienze e apprendano insieme agli altri, condividendo obiettivi e strategie, e non soltanto stando accanto agli altri. Per non disattendere questo obiettivo è necessario che la programmazione delle attività sia realizzata da tutti i docenti curricolari insieme all’insegnante di sostegno. L’intero corpo docente è chiamato a organizzare i curricula in funzione delle diverse attitudini cognitive, a gestire la classe e i materiali e a utilizzare strategie scolastiche in relazione ai bisogni di tutti gli alunni. Le strategie favorevoli da adottare comprendono: l’apprendimento cooperativo, il lavoro di gruppo e a coppie, il tutoring, l’apprendimento per scoperta, la suddivisione del tempo in tempi, l’utilizzo di mediatori didattici, di ausili informatici. È importante che gli insegnati predispongano il materiale in formato multimediale per favorire gli alunni che utilizzano supporti informatici (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). Nelle ore in cui non è presente l’insegnante per le attività di sostegno esiste il rischio che per l’alunno con disabilità non ci sia una adeguata tutela del suo diritto allo studio. È quindi compito di tale insegnante coordinare la rete delle attività anche in sua assenza, in modo che l’integrazione venga pienamente raggiunta (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). La documentazione relativa alla programmazione deve essere disponibile alla famiglia, la quale prende visione e può approvare il piano formativo. La famiglia ha diritto a partecipare alla stesura del PDF e del PEI, e alle loro successive verifiche. I rapporti tra famiglia e istituzione scolastica devono avvenire nella logica di supporto alle famiglie, le quali devono essere costantemente informate e coinvolte (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009). È importantissimo, soprattutto nel passaggio tra un grado e l’altro di istruzione, il fascicolo individuale dell’alunno con disabilità, il quale deve essere previsto a partire dall’inizio del percorso formativo del bambino. La documentazione dovrà essere completa e sufficientemente articolata per consentire alla nuova scuola di progettare al meglio i propri interventi. Nelle fasi di passaggio è consentito che l’insegnante del ciclo già frequentato partecipi alle fasi di accoglienza e di inserimento nel grado successivo. Il PEI dell’alunno con disabilità prevede un progetto che innalzi la qualità di vita del bambino o ragazzo che va al di là del percorso scolastico, con percorsi che ne sviluppino sia il senso di autoefficacia e autostima, sia le competenze necessarie a vivere in contesti di esperienza comune (Ministero della Salute, dell’Università e della Ricerca, 2009).

Grazie alla sopracitata legislatura e alle garanzie che da essa ne derivano, in meno di 20 anni (dal 1995 al 2013) gli alunni con disabilità integrati all’interno della scuola sono passati da 108.000 a 220.000, mentre gli insegnanti per le attività di sostegno da 35.000 a 102.000 (Caturano, 2016).

Evidence Based Education

La letteratura internazionale riporta, come risultato di studi di meta-analisi, che l’efficacia delle azioni nel campo dell’inclusione deve tener conto non solo delle strategie prescelte ma anche di altre variabili di grande importanza: l’organizzazione, le relazioni, la metodologia di lavoro, la disponibilità e la formazione dei docenti, le alleanze che si stabiliscono tra tutti i soggetti implicati.

L’Education Endowment Foundation (EEF), nel Regno Unito, si è occupata di sviluppare una guida per gli insegnanti e le scuole per l’adozione di approcci e strategie didattiche basate su evidenze scientifiche. Sono stati presi in esame 33 differenti strategie, tra le quali l’apprendimento cooperativo, l’utilizzo di tecnologie digitali, il feedback, il tutoring tra pari, l’apprendimento per scoperta, la metacognizione e l’autocontrollo, offrendo anche per ciascuno utili elementi di fattibilità (durata, costi, effetti stimati).

In Italia, nonostante la lunga storia di integrazione ed inclusione scolastica degli alunni con disabilità, costruita dal basso, dalle scuole, la quale pone il nostro paese in una posizione di avanguardia rispetto a molti altri paesi europei, manca una tradizione di ricerca empirica di efficacia degli interventi, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2011 nemmeno cita il modello italiano nel suo report. Questo aspetto può portare ad evidenziare alcune criticità: in Italia è prevalente un modello biomedico di assistenzialità, che si evidenzia con un crescente numero di certificazioni di disabilità; in molti casi il disagio viene patologizzato, con un conseguente dispendio di risorse ed energie, ma senza un efficace riconoscimento dei reali bisogni dell’alunno (Caturano, 2016).

Dalla Teoria alla Pratica

Come ci ricordano Ianes e Canevaro (2015) realizzare un buon intervento di integrazione scolastica è solo il primo passo verso quella che possiamo definire una scuola inclusiva, cioè una scuola che riconosce e valorizza pienamente tutte le differenze superando la dicotomia ‘alunni con BES’ vs ‘tutti gli altri’. In una scuola inclusiva il punto di arrivo, come ricorda don Milani, la giustizia, è l’equità, il fare parti uguali tra disuguali distribuendo le risorse secondo i bisogni di ciascuno. In quest’ottica, è importante che la figura dell’insegnante di sostegno si trasformi radicalmente ed entri a tutti gli effetti a fare parte di un corpo docenti che lavora in compresenza, senza essere colui a cui è delegata la gestione del singolo alunno con maggiori difficoltà. Così l’intero corpo docenti diventerebbe vero protagonista dell’integrazione, senza più affidarla solo a qualcuno (Ianes, 2015).

Nel volume Buone prassi di integrazione scolastica (Ianes e Canevaro, 2015), gli autori hanno reso disponibili 20 esempi di progetti realizzati presso scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e di secondo grado. Si tratta di una testimonianza preziosa in quanto spesso l’integrazione che viene fatta da anni con impegno nelle scuole italiane non lascia traccia: così l’intelligenza collettiva si perde e i professionisti si trovano isolati nella reiterazione di pratiche sempre uguali poco a rischio di contaminazione. Gli autori evidenziano alcuni elementi in comune a tutti i progetti che mantengono però una propria identità e originalità suggerendo l’importanza dell’utilizzo della creatività nel lavoro con la disabilità. Ecco di seguito quelle che vengono definite le costanti significative delle buone prassi raccontate e alcuni esempi tratti dai singoli progetti riportati nel testo.

1. Una forte collaborazione tra gli insegnanti. All’interno di un progetto volto a promuovere le abilità metacognitive in tre classi quarte della scuola primaria il presupposto da cui partono gli insegnanti per descrivere il lavoro svolto è che per praticare integrazione sia necessario coinvolgere l’intero corpo docenti e non solo l’insegnante di sostegno. Nello specifico, all’interno delle classi coinvolte vi è un alunno con difficoltà prevalentemente nell’aera socioaffettiva che il corpo docenti ha seguito con particolare attenzione nel corso del percorso proposto, adottando nei suoi confronti comportamenti simili in modo da creare una coerenza nella gestione educativa del bambino evitando così di proporre modelli di comportamenti differenti e pertanto confusivi.

2. Un’idea forte, unificante, che caratterizza la prassi: il razionale alla base del progetto è solido. Il secondo progetto descritto nel volume ha avuto come obiettivo quello di lavorare sui prerequisiti grafici per la scrittura in un gruppo di 10 bambini dell’ultimo anno della scuola d’infanzia e si è basato sulla didattica del gesto grafico che sottolinea l’importanza di lasciare spazio alla spontaneità del bambino. Sono state quindi proposte attività di gioco con le braccia, le mani e le dita, con i pregrafismi in verticale, giochi grafo-motori e di stimolazione dei prerequisiti motori. Il progetto è stato valutato con dei test standardizzati pre-post dimostrando l’efficacia dell’intervento.

3. Un’apertura all’esterno e un utilizzo delle risorse del territorio. Le prassi per una buona integrazione non si esauriscono nel PEI, ma confluiscono in un progetto di vita più ampio incoraggiando gli alunni a uscire dalla scuola e a esplorare l’ambiente circostante. È il caso ad esempio della prima e seconda classe di secondaria coinvolte in un progetto di educazione ambientale che ha previsto lo studio di diverse tipologie di insetti e altri materiali biologici trovati all’esterno spontaneamente dai ragazzi (coleotteri, cavallette, cimici, resti alimentari, crani d’uccello, etc..). Da questi materiali sono state ottenute delle realizzazioni permanenti esposte in mostre locali che hanno visto la partecipazione attiva degli alunni, i quali hanno contribuito nella preparazione degli allestimenti e nell’accompagnamento del pubblico con le spiegazioni di quanto raccolto. Gli alunni diversamente abili della scuola e delle classi coinvolte sono stati attivi e propositivi all’interno del progetto, anche nei confronti dei compagni.

4. Gli alunni sono i soggetti attivi della costruzione della loro conoscenza. Gli alunni vengono guidati verso l’acquisizione di nuove competenze che possano renderli soggetti attivi, autonomi e consapevoli. In questa direzione si muove ad esempio l’utilizzo di una didattica che prevede un approccio metacognitivo allo studio, soprattutto a partire dalla ricerca di materiali interattivi e multimediali per alunni con DSA e BES. Per quanto riguarda la scelta degli esercizi, vengono proposti ai ragazzi direttamente su computer o LIM dei file interattivi che permettono di operare un controllo sul proprio apprendimento con feedback immediato. Nel processo di studio, l’alunno viene lasciato libero di scegliere quali parti del testo nascondere e ripetere a voce alta, rendendolo principale responsabile del proprio processo di apprendimento con una modalità ingaggiante e al contempo supportiva.

5. Si rompono le barriere tra ordini di scuola e tra classi: alunni di diverse classi e scuole si trovano a lavorare insieme. Tra i molti progetti che hanno visto la cooperazione tra alunni e insegnanti di diverse classi e scuole citiamo un lavoro di integrazione realizzato in un Istituto Professionale per operatori e tecnici dell’abbigliamento, che è associato a un Istituto d’arte con il quale condivide diverse collaborazioni. Inoltre, l’Istituto Professionale collabora con una scuola dell’infanzia ubicata ai piani inferiori. Il progetto ha quindi coinvolto tutte le studentesse con disabilità presenti nell’Istituto Professionale, le classi prima, seconda e quarta dell’Istituto e quattro sezioni della scuola dell’infanzia e si è posto come obiettivo quello di fornire agli alunni occasioni di incontro in cui stabilire nuove relazioni, oltre alla creazione di opere d’arte e alla loro esposizione.

6. Le relazioni inclusive e solidali tra compagni di scuola con le loro varie diversità sono la trama indispensabile per tessere l’integrazione: la prima risorsa per l’integrazione sono i compagni. In un progetto a carattere biennale con bambini della scuola dell’infanzia e primaria sono stati attuati percorsi formativi volti a incrementare le abilità prosociali al fine di migliorare il livello di interazione e di empatia verso i compagni con disabilità. Tale formazione, all’interno della scuola dell’infanzia, ha previsto a) la creazione di situazioni ludico-ricreative in aula inserendo materiali che stimolassero l’esplorazione sensoriale in modo da essere più motivante e fruibile anche per gli alunni con disabilità, b) l’avvio di un programma di simulazione dei deficit visivi e motori di cui sono portatori alcuni compagni e c) il modellamento, da parte delle insegnanti, dei comportamenti adeguati verso i compagni disabili messi in atto dai bambini spontaneamente attraverso il rinforzo positivo. Con i bambini della scuola primaria il programma formativo si è basato principalmente su a) un programma operativo di educazione prosociale e b) sul modellamento di atteggiamenti adeguati nei confronti del bambino con pluridisabilità.

7. L’apprendimento cooperativo in piccoli gruppi eterogenei. Troviamo un chiaro esempio di tale prassi nella metodologia utilizzata nel progetto sopra citato volto a promuovere le abilità metacognitive nelle quarte della scuola primaria, in cui le tre classi coinvolte sono state divise in quattro sottogruppi eterogenei di 12/13 bambini. In questo modo è stato possibile agevolare il controllo degli apprendimenti e delle abilità acquisite da ciascuno e prestare più attenzione all’integrazione degli alunni con maggiori difficoltà.

8. La crescita psicologica di tutti gli alunni. Il progetto educativo sullo sviluppo delle intelligenze multiple attuato in una scuola dell’infanzia si è posto come finalità quella di valorizzare le abilità di ogni bambino, fornendo loro occasioni per sperimentarsi in differenti attività dando spazio alle diverse forme di intelligenza (intrapersonale, interpersonale, esistenziale, linguistica, matematica, naturalistica, visivo-spaziale, musicale, cinestetica, digitale, civica e di cittadinanza), adottando una modalità ludico-narrativa. L’innovatività di un progetto simile risiede nel fatto di dare agli alunni la possibilità di operare utilizzando molti linguaggi differenti senza dover padroneggiare per forza il classico canale linguistico e logico-matematico.

9. Il Piano Educativo Individualizzato o il Piano Didattico Personalizzato si raccordano con la programmazione di classe. Se gli strumenti della programmazione individualizzata non si integrano con quella della classe, si creano le condizioni per ulteriori frammentazioni. È pertanto importante conciliare i progetti mirati ai singoli alunni con gli obiettivi più estesi al gruppo classe, come emerge chiaramente da un progetto per lo sviluppo della comunicazione attuato nella classe terza di una scuola primaria, in cui sono stati portati avanti tre interventi in parallelo: 1. un percorso di danzaterapia per rispondere ai bisogni affettivo-relazionali dell’intero gruppo classe; 2. un progetto di corrispondenza epistolare tra un alunno con disabilità e un alunno di un’altra scuola, successivamente esteso a tutta la classe; 3. un progetto specifico di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) per un altro alunno con disabilità.

10. Il coinvolgimento della famiglia. Coinvolgere le famiglie è un passaggio molto importante affinché la ricchezza del programma di inclusione non si esaurisca tra le mura scolastiche: organizzare un lavoro di rete attorno al bambino è infatti fondamentale per dare continuità e coerenza all’intervento. All’interno del progetto individualizzato per la promozione dell’integrazione e dello sviluppo delle autonomie di un alunno frequentante la prima classe di scuola secondaria di primo grado, è stato possibile perseguire gli obiettivi in un lavoro di rete con le strutture sanitarie e la famiglia del ragazzo. Quest’ultima ha rappresentato un partner primario nell’intervento, ricevendo anche un supporto a domicilio dagli operatori di un’associazione attiva sul territorio limitrofo e coordinato con l’intervento scolastico.

11. La replicabilità. Gli autori dei diversi progetti sopra citati non solo hanno mostrato disponibilità alla condivisione del proprio bagaglio esperienziale, ma lo hanno organizzato e presentato in modo preciso e sistematico, spesso fornendo anche esempi concreti di schede e materiali utilizzati o evidenze sperimentali dell’efficacia degli interventi tramite misurazioni pre-post. Tutto questo permette alla comunità scientifica e clinica di crescere, soprattutto a fronte del fatto che la letteratura scientifica scarseggia in merito, e le prassi per l’intervento per l’inclusione scolastica rischiano di rimanere un tema intrappolato tra le mura di classe.

Il ruolo dello psicologo

All’interno di uno scenario così complesso e in cambiamento, è importante che i diversi professionisti facciano rete e che il mondo educativo e quello scientifico si incontrino per costruire insieme dei modelli di lavoro per inclusione efficaci e replicabili ma che lascino al contempo margini per la personalizzazione dell’intervento. In stretta collaborazione con altre figure professionali quali pedagogisti, educatori e insegnanti, lo psicologo si inserisce quindi come figura ponte tra mondo scolastico, strutture socio-sanitarie e famiglie, per progettare e monitorare l’intervento con una raccolta dati qualitativa e quantitativa che sia utile direttamente sul campo e in un’ottica più ampia di ricerca scientifica.

 

I percorsi clinici della psicologia (2018) a cura di D. Rebecchi – Recensione del libro

Ne I percorsi clinici della psicologia viene spiegato come la definizione di percorsi clinici standardizzati, tracciati all’interno di un’organizzazione a matrice dell’attività della psicologia clinica, ha come obiettivo il governo clinico e delle risorse in termini di sostenibilità e applicabilità.

 

Il Sistema Sanitario Nazionale sta attraversando un momento particolarmente critico per una serie di ragioni inerenti alla capacità di mantenere livelli di assistenza in grado di rispondere ai bisogni e alle aspettative crescenti di benessere psico-fisico dei cittadini. Proprio per questo è necessario porre attenzione all’accessibilità dei servizi, all’appropriatezza dei trattamenti, all’efficacia e all’efficienza degli interventi, alla qualità delle cure.

Il volume I percorsi clinici della psicologia, realizzato da psicologi e psicoterapeuti del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Modena e curato da Daniela Rebecchi, rappresenta un ottimo esempio di come la riflessione clinica e l’impegno di tradurla in prassi operative basate su evidenze scientifiche consenta di orientare adeguate scelte organizzative all’interno di un quadro di sistema che tenga in debita considerazione il corretto impiego delle risorse disponibili.

La definizione di percorsi clinici standardizzati, tracciati all’interno di un’organizzazione a matrice dell’attività della psicologia clinica, ha come obiettivo il governo clinico e delle risorse in termini di sostenibilità e applicabilità.

I percorsi che hanno come target le aree del ciclo vitale e come riferimento la domanda di salute partono dalle criticità delle diverse fasi della vita e indicano strategie e modelli operativi specifici per l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, e la terza età.

Disagio e patologie emergenti con cause multifattoriali sono indicati e trattati con interventi multidisciplinari flessibili e una presa in carico che coinvolge non solo le famiglie, ma l’intera comunità.

La metodologia e la costruzione dei percorsi sono basate su dati epidemiologici, evidenze scientifiche, linee guida e documenti normativi di riferimento, sono presenti inoltre un’accurata sitografia e bibliografia.

Esistono, d’altra parte, ormai evidenze scientifiche che dimostrano i benefici in termini di miglioramento della qualità di vita e diminuzione dei costi sanitari degli interventi di psicologia clinica, tanto da spingere l’Organizzazione Mondiale della Sanità a definire ingiustificata la riduzione dei fondi e il conseguente limitato accesso alle cure psicoterapeutiche.

La pratica della valutazione degli esiti è sottolineata dagli autori del volume, come necessaria per rendicontare la corrispondenza agli obiettivi normativi e aziendali e per dimostrare l’efficacia, l’appropriatezza e la sostenibilità degli interventi.

Gli strumenti del governo clinico descritti nel libro I percorsi clinici della psicologia definiscono standard assistenziali che riguardano il trattamento gruppale cognitivo-comportamentale per i disturbi d’ansia in infanzia e preadolescenza, la valutazione e il trattamento della depressione in gravidanza e nel post partum, la valutazione e il trattamento del gioco d’azzardo patologico, gli interventi psicologici al paziente in cardiologia riabilitativa e molti altri ancora, complessivamente sono quindici e tutti prescrivono i criteri d’inclusione ed esclusione, il tipo di valutazione e l’intervento da compiere.

Il testo curato da Daniela Rebecchi è un vero manuale operativo che facilità le decisioni da prendere, un ottimo riferimento per chi in altre aziende sanitarie vuole adeguare a standard definiti le prassi operative per migliorare l’efficacia, l’efficienza e la qualità dei servizi.

 

Invecchiamento, massa muscolare e tessuto adiposo, come questi tre fattori influenzano l’intelligenza fluida

Invecchiare ha un effetto dannoso sull’intelligenza fluida dell’individuo, la quale è definita come la capacità di affrontare problemi logici nuovi indipendentemente dalle conoscenze acquisite; in parallelo, l’invecchiamento porta anche ad un aumento del tessuto adiposo e alla perdita della muscolatura.

 

L’invecchiamento è un naturale processo biologico che porta cambiamenti a livello del sistema nervoso, immunitario ed endocrino. Attualmente non è stata individuata nessuna causa singola che determini questo fenomeno, bensì sono stati individuati molteplici fattori tra cui è possibile citare i danni che l’ambiente causa nel tempo e la programmazione della nostra genetica che porta a questi cambiamenti (Salthouse, 2009).

Con l’invecchiamento è possibile riscontrare un normale e fisiologico calo delle funzioni cognitive, in particolare si evidenzia una diminuzione della performance nei test di memoria episodica, nelle funzioni esecutive e nelle abilità visuo-spaziali; inoltre l’invecchiare ha un effetto dannoso sull’intelligenza fluida dell’individuo, la quale è definita come la capacità di affrontare problemi logici nuovi indipendentemente dalle conoscenze acquisite (Salthouse, 2009).

A livello biologico il calo di tutte queste funzioni cognitive è dato dall’atrofia della corteccia prefrontale; tuttavia, in parallelo all’impoverimento cognitivo, l’invecchiamento porta anche ad un aumento del tessuto adiposo e alla perdita della muscolatura ovvero la sarcopenia. Questi cambiamenti a livello fisico portano a loro volta ad un impoverimento delle funzioni cognitive, infatti l’obesità è associata ad un declino cognitivo e ad un maggior rischio di sviluppare una demenza, e questo accade perché l’accumulo di tessuto adiposo porta ad una serie di infiammazioni (Hotamisligil, 2006).

Un alto indice di massa corporea (BMI) è correlato con l’aumento dei markers infiammatori che portano a loro volta ad un declino cognitivo, in particolare delle funzioni esecutive.

Un recente studio condotto da Spauwen nel 2017 mostra che una massa muscolare elevata potrebbe essere un fattore protettivo contro lo sviluppo della demenza. (Spauwen et al., 2017).

Stando a recenti studi, l’intelligenza fluida è influenzata dal livello di muscolatura; si tratta in tal caso di una relazione positiva dove più il livello muscolare aumenta più l’intelligenza fluida si conserva nel tempo.

In particolare una ricerca pubblicata su Brain, Behavior, and Immunity ha condotto uno studio longitudinale della durata di 6 anni su un campione di 4331 persone di mezza età (con età media di 65 anni) (Klinedinst et al., 2019) la cui ipotesi centrale era che il tessuto adiposo viscerale fosse correlato con l’intelligenza fluida. I risultati di questo studio mostrano che una riduzione del tessuto adiposo porta ad un aumento delle capacità cognitive, in particolare dell’intelligenza fluida; questo avverrebbe perché un aumento del tessuto adiposo conduce ad un aumento dei linfociti, i quali a loro volta correlano negativamente con l’intelligenza fluida, infatti lo stato di infiammazione risulta essere dannoso. Una possibile spiegazione è che i linfociti agiscano a livello dell’asse intestino–cervello tramite il nervo vago, causando un cambiamento microbiotico, che porterebbe, oltre che ad un calo di intelligenza fluida, anche all’aumento di rischio per quel che riguarda lo sviluppo di malattie tra cui l’Alzheimer, la schizofrenia e la sclerosi multipla.

Gli autori di questo articolo suggeriscono che per mantenere una buona capacità cognitiva nel corso degli anni è importante l’attività fisica e il mangiare sano; ciò consentirebbe di evitare l’accumulo di grasso e favorirebbe un corretto sviluppo muscolare (Klinedinst et al., 2019).

 

Il transfert nel trattamento dei disturbi gravi di personalità: dialogo con Otto Kernberg – Report

Lo scorso 14 dicembre il CdPR – Centro di Psicoanalisi Romano – ha organizzato una giornata di studio incentrata sul ruolo esercitato dal transfert nel trattamento dei disturbi gravi di personalità, con protagonista Otto Kernberg.

 

Dopo i saluti iniziali del Prof. Meterangelis, presidente del CdPR, il Prof. Kernberg comincia il proprio intervento con la definizione di personalità sana e patologica, per poi descrivere le caratteristiche della personalità affetta dal narcisismo patologico e come esse si traducano a livello di identità, di affetti e di comportamenti.

L’approccio terapeutico proposto, di impostazione psicodinamica, presuppone l’utilizzo del transfert del paziente, del controtransfert del terapeuta e di libere associazioni. Nello specifico, il transfert narcisistico è caratterizzato dall’incapacità, da parte del paziente, di accettare la dipendenza dal terapeuta. Il paziente tende ad operare una svalutazione del processo terapeutico, attraverso dinamiche di cui è inconsapevole. Si può attivare invidia per l’abilità del terapeuta e una conseguente oscillazione tra senso di superiorità e complementare senso di inferiorità.

Dopo aver descritto le caratteristiche dei principali tipi di transfert nei disturbi gravi di personalità, il Prof. Kenberg delinea, attraverso l’illustrazione di alcuni casi clinici, come il paziente si pone rispetto alle relazioni, inclusa la relazione con il terapeuta, alla luce dei tratti di personalità da cui è caratterizzato. Il paziente narcisista, ad esempio, arriva in terapia perché prova un vuoto relazionale causato dalla difficoltà di strutturare relazioni profonde con persone significative. Il transfert schizoide, invece, è caratterizzato dalla frammentazione degli affetti, cui corrisponde un senso frammentato del sé, come pure frammentaria è l’esperienza degli altri significativi.

Otto Kernberg il ruolo del transfert per trattare i disturbi gravi di personalita

Immagine 1: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Si  tratta di pazienti che appaiono distanti e che possono determinare, nel terapeuta, un senso di confusione; al paziente può capitare di sentirsi invaso o controllato, se avverte il terapeuta come “troppo vicino”. La chiarificazione verbale, in un quadro come questo, può risultare difficoltosa e il terapeuta è chiamato, ponendo attenzione al proprio controtransfert, ad avere particolare apertura rispetto agli stati affettivi che si sviluppano in lui in seguito alla relazione col paziente.

La seconda parte dei lavori è incentrata sull’esposizione, da parte della dott.ssa Anna Maria Segni, di un caso clinico di cui il Prof. Kernberg effettua la supervisione. La paziente presenta, secondo Kernberg, un isolamento relazionale di matrice narcisistica, non schizoide; è idonea ad un trattamento psicodinamico tradizionale. La terapia si trova in una situazione di stallo in cui il controtransfert della terapeuta è caratterizzato da un intenso senso di noia e di costrizione. Kernberg afferma che il controtransfert rispetto ad un paziente narcisista è, di frequente, connotato dalla sensazione di essere “controllati” dal paziente.

La paziente in questione presenta una modalità estremamente richiedente di entrare in terapia: si aspetta comprensione assoluta e delega all’analista la responsabilità esclusiva della buona riuscita dell’analisi. In questa ottica il terapeuta non è colui che aiuta il paziente ad acquisire consapevolezza, ma è quello che “deve avere le risposte giuste”; la paziente non è mai soddisfatta degli interventi dell’analista, coerentemente con un transfert di tipo narcisistico.

Otto Kernberg il ruolo del transfert per trattare i disturbi gravi di personalita

Immagine 2: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Il tema dell’invidia è dominante e si presenta spesso, declinato nella relazione con l’analista, con le colleghe di lavoro e con il mondo in generale. Il Prof. Kernberg commenta, a questo proposito, che l’invidia rappresenta un sentimento universale, ma, nella personalità narcisistica, essa è centrale perché:

  • è una manifestazione di aggressività che nasce dal riconoscimento, accompagnato da un conseguente senso di frustrazione, di qualcosa di buono di cui si è privi;
  • il narcisista non è mai stato amato, dato che l’amore è stato sostituito da ammirazione;
  • il  narcisista spesso è cresciuto come un’estensione del genitore, cosa che lo porta ad interpretare l’indipendenza come rottura del legame.

Il linguaggio viene usato come un meccanismo di difesa per tenere a distanza sia il terapeuta che le relazioni in generale; nel caso in esame la paziente non accetta gli interventi della propria analista perché, se lo facesse, dovrebbe accettare che l’analista è dotata di competenze di cui lei è priva, cosa che la espone al rischio di essere controllata.

I pazienti non caratterizzati da tratti narcisistici desiderano avere uno scambio con il terapeuta; vogliono condividere se stessi con l’analista per ricevere comprensione. Le personalità narcisiste, al contrario, non riescono a provare questo desiderio di relazione perché temono la dipendenza.

Il paziente parla per avvincere l’analista o parla per sé stesso ad un analista percepito, al massimo, come un ascoltatore interessato. Di conseguenza l’analista prova noia per l’assenza di relazione e per il senso di impotenza nato dal fatto che il paziente ha un modo aggressivo di imporre la propria presenza.

E’ necessario interpretare il transfert del paziente per far funzionare il processo terapeutico, presentando le interpretazioni sotto forma di ipotesi di lavoro, nonostante l’analista possa avere timore di nuocere al paziente; è importante, per l’analista, tenere presente che anche i pazienti più gravi dispongono di meccanismi di difesa potenti, grazie ai quali sono in grado di essere parte attiva del processo terapeutico, ponendosi con senso critico rispetto all’analista e ai suoi interventi.

Immagine 1: l'intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 3: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 4: l'intervento di Otto Kernberg alla conferenza

Immagine 4: l’intervento di Otto Kernberg alla conferenza

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