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Cognitivismo e psicoanalisi: distinguere o integrare?

La storia di prestiti maldestri tra psicoanalisi e psicoterapia cognitivo-comportamentale è lunga: l'ultimo caso riguarda un articolo sulla Case Formulation

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 27 Set. 2019

Gazzillo, Dimaggio e Curtis nel loro lavoro mescolano, nelle parole che usano, mille destini che plasticamente mostrano cosa rischia di diventare quella integrazione di cui tutti parlano e che molti desiderano forse troppo: un grande caos, un maledetto casino.

 

Francesco Gazzillo dell’Università Sapienza di Roma, Giancarlo Dimaggio del Center for Metacognitive Interpersonal Therapy, e John T. Curtis della University of California, San Francisco hanno scritto un articolo sulla formulazione del caso e sulla pianificazione del trattamento che è giusto discutere attentamente, soprattutto nella terminologia utilizzata. Le parole rivelano a quali principi ci riferiamo e in quali direzioni ci incamminiamo. Gazzillo, Dimaggio e Curtis nel loro lavoro mescolano nelle parole che usano mille destini che plasticamente mostrano cosa rischia di diventare quella integrazione di cui tutti parlano e che molti desiderano forse troppo: un grande caos, un maledetto casino.

Il titolo dell’articolo parla di “Case Formulation” e suggerisce che leggeremo un lavoro dedicato al ruolo di questo strumento nel processo terapeutico. Come terapeuti cognitivo comportamentali dovremmo sentirci a casa nostra, dato che le terapie comportamentali hanno storicamente utilizzato per prime questo termine, come ammesso, documentato e confermato da vari studiosi appassionati di storia della psicoterapia, non tutti di formazione comportamentale: Bruch (1998, 2015), Eells (2007, 2009) e Sturmey (2008, 2009). Di questi tre è soprattutto Bruch a raccontare la storia dal punto di vista comportamentale, mentre Eells e Sturmey accanto a questa tradizione hanno voluto delineare una storia successiva più ateoretica sebbene con una certa influenza psicodinamica. E tuttavia sia la Eells che Sturmey non ignorano il contributo cognitivo comportamentale. Ad esempio, la Eells nel suo manuale affida a Persons e Tomkins (2007) il racconto dello sviluppo della formulazione del caso secondo la campana cognitivo comportamentale.

Leggendo questi lavori dal taglio storico apprendiamo che il termine Case Formulation è stato coniato dal cognitivista Turkat (1985, 1986) negli anni ’80 che a sua volta lo accreditò a una precedente serie di clinici e studiosi tutti di matrice comportamentale capeggiati da Victor Meyer, il padre spirituale della Case Formulation fin da una pubblicazione del 1960. Oltre lui vanno poi citati Monte Shapiro (1955, 1957), Lazarus (1960, 1976), Wolpe (1960), Yates (1960), Kanfer e Saslow (1969), ancora lo stesso Meyer in compagnia di Chesser (1975), e, in Italia, Ezio Sanavio (1991). Infine nel campo cognitivo l’uso terapeutico della Case Formulation è stato ulteriormente sviluppato da Judith Beck nei suoi classici manuali della forma cosiddetta standard della terapia cognitivo comportamentale (Beck J., 1995, 2011).

Invece la tradizione ateoretica di Eels e Sturmey a cui appartengono anche Gazzillo, Dimaggio e Curtis è ben più recente come appare chiaro se leggiamo ad esempio Sturmey e se facciamo caso agli anni di pubblicazione dei testi da lui citati: si comincia con Weerasekera che pubblica nel 1996 (dieci anni dopo Turkat e quasi quaranta dopo Meyer, il padre spirituale della Case Formulation), si prosegue con McWilliams (1999) e si finisce poi con gli stessi Eells (2007) e Sturmey (2008, 2009). Tutti testi cronologicamente molto successivi rispetto alla linea che nasce con Meyer. C’è da dire che Eells e Sturmey non lo nascondono nei loro testi.

Spiace scrivere che nulla di tutto questo si trova nell’articolo di Gazzillo, Dimaggio e Curtis. In un lavoro dedicato alla Case Formulation non si trova una sola benedetta parola su Meyer, Shapiro, Lazarus, Wolpe, Yates, Kanfer, Saslow, Sanavio e Judith Beck. Non basta. A leggere bene il testo risulta che la linea a cui si attengono i tre autori sembra ancora più recente: con l’unica eccezione della citazione di un testo della Eells del 1997, gli altri testi citati sono tutti del 2019, ovvero del corrente anno. Ovvero la Plan Analysis di Caspar (2019), il Mode Model in Schema Therapy di Fassbinder, Brand-de Wilde e Arntz (2019), il Formulation of Maladaptive Patterns in Interpersonal Reconstructive Therapy di Critchfield, Panizo e Benjamin (2019) e il Dynamic Formulation Focused on Motives, Defenses, and Conflicts di Perry, Knoll, e Tran (2019). Vero è che questi metodi hanno una storia alle spalle, ad esempio la Plan Analysis di Caspar risale al 1995, ma a quanto pare gli autori non si sono sforzati di risalire troppo all’indietro nemmeno per gli autori da loro favoriti. La conseguenza è che la Case Formulation sembra una scoperta recentissima ed estranea al campo cognitivo comportamentale.

Sbrigata la pratica della Case Formulation i tre autori si dedicano al loro modello, il Plan Formulation Method (Weiss, 1993; Weiss, Sampson, & the Mount Zion Psychotherapy Research Group, 1986), metodo basato su un paradigma teorico, la Control Mastery Theory (CMT), un interessante modello che, pur di provenienza psicodinamica, si è più o meno felicemente appropriato di concetti cognitivi come gli scopi (“goal”), i “test” e le credenze patogene (chiamate ora “pathogenic beliefs” ora “obstructions”). Certo, sarebbe bello se questi goal e test fossero accompagnati da citazioni degli studiosi cognitivi che ne hanno parlato, almeno ad esempio Miller, Galanter e Pribram, così come quando si parla di Case Formulation sarebbe stato bello citare Meyer e Turkat, ma ci accontentiamo dell’adesione alla terminologia.

Tutto bene? Siamo di fronte a un felice caso di integrazione teorica con qualche negligenza in bibliografia? Forse si, sebbene desti sorpresa osservare come questi concetti vengano citati senza nessun cenno agli studiosi che ne hanno fatto la storia. È un po’ strano. Così come sarebbe strano se un cognitivista, volendo integrare nel suo modello concetti relazionali di rivalità del paziente col padre, piazzasse nel titolo il termine “Complesso di Edipo” e poi ne parlasse a iosa senza citare mai Freud, e alcuni cognitivisti lo hanno fatto. Ma non innervosiamoci. La storia dei reciproci prestiti maldestri tra psicoanalisi e psicoterapia cognitivo comportamentale è lunga è non è questo il luogo per rivisitarla.

Tuttavia c’è qualcosa che ci confonde ancor di più. C’è che gli autori fin dalle prime righe mostrano di avere ben chiare le differenze tra una Case Formulation di tipo cognitivo comportamentale che presuppone una visione funzionalista dell’attività mentale che privilegia l’intervento sulle funzioni esecutive accessibili alla coscienza e un’altra impostazione, che poi finisce per essere il Plan Formulation Method, che invece punta su fattori interpersonali ed esperienziali il cui meccanismo è innescato da interazioni relazionali i cui meccanismi d’azione non sono considerati operativamente rappresentabili nella coscienza ma solo emotivamente percepiti. E gli autori inoltre hanno ben chiare le differenze cliniche che questa differente impostazione implica, dato che nella loro visione la condivisione della Case Formulation è l’esito finale di complessi processi terapeutici interpersonali che non sono immediatamente accessibili alla coscienza esecutiva se non dopo un doloroso processo interattivo non privo di equivoci e conflitti, come ad esempio i test della Control Mastery Theory.

Invece rimane una specificità della terapia cognitivo comportamentale cosiddetta standard che la condivisione della Case Formulation sia possibile fin dall’inizio, condivisione beninteso mai definitiva ma incessantemente negoziata e riformulata e tuttavia espressa esplicitamente appena possibile fin dai primissimi incontri di terapia e intesa come principale strumento operativo di gestione del processo terapeutico anche nei suoi aspetti aspecifici come la gestione dell’alleanza e della relazione terapeutica. Questo rende la Case Formulation talmente incorporata nel paradigma cognitivo comportamentale standard da forse scoraggiare Gazzillo, Dimaggio e Curtis dall’usare quel termine nel resto dell’articolo dopo averlo piazzato nel titolo, o almeno a usarlo in maniera molto parsimoniosa se non rarefatta, ben attenti come sono a tenersi lontano da una tradizione cognitivo comportamentale standard a loro profondamente estranea e che non si può improvvisare, malgrado tutte le integrazioni.

Ci si chiede allora, perché usare nel titolo di un loro lavoro un termine così lontano dalla loro concezione del processo psicoterapeutico? Forse perché Eells lo ha reso recentemente più ecumenico e meno specialistico? Quindi si è trattato di un segnale a suo modo conciliatorio, un cortese suggerimento che i tre autori stanno seguendo una strada ecumenica o come si suol dire integrativa? Può essere vero, ma la Eels al tempo stesso nella sua operazione integrativa non ha avuto timore di citarne le radici cognitivo comportamentali del concetto. Invece i tre autori hanno taciuto.

Se questo ecumenismo deve essere fonte di simili imbarazzi forse meglio sarebbe stato seguire una strada più onestamente concorrenziale e ben chiara nelle sue ipotesi, distinta da quella seguita dalle altre teorie con le quali concorre. Purtroppo non è così, qui si vuole l’accordo, il compromesso che fa tutti contenti, l’integrazione che evita i conflitti ed elimina le Chiese per riconciliarci tutti di fronte all’Altare integrato.

Peccato che poi il conflitto scacciato dalla porta rientri da ogni fessura. Ad esempio, la descrizione nemmeno tanto inavvertitamente sprezzante che i tre autori fanno del paradigma cognitivo comportamentale suona livorosa in maniera disorientante. Particolarmente aggressiva suona l’osservazione contro quei protocolli che vogliono curare il paziente in 4 o 5 sedute: qui il nervosismo ha preso la mano ai tre autori; le terapie cognitivo comportamentali effettivamente cercano di cavarsela in 12 – 30 sedute, il che potrebbe essere già sufficiente materia di derisione per dei cultori del trattamento prolungato e paziente ma forse buttarla sulle 4 o 5 sedute fa più effetto. Il tutto si conclude con la solita indimostrata affermazione che la psicoterapia cognitivo comportamentale è troppo superficiale per i disturbi più o meno complessi, salvo poi finire per citare quel verdetto di Dodo che, a ben vedere, facendo vincere tutti non lo dimostra per nulla. Chissà perché però quel verdetto implica sempre un corollario che è: se nessuno vince allora chi pretendeva di aver vinto, ovvero la psicoterapia cognitivo comportamentale, in realtà ha perso.

Vale la pena incartarsi in simili penosi screzi per inseguire una integrazione che comunque sfocia in una rivalità? Non sarebbe meglio giocare a carte scoperte? Lo chiediamo ai tre colleghi, soprattutto ai due di provenienza psicodinamica, ovvero Gazzillo e Curtis, che hanno giustamente scritto un articolo bello e interessante nella parte in cui hanno esposto le procedure della Plan Formulation Method e il modello della Control Mastery Theory, un modello che rimane psicodinamico perché in esso la formulazione del caso rimane il frutto di un doloroso e difficile percorso conflittuale tra paziente e terapeuta e in cui c’è poca fiducia in una formulazione iniziale come faremmo noi cognitivisti. E dunque, perché non limitarsi a un articolo sul Plan Formulation Method senza fare confusione con una Case Formulation gettata lì a inizio articolo senza citarne i padri spirituali?

Se l’operazione di Gazzillo e Curtis non è facile da capire, ancor meno facile è comprendere gli scopi del contributo di Dimaggio. In teoria nell’articolo lui dovrebbe essere il rappresentante della tradizione cognitivo comportamentale. È da lui che le anime trapassate oppure viventi di Miller, Galanter, Pribram, Shapiro, Lazarus, Meyer, Wolpe, Yates, Kanfer, Saslow, Sanavio e Judith Beck si aspettavano di essere citate in un articolo sui goal, sui test e sulla Case Formulation zeppo di citazioni non cognitive. Invece niente. Anzi, nell’articolo c’è un attacco iniziale al paradigma cognitivo comportamentale di particolare durezza e sprezzo che purtroppo compare anche sotto la firma di un collega cognitivista. È proprio così: ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia!

Se è così, almeno speriamo che ci sia del metodo in questa follia. Siamo qui intorno al camino in una vecchia torre a raccontare vecchie storie e purtroppo ce n’è una particolarmente lunga, confusa e dolorosa. È la storia di un certo cognitivismo cresciuto nelle nostre terre di mezzo, un cognitivismo che in realtà è un rispettabile costruttivismo che però in quanto tale, fin dai tempi antichi e ormai avvolti nella leggenda di Vittorio Guidano e di Michael Mahoney, si è posto in forte contrapposizione con il cognitivismo standard. Per una serie di confuse ragioni ci si è ritrovati da estranei sotto lo stesso tetto di questa vecchia torre da troppo tempo e ci si raccontano storie tristi in due lingue sempre più mutualmente incomprensibili in cui i termini comuni significano cose diverse e ormai creano solo baccano. Ad esempio, per il costruttivista la formulazione del caso è una narrazione e quindi il suo contenuto è un esito lungo e laborioso e non uno strumento condiviso dall’inizio. Così il costruttivista finisce per capirsi di più con lo psicodinamico che col cognitivista standard. Forse più che integrazione occorre fare chiarezza e distinzione. E distinzione viene da distinguere, che è il contrario di integrare.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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