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Una prospettiva evo-devo (Evolutionary Developemental Biology) mette in relazione l’orgasmo femminile e la selezione delle capacità prosociali nel partner

Perché l’ orgasmo femminile è così complesso? Qual è il suo significato da un punto di vista evolutivo? E come mai si è tramandato nel corso degli anni e dell’evoluzione della specie proprio con queste caratteristiche?

 

Secondo la Biologia Evolutiva dello Sviluppo, anche detta approccio evo-devo, la selezione naturale si configura come una selezione operata a posteriori su delle mutazioni casuali che emergono nell’evoluzione di una specie. In altre parole, meccanismi atti a promuovere una maggiore biodiversità operano nel far emergere delle anomalie genetiche, che solo in un secondo luogo, contribuendo alla fitness dell’individuo nel proprio ambiente e quindi della sua possibilità di sopravvivere e riprodursi, acquisiscono garanzia di una trasmissione del nuovo carattere alla generazione successiva.

Non sempre però è facile risalire alle origini della catena dei mutamenti che ha accompagnato l’evoluzione di una particolare caratteristica, spesso troppo lontane nel tempo per poter determinare con certezza cosa abbia favorito tale cambiamento, così come anche il modo in cui ciò sia avvenuto: è questo il caso dell’ orgasmo femminile nella specie umana, che rimane ad oggi un aspetto della sessualità che stupisce per la sua complessità, per le implicazioni e quesiti che solleva.

Il mistero dell’ orgasmo femminile

Una peculiarità dell’ orgasmo femminile è infatti quella di essere funzionalmente slegato dai fini riproduttivi, contrariamente a quanto invece avvenga per l’uomo, la cui eiaculazione è indispensabile per tale scopo. Se prendiamo in considerazione la posizione del glande del clitoride nella donna umana, largamente coinvolto nella stimolazione richiesta per il raggiungimento dell’ orgasmo, notiamo che esso è situato ad una distanza che può arrivare fino a quattro centimetri dall’orifizio vaginale, una posizione non ottimale per venire coinvolto durante il coito.

Se da una parte la struttura della vagina sembra quindi essersi evoluta per accogliere il pene, massimizzando con la propria anatomia il piacere che il partner ne riceve, dall’altra riscontriamo che essa risulta poco intuitiva da “navigare” per un nuovo partner e decisamente meno facile da soddisfare, specialmente affidandosi alla sola penetrazione vaginale, che riporta una percentuale di successo nell’indurre l’ orgasmo femminile estremamente basso (solo il 26% delle donne ha riportato di raggiungerlo in questo modo). Tra l’altro l’eiaculazione decreta generalmente la fine del coito a causa del periodo refrattario che si riscontra nell’uomo, contrariamente alla donna il cui numero massimo di orgasmi rimane ad oggi virtualmente sconosciuto.

Rimane quindi poco chiaro perché la capacità di provare piacere si sia evoluta in maniera così differente nell’uomo e nella donna e, soprattutto, cosa abbia permesso a questa esperienza cruciale per la sessualità umana di perdurare nell’evolversi della nostra specie, nonostante ci sfugga ad un primo sguardo la sua reale funzione.

Tutte queste considerazioni hanno portato alcuni ricercatori a proporre che non si possa attribuire all’ orgasmo femminile una qualche funzione adattiva o riproduttiva (Zietsch & Santtila, 2013), laddove con questo intendiamo un comportamento che facilita direttamente la sopravvivenza della specie. Tuttavia, il fatto che tale fenomeno persista nella nostra specie al giorno d’oggi, supporta l’idea che esso possa aver assunto una funzione secondaria che favorisca il legame nella coppia (Eibl Eibesfeldt, 1989; Morris, 1967), la risposta endocrina (Huynh, et al., 2013; Motta-Mena & Puts, 2016), il movimento dello sperma verso l’ovulo (Levin, 2011).

In tal senso, la struttura stessa dei genitali femminili nella specie umana, con un clitoride piccolo e separato dall’apertura vaginale, ha contribuito a rendere unica l’esperienza dell’ orgasmo della donna: diversamente da altre specie, il cui glande del clitoride si trova internamente o in prossimità della vagina, nella razza umana esso si presenta distanziato, forse per accogliere il bipedalismo (Gräslund, 2004; Wolfe, 1991) o il parto (Pavelca, 1995); tale caratteristica avrebbe dato la possibilità all’ orgasmo femminile di assumere nel corso dell’evoluzione della specie, una funzione che va ben oltre la piacevolezza dell’atto sessuale.

Una nuova ipotesi: il ruolo dell’empatia prosociale

E’ stata avanzata una nuova ipotesi circa la possibilità che l’ orgasmo femminile, proprio in virtù della peculiare conformazione del clitoride femminile e dell’estrema varianza individuale nel raggiungere il climax, possa essere servito come mezzo di selezione di quei pretendenti che esibissero spiccati comportamenti altruistici ed empatici, col fine di favorire la propria compagna nel perseguimento del proprio piacere. Tali capacità avrebbero inoltre rivelato una più generale propensione all’empatia prosociale, dote fondamentale nella società cooperativa che si andava formando agli albori della nostra specie (Kennedy & Pavličev, 2018).

Con empatia prosociale si intende una capacità di lettura della mente dell’Altro, chiamata talvolta intersoggettività, o Teoria della Mente, e consiste nella possibilità di attribuire agli altri degli stati mentali (credenze, intenzioni, desideri, emozioni, etc) e comprendere che questi siano diversi dai propri.

La scoperta dei neuroni specchio (Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese & Rizzolatti, 1992), sembrò essere una spiegazione promettente su come fosse possibile avere una rappresentazione in tempo reale della mente altrui, tali neuroni infatti si attivano sia quando un individuo compie un azione che, simpateticamente, quando osserva qualcun altro compierla: in tal modo, l’esperienza osservata viene mentalmente simulata restituendo “l’effetto che fa” essere in quella situazione, e permettendo di comprendere la mente dell’Altro.

Nella propria concettualizzazione dell’intersoggettività de Waal (2010) sottolinea l’importanza del “Body-mapping” (mappaggio corporeo) come la capacità di provare sul proprio corpo ciò che un altro soggetto sta provando, caratteristica tra l’altro condivisa con altre specie non-umane, come delfini, elefanti, primati. Tale capacità è basata su di una corrispondenza dell’esperienza somatica vissuta dai soggetti e quella del soggetto osservato, tuttavia tale coincidenza viene a mancare nell’incontro eterosessuale, laddove le differenze anatomiche e di vissuto richiederanno che l’uomo impari a mettere in atto specifici comportamenti orientati ad elicitare il piacere della propria compagna.

Contrariamente a quanto sostenuto da Waal, Hrdy sostiene che l’empatia prosociale nell’essere umano sia emersa dalla necessità di accudimento e di protezione della prole, particolarmente gravosa e prolungata nel tempo rispetto al resto del regno animale, e quindi unica della specie umana (Hrdy, 2011). La necessità di vicariare supporto da membri esterni alla diade genitoriale, altrimenti dette cure alloparentali, avrebbe richiesto che altri individui rispondessero empaticamente ai bisogni dei piccoli, seppure non propri, che i piccoli comprendessero gli stati mentali di adulti che non fossero i propri genitori, e ancora a selezionare individui meritevoli di fiducia per delegare l’accudimento del piccolo.

Riassumendo..

Nella cornice dell’asimmetria sessuale presente tra i due sessi nella specie umana, è verosimile presupporre che la femmina avrebbe quindi privilegiato quel compagno che avesse mostrato interesse per la sua l’esperienza, “leggendo” i segnali lanciati dal suo corpo e ricercandone attivamente l’appagamento anche a costo di ritardare il proprio soddisfacimento.

Sul lungo termine la scelta dell’individuo che incarna tali caratteristiche, avrebbe comportato la formazione di un legame di coppia più solido (Young and Wang, 2004), maggiori possibilità di concepimento e, grazie alle cure empatiche dei genitori, una maggiore possibilità di sopravvivenza per la prole.

Dagli O.P.G. alle R.E.M.S.: il difficile superamento

Dal 31 marzo 2015 sono ufficialmente chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) ed è tuttora in corso un lento passaggio a delle strutture alternative denominate R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Tale cambiamento è stato pensato per umanizzare lo sconto della pena nelle persone già “condannate” da un disturbo psichiatrico.. 

Francesca Pettenello, Ilaria Bagnulo, Marco Tanini

 

Il difficile inquadramento del paziente psichiatrico autore di reato è un argomento molto discusso negli ultimi anni ed ha alle spalle una lunga storia sia dal punto di vista giuridico/legislativo che di accettazione sociale.

Il problema di fondo sul quale tanto si discute è capire cosa prevale nella gestione di un folle-reo: la pena o la cura? E chi deve stabilirlo?

Nella società italiana c’è un forte senso di insicurezza che non sempre trova riscontro a livello statistico, ma che viene alimentato da ansia, paura e senso di smarrimento. Tale carica ansiogena, a volte, porta a delle reazioni sproporzionate da parte dei cittadini con conseguenze reali di notevole rilevanza e impatto sociale.

R.E.M.S. e stigma sociale: la situazione in Italia

L’attuale situazione italiana richiama ciò che il grande storico francese Jacques Le Goff (1997) scrive a proposito del medioevo nel quale – egli afferma – la sicurezza era un’autentica ossessione urbana (Amendola G. 2008)

L’ignoto e l’imprevedibile, viene percepito come non controllabile e non manipolabile. Questo sentimento il cittadino lo prova per l’altro in generale tra cui rientra anche il malato di mente.

Dal 31 marzo 2015 sono ufficialmente chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) ed è tuttora in corso un lento passaggio a delle strutture alternative denominate R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che vede una collaborazione tra il Ministero di Giustizia e il Ministero della Salute. Tale cambiamento è stato pensato per umanizzare lo sconto della pena nelle persone già “condannate” da un disturbo psichiatrico e per evitare il cosiddetto “ergastolo bianco” ovvero un internamento senza fine.

Lo scoglio più grosso da affrontare resta la visione che la società ha di queste persone; lo stigma è ancora molto presente, accresciuto anche da una paura mediatica che viene costantemente proposta ed ampliata. C’è un forte desiderio che il reo venga neutralizzato piuttosto che rieducato, riabilitato o risocializzato.

Bisogna cominciare a ragionare in termini di pericolosità sociale, imputabilità e misure di sicurezza (sistema del doppio binario del codice penale) per poter fronteggiare il timore popolare cercando, nello stesso tempo, di tutelare l’autore di reato con problemi psichiatrici; in altre parole è necessario tutelare quel diritto alla salute che il paziente psichiatrico ha perduto o che risulta gravemente compromesso dalla patologia mentale e non mettere primo piano la difesa sociale (Fornari U. 2018).

Dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari alle R.E.M.S.: l’evoluzione normativa

Nel 1975, con il nuovo Ordinamento Penitenziario (legge n. 354/1975), viene rinominato il manicomio giudiziario in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.). Si cambia la visione dell’internato che passa da persona che deve essere prevalentemente punita, a malato che deve essere principalmente curato; da qui anche la scelta del nome “ospedale”. Questo comporta un trattamento differente rivolto maggiormente alla rieducazione usufruendo di percorsi finalizzati al reinserimento sociale ovvero alle misure alternative alla detenzione.

Ci sono altre novità: è prevista la possibilità di godere del regime di semilibertà al fine di poter partecipare alle attività propedeutiche al rientro nella comunità (licenza esperimento, attuabile nei sei mesi prima della scadenza della misura di sicurezza in O.P.G.); viene introdotta la figura, oltre che del medico di medicina generale, anche di uno specialista in psichiatria ed infine viene inserito il magistrato di sorveglianza che ha il compito di far attuare la legge penitenziaria.

Il 1978 è l’anno della grande riforma: la legge 180 “Norme per gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” (cosiddetta legge Basaglia) che successivamente confluirà nella legge n. 833/1978 di riforma del Sistema Sanitario Nazionale.

La svolta epocale si ha nel 2003 con la sentenza della Corte costituzionale n. 253 dove il ricovero in Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) viene visto come obbligo di legge e non come percorso terapeutico e personalizzato per il singolo autore di reato affetto da patologia psichiatrica. Questa rigidità istituzionale, secondo l’opinione della Corte, non è giustificata né dal punto di vista normativo (crea disparità tra i soggetti appartenenti alla stessa categoria giuridica degli infermi di mente), né scientifico (prevedendo solo l’internamento in O.P.G. si sottintende una maggiore pericolosità degli autori di reato affetti da vizio totale di mente rispetto ai seminfermi e ai minori non imputabili), né etico (non tutela la salute degli internati come previsto a livello costituzionale dall’art. 32). Viene valorizzata la libertà vigilata che può essere applicata sia in una clinica dedicata che in comunità terapeutica oppure, se possibile, anche in famiglia e nel proprio domicilio.

Con il decreto legislativo 22 giugno 1999 viene riformata la medicina penitenziaria affidando alle singole Aziende Sanitarie Locali e quindi alle Regioni la sanità penitenziaria.

Deve arrivare il 1° aprile 2008 perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il decreto “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria” riconosca gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari come parte integrante della medicina penitenziaria (vedi allegato C del decreto “Linee di indirizzo per gli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle Case di cura e di custodia” e successivamente rivisto dall’art. 3 ter della legge n. 9/2012 conosciuta come “legge svuota-carceri”) e di conseguenza dia l’incarico alle Regioni di prevedere percorsi riabilitativi per i pazienti dimissibili dal regime carcerario. Restano ancora dei problemi che a tutt’oggi risultano irrisolti e riguardano la territorialità, la doppia direzione e come gestire le eventuali dimissioni o proroghe.

La legge 30 maggio 2014 n. 81 converte, con modificazioni, il decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante “disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, ma mantiene la volontà di non modificare il sistema del doppio binario, la sanitarizzazione delle misure di sicurezza e l’idea che le strutture che accolgono i pazienti siano di tipo sanitario.

Ufficialmente si arriva alla chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari il 31 marzo 2015, un anno dopo la data inizialmente prevista e ancora con diverse strutture in fase di adeguamento.

Cosa sono e come funzionano le R.E.M.S.

La peculiarità di queste nuove strutture, le R.E.M.S., è l’attenzione primaria alla malattia psichiatrica piuttosto che al reato e alla pena. Molti dubbi e criticità sono ancora presenti nell’organizzazione di tali realtà anche perché non ci sono degli standard nazionali ai quali riferirsi e nemmeno un monitoraggio del loro andamento. Il personale spesso non ha una formazione mirata che richiederebbe la particolare tipologia di paziente. Vi è infatti la necessità di una presa in carico completa tenente conto anche dell’aspetto giudiziario il quale comporta delle ristrettezze e delle attenzioni tecniche da avere.

Un notevole problema è l’insufficiente numero di posti previsti rispetto alle richieste sebbene la permanenza debba essere transitoria e senza alternative. E’ dunque necessario stabilire una gerarchia d’ingresso (Legge delega 23 giugno 2017 n. 103).

La gestione interna è di esclusiva competenza sanitaria mentre la parte perimetrale è affidata al servizio di vigilanza e sicurezza organizzato dalle singole Regioni in accordo con le Prefetture. Deve esserci uno spazio verde esterno dedicato agli ospiti che risponda a determinati requisiti di sicurezza. Ogni modulo dell’area abitativa prevede massimo 20 posti letto. L’equipe presente è multidisciplinare con presenza nelle 24 ore. La dirigenza è medica e l’organizzazione del lavoro si fonda sui principi del governance clinico – assistenziale.

La legge n. 81/2014, in maniera piuttosto imprecisa e contraddittoria, prevede che dette strutture esplichino funzioni terapeutico riabilitative e socio riabilitative a favore di persone affette da disturbi mentali, autrici di reato e che la magistratura ha stabilito essere socialmente pericolose, dietro parere espresso da un perito psichiatra (Fornari 2018).

Lo stesso autore suggerisce degli indicatori interni (qualità soggettive) caratteristici del paziente che necessita della permanenza in R.E.M.S. ovvero: la presenza o persistenza di disturbi psicotici o depressivi maggiori, disturbi di personalità gravi, disturbi del neurosviluppo o neurocognitivi maggiori con scompenso sul piano funzionale ed in eventuale comorbidità con altri disturbi mentali o uso di sostanze stupefacenti; scarsa adherence; mancata o inadeguata compliance; assenza di terapie specifiche; esplosioni di rabbia incontrollata con comportamenti auto e/o etero lesionistici. Meno rilevanti, ma da valutare ugualmente, sono la scarsa o assente insight, la presenza di disorganizzazione cognitiva e una storia psichiatrica significativa.

Ci sono dei casi nei quali il provvedimento diventa urgente e prevede una elevata necessità di cura e controllo ovvero: un’escalation psicopatologica altrimenti difficilmente trattabile; un elevato grado di comorbidità con disturbi di personalità, uso di sostanze e resistenza al trattamento; un’inesistente o errata protezione clinica del paziente; una collocazione giudiziaria o logistica inadeguata rispetto alla gravità della patologia del quale è portatore; un progetto di cura e riabilitazione non concretizzabile o non realistico e la possibilità concreta che il soggetto passi all’atto distruttivo non gestibile altrimenti.

Nel momento in cui i disturbi vanno attenuandosi e il quadro psicopatologico e comportamentale si stabilizza, si possono adottare misure più soft sfruttando le risorse esterne accertate preventivamente dall’U.E.P.E. (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero di Giustizia. Questi indicatori sono: le caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale; la possibilità di una continuità assistenziale territoriale; un eventuale (re)inserimento lavorativo o l’attivazione di percorsi alternativi; il grado di accettazione del rientro in società e le opportunità alternative abitative e lavorative. Spesso queste persone sono svantaggiate dal punto di vista socio ambientale e la nomina di un amministratore di sostegno sarebbe utile per poterle affiancare nel reinserimento nella quotidianità e nella società che tendenzialmente è ostile nell’accettare la presenza di soggetti difficili in particolare se folli-rei.

Nel corso del percorso clinico giudiziario il giudice deve svolgere la funzione di garante e supervisore e deve fare in modo che le esigenze di controllo e sicurezza restino ben distinte da quelle di cura e protezione.

Ogni decisione di proroga, modifica o revoca del provvedimento in atto deve essere presa dal giudice di sorveglianza in accordo con gli operatori della R.E.M.S. e del Dipartimento di Salute Mentale di appartenenza, prevedendo delle revisioni periodiche sia del progetto che della condizione mentale del soggetto.

Il malato di mente non più pericoloso socialmente non è soggetto alla misura di sicurezza psichiatrica e di conseguenza diventa esterno al circuito giudiziario con auspicio che venga preso in carico a livello territoriale dai servizi psichiatrici.

I criteri da valutare per poter dichiarare la positiva remissione clinica e la cessata pericolosità sociale psichiatrica sono: buon compenso psicopatologico; buona aderenza terapeutica da parte del paziente; ottenimento di una buona capacità di controllo e di regolazione emotiva; disponibilità territoriale nel seguirlo; prospettiva di reinserimento sociale sia dal punto di vista relazionale che di assegnazione a strutture residenziali; una vita interpersonale soddisfacente compatibilmente con le skills residue; la ripresa del lavoro o la ricerca di un impiego possibilmente di utilità pubblica come previsto per legge e buone prospettive di rientro nel proprio contesto di vita.

Fondamentale per perseguire questi obiettivi è un lavoro d’insieme anche con l’ U.E.P.E. e il magistrato di sorveglianza avendo attenzione di lavorare sulle capacità minime e personali di recupero.

R.E.M.S e persone psichiatriche ree: le prospettive in Italia

I soggetti con problemi di salute mentale e autori di reato sono molto complessi da gestire e coinvolgono molteplici professionisti i quali devono coordinarsi tra loro per seguire al meglio ogni singolo caso nonostante non sia sempre facile o possibile.

Negli anni sono stati condotti molteplici studi e avanzate diverse teorie per capire cosa porta un soggetto a delinquere e a risultare deviante nei confronti della società aumentando lo stigma da sempre esistente nei confronti di persone considerate anormali e dunque inferiori oltre che socialmente pericolose.

Un atto, una credenza o un tratto di una persona sono socialmente devianti non perché sono rari, non comuni, inusuali, ma perché violano una norma (sociale) e sono disapprovati e condannati dalla maggior parte delle persone (Barbagli M. 2003).

E’ fondamentale creare i presupposti per conciliare la psichiatria con il sistema penale e per fornire alla persona un’assistenza più produttiva rivolta al reinserimento sia sociale che familiare e lavorativo.

Il vero superamento da un’ottica primitiva prettamente punitiva del reo ad una considerazione dello stesso come soggetto da assistere e riabilitare tramite la pena è un percorso piuttosto lungo e difficile. Non lo abbiamo ancora raggiunto e c’è ancora molta strada da fare.

L’interesse a trovare un filo conduttore multidisciplinare esiste e si alimenta tramite la formazione continua, gli aggiornamenti, i congressi che favoriscano confronti multiprofessionali volti a trovare un accordo su come sia più corretto affrontare un soggetto malato mentalmente e autore di reato tenendo sempre in considerazione anche la tutela sociale.

Un aspetto da coltivare è il coinvolgimento della popolazione stessa incrementandone la cultura con la speranza di una diminuzione dello stigma e con conseguente accettazione di un sistema carcerario più leggero per una determinata tipologia di criminale.

Permane il dubbio se interessi maggiormente la sorte dell’imputato o la gravità del reato commesso secondariamente ad una patologia psichiatrica.

Tutte le società organizzano il proprio funzionamento intorno a sistemi di norme sociali, ossia regole di condotta che stabiliscono la “tollerabilità” e “desiderabilità” dei comportamenti dei loro membri (Colombo G. 2008).

Il rischio principale delle R.E.M.S. è che nel loro interno si riformi un microsistema di tipo carcerario gestito però da personale socio – sanitario. Questo può portare a confusione e ad una gestione poco adeguata.

Non sarà semplice trovare il modo più corretto e unitario di presa in carico del paziente psichiatrico-reo, ma è auspicabile che qualsiasi sia la presa di posizione diventi più curativa che punitiva, mirata alla sua risocializzazione piuttosto che all’isolamento e all’esclusione.

 

Il presente elaborato è una sintesi della tesi di Master in Medicina Forense Elform e Learning della dott.ssa Francesca Pettenello.

Abraham Harold Maslow, la motivazione e la piramide dei bisogni – Introduzione alla Psicologia

Abraham Harold Maslow è stato uno psicologo statunitense nato il 1° aprile del 1908, a New York City. Maslow era il primogenito di una coppia di ebrei immigrati negli Stati Uniti dalla Russia che vissero per diversi anni a Brooklyn.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Egli trascorse una infanzia difficile a causa di suo padre, un uomo che faceva uso abituale di alcol e dai comportamenti aggressivi e sua madre, una persona psicologicamente instabile, tanto che Maslow stesso la definì “schizofrenica”.

Abraham Maslow: vita e percorso accademico

Maslow, però, contò sull’appoggio dello zio, fratello della madre, che si prese cura di lui.

I genitori di Abraham Maslow, tuttavia, vollero concedere un futuro migliore ai figli e per questo lo spinsero molto a completare gli studi universitari in legge, prima al City College di New York e poi presso la Brooklyn Law School. Il padre avrebbe voluto che diventasse un bravo avvocato. Maslow, invece, pensava che se fosse diventato avvocato avrebbe dovuto avere a che fare con persone malvagie e di conseguenza decise che non sarebbe stata una strada da portare avanti.

Per questo si trasferì a Cornell, ottenendo una borsa di studio presso la Facoltà di Agraria e pensò di frequentare anche dei corsi di discipline umanistiche. In questo ateneo, però, non fu accolto positivamente essendo ebreo, e per questo iniziò a nutrire rabbia e risentimento e presto decise di tornare a New York e frequentare nuovamente il City College.

Proprio in questi anni iniziò ad appassionarsi alla filosofia e alla psicologia comportamentista e dopo il matrimonio, finalmente riuscì a trasferirsi all’università del Wisconsin, dove poté liberamente studiare psicologia. L’esperienza all’Università del Wisconsin non fu positiva, poiché sia i docenti sia gli allievi erano proiettati solo ed esclusivamente alla carriera, piuttosto che alla risoluzione di problematiche sociali.

Abraham Maslow grazie a una borsa di studio della Columbia University riuscì a realizzare degli studi in cui mise in evidenza la relazione esistente fra sesso e potere. Inoltre, andò da Adler a New York per studiare con lui e da quel momento iniziò un lungo sodalizio, che si interruppe nel momento in cui Maslow divenne scientificamente più forte. Nel 1938, Abraham Maslow intraprese ricerche antropologiche ad Alberta, con gli indiani dai Piedi Neri del Nord, scoprendo le varie differenze esistenti con la cultura occidentale.

Maslow per diversi anni lavorò al Brooklyn College dove diede un grosso contributo allo studio della motivazione e alla psicologia umanistica, della quale è considerato il padre.

Maslow trascorse gli ultimi anni di vita insegnando in California, dove morì nel 1970, stroncato da un arresto cardiaco.

Abraham Maslow e la teoria dei bisogni

Gli studi di Abraham Maslow si sono focalizzati principalmente sul tema della motivazione. Egli elaborò una classificazione gerarchica della motivazione: si parte dai bisogni primari e fisiologici, come cibo, acqua, impulso sessuale, ecc., per poi giungere a quelli superiori ovvero stima, sicurezza, affetto, amore.

Maslow, dunque, ideò la piramide dei bisogni all’interno della quale sono posizionati in ordine gerarchico i diversi bisogni. Si parte dai bisogni primari per giungere al bisogno della realizzazione di sé, passando per i vari stadi che consentono la progressione solo una volta soddisfatti. Nello specifico, secondo Abraham Maslow, solo dopo aver appagato i bisogni elementari l’individuo riesce ad esprimere esigenze di livello superiore. Di seguito, saranno definiti  diversi bisogni.

I bisogni fisiologici

Maslow sostiene che ogni bisogno fisiologico e il comportamento messo in atto per realizzarli, funge da sostegno a ogni altro tipo di bisogno. Da ciò si deduce che i bisogni fisiologici non sono del tutto isolabili. Quindi, i bisogni fisiologici sono i più evidenti e per questo i primi a essere soddisfatti e al cospetto dei quali tutti gli altri bisogni perdono di significato.

Quando i bisogni fisiologici saranno soddisfatti nasceranno altri bisogni sempre di natura più elevata. Abraham Maslow ritiene dunque che la gratificazione sia altrettanto importante della privazione perché libera l’organismo dal dominio di un bisogno relativamente più fisiologico e permette l’emergenza di altri più sociali. I bisogni fisiologici cessano di esistere solo dopo essere stati soddisfatti. Un bisogno soddisfatto perde la motivazione, che invece presentano i bisogni insoddisfatti di grado più elevato che erano stati silenti quando i bisogni più bassi erano presenti.

I bisogni di sicurezza

Subito dopo i bisogni fisiologici, si trovano i bisogni di sicurezza, come la stabilità, la protezione, la libertà dalla paura, etc. Questi bisogni organizzano il comportamento, mettendo al loro servizio tutte le capacità dell’organismo volto al raggiungimento della sicurezza.

Il bisogno di appartenenza

Quando i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza sono soddisfatti emergono i bisogni di appartenenza, di affetto e di amore. Abraham Maslow sostiene che a questo stadio della piramide la persona sentirà acutamente l’assenza di amici, di un’amante, di una moglie o dei figli e di conseguenza desidera relazioni di affetto. Maslow sostiene che il bisogno di appartenenza abbia contribuito in modo determinante al rapido aumento dei gruppi terapeutici e delle comunità volontarie. La frustrazione dei bisogni di appartenenza e di affetto nella moderna società è responsabile di molti casi di disadattamento e di forme patologiche ancora più gravi.

Il bisogno di stima

Una volta soddisfatti i bisogni fisiologici, quelli di sicurezza e quelli di appartenenza, spontaneamente, tende a manifestarsi l’esigenza di essere stimati dagli altri ma anche da se stessi. Si tratta di due aspetti dello stesso bisogno, uno rivolto all’esterno e l’altro all’interno. Nel primo aspetto si evidenzia il desiderio di avere una buona stima sociale; nel secondo caso, invece, si attua una valutazione delle proprie capacità personali che consentono di affrontare adeguatamente il quotidiano.

Maslow sottolinea l’importanza della soddisfazione del bisogno di autostima e delle conseguenze positive che ne conseguono: sentimenti di auto-fiducia, di valore, di forza, di capacità e di adeguatezza. Al contrario, la frustrazione di queste esigenze produce un sentimento di inferiorità, di debolezza e di abbandono

Il bisogno di autorealizzazione

Soddisfatti i bisogni precedenti, nasce quello di autorealizzazione.  Grazie alla soddisfazione di questo bisogno è possibile ottenere un senso di appagamento vedendo esplicitare al meglio il proprio potenziale e le proprie capacità. Se così non fosse, si potrebbero manifestare degli stati di grave sofferenza psichica.

Il bisogno di conoscenza e dei bisogni estetici

Maslow a questo punto introduce il bisogno di conoscenza e dei bisogni estetici. Si tratta dei bisogni più alti che saranno i primi ad essere sacrificati ma che per la loro intrinseca natura rappresentano le caratteristiche salienti dell’essere umano e che lo contraddistinguono da altre specie. Per questo se realizzati riescono a sublimare l’uomo e rendono realizzabile la soddisfazione dei bisogni più complessi.

Maslow ed il costrutto di Motivazione

Abraham Maslow, inoltre, sostiene che non tutti i comportamenti sono motivati dai bisogni fondamentali. Infatti, ci sono dei comportamenti motivati da stimoli esterni o puramente espressivi. In sostanza, esistono diversi gradi di motivazione, per questo si possono avere comportamenti molto motivati e altri meno. In ogni caso, la motivazione è il motore che muove ogni essere vivente alla soddisfazione di un dato bisogno e da cui riesce a trarre gratificazione personale.

Maslow afferma che dopo una lunga gratificazione i bisogni fondamentali più alti possono divenire indipendenti dai loro prerequisiti e dalla propria stessa gratificazione. Questo vuol dire che alcuni aspetti della persona sono divenuti autonomi, cioè indipendenti dalle stesse gratificazioni che li hanno prodotti.

La motivazione, dunque, può essere definita come l’insieme dei fattori alla base del comportamento che inducono una persona ad agire per il raggiungimento di uno scopo. La motivazione dipende dalle competenze, cosa si è in grado di fare e dai valori personali, ovvero ciò che si vuole fare.

L’impulso motivazionale si ha ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, che rappresenta la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e una situazione desiderata. Il bisogno è quindi uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per riuscire a realizzarlo o sublimarlo.

La teoria di Maslow è stata a volte criticata perché considerata riduzionista, in quanto accusata di non tenere conto delle tensioni più profonde che motivano le persone a fare quello che fanno (Geller, 1982; Neher, 1991;Wahba & Bridwell, 1976).

Negli articoli pubblicati postumi è possibile evincere come Abraham Maslow abbia poi proposto di abbandonare il tradizionale concetto edonistico di felicità, ridefinendola come l’esperienza di emozioni vere relative a problemi e compiti reali, e che la nevrosi fosse un blocco nella crescita personale (Hoffman, 1996). A questo punto, Maslow propone di sviluppare una nuova psicologia basata sull’1% più sano della popolazione adulta, riconoscendo comunque l’importanza del comportamentismo e della psicoanalisi. Maslow, dunque, credeva che le persone più sane avessero la capacità di esprimere un senso di eterno, di sacro, di spirituale di verità, di giustizia e bellezza, fondamentali alla sua salute. Secondo Abraham Maslow, una buona società non si misura dallo sviluppo tecnologico o economico, ma dalla qualità delle persone che produce.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Instagram, autostima e percezione corporea – Riccione, 2019

Chi trascorre maggior tempo su Instagram avrebbe un’ autostima più bassa e una percezione negativa del proprio corpo

 

Instagram è una forma relativamente nuova di comunicazione, nata nell’ottobre del 2010, in cui gli utenti possono condividere facilmente i loro aggiornamenti scattando foto e perfezionandole con dei filtri.

Preemesse

Negli ultimi anni, e soprattutto fra le nuove generazioni, si è osservato lo sviluppo di Instagram come social media di elezione per presentarsi al mondo e gestire le proprie relazioni online, usando un canale comunicativo molto semplice (Lee, Lee, Moon & Sung, 2015). Oltre alla creazione della pagina di presentazione personale dell’utente, Instagram consente di condividere foto e video istantaneamente su più piattaforme (Hu, Manikonda & Kambhampati, 2014). Instagram permette, a chi lo utilizza, di aggiungere didascalie e hashtag, utilizzando il simbolo “#” per descrivere immagini e video, di commentare le foto e di esprimere i like (“mi piace”) ed è possibile taggare (contrassegnare) gli altri utenti utilizzando il simbolo “@” .

È utile sottolineare che la rete di Instagram è asimmetrica, ovvero se A segue B, non è necessario che B segua a sua volta A. Il social network permette di decidere se il proprio profilo personale possa essere pubblico o privato; nel primo caso i video e le foto sono visibili a chiunque, mentre nel secondo unicamente ai followers.

Gli utenti Instagram in Italia sono 16 milioni nel 2018, questo numero rappresenta il 27% dell’intera popolazione nazionale (“Digitalic”, 2018). La piattaforma, ha raggiunto 813 milioni di utenti a livello mondiale alla fine di marzo 2018, con un aumento di oltre il 35% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Instagram ha anche una base di utenti più giovane rispetto ad altre piattaforme social, con l’età media degli utenti tra 27 e 28 (Digital, 2018).

Con la continua crescita della proprietà di smartphone e tablet, il progresso delle nuove tecnologie e il sostanziale miglioramento delle applicazioni, la dipendenza dai social media continuerà a essere una delle principali preoccupazioni (Hawi & Samaha, 2016).

L’identità fisica e psichica si forma attraverso i rapporti interpersonali (Tantleff-Dunn & Lindner, 2011) che, al giorno d’oggi, si sviluppa sempre più spesso attraverso l’utilizzo dei social network. Dalla recente letteratura scientifica è emerso che le persone con bassa autostima tendono ad utilizzare maggiormente i social media (Błachnio et al., 2016; Hawi & Samaha, 2016; Andreassen et al., 2017) e che i feedback ricevuti possono determinare un aumento di autostima (Valkenburg, Peter & Schouten, 2006; Andreassen et al., 2017). Inoltre, è stato rilevato come l’utilizzo di Instagram, nello specifico, sia collegato alle preoccupazioni relative all’immagine corporea e al controllo del peso (Wesseldyk, 2017).

Gli studi riportano come, indipendentemente dalla cultura e dal genere, esista una relazione negativa tra dipendenza da social media e autostima e una relazione negativa mediata tra dipendenza da social media e soddisfazione con la vita. Coloro che utilizzano i social media con l’intenzione di migliorare la propria immagine di sé sono a rischio non solo di abbassare la propria autostima, ma anche la loro soddisfazione per la vita (Hawi & Samaha, 2016).

Autostima

L’ autostima può essere definita come un sentimento globale di apprezzamento verso se stessi o come un senso di adeguatezza, oppure come quell’insieme di sentimenti generalizzati di auto-accettazione e rispetto di sé (Crocker & Major, 1989). Essa rimane abbastanza costante nel tempo ed è relativamente immune al cambiamento (Campbell, 1990). Sono tre gli elementi fondamentali che caratterizzano l’ autostima: il primo aspetto è la presenza negli individui della capacità di auto-osservarsi e quindi di conoscere se stessi; il secondo è quello valutativo che permette di esprimere un giudizio e, il terzo, è l’aspetto affettivo, che permette di valutare gli elementi descrittivi.

Blachnio, Przepiorka & Rudnicka (2016) hanno evidenziato che le persone con bassa autostima tendono ad utilizzare maggiormente i social media per migliorare la propria immagine e autostima. I feedback (like e commenti) ricevuti dagli amici on-line possono infatti far aumentare o diminuire l’ autostima e il benessere psicologico in generale (Valkenburg, Peter & Schouten, 2006). Andreassen et al. (2017) sostengono le medesime ipotesi, suggerendo che le persone usino i social media per ottenere una maggiore autostima e/o per sfuggire ai sentimenti di bassa autostima.

Si può ipotizzare inoltre che individui con una scarsa stima di sé possano preferire comunicare on-line anziché faccia a faccia, e che utilizzino dunque i social media come modalità di socializzazione “sicura” (McKenna& Bargh, 1998).

Percezione corporea

La percezione corporea si crea in base alle relazioni con gli altri e alla valutazione sociale interiorizzata (Tantleff-Dunn & Lindner, 2011). Nella formazione dell’identità fisica e psichica è molto importante il rapporto con l’altro, e al giorno d’oggi tale rapporto viene a crearsi sempre più spesso all’interno dei social network.

In assenza di contatto con il volto e lo sguardo altrui, l‘immagine mentale corporea non ha la possibilità di formarsi integralmente (Ferrari, 2007). Infatti, in Internet il corpo non c’è, l’altro non c’è, ma al tempo stesso ci sono i corrispettivi immaginativi del corpo e dell’altro, loro sostituti figurativi (avatar), loro riproduzioni o ricordi (fotografie), loro rappresentanti simbolici (Bilocati, 2010).

Lo studio

Lo scopo principale della ricerca di Arlanch, Consolini, Nicolussi-Leck e Santoni (2019) è stato individuare come Instagram e la percezione corporea siano legati all’autostima.

I soggetti che hanno risposto allo studio sono stati 344, tra i 18 e i 57 anni. Le risposte sono state raccolte con un questionario online tramite lo strumento Moduli di Google. Oltre ad alcune informazioni su variabili socio-demografiche, sono state formulate ai partecipanti delle domande in merito all’utilizzo del social network Instagram. In aggiunta è stata somministrata una batteria di test, composta da tre questionari: il Sociocultural Attitudes Towards Appearance Questionnaire – 4 (SATAQ-4; Schaefer et al., 2015), il Body Uneasiness Test (BUT; Cuzzolaro, Vetrone, Marano & Batacchi, 1999) parte 1, ed il Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES; Rosenberg, 1965).

Dalla ricerca è emerso che la maggior parte dei partecipanti si connette ad Instagram da 5 a 10 volte al giorno, trascorrendo dai 10 ai 30 minuti al giorno on-line; l’83% dei partecipanti utilizza il social network soprattutto per divertimento, il 70% condivide da 0 a 2 foto o stories a settimana e il 41% privilegia immagini di paesaggi.

La maggior parte del campione è soddisfatta del numero di like ricevuti, tuttavia è interessante notare come il 68% ritenga che Instagram non possa influenzare la propria autostima, non presupponendo una connessione tra autostima e numero di like ricevuti.

Inoltre, sono state riscontrate differenze fra maschi e femmine per quanto riguarda la percezione corporea e l’uso di Instagram. Viceversa non è emersa una differenza significativa fra questi due gruppi riguardo la propria autostima. Le donne hanno mostrato di aderire a ideali di appartenenza come magrezza e grasso corporeo maggiormente degli uomini, che invece hanno aderito maggiormente a ideali di appartenenza come muscolosità e atleticità rispetto alle donne.

Inoltre, dai dati è emerso che i partecipanti che hanno una percezione negativa del proprio corpo (con preoccupazione eccessiva per il proprio aspetto fisico, fobia dell’aumento del peso, condotte di evitamento e controlli compulsivi della propria immagine) tendono ad avere un’autostima più bassa. Così anche i partecipanti che hanno sentito maggiormente le  pressioni ideali imposte dalla società (ovvero da parte dei pari, dei media e della famiglia) e hanno interiorizzato ideali di appartenenza riguardanti la magrezza, il grasso corporeo, la muscolosità e l’atleticità.

Nello specifico è emerso che i partecipanti che hanno trascorso maggior tempo al giorno su Instagram e hanno condiviso un maggior numero di foto o stories a settimana, hanno un’ autostima più bassa.

Tra i partecipanti è emersa inoltre una correlazione tra le credenze in merito all’influenza di Instagram e di like ricevuti e l’ autostima: infatti chi ha ritenuto maggiormente che Instagram influenzi la propria autostima tende ad avere un’ autostima più bassa.

La fobia dell’aumento del peso ha avuto la maggiore influenza diretta sull’ autostima, seguita da controlli compulsivi della propria immagine corporea, dalle condotte di evitamento, dalla preoccupazione eccessiva per il proprio aspetto fisico e dalla depersonalizzazione.

Conclusioni dello studio

Osservare e riflettere circa la relazione tra uso di Instagram, percezione corporea e autostima può essere un punto di partenza per comprendere il vissuto di chi utilizza il social network, anche con la speranza di poter prevenire una diminuzione dell’autostima nella popolazione generale, con conseguente miglioramento per la qualità di vita e benessere. Le possibili prospettive future potrebbero essere ulteriori ricerche, che prendano in considerazione l’utilizzo di altri social network attualmente in voga come ad esempio Tik tok, Snapchat o altri. Anche indagare la relazione esistente tra l’utilizzo di Instagram e il proprio senso di autoefficacia potrebbe essere oggetto di ulteriori approfondimenti. In particolare, essere consapevoli che chi passa maggior tempo al giorno su Instagram, tende ad avere un’autostima più bassa, potrebbe essere utile: all’interno di programmi specifici di prevenzione della dipendenza da internet e social network, si potrebbe tentare di aumentare una percezione positiva del proprio corpo tra i partecipanti, aumentare l’autostima e aiutare ad utilizzare il social network Instagram con più consapevolezza.

 

Cosa succede mentre dormiamo? Ce lo raccontano le neuroscienze!

Il sonno ha sempre affascinato scienziati e filosofi, portando alle più disparate teorie. 

 

Oggi lo strumento più usato per misurare i parametri fisiologici durante lo stato di sonno è la polisonnografia, basata principalmente sull’elettroencefalogramma, ma anche sull’elettromiografia, sull’elettrooculografia, sull’elettrocardiogramma e su misure della respirazione.

Generalmente, le ricerche moderne vengono svolte considerando la fase di veglia, la fase REM (rapid eye movement) e tre fasi non-REM, rispettivamente: N1, che riflette la fase di addormentamento; N2, in cui vi è un rallentamento dell’attività fisiologica; N3, che corrisponde al sonno profondo.

Un recente studio (Stevner, et al., 2019) ha utilizzato un nuovo metodo di elaborazione dei dati dell’attività cerebrale durante il sonno, estraendo gli stadi della polisonnografia tramite risonanza magnetica funzionale ed applicando poi un modello stocastico bayesiano dinamico in modo da ottenere una mappa di probabilità delle transizioni rilevanti fra i vari passaggi di stato sull’intera struttura della rete di attività cerebrale.

Lo studio

In questo modo sono stati stimati 19 stadi, raggruppati temporalmente in modo significativo nelle fasi della polisonnografia. È così stato identificato per la prima volta un ricco repertorio di dinamiche ad ampio raggio del cervello durante il sonno.

In particolare, la veglia, la fase REM, N2 e N3 sono rappresentate in modo chiaro da uno o più pattern di attività, mentre N1 non ha trovato corrispondenze in nessuno stadio del sonno definito. Questi risultati mettono in dubbio l’accuratezza di questa fase teorica, che potrebbe essere un artefatto costituito da un misto di veglia e sonno, piuttosto che corrispondere al processo di addormentamento. Inoltre, i risultati suggeriscono che il default mode network abbia una funzione “porta” nel passaggio allo stadio non-REM.

Lo studio ha inoltre dimostrato l’applicabilità di una tecnica innovativa per l’esplorazione dei cambiamenti fondamentali nel cervello, creando nuovi possibili sviluppi nella ricerca sui disturbi del sonno e, più in generale, sul funzionamento del sistema nervoso.

Terapia Cognitiva Analitica (CAT) – Report dalla conferenza internazionale di Ferrara

È stata Ferrara ad ospitare in questi giorni l’ottava conferenza internazionale di Terapia Cognitiva Analitica, che per la prima volta si svolge in una città italiana.

 

L’ottava conferenza internazionale di Terapia Cognitiva Analitica, organizzata dall’associazione italiana di terapia cognitiva analitica ITA CAT in collaborazione con l’Università di Ferrara ha accolto professionisti della salute mentale provenienti da 14 paesi. Molti gli esponenti provenienti da Australia, Finlandia e Paesi Anglosassoni, dove la terapia cognitiva analitica è molto utilizzata anche all’interno del Sistema Sanitario Nazionale.

La terapia cognitiva analitica

La terapia cognitiva analitica nasce proprio all’interno del sistema sanitario nazionale, grazie al lavoro di Antony Ryle. Si sviluppa come risposta ai bisogni di un servizio pubblico, che vuole offrire ai pazienti una psicoterapia a breve termine, che integra differenti approcci (cognitivo, analitico, costruttivista). 
Da qui la CAT si sviluppa e viene usata in molteplici contesti (dalla psicoterapia, alle supervisione, al lavoro di équipe,) rimanendo sempre un modello di psicoterapia basata su una visione del sé profondamente sociale, un modello attivo, collaborativo, che fa uso della riformulazione scritta.

Nella terapia cognitiva analitica paziente e terapeuta lavorano insieme per riformulare, riconoscere, e rivedere le procedure disfunzionali che sono all’origine della costituzione e del mantenimento del malessere e della psicopatologia. All’Interno di queste procedure un ruolo fondamentale rivestono i ruoli reciproci, concetto chiave in CAT, che rappresenta il nostro essere in relazione con gli altri e con noi stessi, esperito e interiorizzato ed agito anche nella relazione terapeutica.

La conferenza internazionale di Ferrara



La conferenza, dal titolo “Exploring and Integratic Dialogues in Cat” ha accolto gli interventi di Terapeuti Cat e non solo, ha costituito una opportunità di apertura e di dialogo tra differenti approcci psicoterapeutici.

La conferenza si è aperta con workshop precongressuali volti a fare conoscere la terapia cognitiva analitica a un pubblico prevalentemente italiano e da una lettura magistrale del Prof. Mikael Leiman. 

Louise McCutcheon, Chair di ICATA (International Cognitive Analytic Therapy association) ha dato inizio ai lavori congressuali, ricordando come la terapia cognitiva analitica sia un modello profodamente relazionale, integrato e attento alle differenze culturali ed individuali, usato in molteplici setting e sottolineando quanto sia fondamentale l’approccio dialogico, tra le diverse forme di psicoterapia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Imm. 1 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 2 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 3 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 4 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

Sono stati molti i contributi arrivati da esponenti appartenenti ad orientamenti diversi, dalle neuroscienze al costruttivismo, agli approcci più integrati, unitamente ai workshop clinici, che sono stati occasioni di scambio, confronto e riflessione. Forse proprio da questi ultimi è emerso ancora di più come il modello cat possa costituire un importante framework all’interno del quale ciascun professionista può collocare il proprio bagaglio formativo e le proprie competenze, validando ancora di più quanto l’integrazione sia importante per i nostri pazienti ma anche per noi in quanto professionisti operanti nella salute mentale.

Working to become Dementia Friendly: a Catanzaro una rete amica delle persone con demenze

Progetto nato su proposta dell’associazione “Ra.Gi.” e approvato dalla Federazione Alzheimer Italia. Iniziativa simile al percorso avviato nel borgo di Cicala conosciuto a livello nazionale per la sua capacità di inclusione

 

Catanzaro, 14 giugno 2019 – Una rete di associazioni e scuole unite per diffondere in alleanza con il Comune buone pratiche a sostegno e per l’inclusione sociale delle persone con demenze guardando anche ai bisogni delle famiglie: succede in Calabria, nella città di Catanzaro.

L’iniziativa si chiama “Catanzaro centro storico comunità amica della demenza” ed è nata su proposta dell’associazione “Ra.Gi.”, organizzazione impegnata da oltre dieci anni nel prendersi cura delle persone con patologie neurodegenerative. Il progetto, cui è stata dedicata una conferenza stampa lunedì 17 giugno, alle ore 11,30, nel palazzo comunale di Catanzaro, sala concerti di Palazzo de Nobili, riguarda in particolare il centro storico del capoluogo calabrese ed è stato approvato dalla Federazione Alzheimer Italia.

Working to become Dementia Friendly Catanzaro Centro Storico 2019: questo il nome in inglese dell’iniziativa indicato nel logo del progetto, cui aderisce con delibera di giunta del marzo scorso anche l’amministrazione comunale della città: nello specifico, la giunta si impegna in collaborazione con la “Ra.Gi.” a coinvolgere il più possibile soggetti pubblici e privati per azioni di sensibilizzazione sul territorio.

Per il via libera al progetto, inoltre, la Federazione Alzheimer Italia ha tenuto conto di una serie di condizioni rappresentate ad esempio dalla sensibilità di associazioni e scuole aderenti al comitato promotore – tra queste il Forum del terzo settore e l’Arci – e create nel tempo dall’associazione “Ra.Gi.” presieduta da Elena Sodano. Un’associazione che l’anno scorso, a Cicala, paese della presila catanzarese, ha avviato un percorso simile a quello di Catanzaro. Con il risultato che oggi Cicala è conosciuto a livello nazionale come il “borgo amico delle demenze” perché qui, in adesione a un progetto di “Dementia Friendly Community” avallato sempre da Federazione Alzheimer Italia, le persone con demenze, supportate dalle operatrici e dagli operatori della “Ra.Gi.”, vanno a fare la spesa, comprano il pane, si recano dal fioraio, vivono la piazza, sono protagoniste di una comunità accogliente e formata sulla base di mirate campagne di sensibilizzazione.

Il progetto per Catanzaro e quello per Cicala sono in linea con l’approccio umanizzante seguito dalla “Ra.Gi.” sia sul piano sociale che terapeutico per superare lo stigma, la logica dei “ghetti” e la solitudine tante volte subita dai pazienti e dalle loro famiglie.

 

About us

La “Ra.Gi.” nasce nel 2002 per intervenire su diversi fronti del sociale. La presidente è Elena Sodano, laureata in psicologia, in lettere e filosofia a indirizzo Dams e in scienze e tecniche della comunicazione, e con una specializzazione in danzaterapia. L’associazione si specializza presto nel prendersi cura delle persone con demenze.  Nel 2008, infatti, dà vita nella città di Catanzaro al suo primo centro diurno per persone con Alzheimer, Parkinson e altre forme di demenze; mentre nel 2018 nasce il centro diurno “Antonio Doria” di Cicala, borgo della presila catanzarese: in entrambi i casi ci si basa sulla dimensione sociale, relazionale, del prendersi cura, aprendo alle comunità secondo logiche inclusive, oltre lo stigma e la rassegnazione. In linea con questo approccio nasce la “Terapia espressiva corporea integrata” (Teci) messa in piedi da Elena Sodano per agire sul piano affettivo-emozionale attraverso il contatto corporeo, dando centralità al corpo inteso come depositario di una memoria fatta di emozioni, di “ricordi” emozionali, che resistono a lungo nonostante la malattia. Una terapia da cui è nato anche un libro, “Il corpo nella demenza”, scritto da Elena Sodano per Maggioli Editore. Un metodo finalizzato a favorire il più possibile la qualità di vita, il benessere, il contenimento naturale, non farmacologico, delle demenze. La Teci viene anche insegnata nell’ambito di corsi di formazione curati da Sodano sia in Calabria che fuori regione.

Working to become Dementia Friendly Catanzaro Centro Storico 2019 Elena Sodano

Imm. 1 – ELENA SODANO, presidente della Ra.Gi.

Cos’è una comunità amica delle persone con demenza? Clicca qui per saperne di più

Per saperne di più sulla RaGi e su Elena Sodano clicca qui

Ulteriori informazioni sulla “Ra.Gi.” sul sito web dell’associazione: Associazione Ra.Gi

 

La dieta persona (2018) di Tiziana Stallone – Recensione del libro

La miglior dieta è quella che riusciamo a fare! Così la dott.ssa Tiziana Stallone, Biologa Nutrizionista, presenta nel suo libro La dieta persona la tipologia di “dieta” che risulta più efficace nel lungo termine.

 

Scegliere quello che ci piace di più e che si adatta maggiormente ai nostri ritmi, ci dà modo di essere più costanti, più stimolati a proseguire e mantenere il rispetto di un equilibrio, soprattutto senza percepire restrizioni, regole, divieti e imposizioni.

La dieta persona: i pricincipi

Il volume La dieta persona poggia su tre pilastri: la considerazione dello specifico individuo, nella sua unicità psico-fisica; lo sviluppo di autoconsapevolezza dei propri punti deboli (bisogni emozionali, fragilità) così come dei punti di forza; un approccio globale all’intero stile di vita. Non è infatti possibile concepire un mantenimento a lungo termine senza agire su vari fattori che si influenzano vicendevolmente. Ecco allora la rilevanza data agli aspetti di personalità, al bisogno di dimagrire ma anche alla necessità di condividere i pasti, la convivialità, e di adattarsi alla quotidianità lavorativa e familiare.

È importante “vedere” le persone, indossare i loro panni, trovare soluzioni per alleggerire la loro vita, anche attraverso la dieta.

È così che Tiziana Stallone esprimere il concetto di “personalizzazione” del regime alimentare.

La dott.ssa Stallone sottolinea inoltre un importante concetto di prevenzione e salute:

La dieta non si abbandona mai. Non esiste il periodo in cui si sta a dieta e quello in cui la dieta finisce. A dieta si rimane sempre, tutti i giorni, tutto l’anno, per tutti gli anni della nostra vita.

Quella che può apparire una brutta notizia, in realtà fa riferimento a un modo equilibrato di alimentarsi che può essere sostenuto nel lungo periodo, nutrendo il corpo (e la psiche!) di ciò di cui ha bisogno.

La dieta persona: alimentarsi con più consapevolezza

Il termine “dieta” non assume soltanto il più noto concetto di “restrizione alimentare” ma fa riferimento al “regime salutare” a cui tutti dovremmo attenerci per mantenerci sani, forti e attivi, a prescindere dalla necessità di perdere peso.

La Dieta Persona è una strategia e tecnica di dimagrimento (ma non solo, ricordiamo infatti che il principio basilare è quello di trovare un’alimentazione sana ed equilibrata che ci consenta di restare in salute) volta a sviluppare auto-consapevolezza e conoscenza. Per poter scegliere il programma alimentare più idoneo alla nostra persona è difatti cruciale studiare i meccanismi fisiologici, biologici e genetici su cui si fonda il nostro organismo, assieme a tutti i meccanismi che ne regolano il corretto funzionamento. Acquisire nozioni di base sugli aspetti ormonali e metabolici e sui processi di assimilazione dei nutrienti ci consente di effettuare scelte autonome e stabilire ciò che meglio si adatta ad ognuno di noi. Non è infatti sufficiente ragionare “per calorie”. A parità di assunzione calorica, potremmo aver introiettato cibi “poveri” di nutrienti e a rischio di innescare processi fisiologici negativi.

Non da meno è l’autoconsapevolezza rispetto alle proprie fragilità e vulnerabilità psicologiche: siamo dei mangiatori malinconici, per cui il cibo è una coccola e un sollievo dalle fatiche quotidiane? O apparteniamo al gruppo di chi non riesce a frenare l’istinto di aprire la credenza e divorare ciò che trova al rientro dal lavoro? O ancora, non riusciamo a negarci il piacere di una buona cena in piacevole compagnia?

Il volume La dieta persona ci porta alla scoperta del nostro rapporto con l’alimentazione, e a scoprirne i lati oscuri e gli errori in cui facilmente cadiamo. Vengono offerti spunti pratici sull’organizzazione di alcuni pasti e/o spuntini, ma in sostanza il testo non vuole direzionare verso la scelta di una dieta prestabilita e rigida, quanto piuttosto alla presa di coscienza che per stare bene occorre dedicare del tempo a noi stessi e assumerci ognuno le proprie responsabilità.

Complessivamente, l’idea espressa dalla dott.ssa Stallone appare molto simile ai concetti psicologici di mindfulness e mindful eating, in cui la consapevolezza è il perno su cui fa leva tutto il possibile cambiamento duraturo e profondo della persona.

La comunicazione sessuale nella coppia influenza positivamente il suo funzionamento sessuale

Una comunicazione sessuale efficace all’interno della coppia permette di discutere con il partner sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della relazione sessuale. Questo tipo di autoapertura rende possibile una migliore conoscenza delle preferenze sessuali del partner, aumentando la probabilità di avere rapporti sessuali soddisfacenti e il senso di intimità.

 

La comunicazione sessuale risulta un elemento critico per lo sviluppo e il mantenimento di un sano funzionamento sessuale (Masters & Johnson, 1970).

Questo tipo di scambio comunicativo è caratterizzato da un’autoapertura rispetto alla sfera sessuale, la quale implica il parlare delle proprie preferenze sessuali e del desiderio di intraprendere determinate attività sessuali, come anche dei propri valori, delle proprie esperienze passate e dei propri atteggiamenti rispetto alla sessualità.

Comunicazione sessuale e Soddisfazione sessuale

In uno studio recentemente pubblicato su The Journal of Sex Research è stata evidenziata una relazione positiva tra comunicazione sessuale e soddisfazione sessuale, specialmente per le donne. Mallory e colleghi (2019) hanno infatti condotto la prima metanalisi in cui è stata esaminata nello specifico la relazione tra comunicazione sessuale e aspetti differenti del funzionamento sessuale, tra cui desiderio, eccitamento/funzione erettile, lubrificazione, orgasmo/eiaculazione e dolore, analizzando inoltre il ruolo di possibili elementi moderatori del campione, tra cui genere, età e status relazionale.

Nella metanalisi sono stati inclusi 48 studi condotti in nazioni differenti, per un totale di 12.145 partecipanti. I risultati ottenuti hanno consentito di rilevare come la comunicazione sessuale risulti positivamente associata a tutte le componenti del funzionamento sessuale prese in esame, nonché al funzionamento sessuale in generale.

E’ stata inoltre messa in luce una relazione specifica tra comunicazione sessuale e le componenti del desiderio e dell’orgasmo femminile, la quale è risultata maggiore rispetto a quella riscontrata nei partecipanti maschili. Infine, lo status relazionale della coppia è risultato un importante moderatore della relazione tra comunicazione sessuale e soddisfazione sessuale: è stata infatti riscontrata una relazione più forte tra queste due variabili negli studi in cui i partecipanti erano sposati rispetto a studi in cui i partecipanti riportavano di avere relazioni di altro tipo.

In conclusione

Le possibili implicazioni cliniche della metanalisi condotta da Mallory e colleghi (2019) potrebbero portare allo sviluppo o al miglioramento di interventi terapeutici informati volti al miglioramento del funzionamento sessuale nella coppia, i quali includano anche la componente della comunicazione sessuale.

Uno scambio comunicativo di buona qualità rispetto alla sfera sessuale permette infatti di discutere con il partner sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della relazione sessuale. Questo tipo di autoapertura porta a una maggiore soddisfazione sessuale in quanto rende possibile da una parte una migliore conoscenza delle preferenze sessuali del partner, aumentando la probabilità della messa in atto di pratiche sessuali che lo soddisfino maggiormente, mentre dall’altra aumenta l’intimità di coppia e, di conseguenza, il benessere sessuale.

E’ quindi possibile affermare che il funzionamento e la soddisfazione sessuale sono entrambi direttamente influenzati dall’autoapertura rispetto a tematiche sessuali con il partner, la quale può avere a sua volta un effetto protettivo rispetto a possibili disfunzioni sessuali future.

Le demenze e il Morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è la forma più diffusa di demenza neurodegenerativa e progressiva. I primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi l’esordio può avere inizio già durante la mezza età.

 

Con il termine demenza senile si indica una sindrome clinica, che colpisce soprattutto i soggetti anziani, che si manifesta con cali di funzione in vari domini cognitivi tra cui la memoria, il ragionamento, il criterio di giudizio, il linguaggio, abilità visuo-spaziali, attenzione, percezione e così via. Questi cambiamenti cognitivi possono essere anche associati a cambiamenti nel comportamento o nella personalità.

Il termine demenza racchiude un ampio spettro di gravità che va da una severa menomazione ad una live disabilità. Ci sono diversi sottotipi eziologici della demenza, tra cui si distinguono le demenze neurodegenerative, le demenze vascolari e le demenze miste.

  • Demenze neurodegenerative: sono caratterizzate da un aumento sproporzionato del processo di apoptosi cellulare (morte programmata della cellula). Tra le demenze neurodegenerative quella più frequente è la demenza di Alzheimer, la seconda in ordine di frequenza è la demenza di Lewy, mentre più rara è la demenza fronto-temporale.
  • Demenze vascolari: sono determinate dal ripetersi di “ictus”, cioè continue lesioni cerebrali che si verificano in seguito ad un’alterata circolazione sanguigna. Tra le cause più comuni di demenze vascolari ritroviamo il diabete, l’aumento della pressione arteriosa e alcune malattie sanguigne e cardiache.
  • Demenze miste: si verificano in seguito all’associazione di demenze vascolari e neurodegenerative.

Il morbo di Alzheimer

Nel 1907 Alois Alzheimer descrisse, per primo, un caso di demenza che oggi porta, appunto, il suo nome. Si trattava di una donna di mezza età che presentava disturbi di memoria e un indebolimento progressivo delle capacità cognitive.

Uno dei primi sintomi che la signora presentò fu la presenza di alcuni sospetti ingiustificati circa il comportamento del marito. Con il passare del tempo le sue capacità mnestiche divennero sempre più precarie, al punto che non riusciva più a orientarsi in casa, nascondeva oggetti nel suo appartamento e, a volte, credeva perfino che il marito volesse ammazzarla. La paziente fu in seguito ricoverata in un ospedale psichiatrico dove morì cinque anni dopo l’inizio della malattia.

All’autopsia, furono ritrovati nel cervello della paziente quelli che oggi vengono descritti come i principali fattori caratterizzanti il morbo di Alzheimer, vale a dire, ammassi neurofibrillari e placche senili localizzate nel neocortex e nell’ippocampo.

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa cronica e progressiva che si osserva nelle persone anziane. Colpisce all’incirca il 7% di soggetti che hanno superato i 65 anni e circa il 40% di quelli che hanno superato gli 80 anni. Attualmente, negli Stati Uniti, cinque milioni di persone sono affette da questo tipo di demenza e nei prossimi 25 anni si ritiene che il numero di persone malate si triplicherà.

Annualmente i costi associati al disturbo di Alzheimer sono stimati tra i 105.2 miliardi e i 160 miliardi di euro in Europa e tra i 183 miliardi e i 385 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Pertanto, allo stato attuale, in ogni società il morbo di Alzheimer costituisce uno dei principali problemi della sanità pubblica.

Nella maggior parte dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, i primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi le prime manifestazioni del disturbo hanno inizio già durante la mezza età. L’esordio è abbastanza subdolo: i familiari notano dei cambiamenti ma, di solito, non li attribuiscono mai alla malattia bensì a stress e stanchezza e anche il malato, dal canto suo, non sembra essere consapevole che tali cambiamenti sottendono una malattia. I sintomi più comuni riguardano difetti di memoria. Il paziente tende, infatti, a ripetere spesso le stesse domande e sembra non ricordare eventi avvenuti di recente; alterazioni nel linguaggio, spesso tendono a perdere il “filo del discorso”; sono presenti difficoltà nella risoluzione di problemi e nell’esecuzione di calcoli e, a volte, anche incongruenze nel comportamento. In alcuni pazienti sono presenti anche sintomi psicotici sotto forma di allucinazioni o di percezioni illusive. Il malato, nel primo periodo di insorgenza, è ancora autonomo ma con il passare del tempo perde gran parte della sua indipendenza diventando incapace di svolgere le normali attività quotidiane e lavorative fino ad arrivare agli ultimi stadi della malattia in cui non parla più ed è costretto a letto. La morte sopraggiunge, solitamente, in seguito alla presenza concomitante di altre patologie.

Le regioni cerebrali coinvolte nella patogenesi del morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è caratterizzato da varie alterazioni che coinvolgono i neuroni di specifiche regioni cerebrali, tra cui in particolare, l’ippocampo, il neocortex, l’area entorinale, l’amigdala, il nucleo basale, la porzione anteriore del talamo e nuclei monoaminergici del tronco encefalico. La distribuzione e la diffusione di queste alterazioni presentano diverse caratteristiche che sono specifiche per ogni neurone e quindi per ogni area cerebrale.

Si pensa che le alterazioni della corteccia entorinale, dell’ippocampo e di altri circuiti della corteccia mediotemporale siano determinanti nell’insorgenza dei deficit di memoria che caratterizzano questo tipo di demenza.

Problemi legati, invece, al comportamento e agli stati emozionali che si osservano in alcuni pazienti, sono probabilmente connessi ad alterazioni della corteccia limbica, dell’amigdala, del talamo e di vari sistemi monoaminergici del tronco dell’encefalo che proiettano alla corteccia dell’ippocampo.

Le alterazioni più comuni riscontrabili nel morbo di Alzheimer sono la presenza di placche senili (o neuritiche) e matasse neurofibrillari. Le regioni cerebrali colpite dal morbo di Alzheimer, infatti, contengono diverse placche senili in cui possiamo osservare depositi extracellulari di sostanza amiloide che sono a loro volta circondati da assoni distrofici, da astrociti e dagli elementi della microglia. Il costituente principale dell’amiloide è un peptide di 4 kDa, detto amiloide Aβ . L’amiloide Aβ deriva dall’idrolisi di una proteina precursore di maggiori dimensioni detta anche proteina precursore dell’amiloide (APP). Questo tipo di placche le ritroviamo anche nel cervello di persone anziane sane ma in numero più ridotto.

L’alterazione più comune del citoscheletro è caratterizzata, invece, dalla presenza di matasse neurofibrillari, costituite da fasci di filamenti elicoidali nei corpi cellulari e nella parte prossimale dei dendriti. Le prime matasse compaiono spesso nei neuroni della corteccia entorinale per poi estendersi a tutto il neocortex. La funzione del citoscheletro è quella di garantire il mantenimento strutturale dei neuroni e gli spostamenti degli organuli intracellulari e delle proteine, compreso anche il trasporto assonale. Pertanto, è probabile che le anomalie del citoscheletro ostacolino il trasporto assonale compromettendo così le funzioni sinaptiche e la vitalità stessa dei neuroni. Infine, le cellule colpite da queste alterazioni muoiono interrompe, ovviamente, anche l’arrivo delle informazioni sinaptiche alle regioni cerebrali la cui funzione è fondamentale per lo svolgimento delle normali attività cognitive e per la memoria.

Gli interventi di riabilitazione e training cognitivo nel morbo di Alzheimer

Anche se si dovessero trovare in breve tempo farmaci più efficaci per risolvere le lesioni di ordine neurocellulare, resta comunque di grande importanza provare e predisporre interventi assistenziali e riabilitativi sempre più efficaci, che oggi risultano l’unico baluardo possibile nei diversi momenti che la malattia struttura ed impone.

L’approccio riabilitativo mira al rallentamento del declino cognitivo, al controllo del comportamento-problema, all’orientamento delle funzioni e al miglioramento del rapporto soggettivo con la propria esistenza, inoltre ha il merito di aver dato un concreto aiuto ai caregivers e ai familiari.

Tra le tecniche applicate sinora, la più conosciuta è sicuramente la Reality Orientation Therapy (ROT), proposta come metodica cognitiva-comportamentale e come intervento riabilitativo psico-sociale rivolto alla persona. Questo metodo nasce negli Stati Uniti ad opera di Folsom (1958) per i veterani di guerra, come tecnica specifica riabilitativa in pazienti confusi e, solo più tardi, fu utilizzata per i pazienti con demenza. Il presupposto della sua utilizzazione è che il paziente abbia sufficienti capacità di comunicazione verbale e gestuale. Essa, pertanto, può essere proposta solo ai soggetti con un indebolimento cognitivo lieve o moderato e con funzioni sensoriali non compromesse in modo significativo. La ROT si basa infatti sull’ipotesi che la stimolazione neurosensoriale attivi connessioni nervose scarsamente utilizzate e/o ne favorisca lo sviluppo in una sorta di vicarianza funzionale. Fornendo punti di riferimento spaziali, relazionali e temporali, la ROT permette al paziente di riappropriarsi di quegli strumenti che gli consentono di ritrovare un rapporto con se stesso e con le dimensioni spazio-temporali. Sul piano operativo prevede: attività di orientamento temporale (vengono fornite informazioni sul tempo cronologico, stagionale e metereologico); attività di orientamento spaziale (viene richiamata l’attenzione sulla sede degli incontri, percorsi abituali e luoghi familiari); attività di riappropriazione corporea (si porta il paziente a focalizzare l’attenzione sul proprio corpo attraverso tecniche di toccamento e concentrazione); attività di stimolazione sensoriale (si riporta il soggetto, in modo progressivo, a contatto con l’ambiente circostante). Nella ROT ci sono due modalità di intervento: un metodo informale, in cui stimolazioni di orientamento temporo-spaziali vengono effettuale in contatto con operatori, assistenti e caregivers, ed un metodo formale (in classe), in cui il riorientamento si svolge insieme ad altri pazienti. Anche se questo metodo viene molto utilizzato per la sua facilità di applicazione va purtroppo sottolineato che i benefici della terapia della realtà sono assicurati solo nel momento in cui si protrae l’intervento, mentre non sono stati dimostrati effetti a lungo termine.

L’altra tecnica di intervento maggiormente utilizzata è il Memory Training. Prima di esporre in cosa consiste tale tecnica, occorre distinguere, nelle demenze, tra due tipi di perdita di memoria: quella semantica, che è precoce, e quella procedurale che, invece, viene persa solo nelle fasi più avanzate della malattia. Il Memory Training si inserisce tra gli interventi di tipo cognitivo e consiste nell’utilizzare strategie esterne per rendere le attività da svolgere meno dipendenti dalla memoria. L’intervento propone due obiettivi: migliorare la memoria procedurale del paziente coinvolgendolo nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana e formare il familiare del paziente affinché possa apprendere le tecniche di stimolazione necessarie per poter proseguire l’intervento a casa. Diverse sono le attività svolte di Memory Training tra cui: attività di cura e igiene personale, attività di cucina, attività legate all’abbigliamento e attività legate alla comunicazione con l’ambiente esterno. Tuttavia, diversi studi hanno mostrato inconsistenti i risultati ottenuti con tali tecniche e hanno ribadito la loro applicabilità solo agli stadi iniziali della malattia.

Una figura fondamentale in questo tipo di malattia è sicuramente quella del caregiver proprio perché il paziente non essendo autosufficiente ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Il peso dell’assistenza ha portato a definire la malattia come una “malattia familiare” ( in senso sociologico). Alcuni dei problemi a cui i caregiver vanno incontro riguardano: modificazioni della routine familiare, modificazioni della qualità delle relazioni familiari, modificazioni delle relazioni sociali, diminuzione del tempo libero e dei tempi di riposo, difficoltà sul piano lavorativo. Importanti conseguenze, potrebbero “colpire” anche i figli dei caregiver che potrebbero sentirsi trascurati o essere coinvolti loro stessi nell’assistenza al malato e potrebbero, inoltre, emergere conflitti con gli altri membri della famiglia meno coinvolti nell’assistenza. Va sottolineato che l’attività di caregiving perdura per tutto il tempo della malattia e quindi sarebbe opportuno che la famiglia non venga lasciata sola e che chieda aiuto, laddove sia necessario, a strutture e figure più competenti.

Ballate per uomini e bestie di Vinicio Capossela, imperdibile album antropologico

Vinicio Capossela, non nuovo a mitologiche imprese musicali (si pensi al visionario viaggio di Marinai, profeti e balene), è riuscito con l’ultimo disco fresco di uscita Ballate per uomini e bestie, a rappresentare magistralmente ancora una volta l’umana esistenza, nelle sue miserie, contraddizioni e slanci eroici, grazie a una serie di geniali metafore e allegorie..

 

Non sono solito recensire CD, ma in questi tempi di musica liquida usufruibile ovunque, di canzoni fast-food e di sovrabbondanza musicale di ogni genere, trovare qualcosa che si abbia voglia di ascoltare e riascoltare, addirittura approfondire, che ti incuriosisca a tal punto da cercare le fonti bibliografiche che l’hanno ispirato, che soprattutto ti faccia pensare e ripensare.. farò un’eccezione.

Vinicio Capossela, non nuovo a mitologiche imprese musicali (si pensi al visionario viaggio di Marinai, profeti e balene), è riuscito con l’ultimo disco fresco di uscita Ballate per uomini e bestie, a rappresentare magistralmente ancora una volta l’umana esistenza, nelle sue miserie, contraddizioni e slanci eroici, grazie a una serie di geniali metafore e allegorie.

Ballate per uomini e bestie: la condizione umana odierna secondo Vinicio Capossela

La condizione umana è rappresentata a partire dal concetto stesso dell’album, dove gli animali non solo rappresentano le parti più istintive dell’uomo, ma anche vizi e virtù come la lentezza (la lumaca), la leggerezza innocente (la giraffa), il trasformismo e l’opportunismo (il lupo mannaro), la sottomissione (l’orso ammaestrato). Vengono in mente le favole di Esopo dove le caratterizzazioni degli animali veicolavano messaggi di saggezza, ma anche le stupende canzoni per bambini di Bruno Lauzi (La tartaruga), anche se il livello espressivo sia in ambito testuale che di arrangiamenti è di ordine ancora superiore alla migliore tradizione cantautorale italiana. Canzoni non convenzionali per quanto riguarda la struttura, assolutamente lontane da logiche commerciali, lunghissime di sei-sette minuti, come dei cortometraggi musicali, che il Nostro ha raccontato di aver composto in sette anni e di aver registrato in un anno (tempi lunghissimi per i ritmi produttivi musicali attuali, ma la differenza si sente eccome…). Complessità che però si gode senza pesantezza, canzoni che ti tengono con l’orecchio incollato alla cassa dall’inizio alla fine, altamente perturbanti.

L’apertura del disco Ballate per uomini e bestie è con Uro (diventata al primo ascolto canzone preferita di mia figlia di cinque anni e mezzo e ormai mia condanna sonora nei viaggi in macchina), animale rupestre delle grotte di Lescaux di ventimila anni fa.

La nuova peste: internet addiction e altri mali odierni

Poi arriva La nuova peste, la prima metafora a mio avviso fortissima, della rete e del web come pandemia. Artaud parlava della “meravigliosa peste” che non guarda in faccia nessuno e che crea quella situazione di panico del “si salvi chi può”.  Vinicio Capossela pare un uomo d’altri tempi (a partire dal look), ma da persona intelligente qual è, non critica in modo oscurantista internet, ma punta il dito sul suo utilizzo indiscriminato, privo di regole, che può ferire chiunque nella più completa impunità, complice anche lo strumento perverso e virale dello “screenshot”. Così usando anche un po’ di ironia (Let’s tweet again…) arriva a denunciare il fenomeno del revenge-porn di cui è stata (non unica) vittima Tiziana Cantone, a cui è appunto dedicato il brano. Non mancano, nel brano di Ballate per uomini e bestie, i riferimenti ai nuovi monatti (Zuckemberg e compagnia bella?, certi influencer?), che speculano cinicamente sull’epidemia. L’argomento è più attuale che mai in quanto recentemente si parla moltissimo di internet addiction e alcuni studi hanno mostrato come studenti dei college americani arrivino a trascorrere fino a sei o otto ore al giorno di fronte allo smartphone o al computer. L’abilità assoluta del Nostro è quella di recuperare il mito, il racconto senza tempo e di renderlo attuale, modernizzarlo affinchè divenga occasione di riflessione collettiva. Anche perché certi mali che affliggono l’uomo cambiano nella forma ma non nel contenuto originario, anche se ogni epoca ha il suo male prevalente (nella nostra sicuramente prevale la difficoltà a darsi limiti accettabili, rispetto alla frustrazione di fronte ai divieti del secolo scorso).

L’estinzione di compassione ed empatia in Ballate per uomini e bestie

In questa operazione Vinicio Capossela recupera ad esempio una fiaba come I musicanti di Brema dei fratelli Grimm, i cui protagonisti possono essere traslati nel nostro mondo di esodati e precarietà, con una sottile critica al sistema consumismo dell’usa e getta, dove chi viene gettato, emarginato, non può fare altro che solidarizzare formando una band!

Una riflessione importante merita anche il rischio di estinzione dal nostro mondo di sentimenti importanti come la compassione, di cui si accenna nel brano Il Povero Cristo (da cui è stato tratto un bellissimo video girato a Riace). La canzone del disco Ballate per uomini e bestie descrive un Cristo sconsolato forse per il fatto che il motto “ama il prossimo tuo come te stesso”, sia stato sostituito da “prima se stessi”, poi eventualmente gli altri (quando va bene…). Sempre in ambito spirituale c’è spazio per le tentazioni di Sant’Antonio e per il discorso sulla Perfetta Letizia di San Francesco (il Santo che parlava con gli animali) messo in musica. La frequentazione caposseliana del sacro (seppure ben compensata da giuste quote di profano) è autentica, spirituale, ben lontana da altri usi strumentali del crocefisso che purtroppo ci è toccato vedere negli ultimi mesi.

Non manca una bellissima citazione di Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading, che ha a che fare con il bisogno di distruggere le cose che amiamo.

Vinicio Capossela ormai non è solo un musicista o un cantautore, ma un antropologo musicale che usa la canzone come strumento di ricerca. Tantissima roba…chapeau Vinicio!

 

Un luogo (stabile) per il pregiudizio

I nostri pregiudizi razziali sono frutto di atteggiamenti radicati in noi in anni e anni di esposizione a opinioni pregiudizievoli della società nella quale viviamo o sono semplici credenze che, sporadicamente e temporaneamente, si attivano e occupano la nostra mente influenzando le nostre valutazioni lasciandoci più esposti e vulnerabili alla discriminazione?

 

I pregiudizi sono considerati degli atteggiamenti di natura ostile e discriminatoria, semplicistici e spesso infondati, automatici, frutto di processi di pensiero rigidi e che tendono alla generalizzazione, che si formano all’interno di un gruppo sociale sia esso la famiglia, il gruppo amicale, la società (Fazio & Olson, 2003).

Dato il loro impatto significativo sui problemi di convivenza, quando differenti gruppi umani si trovano a dover co-abitare e ad interagire all’interno dello stesso ambiente, i pregiudizi sono stati oggetto di numerosi studi e teorie volte soprattutto a comprenderne la natura e la stabilità nel corso del tempo.

Come mai i pregiudizi razziali sono stabili nel tempo?

Attorno agli inizi degli anni 90’, le prime teorie sul pregiudizio assumevano e sottolineavano il suo carattere stabile nel tempo, rigido e non modificabile (Devine, 1989), mentre le teorie degli ultimi decenni, come quella di Lai, Hoffman & Nosek, (2013) ne affermano il carattere implicito ma più malleabile soprattutto se la persona viene sottoposta a diversi interventi come lo spostamento dell’attenzione o l’imagery mentale per ridurne l’impatto sui processi decisionali individuali.

L’evidenza più forte di questo dato di stabilità nel tempo dei pregiudizi razziali è stata mostrata dallo studio sperimentale e longitudinale di Lai e colleghi (2016), il quale prendeva in esame nove interventi aventi come obiettivo la riduzione di pregiudizi razziali impliciti, su una popolazione di studenti universitari dispersi geograficamente in vari campus in tutto il territorio americano. Lo studio in questione includeva tre fasi: una di pretest in cui venivano misurati i punteggi relativi alla presenza e all’intensità di pregiudizi razziali impliciti, una di intervento e una di post intervento con successivo follow-up a pochi giorni.

I risultati ottenuti hanno evidenziato come tutti i nove interventi volti alla riduzione dei pregiudizi razziali negli studenti fossero efficaci solo nella fase immediatamente successiva all’intervento, mentre tendevano a non persistere nella fase di follow-up.

Tali conclusioni hanno indotto i ricercatori a ritenere che questi bias razziali fossero estremamente persistenti nel tempo e rigidi anche a fronte di dati empirici che al contrario ne verificassero la pertinenza e la coerenza, come se gli individui ostinatamente, anche dopo vari interventi che ne mettessero in dubbio la loro fondatezza, tornassero di nuovo in linea con il loro pensiero pregiudizievole (Lai, Skinner, Cooley et al., 2016).

A tal proposito, il nuovo articolo di Vuletich e Payne, del dipartimento di psicologia e neuroscienze dell’University of North Carolina at Chapel Hill, suggerisce un’interpretazione alternativa ai risultati ottenuti da Lai e colleghi (2016). A loro parere infatti l’inefficacia degli interventi, riscontrata nei punteggi dei follow-up, anziché essere determinata dalla rigida consistenza e persistenza dei pregiudizi razziali a livello individuale, potrebbe essere in realtà frutto di una stabilità relativa al contesto sociale nel quale gli individui sono inseriti e non al pregiudizio in sé.

In linea con il modello del “bias della folla” di Payne, Vuletich & Lundberg (2017), Vuletich e Payne ritengono che i pregiudizi siano generati da una più facile accessibilità cognitiva a concetti legati a categorie di stereotipi sociali tale per cui le persone tendono a recuperare ed utilizzare queste categorie con una maggiore probabilità nel momento in cui processano implicitamente una certa tipologia di informazioni quando si trovano all’interno di uno specifico aggregato sociale.

Pertanto, la chiave di volta per la lettura e l’interpretazione del pregiudizio risiederebbe in tale accessibilità che varia sistematicamente in funzione della situazione in cui la persona si trova anziché essere una caratteristica individuale e stabile della persona; tale lettura è ulteriormente sostenuta dal fatto che le misure prese in considerazione riguardanti i pregiudizi hanno mostrato una loro propensione all’instabilità e alla transitorietà oltre che una bassa correlazione con misure di differenze individuali (Cameron, Brown-Iannuzzi & Payne, 2012)

L’accessibilità di un contenuto è influenzata da numerosi fattori, quali la presenza di stereotipi sociali condivisi, l’esposizione mediatica e anche il fenomeno della cosiddetta “saggezza della folla”, quello per cui le conoscenze parziali di ciascun individuo, costituente il gruppo, si aggregano con quelle di altri, dando origine ad una stima, una valutazione più stabile e accurata delle parti che la compongono. Tale stima costituisce la media del livello degli stereotipi culturali e delle iniquità strutturali degli individui facenti parte quel contesto (Payne, Vuletich & Lundberg, 2017).

L’influenza del contesto sociale e culturale sui pregiudizi

In questa nuova cornice teorica, lo studio di Vuletich e Payne (2019), ri-analizzando i dati ottenuti da Lai, Skinner, Cooley e colleghi (2016), ha voluto indagare l’influenza del contesto sociale e culturale dei campus universitari, geograficamente disposti in diversi stati degli Stati Uniti d’America, sulla stabilità degli stereotipi collettivi presenti nei punteggi individuali degli studenti riguardanti il pregiudizio razziale, considerando le ineguaglianze strutturali come potenziali fonti stabili di pregiudizi, ineguaglianze plausibilmente riscontrate in alcuni monumenti con evidenti segni storici di razzismo, nella minoranze razziali presenti nei vari campus e infine nella percentuale di studenti appartenenti alle fasce di reddito più basse.

Le analisi di Vuletich hanno suggerito come a livello individuale il pregiudizio non sia affatto un’attitudine o proprietà stabile e immutabile nel tempo come ipotizzato in precedenza, ma sia piuttosto un fenomeno sociale che come un’onda talvolta travolge gli individui aggregati in un gruppo e pertanto è passibile di cambiamento ogni qualvolta la persona si trova ad abitare un contesto con norme e condotte sociali differenti.

Tali analisi infatti, nel passaggio dalla fase di pre-test a quella post intervento, hanno riscontrato una leggera stabilità nel tempo dei punteggi individuali suggerendo come, a seguito degli interventi di riduzione del pregiudizio, i giudizi individuali si siano in parte modificati sebbene non in modo sistematico o significativo.

Ciò che invece è apparsa da subito significativa è stata la differenza tra i punteggi ottenuti dagli studenti presi nella loro individualità e quelli ottenuti considerandoli come unico corpo, gruppo aggregato e compatto, all’interno di ciascun campus universitario, differenza che si è mostrata in linea con il modello del bias collettivo preso come riferimento teorico dagli autori dello studio (Vuletich & Payne, 2019).

In conclusione

A parere degli autori, alcuni contesti sembrerebbero predisporre e incoraggiare maggiormente l’individuo a formulare pensieri o idee discriminatori, indipendentemente dai suoi peculiari processi decisionali e pertanto la soluzione o meglio l’opportunità di cambiare in modo sistematico e duraturo certi atteggiamenti di pensiero, spesso inconsapevoli, risiederebbe negli ambienti di vita anziché nella mera modifica dei singoli processi di pensiero, tramite la correzione di quegli elementi associati all’ineguaglianza strutturale che rendono maggiormente accessibile un contenuto ostile o discriminatorio.

Ben lontani dal considerarli stabili e immutabili, i ricercatori terminano lo studio con una metafora: a livello individuale potremmo considerare i pregiudizi simili al tempo meteorologico, in cui per avere una condizione diversa basta semplicemente aspettare qualche giorno per avere degli effetti diversi sebbene più labili e temporanei. Al contrario, ad un livello più contestuale, si potrebbero assimilare al clima, nel quale i processi di cambiamento sono più lenti ed impegnativi ma i suoi effetti appaiono ben più incisivi e persistenti.

Il trattamento dei disturbi di personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale – Report dal convegno

Quando si partecipa ad una giornata di formazione targata TMI, c’è la consapevolezza di tornare a casa più ricchi di quanto si è partiti.

 

E quando tra i relatori si leggono nomi come Dimaggio, Gazzillo, Salvatore, sappiamo che saranno davvero tante le cose che porteremo a casa.

L’evento dello scorso 14 giugno si apre con Raffaele Popolo che saluta, introduce i lavori e presenta Carmelo La Mela che ci parla dei Sistemi Motivazionali e ci fa pensare a quel famoso bisogno o desiderio (wish, nella lingua della TMI) che apre le danze delle nostre interazioni interpersonali.

Control Master Theory e farmacologia al convegno

Cooperazione, autonomia, rango sociale, attaccamento sono solo alcune delle motivazioni umane. Molto interessante la considerazione secondo cui ogni SMI ha un proprio scopo in termini evolutivi, emozioni che ne rappresentano l’attivazione o la disattivazione e una strategia che si traduce nel sistema operativo interno che coordina tutta l’esperienza. Segue Francesco Gazzillo, stimolante come sempre. Ascolto uno degli episodi clinici che condivide con noi e non ho potuto fare a meno di rappresentarmi quell’attimo, tra lui e quella precisa paziente, come ricco di significati.

Gazzillo descrive i test secondo il modello della Control Mastery Theory ed apre un mondo di considerazioni sulla relazione tra paziente e terapeuta. Più tardi risponderà ad un intervento in cui dirà come “essere sè stessi è la condizione principale della terapia”. In effetti i test, che hanno l’obiettivo di disconfermare le credenze patogene, anche se in parte esse risultano essere adattive in considerazione delle circostanze in cui si sono create, possono essere di diversi tipi: test di transfert, associati a compiacenza o ribellione, test di capovolgimento da passivo in attivo e test osservativi. L’importanza del test sta nel fatto che, se il terapeuta riesce a superarlo, il paziente si sente maggiormente ingaggiato nella terapia e si impegna in operazioni pro plan. In tal senso, sostenere un test richiede apertura, autenticità e capacità di sintonizzazione.

La prima sessione si conclude con Iazzetta e la riflessione sul trattamento farmacologico nei disturbi di personalità, osservando come ogni meccanismo d’azione del singolo farmaco, in base al proprio principio di base, può avere degli effetti su più fattori che, interagendo tra loro, giustificano la patologia. Per il cambiamento è indispensabile la combinazione tra trattamento farmacologico e psicoterapia in alcuni casi. Questo dato è supportato dall’evidenza che il disturbo di personalità rappresenta un funzionamento complesso che chiama in gioco vari livelli della persona, in linea con il nuovo modello interpretativo del DSM 5.

Break, saluti, incontri con colleghi e amici e poi si riprendono i lavori.

Embodied Cognition, tecniche esperienziali e rescripting

Giancarlo Dimaggio, con il suo intervento, ci introduce le tecniche esperienziali ed i rescrpiting, un lavoro che va ben più in là del livello cognitivo. Ormai è cosa ben nota che, oltre alla rappresentazione cognitiva degli schemi, vi è quella procedurale, emotiva, incarnata che, assieme a quella immaginativa, giustificano la necessità di un intervento terapeutico che risponde a tale dinamicità, in direzione della zona di sviluppo prossimale. Ecco che allora comprendiamo meglio le tecniche immaginative e corporee, presentate da Antonella Centonze. La mente accede alle immagini mentali e le rielabora. In tal senso il terapeuta riattiva la scena nella mente del paziente e ne riscrive la componente incarnata. Nel fare questo è come se il corpo si attivasse in direzione del proprio wish, modificando la parte somatica e motoria dello schema. Solo successivamente ci può essere uno spazio per un’argomentazione a livello cognitivo: il lavoro bottom-up non ha urgenza di un pensiero troppo ragionato! A tal proposito le tecniche descritte da Antonella, con tanto di teoria che ne giustifica l’impiego (ad esempio Embodied Cognition e studi sul sistema mirror), ci vengono in aiuto nel comprendere prima la bidirezionalità che esiste tra corpo e mente e, successivamente, nel pianificare un intervento che modifichi l’assetto scheletrico e muscolare delle nostre azioni.

Grazie all’azione sul corpo possiamo fare varie cose: modificare aspetti procedurali, regolare l’arousal, identificare segnali enterocettivi, promuovere il cambiamento e molto altro. Basti pensare a quello che succede assumendo una posizione di forza o di espansione. Riceviamo una dimostrazione in real time quando Dimaggio racconta di un caso clinico e di come l’assumere una certa posizione abbia aiutato il paziente. Il modo migliore per descrivere la posizione è quella di ricordare il Re della Notte quando risveglia il suo esercito di Estranei e di non-morti nel Trono di Spade. Giancarlo Dimaggio la mima davvero e, nello stesso momento in cui la stava rappresentando, avevamo già costruito una nuova immagine nella nostra mente: “Dimaggio- The Night King”, pelle d’oca, freddo intorno, Estranei ovunque con occhi scintillanti, corpo che si prepara all’azione. Epico, un momento epico, da scrivere nelle cronache del ghiaccio e del fuoco…ehm, no, meglio nelle cronache della TMI. Quasi quasi dispiace un po’ per i non-nerd di Games of Thrones!

Quello che emerge da questa sessione è la necessità di una strutturazione dell’intervento che, in linea con l’albero decisionale, favorisce un cambiamento a partire da una solida formulazione del caso ed utilizzando le tecniche immaginative, corporee, esperienziali che spingono il paziente oltre il limite che lo schema definisce, avendo sempre l’occhio attento alla relazione terapeutica. A tal proposito Dimaggio chiarisce come, fondamentalmente, la terapia abbia lo scopo di costruire nuove rappresentazioni del mondo, di sé stessi e degli altri; per fare questo riattivare immagini mentali che condensano la patologia dello schema è il primo step utile per accedere alla fase di riscrittura corporea ed immaginativa, attraverso la quale affiorano stralci di parti sane, ci si muove verso la realizzazione del wish, sfidando anche i coping disfunzionali. Nel fare tutto questo è impensabile perdere di vista i correlati corporei ed emotivi: solo dopo che il corpo prova a compiere azioni diverse dal solito copione dettato dallo schema (e lo si fa prima in immaginazione, appunto), ci si può focalizzare su come ci si sente in nuovi vesti, con nuove possibilità di azione, più in là della rappresentazione procedurale.

Il pranzo, per quanto relativamente poco rilevante rispetto allo spessore del convegno, in realtà ha facilitato lo slittamento su un piano in cui abbiamo potuto sperimentare dei sistemi motivazionali molto forti: affiliazione, cooperazione, gioco sociale. Sono certa che tra i tavoli si sia attivato, per qualcuno, anche quello sessuale!

Regolazione emotiva e relazione terapeutica

La sessione pomeridiana vede Paolo Ottavi e Giampaolo Salvatore impegnati negli interventi sulle tecniche attentive per l’autoregolazione emotiva e sulla relazione terapeutica. Le strategie di coping disfunzionali costringono a mettere in atto dei tentativi per gestire il dolore schema collegato; tra di essi quelli perseverativi cognitivi che, nei disturbi di personalità, hanno un contenuto relazionale e costringono letteralmente l’attenzione a restare ancorata all’evento. Le tecniche di dislocazione dell’attenzione consentono di ri-direzionare la focalizzazione, di promuovere stati mentali funzionali, di ancorarsi al corpo e di regolarsi attivamente, favorendo così l’agency. Esistono varie modalità di intervento applicabili in seduta e fuori di essa; Ottavi ce le ha presentate al termine della sua sessione ma le ritroviamo descritte, insieme alle tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee, nel manuale recentemente pubblicato “Corpo, immaginazione e cambiamento” (Dimaggio et al., 2019). Salvatore, invece, grazie alle video registrazioni di sue sedute, ci indirizza nell’universo della sintonizzazione emotiva e della regolazione del terapeuta focalizzando l’attenzione sulla necessità, più che possibilità, di coltivare un atteggiamento di curiosità costante verso il proprio mondo interno. È un lavoro sia top down, individuando pensieri ed emozioni nel vivo dell’interazione con il paziente, sia bottom up ascoltando tutto quello che sentiamo a livello somatico e viscerale in quanto, entrambi gli aspetti, ci fanno comprendere cosa ci stiamo rappresentando in quel momento per poterlo regolare, evitando la messa in atto di azioni anti-terapeutiche. Infatti è proprio attraverso dei frame dei suoi video che abbiamo potuto soffermarci sui markers non verbali, fondamentali perché segnalano eventuali rotture da riparare quanto prima. L’attenzione alla relazione permette di accedere ai contenuti rilevanti, ad aspetti impliciti del funzionamento del paziente e ci consente, trasversalmente, di muoverci all’interno della procedura decisionale d’intervento, decidendo quando e quale tecnica adottare. Da sfondo a tutto questo vi è la considerazione che, ancor prima delle parole, il paziente percepisce lo stato interno del terapeuta e la sua mente regolata: sarà questo a far sentire il paziente al sicuro, facilitando una rappresentazione sempre presente della relazione terapeutica della sua mente, a cui far ricorso all’occorrenza.

Possibili approfondimenti

Per quanto chi mastica TMI si aggiorni continuamente e conosca alcune tematiche di fondo, in questa giornata si è andati oltre. Basti pensare alla varietà di relatori: in casa TMI hanno messo piede uno psicoanalista, un fenomenologo ed in platea son più che certa che vi fossero colleghi di diversi orientamenti. Ciò che accomuna tante teste in una unica stanza non può essere solo l’aria condizionata in piena estate e neppure il caffè delle 11:00; ciò che avvicina è la necessità di integrare sapere e conoscenza in una prassi teorica e terapeutica in grado di rispondere efficacemente alla complessità dell’essere umano. In tal senso, anche l’utilizzo di una metodologia che integra un lavoro bottom up in modo massiccio trova la sua dimensione nella psicoterapia moderna.

Torno a casa con mille domande: i test per la CMT sono la stessa cosa dei coping per la TMI? Le tecniche attentive bypassano il wish, focalizzandosi sul processo e non sul contenuto della ruminazione? Riuscirò mai ad avere l’occhio allenato a riconoscere e riparare le rotture dell’alleanza in real time? Saprò accompagnare il paziente nei suoi viaggi sul corpo? Intanto che rispondo a queste domande, saluto Roma ed i miei amici con un aperitivo a Piazza del Risorgimento.

Pedofilia femminile: quando la donna abusa di un minore

Pedofilia femminile: non se ne parla ma esiste. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice; infatti, nell’immaginario collettivo, al termine pedofilia si associa automaticamente la figura di un uomo: giovane, di mezza età o anziano ma pur sempre di sesso maschile.

Giorgio Cornacchia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

In realtà i comportamenti pedofilici sono presenti sia negli uomini che nelle donne. Il termine “pedofilia” inizia ad esser preso in considerazione in ambito psichiatrico nel 1905 su proposta dello psichiatra svizzero Auguste Forel; solo successivamente, nel 1935, è stato inserito per la prima volta nel vocabolario della lingua italiana. Deriva dal greco paìs-paidòs, “del bambino” e filìa, “amore” (Quattrini, 2015). La pedofilia, generalmente, è definita come un desiderio sessuale da parte di un adulto per i bambini e come il desiderio espresso di una gratificazione sessuale immatura con un bambino in età prepubere (Sims, Oyebode, 2009).

Pedofilia: cos’è e come si distingue dagli altri disturbi sessuali

La pedofilia risulta una delle parafilie più studiate e diverse sono state, nel corso del tempo, le interpretazioni a riguardo. Nel 1952 la prima versione del DSM (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorder), uno degli strumenti diagnostici maggiormente utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, colloca la pedofilia nel capitolo dedicato alla sessualità patologica e viene descritta come una grave deviazione sessuale. Nel DSM II (1968) la classificazione rimane la stessa ma perde la connotazione di disturbo sociopatico, sostituita da quella di disturbo mentale non psicotico. Il DSM III (1980) e il DSM III – R (1987) inseriscono la pedofilia nel novero delle parafilie; nel DSM IV (1994) e nella successiva edizione rivisitata (DSM IV – TR, 2000) la pedofilia rientra come parafilia tra i Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere.

Il DSM 5 (2013) apporta, invece, notevoli modifiche per quanto riguarda i Disturbi Sessuali che non vengono presentati più come un’unica categoria diagnostica ma che vengono distinti in Disforie di Genere, Disturbi Parafilici e Disfunzioni Sessuali. All’interno della macrocategoria che tratta i disturbi parafilici troviamo, tra gli altri, anche il Disturbo Pedofilico (F65.4). I criteri diagnostici per questo disturbo sono:

  • A – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età).
  • B – L’individuo ha messo in atto questi desideri sessuali, oppure i desideri o le fantasie sessuali causano marcato disagio o difficoltà interpersonali.
  • C – L’individuo ha almeno 16 anni di età ed è di almeno 5 anni maggiore del bambino o dei bambini di cui al Criterio A.

nota: non comprende un individuo in tarda adolescenza coinvolto in una relazione sessuale con un individuo di 12-13 anni.

Bisogna poi specificare: se il pedofilo è di tipo esclusivo quindi attratto solo da bambini o se è di tipo non esclusivo; se il pedofilo è attratto sessualmente da maschi, attratto sessualmente da femmine o se è attratto sessualmente da entrambi; se il comportamento sessuale di tipo pedofilico è limitato all’incesto (American Psychiatric Association, 2014).

Pedofilia femminile: recentemente sotto l’occhio di clinici e ricercatori

Sebbene le donne siano state a lungo considerate come autrici di reato nei casi di abuso fisico infantile, è solo da qualche anno che i clinici e i ricercatori hanno iniziato a considerare il problema delle donne che abusano sessualmente i bambini (Alana, Grayston e Rayleen, De Luca, 1999). Parlare di pedofilia femminile è tutt’altro che semplice anche perché alla donna viene associato l’istinto di maternità che esclude a priori l’idea dell’abuso sui bambini (Petrone, Troiano, 2010). Al contrario di quanto si è portati a pensare, la pedofilia femminile sembra essere sempre esistita al pari di quella maschile e non deve essere considerata una novità dei tempi moderni (Costantini, Quattrini, 2011). Infatti, all’epoca dell’antica Grecia, la pederastia era una pratica consueta, accettata e in questo stesso contesto non erano rari i casi di pederastia femminile. Per esempio, infatti, la famosa poetessa Saffo vissuta nel VI secolo a.C., dirigeva nell’isola di Lesbo un tìaso, nel quale le bambine erano educate a diventare donne apprendendo le arti e le scienze, la cura della persona e della casa, la danza e anche il piacere sessuale. Oltre a Lesbo, anche a Sparta e Mitilene donne adulte avevano amanti adolescenti ed era comune avere rapporti sessuali con loro, seppur limitati da severe normative a tutela del paìs, al fine della “preparazione al matrimonio” (Petrone, Troiano, 2010).

Pensare che una donna possa mettere in atto atteggiamenti erotici nei confronti di un bambino è una realtà di cui ancora oggi non si vuol avere piena consapevolezza. Nell’immaginario collettivo, quando si parla di pedofilia, di violenza e abuso a danni di un minore, si pensa subito ad un soggetto di sesso maschile. Non viene presa in esame ed è considerata come inaccettabile, inammissibile e soprattutto impensabile la possibilità che sia una donna a perpetrare la violenza. Alla donna, solitamente, è associata l’idea di maternità e la madre è considerata come una figura protettiva e rassicurante; questa viene considerata esile fisicamente e pertanto non in grado di arrecare danno ad un minore. Alla sessualità femminile, inoltre, è stata a lungo attribuita una valenza di “passività” e non sono lontani gli anni in cui la donna era vista come priva di desideri sessuali. Immaginare una donna sessualmente attiva, riconoscere l’esistenza di “perversioni femminili”, immaginare che possa essere una madre ad abusare del proprio figlio, piuttosto che tutelarlo, è una realtà negata ancora oggi da gran parte dell’opinione pubblica.

Pedofilia femminile: tipologie

Stando alle statistiche basate sui dati che ufficialmente arrivano alla magistratura o ai servizi sociali, la pedofilia femminile è più rara di quella maschile, rappresenta all’incirca il 5/7% degli abusi. Se però diamo un’occhiata alle storie personali dei pedofili, scopriamo che il 78% dei maschi pedofili riferisce di essere stato abusato da una figura femminile, in particolare dalla madre (Petrone, Troiano, 2010). Probabilmente, il problema dell’incertezza inerente il numero reale dei casi è legato al ruolo della donna nella vita del bambino, generalmente deputata al suo accudimento e quindi con maggiori possibilità di confondere e nascondere il significato delle sue azioni. Non solo, nell’immaginario collettivo quando si parla di pedofilia automaticamente si associa la figura dell’uomo, del mostro tutto al maschile, possibilmente di mezza età o anziano e probabilmente con qualche patologia psico-comportamentale. Nessuno penserebbe mai che coloro che da secoli sono considerate le protettrici dell’infanzia in realtà possano mettere in atto comportamenti simili (Costantini, Quattrini, 2011).

Nel dettaglio, la pedofilia femminile può essere classificata in: intrafamiliare, extrafamiliare e pre-pedofilia.

Proprio come quella maschile, anche la pedofilia femminile si manifesta all’interno delle mura domestiche (intrafamiliare). In queste realtà, la struttura familiare spesso è disfunzionale, rigida e con ruoli inflessibili. La famiglia incestuosa è una famiglia all’interno della quale le distinzioni generazionali sono ignorate, la famiglia è chiusa su sé stessa, si ritiene autosufficiente e circonda con il segreto ogni azione che avviene al suo interno. Solitamente quando si parla di abuso sessuale intrafamiliare, si associa immediatamente l’idea dell’incesto tra un padre e una figlia e solo raramente si pensa all’incesto tra una madre e i propri figli. La madre incestuosa esiste, anche se è difficile scoprirla in quanto spesso usa forme che vengono camuffate da abituali gesti di accudimento. Pertanto i casi di incesto materno non escono quasi mai allo scoperto e quando questo succede godono di un diverso metodo di valutazione basato sulla credenza che la madre, che ha il compito di proteggere, stia semplicemente prolungando, forse in maniera insolita, ma non colpevole, il suo precedente ruolo protettivo.

Alcune madri credono che spetti a loro iniziare i minori alla sessualità, altre se ne innamorano e ne fanno dei “mariti”; queste madri non riescono a rispettare i diritti del bambino e approfittano della dipendenza affettiva che questi hanno nei loro confronti per trarne un vantaggio sessuale. L’incesto madre figlio/a non si accompagna solitamente ad atti di violenza; le sue manifestazioni si confondono e si mescolano con gli abituali gesti di accudimento e dal cosiddetto fenomeno del confidence power, cioè una strategia seduttiva che imbriglia la propria vittima sfruttando i suoi sentimenti di confusione, di obbedienza, di devozione e di fiducia.

Pedofilia femminile fuori dalla famiglia

La pedofilia femminile extrafamiliare, invece, è caratterizzata da forte desiderio di potere, dominio ed egoismo; tutte situazioni più cruente rispetto alla pedofilia che si consuma all’interno delle mura domestiche. Questa forma di pedofilia è legata spesso al turismo sessuale, mentre altre volte si concretizza in luoghi conosciuti molto bene dalla vittima come la scuola, l’oratorio o i centri sportivi. Queste figure femminili agiscono in maniera attenta, programmando ogni movimento e ragionando su ogni scelta, poiché temono fortemente che il minore sveli il loro agito. Pertanto possono ricorrere anche a modi violenti al fine di convincere la vittima che i giochi sessuali che è costretto a fare sono divertenti, sono un segreto e non devono assolutamente essere rivelati a nessuno.

Infine, con il termine pre-pedofilia, Petrone (2010) definisce una particolare condizione di abuso, quasi esclusivamente femminile, che si caratterizza per il ruolo svolto dalla donna; in particolare essa assume una posizione marginale e passiva nell’atto pedofilico, lasciando che sia l’uomo ad avere la parte attiva. La donna non mette in atto in prima persona comportamenti pedofilici ma resta comunque “complice” di coloro che invece abusano davvero del bambino. Questo “far finta di non vedere”, caratteristico della pre-pedofilia, è un’ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarle e tutelarle. Il tradimento avviene su tutti i fronti e le piccole coscienze distrutte e i piccoli corpi martoriati vengono lasciati soli a sé stessi. Queste donne, che se pure non hanno agito direttamente l’abuso, si sono macchiate dello stesso crimine perché, proprio come il loro compagno, non hanno considerato i bambini persone, li hanno ostacolati e menomati nello sviluppo fisico e psichico, li hanno piegati alle proprie ingiustificate e insane esigenze. La pre-pedofilia può avere manifestazioni differenti: può essere, infatti, mascherata e silenziosa come nel caso delle famiglie incestuose o più evidente come nel caso di madri che offrono i propri figli ai compagni pedofili oppure il caso delle madri che osservano in silenzio l’abuso del proprio figlio. (Petrone, Troiano, 2010).

Guidati, quindi, dallo stereotipo che attribuisce alla donna un ruolo passivo e debole, pensiamo che essa sia improntata ad una maggiore sensibilità e tenerezza, soprattutto per via di quell’istinto materno che la cultura le attribuisce. Come descritto nei passaggi precedenti, la realtà dei fatti ci mette dinanzi ad un femminile perverso e abusante, capace di azioni terribili nei confronti dei più piccoli, appropriandosi di quelle aberrazioni di cui si pensa sia capace solo l’uomo. La pedofilia, invece, è anche donna ed essa come quella maschile rappresenta sicuramente un evento sconvolgente e fortemente traumatico per chi lo subisce e le modalità con le quali esso viene perpetrato vanno ad influenzare la gravità delle conseguenze per la vittima.

Il sistema di accudimento: di cosa si tratta, quali sono le sue caratteristiche e come influenza il nostro comportamento?

Il sistema di accudimento ci guida nel fornire protezione e supporto ad altri individui che si trovano in uno stato di bisogno (Bowlby, 1982-1969).

 

Il sistema di accudimento si attiva quando si è in presenza di qualcuno che sperimenta sofferenza o necessita di cure e protezione (Canterberry & Gillath, 2012; Gillath et al., 2005b). Per questo motivo il sistema di accudimento è considerato complementare al sistema di attaccamento in quanto motiva le persone ad offrire aiuto, conforto e sostegno in risposta ai segnali generati dallo stato di bisogno di un’altra persona (Canterberry & Gillath, 2012, Karantzas & Simpson, 2015).

Le emozioni derivanti dall’attivazione di questo sistema sono ansia, compassione, tenerezza protettiva o colpa per il mancato accudimento. Il sistema si disattiva alla cessazione delle condizioni attivanti, quindi alla percezione di segnali di sollievo e sicurezza da parte dell’altro.

La relazione tra sistema di accudimento e sistema di attaccamento

Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e quella che sarà la personalità adulta dell’infante. Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro ed è quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa.

La relazione madre-figlio è essenziale dal punto di vista evolutivo in quanto salvaguarda la sopravvivenza del cucciolo e la conservazione della specie in generale per tutta la categoria dei mammiferi, ed è inoltre necessaria all’individuo umano in quanto struttura un pattern di relazione sociale che potrà essere adattato nelle fasi successive dello sviluppo nell’interazione con gli altri membri della stessa specie.

Entrambe le parti della diade nella relazione madre-figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica, l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici che, sempre automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino.

Il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita nel promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999).

Anche la predisposizione all’ accudimento da parte degli adulti nei confronti dei bambini piccoli sarebbe legata a specifici patterns di attivazione cerebrale: recenti studi hanno dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati, e reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza.

Nella specie umana, i bambini nascono in uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto ad altri animali, pertanto nei primissimi mesi, sono le madri a contribuire notevolmente a far sì che i piccoli rimangano vicini: siccome appunto il piccolo non è in grado di aggrapparsi, esse lo sorreggono offrendo in questo modo un contatto fisico, che fornisce a sua volta calore e affetto. Numerosi studi hanno evidenziato che questo contatto fisico (carezze, abbracci ect.) contribuisce, sin dalla nascita, allo sviluppo di attività come la respirazione, la vigilanza, le difese immunitarie, la socievolezza e il senso di sicurezza essenziali per un regolare sviluppo sessuale oltre che per la salute mentale del piccolo (Anzieu, 1985). Altro effetto sul funzionamento corporeo della relazione madre-figlio, dovuto al contatto fisico, è l’aspetto di termoregolazione: una madre riesce a mantenere la temperatura corporea del suo piccolo al pari di apparecchi da riscaldamento altamente tecnologici, nel momento in cui il figlio nudo ed asciutto viene posizionato pelle a pelle sul suo petto (Christensson, 1992).

Per quanto riguarda il bambino, seppur non abbia la capacità motoria di avvicinarsi alla madre o mantenersi presso di essa, viene al mondo dotato di numerosi strumenti che, fin dalla nascita, hanno la funzione di mostrare certi segnali differenziati che inducono in modo peculiare particolari tipi di risposta da parte di chi li cura: i più evidenti sono il pianto e il sorriso (Schaffer, 1998). Queste due forme di comportamento, che hanno l’effetto di far avvicinare la madre al bambino, vengono raggruppate da Bowlby, nella classe dei “comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e tutti i gesti classificabili come segnali sociali. Un episodio di pianto è uno stimolo in grado di attivare il Sistema Nervoso Centrale sia del bambino che lo produce sia dell’ascoltatore, creando uno stato di attenzione reciproca (Esposito e Venuti, 2009). Inoltre, rappresenta una ‘sirena biologica’ che, operando in larga misura come un rinforzo negativo (Barr et al.,2006; Soltis, 2004), riesce a modificare e attivare lo stato funzionale dei genitori, promuovendo prossimità e contatto con essi e in particolar modo con la madre, attivando il suo comportamento di accudimento (Bell and Ainsworth, 1972) e motivandola a rispondere prontamente e in maniera adeguata nutrendo il piccolo, proteggendolo o confortandolo (Venuti e Esposito, 2007).

La capacità materna di mettere in atto comportamenti di accudimento in risposta ai segnali del bambino promuove lo sviluppo della comunicazione: i bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, hanno maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali, gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangono di più. Inoltre la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009).

E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto.

Un recente studio ha evidenziato che nei padri che vedono i loro bambini in difficoltà, i livelli di testosterone si abbassano facendo risultare gli uomini, di fatto, maggiormente sensibili e pazienti: ne consegue uno stile di parenting associato ad un miglior sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino. Infatti, ridotti livelli di testosterone faciliterebbero l’ accudimento dei figli da parte del padre. Evolutivamente parlando, questo meccanismo sarebbe utile ad incrementare la risposta di accudimento del padre. Livelli di testosterone elevati, infatti, correlano con una maggiore propensione a mettere in atto comportamenti aggressivi, potenzialmente dannosi per l’incolumità fisica ma anche psicologica del bambino.

Come lo stile di attaccamento influenza l’ accudimento

Mikulincer e Shaver hanno suggerito che le differenze individuali nel sistema di accudimento possono anche essere concettualizzate come modelli di iperattivazione o disattivazione del sistema. Attraverso vari studi, hanno dimostrato che l’iperattivazione o la disattivazione del sistema di caregiving è associata a problemi nella regolazione di emozioni, impulsi e azioni dirette agli obiettivi e mette una persona a rischio di problemi emotivi e disadattamento (ad esempio, essere meno utili o mostrando minore cura e maggiore disagio nei vari contesti assistenziali).

Sebbene l’ accudimento e l’attaccamento siano sistemi comportamentali separati, e ogni sistema influisce sul comportamento in modo univoco, i due sistemi interagiscono nel modellare il comportamento delle persone ((Bowlby, 1969/1982; George & Solomon 2008; Mikulincer & Shaver, 2009).

Mentre esiste una tendenza naturale a fornire assistenza o dipendere dagli altri, l’interazione tra i due sistemi (Canterberry & Gillath, 2012; Gillath et al., 2005b) può far sì che le tendenze all’ accudimento vengano ignorate o soppresse dall’insicurezza degli attaccamenti (Kunce & Shaver, 1994). Pertanto, si ritiene che lo stile di attaccamento di una persona (cioè sicuro o insicuro) o di stato (significato di sicurezza o insicurezza) influenzi l’interazione tra i due sistemi comportamentali e i risultati di questa interazione (ad esempio, fornendo aiuto o meno).

L’interazione tra i due sistemi è ancora più complicata in quanto un caregiving (principalmente durante l’infanzia) può influenzare lo sviluppo dello stile di attaccamento. Pertanto, la cura sensibile e di supporto per i caregiver primari è probabile che si traduca in un attaccamento sicuro, che può facilitare la capacità di un individuo di mettere in atto un accudimento sensibilie e supportivo. Viceversa, scarsi sensibilità e supporto possono portare a uno stile di attaccamento insicuro, che è noto per essere associato a scarsa capacità di accudimento nell’età adulta. Come risultato, gli individui sviluppano un modello di comportamento che riflette la scarsa sensibilità del caregiving, imparando a fornire aiuto con una modalità distante e fredda, o controllante e invadente (Collins & Feeney, 2000; Kunce & Shaver, 1994). Nello specifico, l’attaccamento sicuro facilita uno stile di caregiving caratterizzato da elevata prossimità, sensibilità e reattività; uno stile di caregiving evitante invece predispone a un accudimento più controllato e distante caratterizzato da scarsa prossimità e sensibilità; e infine uno stile di caregiving ansioso è collegato a uno stile di accudimento compulsivo, invadente e incoerente, scarsamente sensibile al reale bisogno dell’altro. Ciò suggerisce un legame evolutivo tra attaccamento e caregiving (ad esempio, Kestenbaum et al., 1989).

L’ accudimento invertito

Nell’uomo, secondo Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988), esiste una tendenza innata a ricercare la vicinanza con la figura d’attaccamento in situazioni di pericolo, stress e solitudine. Il comportamento d’attaccamento si attua come ricerca attiva della figura di riferimento che accudisce e protegge. Nel tempo le modalità con le quali si entra in relazione con le figure d’attaccamento, inizialmente la madre, si stabilizzano e tendono a generalizzarsi, formando schemi cognitivi interpersonali, che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (MOI). Queste rappresentazioni apprese di sé, della relazione con l’altro e delle figure d’attaccamento s’innestano sulle componenti innate del sistema e costituiscono una caratteristica individuale che modella le relazioni interpersonali, portando alla strutturazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Nell’ accudimento invertito il sistema di attaccamento subisce una distorsione patologica: i ruoli della madre e del figlio si invertono ed è la madre che riceve cure e protezione dal figlio. L’ accudimento invertito è comune nei casi in cui uno o entrambi i genitori vivono condizioni di sofferenza psicologica tale da ridurre la capacità di prendersi cura dei figli, come può accadere nel disturbo depressivo, nel disturbo bipolare o nella dipendenza da sostanze. In questi casi il bambino si ritrova ad essere premuroso, eccessivamente responsabile e accudente nei confronti del genitore sofferente.

L’ accudimento invertito è quel tipo di accudimento che Bowlby aveva già descritto negli anni ’50, in cui il bambino si “genitorializza”, comprende quali sono i bisogni del genitore e realizza che andare incontro ad essi, prendendosi cura dell’altro, è l’unico modo per essere pensato dalla figura di attaccamento. Tuttavia il costo di tale strategia si presenta sempre, nel presente o nel futuro, poiché la rabbia, la paura, la tristezza, vengono dissociate o negate in nome di uno scopo più alto, la salvezza del legame di attaccamento. Questa forma di auto contenimento difensivo (Winnicot, 1988) fa affrontare ai bambini che l’hanno sperimentato tutte le emozioni più dolorose o difficili da soli e conferma che è bene non fidarsi degli altri.

La felicità di un bambino passa attraverso il soddisfacimento, fin dai primi anni, dei suoi bisogni emotivi primari, che vanno dall’amore incondizionato dei genitori al rispetto del suo essere, dal riconoscimento di chiare gerarchie familiari al supporto nell’esplorazione del mondo esterno, dalla protezione all’empatia.
Tutti questi bisogni sono di solito assicurati dai genitori e dai familiari più stretti che forniscono al bambino una “solidità” di base che lo aiuterà ad affrontare la vita ed il mondo circostante senza eccessive paure.

È evidente che nel fenomeno dell’ accudimento invertito questi aspetti vengono del tutto o in parte disattesi: i ruoli del genitore e del figlio si invertono e sarà il bambino a fornire cure e protezione al genitore più debole.

I bambini che sperimentano tale forma di accudimento sono spesso percepiti all’esterno come “mini-adulti”, molto responsabili e attenti ai bisogni dei genitori. Spesso non destano preoccupazione e apparentemente l’infanzia sembra procedere per il meglio; tuttavia, negli anni, potranno manifestarsi sintomi anche gravi di ansia e depressione. La forza di questi sintomi sarà direttamente proporzionale al periodo di accudimento invertito: più breve sarà e maggiori saranno le possibilità che il bambino torni a funzionare secondo le modalità tipiche della sua età cronologica; più lungo sarà il periodo e maggiore sarà la possibilità di uno sviluppo distorto della sua personalità.

Un bambino in questa condizione può pensare che raccontare le proprie emozioni possa ferire in qualche modo i genitori, in quanto è per lui chiaro quanto essi non sia in grado contenerle e si sente quindi costretto all’autosufficienza, all’autonomia forzata, illudendosi o costringendosi a pensare di non avere bisogno degli altri.

A questo senso di onnipotenza contrappone una rappresentazione dell’altro non necessariamente malvagio, ma freddo e assente, poco affidabile e, soprattutto, immodificabile.

Lo schema disfunzionale primario tipico dell’ accudimento invertito è il seguente: “se desidero essere visto e ricevere cure, l’altro mi trascurerà e mi maltratterà e in questo caso sperimento un profondo senso di tristezza e solitudine”. L’immagine di sé che sottostà è quella di essere solo, non meritevole di cure e attenzioni, insignificante. Il coping conseguente è di autosacrificio: “nella vita per non sentirmi più così mi occupo degli altri, così forse potrò ricevere amore e cure”.

L’ accudimento invertito, che all’inizio è soltanto una difesa, un sistema di sopravvivenza funzionale alla miglior relazione possibile con l’adulto di riferimento, ben presto diviene un piano di vita: il piano di vita controllante, caratterizzato da ipermonitoraggio degli stati interni, rimuginio, perfezionismo, rigidità su regole di comportamento, controllo relazionale e diffidenza.

L’accettazione dei genitori e la formazione di rappresentazioni integrate di essi, è il solo passo che può permettere la formazione di un autoimmagine scevra dal senso di onnipotenza e piena della consapevolezza che tutti noi siamo umani imperfetti e, in quanto tali, abbiamo bisogno degli altri.

Strategia controllante-accudente e disorganizzazione dell’attaccamento

Numerose ricerche (Levendosky et al., 2006; Lyons-Ruth et al., 2005; Huth-Bocks et al., 2004) evidenziano che i bambini cresciuti in ambienti familiari violenti, testimoni di abusi perpetrati ai danni delle proprie madri, tendono a essere maggiormente esposti al rischio di subire violenze in età adulta.
 Alla base di tale associazione sono identificabili diversi fattori causali.

In primo luogo, interagire con una madre picchiata e maltrattata, psicologicamente disorganizzata, costituisce un’esperienza traumatica per il bambino. La relazione genitore-figlio si realizza attraverso una serie di comportamenti contraddittori: la figura d’attaccamento è al contempo spaventata e spaventante. In una simile relazione il bambino non può far altro che strutturare rappresentazioni mentali incompatibili del genitore, fonte allo stesso tempo di protezione e di pericolo o paura (per pericoli esterni e invisibili). A queste rappresentazioni del genitore corrispondono rappresentazioni del Sé altrettanto molteplici e incompatibili. Per descrivere le possibili combinazioni di tali modelli operativi interni di Sé e dell’Altro molteplici, segregati o dissociati, Liotti utilizza il concetto di “triangolo drammatico” di Karpman, per cui in un rapporto diadico i due attori si scambiano i ruoli di vittima, persecutore e salvatore.

Il bambino in relazione con una madre abusata tenderà infatti a percepirsi, di volta in volta, come persecutore, ossia responsabile della paura o aggressività manifestate dalla figura di attaccamento; come vittima terrorizzata e impotente dell’aggressività del genitore; come salvatore, il bambino è un conforto e un’ancora di salvezza per la madre. L’attivazione di modelli operativi interni (MOI) contraddittori e incompatibili ostacola gravemente la sintesi mentale di un senso di sé unitario e coerente, impedendo anche il monitoraggio cognitivo delle emozioni relative a questi molteplici MOI, che restano segregati o dissociati dalla coscienza.

Altrettanto importante è il fatto di dover crescere con una madre violentata e traumatizzata, incapace di esercitare in maniera adeguata la propria funzione genitoriale. Le madri abusate si sentono donne inette e vulnerabili e presentano una forte disorganizzazione a livello psicologico. Tale visione negativa di sé le induce a considerarsi anche madri inadeguate, incapaci di gestire il proprio bambino e le spinge ad allontanarsi dalla relazione con il piccolo, a ritrarsi sul piano emotivo e ad agire comportamenti scarsamente responsivi rispetto ai bisogni espressi dal figlio. Uno stile parentale così trascurante spinge il bimbo alla strutturazione di un accudimento invertito nei confronti di queste madri così sofferenti.

Il bambino che si trova a interagire con una madre abusata non è pertanto messo nelle condizioni di potersi percepire come un soggetto competente e degno d’affetto; al contrario tende a maturare un’idea fortemente negativa di Sé, a vedersi come un individuo non amato e non amabile. In maniera complementare, il caregiver e l’altro tenderanno a essere visti come rifiutanti, trascuranti, non accessibili sul piano emozionale. Tali rappresentazioni di sé e del mondo rendono il bambino più vulnerabile alla violenza esponendolo al rischio di essere coinvolto in relazioni con partner abusanti in età adulta.

Due sistemi psicobiologici sembrano inevitabilmente coinvolti nella risposta al trauma: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento.
 La disorganizzazione dell’attaccamento infatti può essere spiegata dal conflitto tra questi due sistemi motivazionali interpersonali (SMI).
 Questi due SMI in situazioni di pericolo, come l’esposizione ad un evento traumatico, agiscono in sinergia: nel momento in cui la protezione è garantita, il sistema di attaccamento si attiva con successo inibendo quello di difesa; in caso contrario l’attivazione del sistema di difesa sarà abnormemente protratta provocando l’alterazione della regolazione delle emozioni e dei significati personali, nonché sintomi dissociativi e la formazione di Modelli Operativi Interni (MOI) insicuri o meglio multipli caratterizzanti l’attaccamento disorganizzato.

Nell’attaccamento disorganizzato il sistema di difesa e quello di attaccamento entrino in conflitto, creando una situazione di fright without solution (paura senza sbocco). Di conseguenza la Figura di Attaccamento (FdA) è tanto fonte quanto soluzione della paura del bambino e viene rappresentata allo stesso tempo come vulnerabile, minacciosa e protettiva. Analoga è la rappresentazione di sé: salvatore, persecutore e vittima della FdA, ma anche salvato da essa. Emerge dunque una frammentazione delle rappresentazioni di sé-con-l’altro (compartimentazione) e un’esperienza cosciente di tipo dissociativo (alienazione).

Ma il dato scientifico ancor più interessante riguarda lo sviluppo intorno ai 3-6 anni di età delle cosiddette strategie controllanti, create per proteggersi, nella relazione, da caos, impotenza e paura che caratterizzano la disorganizzazione (Liotti e Farina, 2011b).
 Mediante la strategia controllante-punitiva i bambini cercano di organizzare i comportamenti di relazione col caregiver attraverso atteggiamenti ostili, coercitivamente dominanti o sottilmente umilianti. Risulta evidente come in questo caso si attivi il sistema motivazionale di rango al posto del sistema di attaccamento (Solomon, George, 2011).

Nella strategia controllante-accudente il bambino mostra, al contrario, condotte apertamente consolatorie e protettive nei confronti del genitore vulnerabile e palesemente sofferente per traumi o lutti irrisolti. In tal caso, appare chiaro come si attivi il sistema di accudimento in sostituzione del sistema di attaccamento (attaccamento invertito) (Solomon, George, 2011).
 Infine, esisterebbero altre possibili varianti in cui è il sistema sessuale a vicariare le funzioni del sistema di attaccamento e altre in cui la strategia controllante-accudente richiede l’assunzione di un ruolo subordinato nel sistema di rango (Liotti, 2011). Tali strategie controllanti possano essere considerate delle strategie “difensive”, poiché riducono la possibilità che il MOI disorganizzato emerga alla coscienza nella maggior parte delle situazioni quotidiane che possono risvegliare il sistema di attaccamento, preservando in tal modo il bambino dall’esperienza dissociativa. Tuttavia, di fronte a un’intensa attivazione del sistema di attaccamento, si assiste ad un collasso delle strategie difensive e al riemergere del MOI frammentato e drammatico e quindi della dissociazione (Liotti, 2004, 2011). Gli eventi che inducono il collasso delle strategie controllanti sono gli antecedenti relazionali della comparsa di sintomi dissociativi nell’adulto che viene da una storia di attaccamento disorganizzato e di trauma complesso.

Scala del sistema di accudimento

Per valutare il sistema di attaccamento è possibile utilizzare anche questionari self report; di seguito ne riportiamo un esempio al fine di esplicitare le domande volte a valutare le caratteristiche di questo sistema nell’individuo. Gli items sono classificati su una scala di tipo Likert a 7 punti che va da: 1 = Forte disaccordo a 7 = Molto d’accordo.

Nel seguente questionario, siamo interessati al modo in cui di solito ti senti, pensi e agisci quando sei coinvolto nell’aiutare altre persone. Si prega di leggere ogni dichiarazione e indicare la misura in cui si è d’accordo con esso.

Elementi di disattivazione
1. Quando vedo persone in difficoltà, non mi sento a mio agio nel saltare per aiutare.
3. A volte sento che aiutare gli altri è una perdita di tempo.
5. Spesso non presta molta attenzione al disagio o al disagio delle altre persone.
7. Non investo molta energia cercando di aiutare gli altri.
9. Pensare di aiutare gli altri non mi eccita molto.
11. Non sento spesso l’impulso di aiutare gli altri.
13. Non ho problemi ad aiutare le persone che sono in difficoltà o in difficoltà.
15. Quando noto che qualcuno sembra aver bisogno di aiuto, spesso preferisco non essere coinvolto.
17. È difficile per me avere un grande interesse nell’aiutare gli altri.
19. Mi sento a disagio quando mi viene richiesto di aiutare gli altri.

Elementi di iperattivazione
2. Quando aiuto le persone, sono spesso preoccupato che non sarò bravo a farlo.
4. Quando non sono in grado di aiutare una persona in difficoltà, mi sento inutile.
6. Mi sento male quando gli altri non vogliono il mio aiuto.
8. A volte cerco di aiutare gli altri.
10. Quando le persone non vogliono il mio aiuto, mi sento ancora costretto ad aiutare.
12. Spesso mi preoccupo quando penso che nessuno abbia bisogno del mio aiuto.
14. Sono spesso preoccupato di avere successo quando cerco di aiutare gli altri che hanno bisogno di me.
16. Quando decido di aiutare qualcuno, mi preoccupo di non essere in grado di risolvere il problema o di alleviare il disagio della persona.
18. A volte mi preoccupo che cercherò di aiutare gli altri.
20. A volte sento di intromettermi troppo mentre cerco di aiutare gli altri.

L’assenza che diventa presenza. Logica dell’oggetto transizionale e suo impatto nella scuola dell’infanzia

L’ oggetto transizionale ha di solito un potere calmante per il bambino ed egli vi fa ricorso per rilassarsi e dormire. Dalla suzione del pollice alla comparsa (tra i 4 e i 18 mesi) di un singolo oggetto, vi sono molte altre attività (esempio produrre suoni, cantilene, manipolare pezzi di lenzuolo ecc.) che descrivono la progressiva capacità del neonato di maneggiare oggetti non-me e che si collocano tra il pollice e “l’orsacchiotto”..

 

Il concetto di oggetto transizionale è stato introdotto nel 1951 dal pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicott ed è uno dei cardini della sua elaborazione teorica.
Con esso si intende indicare un oggetto che entra in gioco in una particolare fase dello sviluppo psichico del bambino, ovvero il passaggio dal mondo soggettivo, caratterizzato da spinte pulsionali narcisistiche, al mondo oggettuale esterno. Questa transizione è resa tanto più delicata dalla questione della progressiva separazione del bambino dall’agente delle cure primarie, tipicamente, ma non solo, la madre.

In una prima fase di sviluppo, infatti, il bambino si trova in una posizione di totale dipendenza dalla madre, insieme alla quale forma una diade che, nel suo psichismo, costituisce un tutt’uno: non c’è separazione tra me e non-me. In una scena idilliaca, la madre soddisfa prontamente i bisogni del piccolo, che, in questo modo, si sente “onnipotente”, come se i suoi desideri evocassero direttamente gli oggetti di soddisfacimento.

Nelle successive fasi dello sviluppo però questa situazione si evolve e si modifica: affinché la psiche del bambino si strutturi correttamente è necessario che il bambino percepisca che lui e la madre sono entità separate e che il mondo esterno è fatto di oggetti, madre compresa, che non sempre può raggiungere e ottenere.

E’ in questa fase di progressivo scioglimento del legame simbiotico madre-bambino che si inserisce gli oggetti transizionali, i quali si configurano come sostituti della madre stessa.

Questi oggetti possono essere sia oggetti reali, tra i più tipici possiamo ricordare bambole, orsacchiotti e copertine, sia oggetti immateriali, come canzoncine o parole, e costituiscono il primo possesso del bambino, il primo oggetto non-me. Oggetti che danno conforto, che permettono di mantenere illusoriamente il legame con la madre anche quando essa non c’è.

Un oggetto può assumere la qualità di oggetto transizionale solo se il bambino può rivedere in esso la sua principale figura di riferimento e se può farlo sentire in unione con essa.

Il paradosso di questi oggetti riguarda il fatto di collocarsi a metà tra il simbolico e il reale, nel senso che il bambino sa benissimo che essi non sono la mamma, ma, inconsciamente, li usa proprio come se invece lo fossero.

Ma come si traduce tutto ciò nella vita quotidiana dei bambini?

Come emerge il ruolo dell’ oggetto transizionale nella scuola dell’infanzia, che spesso costituisce il primo grande agente separatore tra bambino e ambiente familiare?

Carla ha circa 2anni e mezzo, è il primo giorno di scuola, sezione primavera. Entra sorridente in aula. Mamma e papà la accompagnano, ma tra loro qualcun altro è presente. Una simpatica mucca fucsia che ha una zampina nella manina di Carla e l’altra in quella della sua mamma… camminano insieme. “Buongiorno stellina!” saluta la maestra. “Questa è Camilla!”, risponde prontamente la bimba mostrando la mucchina. Camilla la accompagnerà per tutto l’anno scolastico e anche per tutto il successivo. I genitori raccontano che Camilla è proprio un membro di famiglia ormai, è presente in tutti i momenti della giornata della bimba, in tutti gli spostamenti, da casa, scuola, dai nonni, durante le passeggiate e se per caso la dimenticano, la piccola Carla ha una vera e propria crisi di pianto e sconforto.

Flavio, 3anni e 5mesi. Da poco nella nostra città, si è trasferito per il lavoro del papà. Arriva da un’altra scuola, siamo a gennaio. E’ molto spaventato, timido, stringe forte la mano della mamma, e nell’altra stringe a sé un pannetto di morbida ciniglia. La mamma ci racconta che lo usavano per il bagnetto, e crescendo è come se ne “fosse rimasto affezionato e non c’è alcun verso di distaccarlo da esso” aggiunge rassegnata “Maestra abbiate pazienza!”.

Roberta, 4 anni, è nei medi, al suo secondo anno di scuola dell’infanzia. Ha frequentato l’asilo nido per i 2 anni precedenti. I genitori lavorano entrambi e prima di inserirla al nido, è cresciuta con una babysitter. E’ sorridente, in apparenza molto socievole, affettuosa, ricerca il contatto fisico e quando incontra qualcuno per la prima volta, gli canta la sua speciale canzoncina. La canticchia nei momenti di noia, di frustrazione, quando si fa l’ora di tornare a casa, quando viene sgridata e soprattutto all’ora di pranzo, durante la refezione scolastica.

L’ oggetto transizionale ha di solito un potere calmante per il bambino ed egli vi fa ricorso per rilassarsi e dormire. Dalla suzione del pollice alla comparsa (tra i 4 e i 18 mesi) di un singolo oggetto, dice Winnicott, vi sono molte altre attività (esempio produrre suoni, cantilene, manipolare pezzi di lenzuolo ecc.) che descrivono la progressiva capacità del neonato di maneggiare oggetti non-me e che si collocano tra il pollice e “l’orsacchiotto”.

Osservatori privilegiati di questo fenomeno sono genitori e insegnanti di asilo nido e scuola dell’infanzia. Laddove il distacco dai genitori è netto e faticoso, è decisamente semplice notare un “qualcosa” di caratteristico che accompagna i piccoli all’ingresso della scuola e talvolta durante tutto l’orario scolastico, specialmente nei primi mesi di frequenza: pupazzetti, ciucci e copertine gli oggetti più frequenti.

Verso i 4 anni, di solito con l’inizio del secondo anno di scuola dell’infanzia, tuttavia, le aspettative sociali iniziano a spingere affinché il bambino diventi capace di sopportare l’assenza dei genitori, non sia più turbato dalle novità e di conseguenza sia pronto a liberarsi da questi oggetti. I genitori cercano di convincere il bambino a separarsene, a non prenderlo sempre con sé a non “fare una tragedia” in caso di perdita o dimenticanza. Analogamente in molte scuole dell’infanzia, e persino durante l’ultimo periodo al nido, è sempre meno consentito al bambino portare con sé questo genere di oggetti. Accanto alle ragioni di ordine pratico (evitare di gestire e ritrovare gli affetti personali di ogni bambino ogni giorno) la ragione pedagogica di questa nuova istanza è riconducibile alla volontà e all’attesa di coinvolgere maggiormente il bambino negli scambi relazionali e di favorire la sua autonomia affettiva rispetto alla famiglia. In questa prospettiva allora l’ oggetto transizionale non è più d’aiuto ma può rappresentare addirittura un ostacolo che sembra favorire l’isolamento del bambino nel suo mondo interiore.

In realtà il suo significato per il bambino non cambia e oltretutto si intensifica l’atteggiamento fedele e premuroso di protezione. L’ oggetto transizionale comincia a duplicarsi, sdoppiarsi, circondarsi di una famiglia di oggetti simili (come le famose attualissime bamboline Lol, i piccoli Mini Pony, automobiline…). Le funzioni inizialmente tutte svolte da un unico oggetto cominciano a differenziarsi e ad essere assegnate ciascuna a un nuovo oggetto. Questo permette al bambino di non rimanere sprovvisto di un valido strumento per gestire le sue emozioni, svincolarsi dall’esigenza della presenza concreta dei suoi riferimenti affettivi, costruire un sentimento d’unità personale, vivere nuove relazioni e di conservarne la memoria, senza dover tuttavia dipendere da un unico oggetto.

Alla scuola dell’infanzia si può allora notare come il bambino porti ogni giorno con sè da casa un oggetto diverso che, oltre tutto, diventa strumento per attirare l’attenzione dei compagni, strumento di scambio, stimolatore di giochi comuni ma anche provocatore di invidie ed esclusioni.

Questi oggetti, senza i quali il bambino pare non tranquillizzarsi, vanno tolti o lasciati? Qual è il loro significato? E’ giusto che il bambino li porti da casa a scuola, o bisogna liberarlo da queste forme di attaccamento? Sono questi alcuni gli interrogativi più pressanti delle famiglie.

In genere, ad un certo punto, la società fa ricorso a condotte contraddittorie e ambivalenti, a volte persino di scherno, rispetto all’oggetto tanto amato dal bambino. Uno sgarbo, una disattenzione, un’offesa all’oggetto possono favorire autentici fenomeni di sofferenza, anche fisica. Le situazioni più ricorrenti?

Toccare sgarbatamente l’oggetto, farlo cadere, riporlo con noncuranza, guardarlo come se fosse una cosa brutta, fingere di gettarlo via, nasconderlo per far finta che sia andato perso, rimproverarlo dirottando su di lui quanto si vorrebbe dire al bambino…
Se tenessimo a mente che bambino e oggetto sono nient’altro che una realtà intera, agiremmo con la dovuta consapevolezza e la necessaria cautela.

Per questo è importante una stretta collaborazione tra genitori e operatori del nido/scuola dell’infanzia, in modo tale che quest’ultimi possano conoscere e chiarire gli eventuali dubbi della famiglia, affinché anch’essa prenda coscienza della positività del decorso dell’esperienza transizionale. Essa sta proprio nel suo lento, fisiologico, naturale superamento: il bambino via via accetta di distaccarsi dai contenuti simbolici dell’oggetto privilegiato e dalle pratiche ad esso congiunte e trasferisce i suoi investimenti pulsionali, affettivi, cognitivi su zone più ampie arricchendo e variando le modalità di relazione.

Dunque non è utile imporre al bambino una separazione se non per ottenere un attaccamento più ansioso e ossessivo.
Ad esempio, il genitore o l’educatore, potrebbero aiutarlo con i gesti e le parole a prendersi cura del suo “oggetto”, ricercando la complicità del bambino.

Carla, secondo me, questa mucchina soffre a stare qui a scuola con tanti bimbi che la spupazzano! Non pensi che le piacerebbe starsene tranquilla ad aspettarti a casa? Oppure magari al sicuro nel tuo zainetto?

Col tempo, d’altronde, fisiologicamente l’ oggetto transizionale viene gradualmente disinvestito e da adulti ne avremo solo un dolce ricordo.

Il ruolo della memoria nel Disturbo da accumulo

Secondo il DSM 5 la caratteristica essenziale del disturbo da accumulo (Hoarding Disorder) è la persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale.

 

Disturbo da accumulo: credenze e conseguenze

Le principali ragioni addotte per giustificare questa difficoltà sono: l’utilità percepita o il valore estetico degli oggetti oppure il forte legame affettivo con i beni. Gli oggetti più comunemente conservati sono giornali, riviste, vecchi vestiti, borse, libri, posta, e documenti, ma potenzialmente qualsiasi oggetto può essere conservato.

Gli individui con disturbo da accumulo conservano di proposito i propri beni e sperimentano un disagio di fronte alla prospettiva di gettarli via; accumulano grandi quantità di oggetti che riempiono ed ingombrano gli spazi vitali al punto che l’uso previsto non è più possibile.

Le persone affette da disturbo da accumulo hanno gravi difficoltà a buttare le cose in loro possesso, di conseguenza le loro stanze diventano così ingombrate nel tempo che gli spazi di vita non sono più utilizzabili.. Avere problemi di hoarding influenza negativamente la vita delle persone, poiché la loro casa risulta inagibile, le condizioni igieniche diventano precarie e si manifestano diversi problemi nelle relazioni affettive e lavorative.

Il disordine domestico può essere pericoloso e rappresenta un rischio per la salute della persona, ad esempio può bloccare le uscite di emergenza, causare inciampi e cadute. Il trattamento principale per tale disturbo risulta essere la terapia cognitivo-comportamentale, il cui scopo sarà quello di capire e modificare i pensieri, le credenze e i comportamenti che sono alla base della difficoltà nel buttare via le cose e dell’accumulo.

Hoarding, trauma e memoria: come le immagini intrusive potrebbero mantenere il disturbo

Lo studio, condotto dall’Università di Bath, pubblicato sul Journal Behavior Therapy, vuole indagare il ruolo della memoria delle persone affette da hoarding e vedere quali sono i ricordi che si associano agli oggetti accumulati.

Da ricerche precedenti si è visto che i traumi spesso accompagnano le storie degli individui con problemi di hoarding.

Il campione era composto da 27 soggetti con disturbo da accumulo e 28 soggetti sani (gruppo di controllo). Ai partecipanti veniva chiesto quali fossero le immagini intrusive che accompagnavano le loro esperienze quotidiane e se queste immagini si palesassero nella loro mente quando scartavano beni di scarso e di basso valore.

Confrontando i due gruppi, quello con hoarding presentava immagini intrusive più frequenti, con una valenza negativa maggiore, che si associavano a maggiori interferenze nella vita quotidiana e a tentativi di evitarle.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti con hoarding disorder riportavano esperienze negative di immagini intrusive, rispetto al gruppo di controllo, quando dovevano scartare oggetti di scarso valore soggettivo. Inoltre, il gruppo di controllo ha riportato un maggiore evitamento delle immagini quando si trattava di scartare un oggetto di alto valore.

In futuro sarebbe interessante vedere se sviluppando un’immagine alternativa questa potesse “competere” con quella che causa difficoltà. Lo scopo dell’immagine alternativa è appunto quello di evidenziare le conseguenze positive che si possono ricavare scartando un oggetto.

 

Come il monitoraggio e l’anticipazione (non) ci tutelano dall’impensabile

Nella vita impariamo che il controllo e la capacità di anticipare gli eventi ci aiutano a vivere bene. Ma è proprio così? La vita troppo spesso manca di certezze.. imparare a “stare” in queste condizioni può rivelarci uno scenario infinito di possibilità che non avevamo nemmeno mai pensato!

 

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. A volte la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, in realtà. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un cazzotto è stare giù dal ring, in platea.

Succede a volte che un po’ il temperamento, un po’ le esperienze di vita, un po’ gli apprendimenti espliciti o impliciti ci portino a fare della guardia alta la nostra priorità di vita, nell’illusione che quella posizione voglia dire non prendere cazzotti.

Cosa vuol dire tenere la guardia alta? Vuol dire stringere le mani a pugno, portare le braccia con una certa angolazione dei gomiti, irrigidire le spalle, stare sugli avampiedi. Faticoso, molto. Vuol dire la testa abbassata, il mento coperto ma gli occhi ben dritti. Vuol dire essere innanzitutto vigili, ipervigili, e poi reattivi. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi: monitoraggio (dell’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (del movimento).

Scendiamo un attimo dal ring. Proviamo ad andare nel contesto iper-allargato di tutti i giorni. Cosa ci insegnano da bambini i diversi ambiti di vita? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e (come corollario), le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose ci crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho notato quale argomento era più caro al prof di filosofia e l’ho studiato meglio, così ho previsto come sarebbe andata l’interrogazione, non mi sono fatto cogliere impreparato e ho preso 10. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Controllo e anticipazione: delle strategie di vita

Ma che cos’è che stiamo esattamente evitando con questa nostra strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di cazzotto che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore personale, per altri ancora con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

Ma cosa succede quando queste strategie non funzionano più?

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, giri gli occhi per un nanosecondo e sei al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia rodata ancora e ancora, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto a quel paese. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove.

Innanzi tutto, vedi le cose da una prospettiva inedita. In secondo luogo, è da quella prospettiva che si possono considerare cambiamenti di strategia. Eh sì, perché va da sé che la mia strategia di controllo e anticipazione, con tutto il costo che si porta dietro (la questione della rigidità muscolare e degli avampiedi), si rivela anche a tratti fallimentare, come direbbe Darwin (circa), ma chi me lo fa fà?

Ecco, qui in quanto esseri umani tendiamo a incastrarci. Perché una strategia che ha funzionato per anni e che ci dà una parvenza di controllabilità e anticipazione è difficile da mollare. Non posso certo accettare di stare nell’incontrollabile e nell’imprevedibile, ma ci mancherebbe altro!

Allora prima di dire che la mia strategia non ha funzionato, mi dico che non è colpa mia, che io ho previsto tutto alla perfezione, ma qualcosa nel contesto intorno mi ha fregato. È colpa di qualcun altro, che peraltro è giusto che paghi per questa mia caduta. Non sono io vulnerabile, è il contesto cattivo, malintenzionato, meschino, ingiusto, chi più ne ha più ne metta. E qui arriva il primo incastro. Ci incastriamo in una sorta di impensabilità. Non posso pensarmi vulnerabile (nelle sue declinazioni), fallace, sbagliato. Non dopo tutti questi anni. Quindi mi rialzo, impreco contro tutti e mi rimetto in posizione. E qui arriva il secondo incastro: la posizione. Visto che non è responsabilità mia, ma del caso, perché cambiare qualcosa? È una posizione che mi ha protetto così tante volte, io me la riprendo!

Uscendo dalla metafora, il mio modo di affrontare le cose, monitorando e anticipando eventuali difficoltà, si dimostra molto costoso in termini di risorse personali (l’attenzione come la guardia sempre altissima, la lettura di quella che penso essere l’intenzione altrui) e comunque (come tutti i modi possibili) fallace. Ma io non lo mollo, anzi. A partire da quello che ho imparato, cerco di farlo ancora meglio. Starò più attento, starò più in guardia, niente mi farà più cadere.

Ed ecco che mi rifiuto di ascoltare l’insegnante più importante: l’esperienza. L’esperienza mi ha fatto sentire vulnerabile, e invece di imparare che, come tutti gli esseri umani, sono anche io vulnerabile, imparo che devo essere più attento e riuscirò così facendo a essere intangibile. Il superpotere illusorio dell’invulnerabilità che conquisto vestendo il mantello del controllo.

Ma perché perseverare in questo modo così anti-evoluzionistico reiterando una strategia che comunque non ha funzionato? Perché accettare l’alternativa è troppo difficile, ci fa troppa paura. L’alternativa si chiama caos, a un certo livello. Caos nel senso di imprevedibilità, di improvvisazione forzata. Caos soprattutto nel senso di accettazione di avere situazioni in cui (a tratti) ci sentiamo vulnerabili. Che qualcuno ci deluderà, qualcun altro non ci vorrà con sé. Accettare che le persone non ci stimeranno, che il capo sceglierà qualcuno di diverso perché ritenuto più bravo.

Lasciare andare il controllo ossessivo significa dover fare i conti con le conseguenze, anziché con le causa. Significa gestire il dopo e non il prima. Roba da grandi, difficile. Invece no. Semplicemente, cose che non siamo abituati a fare perché, a forza di anticipare, raramente abbiamo dovuto fare i conti con le cose andate male, e non facendone abbastanza esperienza abbiamo continuato a vederle come intollerabili. Si vede, durante la psicoterapia. Sono quelle cose che i pazienti rifiutano di sentire, quelle cose a cui non vogliono pensare. Non può aver promosso lui perché lo ha valutato come migliore di me, ci deve essere un altro motivo. Non può avermi lasciato per un altro, anzi, sono io che non la volevo più. Non posso aver sbagliato, è stato il mio collega a passarmi male le consegne.

E così, come bambini che non vogliono ricevere una punizione, ci priviamo della possibilità più importante, la possibilità di imparare. Che significa imparare che restiamo sostanzialmente amabili anche se qualcuno ci rifiuta, restiamo validi anche se qualcun altro viene riconosciuto più di noi, restiamo “bravi” anche se commettiamo degli errori. Ci precludiamo la possibilità di imparare che il mondo va avanti lo stesso anche senza il nostro controllo, che domattina ci alzeremo lo stesso anche senza la nostra continua anticipazione, forse solo con meno male alle braccia e con i muscoli più riposati. Continuiamo, esausti, a stare sul ring combattendo contro la nostra vulnerabilità, senza capire che siamo nella stessa squadra e che l’unico modo di vincere è vincere assieme. Toglierci i guantoni e il paradenti, scendere dalla punta dei piedi e ritornare a respirare. Ringraziare quello che ci sembra un fallimento, perché usando le parole di Pavese, “non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”.

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