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Filosofi, sacerdoti o economisti? Perché ci vergogniamo di essere “semplicemente” terapeuti?

Giovanni Ruggiero e Sandra Sassaroli rispondono alle recenti dichiarazioni di Recalcati, che attribuisce alla terapia compiti salvifici e poteri risolutori

Di Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli

Pubblicato il 19 Lug. 2019

Nel seguente articolo Giovanni M. Ruggiero e Sandra Sassaroli rispondono alle recenti dichiarazioni di Massimo Recalcati

 

La psicoterapia è quel che è: un mestiere e non una filosofia. Uno strumento e non una visione del mondo. Un attrezzo e non una religione. L’ultimo che c’è cascato è Recalcati il quale, pur tra intuizioni interessanti, finisce per attribuire alla forma di psicoterapia che lui pratica, la psicoanalisi lacaniana, compiti salvifici e poteri risolutori che poi rischiano di rivelarsi illusori.

 

Periodicamente la psicoterapia e i suoi antenati, la psicoanalisi ma anche la psicoterapia esistenziale e umanistica da Binswanger in poi, si vergogna di se stessa e paga – forse goffamente – il suo debito alla sua radice filosofica. Radice profonda eppure traditrice perché finisce spesso per incoraggiare l’umile psicoterapia a promettere più di quel che può dare: una visione del mondo e non solo una cura. Invece la psicoterapia è quel che è: un mestiere e non una filosofia. Uno strumento e non una visione del mondo. Un attrezzo e non una religione.

Massimo Recalcati: una psicoterapia dai superpoteri?

L’ultimo che c’è cascato è Recalcati, il quale, pur tra intuizioni interessanti, finisce per attribuire alla forma di psicoterapia che lui pratica, la psicoanalisi lacaniana, compiti salvifici e poteri risolutori che poi rischiano di rivelarsi illusori. Probabilmente questi superpoteri vanno al di là delle richieste dei pazienti. Un paziente viene in terapia perché soffre emotivamente e perché non riesce a realizzarsi negli affetti o nel lavoro o altrove o in tutti questi campi. Viene anche per altre ragioni più elevate? Viene anche perché, più nobilmente, non riesce a dare alla sua esistenza un senso più generoso e universale e meno egoistico della privata realizzazione di sé? Probabilmente sì, ma la psicoterapia comunque dovrà rispondere alla ricerca di senso agendo all’interno dei bisogni privati di quella persona singola e non replicare alle domande ultime sul senso del mondo.

Ed è qui che casca l’asino. Arrivato qui, lo psicoterapeuta talvolta vuole dare qualcosa di più, non ridursi a un umile rivenditore di benessere – così prossimo all’altrettanto umile rivenditore di prosciutti della pizzicheria all’angolo – e cercare un senso più alto. Dal non accontentarsi di aiutare il singolo paziente all’occuparsi del malessere universale dell’intera società, anzi del genere umano, il passo è breve, ma il salto può essere goffo.

È lì che ci s’incammina ma anche s’incespica. Quando Freud s’interroga sul disagio della civiltà, quando Binswanger esplora il senso dell’esserci nel mondo, quando Adler analizza la volontà di potenza e Jung si inabissa negli archetipi, quando Frankl cerca il significato dell’esistenza partendo dalla sua tragica esperienza del lager, quando Lacan contempla la possibilità della gioia nella vita umana e quando infine Recalcati ci raccomanda di abbandonarci alla follia dell’amore, indubbiamente tentano di dare qualcosa in più. Diventano filosofi e smettono di essere venditori sul mercato capitalistico della sofferenza emotiva. Ci riescono? In parte.

Un aspetto clinico positivo nelle tante aspirazioni filosofiche

Vi è un aspetto clinico positivo in questa ricerca di senso, intendiamoci. Queste aspirazioni filosofiche tecnicamente si traducono nel tentativo di andare oltre la mera risoluzione del sintomo. Certamente cercare il senso del sintomo può far parte dell’atto tecnico della psicoterapia e può essere un’operazione clinicamente giusta. Ci si chiede però se vi sia in queste elucubrazioni filosofiche fatte da analisti e psicoterapeuti un contributo originale al dibattito culturale.

Ad esempio, che la malattia psicologica abbia un senso e il sintomo sia un significato è un concetto caratteristico della cultura europea tardo-romantica già da prima della nascita della psicoterapia. Prima che in Frankl o in Binswanger, lo troviamo nella Montagna Magica di Thomas Mann, nei racconti di Schnitzler e in mille altre opere letterarie e filosofiche di quel periodo e ancor prima. La volontà di potenza e il primato del desiderio prima che in Freud, Adler e Lacan la troviamo in Nietzsche. Freud pescò idee per Totem e Tabù dall’antropologia nascente di quel periodo, prima e dopo James Frazer.

Piacerebbe pensare che questi pensatori, romanzieri e pensatori, si siano ispirati al pensiero psicologico, ma temiamo che il passaggio sia stato in maggior misura inverso: pensatori, romanzieri e filosofi hanno esplorato il significato esistenziale della sofferenza e psicoanalisti e psicoterapeuti ne hanno tratto ispirazione per il loro lavoro clinico. Il contributo originale degli psicoterapeuti all’elaborazione culturale e non solo clinica di questi concetti antropologici, letterari e filosofici è difficilmente valutabile e il rischio che corre lo psicoterapeuta che vuole diventare maestro di vita è quello di essere un divulgatore di idee che sono stati trattate meglio altrove.

Dalla riflessione esistenziale alla riflessione economica

Un ulteriore passo si compie quando si passa dalla riflessione filosofica ed esistenziale a quella sociale ed economica. E già, perché a quanto pare limitarsi a fare il proprio mestiere di psicoterapeuta significherebbe rimanere colpevolmente asserviti al sistema sociale ed economico di tipo capitalistico che ci sostiene senza aspirare a metterlo in discussione.

È compito della psicoterapia dare un contributo al superamento di questo sistema? È in grado la psicoterapia di fare un simile sforzo ideologico? Difficile. Sembrerebbe un compito culturalmente e politicamente immenso, al di là delle possibilità del pensiero clinico.

Infine Recalcati nella sua ramanzina sui tempora e sui mores non resiste alla tentazione di rifilare il solito calcetto alla psicoterapia cognitivo comportamentale quando sostiene che:

quando in psicanalisi si parla di verità si parla della verità singolarissima del desiderio. Cognitivismo, comportamentismo, scientismo non se ne occupano. Rammendano il funzionamento della macchina.

È un motivo retorico ricorrente quello di attribuire al cognitivismo clinico una vocazione tecnicistica che lo renderebbe incapace di rispondere alle domande esistenziali dell’individuo e ai bisogni sociali di superamento del capitalismo. Ne abbiamo già scritto più volte rispondendo a Galimberti.

A Recalcati non si può che rispondere allo stesso modo. La psicoterapia è uno strumento tecnico di cura della sofferenza emotiva. Dare un significato al sintomo ha senso ma comunque entro i limiti di un’operazione tecnicamente clinica. Coltivare aspirazioni culturali è un diritto di Recalcati, ma non è un’operazione psicoterapeutica e rischia sempre, a nostro parere, di essere un obiettivo velleitario: la vocazione del sacerdote è più alla portata dei filosofi e degli intellettuali che non si sporcano le mani con il lavoro clinico, che è inevitabilmente un lavoro immerso nella realtà quotidiana, che è una realtà di mercato capitalistico.

Un tempo, chi desiderava sottrarsi al principe di questo mondo si ritirava coerentemente in un eremo. Oggi si preferisce giocare su due tavoli, proporsi come sacerdoti e al tempo stesso rimanere sul mercato. Galimberti promuovendo il counseling filosofico, attività che – non si sa bene come – sarebbe in grado di opporsi allo strapotere della modernità capitalistica. Recalcati più tradizionalmente riproponendo la sua psicoanalisi lacaniana, disciplina misteriosamente immune alle catene del mercato a differenza della psicoterapia cognitivo comportamentale che invece ne sarebbe serva. Attenzione che il salto dalla critica alla modernità e del consumismo del mercato alla critica delle libertà dello stato di diritto è breve. In questi giorni Putin dichiara che il liberalismo occidentale è in crisi.

Non c’entra nulla con i nervosismi di Recalcati e Galimberti? Forse che si e forse che no.

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SCRITTO DA
Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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