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Rimuginio e ruminazione: una possibile base neuroscientifica nel Default Mode Network

Rimuginio e ruminazione sono due processi cognitivi messi in atto dall’individuo nel tentativo di gestire la propria attivazione emotiva (con i relativi correlati fisiologici) e fanno parte di quella mole di strategie di coping ritenute disfunzionali se eccessivamente utilizzate.

 

Più precisamente il rimuginio (worry) viene definito come un pensiero ricorrente negativo, astratto, per lo più verbale, i cui contenuti riguardano il futuro e la cui emozione prevalente è rappresentata dall’ansia (rimuginio ansioso, appunto); la ruminazione è anch’essa un processo di pensiero di tipo perseverante, negativo, che concerne informazioni rilevanti per il sé, tuttavia il focus attentivo è rivolto all’analisi di eventi passati, sia in chiave depressiva (ruminazione depressiva) che rabbiosa (ruminazione rabbiosa).

Sono stati proposti diversi modelli per spiegare l’origine e il mantenimento di questi due processi di pensiero negativo e perseverante il cui effetto paradossale è quello di esacerbare l’attivazione emotiva anziché ridurla. Tra i più noti e utilizzati in psicoterapia troviamo il Modello Metacognitivo di Wells (2012) che si basa sulla Self-Regulatory Executive Function (S-REF) e sulla Cognitive-Attentional Syndrome (CAS), dai cui principi sono stati proposti trattamenti efficaci per molti disturbi sintomatici (in particolare per il disturbo d’ansia generalizzato e i disturbi depressivi). Secondo tale approccio, gli individui hanno credenze metacognitive positive circa l’utilità del worry e della rumination poiché sono mossi dalla convinzione che mettendo in atto questi processi otterranno un certo sollievo (es: “sarò preparato al peggio”, “analizzare il passato mi permetterà di comprendere perché mi senta così”); tuttavia esistono una serie di credenze metacognitive negative che concernono l’incontrollabilità e la pericolosità (es: “non riesco a smettere di rimuginare, è più forte di me”, “rimuginare mi farà diventare pazzo”). Indipendentemente dalla natura positiva o negativa delle metacredenze sopracitate, rimuginio e ruminazione sono considerati fattori di mantenimento rilevanti in molti disturbi psicologici.

Dimaggio e colleghi (2019) parlano inoltre di rimuginio/ruminazione interpersonale secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) che, a proposito di strategie di coping maladattive, si prefigge di aiutare i pazienti a ridurre e gestire in modo più funzionale situazioni i cui stimoli attivanti riguardano principalmente la sfera relazionale. Nello specifico gli autori parlano di Pensiero Ripetitivo Interpersonale (PRI), inserendolo in quelle che essi definiscono strategie di coping attivanti le quali vengono utilizzate allo scopo di ridurre l’emotività negativa ma che, di contro, falliscono quasi nell’immediato (a differenza delle strategie deattivanti che, distogliendo momentaneamente l’attenzione dallo stato doloroso, possono nel breve termine arrecare sollievo, seppur transitorio).

Per quanto riguarda le basi neuroscientifiche di rimuginio e ruminazione è stato identificato il Default Mode Network (da ora DMN) come una delle possibili reti neurali implicata in questi due processi di pensiero. Il DMN, con sede in aree corticali tra loro connesse (aree parietali, temporali mediali e laterali e corteccia prefrontale mediale), è stato recentemente considerato correlato a stati di riposo, attraverso paradigmi sperimentali in cui ai partecipanti veniva chiesto di non eseguire alcun compito mentre veniva registrata loro l’attività cerebrale (Greicius, 2009), osservando un’attivazione di tale circuito; viceversa, in contesti in cui i soggetti erano impegnati in un compito cognitivo si è riscontrata una deattivazione di DMN. Inoltre, è stata osservata un’attivazione incrementata durante attività legate alla riflessione su se stessi e teoria della mente, introspezione, pianificazione del futuro e processi di regolazione emotiva (Buckner, 2008). Il ruolo di DMN, in particolare la sua attivazione durante stati di riposo e la sua deattivazione durante attività orientate all’obiettivo, potrebbe considerarsi un’aspetto relativo alla sopravvivenza: attenuare l’attività autoreferenziale nel cervello permetterebbe di concentrarsi sul compito in modo più efficace, diminuendo così interferenze causate da stati interni all’individuo. Il fallimento di questa operazione è particolarmente evidente in soggetti con Depressione Maggiore (Sheline, 2009), disturbo che, tra le varie problematiche riscontrate, è caratterizzato da una forte componente di ruminazione.

Rimuginio e ruminazione sono processi di pensiero che si manifestano indipendentemente da stimoli esterni, o quanto meno possono essere attivati da trigger esterni, ma il loro perdurare prescinde dall’ambiente esterno, dal momento che il focus è per lo più spostato su processi correlati al sé, quindi interni all’individuo: ruminare, ad esempio, in modo depressivo o rabbioso presuppone un’analisi sul sé in rapporto all’evento passato che ha innescato l’emozione sgradevole, ed anche rimuginare sugli scenari futuri (spesso in chiave catastrofica) implica un’attenzione focalizzata sui possibili eventi che potrebbero creare distress al proprio sé. Sebbene, infatti, si possano elicitare anche sperimentalmente processi di pensiero ripetitivi e negativi, mostrando ad esempio immagini -stimolo capaci di attivare worry o rumination, è il modo in cui il soggetto “maneggia” i propri pensieri a fare la differenza ed il tempo che impiega nel tentativo di padroneggiarli:  il risultato che si ottiene spesso è quello di attività mentali ripetitive, negative, astratte utilizzate come strategie di coping per tentare di autoregolarsi emotivamente. Resa chiara pertanto la natura autoreferenziale di rimuginio e ruminazione, non stupisce che esistano dati di neuroimaging che informano sul ruolo di DMN , come quelli provenienti da una ricerca di Servaas e colleghi (2014) che hanno osservato non solo un’attivazione di DMN durante il worry, ma anche una deattivazione simultanea di aree visive che suggerisce una interruzione di immaginazione visiva (il rimuginio infatti è per lo più di natura verbale).

Dunque, considerate le ricerche in tale ambito, che stanno via via incrementando i dati a supporto di un coinvolgimento di DMN nei processi di rimuginio e ruminazione, è necessario avvalersi delle attuali conoscenze per rendere la clinica e i trattamenti proposti più incisivi ed efficaci da un punto di vista neuroscientifico; spiegare, ad esempio, a chi si rivolge ad un percorso di cura i meccanismi cerebrali sottostanti la sintomatologia riferita, può divenire un intervento psicoeducazionale importante al fine di fortificare un senso di fiducia e coinvolgimento attivo ed incrementare così nei pazienti motivazione e compliance alla psicoterapia.

 

Nostalgia del “dica 33”

E’ fondamentale che il personale sanitario, professionisti della cura, eserciti l’arte della compassione, ovvero della sensibilità verso la sofferenza nostra e dei nostri pazienti, dobbiamo parteciparne e sentirci impegnati nel cercare di alleviarla.

 

Ammalarsi gravemente, ancor più se trattasi della malattia presumibilmente definitiva, rappresenta un evento traumatico nella vita di una persona poiché, in modo non annunciato e frettoloso, siamo messi a confronto con la dissoluzione delle consuetudini, l’annientamento delle abitudini e delle routine familiari e sociali, fondamento identitario.

Lo spazio ed il tempo si disintegrano, l’idea del morire non è più qualcosa su cui magari fantasticare a tempo perso, ma diventa la concreta compagnia di ogni minuto e la si percepisce in modo fisico, immediato, attraverso il dolore mentale e fisico che accompagna la malattia.

Quello che fino al giorno prima era importante, magari fonte di cruccio, di preoccupazione, di rabbia o di dolore viene dimenticato, un’amnesia quasi dissociativa prende il sopravvento e si fa strada la sensazione soggettiva e grave di sentirsi estranei, del tutto estranei al resto del mondo.

Il neo-malato grave si colloca in un limbo in cui i rumori dell’esistenza quotidiana, di cui fino a poc’anzi era partecipe, giungono attutiti e progressivamente sbiadiscono di significato.

La routine della malattia impone suoi tempi e modi di vivere: i discorsi si centrano e ruotano, anche per ore, su quei fatti banali a cui mai prestiamo troppa attenzione, le linee di febbre, l’astenia, le necessità fisiologiche, il cibo troppo o troppo poco, i bisogni primari che diventano imperiosi e dilaganti.

E’ la rivincita del corpo che, forse prima trascurato, si impone prepotentemente con mille rivendicazioni pressanti e inesauribili.

I familiari, i coniugi, le persone care, devono comunque mantenere un rapporto con la realtà, ne sono obbligati, rapporto fatto di interazioni con luoghi, negozi, farmacie, supermercati, uffici o altro, con abilità, guidare la macchina, cucinare, riposare e con ruoli e funzioni sociali, tra tutte il lavoro.

Il malato, al contrario, si trova in una corsia di ospedale, in attesa di intervento, chirurgico o altro.

Sta in un mondo a parte privo di ogni responsabilità, destituito di potere ma anche di doveri se non quello di sottoporsi, docile, alle cure.

Ancora i primi giorni sembra mantenere una sua formale dignità legata alla sua identità precedente ma, con i primi interventi di cura, le prime interazioni con gli operatori sanitari o semplicemente con l’avvento del pigiama ventiquattr’ore il malato trasloca in un ruolo, quello di malato, appunto, che annebbia perfino il proprio nome e cognome o la vita com’era fino al giorno prima. Com’eravamo.

Cominciano con il non chiamarti per nome o per cognome, ma diventi il numero del letto o della stanza; ti appellano con nomignoli di ogni genere, a Roma teso’ che sta per tesoro, oppure cocco nelle sue infinite variazioni diminutive e sempre, invariabilmente, ti danno del tu.

L’ospedale, i suoi orari, il suo funzionamento generale pare sia pensato per essere un luogo quanto più confortevole possibile per gli operatori e questo ha un senso solo nella misura in cui gli operatori sanitari sono quelli che ci passano la vita, al contrario dei pazienti che lo frequentano per tempi più o meno brevi.

Però questa centratura sull’operatore diviene talmente estrema che i malati si sentono di troppo, temporanee intromissioni che interrompono le chiacchiere sui pettegolezzi più recenti, gli accesissimi dibattiti sindacali, i nervosismi quotidiani; un po’ infastidiscono le loro necessità, le lamentele, le attenzioni o le semplici domande che di tanto in tanto trovano il coraggio di porre, con tanta maggior sfiduciata insistenza tanto meno sono ascoltati.

Per non dire dei familiari che, sempre dal punto di vista della routine ospedaliera, sono ancora più fastidiosi, mal tollerati, vengono rapidamente espulsi allo scadere degli orari di visita, senza cogliere per nulla l’opportunità che rappresentano in una situazione, su quello siamo tutti d’accordo, di cronica carenza di personale.

Ogni familiare, infatti, aiuta il proprio congiunto ma anche gli altri malati, per quella solidarietà e comprensione che nasce spontanea nelle situazioni di sofferenza condivisa.

Basterebbe dare loro poche informazioni e consigli, per avere una gran quantità di mano d’opera, certamente scarsamente formata, ma fortemente motivata e, soprattutto, disponibile a ciò che più di ogni altra cosa tutti gli operatori sanitari sembrano fuggire in modo quasi fobico: il contatto, la relazione con il malato che viene trattato, come in ogni istituzione totale, come un numero di letto, una diagnosi, un oggetto su cui praticare degli interventi, il più rapidamente possibile, per correre altrove.

 Il o la caposala decide quanto tempo il parente potrà trattenersi, vigila fermamente sulla regola “solo uno nella stanza” e ti rassicura dicendoti che ci sono gli operatori, infermieri e Oss, per le pratiche quotidiane di cui ha necessità il malato. Quando poi arrivi, al minuto spaccato per cui hai avuto il permesso, trovi il tuo caro che ti aspetta come la manna dal cielo perché da ore, troppe, sta aspettando cure, igieniche o sanitarie, per cui ha suonato e risuonato il famoso campanello. Vengono, lo spengono e ti dicono “mo’ arriviamo teso’ ” e rispariscono nel nulla del corridoio, verso cui sono rivolti gli sguardi ansiosi dei pazienti.

Si tratta, certamente, di un tentativo comprensibile di prendere le distanze dal dolore per non esserne contagiati, credendo erroneamente che sia questa la soluzione più giusta per sé, per il proprio equilibrio e benessere, ma si trasforma in disappunto, in irritazione verso chi di tanto dolore è la possibile fonte di contagio e, soprattutto, non funziona e priva completamente l’operatore di un’abilità fondamentale per chi abbia avuto l’ardire di scegliere una professione di cura: la capacità di ascoltare.

Nell’ospedale, in tutte le stanze, i corridoi, gli ambulatori, gli ascensori, dovunque, campeggia un cartello, evidentemente il più recente per la vivacità dei colori e per essere in sovrapposizione a quelli più vecchi e sbiaditi, che recita: “E’ reato aggredire fisicamente e verbalmente il personale sanitario di qualsiasi categoria: i trasgressori saranno puniti a norma di legge”.

Colpisce che ci sia bisogno di un tale cartello come, per parlare di attualità, della scorta alla senatrice Segre.

Forse troppo idealisti, la prima aspettativa che abbiamo di un ospedale è quella di un posto dove i professionisti della cura abbiano l’impellente vocazione di alleviare la sofferenza altrui, magari con il sorriso sulla bocca mentre, di contro, i malati ringraziano, riconoscenti all’infinito, i loro benefattori.

Ma ben presto ci si rende conto che non è così anzi, al contrario, il paziente si trova nel bel mezzo di una doppia guerra: una, che potremmo definire territoriale, tra gli operatori signori dell’ospedale ed i pazienti, con i loro familiari, truppe d’invasione. L’altra, che potremmo definire civile, tra le varie categorie, (caste?) di operatori.

A queste due grandi battaglie si intrecciano le consuete conflittualità personali quotidiane, le antipatie, le piccole ritorsioni che, tuttavia, ovunque presenti nei posti di lavoro, non rappresentano una peculiarità ospedaliera.

Le stesse caste cui in precedenza facevamo riferimento, si definiscono proprio sulla distanza che hanno con il malato: più se ne è lontani, più si è importanti nella gerarchia ospedaliera.

Il primario è un’entità astratta, un  “deus ex machina” della cui esistenza si può, talvolta, legittimamente dubitare, che si limita a qualche apparizione settimanale durante la quale attraversa il reparto come una folata di vento, seguito da alcuni medici di ruolo, cioè assunti dal SSN e da una nuvolaglia di specializzandi che lo seguono con i camici svolazzanti, i fonendoscopi a tracolla come pregiatissime sciarpe, una sfilza di penne multicolore nel taschino, perlopiù parlottando tra loro delle faccende tipiche della loro interminabile e ritardata adolescenza sociale.

Passano in rassegna i malati ma comunicano esclusivamente tra loro, mentre il paziente viene del tutto ignorato, al punto che può dubitare di essere presente.

Non si parla direttamente con lui, tanto meno con il familiare, che viene prontamente fatto uscire dalla stanza portando con sé miriadi di domande che si era accuratamente preparato a cui nessuno darà mai una risposta; i medici commentano tra loro gli ultimi esami o le analisi, accennano ad altre possibili pratiche cui sottoporre la persona ma si guardano bene dall’agire quella pratica, evidentemente antiquata, desueta e forse considerata dannosa che si chiamava visita medica.

Sembra essere un vero e proprio tabù, come se visitare un paziente, nel senso di toccarlo, auscultarlo, guardarlo fossero azioni primitive, di altri tempi pretecnologici.

Dopo troppi giorni di polmonite la primaria dichiarò, rimanendo come al solito sulla porta, che ci voleva la consulenza con lo pneumologo. Sollievo, finalmente qualcuno ti visiterà e potrai fare quei grossi respiri a bocca aperta, mentre il tuo polmone viene auscultato per sentire se si riempie dell’ossigeno per vivere. Passa un giorno, la febbre è alta, passa il secondo, stai proprio male e c’è preoccupazione in chi ti sta accanto che, finalmente, ha avuto il permesso dal caposala di occuparsi di te, da sola mi raccomando! per tutta la giornata.

Dopo altri giorni, trovi il coraggio per chiedere alla più buona delle infermiere che hai individuato, che però già si è irrigidita perché te ne stai un po’ approfittando, che fine ha fatto lo pneumologo?

Dopo una serie di ostacoli a catena, tipo devi chiedere al caposala che ti dice devi chiedere al medico che ti dice devi chiedere al medico più importante e così via, finalmente uno ti risponde: “E’ già passato”.

Ti scusi ma, a meno che non sei proprio fuori di testa, tu non l’hai visto, certo che non l’hai visto è passato e ha visto le lastre! Ed ha stabilito la terapia! E tu che un po’ ti stai arrabbiando, perché nessuno ti ha detto niente, finalmente dici “Guardare le lastre equivale a visitare un paziente, professore?” dove la parola professore viene pronunciata con un leggero ma non troppo sarcasmo, che il professore avverte e scontroso ti risponde che hanno troppo da fare per visitarti e va bene così.

Non va bene così.

A volte qualche giovane specializzando mostra un po’ di interesse per la persona sofferente ma, dall’atteggiamento degli altri, capisce rapidamente quanto quella sensibilità sia sconveniente e rappresenti un ostacolo alla professione iperspecialistica a cui si sta avviando.

Si baratta la competenza tecnica con l’umana sensibilità e i giovani imparano rapidamente, a volte sembrano una grottesca imitazione degli anziani, ormai incalliti nel loro gelido distacco; inefficiente protezione contro il dolore e non prevenzione, ma semmai concausa del burnout perché il dolore e l’idea stessa della morte non si possono ignorare, ma semmai elaborare con il risultato di aumentare la propria partecipazione compassionevole al destino di sofferenza di tutti i viventi, nessuno escluso.

I medici dunque non conoscono i pazienti ma esclusivamente i loro esami clinici che portano in genere alla prescrizione di ulteriori accertamenti, con l’unico scopo di essere inattaccabili da un punto di vista medico legale in caso di successivo contenzioso: la medicina difensiva governa sovrana.

I dottori, quando non sono annoiati o sbrigativi, sono spaventati, appesantiti dalle costose assicurazioni che devono pagare, vedono in ogni paziente un potenziale querelante e ciò crea un circuito di diffidenza e timore reciproco che inquina totalmente la relazione di cura che, più che un’alleanza, pare una tregua armata.

Altro effetto non secondario di questa iperprescrizione di esami strumentali, che vengono richiesti per FARE diagnosi, non per confermarla o falsificarla, è la morte della semeiotica medica, il medico che guarda i segni, tocca, palpa, stringe, odora e, talvolta, assaggia il paziente.

Questo sta portando all’impoverimento della professione medica.

Quando la diagnosi sarà il frutto di un algoritmo che mette in sequenza una serie di esami strumentali a cui far seguire un protocollo terapeutico standardizzato, un ulteriore algoritmo, il tutto magari gestito da un’intelligenza artificiale certamente più aggiornata e meno soggetta ad errori ed interferenze emotive di qualsiasi medico, per quanto quest’ultimo si sforzi di assomigliare ad una macchina, di medici non ci sarà più alcun bisogno. Le macchine fanno le macchine meglio degli umani e quando l’umanità sarà vista come un ostacolo saranno le macchine ad esser vincenti.

Il medico si sente minacciato dal paziente, si attiene scrupoloso a linee guida e protocolli, con ciò rinunciando ad una personalizzazione della cura che avvilisce l’intuito clinico e l’unicità di ogni paziente.

Il paziente e i familiari si sentono trasparenti, non visti, mai ascoltati.

A volte c’è una domanda davvero urgente da fare o un momento di crisi del proprio caro, o una difficoltà importante: allora si mette da parte il proprio naturale riserbo, si forza il desiderio di non disturbare e si trova il coraggio di affrontare uno di questi medici svolazzanti. Si chiama, si chiede la presenza.

Il medico entra, il viso è già molto teso, gli occhi sono sfuggenti, si capisce che è stato disturbato ma può concedere qualche minuto. Il non verbale è molto chiaro e il paziente e il parente sono già in uno stato di soggezione, vogliono scusarsi, balbettano.

Il medico non ascolta, dopo le prime parole interrompe sbrigativo, colpisce l’alterigia con cui pensa di sapere già qualcosa che deve essere ancora comunicato, lui sa, tu no, la risposta non corrisponde alla domanda poiché la domanda non si è riusciti a farla ma tant’è, nemmeno il tempo di una debole protesta che lui è già fuori dalla stanza, svanito nel nulla.

Stavi proprio male, quel giorno, il colorito era marrone, faticavi a parlare, non riuscivi ad alzarti in piedi.

Una lunga, interminabile domenica, chiami e chiami perché da un momento all’altro sono comparsi pure i dolori all’addome, ma vengono, controllano i parametri, i parametri sono a posto e se ne vanno. 

I parametri saranno pure a posto ma tu stai per morire e quindi ogni tanto chiami e chiami.

In serata uno dei tanti dottori ti apostrofa, anche piuttosto sbrigativo e lui, che è chirurgo, finalmente trova il modo di fare lo psicologo pronunciando la celebre frase “non hai niente, sei stanco di essere ricoverato, devi solo tornare a casa”.

Il giorno dopo operato d’urgenza, finalmente sono d’accordo anche loro sul fatto che stai per morire.

Un tempo accanto al medico c’era l’infermiere, in posizione subordinata per ciò che riguardava la responsabilità della cura ma un vero punto di riferimento per il dottore o il primario e, sicuramente, per il paziente, per quanto riguardava la concretezza della cura.

L’azione dell’infermiere rappresentava la cura trasformata in operatività, segni fondamentali e costanti attraverso i quali veniva applicato il pensiero medico, una sinergia armonica.

Ora c’è una frammentazione da catena di montaggio, persino i parametri vitali (pressione arteriosa, temperatura, glicemia, saturazione…) sono rilevati da operatori diversi che passano quando hanno tempo e mai, proprio mai, rivelano al paziente il valore misurato.

Dopo la lotta di liberazione dai medici, con la nascita di un’apposita laurea che prevede, anche lì, varie specializzazioni, livelli e ruoli dirigenziali, gli infermieri hanno creato una propria catena gerarchica indipendente da quella medica, da cui si differenziano a volte con una malcelata ostilità.

Hanno una loro professionalità, rappresentata da un preciso mansionario, di cui vanno gelosissimi, che consiste specificatamente nella somministrazione delle terapie e poi c’è la mitica figura del caposala, protettivo verso i suoi ed autoritario verso tutto il resto del mondo, che rappresenta la gestione dell’ordine pubblico all’interno del reparto, vale a dire il rispetto delle regole e di ciò che è ammesso o vietato.

E sebbene possa sembrare strano, anche per la somministrazione delle terapie non è assolutamente necessario un contatto diretto con il paziente: si possono mettere e togliere flebo, inserire aghi, misurare pressioni o temperature o quant’altro, senza scambiare una parola, senza guardare negli occhi, senza rispondere ad una domanda, come se l’altro non esistesse.

Di nuovo, la mancanza di una relazione con il paziente, come per i medici, sembra essere diventato un indicatore di importanza nella gerarchia ospedaliera.

Ci si stupisce della capacità, automatica, seppure innaturale, di distogliere lo sguardo mostrando sempre e solo insofferenza, fretta, dopo che un paziente o un parente rivolge timidamente una semplice domanda, magari con un sorriso.

Non è facile non emettere alcun segno verbale o non verbale come se l’interlocutore non esistesse. Watzlawick scriveva, nella sua famosissima Pragmatica della comunicazione umana, che è impossibile non comunicare, dimostrando con ciò di non essere mai stato ricoverato.

Pazienti e parenti hanno l’impressione costante di invisibilità oppure, nel migliore dei casi, di dare un po’ fastidio, intrusi nell’esistenza quotidiana del “villaggio reparto” all’interno del “paese ospedale”.

Bisogna con fatica rammentarsi che, in verità, sono i pazienti i datori di lavoro degli operatori che affollano quel villaggio che è anche casa nostra.

L’alterigia regna sovrana, i medici sono un po’ preoccupati quando, a loro volta, devono fare qualche richiesta agli infermieri, c’è quel fenomeno curioso dello scaricabarile, “questa cosa non tocca a me ma tocca a lui, oppure tocca al prossimo turno, oppure domani, oppure adesso c’ho troppo da fare”, incontri e scontri sempre con il paziente presente, tanto non esiste, è invisibile.

Popper, nel suo La società aperta e i suoi nemici, parlando della scuola scriveva che la prima riforma decisiva a costo zero, vera rivoluzione, sarebbe consegnare direttamente a casa lo stipendio a tutti quegli insegnanti che lavorano solo per avere uno stipendio, proibendo loro di avvicinarsi ai ragazzi.

Forse la stessa cosa potrebbe valere per la sanità, più in generale per tutti quei lavori che hanno in primo piano una relazione interpersonale, ancor più se di aiuto.

Gli ultimi del villaggio sono gli ex portantini, oggi operatori socio-sanitari che, dovendo occuparsi dell’igiene, della pulizia e dei bisogni fisiologici dei pazienti, sono costretti a toccarlo e, con ciò, ad avere una qualche forma di relazione.

Tra loro sopravvive una qualche forma di umanità, fuori dalla dinamica istituzionale del distacco cercato ed esibito.

Ricordiamo che, teorizzata e portata poi avanti dal genio di Franco Basaglia, la riforma psichiatrica prese le mosse primariamente dai portantini dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa; evidentemente, più dei medici e degli infermieri, imprigionati pregiudizialmente nelle loro procedure scientifiche, avevano mantenuto intatta la capacità tutta umana di indignarsi per i contesti disumanizzanti in cui vivevano i pazienti.

I colori dell’ospedale: dopo le critiche amare e frutto della generalizzazione di un’esperienza personale, una proposta

Per usare la terminologia cromatica del modello di Paul Gilbert e della Compassion Focused Therapy pensiamo che occorra puntare ad un ospedale sempre più green, un luogo dove tutti, operatori, che lavorano anche con fatica, e pazienti, che soffrono, possano sentirsi tranquilli, calmi, in connessione e sicuri.

Come operatori sanitari dobbiamo uscire dall’assetto difensivo del distacco a tutti i costi, che si traduce nel vissuto pregiudiziale “più sono distaccato e mi difendo, più vivo bene” perché questo assunto è falso proprio e soprattutto per il benessere dell’operatore, prima ancora che per i pazienti.

Come professionisti della cura dobbiamo esercitare l’arte della compassione, ovvero della sensibilità verso la sofferenza nostra e dei nostri pazienti, dobbiamo parteciparne e sentirci impegnati nel cercare di alleviarla.

Essere compassionevoli comprende quelle emozioni e pensieri che si traducono in comportamenti finalizzati a prendersi cura, soccorrere, proteggere, sentire la sofferenza altrui ed essere in grado di tollerarla.

La nostra cultura attuale, al contrario, sta privilegiando sempre più le formule competitive e aggressive come terapia per vivere meglio, un sistema red dove le persone reagiscono con rabbia, ansia, disgusto o paura ad una realtà esterna vissuta come perennemente minacciosa e popolata di spietati competitor.

Difendiamo i nostri confini personali come se fossimo perennemente in guerra, ma è una guerra tutta interiore perché siamo così impegnati a difenderci che non abbiamo il tempo né di ascoltare né di guardare chi o cosa abbiamo davanti.

Siamo convinti che se reagiamo per primi siamo vincenti, se manifestiamo indifferenza siamo liberi, abbiamo paura della nostra umanità e quindi ci chiudiamo nelle gabbie della protervia e dell’ira.

Pensiamo ad un ospedale aperto, che integri ed utilizzi volontari e, soprattutto, familiari e sia in più forte continuità con l’assistenza domiciliare, con il day hospital e il day surgery.

La formazione degli operatori sanitari ai concetti di compassione ed empatia ridurrebbe il disagio dei pazienti, ma forse ancor di più il burnout degli operatori.

L’ospedale deve interagire col paziente, ponendolo al centro come protagonista delle sue cure e dei suoi interventi.

In tal modo si potrà arginare l’iperspecializzazione, la frammentazione del malato in un insieme di organi affidati a diversi specialisti e la conseguente, comprensibile fuga verso la medicina alternativa, che ancora prova interesse per la persona, oltre che per la malattia di cui quella persona è portatrice.

Si tratta in primo luogo di riparare l’alleanza terapeutica tra paziente e curante.

In tal senso ci piace immaginare una grande iniziativa che, a partire dalla sollecitazione delle società scientifiche e dalle scuole di psicoterapia, che possiamo considerare esperte della materia, venga fatta propria dal Ministero della Salute che convochi gli Ordini delle Professioni di cura e le Associazioni dei malati ad una specie di “Stati generali della relazione di cura” allo scopo di lavorare insieme per elaborare una sorta di Patto per la cura in cui curanti e curati esprimano richieste ed impegni, diritti e doveri, in un confronto/contratto reciproco.

Crediamo che la psicologia e la psichiatria possano essere promotrici di questo urgente cambiamento, per la riflessione approfondita sull’importanza della relazione terapeutica e che questo sia ovviamente utile ai pazienti ma ancor più agli operatori sanitari che potrebbero forse trasformare, in parte, un lavoro indubbiamente faticoso e oneroso in gratificante.

Già in passato la psichiatria è stata avanguardia e modello per il resto delle branche mediche: la famosa legge 180/76 che eliminò la centralità dell’ospedale psichiatrico, avviando la psichiatria territoriale fu il modello sul quale, pochi mesi dopo, fu varata la riforma del Sistema Sanitario Nazionale, legge 833/76.

Finalmente a casa dopo più di un mese di degenza. Sei ancora un malato, molto malato, ma sei nel tuo luogo sicuro. Ti riprendi la dignità, ti riprendi il diritto di soffrire senza colpa.

E ti commuovi quando la tua dottoressa, il tuo medico di base, viene a visitarti a casa, tira fuori il fonendoscopio, ti alza la maglietta e ti tocca pure. Respiri, respiri profondi a bocca aperta, col dito a martelletto ti batte sulla schiena e dice il proverbiale “dica trentatrè” che credevamo perduto.

 

Le bugie dei genitori e gli effetti sul funzionamento psicosociale dei figli

In tutte le culture viene messa molta enfasi nell’insegnare l’onestà ai bambini, tuttavia è altrettanto noto come sia estremamente comune che i genitori ricorrano a menzogne di vario genere per ottenere comportamenti desiderati dai loro figli. Quali sono le conseguenze di tale tendenza sul funzionamento psicosociale di questi ultimi?

 

E’ intuitivo immaginare come non sempre sia facile determinare la bontà delle intenzioni di chi dice una bugia: ad esempio, nel caso del barbuto signore che porta i regali ai bambini, pochi potranno affermare che l’intento sia quello di ingannarli, quanto piuttosto di donare una magica illusione; diverso sarà il caso di qualcuno che tradisce il proprio partner e decide di non confessare il misfatto, dove il confine tra il beneficio per destinatario della bugia e quello del suo perpetratore è assai più labile e dipende in larga parte dalla scala valoriale di chi si trova a giudicare.

In tutte le culture viene messa molta enfasi nell’insegnare l’onestà ai bambini, tuttavia è altrettanto noto come sia estremamente comune che i genitori ricorrano a menzogne di vario genere per ottenere comportamenti desiderati dai loro figli (Heyman et al., 2013; Santos et al., 2017), tanto che è stata coniata un’espressione per definire questo stile genitoriale detto “parenting by lying” (n.d.t: educare con la menzogna, Heyman et al., 2013).

Essere sottoposti a questa modalità educativa proprio durante il processo di socializzazione, fase contraddistinta dall’acquisizione di quelle che sono le norme sociali condivise, solleva l’eventualità che i bambini possano inferire attraverso l’osservazione che sia socialmente accettato mentire (Bandura, 1969), da ultimo condizionandone il comportamento. Quest’idea sembra venire confermata ad esempio da uno studio sul comportamento morale nei bambini, che ha rilevato come fosse più probabile che i bambini mentissero, se prima del test lo sperimentatore aveva mentito a sua volta (Heys & Carver, 2014).

Alcuni studi hanno messo in relazione il ricorso alle bugie da parte dei bambini con disturbi esternalizzanti come comportamenti dirompenti (Gervais et al., 2000) e problemi di condotta (Warr, 2007), ed internalizzanti come isolamento sociale e ansia dovuti alla vergogna e al senso di colpa per aver mentito (Keltner & Buswell, 1996). Solo uno studio, tuttavia, si è preposto di indagare la correlazione tra le bugie subite durante l’infanzia, il ricorso alle menzogne in età adulta e la presenza di eventuali outcome maladattivi, sebbene i risultati ottenuti non erano generalizzabili all’intera popolazione in quanto relativi ad un campione esclusivamente femminile (Santos et al., 2017).

Per ovviare a questa limitazione un nuovo studio condotto da Setoh e colleghi (2020) ha selezionato un campione sessualmente eterogeneo, composto di 378 soggetti residenti a Singapore, dei quali un’alta percentuale (88,7%) è risultato essere di nazionalità cinese, ma nel quale erano tuttavia presenti altre minoranze etniche (4,2% indiani, 3,7% malesi, 3,4% di altra nazionalità) tali da rispecchiare la multiculturalità della città-stato e permettere di estendere i risultati ottenuti cross-culturalmente.

Per avere una misura del grado di menzogne subite da parte dei propri genitori, i soggetti hanno compilato un questionario self-report (Heyman et al., 2013) che indagava quattro diverse categorie di bugie. I partecipanti potevano rispondere a ciascuno dei 16 item positivamente, negativamente o affermando di non ricordare, questo per vagliare la possibilità che gli eventi riferiti all’infanzia non fossero richiamati alla memoria nitidamente dai soggetti ormai adulti.

Per indagare le bugie dette dai soggetti ai propri genitori, si è utilizzato un questionario che valutava la frequenza delle menzogne riguardanti attività e azioni, bugie prosociali ed esagerazioni aspecifiche riguardo ad eventi o circostanze, per i quali veniva espressa una valutazione da 1 (=mai) a 5 (=molto spesso).

In ultima battuta, si è ricorso all’Adult Self-Report (ASR – Achenbach, 2013) per indagare le diverse misure di disturbi esternalizzanti, come ad esempio aggressione, violazione delle regole o comportamenti intrusivi, e disturbi internalizzanti come sintomatologia ansiosa, depressiva e di ritiro sociale, col fine di avere un indice del funzionamento generale dell’individuo nel suo adattamento psicosociale. Inoltre sono stati controllati la presenza di tratti subclinici di psicopatia, intesa come la tendenza a comportarsi egoisticamente e in maniera manipolatoria in situazioni sociali, considerabile un tratto psicopatologico primario, così come la presenza di comportamenti dirompenti o impulsivi.

A conferma delle ipotesi dei ricercatori, i risultati hanno mostrato che ad una maggiore esposizione al “parenting by lying” corrispondeva un maggior numero di bugie riferite in età adulta. Una spiegazione plausibile, come già accennato in precedenza, è che i bambini apprendono dai propri genitori che è accettabile mentire venendo esposti alle menzogne come metodo educativo. In alternativa, potrebbe entrare in gioco un aspetto relazionale importante, laddove la disonestà dei genitori richiamerebbe ed autorizzerebbe una risposta analoga da parte dei bambini, per ricambiare la fiducia tradita (Jones et al., 1991). L’adattamento psicosociale meno funzionale in termini di condotte esternalizzanti ed internalizzanti così come per i tratti della psicopatia, si registrava in concomitanza con una tendenza maggiore al ricorrere alle bugie in età adulta. Si è riscontrato come il mentire ai propri genitori in età adulta rappresentasse un mediatore nella relazione tra lo stile genitoriale improntato alla menzogna e gli outcome maladattivi considerati, a conferma di come proprio la frequenza delle bugie dette possa rappresentare un tratto distintivo della psicopatia nei bambini e negli adolescenti (Levenson et al., 1995). Particolarmente interessante è il dato emerso dalla path analysis che ha riscontrato sia un effetto diretto, che indiretto, nella relazione tra le menzogne subite da bambini e disturbi esternalizzanti, anche controllando la variabile delle menzogne dette ai genitori: in altre parole, lo stile genitoriale che si serve di bugie per impartire un’educazione potrebbe facilitare l’insorgere di condotte esternalizzanti che vadano oltre il semplice iniziare a dire bugie, ma che compromettano il funzionamento psicosociale globale del soggetto.

Studi futuri dovranno occuparsi di determinare la direzionalità degli effetti riscontrati, così come cercare di minimizzare le possibilità di errori nel richiamo di ricordi risalenti all’infanzia, magari adottando un metodo sperimentale longitudinale che consenta una visione più puntuale ed accurata. Da ultimo, si potrebbe prendere in considerazione se gli effetti maladattivi sul funzionamento dell’individuo siano generalizzati a tutte le bugie subite dal bambino o se questo effetto sia circoscritto ad un determinato tipo di menzogne, come quelle atte a ristabilire la gerarchia di potere ma non, ad esempio, quando esse venivano usate per ottenere collaborazione da parte del bambino.

 

Daniel Freeman e l’Oxford VR. Un impegno virtuale per la salute mentale del Regno Unito

Daniel Freeman, psicologo, professore e ricercatore presso la University of Oxford ha co-fondato l’Oxford VR, un’azienda spin-off dell’Università stessa che utilizza tecnologie immersive automatizzate per la terapia, allo scopo di sviluppare dei trattamenti clinicamente validati e convenienti da un punto di vista economico.

 

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University

 

Barnaby Perks è il CEO di Oxford VR e fondatore di Ieso Digital Health. Ha iniziato la sua carriera nella ricerca di ingegneria biomedica basata sul NHS (National Health Service, UK) prima di lavorare in società che sviluppano prodotti di tecnologia assistiva per persone con esigenze speciali complesse.

Come da sito dell’Oxford VR: ‘Our mission is to deliver evidence-based psychological treatments using state-of-the-art immersive technology’ (Oxford VR).

Oxford VR sviluppa programmi relativi ad interventi basati su protocolli di trattamento con tecnologia immersiva su disturbi depressivi, disturbi ansiosi, disturbi ossessivi-compulsivi e psicosi.

I trattamenti realizzati sono automatizzati e utilizzano un coach virtuale per consentire un maggiore accesso alla terapia, come riportato nello studio citato nel precedente articolo sullo studio del 2018 di Freeman e colleghi.

In realtà virtuale immersiva il team di Oxford riesce a ricreare simulazioni degli scenari in cui si verificano difficoltà psicologiche. Con una media di sole due ore di trattamento, la nostra terapia immersiva si è dimostrata efficace nel ridurre i timori dei pazienti del 68% (Freeman et al., 2018).

Ad oggi il team ha elaborato i seguenti programmi, con l’impegno di affrontare l’intera gamma dei disturbi psicologici, in particolare dedicandosi di recente a quelli più complessi e costosi (psicosi).

  • Paura delle altezze
  • Impegno sociale
  • Psicosi

Paura delle altezze

Nel programma per la fobia delle altezze il coach virtuale utilizza la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) protocollata e basata sull’evidenza. E ad oggi la terapia VR dell’Oxford VR è disponibile nel Regno Unito per i pazienti del NHS attraverso il servizio Improving Access to Psychological Therapies (NHS IAPT) e a livello privato presso l’Oasis Talk, ambulatorio che fornisce terapie psicologiche alle persone di Bristol e del South Gloucestershire.

Durante il programma il coach virtuale (creato tramite la motion capture ed il doppiaggio di un attore) dà informazioni di base sulla fobia dell’altezza.

La ragione per cui abbiamo paura delle altezze è perché pensiamo che succederà qualcosa di brutto. E che ci fa sentire ansiosi. Poi finiamo per evitare altezze, perché fanno paura. Ma vi mostrerò come guardare a quei pensieri in un modo nuovo (Freeman et al., 2018).

Il coach chiede in seguito ai pazienti informazioni precise sui dettagli della propria fobia, indagando se il timore sia legato alla paura di cadere, alla paura che l’edificio crolli, e così via. Appurando successivamente quanto il paziente crede da 0 (‘non credo che succederà’) a 10 (‘sono assolutamente certo che succederà’) al proprio pensiero (o B per i più avvezzi alla CBT).

Successivamente il coach sprona il paziente ad indagare quanto le proprie paure siano accurate, spronandoli a mettere in dubbio le proprie credenze nell’ambiente virtuale:

Ricordate: stiamo esplorando qui. Siamo mettendo alla prova le nostre aspettative. Stiamo scoprendo cosa accade quando ci avventuriamo in una situazione che normalmente cercare di evitare.

Impegno sociale

Il programma di impegno sociale dell’Oxford VR è stato sviluppato per aiutare le persone a sentirsi più sicure e più fiduciose nelle situazioni sociali. Durante la terapia, gli utenti sono guidati da un allenatore virtuale attraverso una serie di attività graduate in ambienti che riflettono le situazioni quotidiane. La tecnologia VR immersiva permette all’utente di sperimentare situazioni che trovano preoccupanti in un ambiente sicuro e controllato. Così come nel caso delle altezze i pazienti possono provare a disputare cognitivamente i propri pensieri e vivere certe situazioni consapevoli del fatto di essere in virtuale. Completando i compiti, gli utenti imparano che possono affrontare le situazioni e che a poco a poco i risultati si trasferiscono anche al mondo reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

Psicosi

Guidato dall’Università di Oxford e dall’Oxford Health NHS Foundation Trust, Oxford VR è un collaboratore integrale di gameChange, un progetto da 4 milioni di sterline finanziato dal National Institute of Health Research (NIHR) del Regno Unito. GameChange si compone di tre fasi principali, le quali verranno meglio illustrate nel prossimo articolo.

  • Oxford VR produrrà un trattamento automatizzato in sei sessioni, facile da usare, coinvolgente e adatto alle esigenze dei pazienti;
  • Realizzazione di un ampio studio clinico multicentrico in un trust del NHS in tutto il Regno Unito per dimostrare i benefici del trattamento VR;
  • Pacchetto di implementazione e la roadmap per l’implementazione del trattamento in tutto il NHS.

Si consiglia di tenere monitorato il sito perché il team Oxford VR è in continua implementazione e nel frattempo si suggerisce la visione di questo video sugli effetti della terapia VR per la paura delle altezze.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Contatti per informazioni: [email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

 

COVID-19: la ri-costruzione delle reti sociali della diffusione

Negli ultimi giorni, anche in Italia si sono accesi i primi focolai del virus 2019-nCoV, ridefinito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) COVID-19, comunemente conosciuto come Coronavirus.

 

Si tratta di un virus influenzale di cause ancora sconosciute sviluppatosi nella città cinese di Wuhan (Hui et al., 2020). In Italia, dopo la comunicazione della positività di un paziente al virus, si sta procedendo con la ricostruzione della rete sociale di chi risulta aver contratto il virus. Ma è così semplice ricostruire una rete sociale?

Per rispondere a questa domanda, in psicologia esistono diversi filoni di ricerca, tra cui un campo di studi comprendente quelle che sono state definite “Teorie del Mondo Piccolo” o “Small World”. Il nome di questo filone di studi deriva dalla tipica esclamazione “Oh, ma com’è piccolo il mondo!”, che si esprime nel momento in cui ci si rende conto che due conoscenti, che si ipotizza siano socialmente lontani, si conoscono fra loro. L’idea di base di questo filone di ricerca riguarda il fatto che le persone non hanno soltanto legami diretti con amici, parenti e conoscenti, ma sono incapsulate in un sistema complesso di reti di relazione che le connettono in maniera indiretta a persone sconosciute. Attraverso questi canali indiretti, prendono vita diversi processi sociali. Gli studi sull’effetto in questione miravano a mettere a fuoco tre aspetti:

1) quanti passaggi sono necessari per connettere due individui che non si conoscono;

2) lo studio dei processi sociali che si attuano grazie alle catene di conoscenza;

3) gli aspetti psicologici secondo cui gli individui si rappresentano la propria rete sociale e quali emozioni ne derivano (Cavazza, 2012).

Per quanto riguarda il numero dei passaggi, secondo la “Teoria dei Sei Gradi di Separazione”, se una persona distante un grado di separazione dalle persone che conosce personalmente e due gradi di separazione dai soggetti conosciuti dalle persone che conosce personalmente, è distante al massimo sei gradi di separazione da ogni persona presente sulla terra. In pratica, ogni persona è collegata a una qualsiasi altra da una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Negli anni Sessanta, lo psicologo Stanley Milgram (1967) verificò sperimentalmente questa ipotesi: aveva inviato una lettera a un campione di cittadini (starting people) chiedendo loro di inoltrare il messaggio contenuto nella lettera ad un suo amico, un agente di cambio di cui non conosceva l’indirizzo. Per questo chiedeva alle starting people di inviare, a loro volta, la lettera con il messaggio ad un proprio conoscente (target person), che ritenevano fosse più vicino socialmente all’agente di cambio. Nonostante la stranezza della richiesta, la maggior parte dei messaggi arrivò a destinazione e il numero di passaggi necessari era di sei intermediari. L’effetto Small World è rinvenibile in moltissime reti sociali (Schnettler, 2009).

Lo studio dei processi, invece, resi possibili dai legami diretti e indiretti fra le persone sono: la diffusione delle informazioni, il contagio dei comportamenti e la ricerca di risorse. La diffusione è un processo necessario per la realizzazione della condivisione delle informazioni ad un target esteso. E’ proprio la diffusione che orienta, a sua volta, la ricerca di risorse. La possibilità di attingere alla propria rete di conoscenze è alla base anche del capitale sociale, dato che gli individui possono trovarsi al centro di numerosi legami o essere isolati. La posizione di un individuo nel suo mondo sociale si accompagna ad una maggiore o minore possibilità di godere di risorse e di raggiungere obiettivi (Cavazza, 2012).

La dimensione psicologica dell’effetto Small World è stata fino ad ora meno studiata (Cavazza, 2012). L’ampiezza dei gruppi sociali e le numerosità dei rapporti stabili e diretti che le persone sono in grado di mantenere non sono influenzate soltanto dalle caratteristiche ambientali, ma sono una funzione della neocorteccia cerebrale dei primati. Il numero dei neuroni neocorticali limiterebbe la capacità di elaborare informazioni e questo è un fattore che limita a sua volta la capacità di gestire contemporaneamente un numero troppo alto di relazioni. Il numero massimo di relazioni gestibili contemporaneamente è 150 (Dunbar, 1992). Altre ricerche mostrano, tuttavia, che le persone hanno molta difficoltà nel ricordare e nel ricostruire accuratamente la propria rete sociale (Dunbar, 2010).

 

I siti di domande e risposte (Q&A): psicopportunità di apprendimento

Con l’avvento di Internet, c’è stato uno straordinario sviluppo di comunità virtuali. In particolare, esempi di comunità virtuali possono essere i siti di domande e risposte (Question and Answer sites – Q&A), appositamente progettati per aiutare gli utenti ad ottenere informazioni.

 

Nell’epoca della ‘datacrazia’ (De kerckhove, 2014), dove il mondo è governato dagli algoritmi, l’ambiente virtuale non è il male, ma il luogo dove si sviluppa l’intelligenza connettiva. La virtualizzazione può essere definita come il movimento contrario all’attualizzazione: essa consiste nel passaggio dall’attuale al virtuale (Levy, 1997). Secondo Mantovani (1995), invece, la realtà virtuale è considerata come ‘un ambiente di esperienza e di comunicazione’, ovvero una modalità di interazione che aggrega i naviganti online in comunità.

Le comunità tradizionali sono create spontaneamente quando i membri si concentrano sulle loro attività, negoziano significati che riguardano i loro interessi e la loro intera esistenza in uno spazio inter-soggettivo. Con l’avvento di Internet, c’è stato uno straordinario sviluppo di comunità virtuali. In particolare, esempi di comunità virtuali possono essere i siti di domande e risposte (Question and Answer sites- Q&A), appositamente progettati per aiutare gli utenti ad ottenere informazioni. La costruzione di questi contesti virtuali enfatizza la natura ‘transattiva’, poiché le intenzioni sono ‘negoziate secondo la legge della domanda e dell’offerta di significato’ (Mininni, 2010, 25). Queste comunità, essendo virtuali, mirano alla sincronicità e quindi all’abbattimento delle barriere spazio-temporali, ospitando, così, naviganti localizzati in diverse parti del mondo. Tenendo conto della complessità delle relazioni interculturali, basate sulla varietà linguistica e relazionale, i siti di Q&A diventano uno spazio idoneo sia per l’incontro delle culture che per la creazione di modi collaborativi di costruzione della conoscenza (Papapicco, Scardigno & Mininni, 2017). In particolare, poiché il linguaggio agisce come meta-artefatto nella co-costruzione della realtà, rappresenta, da un lato lo strumento di mediazione che permette alle persone di comunicare, dall’altro lato, può diventare oggetto di apprendimento collaborativo in siti Q&A, soprattutto quando l’oggetto discorsivo e le intenzioni di permanenza nelle comunità virtuali riguardano l’apprendimento di una seconda lingua (L2).

Un esempio di sito Q&A è Stack Exchange, che comprende oltre un centinaio di sezioni, organizzate per categorie. Ogni sezione in Stack Exchange è costituita da pagine contenenti una domanda inviata da un utente e un numero arbitrario di risposte presentate da altri utenti, in genere più esperti. Le domande possono avere una risposta accettata, votata dall’Asker originale, nel caso la risposta soddisfi la domanda/problema. Domande, risposte e utenti sono soggetti ad un processo di riconoscimento della reputazione online, per mezzo di badge (bronzo, argento e oro).

Attraverso i loro contributi, gli utenti guadagnano punti di reputazione e badge, che riflettono le competenze degli utenti e il loro status nella comunità (Calefato, Lanubile, Merolla, Novielli, 2015).

A sua volta, questo sistema di reputazione motiva gli utenti a generare contenuti di alta qualità. Stack Exchange è anche auto-moderato da membri della comunità. Per mantenere alta la qualità, i moderatori possono rimuovere le domande o le risposte perché inappropriate o irrilevanti. Ogni interazione su Stack Exchange è composta da domande, commenti alle domande, risposte e commenti alle risposte.

In particolare, il dominio dell’apprendimento della lingua italiana su Stack Exchange è una sezione di domande e risposte molto popolare tra gli utenti di diverse culture ed è proprio l’elemento culturale a determinare le differenze di interazione e collaborazione a seconda che la domanda sia posta in inglese, in quanto lingua franca o in italiano, cioè la lingua ‘oggetto’ della sezione di Q&A. Le interazioni sono, infatti, allo stesso modo collaborative, basate su processi logici che, però, non sempre portano al successo dell’interazione, Nella maggior parte dei casi, tale successo dipende dalla lingua in cui è posta la domanda: dallo studio, infatti emerge un senso di intolleranza nei confronti degli utenti che pongono le domande in inglese in una comunità virtuale per l’apprendimento dell’italiano come L2 (Papapicco, Scardigno & Mininni, 2017).

 

 

Lo sviluppo sessuale durante l’adolescenza: un’analisi delle influenze genetiche e ambientali

L’adolescenza è un periodo particolarmente importante per lo sviluppo della sessualità, sia nella prospettiva di uno sviluppo sano e normativo sia nella prospettiva di comportamenti a rischio (es. O’Sullivan & Thompson, 2014).

 

I metodi di ricerca incentrati sulla genetica del comportamento, sono particolarmente indicati per l’analisi dei contributi ambientali e genetici sulle varie dimensioni dello sviluppo sessuale; tuttavia, i principali studi presenti in letteratura, si focalizzano più sui comportamenti a rischio e sulle conseguenze negative sulla salute psico-fisica che questi comportano che sulla sessualità ‘sana’ (es. Zietsch et al., 2010). Inoltre, diversi aspetti della sessualità adolescenziale possono avere diversa eziologia e vanno considerate nel loro specifico contesto (Clark et al., 2019).

La sessualità adolescenziale è molto più variegata rispetto alle comuni interazioni che prevedono una penetrazione pene-vagina eterosessuale: infatti, accanto alle condotte a rischio suscettibili di disapprovazione sociale (es. rapporti vaginali o anali), vi sono molti altri comportamenti che sono visti positivamente (tenersi la mano in pubblico, uscire insieme per un appuntamento romantico). Ecco perché la sessualità adolescenziale è da considerarsi come un continuum ‘normativo’ (Clark et al., 2019) inquadrato nel contesto storico e sociale. I comportamenti meno normativi sono associati a un livello inferiore di funzionalità psicologica e con conseguenze negative a lungo termine (come gravidanze indesiderate), mentre quelli più normativi promuovono una regolazione psicologica positiva e un minor numero di condotte a rischio; inoltre, è stato dimostrato che i comportamenti normativi sono molto più comuni rispetto a quelli non normativi (Carver et al., 2003; Kost, et al., 2010; Stone & Ingham, 2002).

Un comportamento sessuale, tuttavia, non può definirsi staticamente fissato in un punto del continuum, ma può variare a seconda delle abitudini del gruppo sociale di riferimento, dell’identità dei giovani e della tempistica (per esempio il sesso prematrimoniale può essere o meno tollerato a seconda dell’età dell’individuo e del fatto che faccia parte o meno di una minoranza; Tolman & McClelland, 2011).

Il presente studio si focalizza soprattutto sulle tempistiche dei comportamenti normativi e non, partendo dal presupposto che le esperienze sessuali non possono essere prese in considerazione se non alla luce del loro contesto di sviluppo (es. Campbell et al, 2013).

La genetica comportamentale, prendendo in analisi soggetti geneticamente simili (come gemelli omozigoti o fraterni) si pone l’obiettivo di misurare le differenze individuali stimando il peso dell’ambiente e della genetica nel determinare queste diversità (Clark et al., 2019); come precedentemente citato, la maggior parte delle ricerche viene condotta per individuare i comportamenti a rischio piuttosto che per verificare lo sviluppo normativo della sessualità (es. Harden, 2014; Zietch et al., 2010).

Il presente studio si è posto l’obiettivo di proporre, utilizzando i metodi della genetica comportamentale, una visione più olistica dello sviluppo della sessualità adolescenziale utilizzando sia misure psicometriche che biometriche (ovvero le influenze eziologiche alla base dello sviluppo di un comportamento; Clark et al., 2019).

Il campione era costituito da 3,762 gemelli, reclutati dal Minnesota Twin Family Study (MTFS), uno studio longitudinale non ancora concluso nel momento del reclutamento (Iacono et al., 1999), di età compresa tra gli 11 e i 17 anni. Tutti i partecipanti sono stati invitati a partecipare a follow-up ogni 3-5 anni. Le abitudini sessuali sono state misurate tramite un’intervista, la Life Event Interview for Adolescent, e la frequenza dei comportamenti è stata misurata per età e genere. Sono stati presi in considerazione gli appuntamenti romantici, le rotture, i rapporti sessuali, la paura delle gravidanze e le gravidanze effettive.

I risultati hanno mostrato che i comportamenti normativi (come gli appuntamenti romantici) sono significativamente influenzati sia dalla genetica del singolo sia dall’ambiente e sono maggiormente influenzati dall’ereditabilità rispetto a quelli meno normativi (come le gravidanze indesiderate). Inoltre, i comportamenti più a rischio, ovvero quelli meno normativi, hanno mostrato grandi influenze dell’ambiente condiviso, come l’ambiente familiare. Infine, questi risultati mostrano che l’ambiente è in grado di moderare le predisposizioni genetiche, il che mette in luce l’importanza di promuovere un ambiente sano e una buona informazione riguardo alla sessualità giovanile (Clark et al., 2019).

 

Spesso nel citare gli articoli viene messo “es.”, non so se le è stato detto di farlo visto che ha scritto tante altre flash senza mai metterlo

Sulle cause dei disturbi alimentari: la genetica

I disturbi alimentari sono molto frequenti all’interno della popolazione. Al di là dei noti fattori di rischio di natura ambientale, psicologica o socio-culturali, studi sui gemelli hanno evidenziato l’importanza di fattori di natura genetica.

 

I disturbi alimentari comprendono anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata (detto anche binge-eating disorder). Nonostante la loro frequenza sia significativa – il 5-7,5% della popolazione adulta ne soffre – e nonostante le conseguenze potenzialmente devastanti dal punto di vista fisico, psicologico e sociale, solo da circa 30 anni si è iniziato a studiare queste patologie dal punto di vista biologico.

Al di là dei noti fattori di rischio di natura ambientale, psicologica o socio-culturali, studi sui gemelli hanno evidenziato l’importanza di fattori di rischio di natura biologica, cioè genetica. Gli studi sui gemelli sono eseguiti analizzando la frequenza di una patologia in coppie di gemelli omozigoti non separati alla nascita vs. la frequenza in coppie omozigote separate. Queste ultime condividono il patrimonio genetico, ma non l’ambiente in cui crescono, al contrario delle coppie non separate, che condividono entrambi. In questo modo può essere stimato il peso della componente genetica e di quella ambientale nel predisporre a una patologia. In particolare, il 48-74% (a seconda degli studi) della predisposizione alla anoressia nervosa, il 55-62% della predisposizione alla bulimia e il 39-45% della predisposizione al disturbo da alimentazione incontrollata è imputabile a specifiche varianti di geni. Non si può, pertanto parlare di cause dei disturbi alimentari, ma solo di fattori di rischio ambientali che, quando trovano un terreno fertile nella genetica individuale, possono predisporre al loro sviluppo. E’ necessario che un soggetto sia portatore di varianti specifiche in moltissimi geni per avere una predisposizione significativa, in quanto ciascuna singola variante di gene contribuisce in minima parte nella predisposizione genetica complessiva. Questo rende molto difficoltosa l’identificazione dei geni predisponenti – è necessario studiare il patrimonio genetico di moltissimi soggetti affetti (nell’ordine delle decine di migliaia), confrontandoli con altrettanti soggetti non affetti.

Ad oggi, pertanto, non è assolutamente chiaro quali geni possano essere implicati nella predisposizione ai disturbi alimentari. La maggioranza delle ricerche di identificazione di geni predisponenti è stata condotta sull’anoressia nervosa. La stragrande maggioranza dei geni candidati, identificati in studi su un numero di soggetti non particolarmente grande, non è stata confermata in studi successivi, con un numero di soggetti maggiore. Un recentissimo studio sull’anoressia, condotto da un consorzio internazionale di centri di ricerca su un campione molto grande, di circa 15000 persone, ha individuato geni già precedentemente associati a patologie autoimmuni, come l’artrite reumatoide, il diabete di tipo 1, l’asma, la vitiligine, l’alopecia areata; o ancora geni associati ad alti livelli di colesterolo HDL. Protettivi, invece, risultano geni associati ad obesità, alta glicemia e alta insulinemia a digiuno (Duncan et al., 2017). Una seconda fase dello stesso studio, che arriverà a esaminare più di 60.000 soggetti, è attualmente in corso. Questi risultati, ancorché preliminari, suggeriscono che la predisposizione biologica nei confronti dell’anoressia nervosa possa essere collegata ad alterazioni nelle comunicazioni tra sistema nervoso e immunitario, influenzate da dati metabolici, dipingendo un quadro di certo suggestivo (Baker et al., 2017).

Ad oggi, è in corso il reclutamento di un adeguato, ampio campione di soggetti per indagare i geni le cui varianti possono predisporre alla bulimia nervosa e al disturbo di alimentazione incontrollata.

Storicamente, i pazienti stessi, o i genitori e i familiari dei pazienti con disturbo alimentare, sono stati stigmatizzati, mettendo in relazione diretta i loro comportamenti con lo sviluppo della patologia. I disturbi alimentari però sono patologie complesse, alla cui insorgenza contribuiscono una miriade di fattori genetici e ambientali diversi. Uno stesso comportamento, noto per essere un fattore di rischio per lo sviluppo di DA (ad esempio, i genitori ipercritici), con una diversa genetica potrebbe non avere alcun effetto sullo sviluppo di un DA. Nessuno può essere considerato responsabile dello sviluppo del disturbo, né il paziente, né i suoi cari.

 


Articolo realizzato in collaborazione con il Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia®

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I 7 passi del perdono, di Daniele Lumera – Perché perdonare?

Perdonare è un passo spesso difficile da compiere, più grande è la percezione del torto che abbiamo subito, più forte sarà il risentimento, il rancore e la voglia di vendetta che proveremo.Ma se perdonare può essere difficile, la consapevolezza che il perdono è prima di tutto un regalo che facciamo a noi stessi ci può aiutare.

 

Cominciamo con il definire due concetti chiave: il perdono è il venir meno di un sentimento di risentimento verso una persona che riteniamo averci offeso, di conseguenza perdonare significa rinunciare a recriminare su un’offesa subita.

Per parlare del perdono e delle sue implicazioni ci rifacciamo ad un libro, I 7 passi del perdono, che ci illustra perché perdonare può avere su di noi molteplici effetti benefici.

La prima cosa di cui tenere presente è che perdonare è una libera scelta e, in quanto tale, è espressione di libertà. Della nostra libertà.

Perché il perdono ci fa paura

Il primo passo da compiere per poter perdonare è superare l’idea che nel perdono sia insito un segno di debolezza da parte di chi lo concede. Istintivamente tendiamo a rifiutare l’idea del perdono perché lo consideriamo come un’incapacità di reagire, un modo di accettare passivamente un sopruso. Al contrario, il perdono dovrebbe essere vissuto come un modo per migliorare la qualità della nostra vita liberandola da quel rancore che ci tiene legati a chi ci ha offeso imprigionandoci nella condizione di vittime. Situazione che ha effetti estremamente negativi, ci fa vivere con umori ed emozioni molto bassi che possono arrivare addirittura a indebolire il nostro sistema immunitario.

Perdono e salute

Secondo alcuni scienziati il ricordo ossessivo di quello che ci ha fatto male è causa di malattie cardiache e disturbi mentali. Odio e rabbia, come è noto, aumentano la pressione sanguigna e con essa i rischi di attacchi cardiaci.

Lo stress che deriva dalle emozioni negative agisce sul sistema immunitario, in particolare sulle citochine che sono sostanze simili alle proteine, prodotte in corso di stress o inibizioni. Il perdono riduce lo stress prodotto dal rancore e influenza il sistema immunitario mediante il rilascio di anticorpi.

Perdonare per sentirsi liberi

L’effetto più rilevante del perdono è che ci libera dalla dipendenza emozionale verso chi ci ha offeso.

Se pensiamo di essere noi i soli responsabili di ciò che sentiamo, allora smetteremo di concentrare la nostra attenzione sull’altra persona e in quell’istante le toglieremo il potere sulle nostre emozioni.

Scaricare la responsabilità della nostra vita sugli altri non ci dà la possibilità di vedere ciò che andrebbe migliorato in noi, se sono gli altri i responsabili di ciò che proviamo, che sentiamo e che facciamo, sarà difficile cambiare perché per farlo dovremmo cambiare gli altri.

Il conflitto fra due persone nasce quando si pretende che il proprio punto di vista sia l’unico corretto. Si può avere ragione senza la pretesa di avere ragione. Nella pretesa di avere ragione è contenuto il seme del conflitto, nel processo del perdono è necessario che l’individuo smetta di focalizzarsi sulla pretesa di avere ragione e sulla necessità di trovare un giusto e uno sbagliato.

Se ci hanno fatto un torto e ci arrabbiamo, ci stiamo danneggiando due volte, il perdono non va vissuto come una concessione che facciamo all’altro, ma come un’esigenza interiore di liberarsi dal peso di quell’odio e da quel risentimento.

Perdonare non significa non reagire o dimenticare, ma liberare il ricordo di quello che ci ha offeso dalla carica di rabbia e dolore che porta con sé. Con il perdono non vogliamo giustificare l’altro, ma cercare di comprendere le ragioni e le condizioni di disagio che l’hanno portato ad agire così.

Se il perdono è autentico, saremo determinati e le nostre azioni saranno guidate da chiarezza e comprensione, a muoverci non sarà il senso di ingiustizia, né tantomeno il desiderio di vendetta, perdoneremo e poi agiremo come riterremo opportuno. Perdonare, infatti, non significa necessariamente riconciliarsi, se questo avverrà sarà un semplice effetto collaterale di una nuova armonia interna che abbiamo raggiunto, in ogni caso la nostra serenità non dipenderà più da questo.

Il perdono produce una condizione di liberazione, leggerezza, gioia e felicità molto intense.

Il rancore

Quando percepiamo la sensazione di aver subito un’offesa o un’ingiustizia, crescono in noi emozioni di diversa intensità che possono protrarsi nel tempo fino a dar luogo a pensieri ossessivi.

Diamo una definizione degli stati d’animo che ostacolano il perdono:

  • Rabbia – è un istinto innato che porta a difendersi quando si è attaccati o ci si sente offesi. Si possono distinguere una rabbia primaria e una secondaria, utilizzata per rimuovere delle esperienze negative che sono sorte (es. in seguito ad uno spavento, mi arrabbio con chi mi ha fatto spaventare)
  • Odio – è un’emozione di estrema avversione che presenta impulsi aggressivi. Può essere legato a fatti razionali (es. verso qualcuno che ci ha offeso) o irrazionale (es. un pregiudizio)
  • Risentimento – è una rabbia sorda associata ad un senso di impotenza, meno duratura e profonda del rancore
  • Amarezza – senso di asprezza negativa associata al cinismo che deriva da una delusione o disillusione di un’aspettativa e crea sofferenza e dolore
  • Ostilità – un misto di rabbia, risentimento, disprezzo e disgusto di chi si aspetta un’aggressione o una frustrazione che arriverà dall’esterno (chi è già stato offeso e si aspetta di esserlo nuovamente)
  • Paura – può essere motivata (da un pericolo reale) e legata ad un istinto di sopravvivenza. Le paure innate derivano da forti stimoli fisici (es. un forte rumore), le paure apprese derivano da un’esperienza diretta. Esistono poi paure immotivate (es. che un elefante entri in casa)
  • Rancore – è la somma di più emozioni mescolate insieme: odio, paura, rabbia, colpa inespressa, umiliazione, vergogna. A differenza di rabbia e risentimento, è un’emozione che perdura nel tempo, “cova” nella mente della persona e si alimenta costantemente. L’origine di questa ruminazione può essere dovuta alla necessità che si avverte di riorganizzare il proprio vissuto per poterlo metabolizzare correttamente.

Conoscere, affrontare e fronteggiare queste emozioni è determinante nel processo verso un perdono autentico e la consapevolezza di essere artefici della propria vita. Nel perdono dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per aver dimenticato il nostro potere, per averlo dato ad un’altra persona.

 

Il valore delle origini

Sembrerebbe che le caratteristiche di personalità del figlio e la sua intera vita siano segnate dai passaggi generazionali e che egli non possa sfuggire al suo destino, ma in realtà il figlio ha la possibilità di ribellarsi e trasgredire le regole che contraddistinguono i passaggi generazionali.

 

In molti romanzi dell’800 viene trattato il tema dell’abbandono e della riscoperta delle origini. Gli umili, i diseredati sono tali perché sono stati abbandonati in quanto figli di gente poverissima, che è costretta a lasciarli perché non se ne possono prendere cura, di persone malfamate, frutto di adulterio, figli di prostitute o bambini rapiti in tenera età.

Remì, il personaggio principale del romanzo Senza Famiglia di H. Malot da cui è stato tratto anche un fortunatissimo cartone animato, viene rapito in tenera età per ordine dello zio preoccupato dall’eredità della famiglia. Prima di ritrovare la madre passa attraverso varie vicende contraddistinte da sfortuna e non serenità: adottato, dopo essere stato abbandonato dai rapitori, dalla famiglia Barberin che cade in disgrazia ed è costretta a mandarlo via; affidato a Vitali, un ex celebre tenore che adesso è costretto a girare la Francia con uno spettacolo di strada, resta da solo per la morte per freddo dello stesso Vitali; rapito insieme all’amico Mattia dalla famiglia Driscoll quando si reca in Inghilterra alla ricerca della madre, avendo saputo che quest’ultima lo stava cercando. Solo con il ritrovamento della madre a Ginevra ritroverà la serenità e potrà diventare avvocato sposandosi con Elisa, conosciuta durante un suo breve affidamento alla famiglia Acquin dopo la morte di Vitali.

Il legame materno è fonte di sicurezza e serenità e, quindi, di un debito positivo che comporta altrettanta fiducia e serenità in Remì.

La bella Esmeralda, in Notre Dame de Paris di V. Hugo, in prigione ritrova la madre che è un’ex prostituta a cui gli zingari avevano sottratto la figlia. Il valore del legame materno viene messo in risalto dal tentativo della mamma di salvare la figlia destinata all’impiccagione e di morire per questo suo gesto.

Tutte le teorie, dalla psicanalisi alle teorie sull’attaccamento, sono concordi nel ritenere che il modo in cui la mamma instaura sin dai primi giorni la relazione con il suo bambino, determinerà il modo in cui quest’ultimo, negli anni a venire, si relazionerà con i coetanei e con la società tutta.

Kohut sostiene che:

nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona (H. Kohut, 1978).

Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (D. Winnicott, 1974). Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante, che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother, quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni.

Bowlby, al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato possa ridurre il verificarsi di situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia. Le persone che sviluppano tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia. In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia avevano vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendevano, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto poteva essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riuscivano a rispondere alle esigenze del bambino non soddisfatte dal caregiver.

Nel caso di Esmeralda, la comunità zingara è riuscita a sostituire la figura materna, tant’è che è perfettamente integrata e adotta comportamenti tipici della stessa comunità.

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion, parlando della madre sufficientemente buona di Winnicott, sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è non commettere errori, ma riuscire, come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

A volte però l’errore non viene riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica, per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, le piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione, è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che:

se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero.

Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e in quanto tali ad una relazione di coppia patologica.

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano a loro volta relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto e viene vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e ad una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato ad essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta.

Frollo, l’arcidiacono della cattedrale in Notre Dame de Paris, viene destinato dalla sua famiglia di origine alla vita ecclesiastica e rinchiuso fin da piccolo nel collegio de Torchi nell’Université dove si mostra appassionato allo studio. Nella sua vita si occupa, con scarsi risultati, in maniera intensa e affettivamente significativa di tre persone: suo fratello Jean, dopo la morte per pestilenza dei genitori, il trovatello e storpio Quasimodo, la zingara Esmeralda. In tutti e tre i casi non riesce a stabilire rapporti affettivamente significativi poiché in apparenza viene tradito. Suo fratello Jean, a cui si era intensamente dedicato, scappa con gli odiati zingari. Quasimodo, che lui aveva accolto quando era stato abbandonato da tutti gli altri, non lo aiuta a conquistare l’amore di Esmeralda e lo uccide dopo la morte di quest’ultima buttandolo giù da una delle torri della cattedrale. Esmeralda lo rifiuta più volte preferendogli il capitano Phoebus, che lui pugnala alle spalle. Gli apparenti tradimenti sono la conseguenza del mancato riconoscimento dell’altro come persona in grado di esprimere le sue emozioni e sentimenti. In effetti l’arcidiacono li tratta come oggetti dei propri desideri così come lui stesso era stato oggetto dei desideri dei genitori. Non stabilisce con loro rapporti basati sull’amore ma, semplicemente, sull’obbedienza e la fedeltà assoluta. Nel momento in cui essi seguono la loro strada diventano oggetti d’odio: Jean si unisce agli zingari, Quasimodo si innamora di Esmeralda, Esmeralda si innamora di Phoenus. Emblematico è il piacere che Frollo prova nell’assistere all’esecuzione di Esmeralda di cui doveva essere innamorato.

Una trasmissione generazionale castrante, così come la madre castrante, ovvero il tentativo dei genitori di pianificare il futuro del figlio senza tenere conto delle sue esigenze, comportano una ferita narcisistica per cui il legame con l’altro diventa possesso per paura di essere abbandonati.

Frollo presenta tutte le caratteristiche presenti nel disturbo narcisistico di personalità. Le persone affette da tale disturbo tendono alla superiorità, necessitano di ammirazione, mancano di sensibilità verso gli altri e hanno un’alta considerazione di sé; abitualmente esagerano le proprie capacità, apparendo spesso presuntuosi. Credono di essere speciali, superiori, di dover essere soddisfatti in ogni loro richiesta e di avere diritto ad un trattamento speciale. Si aspettano che anche gli altri riconoscano il loro status di persone speciali e, nel caso in cui questo accada, li idealizzano. Viceversa se gli altri mettono in discussione le loro qualità reagiscono con rabbia, risultando incapaci di mettersi in discussione ed accettare le critiche. Spesso si accompagnano con persone che possono facilmente sottomettere e che li possono ammirare. Quando sono loro ad attaccarsi agli altri, ad innamorarsi degli altri, soffrono di ansia da abbandono e nel caso di un rifiuto reagiscono con rabbia, rancore e atteggiamenti depressivi. Essendo molto attenti al controllo, i legami di coppia sono spesso caratterizzati da gelosia di tipo ossessivo.

Sembrerebbe che le caratteristiche di personalità del figlio, così come la sua intera vita, siano segnate dai passaggi generazionali e che in qualche modo egli non possa sfuggire al suo destino. In realtà non è proprio così, avendo il figlio la possibilità di ribellarsi e trasgredire le regole che contraddistinguono i passaggi generazionali se questi non vanno nella direzione del raggiungimento dei propri obiettivi o del soddisfacimento delle proprie esigenze. Marius, nei Miserabili di V. Hugo, accetta di essere diseredato dal nonno materno per rivalutare il padre. Vissuto per 18 anni con il nonno materno nella convinzione che il padre lo avesse abbandonato, saputo che era gravemente malato lo va a trovare, trovandolo però già morto. Nella casa del padre trova il lascito testamentario nella raccomandazione di aiutare Thènardier, che gli aveva salvato la vita nella battaglia di Waterloo. Inoltre, dal guardiano della chiesa scopre che il padre andava a vederlo di nascosto ogni settimana in chiesa per non trasgredire il patto che aveva stipulato con il nonno. Il patto prevedeva che in cambio della rinuncia al figlio, tutto il lascito ereditario materno sarebbe andato a Marius. Tornato a casa, Marius rinuncia all’eredità del nonno litigando con lui e va via. Il nonno, nel tentativo di riconciliarsi con il nipote, tramite una zia gli manda dei soldi che puntualmente Marius rispedisce indietro.

L’accettazione e la non accettazione dell’eredità costituiscono l’asse su cui si gioca il conformarsi o trasgredire i percorsi delle famiglie di origine. Il cambiamento, l’evoluzione delle dinamiche generazionali passano attraverso il trasgredire.

Il termine trasgredire spesso ha avuto una valenza negativa in quanto nel suo significato originale vuol dire mettere in discussione le norme sociali e il non rispetto delle regole. Opposto al trasgredire è il conformarsi ovvero la totale accettazione delle norme e delle regole sociali. E’ chiaro che nel trasgredire vi è una forte spinta al cambiamento, al superamento dei limiti, a fare nuove esperienze uscendo da ciò che è considerato usuale e rassicurante. Se Prometeo non si fosse ribellato, non avesse trasgredito le regole di Zeus, gli uomini non avrebbero avuto in dono la memoria, l’intelligenza e, successivamente, il fuoco. La trasgressione, quindi, non solo ha una forte valenza positiva essendo volta al cambiamento, ma anche evolutiva.

Winnicott sostiene che i comportamenti trasgressivi sono la base per i processi di differenziazione del bambino dalla madre e per la costruzione del proprio sé. Molti studi e ricerche hanno messo in risalto i comportamenti trasgressivi durante l’adolescenza. La trasgressione consente all’adolescente di differenziarsi, di esprimere la propria unicità. Trasgredire significa non seguire le regole della massa; così facendo si distanzia e si rende autonomo. L’adolescente ha la necessità di provare a ‘sbattere le porte’ di quelle regole familiari che gli consentono di dare una misura ai suoi limiti e di poter valutare come e quando valicarli. Per far ciò ha bisogno d’interiorizzare le norme e le regole familiari. E’ proprio questo processo d’interiorizzazione che differenzia la trasgressione fisiologica da quella patologica. Se da un lato, infatti, vi è la trasgressione fisiologica che serve ad intraprendere il processo che porta all’acquisizione della propria identità e a mantenere l’ordine sociale, dall’altro, vi è la trasgressione patologica nella quale non sono avvenuti i processi di interiorizzazione dei modelli e delle norme. E’ dunque rimasta una struttura narcisistica e infantile di personalità.

Marius fa una scelta precisa tra due modelli, quello del padre, che ha sacrificato i suoi legami affettivi al fine di garantire l’eredità del nonno al figlio, e quello autoritario ed impositivo del nonno. Sceglie il modello paterno che è stato in grado di donare solo nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiato. Tale era la fiducia di poter essere ricambiato che gli lascia delle precise volontà testamentarie. Il nonno, al contrario, dona solo nella misura in cui l’altro accetta una totale obbedienza ai suoi dettami. In sostanza il nonno non nutre fiducia e speranza nel dono.

Il lascito del valore del dono contraddistingue le successive scelte di Marius. Riesce a farsi approvare il matrimonio con Cosette dal nonno dopo aver cercato di offrire la propria vita, andando a combattere sulle barricate, per il suo amore che vedeva vacillare; viene salvato dal padre adottivo di Cosette che era colui che si opponeva al matrimonio della figlia; riporta Cosette sul letto di morte del padre adottivo da cui l’aveva volontariamente allontanata.

Il tema della trasgressione per potersi svincolare dalla famiglia di origine rientra anche nell’Eugenia Grandet di Honoré de Balzac. Eugenia trasgredisce i dettami del padre, un signore avaro il cui unico scopo della vita è accumulare nuova ricchezza, regalando il suo oro al cugino Charles di cui si era perdutamente invaghita e a cui aveva giurato amore eterno. Per questo suo gesto viene punita dal padre, ma ella non desiste dal continuare a donare pur mantenendo integro ed anzi aumentando il patrimonio paterno dopo la morte di quest’ultimo. Mantiene fiducia e speranza nel valore del dono, al contrario del padre che fa morire la moglie per dispiacere e perdona la figlia solo quando si rende conto che con la morte della madre erediterà metà del patrimonio. Balzac nella parte finale del romanzo di Eugenia scrive:

Oggi la mano di lei molce segrete afflizioni di ogni casa, ed ella s’avvia verso l’alto per una strada di benefici. La grandezza dell’anima copre i difetti dell’educazione e delle prime abitudini in questa donna che vive nel mondo e ad esso non appartiene, che era nata per divenire sposa e madre esemplare e non ha marito, né figlioli, né famiglia.

La mancata costruzione di una propria famiglia è il dono che deve concedere ad una vita di donazioni. Il trasgredire comporta qualche sacrificio, ma sicuramente cambia la storia generazionale delle famiglie.

Al contrario, sempre Balzac in Papà Goriot, denuncia gli effetti negativi della trasgressione in rapporto al contesto sociale. Le figlie di Goriot, Anastasie e Delphine, perfettamente inserite all’interno della emergente società borghese vanno a trovare il padre solo per chiedergli soldi in modo da soddisfare le loro esigenze. L’amore del padre per le figlie viene descritto in maniera patologica poiché egli non riesce a dire di no alle figlie ed anzi dilapida tutti i suoi risparmi, riducendosi a fare una vita di stenti, pur di soddisfarle. Il contesto è la matrice dei significati e, quindi, la trasgressione delle figlie di Goriot trova riscontro nei nuovi valori della società borghese in cui il possedere definisce l’essere. Gli affetti, in quanto valori dell’essere, sono meno importanti dei soldi come sinonimo di possesso. E. Fromm (1976) definisce questa tendenza come distonia dell’avere in cui il comportamento è orientato a raggiungere immediatamente gli obiettivi e coinvolgersi con persone che possono appagare velocemente i propri desideri. A tal proposito scrive:

Un Avere deve possedere un fiore, lo coglie, lo fa suo. Un Essere ne contempla la bellezza, godendo di questo, percependolo per immaginare altri orizzonti.

La società borghese essendo essenzialmente consumistica deve essere per forza di cose rivolta al possesso e, quindi, tende ad esaltare l’avere. Goriot, pur godendo della nostra solidarietà in particolare per la solitudine in cui viene lasciato al suo funerale al quale le figlie non partecipano, comunque, non è una vittima ma contribuisce con i suoi comportamenti ad approvare il comportamento delle figlie. Contribuisce in maniera determinante alla rottura che le figlie fanno con la loro storia generazionale.

La distonia dell’avere è emblematicamente descritta da Zola nel personaggio di Nanà. Figlia di due operai che erano riusciti ad aprire una lavanderia e condurre una vita da benestanti per poi cadere in rovina, diventa un’attrice di teatro di successo. Per il suo desiderio di avere e di possedere lascia la carriera di attrice per dedicarsi a dilapidare il patrimonio dei suoi amanti. Nanà continua l’opera dei genitori utilizzando chiaramente altri mezzi. Il possedere, l’avere, producono anche in Nanà, come nelle figlie di Goriot, un distacco profondo dai sentimenti, un’incapacità ad amare rivolta anche a suo figlio Luigino. L’ascesa sociale da una situazione di povertà è un tema tipico del romanzo ottocentesco. Sempre in Papà Goriot  è presente la figura di Eugene de Rastignac un giovane studente universitario che lascia gli studi per inserirsi all’interno della bella società parigina. Eugene resta accanto a Goriot fino al suo funerale ed alla fine, dal cimitero, guardando i quartieri bene di Parigi lancia la sua sfida con la frase ‘E ora a noi due’.

 

Vitamina D e sintomi psicotici: la carenza di vitamina D rappresenta un fattore di rischio?

Un protocollo di ricerca pubblicato su Trials nel 2020, si è proposto di indagare l’effetto della somministrazione di Vitamina D nei soggetti con disturbi psicotici.

 

La vitamina D è un gruppo di pro-ormoni liposolubili, la cui principale fonte per l’organismo deriva dall’esposizione alle radiazioni solari e, in misura minore, dal cibo, in particolare dall’olio di pesce e dal tuorlo d’uovo.

La vitamina D è importante per il nostro organismo, principalmente regola la salute delle ossa ed è essenziale per la regolazione del calcio nel corpo; inoltre, esperimenti condotti sugli animali, hanno dimostrato come abbia anche effetti neuroprotettivi, proteggendo i neuroni dai danni infiammatori (McCann & Ames, 2008); d’altra parte, una carenza di vitamina D nei roditori porta a deficit come livelli alterati di neurotrasmettitori tipici della schizofrenia (Eyles et al., 2013).

Uno studio condotto su pazienti affetti da Parkinson ha dimostrato che, rispetto a coloro che assumevano il placebo, coloro che prendevano la vitamina D avevano una progressione degenerativa più lenta nei 12 mesi successivi alla somministrazione (Suzuki et al., 2013).

È noto in letteratura che le persone con disturbi mentali severi, come la schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo, soffrono più spesso rispetto alla popolazione generale di disturbi cardiometabolici, obesità, diabete e ipertensione; è interessante notare che bassi livelli di vitamina D si associano a problemi cardiometabolici sia in persone con disturbo psicotico che nella popolazione generale (Eyles et al., 2013).

Nonostante la ricerca suggerisca che la vitamina D sia collegata alle funzioni cerebrali e alla schizofrenia, si denota una carenza di trial sperimentali che vanno a confermare quest’ipotesi. Attualmente, gli studi sugli effetti dati dalla carenza di questa vitamina, si sono concentrati principalmente sui sintomi fisici e non su quelli neurologici e cerebrali (Tiangga et al., 2008).

Un protocollo di ricerca pubblicato su Trials nel 2020, si è proposto di indagare l’effetto della somministrazione di Vitamina D nei soggetti con un disturbo psicotico (diagnosticato con ICD-10); il razionale di questa domanda di ricerca, oltre che dai risultati sopra riportati, trova le sue fondamenta anche nei dati statistici che denotano una maggior incidenza dei disturbi psicotici in coloro che sono nati in inverno e in alta latitudine, condizioni caratterizzate dalla scarsa presenza di radiazioni solari, e quindi da minori livelli di vitamina D (Gaughran et al., 2020).

Per rispondere a questa domanda di ricerca, è stato progettato un protocollo a doppio cieco parallelo con gruppo di controllo e gruppo placebo.

Il campione sarà composto da 240 pazienti, randomizzati 1:1 in uno dei due gruppi sopra citati, la sperimentazione durerà 6 mesi, al gruppo sperimentale sarà somministrata una dose di 120,000 IU al mese di vitamina D (colacalciferolo), mentre al gruppo di controllo verrà somministrato un placebo.

I sintomi psicotici verranno valutati con la scala Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS), somministrata all’inizio della sperimentazione, a 3 e 6 mesi di follow-up.

Lo studio approvato dal comitato etico, inizierà nel 2020, la data precisa non è ancora stata esplicitata, tuttavia i ricercatori si aspettano che il gruppo sperimentale, riporterà un minor punteggio nella scala PANSS, quindi che i soggetti esposti alla condizione sperimentale, mostreranno meno sintomi positivi e negativi tipici dei disturbi psicotici, confermando in tal caso che, la somministrazione di vitamina D porti ad una riduzione sintomatologica psicotica (Gaughran et al., 2020).

 

Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati

Lo studio ha indagato l’utilizzo di nuove tecnologie da parte degli adolescenti con riferimento al benessere, alla pratica di attività sportive/ludico ricreative e al sonno, concentrandosi su possibili relazioni significative tra i parametri considerati. Trascorrere del tempo in attività sportive o ludico/ricreative non online e stabilire delle buone regole rispetto al sonno potrebbe favorire il benessere dei giovani.

 

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di articoli che hanno illustrato al pubblico un recente studio esplorativo nato all’interno del progetto Web (In)dipendente, realizzato per promuovere un uso responsabile del web da parte dei minori. Nel primo contributo gli autori hanno fornito una panoramica dei dati presenti in letteratura su tempo trascorso online, sonno e attività fisica tra i giovani. Nel secondo contributo si è entrati nel vivo dello studio esplorativo e ne sono stati illustrati metodi e strumenti. Nel presente articolo, terzo e ultimo della serie, verranno mostrati e discussi i risultati ottenuti.

 

Risultati

Tempo trascorso online

Il 96% degli intervistati ha dichiarato di connettersi almeno una volta al giorno e il 42% dichiara di aver iniziato ad utilizzare internet prima degli 11 anni. La maggior parte dei ragazzi (63.3%) trascorre almeno 3-4 ore al giorno in attività online e tra questi il 14.1% dichiara di essere sempre connesso. Il momento della giornata in cui i partecipanti sono maggiormente connessi è il pomeriggio (73.1%), seguito dalla sera (61%); un quarto dei ragazzi riferisce di essere online al mattino, mentre il 15.1% rimane connesso anche durante le ore notturne. Il 19% dei ragazzi va spesso a dormire tardi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e, per le stesse ragioni, un ragazzo su cinque circa (19.8%) riferisce di essersi svegliato durante la notte. Il 30.9% afferma di essere abbastanza o molto distratto da altre attività, quali fare i compiti o uscire con gli amici, perché impegnato nell’utilizzo delle applicazioni e dei social; tre ragazzi su quattro (74.3%) interrompono una conversazione per rispondere al telefono, il 59.6% ammette di non ascoltare qualcuno che sta parlando perché sta chattando, navigando o giocando online; e ancora l’essere impegnato in queste attività induce il 71% delle persone ad andare a dormire più tardi rispetto a quanto ci si era prefissati. Alla maggior parte (69.7%) degli intervistati è capitato di avere discussioni in famiglia dovute al tempo trascorso online e tali discussioni sono significativamente superiori tra i ragazzi che si connettono di più.

Soltanto in un terzo (33.9%) delle famiglie dei ragazzi sono state stabilite delle regole per l’uso delle nuove tecnologie; quando presenti le regole sono rispettate dalla maggior parte dei soggetti (69.2%).

Benessere e utilizzo delle nuove tecnologie

Il punteggio del benessere psicologico medio sulla scala dell’OMS-5 è 13.2 (SD = 5.8); la percentuale di ragazzi che avrebbero necessità di indagare l’eventuale presenza di depressione è pari al 46% se si utilizza il criterio di punteggio OMS-5 <13. Come evidenziato nella tabella 1, le femmine hanno punteggi significativamente più bassi e non superano la soglia di 13 indicativa di benessere psicologico; inoltre, i ragazzi che vivono in città di dimensioni più piccole evidenziano un benessere psicologico significativamente più elevato e soltanto i partecipanti residenti in città di grandi dimensioni presentano punteggi al disotto del cut-off di 13.

Adolescenti e tecnologia: i risvolti della vita online sul benessere tab 1

Tab. 1 –  OMS- 5 Statistiche descrittive della scala: medie e deviazioni standard

Le correlazioni riportate in tabella 2 indicano che il tempo trascorso online correla positivamente sia con l’andare a dormire tardi sia con lo svegliarsi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network. L’OMS-5 correla significativamente con tutte le variabili considerate, in particolare la relazione è positiva con il praticare attività sportive, di volontariato o attività ludico/ricreative, mentre è negativa sia con il tempo trascorso online sia con l’andare a dormire e con lo svegliarsi la notte per giocare ad un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network.

Adolescenti e tecnologia i risvolti della vita online sul benessere Tabella 2Tab.2 – Correlazioni tra le scale

 

Discussione

Tempo trascorso online e benessere

Nel campione del nostro studio è il 96% dei ragazzi a connettersi tutti i giorni, dato ben superiore al 72% della ricerca condotta nel 2018 dalla SIP (SIP – Società Italiana di Pediatria, 2019) e non emergono differenze significative tra maschi e femmine nel tempo trascorso online.

Il punteggio medio ottenuto alla valutazione del benessere con la OMS-5 è di 13.2 con il 46% del campione che, secondo le indicazioni dell’OMS dovrebbero fare un test specifico per indagare la presenza di uno stato depressivo.

Il dato evidenzia una significativa differenza di genere con le femmine che hanno un punteggio medio complessivo (11,92) sotto la soglia per la valutazione dello stato depressivo.

Le variabili che sono risultate significativamente connesse al livello di benessere con una relazione positiva sono il praticare attività sportive, ludico ricreative o volontariato, mentre il tempo trascorso online e l’andare a dormire tardi o svegliarsi la notte per giocare, controllare messaggi o stare sui social network correlano in modo negativo.

Un ulteriore dato emerso è la relazione significativa tra contesto abitativo e benessere tra piccola, media e grande città; più è grande il centro abitato minore è il punteggio sulla scala OMS-5.

Il sonno

Nel nostro campione il 61% dei ragazzi si connette la sera e il 15% dichiara di rimanere connesso anche durante le ore notturne. Il 19% dichiara di andare a dormire tardi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e per le stesse ragioni il 19,8% riferisce di essersi svegliato la notte. Significativa la relazione tra chi va a letto tardi e chi si sveglia la notte.

Significativo, inoltre, il dato che evidenzia come il 71% dei ragazzi dichiara di andare a dormire più tardi rispetto a quanto prefissato se impegnati in attività online.

L’attività fisico/ricreativa

Nel nostro campione il 58,9% dei ragazzi è impegnato almeno 2 o 3 volte la settimana in attività sportive, di volontariato o ludico/ricreative non online. Solo il 25,5 % non pratica nessuna di queste attività. Il tempo trascorso online è risultato correlare negativamente con il tempo dedicato alle attività offline, mentre, rispetto alla relazione con il benessere, è emersa una relazione negativa tra il praticare attività non online e il punteggio sulla scala OMS-5. I ragazzi che non praticano alcuna attività offline hanno ottenuto un punteggio medio 11,7.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo indagato l’utilizzo di nuove tecnologie da parte dei giovani con riferimento al benessere, alla pratica di attività sportive/ludico ricreative, al sonno e abbiamo indagato se vi possano essere relazioni significative tra i parametri considerati.

I risultati mostrano come i ragazzi che praticano attività sportive ludico/ricreative dedichino meno tempo alle attività online e abbiano un punteggio di benessere percepito significativamente più alto. Rispetto al sonno, i ragazzi che vanno a dormire tardi sono anche quelli che si svegliano la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e sono quelli che stanno significativamente peggio rispetto al campione.

A prescindere dai due fattori analizzati, il fatto che il 46% del campione sia oltre la soglia di attenzione per la depressione rispetto al punteggio ottenuto al test dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci sembra essere un dato estremamente significativo e da tenere in considerazione. Ancora più significativo il fatto che, mentre la media del campione maschile si colloca al di sopra di tale livello, la media del campione femminile è significativamente oltre il valore di cut-off.

Garantire del tempo in attività sportive o ludico/ricreative non online e stabilire delle buone regole rispetto al sonno ci sembra possa essere un valido consiglio per tutti i genitori in pieno accordo con le regole proposte dall’American Pediatrics Association che raccomanda alle famiglie di monitorare attentamente la presenza di almeno 1 ora al giorno di attività fisica e un sonno adeguato (8-12 ore a seconda dell’età) e sconsiglia l’utilizzo di dispositivi o schermi un’ora prima di coricarsi (AAP Council on Communications and Media, 2016).

Limitazioni

Il presente studio presenta alcuni limiti: la sua natura cross-sectional non permette di stabilire nessi causali tra le diverse variabili. Uno studio longitudinale consentirebbe infatti di rilevare eventuali modifiche negli atteggiamenti e nei comportamenti anche a seguito di eventuali percorsi formativi che mirino a promuovere buone pratiche sia rispetto all’uso delle nuove tecnologie che rispetto alle attività sportivo/ricreative e al sonno. Sarebbe inoltre auspicabile ampliare la ricerca e la numerosità del campione per verificare come contesti culturali differenti possano concorrere a determinare le abitudini legate all’uso delle nuove tecnologie.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica – Pubblicato su State of Mind il 12 Febbraio 2020
  2. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto – Pubblicato su State of Mind il 19 Febbraio 2020
  3. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati – Pubblicato su State of Mind il 25 Febbraio 2020

Ipnosi in pillole (2018) di Marco Mozzoni – Recensione del libro

Ipnosi in pillole, il recente lavoro di Marco Mozzoni, psicologo psicoterapeuta specialista in ipnosi clinica, docente universitario e consulente scientifico del MIUR, può essere considerato il punto di convergenza delle traiettorie cliniche, educative, esperienziali e di ricerca appassionatamente percorse, nel corso degli anni, dall’autore.

 

Un testo dall’obiettivo ambizioso: quello di porgere al lettore (che desideri accrescere il proprio benessere o fronteggiare i più diffusi disturbi psicologici), uno strumento fruibile e chiaro, che connetta sapere scientifico ed esperienza clinica, e che sappia offrire a chiunque voglia accostarsi all’ipnosi la possibilità di sperimentarla in prima persona.

Obiettivo che l’autore si prefigge di raggiungere coniugando in modo innovativo teoria e pratica e proponendo una sorta di viaggio esperienziale ‘in’ ipnosi, al netto delle spettacolarizzazioni commerciali, che parallelamente si traduce in un viaggio nell’essere umano. Perché, sottolinea Mozzoni, ‘l’ipnosi si fa prima a farla che a spiegarla’.

Tuttavia, prima di lasciar addentrare il lettore-apprendista di ipnosi ‘nell’officina’, l’autore dedica uno spazio alla conoscenza dei cosiddetti ‘attrezzi del mestiere’: e così il nostro corpo, i suoi organi, la mente conscia e inconscia, le funzioni e i disturbi psicologici trovano uno spazio chiaro e definito, nel quale poter essere attentamente osservati e conosciuti, quantomeno nei loro meccanismi essenziali.

Approcciate le nozioni basilari che ogni buon apprendista necessita di padroneggiare, inizia il viaggio.

Come un tuffo, Mozzoni conduce il lettore direttamente nell’esperienza – e nella maggior conoscenza – di sé: pagina dopo pagina, si entra in contatto con contesti e correlati fisiologici e psicologici di ansia, depressione, disturbi psicosomatici, fobie, trauma, dolore acuto e cronico, dipendenze, comportamento alimentare, mantenimento della salute, sistema immunitario, creatività.

La sensazione sperimentata nella lettura di questa parte del testo è che, per ogni argomento trattato, l’autore eliciti anche lo spirito di osservazione e la perspective taking facendo accomodare, via via, il lettore in diverse angolazioni prospettiche, che consentono di esperire diversi possibili punti di vista.

Dalle differenti prospettive assunte, ciascun tema trova una propria definizione o ridefinizione di significato, un correlato scientifico, una potenziale funzione adattiva.

Contemporaneamente, l’autore guida gli apprendisti, a questo punto naturalmente posti nella prospettiva di ‘osservazione di sé’, verso la sperimentazione di strategie mirate a rendere ciascuno agente principale della propria ‘cura’ e del potenziamento del proprio benessere.

Il tutto, in una cornice stilistica accogliente, elegante e discreta, proprio come chi voglia accompagnare con cura un ospite in un viaggio molto importante, rispettandone i tempi e le esigenze. Citando lo stesso Mozzoni: ‘procedi pure al tuo ritmo e, quando senti di aver fatto sufficiente esperienza, puoi fare subito da te’.

 

La “buona madre” e il mal-essere materno. Una riflessione sugli aspetti negativi della maternità

Il pensiero della Buona Madre ci riporta alla mente, inevitabilmente, quello della Cattiva Madre. Ovvero, l’aspetto ombra di un negativo presente in ognuno di noi, che nella madre assume connotati malefici, proprio in virtù del potere generativo di colei che in quanto dona la vita, non può sopprimerla, tantomeno attraverso l’eliminazione dei suoi stessi figli. Purtroppo, però, la mano della madre è quella che può accogliere, ma è anche quella che può sopprimere.

 

Un figlio si può uccidere in tanti modi, non solo cancellandone la vita, ma anche annientandone la capacità di crescere e di diventare un individuo autonomo e libero di fare le sue scelte. Ci sono madri infatti che soffocano ogni tipo di iniziativa dei figli e li inducono, attraverso i cosiddetti “sensi di colpa” a sentirsi perennemente in debito verso se stesse.

I classici dell’antica Grecia ci offrono l’opportunità di riflettere sull’aspetto malefico materno. La tragedia di Euripide, Medea, la madre che sopprime i propri figli per punire Giasone, il suo sposo, reo di essersi innamorato di un’altra donna. Euripide con la sua maestria nel tratteggiare le emozioni umane, evidenzia solo una delle tante motivazioni alla base del figlicidio. Ci propone la figura di una donna che antepone la gelosia per l’amato e il sentimento di rivalsa verso la rivale all’amore per i suoi figli. Medea, pur tra atroci sofferenze, in modo lucido e premeditato, si arma di lama e sgozza i figli durante il sonno. E’ una donna ferita e accecata dalla gelosia. Vuole condannare l’uomo che ha tradito il suo amore, con la più orrenda delle condanne: non poter più riabbracciare i suoi figli. Avrebbe potuto ucciderlo per vendicarsi, ma lei decide per una punizione perenne, vuole infliggergli una ferita che rimarrà sanguinante per il resto dei suoi giorni, a ricordargli l’onta e la colpa di cui si è macchiato.

La tragedia Euripidea ci mostra la lucida follia di un’ossessione squilibrata, una delle tante modalità malate di agire l’amore e di usarlo per sedare inquietudini e malesseri personali, che nulla hanno a che vedere con questo nobile sentimento. Un gesto che, seppure estremo e dal quale vorremmo prendere le distanze, appartiene a tante coppie che non riescono a gestire in maniera equilibrata i cambiamenti e le difficoltà della vita, ma continuano ad avvelenarsi, imbrigliandosi nelle maglie di rapporti connotati da ostinazioni ossessive e fatali.

In ogni madre c’è una donna, ma non sempre da ogni donna si disvela una madre, questo perché una donna non nasce madre, ma può decidere di fare la madre, senza che questa scelta possa nuocere alla propria femminilità ed al proprio modo di costruire la sua immagine di donna nel mondo.

La madre perfetta non esiste, perché i bisogni e le aspettative variano da persona a persona, così come non esiste il figlio perfetto. Questa considerazione è fondamentale per favorire la realizzazione della figura materna e quella di figlio o di figlia.

La “Buona” madre è colei che si prende cura del suo bambino con dedizione, facendolo sentire amato e importante. E’ la madre che attraverso il dono dell’abbraccio, insegna al figlio l’affettività e la costruzione dei sentimenti. Insegnare i sentimenti è il primo compito di una madre adeguata, poiché i sentimenti non sono un’acquisizione naturale. L’amore si insegna e una madre può farlo manifestando il proprio attaccamento al suo bambino. Educare all’affettività vuol dire costruire una modalità di comunicazione, che passa attraverso le sensazioni corporee, per produrre ed attivare la relazione emotiva.

La buona madre è colei che non solo insegna ad amare, ma che pone se stessa come strumento attraverso il quale il bambino costruisce i sistemi con cui sviluppa l’amore verso sé e verso gli altri. La cura e l’interesse che il bambino riceve dalla madre o da chi se ne prende cura, gli forniscono quei fondamenti sui quali affermare il suo valore, l’impronta che gli consentirà di sviluppare la sua personalità.

Una buona madre è colei che ha la capacità di far sentire il proprio figlio unico al mondo, di trasmettergli l’eccezionalità della sua presenza, la sua insostituibilità. Messaggi del tipo: “Tu per me sei indispensabile”, “Tu per me sei unico”, sono quelli che il bambino riesce a comprendere attraverso il linguaggio del corpo materno. Un bambino che è stato desiderato, è un bambino accettato e amato. Una madre accogliente fa sentire il suo amore al bambino in modo naturale, coccolandolo in maniera da fargli provare sicurezza.

Al contrario, non è accogliente la madre che esibisce il proprio figlio come un trofeo, che lo abbellisce e lo mostra al pubblico, aspettando di ricevere conferma della propria bravura. Un figlio va amato e curato nel silenzio e nella discrezione del rapporto di fiducia che una buona madre deve saper creare col figlio.

L’unicità di sapersi l’uno per l’altro, per ascoltarsi attraverso i suoni che promanano dai corpi, è un’esperienza unica per la madre e per il figlio. Con una carezza è possibile per una madre rinsaldare l’attaccamento al suo bambino, un semplice e naturale gesto d’amore.

Si può essere una buona madre, anche se non si è avuta una madre buona.

Ma è bene ricordare che la gravidanza, anche quando è desiderata e inseguita con frenesia, può riservare delle spiacevoli conseguenze, sia per la madre che per il bambino, essendo la possibile fonte di numerosi disturbi, proprio per gli aspetti gravosi che la connotano, sia dal punto di vista fisico che emotivo. Molto spesso lo stato di fragilità emotiva, vissuto dalla donna in questo momento della vita, non le viene riconosciuto dai familiari, per i quali l’attesa di un figlio assume esclusivamente caratteri di positività.

Il rischio di questa mancanza di considerazione del malessere sofferto, è quello di generare sensi di colpa che arrestano la naturale e progressiva acquisizione di competenze materne. Purtroppo, accade sempre più spesso che, all’interno delle famiglie, si riscontra un totale disconoscimento della fragilità psicologica connessa allo stato gravidico, con una conseguente negazione dell’angoscia anche da parte della donna, che arriva a non riconoscere più a se stessa la sofferenza provata. La mancata ammissione dei sintomi per imbarazzo o per vergogna, nonostante questi siano evidenti e invalidanti, comporta uno stress ulteriore, che si ripercuote sul suo equilibrio psichico già tanto provato.

In questo modo, paradossalmente, più non si accettano i disturbi e maggiormente questi si faranno sentire, aumentando anche la portata clinica dei sintomi. Infatti, il malessere se non curato, può comportare disturbi maggiori ed anche molto gravi, non solo durante la gravidanza, ma anche dopo la nascita del bambino.

In molti casi, il sentimento di depressione è quello a cui si assiste più frequentemente. Una gravidanza vissuta in modo fortemente stressante, non sempre dona alla madre quella felicità totalizzante che l’immaginario comune assegna alla donna, che può invece sentirsi triste, rabbiosa, pentita o inadatta al ruolo di madre.

Può infatti accadere che la donna, a seguito della gravidanza e in conseguenza del trauma da parto, sviluppi un forte disagio emotivo, connotato da stati di profonda tristezza e di mancanza di interesse per tutto ciò che la circonda, ma anche per tutto ciò che riguarda il bambino.

Persino il figlio può esserle indifferente, o, al contrario, rappresentare un soggetto su cui riversare estrema attenzione ed apprensione, con relativa pesantezza, sia emotiva che fisica. E’ frequente la condizione di sentirsi investita da uno stato di abulia profonda, in cui si alternano momenti di estremo nervosismo a momenti di ritrovato appagamento per la maternità sopraggiunta. La mamma viene ad essere così sopraffatta da una grande confusione, che manifesta manipolando i ruoli da svolgere, avvinta dal senso di incapacità.

In questo stato di cose tutto le appare difficile da poter sostenere, vive anche le cose più semplici come carichi insostenibili. La sensazione che nessuno possa capirla la annienta e le persone che le stanno intorno cominciano a diventarle insopportabili, con i loro consigli e il loro aiuto soffocante, ed anche verso il partner comincia a provare un senso di fastidio per il fatto di non sentirsi compresa. Il partner, il più delle volte, ha difficoltà a capire la complessità emotiva che sta vivendo la neo-mamma, molto spesso le problematicità della donna sono fraintese o considerate con molta superficialità e questo genera ancora più sofferenza, frustrazione e rabbia.

Il malessere può mostrarsi in vari modi, ma la modalità che più spaventa i congiunti sono gli attacchi d’ira istintivi e incontrollati, che si rivolgono verso il partner, i congiunti o verso il bambino stesso. Questo stato emotivo estremamente delicato che la donna vive come un profondo abbandono, se non viene seguito tempestivamente con un’adeguata presa in carico da parte di specialisti competenti, può comportare uno squilibrio psicofisico e nelle forme più gravi, a veri e propri stati psicotici deliranti, rivolti contro tutti indistintamente, che, col passare dei giorni, diventeranno sempre più pericolosi da gestire e più difficili da risolversi.

Proprio in virtù del disequilibrio che si viene a creare alla nascita di un figlio, spesso vi sono sconvolgimenti che agiscono anche a lungo termine, che minano la stabilità mentale di molte donne e di conseguenza la solidità della coppia, indebolendone la costituzione. Non sono rari i casi di coppie, che si separano poco dopo l’arrivo di un figlio.

L’intervento tempestivo di aiuto può scongiurare l’instaurarsi di un quadro clinico devastante, per questo motivo è importante non sottovalutare i primi segnali di insofferenza materna. La varietà dei sintomi depressivi, che emergono a seguito di una gravidanza, in psicologia vengono definiti disturbi dell’umore e vanno da un grado più lieve, a casi gravi di psicosi, che possono sfociare anche nell’omicidio. Il malessere può manifestarsi con un ampia gamma di disturbi, che vanno dalla patologia conclamata, in caso di depressione maggiore, alla schizofrenia, allo stato crepuscolare oniroide, alla psicosi post partum, al rifiuto o al maltrattamento del bambino, perché indesiderato o perché si è irritabile e sfinita. Nella peggiore evenienza, il disturbo può sfociare accidentalmente in omicidio o figlicidio. Il pretesto del terribile atto potrebbe essere attribuito al sentimento di vendetta verso il partner o determinato da un disturbo di personalità sottostante o anche dall’uso di alcol e droghe.

La percentuale di donne colpite da una lieve malinconia post partum, chiamata anche maternity blues, è abbastanza alta, ma questo lieve stato depressivo ha una decorrenza tollerabile, in quanto si risolve entro le prime settimane dalla nascita del bambino. La Depressione Post Parto è, invece, una patologia vera e propria, che se trascurata tende a divenire cronica ed invalidare la vita della neo mamma. Si esprime con una sintomatologia più intensa e disturbante e, poiché ha un decorso più lungo, si sviluppa con una successione di segnali che si amplificano col passare del tempo. Questo è uno dei motivi per cui viene spesso sottovalutata, poiché la donna cerca di farvi fronte come può, spesso nascondendo agli altri il proprio disagio, cercando di non mostrare la sua sofferenza, se non quando questa si manifesta con evidenti segnali di incontrollabile aggressività o di rifiuto sociale, fino ad arrivare al ritiro da ogni attività e relazione.

E’ fondamentale capire quando i sentimenti che la donna nutre per il figlio assumono un connotato negativo, quindi è necessario porre la massima attenzione a captare alcuni indicatori specifici che caratterizzano il comportamento materno, specialmente se questi indicatori si presentano associati tra loro.

La depressione post parto solitamente si manifesta durante la 3° o 4° settimana dopo il parto ed arriva ad evidenziarsi, come problema effettivo, dopo 3 o 6 mesi dalla sua comparsa, prolungandosi, a volte, per oltre un anno. In molti casi le donne maggiormente colpite da uno stato depressivo sono quelle con una personalità con bassa autostima o al contrario molto rigide e intransigenti, con tendenza al perfezionismo. Queste ultime spesso sviluppano una modalità reattiva di tipo violento.

Il desiderio di controllare e di avere sempre tutto sotto controllo, aggravato dai nuovi doveri da soddisfare, diventano trappole in cui si sentono incastrate, come la spirale di ossessività che le invade e da cui non riescono a liberarsi, se non con la perdita del controllo attraverso manifestazioni di ira incontrollata.

Lo sviluppo di fobie, legate alla propria incapacità di gestire la  nuova situazione familiare, è il disturbo che si evidenzia maggiormente, dando luogo ad una sintomatologia che si esprime attraverso attacchi di panico che limitano notevolmente la vita della donna. In questi casi si rende necessario un intervento terapeutico per ristabilire un sano equilibrio psicologico, che vada a mettere ordine in una mente confusa e aggrovigliata su se stessa.

Anche la giovane età della mamma può determinare uno stato di forte depressione, in quanto la mancanza di esperienza e il senso di inadeguatezza si aggiungono alla fragilità emotiva connessa all’età.

In tutti i casi esposti, il sostegno e l’aiuto della famiglia, ma soprattutto del compagno, sono fattori determinanti per scongiurare l’instaurarsi di una patologia clinica rilevante e per la risoluzione in tempi brevi del disagio emotivo di cui è vittima la neo mamma.

 

Sintomi depressivi e utilizzo di cannabis nei giovani adulti

Quando si ha a che fare con il Disturbo da Uso di Cannabis nei giovani adulti non si nota come questi siano propensi a manifestare sintomi depressivi. Esiste un rapporto di causalità tra questi due fenomeni?

 

I giovani adulti con un’età compresa tra i 18 e i 25 anni, sono la categoria di popolazione con il più alto tasso di disturbo da uso di cannabis (CUD; Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2018). Inoltre, sono meno propensi rispetto alle altre fasce d’età a richiedere interventi psicologici finalizzati al trattamento del disturbo (Wu, Zhu, Mannelli, & Swartz, 2017).

I giovani adulti, sono anche più propensi a soffrire di episodi depressivi maggiori rispetto al resto della popolazione (SAMHSA, 2018). Uno studio condotto da Feingold e colleghi nel 2015 ha sottolineato una relazione bidirezionale tra utilizzo di cannabis e sintomi depressivi e ricerche successive (es. Hanna, Perez, & Ghose, 2017) hanno indagato sulla causalità di questo rapporto, individuando una propensione degli utilizzatori di cannabis a sviluppare, a causa della sostanza, disturbi depressivi.

Il presente studio (Mason, 2020) si è posto l’obiettivo di indagare, in un campione composto da 100 partecipanti con CUD tra i 18 e i 25 anni, l’influenza dei sintomi depressivi sull’efficacia del trattamento. I partecipanti erano infatti stati sottoposti, tramite un programma chiamato Peer Network Counseling-txt (PNC-txt; Miller & Rollnick, 2012), a un trattamento personalizzato che consiste in interviste motivazionali focalizzate sulle interazioni sociali e ambientali. Il campione è stato randomizzato in un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo.

Sono stati presi in considerazione i dati demografici, l’utilizzo di cannabis nei trenta giorni precedenti al trattamento tramite PNC-txt, i test delle urine (precedentemente effettuato ai fini del trattamento) e i sintomi depressivi (Mason, 2020).

I risultati hanno mostrato che soggetti con un livello di depressione sotto-soglia, hanno ridotto la frequenza di utilizzo di cannabis nel corso dei tre mesi dello studio. Coloro che invece soffrivano di sintomi depressivi più gravi, non ha mostrato modificazioni nell’utilizzo di cannabis. Infine, coloro che sostenevano di aver ridotto l’utilizzo di marijuana (ovvero i partecipanti con depressione sotto-soglia) non mostravano, a tre mesi di distanza, risultati positivi al test delle urine.

Lo studio dimostra quanto sia importante concentrarsi sia sull’utilizzo di cannabis sia sugli eventuali sintomi depressivi quando si trattano giovani adulti con un CUD tramite una terapia focalizzata su interviste motivazionali (Mason, 2020).

 

Il coronavirus tra rabbia e paura

E così anche le rabbie che pur esse si legano a questi eventi: futili episodi o rischi di linciaggio? La donna cinese picchiata a Torino, la coppia cinese aggredita ancora a Torino e il filippino scambiato per cinese a Cagliari potrebbero essere episodi molto circoscritti o avere un significato. Una collega è stata testimone di tensioni in treno contro un viaggiatore cinese e ce ne ha parlato, chiedendoci di riflettere sulla rabbia. Riflettiamo.

La rabbia, rispetto alla paura, mostra somiglianze e differenze. È anch’essa come la paura un’emozione che segnala una minaccia, un pericolo. Essa però suggerisce una reazione differente. La paura porta alla fuga, la rabbia all’attacco. Le differenze risiedono nel tipo di soluzione proposta. A quali pensieri corrispondono queste differenze?

La prima osservazione è che la rabbia attribuisce il pericolo a persone da aggredire mentre la paura, portando alla fuga, è più impersonale. Ad esempio davanti a una sciagura naturale si fugge o ci si protegge ma non si aggredisce se non metaforicamente. L’aggressione parte invece da una attribuzione di intenzione a un altro essere vivente, animale o umano. L’aggressione valuta inoltre che il pericolo possa essere bloccato attaccando, e quindi emettendo un segnale di ostilità la cui funzione è fermare l’altrui intenzione ostile attraverso una comunicazione. Il comportamento aggressivo è un messaggio: fermati perché sono arrabbiato. Insomma la paura può essere impersonale, la rabbia è interpersonale.

Reagire al coronavirus con rabbia e non con paura significa quindi cercare un autore cattivo, una intenzione malevola, intenzione che naturalmente non può essere attribuita al virus, invisibile e inoltre troppo elementare come organismo per essere oggetto di un’aggressione sensata. L’aggressione si volge quindi verso gruppi umani a cui è addossata una intenzione malevola. Gli untori di Manzoni. In questo caso i cinesi, perché dalla Cina sembra provenire il morbo.

Reagire con rabbia comporta una serie di vantaggi che la fanno preferire emotivamente alla paura. La paura ci protegge dai pericoli soggettivamente ma non è un’esperienza molto esaltante. Al contrario, si lega a una valutazione di sé deprimente; si fugge perché si ritiene di essere più deboli del pericolo, impotenti e fragili. Non resta che scappare. Inoltre -come abbiamo già scritto- il pericolo è impersonale e quindi terrificante, al di là delle possibilità umane, incomprensibile e quindi divino. C’è poco da scherzare e nulla di gratificante.

La rabbia invece umanizza il pericolo riducendolo a proporzioni personali: qualcuno ce l’ha con noi e possiamo picchiarlo duro. Ne abbiamo la forza. E quindi la rabbia ci rafforza, ci potenzia perché ci dice che siamo in grado di affrontare il pericolo e respingerlo, debellarlo dimostrando la nostra potenza a noi stessi e a chi ci circonda, illuminandoci di gloria. La rabbia inoltre ha anche un altro vantaggio: essa può legarsi in qualche modo a un gratificante giudizio morale positivo per noi stessi. Perché con la rabbia non ci si limita a nasconderci come capita con la paura. Si tratta di agire sugli altri cambiandoli e solo chi ritiene di fare del bene può giustificare la sua azione aggressiva senza essere fermato dai dubbi. Ci si sente non solo più forti ma perfino più buoni con la rabbia. Solo le personalità machiavelliche si crogiolano nella forza cattivistica non giustificata dal bene. Le persone comuni come noi invece quando si arrabbiano provano più facilmente una sensazione di giustizia.

La rabbia però presenta anche una serie di rischi. Aggredire significa assumersi la responsabilità di fare del male al prossimo. Grande potere che porta a una responsabilità che infatti gestiamo giustificandoci: siamo i buoni, come l’uomo ragno. Passata però la furia aggressiva che ci fa sentire giusti potremmo scoprire di avere mal diretto i nostri attacchi. Facilmente si passa dalla rabbia alla colpa, la sua gemella ansiosa e impaurita.

La rabbia inoltre si esprime in episodi concitati che lasciano poco spazio al ripensamento: se fuggi e ti nascondi puoi sempre rimediare tornando indietro ed esporti al pericolo più coraggiosamente. Invece gli effetti dell’aggressione rabbiosa, una volta prodotti, non possono essere eliminati. Hai picchiato, non puoi far tornare indietro le botte. Al massimo si espia, magra consolazione soprattutto per la vittima che non sa che farsene dei nostri pentimenti. Insomma la rabbia fa versare quel latte sul quale è più inutile piangere.

In questi giorni inquieti in cui non sappiamo se stiamo oscillando tra la drammatizzazione di una banale influenza e la ripetizione della peste di Boccaccio e del Manzoni dobbiamo stare più attenti alla rabbia piuttosto che alla innocua paura. Se stessimo esagerando con la paura, poco male. Si tratterà di recuperare qualche giorno di lavoro o di scuola persi. Se esageriamo con la rabbia invece finisce che qualcuno si fa male e a qual punto ci sarà poco o nulla da recuperare.

Il dolore nell’intimità sessuale: il disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione è una condizione che interessa dal 15 al 25% delle donne della popolazione mondiale, causando disagi intensi e pervasivi dal punto di vista fisico, psicologico e relazionale.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Nel DSM IV-TR le disfunzioni sessuali riguardavano il dolore sessuale o un disturbo in una o più fasi del ciclo di risposta sessuale. La ricerca suggerisce che la risposta sessuale non sia sempre un processo uniforme lineare, ma che vi sia una distinzione tra alcune fasi ad esempio, il desiderio e l’eccitazione.

A differenza della precedente edizione, nel DSM5 (APA, 2013) i disturbi sessuali non sono più incorporati in una stessa categoria ma in tre categorie distinte: le Disforie di Genere, le Parafilie, le Disfunzioni Sessuali. Sono inoltre state aggiunte disfunzioni sessuali specifiche per genere e, per le donne, il Disturbo da Desiderio Sessuale e il Disturbo di Eccitazione Sessuale sono stati combinati in un unico disturbo: Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile.

Di seguito i criteri:

A: Mancanza o significativa riduzione di desiderio/eccitazione sessuale come manifestato da almeno 3 dei seguenti problemi:

  • assente o ridotto interesse per l’attività sessuale;
  • assenti o ridotti pensieri o fantasie sessuali/erotiche;
  • nessuna iniziativa di attività sessuale e nessuna risposta ai tentativi da parte del partner;
  • assente o ridotto piacere ed eccitazione sessuale durante l’attività sessuale;
  • il desiderio non è scatenato da alcuno stimolo sessuale;
  • assenti o ridotti cambiamenti genitali e/o non-genitali durante l’attività sessuale.

B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti.

D. La disfunzione sessuale non è meglio giustificata da un altro disturbo mentale non sessuale o dalle conseguenze di stress relazionale (e.g. violenze da parte del partner) o altri eventi traumatici e non è attribuibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale.

Per aumentare la precisione e ridurre sovrastime, le disfunzioni sessuali in generale devono avere una durata minima di sei mesi, ad eccezione di quelle secondarie all’uso di sostanze psicoattive. Queste modifiche prevedono soglie utili per fare una diagnosi e distinguono transitorie difficoltà sessuali da disfunzioni più persistenti.

Per identificare l’esordio della difficoltà vengono utilizzati alcuni sottotipi:

  • permanente – se un problema sessuale è presente dalle prime esperienze sessuali;
  • acquisita – se i disturbi sessuali si sviluppano dopo un periodo di prestazione sessuale normale;
  • generalizzata – se le difficoltà sessuali non sono limitate a determinati tipi di stimolazione, situazione o partner;
  • situazionale – se le difficoltà sessuali si verificano solo con alcuni tipi di stimolazione, situazione o partner.

E’ stata abolita la distinzione tra disfunzioni legate a fattori biologici e a fattori psichici in quanto spesso entrambi questi aspetti ne prendono parte. Vengono inoltre presi in esame fattori inerenti il partner, la relazione, la vulnerabilità individuale, i fattori religiosi e culturali e i fattori medici.

La raccomandazione è comunque quella di considerare i sintomi sessuali come disturbi psichici solo dopo aver escluso ogni componente organica. La collaborazione tra diversi specialisti è quindi indispensabile.

Nel DSM 5 anche il vaginismo (contrazione dei muscoli perivaginali che impedisce la penetrazione) e la dispareunia (dolore nel rapporto sessuale nell’uomo o nella donna) che erano spesso coesistenti e difficili da distinguere, sono stati incorporati nel Disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione.

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione (DGP-P) viene classificato all’intero del DSM 5 come una disfunzione sessuale femminile caratterizzata dalla presenza persistente e ricorrente di uno o più dei seguenti problemi:

  • Incapacità di avere una penetrazione vaginale; questa difficoltà può presentarsi sia durante il rapporto sessuale sia in altre situazioni che prevedono penetrazione, come ad esempio visite ginecologiche o l’utilizzo dell’assorbente.
  • Marcato dolore pelvico e vaginale durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; in alcuni casi il dolore può perdurare anche dopo la fine del rapporto o essere presente durante la minzione.
  • Marcata paura e ansia per la penetrazione vaginale o per il dolore pelvico e vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale; questa paura è molto diffusa tra le donne che hanno provato regolarmente dolore durante il rapporto e in alcuni casi può portare a un marcato evitamento di situazioni sessuali o intime.
  • Marcata tensione e indurimento dei muscoli pelvici durante i tentativi di penetrazione vaginale.

B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti.

D. La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un altro disturbo e non dovuto esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a condizione medica generale.

“Perché un gesto così normale, come il rapporto sessuale mi provoca così tanta angoscia da bloccarmi totalmente?” si chiede la donna che scopre di avere questa dolorosa cintura di castità. “E perché proprio a me?” (Jannin et al., 2017)

Eziologia del disturbo

All’interno della categoria “Dolore Genito-Pelvico” sono raccolte numerose condizioni cliniche che hanno un’origine multifattoriale, biopsicosociale. Ghaly e Chien (2000) hanno individuato la presenza sia di cause organiche che non. Tali cause possono essere legate allo stato ormonale (menopausa, allattamento), alla neurologia (nevralgia, sclerosi multipla), alle infezioni (vaginosi batterica, candidosi), a disturbi sistemici (sindrome di Behcet, disturbo di Crohn), all’uso di alcune categorie di farmaci (terapie oncologiche, contraccezione ormonale), a problemi “meccanici” (traumi da penetrazione, poca lubrificazione, abrasione), alla salute ginecologica. In particolare, procedure chirurgiche o processi infiammatori organici, come l’endometriosi o la sindrome del colon irritabile, posso portare alla formazione di aderenze e cicatrici, le quali possono provocare dolore nelle aree interessate.

In merito alle cause non organiche risulta fondamentale indagare la presenza di una storia di abuso sessuale o emotivo e di sintomi ansiosi e/o depressivi. Grace e Zondervan nel 2006 e Pitt e colleghi nel 2008, all’interno delle loro ricerche, hanno riscontrato come le donne con DGP-P riportano di frequente disturbi del sonno, depressione, ansia oltre a interferenze nelle relazioni affettive intime.

Altre cause non organiche del disturbo possono riguardare difficoltà relazionali con il partner, come ad esempio scarsa comunicazione di coppia o diverso desiderio sessuale, la presenza nell’uomo di problemi sessuali, come la disfunzione erettile o l’eiaculazione precoce le quali possono causare difficoltà nella penetrazione, fattori stressanti (lutti, difficoltà lavorative, ecc.) o aspetti culturali o religiosi, che possono influenzare convinzioni e atteggiamenti rispetto alla sessualità (APA, 2013).

Prevalenza del disturbo

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione è una condizione che interessa dal 15 al 25% delle donne della popolazione mondiale, prevalenza non nota in Italia data la mancanza di studi. Le lamentele associate al dolore vaginale e pelvico sembrano avere un picco nella prima età adulta e nel periodo premenopausa.

Le linee guida per il trattamento consigliano una combinazione di interventi educativi sulla gestione del dolore, fisioterapia del pavimento pelvico, terapia sessuale e approcci medici seguendo una strategia integrata multidimensionale.

È sempre fondamentale non limitarsi solo al trattamento sintomatico, ma analizzare le dinamiche di coppia e, soprattutto, le modalità di gestione del rapporto sessuale da parte del partner. (Davide Dèttore)

Utile sarebbe condurre ulteriori ricerche sui fattori cognitivi e meta-cognitivi del DGP-P al fine di una miglior comprensione dei meccanismi psicologici alla base del disturbo con l’obiettivo di sviluppare interventi mirati.

Il trattamento cognitivo comportamentale dei disturbi sessuali in generale mira a fornire informazioni e tecniche volte ad aumentare la consapevolezza del proprio corpo e la comprensione dei fattori fisiologici e psicologici coinvolti nel rapporto sessuale oltre all’utilizzo di tecniche di rilassamento, esercizi di esposizione graduale insieme al partner, identificazione dei comportamenti disfunzionali che possono mantenere il problema e la loro sostituzione con strategie più funzionali.

 

Walt Disney e LIBET: tema doloroso e strategie volontarie dell’eroe Hercules – La LIBET nelle narrazioni

Hercules è un famoso film d’animazione della Walt Disney, distribuito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel 1997.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 7) Hercules

 

Si tratta di uno dei più amati e conosciuti classici Disney; il primo ispirato alla cultura e mitologia greca, che ne esplora i valori e sentimenti e che ha come protagonisti dei, eroi, eroine e creature leggendarie.

Il protagonista rappresenta la versione animata e romanzata del semidio Hercules che, nonostante abbia una forza sovraumana in quanto figlio di Zeus, cresce sulla Terra e si relaziona con i comuni mortali per sfuggire alla maledizione del dio della morte Ade.

Risulta molto interessante la lettura del personaggio in chiave LIBET (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016). Infatti, tutte le recensioni lette sul film si focalizzano sui personaggi mitologici, sui meravigliosi spunti di cultura greca, sull’amore verso Megara e sulla forza fisica e d’animo dello straordinario eroe. È curioso pensare che il coraggioso combattente, che per anni ha ispirato e appassionato bambini e adulti, possa essere tanto umano da avere sperimentato anch’egli uno stato mentale doloroso (tema) per lui intollerabile, tanto da tentare di tenerlo lontano a tutti i costi mettendo in atto delle strategie semiadattive (piani) (Fig 1).

Il nostro amato eroe si ritrova, sin da piccolo, a vivere in contesti in cui la sua forza fisica lo rende impacciato, goffo e distruttivo. Hercules è diverso da tutti e viene ripetutamente rifiutato nel gioco e nella relazione. Tutto ciò lo fa sentire solo, non stimato da nessuno e sempre fuori luogo (si intravedono i temi del disamore e dell’inadeguatezza). Il piccolo figlio di Zeus, prima ancora di scoprire di essere tale, impara a sfuggire dalla tristezza legata a questa condizione inaccettabile mettendo in atto un piano prescrittivo, esercitando cioè il controllo su tutte le situazioni. Infatti, cerca di ricevere l’approvazione delle persone dosando e modulando costantemente la sua energia. Quando i genitori che lo hanno cresciuto gli comunicano le sue origini divine, Hercules decide di conquistare la stima del popolo e degli dei sviluppando al massimo tutte le sue potenzialità fisiche, affinché sia considerato come un dio e finalmente stimato da tutti. Pertanto si convince che la Terra non sia il suo posto e che essere visto come eroe sia fondamentale per lui in quanto figlio di Zeus. Inizia così ad allenarsi intensamente, aiutato dal satiro Fil. L’accoglienza da parte degli dei sul monte Olimpo rappresenta una possibilità di riscatto. La strategia di controllo si rivela efficace, poiché la folla inizia gradualmente a riconoscerlo come eroe. Tuttavia, nel momento in cui suo padre Zeus gli comunica che la forza fisica non basta per poter essere accettato del tutto tra gli dei, Hercules vede il fallimento dei suoi tentativi di riscatto (invalidazione del piano prescrittivo), si sente ancora una volta rifiutato e sprofonda nella disperazione (esordio della sintomatologia depressiva). La frustrazione durerà sino al momento in cui scoprirà il valore dell’amore, che gli consentirà di mostrare altre qualità.

Inquadrare i concetti del tema e del piano rende la visione del film più stimolante in quanto permette di comprendere in maniera più chiara il funzionamento psicologico del personaggio ed identificarsi ancor meglio con lui.

Hercules storia di vita del semidio Analisi in termini LIBET Fig 1

Fig. 1 Schema grafico del funzionamento di Hercules in termini LIBET 

 

 

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