expand_lessAPRI WIDGET

Distanze ravvicinate – Nel film “Storia di un matrimonio” un’introspezione sulla distanza nel processo di separazione

Storia di un matrimonio, il film vincitore del Leone d’oro a Venezia, come un’introspezione che pone la metafora spaziale della “distanza” al centro del processo di separazione.

 

C’è una scena, minuta e quasi insignificante, una manciata di fotogrammi piazzati dopo nemmeno un quarto d’ora dall’inizio del film, che forse basta a spiegare ogni cosa.

Nicole e Charlie hanno appena imboccato la via che li porterà verso la separazione e ancora lavorano nella stessa compagnia teatrale. Lui regista e lei prima attrice. Al termine di uno spettacolo si ritrovano, con l’intera comitiva, a brindare in un locale. Loro però sono cupi, assorti nei rispettivi dolori, inesorabilmente lontani. A un certo punto Charlie viene avvicinato da una collaboratrice, che Nicole già sospettava essere sua amante. Lei lo vede, si alza indispettita dalla sedia e fugge via. Charlie se ne accorge, scosta immediatamente l’altra e le si precipita dietro.

Quello che noi vediamo nell’inquadratura successiva è la scena in questione.

Loro due soli, immobili nel silenzio della metro che li porta a casa, poggiati l’uno di fronte all’altra, ai lati opposti della carrozza. I due corpi, stretti nella vicinanza inevitabile e desiderata del vagone, che eppure si sforzano di mantenere tra loro la massima distanza possibile. E restano così prigionieri in un gioco immobile di due movimenti contrari che impediscono loro di trovare la corretta misura.

Saranno 5 secondi o meno di pellicola, scarni, essenziali, privi di movimento o parole. Eppure questa è la scena che meglio di qualsiasi altra coglie e riassume il senso del film. Perché fondamentalmente Storia di un matrimonio è tutto qui: un’unica minuziosa, a tratti raffinata, ingarbugliata riflessione sulla distanza o, meglio ancora, sull’impossibilità della distanza per chi si ritrova alla fine di un rapporto d’amore.

In mezzo certo, sulla superficie, c’è molto altro. Ci sono il teatro e la televisione, c’è la bizzarra famiglia di Nicole, c’è un procedimento legale e c’è soprattutto Henry, l’unico figlio, intorno a cui sembra snodarsi lo sviluppo narrativo. Ma Henry, almeno dalla prospettiva scelta da Baumbach, non vive di luce propria, non è pienamente soggetto, ma ci appare più verosimilmente come uno strumento, un sofisticato artificio retorico che serve a cucire o a interporre nuove distanze tra Charlie e Nicole. Gli unici soggetti veri sulla scena sono loro e l’unico filo reale che lega il succedersi degli eventi è questa domanda: se sia mai possibile, per chi ha alle spalle una “storia di matrimonio” come la loro, raggiungere la distanza necessaria per poter continuare autonomamente ad esistere.

La questione non è affatto banale, anzi: è una domanda che ci coglie anche un po’ di sorpresa e a cui fatichiamo a trovare una risposta, forse troppo abituati a vedere, vivere o immaginare la fusione, il delirio psicotico di vicinanza che soggioga due persone quando inizia una storia d’amore.

Ma qual è invece la distanza giusta quando l’amore diventa memoria e una relazione importante si avvia alla sua conclusione?

L’altro ci resta dentro, in qualche modo, ma è una presenza che angoscia, indesiderata ed indigesta da sopportare, e noi restiamo spesso spaccati a metà, tra l’esigenza di chiudere qualcosa che ormai non ha più una prospettiva futura e il morso doloroso di una storia che continua, inevitabile, ad esistere. Perché la presenza dell’altro non affligge solo i ricordi, come ci vorrebbe comodo pensare, ma si radica e si infiltra nei nostri ragionamenti, nei nostri moti affettivi, arriva addirittura a distorcere la nostra percezione della realtà. Stare insieme a qualcuno, condividendo con lui un percorso di vita, è un’esperienza che rimodula l’esistenza e mina più di quanto siamo disposti ad accettare la nostra soggettività: Io mi sono talmente profuso nell’altro che quando esso mi viene a mancare non riesco più a riprendermi, a recuperarmi, sono perduto per sempre scriveva Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”. Ma come mi trasfondo in lui, alla stessa maniera lui si trasfonde in me, cosicché la barriera in parte illusoria dell’IO si disperde e noi ci ritroviamo ad essere un sistema aperto e confuso, due atomi che hanno intrecciato gli orbitali e ora non riescono più a distinguere di chi sia questo o quell’elettrone. Come ci spiega anche Nicole, nel pieno di uno dei suoi monologhi vagamente isterici, in cui il pensiero pare sbandare e deragliare fino a che non si posa, quasi sorpreso, su di una verità ineluttabile: “Ti rendi conto che alla fine, in una relazione, tutto è uguale a tutto”. Ovvero, non c’è più possibilità di discriminare tra momenti, attività, luoghi o emozioni, tra qualcosa che è mio o qualcosa che è tuo. Una relazione diventa un’entità a sé stante che abita due corpi assieme e che, quando finisce, ci mette di fronte alla dolorosissima prova di ri-scindere ciò che era mio da ciò era tuo, i tuoi pezzi finiti dentro di me e i miei pezzi finiti dentro di me.

Ed è proprio questa con-fusione a rendere così vivido e crudele il tema della distanza quando ci si separa. Perché distanza fisica e distanza interiore non possono coincidere e l’una deve necessariamente inseguire l’altra, in un movimento oscillatorio che avvicina e allontana e che ferisce nell’una e nell’altra direzione.

E in questa lotta per ripristinare l’equilibrio, non è facile assecondare la lentezza urticante delle spinte opposte, che ci costringe spesso a forzarne, in una direzione o nell’altra, l’evoluzione: così si può provare a “cancellare” l’altro, eliminando completamente la sua immagine esterna dalla nostra vita e diniegando a noi stessi ogni aspetto positivo del tempo trascorso insieme, per ritrovarsi a fare i conti soltanto con il lutto inconfessabile di ciò che di noi si è per sempre perduto – “Tu mi ha rovinato la vita”. Oppure si può, dall’altro versante, proteggersi dal vuoto restando eternamente agganciati, rifiutandosi di fare i conti con la separazione e preservando una relazione idealizzata e sotterranea, in cui tutto ciò che abbiamo di meglio rimane ancorato all’immagine dell’altro – “Come te, nessuno mai” – e in cui noi restiamo alla stessa maniera orfani di quanto ci sarebbe necessario per ristabilire dei solidi confini individuali.

Ma nel film questo non avviene. Perché Charlie e Nicole arrancano, annaspano, ma lottano disperatamente contro le tentazioni perverse di rifondersi o di uccidersi per sempre, e sono disposti a mettersi in croce pur di tentare di raggiungere la “distanza giusta” tanto invocata.

Se noi riscorriamo la pellicola, non potremo che notare quanto il tema ricorra in una miriade di forme: compare subito, nelle primissime scene, quando le discutibili tecniche del mediatore familiare tentano di “riavvicinare” i coniugi e riescono soltanto ad illudere noi di trovarci nel pieno di una febbrile, smielata e canonica storia di amore; ritorna nella crudele dicotomia New York-Los Angeles, antipodi d’America, e in quello spazio vuoto tra East e West Coast che Charlie percorre e ripercorre freneticamente, avvicinandosi ed allontanandosi senza mai riuscire a sentire sua, e quindi vicina, una città in cui ci si deve spostare con l’auto e non a piedi; ed ugualmente ricompare nella corsa agli armamenti legali, in cui Nicole e Charlie si prodigano per rintracciare gli avvocati più spietati nella speranza, già tradita, che la loro cavillosa ferocia potesse finalmente spezzare il vincolo che li teneva troppo vicini. Ma anche quando entrambi tentano la via del distacco e sembrano lì lì per cedere alla tentazione di cancellarsi, alla fine non riescono a mantenersi fedeli alla linea, e tornano immancabilmente a rimettere in scena le reliquie della loro storia. E sono così costretti a guardarsi con voglia, a sfiorarsi le labbra in un saluto, a indugiare su ogni smorfia significante dell’altro.

È interessante notare come non solo i frangenti drammatici, ma anche quelli volti a strapparci un sorriso attingano alla medesima fonte: pensiamo all’esaltazione improvvida della madre di Nicole che, appena saputo della separazione in atto e incurante dell’imbarazzo della figlia accanto, si getta al collo del genero al grido battagliero di “CharlieBello”; oppure agli scambi nelle prime uscite solitarie tra padre e figlio dove Henry, nella sua presunta e feroce innocenza, non fa che rimarcare a Charlie quanto la madre si stia allontanando da lui molto più di quanto egli immagini.

Queste scene ci fanno ridere proprio perché sapientemente vanno a raccogliere e lasciano riaffiorare quel filo sotterraneo che attraversa la narrazione. Emblematica in tal senso è una delle scene comiche più riuscite del film, quando Charlie disattende ogni dettame logico o razionale e decide di mostrare all’insondabile valutatrice il “gioco del taglierino” che fa tanto divertire Henry, finendo per sbagliare malamente le misure e squarciandosi il braccio di fronte a lei. Ancora una volta, l’essenza della commedia così come del dramma, è l’incapacità di tenersi alla giusta distanza.

Solo nella sottile letizia del finale, Baumbach pare volerci suggerire che all’estenuante contesa delle spinte contrapposte può esserci soluzione e che, anzi, forse è solo prestandosi a vivere in pieno e per intero la lentezza dolorosa di un gioco che “sembra” immobile, fuggendo le scorciatoie del diniego, che si può ripristinare un equilibrio tale per cui, alla fine di un amore, due persone siano in grado di riprendere realmente in mano le redini della propria esistenza. Un equilibrio che non potrà mai essere totale distacco e per cui occorrerà accettare l’impossibilità di sconnettersi completamente, perché la de-fusione è comunque un processo parziale, e ciò che è stato una volta unito porterà in eterno la memoria di quella unione: una parte dell’altro rimarrà invariabilmente intrappolata dentro di me, così come una parte di me sarà irrimediabilmente perduta nell’altro.

Eppure esiste, almeno come miraggio teorico, una distanza giusta, una misura corretta che non mette al riparo dalla sofferenza, ma che consente di proseguire in avanti la propria esistenza senza naufragare nelle memorie del passato o recidere i ponti che ad esso ci legano. Quella misura che infine Charlie e Nicole riescono a trovare e che consente loro di tornare a “toccarsi” senza sentire sgretolare il precario e rinnovato confine della loro individualità.

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo: potrebbe servire una mano (di gomma)

Un recente studio, condotto da Jalal e colleghi (2019), ha replicato in laboratorio la rubber hand illusion (illusione della mano di gomma), scegliendo come propri soggetti individui con disturbo ossessivo-compulsivo, per verificare la possibilità di utilizzare tale illusione nel trattamento del disturbo.

 

La Rubber Hand Illusion, o Illusione della Mano di Gomma, è un’illusione inducibile in maniera relativamente semplice: consiste nel porre una mano di gomma, coperta da un telo fino al polso, in corrispondenza del busto del soggetto, mentre il braccio dello stesso si trova in posizione analoga ma nascosto alla vista.

Somministrando a questo punto una stimolazione alla mano finta, ad esempio sfiorandola con un pennello, mentre alla mano vera si applica lo stesso sfioramento in maniera sincrona e nella stessa direzione, spesso, dopo qualche minuto, i soggetti riferiscono la mano finta come propria. Effetto confermato anche dagli studi di Risonanza Magnetica che hanno riscontrato un’attivazione della corteccia premotoria, area dedicata alla pianificazione del movimento, in concomitanza con l’insorgere dell’illusione; effetto invece assente nei soggetti che non risultavano suscettibili alla stessa. Manipolare la prospettiva del soggetto, fornendo al contempo dei segnali visivi e tattili congruenti a quelli vissuti in quel momento, fa sì che il nostro cervello li interpreti come subiti da noi stessi (Ehrsson, Holmes, & Passingham, 2005).

Un’interpretazione sul perché l’Illusione della Mano di Gomma sia effettivamente efficace, si basa sulla presunta ‘Logica Bayesiana’ del sistema percettivo (Armel&Ramachandran, 2003; Jalal, Krishnakumar, & Ramachandran, 2015; Ramachandran, Krause, & Case, 2011). Il sistema sensomotorio del cervello è intrinsecamente programmato per trovare correlazioni statistiche che siano la base per fare predizioni e cogliere al contempo la rappresentazione visiva del mondo esterno: nel caso dell’illusione appena descritta – la percezione degli sfioramenti del pennello presentati in maniera perfettamente sincrona a quella che al contempo si vede sulla mano posta di fronte a noi, che sappiamo essere di gomma – viene inferito che non possa essere frutto di coincidenza, inducendo la sensazione di possedere quell’arto.

Un recente studio, condotto da Jalal e colleghi (2019) ha replicato in laboratorio l’illusione della mano di gomma, scegliendo come propri soggetti individui con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). Questa condizione si presenta in una delle sue varianti con intense paure di contaminazione, che possono venire scatenate anche da contatti relativamente innocui con oggetti di uso comune; la terapia d’elezione è l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP, Meyer, 1966), che prevede, come è facile intuire, che il paziente venga esposto ad una contaminazione minima, impedendo poi che ricorra ai rituali compulsivi per estinguere l’ansia provata; l’esposizione ripetuta abbassa il livello d’ansia, generando abituazione (Abramowitz, Taylor, &McKay, 2009) e lasciando spazio a nuove strategie per gestire la situazione stressante.

Tuttavia, com’è intuibile, esporsi consapevolmente ad una situazione spiacevole non risulta sempre facile e la compliance dei pazienti a questo tipo di intervento è piuttosto bassa, il 20% abbandona la terapia (Abramowitz, 2006) e il 25% si rifiuta di iniziarne una principalmente per paura del trattamento (Maltby&Tollin, 2005). Inoltre, una delle poche alternative, costituita dall’immersione nella realtà virtuale richiede però l’ausilio di costose apparecchiature e non risulta ancora adeguatamente accessibile.

Nel 2015 Jalal e colleghi avevano utilizzato l’illusione della mano di gomma su di un campione sperimentale costituito da soggetti sani, riuscendo a provocare una reazione di disgusto simile a quella dei soggetti OCD nell’85% dei partecipanti contaminando la mano di gomma con una sostanza simile a feci.

La ricerca condotta sui pazienti con OCD ha confermato la presenza in tutti i soggetti di una forte responsività all’illusione della mano di gomma, meno un soggetto che ha valutato l’intensità dell’illusione 5 su un punteggio massimo di 20, indicando una bassa responsività. Nei soggetti assegnati alla condizione di controllo, similarmente, tutti i soggetti hanno riportato di sperimentare l’illusione, eccetto un partecipante che ha assegnato 2 su 20.

In seguito, si è proceduto ad illudere i soggetti che la loro mano venisse contaminata, misurandone la reazione di disgusto, le manifestazioni ansiose e l’urgenza di lavare le mani. Inizialmente, durante una stimolazione sincrona, le reazioni dei pazienti con OCD non differivano da quelle dei soggetti di controllo. Dopo 5 minuti di stimolazione tuttavia, sia che la stimolazione fosse sincrona o asincrona, si assisteva all’emergere di un’intensa reazione di disgusto a suggerire come vi possa essere una maggiore malleabilità nella percezione dell’immagine corporea nei pazienti con OCD, che reagivano con uguale intensità sia che la stimolazione fosse accompagnata da segnali congruenti che incongruenti.

Questo studio ha esplorato il potenziale terapeutico di uno strumento relativamente semplice da implementare nei protocolli di esposizione per i pazienti OCD, che permetterebbe di offrire un’alternativa accessibile che risulti meno avversiva della pura esposizione per quei pazienti che sono riluttanti ad intraprendere un percorso terapeutico.

Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di Oxford

Daniel Freeman, psicologo, professore e ricercatore presso la University of Oxford, ha co-fondato l’Oxford VR, un’azienda spin-off dell’Università stessa che utilizza tecnologie immersive automatizzate per la terapia allo scopo di sviluppare dei trattamenti clinicamente validati e convenienti da un punto di vista economico.

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University

 

Nell’Oxford VR sono stati realizzati diversi studi in questi anni. Uno degli ultimi studi condotti sull’uso della realtà virtuale (virtual reality, VR) a scopo terapeutico è stato pubblicato nel 2018 sulla rivista The Lancet Psychiatry e riguarda la paura di volare, o acrofobia, un disturbo d’ansia molto diffuso.

Secondo un recente sondaggio dell’Eurodap (Associazione Europea Disturbi Attacchi di Panico, 2018) 6 italiani su 10 soffrono di aerofobia. Data la frequenza di questo disturbo d’ansia, si ritiene importante poter sviluppare delle tecniche terapeutiche destinate al trattamento della “paura di volare”.

La fobia del volo può essere considerata una fobia specifica capace di determinare una paura travolgente e debilitante, sproporzionata rispetto al rischio effettivo. Tale emozione può generare sintomi tra cui nausea, aumento della sudorazione, aumento della frequenza cardiaca e tremori. La presenza di queste sgradevoli e talvolta terrificanti sensazioni emotivo-fisiologiche conducono spesso le persone ad evitare l’oggetto, fonte della fobia. Così le persone il cui timore maggiore è quello di volare, tenderanno ad evitare di volare, rinunciando a grandi opportunità lavorative, a piacevoli vacanze oppure trovandosi a svolgere queste attività prendendo altri mezzi di trasporto, riducendo indubbiamente le emissioni di CO2 , ma sacrificando al contempo il proprio tempo e disperdendo grandi quantità di risorse.

Aiutare le persone a fronteggiare la paura del volo, così come altre forme fobiche, permette loro di aumentare il proprio benessere e diviene, per questo, focus principale di setting clinici e laboratori di ricerca. Daniel Freeman, a questo proposito, ritiene che la realtà virtuale abbia il potenziale di aumentare sostanzialmente l’accesso ai migliori trattamenti psicologici, i quali possono divenire automatizzati e così accessibili a basso costo e su larga scala. Inoltre, essendo il trattamento in VR più rapido e coinvolgente di un trattamento in vivo, si ritiene che i pazienti possano mostrare una maggiore aderenza all’intervento.

Ho appena finito le mie sedute, ne ho fatte quattro in totale. La settimana scorsa, dopo la mia terza sessione, sono andato al Westgate [un negozio in centro]; la differenza nella mia capacità mentale di affrontare l’altezza è stata incredibile. In precedenza, non mi sarei mai avvicinato ai bordi, stavo quasi penzolando, guardando in verticale giù.

Nel presente studio randomizzato e controllato il professor Freeman ed i suoi collaboratori hanno prescritto a 100 persone con paura dell’altezza, reclutate tramite annunci radiofonici, una terapia in VR (n. 49) oppure il proseguo delle proprie cure abituali, generando così il gruppo di controllo (n. 51).

La terapia in realtà virtuale presupponeva la progettazione di un software automatico capace di presentare un coach avatar il cui scopo era quello di supportare il paziente all’interno del programma (sei sessioni di 30 minuti in due settimane), con compiti interattivi in un edificio virtuale di dieci piani. La presenza di uno psicologo reale è stata predisposta per motivi di sicurezza.

È stato innanzitutto somministrato un questionario di interpretazione delle altezze (Heights Interpretation Questionnaire, HIQ) e, in seguito al trattamento VR/trattamento abituale, la paura dell’altezza è stata rivalutata, ricorrendo all’utilizzo di ulteriori strumenti psicometrici, ottenendo i seguenti risultati: i pazienti assegnati al gruppo di trattamento virtuale hanno visto la propria paura dell’altezza ridursi maggiormente rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo. Gli stessi benefici sono stati mantenuti nella misurazione di followup. Lo strumento psicometrico utilizzato è un questionario composto da 16 item capace di indagare l’angoscia, l’ansia e l’evitamento delle altezze reali. Le misure secondarie sono state registrate tramite un questionario sull’acrofobia (acrophobia questionnaire, AQ), un questionario sull’evitamento (Improving Access to Psychological Therapies, IAPT phobia scale–avoidance) ed un questionario sulla sensazione di disagio provocata dal simulatore VR (Simulator Sickness Questionnaire, SSQ).

Inoltre, sono state osservate delle riduzioni nel miglioramento nell’evitamento per quanto riguarda il gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo sperimentale è stato inoltre registrato un aumento del disagio relativo alla simulazione. Si auspica che, nel tempo, le migliorie tecnologiche potranno garantire minori sensazioni sgradevoli.

È stato ritenuto al contempo che i partecipanti, selezionati tramite pubblicità radiofonica, non siano esattamente rappresentativi di una popolazione generale, in quanto potrebbero essere più ricettivi di altre persone. Nonostante questa limitazione si ritiene che ci siano tutti i presupposti per proseguire in questa direzione, implementando gli studi di laboratorio inerenti l’uso delle tecnologie digitale a livello terapeutico.

Di seguito la testimonianza di un partecipante allo studio:

Tutto quello che pensavo sarebbe stato, non lo è stato. Mi aspettavo che sarebbe stato come un gioco, che sarebbe stato qualcosa che non avrebbe risvegliato i miei sensi. Mi sono ritrovato anche dopo il terzo piano, quarto piano, ad andare in piedi, nervoso, ansioso per quello che sta per succedere al prossimo scalino. Ha decisamente spinto i limiti (…) e poi mi sono fatto superare. Ora che è fatta, dopo la mia quarta seduta, devo dire che mi sento meglio per questo. Ho già sperimentato nelle settimane per vedere come sarebbe in un ambiente di vita reale (…). Penso che il mio timore delle altezze ora sia sicuramente molto meglio di prima.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

Contatti per informazioni: [email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

L’autodifesa degli operatori sanitari

Capita sempre più frequentemente che gli operatori sanitari siano vittime di comportamenti aggressivi, così si stanno diffondendo tecniche di prevenzione e protezione. Ma come siamo passati dal prendersi carico a imparare tattiche e tecniche di combattimento per difendersi dal paziente e dai parenti?

 

La relazione paziente-curante è stata dai tempi di Esculapio in poi sempre al centro dell’operare dei professionisti della salute. Negli ultimi tempi, se da una parte chi si occupa di bioetica ripete che la relazione di cura va rimessa al centro del rapporto medico paziente, dall’altra sempre più frequentemente sono denunciati comportamenti aggressivi che riguardano operatori sanitari, pazienti e famigliari di questi ultimi. Le statistiche ci dicono che i pazienti più aggressivi sono affetti da malattie neurologiche (demenze, Alzheimer, ecc.), dipendenza da sostanze psicotrope e, con più bassa percentuale, da disturbi psichiatrici.

Il Ministero della Salute e le Regioni hanno emanato, ognuno per le proprie competenze, una serie di norme per monitorare questi fenomeni e sono attivi nelle Aziende Sanitarie Locali servizi preposti alla prevenzione e protezione cui vanno segnalati eventi sentinella e avversi.

Per prevenire è necessario predisporre misure di natura strutturale, organizzativa e tecnologica atte a evitare che possano accadere i fenomeni, mentre le misure di protezione hanno l’obiettivo di non permettere che, una volta verificatisi, le conseguenze siano eccessivamente lesive dell’integrità fisica e psichica dell’offeso.

Vorrei far notare che già nello scrivere queste poche righe sembra di descrivere un contesto che assomiglia più a un campo di battaglia che a un ambiente dove ci si dovrebbe prendere cura della salute di una persona. Ormai si parla di medicina difensiva e i termini che sono utilizzati sono significanti di un sistema curante che si va sempre più connotando come terreno d’interessi contrapposti e confliggenti.

Inutile parlare della persona al centro dei processi di cura se le istituzioni preposte non riescono a rendere effettivi i diritti che le leggi garantiscono. Il sistema di concorrenza amministrata previsto dalla normativa vigente sta restringendo l’intervento pubblico ed espandendo il privato accreditato e convenzionato.

Le cause che rendono sempre più complesso garantire il Welfare State sono molte e sarebbe lungo, controverso e poco interessante inoltrarsi in questa riflessione in considerazione dell’enorme letteratura sul tema già presente.

Più interessante è soffermarsi, invece, sul paradosso cui stiamo assistendo per svelarlo e smascherarlo.

Lavorando nel Sistema Sanitario Nazionale ho partecipato di recente a un corso di formazione sui comportamenti aggressivi. Oltre all’illustrazione dei numerosissimi moduli che devono essere riempiti per rispettare gli adempimenti di legge e alle modalità di de-escalation e tranquillizzazione rapida (TR) sono state illustrate delle tattiche e tecniche di autodifesa da un maestro di Arti Marziali Miste (MMA). Non so se a qualcuno è capitato di vedere qualche volta in Tv quei combattimenti che si svolgono dentro una gabbia senza esclusione di colpi, sì proprio quelle tecniche.

Naturalmente i formatori ci hanno avvisato che preliminarmente occorre mettere in atto tecniche di de-escalation e la risposta deve essere proporzionata all’offesa, quindi colpi che possono interrompere il ciclo vitale devono essere sferrati solo se l’operatore è alla presenza di una minaccia di vita, ma nonostante ciò sono uscito stordito, come se effettivamente avessi ricevuto uno di quei colpi.

Come siamo arrivati a questo punto? Come siamo passati dal prendersi carico del paziente – e mi viene in mente quella bella immagine di Enea che si carica sulle spalle Anchise – a imparare tattiche e tecniche di combattimento per difendersi dal paziente e dai parenti?

L’odio diffuso, la violenza della nostra società, la rabbia di chi vive frustrazioni continue per la mancanza di risposte ai propri bisogni, la necessità di difendere i propri diritti che vanno perdendo garanzie e tutele, aspettative sempre più alte, l’illusione di saperne di più rispetto a chi ha una expertise maturata in lunghi anni di studi e di attività sul campo, l’impossibilità di rispondere da parte delle istituzioni per la scarsità delle risorse a disposizione.

Forse tutte queste e altre ancora, ma, qualunque siano le ragioni, è necessario riflettere su quello che sta accadendo per far sì che si possa uscire dalla “gabbia” e tornare a curare senza la necessità di andare in palestra per apprendere tecniche di autodifesa, e per questo è necessario ristabilire un patto tra stato e cittadini basato su ciò che è fattibile e realizzabile senza indulgere a false illusioni o effimere promesse con l’obbligo di entrambe le parti di rispettare ciò che si è pattuito.

Non è solo così che si può risolvere il problema che presenta una complessità tale da richiedere interventi in più direzioni, ma sarebbe già questo un primo passo per evitare che si scaglino colpi proibiti dall’una e dall’altra parte in quei presidi sanitari che restano luoghi di cura e non di combattimento.

 

Tu chiamale se vuoi emozioni

L’intelligenza artificiale (IA) vuole imparare a provare emozioni e a comprendere quelle degli esseri umani. Questione di empatia?

 

Gli algoritmi della IA hanno ‘dato vita’ a soggetti famosi. Il dipinto della Monna Lisa – o, meglio, una sua fotografia – si è tramutata anche in video in cui ella parla, muove la testa e gli occhi. Durante la fase di training, gli sviluppatori hanno ‘nutrito’ il relativo algoritmo di apprendimento attraverso migliaia di immagini/dati insegnandogli come isolare e distinguere alcuni movimenti del volto, compresi quelli degli occhi, della bocca e delle sopracciglia. In questo modo l’IA ha capito che a determinate azioni – per esempio, parlare – si accompagnano certi altri movimenti del viso – come l’apertura e la chiusura delle labbra. L’immagine statica – foto, dipinti – si anima, dunque. Evviva!

Stessa sorte – anzi animazione – per Marilyn Monroe e Salvador Dalί. Anche Albert Einstein non è stato risparmiato. Che scherzo del destino il suo: proprio lui che affermava che la creatività è l’intelligenza che si diverte. Ma perché? l’intelligenza artificiale è forse capace di divertirsi? Si emoziona, crea, si diverte… sembra che a breve tutto le sarà possibile nel campo della deep fake, e quindi anche questo. E’ già in grado di essere creativa; basta intendersi, però, su cosa si intenda per creatività… L’arte contemporanea si intreccia e si fonde progressivamente con la scienza e le tecnologie, si ibrida con esse creando nuove sinergie. Ed ecco entrare ‘in mostra’ forme di new media art quali la Net Art, la Digital Art, la Bioarte, l’Arte transgenica.

Realtà virtuale e aumentata quindi.

E’ stato il turno degli ologrammi di Michael Jackson, della Callas e la lista è lunga e nota. Tra i più recenti, la versione olografica di Gianna Nannini che canta.

E’ amore per la ricerca, per la sfida, puro divertissement, è voglia di nuovo e di superare il limite, è democratizzare e divulgare il sapere o un nuovo modo di fare cultura? O, anche, sottostanti attori tramano cattive intenzioni? Forse un po’ di tutto questo, ma anche molto altro.

L’algoritmo in sé non è né buono né cattivo; il suo comportamento dipende sia dal fatto che il cibo che gli si somministra sia di buona qualità, sia per quali scopi lo si voglia utilizzare. Le sue finalità possono essere pubblicitarie, economiche, criminali, destabilizzanti, terroristiche, innocue, utili per il progresso e il miglioramento della qualità della vita degli esseri – dagli umani alla vegetazione, e così via.

Si pensi alle possibili emozioni sottostanti all’arrossire. Questo è un esempio utile per comprendere l’importanza delle emozioni in economia (Frank, 1987). In un contesto di informazione asimmetrica – dove un soggetto possiede maggiori informazioni della controparte circa la propria onestà, generosità, la qualità delle commodities che intende vendergli, e così via, le emozioni assumono un importante valore segnaletico (signalling). In qualche modo possono essere ‘gestite’ ad hoc per inviare un segnale alla controparte che ha minori informazioni sull’altro (Frank, 1987). Un ad hochismo questo che permette di stipulare contratti e scambi, che altrimenti non potrebbero essere realizzati in assenza di sufficienti informazioni. In un sistema economico, quindi, le emozioni diventano un succedaneo delle informazioni e permettono, di conseguenza, di superare un market failure e di raggiungere un miglioramento paretiano (Frank, 1987).

Tuttavia, non mancano i rischi e i pericoli. Secondo il sito web d’attualità statunitense Mashable, le conseguenze del filone di ricerca volto a realizzare algoritmi ‘emotivi’ possono essere pericolosissime. Non solo le persone o i dipinti più celebri diventano oggetto di deep fake, ma il rischio riguarda potenzialmente tutti, anche in considerazione di come stiano diventando potenti e, allo stesso tempo, facili da ottenere tali apparecchiature.

C’è di più: l’errore umano può generare quello artificiale, e viceversa. Mai riporre una fiducia incontrastata, dunque!

E proprio la lettura delle emozioni attraverso l’uso della IA e le conseguenze che possono trarsi da tale lettura sono parecchio allarmanti. Ci sono due Case che tentano di insegnare all’intelligenza artificiale il mondo delle emozioni umane, l’Affectiva e l’Empath, rispettivamente statunitense e giapponese.

Il database di emozioni di Affectiva ha raggiunto quasi 6 milioni di visi, analizzati in 75 paesi; più precisamente, ha raccolto oltre 5 milioni di video facciali, corrispondenti a 40 mila ore di flussi di dati. Si tratta del database più grande del mondo che rappresenta le spontanee reazioni emotive di persone in contesti autentici – ‘in the wild’, secondo la terminologia di Affectiva (casa, ufficio, ecc.). Le persone vengono riprese mentre sono impegnate in qualche attività, soprattutto quando stanno guidando o guardando film, show televisivi, campagne pubblicitarie virali online, ecc. Il meta-obiettivo di questa attività è ovvio: usare le espressioni umane ‘nature’ per addestrare l’IA a interpretare cosa provano le persone. Il sorriso significa felicità, le labbra in giù segnalano tristezza, gli occhi socchiusi la rabbia, e così via. Tale approccio sembra costituire, tuttavia, una semplificazione enorme, oltre che pericolosissima: ad esempio, un sorriso può essere solo affettazione o cortesia; nulla a che fare con la gioia; gli occhi socchiusi possono essere sonnolenza o relax, l’esatto contrario della rabbia. L’obiettivo finale dell’attività dello studio delle emozioni della IA è altrettanto ovvio: migliorare le interazioni uomo-macchina. L’idea è che se il robot comprende ciò che prova la persona che ha accanto, può offrirle un servizio migliore. Tipico esempio è quello della guida: capire le condizioni del conducente, se è stanco, se ha sonno, se è arrabbiato. Tutte situazioni di pericolo mentre è alla guida di un veicolo. Tale ‘segnaletica emotiva’ è importante specialmente per le vetture che guidano da sole, sempre più robuste, piene di airbag, radar, sensori, telecamere. Auto sempre più sicure, sì certo,… ma soprattutto per chi è a bordo: né per ciclisti, né per pedoni.

I pericoli sono sottolineati anche da un importante studio del 2019 condotto da un team prevalentemente di psicologi: nello studio si nota come un punto di vista molto diffuso sia che lo stato emotivo di un individuo può essere inferito dai suoi movimenti facciali, chiamati espressioni emotive o espressioni facciali (in modo inquietante si coglie una certa analogia con gli argomenti à la Lombroso): la convinzione circa la capacità predittiva dell’algoritmo che coglie le emozioni umane ha ricadute in settori delicatissimi come quello della giustizia, i protocolli per la sicurezza nazionale, le decisioni politiche, i settori dell’istruzione e della sanità (anche per la diagnosi e il trattamento dei disturbi psichiatrici), gli scambi commerciali, e così via.

Lo studio testa la validità del senso comune che attribuisce specifiche relazioni tra espressioni facciali ed emozioni. Fra queste, lo studio considera le sei principali: gioia, rabbia, tristezza, timore, disgusto, sorpresa.

Sebbene l’evidenza scientifica supporti il senso comune (se una persona sorride vuol dire che è felice), tuttavia – si osserva nello studio – il modo attraverso cui le persone comunicano tali emozioni variano in funzione di fattori culturali e situazionali. E anche fra le persone che esperiscono la medesima circostanza, il tipo di emozione che provano può essere diverso: essendo le persone diverse, la medesima circostanza può suscitare un’emozione diversa. Le emozioni, come le preferenze, sono qualcosa di estremamente soggettivo, e poi possono sfumarsi in tante nuance intermedie con confini porosi: ‘mixed feeling’ appunto. Quindi, il rapporto fra stato emotivo ed espressione facciale non ha una correlazione 1:1, poiché una certa configurazione facciale può essere il risultato di un misto di emozioni e uno stato emotivo, quale l’essere accigliati, non necessariamente significa rabbia, bensì può sottendere concentrazione o riflessione.

Scendendo più in profondità, uno dei coautori – Lisa Feldman Barrett, docente di Psicologia alla Northeastern University di Boston – osserva che i nostri sentimenti non sono solo un sopracciglio che si alza, una lacrima che scende o un sorriso che viene dispensato. Le emozioni non sono solo nel viso, esso è solo la facciata (appunto!), quella che si vede quale effetto finale di una cascata di cambiamenti interiori. Insomma: analizzare solo gli occhi, o solo gli occhi e la bocca, o solo gli occhi, la bocca e il battito del cuore non sarebbe sufficiente per comprendere veramente un individuo.

Le emozioni degli esseri viventi, e soprattutto le emozioni degli esseri umani, sono qualcosa di estremamente sofisticato. E’ un complesso poliedrico, ricco di sfaccettature, dai contorni non sempre distinti, evanescenti, è ricco di sfumature e di nuance, si contraddice, evolve, si contestualizza. Nell’ambito del capitale umano, il complesso delle emozioni è un patrimonio inestimabile, che a volte può tracciare persino il corso della nostra esistenza.

Può l’intelligenza artificiale cogliere tutto questo? Ma su, siamo seri!

Primi appuntamenti e bugie bianche: la volontà di apparire attraenti contro il desiderio di onestà

Una ricerca pubblicata di recente su Journal of Experimental Social Psychology indaga la tendenza degli individui a mentire durante i primi appuntamenti per aumentare la propria desiderabilità agli occhi del potenziale partner (Birnbaum, Iluz, & Reis, 2020).

 

Il sistema comportamentale degli esseri umani, volto alla ricerca di un partner sessuale, si è evoluto nel corso dei secoli per facilitare la riproduzione della specie (Birnbaum, Ein-Dor, Reis, & Segal, 2014). Le prime presentazioni e i primi appuntamenti, tuttavia, possono causare ancora una notevole tensione nelle persone, richiedendo particolari strategie volte a placare la sensazione di ansia e ad aumentare la loro desiderabilità agli occhi dell’altro (Ellison, Heino, & Gibbs, 2006).

Da un lato, vorremmo tutti essere in grado di presentarci per come siamo nella realtà, senza nascondere i nostri pregi e i nostri difetti, nella speranza di trovare qualcuno che sia davvero compatibile con noi (Swann, De La Ronde, &Hixon, 1994); dall’altro, abbiamo comunque la tentazione di renderci più attraenti agli occhi dell’altro, talvolta rischiando di mentire riguardo alle principali caratteristiche del nostro carattere (es. Hancock & Toma, 2009).

Il presente studio indaga la tendenza delle persone a mentire per apparire più apprezzabili agli occhi degli altri, ipotizzando che sia l’innesco sessuale a far sì che questo accada: infatti, sebbene diversi studi abbiano dimostrato che l’attivazione del sistema sessuale incoraggi le persone a mentire per aumentare la propria desiderabilità agli occhi del potenziale partner, non vi sono ancora dati rilevanti riguardo al modo in cui questa attivazione influisca sull’equilibrio tra il desiderio di essere onesti e quello di impressionare l’altro (Birnbaum et al., 2020).

I 120 partecipanti, tutti studenti universitari eterosessuali, riferivano di non essere coinvolti in relazioni romantiche all’inizio della ricerca. I soggetti sono stati divisi in un gruppo sperimentale (nel quale gli incontri previsti erano con il sesso opposto) e in un gruppo di controllo, nel quale non era presente un innesco sessuale (gli incontri erano tra persone dello stesso sesso).

Per indagare le circostanze psicologiche che avrebbero potuto amplificare la tendenza a creare un’immagine migliore agli occhi del partner, sono stati portati avanti 4 differenti studi: nel primo, i partecipanti venivano invitati a dare una propria opinione agli esaminatori riguardo a un determinato argomento e, una volta individuato un ipotetico partner (fino ad allora sconosciuto) con opinione contrastante, si andava a valutare quanti dicessero la verità riguardo ai diversi punti di vista; nel secondo, si esaminava la tendenza a cambiare opinione per compiacere il partner; nel terzo e nel quarto veniva chiesto ai partecipanti quanti partner sessuali precedenti avessero avuto e, in seguito, si andava a valutare se mentissero al partner su questo argomento (Birnbaum et al., 2020).

Il primo studio ha mostrato che, rispetto ai soggetti di controllo, il gruppo sperimentale aveva espresso più volte di essere d’accordo con un’opinione contraria sostenuta dal potenziale partner. Il secondo studio ha evidenziato come l’innesco sessuale abbia portato i partecipanti a uniformare le proprie preferenze con quelle del partner. Infine, il terzo e il quarto studio hanno rivelato che, in presenza un innesco sessuale, i partecipanti mentivano più spesso sul numero di partner precedenti che avevano avuto rispetto al gruppo di controllo.

In linea con i precedenti studi, nella ricerca qui riportata si conferma nuovamente come la presenza di un innesco sessuale possa portare un individuo a mentire all’altro per apparire più attraente e più compiacente rispetto a quello che sarebbe se, dal primo momento, si mostrasse totalmente sincero (Birnbaum et al., 2020).

Joan Mirò e la sua tragicità espressiva

Il legame tra creatività e tendenza ai disturbi affettivi è stato ampiamente accettato (Post, 1994). Moltissimi studi hanno dimostrato che le persone che si dedicano all’arte soffrono di tassi elevati di disturbi dell’umore, in particolare depressione e depressione maggiore, circa 10-30 volte di più rispetto alla popolazione generale (Angier, 1993).

 

Viene proposta una relazione specifica tra creatività e disturbo maniaco-depressivo (bipolare) con un’eziologia da ritrovare nei legami genetici e nei rischi professionali come l’esposizione a sostanze potenzialmente tossiche (Schildkraut et al., 1994).

Nei periodi di creatività più intensa si può trovare nella maggior parte dei casi una sintomatologia ciclotimica. I periodi di mania o depressione sono interrotti da lunghi periodi di equilibrio.

Si evidenzia una rapidità di pensiero, euforia e grande energia, che vengono espressi all’interno della cosiddetta ‘creatività maniacale’.

In questo scenario molto comune si riscontrano emergenze sintomatiche come il rischio suicidario, esacerbato dall’utilizzo di sostanze come alcol e droghe che aumentano lo stato emotivo.

Un artista che è inserito in questo contesto è Joan Mirò assieme a moltissimi altri come Pollock, Van Gogh, Munch, tutti artisti con una vita particolarmente drammatica che cercano una via di salvezza nei loro dipinti.

Joan Mirò comincia a seguire lezioni di disegno a 7 anni, in una scuola privata a Barcellona. All’età di 14 anni si iscrive all’Accademia delle Belle Arti, dove aveva studiato anche Picasso, sebbene il padre sia contrario. Costretto poi dal padre a iniziare una carriera nel mondo degli affari, non si sente tagliato per quel tipo di ambiente e comincia ad ammalarsi di depressione (Rose, 1982).

La malattia di Mirò è funzionale e ha un vantaggio secondario: permette a lui di persuadere suo padre a lasciargli abbandonare gli studi commerciali che aveva intrapreso. Così torna a Barcellona, decide di ricominciare la carriera da artista e studia all’Accademia delle Arti fino al 1915 (Rose, 1982). Il primo episodio depressivo avviene nel 1911 all’età di 18 anni, dalle sue parole si comprende che inizia a dipingere per fuggire dalla sua grande malinconia. Il suo temperamento risulta introspettivo, silenzioso e timido, diverso da molti dei suoi colleghi. Nel 1924 si avvicina al movimento surrealista, all’interno del quale viene abbandonata la prospettiva convenzionale. L’emblematico dipinto che ne rappresenta le regole si può scorgere nella sua opera Il Carnevale di Arlecchino (Fig. 1).

Joan Miro tragicita espressiva tra creativita e disturbi dell umore Arlecchino

Fig. 1 Il Carnevale di Arlecchino, Joan Mirò, 1924-1925.

L’artista non rappresenta più come nel precedente La Fattoria, che verrà approfondito in seguito, la realtà visibile, ma quella del suo inconscio. Nel quadro specifico di Arlecchino, la rappresentazione è di un personaggio teatrale con un costume a scacchi che suona la chitarra, presenta caratteristiche tradizionali come baffi, cappello da ammiraglio e pipa. Arlecchino appare triste, nonostante la scena gioiosa intuibile dal contesto di festeggiamento intorno a lui: si canta, si suona e si balla (Schildkraut & Hirshfeld, 1996). È presente la raffigurazione di una scala, antropomorfa, con un orecchio e un occhio.

Mirò si percepisce in senso molto tragico, ciò fa riferimento all’isolamento della sua giovinezza e si può riscontrare nella figura di Arlecchino che è triste e circondata dalla frenesia tutt’intorno. Ha un buco sull’addome e un’asta affilata che perfora un lato della sua testa: probabilmente questi elementi si riferiscono allo stato di denutrizione in cui si trovava e allo stato mentale del pittore in quell’esatto momento. Dipinge una serie di quadri che prendono il nome di Dipinti di sogno che sono stati creati in uno stato allucinatorio indotto da denutrizione e sovraccarico lavorativo. Mirò ha poche risorse finanziarie in quel momento ed è spesso affamato. Le allucinazioni causate dalla fame lo portano a vivere stati di trance provocando immagini surreali allucinatorie (Rowell, 1986).

La disperazione in cui il pittore verte si ritrova bene nelle sue parole, in riferimento proprio all’elemento della scala in questo dipinto: la scala come simbolo per fuggire dal disgusto della vita.

L’oggetto della scala si ritrova in moltissimi suoi dipinti come elemento di evasione, di volo, ma anche di elevazione. Significativo in questo senso il dipinto La fattoria (Fig. 2) (Rose, 1982). L’elemento della scala in tale quadro diverrà un prototipo per i suoi lavori successivi. La scala risale dalla solida terra per rappresentare poi una via di fuga verso il cielo: simbolica comunicazione tra il tangibile e l’intagibile (Penrose, 1985).

Joan Miro tragicita espressiva tra creativita e disturbi dell umore la fattoria

Fig. 2 La fattoria, Joan Mirò, 1921-1922.

Mirò, come altri artisti, utilizza spesso l’automatismo psichico basato sulle libere associazioni per produrre psicologicamente e spiritualmente un’arte significativa. Come detto prima, c’è un’alta prevalenza di disturbi dell’umore e di abuso di alcool nell’arte, il che solleva la questione di una possibile relazione tra spiritualità, arte e depressione (Schildkraut, Hirshfeld & Murphy, 1994).

In molti dipinti di Mirò i colori utilizzati sono moderati e tristi, egli racconta la forte rabbia tramite personaggi esteticamente brutti che sembrano averlo liberato dai suoi incubi.

Mirò sublima la sua rabbia e frustrazione relative alla brutalità del mondo, dipingendole e chiamando questo ciclo di dipinti Disegni selvaggi, ispirati ai suoi pensieri sulla morte.

La diagnosi di questo artista riguarda sicuramente lo spettro depressivo (depressione, ipertimia, ciclotimia). Sebbene sia evidente che fece esperienza in maniera ciclica di alterazioni dell’umore non si può definire come un vero e proprio bipolare (Schildkraut, Hirshfeld & Murphy, 1994).

Nonostante il suo tragico temperamento, le sue lotte e le sue fluttuazioni dell’umore, Joan Mirò, attraverso la sua arte ha affrontato i paradossi della sua natura, che rimasero radicati a lui e morirono con lui all’età di 90 anni. Il suo segreto, come lui stesso dice, ricordando un detto popolare: è essenziale avere i piedi piantati bene sul terreno per poter volare sempre più in alto (Penrose, 1985).

 

L’Intelligenza Artificiale: il nuovo teatro di guerra del terrorismo

Sembra che ciascun progresso realizzato dall’IA con finalità positive proceda di pari passo con un suo uso distorto. In tal senso, l’IA è decisamente dual use: è in grado di effettuare un enorme volume di operazioni complesse in pochissimo tempo e il suo uso – positivo o negativo – dipende esclusivamente da chi lo programma. Quali strumenti dell’IA sono al servizio del terrorismo?

 

Verso la nebulosa di un futuro incerto, non si conoscono le successive evoluzioni dell’integralismo islamico, ora che l’Isis è stato privato dei vertici. È plausibile che, per la sua enorme flessibilità, diffusione, mimetismo e poliformismo, il terrorismo emergerà secondo nuove modalità e potrà contare su lupi solitari, foreign fighter di ritorno, hater, soggetti mentalmente instabili e perfino su adolescenti e bambini, piccole creature inconsapevoli e inermi (Fiocca, 2019a).

Una cosa tuttavia è certa, la guerresca contrapposizione all’alterità continuerà a vivere e a librarsi nel cyberspazio senza alcuna barriera geografica, sociale e cognitiva della sfida.

Un importante studio (Brundage, M. et al., 2018) condotto da un team di 26 accademici e ricercatori e 14 istituzioni, fra cui le Università di Oxford, Cambridge e Stanford scandaglia l’uso malevolo dell’intelligenza artificiale (il cui acronimo è Muai – Malicious use of artificial intelligence). Il segnale forte che lo studio ci rimanda è che ciascun progresso realizzato dall’IA con finalità positive procede di pari passo con un suo uso distorto. In tal senso, l’IA è decisamente dual use: è in grado di effettuare un enorme volume di operazioni complesse in pochissimo tempo e il suo uso – positivo o negativo – dipende esclusivamente da chi lo programma. In prospettiva – prevede il Rapporto – l’IA è destinata a diffondersi (i) per numero di attori capaci di ricorrervi per effettuare attacchi, (ii) per maggiore frequenza di questi ultimi, (iii) per numero di obiettivi che plausibilmente verranno presi di mira. La prospettiva è quindi una IA maligna sempre più intrusiva, pervasiva, combattiva.

Oggetto del presente contributo è una breve rassegna degli strumenti principali di intelligenza artificiale (IA) che gruppi terroristi e ribelli hanno a disposizione e di cui si servono per smuovere – in una escalation psicologica – l’emotività internazionale e per creare un clima di incertezza, imprevedibilità e panico.

La paura viene amplificata dai media – da quelli più tradizionali fino alle info-tecnologie –, che puntano sulla novità e sulla spettacolarità. Se il terrorismo impiega la paura come arma, i mezzi di informazione ne moltiplicano l’efficacia.

In un contesto di asimmetria informativa, i terroristi sanno quali saranno i successivi bersagli, le popolazioni possono solo augurarsi di non essere i prossimi. E in tale clima di incertezza e paura, le loro menti, i loro comportamenti, le abitudini, gli stili di vita, le modalità interazionali e le preferenze tendono a mutare. Il terrorismo, infatti – con il suo senso di incombenza, serialità, diffusione delle sue azioni, nella sua “impalpabilità”, con il suo andamento carsico e con il salto di qualità tecnologica – tende a rimodellare, sul piano individuale, il sistema delle preferenze degli agenti. In condizioni di incertezza, quando la probabilità del verificarsi di un certo evento è sconosciuta (incertezza asimmetrica), la strategia dell’“erraticità simulata” ha una elevatissima produttività (rapporto tra output ottenuto e input impiegato) ed è ulteriormente accresciuta dall’impatto psicologico dell’“effetto sorpresa” (Fiocca, 2019b).

Destabilizzazione e nuove minacce alla sicurezza psicologica internazionale (Ips – International psychological security) attualmente sono il risultato del grande armamentario che il cyber-terrorismo ha a disposizione. Esso si colloca sotto il grande cappello del Muai. Le tecnologie artificiali del “terrore” costituiscono ormai parte strutturale della IA globale – essendone una dei suoi lati oscuri – e godono di una significativa produttività.

Tali strumenti progrediscono rapidamente sviluppando una guerra di “terrore all’interno del terrore”. Sull’altro versante – quello dell’avversario – la strategia centrale per la difesa e prevenzione si fonda su policy volte alla “cultura della sicurezza”. Quest’ultima è poliedrica, poiché l’arena coinvolge numerosi attori, àmbiti, conoscenze, aree geografiche, risorse (economiche e non). Inoltre, essa è funzionale alle cause promosse dai terroristi e dai ribelli (Fiocca e Montedoro, 2006; Fiocca et al., 2016). Sul piano delle tecnologie artificiali, la sicurezza si concentra sull’architettura di un’intelligenza artificiale volta a neutralizzare e a inibire la resilienza dell’IA di cui si è dotata il terrorismo.

L’IA può essere usata per automatizzare gli attacchi terroristici, ad esempio mediante l’utilizzo di droni (aeromobili a pilotaggio remoto, noti con diversi acronimi quali RPA-Remotely piloted aircraft, UAV-Unmanned aerial vehicle, RPV-Remotely piloted vehicle, ROA-Remotely operated aircraft o UVS- Unmanned vehicle system) o lo sviluppo di apposite armi intelligenti. I droni hanno raggiunto un elevato livello qualitativo e caratteristiche tali da poter essere impiegati in innumerevoli scenari operativi. Un esempio recente per tutti di questo tipo di IA è l’attacco con droni nello scorso settembre rivendicato dai ribelli houthi dello Yemen contro due installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita, le più grandi del mondo.

Ne consegue che l’uso maligno della IA può servire a mettere fuori gioco infrastrutture strategiche – reali e finanziarie – in ogni area del mondo. Può minare a livello sistemico snodi cruciali.

Oltre ai droni, ci limitiamo a citare alcuni dei nuovi strumenti maligni della IA in mano al terrorismo: “deepfake”, “fake people”, “fake face”, chat-bot in grado di viralizzare fake news o di crearne di nuove in modo sempre meno riconoscibili, il TikTok, la propaganda.

La “deepfake” consiste nella sostituzione di volto, mimetica, voce di una persona all’interno di un video neurale già esistente e sovrapponendo ad esso un altro del tutto nuovo, utilizzando la tecnica di apprendimento automatico non supervisionato denominata rete antagonista generativa (generative adversarial network – GAN). La sovrapposizione dei video neurali genera un framework capace di rappresentare uno o più individui che parlano di fatti e/o realizzano atti in realtà mai verificatisi (Fiocca, 2019b). Sembra una deliziosa madeleine che i terroristi possono gustare!

I “fake people” alludono a persone non realmente esistenti, ma che possono essere i protagonisti di finti video, riguardanti ad esempio proteste, guerriglie, attacchi allo scopo di influenzare la percezione del mondo reale, creando panico, pregiudizi, odio (Bazarkina, 2019). Insomma, il brodo di coltura del terrorismo!

Le “fake face” si fondano sull’algoritmo StyleGAN che prevede due sistemi artificiali in concorrenza fra loro: un “generatore” e un “discriminatore”. Il primo cerca di creare immagini artificiali difficilmente distinguibili da foto vere; il secondo riceve sia immagini modificate sia fotografie originali e tenta di distinguere le une dalle altre. I data scientist hanno constatato che il generatore è ormai diventato talmente smart che lo stesso discriminatore non è più sempre in grado di distinguere le foto vere da quelle modificate.

Il risultato dell’algoritmo StyleGAN è la creazione di fotografie sintetiche, e dunque false, di persone che non esistono. Che grande opportunità, anche questa, per il terrorismo e la guerriglia!

Le fake news hanno contribuito enormemente ad alimentare una rabbia e una collera montate nel corso di molti anni. A far gioco per l’estremismo islamico è che le news false si propagano molto di più e molto più velocemente di quelle vere (Vosoughi e Aral, 2018). Gli autori hanno misurato la probabilità con cui un tweet riusciva a creare una “cascata” di retweet, cioè di nuovi rilanci. Un’informazione falsa ha il 70 per cento di probabilità in più di essere ripresa e rilanciata rispetto a una vera. La conseguenza è che la verità raramente raggiunge più di 1000 persone, mentre l’1 per cento delle falsità di maggiore “successo” raggiunge in media un numero di utenti che va da 1000 fino a 100.000. Anche il contenuto emotivo è risultato importante per determinare la fortuna di un tweet. Le notizie false più rilanciate sono quelle che ispirano paura, disgusto e sorpresa, mentre le notizie vere suscitano più curiosità, tristezza, gioia e fiducia.

Sul sito ufficiale, “Make Your Day – Real People. Real Videos”, con oltre 800 milioni di utenti nel mondo e un miliardo di video visti ogni giorno, TikTok viene definita la piattaforma leader al mondo riguardo ai video brevi. TikTok permette a ognuno di sfogare le proprie capacità creative usando direttamente il proprio smartphone e si impegna a costruire una comunità che incoraggi gli utenti a condividere le loro passioni e a esprimersi creativamente attraverso i loro video.

Ma è veramente cosi?

Costruito in Cina (Douyin, è il suo nome in cinese), oggi – nell’ondivagare dei giovani nel loro indefesso searching sui social – è assurto tra i social più amati (il 30% dei suoi utenti ha meno di 18 anni). Ha tuttavia un problema di privacy: la Federal Trade Commission le ha inflitto una multa di ben 5,7 milioni di dollari per non aver rispettato il COPPA (Children’s Online Privacy Protection Act), che prevede il consenso dei genitori per il trattamento dei dati dei minori di 13 anni.

E’ il social più amato dai giovani in quanto eccezionalmente interattivo e divertente? Perché lancia sfide originali e buffe tra gli utenti? E il suo principale problema si limita a quello della privacy? Ahimè, niente di tutto ciò…

Proprio perché particolarmente popolare tra gli adolescenti, viene sfruttato dai terroristi come piattaforma di propaganda. A denunciare il fenomeno è stata la stessa ByteDance, la compagnia proprietaria della piattaforma. Attraverso la piattaforma, i miliziani sono riusciti a trasmettere video con persone inneggianti al terrorismo, ma anche immagini di ragazzi affascinanti, cuori, cavalli in corsa e cadaveri. Un artato mix, nel tentativo di mimetizzarsi sì, … ma, volutamente, neppure troppo…

Prima di essere rimossi, alcuni di questi account sono riusciti a raggiungere tuttavia circa un migliaio di follower.

Secondo alcuni esperti, l’accattivante modalità per propagare l’ideologia del terrorismo permette di viralizzare i messaggi scolpendoli nella memoria collettiva. Questa modalità comunicativa risulta di gran lunga più incisiva degli stessi sermoni o dei trattati teologici. Tutto diventa coinvolgente per i giovani: dalla rima e dal ritmo ai testi e ai messaggi evocativi.

Questi argomenti rinviano a un’altra arma info-tecnologica: la cyber-propaganda terroristica e dei guerriglieri. La geometria IA-big data-profilazione-georeferenziazione permette ai terroristi/miliziani di gruppi ribelli di individuare specifiche categorie di utenti particolarmente vulnerabili e suggestionabili alla manipolazione della propaganda. Tale geometria può ulteriormente avvalersi dall’applicazione del principio della “frequenza efficace”. Questa è il numero medio di volte in cui i soggetti appartenenti al target group (nel presente caso i destinatari profilati per la propaganda alla lotta) devono essere esposti a un messaggio o contattati nel corso di una campagna di fidelizzazione affinché diano una specifica risposta. Verosimilmente, c’è una relazione inversa tra manipolabilità e numero di contatti necessari per indurre un soggetto a unirsi alla lotta. Il contenuto dei messaggi che i gruppi terroristici diffondono sulla base dei dati, delle profilazioni e georeferenziazioni ottenute, è prodotto tramite robot speciali e diventa automatico nel tempo. Attraverso queste sofisticate tecniche di elaborazione dei big data, l’estrazione delle informazioni consente ai gruppi terroristi/ribelli di battere in una certa direzione, di insistere in un determinato momento e far prevalere il materiale di propaganda terroristica su altri messaggi propagandistici e pubblicitari (Bazarkina, 2019).

La propaganda terroristica include anche materiale di aggiornamento specializzato in tecnologia dell’informazione, comunicazione e sicurezza. Fa parte di tale documentazione la rivista Kybernetiq, per i data scientist che volessero ingrossare le fila della “guerra santa cibernetica”, in una chiave altrettanto innovativa e sofisticata del “cyberpunk” (Martino, 2016 e Bazarkina, 2019). Il “cyberpunk” tratta appunto di scienze avanzate, quali l’information technology e la cibernetica, abbinate a un certo qual grado di ribellione o mutamento radicale nell’ordine sociale. Un mix affatto chic di tecnologia avanzata, contestazione ed esigenza estetica elitaria. Altro visibilio per il terrorismo!

Pertanto, come la paura ha un uso duale – destabilizza il nemico e attrae proseliti -, altrettanto l’intelligenza artificiale in mano a gruppi terroristici/ribelli è percepita come minaccia incombente da un lato e fidelizza dall’altro. Anche la dotazione di tecnologie di IA è dunque un sistema di segnalazione (signalling) per entrambe le parti avversarie. È necessario un alto livello di resilienza all’impatto informativo e psicologico di tale utilizzo da parte della collettività.

In una fase storica, come quella attuale, l’abbreviazione urgente, la comunicazione veloce, il moto perpetuo virtuale, la viralizzazione, l’“effetto gregge”, le verità troppo nette o, al contrario, evanescenti, e i pregiudizi stanno spiazzando e prendendo il posto di una propria capacità critica, di un autonomo processo decisionale e delle funzioni cognitive individuali.

E non è proprio questo ciò che ha sempre voluto il terrorismo? L’IA maligna ne diventa un potente alleato.

 

Io, tu, noi (2019) di Vittorio Lingiardi – Recensione del libro

L’autore di Io, Tu, Noi, tra excursus storico-clinici e ancoraggio all’attualità, ci mostra i piani dell’anima, l’imprescindibile bisogno di narrarci per organizzarci, le nostre spinte motivazionali e le nostre strategie di difesa.

 

Sin dalla primissime frasi, questo libro ti porta a dire: ‘wow, è proprio bello!’. Questo aggettivo potrà risultare riduttivo e semplicistico: è facile dire, a maggior ragione in una recensione, che un libro è bello. Sembrava non renderne giustizia. Ma poi sono state queste stesse pagine che hanno restituito senso ad un pensiero istintivo. L’autore, nell’ultima parte, cita il concetto di “bello” di uno psicanalista e filosofo statunitense e riporta:

Ciò che noi consideriamo ‘bello’ è qualcosa che (…) tocca la nostra immaginazione: «Si crea una corrispondenza o una fusione tra l’anima di quella cosa e la nostra» (p. 101).

Ed è proprio questo, quello che è successo a chi scrive nel leggere questo libro. Ti senti toccata, connessa, avvolta da parole, concetti, atmosfere personali, relazionali, sociali attuali e profonde.

Ma andiamo con ordine. Già la copertina di questo volumetto colpisce: iconicamente viene ben rappresentato quello che è il messaggio che il libro vuole regalarti: la connessione tra dimensioni circolari che si toccano e rimangono interconnesse: tre cerchi, ‘il cerchio flessibile e insaturo dell’identità, che tocca quello della relazione, tiepido e incandescente, che tocca quello inclusivo e politico della comunità.’ (p. 139).

Facciamo ancora un passo indietro. Il libro si compone di tre capitoli: ‘Con me’, ‘Con te’, ‘Con Noi’. Già queste formule restituiscono una dinamica relazionale, un filo tra il lettore e le pagine, tra la mente aperta e la parola scritta.

L’Io è considerato la dimensione più intima e personale dove accade ‘la prima convivenza’, quella con noi stessi, con le infinte parti di noi, che dobbiamo tenere insieme per mantenere quella continuità personale, quella coerenza interna guidaniana, che ci fa percepire, appunto, un ‘Io’ unico, compatto, pieno. Ed è già dentro di noi che ha vita la prima forma di dialogo, quello interno, quello con ‘i molti che mi abitano’, che ci consente di aprirci all’altro (tu) e agli altri (noi). L’autore, tra excursus storico-clinici e ancoraggio all’attualità, ci mostra i piani dell’anima, l’imprescindibile bisogno di narrarci per organizzarci, le nostre spinte motivazionali e le nostre strategie di difesa. È un bel movimento tra tesi e orientamenti, puntuale e accessibile, che non si perde in tecnicismi, ma che tiene ferma un’intima vibrazione.

Con naturalezza scivoliamo nel ‘Tu’, alla ‘convivenza con l’altro’. Il ‘Tu’ rappresenta la relazione:

È il tu che rende l’io davvero libero – scrive l’autore – perché è nella relazione che il soggetto incontra se stesso (p. 54).

E dunque si parla di amare, di lasciarsi amare, di terapia, di attaccamento, di legami, di reciprocità, di convivenza e sessualità, di occhi e di specchi. È un capitolo che scalda il cuore.

Ed ecco che il cerchio si chiude ‘con gli altri’. C’è un bell’esempio autobiografico che l’autore riporta che ben racconta di ‘me con te’ e poi di ‘me con gli altri’ e aggiunge:

Senza un tu, forse la pienezza di me mi avrebbe tradito, la malinconia avrebbe preso il sopravvento, la commozione sarebbe diventata solitudine. […] Senza un noi, la mia vita sarebbe sempre chiusa su di me, sui miei bisogni… […] Senza un tu, l’io si svuota. Senza un noi, il tu si inaridisce.

E tra queste pagine si apre l’orizzonte verso il mondo, l’identità collettiva, le somiglianze con l’altro e le differenze, l’eguaglianza e la dignità, l’accoglienza e i muri, il restare umani, l’avere cura del mondo. È un capitolo che il cuore lo espande.

Uno sguardo inevitabilmente va al lavoro terapeutico. È nella terapia che affondiamo lo sguardo curioso sul nostro Io, su tutti i molti che sono in noi e ci alleniamo a stare ‘sull’arcipelago della nostra identità’ e il lavoro di un buon terapeuta, dice l’autore, è quello di far ‘raggiungere una fluida molteplicità’ quando il paziente si irrigidisce e ‘una solida integrazione’ quando invece si scioglie (p. 19). La terapia è ‘due persone che parlano in una stanza’, è relazione e dialogo. Ed è proprio nella relazione che nasciamo (come Bowbly ci ha insegnato) ed è nella relazione che possiamo conoscerci e crescere. Il terapeuta può essere il mio ‘Tu’ per conoscere me stesso e la mia storia. C’è una bella immagine nel libro che a parere di chi scrive disegna bene il lavoro del terapeuta, che dice:

È il lavoro del terapeuta quando, col metallo prezioso della relazione, trasforma in cicatrice le ferite del trauma: l’effrazione viene riparata e il pezzo, ora unico e irriproducibile, acquista più valore (p. 64).

Ma quant’è bello questo lavoro! E ancora, è nel lavoro terapeutico che la persona può anche tornare a percepirsi nuovamente un essere umano, quindi parte di un mondo e tornare a convivere ‘con noi’. L’autore fa riferimento, citando il lavoro di alcuni colleghi con i migranti, tanto attuale quanto difficile, alla possibilità di lavorare con queste persone affinché il dolore frammentato diventi dolore tollerabile e questo nella relazione terapeutica può trovare accoglienza:

In una relazione terapeutica ospitale, il dolore emotivo e la vulnerabilità esistenziale possono essere integrati in un’unità continua e costitutiva, in cui il paziente possa percepirsi di nuovo come un essere umano (p. 137).

E il cerchio si chiude.

Eccoci arrivati di nuovo all’immagine iniziale. L’autore nelle pagine finali si auspica che l’immagine in copertina possa essere sentita sulla e sotto la pelle del lettore. Effettivamente così è. A me è successo. Il mio Io ha vibrato, mi è subito venuto in mente un Tu da cui correre per condividerlo e sono qui a scrivere per farlo girare tra di Noi. È un libro bello perché funziona davvero.

 

Perfezionismo e soddisfazione sessuale: una possibile correlazione

Un recente studio si è posto l’obiettivo di valutare, in una popolazione non clinica, la correlazione tra la soddisfazione sessuale (SS) e il perfezionismo, inteso qui nella sua variante più disadattiva (Palha-Fernandes, Alves, &Lourenço, 2019).

 

Una buona salute sessuale dell’individuo può essere definita come “uno stato di benessere, sia esso fisico, emotivo e sociale, in relazione alla propria sessualità” (World Health Organization, WHO, 2010). Sanchez-Fuentes, Santos-Iglesias e Sierra (2014), hanno individuato alcune variabili socio-demografiche che possono essere associate alla soddisfazione sessuale come un alto livello di istruzione correlato a un numero basso di partner sessuali e una maggior frequenza di rapporti sessuali nella coppia (Henderson, Lehavot, &Simoni, 2009).

Il perfezionismo, inteso come caratteristica psicologica disadattiva, si definisce come la tendenza di un individuo a pretendere per se stesso (e, in alcuni casi, anche per gli altri) livelli particolarmente elevati di performance, talvolta anche a scapito della qualità del lavoro e della salute sia fisica che psicologica (Flett& Hewitt, 2002; Burns, 1980). Hewitt, Flett e Holigrock (1989) hanno teorizzato un modello che prevede tre differenti dimensioni del perfezionismo: il perfezionismo rivolto a sé stessi, il perfezionismo rivolto agli altri e il perfezionismo sociale, che riguarda standard poco realistici su ciò che un individuo dovrebbe fare per guadagnare il rispetto e l’approvazione degli altri. La differenza tra le tre dimensioni si può riscontrare non tanto nel comportamento quanto nell’oggetto a cui il perfezionismo è diretto.

Vi sono differenti disturbi mentali nei quali è presente una componente di perfezionismo patologico e non fanno eccezione i disturbi sessuali (American Psychiatric Association, APA, 2013; Master & Jhonson, 1970), anche se sono tutt’ora presenti pochi studi che sottolineino questa correlazione.

Lo scopo dello studio qui riportato (Palha-Fernandes et al., 2019) era quello di indagare l’eventuale rapporto presente tra perfezionismo disadattivo, soddisfazione sessuale (SS) e dati sociodemografici in un campione non clinico composto da 229 studenti (compresi tra i 18 e i 65 anni) della University of Minho, in Portogallo. L’ipotesi dello studio era che il perfezionismo, in particolare quello sociale, potesse essere correlato negativamente con la SS negli individui e nelle coppie.

I risultati ottenuti hanno mostrato: una correlazione tra l’età e la SS, evidenziando come i più giovani siano solitamente più soddisfatti sessualmente rispetto ai più anziani; una correlazione positiva tra la frequenza delle relazioni sessuali e la soddisfazione, individuando nei soggetti che avevano rapporti sessuali tra le 4 e le 6 volte alla settimana il gruppo più soddisfatto; coloro che affermavano di avere un solo partner sessuale risultavano più soddisfatti di chi invece ne aveva più di uno; infine, a conferma dell’ipotesi degli autori, il perfezionismo sociale disadattivo era negativamente correlato alla SS e positivamente correlato alla presenza di disturbi psicologici sessuali e no (Palha-Fernandes et al., 2019).

In conclusione, prendendo in considerazione i risultati dello studio, trattare il perfezionismo sociale disadattivo potrebbe essere d’aiuto per quegli individui e quelle coppie che non risultano soddisfatti dalla propria vita sessuale.

‘Disintermediare’ gli amici: come gli appuntamenti online negli Stati Uniti sostituiscono altre modalità di incontro

‘Disintermediare’ gli amici: come gli appuntamenti online negli Stati Uniti sostituiscono altre modalità di incontro. Ovvero: ti presento una persona? ‘No, grazie’ (Cyrano de Bergerac, atto II).

 

Conoscere persone disposte a condividere con noi un’avventura romantica – a breve, medio o lungo termine – è diventato apparentemente facile. Non che prima fosse difficile, intendiamoci: è che, stando a quello che si può intercettare nelle conversazioni con amici, partner e conoscenti, negli ultimi anni pare che le applicazioni di dating on-line abbiano facilitato, e forse profondamente modificato, questa esperienza. L’incontro tramite applicazioni specifiche di dating e piattaforme dedicate, come evidenzia un articolo del 2019 ad opera di Michael Rosenfeld, Reuben Thomas e Sonia Hausen del Dipartmento di Sociologia della Stanford University, rappresenta per le coppie eterosessuali statunitensi la modalità privilegiata di conoscere un partner romantico.

Rosenfeld, come principal investigator del progetto How Couples Meet and Stay Together-HCMST (In che modo si conoscono e stanno insieme le coppie), è impegnato da più di un decennio nello studio su come gli americani conoscono i loro partner romantici. I dati relativi ai vari step di campionatura (in totale quattro, con un campione di circa 6000 persone) sono disponibili on-line sul sito dell’Università di Stanford nella sezione Social Science Data Collection e fanno riferimento al periodo che va dall’immediato dopoguerra al 2017.

Appuntamenti online le nuove modalita di ricerca del partner Psicologia Fig 1

Fig. 1 Modalità di incontro del partner in coppie eterosessuali dal 2009 al 2017

Osservandoli, appare chiaro come il ruolo che fino a qualche tempo fa era ad appannaggio degli amici (ora al 20%), della famiglia (ora al 7%) e dei contesti didattici (i.e., scuola e Università; circa 9% del totale) venga esautorato a favore di nuovi paraninfi virtuali come Tinder, eHarmony, match.com et similia (39%).

Un altro dato interessante è che, una volta che le coppie sono in una relazione stabile, il modo in cui si sono conosciute non influenza la qualità o la durata della relazione stessa; l’unica differenza appare quella relativa alla velocità con la quale convolano a nozze (chi si conosce on-line è tendenzialmente più precoce nel farlo). Nelle brevi conclusioni gli autori riflettono su come, sebbene la riduzione del ricorso a ‘intermediari’ (non solo per quanto concerne gli incontri romantici, ma in generale in tutti i settori socioeconomici) sia la risultante inevitabile dell’avvento di internet, l’aspetto umano relativo alla famiglia e agli amici può continuare ad assolvere a tutta una serie di importanti funzioni nella vita dei soggetti.

Insomma, questo modo di entrare in una relazione romantica è un segno ineluttabile della distanza interpersonale che internet ha accentuato nella società occidentale o rappresenta una possibilità? Scegliere un potenziale partner da una più ampia rete di persone è un male? Incontrare un perfetto sconosciuto dopo una sorta di ‘selezione virtuale’ è una modalità più o meno legittima dell’uscire con un amico della zia del quale, personalmente, non si sa nulla e la cui selezione è basata sull’idea che qualcun altro ha di noi e di quello che può piacerci? Domande interessanti e, come al solito, con delle risposte che forse fanno capo a criteri decisionali difficilmente generalizzabili. Fino a circa una quindicina di anni fa, conoscere qualcuno tramite il proprio contesto sociale era più o meno la norma: gli amici e la famiglia si occupavano di favorire il legame con un partner dal pedigree accettabile, verificato e garantito personalmente dai membri del proprio enviroment. Un sistema che appare un po’ endogamico, ma che ha sempre fornito una sorta di rassicurante parvenza di controllo. In effetti, termini come romance scamming (adescare qualcuno con il fine di truffarlo), catfishing (creare una falsa identità online) o ghosting (troncare bruscamente una relazione interrompendo ogni forma di comunicazione e di contatto, virtuale e non) erano relativamente sconosciuti fino alla fine del secolo scorso e hanno prepotentemente fatto breccia nella nostra cultura con tutto il carico di paura e caccia alle streghe (mediatiche) annesso. La sensazione è che, nel parlare di relazioni amorose, il rischio di attraversare un ginepraio fatto di ideologie e moralismi più o meno spiccioli sia incombente; forse, stando ai dati, la riflessione su quello che si desidera per sé e per l’altro in un rapporto romantico può ancora avere la precedenza sulla modalità con la quale il rapporto stesso ha inizio.

 

Serial killer: l’attrazione dell’orrore

Il fascino che la figura del serial killer possiede è innegabile. Questo fenomeno è ancora oggi in espansione, come si evince dall’aumento esponenziale di serie tv e film sull’argomento, ma anche dal crescente impegno della comunità scientifica nel rendere valida empiricamente una tecnica forense che rischia di rimanere legata alla fantasia delle serie tv.

 

…l’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione. È proprio questa aggressione «maligna», biologicamente non-adattiva e non programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie. (Erich Fromm)

Chi almeno una volta nella vita, spinto dalla curiosità, non si è trovato a leggere la storia di qualche famoso serial killer del passato? Molto probabilmente se qualcuno rispondesse di no starebbe mentendo. Il fascino che la figura del serial killer possiede è innegabile e lo è ancor di più ai giorni nostri. Ma cosa ci affascina dei serial killer? Il fatto che siano la personificazione di quanto ancora d’irrazionale, felino e primordiale esiste nella nostra vita apparentemente ordinaria, oppure una curiosità mossa dal bisogno di trovare una spiegazione logica a dei comportamenti apparentemente irrazionali? Basta aprire la homepage di Netflix per essere inondati da serie tv, film e documentari su questi perversi, ma allo stesso tempo affascinanti, personaggi. Ne è un esempio Mindhunter, una serie tv prodotta da Netflix uscita il 13 ottobre 2017 e basata sul libro Mindhunter: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano (Mind Hunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit) scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas.

In questa serie, ambientata a fine anni ’70, Netflix racconta la storia di Holden Ford, un negoziatore frustrato dell’FBI che assieme a Bill Tench inizia a studiare una nuova tipologia di assassino: il Serial killer definito dall’FBI come colui che commette tre o più omicidi in tre o più località distinte intervallate da un periodo di “cooling off” che indica la premeditazione dell’omicidio (Miller, 2014). Lo stesso Douglas, nell’introduzione del suo libro, motiva il suo studio dicendo:

C’è un solo modo per riuscire a dare la caccia ai serial killer in attività: comprendere come pensano, capirne i ragionamenti, per quanto contorti, perversi e letali possano essere, e anticiparne così le mosse. Ma c’è un solo modo per entrare nella mente di un serial killer: parlare con i suoi «colleghi» e predecessori. (Douglas & Olshaker, 1995)

Nel corso delle puntate lo spettatore entra a far parte egli stesso del lavoro dei due detective, partecipa come osservatore alle interviste di serial killer come Ed Kemper, Charles Manson e David Berkowitz aka Son of Sam, diventati nel corso del tempo delle vere e proprie celebrità e inevitabilmente cresce in lui la stessa curiosità che spinge Holden e Bill a perseverare nel loro lavoro.

Ed è proprio questo che non riusciamo a spiegarci, com’è possibile che persone capaci di atti così violenti e sconvolgenti diventino dei veri e propri personaggi famosi e, in ultimo, attirino così tanto la nostra attenzione? Di seguito cercheremo di trovare una risposta a questa domanda.

Per spiegare l’enorme diffusione della figura del serial killer nei film e nelle serie tv, Dietrich e Hall (2010) fanno riferimento al “presupposto edonistico”, secondo cui nella maggior parte dei casi gli animali si avvicinano a ciò che è buono ed evitano ciò che è cattivo. Naturalmente, tutti gli animali curiosi violano questa ipotesi in una certa misura, così come gli esseri umani. Questo è spiegato dal fatto che sembrerebbe che gli esseri umani siano in grado di provare nello stesso momento sentimenti positivi e negativi quando esposti a stimoli avversi. Questo meccanismo viene chiamato co-attivazione e spiega come quando siamo spaventati in realtà potremmo essere anche divertiti. Questo processo fornisce una correlazione positiva tra emozioni opposte, come ad esempio la paura e il piacere. Ad esempio, la co-attivazione permette di spiegare perché andiamo al cinema a vedere film horror (perché guardiamo serie tv e documentari sui serial killer): l’idea è che i sentimenti di piacere ed eccitamento si verificano a stretto contatto con l’essere spaventati, questo porta a pensare che la paura è una diretta conseguenza dei primi (Dietrich e Hall, 2010). Occorre tener presente però che lo spettatore non è solito provare emozioni positive e negative contemporaneamente a meno che non ci sia uno specifico mind-set dove il pericolo viene visto come non reale, fortemente minimizzato o si sente in grado di poterlo gestire. Nel caso delle serie tv lo schermo si frappone tra noi e il serial killer, consentendoci di sentirci perfettamente al sicuro e liberi di essere spaventati.

Un altro fattore che spiega il motivo per cui siamo attratti dalla figura disturbante del serial killer è connesso al bisogno dell’essere umano di ricercare spiegazioni e motivazioni per qualsiasi cosa, in quanto forniscono controllo, permettono di prevedere le azioni future e dal punto di vista emotivo riducono la paura. In aggiunta, dare spiegazioni a ciò che succede nel mondo è importante, specialmente se questo ha ripercussioni negative sulla nostra vita. Nel cercare spiegazioni di eventi fatali, come omicidi perpetrati da serial killer, l’essere umano è spinto da un certo grado di curiosità (Dietrich & Hall, 2010). Questa presenta sempre una componente emotiva positiva e fornisce una sensazione di benessere all’individuo nel momento in cui viene soddisfatta. Quindi ciò che ci attrae dei serial killer è il nostro bisogno di trovare spiegazione al loro comportamento, al fine di evitarli o prevenire i loro crimini. La nostra attrazione è innata ed è sostenuta dalla curiosità; questo spiega parte del fascino dei serial killer.

Così come la co-attivazione, la curiosità e il bisogno di trovare spiegazioni ad oggi spingono gli spettatori a guardare le serie tv e i film sui serial killer, in passato questi stesi fattori hanno spinto gli agenti a mettere a punto una tecnica chiamata criminal profiling.

Il criminal profiling consiste nell’identificazione delle principali caratteristiche di personalità e dei comportamenti di un individuo, con lo scopo di guidare le indagini e identificare dei possibili sospettati (Volpini, 2012). Nonostante sia una tecnica utilizzata da molto tempo come supporto nelle indagini e sia molto popolare rispetto ad altre tecniche forensi mostra uno scarso supporto empirico. Infatti sono pochi gli studi che hanno confrontato a posteriori il profilo utilizzato in fase di indagine con le caratteristiche riscontrabili nell’autore del reato (Oleson, 1996; Wilson & Soothill, 1996). In effetti, la maggior parte del materiale citato a sostegno della validità e dell’accuratezza del criminal profiling non rispetta le linee guida della comunità scientifica.

Quindi come spieghiamo la crescita del criminal profilig nonostante la mancanza di prove empiriche a supporto della sua validità? Kocsis (2003) identifica tre fattori che potrebbero spiegare questo fenomeno: il primo fattore è indubbiamente il Glamour mediatico che circonda questa tecnica; il secondo fattore è dato dal fatto che diversamente dalle altre tecniche psicologiche, il profiling è stato sviluppato dalle agenzie di polizia. Ciò ha comportato che quest’ultime non si sentissero in dovere di convalidare i loro metodi secondo lo standard utilizzato dalla comunità scientifica. Inoltre il profiling essendo impiegato come tecnica investigativa e non come prova legale è sfuggito a tutti i controlli a cui sono soggette le altre tecniche forensi che producono prove legali. Il terzo fattore è una logica a volte esposta quando i profiler si trovano a dover fornire giustificazioni per le loro pratiche. Al centro di questa argomentazione circostanziale c’è l’affermazione che l’accuratezza e quindi la validità dei profili siano indirettamente dimostrati e spiegati attraverso il loro uso e la continua domanda da parte delle agenzie di polizia. Suggerendo che, se i profili non venissero percepiti come precisi la polizia e gli investigatori non avrebbero interesse a richiedere i profili a supporto delle indagini.

Data la forte diffusione del criminal profiling e del suo utilizzo, negli ultimi anni la comunità scientifica si è adoperata nella ricerca di nuovi disegni sperimentali che potessero testare secondo il paradigma scientifico la validità e l’attendibilità di questa tecnica. L’attenzione si è spostata quindi sulla correlazione tra le caratteristiche dei profiler e l’accuratezza del profilo. Infatti è emerso che i profiler professionisti producono profili più accurati rispetto ad altre figure professionali come investigatori e polizia (Kocsis, 2003).

In conclusione, come possiamo evincere dalla lettura di questo articolo, la figura del serial killer desta tanto più fascino ed interesse quanto più è feroce nel dare espressione della propria personalità.

Come abbiamo visto sono numerose le teorie che hanno cercato di spiegare questo fenomeno ancora oggi in espansione. Ciò è dimostrato non solo dall’aumento esponenziale di serie e film ma anche dal crescente impegno della comunità scientifica nel rendere valida empiricamente una tecnica forense che rischia di rimanere legata alla fantasia delle serie tv.

 

La gelosia nelle culture antiche

E’ sorprendente ancora oggi, a distanza di tanti secoli, che in terapia assistiamo ad un vissuto completamente diverso riguardo al tradimento. Spesso il maschio che ha tradito ha sbagliato ma merita il perdono. La donna che ha tradito invece non merita perdono.

 

La gelosia ha assunto vari significati culturali in contesti diversi. S. Benvenuto nel suo libro La Gelosia. Impulso naturale o passione inconfessabile fa un ampia analisi partendo dalla Grecia Antica.

Nella cultura greca l’attenzione era rivolta prevalentemente alla gelosia femminile poiché le donne venivano considerate inferiori agli uomini. La tragedia di Medea è esemplificativa dei legami tra stirpi all’interno della società greca. Medea non solo attraverso un regalo malefico uccide la rivale in amore, ma per vendetta elimina i figli non dando al marito la possibilità di una continuità generazionale. Infatti in Grecia l’eredità è puramente maschile.

Se per un attimo ci soffermiamo ad analizzare i femminicidi in cui vengono uccisi i figli non possiamo non far riferimento a Medea. La differenza sta nel fatto che nelle famiglie attuali spesso l’eredità è considerata femminile. I figli sono della madre. Questa cultura viene anche alimentata dalle sentenze di separazione e divorzio in cui spesso i figli vengono assegnati alla madre. In un impeto di gelosia, quindi, non si uccide solo la donna che si sta perdendo ma si tagliano anche i legami con la sua stirpe ovvero i figli. Spesso di fronte ad episodi simili ci chiediamo ma come si fa ad uccidere i figli? O i figli che c’entrano nelle loro controversie? Il modello relazionale simbolico ci indica la strada non tanto in una semplice vendetta, ma nell’esigenza di interrompere i processi generazionali. Se da un lato c’è la cura dell’eredità dall’altro c’è l’interruzione. Tale interruzione non avviene  solo ed esclusivamente con l’uccisione dei figli, ma anche attraverso meccanismi come ciò che Wallerstein e Kelly hanno definito allineamento del minore con un genitore e Gardner sindrome di alienazione genitoriale – SAP. Nel primo caso subdolamente i genitori trattano come confidenti i figli costringendoli ad una innaturale scelta, con la finalità di escludere l’ex coniuge dalla loro vita.

La SAP si innesca quando i genitori non riescono a superare la crisi personale in seguito alla separazione e quindi trovare dentro di sé motivi di autostima, sospinti anche da motivazioni di conflittualità latente, e hanno bisogno di definire il coniuge negativamente e quindi anche di definirlo ‘inidoneo’ nel ruolo genitoriale. Da qui la sempre più frequente denigrazione dell’altro genitore agli occhi del figlio e la richiesta, formulata in modo più o meno esplicito, che anche il figlio contribuisca a tale definizione scegliendo lui come unico genitore.

Nei casi di alienazione genitoriale non vi è alcuna possibilità di collaborazione in quanto gli ex coniugi si danneggiano l’un l’altro e soprattutto danneggiano il figlio attraverso un conflitto aspro che si manifesta con squalifiche e denigrazioni reciproche, battaglie giudiziarie interminabili.

Questi figli non esistono più solo per loro stessi ma come oggetto di conflitto tra i due genitori.

La rabbia è così intensa che nessuno dei due può accettare i diritti dell’altro neanche come genitore: l’ex coniuge è semplicemente un nemico da eliminare dalla propria vita e anche da quella dei figli, da qui il loro arruolamento all’interno di ‘triadi rigide’. Il Prof. Marco Casonato, docente presso l’Università di Milano – Bicocca, sostiene che

Un genitore disturbato (alienante) o anche un nonno, in genere caratterizzato da un disturbo di personalità Borderline o comunque affetto da un disturbo di personalità ricompreso nel medesimo cluster o affine anche in comorbilità con un altro disturbo, va incontro a quella che Kernberg (1984) ha definito ‘regressione maligna’. Una componente essenziale della PAS è infatti una volontà distruttiva riguardo al coniuge (o al genero) volta ad annullarlo come persona ed il riemergere di un’attitudine simbiotica nei confronti del bambino: il bambino esperito come parte della persona del genitore alienante nei casi più gravi o nei casi più lievi come proprietà personale e non come soggetto autonomo: da cui una varietà di manifestazioni sintomatiche che vanno dal figlicidio e figlicidio-suicidio inteso soggettivamente dal genitore alienante come dinamica abortiva di una parte di sé, di un non-soggetto, al ‘possesso materiale’ del minore sradicato senza tanti complimenti dalla sua continuità esistenziale e portato con sé dal genitore alienante nel corso delle sue peripezie che talora si estendono oltre ai confini del paese d’origine. Va da sé che quale che sia la pervasività della condotta del genitore alienante, essa risulta sempre in un nocumento del minore più o meno esteso.

Anche nell’antica Roma la gelosia era di esclusiva competenza femminile, anche se Giuseppe Flavio scrive che Claudio, Imperatore di Roma, fece uccidere Messalina per gelosia, per avergli fatto le corna. In effetti se andiamo a leggere e ad analizzare quanto scritto da Flavio, Claudio non esprime dolore e/o gelosia  per la perdita dell’amata ma solo e semplicemente per aver messo in crisi la sua autorità:

Vuoi farmi credere che non sono più Cesare! Ma non si toglie così a Cesare il palazzo e i tesori e l’autorità e Venere!

Messalina, come messo in risalto da Giovenale, mette in crisi il ruolo della donna nella società romana visto che si recava mascherandosi nei postriboli più luridi per accoppiarsi con uomini di tutti i tipi e razze. Si comportava da prostituta più che da imperatrice.

Al contrario la moglie a Roma aveva il ruolo di gestire e tenere in ordine la domus. In un necrologio su un sepolcro di una donna particolarmente virtuosa si legge: casta fuit, domum servavit, lanam fecit (era casta, custodiva la casa, lavorava la lana). Le donne venivano educate a svolgere questo ruolo e si sposavano abbastanza giovani (meglio dire bambine visto che, ad esempio, Ottavia si fidanzò con Nerone all’età di 7 anni per poi sposarsi a 11) perché si credeva che dovevano pian piano imparare a svolgere le mansioni nuziali. La fedeltà coniugale era esaltata. Basta ricordare l’episodio di Lucrezia che, moglie di Tarquinio Collatino, fu violentata dal figlio di Tarquinio il Superbo (ultimo re di Roma). Lei non sopravvisse all’oltraggio e si uccise. I romani si adirarono a tal punto per questo spregio alla fedeltà coniugale che rivoltandosi contro il re lo cacciarono e contribuirono così all’instaurazione della Repubblica.

Sul piano generazionale e della discendenza, inoltre, le donne servivano per poter dare una continuità alla stirpe. Ottavia venne ripudiata da Nerone in quanto sterile ed incapace di dargli un figlio. Al di là delle nefandezze di Nerone, egli poté fare questo atto grazie al principio sancito dalle leggi di Roma per cui il marito o la moglie potevano ripudiare il/la consorte. Tra l’altro è risaputo che il figlio doveva essere maschio in quanto la nascita di una figlia femmina veniva considerata una disgrazia. Una legge attribuita a Romolo obbligava ogni padre di famiglia a non uccidere (né abbandonare) i propri figli maschi a pena della perdita di metà dei propri averi, mentre per le figlie tale divieto era limitato alla sola primogenita.

L’importanza data al maschio come continuatore della stirpe gli ha fatto assumere il ruolo patriarcale che per tanti secoli ha costituito la base delle relazioni coniugali. Il maschio poteva disporre della donna a suo piacimento. Ella doveva assumere il ruolo di custode della casa e si doveva occupare dell’educazione dei figli. E’ bene ricordarsi che fino al 1975 l’adulterio era reato e il delitto d’onore fino al 1981 prevedeva pene attenuate.

E’ sorprendente ancora oggi, a distanza di tanti secoli, che in terapia assistiamo ad un vissuto completamente diverso riguardo al tradimento. Spesso il maschio che ha tradito ha sbagliato ma merita il perdono.

La donna che ha tradito invece non merita perdono. Il vissuto emotivo assomiglia a quello di Lucrezia che si uccide per l’oltraggio subito. Ancora oggi una donna su un forum scrive:

io gli voglio un bene infinito ma allo stesso tempo, mi faccio schifo, verso mio marito ma soprattutto verso i miei figli….io vorrei passare la mia vita con lui, ma non posso lasciare i miei bimbi perchè son tutto…non li voglio vedere sballati a destra e sinistra, io soffro da morire ma voglio che i miei figli per quanto posso crescano sereni con una famiglia. Io ho paura non so come comportarmi.

La lotta tra l’ethos e il pathos: la signora si sente vincolata alle promesse matrimoniali. Si sente vincolata alla cura della domus e dei figli così come facevano le donne nell’antica Roma, anche se sa che la felicità, lo star bene, sono nella relazione con l’altro. Importante le sottolineature mi faccio schifo, ho paura non so come comportarmi poiché ci danno la dimensione di come vive il tradimento. Si sente di aver tradito non solo suo marito ma anche la sua storia generazionale ovvero i suoi figli e se ha tradito questi ultimi anche i suoi genitori.

Neanche la rivoluzione sessuale, tipica degli ultimi 30 anni, ha potuto rendere onore a Messalina: i maschi potevano frequentare i bordelli dove andavano a incontrare le prostitute; le donne dovevano rimanere a casa ad occuparsi dei figli e della stessa casa. Ancora in un forum troviamo scritto:

ero indecisa se vedere un ragazzo dolcissimo….ebbene si ho avuto il coraggio di uscire con lui ed è stato bellissimo! mi ha dato un sacco di attenzioni che non ricevevo da tempo ormai! 
per favore non giudicatemi all’apparenza…ci sono tante cose che non vanno tra me e il mio boy..ne abbiamo già parlato ma lui fa finta di non capire…così per una sera volevo riuscire a non pensare a niente e solo divertirmi…e ci sono riuscita….è stato bellissimo davvero…unico…indimenticabile…!
che dite…ho sbagliato??? non ditemi cattiverie…io ora sto bene e mi sento appagata..!

La domanda ho sbagliato e l’affermazione non ditemi cattiverie sono l’emblema della contraddittorietà insita nei vissuti del tradimento. Questa ragazza si sente bene e appagata eppure ha paura di essere giudicata. Quello che dovremo chiederci è da chi si sente giudicata? Nel momento in cui da sola si pone la domanda se ha sbagliato o meno ed ha paura di essere giudicata, non teme solo il giudizio degli altri ma, in qualche modo, si è già autoaccusata. Il confronto è con i sedimenti presenti nel nostro inconscio, è il misurarsi con la nostra storia generazionale. Nel tradimento questa ragazza ha paura di essere paragonata a una nuova Messalina.

Infine anche nella cultura romana vi sono i legami simbolici dei femminicidi. Spesso in questi delitti la gelosia diventa un pretesto per poter affermare, come l’imperatore Claudio, la propria autorità. Le modalità con cui vengono commessi e i moventi sembrano contenere un messaggio chiaro: tu sei mia e non puoi andare con nessun altro.

E’ con l’avvento del cristianesimo che il ruolo della donna viene rivalutato. Gesù proclama il perdono: di fronte alla lapidazione per adulterio, come era usanza nella cultura ebraica, ferma le pietre dei suoi aguzzini dicendo Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non basta, comunque, solo questo gesto per comprendere quanto Gesù abbia inciso nel cambiare il ruolo che la cultura ebraica assegnava alle donne e ai legami di stirpe. Così come ci dice la Magli:

il bambino è di fatto percepito, più o meno chiaramente, in tutte le società, come un essere misterioso, che viene dal mondo di-là, prima della vita, che è lo stesso mondo di-là del dopo la morte e garantisce con la sua presenza, che c’è comunicazione ed osmosi fra i due mondi.

Nella cultura ebraica questo principio viene esaltato dal figlio maschio primogenito che diventa testimonianza di un rapporto fecondo, nuziale, fra l’uomo-maschio e Dio. Inoltre, la legge del levirato prevedeva che una donna che rimaneva vedova senza figli doveva sposare il fratello del marito ed il primo figlio nato da questo nuovo matrimonio era legalmente figlio del marito morto.

Gesù, come sostiene ancora la Magli, sconvolge questa regola nel momento in cui si commuove davanti alla vedova di Nain la quale aveva un solo figlio e per la quale lui compie il più grande dei miracoli, la risurrezione. Senza questo miracolo la vedova, senza più figli maschi, sarebbe stata costretta a sposare il fratello del marito morto. Il perdono alla prostituta Maria Maddalena che si prostra ai suoi piedi lavandogli i piedi con le sue lacrime e asciugandoglieli con i suoi capelli, così come l’episodio con la samaritana costituiscono ulteriori elementi della valorizzazione delle donne compiuta da Gesù. Emblematico è anche il miracolo della figlia di Giairo, il capo della Sinagoga: Gesù si commuove di fronte ad una persona, ad un maschio, che si dispera per la morte di una figlia femmina (Magli).

L’avvento del cristianesimo, inoltre, porta un cambio di rito di iniziazione: nella società ebraica era la circoncisione che per evidenti ragioni era solo maschile, nel cristianesimo diventa il battesimo che è sia maschile che femminile.

La gelosia anche nella società ebraica era tipicamente femminile anche se essa non ha una propria definizione rispetto all’invidia. Gelosia ed invidia, infatti, erano indicati con lo stesso termine ‘quin’ah’.

In effetti, il termine gelosia nella società ebraica non aveva un senso poiché, essendo la cultura e le tradizioni totalmente incentrate sulla religione, il rapporto era tra Dio e il maschio.

I maschi attraverso la circoncisione, e cioè attraverso il sacrificio di una parte del proprio pene, che è poi una parte che solitamente viene vista come femminile (il prepuzio) assumono l’immagine simbolica femminile, diventano simbolicamente donne, sposano Dio che è pensato e raffigurato come maschio (Magli).

La donna era tentatrice ed impura, essa era semplicemente la genitrice, la porta attraverso la quale continuare la stirpe. La gelosia-invidia era tra maschi: nell’Antico Testamento Caino uccide Abele per invidia poiché i sacrifici di quest’ultimo erano graditi a Dio. In effetti la gelosia contraddistingue i rapporti affettivi (padre, madre, fratelli, sorelle, moglie, figli, etc.) diventa invidia nel rapporto tra membri dello stesso sesso.

La valorizzazione della donna nel cristianesimo trova la sua massima espressione in Maria, mamma di Gesù. La donna ebraica era impura, Maria è la donna pura per eccellenza e in quanto mamma del Signore è oggetto di venerazione. Maria, comunque, come ci mette in guardia Ida Magli, è si un simbolo di rottura con la cultura ebraica ma rimane sempre un simbolo della donna nella storia. Il valore della verginità, che tanta parte ha avuto nelle relazioni familiari e coniugali, viene esaltata proprio nel nome di Maria. Al contrario, però di ciò che sostiene sempre la Magli, Maria in quanto mamma di Gesù è sposa di Dio. Questa non è una rottura da niente poiché fino ad allora erano gli uomini che sposavano Dio offrendo in dono una donna vergine. Anche oggi le suore si definiscono, come Maria, spose del Signore.

Altri due aspetti presenti in Maria rompono la tradizione ebraica sulla visione della donna. Maria nasce senza peccato originale, non ha bisogno di essere battezzata. Nell’antico testamento è stata Eva a farsi tentare dal serpente e a tentare Adamo causando la cacciata dal paradiso terreste. Il serpente, inoltre, striscia ai piedi di Maria che gli schiaccia la testa. Sul piano generazionale Maria rappresenta la redenzione di Eva. La donna è portatrice di valori morali ed ha un contatto diretto con il sacro non più mediato dal maschio.

 

Hai l’ansia? Ecco come ridurla con l’attività fisica

Negli ultimi anni si è resa necessaria l’individuazione di nuovi metodi per contrastare il continuo aumento dei disturbi d’ansia. Alcuni ricercatori hanno sottolineato i benefici dell’attività fisica a questo scopo.

 

I disturbi d’ansia sono i disturbi mentali più prevalenti negli Stati Uniti, si stima che il 30% della popolazione adulta sviluppi un disturbo d’ansia nella propria vita. Sembrerebbe inoltre, che il tasso di prevalenza sia in continuo aumento. Questi dati sottolineano l’importanza di porre maggior enfasi sulla questione, al fine di combattere l’aumento di questi disturbi (Parekh, 2017).

Che cos’è un disturbo d’ansia? Innanzitutto, è importante specificare e capire che cos’è l’ansia e quando è patologica. In letteratura l’ansia è definita come l’anticipazione di un’ipotetica minaccia futura (ben distinta dalla paura, dato che quest’ultima è legata ad una minaccia realmente presente). Il disturbo mentale, nella sua accezione più generale, è concettualizzato come l’insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni che recano un disagio significativo all’individuo. Quindi, unendo questi due concetti, possiamo dedurre che il disturbo d’ansia si verifica quando la nostra vita è compromessa in maniera negativa e significativa a causa della nostra ansia (Parekh, 2017).

A livello biologico, si denota un’attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS), una delle componenti del sistema nervoso autonomo (SNA), che interviene nel controllo delle funzioni corporee involontarie; in particolare il SNS entra in gioco nelle situazioni di pericolo, quando la nostra sopravvivenza è messa a repentaglio, causando così una reazione di attacco-fuga; tuttavia l’attivazione del SNS è giustificata difronte ad una reale minaccia, non lo è se la minaccia non è presente, e questo è ciò che accade agli ansiosi, specialmente nel disturbo da panico, cioè l’attivazione del SNS da parte di uno stimolo che normalmente non dovrebbe causare quest’attivazione (Mueller, 2007).

Da un punto di vista psicoterapeutico, ad oggi le terapie sono molto efficienti su questi disturbi, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, che stando ai dati risulta essere la più efficace nel trattamento di questi tipi di disturbi (Mueller, 2007).

Una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychiatry (Anderson &Shivakumar, 2013) ha sottolineato l’importanza dell’esercizio fisico, oltre che nella prevenzione di disturbi più prettamente medici (si stima che 30 minuti di esercizio fisico medio-intenso per 5 giorni a settimana, riduca la mortalità del 30% in entrambi i sessi) anche nella sua capacità di ridurre i livelli d’ansia, questo avviene per una serie di motivi:

  • L’allenamento porta a cambiamenti a livello dei neurotrasmettitori, quando facciamo uno sforzo fisico, la produzione di serotonina aumenta (neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione dell’umore);
  • Riduce i livelli di cortisolo (ormone conosciuto come “l’ormone dello stress”);
  • Da un punto di vista più psicologico, l’allenamento ti insegna a concentrarti sul presente, a stare nel qui ed ora, e come enunciato in precedenza, l’ansia altro non è che l’anticipazione di un’ipotetica minaccia futura, riuscire a stare nel momento presente senza rimuginare su possibili esiti futuri è fondamentale nella prevenzione dell’ansia.
  • L’allenamento correla positivamente con l’autostima e la percezione di auto-efficacia, portando cosi la persona a sentirsi più sicura di se stessa, fattore considerato protettivo contro l’ansia (Anderson &Shivakumar, 2013).

Gli autori sottolineano quindi l’importanza di fare attività fisica, oltre che per i benefici medici, anche per gli apporti positivi psicologici, come la riduzione dei livelli d’ansia (Anderson &Shivakumar, 2013).

 

La storia di Edward: quando abbandono e inadeguatezza si riflettono in un paio di forbici – La LIBET nelle narrazioni

Edward mani di forbice, solitario ma in cerca di amore, fragile e allo stesso tempo forte…forse c’è un piccolo Edward è in ognuno di noi?

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 3) Edward mani di forbice

 

Una volta, tanti e tanti anni fa, viveva in quel castello un inventore e tra le tante cose che faceva si racconta che diede vita ad un uomo, un uomo con tutti gli organi, un cuore, un cervello, con tutto… beh quasi tutto, perché vedi, l’inventore era molto vecchio e morì prima di finire l’uomo da lui stesso creato, allora l’uomo fu abbandonato senza un papà, incompleto e tutto solo. Il suo nome era Edward…

 

Così inizia Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990), capolavoro dal sapore gotico – romantico frutto della geniale mente di Tim Burton. Con questo film, il regista sancisce la stretta collaborazione con Johnny Depp, a cui sembra cucirsi perfettamente addosso il personaggio di Edward, introverso e solitario ma dotato di grande sensibilità.

La storia si svolge in una cittadina borghese di provincia dell’America anni ’50-‘60, in cui tutto viene dipinto in modo perfettamente ordinario, legato alle tradizioni e alle buone maniere. A fianco di questo quadro dalle tinte pastello, in un maniero barocco in cima alla collina, uno scienziato decide di dar vita ad una speciale creatura, Edward, che crescerà come un figlio fino al momento in cui improvvisamente morirà. Il nostro protagonista si ritrova così completamente solo, e imperfetto: lo scienziato non era riuscito infatti a finirgli le mani, al cui posto risplendono delle enormi e taglienti forbici. Riferendoci al modello LIBET (Sassaroli, Bassanini, Redaelli, Caselli & Ruggiero, 2014), viene quindi definito il cosiddetto contesto di apprendimento, in cui il nostro protagonista si avvicina per la prima volta alla propria sensibilità, il proprio tema doloroso, di non sentirsi amato e di essere un prodotto incompleto, imperfetto.

Per anni Edward vive nel castello nella completa solitudine, fino al giorno in cui Peggy Boggs, presentatrice porta a porta di cosmetici giunta casualmente al castello, lo convince ad andare con lei in città: conosce così i Boggs, famiglia unita e accogliente, e la loro figlia adolescente Kim di cui col tempo si innamorerà; spinti dal suo aspetto strano e inusuale, anche molti vicini di casa cercheranno di fare la sua conoscenza e in seguito di coinvolgerlo nella vita e negli impegni quotidiani tra vicini. Edward inizia così a scoprire un mondo per lui nuovo, a cui cerca di adattarsi e ‘sottomettersi’ sfruttando e normalizzando la propria diversità, improvvisandosi barbiere e giardiniere del vicinato, credendo così di riuscire dopo anni di solitudine a riscoprire l’amore e l’accettazione da parte degli altri. Un’analisi LIBET di queste interazioni, ci permette di notare come la strategia utilizzata dal nostro protagonista per risultare performante in ogni situazione, e così allontanarsi dal tema, è utilizzare un piano prescrittivo che gli permette di prevenire e reprimere le minacce, controllando il giudizio e il rifiuto altrui.

Questo piano viene tuttavia invalidato, nel momento in emergono difficoltà con la famiglia Boggs e i vicini. Joyce Monroe, spigliata e disinibita casalinga, lo accusa ingiustamente di molestie, ritorcendogli contro il vicinato e tutti i loro pregiudizi rigidi e bigotti; Jim, possessivo fidanzato di Kim, è molto geloso di Edward e lo coinvolge in un furto in casa propria al fine di incastrarlo e di metterlo in cattiva luce e far così sì che ritorni al castello. In seguito a tali episodi, definibili tramite LIBET come invalidazione, riemergono così in Edward in maniera esplosiva i vissuti dolorosi di abbandono e inadeguatezza, che innescano in lui una reazione di aggressività e ritiro, un vero e proprio esordio sintomatologico. Edward infatti fugge furiosamente dalla città tagliando e falciando ogni cosa gli capiti sotto gli occhi, e torna così a immergersi nella propria solitudine all’interno del castello che da sempre ha riconosciuto come unica e vera casa.

Solitario ma in cerca di amore, fragile e allo stesso tempo forte…forse, c’è un piccolo Edward è in ognuno di noi?

Un colloquio immaginario con Edward – restituzione, validazione, motivazione al cambiamento

L: Allora Edward…arrivati a questo punto del nostro percorso insieme, penso che sarebbe utile per avere più chiara la situazione fare insieme un punto rispetto a quello che si siamo detti, che ne dice?

E: Sì, va bene…

L: Proviamo ad aiutarci anche con uno schema grafico (Fig. 1), iniziamo a costruirlo insieme…

E: Ok…

L: Oggi è venuto da me riportandomi una forte sofferenza, che ha iniziato a percepire come insopportabile dal momento in cui ha iniziato a sentire un allontanamento da parte della famiglia Boggs e da Kim, dopo le accuse della Sig.ra Monroe e l’episodio a casa di Jim. Ho capito bene?

E: Sì, da quel momento ho iniziato a stare di nuovo male, e di conseguenza non sono più stato in grado di sopportare la situazione e ho avuto delle reazioni per cui ho sentito bisogno di scappare, avevo una rabbia dentro…

L: Da quanto mi ha detto lei sta male perché in queste situazioni ha sempre cercato di accettare il volere degli altri, pensando di fare un favore agli altri, e in questo modo sperava di essere accettato…tuttavia per come si sono poi sviluppate le situazioni pensa che gli altri non siano stati in grado di comprenderla e comprendere il suo atteggiamento….

E: Io ho sempre cercato di stare bene con gli altri, ho fatto quello che mi chiedevano…volevo solo sentirmi amato e non sentirmi inadeguato e diverso…

L: Per questo ora prova emozioni come tristezza e rabbia. Il suo atteggiamento volto ad essere amato dalle persone che le stanno vicine e il desiderio di sentirsi simile agli altri non è stato compreso, e di questo se ne fa una colpa personale, pensando che siano gli altri ad avere ragione sul fatto che lei in fondo sia diverso e non meritevole d’amore. E’ corretto?

E: Sì, io ho fatto di tutto…ma non è stato abbastanza, forse non ne sono in grado… alla fine non sono come gli altri, forse non merito l’amore degli altri…

L: Questa sofferenza sta emergendo ora poiché lei ha utilizzato queste strategie, come ad esempio cercare di essere accondiscendente verso le richieste degli altri, per riuscire a tenersi lontano da alcuni stati mentali che l’avrebbero fatta soffrire… non sentirsi amato e apprezzato dagli altri e sentirsi diverso ed escluso a causa delle sue fragilità… Ora però questo sembra non essere sufficiente a proteggerla da questi stati, poiché sta riattraversando una sofferenza insopportabile, che l’ha portata a isolarsi e tornare al castello, a vedere nella rabbia e nell’aggressività verso l’esterno l’unica soluzione a questi stati. Edward, lei cosa ne pensa?

E: Non potevo fare altro, io ce l’ho messa tutta per stare bene e piacere agli altri, ma dopo le ultime cose accadute non sono più riuscito a ragionare ed ero così arrabbiato che non riuscivo più a starci dentro…

L: Questo, Edward, le è servito per sopravvivere, le ha permesso di sviluppare una grande sensibilità. Era la cosa migliore che potesse fare e per questo, pensando che potesse aiutarla in tante situazioni simili, è normale e comprensibile che lo segua ancora, come è altrettanto naturale che abbia sofferto nel momento in cui non è riuscito ad ottenere ciò che sperava e desiderava. Con quello che le è successo, è naturale che si senta così, tutti ci sentiremmo così e saremmo vulnerabili su questi punti, soprattutto con la storia che ha lei alle spalle.

E: Sono venuto da lei per questo… non riesco più a gestire nulla, sono risprofondato nella mia solitudine e non so come uscirne…

L: In questo momento, credo che la cosa più onesta che potrebbe fare è prendersi del tempo, quanto riterrà necessario, per riconoscersi che sta soffrendo molto. Ho molta fiducia in lei, so che ha la forza e le capacità per riuscire a superare questo tipo di sofferenza, fino ad ora ha fatto il meglio che potesse fare.

E: Forse del tempo sarebbe la soluzione, ma non sono mai riuscito ad affrontare questi momenti, non so se ne sarò in grado neanche tra un po’ di tempo…

L: È venuto da me a chiedere aiuto, questa è una grande prova di coraggio e un grande passo che lei ha fatto da solo sulle proprie gambe! C’è ancora della strada da percorrere, non lo nego, e il percorso che le propongo è impegnativo e difficile, ma lei non è da solo nel percorrerlo. È anche vero che in questo è importante che lei si metta in gioco per cambiare, in modo da poter percorrere questo percorso insieme mettendo a frutto tutte le sue sensibilità e utilizzandole per stare meglio.

E: Sì io vorrei stare meglio… non ne posso più di stare così, di sentirmi così, vorrei solo essere come tutti gli altri, avere una famiglia e degli amici come tutte le persone là fuori…

L: Edward, queste cose che mi sta dicendo sono bisogni molto importanti, lei merita di avere tutto questo, ma come pensa che sia possibile rinchiuso nella solitudine del suo castello?

E: Non lo so, il mondo fuori mi spaventa, nel castello mi sento protetto e al sicuro, ma allo stesso tempo vorrei poter vivere il mondo là fuori insieme a tante persone che mi vogliano bene per come sono

L: Come abbiamo detto, per fare questo l’isolamento non è la soluzione. Secondo lei, cosa potrebbe succedere di brutto se ritornasse a vivere in mezzo alle altre persone?

E: Non saprei, non credo di riuscirci, forse non ne sono capace, l’ultima volta che ci ho provato nessuno mi ha più voluto e mi hanno cacciato, dopo tutto quello che avevo provato a fare…

L: Lei ha sempre fatto quello che riteneva giusto, cercando di andare sempre incontro agli altri, assecondandoli in tante richieste e mostrandosi compiacente. Questo però l’ha portata a stare male, a passare attraverso questa grandissima sofferenza. Secondo lei, che peso possono avere la frustrazione che lei vive in questi momenti e lo scopo di poter piacere a tutti, un obiettivo che non è perfettamente raggiungibile? Cosa succederebbe se lei abbandonasse tutto questo? Se iniziasse a mostrarsi meno compiacente e a imporre di più la propria volontà, magari anche rifiutando alcune situazioni o richieste?

E: Non so, gli altri potrebbero allontanarsi ancora di più…

L:  Lei cosa spera di realizzare con il nostro lavoro assieme? Se avesse una bacchetta magica, cosa vorrebbe cambiare di sé attraverso questo percorso di terapia?

E: Vorrei stare meglio, e riuscire ad avere una vita come tutti. Una famiglia che mi voglia bene, degli amici che mi stiano vicino…

L: Ok…e per lei quanto è importante da 0 a 10 cambiare questo aspetto?

E: Molto… 10…

L: Quanto pensa che sarebbe in grado di cambiare questo aspetto da 0 a 10?

E: non so, 5 forse…ma vorrei tanto che qualcosa cambiasse

L: Noi insieme lavoreremo su questo, cercando di far si che sia maggiore la tolleranza di alcuni stati emotivi negativi e di conseguenza si riducano alcuni comportamenti che lei mi ha riportato come problematici e che le creano e sostengono la sofferenza. Insieme cercheremo di comprendere cosa la attiva in questi momenti, quali sono i pensieri sottostanti e cercheremo di metterli in discussione, cercheremo nuove strategie per tollerare questa sofferenza.

E: Mi sembra molto difficile, io vorrei molto provare a cambiare, chissà se ne sarò in grado…

L: Tutto questo costa molto impegno, molta fatica, lei è libero di scegliere se farlo o meno. Secondo lei cosa la potrebbe motivare in questo?

E: Sicuramente l’idea di non stare più così male, e magari di poter riabbracciare Kim, e tornare a stare con i Boggs che per me sono stati come una vera famiglia…

L: Potremmo intanto provare a impegnarci per una settimana?

E: Sì posso provare…

L: So che per lei è molto difficile, ma penso che abbia a disposizione tutto ciò che serve. Direi che per oggi sono emerse molte informazioni utili e abbiamo fatto ulteriori passi in avanti. Fissiamo un appuntamento per la prossima settimana?

 

Edward mani di forbice abbadono e inadeguatezza Analisi in chiave-LIBET-Fig1

Fig. 1. Schema grafico del funzionamento in termini LIBET

 

 

Economia dell’informazione, economia dell’attenzione, economia esperienziale: un filo rosso

L’Intelligenza Artificiale (IA) aiuta a condividere le informazioni circa la qualità e le caratteristiche di un bene e/o di quella esperienza, cosicché il consumatore può permettersi di valutare, con qualche certezza in più, anche ex ante le sue scelte di acquisto.

 

Nel presente contributo ipotizziamo che Economia dell’informazione, Economia dell’attenzione, Economia esperienziale siano attraversate da un fil rouge, che è quello dell’intelligenza artificiale (IA). Si tratta di branche diverse dell’economia, che corrono lungo binari diversi. Eppure ci sono degli “scambi” che congiungono tali binari: la IA. Gli utenti e gli stessi data scientist non conoscono fino in fondo le macchine dell’IA (Economia dell’informazione). Troppe informazioni fornite dal digitale e dai big data distolgono l’attenzione, poiché la nostra razionalità limitata non può che ritenere una parte di tale stock di dati e informazioni (Economia dell’attenzione). In qualche senso, l’Economia esperienziale abbraccia entrambe: sia informazioni asimmetriche sia l’enorme mole di dati fra cui muoversi per gestire processi decisionali e scelte. Alcuni beni (c.d. esperienziali nella terminologia economica) o un’esperienza – identificata non nel bene in sé, ma in tutto ciò che lo circonda (emozioni, evocazioni, e così via) – possono essere valutati dal consumatore solo dopo aver verificato a posteriori le caratteristiche intrinseche di quel bene o di quella esperienza. Ma l’IA aiuta a condividere le informazioni circa la qualità e le caratteristiche di quel bene e/o di quella esperienza, cosicché il consumatore può permettersi di valutare con qualche certezza in più anche ex ante le sue scelte di acquisto.

Andiamo al primo punto, quello relativo all’Economia dell’informazione.

Quando chiedete qualcosa a un motore di ricerca, è grazie al machine learning che il motore decide quali risultati (e anche quali annunci pubblicitari) mostrarvi. […] Volete comprare un libro su Amazon, o guardare un film su Netflix? Un sistema di machine learning si prodigherà a consigliarvi quelli che potrebbero piacervi. […] I learner, come sono chiamati gli algoritmi del machine learning […] capiscono dai dati (molti dei quali noi stessi li forniamo (n.d.r.)) ciò che devono fare. E più abbondanti sono i dati, migliori saranno le loro performance. Oggi i computer non hanno bisogno di essere programmati: lo fanno da soli. […] a ogni ora del giorno, dal momento in cui aprite gli occhi a quando andate a dormire, il machine learning è con voi. (Domingos, 2016, p. 11)

Come cambiano i compagni di vita!

Per citarne uno, il learner Nearest Neighbor ha trovato un gran numero di applicazioni, dal riconoscimento della scrittura al controllo dei bracci robotici, passando per i suggerimenti di film, video, musica, libri (Domingos, 2016).

Gli esempi e le argomentazioni tratti da Domingos ci conducono implicitamente a un concetto mainstream dell’Economia dell’informazione: quello dell’informazione asimmetrica, circostanza che si verifica in un rapporto bilaterale (nel nostro caso, tra noi e la macchina), quando un soggetto (la macchina) possiede maggiori informazioni (c.d. informazioni private) della controparte. Davanti a quest’ultima scende un velo di opacità riguardo a caratteristiche, funzionamento, comportamenti, qualità decisionali e predittive della macchina. Secondo la terminologia economica, la qualità del bene “non è osservabile”.

È fondamentale aprire questa scatola nera e scandagliarne attentamente i contenuti, poiché l’IA e le sue tecnologie vengono sfruttate per effettuare scelte, inferenze e previsioni anche in comparti molto sensibili, quali la sicurezza, la giustizia, il mercato del lavoro, la sanità. Le ricadute derivanti da architetture opache e, quindi, non del tutto sotto controllo nella loro gestione e funzionamento sono potenzialmente dirompenti nelle nostre società. Quale esempio per tutti, basti pensare agli strumenti per il riconoscimento facciale.

È preoccupante, in particolare, l’utilizzo della IA per leggere le emozioni. Si tratta di algoritmi che, ad esempio, aiutano nei colloqui di lavoro e a capire se un soggetto indiziato stia mentendo.

Insomma, inquietanti macchine della verità in versione IA. E sappiamo quanto gli algoritmi possano essere biased e portare, di conseguenza, a decisioni del tutto inique.

E allora, in tale contesto di informazione asimmetrica, perché dovremmo fidarci della nuova tecnologia di cui sappiamo ancora troppo poco? E di cui a volte persino i propri sviluppatori non capiscono i risultati?

L’informazione asimmetrica è un classico fallimento di mercato e tipicamente, soprattutto in settore tanto delicato come l’IA, deve intervenire il legislatore per regolamentare. Per regolare l’uso pervasivo della IA è quindi necessario che i governi intervengano attraverso la regolazione. E’ questo il messaggio forte contenuto nel Rapporto 2019 dell’AI Now Institute di New York, un istituto di ricerca interdisciplinare che analizza le implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale.

Tutte le nostre attività ci sottopongono alla tagliola degli elevati costi transazionali legati alla ricerca, selezione, elaborazione di dati e informazioni e al fact-checking. Quanto più è alta la marea dei big data, tanto più alta è l’attenzione richiestaci, tanto più elevati sono tali costi. Un modo per eluderli o, quantomeno, abbassarli è delegare all’IA il nostro processo decisionale, le nostre scelte e, di conseguenza, persino la nostra necessità/volontà di sapere e sfidarci nel tentare di sgrovigliarsi nella complessità del mondo esterno per deliberare. Molte nostre risorse possono essere di conseguenza distratte altrove, ma non necessariamente allocate meglio.

È una delega importante quella che le conferiamo, in quanto depaupera parte delle nostre capacità cognitive, deliberative e persino indebolisce la nostra autodeterminazione e autonomia individuale secondo una sorta di moral hazard. Insomma, l’IA può cambiare la nostra struttura degli incentivi. Perdiamo anche in creatività a beneficio dell’omologazione e della moda statistica. Ma l’IA merita tutto questo potere che le riconosciamo? La risposta dovrebbe essere negativa almeno per tre ordini di motivi, alcuni dei quali già menzionati: in primo luogo, la macchina non è del tutto conosciuta e quindi non è del tutto sotto controllo; in secondo luogo, compie numerosi errori. Come esiste l’errore umano, così esiste l’errore artificiale. Inoltre, alcuni problemi comunque permangono: la necessità del fact-checking e del debunking. Per di più, non dimentichiamo che gli stessi algoritmi possono essere deep-faker. Quindi dovrebbe essere ridotto al minimo questo trade-off nella scelta tra le nostre capacità e quelle della macchina. È ottimismo indebito conferirle una delega ampia soprattutto quando ci muoviamo in campi molto delicati e personali. Ricorre di nuovo la domanda: perché riconoscerle tanta fiducia? In terzo luogo, la qualità dell’algoritmo è funzione anche della qualità dei dati.

Qualità e quantità dei dati conducono all’altra branca dell’economia sopra citata, quella dell’attenzione, che origina dall’impianto teorico del premio Nobel, Herbert Simon, che già nel 1971 scriveva come l’informazione consumi attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare.

Nel campo dell’esperienza, l’IA può essere ancillare al “passa parola”, velocizzandolo se non viralizzandolo. In economia si definisce “bene esperienziale” quello le cui qualità possono essere valutate solo dopo aver consumato il bene stesso, cioè solo dopo avere acquisito l’esperienza del suo utilizzo. Si tratta quindi di una particolare categoria di beni/servizi di mercato, la cui qualità è nota solo a posteriori. Gli esempi sono tantissimi: da una vacanza a un libro.

Tuttavia, grazie all’IA, per valutare un bene esperienziale non è necessaria ex post una esperienza diretta, ma diventa rilevante anche quella trasmessa da altri. In qualche misura, è possibile anticipare la valutazione del prodotto prima ancora di consumarlo. Vale a dire, l’IA permette di scegliere anche in presenza di informazione imperfetta.

Certo, un grave limite nel mutuare dall’esperienza altrui è il sistema delle preferenze che connota ciascuno e che può depistare in tale esercizio. Ma in community virtuali che si formano sulla base di preferenze simili, i social costituiscono un buon succedaneo dell’esperienza personale nel valutare una scelta. Naturalmente, anche in questo campo le fake sono in agguato.

Pertanto, oggi l’esperienza di acquisto si avvia tramite uno scambio via social; si evolve con la ricerca di informazioni, recensioni, valutazioni e racconti delle esperienze altrui; si prolunga con la visita in uno store fisico; continua con il racconto della propria esperienza, condividendo. Una sorta di customer journey; un market search in versione moderna, cioè secondo una prospettiva IA.

Il bene/servizio acquistato, qualora non soddisfi le aspettative del consumatore – benché esso possa avere un elevato valore economico e qualitativo – si traduce in una esperienza negativa.

Tuttavia, oggi il bene esperienziale si è evoluto in altre direzioni e in altre accezioni rispetto alla nozione classica appena ricordata. Non è il bene – o il paniere di beni – in sé ciò che per il consumatore conta e che intende acquistare, bensì il ricordo, l’emozione, il momento, l’atmosfera. Il bene fisico si trasforma in sensazione, cioè in qualcosa di meno palpabile della fisicità del bene. Anche in tale circostanza i social aiutano a canalizzare tali esigenze tramite la condivisione.

Queste riflessioni conducono a pensare all’economia esperienziale anche in un’altra accezione. Tali dinamiche mutano non solo la domanda e l’offerta di mercato, ma anche un’innovazione del processo produttivo e del prodotto

L’attività produttiva non si limita a fornire nuovi prodotti/servizi, ma – ovviamente – anche quelli tradizionali che vengono però progressivamente “esperienzializzati”. Il nucleo dell’acquisto non è tanto il possesso di un bene, quanto il suo utilizzo per vivere una specifica esperienza.

Anche in tale accezione, un ruolo da protagonista viene assolto dalle info-tecnologie. L’economia dell’esperienza sarà una determinante importante della domanda delle tecnologie digitali centrate sulla fruizione.

Ma anche nelle narrazioni di esperienze tramite social sono in agguato dei pericoli. In particolare, è stato osservato (Calzolari, 2019 ) che la montagna e chi la frequenta sono molto presenti soprattutto su Facebook e Instagram. Il racconto spesso decade nella mera autorappresentazione e nel marketing di se stessi. L’ambiente diventa nuda scenografia e si va a caccia di “like”. In questo caso, i social perdono la valenza di esportazione di una esperienza per diventare solo decadimento di quest’ultima.

 

Soddisfazione coniugale: impatto dei tratti di personalità, ansia e depressione nelle donne in gravidanza

Un recente studio ha indagato i fattori che contribuiscono alla soddisfazione coniugale, prendendo in considerazione come ansia, depressione e profili di personalità possano influenzare questo aspetto durante la gravidanza.

 

L’importanza della valutazione della soddisfazione coniugale e dei fattori associati non può essere trascurata. La soddisfazione coniugale, infatti, determina la felicità personale e l’autorealizzazione in una relazione coniugale e ciò influisce notevolmente sul benessere di bambini e donne, specialmente durante la gravidanza, e sul benessere dell’intera famiglia e società in generale.

Il presente studio (Ezeme, Ohayi, &Mba, 2019) mira ad indagare i fattori che contribuiscono alla soddisfazione coniugale, rendendo una relazione di coppia più o meno stabile. Inoltre, sottolinea l’importanza di valutare lo stato di salute mentale delle donne in gravidanza, in modo tale che, in presenza di insoddisfazione coniugale, ansia o depressione, i profili di personalità possano essere adeguatamente valutati e le donne efficacemente sostenute. Nello specifico, gli studiosi hanno analizzato il modo in cui le persone interagiscono durante le loro relazioni e, soprattutto, hanno prestato particolare attenzione all’influenza dei tratti di personalità sulla soddisfazione coniugale. La letteratura passata, infatti, conferma che la compatibilità coniugale è influenzata dalle caratteristiche di personalità delle due persone che contraggono matrimonio. In generale, studi recenti hanno dimostrato che le caratteristiche di personalità riscontrate nelle coppie soddisfatte sono diverse da quelle riscontrate tra le coppie insoddisfatte; i comportamenti associati a specifiche caratteristiche della personalità possono contribuire alla serenità o al conflitto nella relazione (Sousou, 2004).

Uno degli strumenti più validi per la misura della personalità è il modello a cinque fattori (FiveFactors Model, FFM) che identifica cinque aspetti rilevanti della personalità, chiamati Big Five: nevroticismo, estroversione, coscienziosità, apertura all’esperienza e amicalità. I risultati delle ricerche mostrano che il nevroticismo, l’estroversione e la coscienziosità sembrano essere i fattori più importanti nel determinare come le coppie vivono e si adattano alle situazioni e alle condizioni nelle relazioni coniugali.

Il campione finale dello studio comprendeva 200 donne in gravidanza. L’obiettivo era dimostrare se e come l’ansia, la depressione e i tratti di personalità influiscono sul benessere personale e coniugale. Gli strumenti utilizzati sono:

  • Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS): è una scala composta da 14 item, 7 si riferiscono all’ansia e 7 alla depressione.
  • Index of MaritalSatisfaction (IMS) (Hundson, 1982): è un questionario self-report costituito da 25 item i quali misurano i problemi attuali che hanno ridotto la soddisfazione coniugale.
  • Big Five Inventory (BFI): è un questionario di 44 item che valutano la personalità sulla base di cinque dimensioni (nevroticismo, estroversione, coscienziosità, apertura all’esperienza e gradevolezza).

I risultati mostrano delle correlazioni positive tra l’insoddisfazione coniugale e il nevroticismo, ansia e depressione; mentre estroversione, amicalità, coscienziosità e apertura mentale sarebbero negativamente correlate all’insoddisfazione coniugale. Tuttavia, entrambe le correlazioni di amicalità e coscienziosità non sembrano statisticamente significative; al contrario, apertura all’esperienza, nevroticismo e ansia sarebbero predittori significativi dell’insoddisfazione coniugale. In altre parole, il nevroticismo, l’ansia e la depressione possono essere fattori di rischio per l’insoddisfazione coniugale; mentre tratti della personalità come l’apertura all’esperienza e l’estroversione possono essere fattori facilitanti per la soddisfazione coniugale.

Questi risultati potrebbero derivare dal fatto che l’estroversione è maggiormente associata ad emozioni positive, mentre il nevroticismo è legato all’instabilità affettiva e alle emozioni negative come paura, dolore, rabbia, senso di colpa e imbarazzo. Altri studi hanno sottolineato che l’apertura all’esperienza è una delle caratteristiche più apprezzate della personalità selezionate dal compagno, ma che non migliorano la soddisfazione coniugale se i soggetti soffrono di ansia o depressione (Botwin, Buss, &Schackelford, 1997; Schaffhuser, Allemand, & Martin, 2014).

 

Una panoramica del disturbo dell’eccitazione sessuale femminile e le correlazioni con i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione

Dal punto di vista psicologico, cibo e sesso hanno molti aspetti in comune: sono entrambi fonti di piacere e gratificazione per l’individuo ed esprimono bisogni fondamentali legati alla vita, alla sopravvivenza fisica e affettiva.

Giorgia Cipriano e Manuela Tedeschi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

L’eccitazione sessuale

Nel DSM-5 (2013) tra le disfunzioni sessuali è stato introdotto il Disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile.

Nell’atto sessuale, l’eccitazione rappresenta la sua fase centrale, cioè una reazione alla stimolazione sessuale, di tipo mentale o emotivo che è appunto soggettiva, ed una fisica come gonfiore, formicolio o sensazione di pulsazione nell’area genitale oppure umidità vaginale.

Come riportato dalla letteratura scientifica, il desiderio sessuale appare influenzato da fattori socio-biologici (genere, età, disturbi ormonali) ma anche da fattori psicologici (percezione di sè, depressione, ecc.), fattori relazionali (comunicazione interpersonale) e contestuali (Træen, Martinussen, Öberg, & Kavli, 2007). Il desiderio sessuale quindi rappresenta il frutto di una complessa azione esercitata da vari elementi a livello cognitivo (pensieri), affettivo (umore) e neurofisiologico (eccitabilità) (Kingsberg, 2010).

L’eccitazione è spiegabile come una tensione emotiva e corporea, che induce attivazione. Essa è, quindi, come l’orgasmo, un fenomeno per lo più fisico che prevede, nella donna, la lubrificazione vaginale e una serie di reazioni di tipo neurovegetativo, muscolare ed endocrino.

Esposito e collaboratori (2017), all’interno della loro rassegna, affermano che:

La risposta sessuale umana è stata inizialmente descritta da Masters e Johnson come un processo lineare composto da fasi distinte (eccitazione, plateau, orgasmo e risoluzione), più tardi modificato da Kaplan nel modello a tre fasi, comprendenti il desiderio, l’eccitazione e l’orgasmo. Secondo l’elaborazione di Basson, la sessualità femminile si articolerebbe in una dinamica ciclica, nella quale sono in gioco fattori emozionali e relazionali. L’attività sessuale viene generalmente stimolata dal desiderio, che può insorgere spontaneamente o essere condizionato da stimolazioni esogene o dal ricordo di esperienze soddisfacenti. L’eccitazione sessuale include l’eccitazione soggettiva/psicologica, insieme all’eccitazione genitale. Entrambe le forme di eccitazione vengono spesso distinte l’una dall’altra, dal momento che donne sane con disordini dell’eccitazione soggettiva mostrano una normale vaso-congestione in risposta a stimoli erotici degli ormoni sessuali sono richiesti per una fisiologica funzione. (K. Esposito, M.I. Maiorino, 2017)

Disturbo dell eccitazione sessuale femminile e disturbi alimentari - immagine 1

Fig 1. Dinamica ciclica della sessualità femminile: fattori emozionali e relazonali

 

Il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile

Coloro a cui viene diagnosticato il disturbo dell’eccitazione sessuale femminile hanno, come caratteristica principale, l’incapacità di raggiungere ed esperire una “normale” eccitazione femminile spiegabile come l’arrivare e mantenere, fino alla fine dell’atto sessuale, una lubrificazione vaginale in risposta ad un’eccitazione sessuale. La donna, in questo caso, non ha la percezione fisica dell’attivazione sessuale e, infatti durante l’atto, non si verifica il gonfiore dei genitali né la lubrificazione.

Questo disturbo che è tale, se e solo se, i sintomi si protraggono per almeno 6 mesi e causano disagio clinicamente significativo, può essere accompagnato da dolore durante il rapporto sessuale ed è infatti possibile che, a causa di ciò, la donna cominci ad evitare i rapporti sessuali.

Classificazione del disturbo

Il disturbo dell’eccitazione sessuale femminile si suddivide in:

  • Permanente: se esso è presente da quando la donna è sessualmente attiva;
  • Acquisito: se le difficoltà che riguardano la risposta di eccitazione sono insorte in seguito ad apprendimenti culturali ed esperienze personali negative che possono aver condizionato l’atteggiamento verso la sessualità;
  • Generalizzato: la difficoltà a eccitarsi è presente costantemente e al variare dei partner;
  • Situazionale: la difficoltà a eccitarsi è presente con un solo partner o solo in determinate circostanze ambientali.

Ricerche

Dal punto di vista psicologico, cibo e sesso hanno molti aspetti in comune: sono entrambi fonti di piacere e gratificazione per l’individuo. Entrambi, inoltre, esprimono bisogni fondamentali legati alla vita, alla sopravvivenza fisica e affettiva.

Tra i vari ricercatori, Brotto e collaboratori nel 2017 hanno effettuato uno studio con lo scopo di esplorare, nella popolazione generale femminile, quante donne esperissero un basso desiderio sessuale. Nella sua indagine, è emerso che un terzo delle donne ha sperimentato un basso desiderio sessuale per un tempo variabile nel corso di quell’anno.

Altri studi hanno indagato meglio il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile focalizzandosi sulla relazione con i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Sebbene la malnutrizione possa influenzare la libido, altre caratteristiche centrali dei disturbi alimentari, come l’immagine corporea distorta, l’insoddisfazione del corpo e la vergogna, possono anche compromettere il sano funzionamento sessuale e le relazioni tra individui che lottano con la patologia alimentare. Gli scienziati, perciò, hanno ipotizzato che i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione siano in comorbidità con la diagnosi di disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione femminile (A. Graziottin, 2004). Le basi neurobiologiche del desiderio per il cibo e per il sesso sono sottese entrambe dalla stessa via neurobiologica che ha come neurotrasmettitore la dopamina. Sia l’atto sessuale che l’alimentazione sono influenzati dalle emozioni che si esperiscono. Lo studio di Pinheiro e collaboratori, pubblicato sull’International Journal of Eating Disorder nel 2009, in questo campo, ha infatti evidenziato correlazioni in particolare con l’Anoressia Nervosa e con la Bulimia nervosa.

Al contrario, non sono stati ancora effettuati studi per verificare se il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile sia in correlazione con altri disturbi dell’alimentazione, come ad esempio il Binge Eating Disorder. Da pochi mesi però, è stato esposto al convegno di Riccione della scuola di Psicoterapia cognitivo-comportamentale del network Studi Cognitivi, un poster relativo ad un’indagine preliminare di Cavallaro, Cipriano e Colombo (2019) sulla popolazione generale femminile e, i primi risultati, hanno evidenziato una correlazione tra disturbo dell’eccitazione sessuale femminile e Binge Eating Disorder.

Ma non solo, è stato anche evidenziato che le donne con questo tipo di disturbo presentano meta-credenze positive sul rimuginio. Questi dati ci fanno riflettere su come il disturbo dell’eccitazione sessuale femminile potrebbe essere in comorbidità anche con l’obesità: la sovra-alimentazione potrebbe avere un ruolo potenzialmente antisessuale in quanto, in acuto, un pasto abbondante, ricco di grassi e proteine, potrebbe rallentare la risposta sessuale fisica fino a bloccarla, perché causerebbe una vera e propria dispepsia acuta da sovraccarico alimentare, che “sequestra” molto più sangue a livello intestinale, per la digestione appesantita, sottraendolo al circuito sessuale. L’eccesso di alimentazione, se protratto, porterebbe al sovrappeso fino alla franca obesità, con tutti i problemi associati d’immagine corporea, con crollo dell’autostima e crescente depressione, potenti nemici del desiderio sessuale.

Studi futuri potrebbero indagare anche questa possibile ipotesi.

Trattamento

Il trattamento per le pazienti con disturbi dell’eccitazione e del desiderio sessuale femminile richiede diversi step ed interventi. Infatti, come discusso precedentemente, il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile è spesso in comorbidità con un disturbo dell’alimentazione e della nutrizione. E’ perciò auspicabile prima lavorare sul disturbo della nutrizione e dell’alimentazione e, solo in un secondo momento, sul disturbo sessuale. Il primo passo così, è comprendere e modificare le cause, spesso emotive o relazionali, del disturbo del comportamento alimentare e solo in seguito intervenire sul disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile. A tal proposito, il trattamento per questo tipo di disturbo, richiede diverse fasi comprensive di psico-educazione: dare gli strumenti affinché le persone possano accedere alla conoscenza dell’anatomia sessuale e del ciclo di risposta sessuale (fasi del funzionamento erotico), al fine di migliorare la consapevolezza del proprio corpo (esplorazione visiva e cinestesica) e migliorare la comprensione dei fattori fisiologici e psicologici coinvolti nel rapporto sessuale, e prendere coscienza dell’esame delle credenze e dei miti comuni inerenti il sesso. Dopo quindi un buon assessment e la fase introduttiva di psico-educazione, si procede con la terapia cognitivo-comportamentale al fine di conoscersi meglio, di conoscere meglio se stessi in relazione con l’altro, conoscere il proprio piacere e i propri vissuti. A tutto ciò si aggiungono anche esercizi comportamentali, come ad esempio gli esercizi di Kegel per migliorare la sensibilità vaginale, la capacità di eccitamento e di orgasmo. Essendo un disturbo che può presentarsi con diversa severità è consigliabile un tipo di intervento multidisciplinare. Accanto alla terapia psicologica, è auspicabile la presenza di un medico che valuti la prescrizione di farmaci che stimolino il sistema nervoso simpatico, nonché il flusso sanguigno e alcune componenti del sistema nervoso. Attualmente, gli interventi medici/fisici per il disturbo da eccitazione sessuale femminile sono ancora in fase di sperimentazione.

 

cancel