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Pensiero consapevole e automatico – Il Framing

Ogni clinico dovrebbe tenere in considerazione nel suo lavoro con i pazienti che tutti siamo soggetti a bias ed imparare ad operare con piani più adattivi e funzionali, trasformando l’errore in occasione di apprendimento.

Il presente contributo è il sesto e l’ultimo di una serie di articoli sull’argomento. Nell’ articolo continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

 

Il Framing

La cornice entro la quale si presentano le informazioni di un problema influenza notevolmente la scelta delle alternative di soluzione individuate. Gli esperimenti su questo tema sono copiosi.

Nel setting terapeutico con il paziente andiamo a verificare i risultati ottenuti rispetto agli obiettivi concordati durante la terapia. E’ bene non farlo spesso, perché il framing ampio riduce l’avversione al rischio. In pratica si è più disposti a percepire il piacere dei guadagni, ciò che si è ottenuto dalla terapia, piuttosto che il dolore per le perdite, ciò che ancora non si riesce ad ottenere in termini di risultato. E’ possibile, così che il paziente possa ritenersi soddisfatto del trattamento, senza consolidare le nuove acquisizioni e senza aver maturato la capacità di generalizzarle e soprattutto abbandonando il setting prematuramente prima di aver risolto tutte le problematiche presentate.

Il conflitto d’interessi tra omissione e commissione

Il senso di responsabilità è maggiore per il fare (colpa) che per il non fare (rammarico). La differenza è la deviazione dal default, non riduciamo le perdite per non ammettere il fallimento.

Il giocatore che perde continua a giocare, l’innamorato non si dà per vinto e continua a corteggiare la stessa donna che non ne vuole sapere, il broker naif continua a mantenere i suoi investimenti quando la borsa è segnata dall’orso. L’ossessivo non abbandona i suoi rituali compulsivi fin quando non si dice di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento terrifico.

Il rammarico di non aver fatto tutto ciò che era possibile è peggio del rimorso per aver compiuto un’azione dannosa. Tra l’altro i nostri conti mentali sono separati, per l’effetto che agiscono in contesti mentali diversi e separati, quindi le perdite e i guadagni, non sono compensati. Utilizziamo un framing ristretto che ci impedisce di avere una visione di più largo periodo che ci farebbe evitare molti costi sommersi (il famoso “fare trentuno perché abbiamo già fatto trenta”) dovuti agli investimenti in conti perdenti quando sarebbero disponibili investimenti migliori.

L’impegno in piani di vita disadattivi, per esempio, è spesso difficile da dismettere proprio perché il framing è ristretto e l’avversione alla perdita impedisce il cambiamento, anche se si pagano costi sommersi enormi in termini di sofferenza.

Una possibile motivazione a prendere decisioni diverse può essere fornita se la valutazione è congiunta, ossia se anziché valutare un unico scenario (un unico piano) si è nella condizione di valutare più scenari alternativi.  Così è più facile che si arrivi a un’inversione di preferenza (Kahneman, 2013) in contesti mutati.

In realtà, per lo stesso motivo, anche i terapeuti spesso sono restii a riorganizzare strategie terapeutiche risultate fallimentari quando si è alla presenza d’impasse e rotture dell’alleanza.

Frame e realtà

Il framing emozionale è stato valutato da neuroscienziati in molti esperimenti e consiste nell’attivazione dell’amigdala che provoca eccitazione emozionale durante una scelta del sistema 1. Resistere comporta un conflitto con l’attivazione del cingolo anteriore. Le scelte più razionali, condotte da soggetti meno esposti al framing, attivano la corteccia frontale che combina emozione e ragione.

Il framing emozionale influenza le scelte secondo la formulazione e descrizione della situazione, del funzionamento diverso del sé esperienziale e del sé memonico e in virtù del fatto che le decisioni non sono sempre associate all’esperienza, ma spesso forgiate dai ricordi (Kahneman, 2013).

Ciò mette in discussione il modello dell’agente razionale. Abbiamo preferenze sulla durata delle conseguenze dolorose e piacevoli favorite dalla memoria, una funzione del sistema 1 che si è evoluta in funzione della regola picco-fine. La valutazione di un’esperienza retrospettivamente è riferita al momento peggiore e al termine dell’esperienza stessa, mentre vi è disattenzione per la durata.

Quando pensiamo a un fallimento, la finale dei campionati europei persa, trascuriamo tutto ciò che di positivo vi è stato durante il torneo. Un percorso terapeutico può fornire al paziente un’esperienza positiva se la narrazione è ricordata dal sé memonico che ha più influenza del sé esperienziale senza che vi sia un evento, per esempio, in fase di chiusura, momento che proprio per questo va curato in modo particolare con molta attenzione, che metta a repentaglio l’integrità dell’intero percorso. L’illusione della focalizzazione induce in errore sullo stato attuale, il paziente può fermare l’attenzione sul momento senza consolidare il tempo e quindi la durata del trattamento.

Il sé esperienziale mette insieme una serie di momenti che possono essere più o meno felici e più o meno dolorosi, ma la somma dei valori dei vari momenti può essere offuscata dal sé memonico che ferma e rappresenta alcuni momenti critici, il culmine e la fine, mentre la durata è trascurata.

La ricostruzione della narrazione nella sequenza temporale e la regolazione di alcune funzioni esecutive (memoria, attenzione, pensiero) possono ridare coerenza e integrazione tra sé memonico e sé esperienziale, riducendo bias che generano sofferenza per una ricostruzione parziale e distorta degli eventi.

La distanza psicologica

Gli eventi possono essere valutati in modo diverso per la distanza psicologica da cui si valutano. La distanza è temporale e spaziale quindi un evento può essere prossimo o distante in termini temporali o spaziali. Queste distanze secondo la construal level theory influenzano il livello di costruzione della realtà (Mancini, Giacomantonio, 2018).

L’assetto motivazionale in terapia può essere così influenzato rispetto al raggiungimento degli scopi concordati o dei compiti assegnati.

Review della letteratura recente sul tema

La literature review ha utilizzato l’archivio elettronico “EBSCOhost” inserendo le parole chiave “prospect theory; decision making; thought & thinking; framing effect; anchoring effect; anchoring and adjustment heuristic; affect heuristic” e selezionato le pubblicazioni accademiche dell’ultimo decennio relative al processo decisionale in ambito clinico.

Sull’argomento del decision making la letteratura è vasta e ne prenderemo in considerazione solo una parte inerente l’interesse specifico del tema: lavorare in psicoterapia comporta scelte sia per il paziente, sia per il terapeuta soggette a possibili bias che quanto meno, possono ostacolare il raggiungimento degli scopi.

Il processo di decision making è il risultato di processi cognitivi ed emozionali che determinano scelte tra diverse alternative. Pravettoni et al. (2015) distinguono due approcci, uno normativo, l’altro descrittivo. Il primo sostiene che in condizioni d’incertezza e rischio si rappresentano diverse opzioni in termini di utilità attesa e la scelta è fatta in modo razionale rispetto alla probabilità di conseguire il risultato atteso, per il secondo la capacità di prendere decisioni non segue sempre le leggi della razionalità ma è influenzata sia da processi cognitivi sia da aspetti emotivi e sociali.

Il meccanismo del Deferred Acceptance Algorithm (Cormen et al., 2013) può rappresentare un ottimo esempio del primo approccio, consente di rimandare, infatti, le scelte definitive fino a quando si è trovata la soluzione ideale. Quando si giunge alla soluzione ideale tutte le opzioni sono state considerate e non ce n’è una migliore.

La distanza temporale, però, è uno dei criteri con cui costruiamo le scelte (temporal discounting) e spesso l’interesse a breve termine (l’uovo oggi) si contrappone all’interesse a lungo termine (la gallina domani) e la preferenza è inversamente proporzionale al ritardo della ricompensa (Ruokang, Takahashi, 2012; Livet, 2017). Inoltre il Deferred Acceptance Algorithm, non tiene conto delle rappresentazioni e delle emozioni dell’agente il cui ruolo è stato molto bene segnalato dalla teoria del marcatore somatico di Damasio (Lerner et al., 2015).

L’approccio descrittivo, invece, si propone di determinare i pattern cognitivi sottostanti i reali comportamenti decisionali, facendo ricorso alle euristiche (Gigerenzen, 2011; 2015), scorciatoie che consentono di arrivare rapidamente, senza una ricerca esaustiva di tutte le informazioni, a una scelta che consente il raggiungimento degli scopi.

Una grande quantità di studi presenti in letteratura si soffermano sul processo decisionale in termini di guadagni o perdite evidenziando che le persone reagiscono in modo diverso a una particolare scelta a seconda che sia presentata come una perdita o come un guadagno. Mettere in rilievo l’uno o l’altro dei due aspetti complementari influenza la valutazione e le decisioni che ne conseguono.

Gong et al. (2013) hanno condotto una review della letteratura pubblicata in lingua inglese dal 2005 al 2012, utilizzando ricerche elettroniche e bibliografiche attraverso l’utilizzo di Medline, Science Direct e Pro Quest Digital Dissertation.

Le conclusioni mettono in evidenza risultati a volte incoerenti per la presenza di un’eterogeneità di variabili che possono entrare in gioco quando le persone devono effettuare scelte nel campo della salute. Ulteriori conferme in questo senso sono state fornite da altre ricerche (Evangeli et al., 2013; Van’t Riet et al., 2014; Lucas et al., 2016).

Alcuni lavori presi in considerazione attestano, ad esempio, sia che le persone sono più facilmente persuase dell’importanza di mettere in atto comportamenti di prevenzione quando i messaggi hanno un contenuto positivo rispetto ad uno negativo, sia l’opposto.

Kingsbury et al. (2015) hanno esaminato gli effetti del framing sui comportamenti che hanno sia implicazioni sulla salute che nelle relazioni interpersonali. Lo studio ha rilevato che i messaggi inquadrati come guadagno sono più efficaci per promuovere comportamenti positivi in ambito di salute, mentre per quanto riguarda le conseguenze sociali, per sortire maggiori effetti sul comportamento è preferibile inquadrare i messaggi come perdite.

Il framing dei messaggi è importante per incoraggiare il cambiamento del comportamento e deve tenere presente i benefici enfatizzati e le priorità personali dei pazienti (Keyworth et al., 2018) nonché l’ottimismo disposizionale (Zhao et al., 2015).

I messaggi con contenuti negativi, in relazione a quanto afferma la Prospect Theory, necessitano di un’elaborazione più lunga e portano i soggetti a mettere in atto comportamenti difensivi e protettivi (Brown et al. , 2014).

In sostanza  numerose variabili entrano in gioco nella decisione di mettere in atto o meno un determinato comportamento, le caratteristiche individuali dei singoli soggetti, la propensione personale ad assumere rischi, l’esperienza, il contesto organizzativo, le preferenze del paziente, la condivisione del processo decisionale (Broc et al., 2017).

Anche l’età ha il suo peso. Malhotra et al. (2017) e  Pachur et al. (2017) hanno osservato il ruolo dei fattori cognitivi e motivazionali nei processi decisionali di rischio confrontando i giovani con gli anziani: gli anziani sono più ottimisti rispetto ai guadagni e non hanno mostrato alcuna avversione alla perdita.

Gli studi di Lombardi et al. (2010) e di Kreiner et al. (2017) si sono soffermati sull’impatto che una domanda può avere sulla risposta, rilevando che le risposte sono suscettibili di ancoraggio quando viene data al soggetto la possibilità di utilizzare un formato di risposta in scala o utilizzando dei grafici.

Verhofstadt et al. (2016) hanno esaminato come le risposte dei soggetti cambiano a seconda del tipo di ancoraggio che contiene la domanda; se l’ancora è fornita dall’interlocutore e quindi è esplicita oppure viene autogenerata dal soggetto.

Aspetti questi da tenere in debita considerazione durante un colloquio clinico poiché il modo in cui viene posta la domanda dal terapeuta influenza il paziente circa la dimensione che valuta e la risposta che fornisce.

Domande aperte su concetti e costrutti multidimensionali, ad esempio, volte a comprendere il vissuto di un soggetto circa la propria qualità di vita, il proprio benessere o quanto si sente felice senza fornire dei parametri di riferimento, portano il soggetto intervistato ad individuare una propria ancora (il soggetto può confrontarsi con altri soggetti, confrontare la propria vita attuale con quella desiderata, essere sensibile al contesto in cui viene posta la domanda, ecc.) che avrà un impatto sulla stima effettuata ed influenzerà la risposta.

Una ricerca di Lisa et al. (2017) ha esplorato come, oltre al modo in cui viene presentato un problema, anche il tempo diventi un fattore determinante nel processo decisionale. Quando le persone devono affrontare decisioni improvvise ed immediate, la pressione del tempo aumenta gli effetti del framing attivando il pensiero di tipo1, più intuitivo ed emotivo, facilitando risposte automatiche.

Le ricerche sugli effetti del framing nel processo decisionale in ambito psicopatologico non sono moltissime, ma è ragionevole presumere, come rilevato da Jefferies-Sewell et al. (2015) che anche gli esperti del settore non siano immuni da tale effetto. Uno studio di questi autori che ha coinvolto 678 psichiatri attesta che la presentazione delle informazioni sui rischi può influenzare il processo decisionale. Rispetto alla teoria classica in cui le situazioni inquadrate positivamente portano avversione al rischio e le situazioni incorniciate negativamente comportano una maggiore possibilità di scelte rischiose, in questo studio sembra emergere un modello inverso. I partecipanti a cui era detto che i rischi fossero “alti”, si sono mostrati più inclini a scegliere comportamenti di cautela, mentre quelli a cui era detto che il rischio fosse “basso” si mostravano meno propensi a tenere in debita considerazione la sicurezza del paziente. Jefferies-Sewell et al. concludono che gli effetti del framing possono essere spiegati in termini di mancanza di comprensione della probabilità che un certo evento si verifichi e sottolineano l’importanza di un’adeguata formazione soprattutto per professionisti meno esperti.

Parker (2014; 2018) si è soffermato sulle caratteristiche specifiche che entrano in gioco quando si fa una diagnosi, spiegando l’importanza del “ragionamento clinico”. Riprendendo l’esempio riportato da Kahneman relativo all’abilità acquisita da un giocatore di scacchi che a seguito di un ampio addestramento è in grado di prendere decisioni non in base a scelte intuitive, Parker sostiene che in ambito diagnostico è necessario formulare una “diagnosi provvisoria” in maniera “automatica” e successivamente attivare il Sistema 2 per verificare i dati di cui si dispone in modo da confermare o respingere la prima ipotesi diagnostica. In psichiatria i sintomi non hanno un peso assoluto e specifico per questo l’autore sostiene l’importanza di utilizzare in modo integrato il sistema 1 e il Sistema 2 per definire ipotesi soggette a invalidazioni e/o conferme. Gli errori in cui può incorrere il Sistema 1 sarebbero cosi compensati dal Sistema 2.

Parker, inoltre, evidenzia l’importanza e la centralità dell’esperienza, dato che l’analisi dei sintomi non è spesso sufficiente vista la peculiarità dell’indagine clinica che deve tenere in considerazione diverse dimensioni e per questo soggetta a fallacie e bias.

In ambito psicopatologico la diagnosi non trova conferme in prove di laboratorio è, quindi, necessario il ragionamento clinico, oltretutto quasi tutte le diagnosi psichiatriche mancano di una precisa definizione di confini, le categorie diagnostiche si modificano nel tempo e gli stessi sintomi sono presenti in differenti patologie.

Inoltre, un clinico non si limita solamente a fare diagnosi ma si chiede il perché un paziente ha presentato proprio in un momento specifico una determinata condizione e cerca nella sua storia evolutiva una serie di informazioni utili alla definizione del progetto terapeutico (Parker, 2018).

Relativamente agli errori euristici che possono commettere gli esperti, soggetti con adeguata formazione accademica e conoscenze specifiche relative al processo decisionale, Ribiero et al. 2014 e Bennett et al., 2014 in linea con la Prospect Theory, mettono in rilievo la possibilità che anche questi professionisti possano essere soggetti all’effetto ancoraggio che si può verificare anche quando l’ancora è incompleta, inaccurata, irrilevante, non plausibile o persino casuale.

Sebbene tale effetto sia stato ampiamente riconosciuto come un’euristica estremamente robusta e potente, uno studio di Zhao (2012) ha rimarcato che motivare all’accuratezza del giudizio e fornire informazioni sui processi metacognitivi può contrastarlo. Risultati simili sono stati ottenuti da Smith et al. (2013) che, contrariamente a quando riferito da Kanheman, sottolineano come una maggiore conoscenza porta ad un minor effetto ancoraggio e che, in relazione all’influenza delle ancore sulle valutazioni, gli effetti sono ancora più moderati se quelle fornite hanno dei valori estremi.

Anche le ricerche di Chiesi et al. (2011) e De Neys (2014) hanno attestato che le capacità metacognitive sono positivamente correlate alla tendenza a inibire risposte euristiche e alla capacità di prendere in considerazione diverse alternative, riducendo la tendenza a fare affidamento su scelte rapide e predefinite.

Le ricerche di Wendt et al.(2018) e di Zamarian et al. (2019) mostrano, altresì che l’esperienza migliora la capacità diagnostica e quindi diminuisce gli effetti di ancoraggio e di framing.

Da un punto di vista più strettamente neuropsicologico gli studi di McElroy et al. (2013) e di Corser et al. (2014) hanno esaminato il ruolo di entrambi gli emisferi nell’ambito del decision making favorendo la comprensione del contributo di ciascun emisfero nel processo decisionale, mentre altre ricerche hanno evidenziato il ruolo dell’ambiente in relazione ai diversi livelli di analisi per la riformulazione di credenze implicate nei processi di cambiamento decisionale (Kotabe et al. 2016; Kempermann, 2019; Berman et al. 2019).

Di estremo interesse è una ricerca di Johnson et al.(2013) che prende in considerazione il ruolo della Prospect Theory rispetto al tema della socialità. L’essere umano da un punto di vista evolutivo è portato alla socializzazione e, pertanto, il concetto di avversione alla perdita non si può ritenere valido per questo dominio. L’importanza di entrare in relazione è così importante per l’uomo (sopravvivenza e successo riproduttivo) che più facilmente assume i rischi del coinvolgimento sociale con gli altri rispetto a rischi in ambiti non sociali, indipendentemente dal fatto che la scelta sia inquadrata come guadagno o perdita.

Considerazioni conclusive

Nel complesso gli studi sul decision making hanno evidenziato che i soggetti sono sensibili e influenzati dal modo, dal tipo e dal contesto in cui le informazioni cliniche sono comunicate. Dall’analisi della letteratura emerge che diversi fattori possono influenzare le scelte dei soggetti e i risultati che in alcuni casi sono anche discordanti. I dati a disposizione dovranno essere adeguatamente approfonditi da ricerche future.

Sembra, comunque, emergere il ruolo delle capacità metacognitive, del ragionamento clinico e dell’esperienza nel ridurre significativamente i bias in ambito psicopatologico e queste indicazioni rappresentano informazioni che ogni clinico dovrebbe tenere in debita considerazione nel suo lavoro con i pazienti.

Il sistema 1, il pensiero intuitivo, commette errori quando guida il comportamento, ma è anche all’origine di molte scelte corrette. La memoria conserva le abilità acquisite per fronteggiare le situazioni problematiche che si presentano. Ambiente regolare, pratica e feed-back sull’efficacia di pensieri e azioni ci permettono di acquisire un repertorio di competenze, giudizi e scelte intuitive che si rivelano adattivi.

A volte la realtà ci richiede una risposta euristica più complessa, meno rapida, più analitica. Ecco che entra in gioco il sistema 2 che ci avverte che siamo in un territorio pieno di trappole, dilemmi, intoppi e dobbiamo muoverci con cautela per non incorrere in illusioni cognitive.

Avere ben chiaro che siamo soggetti ai bias descritti può aiutarci a operare con piani più adattivi e funzionali e a trasformare l’errore in occasione di apprendimento. E ciò è utile al paziente e al terapeuta.

 

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Disimparare la paura con l’aiuto della mindfulness

La forza specifica della Mindfulness sembrerebbe risiedere nella capacità di alterare sia fisicamente che funzionalmente le connessioni tra le strutture cerebrali coinvolte nell’espressione della paura e nell’apprendimento dell’estinzione, come rivelato da svariati studi di neuroimaging.

 

La sintomatologia ansiosa, così come quella legata al trauma, rappresentano ad oggi due delle sfide principali nella clinica contemporanea su scala globale (Baxter et al., 2014).

È facile immaginare come nell’evoluzione di molte specie, tra le quali la nostra, la paura possa aver avuto un ruolo fondamentale: se infatti l’incolumità dell’individuo rappresenta il primo imperativo per la conservazione a lungo termine della specie, imparare cosa possa essere pericoloso per la sopravvivenza diventa, letteralmente, di vitale importanza. Tuttavia, se imparare a distinguere una minaccia è una dote adattiva necessaria alla sopravvivenza, talvolta l’esperienza di un evento negativo viene indissolubilmente legata ad uno stimolo altrimenti neutro, condizionando la risposta dell’individuo ogniqualvolta si troverà esposto a tale stimolo, da ultimo lasciandolo in balia di emozioni di paura e ansia difficili da spiegare e ancora più difficili da contrastare.

È questo il caso delle fobie, nelle quali la naturale risposta fisiologica di paura e la conseguente risposta comportamentale di freezing o di evitamento risultano sproporzionate alla reale minaccia, o divengono talmente pressanti ed automatiche da inibire qualsiasi alternativa, cronicizzandosi e divenendo talvolta invalidanti. L’apprendimento di tale associazione coinvolge diversi circuiti neurali che convergono nell’amigdala, struttura coinvolta nel consolidamento emotivo della memoria e nella conseguente risposta di paura. Diversi studi di neuroimaging hanno potuto confermare come la sintomatologia ansiosa sia accompagnata da un incremento dell’attivazione nel circuito che include appunto l’amigdala, l’insula anteriore, la corteccia cingolata dorsale anteriore e parti dorsali del mesencefalo, la cui magnitudine di attivazione poteva predire la risposta condizionata allo stimolo (Fullana et al., 2016).

Il trattamento d’elezione proposto per questa problematica è di stampo Cognitivo-Comportamentale e prevede dei protocolli di esposizione allo stimolo volti alla desensibilizzazione; la base teoretica su cui poggia questo tipo di terapia è l’apprendimento dell’estinzione. Esponendo il soggetto allo stesso stimolo che ha originariamente generato la risposta di paura, in un nuovo contesto e con la possibilità di modulare la propria risposta ansiosa, si viene quindi a rompere l’associazione automatica tra quello stimolo ed un esito negativo, aprendo la possibilità di apprendere nuove strategie comportamentali più adattive. Studi sugli umani, così come sugli animali, hanno evidenziato come questo nuovo apprendimento sia reso possibile grazie all’azione della porzione ventromediale della corteccia prefrontale (vmPFC) e dell’ippocampo, che a seguito del processo di estinzione agiscono sull’amigdala sopprimendo la risposta appresa di paura (Fullana et al., 2018; Greco &Liberzon, 2016).

È stato dimostrato come in assenza di estinzione, l’associazione originaria rimanga attiva, ripresentando la stessa risposta condizionata anche a distanza di molto tempo o in contesti differenti; inoltre, nei pazienti affetti da disturbi d’ansia o legati al trauma, sono compresenti pattern di attivazione anomala delle strutture cerebrali coinvolte, nonché un deficit nell’apprendimento dell’estinzione stessa e nel suo mantenimento (Graham & Milad, 2011; Wicking et al., 2016). Per questo motivo, interventi che abbiano come target specifico l’apprendimento dell’estinzione potrebbero massimizzare i risultati delle terapie che si occupano di questa problematica.

Uno studio condotto da Björkstrand e colleghi (2019) si è proposto di indagare se la Mindfulness possa costituire l’alleato ideale nel trattamento delle fobie e dei disturbi d’ansia: questa pratica meditativa ha infatti già dimostrato i propri effetti positivi come coadiuvante in diversi tipi di terapia, accrescendo il livello di attenzione e la capacità di regolazione delle emozioni nei suoi praticanti. Tuttavia, la sua forza specifica sembrerebbe risiedere nella capacità di alterare sia fisicamente che funzionalmente le connessioni tra le strutture cerebrali coinvolte nell’espressione della paura e nell’apprendimento dell’estinzione, come rivelato da svariati studi di neuroimaging (Hölzel et al., 2016; Tang, Hölzel, & Posner, 2015): le dimensioni e il livello di attivazione dell’amigdala sono risultate inferiori dopo un training di Minfulness, mentre l’attività dell’ippocampo risultava in aumento; le connessioni funzionali tra la corteccia prefrontale e l’amigdala risultavano alterate e accompagnate da una maggiore attivazione corticale, inoltre risultava aumentata la connettività strutturale tra la porzione ventromediale della corteccia prefrontale (vmPFC) e l’amigdala che, come abbiamo già detto, è fondamentale nell’apprendimento e mantenimento dell’estinzione.

Il campione sperimentale, composto da soggetti clinicamente sani, è stato assegnato casualmente ad uno di due gruppi, il primo che avrebbe seguito un training di Mindfulness della durata di 10-20 minuti quotidiani nell’arco di quattro settimane, grazie ad un’applicazione disponibile per smartphone (Headspace), il secondo avrebbe costituito il gruppo di controllo, non ricevendo alcun training.

Poi, in seguito all’apprendimento dell’associazione mediante un classico condizionamento aversivo Pavloviano, in cui uno stimolo neutrale (in questo caso l’immagine di quadrati di diverso colore) veniva sistematicamente associato alla somministrazione di una leggera scossa elettrica, vi era una prima fase di estinzione, ottenuta ripresentando gli stessi stimoli, questa volta disgiunti dalla scossa elettrica. Il giorno seguente veniva poi proposta una seconda sessione di estinzione per valutare il potenziale effetto del tempo trascorso (24h) sul mantenimento della stessa.

L’ipotesi principale, ovvero che la Mindfulness abbia un effetto mirato sul mantenimento dell’estinzione, è stata verificata ottenendo un indice del recupero spontaneo, ovvero sottraendo l’indice di conduttanza cutanea relativa all’ultima sessione di estinzione del primo giorno all’indice di conduttanza riscontrato nella prima sessione di re-estinzione nel secondo giorno: in altre parole verificando quanti ‘passi indietro’ in termini di attivazione fisiologica della paura fossero stati fatti durante la notte, tornando ad avere una reazione intensa alla nuova presentazione dello stimolo.

Gli autori non hanno riscontrato differenze significative tra i due gruppi in termini di apprendimento dell’estinzione, entrambi cioè disimparavano con la stessa facilità l’associazione tra lo stimolo e l’assenza di scossa elettrica, tuttavia, solo il gruppo che non aveva partecipato al training di Mindfulness riportava la presenza di recupero spontaneo, confermando l’ipotesi iniziale che potesse esservi un effetto specifico sul mantenimento dell’estinzione.

Con le dovute limitazioni, questo studio contribuisce a validare l’apporto della Mindfulness con potenziali implicazioni per la clinica rivolta alle fobie ed ai disturbi di natura traumatica, che potrebbero certamente giovare dell’inserimento di questa disciplina come coadiuvante nel contesto dei protocolli già esistenti, o divenire la base per interventi specifici mirati a contrastare il recupero spontaneo delle associazioni disfunzionali apprese.

Pensiero consapevole e pensiero automatico – La scelta del cambiamento in psicoterapia

La terapia non dovrebbe essere mirata a togliere i comportamenti sintomatici, che comunque sono il modo in cui il paziente è riuscito a cavarsela finora, quanto piuttosto ad un cambiamento che permetta di aggiungere nuove possibilità, nuove strategie in modo che aumentino i gradi di libertà e il paziente non sia costretto a fare solo come ha sempre fatto, ma possa scegliere se farlo o no avendo altre opzioni.

Il presente contributo è il quinto di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

 

Le scelte rischiose

Cambiare è una scelta rischiosa per qualsiasi individuo: ‘Sai da cosa fuggi, ma non sai quello che cerchi’ come sosteneva Lello Arena nel film di Troisi Ricomincio da tre.

E’ vero che ciò che dovrebbe abbandonare il paziente è qualcosa che lo fa soffrire, ma è l’unica cosa che ha, che conosce e che ha sempre fatto. Si ricordi la vecchietta di Siracusa che pregava lunga vita al sanguinario tiranno perché al peggio non c’è mai limite come afferma anche Frankestein Junior ricordando che ‘potrebbe piovere!’.

L’avversione al rischio ci fa scegliere la cosa sicura e inoltre abbiamo una ‘cecità indotta da teoria’, una volta scelta una teoria e utilizzata è difficile scoprirne i difetti (Kahneman, 2013). Siamo confermazionisti per natura e quando ci imbattiamo in un contro esempio, immaginiamo che vi sarà una spiegazione che al momento ci sfugge, ma sicuramente emergerà a una riflessione più approfondita. Il sistema 2 poi si stanca facilmente e la teoria rimane in piedi.

Se poi consideriamo che le perdite sono più dolorose dei guadagni comprendiamo perché è tanto difficile per i pazienti cambiare e perché lo è anche per i terapeuti.

Guadagni e perdite come ci insegna Kahneman, secondo la Prospect Theory sono valutati secondo il punto di riferimento allo stato precedente ai due eventi.

Entrano in gioco tre caratteristiche operative del sistema 1:

  • 1 la valutazione è relativa al punto di riferimento definito ‘livello di adattamento’. Sopra abbiamo guadagni, sotto perdite. Qual è il punto di riferimento del paziente?
  • 2 la diminuzione della sensibilità vale anche per i cambiamenti. Accendere una candela in una stanza buia ha un grande effetto a differenza di accenderla in una stanza illuminata. Come possiamo far sì che il paziente abbia la sensazione che riusciremo ad accendere la candela nella stanza buia che abita?
  • 3 l’avversione alla perdita è evolutivamente funzionale, evitare le minacce è più urgente che cogliere le opportunità per la sopravvivenza e la riproduzione in un ambiente ostile. Le opzioni del paziente e del terapeuta nel setting sono miste, quindi accettare o rifiutare il rischio dipende dalla capacità di fare un bilancio costi/benefici tra perdite e guadagni del cambiamento.

Quando il terapeuta riesce a far sì che il paziente percepisca e ponga attenzione ai guadagni (1,5-2,5 più grandi delle perdite) la motivazione, l’alleanza e il lavoro terapeutico ne traggono grande beneficio.

La guarigione rientra nella categoria dei guadagni ma l’abbandono dello status quo sebbene sintomatico è percepito come una perdita.

Se la posta in gioco è importante, diventa efficace contrapporre una perdita sicura con una perdita più grande in modo da aumentare la propensione al rischio.

Altri due processi devono essere considerati.

Più alta sarà l’aspettativa di guadagno, più dolorosa sarà la delusione per la perdita. Esperienza comune dei terapeuti che trattano pazienti con alte aspettative di cambiamento è la difficoltà di riportarli a confrontarsi con ciò che è fattibile; in altre parole operare nello spazio prossimale senza generare una forte delusione per la mancanza di progressi che si erano illusi di ottenere.

E poi c’è il rammarico per aver fatto una scelta rischiosa non andata a buon fine e aver rinunciato a un buon guadagno. I pazienti spesso di fronte a loro scelte di vita possono provare rammarico e rimanere oltremodo ancorati a queste esperienze che ostacolano il cambiamento.

Le perdite in relazione alle dotazioni

Abbiamo rilevato l’importanza del punto di riferimento per la Prospect Theory.

Le perdite sono naturalmente valutate in relazione al punto di riferimento che determina un ‘effetto dotazione’. Quali saranno i vantaggi e gli svantaggi di un cambiamento?

L’avversione alla perdita ci spinge a essere conservatori e favorisce lo status quo. Le scelte hanno un forte bias a favore del punto di riferimento, quindi è più appropriato operare cambiamenti piccoli.

Le dotazioni, di qualsiasi genere esse siano, non vanno perse. L’avversione alla perdita favorisce la conservazione delle nostre risorse se e solo se possono essere usate.

L’indicazione per la terapia è prospettare al paziente che quella particolare risorsa (piano semi-adattivo) è diventata spesso inefficace, anche se conserva un certo valore per la funzione che ha svolto in passato e che può ancora svolgere, se utilizzata in modo meno pervasivo e inflessibile da non limitare i gradi di libertà, avendo, così, la possibilità di alternare altri piani più funzionali ai diversi contesti da affrontare.

La terapia non dovrebbe essere mirata a togliere i comportamenti sintomatici, che comunque sono il modo in cui il paziente è riuscito a cavarsela finora, quanto piuttosto ad aggiungere nuove possibilità, nuove strategie in modo che aumentino i gradi di libertà e il paziente non sia costretto a fare solo come ha sempre fatto, ma possa scegliere se farlo o no avendo altre opzioni.

La domanda posta correttamente potrebbe essere ‘Quanto desideri mantenerla, rispetto alle alternative che potresti adottare?’

Visione psicologica e biologica

Negatività e fuga dominano su positività e approccio (Kahneman, 2013). Le risposte automatiche del sistema 1 sono state evolutivamente selezionate per rispondere velocemente a un ambiente pieno di minacce.

L’avversione all’idea di non raggiungere un obiettivo è molto più forte della motivazione a raggiungerlo e questo spesso spinge a difendere lo status quo per evitare perdite (better safe than sorry).

Se navigo sul fiume e mi accorgo che la mia imbarcazione ha una falla posso adoperarmi per ripararla o per scaricare l’acqua che entra nell’imbarcazione. E’ possibile che queste due strategie siano entrambe inefficaci e che la navigazione sia sempre più perigliosa ma non abbandonerò la mia barchetta se non quando avrò la possibilità di saltare su un altro mezzo più sicuro.

In terapia è necessario costruire piani esistenziali più adattivi perché il paziente possa rinunciare a quelli che ha sperimentato ormai come disfunzionali.

Giudizi e calcolo probabilistico

I pesi delle decisioni per ottenere un risultato sono diversi dalla probabilità attribuita al risultato (Kahneman, 2013).

Abbiamo tre situazioni al variare delle probabilità di ottenere un risultato:

  • effetto certezza: la probabilità del risultato varia dal 95% al 100% in questo caso vi è un grande potere nelle scelte;
  • effetto miglioramento: la probabilità del risultato varia dal 5% al 10%, in questo caso vi è una valutazione di aver raddoppiato la probabilità;
  • effetto possibilità: la probabilità varia da 0 a 5% in questo caso vi è un grande potere nelle scelte e si sovrastimano i rischi minimi.

Quando un evento diviene presente e al centro della nostra attenzione gli assegniamo più peso di quanto la probabilità che accada non giustifichi. L’effetto possibilità determina preoccupazione e fa crescere la probabilità percepita della minaccia.

Secondo la Prospect Theory alte probabilità di perdita portano maggiore propensione al rischio, mentre alte possibilità di guadagni portano avversione al rischio (effetto certezza). La speranza di guadagni determina la propensione al rischio, mentre la paura di perdite ingenti spinge l’avversione al rischio (effetto possibilità).

La speranza di evitare la perdita e la paura della delusione sono sperimentate con alta probabilità, mentre la speranza d’ingenti guadagni e la paura di perdite ingenti sono sperimentate con l’effetto possibilità.

Dopo millenni di evoluzione gli esseri viventi si sono dati la regola ‘primo non prenderle e soprattutto salvare la pelle’.

Nei pazienti fobici e ossessivi queste valutazioni determinano circoli viziosi di mantenimento che impediscono il cambiamento e nei terapeuti che si trovano in una situazione di rischio suicidario del paziente, il giudizio e il calcolo probabilistico entrano a gamba tesa.

Sovrastima di eventi improbabili e sottostima di quelli probabili

L’effetto disponibilità rende vivida la rappresentazione di un evento anche se improbabile e l’attenzione accentua l’accessibilità e lo stato emotivo che ne deriva. Il sistema 1 non si disattiva, anche se il sistema 2 sa che la probabilità che si verifichi l’evento è bassa.

Tendiamo a sovrastimare la probabilità di eventi rari e questo influenza le nostre decisioni e i nostri comportamenti. I fenomeni sono l’attenzione focalizzata e i bias confermazionistici. La rappresentazione vivida di un’immagine nella mente dovuta al sistema esperienziale 1 (sceglie in base all’esperienza, alla memoria e all’attenzione) condiziona la scelta al di là della probabilità del verificarsi dell’evento.

La bicicletta è enormemente più pericolosa degli aerei come mezzo di locomozione ma alla faccia di tutte le comparazioni statistiche abbiamo più paura dell’aereo.

Pensiamo a un fobico che ha paura dei cani perché da piccolo è stato morso da un pastore maremmano. E’ possibile che il soggetto abbia una forte attivazione ansiosa, non solo nel momento in cui si trova a una certa distanza da un cane, ma anche quando nella penombra vedrà muoversi una massa indefinita di colore bianco. In queste circostanze, memoria e attenzione si attivano per difendere il soggetto dalla minaccia sovrastimata in termini probabilistici che possa ricevere un’aggressione dal cane. Così è possibile che il fobico possa scappare da sua moglie quando quest’ultima, con fare amorevole gli si avvicina indossando una pelliccia sintetica di colore bianco, ma è meglio correre questo rischio che essere sbranati dal cane irritato dalle avances.

Viceversa, è possibile che il terapeuta, per sicumera, non sia attento a calcolare la probabilità congiunta del rischio di abbandono della terapia da parte del paziente, confidando nelle proprie risorse relazionali e trascurando una serie di accadimenti che nel setting indicano una rottura dell’alleanza terapeutica.

 

Nei prossimi articoli saranno analizzati gli ulteriori contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia

 

Altri articoli sull’argomento:

L’In-coscienza di Greta

Attraverso l’immagine di Greta Thunberg si ripropone, e allo stesso tempo si rinnova radicalmente, il tradizionale motivo archetipico del Fanciullo.

 

Una delle figure più discusse, celebrate ed osteggiate della contemporaneità, ha il volto biondo e levigato di una ragazzina appena diciassettenne. Più ancora che di Trump e di Kim Jong-un, di Papa Francesco o di Putin, questi potrebbero essere ricordati come gli anni di Greta Thunberg, la giovane attivista scandinava, madrina del movimento ambientalista Fridays for Future.

Greta Thunberg è divenuta, nel volgere breve di alcuni mesi, l’oggetto di un’attenzione collettiva e condivisa che possiamo definire, almeno ad un livello quantitativo, senza precedenti. Miliardi di persone hanno assistito alla sua ascesa personale e mediatica, hanno potuto seguirla dai primi scioperi solitari davanti al parlamento di Stoccolma ai più recenti interventi tenuti al vertice delle Nazioni Unite, al Parlamento Europeo, all’Onu e nelle manifestazioni in cui milioni di studenti, ispirandosi a lei, si sono riversati nelle piazze di tutto il mondo, dall’America all’Australia, per protestare contro l’inadeguatezza delle politiche globali sul clima. Fino a vederla immortalata, nelle ultime settimane, sulla copertina del Time, omaggiata come la persona più influente del 2019.

Greta, nella sua fulminea scalata, ha calamitato su di sé non solo gli sguardi, ma pure le reazioni emotive più violente e disparate, così come sciami di congetture, supposizioni e valutazioni non sempre assennate. È diventata l’oggetto di dibattiti televisivi e articoli di giornale; di post, video e meme “virali” scambiati sui social; di chiacchiere da bar, da ufficio e da salotto. Non credo sia improprio dire che, ciascuno di noi, almeno per qualche istante della sua vita, si è dovuto “misurare” con il fenomeno Greta.

Alla luce di una mole tanto ingombrante di proiezioni, non è facile giungere a una sintesi e provare a definire chi sia questa ragazza in rapporto al movimento che intorno a lei si è raccolto: se la si possa ritenere più un’ispiratrice, un’ideatrice o un’iniziatrice; un’ambasciatrice, una portavoce, una statista o magari anche una condottiera.

Ma nelle intenzioni di questo articolo non c’è quella di discutere quale sia il suo ruolo (almeno non nei termini fin qui menzionati) né, tantomeno, quella di avventurarsi tra i meandri dei suoi meriti e delle sue colpe personali, delle sue presunte mire arrivistiche o del suo essere un burattino nelle mani dei potenti signori oscuri dell’imperialismo capitalista. E, allo stesso modo, non interessa entrare nello specifico della sindrome di Asperger che le è stata diagnosticata e nelle manifestazioni sintomatiche e funzionali ad essa associate.

Ciò che si vuole proporre è una lettura diversa del fenomeno Greta Thunberg, che si inserisca nel filone della ricerca psicoanalitica che privilegia, come punto focale dell’esperienza umana, la dimensione collettiva a quella individuale.

La storia della psicoanalisi è infatti, almeno da Totem e Tabù in poi, anche il tentativo di interpretare i movimenti e le dinamiche della società che viviamo. Un tentativo che forse ha trovato la sua massima espressione nella psicologia analitica di matrice junghiana, che ha sviluppato il complesso, articolato e spesso insondabile rapporto che intercorre tra coscienza e inconscio su di una scala non solo individuale, ma anche collettiva.

Quanto più risaliamo a ritroso il corso della storia, tanto più vediamo svanire la personalità sotto il manto della collettività.

Se noi indossiamo una lente analitica per indagare il fenomeno Greta Thunberg, ecco che per prima cosa dobbiamo accettare un rovesciamento paradigmatico rispetto a quanto il pensiero ordinario e individualistico vorrebbe imporci: non è la Greta persona e soggetto, nella sua singolarità pervasa di motivazioni e intenzioni, a farsi promotrice di un’azione sociale che si diffonde e arriva a coinvolgere tante altre molteplici individualità, ma è un’istanza inconscia della collettività, che ha generato e consentito che emergesse, giungendo sino alla nostra coscienza, il simbolo Greta.

L’inconscio collettivo non è affatto un sistema personale incapsulato, è oggettività ampia come il mondo, aperta al mondo. Io vi sono l’oggetto di tutti i soggetti, nel pieno capovolgimento della mia coscienza abituale dove io sono sempre il soggetto che ha oggetti.

Greta Thunberg diviene perciò una rappresentazione archetipica, attraverso cui l’inconscio sommerso della collettività, depositario dei germi e delle potenzialità di ogni futuro mutamento, ha liberato ed imposto sul proscenio manifesto della consapevolezza i suoi fantasmi di trasformazione.

Inconscio e coscienza collettivi sono istanze cangianti, mutevoli, che si compenetrano e operano in un continuo e reciproco scambio, che il più delle volte si consuma inafferrabile alle nostre facoltà ricettive. Soltanto quando la coscienza, nell’insieme di tutte manifestazioni collettive che determinano lo Spirito del tempo – pratiche culturali, politiche, sistemi valoriali e vocazioni spirituali – sembra incanalarsi in una direzione unilaterale e incapace di rendere giustizia ad alcune tra le esigenze più recondite dell’animo umano, le forze inconsce devono agire la loro opposizione con l’affermazione di un Simbolo come Greta.

L’inconscio è quell’istanza psichica nella quale gli elementi non sono scissi – tra gli istinti di dare forma e di vivere – e che può formare dei simboli. Questo accade quando (anormalmente) l’energia dell’inconscio sovrasta quella della coscienza…Il simbolo deve essere la migliore espressione possibile della concezione del mondo in una determinata epoca, tale da non poter essere superata in significato: deve essere così inafferrabile che l’intelletto critico non possa risolverlo.

Greta perciò esiste, ovvero la sua immagine esiste nelle nostre coscienze, perché attraverso di essa ritrovano corpo e voce alcune istanze dimenticate della collettività. Ma per comprendere quali siano, occorre rintracciare gli elementi distintivi che caratterizzano la sua rappresentazione, accantonando nella ricerca gli strumenti razionali a cui siamo soliti affidarci e procedendo per mezzo di una comparazione analogica con le altre rappresentazioni archetipiche della nostra tradizione culturale.

C’è un primo aspetto che si impone con eclatante evidenza e che percepiamo, immediato, nella stessa corporeità della sua immagine. E cioè che Greta è, fondamentalmente, una bambina. Greta Thunberg è bambina nei suoi diciassette anni anagrafici, ma lo è ancora di più nei tratti rotondi e un po’ schiacciati del viso, nelle lunghe trecce bionde che le raccolgono i capelli, nelle linee minute del fisico che rifuggono ogni traccia femminea di adultità. Ed è questa fanciullezza la matrice della dimensione archetipica, il tratto primigenio che si impressiona in noi e, con la forza coercitiva e nouminosa propria soltanto dell’archetipo, ci attrae verso di lei, suscitando sentimenti così primitivi e violenti di invidia e di ammirazione; di odio e di amore; di speranza e disprezzo.

Il suo essere bambina evoca reazioni che scuotono l’animo ben al di sotto delle costruzioni cognitive, ed è per questo che di fronte al fenomeno Greta così facilmente smarriamo la nostra bussola di razionalità e ci lasciamo avvincere da suggestioni emotive. È la forza insita nella sua fanciullezza che rende tanto accesi quanto vaghi, imprecisi, impropri e scorretti i nostri discorsi su di lei.

Se noi scorriamo all’indietro le immagini principali della nostra storia, ritroveremo quella del Fanciullo come una delle più ricorsive. Essa imperversa nei nostri miti così come nelle nostre tradizioni religiose, nelle opere di ogni movimento artistico e di ogni secolo; dalle rappresentazioni divine del Fanciullo Eros/Cupido e di Gesù bambino, sino alle produzioni creative e neo-mitologiche della contemporaneità: basti pensare a figure come Peter Pan, Tom Sawyer, o ai ragazzini-eroi delle recentissime e fortunatissime saghe di Star Wars, Harry Potter o Hunger Games. La figura del fanciullo costantemente ritorna e costantemente ripropone sulla scena la sua essenza archetipica, le sue ataviche peculiarità che Jung, ne Gli Archetipi dell’Inconscio Collettivo, così delineava:

Un aspetto essenziale del motivo del fanciullo è il suo carattere avvenire…Il fanciullo anticipa nel processo di individuazione quella forma che risulterà dalla sintesi degli elementi coscienti e inconsci della personalità…Il fanciullo implica qualcosa che evolve verso l’autonomia.

Il Fanciullo rappresenta, storicamente, l’origine del processo di cambiamento, l’irruzione dei contenuti inconsci sulla scena, nel loro disordine e nell’incoerenza che anticipa ogni forma razionale. Egli introduce nuove possibilità che solo passando del confronto con una coscienza adulta potranno determinare un rinnovamento dell’ordine costituito. Per questo il Fanciullo simboleggia sempre l’inizio e mai la fine, il compimento della trasformazione.

Già Nietzsche, prima di Jung, in Così Parlò Zarathustra, ne coglieva gli attributi fondamentali:

Il fanciullo è innocenza, oblio; un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su sé stessa, un primo movimento, una santa affermazione.

Il fanciullo è come un alito di vento che spazza via un’aria stantia, è un portatore di dynamis e di intraprendenza, è un sovvertitore di regole che si affida al gioco, allo scherzo e all’intuizione. Egli ha la facoltà (il potere) di credere a cose in cui i grandi non riescono più ad aver fede, proprio perché è capace di attingere l’energia dalle forze istintuali a cui la coscienza adulta e unilaterale non riesce più ad accedere.

E, per la stessa ragione, il fanciullo è anche Innocente. Non perché non abbia colpe, ma perché essendo un’emanazione di elementi primordiali filogeneticamente anteriori ad ogni possibile concetto di colpa, egli si pone al di là e prima di qualsiasi giudizio.

Se proviamo ad analizzare i fanciulli delle nostre rappresentazioni rinverremo, il più delle volte, gli stessi tratti, essenziali e prototipici. Ma se proviamo a sovrapporre a questi l’immagine di Greta, ci accorgiamo subito di quanto sia improprio ed impreciso il nostro tentativo. Perché è vero che Greta Thunberg simboleggia una richiesta collettiva di cambiamento che potrebbe inaugurare una stagione di rinnovamento, così come è vero che la sua forza traente ci appare connessa alla riproposizione di istanze rimosse “smarrite” dalla coscienza della collettività.

Eppure Greta non scherza e non sorride. Greta non è uno moto di irresponsabilità teso a soverchiare un ordine costituito. Non vediamo in lei alcun libero gioco degli istinti, alcuna dissennatezza, alcuno slancio impetuoso di incoerenza e fantasia.

Il suo incedere è lineare e razionale, avulso all’intuizione, e anche le sue manifestazioni emotive, spesso impregnate di collera, scorrono in perfetta sincronia con gli argomenti del suo discorso. Le sue parole e il suo pianto si fondono in un monito univoco di accusa che rimanda agli adulti la gravità delle loro colpe.

Di lei ci colpisce soprattutto lo sguardo: tetro, severo, giudicante. Uno sguardo che, storicamente, sembra alieno ad ogni altra rappresentazione del fanciullo. Lo sguardo di un giudice che non fa sconti e che condanna senza ulteriori appelli.

E qui forse possiamo individuare l’elemento maggiormente distintivo del simbolo Greta: il suo rapporto esiziale con i temi della colpa e della condanna. Perché se i Fanciulli della nostra tradizione sono per antonomasia degli Innocenti o al massimo, prendendo in considerazione la ricorrente sotto-figurazione dell’Orfano, delle Vittime, Greta Thunberg sembra inaugurare una nuova dimensione dell’immagine archetipica: quella del Fanciullo–Giudice o, addirittura, del Fanciullo-Carnefice.

Una simile trasformazione non si può imputare a qualche moto trascurabile di superficie, ma pare implicare una rivoluzione strutturale nella genesi della rappresentazione: perché, mentre il Fanciullo tradizionale affondava la sua essenza simbolica nel substrato pre-razionale che lo poneva “anteriormente a qualsiasi giudizio”, Greta al contrario trova la sua ragion d’être nel legame con una istanza morale ben più progredita dal punto di vista evolutivo. Una coscienza morale dotata di una certa strutturazione e complessità, meno vincolata ai processi primari di pensiero che, paradossalmente, sembrerebbe essere sprofondata tra i contenuti inaccessibili alla collettività ed è “costretta” a ripalesarsi attraverso l’irruzione fragorosa ed esplosiva di una manifestazione archetipica.

Come si può dare conto di un simile fenomeno?

Potremmo ipotizzare che, nella dialettica conscio/inconscio, la nostra società attuale, postmoderna e a forte trazione capitalistica, abbia rimosso massicciamente dalla propria coscienza collettiva i contenuti superegoici che rimandano alla responsabilità verso le proprie azioni, al prendersi cura di sé stessi, degli altri e del proprio ambiente. E che simili contenuti, indesiderati o perfino illeciti, possano adesso riemergere solo mediante l’imposizione di simboli.

Molto analisti della nostra epoca convergono sull’idea che questa si possa definire una “Società del Narcisismo”, che rincorre e pratica su larga scala una religione dell’Ideale dell’Io in cui l’obiettivo comune (collettivo) è diventato accrescersi, superarsi, espandersi. Come scriveva Erich Fromm nell’Arte di Amare:

La felicità odierna dell’uomo consiste nel “divertirsi”. Divertirsi significa consumare e comprare cibi, bevande, sigarette, gente, libri, film – tutto è consumato, inghiottito. Il mondo è un grosso oggetto che suscita i nostri appetiti, una grossa mela, una grossa bottiglia, un grosso seno; noi siamo i consumatori, gli uomini in eterna attesa, gli speranzosi, e gli eterni delusi.

Non che tale impulso narcisista sia da ritenere in sé, come qualche fondamentalista lo vorrebbe dipingere, un male assoluto. Se esso ha goduto e gode di una tale diffusione, lo si deve soprattutto ai molteplici benefici che ha saputo garantire alla collettività: l’accesso sempre più esteso al benessere materiale, lo sviluppo tecnologico e comunicativo, l’acquisizione di diritti individuali impensabili fino a metà del secolo scorso. Come ogni nuovo impulso, ha affrancato interi popoli da vincoli superati e non più-significanti che si trascinavano avanti come epitaffi simbolici, prosciugati del loro senso originale.

Tuttavia, com’è nella naturale evoluzione di qualsiasi movimento, l’afflato dapprima liberatorio si è via via incanalato con maggiore rigidità nella direzione tracciata dalla spinta unilaterale a godere, finendo per lasciare indietro e offuscare pezzi sempre più voluminosi di umanità. E così, se la religione dell’ideale è per definizione una religione del Volere, essa ha finito con lo strangolare le istanze interiori che invece richiamano la dimensione, antitetica, del Dovere.

Non è un caso che la parola “Dovere” risuoni oggi, alle nostre orecchie, così fastidiosa, addirittura sgradevole: essa ci rimanda inevitabilmente un senso soffocante di imposizione e di colpa. Ma come già ci suggeriva Winnicott nel saggio Lo sviluppo della capacità di preoccuparsi, la colpa è solo una delle due facce del Dovere:

La parola preoccupazione è usata per indicare l’aspetto positivo di un fenomeno il cui aspetto negativo è indicato dalla parola senso di colpa. Il senso di colpa è legato all’ambivalenza e comporta un livello di integrazione dell’io tale da permettere di conservare un’immagine buona dell’oggetto insieme all’idea di distruggerlo. Preoccuparsi si riferisce al fatto che l’individuo si prende cura o prova apprensione, e sente o accetta la responsabilità.

Nel momento in cui noi rigettiamo il Dovere, per risparmiarci il penoso incomodo di sentirci colpevoli, dobbiamo necessariamente privarci della sua controparte positiva, della possibilità cioè di preoccuparci e farci carico dell’altro, di noi stessi, o del nostro ambiente, divenendone “Responsabili”. Ma così facendo non riusciamo più ad accedere alla dimensione più profonda, autentica e totalizzante dello “stare in relazione” e, in generale, dell’esperienza di Amore, un’esperienza che nella sua completezza esige la compenetrazione sinergica del Desiderio e della Cura, ovvero del Volere e del Dovere.

Il risultato è un senso paradossale di distacco, per cui nonostante l’avidità della nostra spinta ad attingere, sfruttare o addirittura inghiottire la realtà, restiamo “gli eterni delusi” di cui parlava Fromm: e non siamo riusciti finora a immaginare, collettivamente, una soluzione alla nostra insoddisfazione che non fosse quella di provare a godere ancora di più, allontanando ulteriormente il fardello gravoso della responsabilità.

Ma la comparsa di un simbolo come Greta Thunberg, la cui originalità sta nel fondere l’urgenza sovversiva di cambiamento propria del fanciullo, allo sguardo severo ed adulto di una coscienza morale che ci rimanda il peso delle nostre negligenze, ci suggerisce che i tempi potrebbero essere maturi per “immaginare insieme” una risposta diversa: una risposta che, anche attraverso il doloroso e inevitabile confronto con la colpevolezza, ci porti a ripensare coscientemente le dimensioni dimenticate della cura e della preoccupazione, per salvaguardare e risanare non solo il pianeta, ma in generale la nostra capacità di vivere appieno la relazione con il tutto che ci circonda.

 

CBT-Italia: Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale – Aperte le domande di ammissione

CBT-Italia è aperta a tutti i professionisti, e futuri professionisti, che hanno scelto la CBT come modello di riferimento clinico (a prescindere dalla scuola frequentata), che condividano i principi ispiratori della società e vogliano sentirsi ben rappresentati, rimanendo costantemente aggiornati e in contatto con tutti gli altri colleghi italiani. 

 

Recentemente è nata CBT-Italia – Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale e si è insediato il primo Consiglio Direttivo composto da Paolo Moderato (Presidente), Antonella Montano (Vice-Presidente), Gabriele Melli (Segretario/Tesoriere), Nicola Lo Savio (Consigliere) e Sandra Sassaroli (Consigliere).

CBT-Italia è aperta a tutti i professionisti, e futuri professionisti, che hanno scelto la CBT come modello di riferimento clinico (a prescindere dalla scuola frequentata), che condividano i principi ispiratori della società e vogliano sentirsi ben rappresentati, rimanendo costantemente aggiornati e in contatto con tutti gli altri colleghi italiani.

L’intento di CBT-Italia è infatti quello di diventare un polo di interesse e riferimento nazionale per tutti coloro che hanno a che fare, a vario grado e titolo, con la pratica e la teoria della CBT, nelle sue varie ramificazioni interne ma condivise e riconosciute a livello internazionale e ancorate a rigorosi processi di validazione empirica delle teorie e dei metodi utilizzati.

Si propone di offrire una casa comune ai terapeuti formati nelle varie scuole italiane, dando spazio alle varie voci e alle varie generazioni che popolano l’arcipelago cognitivo-comportamentale.

Unisciti a noi! Scopri i vantaggi riservati ai soci e le modalità per richiedere subito l’ammissione alla stessa sul sito CBT-Italia.it

 

Gabriele Melli 
Segretario Nazionale CBT-Italia 

Il sesso nella coppia: parliamone!

Una ricerca recente ha analizzato la correlazione tra la soddisfazione sessuale delle coppie e la loro capacità di comunicare efficacemente riguardo agli argomenti legati alla sessualità (Mallory, Stanton, & Handy, 2019).

 

Nei rapporti di coppia, riuscire a comunicare in maniera efficace è senza dubbio essenziale per mantenere un buon equilibrio; non fanno eccezione gli argomenti legati alla sessualità: alcuni studi, infatti, hanno evidenziato che parlare della propria sessualità (sexual communication) con il partner, è fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento di una sana relazione sessuale (Masters & Masters, 1980).

Una ricerca condotta nel 2006, per esempio, ha dimostrato che le coppie che lamentavano difficoltà sessuali tra di loro avevano anche più problemi di sexual communication rispetto alle coppie con una vita sessuale soddisfacente (Kelly, Strassberg,& Turner, 2006). Allo stesso tempo, anche coppie con difficoltà a parlare tra di loro di problematiche sessuali o non, vedevano la loro vita sessuale compromessa la maggior parte delle volte (Reese et al., 2014).

Secondo alcuni autori (Metts&Cupach, 1989), la sexual communication comprende sia la self-dislosure sulla sessualità, ovvero la disponibilità a parlare con il proprio partner delle preferenze e dei desideri sessuali (Harris, Monahan&Hovick, 2014) sia la frequenza della comunicazione, ossia quanto spesso le coppie discutono tra di loro dell’argomento.

In letteratura, sono presenti diversi studi riguardo alla connessione tra la sexual communication e le varie dimensioni della sessualità che, ognuna in maniera differente, sembrano risentire di una scarsa comunicazione. Queste dimensioni sono il desiderio sessuale (Mark &Lasslo, 2018), la funzione erettile (Hawton, Catalan, & Fagg, 1992), la lubrificazione femminile (Graham et al., 2004), l’eiaculazione (compresi i problemi di eiaculazione precoce maschile) e l’eventuale dolore provato durante la penetrazione (Meston et al., 2004).

Nel presente studio, gli autori si sono prefissi l’obiettivo di indagare la causalità e la forza della correlazione tra sexual communication e soddisfazione sessuale della coppia attraverso un’analisi di 48 testi presenti in letteratura pubblicati dal 1980 al 2017, che complessivamente riportavano dati di 12.145 soggetti (Mallory et al., 2019).

I risultati hanno mostrato una correlazione positiva tra sexual communication, in tutti i domini indagati (desiderio sessuale, eccitazione, erezione, lubrificazione femminile, eiaculazione e dolore), e soddisfazione generale della coppia riguardo al sesso, ma la forza delle associazioni era varabile tra i diversi settori. In particolare, per quanto riguarda il desiderio e l’orgasmo, la correlazione era più forte nelle donne che negli uomini.

La sexual communication svolge quindi un ruolo particolarmente rilevante nel facilitare il desiderio sessuale delle donne: un ampio studio svolto in Gran Bretagna, riporta una correlazione negativa tra la facilità nel parlare di sesso e la mancanza di interesse per i rapporti sessuali di coppia sia nel campione maschile che in quello femminile (Graham et al., 2017), ma nelle donne sembra avere un effetto più forte, probabilmente perché il desiderio femminile tende ad essere reattivo piuttosto che spontaneo (Both & Everaerd, 2002).

In conclusione, sebbene lo studio riportato possegga alcuni limiti, tra cui il fatto di possedere solo dati self-report e una mancanza di dati longitudinali dei soggetti analizzati, si tratta della prima ricerca su larga scala effettuata sull’associazione tra sexual communication e funzioni sessuali che potrebbe avere importanti implicazioni per il perfezionamento degli interventi di coppia per migliorare la comunicazione e la soddisfazione sessuale (Mallory et al., 2019).

Pensiero consapevole e pensiero automatico – Intuizione e bias in psicoterapia

Il pensiero intuitivo può essere distorto e quindi va corretto per eliminare bias, che saranno comunque ineludibili, ma più piccoli e d’altra parte senza intuizioni predittive, non vi sarebbero informazioni da raccogliere. Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni.

Il presente contributo è il quarto di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

 

I giudizi intuitivi

Chi non ha mai espresso un giudizio con sicurezza basandosi su un’intuizione?

Spesso anche in campo clinico i giudizi sono un mix d’intuizione e analisi. Antonio non è riuscito a superare eventi critici nella sua vita. Oggi deve affrontare un grave lutto. Riuscirà a elaborarlo? Una percentuale di colleghi propenderebbe per una risposta negativa inerendo causalmente il fatto che Antonio non è riuscito, con non riuscirà a farlo.

Naturalmente i fattori che potrebbero influenzare il risultato sono molti. Un elemento di correzione attivato dal sistema 2 potrebbe essere la percentuale di persone che elaborano un lutto in maniera adattiva. Questa percentuale determina la probabilità a priori che Antonio elabori il lutto. In questo caso la probabilità a priori è quella che riguarda l’intera popolazione cui Antonio appartiene e che in genere nella quasi totalità dei casi elabora i lutti e prosegue a vivere.

La predizione intuitiva, non regressiva, può essere distorta e quindi va corretta per eliminare bias di sovrastima e sottostima del valore. Gli errori saranno comunque ineludibili, ma saranno più piccoli e d’altra parte le predizioni vanno collegate alle prove, ma senza intuizioni predittive, senza pre-comprensione, come direbbe Gadamer (2000) non vi sarebbero informazioni da raccogliere.

Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni. Anche le aspettative sul paziente vanno controllate, giacché possono determinare il successo o il fallimento del trattamento. Intuire che il paziente ha uno ‘spazio prossimale’ di miglioramento molto limitato con un’attribuzione errata può comportare un insuccesso terapeutico, ma anche immaginare margini di cambiamento troppo ampi può portare allo stesso risultato.

La fallacia della narrazione

Nello sforzo di comprendere il mondo, le storie esplicative si snodano sui pochi eventi accaduti e non sui molti che hanno avuto luogo.

Questo vale per la narrazione che il terapeuta si fa sul paziente ma anche per la narrazione che il paziente fa di sé a se stesso (auto immagine) e agli altri (immagine sociale). Ciò è tanto vero che si può arrivare a dire che la terapia ha come scopo la modificazione della narrazione che il paziente ha di se stesso.

Andiamo alla ricerca di cause, eventi salienti che si possano associare a effetti. Inclinazioni e caratteristiche di personalità vanno, ad esempio, a definire l’intero comportamento di una persona e ‘l’effetto alone’ ci porta a basare il giudizio estendendo una caratteristica specifica a tutte le altre qualità.

Un paziente che ha subito un ricovero in SPDC sarà più grave di uno che non abbia subito ricoveri; se un paziente ha difficoltà d’interazione, mi aspetto che sia evitante e avverta una sensazione d’inadeguatezza; il paziente che valuto come dotato di buone risorse susciterà maggiori aspettative di miglioramento e viceversa.

Si costruisce spesso la migliore narrazione con le informazioni limitate che si hanno a disposizione, ignorando la nostra ignoranza. Meno dati vincolanti si hanno più la nostra fantasia è libera di creare a piacimento.

L’illusione di sapere, altresì, determina ‘il bias del senno del poi’ che costruisce ciò che è accaduto con le informazioni che si hanno a disposizione al tempo T1 ma che non erano state previste al tempo T0 e fa sì che si dimentichino le credenze e le predizioni originarie.

Non si valuta in sostanza il processo decisionale ma ex-post il risultato negativo o positivo. Nei resoconti degli storici tutto torna perfettamente e sembra che le cose non potessero andare che nel modo in cui sono andate, gli stessi chiamati a fare previsioni hanno la lungimiranza di una talpa miope con la congiuntivite.

Inoltre, i meccanismi del sistema 1 ci fanno percepire il mondo più ordinato e coerente di quello che è, con l’illusione di prevederlo e controllarlo ci rassicuriamo di fronte all’incertezza dell’esistenza. Le sorprese, però, non mancano e gli eventi che in modo casuale si affacciano nella vita sono spesso imprevisti e imprevedibili come testimoniano le molte storie di cui i pazienti ci fanno partecipi durante il percorso di cura.

L’illusione di validità

Con poche prove riusciamo a costruire con i sistemi 1 e 2 delle buone narrazioni cui crediamo perché sono condivise magari da persone cui vogliamo bene o riteniamo fonti autorevoli e affidabili.

Nella ricostruzione delle storie evolutive dei pazienti quante volte sentiamo dire ‘si è fatto sempre così’, ‘il nonno ci ha trasmesso queste convinzioni che ci sono servite per affrontare il mondo’.

Un altro elemento che determina l’illusione di validità è l’abilità e la competenza: ‘Se l’ha detto lui…’. Quando la fonte è ritenuta e certificata (dalla comunità professionale o scientifica ad esempio) competente le valutazioni sono credute affidabili, almeno fino a prova contraria.

La sicumera con cui si è certi di alcune previsioni è determinata in larga parte dalla sicurezza soggettiva ed espelle il caso da qualsiasi spiegazione.

Insomma siamo tendenzialmente creduloni e presuntuosi.

La realtà, però, è complessa e difficile da capire e le semplificazioni riduzionistiche possono essere di aiuto, anche se si rivelano a distanza illusorie.

Spesso la sicurezza con la quale affrontiamo un problema si rivela poco accurata, mentre l’insicurezza può essere più informativa, in sostanza bisogna essere prudenti nel fare previsioni, se ne possono fare a breve termine, mentre più complesse e difficili sono quelle a lungo termine e soprattutto occorre sempre tenere in considerazione la validità in termini di probabilità.

Gli psicologi clinici fanno buone predizioni a breve termine, durante la seduta terapeutica, ma non riescono a fare previsioni a lungo termine. E’ necessario perciò prendere in considerazione i limiti della propria competenza, feed-back a distanza di anni non è possibile averli e il futuro del paziente è sconosciuto e imprevedibile.

Come possiamo ritenere di aver operato correttamente? Su quali parametri possiamo misurare non la guarigione ma almeno il miglioramento? Sulla diminuzione dei segni e dei sintomi o sulla scomparsa degli stessi? Sulla qualità della vita? Sulla soddisfazione? Per quanto tempo dovrebbe mantenersi la remissione dei sintomi o uno stato di benessere?

Non dimentichiamoci che noi siamo soltanto un piccolo evento nella vita del paziente e che le cose accadono perché accadono.

La supervisione

La visione esterna può portare ad aggiustamenti della visione interna. L’attenzione su indizi trascurati, dati e informazioni sulla classe in cui rientra il caso, altre prove che può farci rilevare un supervisore, ci permettono di fare aggiustamenti appropriati sugli scenari che si sono messi a punto.

L’ottimistica sicurezza della visione interna può essere mitigata nel considerare ciò che potrebbe andare storto o sfuggirci.

Il bias ottimistico ci porta a persistere indipendentemente dagli ostacoli e a scartare una visione esterna e l’hybris può farci credere di essere superiori alla maggior parte degli altri individui nelle qualità che entrano in gioco nel caso specifico (Kahneman, 2013).

Il bias dell’ottimismo può essere spiegato in parte con il wishful thinking e in parte con il principio del vedere ciò che c’è, tipico del sistema 1. Non consideriamo le probabilità a priori, ci concentriamo sul nostro obiettivo, teniamo in considerazione solo la nostra influenza e trascuriamo le variabili esterne in un’illusione di controllo che ci rende troppo sicuri di ciò che crediamo.

Una valutazione adeguata dell’incertezza è una pietra angolare della razionalità contro l’ottimismo intriso di sicumera.

Il ricorso a una buona supervisione consente la costruzione di punti di vista plurimi sia in relazione all’approccio terapeutico verso il problema, sia rispetto alle implicazioni personali che si manifestano nella relazione; è fondamentale per incrementare la consapevolezza degli schemi di sé come persona e come psicoterapeuta che influenzano nel bene o nel male la concettualizzazione del caso.

 

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Motivazione e attività sportiva: le principali teorie

Tra le teorie relative alla motivazione emerge come un clima orientato sul compito sembra favorire l’impegno e si correla a risposte affettive funzionali, come per esempio il divertimento e la soddisfazione; invece, un clima orientato sulla prestazione solitamente produce un impegno limitato e risposte poco funzionali.

 

Nel corso degli anni sono state elaborate, attraverso gli studi sulla motivazione, diverse teorie a riguardo (De Beni & Moè, 2000; Harter, 1978; Atkinson, 1964).

Una delle prime teorie che è stata elaborata è quella di Atkinson (1964), che si configura come la prima teoria motivazionale alla riuscita e riprende il conflitto di Lewin, aggiungendo la componente emotiva. L’obiettivo principale della motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità mediante il raggiungimento di successi, svolgendo attività a cui viene attribuita importanza da parte di chi le svolge (De Beni & Moè, 2000).

In accordo con gli studi di Atkinson (1964), la motivazione alla riuscita dipende da due componenti motivazionali, che sono presenti negli individui in specifiche situazioni, si contrappongono reciprocamente e sono mutualmente escludentesi; la prima è la tendenza al successo (o speranza di riuscita), che implica la motivazione e quindi porta il soggetto ad affrontare i compiti; la seconda è la tendenza ad evitare i fallimenti (o paura degli insuccessi), che produce nell’individuo un atteggiamento di evitamento o ritiro nei confronti delle situazioni e a lungo andare porta alla demotivazione (De Beni & Moè, 2000).

Gli individui che hanno un’alta tendenza al successo scelgono dei compiti di media difficoltà, rispetto a quelli che hanno precedentemente svolto, le cui possibilità di successo rimangono elevate. Una volta che il successo è stato raggiunto, l’individuo tende ad attribuire il proprio successo alle proprie capacità, quindi presenta un locus of control interno. Da ciò si attiva un meccanismo che spinge il soggetto alla ricerca di compiti sempre più ardui, affinchè egli possa partecipare alle sfide ed utilizzare delle soluzioni sempre più efficaci ed alternative (De Beni & Moè, 2000).

Le emozioni che risulterebbero legate alla motivazione al successo sono: la fiducia nella riuscita, il desiderio di affrontare il compito, la soddisfazione e l’orgoglio; esse si manifestano anche prima che l’individuo raggiunga il successo (De Beni & Moè, 2000).

La motivazione ad evitare il fallimento, invece, produce nell’individuo la tendenza a svolgere dei compiti più semplici, in quanto il successo e la riuscita sono sempre facilmente raggiungibili (De Beni & Moè, 2000).

Se il soggetto, che è motivato ad evitare gli insuccessi, deve svolgere dei compiti troppo complessi e ne ricava degli insuccessi, le cause dei propri insuccessi vengono attribuite alla difficoltà del compito, alla sfortuna o alla mancanza di aiuto, pertanto presenta un locus of control esterno (De Beni & Moè, 2000).

Le emozioni associate, in questo caso, sono: vergogna anticipata, dovuta al fatto di sentirsi inadeguati rispetto agli altri o alla sensazione di non avere le giuste capacità per farcela; apatia o rassegnazione (prima di affrontare il compito), ansia o pensieri negativi circa il raggiungimento degli obiettivi (mentre sta svolgendo il compito) (De Beni & Moè, 2000).

Harter (1978), in un suo studio, si pose come obiettivo quello di analizzare l’influenza della valutazione individuale del proprio livello di competenza sulla prestazione.

Ritenendo che la motivazione fosse uno dei principali fattori che determina la condotta umana, il modello di Harter (1978), pone in relazione la motivazione di competenza e il successo: se aumenta la motivazione aumenta anche il successo. Questo modello prende in considerazione anche l’insuccesso; infatti in accordo con lo studioso, se decresce la motivazione, aumenta l’insuccesso (Harter, 1978).

Harter (1978), durante il suo studio, ha analizzato tre tipologie di successo (alto, medio e basso) e tre tipi diversi di rinforzo verbale, che sono: incoraggiamento, svalutazione ed assenza di rinforzo ed ha analizzato nei bambini gli effetti combinati con la valutazione, la prestazione e le aspettative.

I risultati di questi studi, hanno dimostrato come i bambini più piccoli siano dipendenti dall’approvazione sociale e come questa influisca significativamente su come si percepiscono, indipendentemente dal fatto che la performance sia stata adeguata o meno.

I bambini più grandi, al contrario, formulano i loro giudizi personali in base ai loro effettivi successi ed utilizzano i feedbacks sociali per valutare gli insuccessi.

Harter (1978), infine, ritiene che i bambini imparino ad usare dei sistemi critici di valutazione se fin dai primi anni hanno ricevuto dei rinforzi positivi da parte degli adulti, i quali sono utili per stimolarli o proseguire nel loro tentativo di diventare competenti nelle loro attività (Harter, 1978).

Questa teoria risulta importante per altri concetti chiave che verranno ripresi ed approfonditi da altre teorie della motivazione (De Beni & Moè, 2000).

La teoria dell’automotivazione, elaborata da Deci e Ryan (1985), ritiene che le persone, per svolgere un’attività, siano guidate e sostenute dalla curiosità e dal desiderio di testare le proprie abilità mediante l’esercizio in varie attività, ma hanno anche bisogno di esercitare altre forme di controllo, tra cui per esempio quelle sul tipo di compito o situazione da affrontare; hanno quindi bisogno di scegliere. L’autodeterminazione, dunque, consiste nella scelta di svolgere un’azione che è dettata dal libero arbitrio, separata da bisogni o forze esterne.

La teoria dell’autodeterminazione, pertanto ritiene che se il soggetto sceglie deliberatamente una specifica situazione, il livello di motivazione viene mantenuto o si incrementa per il compito, se invece percepisce che il compito è stato imposto dall’esterno, il soggetto si sentirà meno autodeterminato e meno motivato intrinsecamente. Dalle precedenti e da queste considerazioni è possibile affermare che alla base di un comportamento autodeterminato ci sia il bisogno di sentirsi artefici dei propri comportamenti e di scegliere il tipo di compito e come dev’essere svolto (Deci & Ryan, 1985).

La suddetta teoria prevede anche che gli individui siano motivati quando si sentono competenti ed accettati. La scelta di una specifica attività, avverrà in funzione delle abilità possedute e verso quelle mansioni che permettono al soggetto non solo di mettersi alla prova, ma anche di essere approvati socialmente (De Beni & Moè, 2000).

Per quanto riguarda la teoria dell’orientamento motivazionale è stata elaborata da Nicholls (1984; 1992), Dweck (1986) e Ames (1992) ed è diventata una delle più popolari teorizzazioni in ambito sportivo.

Questa teoria, prende in considerazione oltre le caratteristiche individuali e il clima motivazionale che è presente nei vari contesti dove dimostrare competenza risulta importante (Bortoli & Robazza, 2004). Secondo Bortoli e Robazza (2004), un clima orientato sul compito favorisce l’impegno e si correla a risposte affettive funzionali, come per esempio il divertimento e la soddisfazione, invece, un clima orientato sulla prestazione solitamente produce un impegno limitato e risposte poco funzionali.

Nella teoria dell’orientamento motivazionale vengono individuate due prospettive principali, che sono: quella orientata sul compito e quella orientata sull’Io (Bortoli & Robazza, 2004).

Quando un atleta è orientato sul compito, è concentrato sul compito, su quello che sta facendo, sulle operazioni necessarie per raggiungere un obiettivo; i suoi obiettivi principali sono acquisire abilità e conoscenze, impegnarsi, cercare di migliorare sempre di più la prestazione (Bortoli & Robazza, 2004).

Se questi obiettivi il soggetto li raggiunge, egli si sentirà competente e soddisfatto. Con l’orientamento orientato sul compito, quindi, la sensazione di competenza è auto-riferita ed i criteri che definiscono il successo personale sono l’esperienza soggettiva di miglioramento della performance o della capacità di eseguire una determinata mansione (Bortoli & Robazza, 2004).

Quando, invece, un atleta è orientato sull’Io, l’enfasi viene posta sul fatto di superare gli altri, di vincere, di dimostrare che possiede maggiori abilità; in questo caso la percezione di competenza e successo, sono etero-riferiti e dipendono dal confronto con gli altri (Bortoli & Robazza, 2004).

L’orientamento al successo e all’io sono indipendenti e non si escludono vicendevolmente, negli individui possono coesistere ed essere presenti in diversi gradi di combinazione (Roberts, Tresure, & Kavussanu, 1992).

Infatti, un atleta può dimostrare un alto orientamento in una dimensione e basso nell’altra, oppure alto o basso orientamento in tutte e due. Le quattro categorie che ne potrebbero derivare sono: alto orientamento sull’io e basso sul compito, alto orientamento sull’Io e sul compito, basso orientamento sul compito e alto sull’Io, basso orientamento sul compito e sull’Io (Bortoli & Robazza, 2004).

È importante conoscere il grado di orientamento, per comprendere i processi motivazionali che sono insiti in ogni individuo, in quanto alcuni studi hanno dimostrato che per l’atleta possedere un elevato grado di motivazione orientata sul compito ed un orientamento elevato sull’Io, sia più funzionale (Duda & Treasure, 2001).

Gli atleti che possiedono queste caratteristiche possono ricavare la percezione soggettiva di competenza e di successo da più fonti e sono capaci di focalizzarsi, flessibilmente, o sul compito o sull’Io in tempi e circostanze diverse (Cox, 2002).

Un alto orientamento sul compito, unito ad un alto orientamento sull’Io, funge da fattore protettivo di fronte alle conseguenze negative, derivate a loro volta dalla percezione di scarsa abilità in situazioni di prestazione scadente, con degli effetti positivi dal punto di vista motivazionale (Cox, 2002).

Da quest’approccio derivano alcune considerazioni applicative; per gli allenatori è importante comprendere le caratteristiche motivazionali degli atleti, ma anche essere consapevoli del clima motivazionale da loro prodotto (Duda & Treasure, 2001).

Il profilo maggiormente disfunzionale è invece quello costituito da un basso orientamento sul compito e sull’Io, che è maggiormente frequente nelle giovani atlete (Cox, 2002).

Inoltre, anche il modo in cui gli atleti percepiscono le proprie abilità rappresenta un elemento determinante; infatti, un atleta orientato sull’Io e che si percepisce scarsamente competente, mostrerà demotivazione ad affrontare una sfida, in quanto ha paura dell’insuccesso (Duda & Treasure, 2001).

Proprio per questa ragione, è importante utilizzare delle strategie volte ad incrementare l’orientamento sul compito. Alcune strategie che potrebbero essere utilizzate per raggiungere questo scopo sono l’incoraggiamento, l’individualizzazione e l’autoriferimento dei criteri di prestazione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, i risultati di un atleta non devono essere confrontati con quelli di altri atleti, piuttosto vanno evidenziati gli obiettivi individuali che devono essere migliorati (Duda & Treasure, 2001).

Ogni atleta dev’essere consapevole del suo livello di capacità e di abilità, rispetto al quale vanno valutati, dopo un periodo di allenamento, i progressi e le prestazioni. È importante anche che l’impegno, la partecipazione e il miglioramento personale degli atleti, vengano sempre riconosciuti e valorizzati da parte dell’allenatore, affinchè si possa garantire un’esperienza sportiva positiva e gratificante, anche dal punto di vista motivazionale (Duda & Treasure, 2001).

Il fascino (non troppo) discreto delle fake

Malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa, si sta assistendo a una crescente difficoltà di distinguere il falso dal vero. Le fake possiedono un fascino (non troppo) discreto. Ma qual è il segreto di tanto fascino?

 

Quante donne andate sul rogo perché la leggenda popolare riteneva fossero streghe possedute dal maligno: più fake di così… si muore!

E, ancora, l’Inquisizione, che ha mietuto vittime sulla base di fondamenti che potrebbero paragonarsi ai peggiori regimi autoritari!

La diceria degli untori…la dice lunga! Ciò che distingue l’attuale dal passato sono la velocità e la diffusione della diceria degli untori.

Per andare ai fatti più recenti, durante la guerra in Iraq (1993-2011), molto nota è l’artata fake di un povero cormorano – divenuto l’icona di quella guerra – il cui piumaggio era intriso di petrolio. Ma c’era un piccolo particolare non sfuggito agli ornitologi: a quel tempo nella zona non erano presenti cormorani di tale specie. Altro che icona; una vera bufala!

Corsi e ricorsi delle fake. Non è la sostanza che cambia, ma la loro tecnologia, poiché la componente umana rimane immutata al fondo di tutto ciò e così pure le motivazioni: manipolare, dirigere l’opinione pubblica, fare propaganda, spostare l’elettorato, destabilizzare, esaltare, denigrare, mettere al bando, ridicolizzare, stupire. Le fake sono alla base della teoria della cospirazione; vengono ideate per nascondere la realtà dei fatti (hoax); hanno lo scopo di sponsorizzare (clickbait); infine, consistono in puro divertissement o in mero errore.

Molte sono le piaghe delle fake:

  • Rappresentano causa ed effetto dell’analfabetismo funzionale.
  • Data la loro velocità nella viralizzazione, minano le capacità cognitive dei soggetti, in quanto pregiudicano il momento della riflessione e l’esigenza di approfondire le fonti e i contenuti delle informazioni (fact-checking).
  • Inficiano, di conseguenza, il processo decisionale in quanto fondato – almeno parzialmente – su informazioni distorte.
  • Sono all’origine di pregiudizi, astio verso l’alterità, divisioni, faziosità, fratture sociali, opinioni eterodirètte.
  • Possono spostare le percezioni di massa attraverso la demagogia e l’“effetto gregge”.
  • La saturazione informativa induce tramite un sistema di “risparmio cognitivo” – secondo la terminologia dei “massmediologi” – a sposare acriticamente argomenti sostenuti da nessun fondamento scientifico – o di altra natura – se non quello di una “autorevole” assertività.
  • E poi, entra in gioco l’emotività che corrobora le fake con il prevalere del soggettivo sull’oggettivo, mediante la diffusione di pezzi costruiti non tanto sui fatti bensì su architetture evocative con forte valore simbolico: è la transizione dal resoconto dei fatti al racconto/storytelling. Questo è il caso della post-verità (post-truth), che nel 2016 l’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno: la verità dei contenuti è subordinata all’apparenza e a ciò che essa suscita nella sfera emotiva. Il fatto viene così percepito come veridico sulla base di emozioni e sensazioni che tali notizie suscitano sul loro “consumato-re”, senza che quest’ultimo si preoccupi di effettuare alcuna analisi concreta circa la veridicità dei fatti. Sostanzialmente, alla base della post-verità vi è il bias di conferma: i soggetti tendono a enucleare dai fatti esclusivamente gli aspetti e i pezzi che confermano le proprie convinzioni e credenze pre-esistenti. Ciò fa sì che l’individuo resti confinato nel suo ristretto ecosistema informativo (c.d. bolle di filtraggio). Nel 2017, il termine “post-verità” tornò in auge come conseguenza della polemica sull’uso dell’espressione “fatti alternativi” (“alternative facts”) a cui ricorse – “arrampicandosi sugli specchi” – la portavoce presidenziale degli Stati Uniti, Kellyanne Conway, riguardo alla nota vicenda del giorno dell’inaugurazione della Presidenza di Donald Trump.
  • Dal punto di vista tecnologico, la mistificazione informativa si sta rapidamente evolvendo e assumendo strutture poliformiche. È in atto una sorta di trasformismo sempre più sofisticato: dal semplice acquisto di like e dagli account falsi, l’escalation ha portato alle deep-fake – traducibili in “falsi realistici” -, alle fake-face, alla fake-people e così via.

Corollario è la progressiva difficoltà di distinguere il falso dal vero. E ciò malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa.

Insomma, il fascino (non troppo) discreto delle fake…

Ma qual è il segreto di tanto fascino?

In premessa, si può considerare la peggiore forma di disinformazione quella che avviene mediante le fake-true (o fake truth), cioè tramite false verità, che hanno il vantaggio di non destare scetticismo nell’utente di media cultura.

Nel lavoro ci soffermiamo in particolare sul loro “fascino segreto”, analizzando le possibili motivazioni per cui facciano tanta presa. Specificatamente, ci serviremo dell’economia comportamentale in un contesto di incertezza.

Le fake-true sono notizie vere riproposte con incalzante successione. Tale artato meccanismo provoca nell’utente una sorta di “capogiro” che, facendogli perdere lucidità e piena presenza, deforma nella sua mente la realtà ingigantendola. Quindi, si tratta di fatti rigorosamente autentici ma accostati in modo – potremmo affermare ossessivo – da ottenere un risultato distorto.

È possibile che, nel caso di cattive notizie, tale deformazione renda la realtà apparentemente più grave e/o spaventevole. L’individuo, non più pienamente presente a se stesso all’interno del vortice in cui viene frullato, si ritrova in una situazione affatto confusiva. Non è più in grado di orientarsi ed è ipotizzabile, dunque, che sperimenti una situazione in condizioni di incertezza (soggettiva).

Soffermiamoci, in particolare, su una deformazione di natura negativa. La nostra scelta è giustificata dal fatto che le cattive notizie corrono più veloci e rimangono più impresse nella memoria di quelle buone. A parole tutti desiderano le buone notizie, nei fatti (quasi) tutti vanno a caccia di quelle brutte: terrorismo, cronaca nera, ingiustizie, tradimenti, disgrazie, cataclismi.

Lo psicologo sociale Baumeister (2001) afferma che, nelle reazioni umane, “il male è più forte del bene” (“bad is stronger than good”): le spiacevoli emozioni, i genitori duri e autoritari, le sgradevoli risposte hanno un impatto maggiore della corrispondente realtà controfattuale; le informazioni negative penetrano più a fondo di quelle positive e tendono a persistere nei ricordi.

Il passo successivo nella presente analisi consiste nell’assumere che per l’individuo la cattiva notizia viene percepita come una perdita subìta. In tal caso, possiamo giustificare che le cattive notizie rimangono più impresse nella memoria di quelle buone sulla base della Prospect Theory (Teoria dei Prospetti), una teoria delle decisioni formulata dagli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky (1979). Essa spiega come opera tale perdita sulle emozioni del soggetto attraverso l’attitudine psicologica dell’“avversione alle perdite”.

La teoria – validata anche dall’economia sperimentale – afferma che le perdite producono sull’individuo un impatto maggiore rispetto ai guadagni, anche quando essi siano uguali in valore assoluto. Di conseguenza, le persone preferiscono evitare una perdita piuttosto che realizzare un guadagno, sebbene di pari entità.

Il meccanismo per cui quando perdiamo qualcosa l’emozione (negativa) è molto più forte e persistente di quando guadagniamo qualcosa trova fondamento anche nella teoria della “spinta gentile” di Thaler e Sunstein (2009).

Sia la formulazione teorica sia la validazione empirica offrono dunque possibili spiegazioni perché le fake-true attecchiscano e si viralizzino con particolare facilità.

Chapeau!

Ma essendo così robuste e resilienti, per combatterle non sono sufficienti gli algoritmi destinati a scovarle. Il mondo è più complesso e intossicato da interessi colossali: sono quindi necessari la libertà, il pluralismo mediatico e lo spirito critico.

Sta di fatto che la reazione alle fake truth è possibile, ma non riposa negli algoritmi bensì nel cervello delle persone e nell’onestà dell’informazione.

Probabilmente un cambio epocale, dove l’intelligenza artificiale assolve uno scarso ruolo in quanto vanno a prevalere le reti neurali biologiche su quelle artificiali.

 

L’ecstasy o MDMA può avere effetti terapeutici?

L’ecstasy o etilenediossimetanfetamina (MDMA) è una droga illegale in Italia, tuttavia alcuni ricercatori sostengono che il suo utilizzo in ambito psichiatrico possa essere utile per alcuni disturbi mentali.

 

Per quel che riguarda gli effetti che provoca a coloro che la consumano, si denota principalmente un aumento dell’energia percepita e dell’empatia; d’altra parte causa sintomi come astinenza e tolleranza, di conseguenza è stata classificata come una droga ad alto rischio di dipendenza (Cohen, 1995).

Alcuni psichiatri, specialmente in America, stanno sperimentando l’utilizzo di questa sostanza su pazienti con problemi di ansia sociale, in contemporanea, si ricerca anche come rendere sicuro l’utilizzo di questa sostanza, dato che, anche se dovesse risultare efficace per la cura di questo tipo di disturbo, il rischio sarebbe quello di indurre al contempo una dipendenza, quindi un disturbo di addiction da MDMA.

Come tutte le sostanze che provocano dipendenza, l’assunzione di MDMA provoca un’attivazione del circuito dopaminergico della ricompensa, che a sua volta provoca un aumento di motivazione per la ricerca e il consumo della sostanza. E’ importante sottolineare che, il sistema dopaminergico della ricompensa è adattivo e imperativo per la sopravvivenza, è grazie ad esso se quando siamo affamati ricerchiamo il cibo o se quando abbiamo freddo cerchio il calore (Volkow et al., 2011).

Le droghe ingannano il nostro cervello provocando un’ondata innaturale di dopamina nel circuito della ricompensa; l’aumento di questo neurotrasmettitore, che una droga in media provoca, è estremamente più alto e più rapido di quello ottenuto mangiando o durante un atto sessuale; si instaura cosi una dipendenza verso la sostanza.

L’utilizzo di MDMA provoca oltre che ad un aumento di dopamina, anche un aumento di serotonina, neurotrasmettitore deputato nella regolazione dell’umore, del desiderio sessuale e dei comportamenti sociali (Heifets et al., 2019).

Uno studio pubblicato su Science Translation Medicine ha condotto una sperimentazione su topi per capire come la MDMA agisca a livello cerebrale aumentando la socialità e l’empatia, e come ridurre il rischio di dipendenza. Per fare ciò hanno somministrato 2 milligrammi per kilogrammo (mg/kg) di MDMA a dei topi, tuttavia con questa dose non si osservava un aumento della socialità, hanno quindi aumentato la quantità portandola a 7.5 mg/kg osservando cosi un aumento del comportamento sociale (Heifets et al., 2019). Per osservare l’aumento della socialità, i ricercatori hanno messo tutti i topi assieme in una stanza e hanno notato che quelli che avevano ricevuto la dose da 7.5 mg/kg interagivano per più tempo (30 minuti) con altri topi, mentre il campione di controllo che aveva ricevuto un placebo si intratteneva con i suoi simili per un massimo di 10 minuti.

In seguito, hanno messo i topi che avevano ricevuto la dose difronte a due gabbie, una era quella nella quale avevano ricevuto la dose (gabbia A), mentre l’altra era una gabbia ‘’neutra’’ (gabbia B). Nel caso di dipendenza il topo sarebbe dovuto tornare nello stesso luogo in cui aveva assunto precedentemente la sostanza quindi nella gabbia A. Lo studio ha mostrato che questo non accadeva per i topi a cui era stata somministrata la dose da 7.5 mg/kg, ma si verificava per coloro che avevano ricevuto una dose superiore (15 mg/kg) (Heifets et al., 2019).

I ricercatori concludono affermando che la MDMA è in grado di aumentare i comportamenti sociali mediante un aumento di serotonina, inoltre, individuando la dose giusta per un essere umano, è possibile evitare gli effetti della dipendenza patologica, tuttavia sottolineano la necessità di ulteriori trial clinici per comprendere la dose adeguata che non crei dipendenza nell’essere umano (Heifets et al., 2019).

 

I capricci dei bambini

Comunemente considerati come comportamenti oppositivi di ‘non obbedienza’ i capricci rappresentano qualcosa di più profondo, un tentativo del bambino di comunicare il suo malessere nell’hic et nunc, e come tali vanno indagati per darvi il giusto significato.

 

Cos’è un capriccio?

Normalmente si utilizza il termine capriccio per intendere un comportamento non consono o, comunque, non desiderabile, esibito in una data situazione: ecco allora che capriccio diventa per un genitore il pianto disperato del bambino durante il momento della spesa, le urla incontenibili, il buttarsi a terra per strada, il non obbedire alle richieste dell’adulto, specie in contesti sociali, dove la preoccupazione principale di quest’ultimo diventa quella di non fare brutta figura o, comunque, l’essere classificato come cattivo genitore.

Questo è cosa rappresenta un capriccio per un adulto!

Ma cos’è davvero il capriccio? Cosa rappresenta per il bambino?

Il capriccio è generato da un forte momento di frustrazione che il bambino non riesce a gestire con i mezzi e gli strumenti a sua disposizione: il pianto, gli scatti d’ira non sono altro che richieste di aiuto che il piccolo invia all’adulto. Tutto ciò che per l’adulto risulta ‘una scenata senza motivo’, un comportamento immotivato da non esibire, magari perché ciò che il bambino vuole lo si farà in un secondo momento, per il bambino non è che una richiesta di attenzione.

Un bambino non piange senza motivo. Il problema è che, troppo spesso, tale motivo sfugge all’occhio di un adulto, immerso nella freneticità dell’agire quotidiano.

Di fronte all’adulto il bambino è disposto all’obbedienza fino alle radici dello spirito.

Ma quando l’adulto gli chiede che egli rinunci, in favor suo, al comando del motore che sospinge la creatura secondo norme e leggi inalterabili, il bambino non può obbedire. Sarebbe come pretendere di fargli interrompere lo spuntare dei denti nel periodo della dentizione.

I capricci e le disobbedienze dei bambini non sono altro che aspetti di un conflitto vitale fra l’impulso creatore e l’amore verso l’adulto, il quale non lo comprende.

Quando, invece di trovare obbedienza, insorge un capriccio, l’adulto deve pensare sempre a cotesto conflitto e individuarvi la difesa di un gesto vitale necessario allo sviluppo del bambino (Montessori, 1938).

I capricci sono normalmente esibiti dai bambini ma essi si intensificano in particolare nella fascia 2/3 anni, non a caso nota come ‘i terribili 2 anni’. Spiegamone il motivo: il bambino raggiunge, a partire da tale età, una maggiore consapevolezza nello sviluppo cognitivo, linguistico, motorio, sfinterico, nonché una maggiore indipendenza; proprio in virtù di ciò, egli ama sperimentarsi, non sottostando alle regole imposte dall’adulto, che spesso rappresentano un freno verso la scoperta del mondo e di se stesso.

A questa età i piccoli si esprimono spesso con il ‘no’, rigettando le richieste del genitore (dell’adulto in generale), anche solo per il gusto di non compiacere, perché ora iniziano a percepirsi come unità separate dal caregiver, sviluppando una propria identità. Ecco come l’espressione del capriccio diventa affermazione di sé: per mezzo di parole quali ‘no’, ‘io’, ‘mio’ il bambino sperimenta la propria libertà, modellando la sua personalità. L’obiezione traduce il pensiero individuale e come tale fa parte del normale processo di crescita.

Come far fronte al capriccio

Nel momento in cui il bambino fa i capricci occorre soffermarsi ad analizzare cosa li ha generati: bisogna indossare le lenti del bambino per leggere la situazione dal suo punto di vista.

È molto importante precisare come il bambino non sia un adulto in miniatura ma un soggetto in costante sviluppo. Da sottolineare come esista un rapporto inversamente proporzionale tra regolazione emotiva ed età, ovvero più si è piccoli meno si riesce a controllare le proprie emozioni.

All’età di due anni la personalità del bambino inizia a plasmarsi ed in virtù delle maggiori competenze linguistiche siamo erroneamente portati a considerarli più maturi rispetto a quanto non siano. Nella prima infanzia il cervello cambia rapidamente, sviluppando assai rapidamente nuove connessioni cerebrali ed eliminando quelle non necessarie, processo noto come pruning sinaptico e da Edelman (1987) ribattezzato come darwinismo sinaptico. La corteccia prefrontale, area del cervello deputata ai più complessi compiti cognitivi, tra cui l’autoregolazione, non è ancora matura, continuando il suo sviluppo fino all’inizio dell’età adulta (Lenroot, Giedd, 2006; Giedd, 2004).

Nella pratica se un bambino vuole un gelato e l’adulto gli dice che lo compreranno dopo aver terminato la spesa, è molto probabile che il primo inizi a piangere perché il suo bisogno in quel dato momento non è stato soddisfatto. Il bambino non possiede appieno la visione della temporalità, e la concezione del posticipare non è contemplata nella sua mentalità, al contrario, ogni bisogno, desiderio ed emozione riguarda il qui ed ora.

Nei più piccoli, il carattere egocentrico, ossia immediato e irreversibile, del pensiero è un ostacolo ad ogni introspezione: la presa di coscienza dell’azione propria inizia dunque con quella dei suoi risultati e soltanto in seguito si risale con un duplice sforzo di inversione rispetto a questo orientamento iniziale e di decentramento o confronto, alla coscienza del meccanismo stesso di tale azione (Piaget, 1979, p. 266).

Come si fronteggia un capriccio?

Partiamo dal presupposto che le regole sono importanti, per cui il genitore non deve avere né un atteggiamento troppo lassista, accondiscendendo ad ogni richiesta del bambino, né troppo autoritario tappando l’espressione del piccolo. La giusta soluzione sta nel mezzo per cui occorre saper essere autorevoli, spiegando le motivazioni per le quali ci si aspetta un determinato comportamento in una data situazione, utilizzando sempre un linguaggio consono e comprensibile al piccolo.

Urlare non serve a nulla ed arrabbiarsi a propria volta col piccolo, imprecando, ordinandogli di smetterla non farà altro che incrementare la sua frustrazione, stabilendo un circolo vizioso.

Occorre ‘calmarsi per calmare’ sintonizzarsi empaticamente col bambino, fargli sentire la nostra presenza, parlargli, spiegandogli che capiamo la sua rabbia, cercare una soluzione. In tal modo egli si sentirà accolto e compreso.

L’adulto possiede proprie strategie di coping e problem solving, acquisite negli anni, per rilassarsi e ritrovare la serenità interiore (ad esempio c’è chi conta fino a dieci, chi fa dei respiri più lunghi, chi intrattiene un dialogo interiore…): fermiamoci a pensare a come il bambino, al contrario, non può contare solo su se stesso e tramite il capriccio egli ci sta comunicando che non riesce a comprendere e far fronte ad una situazione, anzi, ci sta chiedendo di aiutarlo, per capirla, etichettarla e, quindi, fronteggiarla.

In conclusione è propedeutico immedesimarsi col piccolo al fine di decodificare il capriccio e, anziché sgridarlo, donargli gli strumenti per comunicare nel giusto modo.

Capiamo allora come le giuste strategie utilizzino l’empatia, favorendo una connessione tra adulto e bambino su base emotiva: mettendoci mentalmente nei suoi panni potremmo realmente aiutare il piccolo ad etichettare, comprendere e gestire la situazione, in un primo momento per nostro tramite e via via in modo sempre più autonomo. La capacità di mentalizzare, espressione ultima dell’autoregolazione favorisce, secondo Bateman e Fonagy (2006), la comprensione esplicita ed implicita dei propri e degli altrui comportamenti, giungendo a dare significato agli stati mentali che li sottendono.

Il tutto favorisce lo sviluppo della comunicazione assertiva, portando l’individuo a saper esprimere senza remora i propri bisogni, libero da inibizioni ed insicurezze.

Pensiero consapevole e automatico – I bias che influenzano il terapeuta

Talvolta durante il lavoro clinico si incappa in bias cognitivi, in schemi che imprigionano e influenzano la percezione e la rappresentazione della realtà e fanno saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci e influenzare l’efficacia del terapeuta.

Il presente contributo è il terzo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

La legge dei piccoli numeri

Spesso basiamo le nostre inferenze rifacendoci alla legge dei grandi numeri, scegliendo però un campione troppo ristretto. Con campioni piccoli il rischio di ottenere risultati senza senso è molto alto. Quando la legge dei grandi numeri vale anche per i piccoli numeri, il bias generale è quello che favorisce la certezza rispetto al dubbio.

Per questo è importante un’attenta lettura degli studi scientifici su campioni grandi e non fidarsi di osservazioni aneddotiche su pochi casi o singole esperienze.

Cerchiamo attraverso il sistema 1 di avere conoscenza certa da poche osservazioni, un “effetto alone” che ci fa credere, per esempio, di capire molto bene una persona di cui sappiamo pochissimo. Arriva un paziente all’osservazione è molto ordinato nell’aspetto, chiede educatamente se può mettersi seduto, si scusa per i due minuti di ritardo. Si accende la lampadina e il clinico salta alla conclusione: è un ossessivo! Il che va pure bene se invece di considerarla una conclusione, la riteniamo semplicemente un’ipotesi di lavoro da verificare.

L’effetto alone, presente anche nella vita di tutti i giorni ci fa anche pensare che se uno possiede una caratteristica positiva ne abbia anche molte altre che nella nostra mente sono a essa correlate. Per questo nell’ossessivo ci aspetteremo di notare altri segni e sintomi coerenti con l’ipotesi.

Interviene in questo caso anche una modalità di pensare in termini causali, che scotomizza la possibilità che i comportamenti sopra descritti siano semplicemente casuali e non siano raggruppabili e regolari. Lo schema ci imprigiona e influenza la percezione e rappresentazione della realtà e ci fa saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci.

L’effetto ancoraggio

Quando dobbiamo assegnare un valore, partiamo da un valore disponibile che assume una funzione di ancoraggio per successivi aggiustamenti. L’effetto priming con l’attivazione selettiva dell’attenzione e di ricordi comparabili con l’ancoraggio produce una coerenza associativa. Numeri alti o bassi attivano idee che producono associazioni e ancorano la valutazione.

L’effetto ancoraggio va quindi tenuto in considerazione in ogni giudizio poiché il sistema 1 rende alcune informazioni più accessibili al sistema 2 che ha invece il compito di elaborarle. Le ancore casuali producono il loro effetto, indipendentemente dalla loro verosimiglianza.

Questo è il motivo per cui la calunnia, anche quando si dimostra del tutto fallace è efficace secondo il ragionamento “ non sarà del tutto vero, ma qualcosa deve pur esserci”. Insomma una volta che ci siamo messi in testa una cosa cacciarla non è semplice.

Basti pensare alle informazioni che ci sono fornite da un collega che ci invia un paziente. Il nostro pensiero è influenzato da quanto ci racconta, soprattutto se stimiamo il collega e lo riteniamo molto autorevole, anche se non ne siamo pienamente consapevoli (effetto priming) i dati che ci fornisce rappresentano una guida che può limitare la nostra valutazione, indirizzando l’attenzione, la memoria e facilitando associazioni che producono un ancoraggio il cui effetto può essere fuorviante.

La stessa necessità di avere una diagnosi categoriale seguendo i segni e i criteri del DSM 5 può essere fuorviante in relazione a una diagnosi interpretativo-esplicativa che ci dia il funzionamento del paziente, la dinamica dello scompenso e i fattori di mantenimento del disagio, più utile ai fini della comprensione e del trattamento. La sola diagnosi categoriale ci fornisce solo il prototipo di un paziente e trascura una serie di specificità che definiscono la complessità di quella particolare persona, ancorandoci a strategie d’intervento predefinite o all’esperienza accumulata nel trattamento di quella diagnosi, o alla disponibilità di protocolli e linee guida in letteratura.

L’euristica della disponibilità

La facilità di recuperare dalla memoria un consistente numero di esempi condiziona il giudizio relativo a una categoria cui gli esempi sono riferiti.

Eventi salienti, avvenimenti drammatici, esperienze personali, rappresentano potenziali bias di disponibilità cui resistere è faticoso anche perché la fluidità del ricordo e la salienza del contenuto sono più importanti del numero complessivo dei ricordi.

Immaginate che nella casistica del Dr. Pinco il numero di pazienti con disturbo di personalità narcisistico sia considerevolmente maggiore rispetto a qualsiasi altro disturbo. Il giudizio del terapeuta in questione su un paziente sarà influenzato dall’euristica della disponibilità. E’ possibile, pertanto, che si tenda a diagnosticare maggiormente un disturbo piuttosto che un altro, o se si sono ottenuti numerosi successi, a riprodurre quei trattamenti utilizzati di prassi, escludendo la possibilità che nel caso specifico possano determinare un insuccesso.

In questo tipo di errore incorrono soprattutto i superspecialisti cui arrivano sempre casi già selezionati, mentre ne sono più protetti i colleghi alle prime armi che, assediati da dubbi e incertezze, rischiano meno di prendere “lucciole per lanterne”.

Euristica dell’affetto

La raccolta di una grande mole d’informazioni che oggi con la rete più di ieri siamo propensi a fare suscita emozioni e crea aspettative e bias.

La facilità con cui un fobico si rappresenta i rischi crea una reazione emotiva di paura e a sua volta la paura influenza il giudizio e la decisione rispetto al pericolo. Le persone si formano opinioni e prendono decisioni, affrontano o evitano eventi, esprimendo le proprie emozioni senza esserne pienamente consapevoli.

L’euristica dell’affetto (Slovic, Lichtenstein, 1968) sostituisce la risposta a una domanda, “che sensazione provo?” con una domanda diversa, “cosa ne penso?”. D’altra parte è ciò che sostiene Damasio: le valutazioni emotive sono centrali nel processo decisionale e possono anche portarci a prendere buone decisioni.

L’importante è avere la perspicacia di analizzare le situazioni valutando costi e benefici di scelte e comportamenti. Un conto è controllare il sopraggiungere di un’auto prima di attraversare la strada, un altro è restare bloccati sulle strisce pedonali in virtù della notizia letta sul giornale di un uomo morto investito da un’auto mentre attraversava.

Forse chiunque eviterebbe di attraversare la strada se per una settimana tutti i mass media avessero dato notizie dei numerosissimi pedoni morti nell’ultimo mese con statistiche di raffronto annuali che testimoniano di un incremento vertiginoso dei casi. Si aggiunga che nei media una notizia catastrofica (ad esempio un treno che deraglia) rende degne di essere riportate notizie della stessa area che altrimenti non avrebbero trovato spazio (un casello di passaggio a livello che s’incendia, un guasto agli scambi in stazione, il dissesto dei binari per il terremoto).

Siamo, in continuazione sollecitati da una “cascata di disponibilità” su tantissimi argomenti compresi quelli clinici che esercitano una forte influenza sui nostri stati emotivi (mood congruity effect).

Il bias della rappresentatività

I giudizi di rappresentatività sono guidati da stereotipi, che hanno in sé qualcosa di vero ma quel qualcosa può farci ignorare altre informazioni, per questo l’euristica è fuorviante.

Se una persona, per esempio, riferisse di sentire delle voci potremmo pensare di essere in presenza di un esordio psicotico, con la possibilità di scartare l’ipotesi che le voci possano essere l’effetto collaterale di un farmaco assunto dalla persona stessa.

I dati epidemiologici ci dicono che il rapporto di prevalenza del disturbo istrionico di personalità è sbilanciato a favore delle femmine. Se ci fosse chiesto di formulare una diagnosi in due soggetti di sesso opposto di cui uno solo è affetto dal disturbo e che presentassero entrambi una marcata ricerca d’attenzione, l’euristica della rappresentatività ci influenzerebbe nel giudizio, soprattutto se la vigilanza del sistema 2 che riduce l’eccessiva fiducia in sé non si attivasse.

Detto in altri termini siamo vittime dei nostri pregiudizi molto più di quanto pensiamo.

Negli anni 70 in un famoso esperimento Rosenhan (1973) decise di verificare se soggetti senza disturbi psichiatrici sarebbero stati ricoverati erroneamente in reparti psichiatrici.  Reclutò dei volontari e gli chiese di recarsi in strutture psichiatriche per essere ricoverati.  Al colloquio di accettazione gli pseudo pazienti lamentarono di sentire delle voci e un senso d’insoddisfazione per la vita. Alle domande rivolte in sede di colloquio, altresì, i pazienti risposero in modo sincero secondo la loro esperienza. Tutti furono ricoverati e dimessi a distanza di tempo con diagnosi di schizofrenia in remissione.

Rosenhan fece un ulteriore esperimento avvisò l’equipe curante di una struttura di ricovero che nei successivi 3 mesi avrebbero fatto richiesta di ricovero alcuni pseudo-pazienti. Gli psichiatri individuarono un 10% di pazienti simulatori e i membri dello staff un 20% di persone sospette. Pessime intuizioni dato che Rosenhan non aveva inviato nessun finto paziente.

C’è in sostanza ciò che vedo e ciò che vedo è coerente con il pensiero associativo. Questi bias aggiunti all’ignoranza (scarsa attenzione alla probabilità statistica) e alla pigrizia (poca attenzione al compito) determinano errori. La ricetta da seguire è mettere in discussione la “valenza diagnostica” delle prove.

Un’altra fonte di bias è la sostituzione della probabilità con la plausibilità, in questo caso un’illusione cognitiva saliente ci fa scegliere. Un paziente è ricoverato in una comunità socio-riabilitativa per due anni e sta molto meglio, ha risolto gran parte dei suoi problemi e adotta comportamenti adattivi, è plausibile che anche fuori della comunità si adatti funzionalmente alle varie situazioni che si troverà a fronteggiare. Con sorpresa e incredulità scopriamo, però, che la plausibilità non si correla con la probabilità. Infatti, una larga percentuale di pazienti che soggiornano in strutture residenziali è soggetto al fenomeno del revolving door.

Esempi e statistiche

E’ più facile imparare da casi individuali rappresentativi che da dati statistici. E’ più facile inferire il generale dal particolare che dedurre il particolare dal generale. Perché vi sia apprendimento è importante stupire (Nisbett, Borgida, 1975).

Nella formazione, come anche in psicoterapia, l’integrazione di diversi canali comunicativi (iconico, sonoro, ecc) possono essere più efficaci del solo parlato. Mostrare video di sedute terapeutiche, suggerire la visione di film (Coratti et al. 2012), può favorire un terreno d’incontro tra paziente e terapeuta capace di creare sintonia e alimentare una più forte alleanza terapeutica. In altre parole fare esperienza concreta è molto più efficace per il cambiamento sia in contesti formativi, sia terapeutici (da cui la superiorità delle terapie che prevedono l’esposizione).

La letteratura è ricca di esempi e casi da cui trarre insegnamenti. L’esperienza è maestra di vita come scrive Jung:

Colui che vuol conoscere l’animo umano non imparerà quasi nulla dalla psicologia sperimentale. Dobbiamo consigliargli di appendere a un chiodo la scienza esatta, di spogliarsi del suo abito di scienziato, di dire addio a questo suo tipo di ricerca e di camminare per il mondo con cuore umano, nel terrore delle prigioni, dei manicomi, degli ospedali; di vedere le taverne dei sobborghi, i bordelli, le bische, i salo­ni della società elegante, la borsa, i comizi socialisti, le chiese, i revival e le estasi delle sette; di provare nella propria carne amore e odio, le passioni sotto tutte le forme. Allora ritornerà carico di una scienza ben più ricca di quella che gli avrebbero dato i manuali alti un piede e potrà essere per i malati un vero conoscitore dell’animo umano (Jung, 1959).

Regressione verso la media

Le ricompense funzionano meglio delle punizioni quando operiamo in addestramento. Le fluttuazioni, però, di un processo casuale portano alla regressione verso la media: le performance migliori tendono a peggiorare e quelle peggiori a migliorare.

La difficoltà a tenere presente il fenomeno è dovuta al sistema 1 propenso a dare interpretazioni causali, perciò se ottengo risultati positivi con i pazienti sono un bravo clinico. I gruppi estremi tendono a regredire verso la media, dobbiamo, per esempio, aspettarci che i pazienti più gravi tenderanno a stare meglio indipendentemente dal nostro intervento.

Attenzione, quindi, ad attribuirsi falsi meriti! Ed anche colpe immeritate, insomma siamo molto meno influenti di quanto pensiamo e questo schiaffo alla nostra onnipotenza è una benefica carezza rispetto al peso della responsabilità.

Per avere un risultato certo che l’intervento sia stato efficace, abbiamo sempre bisogno di confrontare un gruppo sperimentale con un gruppo di controllo cui non è stato applicato il trattamento e verificare se i pazienti del gruppo sperimentale migliorano più di quanto sia giustificabile dalla regressione verso la media.

 

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La gelosia: il modello relazionale simbolico

La famiglia è il luogo dove convivono l’ethos e il pathos. Senza il pathos l’amore diventa sterile, mentre senza l’ethos resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento. A questo livello si collocano due tipi di gelosia: una legata all’ethos, definita come “sana”, e l’altra legata al pathos, più diffusa e irrazionale.

 

La famiglia – scrive Vittorio Cigoli – è il luogo dove convivono l’ethos (cioè l’alta assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro/a) e il pathos (che è la facoltà squisitamente umana di sentire le gioie e le pene dell’incontro profondo). Senza il pathos l’amore diventa sterile, forzato, piatto. Senza l’ethos resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento, e non permette lo sviluppo del legame, necessario per affrontare le tappe che la vita ci propone. Non è semplice farli convivere, ma neppure impossibile.

L’ethos è il “patto fiduciario” della relazione coniugale che ha nel matrimonio il suo atto esplicito ed è caratterizzato dai seguenti elementi, così come individuati dagli stessi autori: la comune attrattiva, la consensualità, la consapevolezza, l’impegno a rispettarlo, la delineazione di un fine.

Il Pathos è “l’incastro di bisogni, desideri e paure “ e fa riferimento “all’attrattiva, cioè ciò che ha attratto i due nella stessa orbita, che è un misto di bisogni, di speranza e di difesa da pericoli che i partner si aspettano di trattare nel rapporto di coppia”.

E’ evidente che l’ethos fa riferimento all’esplicito, al razionale, mentre il pathos ad esigenze emotive che nella maggior parte dei casi sfuggono alla nostra consapevolezza, tant’è che sempre i nostri autori individuano due tipi di patto, uno dichiarato e l’altro segreto. Quello dichiarato può essere condensato nelle promesse matrimoniali, mentre quello segreto invece è rappresentato da tutte le istanze emotive ed affettive che si ricercano nell’altro.

A questo primo livello si collocano due tipi di gelosia: una legata all’ethos e l’altra legata al pathos.

Quella legata all’ethos viene definita come gelosia “sana”, è quella che avvertiamo quando si profila una minaccia “concreta” alla nostra relazione affettiva, ovvero quando ci sono minacce esplicite alle promesse matrimoniali come ad esempio la presenza di un’altra persona e il non ricevere le giuste attenzioni.

La gelosia, comunque, è perlopiù legata al pathos. Bolwby sostiene che la gelosia è

una risposta emotiva legata al pericolo di perdita e sottrazione del partner, che è connessa a reazioni di angoscia, rabbia e aggressività che hanno la funzione di proteggere la relazione stessa .

Freud  distingue tre forme di gelosia tutte legate ad istanze inconsce:

1) La gelosia competitiva che è

essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore, e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa essere distinta dal resto; infine, da sentimenti ostili verso il più fortunato rivale e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa. Anche se la chiamiamo normale, questa gelosia non è certo interamente razionale, ossia determinata dalla situazione attuale, proporzionata alle circostanze affettive e sotto il completo controllo dell’Io cosciente; anzi essa è profondamente radicata nell’inconscio, è la continuazione dei primissimi impulsi della vita affettiva infantile e trae origine dal complesso edipico o da quello fratello-sorella del primo periodo sessuale. (Freud, 1905)

2) La gelosia proiettiva legata alle proprie trasgressioni e/o infedeltà o al desiderio di infedeltà che vengono rimosse. Per esigenze super egoiche non si rimuove l’idea del tradimento e si tende a proiettarlo sull’altro/a. La proiezione ci permette di dar voce a questi impulsi senza entrare in conflitto con noi stessi.

3) La gelosia delirante che è un disturbo psicopatologico caratterizzato dalla convinzione, spesso infondata, che il proprio partner sia infedele. Tale convinzione porta a mettere in atto una serie di comportamenti (ricerca di indizi, domande assillanti, interpretazioni non reali, allusioni, etc) al fine di provare l’infedeltà contestata. Un esempio di questa forma irrazionale di gelosia è la Sindrome di Otello ripresa proprio dal dramma di Otello, che malgrado le rassicurazioni di Desdemona, decide che essa deve morire per una sua presunta infedeltà. Per Freud tale forma di gelosia nasce, come per la gelosia proiettiva, da esigenze super egoiche legate ad una propria infedeltà. In questo caso, però, l’oggetto della relazione sessuale e/o la fonte di attrazione è dello stesso sesso. La gelosia delirante, quindi, è una forma di omosessualità latente. Essa è un

tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte, essa potrebbe essere descritta (nel caso dell’uomo) mediante la formula: non sono io che lo amo, è lei che lo ama. (Freud, 1905)

Oltre a Freud e molti altri psicoanalisti, vari autori mettono in relazione la gelosia con il pathos ovvero con istanze emotive che per la psicanalisi hanno sede nell’inconscio.

Dicks, psicoanalista britannico, definisce il legame di coppia come l’incastro di due mondi interni, da intendersi, come il tentativo più o meno cosciente, di risolvere attraverso l’unione le problematiche individuali. Secondo l’autore, questo incontro può portare ad un’evoluzione positiva o, al contrario, ad una collusione propiziatrice di una relazione distorta. In particolare si tende a respingere aspetti di sé negativi forzando l’altro a rivestire quei contenuti che non possono essere assunti in proprio perché dolorosi e inaccettabili.

Robin Skynner afferma che

La moglie e il marito si sono scelti reciprocamente su una base altamente percettivo-intuitiva (presumibilmente fondata su informazioni non verbali) così che le relazioni e i ruoli che essi adottano, e in cui “cadono” entrambi, sono strettamente correlati. A un livello superficiale essi possono essersi scelti reciprocamente per somiglianza o differenza da qualche figura genitoriale, ma se si va più in profondità si trova a una somiglianza crescente in aspetti fondamentali ma negati del back-ground modellante, e risulta, in seguito ad un attento esame, che i mondi intimi delle coppie sono sempre più condivisi.

All’interno del modello relazionale simbolico, le esigenze narcisistiche (tipiche della gelosia competitiva) e le esigenze superegoiche (tipiche della gelosia proiettiva e della gelosia delirante), in cui l’altro diventa indispensabile per la nostra sicurezza e per le nostre relazioni, costituiscono ciò che E. Scabini e V. Cigoli hanno definito  “l’anti-patto” in cui “l’intesa relazionale è nulla, lo scambio è impossibile perché l’altro non è percepito nella sua realtà e nel suo bisogno; egli è piuttosto il contenitore dei propri aspetti rifiutati e non riconosciuti che vengono proiettati nell’altro”.

Non ci si sposa con l’altro in quanto tale, ma si sposano singoli aspetti come “ho sposato questo di te” o “ho sposato quest’altro di te”. Questi elementi hanno portato Cigoli ad inserire all’interno dell’Intervista Clinica Generazionale, un metodo e un modello di lavoro con le coppie, una domanda precisa: Che cosa ha sposato del suo/a partner?

Al contrario, cioè la perfezione del patto si “configura come un’intesa di coppia che appoggia e alimenta l’unicità e l’irripetibilità della persona amata, accettata nei suoi limiti e desiderata nelle sue caratteristiche: sposo te perché sei tu” (E. Scabini –  V. Cigoli). Le relazioni familiari si caratterizzano per uno scambio simbolico in cui si dà all’altro ciò che si pensa e auspica abbia bisogno e, nel contempo, avendo fiducia che l’altro ricambierà con un “equivalente simbolico”. Secondo il modello relazionale simbolico questo scambio avviene attraverso un “dono”.

C’è una celebre frase del jazzista R. Gualazzi che riesce a cogliere il valore del dono all’interno della relazione

l’unione fa la forza e se ognuno rimanesse aperto alle esperienze altrui senza essere troppo geloso nel donare ciò che ha appreso, questo scambio genererebbe una inevitabile evoluzione.

Goldbout, come riportato da Cigoli ne Il Famigliare, sostiene che il “dono” è

una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro e ha alla sua origine un quid di gratuito.

In questo approccio la fiducia diventa elemento essenziale dello scambio. Al contrario, l’incapacità di donare e la perversione del dono (con un uso prettamente strumentale e di definizione di rapporti di potere) costituiscono le forme della patologia relazionale.

Cigoli nell’Albero della Discendenza (op. cit) individua in un quadro di famiglia, La festa di San Nicola di Steen conservato al Rijsksmusumeum di Amsterdam, la rappresentazione pittorica della “magia del dono”. Nell’opera i figli presenti sono preoccupati dei regali ricevuti o che devono ricevere. La bimba viene invitata dalla madre a farle vedere la bambola ricevuta in dono, un altro figlio piange per non aver avuto nessun regalo e viene invitato dalla nonna dietro la tenda dove c’è un dono anche per lui, il padre invita il figlio più piccolo a guardare in alto da dove potrebbero arrivare i regali. Tutta la famiglia è preoccupata per i doni da dare ai figli. La magia del dono è “un segno del bene incondizionato che deve venire dalle generazioni precedenti”.

Nel Dono di Natale di M. G. Deledda, in un contesto di povertà assoluta, il papà di Lia porta in dono alla famiglia un fratellino che ha acquistato a mezzanotte precisa la notte di Natale le cui ossa non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Il papà dà una grande gioia alla famiglia portando il Divino Bambino.

Al contrario, nella novella di Verga La roba viene descritto il dramma della mancanza del dono, dell’incapacità di donare. L’analfabeta Mazzarò è il contadino che diventa ricchissimo a forza di lavoro e sacrifici e che per evitare di sperperare e dividere il suo patrimonio non si sposa e non ha figli. Diventato vecchio, dovendosi confrontare con la morte, uccide parte del suo bestiame nel tentativo di portarselo con sé nell’aldilà in quanto dopo la morte, e Mazzarò ne è purtroppo cosciente, la “roba” accumulata in vita non varrà più niente. L’incapacità a donare porta all’annullamento del sé, alla mancanza di prospettive.

L’incapacità a donare non è visibile solo sui beni materiali, ma anche nel non riuscire a dare all’altro ciò di cui ha bisogno e necessità. Nadia Somma e Mario De Maglie, nell’analizzare la Madame Bovary di Flaubert, concentrano la loro attenzione sul dramma di Berthe, la figlia nata dal matrimonio con Chalrles Bovary. Flaubert fa stare Berthe sullo sfondo, quasi in un cantuccio e Emma Bovary non prende mai in considerazioni i bisogni della figlia in quanto desiderava un figlio maschio. Emma prova un grande dolore quando le nasce una figlia femmina in quanto

una donna ha continui impedimenti. Ha un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene. (Madame Bovary, Flaubert)

Si avverte che Berthe si sente abbandonata, la mancanza di dono materno sicuramente la espone ad insicurezza e a perdere la speranza e la fiducia, come vedremo fra poco di poter essere ricambiata sul piano affettivo. Come abbiamo precedentemente detto, inoltre, il vissuto di abbandono può portare alla gelosia ossessiva.

La gelosia, quindi, potrebbe essere frutto di un dono “perverso” e in quanto tale, così come le caratteristiche di gelosia individuate da Freud, non può che portare alla patologia di tipo relazionale.

Cosi come descritto da E. Scabini e V. Cigoli, la relazione perversa e patologica, attraverso la quale uno dei membri tenta di avere il dominio e la sudditanza dell’altro, si esplica con “il bisogno di possedere l’altro e di ridurlo alla propria mercé con l’uso di tecniche quali la seduzione, la minaccia, la delegittimazione, l’umiliazione, l’opposizione fredda, la corruzione”. Tale bisogno è  talmente “imperioso” che diventa “l’unico modo di vivere la vita, la discordia può contrassegnare fortemente la vita intera di coppia”. La gelosia diventa uno degli elementi con cui poter realizzare il suddetto piano attraverso ad esempio la segregazione o l’allontanamento dagli amici e dalla vita sociale il partner.

Il dono da solo comunque non basterebbe ad individuare l’asse simbolico della relazione familiare. Infatti gli autori ritornando alle relazione tra ethos e pathos identificano in fiducia e speranza le qualità del polo affettivo e in giustizia e lealtà quelle del polo etico. Jurkovic, come citato dagli stessi autori, sostiene che “giustizia e fiducia sono ingredienti essenziali nelle relazioni familiare sane”. Ovviamente il loro opposto costituisce l’area insana che Scabini e Cigoli individuano nel diabolico che diventa “ciò che spezza la connessione e il legame e non consente il riconoscimento e la comprensione”.

Nel polo affettivo la fiducia diventa l’elemento essenziale affinché avvenga lo scambio relazionale dell’equivalente simbolico. Se uno dei partner non ha fiducia e speranza di essere ricambiato si inserisce la patologia relazionale ed un terreno fertile per la nascita di sentimenti di gelosia. Quest’ultimi possono nascere secondo questo modello o per l’incapacità a donare (mancanza di fiducia che l’altro possa ricambiare) o per incapacità a ricambiare. Infatti, nell’ambito dello scambio relazionale, se da un lato esiste un dono, dall’altro deve esistere un debito. Nel caso di uno scambio relazionale sano il debito deve essere positivo. Con un debito negativo il soggetto ha un’effettiva incapacità a ricambiare. Il modello, comunque non può essere letto e analizzato come lineare, ma circolare. Un soggetto con un debito negativo non ha speranza e fiducia nel donare e il mancato dono non fa altro che rafforzare un debito negativo e, quindi, l’incapacità a ricambiare.

Se applichiamo, infatti, il modello dello scambio relazionale alle tre forme di gelosia individuate da Freud possiamo vedere che:

  1. nella gelosia competitiva, da un lato, non dona perché non ha fiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità (ferita narcisistica) e, dall’altro, ha un debito negativo rispetto alla propria evoluzione personale (complesso edipico e rapporti fratello-sorella) e, quindi, si sente incapace di ricambiare;
  2. nella gelosia proiettiva non dona perché non ha fiducia nella propria fedeltà e, in quanto, infedele si sente incapace di ricambiare;
  3. nella gelosia delirante non dona perché non ha fiducia nella propria eterosessualità e in quanto tale si sente incapace di ricambiare (debito negativo).

Nel modello relazionale simbolico un altro elemento essenziale è l’intergenerazionalità e la transgenerazionalità che con Scabini e Cigoli possiamo sintetizzare nel Famigliare.

I nostri autori scrivono “il famigliare lega tra di loro i vivi e i morti, le generazioni passate e quelle future”. Già nelle definizioni di Freud sulla gelosia troviamo questa dimensione, poiché il mancato scambio è legato ad esigenze inconsce che fanno riferimento alle relazioni con le figure primarie (padre, madre, fratello, sorella, etc.) anche se restano ancorate allo sviluppo individuale e non vengono analizzate dal punto di vista delle relazioni familiari.

Il famigliare però è qualcosa in più rispetto alle relazioni familiari. Esso è:

la matrice simbolica del legame tra i sessi, le generazioni e le stirpi e dà sostanza simbolica alle singole famiglie e alle varie forme familiari. La famiglia come gruppo sociale primario che lega tra loro generi e generazioni e che produce incessantemente il passaggio tra natura e cultura può far luce sugli aspetti generativi-degenerativi delle strutture simboliche – L’inconscio diventa: – il sedimento e custode di tutto ciò che è accaduto nello scambio tra famiglie e stirpi.

Ecco che per poter comprendere la gelosia all’interno del modello relazionale-simbolico, si devono prendere in considerazione:

  • la relazione coniugale che è caratterizzata sulla reciprocità del dono e del debito e si basa sul patto fiduciario;
  • la relazione genitoriale si basa sulla cura responsabile dei figli;
  • la relazione tra stirpi che è basata sulla cura dell’eredità.

 

Credenze di mascolinità: come l’eccessiva ricerca di virilità può portare a problemi di salute?

Il termine ‘virilità precaria’ indica la credenza che la propria mascolinità e virilità debbano essere dimostrate tramite comportamenti di forza e di dominio e può portare ad effetti negativi sulla salute.

 

È noto in letteratura che gli eventi stressanti portano a una maggior produzione di cortisolo, un tipo di ormone, conosciuto come ormone dello stress; il rilascio di cortisolo è dato dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che riflette la naturale risposta dell’organismo alla presenza di stressors prolungati (Cohen, 2007).

Il cortisolo ha in sé una funzione adattiva, viene infatti messo a disposizione dall’organismo allo scopo di consentirci di affrontare una situazione stressante, provocando un aumento della glicemia e dei grassi nel sangue, mettendo così a disposizione l’energia di cui il corpo ha bisogno per fronteggiare la situazione stressante; inoltre vengono liberate catecolamine tra cui l’adrenalina e la noradrenalina, provocando così un aumento della pressione sanguigna. Una volta terminata la circostanza stressante, il corpo si rilassa e ritorna ad una condizione di quiete data dalla minor concentrazione di cortisolo nel sangue (Juster, McEwen, &Lupien, 2010).

Una sovra-attivazione che perdura nel tempo dell’asse HPA può portare ad alti rischi di sviluppare diverse problematiche tra cui problemi cardiovascolari, disfunzioni metaboliche, danni cognitivi ed un aumento generale della mortalità (Juster et al., 2010).

Uno dei fattori che potrebbe portare ad un aumento significativo di cortisolo, è un tipo di credenza, denominata ‘virilità precaria’ la quale consiste nel credere che la propria mascolinità e virilità debbano essere dimostrate tramite comportamenti di forza e di dominio, e che la debolezza per l’uomo sia qualcosa di inaccettabile. E’ dimostrato in letteratura come le persone che hanno questo tipo di credenze tendano anche a mettere in atto più frequentemente comportamenti dannosi per la propria salute (come ad esempio fumare, bere alcol, mangiare male) rispetto a coloro che non ricercano costantemente la virilità e la mascolinità (Courtenay, 2000); inoltre la virilità precaria è anche associata ad una scarsa cura della propria salute, a una mancata ricerca di cure preventive, e alla noncuranza di eventuali terapie nel caso di problemi di salute.

Una ricerca pubblicata sul giornale Psychology Of Men & Masculinities (Himmelstein, Kramer, & Springer, 2018), ha indagato che impatto hanno sull’individuo le credenze di mascolinità. La ricerca ha messo in luce che non tutti coloro che hanno alti livelli di credenze sulla mascolinità hanno alti livelli di cortisolo; infatti, solo gli individui che temevano di perdere lo status di ‘uomo virile’ mostravano una correlazione positiva significativa con i livelli di cortisolo.

I ricercatori sottolineano l’impatto clinico di questa ricerca, dato che individui con credenze di mascolinità preminenti hanno più problemi di salute fisica e psichica legati appunto alla presenza eccessiva e duratura di cortisolo (Himmelstein et al., 2018).

 

Harry Potter – La LIBET nelle narrazioni

Tutti lo conoscono, o quanto meno lo hanno sentito nominare almeno una volta. E’ il mago più famoso del mondo, ed ha solo 11 anni: Harry Potter.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 2) Harry Potter

 

La fama di Harry lo precede per via del suo passato. Il piccolo mago infatti, da pochissimi mesi al mondo, assiste all’uccisione dei suoi genitori (in particolare della madre) da parte del mago più crudele di sempre: Lord Voldemort, il quale cerca poi di uccidere anche lui con una potentissima maledizione, senza però riuscirci perché la stessa gli rimbalza addosso, distruggendolo.

Diventato orfano, Harry viene dato in affidamento ai suoi zii, da sempre ‘babbani’, che non appartengono cioè il mondo della magia. Proprio per questo motivo allevano il piccolo Harry come se fosse un mostro. Sono del tutto anaffettivi, vivono la presenza di Harry in casa come un peso, cosa che li porta a maltrattarlo continuamente, con commenti sprezzanti sulla sua natura magica, sui suoi genitori morti, o sulla sua persona in generale, talvolta essendo addirittura violenti. Come se non bastasse, Harry è costretto a subire costantemente le vessazioni del viziatissimo cugino.

Tutto ciò diventa base fertile per lo sviluppo di un tema di minaccia terrifica da parte del piccolo mago.

Alla luce di ciò è comprensibile come nel corso dei film emerga spesso un vissuto di fragilità da parte del ragazzo, che nonostante dimostri di avere grandi doti magiche, non si sente mai all’altezza delle situazioni in cui si trova.

Essere solo per Harry significa essere debole e indifeso, è per questo che quando riesce finalmente ad iniziare la scuola di magia di Hogwarts e conosce quelli che diventeranno poi i suoi migliori amici (Ron ed Hermione), Harry capisce finalmente cosa significa avere una famiglia, degli amici, cosa significa dare e ricevere amore. Questa condizione lo rende felice, lo completa e soprattutto lo tutela da quel senso di solitudine e fragilità. Proprio per questo Harry sviluppa un senso di protezione verso le persone che ama, che diventa per lui un dovere, un imperativo di vita. Harry, così, impara a controllare le situazioni di minaccia buttandocisi a capofitto, proprio al fine di evitare che qualcuno si faccia male. Ecco che allora affina gli incantesimi, migliora la tecnica e impara ad utilizzare la magia al meglio che può per essere sempre in prima linea a difendere gli amici. Non a caso Harry mostra di essere tanto più performante, quanto più sente avvicinarsi la minaccia. Infatti, è proprio quando i suoi amici o le persone che ama sono in pericolo, che il suo piano prescrittivo emerge maggiormente: è infatti il momento in cui ad Harry riescono gli incantesimi più difficili o mostra capacità e doti degne di un mago molto esperto, che in condizioni di bassa attivazione non mostrerebbe.

Gli anni passano, Harry frequenta il terzo anno della scuola di magia. Ha una cerchia di amici folta e amorevole, i professori lo hanno accolto come un figlio, così come le famiglie dei suoi amici; ha da poco ritrovato anche il suo padrino (Sirius Black), e tutto sembra procedere a gonfie vele. Momenti di difficoltà ci sono stati per via della minaccia dei seguaci di Voldemort, ma Harry è sempre riuscito a cavarsela con le sue forze, forte dell’amore di chi ha avuto vicino.

E’ a questo punto però che le voci su un possibile ritorno del mago oscuro si fanno sempre più consistenti, generando panico e terrore nel mondo della magia. Harry rimane inevitabilmente colpito da questo: il ritorno di Voldemort significherebbe per lui risvegliare i mostri del suo passato, tornare ad avere un contatto con le sue sensibilità dolorose di solitudine, e quindi di fragilità e debolezza. Senza contare che il ritorno di Voldemort (e la possibilità di perdere quanto ora ha di più caro), porterebbero alla luce il vissuto traumatico che l’ha reso famoso.

Ecco che Harry inizia ad avere i primi incubi.

Ma la vera rottura del suo piano si avverte quando, al termine del ‘Torneo 3 Maghi’ (un torneo tra le tre principali scuole di magia esistenti) Harry, intrappolato dai seguaci di Voldemort, assiste inerme al ritorno del mago oscuro, il quale uccide davanti ai suoi occhi un suo caro amico.

Per la prima volta Harry Potter non riesce a controllare una situazione di minaccia, il suo piano prescrittivo fallisce.

I lasciti di questo evento perseguiteranno Harry nelle fasi successive della narrazione.

Gli incubi notturni si aggravano, inizia a soffrire di frequenti allucinazioni, flashback relativi all’evento, spesso anche con episodi dissociativi. Per fortuna è di un personaggio di fantasia che stiamo parlando, perciò ad Harry è bastato scuotere la bacchetta magica per eliminare l’origine dei suoi problemi e tornare a condurre una vita serena ed equilibrata.

Nel mondo della psicoterapia invece, sarebbe stato sicuramente necessario qualche passaggio in più!

Pensiero consapevole e automatico – I contributi di Kahneman

Kahneman evidenzia come alcuni bias cognitivi possano interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi errori del terapeuta è molto spesso la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Il primo articolo della serie, pubblicato il 09 Gennaio su State of Mind, si è concluso con il riferimento alle teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia. Nel presente articolo esamineremo nel dettaglio una parte di queste importanti teorie.

 

L’attenzione

L’attenzione può portarci alla cecità. Quando concentriamo la nostra attenzione, per un motivo o per l’altro, su determinati particolari, altri stimoli sono del tutto scotomizzati. L’esperimento The invisible gorilla ne è un esempio suggestivo: concentrati nel contare i passaggi della palla di una squadra di basket gli osservatori non si accorgono che a un certo momento il campo è attraversato da un gorilla.

Quando si diventa esperti di una materia l’attenzione che si applica diminuisce. Gli psicoterapeuti esperti, ad esempio, possono compiere errori proprio perché pigri nell’aprirsi a valutazioni diagnostiche o a possibilità terapeutiche alternative a quelle praticate di routine.

La legge del minimo sforzo si applica sia allo sforzo fisico sia allo sforzo cognitivo (Kahneman, 2013).

Spostare l’attenzione da un compito all’altro è faticoso, impegna la memoria di lavoro in un duro sforzo, soprattutto quando si hanno limiti di tempo, quindi meglio evitare sovraccarichi mentali e selezionare compiti facili cui prestare attenzione.

Memoria e attenzione selettive sono processi molto presenti in psicopatologia e impegnano il terapeuta a dividere la concentrazione sul compito dal controllo intenzionale dell’attenzione. Controllare se la manopola del gas è chiusa richiede uno sforzo notevole per un ossessivo, mentre per un cultore della letteratura il mantenere l’attenzione concentrata sul romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega non è faticoso e non richiede autocontrollo. Le tecniche di mindfulness, in questo senso aiutano ad avere un’esperienza ottimale, ad attivare uno stato di flusso che libera risorse da impegnare verso il compito che si svolge con piena consapevolezza.

Una trappola da “attenzione polarizzata è insita nel concetto stesso di “diagnosi. In proposito si legga il resoconto dell’esperimento noto come “la beffa di Roshenam”.  Quando si formula una diagnosi, automaticamente, si percepiscono tutti gli elementi che la confermano e si trascurano quelli che la metterebbero in dubbio. Lo stesso si verifica quando si ha un principale interesse di studio. I costrutti in quel dominio si arricchiscono e si raffinano e dunque colgono aspetti della realtà sempre più numerosi. E’ normale tra colleghi dirsi che se un certo paziente andrà in un certo studio si prenderà certamente una certa diagnosi e viceversa se andrà in un altro. C’è chi vede dappertutto disturbi dell’umore, chi riconosce deficit metacognitivi ovunque e chi percepisce tracce di disorganizzazione dell’attaccamento in ogni paziente. Per dirla come lo direbbe nostro nonno “ognuno ha le sue fisse” e trova continuamente motivi per convincersi della loro bontà e importanza.

L’energia mentale che s’impegna in compiti eseguiti dal sistema 2 genera stanchezza e può indurre errori intuitivi, perché viene meno la funzione di monitorare e controllare pensieri e azioni suggerite dal sistema 1. Esiste pertanto un principio di ottimizzazione (Lorenzini, Scarinci, 2013) del funzionamento mentale che può indurre bias sia in relazione ai processi di tipo 1 per cui l’intuizione ci porta a scegliere acriticamente, sia riguardo ai processi di tipo 2 per cui la pigrizia comporta un cattivo funzionamento della razionalità.

Un terapeuta deve lasciarsi guidare dall’intuizione clinica ed essere spregiudicato e creativo in quella che Popper definisce “la logica della scoperta” in cui è attivo il sistema 1, ma poi deve entrare in quella che Popper chiama “la logica della giustificazione” che richiede un’analisi critica in cui invece è attivo il sistema 2.  Questa seconda fase è quella che richiede più fatica per cui è la prima a cedere quando si lavora in situazioni di stanchezza o di stress. Paradossalmente, liberi dalla voce critica del sistema 2, si può sperimentare una sensazione di fluidità ed efficacia mista a gratificazione per la propria bravura, che è simile alla sensazione di essere particolarmente bravi a guidare che si ha sotto l’effetto dell’alcol che peggiora in realtà la performance, ma ancor di più la capacità critica verso la performance stessa con un saldo positivo in termini di autoefficacia e dei conti per spese di riparazione della vettura. Un terapeuta stanco commette più errori e contemporaneamente si sente più bravo.

La riflessione su cosa pensiamo e su come pensiamo è oggetto del dibattito che si sta sviluppando di recente tra i cognitivisti.

Wells (2012) rileva come la tendenza a preoccuparsi eccessivamente, a ruminare, a focalizzare l’attenzione sulla minaccia e a far fronte al problema per mezzo dell’evitamento cognitivo possano interferire con il normale processo di adattamento psicologico e condurre a un pensiero costantemente orientato al pericolo e, quindi, al mantenersi dei sintomi (sindrome cognitiva-attentiva).

L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012). Questa modalità può essere riportata all’eccessivo controllo del sistema 2.

Alla disattivazione del sistema 2 fa riscontro una modalità di pensiero che troviamo in alcuni disturbi gravi di personalità (schizotipici, schizoidi, paranoici) o psicotici in cui l’over-inclusion, l’inclusione in una classe di elementi che “intuitivamente” possono presentare caratteristiche analoghe determina un grave distacco dal principio di realtà. Questi processi possono essere riportati all’eccessiva attivazione del sistema 1 e alla contestuale inattività del sistema 2.

In forme non patologiche questi processi possono interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi bias del terapeuta è lo stesso che ritroviamo alla base di molte patologie e cioè la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.

L’associazione delle idee

Somiglianza, contiguità e causalità sono le tre leggi che Hume pose alla base dell’associazione delle idee. La memoria associativa combina le idee in associazioni consapevoli e inconsapevoli. Sappiamo che le nostre emozioni e i nostri comportamenti possono essere innescati da eventi di cui spesso siamo inconsapevoli.

Una parte importante del lavoro terapeutico ha, infatti, come obiettivo il miglioramento dell’autoriflessività, monitorare pensieri emozioni e comportamenti per portarli alla consapevolezza.

Alcuni esperimenti dimostrano che se, per esempio, si è sensibilizzati a pensare alla vecchiaia si tende ad agire come vecchi, così come comportarsi da vecchi rafforza il pensiero della vecchiaia. I nessi reciproci sono frequenti nella rete associativa ”mettono in relazione il passato con il presente e creano aspettative sul futuro”. (Kahneman, 2013).

Allo stesso modo potremmo dire che un terapeuta che percepisca il paziente come irrimediabilmente malato e non veda in lui risorse positive, ma solo deficit e sintomi, attiverà un fattore di mantenimento e cronicizzazione.

In termini causali, altresì, gli stimoli cui siamo sottoposti hanno un peso notevole nelle decisioni, il sistema 1 fornisce impressioni che possono trasformarsi in convinzioni che guidano scelte e azioni.  Migliorare le capacità di mastery consente di individuare le cause dei nostri stati emotivi ricorsivi e disadattivi e di intervenire sugli stati interni da cui sono generati, correggendo bias associativi che potrebbero farci credere che sono gli eventi a determinare l’intensità e la durata delle nostre emozioni. Anche il disputing empirico, logico e pragmatico è una tecnica molto utile allo scopo.

Fluidità cognitiva

La fluidità cognitiva si contrappone alla tensione cognitiva determinata da un problema che chiama all’opera il sistema 2. Quando tutto scorre, le cose vanno bene, il tutto è facile siamo sul sistema 1.

Possiamo però avere delle illusioni, non solo ottiche, ma di memoria e di pensiero. Vari esperimenti hanno dimostrato come siano possibili in uno stato di fluidità cognitiva le illusioni (Kahneman, 2013). Un primo elemento che entra in gioco è l’impressione di familiarità, qualcosa già visto in precedenza, con qualità di déjà vu, ci dà maggiore fluidità. Inoltre se qualcosa rende più facile i meccanismi associativi, tenderà a condurre il soggetto a credenze viziate da errori. La frequente ripetizione di un’affermazione diventa, per esempio, una verità, la familiarità dell’espressione la rende vera.

Gli studi sulle illusioni di verità ci indicano anche che riducendo la tensione cognitiva possiamo rendere più vere alcune affermazioni, ma anche che la mobilitazione del sistema 2, più analitico, porta una modalità più impegnativa ma anche più funzionale in alcuni casi rispetto al sistema intuitivo.

Poiché tutto porta a concludere che il lavoro migliore si faccia quando sono attivi e cooperativi entrambi i sistemi 1 e 2 ce la potremmo cavare dicendo che bisogna essere a un tempo intuitivi, creativi e critici, ma questo è un auspicio difficile da tradurre in pratica e allora è più facile distinguere i due momenti. Il tempo della seduta è quello dell’immersione nella relazione con il paziente, della creatività immediata e della fluidità, mentre il tempo della revisione critica e della progettazione delle mosse successive è quello tra una seduta e l’altra magari con l’aiuto di un supervisore che funge da “sistema 2 esterno”.

Un ruolo importante sulla fluidità cognitiva, sulla creatività e le intuizioni di coerenza lo svolge anche l’umore positivo.

Si crea dunque un circolo virtuoso positivo per cui con un paziente con cui stiamo bene lavoriamo meglio e questo ce lo fa sentire sempre più gradevole. Ciò può portare progressivamente ad abbassare il livello di supervisione del sistema 2 incorrendo in errori senza assolutamente avvedersene. Ovviamente si dà anche il caso inverso con quei pazienti che non si ha voglia di trattare.

In sostanza la funzione principale del sistema 1 è quella di garantire regolarità agli avvenimenti che ci perturbano, cioè costruire schemi d’idee associative che rappresentano la struttura degli eventi della nostra vita. Previsioni e aspettative guidano così il nostro agire e determinano relazioni causali tra gli eventi.

Il sistema 1 ci fa risparmiare tempo e fatica perché salta alle conclusioni. Se le conclusioni tendono a essere corrette il costo di un errore può essere sopportato, ma se la posta in gioco è alta e la situazione incerta meglio avvalersi del sistema 2. Il primo tende a credere, ”quello che si vede è l’unica cosa che c’è”, per dirla con Kahneman, il secondo a dubitare e considerare le informazioni in modo sistematico e analitico. Il sistema 1, quindi, influenza anche le decisioni più razionali.

Esso fornisce valutazioni di base per l’adattamento. Valuta se le situazioni sono positive o negative e dal punto di vista evolutivo tutto ciò è estremamente importante. Calcola somiglianze e differenze, nessi causali, disponibilità, prototipi. Valuta in base ad una scala d’intensità che è applicata a dimensioni diverse e calcola più di quanto sarebbe necessario generando risposte rapide (euristiche) a domande difficili senza richiamare il sistema 2 che in alcune circostanze per pigrizia avvalla la risposta euristica.

Insomma il sistema 1 è sì un po’ approssimativo ma per questo molto rapido e spesso la rapidità è più importante dell’assoluta precisione, talaltra è l’inverso. L’affetto, l’umore e le emozioni determinano le valutazioni del sistema 1 con il bene placido del sistema 2 che assume per così dire un atteggiamento accomodante. Per questo spesso è necessario andare a cercare “quello che non c’è” perché questa ricerca potrebbe aprirci prospettive diverse e fornirci elementi che possano aiutare a prendere decisioni più razionali. Un po’ come quando si è innamorati, si vedono solo le caratteristiche positive della persona che stiamo frequentando. A quel punto dovremmo chiederci cosa c’è che non va in questa persona, qual è la sua “ombra”, quali sono le sue caratteristiche negative? E con il paziente cosa non ho visto, cosa non ho considerato, cosa mi potrebbe sfuggire?

D’altronde, se avessimo sempre attivo quel criticone del sistema 2 quale partner supererebbe lo screening iniziale meticoloso? non ci innamoreremmo e la specie si estinguerebbe.

 

Nei prossimi articoli saranno analizzati gli ulteriori contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia

 

Altri articoli sull’argomento:

 

Silenzio ed espressione dell’inconscio: il silenzio comunicativo nella seduta psicoanalitica

Attualmente il ruolo scientifico e culturale del silenzio è tornato ad essere soggetto di interesse e di studio. Uno dei silenzi che sta attraendo nuovamente la curiosità, del quale parleremo nell’articolo, è quello nella seduta psicoanalitica

 

Il silenzio, nella sua definizione di evitamento del rumore superfluo derivato dalle innovazioni delle tecnologie comunicative e lavorative, è tornato di grande interesse nella cultura accademica e di massa  (Gross, 2018). Il valore benefico di passare del tempo fisico ed emotivo senza distrazioni e/o sovraccarico di stimoli sensoriali è stato riconfermato sia dal punto di vista psicologico (Price-Mitchell, 2013) che dal punto di vista fisiologico (Novotney, 2011). Assieme alla ricerca di spazi igienicamente silenziosi, la letteratura divulgativa suggerisce che esso sia accompagnato da altre attività ancestrali dell’evoluzione umane, come passare del tempo nella Natura (Schuling, Van Herpen, de Nooij, de Groot e  Speckens, 2018) o attuare esercizi fisici (Lieberman, 2012).

Una tipologia di silenzio che ha attirato nuovamente l’attenzione da parte del panorama psicologico e non è quello legato alla seduta psicanalitica (di Diodoro, 2019). L’approccio psicanalitico, che in questi anni ha avuto una riscoperta e una rinnovata popolarità (Burkeman, 2016), ha come assoluto fondamento il flusso di comunicazione verbale da parte del paziente (Ezriel, 1972). Come indica lo psichiatra Fabrizio Asoli (2019), il silenzio all’interno delle terapie psicanalitiche è infatti visto esternamente o a primo impatto come un fatto negativo, come un qualcosa che a prima vista possa inficiare il rapporto terapeutico rallentando così il percorso del paziente o peggio invalidare il percorso di analisi.

In realtà, come specifica sempre Asoli, è il contrario: questo silenzio è l’utilizzo del tempo nel quale lo psicanalista permette al paziente di adattarsi all’ambiente e all’atmosfera terapeutica, creando una relazione costruita sull’empatia e sulla fiducia. Di fatto, anche attraverso l’assenza di parole ed attraverso l’utilizzo della comunicazione para e non verbale, il paziente contestualizza feedback riguardanti l’ambiente e le sue sensazioni sul processo terapeutico (Liegner, 1974).

Permettendo al paziente di stare in silenzio, il terapeuta gli lascia spazio alle riflessioni e alle emozioni, facendo sì che esso possa poi iniziare il suo percorso analitico con più sicurezza: uno degli errori meno preferibili da attuare, se non assolutamente da evitare, da parte dell’analista, è quello di dare l’idea di avere fretta o imporre dei totali limiti di tempo alle sedute e al processo terapeutico, così da rovinarlo (Cicerone, 2019). Al contrario, permettere che ci siano spazi vuoti di parole crea la sensazione che non ci sia inibizione verbale, dando vita ad un percorso più sereno e conciliato fra le due parti, soprattutto se il paziente manifesta sintomatiche nevrotiche (Levy, 1958). L’utilizzo degli spazi vuoti deve così diventare uno strumento di base per i terapeuti, una risorsa preziosa che porti beneficio e fluidità al rapporto analitico col paziente (Sabbadini, 2006).

Come disse Paul Watzlawick “non si può non comunicare” (1971) e il silenzio nella seduta psicanalitica può essere, nei tempi e negli spazi giusti, uno dei migliori tipi di comunicazione terapeutica.

 

L’abuso di alcol nella schizofrenia e nel disturbo schizoaffettivo

In un recente studio è stata esplorata la possibile eziologia alla base della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare il disturbo da uso di alcol in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo

 

La schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo sono inclusi, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), nella sezione dei disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici. Essi causano un’evidente e significativa disabilità, i cui sintomi principali includono allucinazioni, deliri, disorganizzazione del pensiero e decadimento cognitivo. Nel disturbo schizoaffettivo, i sintomi psicotici si verificano in concomitanza con i disturbi dell’umore, depressione o mania. Nonostante questi disturbi non abbiano un’alta prevalenza nella popolazione, tra coloro che soffrono di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo il disturbo da uso di alcol (AUD) è molto comune e contribuisce al peggioramento dei sintomi rispetto ai soggetti che non presentano comorbilità con un disturbo da uso di sostanze. Infatti, gli individui con disturbi psicotici hanno il rischio tre volte maggiore di consumare alcolici rispetto alla popolazione generale. Per gli individui che hanno la schizofrenia, l’AUD è associato a depressione, suicidio, non aderenza ai farmaci, problemi fisici cronici, aggressività, violenza, incarcerazione e alti tassi di ricovero in ospedale. Quali sono le cause di questa co-occorrenza? In un recente studio (Archibald, Brunette, Wallin, & Green, 2019) è stata esplorata la possibile eziologia della comorbilità tra disturbi psicotici e abuso di alcol, valutando l’efficacia dei trattamenti farmacologici usati per trattare l’AUD in soggetti con presenza di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo; lo studio ha inoltre proposto linee guida per un’interazione più efficace tra trattamenti farmacologici e psicosociali.

In primo luogo, numerosi studi supportano l’idea che alcuni fattori genetici possano portare ad un aumento del rischio per lo sviluppo di schizofrenia e disturbo da uso di sostanze. Questi studi sono stati integrati con teorie più recenti che hanno sottolineato l’importanza dell’interazione tra vulnerabilità genetica e ambientale nell’emergere della sintomatologia psicotica. La teoria è riconosciuta come teoria dei due colpi (Rosenthal, 1970) e sostiene che il rischio genetico per la schizofrenia associata al consumo di alcol durante l’adolescenza aumenti il rischio di comorbilità tra il disturbo psicotico e il disturbo da uso di sostanze nell’età adulta. Un’ulteriore teoria che spiega l’elevato tasso del disturbo da uso di sostanze tra gli individui affetti da schizofrenia è l’ipotesi dell’automedicazione (Khantzian, 1997) la quale suggerisce che le persone usino sostanze per trovare sollievo dai sintomi o nel tentativo di ridurre gli effetti collaterali derivanti dai trattamenti antipsicotici. Sebbene clinicamente plausibile, questa teoria non è stata supportata dalla ricerca. La teoria più recente, riconosciuta come ipotesi di dipendenza primaria o sindrome da deficit di ricompensa (Khokhar, Dwiel, Henricks, Doucette, & Green, 2018), sostiene che la co-occorrenza tra schizofrenia e disturbo da uso di sostanze possa essere correlata ad una disregolazione del sistema di ricompensa mesocorticolimbica nel cervello. Altre variabili che sono state prese in considerazione come possibile eziologia della comorbilità dei due disturbi sono: scarso sviluppo cognitivo, inadeguato funzionamento sociale, effetti della povertà e ambienti sociali poveri.

Il trattamento ottimale combina l’intervento farmacologico e altre modalità terapeutiche, per lo più interventi psicosociali, per affrontare sia il disturbo psicotico che l’AUD. In breve, per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, sebbene pochi studi abbiano esaminato gli effetti dei farmaci (ad es. naltrexone, disulfiram e acamprosate) che trattano l’AUD tra gli individui con disturbi psicotici, sono presenti sufficienti prove della sicurezza e dei potenziali benefici dei farmaci per incoraggiarne un maggiore utilizzo in questa popolazione. In relazione ai trattamenti psicosociali, invece, sembra avere risultati soddisfacenti sia nel trattamento della AUD che della schizofrenia la terapia di gruppo che utilizza la terapia cognitivo comportamentale, la terapia di potenziamento motivazionale e la gestione delle emergenze. Quest’ultima comporta ricompense concordate, immediate e tangibili, per rafforzare comportamenti positivi, come la frequenza del trattamento o l’astinenza dalle sostanze alcoliche. Vengono utilizzati anche interventi più intensivi, tra cui il trattamento della comunità assertiva (ACT) e programmi residenziali, che sembrano avere risultati positivi sul benessere delle persone affette da disturbi dello spettro schizofrenico e AUD. L’ACT è un modello di cura che offre una gamma di servizi completi (attività di sensibilizzazione della comunità, disponibilità 24 ore su 24 per comunicazioni di emergenza, trattamenti farmacologici e comportamentali per il disturbo da sostanze) attraverso un team multidisciplinare. I programmi residenziali, infine, possono essere particolarmente indicati per i senzatetto o per coloro che non hanno avuto una risposta ottimale ad altre tipologie di intervento. Gli alcolisti anonimi sono sottoutilizzati tra soggetti con AUD e disturbi psicotici ricorrenti, è più opportuno utilizzare un programma di riunioni a 12 fasi chiamato doppio recupero anonimo. Nello specifico, il doppio recupero anonimo è un programma in 12 fasi su misura per le persone con malattie mentali e disturbi associati all’uso di sostanze. Infatti, le persone che hanno disturbi psicotici traggono beneficio dall’educazione e dal sostegno che ricevono partecipando, tuttavia le persone che hanno psicosi acute potrebbero non essere in grado di tollerare queste riunioni. Le prove a sostegno di questo trattamento mostrano tassi più elevati di astinenza, una migliore aderenza ai farmaci psichiatrici e un miglioramento del funzionamento personale per coloro che hanno partecipato a gruppi a doppio focus rispetto a quelli che hanno partecipato solo ad alcolisti anonimi. La ricerca sull’efficacia di questi interventi e sull’eziologia della comorbilità tra disturbi dello spettro schizofrenico e AUD è ancora in corso.

 

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