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Disturbi dello spettro autistico: dopo la diagnosi? Prospettive d’intervento in un progetto di vita

Effettuare un trattamento precocemente può contribuire a sviluppare modalità comunicative funzionali e un discreto livello cognitivo che permetterà di far acquisire al bambino una buona autonomia personale e sociale nel suo percorso di vita.

 

 Il precedente articolo La Diagnosi precoce nei Disturbi dello Spettro Autistico ha preso in considerazione la rilevanza della fase diagnostica: formulare una diagnosi precoce infatti promuove risultati più positivi in età scolare e assicura una migliore qualità di vita grazie alla maggiore opportunità di intervento precoce. In questo contesto la riflessione verterà sulle tipologie di trattamento in questi disturbi. Effettuare un trattamento precocemente può contribuire a sviluppare modalità comunicative funzionali e un discreto livello cognitivo che permetterà di far acquisire al bambino una buona autonomia personale e sociale nel suo percorso di vita.

A seguito della diagnosi, l’equipe multidisciplinare che ha la presa in carico del caso deve fornire indicazioni sul panorama dei migliori interventi possibili nell’ambito dei Disturbi dello Spettro Autistico in riferimento alle Linee Guida sull’Autismo dell’ISS attualmente disponibili e si impegna a descrivere le modalità d’intervento attuabili. Un intervento risulta efficace se è capace di creare per ciascun individuo un “progetto di vita” e condizioni del vivere quotidiano che siano il più vicino possibile alle normali circostanze di vita reale nella comunità.

Dalla letteratura (Eldevik et al. 2009) e dalle Linee Guida, si individuano due tipi di modelli di intervento:

  • modelli di trattamento globali: set di interventi focalizzati organizzati intorno ad una struttura concettuale comune;
  • modelli di trattamento focalizzati: prevedono tecniche cognitivo-comportamentali specifiche per sintomi target.

Da un’attenta analisi delle linee guida stilate dall’American Psychiatric Association (APA) secondo l’Evidence Based Medicine, e dalle Linee Guida Autismo redatte dall’Istituto Superiore di Sanità (2011) emerge che la Terapia Cognitivo-Comportamentale rappresenta l’intervento di prima scelta per molti disturbi psichiatrici. Ad oggi gli interventi psicoeducativi per i disturbi dello spettro autistico, validati da evidenze empiriche e di letteratura, fanno riferimento a una cornice teorica di stampo cognitivo-comportamentale, finalizzati a modificare il comportamento generale per renderlo funzionale ai compiti della vita di ogni giorno (alimentazione, igiene personale, capacità di vestirsi) e tentano di ridurre i comportamenti disfunzionali. Nello specifico le Linee Guida Internazionali suggeriscono l’uso della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’Autismo Lieve, per il trattamento della rabbia e la comorbidità con i disturbi d’ansia e dell’umore. La CBT, infatti può essere utile nel migliorare la gestione della rabbia e più in generale le capacità autoregolatorie e nel facilitare l’acquisizione di una maggiore flessibilità cognitiva e comportamentale.

Un programma di intervento di Terapia Cognitivo-Comportamentale è caratterizzato da: l’educazione emotiva, la ristrutturazione cognitiva, la gestione dello stress, l’automonitoraggio e la programmazione delle attività per esercitarsi e mettere in pratica le nuove strategie e abilità cognitive. Una parte centrale dell’intervento consiste nell’insegnamento di abilità comportamentali, cognitive ed emotive (coping skills) utili a modificare pensieri e comportamenti, causa di stati emotivi negativi, come ansia, depressione e rabbia. Considerate le note difficoltà di comunicazione e d’identificazione e comprensione dei propri e altrui stati mentali delle persone con autismo, sono stati proposti, nel corso degli anni, protocolli d’intervento standardizzati specificamente strutturati.

Nel tempo sono state inserite delle variazioni a questi protocolli standardizzati, attraverso l’introduzione di storie sociali e di supporti visivi, una maggiore enfasi posta sull’insegnamento di strategie di coping senza l’uso di linguaggio astratto, l’inclusione di interessi speciali, maggiore spazio dedicato all’insegnamento di semplici abilità sociali e strategie di rilassamento.

Gran parte degli interventi cognitivo-comportamentali seguono un approccio comportamentale, sono interventi intensivi precoci basati sull’applicazione della metodologia comportamentale ABA (Applied Behavioral Analysis). L’Analisi applicata del comportamento è un metodo che fonda le proprie radici nelle teorie di ottica comportamentista e si concretizza nell’applicazione sistematica dei principi individuati dalla scienza che studia il comportamento e le leggi che lo regolano. L’ABA, come riferito da Cooper, Heron, e Heward (1987; 2007) è un metodo educativo altamente individualizzato e interviene sulle competenze cognitive, linguistiche e di adattabilità. Prevede un’accurata programmazione degli interventi al fine di ampliare il repertorio dei comportamenti adattivi (linguaggio e comunicazione, gioco, socializzazione, autonomie personali, abilità scolastiche e attentive) e limitare quelli disfunzionali (autostimolazioni, aggressività, autolesionismo, ossessioni, ecc). Un aspetto fondamentale è il coinvolgimento dei familiari nell’intervento: i progressi sono migliori se tutto l’ambiente diventa educativo, l’intervento intensivo e programmato deve essere infatti utilizzabile sia da terapisti e professionisti, che dai genitori. Se invece i genitori non conoscono le finalità dei programmi, vi è il rischio che il bambino non generalizzi gli apprendimenti fatti con il professionista. La ricerca evidenzia l’efficacia e la validità di interventi precoci avviati entro i 4 anni di vita.

Le linee guida internazionali raccomandano, inoltre, interventi per l’educazione ai sentimenti e alle emozioni proprie e altrui e di facilitazione della comunicazione interpersonale. Particolarmente utile ed efficace è l’applicazione di specifici strumenti, quali ad esempio il CAT KIT, molto diffuso nei paesi anglosassoni, che favorisce l’educazione cognitivo-affettiva in soggetti fin dai 6 anni con livello cognitivo nella norma e in bambini più grandi se con disabilità intellettiva.

Il CAT KIT (Attwood, Scarpa, Wells, 2015), attraverso materiale con un semplice supporto visivo e tattile favorisce la comprensione degli aspetti affettivi e cognitivi coinvolti nella comunicazione, incoraggiandola e favorendola, permette inoltre la regolazione emotiva, la stimolazione delle abilità sociali e favorisce la comprensione della prospettiva altrui.

Vari studi (Bauminger, Shulman, Agam, 2003), condotti su interventi di gruppo basati sull’utilizzo di tecniche cognitivo comportamentali, hanno ampiamente dimostrato la validità della CBT e di interventi di gruppo per il potenziamento delle abilità sociali dei soggetti con ASD. Il gruppo rappresenta infatti, uno strumento per favorire l’acquisizione di life skills essenziali a garantire un’adeguata gestione delle proprie emozioni, maggiori abilità socio-relazionali e di teoria della mente, l’acquisizione di competenze di decision making e problem solving e di una maggiore flessibilità cognitiva.

Ulteriori aspetti da tenere in considerazione nella strutturazione di un intervento efficace sono il coinvolgimento della famiglia e della scuola.

Il parenting, il comportamento tra genitori e figli e la qualità del rapporto che ne deriva, non viene ridotto allo studio delle interazioni tra genitore e bambino, ma è influenzato da una molteplicità di fattori, che a livelli diversi influenzano le interazioni di essi.

Infatti solo alcuni fattori sono strettamente legati all’individualità di adulti e bambini (come la personalità, le credenze, gli atteggiamenti dei primi, il temperamento,…), mentre altri, anche se non direttamente prossimi al bambino (contesto lavorativo del genitore o degrado quartiere), possono influenzare i comportamenti educativi dei genitori nel corso delle interazioni ordinarie. Variabili psicosociali (sistemi di credenze, grado di accordo tra i coniugi, livello di stress o di soddisfazione familiare percepito,…) possono ulteriormente rendere complessa la gestione della vita domestica.

Il Parent Training è un programma di formazione rivolto a genitori di bambini/adolescenti che evidenziano problematicità emozionali e/o comportamentali, con la finalità di sviluppare maggiore consapevolezza e competenza nella risoluzione delle difficoltà inerenti i figli e di valorizzarne e rafforzarne le risorse (Fabbro, 2016), nel caso del disturbo autistico inoltre, va ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza della famiglia circa le difficoltà del bambino, incrementare le abilità genitoriali nella gestione della vita quotidiana, ridurre il livello di stress, promuovere le capacità e le risorse della famiglia nella risoluzione dei problemi. Numerose evidenze scientifiche sostengono l’importanza di attuare percorsi di parent training già nei primi anni di vita. Le linee guida nazionali affermano che

I programmi di intervento mediati dai genitori sono raccomandati nei bambini e negli adolescenti […], poiché sono interventi che possono migliorare la comunicazione sociale e i comportamenti problema, aiutare le famiglie a interagire con i loro figli, promuovere lo sviluppo e l’incremento della soddisfazione dei genitori, del loro empowerment e benessere emotivo.

Altra protagonista dell’intervento è la scuola, con la quale è fondamentale creare una rete, condividere strumenti, usare le stesse metodologie.

I bambini con autismo imparano, ma in modo diverso rispetto ai loro coetanei (Vivanti, Salomone, 2016) ed è per questo che spesso le strategie educative convenzionali, quelle che funzionano per i bambini con sviluppo tipico, non risultano efficaci e conducono il bambino, la sua famiglia e i professionisti coinvolti nell’insegnamento verso situazioni frustranti e improduttive. Risulta quindi necessario che insegnanti, genitori e terapisti possano individuare le modalità giuste per quel bambino.

Obiettivo dell’intervento non deve essere quello di curare la diversità, ma di facilitare l’apprendimento di abilità che aiuteranno il bambino a godere delle stesse opportunità dei coetanei. A seconda dei casi, alcune caratteristiche dell’autismo possono essere di ostacolo o di aiuto per questo processo.

A prescindere dal quadro cognitivo di riferimento, la mancanza di flessibilità costituisce uno degli elementi che maggiormente interferisce con l’integrazione nel contesto di vita: i soggetti con ASD mostrano difficoltà clinicamente significative nell’affrontare i cambiamenti all’interno del loro ambiente. Tale rigidità e regolarità servono per attenuare l’ansia dovuta all’incapacità di prevedere e gestire le conseguenze degli eventi; infatti, per mantenere un certo controllo sulla propria vita, i soggetti con ASD richiedono un alto livello di prevedibilità su persone, oggetti e routine.

In età adulta vi è un’elevata variabilità nell’evoluzione del quadro clinico: in alcuni pazienti la condizione patologica rimane inalterata, mentre altri possono mostrare un modesto miglioramento con l’avanzare degli anni, con attenuazione dei problemi comportamentali e dei deficit sensoriali (Seltzer et al., 2004; Shattuck et al., 2007). Un elemento importante rimane il mantenimento della compromissione della sfera sociale, tipica dell’ASD, permangono quindi deficit di interazione e comunicazione sociale e una vasta gamma di comportamenti e interessi ristretti e molto particolari.

Pertanto, è opportuno che sia programmata la continuità assistenziale da parte dei servizi sanitari e un’integrazione tra i professionisti coinvolti nel passaggio dall’età evolutiva (UMEE-Centro Autismo Età Evolutiva) all’età adulta (UMEA-Centro Autismo Età Adulta), per una corretta presa in carico dell’utente, al fine di garantire cure adeguate in tutte le fasi di vita.

È nella fase di passaggio che risulta fondamentale impostare il “Progetto di Vita”, da realizzare in una collaborazione costante tra la persona con ASD, la sua famiglia, i servizi sanitari e sociali (Comune e ATS).

 

L’uso di antidepressivi durante lo sviluppo può compromettere il desiderio sessuale delle donne in età adulta

La letteratura dimostra che l’uso di antidepressivi potrebbe avere delle conseguenze negative sulle funzioni e sul desiderio sessuale, sia negli uomini che nelle donne.

 

Sebbene gli antidepressivi possano avere un impatto su tutti gli aspetti della funzionalità sessuale – dal desiderio, all’eccitazione e all’orgasmo, alla soddisfazione e al piacere sessuale – i loro effetti sul desiderio sono di particolare rilevanza nelle donne. Gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) sono una classe di farmaci che vengono generalmente utilizzati come antidepressivi ed è stato dimostrato che questa tipologia di antidepressivi può avere effetti negativi indesiderati sul desiderio sessuale. Alcuni studiosi ipotizzano che gli effetti negativi dell’uso di antidepressivi SSRI sulla sessualità possano continuare anche dopo l’interruzione degli stessi, suggerendo la presenza degli effetti a lungo termine che questi farmaci possono avere sulla struttura o sulla funzione di sistemi neurali importanti coinvolti nella funzione sessuale. In particolare, è stato ipotizzato che i trattamenti antidepressivi SSRI possano alterare circuiti cerebrali coinvolti nel desiderio sessuale, come la motivazione sessuale o il circuito di elaborazione della ricompensa. Nonostante la neuroplasticità cerebrale sia maggiore durante l’età nello sviluppo, ci sono evidenze di una significativa neuroplasticità dei circuiti della ricompensa anche negli adulti, la quale contribuisce al mantenimento dell’effetto antidepressivo anche dopo l’interruzione dei farmaci che, di conseguenza, può interferire sulla funzionalità sessuale.

Tierney e Lorenz (2020), hanno provato a rispondere alla seguente domanda: qual è l’effetto dell’uso di antidepressivi sullo sviluppo dei sistemi neurali coinvolti nelle funzioni sessuali? Lo scopo del presente studio è esplorare le differenze nel desiderio sessuale e nel comportamento sessuale in adulti che hanno fatto uso di antidepressivi vs adulti che non hanno fatto uso di antidepressivi nell’infanzia e nell’adolescenza, approfondendo gli effetti a lungo termine di questi farmaci.

Lo studio è tratto da un ampio sondaggio online di giovani adulti. Il campione finale comprendeva 610 partecipanti (66% donne), la cui età media era di 20 anni.

I soggetti hanno completato una batteria di test di screening relativi alle caratteristiche demografiche e salute mentale. Nello specifico, i test indagavano la presenza di sintomi depressivi e/o ansiosi, la durata di essi, l’età di insorgenza e l’eventuale cura farmacologica prima e dopo i 16 anni, incluso l’uso di SSRI. Per la valutazione del desiderio e del comportamento sessuale, i partecipanti hanno completato il Sexual Desire Inventory (Spector et al., 1996), il quale è composto da tre sottoscale: desiderio sessuale diadico, desiderio sessuale solitario (masturbazione) e desiderio sessuale diadico generale per una persona attraente. Inoltre, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se attualmente sono coinvolti in una relazione sessualmente attiva, il numero di volte in cui si masturbano e la frequenza dell’attività sessuale con il proprio partner.

I risultati dimostrano che l’uso di antidepressivi nell’infanzia non era significativo nel predire il desiderio sessuale negli adulti di sesso maschile o la frequenza della masturbazione. Tuttavia, questa scoperta dovrebbe essere trattata con cautela in quanto vi era un numero molto limitato di uso di antidepressivi non-SSRI prima dei 16 anni di età.

Nelle donne, invece, vi è un effetto significativo dell’uso di SSRI nell’infanzia sul desiderio sessuale nell’età adulta. Nello specifico, le donne che hanno fatto uso di antidepressivi SSRI prima dell’età di 16 anni riportano un desiderio sessuale solitario (masturbazione) significativamente più basso e anche un minor desiderio generale per una persona attraente. Il desiderio sessuale nei confronti del proprio partner era simile sia per le donne che hanno fatto uso di SSRI nell’adolescenza sia per le donne che non ne ha fatto uso. Al contrario, non ci sono effetti significativi per chi ha fatto uso di antidepressivi non-SSRI nell’infanzia o nell’adolescenza sulle variabili sessuali in donne adulte. Pertanto, queste scoperte sembrano essere limitate all’uso dell’SSRI precedentemente ai 16 anni di età e non ad altre tipologie di antidepressivi e relative solo al desiderio sessuale solitario e masturbazione, non al comportamento sessuale con il proprio partner.

Questi risultati, in accordo con la letteratura precedente, evidenziano inoltre un effetto specifico dell’uso di SSRI sullo sviluppo dei sistemi di motivazione sessuale e ricompensa, ma non sullo sviluppo dei circuiti relativi all’interesse per le relazioni stabili. Dunque, è possibile che l’uso di SSRI durante l’età adolescenziale interrompa il normale sviluppo dei circuiti coinvolti nella funzionalità sessuale, in particolare quello della motivazione sessuale e della ricompensa, che, di conseguenza, possono costituire un importante fattore di rischio per una disfunzione del desiderio sessuale in donne adulte, dimostrando gli effetti a lungo termine dell’uso dell’antidepressivo SSRI. In altre parole, l’esposizione allo SSRI nello sviluppo può diminuire il desiderio intrinseco nelle donne, ma non alterare la loro reattività sessuale avviata dal partner.

I punti di forza del presente studio sono la numerosità del campione, l’uso di misure attendibili e l’attenta valutazione della storia della salute mentale del paziente durante l’infanzia. Tuttavia, ci sono anche diversi limiti: i partecipanti erano giovani adulti il cui sviluppo sessuale e sentimentale era probabilmente non completo; inoltre, il campione era costituito principalmente da studenti universitari, prevalentemente di etnia caucasica, che non possono essere rappresentativi dell’intera popolazione. Infine, non c’erano dati sulla durata del trattamento farmacologico o sulla dose, tutti fattori importanti per studi futuri.

 

La terapia focalizzata sulla compassione nel trattamento dei disturbi alimentari

Nell’eterogeneità dei disturbi alimentari, la vergogna e l’autocritica possono essere considerati due costrutti trasversali. I risultati ottenuti dalla Compassion Focused Therapy sono risultati promettenti, grazie all’implementazione delle abilità per migliorare la regolazione emotiva e alla promozione di una psicoeducazione sul funzionamento del corpo umano, sfatando il mito di una sua controllabilità.

Marta Ferrari – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La Compassion Focused Therapy (CFT) o Terapia Focalizzata sulla Compassione è nuovo approccio psicoterapeutico che rientra nelle terapie cognitivo comportamentali di terza generazione mindfulness-based.

La genesi di questa terapia si è avvalsa di numerose osservazioni cliniche, degli studi sull’attaccamento, delle teorie evoluzionistiche e anche dei contributi delle neuroscienze cognitive.

Paul Gilbert (2007) iniziò ad osservare come alcuni pazienti depressi fossero particolarmente resistenti al trattamento. I pensieri di questi pazienti erano caratterizzati da una forte autocritica e da sentimenti di vergogna verso i propri stati affettivi negativi. Questa tipologia di pazienti, sebbene arrivasse a comprendere l’illogicità dei propri pensieri negativi ed arrivasse a metterli in discussione razionalmente, di fatto non modificava il proprio tono emotivo e il dialogo interno.

Questi ultimi restavano iper-analitici, iper-critici, freddi, distaccati, svalutanti, andando a compromettere anche l’esposizione e l’esecuzione degli homeworks. Era come se questi pazienti comprendessero il razionale dell’intervento, ma faticassero a sentirlo proprio. Secondo Gilbert, in questi pazienti così iper-critici ci sarebbe uno squilibrio nei sistemi di regolazione delle emozioni, acquisito durante le prime esperienze di attaccamento. Fu così che i primi interventi di Gilbert si focalizzarono sull’incoraggiare e insegnare a questi pazienti come sviluppare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi e li incoraggiasse durante lo svolgimento dei compiti e delle esposizioni, con l’obiettivo di attivare uno dei tre sistemi di regolazione emotiva, il sistema di consolazione o calmante, in modo che regolasse le altre emozioni basate sul senso di minaccia (rabbia, disgusto, vergogna, paura).

Gilbert individua infatti tre sistemi di regolazione affettiva:

  1. Il sistema di protezione dalla minaccia (safety system): è il responsabile del sistema attacco-fuga, il cui scopo è garantirci la sopravvivenza attivandosi in presenza di una possibile minaccia con l’obiettivo di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza. Questo sistema è il responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia e vergogna. Associati a questo sistema sono anche alcuni stili cognitivi caratterizzati da una maggior attenzione selettiva di fronte a una potenziale minaccia, un tipo di ragionamento di tipo conservativo e comportamenti di evitamento e protettivi.
  2. Il sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system): è un sistema legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al sistema dopaminergico. È il responsabile di quelle sensazioni di soddisfazione che ci derivano dall’aver raggiunto un obiettivo, vinto una gara, ecc… in questo caso il soggetto è molto autocentrato e ritiene che le cose procedano per il verso giusto fino a quando sono in sintonia con le proprie aspettative, i bisogni e i desideri.
  3. Il sistema calmante (soothing system): è il responsabile di emozioni piacevoli e di benessere quali la calma, la tranquillità, l’appagamento e il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo minacciati. Sono emozioni positive ben diverse da quelle regolate dal sistema precedente perché non dipendono dal fare qualcosa, ma sembrerebbero strettamente connesse all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi in connessione con qualcuno. Questo sistema sarebbe inoltre connesso anche a un maggior rilascio di ossitocina, che è a sua volta in grado di stimolare queste sensazioni piacevoli.

Basandosi su questa concettualizzazione quindi, Gilbert e colleghi si focalizzano sullo squilibrio che sarebbe presente in alcune persone tra questi tre sistemi, con l’obiettivo di sviluppare il sistema calmante che in molti pazienti risulta ipoattivo. L’ipotesi è quella secondo cui un implemento del sistema calmante porterebbe a una miglior gestione da parte del paziente dello squilibrio presente negli altri due sistemi.

Il Sé compassionevole rappresenta quindi il principale motore del funzionamento del sistema calmante e il suo sviluppo verrebbe favorito da una serie di tecniche ed esercizi propri della Terapia Focalizzata sulla Compassione quali il reality check, il posto sicuro e la creatura compassionevole, la lettera compassionevole e l’esercizio della mindfulness.

Cos’è la compassione?

In base agli studi condotti, Gilbert e colleghi arrivano ad una nuova definizione di compassione, in parte mutuata dagli insegnamenti buddisti, ma che al contempo si radica scientificamente nei più moderni contributi neuroscientifici, ovvero:

Compassione è l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili, di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali, di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).

La compassione si può insegnare e si può apprendere attraverso un addestramento, il Compassionate Mind Training, che aiuta i pazienti ad esercitare alcune competenze fondamentali:

  • L’attenzione compassionevole
  • Il ragionamento compassionevole
  • Il comportamento compassionevole
  • L’immaginazione compassionevole
  • La sensazione compassionevole
  • L’emozione compassionevole

Attualmente, prospettandosi come terapia integrativa rispetto ad approcci più tradizionali CBT o come valida alternativa nei casi di pazienti particolarmente resistenti, la CFT viene utilizzata per un gran numero di disturbi in quanto il suoi target sono sintomi negativi (auto-criticismo, senso di colpa, vergogna) transdiagnostici ad un’ampia gamma di disturbi: disturbo da stress post traumatico, disturbi dell’umore, dolore cronico e disturbi alimentari.

Una recente revisione sull’argomento, mira infatti a valutare l’impiego della Terapia Focalizzata sulla Compassione per i disturbi alimentari (CFT-E).

Terapia Focalizzata sulla Compassione e Disturbi dell’alimentazione

Da numerose ricerche condotte negli ultimi anni sappiamo che le preoccupazioni riguardo all’alimentazione e al peso sono associate a livelli più alti di autocritica e vergogna, inversamente proporzionali all’autocompassione. I pazienti con disturbo alimentare spesso sperimentano vergogna per il proprio peso, il proprio aspetto, le proprie condotte, senso di inadeguatezza e inferiorità, sensi di colpa, fino a provare odio verso se stessi.

Numerosi studi hanno ipotizzato che la vergogna possa avere un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi alimentari. Sono infatti largamente diffuse le posizioni secondo cui i disturbi alimentari sarebbero una sindrome socialmente determinata, enfatizzata dall’attenzione crescente data al mito della magrezza e della performance. Nell’eterogeneità dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, la vergogna e l’autocritica possono essere considerati due costrutti trasversali, in quanto sono presenti e rappresentano delle spinte all’azione nei diversi disturbi. I pazienti con disturbi alimentari spesso si criticano aspramente, si vergognano e hanno un dialogo interno intransigente, rigido e umiliante.

Non stupisce quindi che la Terapia Focalizzata sulla Compassione possa aver guadagnato interesse nel trattamento di questa tipologia di pazienti, nella misura in cui la terapia incoraggia un approccio verso noi stessi più gentile e accogliente, soprattutto rispetto alle proprie sofferenze.

Rifacendoci alla concettualizzazione dei tre sistemi di regolazione affettiva, è ragionevole pensare che nei pazienti con disturbi dell’alimentazione vi sia uno squilibrio nei tre sistemi in favore del sistema di ricerca di stimoli e risorse e che questo potrebbe attivarsi per regolare il sistema di minaccia attraverso la ricerca dell’orgoglio associato al controllo sul peso e sulla forma corporea.

Infatti numerosi studiosi hanno recentemente discusso circa uno dei più importanti criteri diagnostici per l’anoressia nervosa, ovvero la ricerca della perdita di peso, che non sarebbe motivata da una paura o un evitamento di diventare grassi, ma piuttosto dal piacere che si ottiene dalla perdita di peso.

I pazienti con disturbi alimentari potrebbero inoltre essere bloccati nel sistema della minaccia e rispondere a questo squilibrio con comportamenti aggressivi o evitanti, quali le abbuffate, il purging, l’iperattività e la restrizione. Difatti le difficoltà nella regolazione emotiva sono considerate un fenomeno transdiagnostico nello spettro dei disturbi alimentari e, di conseguenza, le abilità di regolazione emotiva sono considerate uno dei target dei trattamenti. Uno degli obiettivi della CFT in questo senso è quello di implementare quelle abilità che migliorino la regolazione emotiva, riequilibrando i tre sistemi di regolazione affettiva e abbassando i livelli di autocriticismo.

Partendo dal riconoscimento della relazione esistente tra vergogna, odio verso se stessi, autocriticismo e disturbi alimentari, Goss e Allan (2010) hanno ipotizzato che la sintomatologia alimentare potrebbe avere una funzione ben precisa, ovvero quella di fungere da regolatore emotivo, soprattutto per quelle emozioni negative connesse al sistema della minaccia. Potrebbe darsi che in questi pazienti il sistema calmante sia sottosviluppato e sia difficile accedervi, nella misura in cui gli altri due sistemi sono diventati iperattivati e interconnessi in un circolo vizioso che conduce ad altra sofferenza.

Pertanto, nella CFT-E ovvero nella CFT adattata al trattamento dei disturbi alimentari, uno degli obiettivi è quello di promuovere la psicoeducazione sul funzionamento del corpo umano, sfatando il mito di una sua controllabilità. Nello specifico la CFT- E assiste i pazienti nell’acquisire una maggiore consapevolezza su come i loro corpi funzionino e a sviluppare una più compassionevole accettazione del proprio corpo e dei propri bisogni fondamentali: nutrirsi, fare attività fisica e riposarsi. In questo modo i pazienti sono guidati verso una normalizzazione del fenomeno dell’alimentazione, ovvero del nutrirsi adeguatamente e regolarmente. La normalizzazione dell’alimentazione è uno degli obiettivi comportamentali principali della CFT-E e viene ottenuta attraverso le esposizioni ai cibi, la creazione di piani alimentari e la costruzione attiva della motivazione al cambiamento nelle condotte alimentari. Un altro obiettivo comportamentale della terapia è che il paziente sviluppi strategie alternative di gestione dei sistemi di minaccia e ricerca di stimoli e risorse. Ciò si ottiene attraverso lo sviluppo di un sé compassionevole che può essere attivato come auto-aiuto nelle situazioni sociali altamente stressanti per il paziente, inclusa l’accettazione di vivere in una società in cui la dieta e l’aspetto fisico sono spesso al centro dell’attenzione.

La CFT-E è stata inizialmente sviluppata come un programma di gruppo che integrava aspetti della terapia standard per i disturbi alimentari (Fairburn) e della CFT. Il programma prevede tre fasi principali, la psicoeducazione, la costruzione di abilità e la fase di guarigione. Durante la fase di psico-educazione vengono presentate molte informazioni che aiutano il paziente a sviluppare un’analisi funzionale del proprio disturbo alimentare. Viene poi indagata la motivazione a intraprendere un trattamento e introdotto il programma, spiegando ai pazienti obiettivi e svolgimento.

La fase di costruzione di abilità è stata pensata per aiutare il paziente ad acquisire quelle abilità che gli permetteranno di affrontare le sfide insite nel processo di guarigione dal disturbo alimentare. Queste abilità includono: il riconoscimento delle emozioni, la tolleranza alla frustrazione e alle emozioni negative, lo sviluppo del sistema calmante attraverso tecniche di respirazione e immaginative e lo sviluppo del sé compassionevole, attraverso il dare e ricevere compassione nel gruppo.

La fase di guarigione si focalizza sull’utilizzare queste nuovo sé compassionevole, acquisito nella fase precedente, per affrontare le sfide centrali della guarigione dal disturbo alimentare, incluso l’affrontare tutte quelle distorsioni cognitive che possono inficiare il recupero, favorendo così una prevenzione delle ricadute. Infine, l’obiettivo della CFT-E è quello di sviluppare il sé compassionevole e usarlo per:

  • sviluppare sensibilità, consapevolezza e comprensione rispetto ai modi in cui le emozioni e la sintomatologia alimentare sono interconnessi
  • sviluppare empatia verso se stessi e verso i problemi che i pazienti hanno cercato di risolvere ricorrendo al disturbo alimentare
  • sviluppare la consapevolezza rispetto alle sfide insite in un percorso di cura;
  • sviluppare la motivazione a prendersi cura di se stessi;
  • sviluppare la sicurezza e il coraggio necessari per offrire comprensione, supporto e incoraggiamento a se stessi e agli altri membri del gruppo.

Le ricerche sulla CFT—E e sulla sua efficacia sono ancora agli stadi iniziali, tuttavia i risultati di un’integrazione tra la terapia cognitiva standard e la CFT sono incoraggianti e hanno portato a revisioni del trattamento. Nel complesso questa integrazione contribuisce ad aumentare gli strumenti a disposizione dei pazienti per affrontare situazioni difficili durante il percorso di cura e per avere un approccio più compassionevole verso se stessi e i propri problemi. Inoltre la CFT-E si concentra nel favorire una maggiore comprensione del funzionamento della fisiologia del proprio corpo e dell’alimentazione, restituendo ai pazienti maggiore fiducia rispetto alla capacità dei nostri corpi di autoregolarsi rispetto al peso. Ciò potrebbe incoraggiare i pazienti ad abbandonare quelle condotte maladattive volte alla restrizione e al controllo del peso, in favore di un’alimentazione più adeguata e regolare, atta a rispondere a un mero bisogno fisiologico.

Nelle ricerche condotte finora, la CFT-E ha mostrato risultati promettenti, soprattutto per pazienti con diagnosi di bulimia nervosa. Tuttavia, considerata la giovane età di questa terapia, sono necessarie ulteriori ricerche per validarne l’efficacia e per valutarne i possibili sviluppi.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale dei Disturbi Alimentari maschili: una riflessione sul trattamento della preoccupazione per la forma del corpo nell’uomo

Il modello transdiagnostico dei disturbi alimentari si è rivelato come probabilmente valido per i pazienti maschi, tuttavia potrebbe risultare utile all’interno dei protocolli terapeutici tener conto delle differenze di genere riguardanti la percezione dell’immagine corporea.

 

Introduzione

Numerosi dati provenienti dalla ricerca hanno mostrato come la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E – enanched), basata sulla teoria transdiagnostica, risulti efficace per il trattamento di tutte le categorie diagnostiche di disturbi del comportamento alimentare, in particolare per la bulimia nervosa, e una possibile alternativa al trattamento basato sulla famiglia per i pazienti adolescenti (Dalle Grave et al., 2013; 2014). Tuttavia, come spesso accade nel campo di ricerca dei disturbi alimentari, i campioni considerati soffrono di una grande disparità di genere a sfavore dei maschi. Lo scopo di questo articolo è quello di proporre una riflessione su quali sfide possono presentarsi nell’applicazione del protocollo CBT-E con i pazienti maschi e in particolare nel trattamento della valutazione eccessiva della forma del corpo, dove è possibile identificare le maggiori differenze nell’espressione clinica tra pazienti di genere maschile e femminile. Infatti se per le femmine risulta utile trattare certe forme di body check collegate alla paura di ingrassare, per i maschi la questione potrebbe essere diversa e legata al perseguimento degli ideali muscolari.

Il corpo nella clinica dei disturbi dell’alimentazione: drive for thinness e drive for muscularity

Uno degli aspetti centrali dei disturbi del comportamento alimentare riguarda l’insoddisfazione per il proprio corpo. Sebbene tale disagio possa essere individuato con una certa frequenza tra i ragazzi appartenenti alla cultura occidentale, in particolare tra le giovani di genere femminile, nella sua espressione più estrema è considerato come una caratteristica peculiare dei disturbi dell’alimentazione. In particolare si riscontrano notevoli elementi dispercettivi legati all’immagine corporea, quest’ultima definibile come la ‘rappresentazione mentale del corpo’ (Shilder, 1950) e le cui componenti fondamentali sono il corpo ideale, il corpo percepito, l’oggettiva forma del corpo e l’immagine corporea socialmente accettata, dipendente dal contesto culturale di appartenenza (Siciliani, Siani e Castellazzi, 2007). L’elemento che accomuna i disturbi del comportamento alimentare è una grave distorsione dell’immagine corporea, dove il corpo percepito viene considerato molto lontano dal corpo ideale, quest’ultimo influenzato dal proprio contesto sociale. Se nelle femmine sofferenti di un disturbo alimentare tale corpo ideale ruota intorno all’idealizzazione della magrezza e all’eccessivo assillo per le diete (il cosiddetto impulso alla magrezza, drive for thinness) per i maschi la questione potrebbe essere per certi aspetti più eterogenea. Sebbene in letteratura è possibile individuare alcuni casi di disturbi alimentari maschili ‘classici’ e caratterizzati da drive for thiness, simili per espressione clinica a quelli della controparte femminile (Morton, 1689; Whytt, 1764; Willan, 1790), in tempi più recenti la patologia sembra evolversi verso altre direzioni. Per molto tempo si è ritenuto che i giovani maschi fossero meno esposti alle pressioni sociali relative all’immagine corporea e di conseguenza più protetti rispetto all’insorgenza di disturbi dell’alimentazione. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito ad una crescente iper-mascolinizzazione dell’uomo (Ricciardelli et al., 2010) e a un aumento dell’insoddisfazione per il proprio corpo tra i maschi (Pope, Philips & Olivardia, 2000), in cui gioca un ruolo rilevante il progressivo incremento di modelli oggettivanti veicolati dai media riguardanti il corpo maschile, con riferimenti all’esaltazione della forza fisica e la dominanza sessuale (Cafri et al., 2005). Tutto ciò ha portato il genere maschile a essere sempre più esposto a disordini alimentari caratterizzati non tanto da un impulso alla magrezza, come accade per la controparte femminile, ma piuttosto da un impulso a mettere su muscoli e diventare sempre più ‘grossi’ (drive for muscularity). In altre parole gli uomini con una percezione distorta dell’immagine corporea credono di essere troppo gracili e sottili anche quando in realtà possiedono un corpo già muscoloso e atletico, si vergognano del proprio aspetto fisico e, di conseguenza, evitano attività sociali e lavorative, preferendo investire la maggior parte del loro tempo in estenuanti attività fisiche in palestra e a condurre regimi alimentari estremamente rigidi (Ferrari e Ruberto, 2012). Tale manifestazione clinica sembrerebbe per certi versi opposta a quella delle femmine con anoressia nervosa, tanto che in un primo momento questo disturbo venne definito come ‘Anoressia Inversa’ (reverse anorexia), oggi meglio conosciuta come Vigoressia o Dismorfia Muscolare (Pope et al., 1993).

Modello transdiagnostico e disturbi alimentari della sfera maschile

Prima di entrare nel merito della CBT-E applicata ai pazienti maschi è necessario chiarire cosa si intende per modello trandiagnostico, sul quale il protocollo si basa, quando si parla di disturbi del comportamento alimentare. La teoria cognitiva comportamentale transdiagnostica considera i disturbi dell’alimentazione come una categoria diagnostica unica piuttosto che disturbi distinti come suggerisce la classificazione DSM 5 (Fairburn, Cooper & Shafran, 2003). Tale assunto deriva da due importanti osservazioni: in primo luogo tutti i disturbi del comportamento alimentare condividono lo stesso nucleo psicopatologico non rilevabile in altre patologie psichiatriche, il quale si esprime in schemi comportamentali simili, secondariamente si rileva come tali patologie si mantengano stabili nel tempo, con migrazioni diagnostiche tra disturbi alimentari, ma senza evolvere in altri quadri psicopatologici. Infatti non è raro che pazienti con una diagnosi iniziale di anoressia nervosa evolvano nel tempo verso la patologia bulimica (Cooper & Dalle Grave, 2017). Più nel dettaglio il nucleo psicopatologico specifico di questi disturbi si riferisce all’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e dell’alimentazione, da cui derivano i comportamenti che contribuiscono a mantenere il disturbo alimentare i quali includono il controllo del peso, la restrizione alimentare, il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi e le varie forme di body-check. Inoltre possono interagire nel mantenimento della patologia uno o più meccanismi aggiuntivi, quali il perfezionismo clinico, l’intolleranza alle emozioni, la bassa autostima nucleare e difficoltà interpersonali (Cooper & Dalle Grave, 2011). Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere se tale modello possa essere applicato alla comprensione dei disturbi alimentari della sfera maschile e in particolare per quelle forme inverse, dove l’espressione clinica si manifesta con il timore di non essere abbastanza muscolosi. Attualmente sono poche le ricerche che hanno indagato la questione nel dettaglio, ciò potrebbe essere dovuto all’esiguità del campione maschile all’interno della clinica dei disturbi alimentari e a questioni relative all’inquadramento diagnostico degli uomini che manifestano distorsioni dell’immagine corporea. Infatti la Dismorfia Muscolare non rientra tra i disturbi del comportamento alimentare inclusi nel DSM 5, ma è inclusa come specificatore del Disturbo di dismorfismo corporeo all’interno del capitolo ‘Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati’. Tuttavia alcuni autori contestano la scelta del DSM 5 di includere tale disturbo tra quelli ossessivo-complusivi e suggeriscono che la manifestazione sintomatologica (distorsione dell’immagine corporea, rigidità dei regimi alimentari, condotte compensatorie) sia piuttosto sovrapponibile a quella dei disturbi alimentari e più nel dettaglio simile all’Anoressia Nervosa (Murray et al., 2012). Ulteriori dati a conferma di tale ipotesi potrebbero arrivare da recenti ricerche in cui è stato applicato il modello trandiagnostico alla comprensione dei disturbi alimentari nei maschi. Murray e collaboratori (2013) hanno testato le capacità predittive del modello trandiagnostico per la dismorfia muscolare sottoponendo questionari self-report a 119 studenti universitari, il 17% di questo campione proveniva da un precedente studio e soddisfaceva tutti i criteri diagnostici per il disturbo. I risultati di tale studio mostravano come i costrutti del modello, quali perfezionismo, intolleranza alle emozioni e bassa autostima fossero predittivi per la presenza di dismorfia muscolare, mentre le difficoltà interpersonali non mostravano medesimi livelli di significatività. Analogamente Dakanalis e colleghi (2014) hanno riportato come nel complesso il modello risultasse valido per i disturbi alimentari maschili anche se con alcune differenze rispetto alla controparte femminile. Nel dettaglio risultava che l’intolleranza alle emozioni fosse l’unica variabile di mantenimento direttamente collegata alla restrizione alimentare, mentre il perfezionismo clinico, la bassa autostima e le difficoltà interpersonali la influenzavano indirettamente attraverso la preoccupazione per la forma del corpo e il peso, evidenziando l’impatto di tale nucleo psicopatologico nel mantenimento del disturbo nei pazienti maschi. Inoltre, anche se è stato rilevato un legame tra abbuffate e conseguenti condotte compensatorie, non vi sono evidenze di rapporto causa-effetto tra restrizione alimentare e comportamenti di abbuffata. Tali studi, seppur limitati di numero, suggeriscono che la CBT-E potrebbe essere applicata in modo efficace nel trattamento dei disturbi alimentari nei maschi.

Il trattamento della preoccupazione per la forma del corpo nell’uomo

Come già sottolineato in precedenza, la preoccupazione per l’immagine corporea rappresenta uno dei fattori chiave nel mantenimento dei disturbi alimentari e la CBT-E riserva un ampio spazio per affrontare tale caratteristica clinica. Per quanto riguarda gli uomini con disturbo alimentare tale componente risulta essere diversa dalle femmine in quanto, come suggerisce Fairburn (2018):

i pazienti maschi tendono ad essere particolarmente preoccupati della propria muscolatura e della corporatura ma meno del proprio peso.

Ciò detto risulta importante per il trattamento identificare correttamente in cosa consiste la valutazione eccessiva del corpo nell’uomo, quali forme di body-check vengono messe in atto e comprendere quale possa essere il corrispettivo del ‘sentirsi grassa’ nel paziente maschio. Negli uomini che soffrono di insoddisfazione corporea è possibile trovare un’intensa spinta a sviluppare massa muscolare, in particolare mirano ad avere braccia più grosse (Miller, Coffman & Linke, 1980) e a ottenere il cosiddetto ‘corpo a V’ (V shaped body), con spalle molto larghe e muscolose, per passare ad un addome stretto e privo di grasso, che si assottiglia fino ad arrivare alle gambe snelle (Parks and Read, 1997). Tuttavia questi ragazzi, nonostante arrivino ad essere muscolarmente ipertrofici, si percepiscono sempre troppo magri e poco tonici, con un costante timore di regredire rispetto ai risultati ottenuti e un’intensa spinta a migliorare la propria muscolatura. I comportamenti di controllo delle forme del corpo nei maschi con disturbo alimentare riguardano perlopiù lo stato della propria muscolatura, in particolare si esprimono attraverso il confronto con altri uomini, il pizzicare i muscoli, il fletterli davanti allo specchio per valutarne la grandezza e la definizione, con particolare attenzione a braccia e addome, e il chiedere conferma rispetto alla loro rigidità (Walker et al., 2009).

È stato dimostrato che più è alta la preoccupazione relativa alla muscolarità, maggiore è la frequenza di comportamenti di body check e che, inoltre, tali comportamenti aumentano ancora di più l’insoddisfazione per il proprio corpo generando un circolo vizioso (Didie et al., 2010; Walker et al., 2012). Si consideri poi che nei maschi potrebbe prevalere la preferenza a chiedere ad altri un feedback sullo stato della propria muscolatura, piuttosto che attraverso il confronto indiretto come l’osservazione degli altri o l’uso dello specchio, la richiesta avverrebbe chiedendo un commento circa lo stato del proprio fisico o facendo toccare i propri muscoli ad altri, inoltre il valore di tale riscontro sembrerebbe proporzionale alla grandezza e definizione muscolare di colui che fornisce il giudizio (De Sousa Fortes et al., 2017); non è infatti raro che queste persone limitino le proprie interazioni sociali a persone che possono vantare masse muscolari simili o superiori alla propria. Una delle componenti maggiormente affrontate all’interno del protocollo CBT-E, relativa al trattamento della preoccupazione per il peso e la forma del corpo, riguarda il ‘sentirsi grassa’. La sensazione di ‘sentirsi grassa’ viene concettualizzata all’interno del trattamento di derivazione transdiagnostico come aspetto dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Nelle pazienti donne il ‘sentirsi grassa’ è un fenomeno meno stabile di altri aspetti del disturbo alimentare, con fluttuazioni di intensità tra un giorno e l’altro, e potrebbe derivare da un etichettamento errato di certe emozioni o sensazioni corporee (Fairburn, 2018). Tuttavia, come precedentemente detto, il timore espresso dagli uomini nel contesto dei disturbi alimentari riguarda solo in parte la paura di prendere peso e la locuzione ‘sentirsi grasso’ potrebbe non riflettere correttamente la propria esperienza. È invece plausibile ritenere che tale sensazione sia da rimandare alla percezione alterata della propria muscolarità e al sentirsi flaccidi, deboli e poco definiti. Non è ancora chiaro quali parole e sensazioni potrebbero descrivere tale vissuto nell’uomo, ma potrebbe essere individuato un corrispettivo fenomenologico maschile nella sensazione di ‘sentirsi appannato’. Tale terminologia, in voga tra i cultori dello sviluppo muscolare, si riferisce, come spiega De Pascalis (2013):

ad un immaginario velo di grasso che si distribuirebbe sulla muscolatura rendendola meno definita e quindi più appannata. […] sotto il profilo fisiologico questa considerazione non ha fondamento alcuno.

Questo fenomeno sembrerebbe manifestarsi in modo fluttuante durante il giorno, in maniera analoga al ‘sentirsi grassa’, a seguito di uno ‘sgarro’ alimentare o a un comportamento di check corporeo. A tal proposito Murray e Griffiths (2015) hanno descritto il trattamento di un ragazzo di 15 anni che riportava un’intensa insoddisfazione per la propria muscolatura e che, quando percepiva quest’ultima come poco definita, ricorreva a una particolare condotta compensatoria: attraverso l’utilizzo di trucchi cosmetici, ‘ombreggiava’ i muscoli addominali per modificarne la visibilità, per ‘farli sembrare più profondi e farli risaltare di più’.

Conclusioni e prospettive future

Il trattamento della preoccupazione per la forma del corpo, all’interno di un trattamento di derivazione transdiagnostica, potrebbe essere centrale nel trattamento degli uomini con disturbo alimentare, in modo analogo a quanto accade per le pazienti di genere femminile, ma risulta necessario tener conto delle differenze di genere che ruotano intorno al concetto di corpo ideale. È opportuno considerare che, all’interno della clinica dei disturbi alimentari, gli uomini potrebbero manifestare tale disagio in virtù di una tensione verso un corpo dalla muscolatura ipertrofica. Se nelle pazienti femmine l’ideale attorno a cui ruota il corpo desiderato è rappresentato dalla bellezza del corpo magro, nell’uomo tale aspirazione potrebbe essere rivolta alla forza fisica e alla dominanza dell’altro (Ricciardelli et al., 2010). Tuttavia, nonostante tali differenze, il modello transdiagnostico sembrerebbe adattarsi bene anche a queste varianti psicopatologiche tipicamente maschili, ma le evidenze in questa direzione sono ancora poche e future ricerche in ambito clinico dovrebbero approfondire e confermare questi risultati. Le indicazioni all’interno del protocollo CBT-E riguardanti la preoccupazione del peso e della forma del corpo sono ampiamente trattate per le pazienti di genere femminile, ma risultano esigue per il trattamento dei maschi. Future prospettive di ricerca dovrebbero approfondire i comportamenti di body-check e le esperienze riguardanti l’immagine corporea negli uomini con disturbo alimentare, in modo da fornire linee guida valide per il loro trattamento. Recentemente è stato dimostrato che le componenti cognitive ‘Preoccupazione per il peso e la forma del corpo’, ‘Paura di ingrassare’ e ‘sentirsi grassa’ nel trattamento dei disturbi alimentari possono predire l’esito della terapia CBT-E (Calugi & Dalle Grave, 2019), quindi potrebbe risultare di particolare utilità clinica approfondire tali caratteristiche nel contesto della drive for muscularity.

 

Il contributo della ricerca e della clinica in tema di BES e DSA. Lavori in corso… – Report dal Convegno Regionale AIRIPA Puglia – Basilicata 2020

Il 18 gennaio 2020 si è svolto presso l’Ordine dei Medici di Foggia, il secondo convegno regionale AIRIPA Puglia – Basilicata (Associazione Italiana per la Ricerca e l’intervento nella Psicopatologia dell’apprendimento).

 

Durante il convegno il GDL Nazionale di Psicologia Scolastica ha presentato i dati dell’indagine 2018, ‘Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti’, nel poster a cura della prima autrice, la Dott.ssa Francesca Rendine (Fig. 1).

Il convegno ha rappresentato un momento formativo e di aggiornamento sui temi della psicopatologia dell’apprendimento da un punto di vista clinico, ma anche da un punto di vista scolastico evidenziando sin da subito la necessità di una stretta e continua comunicazione fra la clinica ed il mondo scuola, come garanzia del benessere nei processi di apprendimento.

 

Psicologia scolastica Report del convegno regionale AIRIPA 2020 Fig 1

Fig. 1 Presentazione del poster sull’indagine ‘Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti’

 

L’azione del clinico, a favore e supporto del contesto scolastico, inizia con la stesura di diagnosi che contengano anche un profilo di funzionamento come base su cui la scuola possa tagliare una didattica realmente inclusiva. Questo comporta che la scuola, d’altra parte, si apra alla presenza di più professionalità al suo interno e si avvalga di periodi formativi secondo i propri bisogni.

Nei vari interventi si è parlato di apprendimento metacognitivo, di esigenze formative, dell’utilizzo di nuove tecnologie ed in ultimo, non per importanza, della figura dello Psicologo Scolastico.

Apprendimento metacognitivo

Oggi numerose ricerche indicano l’efficacia di un apprendimento di tipo metacognitivo che preveda stimoli molteplici da offrire agli alunni, in cui il ‘mapping’, che porta alla ricerca della soluzione non sia solo un percorso predeterminato e circoscritto alla risoluzione del compito. Aumentare la capacità di compiere inferenze negli studenti di oggi significa lavorare su un’abilità trasversale capace di dare ‘forma e sostegno’ ai processi di elaborazione profonda. La metacognizione porta con sé un senso di autoefficacia che mette in luce variabili relative al processo di apprendimento come esperienza non solo didattica ma anche cognitiva, emotiva e relazionale.

L’importanza della formazione e della comunicazione tra clinici e insegnanti

E’ proprio sull’aspetto relazionale che la ricerca evidenzia il ruolo del modellamento dei comportamenti in ambito scolastico e familiare. L’attenzione verso gli aspetti relazionali richiama in gioco numerose tematiche, in primis, le crescenti esigenze formative per rispondere a bisogni scolastici oggi sempre più complessi.

Dal fronte scuola, l’inclusività deve essere realizzata mediante azioni concrete che riguardano la formazione da destinare agli insegnanti inerente ai BES e i DSA o ancor meglio ai disturbi del neurosviluppo in generale.

‘Se è vero che la scuola non crea disturbi del neurosviluppo, una cattiva gestione degli stessi è capace di indurre sintomi secondari’, dalla riflessione di uno dei relatori appare chiaro il bisogno di definire, in maniera chiara e costante, una comunicazione tra clinici appartenenti al territorio ed enti scolastici per una gestione rispettosa degli studenti e degli insegnanti in termini di persone e di diritti tutelati da specifiche leggi.

Utilizzo delle nuove tecnologie

Di grande interesse sia per l’ambito scolastico che per la gestione quotidiana della crescita dei ragazzi è l’utilizzo delle nuove tecnologie, che ben si intreccia con il processo di apprendimento.

‘Il genitore dovrebbe essere un sussurratore dell’amigdala del suo bambino’, una riflessione che spinge il relatore a prestare attenzione senza per questo demonizzare gli indici di rilevanza nella gestione dell’uso delle nuove tecnologie, oggi presenti a scuola, a casa ed in ambito clinico-riabilitativo.

Fra gli indici risulta di estrema rilevanza l’età di esposizione, secondo cui tanto più è precoce l’esposizione tanto più impedisce lo sviluppo di numerose competenze, quali: fono-lessicali, attentive e di modellamento comportamentale. Si evidenziano ulteriori variazioni quali: modifiche del ritmo sonno-veglia, abilità motorie ridotte, predilezione per processi di pensiero rapidi, modifiche delle dinamiche socio-relazionali.

Se alcuni cambiamenti delineano, nella ricerca, il definirsi di profili cognitivi sempre più rispondenti ad una società odierna ‘veloce’, d’altra parte è illusorio pensare di privare le nuove generazioni di questi strumenti. Un possibile pensiero realistico sarebbe quello di evitare un uso esclusivo delle stesse e di riequilibrare con esso uno spazio in cui si possa coltivare ancora una forma di ‘pensiero lento’.

A tal proposito risultano estremamente interessanti le possibilità di: costruire ambienti ‘free technology’, rinnovare la didattica e progettare e sviluppare nuove tecnologie la cui base sia una solida teoria psicologica. Quest’ultimo fattore potrebbe arginare la produzione di strumenti non idonei a bambini e ragazzi.

Lo Psicologo Scolastico

Particolarmente interessante è stato l’intervento che delinea una totale assenza di normativa che regoli in Italia la presenza dello Psicologo Scolastico, figura spesso affidata a progetti che rispondono ad emergenze contingenti con risorse temporali ed economiche del tutto inadeguate. Tali interventi inoltre tagliano fuori dall’operato dello Psicologo Scolastico ogni genere di intervento preventivo.

La figura dello Psicologo Scolastico si avvale di attività in linea al contesto in cui opera, dunque non svolge alcun tipo di attività clinica (nessun tipo dunque di diagnosi), nè avvia percorsi di cura specialistica (nessun tipo di psicoterapia). Questi aspetti sono determinanti nel definire non solo l’operato dello Psicologo Scolastico ma anche un titolo specifico idoneo al contesto che è quello di Psicologo e non di Psicoterapeuta, il cui scopo è offrire servizi di Psicologia Scolastica.

La Psicologia Scolastica promuove dunque il benessere di tutti gli utenti del mondo scuola attraverso:

  • la prevenzione di comportamenti a rischio;
  • la formazione degli insegnanti;
  • la gestione dei bambini che presentano BES o hanno ricevuto una diagnosi di DSA.

In queste attività, come in tante altre di pertinenza psicologica, si evince il ruolo specifico di professionista del sociale che lo psicologo va a rivestire nel contesto scolastico utilizzando tecniche e strumenti che garantiscano il benessere di tutti gli utenti, supportando in primis le dinamiche relazionali tra insegnanti, alunni e famiglie ma soprattutto avvalendosi di azioni specifiche che permettano la crescita-sviluppo degli studenti non solo da un punto di vista didattico.

 

Adozione infantile e salute mentale in età adulta: il ruolo dell’interazione tra genetica e ambiente

Eventi avversi durante l’infanzia sono stati associati a condizioni di salute mentale negative in età adulta. L’adozione nelle prime fasi di vita è un possibile esempio di esposizione alle avversità.

 

E’ stato dimostrato, infatti, che gli individui adottati nella prima infanzia hanno maggiori probabilità di sviluppare problemi di salute mentale, difficoltà e ritardi nello sviluppo, disturbi di personalità, depressione, ansia, disturbi da uso sostanze e problematiche comportamentali persistenti fino all’età adulta. Le cause principali sembrano essere i fattori ambientali sperimentati nell’ambiente prenatale (es. abuso di sostanze da parte della madre, stress e problemi di salute) e postnatale (es. stato socioeconomico inferiore, abbandono e abuso). Tuttavia, anche i fattori genetici possono contribuire al maggior rischio di disturbi mentali in quanto, i disturbi precedentemente citati, possono essere già presenti nei genitori biologici di coloro che vengono adottati. Questo è un esempio di correlazione gene-ambiente passiva (rGE), in cui la predisposizione genetica di un individuo è correlata all’ambiente o agli ambienti dell’infanzia in cui è nato e cresciuto. Un altro possibile scenario è l’interazione gene per ambiente (GxE), in cui la vulnerabilità genetica modera l’effetto dell’ambiente sulla salute mentale.

Uno studio di Letho et al. (2019) si è posto i seguenti obiettivi:

  • Esplorare le associazioni tra possibili eventi avversi avvenuti durante il processo di adozione infantile e la salute mentale in età adulta;
  • Valutare l’rGE confrontando il rischio genetico per disturbi psicopatologici e salute mentale (depressione, schizofrenia, nevroticismo o benessere psicologico) tra soggetti adottati e non adottati;
  • Esplorare le potenziali interazioni GxE tra coloro che sono stati adottati e salute mentale.

Il campione finale comprendeva 243.480 persone (54,4% femmine) di età compresa tra i 39 e 73 anni, di cui 3151 individui adottati nei primi anni di vita. I soggetti sono stati reclutati dall’ampio database della UK Biobank (UKB).

In relazione alla salute mentale sono stati indagati i seguenti fattori:

  • Sintomi depressivi: indagati attraverso le risposte a due item self-report costruiti dagli autori del presente studio che fanno riferimento all’umore depresso (“Quanto spesso ti sei sentito depresso, triste o senza speranza?”) e alla mancanza di piacere e interesse (“Quante volte hai avuto poco interesse o piacere nel fare le cose?”) nelle ultime due settimane.
  • Probabile depressione maggiore: la valutazione era basata su risposte a domande auto-riferite sulla depressione maggiore (sintomi e durata) e sulla frequenza con cui un individuo si è rivolto ad un medico o ad uno psichiatra. Anche in questo caso gli item sono stati costruiti dagli autori.
  • Probabile disturbo bipolare I o II: valutato considerando gli stessi item utilizzati per indagare i sintomi depressivi oltre a item relativi alla mania o ipomania.
  • Nevroticismo: valutato con il questionario di Eysenck sui 12 elementi di personalità (Revised Short Form, EPQ-RS; Eysenck, Eysenck, & Barrett, 1985).

Per quanto riguarda i fattori psicosociali, invece, sono stati presi in considerazione il benessere soggettivo, la felicità e eventi di vita stressanti recenti. Il benessere soggettivo è stato indagato con 5 item volti a catturare vari aspetti della soddisfazione generale della vita (lavoro, famiglia, salute, amicizia, situazione finanziaria); la felicità è stata valutata con un unico item rispondente la domanda “In generale quanto sei felice?”; infine, ai partecipanti è stato chiesto se avessero sperimentato alcuni dei seguenti eventi negli ultimi due anni: malattie gravi, lesioni/aggressioni a sé stessi, infortuni o aggressioni ad un parente stretto, morte di un parente stretto, morte di un coniuge/compagno, separazione/divorzio e difficoltà finanziarie. In ultimo, sono stati valutati anche fattori socioeconomici (istruzione, reddito familiare) e comportamento sanitario (stato relativo al fumare: mai fumato, fumatore precedente, fumatore attuale).

I risultati mostrano che gli individui adottati avevano punteggi inferiori su quasi tutti gli aspetti di salute mentale, socioeconomici e psicosociali, rispetto ai soggetti non adottati. Le analisi hanno anche sottolineato correlazioni genetiche positive tra adozione infantile, genere maschile, sintomi depressivi, disturbo depressivo maggiore, schizofrenia, comportamento relativo al fumo e rendimento scolastico negativo.

Non sono state evidenziate differenze significative tra individui adottati e non adottati in relazione alla felicità, alla soddisfazione generale della vita, al lavoro, alla relazione familiare e all’amicizia. Non è stata evidenziata nessuna correlazione con il nevroticismo e il benessere soggettivo. In conclusione, i soggetti adottati mostrerebbero una maggior predisposizione genetica verso problematiche nell’area della salute mentale; questo suggerisce che l’associazione tra adozione infantile e salute mentale non possa essere pienamente attribuita ad ambienti stressanti (traumi, abusi, abbandoni), ma sia in parte spiegata dalle differenze nel rischio genetico tra soggetti adottati e quelli non adottati, ossia da una combinazione complessa di rischio genetico e fattori ambientali (correlazione gene-ambiente).

La ricerca sull’interazione tra genetica e ambiente nella genesi dei disturbi mentali nell’infanzia e nell’adolescenza è ancora aperta. I limiti del presente studio riguardano l’assenza di informazioni sull’entità del trauma (cioè sulle circostanze che precedono e portano all’adozione), sull’età in cui è avvenuta l’adozione e sulla compresenza di genitori biologici e adottivi nell’ambiente di vita del bambino. Un possibile suggerimento per studi futuri è indagare e integrare queste informazioni per avere dei risultati più completi sull’interazione GxE. Un ulteriore limite è costituito dal numero ridotto di item self-report utilizzati per indagare i diversi costrutti che, in aggiunta, non consentono di escludere false dichiarazioni riguardanti lo stato di adozione.

 

 

Una madre incontra la figlia morta grazie alla realtà virtuale: un ostacolo o un aiuto nell’elaborazione del lutto? – Alcune domande e riflessioni sull’argomento

La realtà virtuale è uno strumento pieno di potenzialità, sempre più utilizzato nel campo della salute mentale. Un recente video di una madre che grazie alla Realtà Virtuale re-incontra la figlia morta ci mette dinnanzi a numerose questioni. Data la delicatezza di questo ambito sorge spontaneo interrogarsi sulla regolamentazione e il controllo di questo mezzo, per evitarne utilizzi impropri.

 

E’ recente la pubblicazione di un video in cui una madre ha potuto re-incontrare tramite Realtà Virtuale la figlia deceduta a soli 7 anni per una grave malattia.

Nel video, condiviso giovedì 6 febbraio dalla Munhwa Broadcasting Corporation sul proprio canale YouTube e intitolato I Met You, si vede la giovane mamma che, dinnanzi a un enorme schermo verde, munita di un visore per la Realtà Virtuale e di guanti tattili, si trova di fronte alla sua piccolina che le parla, la tiene per mano e festeggia con lei il suo compleanno. Il resto della famiglia, il padre, la sorella e il fratello della piccola precocemente scomparsa, guardano il video dell’esperienza dall’esterno.

La mamma, come facilmente ci si aspetterebbe, inizia a piangere nel momento in cui vede la figlia, così come commossi e mesti sono i parenti che assistono al tutto.

I MET YOU – Guarda il video

 

“Forse è un vero paradiso – ha detto la mamma dopo l’esperienza – Ho incontrato Nayeon, che mi ha chiamato con un sorriso, per un tempo molto breve, ma è stato un momento felice. Penso di aver avuto il sogno che ho sempre desiderato”. 

Secondo quanto riporta Aju Business Daily, il team di produzione ha impiegato otto mesi per il progetto. Hanno creato l’ambientazione virtuale, un parco che madre e figlia avevano realmente visitato in passato, e hanno usato la tecnologia di motion capture per registrare i movimenti di un attore bambino, utilizzati in seguito come modello per la loro Nayeon virtuale.

Il tutto ricorda un episodio della serie Black Mirror dal titolo Be right back, in cui la protagonista, a seguito della morte del compagno, si rivolge a un’azienda che progetta e realizza androidi con le stesse sembianze e la stessa personalità del defunto. Chi ha seguito la serie ricorderà l’epilogo dell’episodio, ma possiamo immaginare l’epilogo di ciò a cui stiamo assistendo?

Le implicazioni che questo uso della realtà virtuale porta con sé sono notevoli e, forse mossa da un desiderio di confronto tra colleghi, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni (e soprattutto domande) sull’impatto psicologico che una tale esperienza potrebbe avere su chi ha perso una persona vicina.

Sappiamo bene che chi subisce un lutto passa attraverso diverse fasi di elaborazione dell’evento fino ad arrivare a quella, auspicabile, dell’accettazione e riorganizzazione: metabolizzare la perdita e continuare la propria vita dopo il vuoto lasciato. Tramite queste esperienze di realtà virtuale, si può essere davvero in grado di raggiungere l’accettazione? O indossare un visore e rivivere i momenti con il defunto può bloccarci nei ricordi, non consentendoci di comprendere fino in fondo che quella persona non c’è più? Qualcuno potrebbe controbattere dicendo che in fin dei conti è solo una versione più tecnologicamente evoluta del rivedere in continuazione foto e video della persona scomparsa. Qualche anno prima era stato il turno dell’ascolto compulsivo della voce del defunto dalla segreteria telefonica, comportamento tra l’altro più volte riprodotto in diversi film, quasi a sottolinearne la “normalità”. Tuttavia, la staticità delle foto, il sentire la sola voce di chi non c’è più senza poterlo vedere e il distacco del video non ci mettono dinnanzi al fatto che ciò che osserviamo è passato ed è il passato? Con la realtà virtuale non siamo forse portati a illuderci che chi abbiamo perso è ancora lì a interagire con noi? Non si potrebbero, di conseguenza, verificare comportamenti di vera e propria dipendenza da Realtà Virtuale (VR) in un momento già particolarmente delicato?

E’ risaputa l’efficacia che la realtà virtuale ha nel trattamento di diverse patologie, come ad esempio le fobie, quindi perché non vedere l’utilizzo della VR come promettente anche nel campo dell’elaborazione del lutto? Per il momento mi verrebbe da pensare che, mentre nel caso degli altri disturbi, la VR è risultata molto utile nel ridurre strategie di evitamento di fatto disfunzionali per l’individuo, nel caso del suo utilizzo nell’ambito del lutto sembrerebbe un po’ aumentare l’evitamento stesso. L’evitamento dell’inevitabile dolore che quella perdita comporta. O forse si può pensare a un trattamento in cui il terapeuta accompagna via via il paziente a rinunciare sempre di più alla VR (forse più adeguata in un momento iniziale) per poter gradualmente accettare il dolore della perdita?

Probabilmente la VR potrebbe risultare utile per quei lutti improvvisi, in cui non si è avuta la possibilità di dire al defunto tutto ciò che avremmo voluto dirgli. Ma anche in questo caso: non sarebbe meglio, un po’ come nelle terapie del trauma, trovare un modo per metterci in contatto con noi stessi mentre viviamo quel momento doloroso, dirci ciò che avremmo bisogno di sentirci dire ora di noi in quel momento, piuttosto che parlare con l’altro in quel momento? O forse dicendo all’altro ciò che avremmo voluto dire abbiamo la possibilità di parlare indirettamente a noi stessi in quel momento (fornendo al contempo dati preziosi al terapeuta che segue il paziente)?

Un altro aspetto da non dimenticare e sul quale il video fa riflettere, è la presenza di altre persone che vivono lo stesso lutto di chi si immerge nella VR. Pensiamo per esempio, come in questo caso, a un bambino che ha perso un fratellino e vede la mamma assente, presa dal visore e presa dal rivivere momenti con l’altro figlio che non c’è più, quanto si andrebbe ad amplificare un trauma già troppo difficile da vivere per un bambino?

Si potrebbero sollevare tante altre questioni in merito, un punto su cui prestare attenzione, a mio avviso, non è demonizzare o idealizzare uno strumento tout court, ma comprendere bene l’uso che ne si può fare. Senza abbandonarsi a facili allarmismi, ciò che è stato creato è qualcosa di molto potente che, se non regolamentato e controllato, potrebbe far leva sul dolore delle persone e sul loro essere disposte a dare un prezzo all’esperienza di vedere e parlare ancora con chi non c’è più. Sta quindi a chi si occupa di salute in generale, e mentale nella fattispecie, interrogarsi e trovare il modo di evitare usi impropri dei mezzi che la tecnologia ci offre, riflettendo magari sulle potenzialità che un utilizzo guidato di questi nuovi strumenti potrebbe avere nel nostro campo, così da aiutare davvero chi soffre, anche quando il dolore è straziante, come nel caso di un lutto.

 

Come la musica suscita emozioni: un pomeriggio con Massimo Priviero

Sono diversi gli aspetti della musica che ci portano a provare un’emozione. A cominciare dalla struttura del brano. Per quanto esposto in questo articolo faremo particolare riferimento al testo “Psicologia e musica” e ad un evento musicale organizzato lo scorso 8 febbraio con la presenza di Massimo Priviero, musicista, cantante e scrittore.

 

Tra tutte le arti la musica è probabilmente quella capace di emozionarci di più e questo è il principale motivo per cui ci piace ascoltarla. Abbiamo già parlato delle 13 emozioni suscitate dalla musica vediamo ora in che modo la musica fa nascere queste emozioni.

Per quanto esposto in questo articolo faremo particolare riferimento al testo “Psicologia e musica” e ad un evento musicale organizzato lo scorso 8 febbraio.

Come la struttura della musica determina le emozioni

Sono diversi gli aspetti della musica che ci portano a provare un’emozione. A cominciare dalla struttura del brano, il variare della sua intensità può mutare la nostra percezione e il livello della nostra emozione ad esempio risultando inizialmente calmo, poi gioioso e infine malinconico.

Senza addentrarci in un’ analisi dell’effetto emotivo prodotto dalle note, che ai non addetti ai lavori risulterebbe complicata, possiamo limitarci a considerare come in generale le note crescenti risultino allegre e quelle calanti vengono percepite come tristi. Una spiegazione è che i suoni calanti sono tipicamente emessi da chi soffre e si lamenta e per questo motivo vengono istintivamente catalogati come tristi, mentre espressioni di gioia hanno tipicamente un andamento crescente e questo viene quindi percepito come allegro.

Tra i fattori strutturali che giocano un ruolo nell’espressione dell’emozione in musica troviamo il tempo. Un tempo veloce, ad esempio, varia considerevolmente la dimensione dell’arousal, ossia la risposta del sistema nervoso ad uno stimolo, che da luogo ad eccitazione e ad un acuirsi del sistema attentivo-cognitivo.

Anche la complessità armonica e ritmica di un brano ha un ruolo importante, musiche troppo dissonanti (come spesso accade nella musica contemporanea, hanno sovente una connotazione negativa e sgradevole.

La musica si sviluppa su un piano temporale (parleremo tra poco delle aspettative), nell’istante in cui ascoltiamo non sappiamo cosa accadrà un attimo dopo e questo genera attesa.

L’attesa è fortemente legata all’emozione ed è frutto di un’elaborazione non cosciente, se così non fosse sarebbe difficile spiegare perché continuiamo a provare emozione anche nell’ascolto ripetuto di uno stesso brano. Un’elaborazione non cosciente del pezzo, al contrario, procede ad ogni ascolto a ricalcolare le attese in modo che la loro conferma o meno dia luogo all’aspetto emotivo del brano.

L’aspettativa

Nella fruizione di un brano l’ascoltatore nutre inconsciamente delle aspettative su come quel pezzo andrà sviluppandosi. In generale, se la sua struttura avrà l’effetto di confermare la nostra aspettativa si verificherà un’emozione positiva, in caso contrario prevarrà un senso di negatività e di sorpresa.

Generalmente le canzoni che preferiamo nel loro andamento sonoro sono una via di mezzo tra la conferma delle nostre aspettative e l’effetto sorpresa. Sono quindi canzoni definite di “media complessità”, con un’incertezza moderata, dove ad uno svolgimento prevedibile si alternano sorprese.

Ma non è sempre così semplice: anche il livello di certezza o meno che raggiungiamo attraverso l’ascolto ha un suo peso. Pare infatti che se ci sentiremo quasi assolutamente sicuri di quale sarà la nota o l’accordo che seguirà, un’eventuale sorpresa ci provocherà piacere, al contrario, se ci sentiremo incerti su come il brano si svilupperà, proveremo più piacere nel non essere sorpresi dall’accordo successivo.

Non va dimenticato poi che la musica viene prodotta con uno scopo. Chi la compone vuole trasmetterci qualcosa, quindi la sua struttura, il contesto, le parole che la accompagnano mirano anche a manipolare le nostre aspettative contribuendo a dar vita ad una specifica emozione. Come per le parole, dove frequenza, intensità e distribuzione dei suoni trasmettono un certo tipo di messaggio, anche nella musica agiscono gli stessi elementi.

Chi parla con rabbia assume un ritmo veloce, un timbro ed un’intensità alta, uguali caratteristiche danno ad un brano musicale il potere di suscitare un’emozione di rabbia e così via.

L’evento

L’evento di cui vi parliamo ha avuto luogo nella struttura avveniristica di Oxy.gen a Bresso (Mi), che ospita attività culturali e formative. Con noi Massimo Priviero, che ha messo a disposizione la sua trentennale esperienza di musicista, cantante e scrittore.

Per coinvolgervi in quanto è avvenuto, vi invitiamo a seguirci in questo racconto.

Immaginate di trovarvi sulle rive di un piccolo lago..

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm1

Davanti a voi un ponte in legno, porta ad una bolla d’aria che galleggia sull’acqua. Lo percorrete fino in fondo. Entrate. La struttura circolare vi accoglie, siete in uno spazio astratto, tutto il resto è rimasto a riva.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm2

Con voi altre persone, tante persone, ma c’è silenzio, la luce filtra dalle tende a soffietto che ricoprono le vetrate, in lontananza si sente il verso delle anatre, le ombre degli uccelli in volo si riflettono all’interno.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm3

Inizia la musica. C’è un tema dominante in quello che si ascolta: un messaggio positivo di forza, fiducia, speranza. La capacità il coraggio necessari per superare gli eventi, siano essi difficili o dolorosi, la volontà di rialzarsi sempre e di volare più in alto.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero

 

Alcuni stralci

Il pubblico presente si può dividere equamente in persone che già conoscono molto bene i pezzi che si ascolteranno e che avevano già partecipato a rappresentazioni live degli stessi, e persone che ascolteranno questa musica per la prima volta.

Ed ora leggete questi stralci e il senso che si è cercato di trasmettere:

Ringrazio il mio Dio del Cielo,
per la mia anima inespugnabile
Ringrazio ogni uomo vero,
sia mio compagno inattaccabile
Ringrazio le bombe che mi cadono intorno ogni giorno
che mi feriscono ma non mi uccidono mai
Ringrazio la vita che sia paradiso od inferno,
è gioia e fango, ma è tutto quello che hai
E per ogni alba che viene e ogni notte che va
Per il sorriso ed il pianto che volano via
Ringrazio ogni giorno guerriero di vita mia

(da “Orgoglio”, Massimo Priviero)

Questo pezzo è scritto in un momento di forte fragilità. Fragilità non legata ad un fatto specifico ma semplicemente figlia di un modo di essere che vive di alti e bassi. Una forma di terapia interiore, come se fosse una necessità dire a sé stessi che ha un senso essere stati ed essere quanto si è. Pur mettendosi in discussione.

E’ spesso sorprendente come in un tempo difficile si possano scrivere parole che invece prendono forma di forza esistenziale. Ripetere la parola ringrazio all’inizio di ogni verso è un voler ringraziare di essere vivo pensando che valga la pena difendere il proprio modo di stare al mondo.
Mettersi ad un tavolo e scrivere qualcosa del genere fa nascere quasi una sorta di felicità che un po’ alla volta prende forma e si condivide. A questo punto ognuno può prendere quel che meglio crede, ognuno può trovarci dentro una frase che lo tocca di più, ognuno può sentirci quel che vuole.

E’ come se alzaste gli occhi al cielo e vi venisse da dire “in questo viaggio che è la mia vita, in tante volte in cui pure cado in terra, io qualche volta il cielo lo vedo e, questo, sono felice che accada”.

E ancora:

Dove sei, dove sei dolce angelo mio
Dove sei, dove sei che non ti vedo mai
Sono io la tua voce che saprà gridare
Sono io la tua mano che non può tremare
Sono io la tua forza che saprai cercare
Sono io le campane che ieri han suonato
Sono io la tua vita che non hai venduto
Sono io l’alba nuova che saprai cercare
Sono io insieme a Cristo venuto a salvare
Ma se un uomo domani ti chiederà
Se un uomo domani ti chiederà
Tu digli che sono le ali, io sono le ali, della sua libertà

(da “Ali di Libertà”, di Massimo Priviero)

Le immagini che sono in questo pezzo sono spesso la difesa di chi ha poco altro a cui aggrapparsi che non siano proprio queste ali. Non c’è alcuna cosa che conta di più nella vita di un uomo che essere libero, non c’è nulla al mondo per cui tu possa farne a meno. Cerchiamo di dare un volto a quanto ci spinge avanti, alle ragioni per cui val la pena di vivere, o a qualunque cosa pensiamo che debba avere risposta.

Forse le Ali di libertà sono semplicemente quelle che ci servono per farci proprio queste domande che non hanno risposta. Ma che, ostinatamente ci facciamo. E, forse, in questa necessità arriviamo al bisogno di chiudere gli occhi e di farci trasportare dentro ai suoni e alle parole. E magari in quel momento smettiamo di farci domande a cui non sappiamo dare risposta.

Conclusioni

Ascoltare un disco è certamente fonte di emozione ma andare ad un concerto lo è sicuramente molto di più. Ascoltare musica dal vivo è indubbiamente considerato il modo migliore per sperimentare un coinvolgimento emotivo.

Se fino ad ora abbiamo parlato delle emozioni come di qualità intrinseche della musica, una parte importante dell’emozione in musica è suscitata dall’esperienza personale.

Sul piano percettivo vi è una forte somiglianza sul modo in cui ciascuno percepisce la musica, più difficile affermare la stessa cosa sul piano emotivo perché entrano in gioco fattori quali storia personale, contesto sociale e culturale, stato d’animo.

Per tornare al nostro evento, la definizione più utilizzata a fine spettacolo per descrivere quanto vissuto è stata “una forte emozione”, seguita da “positività” e “forza”.

Alcune canzoni hanno suscitano emozioni perché collegate ad un ricordo, ma è stato confermato che anche canzoni ascoltate per la prima volta sono state in grado di emozionare e, soprattutto, di evocare in ciascuno le stesse emozioni, indipendentemente da età, sesso, cultura, ed esperienze personali.

Durante l’ascolto dal vivo si verifica uno scambio fisico ed emotivo tra chi esegue il brano, il singolo ascoltatore e l’insieme del pubblico. Inoltre, come già detto, in chi produce musica (l’artista che canta o che suona) c’è il proposito e la volontà di trasmettere con quei suoni determinati sentimenti ma lui stesso risente della risposta emotiva che gli arriva dal suo pubblico.

Si ascolta e si produce musica con la propria energia e con il proprio stato d’animo di quel momento ma anche l’insieme di attenzione e partecipazione del pubblico influenza sia la produzione dei suoni che l’effetto che questi producono sul singolo ascoltatore.

Inevitabilmente accade che se siamo tesi, arrabbiati, preoccupati, il nostro livello di attenzione cala e l’ascolto avrà meno possibilità di trasmetterci emozioni. Al contrario, se siamo rilassati, saremo più aperti a favorire uno scambio emozionale con ciò che ci circonda.

Nda: Si ringrazia l’Associazione Il Riccio, Il Comune di Bresso e la Fondazione Zoé-Zambon che hanno reso possibile la realizzazione di questo evento

 

La metodologia snoezelen: esplorare rilassandosi

La tecnica Snoezelen ha prodotto interessanti risultati con un crescente numero di malati affetti non solo da demenze, ma anche da altre disabilità cognitive e patologie psichiatriche.

 

Tra le innovative terapie non farmacologiche utilizzate troviamo la “Sensory Room” o “Snoezelen Room”, la quale pone il suo focus terapeutico, insieme alle più famose “Doll Therapy” e “Pet Therapy”, sull’aspetto sensoriale della persona affetta non solo da possibile demenza, ma anche da autismo, disabilità cognitive, patologie psichiatriche, disturbi da stress post-traumatico, lesioni cerebrali, controllo del dolore acuto e cronico e prevenzione del burn-out professionale.

Introdotta e messa a punto alla fine degli anni ’70 in Olanda dai terapisti Jan Hulsegge e Ad Verheul come intervento per persone con disturbi dell’apprendimento, la metodologia prevede la creazione di ambienti dedicati a creare focus di attenzione e suggestioni attraenti al fine di:

  • Promuovere il rilassamento
  • Stimolare le abilità senso-motorie residue
  • Ridurre i comportamenti-problema e aumentare quelli positivi
  • Migliorare il tono dell’umore
  • Facilitare l’interazione e la comunicazione
  • Promuovere la relazione con il caregiver

I principi base di tale trattamento sono:

  • L’esperienza si svolge in uno specifico ambiente fisico multi-sensoriale in cui vista, udito, tatto e odorato sono stimolati positivamente tramite l’utilizzo di effetti luminosi, musicali e uditivi, aromi, forme e superfici tattili
  • L’atteggiamento dei praticanti è “Centrato sull’ospite” e sui suoi bisogni
  • Gli stimoli devono essere controllati in base alle esigenze dell’ospite
  • L’ambiente sensoriale non è né positivo né negativo
  • L’operatore si basa sul punto di vista dell’ospite

La tecnica Snoezelen ha prodotto interessanti risultati con un crescente numero di malati affetti da morbo di Alzheimer, in particolare intervenendo nel trattamento dei “BPSD”, ossia dei disturbi comportamentali nella demenza; in particolare, esistono studi di caso in RSA e nuclei Alzheimer in cui vi sono stati evidenti risultati migliorativi nella gestione dei momenti critici quali quello, ad esempio, del fare il bagno: la progettazione di ambientazioni comprendenti strumenti con richiami all’acqua consente agli operatori di iniziare percorsi di narrazione finalizzati ad un avvicinamento di tipo “Gentle care”.

Prima di cominciare un percorso in una stanza multi-sensoriale e per progettare al meglio le sedute, il terapista deve conoscere:

  • Biografia dell’ospite
  • Quadro clinico e terapia farmacologica
  • Predisposizione dell’ospite nel “qui ed ora”

Inoltre:

  • Si adegua alle forme ed alle modalità di comunicazione della persona
  • E’ un partner pienamente coinvolto nell’azione
  • E’ una guida coscienziosa per la persona a cui il trattamento è rivolto
  • E’ aperto verso i segnali inviati dalla persona
  • Incoraggia la libera scelta della persona

Poiché le sedute possono essere di tipo individuale o gruppale, differenti ma simili sono i protocolli attuabili. Nel primo caso:

  • FASE 1: accoglienza ed adattamento all’ambiente
  • FASE 2: selezione degli stimoli adeguati
  • FASE 3: osservazione delle reazioni del paziente
  • FASE 4: compilazione delle schede di osservazione
  • Durata dell’intervento: 2-4 sedute settimanali della durata dai 25 ai 60 minuti in momenti della giornata in cui i pazienti manifestano varie problematiche comportamentali
  • Stimoli sottoposti: 1-2 variabili
  • Requisiti: agitazione psico-motoria (come wandering), aggressività fisica e/o verbale, deliri, ansia
  • Obiettivi: riduzione della contenzione farmacologica e fisica in modo da creare positivi percorsi di cura interno alla struttura e per coinvolgere i caregiver in nuove forme di relazione con i propri cari

Nel caso in cui la seduta sia di gruppo:

  • FASE 1: selezione del gruppo (3-4 persone)
  • FASE 2: accoglienza e adattamento all’ambiente
  • FASE 3: selezione degli stimoli adeguati
  •  FASE 4: osservazione delle reazioni del paziente
  • FASE 5: compilazione delle schede di osservazione
  • Durata dell’intervento: 1-3 sedute settimanali della durata dai 25 ai 60 minuti
  • Stimoli sottoposti: 1-2 variabili
  • Requisiti: apatia
  • Obiettivi: stimolazione/riattivazione dei pazienti sottoposti al trattamento

Gli arredi sono creati e sempre adattabili a seconda delle diverse dinamiche personali per attuare al meglio il progetto terapeutico. Le stanze di permanenza e degenza non sono più luoghi impersonali dove sostare, ma sono ambienti personalizzati, stimolanti, e soprattutto che accolgono e fanno sentire l’ospite al sicuro come a casa propria, stanze dove la permanenza diventa quindi un’importante esperienza di benessere a 360 gradi.

 

Alzheimer e deprivazione del sonno: non dormire aumenta la probabilità di sviluppare l’Azheimer?

La malattia di Alzheimer, conosciuta anche come morbo di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante.

 

L’età di esordio è mediamente intorno ai 65 anni, l’incidenza raddoppia ogni 5 anni da dopo i 60 anni; si tratta di una demenza primaria, ciò significa che i fattori eziologici sono ancora sconosciuti (Benedict et al., 2020) e ad oggi risulta che il 70% dei disturbi neuro-cognitivi è dato dalla malattia di Alzheimer.

All’interno del DSM-5 viene denominata come Disturbo neuro-cognitivo maggiore o lieve dovuto a malattia di Alzheimer (Benedict et al., 2020).

Uno dei primi sintomi che compare è la difficoltà nel ricordare gli eventi recenti, quindi la perdita di memoria a breve termine, mentre rimangono (inizialmente) conservati i ricordi più datati.

Con il progredire della malattia emergono altri sintomi come: afasia, disorientamento spazio-temporale, oscillazioni dell’umore, incapacità di prendersi cura di sé e alterazioni comportamentali (per esempio aggressività) (Benedict et al., 2020).

Nel cervello di un malato di Alzheimer è possibile osservare la formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, le prime sono delle formazioni di beta-amiloide, una proteina che agisce come collante tra i neuroni, inglobando così placche e grovigli neurofibrillari, si denota inoltra una forte diminuzione di acetilcolina, neurotrasmettitore fondamentale per la comunicazione tra i neuroni;  mentre per quel che riguarda i filamenti neurofibrillari, si formano all’interno del neurone, cioè nel citoplasma, degli accumuli di proteina tau, che porta il neurone ad avere dei malfunzionamenti (Hardy & Higgins., 1992) .

I fattori sopra elencati portano progressivamente alla morte dei neuroni, causando così nel paziente sintomi sempre più gravi nel tempo, fino alla morte (Hardy & Higgins., 1992).

Attualmente i ricercatori stanno cercando di comprendere il motivo per cui vengono a formarsi gli accumuli di beta-amiloide nello spazio extracellulare e di proteina tau all’interno del neurone (Benedict et al., 2020).

Un recente studio ha preso in esame 16 soggetti sani, i quali sono stati divisi i due condizioni sperimentali, una di deprivazione del sonno, mentre l’altra di sonno normale; in seguito hanno misurato i livelli di proteina tau presente nel sangue. I risultati mostrano che i soggetti che erano stati esposti alla condizione di deprivazione del sonno mostravano livelli significativamente più alti di proteina tau nel sangue, per la precisione, 17% in più rispetto ai soggetti nella condizione di riposo (Benedict et al., 2020).

Questi dati suggeriscono che anche una sola notte di sonno mancato porti ad un incremento dei livelli di proteina Tau nel sangue, agendo così come potenziale fattore di rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer; i ricercatori sottolineano inoltre che l’importanza di questo risultato è visibile a livello clinico nei pazienti con Alzheimer, infatti uno dei sintomi di questo disturbo è l’insonnia. Potrebbe essere quindi quest’ultima a causare l’accumulo di proteina tau tipica di questo disturbo? I ricercatori concludono sottolineando l’importanza di questi dati e la necessità di ulteriori ricerche per confermare ulteriormente i risultati (Benedict et al., 2020).

Il suicidio in adolescenza: dolori inascoltati! La tragedia del liceo Frisi

Monza ha vissuto una tragedia, in particolare il liceo Frisi: due ragazzi, rispettivamente di 19 e 18 anni, si sono tolti la vita a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro. Stando alle indagini della Polizia non emerge alcun collegamento tra le due tragedie avvenute.

 

Il suicido rappresenta oggi una delle prime cause di mortalità nella fascia d’età compresa tra i 15 ed i 19 anni, rappresentando una priorità assoluta in termini di prevenzione. L’incidenza intercetta una differenza di genere: i giovani maschi si suicidano più spesso rispetto alle giovani donne. Queste ultime compiono però numerosi tentativi di suicidio e spesso sviluppano una storia clinica di depressione.

L’azione del suicidio è accompagnata nel genere maschile anche dall’abuso di sostanze, quali alcool e droghe, che spesso contribuiscono all’alterazione del comportamento (aggressività e impulsività) determinando l’esito fatale; a differenza del genere femminile in cui lo sviluppo di una storia clinica depressiva induce alla richiesta d’aiuto e dunque alla prevenzione dell’atto suicidario.

E’ utile che lo Stato offra spazi validi ai nostri giovani per pensare a sé stessi anche nei momenti di difficoltà, è utile che lo Stato lavori per il benessere dei nostri ragazzi quando questi sono ancora in vita e non solo per elaborare il lutto con quelli che “restano”. Non agire misure preventive nei luoghi adeguati, come la scuola, in cui i ragazzi passano circa 12 anni della loro vita e circa 1400 ore l’anno significa lasciare difficoltà e dolori completamente inascoltati.

Fattori di rischio e fattori protettivi: i dati per costruire la prevenzione!

Abbiamo numerosi dati che ci permettono di identificare quali sono i fattori di rischio, ovvero tutte quelle variabili che tendono a essere presenti con maggior frequenza nei casi di suicidio, rispetto ai fattori preventivi, ovvero tutte quelle variabili che ci indicano quali aspetti “potenziare” per diminuire il rischio di suicidio.

Fattori di rischio:

  1. basso livello socio-economico, scarsa istruzione e disoccupazione;
  2. modelli familiari disfunzionali accompagnati da eventi di vita traumatici. I modelli disfunzionali si caratterizzano per la presenza di un alto livello di conflitto intrafamiliare, la presenza di psicopatologia nel genitore, storie di abuso di sostanze o pregressi tentativi di suicidio da parte del/dei genitori;
  3. alta correlazione con depressione, disturbi d’ansia, disturbi della condotta alimentare, disturbi legati all’abuso di sostanze e in ultimo disturbi psicotici.

Fattori protettivi:

  1. modelli familiari positivi: buoni rapporti fonte di sostgeno emotivo per l’adolescente;
  2. sviluppo della propria personalità attraverso il “potenziamento” delle abilità sociali, incluse la capacità di chiedere aiuto e la capacità di ascolto dell’altro che sia coetaneo o adulto;
  3. modelli socio-culturali: integrazione, benessere relazionale con l’utenza scolastica (gruppo classe ed insegnanti), sostegno.

“Quale depressione? è solo svogliato!”

Mi piace pensare che questi aspetti individuati dalla letteratura clinica servano davvero ad un loro utilizzo concreto, ovvero ad offrire spazi di pensabilità del proprio dolore o semplicemente dei propri dubbi e delle proprie incertezze. Affinché questo accada credo che sia doveroso uscire dalla logica di ricerca “del colpevole”, ma sia urgente pensare a delle indubbie responsabilità che i legislatori hanno a partire dall’innovazione di una grande agenzia educativa: la scuola. Responsabilità che sta nell’innovare concretamente la scuola secondo quelli che sono i bisogni dei nostri ragazzi e del corpo docenti, non sovraccaricando questi ultimi con la richiesta di competenze che il loro ruolo non prevede.

La capacità di cogliere una difficoltà nella fase di “comportamento problema” prima ancora che esso diventi psicopatologia conclamata richiede oggi la presenza di uno Psicologo Scolastico, il cui ruolo non deve essere circoscritto all’ “evento emergenziale” o “post mortem” o ancora al laboratorio previsto nella scuola “fortunata”, ma deve essere un diritto per tutti i ragazzi, per gli insegnanti e le famiglie.

Non avere una figura preposta ad intercettare segnali tipici può portare all’errore fatale di rispondere a dei sintomi con un giudizio personale su questi ultimi creando un circolo vizioso di: inascolto, sofferenza e, in ultimo, di eventi tragici. Quel ragazzo che ci appare svogliato a volte non lo è:

  • rallentamento psico-motorio;
  • hopelessness (vissuto di tristezza e melanconia, senza speranza);
  • anedonia (mancanza di interesse e noia);
  • astenia (stanchezza fisica);
  • morosité (disinvestimento nel mondo);
  • passaggio all’atto auto ed etero aggressivo (abuso di sostanze, comportamenti violenti, tentativi di suicidio)

sono sintomi che non hanno bisogno di un giudizio, ma della giusta competenza per essere riconosciuti ed accolti: “Mentre la compassione non nutre l’autostima, l’empatia la favorisce a partire dalla sospensione del giudizio”. I nostri ragazzi ci chiedono strumenti, in alcuni casi aiuto, ed è ora di sospendere i nostri giudizi e agire!

Il suicidio non è un fulmine a ciel sereno: gli studenti suicidi danno alle persone che li circondano sufficienti avvertimenti e margini di intervento (NESMOS)

ed è proprio di questi margini di intervento che i legislatori sono responsabili. L’Italia resta uno dei pochi Paesi Europei in cui la professione dello Psicologo Scolastico non è riconosciuta, né regolamentata a livello istituzionale. Numerose le proposte di legge a riguardo che ad oggi hanno lasciato il Paese in una situazione di stallo o, meglio ancora, in una situazione di assenza di servizi per bisogni chiaramente emergenti.

L’intervento, non clinico, dello Psicologo Scolastico prevede azioni di promozione del benessere a più livelli:

  1. individuale, destinato al singolo individuo che può essere qualsiasi utente della struttura scolastica;
  2. relazionale, destinato alla relazione di due individui o alle dinamiche di gruppo;
  3. organizzativo e di comunità, destinato al buon funzionamento della scuola intesa come organizzazione complessa.

La scuola potrebbe diventare uno spazio privilegiato di intervento primario, se adeguatamente organizzato, come riferito dal DORS, secondo alcune modalità specifiche orientate alla promozione della salute mentale con:

  1. l’inserimento nei programmi curricolari;
  2. l’articolazione nelle componenti chiave, ovvero promozione della salute, educazione e prevenzione, valutazione dell’intervento e post-intervento;
  3. coinvolgimento di professionisti sanitari che collaborino con insegnanti ed educatori;
  4. estensione al contesto comunità;
  5. valutazione costi – efficacia.

Mi sembra evidente che il costo dell’intervento non sarà mai, per quanto di difficile reperibilità, “inefficace” se l’obiettivo è quello di prevenire la morte di un adolescente.

 

Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto

Il progetto Web (In)dipendente, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Politiche Antidroga, si è posto l’obiettivo di promuovere e favorire un uso controllato e responsabile del web da parte degli adolescenti, evitando il loro accesso a siti pericolosi attraverso modalità interattive e partecipative.

 

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli che illustreranno al pubblico un recente studio esplorativo nato all’interno del progetto Web (In)dipendente, realizzato per promuovere un uso responsabile del web da parte dei minori. Nel primo contributo gli autori hanno fornito una panoramica dei dati presenti in letteratura su tempo trascorso online, sonno e attività fisica tra i giovani. Con questo secondo contributo entriamo nel vivo dello studio esplorativo, illustrandone metodi e strumenti. Nel terzo articolo, che pubblicheremo nei prossimi giorni su State of Mind, verranno mostrati e discussi i risultati ottenuti.

 

Il progetto web(in)dipendente

La tematica dell’utilizzo delle tecnologie da parte dei giovani è stata affrontata attraverso l’ideazione, produzione e realizzazione in 8 differenti territori di una mostra con installazioni interattive, uno spettacolo teatrale e dei laboratori di approfondimento.

L’intervento si è svolto prevalentemente sul territorio piemontese, con la realizzazione delle attività in 6 Comuni diversi, rappresentativi di 4 differenti Province: Savigliano – Torino – Settimo T.se – Alba – Casale Monferrato, Asti. Sono anche state realizzate due tappe, in altre Regioni: una in Valle d’Aosta, nella città di Aosta, e una in Liguria, a Chiavari.

Nello specifico le attività realizzate sono state:

  • uno spazio espositivo con installazioni interattive, giochi, video proiezioni, strategie comunicative non convenzionali per offrire ai ragazzi uno spazio di riflessione, condivisione ed espressione sul tema delle nuove tecnologie;
  • uno spettacolo teatrale, dal titolo Windie: performance teatrale della durata di un’ora circa che, utilizzando metodologie proprie del teatro sociale, coinvolge attivamente il pubblico nel processo creativo, rendendoli protagonisti;
  • laboratori in/formativi di approfondimento rivolti ai ragazzi, ma anche ad un pubblico adulto (genitori, insegnanti, educatori…);
  • il questionario oggetto della presente ricerca.

Il progetto e la raccolta dati sono stati effettuati delle cooperative ORSo e Stranaidea di Torino che, unitamente agli istituti scolastici coinvolti, si sono occupate anche della parte etico/normativa. Il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino è stato coinvolto per l’analisi dei dati raccolti e la stesura del presente articolo.

Metodo

Partecipanti

La ricerca è stata condotta tra novembre 2018 e giugno 2019 e ha coinvolto 631 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 24 anni (M = 15.4, SD = 3.8), per la maggior parte femmine (57.4%) e residenti in città di piccole (19.5%), medie (47.1%) e grandi dimensioni (33.4%) del Nord Ovest d’Italia; più della metà dei ragazzi (58.9%) è risultato impegnato almeno 2 o 3 volte alla settimana in attività sportive, di volontariato o ludico/ricreative non online.

Strumento

Ai ragazzi partecipanti allo studio è stato chiesto di compilare un questionario anonimo dal titolo Web (In)dipendente appositamente creato da parte del gruppo di lavoro con l’obiettivo di indagare il tipo e la frequenza di utilizzo delle tecnologie fra i ragazzi. Apriva il questionario una scheda socio – anagrafica, mentre il benessere psicologico è stato valutato attraverso il WHO-5, una misura unidimensionale sviluppata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e successivamente validata e adattata al contesto italiano. Il WHO-5 è costituito da 5 item (es. ‘Mi sono sentito sveglio e di buon umore’, ‘Mi sono sentito calmo e rilassato’) a cui il soggetto risponde scegliendo tra sei opzioni su una scala tipo Likert (0 = ‘mai’, 5 = ‘sempre’). Il punteggio grezzo totale è dato dalla somma delle risposte e varia pertanto da 0 a 25; a punteggi più elevati corrisponde una migliore valutazione del proprio stato di benessere psicologico. Quando il soggetto ottiene un punteggio inferiore a 13 è consigliabile la somministrazione di un test specifico per la depressione.

Procedura

La somministrazione del questionario del progetto Web (In)dipendente è avvenuta con l’utilizzo della piattaforma di sondaggi online survio.com.

È stato creato un link per ogni classe o istituto scolastico che ha partecipato alle attività del progetto e consegnato all’insegnante referente di classe o istituto. I ragazzi hanno poi compilato individualmente i questionari in classe o successivamente a casa. In questo modo è stata garantita la libertà di scelta nella compilazione e l’anonimato; i link differenziati per classe o istituto hanno però permesso di rilevare il dato della territorialità e fare analisi tenendo in considerazione questo fattore.

Gli istituti scolastici possedevano l’autorizzazione al trattamento dei dati personali anche se nessun dato personale è stato rilevato dal questionario e la partecipazione è stata volontaria.

Analisi dei dati

L’analisi è stata fatta in gran parte attraverso il calcolo delle frequenze di risposta fornite alle diverse modalità di ogni domanda. Per valutare la presenza di una differenza statisticamente significativa tra le frequenze di risposta è stato utilizzato il test del Chi-quadrato, mentre per valutare se le medie di diversi gruppi differissero tra loro in modo statisticamente significativo è stata utilizzata l’Analisi della varianza. I dati sono stati analizzati con il programma SPSS 25.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica – Pubblicato su State of Mind il 12 Febbraio 2020
  2. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto – Pubblicato su State of Mind il 19 Febbraio 2020
  3. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati – Pubblicato su State of Mind il 25 Febbraio 2020

Sull’isteria maschile – Le origini

A partire dal XVI secolo, grazie alla scoperta di alcuni medici che attribuirono l’insorgenza dell’isteria al malfunzionamento del sistema nervoso, venne abbandonata l’idea che l’isteria fosse una malattia esclusivamente rivolta al genere femminile portando all’attenzione anche l’isteria maschile.

 

Il collegamento tra disturbo isterico e genere femminile appare da sempre pressoché automatico, quasi come si trattasse di una patologia che non prevede ‘pazienti maschili’. Le ragioni di tale fraintendimento risiedono già nell’origine stessa del nome, che deriva dal sostantivo greco usteron, con il quale in antichità veniva indicato l’utero femminile, un organo che dovrebbe trovarsi stabilmente nella propria sede e i cui movimenti disfunzionali (potenzialmente creati anche dall’astinenza sessuale), si riteneva potessero provocare sugli altri organi pressioni in grado di giustificare l’insorgenza dei sintomi isterici. Questa era l’opinione della medicina antica. Ma già a partire dal XVI secolo, grazie alla scoperta di alcuni medici che ne attribuirono l’insorgenza al malfunzionamento del sistema nervoso, venne abbandonata l’idea che l’isteria fosse una malattia esclusivamente rivolta al genere femminile.

Se non fosse che gli istituti di cura mentale, sin dal Settecento, hanno visto il numero di pazienti isteriche superare di gran lunga l’analogo maschile, ammesso che si sia mai potuto parlare di una percentuale di riferimento in proposito.

Si trattava perlopiù di donne affette da una serie di disfunzioni di varia intensità e natura, soprattutto a carico dell’apparato motorio e degli organi sensori. Si andava da paralisi agli arti a tossi inspiegabili, dall’impossibilità di camminare o mantenere l’equilibrio fino alla perdita di un canale sensoriale come la vista o l’udito, da svenimenti improvvisi a disregolazioni emotive capaci di generare stati dissociativi: in ogni caso si trattava di sintomatologie che non trovavano rispondenza alcuna sul piano organico. Nessun danno agli organi, dunque, poteva giustificare la presenza di una disfunzione così grave e invalidante.

Iniziò quindi a farsi strada l’ipotesi che l’origine di tali sintomi fosse di natura prettamente psicologica, e che l’attuazione degli stessi fosse incontrollabile e involontaria. Sigmund Freud in particolare definì l’isteria come il risultato di un conflitto psichico inconscio e non verbalizzato che, a seguito della rimozione, veniva espresso con modalità che andavano a coinvolgere il funzionamento degli organi fisici, trovando negli stessi una sorta di ‘compiacenza’ espressiva. Il corpo si fa dunque carico di un conflitto emotivo che il soggetto isterico non può rivelare verbalmente, diventando il simbolo di un’energia non espressa (1895; 1901).

L’isteria attuale

L’ultima versione del DSM ammette l’esistenza del disturbo di conversione in presenza di disfunzioni legate all’apparato motorio o sensorio senza patologia organica. L’assenza di danni riconducibili all’organismo costituisce infatti la discriminante che allontana l’isteria dalla dimensione psicologica per proiettarla in quella di interesse specificamente medico. Ovviamente non si fa alcun riferimento alla tanto ipotizzata distinzione circa la differenza tra isteria maschile e femminile, essendo pacifica la possibilità che la stessa possa interessare entrambi i generi.

Allo stato attuale appare infatti chiaro come lo stereotipo che ha sempre collegato l’isteria alla donna è probabilmente dovuto a tematiche di natura culturale, clinica o psicodinamica (Gabbard, 2015). Hollender (1971) e Lerner (1974) hanno osservato come le caratteristiche dell’isteria femminile deriverebbero in particolare dal ruolo di estrema emarginazione sociale cui da sempre sono state soggette le donne, e dall’educazione particolarmente severa imposta da aspettative sociali che le ha viste imprigionate nel ruolo di madri e mogli obbedienti, dedite al lavoro e al rispetto. L’impossibilità di esprimere le proprie emozioni e quindi il proprio disagio interiore sembra incarnare perfettamente la causa scatenante l’isteria, ovvero la genesi di una pulsione non verbalizzata e in seguito rimossa poiché considerata inaccettabile, e sostituita da un sintomo di natura corporea che costituisce il giusto compromesso per la mancata espressione dell’emozione stessa (Freud, 1901). Si aggiunga inoltre che la letteratura sul disturbo isterico è stata scritta prevalentemente da uomini, fattore che ha rafforzato ulteriormente la relazione tra lo stesso e il genere femminile (Chodoff e Lyons, 1958; Luisada et al., 1974).

Superato definitivamente lo scetticismo di genere circa la natura dell’isteria, è stato di recente documentato come la stessa sia presente anche in ambito maschile (Bollas, 2000; Kolb, 1968; Lubbe, 2003; Luisada et al. 1974; MacKinnon et al. 2006). Avvertiamo qui che la letteratura scientifica su quest’argomento utilizza una terminologia sulle preferenze sessuali e sui comportamenti in parte discutibile ma che manteniamo come testimonianza storica. Da notare che questa terminologia è ancora abbastanza recente dato che la sensibilità verso le problematiche di genere è a sua volta abbastanza recente: ad esempio Gabbard (2015) sostiene che le descrizioni dei pazienti isterici maschi possano venir ricomprese nello specifico in due ampi sottotipi: l’ipermascolino e l’ipereffemminato. I sintomi del primo gruppo sembrano sovrapponibili a quelli tipici delle donne isteriche, nel senso che i pazienti rappresentano caricature della mascolinità, caratterizzata da peculiarità istrioniche e fortemente emotive. Questi pazienti possono mostrare marcate componenti di seduttività che spingono al desiderio di conquista di tutte le donne, verso le quali agiscono indistintamente con intenti seduttivi e sessualizzati. Sempre per testimoniare l’importanza storica di questi modelli, riportiamo che MacKinnon et al. (2006) sostengono che i maschi passivi effemminati rientrano invece in una fattispecie di evidente e non celata omosessualità, o al contrario in un’eterosessualità passiva e impotente che ha timore delle donne (MacKinnon et al., 2006). Gli effemminati si mostrano vanesi, incredibilmente dediti alla cura del proprio aspetto fisico, classici damerini o bellimbusti desiderosi di mettersi in mostra e guadagnare il centro dell’attenzione.

Molti pazienti isterici mostrano inoltre, assieme a disturbi sessuali di varia natura, anche comportamenti antisociali come disonestà e inaffidabilità, dipendenza da sostanze stupefacenti o da alcol, nonché tendenza a mantenere relazioni instabili e controverse col sesso opposto, perlopiù finalizzate allo sfruttamento, all’avvicinamento non empatico. Questo ha contribuito a generare un’ipotesi di collegamento tra il disturbo isterico e quello narcisista con tratti antisociali, ma a seguito di uno studio sperimentale mirato condotto da Luisada e collaboratori (1974), si è visto come in realtà le due tipologie di disturbo sarebbero discriminate da un vissuto emotivo che nell’isterico è molto più marcato, e riferito a stati ansiosi pressoché assenti nel narcisista o nell’antisociale.

Piuttosto sembra possibile il collegamento tra disturbo isterico di personalità e disturbo istrionico, dato che in entrambe le patologie si riscontrano sintomi quali seduttività, promiscuità, gelosia sessuale, desiderio di amore ideale, volubilità e sessualizzazione (Mitchell, 2000).

Caratteristiche specifiche del disturbo isterico maschile

I maschi isterici risultano spesso oggetto di eccessive premure da parte della madre, e nella loro infanzia possono aver reagito a contesti di operazione –individuazione erotizzando l’oggetto assente (Bollas, 2000). Quando la madre si allontanava la immaginavano dunque in compagnia di un altro uomo che era preferito a loro: la riattualizzazione di questo allontanamento contribuisce, anche in età adulta, a porli in una situazione di difetto e conflitto con l’altro sesso, nel quale viene identificato l’oggetto materno inseguito e al contempo odiato. Da qui il tentativo dei pazienti isterici di aggirare la paura della separazione della madre con comportamenti ipermascolini rivolti verso il genere femminile, e di riattualizzare il timore del confronto con il rivale cercando di conquistare donne già impegnate (Lubbe, 2003).

Come la sua controparte femminile, il paziente con disturbo isterico di personalità ambisce a divenire oggetto di desiderio da parte delle donne, e può passare da una relazione all’altra solo per scoprire che nessuna donna è all’altezza di fornirgli quanto da lui richiesto, poiché in realtà nessuna donna è all’altezza dell’oggetto materno idealizzato. V’è quindi la compresenza di timore e amore per la donna, che in un atteggiamento controfobico viene inseguita e subito dopo abbandonata perché mai ritenuta all’altezza di una relazione duratura. È questa la manifestazione di un conflitto che se durante la conquista seduttiva sembra affermare l’indispensabilità e l’esistenza della donna, nella seguente fase dell’abbandono arriva a negarle entrambe. L’uomo ha bisogno della donna solo come mero strumento di autoaffermazione, come oggetto di affermazione del Sé.

Ma questo conflitto edipico può sfociare anche in espressioni di adattamento che spingono gli isterici a mantenere un legame incorruttibile con la madre, votandosi ad un’assoluta astinenza dalla vita sessuale e relazionale tramite la scelta del celibato o della vita sacerdotale (Gabbard, 2015).

Altri ancora preferiscono la pratica di attività sessuali solitarie volte al narcisismo o alla cura del proprio aspetto fisico, dedicandosi ad attività sportive in grado di potenziare l’aspetto virile come il body building: tutto questo nel tentativo di trovare conferme alla propria mascolinità. Altri pazienti possono invece dirigersi verso l’omosessualità, specie quelli con una situazione edipica negativa, in cui la madre viene vista come una rivale nella conquista dell’attenzione del padre: da qui la ricerca di relazioni con uomini più vecchi nei quali appagare il desiderio di avvicinamento al padre perduto e di identificazione con l’oggetto materno, nel quale si rispecchiano anche sessualmente. Molti pazienti isterici si limitano infine ad avere mere fantasie di seduzione, non seguite da alcuna concretizzazione di quanto elaborato a livello immaginativo. Si tratta di soggetti nei quali la ricerca dell’attenzione diviene un mezzo per eludere timore del rifiuto e carenze di autostima, similmente a quanto avviene per gli istrionici.

Anche nella sintomatologia maschile sembrano quindi ricalcati i sintomi conflittuali già riscontrati nell’isteria femminile: ad ulteriore conferma di come una distinzione della patologia isterica legata prettamente al genere sessuale si mostri limitata e limitante, e di come nel soggetto isterico, a prescindere della sua appartenenza sessuale, si nasconda sempre un trauma non elaborato a livello psichico.

Alcune riflessioni sui Disturbi dell’Alimentazione

In primo luogo, emerge sempre più impellente la necessità di diffondere una conoscenza accurata degli aspetti peculiari dei Disturbi dell’Alimentazione: cosa sono e come riconoscerli, quali sono le cause, quanto sono diffusi, quali sono le complicanze mediche e psicologiche, qual è il tasso di mortalità. In secondo luogo, è fondamentale prendere atto che le strutture ad oggi presenti nel territorio nazionale risultano insufficienti e non sempre propongono un’offerta clinica mirata ed efficace per la cura di questi disturbi. Ma è anche vero che occorre informarsi e scegliere strutture attrezzate ad affrontare il problema da tutti i punti di vista non solo dal punto di vista dei problemi fisici ma anche psicologici e psichiatrici.

I Disturbi Alimentari sono caratterizzati da abitudini alimentari disfunzionali e da un’eccessiva valutazione di sé in base al peso e alle forme corporee; compromettono la salute fisica, i rapporti interpersonali, il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo. Rappresentano una problematica diffusa e in espansione in Italia, contando una prevalenza di 0,5-1% per l’anoressia nervosa (AN), 1-3% per la bulimia nervosa (BN) e 10% per le forme subcliniche. Inoltre, negli ultimi anni si è modificato in modo significativo il rapporto uomo-donna, raggiungendo 1-9/10 per l’AN, e si è ridotta l’età di esordio dei DA che risulta, in genere, compresa tra i 12 e i 15 anni (Regione Lombardia, Decreto N.4408 del 18.04.2017). Questo incremento di dati coincide con l’accresciuto interesse verso tali problematiche, tuttavia a ciò non corrisponde un’altrettanta attenzione dal punto di vista dell’offerta clinica e delle normative che regolano la gestione assistenziale.

Un interrogativo importante riguarda le cause dei DA, rispetto alle quali sono diffuse credenze naïf spesso non corrette e infondate dal punto di vista scientifico o false convinzioni. Non è infrequente, per esempio, che i familiari di pazienti affetti da DA si ritengano essi stessi la causa del disturbo del proprio figlio/a oppure che si tratti di problema legato alla ‘forza di volontà del ragazzo/a’. Sulla base di ciò, da una parte il paziente stesso può consolidare idee errate sul proprio disagio e può essere spinto ad intraprendere trattamenti non adeguati, dall’altra gli stessi genitori possono contribuire a mantenere il problema. È, dunque, fondamentale chiarire che i fattori causali dei DA non sono ancora del tutto noti e la letteratura scientifica ad oggi sposa una visione multi-fattoriale (Fairburn, Cooper e Shafran,2003) che comprende l’interazione di fattori biologici, ambientali, psicologici, sociali, i quali svolgono il ruolo di fattori di rischio per lo sviluppo del DA.

La normalizzazione di alcuni comportamenti alimentari disfunzionali, il riconoscimento tardivo del disturbo e il cristallizzarsi delle credenze naïf sopra citate, possono portare a sottovalutare una serie di complicanze che caratterizzano i DA: modificazioni fisiche e dei segnali fame-sazietà, alterazioni cognitive, emotive e sociali, sintomi della malnutrizione, rischio di suicidio. Da tenere presente infatti che il tasso grezzo di mortalità è attorno al 5% per decennio circa l’AN (Zaccagnino e Callerame, 2017) e, più in generale, i DA provocano circa 7000 decessi all’anno, rappresentando le malattie mentali con il più alto tasso di mortalità (Lozano R, Naghavi M, Foreman K, Lim S, Shibuya K, Aboyans V, et al., 2012).

Alla luce di quanto esposto, è necessario che le strutture esistenti formino e promuovano la creazione di una rete assistenziale adeguata, che permetta al paziente di sperimentare diverse modalità di intervento in relazione all’andamento della patologia e alla presenza di complicanze internistiche e/o psichiatriche, garantendo così un percorso di cura efficace (Donini et al., 2010; De Virgilio et al., 2012).

È utile ribadire che, nonostante l’interesse crescente per queste patologie, rimangono ancora molti problemi da affrontare legati al loro trattamento. Tra questi la distribuzione non omogenea di centri sul territorio nazionale, l’assenza di una base teorica comune tra i professionisti dell’équipe e la mancanza di coerenza nel passaggio tra forme di intervento ambulatoriale e forme intensive e viceversa. Inoltre, gli approcci utilizzati non sempre risultano sufficientemente mirati per affrontare efficacemente il problema. Un approccio che ha mostrato evidenze scientifiche di efficacia è la CBT-E che implica un coinvolgimento attivo del paziente in modalità collaborativa e l’intervento di un’équipe non eclettica (Dalle Grave, 2017). Si veda l’articolo: Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione: quali trattamenti psicologici sono raccomandati?

 

Rosaria Nocita
Centro Disturbi dell’Alimentazione Milano Navigli
Cliniche Italiane di Psicoterapia

Ipocrisia e i fattori che ci influenzano nelle scelte morali

Diverse ricerche hanno cercato di determinare le varianti personologiche, emotive e ambientali che agiscono nel determinare l’ipocrisia morale dimostrata da un individuo per comprendere perché alcune persone siano più propense di altre ad agire moralmente.

 

Viene chiamata ipocrisia morale, la tendenza a predicare un certo tipo di comportamento come corretto, ma agire poi diversamente: il tentativo sarebbe quello di apparire moralmente retti pubblicamente (Barden et al., 2005) ma tentare ugualmente di trarre un beneficio personale dalle situazioni (Batson et al., 2002; Monin & Merritt, 2012). Se quindi a livello intrapersonale l’ipocrisia morale si traduce nel proverbiale ‘predicare bene ma razzolare male’, diversa è la forma che questo bias prende se consideriamo il livello interpersonale: le ricerche sul Moral Judgment hanno svelato un altro fenomeno comune, ovvero la tendenza a giudicare più severamente le trasgressioni messe in atto dagli altri rispetto alle proprie (Sun et al., 2012).

Una plausibile spiegazione per questo ‘doppio standard’ sarebbe dovuta alla distanza morale dalla situazione: nel giudicare infatti le proprie trasgressioni le persone non potrebbero fare a meno di figurarsi una situazione reale che li coinvolge, garantendo una bassa distanza psicologica che lascia spazio ad una connotazione emotiva o attenuanti situazionali, laddove invece nel giudicare gli altri ci si appella a degli standard morali più rigidi e astratti (Sun et al., 2012).

Sicuramente, tutti possiamo avere un’idea di come agire moralmente implichi talvolta il porre un freno alla propria soddisfazione egoistica, orientandosi verso comportamenti più altruistici (Martinsson et al., 2014), rimandando quindi l’idea di uno sforzo attivo compiuto dall’individuo per esercitare autocontrollo e allenare il proprio ‘muscolo morale’; tuttavia, vi sono variabili che influenzano la capacità di esercitare l’autocontrollo e possono portare ad uno stato detto Ego Depletion caratterizzato da una ridotta capacità di autoregolazione e riduzione delle inibizioni, disregolazione emotiva (Gailliot & Baummeister, 2007), performance intellettuali temporaneamente ridotte e minor controllo degli impulsi (Vohs & Faber, 2007).)

Diverse ricerche hanno cercato di determinare le varianti personologiche, emotive e ambientali che agiscono nel determinare l’ipocrisia morale dimostrata da un individuo per comprendere perché alcuni individui siano più propensi di altri ad agire moralmente.

La propensione al senso di colpa è un tratto personologico che sembra agire come una sorta di barometro morale, che fornisce feedback relativamente costanti e stabili nel tempo circa la nostra accettabilità morale e che guida il nostro comportamento; inoltre, gli individui che riferiscono un senso di colpa maggiore risultano essere più empatici e propensi a considerare il punto di vista altrui (Cohen et al., 2012). È stato postulato che il senso di colpa possa anche avere la capacità di contrastare gli effetti dell’Ego Depletion: non richiedendo energie cognitive supplementari per risolvere dilemmi morali, l’individuo riuscirebbe quindi ad agire in accordo con i propri e condivisi standard morali anche in quelle situazioni in cui le risorse cognitive risultano esaurite o rivolte altrove (Ren et al., 2014).

Un recente studio di Du e colleghi (2019) si è proposto di indagare gli effetti dell’Ego Depletion sull’ipocrisia morale, valutando inoltre una possibile moderazione del senso di colpa nell’estinguere questo effetto. I ricercatori hanno ideato due esperimenti, volti ad indagare i due differenti aspetti dell’ipocrisia morale sopra menzionati, ovvero quella intrapersonale e quella interpersonale.

Nel primo esperimento, dopo aver compilato un questionario sulla propensione al senso di colpa, ovvero la Guilt Proness Scale (GP-5), sono stati selezionati i 104 partecipanti che avevano totalizzato un punteggio più alto e altrettanti sono stati selezionati dal 30% che aveva registrato il punteggio inferiore. In seguito, i due gruppi sono stati sottoposti ad uno Stroop task, un compito di interferenza cognitiva, con l’intento di indurre diversi livelli di Ego Depletion.

Per valutare l’effetto sull’ipocrisia morale è stato usato il paradigma dell’assegnazione del compito (Tong & Yang, 2011), nel quale i soggetti decidono se assegnare un compito piacevole a sé stessi o ad un’altra persona, dopo aver dichiarato la propria intenzione di utilizzare un metodo imparziale come il lancio di una moneta. Dal momento che all’animazione di lancio di una moneta, che assegnava invariabilmente il compito più ambito all’altra persona, veniva ugualmente data al partecipante la possibilità di procedere manualmente con l’assegnazione, questo induceva a credere che i ricercatori registrassero solo la risposta finale, lasciando aperta la possibilità di barare e omaggiarsi con il task favorito. I ‘moral hypocrites’ sarebbero quindi quei soggetti che dichiarano che la maniera più corretta di assegnare un compito sia ricorrendo al metodo imparziale, ma che distorcono poi il risultato in loro favore quando hanno la percezione di non incorrere in sanzioni o reprimende da altri (Batson et al., 1997; 1999; 2002)

In seguito, sono stati proposti dei dilemmi morali su un’ipotetica situazione, che coinvolgeva il soggetto stesso o un personaggio fittizio di nome Chris, per i quali il soggetto doveva esprimere un grado di accettabilità su di una scala da 1 a 7.

I risultati ottenuti da Du e colleghi sono in linea con le precedenti ricerche nel campo del Moral Judgment: è stato riscontrato un effetto dell’Ego Depletion sull’ipocrisia morale, indicando una maggiore probabilità di ricorrere a comportamenti egoriferiti quando l’individuo risultava essere cognitivamente provato; inoltre, è stato confermato come gli individui che riportavano una minore disposizione al senso di colpa avessero maggiori probabilità di essere moral hypocrites. In linea con le aspettative degli sperimentatori, non è stata riscontrata alcuna differenza tra i due gruppi sottoposti ad un differente carico cognitivo quando interveniva il senso di colpa: l’aderenza a delle norme di comportamento, che risultano interiorizzate e quindi immediatamente disponibili senza necessitare di sforzo cognitivo, risentirebbero in maniera minore di una ridotta disponibilità di risorse per far fronte al dilemma.

Nel secondo esperimento, il gruppo con basso senso di colpa rispecchiava la nota tendenza ad essere più tollerante verso le proprie trasgressioni che non verso quelle degli altri. Gli individui caratterizzati da un forte senso di colpa non esibivano differenze significative  in termini di tolleranza verso le trasgressioni proprie o altrui, anche quando si trovavano in una condizione di Ego Depletion maggiore; è inoltre emerso che in condizioni di basso sovraccarico cognitivo, gli individui inclini al senso di colpa si sono dimostrati più intransigenti verso loro stessi e meno propensi ad accettare l’idea di una trasgressione commessa da loro che non da altri.

 

Il pensiero del clinico di fronte alla morte per anoressia

La notizia di un decesso per anoressia porta noi clinici al dolore della famiglia e poi ai mille volti e alle mille storie ascoltate in anni di lavoro con persone affette da anoressia. All’emotività, al senso di impotenza e di disperazione nelle storie che non vanno bene.

Sara Bertelli

L’anoressia è una patologia, è la patologia psichiatrica con indice di mortalità più elevato e la seconda causa di decesso negli adolescenti dopo gli incidenti stradali. Lo dice la letteratura, lo sottolineano i dati epidemiologici, ma la reazione emotiva è sempre la stessa quando da clinico si affronta il decesso di un giovane di 20 anni come nel caso di Lorenzo.

Vicinanza ai genitori di Lorenzo, pur non conoscendo la sua storia. Ci si può avvicinare con delicatezza al dolore vivo della perdita di un figlio, una perdita che non può essere in alcun modo spiegata con il raziocinio di una malattia mentale poiché l’anoressia non lo consente, in quanto attiva dinamiche emotive di difficile comprensibilità. Negli anni ho sentito tanti genitori travolti da sentimenti di colpa, vergogna, impotenza, inadeguatezza, che fra le lacrime mi hanno detto che  avrebbero accettato altre malattie, anche tumorali, ma non questo mostro che impedisce ai figli di mangiare e li avvicina al pericolo di perdere la vita.

In questi giorni si è parlato di “accettazione” delle cure, molte persone con anoressia non accettano le cure, le sfiorano. Fidarsi e l’affidarsi al terapeuta rimane lo scoglio più grande per i ragazzi. Tale affido risulta ancora più difficile per un maschio, che si deve identificare ed essere riconosciuto in una patologia prevalentemente di genere femminile.

Il sistema familiare risulta fondamentale in questa difficile fase e il coinvolgimento della famiglia, da parte dei clinici, risulta centrale nell’accompagnamento alla cura. Per tale ragione vanno supportate nella solitudine e nell’isolamento di un figlio che non riesce e non vuole curarsi.

Nel nostro gruppo di lavoro in ambulatorio, da due anni abbiamo aperto i gruppi AMA (gruppi di auto mutuo aiuto) per genitori, dove i genitori si possono rivolgere per aiutare i loro i figli ad agganciarsi ad un percorso di cura e a rimanerci. Sappiamo quanto la motivazione sia un processo dinamico e quanto elevato sia l’indice di drop out pari a circa il 50% degli studi di follow-up.

La domanda successiva è quando fare un TSO ( trattamento sanitario obbligatorio)?: in Italia da anni il dibattito è acceso sia per motivi clinici sia deontologici sia etici. E poi, dove fare un TSO? In quale reparto? Molte persone con anoressia non hanno consapevolezza di malattia e non hanno la capacità di riconoscere il pericolo vita, ma il clinico adeguatamente formato può e deve ravvisare se è un’urgenza psichiatrica, la cognitività compromessa e le problematiche nutrizionali di un quadro anoressico acuto o di un quadro cronico.

Il ricovero per TSO viene eseguito in reparti psichiatrici acuti spesso senza letti dedicati, e qui insorge il terzo punto di polemica di questi giorni: l’assenza di strutture nel sistema sanitario.

In Italia vi sono più centri, soprattutto nel nord, ma la domanda supera l’offerta e spesso la lista d’attesa può essere lunga e la presa in carico spesso è tardiva, dopo percorsi non specialistici o prese in carico solo psicologiche o nutrizionali. Fondamentale in questo senso credo sia la formazione specialistica degli operatori e la costituzione di una rete fitta fra pubblico, privato e i vari setting di cura per favorire una diagnosi precoce e un invio adeguato e tempestivo.

 


Autore dell’articolo:

Sara Bertelli, Medico Psichiatra, Responsabile Servizio Disturbi Alimentari Adulti, ASST Santi Paolo Carlo, Milano, Presidente Nutrimente Onlus

Lo psicologo a scuola: il punto di vista dei genitori – Indagine 2019 a cura del GdL Nazionale Psicologia Scolastica

L’importanza di istituire la figura dello psicologo scolastico è stata discussa e ribadita in più occasioni, tanto che negli ultimi anni si sono susseguite diverse proposte di legge volte a darne una definizione normativa.

 

Nel dibattito intorno a questo tema non si può prescindere dal prendere in considerazione il punto di vista di chi quotidianamente è parte attiva del mondo della scuola.

Per questo, dopo una prima indagine rivolta agli insegnanti, abbiamo deciso di condurre una ricerca volta ad indagare la percezione della figura dello psicologo scolastico da parte dei genitori.

In particolare il nostro obiettivo era quello di conoscere quanto la figura dello psicologo, e i suoi interventi, siano presenti nelle scuole italiane, il grado di soddisfazione rispetto agli interventi psicologici in ambito scolastico di cui hanno fatto esperienza direttamente o indirettamente attraverso i figli e le aspettative relative all’area di intervento scolastico.

Il campione della ricerca è rappresentato da 251 soggetti equamente distribuiti su tutto il territorio nazionale e con una netta prevalenza delle madri (92,4%) rispetto ai padri (6,4%).

L’età media dei partecipanti rientra nella fascia di età 31-40 appartenenti per la maggior parte alla scuola primaria (53,4%), seguiti da genitori con figli iscritti alla scuola dell’infanzia (41,4%), dato che sembrerebbe indicare una tendenza a porre più attenzione all’infanzia rispetto all’età pre e adolescenziale.

Lo psicologo scolastico e le aree di intervento

La figura dello psicologo scolastico è conosciuta dalla maggior parte dei partecipanti all’indagine (68,1%), mentre solo il 43% ha avuto modo di sperimentare direttamente o indirettamente uno o più interventi psicologici. Il 57% dei partecipanti, invece, non ha sperimentato nessun tipo di intervento.

Secondo i risultati della nostra ricerca, la maggior parte degli psicologi scolastici sono stati incontrati presso scuole pubbliche che fanno parte di Istituti Comprensivi.

Per quanto riguarda le aree di intervento, sono stati sperimentati (Fig. 1): sportello scolastico (32%), progetti sull’educazione socio-affettiva e bullismo (entrambi 18,7%), interventi formativi e informativi per insegnanti e genitori (15,7%) e interventi riguardanti i Bisogni Educativi Speciali e in particolare i DSA (15%). Percentuali minori hanno usufruito di interventi sull’educazione sessuale (10,4%), l’orientamento scolastico (6%), l’integrazione multiculturale (1,5%) e lo stress lavoro-correlato (0,7%).

 

Psicologo scolastico un indagine sul punto di vista dei genitori Psicologia figura 1

Fig. 1. Interventi sperimentati dai genitori direttamente o indirettamente tramite i figli

 

Come nell’indagine precedente, volta a rilevare l’opinione degli insegnanti, possiamo rilevare anche in questa occasione che l’intervento più diffuso a scuola è quello dello sportello d’ascolto. Da sottolineare però che quasi un terzo dei genitori intervistati ha dichiarato che nelle scuole frequentate dai figli al momento non è presente nessun supporto di tipo psicologico.

La percezione dei genitori: punti di forza e criticità

In generale, la maggioranza del campione (62,8%) ritiene la figura dello psicologo scolastico un supporto fondamentale, utile e importante. Alcuni sostengono che questa figura sarebbe una risorsa necessaria e preziosa ma purtroppo ancora poco utilizzata e valorizzata nella pratica (12,5%). Viene espressa l’esigenza di un sostegno sia per i bambini/ragazzi e le loro famiglie sia per gli insegnanti.

L’intervento sperimentato ha soddisfatto la maggior parte degli intervistati (54,6%). La soddisfazione è legata soprattutto al fatto che lo psicologo si è mostrato attento ai bisogni e ai problemi delle classi, che la sua presenza ha facilitato la comunicazione creando un clima non giudicante e che ha aiutato a parlare anche di tematiche delicate (soprattutto in adolescenza).

Scendendo nel dettaglio, gli interventi percepiti come più efficaci sono quelli nell’ambito dei Bisogni Educativi Speciali e DSA (33,3%), cui seguono i progetti sull’educazione socio-affettiva, gli sportelli di ascolto e gli incontri formativi e informativi per gli insegnanti e genitori.

Al contrario, progetti sul bullismo e lo stress lavoro-correlato sono stati percepiti come poco efficaci o del tutto inefficaci e questo potrebbe rappresentare un ulteriore segnale rispetto alla necessità di implementare progetti che possano trovare continuità nel tempo, soprattutto per problematiche così complesse e difficilmente risolvibili in pochi incontri.

Lo psicologo scolastico è apprezzato dal 72% del campione per la sua capacità di osservare e intervenire sul bisogno, ponendosi come professionista in grado di promuovere il benessere scolastico attraverso la facilitazione delle relazioni scolastiche, la comunicazione efficace e il supporto agli insegnanti. In linea con quanto emerso dagli insegnanti, anche secondo i genitori l’area in cui c’è maggiormente bisogno dell’intervento dello psicologo scolastico è quella relativa alla gestione delle classi difficili e alla prevenzione/contrasto di bullismo e cyberbullismo, a riprova di come siano difficoltà sentite davvero da tutto l’ambiente scuola e della necessità che famiglie e docenti non siano lasciati soli a gestire queste difficili dinamiche. Tutti auspicano che quella dello psicologo scolastico diventi una figura fissa e stabile all’interno delle scuole italiane e ritengono che la sua presenza non interferirebbe con le attività didattiche, ma che anzi sarebbe un valido aiuto sia per gli insegnanti che per gli alunni.

A riprova di questo, dall’indagine emerge come l’aspetto negativo riferito dalla maggior parte degli intervistati (77%) riguardi il ruolo marginale dello psicologo e il suo intervento tardivo e sporadico: secondo i genitori, infatti, il fatto che lo psicologo svolga solo degli interventi di breve durata, che non sia integrato nel team docenti, che non sia una figura stabile all’interno della scuola, limita molto l’efficacia del suo operato. Da evidenziare come i genitori stessi, quando criticano la tardività dell’intervento, ci dicono indirettamente che preferirebbero delle azioni di prevenzione, e proprio per questo la figura dello psicologo sarebbe utile e necessaria.

Inoltre diversi intervistati hanno percepito l’intervento dello psicologo come strategia di ‘marketing’ dello stesso, finalizzata ad ottenere poi pazienti in privato. Niente di più sbagliato. Eticamente non è possibile seguire in privato un minore o un adulto con cui si è entrati in relazione a scuola e con cui si attuano una serie di interventi volti al benessere psicologico, questi infatti si discostano dalla terapia psicologica, nell’ottica di non medicalizzare la scuola ma di garantirne la funzione educativa e formativa.

Da notare positivamente come la quasi totalità del campione intervistato affermi che usufruirebbe di servizi di psicologia scolastica, come lo sportello, soprattutto per avere un supporto nell’affrontare dinamiche comportamentali e/o emotivo-relazionali dei figli e nella comunicazione con loro e con gli insegnanti. La presenza dello psicologo scolastico appare quindi fondamentale, ma attualmente ancora poco incisiva per il poco spazio dato all’interno della scuola e per lo scarso o cattivo utilizzo che si fa del servizio psicologico (aspetti riportati dal 2,7% del campione). Nonostante il bisogno percepito di dare stabilità a questa figura, solo una piccola percentuale degli Istituti Comprensivi presi in considerazione ha uno psicologo scolastico o ha attivato un servizio di sportello. In tal senso il nostro Gruppo di Lavoro propone l’idea di uno sportello ‘dinamico’ e innovativo, pensato per rilevare i bisogni concreti che nascono dalla quotidianità della vita scolastica.

Ciò che sostiene questa proposta operativa è la consapevolezza, derivante dalle evidenze raccolte con le nostre indagini, della necessità di interventi volti primariamente alla prevenzione e non solo all’azione di contrasto delle ‘emergenze’, le quali altro non sono che rappresentazioni disfunzionali di bisogni e criticità non adeguatamente riconosciuti per tempo né con gli opportuni strumenti. Lo psicologo scolastico può offrire strumenti di monitoraggio, ascolto, progettazione in cooperazione e collaborazione con i protagonisti della scuola stessa, nel farsi promotore di una progettualità condivisa con il dirigente e gli insegnanti al fine di mettere in atto interventi di prevenzione e di promozione del benessere psicologico.

Conclusioni

Dai dati emersi da questa nostra seconda indagine, altamente sovrapponibili a quelli ricavati dalla precedente, rivolta agli insegnanti, possiamo affermare come l’intervento dello psicologo scolastico nelle scuole italiane sia un’esigenza sempre più sentita anche dalle famiglie.

Rispetto all’assenza di una normativa che regolamenti la presenza e l’operato di questo professionista, infatti, oltre il 97% del campione afferma che la scuola ha bisogno di questa figura e che l’Italia dovrebbe adeguarsi a quanto accade negli altri paesi europei già provvisti di una legge dedicata.

Analizzando i bisogni emersi, per ottimizzare l’intervento dello psicologo scolastico, bisognerebbe:

  • Istituire la figura dello psicologo scolastico all’interno delle scuole di ogni ordine e grado, creando un servizio psicologico stabile basato sulla co-progettazione degli interventi e delle attività di prevenzione (soprattutto nella gestione delle classi difficili e di fenomeni quali il bullismo e il cyberbullismo) per favorire il benessere scolastico
  • Estendere i servizi, come lo sportello psicologico e gli incontri formativi/informativi a docenti, genitori e in sinergia con chiunque lavori per il benessere scolastico
  • Favorire la collaborazione e la comunicazione tra scuola e famiglia e rete sociale

La realtà con cui si scontrano genitori e insegnanti è sempre più complessa e spesso si percepisce un senso di solitudine che può essere alleviato dal supporto e dall’intervento volto al cambiamento positivo e al benessere individuale e relazionale.

Queste azioni devono collocarsi all’interno di una prospettiva che consideri lo psicologo come parte del contesto scolastico e non come professionista esterno, esigenza che emerge in modo sempre più evidente e a cui è necessario rispondere concretamente attraverso una regolamentazione chiara e definitiva della figura dello psicologo scolastico.

 

 

La gelosia e il famigliare nel 1700 – Dal corpo famigliare all’anima famigliare

Nel 1700, con l’avvento dell’Illuminismo, si stabilisce la marcata tendenza a razionalizzare le emozioni e i sentimenti e ad attribuire alla ragione un ruolo centrale nella vita interiore dell’uomo. Durante il romanticismo, invece, si assiste a un’inversione di rotta e l’amore diventa il simbolo che può determinare e segnare un’intera esistenza.

 

Durante tutto il ‘700 il romanzo che tratta di famiglia, di amori o di passioni è tutti intriso della vittoria dell’ethos sul pathos. Entriamo nell’era dell’illuminismo per cui le emozioni, il profondo, i sentimenti devono essere guidati dalla razionalità. La fiducia nella scienza tipica di questo movimento filosofico, porta a distinguere tra la mente dell’uomo e l’universo degli oggetti. Compito dell’uomo è dominare, attraverso la mente, gli oggetti tra cui sono comprese le emozioni. Kant, nella sua risposta alla domanda “che cos’è l’Illuminismo?” dà questa definizione:

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.

Sapere aude significa intraprendere una battaglia contro il pregiudizio, il mito, la superstizione, e contro tutte le forze che hanno ostacolato il libero uso dell’intelletto e della crescita mentale dei vari individui. Tra gli elementi ostacolatori vi sono le emozioni che debbono trovare una giusta sistemazione (razionalizzazione) all’interno della ragione. Esse debbono essere controllate.

Il compito principale che si diedero gli illuministi era quello di educare.

Madame de Lambert su questa scia si prese il compito di educare le donne verso l’emancipazione. In Riflessioni sulle Donne pubblicato nel 1727 scrive:

Tanta è la tirannia degli uomini! Loro vogliono che noi non facciamo uso della nostra intelligenza né dei nostri sentimenti, hanno solo un grande interesse a richiamarci ai nostri primordiali compiti. Le donne possono dire agli uomini: “Che diritto avete voi di privarci dello studio delle scienze e delle belle arti? Le donne che si sono dedicate a tali studi, non hanno forse raggiunto risultati più che buoni?”.

Madame de Lambert punta a dare un’istruzione mentale alle donne in modo che possano autodeterminarsi. L’autodeterminazione, così come avviene per gli uomini, deve passare attraverso l’educazione a controllare le proprie emozioni.

Emblematica è la posizione in cui si viene a trovare Giulia nella Nouvelle Heloise di Jean Jacques Rousseau. Il marito Wolmar invita a casa loro Saint-Preux, l’istitutore di cui da sempre Giulia è innamorata, in modo che la moglie possa sperimentare che la virtù può dare pace, felicità e serenità più della passione. Solo nell’atto di morte, avvenuta per salvare la figlia che era caduta nelle acque gelide di un fiume, Giulia confessa, attraverso una lettera, il suo amore, mai cessato, a Saint-Preux.

Rousseau esalta i principi etici del matrimonio e, soprattutto, che i sentimenti possono essere razionalizzati. Vorrei sottolineare la scommessa del marito che può essere concepita come un “dono” in cui nutre la fiducia e la speranza di poter essere ricambiato, così come in effetti avviene. Wolmar razionalizza la sua gelosia trasformandola in un dono. Ciò dimostra che la razionalizzazione non sia di per sé negativa, ma anzi se prendiamo coscienza dei sentimenti negativi possiamo trasformare, far rinascere la relazione.

L’esaltazione dei principi etici la troviamo anche nella Pamela di Richardson. Di Pamela, serva bellissima, si invaghisce il suo datore di lavoro, Mr. B, il quale tenta in tutti i modi di sedurla anche attraverso castighi. La ragazza non cede neanche di fronte ai tentativi di stuprala. Visto che con le cattive maniere non riusciva a farla cedere ed ammirato dalle sue virtù, inizia a corteggiarla intensamente facendo così innamorare Pamela. Anche in questo caso la presa di coscienza comporta una elaborazione che trasforma la relazione.

Le relazioni possono rinascere all’interno di una razionalizzazione dei propri sentimenti.

Anche nella pittura di famiglia, come riportato da Cigoli, prevale l’idea illuministica e la famiglia viene rappresentata nella sua intimità. Il fatto nuovo rispetto ai quadri di famiglia del secolo precedente è l’introduzione della “conversazione” come elemento educativo. Spesso, inoltre, i personaggi vengono ritratti nella pratica delle arti. Un esempio è La famiglia Morzat di Johann Nepomuk della Croce, in cui i fratelli Mozart suonano a quattro mani il clavicembalo con il padre Leopold appoggiato sullo strumento. Il padre ammira la maestria dei figli e, in qualche modo, si compiace della famiglia che è riuscito a tirare su. E’ l’ideale della borghesia che compare sulla scena in contrapposizione ai dipinti della famiglia aristocratica del ‘600. Un altro elemento che compare nel dipinto appeso alla parete è il ritratto della mamma morta a cui il padre è legato, come vedremo in seguito, da un amore eterno.

Il romanzo che mette in crisi i valori ideali dell’illuminismo è Storia del Cavaliere Des Grieux e di Mannon Lescaut di Prévost, in cui la protagonista muore per non essere riuscita a razionalizzare i propri sentimenti, per non aver fatto il proprio dovere. Mannon, nel tentativo di vivere sempre nell’agiatezza, abbandona più volte Des Grieux nel momento in cui quest’ultimo cade in miseria per aver tentato di accontentare le esose richieste dell’amata. Ad ogni fuga corrisponde sempre un incontro tra i due amanti, fino a  quando, nel tentativo di truffare Geronte, vengono arrestati con l’accusa di furto e adulterio. Mannon viene espatriata negli Stati Uniti e Des Grieux la segue. Dopo un periodo in cui vivono in pace sono costretti a scappare e durante la fuga Manon muore.

In Manon Lescault ritorna il tema della morte come interruzione, ma anche rinascita dei legami. Vero è che con la morte si interrompe quella che viene considerata una esistenza sconsiderata, ma è altrettanto vero che Manon vive sulla propria pelle il dilemma tra emozioni, sentimenti e razionalità. Le emozioni possono essere ingabbiate all’interno della ragione? La storia di Manon sembra dirci di no.

La morte, inoltre, rende eterno l’amore. Sartre in proposito scrive:

Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell’altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente. La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa il guardiano.

Si diventa guardiani dell’amore secondo Galimberti. Infatti, analizzando l’angoscia di morte, sostiene che quest’ultima

non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita …… proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all’amore, questo non si estingue con la morte della persona amata.

La morte rinnova il legame in quanto lo rende trasmissibile come afferma E. Severino

La presenza è sempre, e non coincide con l’apparire e lo sparire.

Anzi la morte, essendo un tempo indefinito rispetto alla vita, permettendo la trasmissibilità e l’eredità, rende il legame eterno. Sempre Galimberti arriva a sostenere che

Non è la morte a estinguere l’amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell’amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c’è solo infedeltà. Solo nell’amore c’è eternità.

Foscolo, nei Sepolcri, sostiene che soltanto il sentimento, la “corrispondenza d’amori sensi”, sia in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili. Ancora una volta la morte tramite la generatività rinnova e rafforza il legame.

I terapeuti che si occupano di elaborazione del lutto conoscono bene la forza del legame, sia in senso positivo che negativo, che lega i vivi con i morti e la grande forza di questo tipo di legame che sembra inscindibile e non rielaborabile. Freud, nel tentativo di consolare l’amico Binswanger per la perdita del figlio maggiore, scrive:

E’ noto che il cordoglio acuto dopo una tale perdita passerà, ma si resta inconsolabili, non si troverà mai un compenso. Tutto ciò che può subentrare, anche se riempisse il posto rimasto vuoto, resta qualcosa di diverso. E, a dire il vero, è giusto che sia così. E’ l’unico modo per proseguire nell’amore da cui non si vuol desistere.

Il posto vuoto trova spazio, così come riportato da Cigoli, anche nella rappresentazione pittorica della famiglia. Nel ritratto di famiglia di Wybrand Hendrik – Jacob Freitama e Elisabeth de Haan – davanti alla coppia c’è una sedia in cui sono deposti dei fiori. E’ la sedia vuota della figlia che, “rifiutando il contratto matrimoniale previsto dalla famiglia e degno del suo rango”, decide di sposarsi con un ufficiale della marina inglese. Sempre Cigoli analizza un’altra opera, esposta allo Staatliche Museen di Berlino, George Clive e la Famiglia con Serva Indiana di Joshua Reynoldys, in cui il tema del lutto generazionale è rappresentato nello sguardo del capofamiglia che guarda al di là della rappresentazione della famiglia. Il suo sguardo sembra ricercare nel vuoto la figlia morta.

Il tema della morte tende a sottolineare le difficoltà in cui si sono trovati gli illuministi di fronte alla razionalizzazione dei sentimenti. Il tema della gelosia, affidandosi solo ai temi etici della relazione è totalmente scomparsa. Anzi, esso è trattato solo come razionalizzazione, come descritto da Rosseau attraverso il personaggio di Wolmar.

L’amore e  i sentimenti riprendono a diventare il nodo centrale dell’esistenza umana con i pre romantici. Così scrive Werther all’amico Guglielmo nei Dolori del Giovane Wherter di Goethe:

Wilhelm, cosa è mai il nostro cuore, il mondo senza l’amore? È come una lanterna magica senza luce! Ma appena tu vi introduci la lampada, le più belle immagini compaiono sulla parete bianca…

Se per gli illuministi l’amore è una categoria spirituale che non può essere indagata e conosciuta, per i romantici diventa il simbolo che può determinare e segnare un’intera esistenza.  E’ l’incontro segreto in cui solo la persona oggetto del nostro amore può comprendere il nostro cuore e la nostra anima. Nole, sebbene non potesse ricambiare i sentimenti di Werther in quanto promessa sposa di Alfred, offre al giovane protagonista la possibilità di trasformare il loro rapporto in un’autentica amicizia, una sorta di amore platonico.

Per amore si può scegliere di morire: il giovane Werther, una volta persa la speranza di poter conquistare Nole, si suicida sparandosi alla testa con le pistole del marito della sua amata. Lo stesso fa Jacopo, per amore di Teresa, nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, uccidendosi con un colpo di pugnale al petto. Anche in questo caso l’amore per una donna che si era promessa sposa ad un altro, porta al suicidio.

Il suicidio si lega indissolubilmente con l’idea della morte. Se la morte rende i legami eterni, il suicidio, di conseguenza, sarebbe l’estremo tentativo per trasportare il legame all’interno di un tempo indefinito come l’eternità. Sia Werther che Jacopo, una volta appurato che non si possono legare per motivi etici con Nole e Teresa, offrono in dono la loro vita in modo da rendere eterno l’amore.

Offrire la propria vita per amore, per gli altri, è un legarsi per sempre, per l’eternità. Gesù, con la morte in croce, offre la sua vita per tutti gli uomini stabilendo un legame che non può essere rotto. Per i cristiani, la morte di Gesù viene considerata un gesto d’immenso amore. I vangeli raccontano che, durante la passione, la domanda e lo sberleffo più frequente per Gesù era “se sei veramente figlio di Dio, salva te stesso”. Ma proprio perché era figlio di Dio offriva la sua vita per stabilire un legame eterno con gli uomini.

Molti nel corso della storia hanno offerto la loro vita per la patria, per salvare un amico, per inseguire i propri ideali. I fondamentalisti islamici offrono la loro vita per la vittoria di Allah sugli infedeli diventando una potente arma.

Eppure “offrire la vita” non assume lo stesso significato rispetto alle modalità con cui questa offerta viene portata avanti, a seconda se si è uccisi o ci si uccide. Nel primo caso si diventa eroi e meritevoli del paradiso: Ettore sfida l’invincibile Achille nel tentativo di salvare la propria patria. Nel secondo si rischia di finire tra gli sfortunati della vita, così come li sistema Virgilio nel libro VI dell’Eneide. Sono accanto, nei campi lugentes (campi del pianto), a chi è più meritevole della pietà, ai bambini, a coloro che sono stati ingiustamente giustiziati, agli infelici che sono morti per amore come Didone regina di Cartagine.

“Offrire la vita” contiene molte analogie con il gesto della madre che dà la vita. Si tratta, comunque, di un “dare”: la mamma dà la vita a un nuovo essere; chi offre la vita dà la propria vita. Come abbiamo visto precedentemente, sul piano generazionale, i genitori donano la vita per legare l’altro indissolubilmente. Anche dare in dono la propria vita tende ad un legame eterno.

L’azione del donare tende al legame incondizionato e si fonda sulla fiducia e la speranza di poter essere contraccambiati. Ma il dono può anche avere le caratteristiche di perversione quando viene usato in maniera strumentale. Sta nelle differente modalità di utilizzo del dono che possiamo distinguere anche le differenti modalità con cui si offre la vita. Essa può essere offerta in maniera gratuita, nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati, o, al contrario, cercando di ottenere uno scopo.

Nell’atto del suicidio è insito uno scopo e, quindi, il dono assume caratteristiche di perversione. Goethe descrive in maniera inequivocabile lo scopo di Werther che chiede le pistole con cui poi si ucciderà al marito di Nole e quest’ultima li consegna con mani tremolanti all’ambasciatore del suo spasimante. Nelle mani tremolanti sta la comprensione dello scopo dell’offerta di Werther mi uccido per poterti legare a me nell’eternità.

Cigoli (op. cit.), nell’analizzare il suicidio di Van Gogh, distingue tre vie che gli effetti del suicidio hanno sulle relazioni generazionali:

  • Quella dell’onta e della vergogna in cui il suicidio viene tenuto sotto silenzio e nascosto;
  • Quella dell’inefficacia in cui il suicidio alimenta l’odio generazionale; tipico è quello raccontato da Omero di Epicasta madre di Edipo. Resosi conto dell’incesto commesso si suicida lasciando Edipo nel rimorso;
  • Quella della redenzione in cui il nome del “morto suicida è salvaguardato e onorato”.

Io mi permetto di aggiungere un’altra categoria che è quella della perversione o della vendetta generazionale, come nel caso di Werther e Jacopo. Essi si suicidano per sottomettere e dominare in un tempo indefinito, che è quello successivo alla morte, le due donne, nel tentativo di farle provare sentimenti di colpa e di rimorso. Hillman sostiene che il suicidio non è soltanto una via per uscire dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte, nel tentativo, per l’anima, di trovare una rigenerazione. Tale rigenerazione comporta il tentativo di ottenere l’amore per sempre e distruggere, nel caso di Jacopo e Werther, i legami con i loro mariti. La relazione che i due tentano di stabilire, attraverso il suicidio, contiene tutte le caratteristiche descritte da Scabini e Cigoli nella relazione patologica di cui ho parlato in precedenza. D’altronde, riguardo alle motivazioni che spingono al suicidio, viene descritto quello per vendetta. E’ la forma di suicidio che tende a colpire la persona che ha fatto soffrire in vita. Si vuole instillare in questa persona il rimorso e la colpa nel tentativo di impadronirsi per sempre dei sentimenti dell’altra o dell’altro. Le motivazioni e gli ideali che sottendono questo tipo di suicidio sono compatibili con la gelosia patologica. Nell’uno e nell’altro caso il presupposto è il possesso.

 

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