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Social delle mie brame: chi è il più bello del reame?

Parallelamente alla diffusione di internet e dei social media si sta verificando una tendenza ad un uso eccessivo o inadeguato di queste tecnologie che può portare allo sviluppo di una nuova dipendenza, quella da Internet. Le numerose ricerche che si sono concentrate sull’Internet Addiction hanno evidenziato i costrutti maggiormente legati a questo fenomeno: autostima, depressione, ansia, perfezionismo e credenze metacognitive. 

 

 L’uso dei social network e internet sono entrati a far parte della nostra quotidianità. In un mondo in cui siamo costantemente connessi e perennemente online, l’impatto che questi strumenti hanno sulle nostre vite è significativo (Naskar, et al., 2016; King et al., 2018).

Parallelamente alla diffusione di internet e dei social media, che sono diventati uno strumento di comunicazione globale, si sta verificando una tendenza ad un uso eccessivo o inadeguato di queste tecnologie che potrebbe portare allo sviluppo di una nuova dipendenza, quella da Internet, i cui sintomi sono simili a quelli del disturbo da dipendenze da sostanze. Numerose ricerche si sono concentrate sulla dipendenza da Internet e hanno messo in luce che l’utilizzo della rete può indurre dipendenza psicologica e sviluppare disturbi psicopatologici (Mannino, et al., 2017).

A tal proposito, si riscontra una condizione pervasiva e morbosa con sintomi quali: craving, assuefazione, astinenza, in relazione ad abitudini incontrollabili e inarrestabili e mancanza di controllo (Caretti e La Barbera, 2005). L’utilizzo dei social media e di internet potrebbero costituire dei diversivi per la monotonia quotidiana, per la noia, la solitudine e gli stressor (Adès & Lejoyeux, 2001).

Ivan Goldberg, nel 1996, coniò il termine Internet Addiction Disorder e ne propose l’introduzione nel DSM indicando i criteri diagnostici utili al riconoscimento:

  • il bisogno di trascorrere in rete un tempo sempre maggiore e di connettersi sempre più spesso, per ottenere soddisfazione;
  • la marcata riduzione dell’interesse per ogni altra attività che non riguardi l’uso di Internet;
  • la persona sviluppa agitazione, sintomi depressivi e ansiosi, pensieri ossessivi o sogni su quello che sta accadendo in rete, se l’abuso viene ridotto o interrotto;
  • l’incapacità di interrompere o tenere sotto controllo l’utilizzo di Internet;
  • continuare a usare il web nonostante la consapevolezza di aver sviluppato comportamenti patologici che hanno delle ricadute nell’ambito sociale, psicologico e fisico, come per esempio disturbi del sonno, problemi familiari e coniugali, problemi lavorativi.

Il primo caso ufficialmente documentato di dipendenza da Internet (Internet Addiction) risale al 1996 negli Stati Uniti, quando la psicologa Kimberly S. Young descrisse la storia di una donna di quarantatré anni, la quale trascorreva fino a sessanta ore a settimana in alcune chat room, inoltre, riferiva di sentirsi parte di una “comunità virtuale”, grazie all’interazione con gli altri utenti (Young K.S., 2015). Questa storia portò la dottoressa Young a raccogliere in futuro oltre seicento casi simili, caratterizzati da problemi relazionali, finanziari, accademici, di perdita del proprio lavoro a causa del discontrollo nell’uso di Internet (Young K.S., 2015).

Le modificazioni psicologiche e fisiche dell’individuo dipendente dalla rete sono (Young, K. S. 1998):

  • perdita o impoverimento delle relazioni interpersonali;
  • modificazioni dell’umore;
  • alterazione della percezione del tempo;
  • tendenza a sostituire il mondo reale con un luogo virtuale, nel quale si cerca di costruire un proprio mondo personale;
  • sintomi fisici (tunnel carpale, dolori diffusi al collo e alla schiena, problemi alla vista) che sono la conseguenza del protrarsi di lunghi periodi di attività in rete in posizioni poco salutari e, di conseguenza, di lunghi periodi di inattività fisica.

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale, nelle persone che sviluppano una dipendenza da Internet, sono osservabili i seguenti aspetti (Young, K. S. 2011):

  • pensieri disfunzionali su se stessi e sugli altri;
  • sentimenti soggettivi di inadeguatezza, insicurezza, bassa autostima e problemi relazionali;
  • disturbi dell’umore, d’ansia e del controllo degli impulsi.

Ad oggi, le dipendenze comportamentali rientrano nella sezione III del DSM-5 come “Condizioni che necessitano di ulteriori studi” (APA, 2013), tuttavia vi sono ancora diversi pareri discordanti riguardanti lo sviluppo dell’abuso di Internet così come quello da sostanze.

Dato il crescente interesse per l’Internet Addiction, in letteratura si trovano numerosi studi che indagano i costrutti maggiormente legati a questo fenomeno: autostima, depressione, ansia, perfezionismo e credenze metacognitive.

L’autostima è un costrutto che si sviluppa tramite un processo individuale, interattivo – relazionale, e può essere concettualizzata come uno schema cognitivo appreso man mano che gli individui interagiscono con gli altri e con l’ambiente (Bracken, 2003). L’avvento delle nuove tecnologie ha modificato l’opportunità di interazioni sociali e il contesto in cui tali interazioni hanno luogo, influenzando in modo significativo anche il concetto di sé e l’autostima (Firth et al., 2019). Le interazioni sociali online hanno dimostrato di elicitare le stesse risposte delle relazioni reali a livello neurocognitivo, coinvolgendo aree cerebrali analoghe relative alla cognizione sociale, quali ad esempio l’amigdala (Firth et al., 2019). Tali ricerche evidenziano come le relazioni sociali online sono elaborate in modo molto simile rispetto a quelle che hanno luogo offline, mettendo in luce le implicazioni significative delle interazioni tecnologicamente mediate per comprendere la socialità umana.

Se la costruzione della propria autostima si modula, sia per gli adolescenti sia per gli adulti, anche attraverso la rete, si potrebbe assistere ad un progressivo evitamento generale di contesti ed interazioni nella quotidianità e comportamenti di ritiro sociale per cui la persona “predilige” un contatto virtuale a quello reale portando alla comparsa di alcuni disagi: isolamento sociale, ansia sociale, depressione, disturbi del sonno, problemi di concentrazione, riduzione delle energie fisiche e mentali (Haw N., Samaha M., 2016).

Un altro costrutto che è stato letto in relazione alle dipendenze da internet è la depressione (Morrison C., Gore H., 2010). Per esempio, secondo uno studio di Dalbudak (2013) i fattori maggiormente in grado di predire il rischio riguardante la dipendenza da internet sono: il sesso maschile, il tempo trascorso in rete, la depressione e l’attitudine al perfezionismo.

Su questo argomento, sono state recentemente pubblicate le prime due meta-analisi, in cui sono stati analizzati i risultati di numerosi studi che hanno coinvolto oltre 27.000 utenti di Facebook residenti in Europa, Nord America e Asia (Marino et al., 2018a, Marino et al., 2018b). Tali studi evidenziano che gli utenti che utilizzano Facebook in maniera più problematica sono più a rischio di riportare segnali di distress psicologico, quali maggiori livelli di ansia e depressione. Inoltre, gli stessi mostrano livelli più bassi di felicità e soddisfazione per la propria vita (Marino et al., 2018a) e bassa autostima (Marino et al., 2018b).

Il perfezionismo è identificato come un fattore di vulnerabilità generale capace di aumentare il rischio di sviluppare una depressione, già Beck (1976) nella sua teoria classica mette in evidenza che tra le assunzioni disfunzionali tipiche delle persone con depressione si distingue una tendenza a pensare di dover essere perfetti in qualsiasi compito.

Secondo Shafran et al., 1999, il perfezionismo indica l’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla risoluta ricerca di standard personali particolarmente esigenti ed auto-imposti in almeno un dominio altamente saliente, nonostante le conseguenze avverse (Shafran et al., 1999). Ciò è accompagnato dalla tendenza ad una valutazione critica del proprio comportamento (Bastiano et al., 1994; Frost et al., 1990).

Interessante è la distinzione che Hamacheck (1978) propone tra il perfezionismo positivo e il perfezionismo negativo: mentre nel perfezionismo positivo l’errore è visto come una possibilità di crescita e non si teme il giudizio negativo degli altri, nel perfezionismo negativo sono costanti la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; per contro si tende a sottolineare i propri errori. Questo determina un abbassamento dell’autostima perché si crede che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare costantemente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati. Le persone che valutano il valore di sé in base alla loro capacità di evitare l’errore, di fronte ad esso possono invece sentirsi facilmente colpevoli, inefficaci e inadeguate. La crisi che ne può conseguire può avere dei connotati depressivi, in questo senso la realtà dei social media permetterebbe di tenere sotto controllo un maggior numero di variabili legati all’immagine di sé proposta e quindi di ridurre le possibilità di errore.

Questo ricerca ha come obiettivo quello di verificare in che modo i costrutti sopra descritti, quali autostima, perfezionismo patologico, ansia, depressione e capacità metacognitive si correlano e si influenzano in relazione alla dipendenza da internet.

Campione

Il campione è composto da 398 soggetti, di cui 74.4% di sesso femminile, 25.6% maschi. L’età media del campione è di 34,7 anni (d.s.= 9,9) compresa in un range dai 18 ai 70 anni. Tutti i dati sono stati raccolti in maniera anonima.

Le piattaforme social maggiormente utilizzate risultano essere Facebook, Instagram, YouTube e Whatsapp. In generale, i soggetti che hanno compilato il questionario hanno dichiarato di utilizzare principalmente i social per:

  • essere connesso con i miei amici (79.1%);
  • cercare eventi nella mia città (53,3%);
  • evadere dalla quotidianità (36,4%);
  • divertirmi (36.2%);
  • cercare un lavoro (16.1%);
  • sentirmi meno solo/a (10.1%);
  • conoscere persone nuove (7%);
  • trovare un/a partner (2%).

Il 68,1% del campione della ricerca trascorre da una a tre ore giornaliera utilizzando social media, circa il 25% dalle tre alle cinque ore (Fig.1 del poster allegato).

Il reclutamento dei soggetti è avvenuto on-line, attraverso l’utilizzo della piattaforma google moduli, ed è stato chiesto di compilare i seguenti questionari:

  • Internet Addiction Test (IAT) che indaga la dipendenza da internet;
  • Metacognition Questionnaire 30 (MCQ-30) che indaga le credenze metacognitive;
  • Multidimensional Perfectionism Scale (MPS) che indaga il perfezionismo;
  • Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES) che valuta l’autostima;
  • Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) che valuta i sintomi d’ansia e di depressione.

Procedura

Per quanto riguarda le analisi statistiche, attraverso un’analisi correlazionale abbiamo preso in considerazione l’Internet Addiction Test (IAT) come variabile dipendente ed è stata correlata con l’autostima, il perfezionismo, l’ansia, la depressione e le capacità metacognitive, che costituiscono le variabili indipendenti.

Risultati

Per quanto riguarda le analisi correlazionali i soggetti che presentano una dipendenza da social network mostrano una bassa autostima, perfezionismo patologico, ansia e depressione (p<.05).

Dipendenza da Internet e social network: i costrutti correlati al fenomeno

Correlazioni tra IAT e MPS, RSES, ANX e DEP.

Inoltre, il gruppo degli uomini mostra in aggiunta, rispetto al gruppo delle femmine, una relazione positiva rispetto alla credenza positiva sul rimuginio (Fig.3 del poster allegato), cioè tendono a pensare che rimuginare possa servire (p<.05).

Inoltre, è stata effettuata un’analisi della varianza per verificare se vi fossero delle differenze di genere e non emerge nessuna differenza (p=.05).

Discussione

I soggetti che presentano una dipendenza da social mostrano perfezionismo patologico, una bassa autostima, alti livelli di ansia e depressione. Lo scopo della presente ricerca quindi viene confermato. Inoltre, il gruppo degli uomini mostra in aggiunta, rispetto al gruppo delle femmine, una relazione positiva rispetto alla credenza positiva sul rimuginio, cioè tendono a pensare che rimuginare possa servire.

Un’ipotesi di lavoro futura è quella di approfondire la relazione tra le variabili, per esempio di causa effetto o mediazione, allo scopo di aumentare la consapevolezza sul funzionamento di queste nuove dipendenze ed eventualmente ampliare le aree di trattamento.

 

POSTER DI RICERCA – SOCIAL DELLE MIE BRAME: CHI E’ IL PIU’ BELLO DEL REAME?

Che fine ha fatto l’isteria?

Le discussioni tra Freud e Breuer intorno all’isteria in generale, e al caso di Anna O. in particolare, fanno da protagoniste ad un dibattito che, a partire dalle prime concettualizzazioni di Charcot, a distanza di un secolo non si è mai placato, nonostante la moderna psichiatria la vorrebbe ormai una patologia desueta, appartenente a un mondo ottocentesco e prettamente psicoanalitico, utile solo a narrare la storia della psicologia.

 

Un interesse dovuto probabilmente al fatto che parlare di Isteria significa parlare della nascita della talking cure, delle teorie sulla rimozione, del rapporto tra conscio e inconscio, del transfert e controtransfert. Avere sintomi somatici importanti in apparente assenza di patologie organiche sottostanti, costrinse la comunità medica ad una rinnovata percezione del rapporto tra mente e corpo.

Per Freud l’isterico era colui che soffriva di “reminiscenze”, l’accento veniva posto sulla vita fantasmatica del soggetto, sulla conversione della libido in qualcosa di somatico. Il trauma e la sofferenza psichica trovavano espressione tramite il corpo malato ed il materiale onirico e fantasmatico divenne la strada maestra per la scoperta dell’inconscio (Studi sull’isteria, Freud e Breur 1893/1895). Quindi c’è isteria laddove a forti pulsioni ed emozioni inconsce, impossibili da dichiarare ed agire, corrispondono disturbi somatici; là dove un conflitto irrisolvibile tra desiderio e realtà mi costringe ad alterare il mezzo di comunicazione per superare la situazione (ad esempio con alterazioni della funzione motoria, della memoria, della coscienza dell’io con dissociazione o depersonalizzazione; con alterazione delle funzioni elevate della psiche utilizzando ad esempio la menzogna o la scissione; o con alterazioni della relazione con istrionismo o teatralità). Una patologia che veicola un messaggio nascosto, solitamente traumatico.

Nel DSM-II (APA, 1968) viene data all’isteria una visione unitaria sotto l’etichetta di “personalità isterica”, così descritta:

Eccitabilità, instabilità emotiva, iperattività e drammatizzazione; quest’ultima è sempre volta a richiamare l’attenzione ed è spesso seduttiva, che il paziente ne sia consapevole o meno. Questi pazienti sono anche immaturi, incentrati su di sé, spesso vanitosi, e di solito dipendenti dagli altri. Questo disturbo deve essere differenziato dalla nevrosi isterica (caratterizzata dai sintomi di conversione o dissociazione).

La sua vita all’interno del manuale diagnostico è breve, in quanto già con la terza edizione del DSM (1980) l’isteria scompare per fare spazio al termine “istrionico”.

Passando poi per il DSM-IV fino all’odierno DSM-V, l’isteria è stata redistribuita in diverse categorie diagnostiche: il disturbo dissociativo, il disturbo somatoforme, il disturbo di conversione, il disturbo istrionico di personalità. Per non parlare poi del fatto che molti sintomi un tempo considerati isterici possiamo ritrovarli nelle disfunzioni sessuali, nei disturbi dell’alimentazione e in quelli ansiosi e fobici.

Una descrizione ed una divisione questa che non sempre convince. Secondo alcuni autori, infatti (Lingiardi, 2004), aver separato i disturbi dissociativi da quelli di conversione significa aver frammentato in modo inappropriato i sintomi psichici da quelli fisici, considerandoli come quadri diagnostici a sé stanti.

Ma quali sono le motivazione alla base di questa scelta?

Già la radice etimologica del termine inventato da Ippocrate ( dal greco hysteron, ovvero “utero”) ha causato all’isteria non pochi problemi. Dire “isterica” significava infatti dire “donna” e soprattutto donna incapace e inadeguata, inferiore; risultava quindi essere un’etichetta troppo discriminante e misogina per non essere sostituita dal più politicamente corretto termine “istrionico”, riferibile invece ad entrambi i sessi.

Troppo legata inoltre l’isteria ad una concezione psicoanalitica ed al suo quadro teorico di riferimento (con i concetti di inconscio, rimozione e transfert).

Ma ciò che probabilmente più di ogni altra cosa non ha soddisfatto la moderna psichiatria è stata l’estrema varietà della sintomatologia isterica, troppo generica e con modalità di espressione così variegate da risultare impossibile fornirle un’ adeguata cornice concettuale, né tantomeno ridurla a quell’elenco di items tanto cari alla moderna modalità diagnostica di tipo nosografico.

Inoltre, l’isteria si è modellata all’interno di un particolare periodo storico, dal quale sembra dipendere. I soggetti isterici descritti da Freud erano donne della classe borghese dell’ottocento, appartenenti a famiglie colte, ma condizionate da concezioni rigide, moraliste ed ipercontrollanti, soprattutto per quello che riguardava i costumi sessuali ed il rapporto con il corpo. Una società in cui gli istinti e le pulsioni sessuali e aggressive venivano tenute a bada da istanze morali indiscutibili.

Quindi superati e scomparsi certi atteggiamenti scomparsa anche l’isteria? Il cambiamento radicale della società ha fatto sì che le manifestazioni isteriche non avessero più ragione di esistere? Diversi autori si sono espressi al riguardo.

Secondo Sergio La Rosa (2014) in realtà la modalità isterica si trova “diluita nel mare della cultura post-moderna”, la quale in qualche modo incoraggia la manipolazione ed alcuni usi e costumi nella misura in cui questi permettono di raggiungere determinati obiettivi ed il successo. I vantaggi di tali modalità fanno sì che l’isteria non venga considerata una patologia nella società contemporanea.

Semi (1995) imputa l’eclissi dell’isteria dalla psichiatria moderna alla “resistenza attuale alla psicoanalisi” ma sottolinea “come proprio questa eclissi faccia parte delle caratteristiche fondamentali dell’isteria, grande simulatrice”.

Un camaleonte quindi, che si modella e si modifica all’interno di un determinato contesto e periodo storico, la quale, nonostante da molti venga rimossa, continua a ritornare, “indossando maschere diverse dietro le quali, però, ritroviamo sempre la stessa malattia” (Mattioli, Scalzone, 2002). Una patologia che inganna il clinico e l’osservatore, in quanto l’isterico per sua natura prende la forma che interessa all’oggetto di cui vuole catturare l’attenzione (Bogousslavsky,2015).

Il cambiamento sociale e culturale ha però quantomeno portato modificazioni nelle manifestazioni isteriche. Ciò che frequentemente si osserva sono: la tendenza alla drammatizzazione, la suggestionabilità, l’egocentrismo, la tendenza ad erotizzare i rapporti, il ricercare l’attenzione per mezzo del corpo, la tendenza alla dissociazione, l’uso eccessivo di fantasie, la labilità affettiva, la tendenza alla somatizzazione, lo stile cognitivo impressionistico e poco orientato ai dettagli.

Le nuove forme di isteria vengono considerate non tanto e non solo come conflitto tra le tre istanze Es, Io e Super Io, ma come manifestazioni di una falla nel Sé, dove l’altro è chiamato a riempire questa mancanza tramite una funzione di rispecchiamento. Brenman (1985) vede l’isteria come una difesa contro la psicosi, dove il ricorso alla fantasia e all’identificazione proiettiva servono a negare la realtà psichica e dove la relazione con l’oggetto esterno è funzionale a tenere insieme il soggetto e ad evitare cadute depressive e psicotiche.

Rintracciamo quindi i sintomi dell’isteria in tutte la patologie del “vuoto” (molto dell’isteria è finito nel calderone del disturbo borderline).

Accanto a chi vorrebbe dire spariti quantomeno gli spettacolari sintomi di conversione e le grandi crisi isteriche, c’è chi nelle corsie degli ospedali e nei pronto soccorsi assiste pazienti (anche in età evolutiva) che manifestano sintomi di conversione importanti come paralisi, svenimenti, deficit sensoriali. Perché? Come è possibile dato che il contesto di riferimento è così cambiato?

Forse il contesto è cambiato, ma i conflitti e le pressioni continuano ad essere vive e presenti. I ritmi di vita sono incalzanti e le frustrazioni massicce, la malattie del controllo dilagano in risposta ad una società che richiede di essere belli, curati ma non narcisisti, performanti e competitivi nel lavoro. Il rapporto con il proprio corpo e con la propria sessualità si è solo adattato al nuovo contesto, dove i disturbi alimentari aumentano e dove, soprattutto alle donne, si richiede di essere sì sessualmente libere, ma comunque “rispettabili”.

L’inibizione, fulcro delle problematiche nell’epoca freudiana, lascia spazio ora a questioni identitarie e di regolazione delle emozioni e del rapporto con gli altri, ma ora come allora i pazienti non riescono ad esprimere con parole vissuti psichici conflittuali ed è quindi il corpo a parlare, e a volte a “bloccarsi”, come nel caso degli svenimenti (in un curioso parallelismo con i sintomi descritti da Breur su Anna O., donna molto colta che parlava diverse lingue quando stava bene, ma che spesso balbettava).

Ponendo come centrale il tema dell’identità e dell’espressione della propria soggettività, non deve stupire che un gran numero di pazienti con tale sintomatologia siano adolescenti, i quali si ritrovano a costruire la propria identità e ad attraversare il difficile passaggio dalla sessualità infantile a quella adulta in un a società in cui la comunicazione passa perlopiù attraverso strumenti tecnologici che depersonalizzano e creano un distacco ed una mancanza di ascolto da parte dei pari e degli altri gruppi di riferimento.

A ridare dignità diagnostica all’isteria è stato anche il Manuale Diagnostico Psicodinamico ( PDM Task Force, 2006), il quale ha re-inserito i disturbi isterici di personalità all’interno dell’asse P (Pattern e disturbi di personalità). Il PDM vede i disturbi isterici ed istrionici legati da un continuum e colloca i pazienti isterici ad un livello nevrotico, mentre quelli istrionici ad un livello borderline di gravità.

L’isteria sembra quindi ancora fin troppo presente e reale nell’epoca moderna per poter smettere di parlarne. L’auspicio è che il dibattito inerente l’isteria e la sua concettualizzazione non si fermi solo al mondo psicoanalitico, ma possa coinvolgere ed interessare tutte le diverse cornici teoriche della psicologia ed il mondo psichiatrico, che dal DSM viene rappresentato, affinché si giunga ad una concettualizzazione condivisa delle sue origini e delle sue manifestazioni così da poterne migliorare il riconoscimento e la presa in carico da una parte e la modalità di intervento dall’altra.

 

 

La vita bugiarda degli adulti (2019) di E. Ferrante – Recensione del libro

A novembre 2019 è uscito l’ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, ambientato tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. Com’è noto, il nome della scrittrice è uno pseudonimo e non si conosce la sua vera identità; i suoi romanzi hanno riscosso molto successo.

 

Giovanna, la giovane protagonista, ha dodici anni e dal racconto della sua vita emergono aspetti relazionali ed emotivi: i rapporti con i genitori, l’amicizia, l’adolescenza, la difficoltà a capire gli adulti e altro ancora.

Già il titolo del romanzo introduce un tema centrale: la mancanza di chiarezza e sincerità che di frequente può assumere il comportamento degli adulti, la difficoltà che questi possono avere nel mantenere una coerenza tra i principi e le regole che cercano di trasmettere ai figli e il proprio atteggiamento (il modello che offrono).

Tutto sembra procedere bene, Giovanna si sente molto apprezzata dal padre e stima entrambi i suoi genitori. La sua famiglia è in stretta amicizia con una coppia che ha due figlie (una coetanea e l’altra più piccola di due anni) e anche loro sono amiche.

Ma, in modo inatteso, Giovanna, che è sempre andata bene a scuola, ha un improvviso calo del rendimento. Un pomeriggio, dopo che le la madre era stata a parlare con gli insegnanti, la ragazzina sente i genitori discuterne, questi si trovano in cucina e non immaginano di essere ascoltati. La madre sta riassumendo ‘le lagne’ dei professori e cerca di giustificarla tirando in ballo i cambiamenti della prima adolescenza, ma il padre non sembra essere dello stesso parere e risponde:

L’adolescenza non c’entra: sta facendo la faccia di Vittoria.

Quest’ultima era una sorella del padre, racconta Giovanna:

Una donna nella quale – gliel’avevo sentito dire [dai genitori] fin da quando avevo memoria – combaciavano alla perfezione la bruttezza e la malvagità.

Sentire queste parole e avvertire un cambiamento dell’atteggiamento del padre verso di lei è tutt’uno. La protagonista spiega come si trovasse in un periodo di grande fragilità:

Avevo le mestruazioni da quasi un anno, i seni erano troppo visibili e me ne vergognavo, temevo di puzzare, mi lavavo in continuazione, andavo a dormire svogliata e mi svegliavo svogliata. L’unico mio conforto, in quel periodo, l’unica mia certezza, era che lui adorava assolutamente tutto di me.

Dall’episodio citato prende avvio un’esasperazione delle insicurezze adolescenziali di Giovanna che cerca faticosamente di comprendere il mondo degli adulti e cosa può essere cambiato. Per cercare di dare un senso alle parole del padre, decide di incontrare la zia (che non vede mai, perché la sua famiglia non la frequenta) così da potersi fare un’idea dell’aspetto e del modo di essere di questa persona alla quale, secondo il padre, lei cominciava ad assomigliare.

La confusione in cui si trova Giovanna è alimentata dalla difficoltà dei genitori nel mantenere atteggiamenti adeguatamente chiari e uniformi. La mamma delle sue amiche, coinvolta nelle diverse vicende che si svolgono, le dice:

[…] in quello che è successo non c’è colpa, si fa del male senza volerlo.

Tuttavia, seppure non ci fosse colpa, la mancanza di sincerità, la vita bugiarda appunto, contribuisce a creare problemi al processo di crescita dei figli. Ne è un esempio un passaggio de La vita bugiarda degli adulti nel quale Giovanna spiega a una delle sue amiche come lei in un’occasione si fosse vergognata perché riteneva che i genitori si vergognassero di lei, che non la ritenessero degna di loro. E la risposta dell’amica rivela una delle reazioni che possono avere i figli quando si trovano a ‘scoprire’ le mancanze dei genitori e ne rimangono delusi:

Non voglio essere degna, voglio essere indegna, voglio finire male.

Il romanzo tratteggia bene i personaggi e con stile scorrevole; in particolare delinea il tentativo della protagonista e delle sue amiche di trovare una propria strada, di comprendere il mondo degli adulti, di fare i conti con le inevitabili delusioni, di muoversi all’interno delle amicizie e di entrare nel mondo della sessualità.

Attraverso varie vicende Giovanna cresce e un giorno si trova a constatare che in effetti la sua faccia non aveva nessuna armonia, come quella della zia Vittoria, ma l’errore era stato farne una tragedia. La ragazza fa una riflessione che denota il suo processo di maturazione:

Basta guardare anche solo per un attimo chi aveva il privilegio di una bella faccia fine e si scopriva che nascondeva inferni non diversi da quelli espressi da facce brutte e grezze. Lo splendore di un viso, arricchito tra l’altro dalla gentilezza, covava e prometteva dolore ancor più di un volto opaco.

Con toni un po’ disillusi viene accennata una questione importante: l’attribuzione che talvolta viene fatta, in particolare nella fase giovanile della crescita, della propria sofferenza all’aspetto fisico, con l’illusione che le persone che appaiono più gradevoli di aspetto non possano ‘nascondere’ dentro di sé altrettanta sofferenza.

Il passo descritto tocca un aspetto delicato dello sviluppo dell’identità personale. In questo caso la riflessione prende avvio da un momento di insoddisfazione personale della giovane protagonista, amplificato dalle parole che sente dire dal padre e che le rimandano un improvviso cambiamento della percezione di sé, visto che credeva il padre apprezzasse tutto di lei. Ma cosa intendeva dire il padre? Come sempre accade, quello che ci permette di comprendere i vissuti emotivi è il modo in cui il soggetto attribuisce significato alla situazione, ma questo non sempre corrisponde pienamente alle reali intenzioni dell’altro.

Di più non è opportuno dire…i romanzi vanno letti con i ‘propri occhi’.

 

Due cuori che battono all’unisono: il ruolo della soddisfazione sessuale nel mediare la sincronizzazione fisiologica nella coppia

Nella relazione di coppia la sintonizzazione tra gli individui assume una particolare rilevanza. Quest’influenza dinamica esercitata tra i membri della coppia è più forte nelle relazioni caratterizzate da vicinanza emotiva e intimità e la forza della sincronizzazione risulta mediata dalla soddisfazione relazionale. E’ possibile che questo si traduca in una migliore capacità di rispondere ai bisogni del proprio partner anche durante l’attività erotica?

 

L’uomo è un animale sociale, diceva Aristotele già nel IV secolo a.C., tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società: ma fino a che punto questo è un istinto primordiale e non frutto di mera necessità? Rispondere a questa domanda è complesso e chiama in causa diversi aspetti dell’evoluzione della specie che ancora sfuggono alla nostra comprensione.

Tuttavia, è probabile che tutto possa aver origine durante lo sviluppo del cervello umano il quale è più complesso di quello delle altre specie animali tanto da richiedere un “costo evolutivo”: alla nascita e per svariati anni successivi, il corpo e il sistema nervoso del cucciolo di uomo maturano lentamente per raggiungere la forma adulta mantenendo un certo grado di plasticità per tutta la vita; questo processo prende il nome di neotenia. Da un lato questo permette al nostro cervello di continuare a maturare anche fuori dall’utero; dall’altro, una crescita così lenta fa sì che il cucciolo di uomo rimanga dipendente dalle cure degli altri per lungo tempo, necessitando di caratteristiche che gli consentano di stringere legami e comunicare con gli altri membri del proprio gruppo sociale.

Sviluppando un attaccamento con il proprio caregiver, ed in seguito imparando a stringere relazioni nella vita comunitaria, il soggetto crescerà in interdipendenza dagli altri apprendendo dall’osservazione di altri e partecipandone alla vita emotiva. Biologicamente l’uomo sembra programmato per la connessione sociale, ne è una prova la capacità di provare empatia, la presenza del sistema specchio (con funzione analoga a quella dei neuroni specchio) o la sincronizzazione di diversi indici fisiologici tra individui legati da vicinanza emotiva (Butler, 2011; Helm, Sbarra, &Ferrer, 2012; Palumbo et al., 2017).

Secondo la Social Baseline Theory (Beckes&Coan, 2011), questa capacità sarebbe una strategia di conservazione delle risorse cognitive e metaboliche; sarebbe infatti più semplice regolare le emozioni in contesti sociali che non individualmente come confermato dall’effetto che la presenza di altri individui sembra avere sull’attivazione delle aree legate alla paura, diminuendone l’attività (Coan, Schaefer, & Davidson, 2006).

La relazione di coppia è sicuramente un contesto relazionale nel quale la sintonizzazione o co-regolazione tra gli individui assume una particolare rilevanza. È stato dimostrato come questa influenza dinamica esercitata tra i membri della coppia sia più forte nelle relazioni caratterizzate da vicinanza emotiva e intimità, e che la forza della sincronizzazione risulti mediata dalla soddisfazione relazionale (Helm, Sbarra, Ferrer, 2014).

La teoria dell’attaccamento adulto suggerisce che la soddisfazione relazionale e altre qualità del rapporto come l’empatia, possano modulare la capacità dei partner di influenzarsi reciprocamente in termini fisiologici (Diamond, 2001); inoltre, applicando tale prospettiva diadica ad altri aspetti delle relazioni di coppia, si è scoperto come prendendo in considerazione indici come soddisfazione relazionale, frequenza sessuale, funzionalità sessuale, salute fisica e contatto intimo riferiti da un individuo fosse possibile predire la soddisfazione sessuale del suo partner (Pascoal et al., 2017).

Tuttavia, dopo le prime ricerche di Masters & Johnson (1966) sulla risposta sessuale nell’uomo e nella donna, sono scarseggiati gli studi che prevedessero un approccio diadico e psicofisiologico alle relazioni intime: se la sincronizzazione fisiologica comporta una maggiore soddisfazione relazionale, maggiore vicinanza emotiva e la capacità di identificare i bisogni emotivi del proprio partner, è plausibile ipotizzare che questo si traduca in una migliore capacità di rispondere ai bisogni del proprio partner anche durante l’attività erotica e che una maggiore vicinanza nell’intimità comporti, conseguentemente, una più accurata sintonizzazione tra i partner nei termini di sincronia degli indici fisiologici.

Per testare questa ipotesi Freihart e Meston (2019) hanno coinvolto 28 coppie eterosessuali impegnate in una relazione da almeno 3 mesi che avessero avuto rapporti sessuali nel mese precedente. Per escludere la presenza di una disfunzione sessuale è stato somministrato alle donne il Female Sexual Functioning Index (FSFI, Rosen et al., 2000) che esplora il desiderio, l’eccitamento, la lubrificazione, la frequenza orgasmica, il dolore e la soddisfazione sessuale in generale, mentre agli uomini è stato somministrato l’International Index of Erectile Dysfunction (IIED, Rosen et al., 1997). Ogni membro della coppia ha fornito poi un indice della propria soddisfazione sessuale rispondendo alla Sexual Satisfaction Scale, presente per uomini e donne (Meston&Trapnell, 2005), composta da 30 items valutanti il benessere sessuale relativo a soddisfazione, comunicazione, compatibilità, preoccupazioni relazionali e preoccupazioni personali riguardo al sesso.

Le coppie hanno poi svolto tre compiti sedendo l’uno di fronte all’altro mentre la loro frequenza cardiaca veniva misurata mediante un ECG; va specificato che sebbene il focus di questo esperimento fosse indagare il ruolo della soddisfazione sessuale come moderatore, i compiti assegnati non erano di natura sessuale a causa della mancanza di strumenti validati in ricerche precedenti. Si è scelto dunque di predisporre dei compiti che elicitassero diversi gradi di coinvolgimento fra i due membri della coppia: un gazing task (n.d.t.: compito del fissare l’altro) che inducesse un leggero stress, un mirroring task che elicitasse il contagio emotivo con la richiesta di rispecchiare al meglio delle proprie capacità i segnali fisiologici dell’altro senza ricorrere a gesti e parole, ed infine un compito di controllo ovvero mantenere uno stato rilassato, indossando una mascherina sugli occhi usata come baseline di riferimento.

I risultati hanno mostrato come la sincronizzazione fisiologica fosse reciproca, ovvero la frequenza cardiaca del partner maschile poteva predire la frequenza cardiaca della partner donna e viceversa, dove però sembrava essere più accurato il modello in cui la frequenza dell’uomo fosse predittrice di quella della compagna. Nel 60,7% delle coppie si è raggiunto un livello di sincronizzazione fisiologica statisticamente significativo permettendo di analizzare il ruolo di moderatore della soddisfazione sessuale sul grado di coregolazione tra gli individui: l’effetto moderatore risultava non significativo nel compito utilizzato per stabilire la baseline; contrariamente alle aspettative anche durante il gazing task tale moderazione risultava assente suggerendo che la sincronizzazione potesse avvenire solo in quelle condizioni che inducevano contagio emotivo più che una semplice attivazione fisiologica. A conferma delle ipotesi iniziali degli autori, durante il compito di mirroring si è potuto verificare l’esistenza di un effetto moderatore della soddisfazione sessuale sulla sincronia esibita dai membri di una coppia, ancora una volta con la frequenza cardiaca maschile come miglior predittore di quella femminile, che non l’inverso; la simpleslopeanalysis ha inoltre dimostrato come fossero i punteggi più alti nella soddisfazione sessuale a moderare l’effetto sulla sincronizzazione piuttosto che quelli più bassi (rispettivamente una deviazione standard sopra o sotto la media).

È importante sottolineare che i risultati ottenuti non indicano la direzionalità dell’effetto riscontrato, lasciando aperta la possibilità che la soddisfazione sessuale possa essere dovuta alla sincronizzazione fisiologica grazie ad un effetto di contagio emotivo tanto quanto il suo inverso, ovvero che la sincronizzazione possa essere un effetto dovuto ad una maggiore soddisfazione sessuale, studi futuri dovranno verificare questa ipotesi.

 

Master annuale: diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità – Firenze, Ottobre 2020

Tra ottobre 2020 e ottobre 2021 si terrà a Firenze un master in cui esperti nazionali e internazionali tratteranno delle psicoterapie evidence-based per i disturbi di personalità

 

Perché un master sui disturbi di personalità?

Secondo stime recenti almeno il 10-12% della popolazione soffre di un disturbo di personalità, rappresentando una quota rilevante delle persone che accedono agli studi e ai centri di psicoterapia. A prescindere poi dalla diagnosi e dal problema riportato la comprensione del funzionamento di personalità offre al clinico una prospettiva privilegiata nel costruire e monitorare la terapia.

Allo stesso tempo chiunque si accinga ad impostare una diagnosi o una psicoterapia per i disturbi di personalità si confronta con una moltitudine di alternative. Se ci concentriamo sull’assessment abbiamo ad oggi almeno 3 sistemi “ufficiali” e dunque riconosciuti: il modello standard del DSM-5 suddiviso in 3 cluster e 10 disturbi; il modello alternativo del DSM-5 suddiviso in 3 moduli; il sistema transdiagnosico dell’ICD-11 con 6 tratti o pattern prominenti! Se prendiamo poi in considerazione le linee guida sui trattamenti abbiamo pochissime indicazioni su pochi e specifici disturbi (quasi sempre sullo studiatissimo Disturbo Borderline di Personalità). Anche solo restando nella cornice cognitivista troviamo oltre al protocollo CBT standard, la Dialectical Behavior Therapy, la Schema Therapy, la Terapia Metacognitiva Interpersonale e tanti altri ancora.

Insomma, un tema tanto rilevante appare allo psicoterapeuta che ci si confronta assai complesso e di difficile comprensione. Senza contare delle difficoltà relazionali che i pazienti con disturbi di personalità ingenerano visto che proprio la dimensione interpersonale è la loro maggior fonte di sofferenza.

Struttura, docenti e temi del master

Il Master Annuale “Diagnosi e Trattamento dei Disturbi di Personalità” nasce con l’ambizione di colmare un vuoto presente nel panorama formativo italiano. Ad oggi non è infatti presente alcun master rivolto specificamente a psicologi psicoterapeuti, psichiatri o specializzandi in tali discipline. Tages Onlus e le Scuole di Psicoterapia Cognitiva della Associazione di Psicologia Cognitiva (APC-SPC) hanno dunque sviluppato un percorso formativo basato sulle più recenti evidenze della letteratura scientifica ed in linea con gli standard delle Linee Guida Internazionali, con particolare riferimento alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda. Il master si articola in 24 giornate e 4 moduli che affronteranno i fondamenti teorici e clinici dei disturbi di personalità, le procedure diagnostiche e di inquadramento, gli interventi e i protocolli più efficaci nel trattamento delle dimensioni ricorrenti e dei disturbi.

Al fine di formare chi quotidianamente si occupa di salute mentale alla diagnosi e al trattamento dei disturbi di personalità, secondo un approccio il più possibile pratico ed evidence-based, è stato costituito un corpo docenti composto da docenti di fama internazionale e da clinici esperti: Arnoud Arntz, Barbara Basile, Antonino Carcione, Veronica Cavalletti, Simone Cheli, Giancarlo Dimaggio, Andrea Fossati, Francesco Gazzillo, Cesare Maffei, Francesco Mancini, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Nicola Petrocchi, Raffaele Popolo, Elena Prunetti, Sophie Rushbrook, Antonio Semerari, Antonella Somma, Cecilia Trevisani.

Obiettivi formativi e certificazioni

Al termine del corso i partecipanti avranno acquisito le competenze teoriche e pratiche necessarie per comprendere il funzionamento del paziente e per attuare l’intervento psicoterapeutico ritenuto più adeguato per la problematica presentata. I docenti guideranno gli iscritti alla comprensione e all’utilizzo di alcuni degli approcci ad oggi ritenuti più efficaci nel trattamento dei disturbi di personalità. Particolare attenzione verrà dedicata alla declinazione operativa dei modelli presentati nella pratica clinica, tramite strumenti teorici basati su dimensioni transdiagnostiche ed esercizi esperienziali in aula (role-playing, simulate, supervisioni, etc.).

Gli iscritti potranno conseguire, oltre a 75 crediti ECM, l’attestato del Master Annuale “Diagnosi e Trattamento dei Disturbi di Personalità”. Per alcune lezioni verrà rilasciato un ulteriore attestato di partecipazione alle giornate in quanto riconosciute dalle rispettive associazioni scientifiche: EMDR Italia, Compassionate Mind Italia, MITHS (Metacognitive Interpersonal Therapy Society), Centro Terapia Metacognitiva Interpersonale (CTMI). Verranno inoltre rilasciati le seguenti certificazioni: “RO DBT Introductory Training” (Radically Open Ltd) e “Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo” (CTMI). Le lezioni tenute da A. Arntz e B. Basile saranno infine certificate dalla International Society for Schema Therapy (ISST) come Continuing Professional Development (CPD).

I posti sono limitati e le iscrizioni saranno possibili a partire del 2 marzo 2020.

 

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L’inizio della terapia sistemica: chi convocare in seduta?

La proposta della terapia sistemica rispetto alla convocazione in seduta è molto articolata e si differenzia sulla base delle caratteristiche del caso specifico.

 

Andare dello psicologo: dall’idea alla prima seduta

Quando una persona decide di rivolgersi ad uno psicologo per un problema che riguarda lei o un suo familiare, di solito lo fa dopo aver tentato altre strade: magari può pensare che il malessere sia passeggero, oppure può parlarne con un amico o un familiare, o magari con il proprio medico di base. Poi, vedendo che le difficoltà persistono, approda allo psicologo.

Prima di andarci probabilmente pensa alla seduta, alla stanza di terapia, agli argomenti di cui parlare, ma raramente crede che lo psicologo farà una proposta su chi convocare all’incontro. Spesso il paziente ritiene che spetti a lui decidere chi deve essere presente, e probabilmente lo fa a ragion veduta, visto che, per la maggior parte degli indirizzi psicoterapeutici, il tema della convocazione non è oggetto di riflessione professionale.

Al contrario, per l’approccio sistemico-relazionale, la scelta di chi convocare alle sedute non è da lasciare al caso: essa ha di per sé un valore terapeutico e da essa spesso dipende l’esito dell’intero intervento (Di Blasio, Fischer e Prata, 1986).

Il vero inizio della terapia sistemica è dunque la telefonata del paziente allo psicologo, momento fondamentale per approfondire la richiesta: il problema è di chi telefona o di un suo familiare? Qual è l’età del paziente e quale periodo del ciclo di vita sta attraversando? Quale il problema? Queste sono alcune delle domande che lo psicologo pone a chi è dall’altra parte del telefono, per valutare chi convocare al primo appuntamento.

La richiesta riguarda chi telefona?

Se la richiesta riguarda chi telefona, possiamo pensare, dopo opportuna verifica, che chi ci sta parlando sia consapevole di avere una difficoltà, abbia raccolto una serie di informazioni che l’hanno portato a contattare uno psicologo, abbia la capacità di esporre al professionista il suo problema ed abbia pianificato le azioni legate allo svolgimento delle sedute (è in grado di recarsi agli incontri e, se necessario, di pagarli). Queste variabili, insieme ad altre cui accennerò successivamente, fanno propendere per una convocazione individuale, perché lo psicologo può ritenere che il paziente sia sufficientemente motivato alla terapia ed abbia le risorse per trarne giovamento. Ma cosa succede se il paziente non chiama personalmente? Probabilmente non è consapevole di avere un problema, oppure non è in grado di contattare lo psicologo ed esporglielo: quale sarà dunque il giovamento che potrà trarre da sedute unicamente individuali? Probabilmente poco o nessuno. A questo punto diventa importante capire chi e perché chiama al posto suo: gli scenari possibili sono molti. Il caso più frequente si ha quando il paziente è un minore e chi telefona è un genitore: in questo caso, il professionista dovrà pensare di coinvolgerlo, come vedremo nel secondo punto. Se il paziente è maggiorenne, perché dunque non chiama personalmente? E’ affetto da una grave patologia fisica o psichica, che lo rende dipendente dal sistema di riferimento? Oppure, pur non avendo una patologia conclamata, non ha consapevolezza delle sue difficoltà? O magari, non ha realmente un problema, ma chi telefona pensa che lo abbia? Quali che siano le ragioni, è chiaro che in questo caso la convocazione individuale del paziente designato non è da preferire, pena il fallimento dell’intervento. E’ invece più utile procedere ad una convocazione allargata al sistema di riferimento.

Quanti anni ha il paziente e quale fase del ciclo di vita sta attraversando?

Bambini

Veniamo al secondo punto. Se il paziente è minorenne, è difficile che si prenda la briga di chiamare personalmente lo psicologo: spesso tutte le decisioni che riguardano la sua salute, anche psicologica, sono demandate ai suoi genitori, o a chi si occupa di lui. Ma non solo. Come afferma Miriam Gandolfi (2008), se gli adulti possono contare su una relativa indipendenza dagli altri, da bambini le cose vanno diversamente. La scuola e le attività extrascolastiche sono regolamentate e supervisionate da adulti, che, comunicando con la famiglia, le consentono di avere sempre la regia della situazione. Anche nel tempo libero si osserva un fenomeno simile: se in passato i bambini, soprattutto se vivevano in campagna, erano solitamente liberi di muoversi lontano dagli sguardi degli adulti, oggi è impensabile che essi godano di una simile indipendenza, soprattutto se vivono in ambienti urbanizzati. E’ quindi naturale, in questa fase del ciclo di vita, che chi si prende cura di loro ed ha un livello di decisionalità così alto su ciò che li riguarda sia coinvolto nel problema, sia perché lo co-costruisce, sia perché è una risorsa per affrontarlo.

Adolescenti

Ma cosa succede se il paziente è adolescente? L’adolescenza è un’età molto particolare, perché presenta alcuni aspetti in comune con l’infanzia, pur differenziandosi nettamente da essa. I ragazzi e le ragazze, anche se godono di una libertà maggiore rispetto ai bambini, sono comunque dipendenti dal contesto familiare: i genitori restano un punto di riferimento fondamentale dal punto di vista emotivo, sia quando i loro figli decidono di aderire ai loro valori, sia quando tentano di differenziarsi da essi in modo netto e dirompente. Tuttavia, rispetto a quanto accade per i bambini, il gruppo dei pari, nel quale l’adolescente vive esperienze diverse rispetto a quelle familiari, è spesso un punto di riferimento stabile ed un importante luogo di formazione dell’identità. Lo psicologo, dopo una prima fase di consultazione familiare in cui è possibile formulare un’ipotesi sistemica ed una strategia di intervento condivisa, può prevedere, a seconda del caso, una parte di intervento individuale in cui il paziente potrà parlargli del suo mondo extrafamiliare.

Adulti

Nel caso del paziente adulto, chiaramente la convocazione individuale è quella più frequente, ma bisogna tenere in considerazione che la fase del ciclo di vita che il paziente sta vivendo non dipende solo dalla sua età anagrafica. Se a quindici anni Metello, protagonista dell’omonimo romanzo di Pratolini, ambientato nella Firenze di inizio novecento, era un vero e proprio capo famiglia, dal cui lavoro dipendevano le sorti dei fratellini, oggi la fascia di età tra i venti e i trent’anni è piuttosto variegata: ci sono giovani che lavorano, vivono da soli, in qualche caso convivono e hanno figli, altri studiano, e, per forza di cose, sono ancora legati economicamente alla famiglia di origine, pur con diverse gradazioni di dipendenza, altri ancora sono in una condizione complessa, dove alla dipendenza economica dalla famiglia si aggiunge la mancanza di progettualità. Di queste variabili un terapeuta sistemico deve tenere conto, perché esse influenzano le sue scelte di convocazione alle sedute.

Qual è la natura e la gravità del problema?

Come afferma Ugazio (1989), se un adulto ha un quadro psicopatologico grave, come una patologia dissociativa, una convocazione familiare è preferibile: la dipendenza del paziente dal suo contesto, spesso, fa sì che la sua patologia sia interamente giocata tra le mura domestiche. In seduta si ragiona sugli effetti pragmatici del sintomo sui suoi familiari. Se, viceversa, un giovane adulto, pur vivendo ancora a casa dei genitori, vive in modo consono al suo ciclo di vita ed ha un problema extrafamiliare non tale da compromettere la sua indipendenza, come ad esempio una difficoltà sentimentale, una convocazione individuale è da preferire.

Le obiezioni

Come si può vedere, la proposta sistemica rispetto alla convocazione in seduta è molto articolata ed in controtendenza al principio individualista della società occidentale: essa è pertanto oggetto di critica, non solo da parte dei pazienti, ma anche dei colleghi di altri orientamenti.

La più importante obiezione è che se un paziente è in seduta con i familiari, non è spontaneo: se fosse da solo, esprimerebbe di più quello che sente, mentre con i familiari presenti è più chiuso. La risposta che si può dare a questa obiezione è almeno a due livelli. Ferdinando Salamino (2019, citazione personale), parlando del problema, afferma che non sempre quando una persona è da sola esprime i propri pensieri più intimi e veri. Se pensiamo a facebook, ci rendiamo conto che spesso, proprio perché mascherate dalla rete, le persone tendono a mostrarsi per quello che non sono: dopotutto, siccome hanno come interlocutori persone lontane che non le conoscono, nessuno le può smentire. Forse allora la vera intimità emerge proprio quando siamo messi a confronto con chi ci sta vicino, che contribuisce a creare la nostra personalità, come noi contribuiamo a creare la sua. Possiamo capire chi siamo solo attraverso il dialogo con chi ci sta intorno, fatto, come afferma Ugazio (2018), più di sguardi ed emozioni che di parole. Ed ecco la seconda risposta all’obiezione: se un paziente, quando è con i familiari, non dice tutto quello che pensa, il suo modo di comportarsi in seduta, le sue espressioni, le emozioni che esprime, ci raccontano più di qualunque parola.

Conclusione

Nella mia esperienza di terapeuta, ho sempre ritenuto che la convocazione alle sedute sia un momento fondamentale della terapia: la conversazione terapeutica può essere orientata in modo diverso a seconda di chi è presente in seduta, pertanto ritengo che tale scelta rientri a tutti gli effetti nelle strategie che il clinico può utilizzare nel processo di trattamento dei propri pazienti.

 

 

Non chiamateci matti! Le due facce della medaglia nel disagio psichico (2019) di Davide Coita – Recensione del libro

Non chiamateci matti, ma persone: avviciniamoci con curiosità, non perdiamo di vista l’unicità al di là di ogni categoria diagnostica, non dimentichiamoci che oltre la sofferenza umana c’è una storia di vita piena di emozioni.

 

E così Davide Coita, racconta la sua storia. Un’infanzia complicata: a 10 anni la madre inizia a soffrire di Sclerosi Multipla, alle elementari diventa vittima di bullismo e viene affetto dal ‘mal-di scuola’. Poi l’adolescenza, periodo di cambiamenti: appassionato di politica e in prima fila a rappresentare i diritti degli studenti. Più avanti l’università, il primo trenta in Diritto Costituzionale. L’estate della pubertà stava finendo quando iniziarono le prime crisi anticipate già da alcune vicissitudini di vita: l’allontanamento dagli amici di sempre, i cambiamenti repentini nei suoi progetti di vita, una convivenza con i famigliari sempre più difficile, le lunghe giornate trascorse nella sua taverna. Così, la lunga stagione degli accessi al Pronto Soccorso, la diagnosi di bipolarismo e i ricoveri nel reparto di SPDC.

L’autore racconta la sua avventura, dando voce anche a professionisti e facendo cogliere al lettore la sofferenza del disagio psichico che coinvolge un intero sistema ponendo la luce sulle due facce della medaglia: se da un lato vuole raccontare la sua storia e promuovere una battaglia di civiltà intenta a superare lo stigma sociale e la ‘psichiatrizzazione’ delle persone, dall’altra esprime i suoi timori dettati dal pregiudizio dopo questa ‘etichetta che si è appiccicato in fronte’.

Un libro per gli esperti del settore, per i pazienti e per i loro famigliari. Una lettura emozionante, a tratti pungente. Di certo da leggere tutta d’un fiato.

I tabù del sesso: disfunzioni sessuali femminili e trattamenti non farmacologici

Nonostante i grandi passi avanti, in alcune culture la discussione sulla sessualità e sulle disfunzioni sessuali femminili sembrano essere un tabù. Sembra, però, che queste patologie possano essere trattate con efficacia grazie a tecniche non farmacologiche.

 

Le disfunzioni sessuali femminili sono diffuse e assumono varie forme tra cui la mancanza di desiderio sessuale, l’alterazione dell’eccitazione, l’incapacità di raggiungere l’orgasmo, il dolore associato all’attività sessuale oppure una combinazione di questi problemi. In questi casi si potrebbe verificare una riduzione della lubrificazione vaginale causata dall’alta concentrazione di progesterone, che spesso provoca disagio o dolore durante la penetrazione (Yıldız, 2015).

La disfunzione sessuale femminile potrebbe avvenire in qualsiasi momento della vita di una donna, ma è particolarmente frequente nei momenti successivi al parto. Il post-partum, infatti, è un periodo caratterizzato da cambiamenti fisici ed emotivi, che riguardano sia la donna che le relazioni sociali, in particolare quella di coppia. La disfunzione sessuale nel periodo post-partum è un problema clinico comune e rilevante che può avere un impatto significativo sulla salute delle donne. Di conseguenza, dopo il parto, anche la sessualità della coppia si modifica. Durante questa fase di transizione, la vita sessuale può migliorare o sperimentare cambiamenti che incidono negativamente sulla salute fisica e psicologica della coppia, ma il parto può anche costituire un momento emozionante per sviluppare una nuova prospettiva sulla sessualità (Monteiro et al., 2016).

I disturbi sessuali possono essere complessi e il loro trattamento può richiedere tempo e competenze specifiche. La gestione della disfunzione sessuale segue un approccio centrato sul paziente; dopo la valutazione della condizione, la comprensione dei problemi di relazione e lo screening per la conoscenza sessuale del paziente, viene ipotizzata una possibile base eziologica della disfunzione, la quale può essere puramente organica, di origine psicologica o entrambe. Le terapie non farmacologiche (Choudhury, Kumari, Sawhney, 2019) come la terapia sessuale e di coppia, gli esercizi del pavimento pelvico, la psicoterapia, i cambiamenti nello stile di vita, il miglioramento dell’immagine corporea e l’uso di lubrificanti vaginali e idratanti sono estremamente importanti. La maggior parte delle terapie influisce su diversi aspetti della sessualità; pertanto, non è generalmente possibile identificare un problema isolato e selezionare una terapia che si rivolga specificatamente a tale problema (Barbara et al., 2016; Wiegel, Meston, Rosen, 2005). Tuttavia, oltre a questi interventi specifici, le misure generali per il trattamento della disfunzione sessuale femminile includono l’educazione sessuale e l’allenamento al rilassamento: queste sembrano risultare utili in tutti i casi, indipendentemente dal tipo di disfunzione, per ridurre l’ansia e normalizzare l’esperienza.

Avasthi e Banerjee (2002) hanno indicato alcuni elementi importanti nella relazione sessuale della coppia, includendo istruzioni sulla masturbazione e sfatando alcuni dei più comuni miti sessuali che impediscono alla coppia e alla persona di vivere serenamente la propria vita sessuale. Tra le indicazioni principali sono incluse:

  • Conoscere l’importanza del tempismo dell’attività sessuale;
  • Come dire di no al partner e come accettare il rifiuto da un partner con garbo e senza insulti;
  • Aiutare le persone timide ad iniziare il sesso;
  • Incoraggiare i pazienti ad esprimere i loro bisogni e il tipo di stimolazione che preferiscono prima e dopo l’orgasmo;
  • Aiutarli a riconoscere e sperimentare orgasmi multipli.

I miti da sfatare:

  • Le donne non dovrebbero iniziare il sesso poiché gli uomini dovrebbero essere il leader e gli iniziatori;
  • La donna non dovrebbe godere del sesso e non dovrebbe masturbarsi;
  • Una donna non dovrebbe mai dire di no quando il suo partner le si avvicina per fare sesso;
  • Tutti i contatti fisici dovrebbero portare al sesso e il sesso significa rapporto sessuale;
  • Il buon sesso porta sempre a orgasmi “selvaggi”;
  • Se il sesso non è buono, implica che la relazione ha dei problemi.

Sono stati evidenziati dei risultati positivi e significativi con la terapia cognitivo-comportamentale, la quale mira a migliorare inizialmente il comportamento affettivo non sessuale e successivamente introduce un comportamento sessuale accettabile da entrambi i partner. Inoltre, fornisce meccanismi di coping per risolvere i problemi relazionali sottostanti e prevede esercizi di intimità sessuale, attenzione sensoriale, formazione sulle abilità comunicative, formazione sulle abilità emotive, formazione sul rinforzo, ristrutturazione cognitiva, formazione sulla fantasia sessuale e terapia di gruppo in coppia.

Di seguito un approfondimento di alcuni disturbi sessuali specifici e i rispettivi trattamenti non farmacologici, con un’attenzione particolare al vaginismo.

Il Disturbo da Eccitazione Sessuale è caratterizzato da una mancanza/assenza di fantasie sessuali e di desiderio di attività sessuale in una situazione che normalmente produrrebbe eccitazione sessuale, oppure dall’incapacità di ottenere/mantenere le risposte tipiche all’eccitazione sessuale.

Il Disturbo da Avversione Sessuale è definito come un’avversione estrema persistente e ricorrente, ed evitamento, totale o quasi, del contatto sessuale genitale con un partner, il quale causa angoscia o difficoltà interpersonali. In questo caso dovrebbe essere effettuata una valutazione dettagliata di eventuali traumi, abusi sessuali ed eventuali difficoltà interpersonali relazionali. I trattamenti più efficaci sono la terapia cognitivo-comportamentale mediante esposizione progressiva a stimoli temuti, la terapia individuale e di coppia e misure comportamentali generali come rilassamento, l’educazione sessuale, la chiarezza dei miti e attenzione sensoriale.

Il disturbo orgasmico femminile è la difficoltà o l’incapacità di una donna di raggiungere l’orgasmo durante la stimolazione sessuale, mentre la dispareunia è un dolore che la donna avverte nell’area della vagina o della pelvi durante un rapporto sessuale.

Il vaginismo, infine, denota un disturbo sessuale che consiste nello spasmo involontario della muscolatura vaginale che ostacola la penetrazione; la donna affetta da vaginismo trova difficoltà nell’accettare l’atto sessuale, nonostante il desiderio di farlo. Probabilmente, il vaginismo riflette condizioni psicologiche nascoste o represse della donna, poiché essa associa il dolore e la paura al rapporto sessuale, legati anche ad una notevole, e talvolta immotivata, fobia della penetrazione.

Uno studio recente mira a presentare le conseguenze biopsicosociali del vaginismo nella vita delle donne. Il metodo utilizzato è una revisione sistematica della letteratura esistente, dalla prima pubblicazione all’ultima (2019). Sulla base dei risultati dei diversi studi, è possibile affermare che le donne affette da vaginismo hanno problemi nella sfera dell’identità personale, psicologica e riproduttiva. Nello specifico, le donne con questa patologia incontrano maggiori probabilità di riscontrare un aumento del taglio cesareo e problemi di fertilità; inoltre, sono riluttanti a cercare servizi di assistenza sanitaria, soprattutto a casa della paura dell’esame ginecologico. La percezione negativa di sé, invece, influenza i livelli di autostima e questo causa, di conseguenza, una possibile insorgenza di disturbi psichiatrici (es. depressione). Inoltre, lo studio afferma che l’ansia generale e specifica della penetrazione sono correlate al vaginismo, quindi, le donne con questo disturbo soffrono di forte ansia per la penetrazione. Infine, è dimostrato che la terapia dovrebbe includere interventi sia individuali che di coppia e dovrebbe concentrarsi sui disturbi psicologici di base piuttosto che esclusivamente sui rapporti sessuali. La terapia cognitivo-comportamentale sembra essere il trattamento con gli effetti più positivi e benefici nelle donne; ma è essenziale includere anche la correzione di qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti del sesso e la promozione di un atteggiamento positivo nei confronti degli organi sessuali, educazione sessuale ed esercizi dei muscoli pelvici.

I fattori, oltre il parto, che possono contribuire alla disfunzione sessuale post-partum comprendono il trauma perineale (chirurgico o non chirurgico), il parto cesareo di emergenza o il parto vaginale operativo.

Nonostante i grandi passi avanti, in alcune culture la discussione sulla sessualità femminile e le disfunzioni sessuali sembrano essere un tabù. Inoltre, vi è comunque ancora una forte necessità di eseguire diversi studi in questo settore per trovare altri mezzi efficaci per la gestione delle disfunzioni sessuali femminili.

 

Trauma, EMDR e Compassion: la via dell’integrazione con Roger Solomon – Report dall’evento

Roger Solomon ha portato ai soci AISTED la sua enorme esperienza clinica sul tema del trauma con un workshop dal titolo ‘Trauma Complesso e Dissociazione: aspetti avanzati della Teoria della Dissociazione Strutturale’.

 

Lo scorso 25-26 Gennaio a Milano l’Associazione AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione ha inaugurato il suo secondo triennio di attività ospitando per due ricche giornate di studio Roger Solomon, psicologo e psicoterapeuta, Senior Trainer in EMDR, da molti anni esperto nel trattamento del trauma complesso e dell’utilizzo del protocollo EMDR nella cornice della Teoria della Dissociazione Strutturale della Personalità (Van der Hart, Nijenhuis, Steele, 2011; Van der Hart, Steele, Boon 2013, 2017) in molti ambiti istituzionali americani (FBI, Secret Service, U.S. State Department, Diplomatic Security, Bureau of Alcohol, Tobacco, and Firearms, U.S. Department of Justice).

AISTED è nata a Milano nel Dicembre del 2016, come ramo italiano della più ampia European Society for Trauma and Dissociation (ESTD), ed è impegnata da ormai 3 anni nell’offrire un luogo di incontro a tutti i professionisti che in Italia si occupano di psicotraumatologia, in contesti pubblici e privati. L’opera di sensibilizzazione alla cultura del trauma e di diffusione delle buone pratiche cliniche nella cura dei disturbi trauma correlati, è nata dalla necessità di creare uno spazio di integrazione tra tutti i colleghi che pur arrivando da diversi percorsi formativi, si trovano a lavorare con pazienti complessi. Gli esiti emotivi di esperienze traumatiche vissute nell’infanzia e/o nell’età adulta provocano spesso sintomi invalidanti e molti pazienti faticano nel trovare un corretto inquadramento diagnostico e un percorso di cura adeguato. Per questo l’Associazione AISTED si occupa specificatamente di offrire ai soci supporto e possibilità di approfondire strumenti clinici orientati al trattamento del trauma complesso, dei disturbi dissociativi e della traumatizzazione cronica. L’urgenza di cogliere la complessità e trovare nuove vie di comprensione e cura dei disturbi dissociativi è condivisa da molti terapeuti e formatori che a vario titolo hanno sostenuto la nascita e lo sviluppo dell’attività di AISTED in Italia, tra cui Giovanni Liotti, Khaty Steele e da ultimo Roger Solomon, soci onorari e punti di riferimento inossidabili per chiunque decida di accostarsi a questo ambito clinico.

Il filo comune: la ricerca costante di integrazione tra gli approcci clinici e le tecniche evidence based ad oggi accreditate nel panorama scientifico internazionale, senza perdere la centralità della ricerca e delle neuroscienze nella comprensione degli effetti clinici e fisiologici del trauma, e senza lasciare indietro un’attenta raccolta della storia evolutiva e relazionale di ogni singolo individuo e della specifica traiettoria di sviluppo che ha caratterizzato la sua esistenza, determinando le sue peculiari risposte di sopravvivenza e resilienza.

Con l’obiettivo di tenere insieme questa complessità, Roger Solomon ha portato ai soci AISTED la sua enorme esperienza clinica sul tema: ‘Trauma Complesso e Dissociazione: aspetti avanzati della Teoria della Dissociazione Strutturale’. Il workshop ha visto la condivisione diretta e generosissima dell’esperienza clinica del Dr. Solomon attraverso la discussione di casi clinici e la condivisione di strumenti clinici di intervento centrati sull’utilizzo dell’EMDR, come tecnica di prima scelta negli interventi di cura del trauma, integrati ad un lavoro di stabilizzazione preliminare all’elaborazione delle memorie traumatiche.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DELL’EVENTO:

 

 

 

 

Imm. 1 – 5 – Immagini dal Workshop con Roger Solomon

L’idea di partenza che guida il lavoro di Solomon sul trauma complesso e sui disturbi dissociativi è che la dissociazione traumatica non nasce solo dall’aver vissuto esperienze soverchianti o di minaccia di vita, ma soprattutto dal non aver sperimentato un legame sicuro e una protezione sufficienti a fronteggiare le emozioni provocate da quegli stessi eventi minacciosi, né prima, né durante, né dopo quelle esperienze. La dissociazione è dunque sempre legata ad una disorganizzazione del sistema di attaccamento e conduce ad una sintomatologia tanto più grave quanto più precocemente il sistema nervoso si trova a sperimentare contemporaneamente minaccia e mancanza di protezione. Quando la disorganizzazione dell’attaccamento avviene nei primi anni di vita, la successiva resilienza dell’individuo verso eventi avversi che si potranno verificare in futuro risulterà compromessa o comunque profondamente condizionata da questo, aumentando il rischio di sviluppare sintomi dissociativi e, più in generale, psicopatologia.

Lavorare sul trauma e sulle memorie traumatiche immagazzinate in modo disfunzionale è dunque centrale nel risolvere la sintomatologia post-traumatica legata agli effetti diretti del trauma inteso come ‘evento di minaccia alla vita’, ma l’elaborazione risulta talora insufficiente a risolvere la sintomatologia dissociativa sottostante se non viene preceduta – ove necessario – da una fase di stabilizzazione che aiuti la persona a ridurre la disorganizzazione interna del sistema di attaccamento e la reattività del sistema di difesa.

Come molti altri teorici del trauma, Solomon parte dall’idea di un continuum nei processi di dis-integrazione che va dall’alternanza di Stati dell’Io (ego-states) differenti, passando dal Trauma Complesso con una maggiore frammentazione delle risposte di sopravvivenza, per arrivare al Disturbo Dissociativo dell’Identità come estremo psicopatologico legato alle forme più gravi di dissociazione della coscienza. Il lavoro clinico con EMDR, o con qualunque altro approccio orientato alla elaborazione delle memorie traumatiche, necessita dunque di un preliminare inquadramento del paziente e del suo grado di disorganizzazione interna per poter fare scelte cliniche sicure e offrire il timing giusto all’elaborazione dei ricordi. Per lavorare con l’EMDR su trauma complesso e disturbi dissociativi è perciò indispensabile, ci ricorda Dr. Solomon, conoscere molto bene non solo come il trauma lavora sulla mente e sul corpo, ma anche come il sistema di attaccamento regola il nostro senso di sicurezza e la nostra possibilità/capacità di accedere a risorse interne ed esterne di conforto di fronte alla sofferenza e al pericolo.

Da questa base di partenza, il lavoro terapeutico di Solomon muove verso una costante attenzione ai processi di attaccamento e sintonizzazione emotiva, con l’obiettivo di coltivare da un lato uno stato di sicurezza sufficiente nel presente della terapia e dall’altro di mantenere attivo un sistema cooperativo all’interno della relazione terapeutica, che permetta al paziente stesso di osservarsi nel processo terapeutico senza essere soverchiato (di nuovo!) dalle emozioni del trauma.

Solomon ci ricorda che, soprattutto in situazioni cliniche complesse, nonostante l’EMDR favorisca il ripristino di una elaborazione adattiva bloccata al tempo degli eventi traumatici, il paziente non elabora mai ‘da solo’, ma elabora il ricordo di quegli eventi traumatici nel contesto della relazione terapeutica, in cui diventa centrale dunque la funzione di ‘holding’: tenere il paziente nella sua finestra di tolleranza emotiva e all’interno di una connessione emotiva sicura, incoraggiante e funzionale.

Gli ingredienti essenziali di questo complessissimo lavoro clinico sono molti, ma i principali elementi emersi a fare da ‘mantra’ a queste 2 giornate di lavori sono stati tre: ‘Time Orientation’, ‘Good job!’ e ‘Compassion’.

La ‘Time Orientation’ (Orientamento nel Tempo) riguarda la costante stimolazione della capacità del paziente di percepire la sua Parte Adulta nel tempo presente, cioè di restare connesso alle sue risorse e al suo corpo di adulto, alla sicurezza guadagnata e soprattutto di mantenere ben salda la consapevolezza della distanza fisica e temporale che c’è tra l’oggi e il momento del trauma. L’obiettivo per il paziente non è infatti riattraversare le emozioni traumatiche, ma riuscire a guidare il processo terapeutico per osservare le sue emozioni senza identificarsi con esse; le emozioni soverchianti legate all’attivarsi del sistema di difesa in terapia, rischierebbero infatti di ri-attivare (e di nuovo in modo disfunzionale!) il sistema nervoso preparandolo a rispondere nel presente ad una minaccia che non c’è più e questo impedirebbe – così come lo ha impedito nel passato – di elaborare le emozioni e l’evento in modo più sicuro e adattivo. L’orientamento nel tempo è da considerarsi un vero e proprio intervento terapeutico, centrale nel lavoro su sintomi dissociativi, e si configura di per sé come una risorsa importantissima da rinforzare e installare, per chi usa abitualmente l’EMDR, per potervi accedere in ogni momento della terapia.

Accanto a questo, il lavoro di stabilizzazione spesso include il ‘lavoro sulle parti’, cioè la promozione di un dialogo interno più integrato e collaborativo tra le parti della personalità che entrano in conflitto peggiorando la disorganizzazione del paziente su numerosi stimoli (triggers) del presente; a questo proposito il modello della Dissociazione Strutturale della Personalità (Van der Hart, Nijenhuis, Steele, 2011; Van der Hart, Steele, Boon 2013, 2017) offre una mappa indispensabile per aiutare paziente e terapeuta ad orientarsi tra le emozioni, le difese e le risorse. Naturalmente si tratta di una metafora da usare con cautela e con la chiara idea di lavorare con le rappresentazioni interne di parti emotive di sé, accertandosi che il paziente riesca ad usarla per comprendere il suo funzionamento interno senza aumentare il grado di separazione o di fobia verso questi aspetti differenti della sua unica persona. Il lavoro sulle parti, a partire da queste premesse, può essere al contrario molto utile a promuovere un graduale processo di dis-identificazione con le parti emotive bloccate nel trauma e di ri-conoscimento del ruolo che ogni parte ha avuto nella sopravvivenza del paziente. Spesso infatti le Parti Emotive (EP) vivono gradi di separazione tali dall’Adulto che vive la vita quotidiana, da non riuscire più a percepire sicurezza o calma nel presente, così come l’Adulto che vive più pienamente il presente rischia di non riconoscere come normali le emozioni di paura, rabbia o disgusto del passato, giudicandole inadeguate, inutili o solo dannose nella sua vita attuale. La presenza di questi conflitti va individuata tempestivamente ed elaborata nella fase di stabilizzazione, poiché l’accesso alle emozioni connesse alle memorie traumatiche potrebbe peggiorare lo stato di questi conflitti e porre il paziente in situazioni paradossali e ritraumatizzanti.

A questo proposito il secondo ingrediente clinico emerso offre una via d’uscita: ‘Good job!’ (‘Bravo!’) ovvero riconoscere e validare il lavoro che ogni parte ha svolto nell’arco della vita, come tentativo di offrire soluzioni e dare sollievo alla sofferenza emotiva. In particolare risulta centrale riconoscere questa funzione alle parti critiche o alle parti bloccate nella rabbia o alle parti che si identificano con l’aggressore, poiché spesso svolgono la fondamentale funzione di proteggere aspetti di vulnerabilità e vergogna con cui il paziente non avrebbe potuto convivere costantemente. Nonostante spesso le parti ostili si manifestino in modo molto disfunzionale e talora rischioso per la salute (autolesionismo, ideazione suicidaria, autobiasimo, disprezzo per sé) è fondamentale riconoscere loro il buon lavoro fatto fino a quel momento e aiutarle ad uscire dall’alienazione e dalla solitudine che il ruolo di protettrici ha dato loro: sviluppare questa maggiore comprensione reciproca può diventare una risorsa fondamentale da stimolare e installare nel sistema emotivo, può restituire uno spazio di azione all’Adulto e favorire un accesso sicuro alle parti emotive più vulnerabili e bisognose di aiuto. Validare la funzione, non il comportamento in sé, inoltre aiuta la co-consapevolezza tra le parti e questo guida verso un processo di integrazione sano e organico in grado di ridurre la necessità di separare/dissociare aspetti di sé prima percepiti come inaccettabili, perché incomprensibili.

Ultimo ma non meno importante strumento clinico: la ‘Compassion’. Ogni momento di accettazione empatica della sofferenza, della fatica fatta, dell’ingiustizia subita e del dolore vissuto è un momento prezioso da riconoscere, installare come risorsa e rendere accessibile tutte le volte che si può. Il contatto emotivo con la sofferenza è per definizione evitato grazie alla dissociazione, quindi ogni momento positivo di condivisione e di empatia va valorizzato come un passo verso una maggiore integrazione. Nella dissociazione traumatica c’è spesso il ricordo e la comprensione di quello che è avvenuto, ci possono essere il riconoscimento e la razionalizzazione delle ragioni e delle responsabilità, ma se permane la dissociazione ci segnala che alcuni aspetti emotivi continuano ad essere rifiutati ed estromessi dalla coscienza con l’obiettivo di ridurre l’intensità del dolore emotivo. L’unico antidoto al permanere della disorganizzazione, è dunque sviluppare e promuovere gradualmente tra le Parti Emotive e l’Adulto ‘osservante’ momenti di empatia, di ascolto compassionevole, di accettazione profonda e non giudicante dell’esperienza interna e dei suoi effetti nel presente.

La costante capacità di testimoniare il presente per come esso è, senza giudizio ma senza paura, e di osservare da questa presenza solida e ferma l’orrore del passato, senza sconti ma senza esserne sopraffatti, sono l’eredità più preziosa lasciata da Roger Solomon in queste due giornate di lavori. Uno sguardo saggio e coraggioso, con cui ci ricorda di guardare alla persona intera e non solo ai sintomi o alle singole parti, avendo cura di proteggere ma allo stesso tempo di promuovere con fiducia la guarigione e la ricerca di quello sguardo amorevole verso la propria e altrui sofferenza.

 

Inaugurazione del nuovo Centro di Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia a Milano – Report dall’evento

E’ stato inaugurato il nuovo Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIPda), primo ente clinico sul territorio milanese a fornire una presa in carico unicamente dedicata ai Disturbi dell’Alimentazione, con utilizzo della Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced come protocollo clinico di riferimento.

 

Il razionale alla base della realizzazione di una clinica innovativa per i Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DA) consiste nel fornire programmi di cura specifici case-based multidisciplinari, per un target di pazienti con diagnosi di DA, in riferimento alle linee guida nazionali ed internazionali (NICE, 2017). 

L’innovazione del centro CIPda risiede nell’essere il primo ente clinico sul territorio milanese a fornire un servizio di tale portata: presa in carico unicamente dedicata ai Disturbi dell’Alimentazione, Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced (CBT-E; Fairburn et al., 2013) come protocollo clinico di riferimento e realizzazione di un intervento ambulatoriale intensivo, multidisciplinare e non eclettico.

Programma

17:00-17.15: Introduzione, Dott.ssa Sandra Sassaroli (Direttore Sanitario CIPda)

L’inaugurazione è iniziata con il Saluto di Benvenuto e l’introduzione della Dott.ssa Sandra Sassaroli, Direttore del dipartimento della Sigmund Freud University di Milano e della scuola di specializzazione in psicoterapia Studi Cognitivi, Direttore Sanitario del CIPda.

L’aspetto iniziale su cui è stata focalizzata l’attenzione è la portata innovativa del centro, il primo ente a Milano con determinate caratteristiche e obiettivi: applicazione del protocollo CBT-E (Dalle Grave, Calugi, Doll & Fairburn, 2013; Fairburn et al., 2013) adottato presso la Casa di Cura Villa Garda (VR) per la riabilitazione dei DA, totale dedizione unicamente al Disturbo Alimentare in tutte le sue manifestazioni, connubio costante tra realtà clinica e ricerca scientifica, progetti futuri sull’ampliamento della ricerca su studi longitudinali e la finalità primaria di instaurare un rapporto individualizzato tra paziente e clinico.

17.15-17.45: Mission, approccio, presa in carico e programma di cura del CIPda; Dott.ssa Rosaria Nocita, Psicologa-Psicoterapeuta, Neuropsicologa- Docente Sigmund Freud University, Direttore Operativo CIPda.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL CENTRO:

 

 

 

 

 

 

Imm. 1 – 7: immagini del nuovo centro dei Disturbi dell’Alimentazione

La Dott.ssa Nocita ha presentato gli obiettivi (Mission), l’approccio innovativo, le procedure di presa in carico e i programmi di cura che contraddistinguono il servizio offerto dal CIPda.

Gli obiettivi principali dell’ente sono i seguenti: prevenire il ricovero, preparare ad eventuale ospedalizzazione, gestire la fase di dimissione post-ricovero e ridurre il tasso di ricaduta. L’innovazione riguarda l’unione dei seguenti elementi:

  • adesione a riferimenti teorici e clinici Evidence-Based (Fairnburn et al., 2015) ritenuti dalle linee guida internazionali come trattamenti d’elezione per la cura dei DA (NICE, 2017) con una percentuale di remissione pari al 65% (Poulsen et al., 2014);
  • verifica delle procedure e degli esiti del trattamento attraverso studi sperimentali e uso di strumenti informatizzati (app InTherapy);
  • applicazione di protocolli di cura CBT-E;
  • natura multidisciplinare del servizio;
  • continuità delle cure mediante uno scambio costante di informazioni tra professionista inviante/struttura esterna e referente del CIPda.

Il programma previsto dal trattamento ambulatoriale del CIPda è articolato nelle seguenti fasi: prima visita medico-psichiatrica, valutazione psicodiagnostica, formulazione del progetto terapeutico/definizione degli obiettivi e decisione finale riguardo l’intensità del programma ambulatoriale. La versione intensiva prevede (da lunedì a venerdì): tre pasti assistiti giornalieri, due sedute settimanali con il dietista, due sedute psicoterapiche individuali ed un check del peso ad inizio e fine settimana. Il programma ambulatoriale non intensivo prevede invece: una visita medica ad inizio settimana, una seduta individuale con il dietista e due sedute di psicoterapia.

17.45- 18.15: Lectio Magistralis, Dott.ssa Simona Calugi, Psicologa-Psicoterapeuta, PhD – Membro Comitato Scientifico CIPda.

La Dott.ssa Calugi ha introdotto la sua Lectio Magistralis sulla Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced (CBT-E) sottolineando che l’obiettivo del Comitato Scientifico del CIPda consiste nel riuscire a promuovere e diffondere un trattamento Evidence-Based, rendendolo fruibile alla popolazione clinica affetta da questa categoria di disturbi, in un’ottica transdiagnostica (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003). A tal proposito la CBT-E è stata nominata terapia d’elezione per i DA per le seguenti motivazioni: segue il principio della parsimonia, è applicabile in ugual misura sia su popolazione adolescenziale che adulta con risultati a lungo termine (Dalle Grave, Calugi, El Ghoch, Conti & Fairburn, 2014); non adotta misure coercitive, bensì collaborative ed infine gode di lodevoli evidenze scientifiche le quali affermano una maggiore efficacia sui DA rispetto ad altri trattamenti psicoterapici, come la teoria psicoanalitica (Poulsen et al., 2014) e la terapia interpersonale (Fairburn et al., 2015).

18.15- 18.45: Presentazione di un caso clinico, Dott.ssa Sara Bertelli, Psichiatra – Psicoterapeuta – Membro Comitato Scientifico CIPda.

Il caso clinico selezionato dalla Dott.ssa Sara Bertelli, primario dell’ambulatorio per i Disturbi dell’Alimentazione dell’Ospedale San Paolo di Milano, segue una logica precisa: illustrare i differenti livelli di cura per i DA, comprendendo quando l’uno risulta più idoneo rispetto ad un altro e l’eterogeneità dei possibili invianti. La paziente in questione è una ragazza di 22 anni, con una storia di vita caratterizzata da una condizione di sovrappeso/ normopeso con tendenze all’eccesso non indifferenti, che però in un lasso di tempo assai breve ha subito un calo ponderale eccessivo di 28 kg, fino a raggiungere un BMI sotto-soglia pari a 14,18; accompagnato da un quadro timico notevolmente compromesso.

Il caso di questa paziente è emblematico, in quanto ha attraversato l’intera escalation dei livelli di cura per i DA: ambulatorio, Day Hospital (DH), ricovero, ricovero residenziale. A seguito di un ripristino ponderale (BMI: 18,5) il servizio ambulatoriale, offerto dal nuovo centro per i Disturbi dell’Alimentazione (CIPda) è risultato una soluzione nettamente ottimale per la condizione attuale della paziente e per le sue esigenze cliniche.

18.45: Aperitivo presso Centro Disturbi dell’Alimentazione (CIPda)

La cerimonia di inaugurazione si è conclusa con un piacevole aperitivo, a base di bevande e di un ricco buffet, gustato all’interno del centro stesso. Questo momento conclusivo ha permesso lo scambio di pareri e delucidazioni riguardo al servizio. Oltre all’opportunità di visitare ed esplorare l’ente, è stato possibile cimentarsi all’interno di un’esperienza interattiva di Virtual Reality con macchinari all’avanguardia.

 

Per saperne di più visita il sito web:
Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia

 

La gelosia e il famigliare nel 1500 – Dal corpo familiare all’anima familiare

Dietro i matrimoni imposti dai genitori, spesso si nasconde la passione, l’amore per un terzo che produce gelosia e, quest’ultima, porta a delle vere e proprie tragedie.

 

Vittorio Cigoli, in Albero della Discendenza Clinica dei Corpi Familiari, nel tentativo di dare concretezza alla sua teoria del corpo familiare analizza i cambiamenti che si possono leggere e analizzare nella pittura di famiglia tra il 1500 e il 1900. Partendo dal presupposto che il corpo è la rappresentazione della famiglia attraverso un’immagine cui si aggiunge una storia, l’immagine di corpo familiare è mutuata da tutte le associazioni umane contraddistinte da un simbolo che, da un lato, lega tutti i membri e, dall’altro, permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Così come riportato da Cigoli:

San Paolo si avvale del corpo per delineare l’unità della Chiesa nelle varietà delle membra e dei doni (…) Il principio unificatore è rappresentato dal solo e unico pane che è Cristo e l’Eucarestia è intesa come atto che contrasta le divisioni tra le generazioni, i gruppi e i popoli, ma anche le proiezioni nefaste sul fratello. 

L’analisi della pittura di famiglia, in quanto rappresentazione, ci dà una dimensione dello scenario culturale entro cui opera la relazione familiare nella cultura del mondo occidentale.

Io nel presente lavoro voglio introdurre il concetto di anima familiare partendo della definizione platonica, e soprattutto di Plotino, per cui vi è un’anima universale o animus mundi che in qualche modo precede l’uomo e l’anima individuale che durante tutta la sua esistenza, in altre parole durante tutta la vita, tende a ricongiungersi a essa. Per maggiori informazioni e chiarimenti riguardanti questi concetti, che qui sarebbe lungo mettere in risalto, rimando a un altro mio lavoro in fase di pubblicazione Dalla cultura al culturale ovvero dal culturale alla cultura. Esemplificando la cultura, che potrebbe assomigliare all’animus mundi, ci precede ed è il frutto di uno scambio tra culturale, inteso come il luogo degli atti quotidiani, e la stessa cultura. In questo modo la cultura che dà origine al culturale muta in funzione di quest’ultimo e contemporaneamente il culturale si modifica in funzione della cultura. La poesia, la pittura, la produzione letteraria hanno il potere di metterci in contatto con la cultura che costituisce una sorta d’inconscio collettivo. Così come esistono una cultura e un culturale universale, vi sono una cultura e un culturale familiare, che è trasmesso lungo l’arco delle generazioni. Un’opera pittorica ci mette, sul piano simbolico, di fronte alla storia di una singola famiglia e nello stesso tempo di fronte alla cultura universale. Ancora meglio l’analisi di un’opera letteraria, raccontandoci una storia, ci permette di analizzare le relazioni familiari. Ecco perché nel presente lavoro ho scelto di analizzare la gelosia in funzione dei romanzi dal ‘500 ai nostri giorni. Per fare un esempio Gorkij individua il principio unificatore della rivoluzione d’ottobre nella vedova Pelagèja Nilovna, analfabeta, che attraverso i racconti del figlio rivoluzionario Pavel diventa emblematicamente la madre di tutti i giovani rivoluzionari.

Nel 1500 a seguito della cultura cristiana, il ruolo della donna era stato fortemente valorizzato rispetto alla cultura romana.

Anche nell’ambito pittorico è notabile questo nuovo interesse per la donna che è messa al centro della scena. Cigoli, a questo proposito, cita le opere che riguardano la Sacra Famiglia. Come il mosaico della Natività in Santa Maria Maggiore a Roma, il Polittico della Natività di Giovanni da Milano (galleria comunale di Prato), L’Adorazione dei Pastori di Correggio (Gemaldegalerie di Dresda), L’Adorazione dei Pastori di Rubens (pinacoteca comunale di Fermo), Adorazione del Bambino di Gherardo delle Notti (uffizi Firenze), Madonna con Bambino di Dirk Bouts (Metropolitan Museum of Art New York). In tutti queste opere la centro vi è Maria col bambino, e Giuseppe, quando è presente, diventa un semplice accompagnatore.

La valorizzazione della donna ha comportato immediatamente, anche dal punto di vista culturale, un’elevazione della posizione della donna che improvvisamente diventa oggetto di gelosia (Benvenuto, 2011).

Con l’affermarsi della corrente letteraria dell’amor cortese, la donna diventa oggetto dell’amore nobile e di conseguenza di gelosia. La contessa Maria de Champagne, nel De Amore di Andrea Cappellano, così risponde alla contesa tra i due non ancora amanti:

Anche un’altra ragione contrasta al marito e moglie, perciò che la diritta gelosia non si può trovare tra loro, senza la quale non può essere lo diritto amore, sì come la regola dice: chi non è geloso non può amare.

All’interno di questa corrente il matrimonio era visto come un blocco al desiderio e alla felicità dei due coniugi: più che un rapporto che legava due persone per amore era un rapporto convenzionale, nel quale uno doveva obbedire all’altro, a differenza degli amanti che si scambiano amore senza dover darsi nulla in cambio. Sempre nel De Amore la donna sognata così risponde al suo corteggiatore:

Anche un’altra cosa non piccola mi contraddice ad amare, perch’ò marito di molta gentilezza e cortesia e senno, il quale sarebbe tropo gran male a farli fallo, perch’io so che m’ama di molto grande amore e io son tenuta ad amare lui. Dunque, se m’ama così, per ragione non posso amare lui.

Ci troviamo di fronte al contrasto tra ethos e pathos. La giustizia e la lealtà del patto dichiarato fanno sì che la donna si convinca che per ragione non può che amare suo marito. Ciò che vacilla è il patto segreto. Isotta, nel Tristano e Isotta risolve la contesa trovando il vero amore in Tristano e, nello stesso tempo, facendo credere al marito di essere ancora vergine e fedele a lui così come fa la Regina Ginevra con Lancillotto nel romanzo di Chrétien de Troyes. La vita matrimoniale era tenuta in vita per i figli e, quindi, per il passaggio di stirpe.

Quante volte sentiamo dire in terapia restiamo insieme solo per i figli. Sono quelle che vengono definite le coppie in stallo: né con te, né senza di te. Sono le coppie che per motivi etici o pseudo etici assumono come reale legame di coppia solo quello genitoriale. I figli sono talmente importanti che tendono a lasciarli in tale condizione attraverso la dipendenza economica, abitativa, affettiva, professionale, etc. Così come descritto nei romanzi dell’amor cortese, l’amore va cercato altrove al di fuori della famiglia. Chiaramente non vi è spazio neanche per la gelosia: essa va cercata nel pathos che coppie di questo tipo tendono a vivere al di fuori della famiglia.

La donna descritta dagli autori dell’amor cortese inizia a scegliere l’oggetto del suo amore. Man mano questa tendenza diventa sempre più presente tant’è che:

fino al Settecento, la letteratura, il teatro e le opere popolari hanno messo in scena una donna libidinosa, che cornificava il consorte, d’altra parte, però, nell’esperienza comune, essendo considerata inferiore, essa era sorvegliata da marito, padre e fratelli, che avevano il compito di salvaguardarne l’onore (Benvenuto, 2011).

La donna, in effetti, fino all’ottocento, secolo in cui inizia a lavorare e a emanciparsi, ha un ruolo subalterno all’interno delle famiglie e doveva essere sposa e madre perfetta.

Leon Battista Alberti, architetto e letterato del ‘400, in uno scritto sulla famiglia descrive le doti morali di una sposa ideale: la dignità, la discrezione, l’onestà cui si doveva aggiungere il saper filare, cucinare e governare la casa.

Baldassare Castiglione nel ‘500, descrivendo la corte ideale, elenca le virtù domestiche che deve possedere una buona madre di famiglia; afferma che deve essere una buona padrona di casa, accogliente verso gli ospiti, e deve conoscere e saper parlare di arte e di lettere.

I matrimoni erano ancora combinati e le figlie non erano ben accette. Si racconta che il duca Alfonso D’Este, quando nacque la figlia Beatrice, vietò le feste.

Anche nella pittura si nota questo cambiamento. Se la donna nei quadri della Sacra Famiglia era messa al centro dell’attenzione, all’interno della nascente famiglia borghese fa un passo indietro ridiventando la donna che si deve sacrificare a favore della domus. Cigoli individua in un’opera di Maarten von Heemsskerck Pieter Jan Foppeszon Patrizio di Haarleem con la Famiglia il mutato contesto culturale sul ruolo della donna. In quest’opera appare dimessa, triste e pensierosa a fronte dell’austerità e lo sguardo fermo e sicuro del marito.

I matrimoni decisi dalle rispettive famiglie di origine trovano ampia enfasi nella letteratura e nei racconti popolari. Il matrimonio perdeva il pathos ovvero la straordinaria avventura dello scegliersi.

Nel 1550 a Firenze, nella sala adiacente al chiostro di Santa Maria Novella, fu rappresentata un’opera di Anton Francesco Grazzini (il Lasca) dal titolo La gelosia, che è esemplificativa del contesto in cui s’inserivano la relazione di coppia e i vissuti di gelosia. La vicenda ha per protagonista la giovane Cassandra, destinata in moglie dal padre avaro a un vecchio facoltoso, benché la donna ami riamata Pierantonio. Alla fine tutto si risolve per il meglio: i giovani amanti si sposano e il vecchio è soddisfatto di avere evitato di contrarre matrimonio con una donna da cui non sarebbe stato amato.

Ma non sempre la fine era così piacevole. La baronessa di Carini, moglie di don Vincenzo La Grua Talamanca, fu uccisa il 4 dicembre 1563 dal proprio padre insieme al proprio presunto amante Ludovico Vernagallo.

La famiglia di origine era garante del patto matrimoniale che, in effetti, non era contrattato dai membri della coppia, ma dai loro rispettivi genitori. La gelosia, quindi, non riguardava la coppia ma le rispettive famiglie di origine. Si sposavano due famiglie che mettevano insieme i loro averi e il loro prestigio piuttosto che gli effettivi sposi.

La trasmissione ereditaria dei beni e dello status è un caposaldo del famigliare. Trasmettere discendenza e trasmettere eredità di beni viaggiano accomunati (…) Le parole chiave di tale passione sono continuità familiare, onore, stima, presentabilità sociale, obbedienza. (Cigoli).

La tragedia della baronessa di Carini è l’emblema della suddetta modalità di relazione. Per tantissimi anni e ancora oggi non si ha certezza del luogo in cui possa essere stata sepolta. Le storie popolari la davano lontana dalla tomba di famiglia che si trovava nella Chiesa di San Mamiliano nel centro storico di Palermo. Anche se dalle ultime scoperte sembra che non sia così, ciò che la tradizione popolare ha voluto mettere in risalto è la rescissione del legame sia in vita (il delitto) che dopo la morte (sepoltura lontana dalla cripta di famiglia). Sempre le storie popolari raccontano che il marito della baronessa si sia risposato e abbia fatto scrivere sulla porta della stanza della defunta moglie E tutto sia nuovo. Ciò che si tentava di sanare era l’onorabilità e la presentabilità sociale della famiglia.

La gelosia trovava il suo riscontro nell’ethos piuttosto che nel pathos. Anzi quest’ultimo, per dirla ancora con Cigoli, diventa l’accidens ovvero l’avvenimento inatteso e imprevisto che mette in crisi le relazioni familiari e sociali.

Nel corso del mio lavoro di consulente all’interno delle C.T.A. (Comunità Terapeutiche Assistite nate in seguito alla chiusura dei manicomi) ho trovato una paziente che era stata ricoverata in manicomio, dichiarata pazza, perché si era innamorata dell’uomo sbagliato per la sua famiglia di origine. La paziente proveniva da una famiglia borghese molto in vista nella città di provenienza. Si era innamorata di un suo coetaneo che la famiglia non vedeva di buon occhio. Non riuscendo a interrompere la storia di amore, la famiglia decise di farla dichiarare pazza e, quindi, ricoverarla in manicomio e, addirittura, non si sa in che modo, la fece dichiarare morta. Nella sua città natale, infatti, si celebrarono i funerali. La paziente morì all’età di 90 anni scrivendo continuamente lettere alla famiglia di origine cui chiedeva aiuto e, soprattutto, esprimeva il desiderio di poter ritornare a casa.

Come per la baronessa di Carini, per garantire l’onorabilità della famiglia, si recide il legame di stirpe. Per evitare contaminazioni alla storia generazionale della famiglia si rompe il legame attraverso la dichiarazione di morte e la celebrazione di un finto funerale.

L’accidens che mette in crisi la relazione familiare e la relazione tra stirpi è il rapporto d’amore tra la paziente e un giovane ritenuto non idoneo al suo rango.

Boszormenyi-Nagi e Spark, introducendo il concetto di lealtà nei sistemi familiari, affermano che essa:

nasce da un atteggiamento del singolo al sistema, di cui egli interiorizza le ingiunzioni esplicite e inespresse e verso il quale manifesta totale obbedienza. A sua volta il sistema per la sua esistenza, dipende dai suoi membri e da essi pertanto si attende lealtà di pensiero, emozioni e motivazioni.

La baronessa di Carini e la mia paziente decidono di fare una scelta autonoma che, secondo il modello sopradetto, costituisce il conflitto di lealtà e il sistema considera tradimento i passi verso l’autonomia.

In Romeo e Giulietta, al contrario, il pathos, dopo la morte dei personaggi mette insieme due stirpi i Montecchi e i Capuleti che per secoli si erano osteggiate. L’innamoramento, che resta pur sempre un dramma, può portare risultati positivi.

Scrive ancora Cigoli:

la famiglia, si sa, ha una base contrattuale ed è cosi in tutte le culture, eppure la contrattualità può essere nemica del legame. Sia che si imponga ai figli la logica ereditaria dei padri (il loro volere), sia che il matrimonio avvenga sulla base di un mero interesse economico e/o sociale delle famiglie di origine, è il legame a soffrire e la tragedia è così dietro l’angolo.

L’ethos non regge all’urto del pathos. Dietro i matrimoni imposti dai genitori, spesso si nasconde la passione, l’amore per un terzo che produce gelosia e, quest’ultima, porta a delle vere e proprie tragedie. La gelosia non è frutto della vita di coppia ma di un difetto originario nella strutturazione del legame di coppia. La sterilità di un matrimonio imposto da esigenze familiari porta a ricercare il pathos all’esterno. La tragedia si consuma perché il sistema non può reggere quest’attacco devastante al legame di stirpe e, quindi, attraverso la morte si deve recidere il passaggio generazionale. Il messaggio insito nell’uccisione della persona che ha commesso adulterio sembra voler estirpare il legame di stirpe.

E’ da tenere presente che tutto ciò era regolato da apposite leggi e consuetudini. Da studi approfonditi sembrerebbe che il padre della baronessa di Carini si auto incolpò dell’uccisione della figlia e del suo amante, attraverso una lettera al Re di Spagna, per scagionare il genero. Una legge borbonica, infatti, consentiva al padre dell’adultera di uccidere la figlia e il suo amante, mentre al marito di uccidere solo il rivale.

Solo al padre era consentito estinguere il legame generazionale: il legame di stirpe.

Ai genitori è dato il compito di donare la vita: Il dono della vita diventa così un mezzo per legare l’altro a sé indissolubilmente. Ai genitori e specificatamente al padre, cui spesso è assegnato il compito di garantire la giustizia, è dato il compito di toglierla. La morte nella sua valenza psichica è mancanza di legame-cura, è abbandono, è rifiuto dell’altro (Cigoli 2006).

La gelosia, quindi, tende all’annullamento fisico o psichico dell’altro, anche se, come vedremo in seguito, ottiene il contrario.

Il microbioma influenza il nostro comportamento?

Il microbiota è l’insieme dei microrganismi che convivono nell’organismo umano senza danneggiarlo, mentre il microbioma è l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali di questi microrganismi.

 

Si tratta principalmente di batteri ed è possibile identificare tra le 500 e le 10.000.000 di specie. Il loro numero è circa 10 volte quello delle nostre cellule, tuttavia non si tratta solamente di batteri ma anche, in misura minore, di virus e miceti.

Lo sviluppo del microbioma umano avviene nei primi giorni di vita ed è essenziale per la maturazione e lo sviluppo del sistema immunitario (Belkaid&Hand, 2014).

L’adolescenza è un periodo di sviluppo cognitivo e comportamentale estremamente sensibile e la letteratura ha ampiamente dimostrato come l’ambiente sia in grado di interferire e quindi modificare lo sviluppo cognitivo e comportamentale durante questa fase dello sviluppo.

Tra i fattori che influenzano lo sviluppo dell’individuo in adolescenza ci sono lo status socio-economico e la relazione con i propri caregiver. È stato dimostrato come queste due componenti possano portare allo sviluppo di disturbi psichiatrici (Flannery et al., 2019).

Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato che il comportamento del caregiver potrebbe portare a modifiche nello sviluppo delle funzioni nervose sia a carico del sistema nervoso centrale che di quello periferico (Fisher et al., 2016).

Dalla letteratura si evidenzia come anche il microbioma intestinale sembri influenzare, insieme ad altre variabili, lo sviluppo neurobiologico e mentale in adolescenza (Dinan & Cryan, 2016).

Recenti esperimenti sugli animali mostrano che il microbioma comunica con il sistema nervoso centrale influenzando il comportamento sociale, esplorativo e affettivo dell’animale.

I ricercatori stanno considerando l’ipotesi che il microbioma medi l’interazione trai i fattori esogeni (ovvero fattori esterni che interagiscono con il nostro organismo) e il nostro organismo; di conseguenza la capacità dell’ambiente di influenzare il nostro comportamento dipenderebbe anche dal nostro microbioma, tuttavia non si tratterebbe di un processo unidirezionale dato che l’ambiente, in particolare nel primo anno di vita, impatterebbe in maniera significativa sulla modifica del nostro microbioma. Quindi, riassumendo, l’ambiente modificherebbe il nostro microbioma, e quest’ultimo a sua volta inciderebbe sulla capacità dell’ambiente di modificare il nostro comportamento: si tratta quindi di una relazione bidirezionale.

È stato dimostrato come sia negli umani che negli animali i fattori stressanti, come ad esempio una relazione negativa con i propri caregiver, modifichino la quantità di alcuni batteri del nostro intestino (Flannery et al., 2019).

Secondo una ricerca pubblicata su American Society for Microbiology, sembrerebbe che il microbioma possa essere modificato anche dopo i primi anni di vita, e che vada ad incidere in maniera significativa con cambiamenti comportamentali dell’individuo. Tale cambiamento sembrerebbe essere causato dalla relazione con i propri caregiver; per lo studio sperimentale sono stati presi in esame 40 bambini (età media 7 anni) e i relativi caregiver. A quest’ultimi sono stati somministrati questionari riguardanti il comportamento abituale che avevano nei confronti dei propri figli.

In seguito è stato estratto il DNA dalle feci dei bambini per individuare e categorizzare il microbioma; una volta ottenuti questi dati i ricercatori hanno osservato che la varianza di popolazione batterica nei bambini cambiava a seconda dei comportamenti tenuti nei loro confronti dai caregiver.

In conclusione il suddetto studio suggerisce che, quando consideriamo lo sviluppo psicologico di un bambino, bisogna tener conto di fattori biologici, psicologici, ambientali, psicosociali, e infine risulta essere decisivo anche il microbioma.

I ricercatori sostengono che per la metodologia utilizzata nel suddetto studio non si possa fare un’inferenza di causalità, dato che si tratta di uno studio cross-sectional. Si evidenzia quindi la necessità di ulteriori studi per rafforzare l’ipotesi che il microbioma possa essere modificato dall’ambiente (in particolare dal comportamento dei caregivers) (Flannery et al., 2019).

Sport estremi: strumento di regolazione emotiva o dipendenza?

Sembra che praticare sport estremi possa aiutare alcuni soggetti a rinforzare il proprio senso di agency e a regolare le emozioni. Tuttavia, non è raro che questi sportivi sviluppino una dipendenza da attività estreme.

Alberto Morandi e Marta Venturini – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Gli sport estremi, quali ad esempio il free climbing, alpinismo, sci o snowboard estremo, sono frequentemente definiti come attività nelle quali è probabile il verificarsi di un “errore di calcolo” o incidente mortale (Brymer and Schweitzer, 2017).

La regolazione emotiva è un termine usato per caratterizzare i diversi processi coinvolti nell’iniziare, mantenere e modulare l’intensità, il tipo o la durata delle emozioni (Thompson, 1994). Si riferisce ad azioni che influenzano “quali emozioni abbiamo, quando le abbiamo e come le esperiamo ed esprimiamo” (Gross, 2002, p. 282).

Le persone che si impegnano in attività prolungate ad alto rischio, come fanno ad esempio gli alpinisti, sembrano dimostrare difficoltà nella regolazione delle emozioni e un diminuito senso di agency in importanti aspetti della vita quotidiana  (Woodman, Hardy, Barlow, & Le Scanff, 2010). Alcune attività ad alto rischio possono essere un comportamento con funzione compensatoria per le persone: un’opportunità di esperire una regolazione emotiva e un senso di agency in un modo che non è percepito nella vita quotidiana. Ricerche hanno suggerito che persone che praticano sport estremi possono intenzionalmente cercare situazioni di caos, stress, pericolo in modo da dimostrare il loro senso agency e controllo emotivo (Collins, Collins, & Willmott, 2018).

Se un individuo ingaggia attività ad alto rischio con scopi specifici (impliciti o espliciti) di sperimentare una regolazione emotiva e un senso di agency, può trarre un probabile beneficio dalla partecipazione. Tali soggetti possono inoltre esperire e trasferire un senso di regolazione emotiva e senso di agency da un dominio di sport ad alto rischio ad importanti aspetti della loro vita quotidiana (Woodman et al., 2010).

Tuttavia oltre ai benefici appena descritti, le ricerche hanno visto come questi sportivi possano sviluppare una dipendenza dalle attività estreme.

Il termine dipendenza è spesso collegato a dipendenze da sostanze, alcool o tabacco, ma attività come il gioco d’azzardo, lo shopping, l’uso di internet e l’esercizio fisico possono diventare anch’esse fonte di dipendenza (Griffiths, 1996, 1997).

Tali “dipendenze comportamentali” mostrano sintomi simili a quelle da sostanza. Secondo Brown, inoltre, il concetto teorico di dipendenze comportamentali include la componente di salienza (l’attività diventa la cosa più importante nella vita di una persona), conflitto (tra persone con dipendenza e persone senza), modificazione dell’umore (strategia di coping per regolare le emozioni), tolleranza (aumento dell’ammontare di attività richiesta per ottenerne l’effetto) sintomi d’astinenza (sensazioni spiacevoli vengono avvertite alla riduzione dell’attività), e perdita di controllo (inabilità di limitare il tempo dedicato all’attività) (Brown, 1997).

La dipendenza da esercizio fisico è caratterizzata da un aumento dell’ammontare di esercizi, i quali assumono priorità su altre aree della vita della persona. Tale dipendenza viene spesso associata a sport individuali come il running ed il sollevamento di pesi, mentre non è stata ad oggi ancora investigata negli sport di squadra. La dipendenza da esercizio è stata descritta inizialmente da Glasser (1976) e introdotta in termini di “dipendenza positiva” in relazione ai benefici derivanti dall’attività fisica. Potenziali danni o conseguenze dall’eccessivo esercizio fisico sono stati descritti come infortuni, pattern disfunzionali di alimentazione e perdita delle relazioni sociali (Griffiths, 1997).

Nonostante la mancanza di coerenza della terminologia e dell’approccio di ricerca usato, esistono diverse definizioni e strumenti di misura per la dipendenza da esercizio fisico (Roderique-Davies, Heirene, Mellalieu & Shearer, 2018). Attualmente, la dipendenza da esercizio fisico non esiste tuttavia come diagnosi nell’ICD-10 (World Health Organization, 2004).

Hausenblas e Downs la definiscono come:

un desiderio per l’attività fisica che risulta nell’estremo esercizio e genera sintomi fisiologici (ad es. abuso e tolleranza) e psicologici (ad es. emozioni negative quando inabili all’esercizio) negativi.

A questi autori si deve la realizzazione della Exercise Dependence Scale (EDS) la quale è basata sui criteri diagnostici dell’abuso di sostanza (Hausenblas and Downs, 2002). L’Exercise Addiction Inventory (EAI) è un altro semplice strumento per verificare la dipendenza da esercizio fisico, basato sulle componenti di dipendenza comportamentale spiegate dalla teoria di Brown (Szabo, Griffiths, 2004).

Nell’ambito degli sport estremi è stato indagato anche come skydivers possono esperire, durante periodi di inattività sportiva, aspetti di astinenza quali anedonia e umore negativo simili a quelli osservati in soggetti con dipendenza da sostanze (Franken, Zijlstra and Muris, 2006).

Inoltre, un forte desiderio (craving) e il bisogno di svolgere sport estremi è stato recentemente osservato negli arrampicatori in periodi di astensione dal loro sport: in periodi di inattività è stato possibile osservare esperienze affettive negative e anedonia. Il craving si dimostra quindi centrale nell’esperienza degli arrampicatori: è stato concettualizzato come un forte bisogno di svolgere attività sportiva, relato ad urgenza e compulsione comparabili a quelle osservate in soggetti con dipendenza da sostanze. Alcune misure di tali aspetti potrebbero fornire una maggiore comprensione dei gradi di dipendenza esperiti da atleti che praticano sport estremi in confronto ad altri sport (ad es. surfisti) e attività (ad es. uso di droga). Tali gradi di dipendenza potrebbero essere indagati osservando i livelli di desiderio rispetto alla pratica di attività, gli stati associati (ad es. sintomi di astinenza) e i comportamenti (ad es. eccessivo allenamento e l’incorrere in rischi eccessivi) (Roderique-Davies et al., 2018).

Davies e colleghi hanno svolto due studi per realizzare e validare un questionario multidimensionale finalizzato a misurare il craving in un campione di arrampicatori e alpinisti  (2018): attraverso il Rock Climbing Craving Questionnaire (RCCQ), gli autori hanno confermato l’ipotesi che possano esserci delle similarità concettuali tra il craving per sport estremi e quello per sostanze.

Ad oggi, tuttavia, la mancanza di coerenza nella definizione e negli strumenti di valutazione rende difficile stimare la presenza di dipendenza da esercizio negli sportivi, anche per il fatto che gli studi presenti in letteratura si focalizzano su differenti, e a volte non specifici, tipi di attività sportiva.

Sebbene soggetti con dipendenza da sostanze e soggetti che praticano sport estremi possono fare esperienza di stati psicologici simili, i loro comportamenti sono distinti sul campo della legalità, accettabilità sociale e promozione della salute. Inoltre, l’impatto del coinvolgimento eccessivo in sport estremi può essere meno deteriorante per un individuo a livello personale, sociale e professionale rispetto all’eccessivo uso di sostanze. Infatti, si rende necessario prestare attenzione ad evitare di etichettare come patologici tutti gli atleti di sport estremi, come “dipendenti” che devono essere trattati. L’accettabilità sociale degli sport estremi appare infatti mediata da diversi aspetti, quali ad esempio la possibilità di fare esercizio, sviluppare abilità e soddisfare tratti legati alla ricerca di sensazioni, diventare agenti delle loro emozioni ed esperire libertà, sfida e nuovi ambienti (Roderique-Davies et al., 2018).

 

Frozen: indegnità e controllo nella vita di Elsa – La LIBET nelle narrazioni

Frozen – Il regno di ghiaccio è un film d’animazione (2013) diretto da Chris Buck e Jennifer Lee, prodotto dalla Walt Disney Pictures Studios. Le prime scene inquadrano la relazione protettiva e sicura presente tra le due principesse, le quali si differenziano per la vivacità, noncuranza delle regole e iperattività di Anna da un lato e per la posatezza di Elsa dall’altro.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 4) Frozen

 

L’ambientazione maggiormente ripresa è il Regno di Arendelle, situato nella penisola Scandinava, dove vivono le protagoniste del film: Elsa e Anna (inizialmente insieme ai loro genitori).

Le prime scene inquadrano la relazione protettiva e sicura presente tra le due principesse, le quali si differenziano per la vivacità, noncuranza delle regole e iperattività di Anna da un lato e per la posatezza di Elsa dall’altro.

La dinamica di gioco, che ha un ruolo di apertura nel film, evidenzia una relazione basata sul tentativo di Elsa di soddisfare il desiderio di aumento dell’adrenalina della sorella, che non presta attenzione al pericolo, bensì si lascia completamente trasportare dal divertimento.

Elsa, fin da subito, manifesta una capacità di previsione del pericolo e tentativi, a tratti goffi, di controllare la vivacità della piccola Anna (‘Shhhh’, ‘Anna attenta!’).

Tema e piano semi-adattivo:

Il momento di apprendimento del piano semi-adattivo di Elsa non è ben chiarificato nel film, si potrebbe ipotizzare che sia stata la richiesta genitoriale di responsabilità in quanto sorella maggiore ad aver creato in Elsa quel comportamento di contenimento alle condotte iperattive della sorella; ipotesi a cui non possiamo dare conferma o disconferma basandoci esclusivamente sugli elementi presenti nel film.

Ciò che invece è possibile rintracciare con certezza è il momento in cui le strategie acquisiscono le caratteristiche rigide e invalidanti, esplicitate in Elsa attraverso comportamenti estremamente controllanti (piano prescrittivo) ed evitanti (piano prudenziale).

L’episodio che acquisisce importanza si rintraccia proprio in uno dei momenti di gioco delle due sorelle già descritto in precedenza. Elsa, che fin dalla nascita si contraddistingue per la magia di creare il ghiaccio, colpisce involontariamente alla testa la sorella Anna, lasciandola priva di sensi.

All’arrivo dei genitori, il padre esordisce spaventato ‘Elsa cosa hai fatto!’, frase che può avere avuto un’influenza nell’elaborazione dell’evento traumatico nella principessa maggiore.

I genitori decidono di portare la piccola Anna dai Troll al fine di salvarle la vita, i quali riferiscono che l’unica soluzione per farlo è quella di cancellare il ricordo dei poteri di Elsa nella piccola Anna, pur mantenendo i momenti rappresentativi del legame tra di loro. Inoltre, aggiungono che il dono di Elsa può divenire una maledizione se la principessa non impara a governare le proprie emozioni, quindi i suoi poteri.

Il Re e la Regina di Arendelle decidono di tenere Elsa chiusa nella sua stanza, lontana dal mondo esterno e da Anna, con l’obiettivo di aiutarla ad imparare a controllare la sua emotività. In questo tentativo di apprendimento di controllo, le difficoltà di Elsa sono visibilmente presenti, al punto tale che tanto più cerca di controllarsi, tanto più fatica a controllare la magia del ghiaccio. Insieme all’utilizzo di strategie di controllo (piano prescrittivo), quali utilizzo di guanti e monitoraggio costante di se stessa e dei suoi poteri, si uniscono le strategie di evitamento (piano prudenziale) quali l’allontanamento da tutte le situazioni sociali.

Queste strategie proteggono Elsa dalla sua più grande sensibilità: essere indegna (sbagliata e pericolosa). ‘Se ferisco gli altri con i miei poteri significa che sono indegna, cosa che per me è terribile o insopportabile per cui devo controllare le mie emozioni e le mie relazioni con il mondo esterno per prevenire, evitare, sopprimere e non posso fare altrimenti’.

Invalidazione:

La morte dei genitori e il raggiungimento dei 21 anni, quindi la proclamazione di Elsa come Regina, la costringono a rivalutare i suoi comportamenti protettivi del proprio tema.

Elsa, che è costretta ad esporsi alla società durante la cerimonia (quindi a rendere flessibile il suo piano prudenziale), tenta,  attraverso il rimuginio e il controllo, di gestire la propria emotività, quindi i propri poteri, al fine di adempiere ai suoi doveri di futura regina (piano prescrittivo).

A fine cerimonia, Elsa, ormai divenuta Regina, ha una discussione con Anna. La principessa, innamoratasi la sera stessa del Principe Hans, chiede la benedizione della Regina per la proclamazione delle nozze, quindi per portare di nuovo la vita e le relazioni sociali all’interno del palazzo. Questa immagine porta Elsa direttamente in contatto con il proprio tema e fa scattare in lei un atteggiamento protettivo di rifiuto rispetto alla richiesta così improvvisa della sorella. Durante la discussione Anna sfila inconsapevolmente il guanto a Elsa, la quale spaventata e arrabbiata, non gestisce più le sue emozioni e si palesa con i suoi poteri a tutto il Regno.

A seguito di questo episodio invalidante, Elsa si rifugia libera e sola nella montagna del Nord (‘No Anna, il mio posto è qui, da sola, senza poter ferire nessuno’).

In conclusione, l’invalidazione del piano di Elsa la porta in contatto direttamente con il suo tema (sono sbagliata), quindi alla conseguente manifestazione della sintomatologia. L’evitamento estremo non adattivo di Elsa nella montagna del Nord è, infatti, identificabile come sintomo dell’invalidazione del piano.

La manifestazione sintomatologica è evidente anche dallo stato emotivo negativo esplicitato da Elsa attraverso il canto, che è caratterizzato da significati dolorosi, di solitudine e forte senso di colpa.

Solo successivamente, attraverso un percorso di accettazione di se stessa, Elsa riuscirà a stare in contatto con il suo tema, attraverso comportamenti più flessibili e funzionali, che le permetteranno di stare nuovamente nella società e di lasciarsi vedere dal mondo per la persona che è, nella sua interezza.

 

All’origine del panico

Il paziente con disturbo da attacchi di panico tende a percepire il pericolo là dove non esiste, il locus coeruleus si attiva come se fosse in presenza di un reale pericolo e prepara in pochi secondi l’organismo all’attacco o alla fuga.

 

Il nucleo del disturbo di panico è alimentato da un evidente squilibrio neurochimico, come documentato da referenze internazionali dagli anni ‘80 a oggi. La patogenesi del disturbo consiste in un’alterata regolazione del centro dell’allarme di cui tutti i primati dispongono, situato nel locus coeruleus (dal lat. punto blu), centro nevralgico noradrenergico. In condizioni normali questo centro si attiva in condizioni di allarme reale percepito e nel volgere di 15-30 secondi attiva tutte le funzioni del corpo umano predisponendolo alla difesa della propria incolumità: attacco o fuga. (Gorman et al.,1989-2000; Gold, Machado-Vieira, Pavlatou, 2015).

La reazione di attacco o fuga (in inglese: fight or flight response) fu descritta per la prima volta agli inizi del secolo scorso da Walter Bradford Cannon (Cannon, 1915), affermando che gli animali reagiscono agli eventi/stimolo minacciosi con una forte scarica del sistema simpatico, che serve appunto a preparare l’organismo a una reazione di tipo aggressivo o alla fuga.

Il paziente con disturbo da attacchi di panico ha una disregolazione congenita di questo meccanismo per predisposizione familiare (Pauls et al., 1980; Crowe et al., 1983; Kim, 2018) o acquisita successivamente mediante utilizzo di sostanze psicostimolanti o in seguito a un evento di vita fortemente stressante (Faravelli, 1985; Faravelli e Pallanti, 1989). A causa di questa disregolazione, che può essere già evidente sin da bambini, il paziente percepisce il pericolo là dove non esiste. Il locus coeruleus si attiva come se fosse in presenza di un reale pericolo e prepara, sempre nel volgere di 15-30 secondi l’organismo all’attacco o alla fuga.

A livello fisiologico questa attivazione generale generata dal locus coeruleus determina vasocostrizione, aumento della pressione arteriosa, tachicardia, aumento della frequenza respiratoria, sensazioni di morte imminente, sensazioni di perdere il controllo, sensazioni di svenimento, sensazioni di impazzire.

Risulta essere pertanto evidente che, in base a questo principio, se un soggetto normale dovesse incontrare un leone per strada, dietro un angolo, tutte queste manifestazioni psicofisiologiche che egli potrebbe esperire sarebbero considerate tipiche di una reazione di attacco/fuga e assolutamente normali in base alla situazione contingente. Se un paziente dovesse esperire invece tutti questi sintomi in assenza di uno stimolo minaccioso, senza un pericolo reale di varia entità, a ciel sereno, non si renderebbe conto di quello che gli starebbe per accadere e l’unica spiegazione cognitivamente valida che sarebbe in grado di darsi potrebbe essere questa: sto morendo.

Il punto chiave del disturbo di panico quindi, sembra sia rappresentato dalla tendenza, nei soggetti che ne soffrono, a iniziare in maniera inappropriata la reazione di attacco/fuga senza che vi sia un vero allarme da dover gestire e un vero pericolo da affrontare. Questa attivazione fisiologica inopportuna fa scivolare inevitabilmente gli individui panicosi in uno stato di perenne allerta, che in maniera inequivocabile, finisce per rovinare poi la produttività e il benessere individuale.

 

One night stand e Tinder: ecco quanto l’app aiuti effettivamente a trovare un partner

Tinder è un’applicazione particolarmente conosciuta da tutti quei giovani che almeno una volta nella vita hanno desiderato incontrare un nuovo partner (occasionale o meno), restando comodamente a casa propria.

 

Il funzionamento dell’app è molto semplice: prima di tutto bisogna iscriversi tramite il proprio account Facebook o Instagram, in secondo luogo è necessario caricare le foto migliori e, infine, indicare il sesso e l’età desiderata del futuro partner. Una volta registrati, Tinder sarà in grado di individuare tutte le persone che, a distanza di pochi chilometri, corrispondono ai criteri di ricerca inseriti mostrando le loro foto: scorri a sinistra se la foto è di tuo gradimento oppure a destra se non lo è. Solo nel caso in cui entrambe le persone interessate abbiano espresso un giudizio positivo sull’altro (detto match) l’applicazione consentirà di iniziare una conversazione privata.

Tinder è stata sempre considerata, per lo più, un’applicazione utile a trovare incontri sessuali occasionali (Sevi et al., 2018), piuttosto che per la ricerca di un partner a lungo termine. Tuttavia, alcuni recenti studi hanno mostrato che non sempre è così (es., LeFebvre, 2017): infatti alcuni utilizzatori hanno affermato di cercare, tramite Tinder, qualcosa di più di una semplice relazione one night stand (Timmerman & Courtois, 2018).

Nonostante l’app abbia incuriosito diversi autori negli ultimi anni, nessuno studio ha indagato sul fatto che Tinder effettivamente aiuti le persone a trovare partner occasionali o a lungo termine, ed è proprio partendo da questo quesito che è stata sviluppata la presente ricerca (Grøntvedt et al., 2019).

È stato preso in considerazione campione di 283 studenti di scienze umane, reclutati in un campus a Trondheim in Norvegia. A ognuno di loro è stato chiesto da quanto tempo utilizzassero Tinder, quanti incontri avessero fatto grazie all’applicazione, quanti partner occasionali fossero riusciti a trovare e quanti invece fossero riusciti a cominciare una relazione a lungo termine.

I risultati hanno mostrato che, al contrario delle aspettative, solo un numero limitato di partecipanti erano riusciti a trovare un partner sessuale occasionale grazie a Tinder. Tra coloro che affermavano di avere uno scarso successo nel trovare partner occasionali nel ‘mondo reale’ (senza quindi utilizzare nessuna app di incontri), Tinder non si è dimostrato in grado di ribaltare questa tendenza: l’applicazione non ha quindi incrementato il numero di incontri per gli users. Allo stesso modo, chi aveva sempre avuto successo nel corteggiamento tradizionale, era più avvantaggiato anche con l’utilizzo di Tinder. Nemmeno per coloro che utilizzavano l’app con lo scopo di trovare partner a lungo termine Tinder ha mostrato risultati migliori.

In conclusione, il presente studio sembra sfatare il mito che Tinder sia un modo più utile e rapido di trovare un partner rispetto ai metodi più tradizionali: infatti, nonostante i limiti dello studio, tra cui è possibile citare una bassa diversificazione del campione, i risultati dimostrano che tra gli utilizzatori di Tinder solo 2 persone su 10 riescono a trovare un partner occasionale o a lungo termine grazie all’applicazione.

La recovery dai disturbi alimentari: il punto di vista dei pazienti

La ricerca qualitativa si è dimostrata particolarmente idonea per indagare aspetti che difficilmente potrebbero essere catturati con altrettanta profondità dalle ricerche quantitative. Il processo e l’esperienza di remissione da un disturbo alimentare, così come descritti e narrati dai pazienti, hanno il potenziale di essere una ricca fonte di informazioni fornendo nuove comprensioni e preziosi contributi per la creazione di piani di trattamento più efficaci.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Recentemente, le ricerche condotte con l’impiego di metodologie di stampo qualitativo, stanno assumendo un crescente utilizzo e stanno iniziando ad essere adoperate per indagare numerosi aspetti connessi ai vissuti e alle problematiche di svariate psicopatologie. Le particolari caratteristiche che contraddistinguono questo modo di fare ricerca contribuiscono a connotare la ricerca qualitativa di elementi che la rendono particolarmente idonea, laddove condotta nel rispetto di procedure rigorose e rintracciabili, ad indagare aspetti che difficilmente potrebbero essere catturati con altrettanta profondità dalle ricerche condotte con disegni di ricerca quantitativi che, per definizione, fanno impiego di strumenti maggiormente standardizzati.

Accanto a questa proliferazione di ricerche assistiamo anche ad un crescente interesse verso i vissuti esperienziali dei pazienti, a come questi ultimi sperimentano la loro malattia e a come riescano a raggiungere, da questa, uno stato di remissione. L’attenzione a come il paziente percepisce lo stato di guarigione e a ciò che è più funzionale o, di contro, ostacolante in questo processo, sta divenendo un ambito di ricerca in molte psicopatologie compresi i disturbi alimentari (DA).

I disturbi dell’alimentazione sono disturbi particolarmente complessi, caratterizzati da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Stanno avendo una sempre più larga diffusione, per genere, fasce di età e area geografica. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza, interessando soprattutto il sesso femminile e possono alterare il normale corso dello sviluppo  (Berkman, Lohr, & Bulik, 2007). Gli aspetti collegati alle comorbilità di questi disturbi, alle gravi complicanze a livello fisico, sociale, relazionale e a quelli di cronicità, li rendono disturbi difficili da riconoscere precocemente, trattare e dai quali ottenere una remissione completa.

Il concetto di recovery è emerso a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ed è un aspetto sempre più importante all’interno dei servizi che si occupano di salute mentale. I processi di recovery appaiono spesso complessi e difficili da misurare e possono essere compresi in maniera più approfondita focalizzandosi sulle prospettive dei pazienti mediante l’impiego di metodi di ricerca di stampo qualitativo (Jacobson, 2001).

La ricerca qualitativa impiega numerosi metodi per la raccolta e l’analisi dei dati che si distinguono tra loro in quanto si basano su assunti epistemologici specifici e per i quali non è presente una tassonomia definita. I principali sono la Grounded Theory  (Glaser & Stauss, 1967), l’etnografia (Remotti & Fabietti, 1997), i focus group, (Albanesi, 2004) e l’approccio narrativo come il metodo delle storie di vita (Lieblich, Tuval-Mashiac & Ziber, 1998). Altri metodi che possono essere impiegati sono l’analisi del discorso (Van dijk, 1997) e l’analisi della conversazione (Sacks, Schegloff, & Jefferson, 1974).

Le caratteristiche essenziali che possono descrivere questo tipo di approccio sono:

  • l’impiego di metodi di raccolta dei dati open-ended;
  • l’uso di parole e immagini visive al posto di dati statistici per descrivere eventi o esperienze psicologiche;
  • la convinzione che le scoperte siano costruite socialmente piuttosto che sia la “verità”ad essere scoperta;
  • il focus costante sul participant meaning (Hill, Knox, Thompson, Williams, Hess &Ladany, 2005).

Per quanto riguarda i tassi di guarigione da un disturbo alimentare, questi oscillano nelle ricerche tra il 24 e il 76% (Katzman, Golden, Neumark-Sztainer, Yager, &Strober, 2000; Zipfil, Lowe, Reas, Deter, & Herzog, 2000). Le differenze nei tassi sono dovute parzialmente alle varie definizioni applicate al concetto di guarigione, così come ai criteri impiegati per definirne il raggiungimento (peso corporeo, severità dei sintomi accusati, comportamenti riguardanti l’assunzione di cibo e ricomparsa e stabilità del ciclo mestruale) (Herzog, Nussbaum, &Marmor, 1996). Questi criteri tuttavia sono stati messi in discussione dal momento che è stato rilevato come alcuni pazienti con anoressia nervosa (AN) che sono riusciti a recuperare il loro peso precedente, mantengano degli atteggiamenti controversi nei riguardi del cibo e delle forme del proprio corpo (Fenning, Fenning, & Roe, 2002) e altri, nonostante abbiano sospeso la pratica di comportamenti alimentari disfunzionali, continuano ad esibire problemi psichiatrici e limitazioni nel funzionamento sociale e lavorativo . Quando la remissione da un DA viene determinata solo dai clinici e dai ricercatori, importanti aspetti di questo processo potrebbero essere sottovalutati e fattori di natura psicologica dovrebbero essere considerati nella valutazione della recovery. Una valutazione globale, che tenga conto sia dei fattori fisici che psicologici, è molto rara e difficile da perseguire e non sempre fattibile nella pratica clinica (Couturier & Lock, 2006).

Il processo e l’esperienza di remissione da un disturbo alimentare, così come descritti e narrati dai pazienti, hanno il potenziale di essere una ricca fonte di informazioni fornendo nuove comprensioni e preziosi contributi per la creazione di piani di trattamento più efficaci.

Tra i temi ricorrenti che emergono dagli studi qualitativi ci sono i turning points o punti di svolta. Questi vengono definiti dalle pazienti come momenti o eventi particolari fondamentali per intraprendere l’iter verso la guarigione. Possono essere descritti come epifanie, altre volte sono più graduali, ma in ogni caso fungono da fattori di innesco per la presa di decisione. La malattia o la scomparsa di una persona cara ha agevolato la scelta di vivere in alcuni pazienti con AN (Nillson& Hӓgglöf, 2006; Mitchison, Dawson, Hand, Mond, &Hay, 2016), così come il giungere a pensare di togliersi la vita (Dawson, Rhodes, &Touyz, 2014). I turning points possono essere anche eventi spaventanti connessi alla propria salute:

Stavo malissimo e penso che quello sia stato un punto di svolta per me […] ogni volta che vomitavo sentivo le palpitazioni forti del mio cuore e sudavo freddo, […], mi resi conto che se avessi continuato così sarei morta, perché quello non era normale…sapevo solo che qualcosa doveva cambiare. (Patching & Lowler, 2009, p.17)

Altri eventi individuati sono stati ad esempio il collasso in spiaggia per una giovane paziente con AN, l’irregolarità e velocità del proprio battito cardiaco durante un episodio di vomito auto indotto per un’altra affetta da bulimia nervosa (BN) (D’Abundo & Chally, 2004) e l’ospedalizzazione (D’Abundo & Chally, 2004;  Matoff & Matoff, 2001). Alcune pazienti descrivono di aver fatto esperienza di una sorta di “click”, o switch mentale alla cui base ci può essere anche il riconoscimento di nuovi bisogni, in aree diverse della vita, aldilà delle restrizioni offerte dai disturbi alimentari:

[Mi stavo chiedendo] come posso essere felice nella mia vita?…è come se stessi sprecando il mio tempo facendo quello [le abbuffate]. Non stavo facendo nient’altro..non avevo un buon lavoro, non avevo un’educazione…dovevo impiegare le mie capacità per fare qualcos’altro. (Krentz et al., 2005, p. 124)

I “click” possono essere innescati anche da commenti sullo stato di deprivazione fisica o sulle conseguenze negative dei disturbi dell’alimentazione:

Il mio dottore mi disse che mi stavo bruciando l’esofago e che sarei potuta morire…e allora ho iniziato a riflettere se liberarmi o meno dal disturbo e… ho capito che non volevo assolutamente morire! (Las Hayas et al., 2015, p.13)

Anche aspetti connessi alla maternità possono fungere da improvvisi punti di svolta, sia che si declinino nello scoprire di aspettare un figlio (Lindgren, Enmark, Bohman, & Lundström, 2015), sia nell’apprendere di averlo perso a causa delle compromissioni fisiche causate dalla malattia (Weaver, Wuest & Ciliska, 2005).

La comprensione e l’accettazione delle conseguenze negative causate dal disturbo in molti contesti della vita sono aspetti frequentemente implicati nel percorso di guarigione. Possono riguardare le complicanze fisiche legate ai DA, come i danni all’esofago a causa del vomito autoindotto o la connessione tra le aritmie, i collassi e la protratta malnutrizione (Lindgrenet al., 2015). Altre conseguenze negative emerse sono i sentimenti di imbarazzo provati per i propri comportamenti alimentari, la sofferenza psichica e fisica causata dagli episodi di abbuffate e dai conseguenti meccanismi di purging, le difficoltà di concentrazione e la sensazione di stanchezza e spossatezza costanti (D’Abundo & Chally, 2004). Molte pazienti riportano di aver preso coscienza di come il disturbo alimentare abbia impedito loro di ottenere i risultati sperati come terminare l’università o migliorare la propria carriera (Jenkins & Ogden, 2012; Matoff & Matoff, 2001). In senso più ampio, le riflessioni delle pazienti si possono allargare anche alla presa di coscienza delle ristrette possibilità di vita offerte dalla malattia:

Ad un certo punto ho iniziato a pensare a tutte le cose che avrei potuto ancora perdere e a tutte le cose che invece avrei voluto fare, e tutti i Paesi che avrei voluto visitare. (Lindgrenet al., 2015, p. 864)

Anche accettare che molte occasioni lavorative non sono state colte o che non si è riusciti ad istaurare delle relazioni intime a causa del disturbo fa parte del percorso:

Sento un grande dolore perché ho speso 25 anni della mia vita con la bulimia e ora so che molti treni sono passati e che ormai li ho persi. (Pettersen, Wallin & Björk , 2016, p.6)

La recovery viene descritta come un processo nel quale le donne sentono di aver riguadagnato il controllo delle loro vite, ad esempio decidendo di alimentarsi in maniera più sana:

Penso che il fattore più importante per me per star bene è stato assumere il controllo in un modo sano piuttosto che in un modo non sano. La malattia ha controllato la mia vita e dal momento che ho deciso [di voler star meglio], ho riassunto il controllo sulla mia alimentazione…e così ho iniziato a sentire di nuovo anche altre cose nella mia vita di più sotto il mio controllo. (Patching & Lowler, 2009, p. 7)

Come è emerso dallo studio di Lamoureux e Bottorff (2005) il potere e il controllo offerti dall’AN sono fattori che aumentano la vulnerabilità dei soggetti e rendono più difficile il distanziamento progressivo dalla malattia. Una “cura consapevole di sé attraverso un’alimentazione sana” (Weaveret al., 2005) e un “avvicinarsi a dei comportamenti sani e salutari” (D’Abundo & Chally, 2004) vengono descritti dalle pazienti come modalità efficaci e non più distorte attraverso le quali poter riacquistare il controllo perso a causa del disturbo:

Credevo che non mangiando potessi ottenere il controllo. Ad un certo momento ho improvvisamente realizzato che solo mangiando, potevo ottenerlo. […] Quando smetti di mangiare sei veramente fuori controllo. Ora mangio in maniera sana e ho il controllo della mia vita! (D’Abundo&Chally, 2004, p.1102)

Alcuni fattori connessi al ruolo delle terapie e dei trattamenti vengono ritenuti particolarmente importanti, come ad esempio la disponibilità all’ascolto da parte del terapeuta e la sua empatia, la possibilità per il paziente di avere una certa quota di controllo sul piano di trattamento e il sentirsi aiutato nell’identificare le cause profonde del disturbo (Jenkins e Ogden, 2012).

Aspetti problematici per alcune pazienti sono stati trovare un terapeuta con la necessaria esperienza e il controllo del peso, considerato come un elemento che accentua la sensazione di essere ancora “giudicate da una scala” (Arthur-Cameselle e Quatromoni, 2014). Il focus eccessivo sul peso e sulle misure viene percepito come un elemento ostacolante laddove molte donne ritengono che i trattamenti dovrebbero riporre enfasi maggiore alla salute e al benessere a livello globale (Linville, Brown, Sturm, &McDougal, 2012). Gli obiettivi raggiunti in termini di peso riacquistato o stabilizzato vengono considerati come tra i punti più bassi nel processo personale di recovery:

L’ho raggiunto [il target di peso] […] ma un sacco di cose nella mia testa non sono cambiate…il trattamento è stato molto focalizzato sul fisico e loro [i dottori] non guardavano al lato mentale delle cose e sebbene misi su del peso, non prendevano realmente in considerazione cosa la mia mente stesse facendo, dicevano – stai molto meglio, tu dovresti sentirti meglio – ma dentro di me non lo ero, non lo ero per niente! (Jenkins&Ogden, 2012, p. 27)

La figura del nutrizionista è stata ritenuta di supporto solo quando ha provveduto a fornire piani personalizzati e graduali, mentre in altri casi è stato controproducente:

Sono andata due volte [dal nutrizionista], ma personalmente pensavo che mi facesse più male che bene perché dovevo scrivere ogni cosa che mangiavo…la passione delle anoressiche proprio…misurare, controllare ogni piccolo pezzettino di cibo che viene inserito in bocca. (Arthur-Cameselle&Quatromoni, 2014, p. 8)

Essere non giudicate e ricevere un atteggiamento compassionevole sono fattori molto importanti, laddove invece, non sentirsi comprese o l’essere trattate con superiorità o con sufficienza vengono rintracciati come elementi ostacolanti la guarigione (Fogarty & Ramjan, 2016). L’aiuto maggiore è stato percepito quando i terapeuti si sono aperti alla prospettiva delle donne concentrandosi nell’ascolto di cosa fosse ritenuto per loro rilevante e nel prendersi cura della loro sofferenza piuttosto che approcciarsi con un insieme di preconcetti o di risposte preimpostate (Weaveret al., 2005). Il bisogno di essere coinvolti nelle decisioni riguardante la recovery può significare anche negoziare le condizioni per l’acquisizione del peso e su quanto rapidamente ciò debba avvenire (D’Abundo e Chally, 2004).

Per alcune donne la guarigione dal disturbo alimentare ha comportato riscoprire un senso di libertà anche nei confronti del rapporto con il cibo. Questa libertà, nel caso della BN, è espressa da una nuova capacità di gustare cibi una volta proibiti, come i dolci senza diventare ansiosi o cibi non salutari senza abbuffarsi né mettere in atto comportamenti compensatori (Lindgrenet al., 2015). Nel percorso viene sottolineato come le pazienti abbiano provato spesso sentimenti di ambivalenza e paura collegate alla necessità di mangiare esclusivamente cibo salutare seguendo una routine. Dopo la recovery una parte dei soggetti sembra aver sviluppato una competenza alimentare maggiore, mentre un’altra sperimenta ancora vissuti di disagio nelle interazioni sociali che vedono il cibo coinvolto e difficoltà nel capire i livelli di sazietà:

é ancora difficile capire quando sono sazia. A volte penso di esserlo e mangio il resto per ghiottoneria. Non so esattamente quando mangiare di più o di meno, non so realmente se mi sento soddisfatta, mangio tutto quello che c’è nel piatto e punto, è tutto. (Ulianet al., 2013, p. 279)

I soggetti fanno esperienza di una “dualità” tra la voce anoressica residuale, che richiederebbe loro di restringere l’intake calorico, e le nuove competenze acquisite durante la terapia, che invitano invece a bilanciarlo e adeguarlo ai propri bisogni. Spesso, dopo anni passati con il disturbo, le pazienti  hanno dovuto “reimparare” a mangiare normalmente e ad avere una relazione sana e spontanea con il cibo, il peso e il proprio corpo:

Non avevo idea di cosa fosse una normale porzione di cibo. Ho dovuto imparare tutto di nuovo come farebbe un bambino. (Pettersenet al., 2012, p.4)

Dopo la recovery la questione di cosa e quanto mangiare non è più così dominante nelle loro vite quotidiane:

Ora posso gustare quello che mangio e me lo permetto […] e non mi preoccupo più un’intera settimana se sono stata invitata da qualche parte e non ho il controllo sul pasto che verrà servito. (Björk & Ahlström, 2008, pp. 932-933)

Una flessibilità maggiore viene acquisita anche sfidando le regole auto imposte su cosa è permesso mangiare e su cosa non lo è, abbandonando anche la rigidità nei confronti degli orari dei pasti (Pettersenet al., 2016). Nel caso particolare del binge eating disorder (BED) è stato evidenziato lo sforzo delle pazienti nello sperimentarsi in maniera nuova con il cibo, eliminando o modificando le precedenti regole imposte, prestando maggiore attenzione al rispetto dei pasti e alla consapevolezza di quanto assumono:

Non mangio più di corsa, ma provo a…pianificare i pasti. […] Almeno tre pasti al giorno e non ho eliminato nessun specifico alimento perché appena provo a farlo comincio ad esserne ossessionata. (Krentzet al., 2005, p. 126)

Mangiare poi in maniera regolare evitando di acquistare troppo cibo, non avere bilance in casa e mantenere un peso stabile trovando un equilibrio con una regolare attività fisica, viene impiegata anche come strategia per evitare possibili ricadute (Björk, Wallin & Pettersen, 2012).

Lo sport e l’attività fisica possono essere visti sia come elementi di supporto alla recovery (Las Hayeset al., 2015; Nillson & Hӓgglöff, 2006) sia aspetti per i quali si deve trovare maggiore equilibrio se venivano adoperati in maniera compulsiva o compensatoria. Durante il processo di recovery, l’attività fisica può essere utilizzata per tenere sotto controllo il peso, per regolarizzare il tono dell’umore, ma anche per diminuire l’ansia sperimentata nei confronti delle preoccupazione verso le proprie forme corporee. Un processo caratteristico di questa fase è quello che riguarda la trasformazione dell’esercizio da un set di comportamenti e pensieri compulsivi e dannosi a un’attività bilanciata dalla quale trarre ristoro e divertimento, sino a diventare parte di uno stile di vita sano e equilibrato (Young, Rhodes, Touyz, &Hay, 2015). Nel caso di pazienti atlete, i progressi migliori si sono presentati quando le ragazze si sono rese conto che le proprie performances miglioravano se si nutrivano in maniera corretta e lo sport ha contribuito ad allentare la paura di aumentare di peso che è spesso una barriera alla recovery:

Se vuoi fare ogni cosa al meglio devi avere l’energia altrimenti non puoi farcela. (Arthur-Cameselle&Quatromoni, 2014) p.340)

L’ambiente sportivo può essere utile perché aiuta ad avere uno scopo ma nello stesso tempo  può anche essere d’ostacolo a causa delle pressioni subite per eccellere e delle norme stringenti che ruotano intorno all’esercizio e al cibo o favorire le ricadute quando i propri compagni sono ancora affetti da Disturbi Alimentari.

Un’ attività che viene ritenuta particolarmente utile dalle pazienti è lo yoga, che per molte pazienti ha contribuito a favorire la riconnessione con se stesse ad istaurare una relazione più positiva con il proprio corpo (Hay&Cho, 2013; Lamoureux & Bottorff, 2005).

Nel processo di recovery il ruolo del supporto sociale è il fattore più menzionato e in alcuni casi è stato identificato dalle pazienti come un fattore fondamentale (Arthur-Cameselle & Quatromoni, 2014; Las Hayas et al., 2015; Hay & Cho, 2013; Pettersen & Rosenvinge, 2002). Le relazioni sono essenziali alla recovery, sia perché provvedono a fornire amore incondizionato, supporto, fiducia e speranza durante l’intero percorso (Dawson et al., 2014), sia perché forniscono il contesto ideale per mettere in pratica e familiarizzare con le nuove strategie di coping o con le skills apprese durante l’eventuale trattamento (Matoff&Matoff, 2001).

Per alcune pazienti ad esempio, nonostante l’utilità del supporto psicologico, la presenza di un persona particolarmente importante è stato individuata come il fattore essenziale per la guarigione (D’Abundo &Chally, 2004; Moulding, 2015). La persona identificata è più frequentemente la madre, il partner ma anche il padre (D’Abundo & Chally, 2004). Il supporto da parte degli amici viene individuato come un fattore importante, perché questi ultimi possono essere d’esempio per stili di vita più equilibrati (Nillson & Hӓgglöff, 2006). Il partner può esercitare sia un’influenza sia positiva che negativa, influendo sull’autostima delle donne in base all’importanza attribuita da quest’ultimo al peso e all’aspetto (Granek, 2007). Altre pazienti hanno riconosciuto come importante anche il supporto di altri individui con Disturbi Alimentari (Dawson et al., 2014; Hay&Cho, 2013). perché le ha aiutate a capire di non essere le sole o ad incitarle a chiedere aiuto. Le relazioni possono essere anche d’ostacolo quando i pazienti non si sentono compresi da familiari o amici che non conoscono il disturbo alimentare, che lo rilegano ad una questione di vanità o di richiesta di attenzione o che ridicolizzano la loro battaglia (Las Hayas et al., 2015; Linville et al., 2012), ed ha un peso importante anche nel favorire le ricadute (Federici & Kaplan, 2007). Un fattore di ostacolo viene rintracciato anche nella sensazione di apprezzamento e di approvazione da parte dei pari che supportano la perdita di peso (Granek, 2007).

Intraprendere nuove sfide e attività, come l’attivismo politico, il volontariato o nuovi hobbies come scrittura, pittura, danza, canto, lettura e i viaggi (Las Hayas et al., 2015; Matusek & Knudson, 2009), sono stati riferiti come fattori importanti nel sostenere il percorso. E’ stato evidenziato anche il beneficio apportato dall’acquisto e dall’accudimento di un animale domestico (Hay & Cho, 2013; Matoff&Matoff, 2001).

Nuovi interessi e attività sono stati identificati come utili perché hanno permesso alle pazienti di distanziarsi dalla malattia che tende a consumare il loro tempo e la loro energia (Hay&Cho, 2013). Anche il coinvolgimento in una causa o in un obiettivo comunitario sentito come più grande viene individuato come

Un modo per cercare attivamente alternative per dare senso al mondo e trovare valore nella vita aldilà della prigione sperimentata a causa del DCA. (Matusek & Knudson, 2009, p.704)

Diventare capaci di mantenere un’occupazione giornaliera come il lavoro o la scuola sono considerati aspetti altrettanto importanti.

Molte pazienti riportano come abbiano iniziato a modificare gradualmente i propri patterns di pensiero imparando a “priorizzare le cose importanti della vita”, accettando  l’immodificabilà di alcuni eventi e potenziando i dialoghi interni positivi. Alcune strategie riportate dalle pazienti per modificare la mentalità anoressica sono state diventare consapevoli di alcune idee distorte, come quella che mangiare rende “cattive persone” o che aumentare di peso significa diventare automaticamente obese, e lavorare per decostruirle. Questo lavoro ha comportato anche lo sfidare le credenze relative al fatto che l’AN fosse l’unico mezzo per raggiungere l’autostima. Riconoscere tutti questi come “pensieri anoressici” o “pensieri sbagliati” potendosene poi distanziare le ha aiutate a sviluppare una prospettiva più accurata sulle loro vite e su se stesse. Per molte donne questo processo riflessivo è stato facilitato dal possedere un diario nel quale annotare il pensiero “corretto” e quello “distorto” (Lamoureux & Bottorff, 2005; Linvilleet al., 2012). Quando le pazienti hanno iniziato a pensare in maniera più razionale, hanno cominciato anche a realizzare che il cibo, il nutrirsi correttamente e adeguatamente è necessario e fondamentale alla sopravvivenza:

Pensare che si può buttar giù solo una cosa per cena e vivere è molto irrazionale. Ora so che non si possono affrontare i problemi in questo modo. (D’Abundo&Chally, 2004, p. 1102)

Mi sento forte, mi sento bene, forse mangiare non è così sbagliato perché mi fa sentire meglio. Se posso sentirmi così, forse, aver preso giusto un po’ di peso non è una cosa così brutta. (Lamoureux&Bottorff, 2005, p. 179)

Sebbene talvolta ci siano momenti nei quali sentono ancora le voci critiche interiori hanno appreso nuove strategie di coping e attività che le hanno aiutate a smorzare le litanie mentali punitive o a gestire più efficacemente le loro emozioni (Matoff & Matoff, 2001). Lo sviluppo di queste nuove strategie richiede tuttavia molta disciplina e persistenza. Anche i comportamenti più salutari devono essere praticati ripetutamente fino a quando viene creato un nuovo stile di vita:

Ho cambiato il mio atteggiamento mentale e il mio modo di pensare. Ho iniziato a credere sempre più che mangiare equivale a salute, benessere, libertà, e scelta. È stato quasi come se mi fossi riprogrammata, come si fa con i computer…è stato difficile cambiare il mio modo di pensare perché è come se mi sono dovuta fare il lavaggio del cervello. (Dawson et al., 2014, p. 501)

L’inclusione di una dimensione spirituale nella propria quotidianità è stata riportata come un aiuto nel processo di accettazione di se stesse e dei loro corpi e ad iniziare a nutrire stima per quello che sono e viene declinata nell’avere speranza, nel valorizzare la vita ed avere fede (D’Abundo & Chally, 2004; Linville et al., 2012). Alcune pazienti hanno riferito che l’aver instaurato una relazione con una “forza superiore” le ha aiutate a riconoscere come i loro comportamenti fossero autodistruttivi e pericolosi per la loro salute. Una giovane riporta di aver smesso di abbuffarsi e vomitare durante la Quaresima: “può suonare strano, ma l’ho fatto solo per Dio” (D’Abundo &Chally, 2004, p. 1101).

La mancanza di speranza viene riportato dalle pazienti come uno tra gli ostacoli maggiori del percorso (Dawson et al., 2014) e se la speranza non proviene dalle pazienti può essere utilmente infusa anche da chi si trova loro accanto come ad esempio dalla famiglia (Las Hayas et al., 2015). Apprendere di percorsi completati da altri con successo infonde validazione e speranza, soprattutto nei momenti in cui si sperimentano i maggiori dubbi e reticenze, come in riferimento ad alcuni ostacoli alla guarigione come il temuto aumento di peso. Sono soprattutto i percorsi sentiti come più rassomiglianti ai propri ad evocare un senso di speranza maggiore nelle pazienti (Shaw & Homewood, 2015),

Un elemento giudicato fondamentale è giungere e nutrire l’accettazione di se stesse :

Desidero essere esattamente come sono. Riconosco che c’è una componente genetica nel mio corpo che mi fa essere così e lo accetto. Questo è stato un input importante per accettare me stessa così come sono. (Krentzet al., 2005, p. 125)

Alcune pazienti hanno iniziato a vedere i loro corpi più realisticamente enfatizzando le potenzialità realizzabili attraverso questi ultimi e gli aspetti connessi alla salute. Alcune donne hanno smesso di pesarsi, concentrandosi di più sui segnali della fame e lasciandosi guidare da questi (Krentzet al., 2005), giungendo ad avere un rapporto con il peso meno teso e reagendo ad un’eventuale aumento non come se fosse “la fine del mondo” (BjöRk & Ahlström, 2008). Accettare il proprio corpo ha significato per molte pazienti cominciare a sentirsi a proprio agio con le altre persone ed essere in grado di avere una relazione con un partner stabile condividendone l’intimità (Pettersen & Rosenvinge, 2002). Soprattutto le relazioni intime hanno contribuito nell’accettazione delle proprie forme corporee (Jenkins & Ogden, 2012). Una cura maggiore di sé e dei patterns di vita più regolari hanno aiutato altri pazienti a concentrarsi più su se stessi, ad essere più amorevoli nei propri confronti, a scoprire e soddisfare i propri bisogni e a sentire di “meritare” la guarigione (Pettersenet al., 2016). Alcune pazienti riportano inoltre che certi tratti di personalità, che a loro avviso hanno giocato un ruolo essenziale nello sviluppo del disturbo, siano stati adoperati per facilitare i cambiamenti positivi (ad esempio la pazienza, la resistenza, la determinazione e il perfezionismo). L’auto accettazione poi, unita alla determinazione, ha potenziato anche il ritmo e la velocità del processo di recovery (Patching & Lowler, 2009). Alcune pazienti hanno adoperato termini come “trovare me stessa”, “celebrare me stessa” (Weaveret al., 2005) o “diventare la reale me stessa” (Lamoureux & Bottorff, 2005) o “scoprire la vera me stessa” (Williams et al., 2016)  per riferirsi alle ultime fasi del lungo e complicato processo verso l’autoaccettazione:

quando tu stai bene e quando se ne è andata [l’AN] tu sarai semplicemente tu, tu non sarai l’anoressica, tu sarai te stessa. (Williams et al., 2016, p. 222).

Imparare ad amarsi ha contribuito inoltre ad avere maggiore compassione verso se stessi e gli altri tollerando le imperfezioni umane e a sviluppare la capacità di essere più indulgenti.

 

ASMR, la nuova tecnica di rilassamento sul web

La Risposta Autonoma dei meridiani Sensoriali (ASMR) ha catturato l’attenzione di un vasto pubblico negli ultimi anni. Questa esperienza sembra comune a molti, ma tanti altri non riescono a sperimentarla. Perché questa diversità?

 

Immagina di essere in una biblioteca silenziosa. Due persone dietro di te iniziano a sussurrare, digitano delicatamente sulla tastiera e qualcuno inizia a mangiare tranquillamente una mela, poi alzi lo sguardo e guardi qualcuno che gira delicatamente le pagine di un libro. Per molti, queste potrebbero essere distrazioni frustranti e irritanti in un ambiente apparentemente tranquillo mentre, per altri, questo tipo di immagini e suoni porterebbe all’innesco di una vera e propria una sensazione di formicolio, in genere esperita a livello del cuoio capelluto, del collo o delle spalle. Questa sensazione nasce in risposta a specifici stimoli (trigger) tattili, audio e visivi ed è stata denominata per la prima volta nel 2010 da Jennifer Allen come “Risposta Autonoma dei Meridiani Sensoriali” (ASMR; Poerio et al., 2018).

Soltanto recentemente questo fenomeno è stato portato all’attenzione del pubblico (del Campo e Kehle, 2016), infatti, attualmente sono moltissimi i video ASMR pubblicati e ricercati sul web allo scopo di sperimentare la sua conseguente sensazione di rilassamento e benessere (Copeland, 2017).

Per raggiungere tale rilassamento, in questa pratica vengono raccolti, tramite microfoni super-sensibili, rumori delicati e ripetitivi, infatti, tra i trigger comunemente utilizzati per ottenere ASMR ritroviamo spesso il sussurro, suoni nitidi e movimenti lenti come la spazzolatura dei capelli o il martellare le unghie su una specifica superficie (Barratt & Davis, 2015).

L’ASMR sembra un’esperienza comune a molti, ma tanti altri non riescono a sperimentarla; perché?

Un fattore determinante è probabilmente la personalità. Infatti, nello studio di Fredborg, Clark e Smith (2017), 290 individui con ASMR e 290 controlli corrispondenti hanno completato il Big Five Personality Inventory (BFI; John et al., 1991). Gli autori concordano con ricerche precedenti nelle quali emerge che le persone che sperimentano ASMR otterrebbero un punteggio superiore ai controlli nel dominio Openness-to-Experience del modello di personalità dei Big Five. Questa previsione si basava sul presupposto che i partecipanti all’ASMR avrebbero aumentate la sensibilità e la ricettività alle sensazioni. Inoltre, una maggiore sensibilità alle questioni estetiche, misurata da questo dominio, potrebbe essere generalizzata alle sensazioni corporee dell’ASMR, come le esperienze di formicolio.

Precedenti ricerche di Barratt e Davis (2015) hanno anche portato gli autori ad ipotizzare che gli individui con ASMR differiscano dai controlli sul dominio del nevroticismo del BFI. Gli autori, infatti, hanno trovato una grande percentuale di livelli di depressione da moderati a gravi nel loro campione. Dato che la depressione è associata al nevroticismo, si aspettavano che gli individui con ASMR producessero punteggi più alti su quest’ultimo rispetto ai controlli corrispondenti. Questa ipotesi è stata supportata, poiché gli individui con ASMR hanno ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto ai controlli, indicando livelli più bassi di stabilità emotiva. Per quanto riguarda gli altri tre domini del Big Five, ovvero Estroversione, Coscienziosità e Piacevolezza, gli individui con ASMR hanno ottenuto punteggi significativamente inferiori rispetto ai controlli. Tuttavia, il motivo preciso di queste relazioni non è chiaro. Soltanto per quanto riguarda il dominio dell’Estroversione, gli autori hanno ipotizzato che le persone che guardano verso l’interno abbiano maggiori probabilità di manifestare sintomi di ASMR rispetto alle persone più socievoli e che guardano verso l’esterno.

Nello studio di Smith, Fredborg e Kornelsen (2019), è stato recentemente approfondito questo fenomeno: un totale di 17 soggetti con ASMR e 17 partecipanti al controllo sono stati sottoposti a scansione fMRI durante la visione di sei video di 4 minuti. Tre di questi video sono stati progettati per suscitare formicolio ASMR e tre no. I risultati di questo studio evidenziano la complessità del fenomeno: durante la visualizzazione di video che suscitano l’ASMR, le persone con ASMR hanno mostrato un aumento dell’attività neuronale nelle regioni della corteccia correlate all’attenzione, all’udito, alle emozioni e al movimento. Questa attività non è stata osservata nei partecipanti al controllo. Quando sono state confrontate le risposte dei soggetti con ASMR e dei partecipanti al controllo che guardano i video dell’ASMR, gli individui appartenenti al primo gruppo hanno mostrato una maggiore attività nel talamo, nella corteccia cingolata anteriore, nel precuneo e nelle regioni sensomotorie mediali. Nell’insieme, queste analisi dimostrano che l’ASMR non è semplicemente un fenomeno sensoriale o emotivo ma suggeriscono un coinvolgimento delle componenti sensoriali, motorie, affettive e attenzionali.

Un altro documento clinicamente rilevante riguarda uno studio pubblicato da Barratt e Davis (2015) condotto su 475 persone, con il quale viene dimostrata l’utilità dell’ASMR nel rilassarsi, affrontare lo stress (70%) e dormire con maggiore facilità (82%), mentre solo una piccola percentuale (5%) ha riferito di utilizzare i media-ASMR per la stimolazione sessuale. Gli autori dimostrano anche che questa tecnica provoca un effetto positivo sull’umore e una significativa riduzione dei sintomi del dolore cronico per diverse ore successive a una sessione di ASMR. In questo stesso studio sono state riportate, inoltre, le differenti aree dove viene sperimentata la sensazione di formicolio dai partecipanti: in genere, nella parte posteriore della testa e delle spalle, se però intensa, questa sensazione è in grado di estendersi lungo la linea della colonna vertebrale, delle braccia e delle gambe; sebbene ciò non si verifichi in ogni sessione e ogni individuo non sperimenti lo stesso percorso. Inoltre, in uno studio condotto da Smith, Fredborg e Kornelsen (2017), è stata riportata dai partecipanti un’intensità maggiore dei formicolii quando gli attori dei video erano rivolti direttamente allo spettatore anziché vedere la scena in terza persona.

L’ASMR può essere usata a scopo terapeutico?

Come già riportato sopra, l’ASMR viene utilizzato come meccanismo di coping per aiutare a gestire e ridurre i sintomi di alcune condizioni psicologiche e dolore cronico. Barratt e Davis (2015) hanno identificato livelli più bassi di depressione e dolore cronico durante e dopo aver sperimentato l’ASMR, i quali sono gradualmente tornati ai livelli di pre-intervento nell’arco di tre ore. È interessante notare che i partecipanti a cui è stata diagnosticata la depressione clinica hanno riportato la più grande diminuzione delle misure post-intervento della depressione, tuttavia questo effetto si è dissipato più rapidamente. Collettivamente, questi risultati suggeriscono che l’ASMR può essere utilizzato per fornire miglioramenti a breve termine dell’umore e del dolore cronico, sebbene venga riconosciuto che questi risultati si basano su indagini limitate. Per quando riguarda gli effetti a lungo termine, Ditchburn e Bedwell (2018), hanno cercato di stabilire se la stimolazione regolare di ASMR, per un periodo di una settimana, potesse conferire miglioramenti significativi dell’umore rispetto a un gruppo di controllo; i risultati suggeriscono, però, che l’ASMR è un intervento a lungo termine inefficace.

Nonostante la comunità scientifica abbia già compiuto numerosi studi volti ad indagare il fenomeno dell’ASMR, risulta ancora necessario un ulteriore approfondimento dello stesso, sia riguardo al suo funzionamento che al suo possibile utilizzo terapeutico. Risultano, invece, chiari ed evidenti i suoi effetti benefici su alcuni sintomi come il dolore cronico e l’umore, anche se solamente a breve termine. Potrebbe, quindi, essere interessante approfondire l’utilizzo di tale tecnica per la cura dei disturbi non ancora indagati. Rimane, in ogni caso, una buona modalità di rilassamento con effetti a breve termine, da utilizzare anche in autonomia.

 

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