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Svegliarsi la mattina e altre sventure: l’effetto del cronotipo individuale sulla performance scolastica

Il cronotipo è una disposizione individuale verso una maggiore attività in un determinato momento della giornata; questo ha una base fondamentalmente genetica, ma può essere influenzato da diversi fattori ambientali e socio-culturali. Quale effetto può avere il cronotipo su performance scolastiche ottenute in diversi momenti della giornata?

 

Ore 8 della mattina, orario di punta – i mezzi pubblici attraversano le città carichi di individui in stato semi-cosciente che si trascinano verso gli uffici e le scuole come spinti da inerzia, il loro sguardo vitreo solleva ragionevoli dubbi sul fatto che essi siano effettivamente svegli: per una parte dei lettori, questa descrizione risuonerà intimamente familiare, una condizione che probabilmente hanno sperimentato ogni mattino da quando hanno memoria. Sono i cosiddetti “gufi”, individui che sarebbero più attivi durante le ultime ore del giorno, ma che si trovano, loro malgrado, a dover abbandonare il proprio letto nelle prime ore della giornata; la restante parte, è composta dalle “allodole”, soggetti che preferiscono andare a letto presto e che risultano maggiormente attivi nelle prime ore del giorno, risentendo meno della sveglia mattutina.

Questa disposizione individuale verso una maggiore attività in un determinato momento della giornata viene chiamata cronotipo ed ha una base fondamentalmente genetica (Hirano et al., 2016; Patke et al., 2017), tuttavia diversi fattori ambientali e socio-culturali possono modularne l’effetto, come ad esempio l’esposizione alla luce solare, l’età o lo stile di vita.

Quando il nostro “orologio biologico”, individuabile nel nucleo soprachiasmatico nel cervello dei mammiferi, non è sincronizzato con le tempistiche imposte dalla richieste ambientali, si ingenera una condizione tipica delle società moderne che prende il nome di Social Jetlag (Wittmann et al., 2006), calcolato come la discrepanza tra gli orari del sonno durante i giorni settimanali e quelli adottati durante il weekend, orari che risultano essere maggiormente in linea con le tendenze disposizionali del singolo e, conseguentemente, contraddistinti da sessioni di riposo più lunghe (Roenneberg et al., 2015).

Si è riscontrato inoltre come un maggiore Social Jetleg sia associato ad obesità, depressione, performance cognitive peggiori e problemi di natura fisica e psicologica (Levandovski et al., 2011; Roenneberg et al., 2012; Talbot et al., 2010), tale da sollevare una comprensibile preoccupazione nei confronti di quelle categorie che risultano maggiormente influenzate dal fenomeno: tra questi, gli adolescenti rappresenterebbero una popolazione particolarmente a rischio, in quanto questa fase della crescita sarebbe quella maggiormente interessata dall’inflessione del cronotipo in favore delle ore più tarde della giornata; allo stesso tempo, contro intuitivamente, è noto come la programmazione scolastica sia concentrata nelle prime ore della giornata, tale che si stima che il 93,5% degli studenti dorma meno delle 8-10 ore raccomandate, incorrendo in uno stato di deprivazione cronica di sonno, a sua volta associata con l’insorgenza di sonnolenza diurna, salute generale peggiore, difficoltà emotive e cognitive (Talbot et al., 2010).

Alcuni studi (per una meta-analisi vedi Tonetti et al., 2015) hanno riscontrato che gli alunni con il cronotipo più mattiniero ottengono mediamente performance accademiche più alte; tuttavia, questi risultati possono essere dovuti ad un effetto del cronotipo sulla performance stessa, ovvero ad un cronotipo precoce corrispondono sempre performance migliori, oppure al fatto che le votazioni ottenute dagli studenti fossero appunto raccolte in orario scolastico (Effetto sincronia), favorendo gli studenti allodola più attivi e performanti durante le ore diurne.

Per indagare la relazione tra la performance, tempistiche scolastiche e cronotipo individuale, Goldin e colleghi (2020) hanno raccolto in un recente studio i dati provenienti da 753 studenti, assegnati casualmente a classi contraddistinte da ingressi in aula differenziati (inizio alle ore 7.45, 12.40 o 17.20), appartenenti a due diverse fasce d’età (13-14 anni e 17-18 anni).

In linea con ricerche precedenti, si è potuto confermare che gli adolescenti più “anziani” riportassero un cronotipo più ritardato verso fine giornata rispetto ai giovani adolescenti; coerentemente con il progressivo ritardo dell’ingresso in aula, il cronotipo degli studenti risultava maggiormente posticipato: questo suggerisce come i ritmi biologici degli studenti tendessero naturalmente ad allinearsi con gli orari scolastici assegnati loro in modo casuale; in particolare questo risultava vero per gli studenti più anziani, indicando come la modulazione del cronotipo sia un processo progressivo che si consolida nel corso dell’adolescenza.

I risultati suggeriscono anche che per quanto il cronotipo tenda ad adeguarsi alle richieste ambientali e vi sia la tendenza a ricorrere a dei riposi infradiurni per recuperare le ore di sonno insufficienti, gli studenti con ingresso a scuola di mattina non riescono a raggiungere il numero di ore di sonno raccomandate per questa fase della crescita. In linea con l’ipotesi dell’effetto sincronia, gli studenti con un cronotipo più tardivo registravano performance peggiori in termini di valutazione nell’iniziare la scuola la mattina, tale per cui per ad ogni ora di posticipo nel loro cronotipo corrispondesse un punteggio di 0.315 inferiore in matematica e 0.157 punti inferiore nelle altre materie. L’effetto del cronotipo invece sembra ridursi fino a quasi invertirsi quando la scuola ha l’orario di inizio nelle ore serali, con performance addirittura migliori nel linguaggio rispetto agli studenti con un cronotipo mattiniero; le ore pomeridiane, sembrerebbero infine rappresentare la scelta peggiore in termini di performance, probabilmente a causa del persistere di un effetto di Social Jetlag rilevante.

Gli autori avanzano poi un’ipotesi sulla funzione dei “pisolini” come meccanismo compensatorio che, grazie all’effetto di consolidazione mnestica favorita dal sonno (Lovato&Lack, 2010), controbilancerebbe l’effetto della deprivazione di sonno garantendo una performance simile agli altri studenti contraddistinti da un cronotipo più in linea con le richieste ambientali. È inoltre interessante evidenziare come la performance in compiti matematici risultasse essere quella maggiormente influenzata dall’effetto del cronotipo.

I dati ottenuti da questa ricerca, per quanto non privi di limitazioni, come ad esempio la non-generalizzabilità tra i sessi e la natura di self-report dei dati raccolti, suggeriscono tuttavia che un’assegnazione degli studenti ad una programmazione scolastica in linea con il proprio cronotipo, così come un’attenzione maggiore posta nella pianificazione oraria delle materie sulla base delle loro differenti caratteristiche, possa avere un impatto significativo per il loro insegnamento e da ultimo sulla performance individuale.

 

Il cuore lo faccio nero – Disturbo Borderline di Personalità e suicidio

Nora Dawning è l’autrice del libro Il cuore lo faccio nero, un diario, una raccolta di pensieri, stati d’animo, emozioni: la rabbia e il dolore prevalgono su tutte e accompagnano la giovane protagonista del libro nel racconto della sua malattia, una malattia dell’anima e della mente, il Disturbo Borderline di Personalità.

Celentano Germana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Volete un nome? Sono borderline […].
Ho tentato il suicidio pochi mesi fa.

Nora, una brava studentessa, una laurea in biologia molecolare, la passione per la ricerca. Tutto inizia quando si trasferisce a Cambridge inseguendo il suo sogno; qui avviene qualcosa che cambia drammaticamente la sua vita; arriva il punto di rottura che le sbatte in faccia la sua fragilità, le certezze che fino ad allora l’avevano accompagnata crollano. Dopo un anno e mezzo di resistenza, Nora implode, così quella Cambridge tanto sognata, diventa l’inferno della sua anima, i suoi sogni si scontrano con la realtà. Inizia un periodo vorticoso di declino fisico e morale: farmaci, alcol, tutte dipendenze delle quali non riesce a fare a meno, che la tengono ancorata al suo vortice, al suo dolore, alla sua rabbia. Nora sente il bisogno di avere una persona a fianco che la ami senza giudicarla ma per trovarla si affida ai siti di incontri online, sesso indiscriminato con uomini sconosciuti, dunque l’ennesimo tentativo disfunzionale, una strategia controproducente, per riempire il vortice, per riempire il vuoto.

Sono pagine forti e crude che non si risparmiano, fanno male. Nora ha dato voce a tutte le sue emozioni, mettendole nero su bianco: pensieri, pezzi di anima frantumata, che non cicatrizzano facilmente.

Sono umana e troppo debole
per poter affrontare sogni e speranze infranti
senza cadere.

Una rete di solitudine, dolore, rabbia, rancore, dipendenze, delusioni, le tiene il cuore in trappola. Così Nora scrive, scrive pagine che urlano disperazione al mondo, perdita di controllo del proprio corpo, della propria mente, quando lo specchio dei sogni si infrange contro la realtà, e niente ha più senso, se non invocare aiuto urlando contro il vuoto.

L’autrice tra le pagine del suo libro ci racconta di come stia vivendo un turbinio di emozioni discrepanti, forti, discordanti, le odia e le ama, prova a gestirle:

Le emozioni mi faranno esplodere di nuovo?
Io le voglio, le voglio tanto.
La vita così non ha senso.

E poi dopo qualche giorno:

Ho pianto, ho urlato. Naturale.
Come fermare il dolore che esplode?
Volevo incidere la mia carne con un coltellino, piccolo, tagliente,
compatto.[….]
Mi sono frustata, come ho potuto.
Un cavo di rete, non avevo altro.
Sulla schiena, sulle gambe, sul seno.
Non valgo niente, non so neanche soffrire.
Non sono neanche capace di infliggermi dolore come meriterei.
Di scacciare il dolore interiore con quello fisico.[…..]
Poi il vuoto, di nuovo.
Il vuoto, come sempre.

Nora è fragile… Disturbo Borderline della Personalità.

Secondo la più recente classificazione (DSM 5), per fare diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, devono essere presenti compromissioni significative nel funzionamento della personalità, che si manifestano come compromissioni significative del Sé, e che si possono palesare in:

  • una identità marcatamente povera, poco sviluppata, con un’immagine instabile di sé, spesso associata ad eccessiva autocritica; sentimenti cronici di vuoto, stati dissociativi sotto stress.
  • una instabilità negli obiettivi e una difficoltà a formulare e mantenere aspirazioni, valori, piani di carriera.

Anche il funzionamento interpersonale risulta compromesso: spesso si assiste ad una compromissione della capacità di riconoscere i sentimenti e i bisogni degli altri, ad una tendenza a sentirsi facilmente offesi o insultati senza avere idea di motivi alternativi che spiegherebbero il comportamento altrui. I rapporti vengono vissuti come stretti, intensi, instabili e conflittuali, in condizioni estreme di idealizzazione e svalutazione continua ed alternata. Il tema centrale è il timore dell’abbandono, associato all’idea che degli altri non ci si possa fidare per timore, prima o poi, del maltrattamento, della trascuratezza ed infine appunto dell’abbandono.

E’ presente una certa affettività negativa, caratterizzata da esperienze emotive instabili, intense, sproporzionate, frequenti cambiamenti di umore, intense sensazioni di nervosismo, tensione o panico, timori di disgregazione o perdita del controllo, come anche timori di rifiuto e/o separazione da parte di altre persone significative, associati a preoccupazione per la propria dipendenza che sentono come eccessiva e temono di perdere completamente l’autonomia. Può esistere anche un certo antagonismo caratterizzato da persistenti sentimenti di rabbia o irritabilità in risposta alle offese e agli insulti.

I pazienti borderline faticano ad uscire dagli stati d’animo negativi; sono pessimisti sul futuro, preda di vergogna pervasiva, senso di inferiorità, pensieri e comportamenti suicidari.

Agiscono sotto l’impulso del momento in risposta a stimoli immediati, senza un piano e non tenendo conto dei risultati; hanno difficoltà a stabilire una gerarchia di priorità e possono assumere un comportamento autolesionista sotto stress emotivo, cercando un coinvolgimento in attività pericolose, rischiose e potenzialmente dannose, senza preoccupazioni per le conseguenze, per i propri limiti ed arrivando a negare l’esistenza del pericolo personale.

Le emozioni sono intense, estreme e l’esperienza psicologica degli stati emotivi può condurre a stati mentali di vuoto o stati mentali di caos emotivo incontrollato. La reazione al vuoto o al caos emotivo è disregolata, impulsiva e intensa e ha lo scopo di cercare di sentirsi vivi (in contrapposizione allo stato di vuoto) oppure sentirsi quieti e sicuri (in contrapposizione allo stato di caos) o ancora non sentirsi affatto. Possono essere messe in atto azioni impulsive (es. rabbiose), abuso di sostanze, gesti autolesivi, tentativi di suicidio.

Il tentato suicidio, stimato in generale come dalle 10 alle 40 volte più frequente dell’omicidio compiuto, è uno dei predittori più forti di suicidio conseguente.

Uno studio volto ad indagare quali tratti di personalità potessero essere rilevati in soggetti che riportavano tentato suicidio a confronto con soggetti che sono successivamente deceduti per comportamenti suicidari ha rilevato che il 91% del campione reclutato in un periodo compreso tra il 1993 ed il 2005 (187 pazienti, di cui 67 uomini, con età media di 35-45 anni ai quali sono state somministrate SCID I e SCID II) riportava un disturbo in Asse I (75% disturbi dell’umore), mentre il 33% riportava un disturbo in Asse II (17% DBP).

In una review del Centre Hospitalier di Sainte-Anne, dell’Università di Parigi-V-René-Descartes, è stata esaminata la letteratura pubblicata dal gennaio 1980 all’ottobre 2006, utilizzando le seguenti parole chiave: automutilazione, suicidio, personalità borderline (44 articoli) con altri cinque articoli aggiuntivi.

Si è partiti dall’assunto che il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è un serio problema di salute pubblica, associato ad alti livelli di utilizzo dei servizi di salute mentale, un importante grado di compromissione psicosociale e un alto tasso di suicidio (10%). Minacce suicidarie, gesti o comportamenti o automutilazione, sono comuni nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità. Tuttavia, nonostante le loro somiglianze, il comportamento di automutilazione differisce dai tentativi di suicidio per la mancanza di intenzioni suicide sistematiche.

Lo scopo di questo studio è stato quello di esaminare le relazioni tra auto-mutilazioni, suicidio e relativo approccio terapeutico. L’automutilazione si riferisce alla deliberata distruzione o alterazione diretta del tessuto corporeo senza intenzioni suicidarie consapevoli e questo modello di comportamento è comune nel 50-80% dei casi di BPD ed è spesso ripetitivo, infatti oltre il 41% dei pazienti effettua più di 50 automutilazioni. La forma più comune di comportamento di automutilazione è rappresentato dai tagli, ma lividi, bruciature, colpi alla testa o morsi non sono inusuali.

Le funzioni dell’automutilazione sono variabili: forniscono sollievo dagli stati d’animo negativi, riducono l’angoscia, assumono la funzione di richiamare cure da parte di altre persone e terapeuti, sono il tentativo di esprimere emozioni in modo simbolico.

Il tasso di suicidio nei campioni clinici di BPD è di circa il 5-10%. Questo tasso è circa 400 volte quello della popolazione generale. Una percentuale dal 40 all’85% dei pazienti borderline mette in atto tentativi di suicidio solitamente multipli (in media 3). Le relazioni tra automutilazione e suicidio sono contrastanti.

Alcuni autori identificano il comportamento di automutilazione come una forma attenuata di suicidio (‘suicidio focale’). In questo modo, l’automutilazione gioca il ruolo di un atto anti-suicidario, permettendo ai pazienti di emergere dalla loro dissociazione e sentire che stanno vivendo di nuovo. Il rischio di suicidio non aumenta fino a quando l’automutilazione produce il sollievo atteso. Tuttavia, la maggior parte degli autori mostra l’automutilazione come un fattore di rischio di suicidio portato a termine: tra i pazienti borderline con una storia di comportamento di automutilazione il tasso di suicidio è circa il doppio rispetto a quelli senza. Le auto-mutilazioni ripetitive possono aumentare la disforia, che sarà solo alleviata da gesti suicidari. I pazienti che effettuano tentativi di suicidio auto-mutilanti possono essere maggiormente a rischio di suicidio per diversi motivi: provano più sentimenti di depressione e disperazione, sono più aggressivi, mostrano maggiore instabilità affettiva, sottovalutano la letalità del loro comportamento suicidario e infine sono turbati da pensieri suicidi per periodi di tempo più lunghi e più frequenti.

I risultati dello studio hanno dunque evidenziato come nel Disturbo Borderline di Personalità la possibilità di auto-mutilazione fosse un fattore di rischio di suicidio. Tuttavia, per rinforzare questa affermazione, sono necessari ulteriori studi su un ampio campione di pazienti borderline che abbiano compiuto o meno gesti di auto-mutilazione.

Uno studio statunitense del 2016 ha verificato come i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD) sono ad alto rischio di comportamento suicidario, ma che tuttavia molti di loro non arrivano al suicidio. Sono state confrontate le caratteristiche cliniche dei pazienti con BPD con una storia di tentativi di suicidio o senza, e volontari sani. Rispetto ai volontari sani, entrambi i gruppi BPD avevano punteggi più elevati nella scala della labilità affettiva Affective Lability Scale (ALS), e relativa sottoscala ALS-Depression-Anxiety Subscale, nella scala dell’impulsività Barratt Impulsivity Scale (BIS) e nella valutazione della storia di vita dell’aggressività Lifetime History of Aggression (LHA) ed erano quindi più propensi ad avere una storia di scoppi d’ira.

Nel gruppo dei pazienti con diagnosi di BPD, i pazienti che avevano tentato il suicidio aveva punteggi ALS, ALS-Depressione-Ansia e LHA più elevati e avevano più probabilità di avere una storia di autolesionismo non suicidario o di scoppi d’ira rispetto ai pazienti che non avevano attuato tentativi di suicidio. Inoltre, i pazienti con BPD che avevano effettuato tentativi di suicidio, avevano maggiore probabilità di avere una storia di comorbidità con il disturbo depressivo maggiore e meno probabilità di avere una storia di comorbidità con il Disturbo Narcisisitico di Personalità (NPD). Circa il 50% dei partecipanti allo studio di ciascun gruppo di BPD aveva un disturbo da uso di sostanze. Dunque i pazienti con BPD con una storia di tentativi di suicidio risultano essere più aggressivi, affettivamente disregolati e meno narcisisti.

In conclusione possiamo affermare che il comportamento suicidario è frequente nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD); almeno tre quarti di questi pazienti tentano il suicidio e circa il 10% alla fine completa il suicidio. I pazienti borderline a maggior rischio di comportamento suicidario comprendono quelli che hanno attuato precedenti tentativi, con una storia di comorbidità con il disturbo depressivo maggiore o disturbo da uso di sostanze. La comorbilità con la depressione maggiore determina un aumento sia nel numero che nella gravità dei tentativi di suicidio.

Sarebbero auspicabili ulteriori studi ed approfondimenti clinici in futuro, tuttavia possiamo intanto asserire che, poiché il BPD è spesso complicato dal comportamento suicidario, è giusto che clinici e professionisti della sanità prestino sempre molta attenzione ai tentativi di suicidio, singoli o reiterati; queste figure professionali hanno un ruolo importante nella prevenzione dei tentativi di suicidio e nei suicidi riusciti comprendendone i fattori di rischio ed accompagnando e sostenendo pazienti come Nora.

Il suo libro racconta il suo percorso costellato di alti e bassi, di passi avanti e cadute rovinose; la sua voglia di farla finita; la speranza che l’ha sostenuta, sempre.

Continuo a lottare, contro me stessa e contro la bestia delle emozioni feroci.
Continuo a lottare e, adesso,
la luce la vedo.

 

Quando il male oscuro si nasconde dietro al disturbo alimentare – Sul caso di Lorenzo

Nei casi più complessi capita che un disturbo alimentare possa fungere da strumento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili. 

 

La morte di Lorenzo Seminatore riporta alla luce della cronaca l’ “emergenza” dei disturbi del comportamento alimentare. Chi come me se ne occupa da tempo sa bene che dietro tale emergenza mediatica si nasconde in realtà una problematica normalità quotidiana, vedendo ormai da anni crescere nei nostri studi l’afflusso di chi chiede aiuto per uscirne, con l’età media che va progressivamente abbassandosi.

Ciò che rende l’anoressia, e i disturbi del comportamento alimentare  in generale, una patologia difficile da trattare, costituendo i DCA una tra le prime cause di morte, specie nel mondo adolescenziale, è la peculiare caratteristica di celare, con una forma esteriore abbastanza standardizzata, strutture di personalità tra loro diverse (nevrotiche e psicotiche), che richiedono metodi di trattamento all’insegna dell’uno per uno che, tenendo conto delle specificità di ogni soggetto, prevedano un’opera di certosino collegamento tra professionisti con saperi diversi, imponendo un costante raccordo comunicativo con i familiari del malato.

Nei casi più complessi, vale a dire quelli nei quali il concetto di ‘guarigione’ lascia il posto a quello di ‘compensazione’, che tecnicamente si definiscono ‘psicosi compensate’, il corpo magro, il ritiro drastico dal fluire del mondo barattato con l’ossessione per il peso, i rituali di assunzione o espulsione del cibo, sono strumenti che fungono in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperiti e rinforzati per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili non deflagrate.

La melanconia, o depressione grave, sovente si cela dietro alla patologia anoressica. Questo rende difficile il trattamento e frequenti le ricadute. Il depresso grave patisce un antico fuori scena, scontando una condizione di esclusione ab inizio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, il melanconico non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne hanno circoscritto e protetto il posto. Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti depressi gravi cercano di neutralizzare nel corso della vita.

Quando dietro ad un rifiuto patologico del cibo si cela un individuo di questo tipo, che ha un bisogno essenziale di una stabilizzazione dell’essere; i momenti critici della vita, i passaggi cruciali (il compimento alla maggior età, un matrimonio, un corso di studi, l’accesso al mondo del lavoro) possono rivelarsi troppo difficili da assorbire, determinando il riaffiorare di quella spinta al chiamarsi fuori che a fatica veniva nascosta dalla sintomatologia alimentare. Un richiamo mortifero, possente e sempre presente in questi casi, un buco nero che esercita una pressione mai doma, che a volte porta l’anoressia grave sino alle estreme conseguenza.

Non mangio così muoio. parrebbe aver detto Lorenzo.

Questi pazienti se ben seguiti hanno momenti di ripresa e ritorno alla vita, i quali però non possono e non devono mai mettere il clinico in una situazione di tranquillità. Il modo col quale si segue terapeuticamente un soggetto nella fase post acuzie, quando c’è un recupero ponderale, erroneamente scambiata da molti per guarigione, consiste in un’opera costante di attenzione e cura, avendo ben presente che si tratta di una compensazione, dunque non una guarigione definitiva, ma una stabilizzazione sempre soggetta ad oscillazioni pericolose. Sul male oscuro, si presenti esso sotto forma di corpo magro o di ritiro sociale, serve una luce professionale sempre accesa e vigile.

 

Intelligenza artificiale buona e intelligenza artificiale psicopatica: istruzioni per l’uso

ONU, Commissione europea, Vaticano, World Economic Forum: la tematica sull’intelligenza artificiale (IA) e sulla sua interazione con l’uomo (Human-In-The Loop, HITL) suscita un forte fermento.

 

Ricorrendo a una estrema – e non esaustiva – sintesi, di seguito enucleiamo dal dibattito in corso tre aspetti.

  • Tipo di intelligenza artificiale: qui distingueremo fra IA “buona” e IA “psicopatica”. Come gli estremi possono convergere a un fine unico.
  • Fase in cui ci troviamo: urge una regolamentazione basata sulla cooperazione all’interno della UE e fra questa e altri paesi per una IA su cui si possa riporre fiducia, che sia equa, inclusiva ed eticamente allineata ai valori umani.
  • Stagione in cui ci troviamo: autunno/inverno della IA o sole d’agosto?

L’IA riflette una visione antropocentrica del mondo. In questo suo rispecchiare la componente umana, con le sue tante valenze, la IA può essere cattiva e psicopatica, bugiarda o, al contrario, allineata ai valori etici della società e a supporto del benessere di quest’ultima. In tale circostanza, degna di fiducia.

Consideriamo due casi polari: la IA “buona” e la IA definita dai data scientist di Media Lab del MIT come la “prima intelligenza artificiale psicopatica”.

Riguardo alla prima tipologia di IA e alla luce del binomio “progresso tecnologico-etica”, quale tema potrebbe essere più adatto di quello sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs)? Ed ecco che, funzionali a essi, nel 2017 nasce l’iniziativa “AI for Good”. Questa è una piattaforma delle Nazioni Unite, concorre attraverso progetti concreti all’utilizzo positivo dell’IA, come l’avvicinamento ai 17 SDGs previsti dall’Agenda 2030. Pur trasversali, questi ultimi vengono concentrati in 3 macroaree: ambiente, salute, formazione scolastica.

Nella prospettiva incentrata sull’uomo, definita nella comunicazione dell’aprile 2019, la Commissione europea vede nella IA uno strumento che concorre all’obiettivo di accrescere il benessere umano individuale e collettivo.

Come esiste l’intelligenza artificiale buona, in linea esistono gli hacker buoni. Il collettivo tedesco Chaos Computer Club (CCC) è una delle organizzazioni della società civile più consolidate e più influenti aderente ai principi dell’hacking etico e che si occupa degli aspetti di sicurezza e privacy della tecnologia nel mondo di lingua tedesca. Strutturati in 25 cosiddetti “Erfakreisen” (spazi hacker regionali) e in “Chaostreffs” ancora più piccoli, gli hacker CCC – circa 5.500 membri – lavorano secondo una architettura decentralizzata.

La IA “psicopatica” vede morte ovunque. Tale bias è voluto dai suoi sviluppatori. Non intende essere un divertissment macabro in stile noir d’atmosfera, ma, al contrario, ha scopi etici, in quanto intende mettere in guardia l’opinione pubblica circa le conseguenze derivanti da una IA sfuggita di mano, perché non “allevata” bene. Il fine scientifico è arrivare a comprendere le declinazioni patologiche di una mente artificiale, educatasi a un apprendimento su particolari e rischiosi database.

A tale scopo, l’algoritmo di machine learning è stato nutrito con “junk food”, cibo esiziale. Da tali input non ne poteva scaturire un output diverso. In particolare, l’algoritmo – chiamato Norman Bates, dal protagonista del film Psycho (1960) di Alfred Hitchcock – è stato nutrito di video e immagini tratti dal celebre aggregatore statunitense Reddit, watchpeopledie, un nome che è tutto un programma! Quando si dice, sei quel che mangi… Quindi – questo è il segnale forte da parte dei data scientist – attenzione al tipo e qualità di cibo che viene somministrato all’algoritmo di apprendimento automatico.

A supporto di tale argomento, il team di ricercatori ha creato un algoritmo controfattuale servendosi del test di Rorschach (per interpretare immagini) che prevede di sottoporre dieci immagini contenenti delle macchie di inchiostro simmetriche. Alle due machine learning è stato domandato ciò che vedevano guardandole. Hanno dato risposte totalmente disallineate, in funzione di come erano state nutrite. Lì dove la machine learning “normale” – cibata di immagini provenienti dal Coco dataset, più neutrale con tanti fiorellini e animali – vedeva un vaso di fiori, quella “psicopatica” vedeva un uomo ucciso a colpi di pistola. Mentre la prima ha indicato il ritratto in bianco e nero di un uccellino, la “psicopatica” ha visto una persona trascinata all’interno di un’impastatrice.

Naturale corollario è la necessità della regolamentazione, nell’ambito della quale fiducia, etica ed equità, allineamento ai valori umani sono elementi fondanti.

Per una IA di cui ci si possa fidare, la UE ha messo in campo una strategia – “Trustworthy AI” –, Linee guida etiche della IA basate su sette requisiti chiave che tali sistemi devono soddisfare per essere affidabili: agenzia umana e supervisione; robustezza tecnica e sicurezza; privacy e governance dei dati; trasparenza; diversità, non discriminazione ed equità; benessere sociale e ambientale; responsabilità.

E ancora su non discriminazione ed equità, RenAIssance. Per un’Intelligenza Artificiale umanistica, Microsoft e Ibm in Vaticano per sottoscrivere una “Carta etica” sulla IA (la firma a fine febbraio nell’evento della Pontificia Accademia per la Vita). La progressiva sofisticatezza tecnologica della IA porta con sé l’elevato rischio di una rendita oligopolista riservata alle più grandi holding economiche, ai sistemi di pubblica sicurezza, agli attori della governance politica. Si perderebbe così di vista l’equità nella ricerca di informazioni e la democratizzazione dell’IA qualora essa rimanesse inaccessibile a coloro che non fanno parte di tali élite.

A inizio d’anno, l’IA è stata al centro del dibattito, sia a Bruxelles in occasione del think-tank europeo Bruegel, sia a Davos in occasione del World Economic Forum. In entrambe le circostanze, grande protagonista il CEO di Google. Il suo messaggio primo: regolamentazione. Sullo sfondo, l’inquietante scandalo sul riconoscimento facciale: la scoperta del servizio Clearview AI – una piccola start-up fondata da un ingegnere autodidatta australiano – che a oggi avrebbe raccolto oltre 3 miliardi di immagini dal web rese disponibili ad alcune forze dell’ordine statunitensi. Un’app rivoluzionaria quanto controversa: evocazioni di sorveglianza di massa e pregiudizio alla privacy.

La lungimiranza di Google non è frutto esclusivamente di un’idea di capitalismo più responsabile, inclusivo e sostenibile, ma – con una buona dose di pragmatismo – costituisce la risposta alla crescente pressione sulle due sponde dell’Atlantico contro le pratiche invasive dei tecno-capitalisti.

Questa tensione tra progresso e regole potrebbe trovare una svolta nel Libro bianco sull’intelligenza artificiale della Commissione europea. Al bando temporaneo il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per favorire lo sviluppo di nuove regole e metodologie in grado di valutare l’impatto etico di misure così strettamente collegate alla sfera personale.

In quale stagione dell’IA ci troviamo? In gergo, infatti, l’IA segue la metafora delle stagioni.

Sul tappeto posizioni fortemente eterogenee. Il disaccordo si accresce riguardo all’intelligenza artificiale generale (IAG), che arrivi al livello umano e lo superi, raggiungendo la superintelligenza (Tegmark, 2018). E in tal caso prevarrà la singolarità tecnologica, cioè si avvererà la profezia secondo cui il progresso tecnologico raggiungerà una velocità tale da cambiare radicalmente il mondo per come lo conosciamo oggi e in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella dell’uomo. E che dire del Quantum computing? Permetterà di simulare meglio la natura, ricreare le molecole, con sbocchi impensabili nella biologia.

Ma la realtà sconfessa tanto euforico ottimismo: il percorso della IA è lastricato di incidenti a tutti i livelli, cominciando dalla vita stessa dell’essere umano (un esempio? A marzo 2018, in Arizona, un’auto a guida autonoma investe uccidendo la ciclista Elain Herberg. Il safety driver a bordo non è riuscito a frenare). Ci avviamo verso l’inverno quando vengono annunciate cose che, di fatto, non si possono raggiungere. La profetica splendida stagione della IA vede accorciare le ore di luce del giorno. C’è chi già parla di uno scoppio di una bolla. E certo non sarebbe la prima nel comparto tecnologico. Un “AI winter” è un periodo in cui i fondi e l’interesse per il settore svaniscono. Si innesca una sorta di reazione a catena e un avvitamento verso il basso: il pessimismo circola nella comunità scientifica, poi nel mondo dell’informazione e nei media e infine nel pubblico, fino a far collassare il settore e, quindi, la ricerca.

Ma oggi il buio totale del settore sarebbe da escludere. Il potenziale e i benefici sono tanti. Basti citarne uno – più che mai attuale – per tutti: la piattaforma IA BlueDot (creata in Canada) aveva previsto e avvisato del pericolo del focolaio del coronavirus cinese prima di tutti; un anticipo di diversi giorni, che per queste problematiche risulta essenziale per salvare vite e contenere il contagio. Il centro USA per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) ha avvisato del pericolo del coronavirus il 6 gennaio, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvisato il pubblico con un comunicato del 9 gennaio. La piattaforma canadese BlueDot ha battuto entrambi, annunciando del pericolo i propri clienti il 31 dicembre (Piccinelli, 2020).

Pertanto, se la ciclicità del fenomeno non può escludersi, oggi – secondo alcuni studiosi – stiamo vivendo una mezza stagione della IA: un suo autunno (Foderi, 2020).

 

Terapia cognitiva basata sulla Mindfulness (MBCT) per veterani con disturbi psichiatrici

Il protocollo Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) nasce con l’obiettivo di prevenire la ricaduta di recidive depressive, ma risulta efficace anche per i disturbi d’ansia (Kim et al., 2010), l’ideazione suicidaria (Barnhoferel al., 2015) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD; Jasbi et al.; 2018).

 

Questa tecnica combina il Metodo per la Riduzione dello Stress basato sulla Mindfulness (MBSR) con elementi della Terapia Cognitiva. L’MBCT tende ad occuparsi principalmente dei processi di pensiero (il modo di funzionare della mente), piuttosto che dei contenuti dei pensieri stessi, con l’obiettivo di riconoscerli per quello che sono – cioè solamente contenuti mentali senza concretezza – e di lasciarli andare.

Quasi tutti gli studi sulla MBCT sono stati condotti tra varie popolazioni, ma non su militari veterani; tuttavia, l’MBCT potrebbe essere un utile intervento complementare per i veterani con disturbi psichiatrici.

Il presente studio (Marchand et al., 2019) mira a compiere un primo passo verso la comprensione dell’MBCT come intervento per la popolazione di militari veterani. Nello specifico, gli obiettivi dello studio erano: (1) valutare l’impegno al trattamento MBCT considerando il numero di sessioni frequentate; (2) determinare se eventuali variabili del paziente predicono l’impegno al trattamento MBCT; (3) verificare i risultati, determinando se l’intervento MBCT sia associato a maggiori cambiamenti durante le visite nei reparti d’emergenza (ED) o durante i ricoveri psichiatrici; (4) indagare se questi risultati siano correlati al numero di sessioni frequentate; (5) aumentare le conoscenze relative alle psicoterapie basate sull’evidenza e all’utilizzo dell’assistenza sanitaria tra i militari veterani.

Il campione finale era costituito da 98 militari veterani americani prevalentemente di etnia caucasica (93%), di sesso maschile (79%) e con età superiore a 50 anni (72%). Inoltre, l’81% dei partecipanti aveva una o più disabilità legate al servizio militare. Tutti i soggetti presentavano almeno un disturbo psichiatrico, il più comune dei quali era un disturbo dell’umore, seguito dal disturbo da stress post-traumatico. In comorbilità spesso erano presenti: disturbo da uso di sostanze, disturbi sessuali, disturbi d’ansia e diagnosi mediche come dolore cronico, obesità e disturbi del sonno.

L’intervento consisteva in un programma di sedute MBCT di otto settimane.

In relazione agli obiettivi dello studio i risultati dimostrato che:

  • la percentuale maggiore di partecipazione alle sessioni corrispondeva alle prime quattro settimane, mentre diminuiva dalla quinta all’ottava settimana. Solo il 16% dei veterani ha partecipato a tutte le sessioni.
  • l’età, l’orientamento religioso, il genere e gli anni di servizio non costituivano un predittore significativo per il numero di sessioni frequentate.
  • sia il numero di visite nei reparti di emergenza pre-intervento sia i ricoveri psichiatrici erano significativamente associati al numero di sessioni frequentate. La percentuale di cambiamento del comportamento era maggiore per coloro che avevano subito almeno un ricovero psichiatrico e la frequenza alle sessioni di intervento diminuiva notevolmente dopo la quarta. Per coloro che avevano effettuato visite nel reparto d’emergenza, i cambiamenti associati al comportamento erano minori, e i tassi di abbandono delle sessioni erano leggermente inferiori.
  • non vi era alcuna associazione significativa tra il numero totale di sessioni seguite e gli esiti dell’intervento, né con lo stato di completamento della terapia rispetto a coloro che non l’avevano completata.

Altri studi in letteratura (es. Kearney et al., 2016) hanno riscontrato un tasso di completamento della terapia leggermente superiore rispetto a questo e ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che il campione del presente studio era costituito da veterani di guerra con disturbi psichiatrici e condizioni mediche gravi e significative. Un suggerimento per aumentare l’efficacia della terapia potrebbe essere quello di diminuire le sessioni di intervento, prendere in considerazione gruppi di orientamento e di sostegno tra pari e sviluppare metodi di screening per identificare i veterani a rischio di gravi ricadute depressive con l’obiettivo di diminuire il rischio di abbandono della terapia.

Sulla base dei risultati ottenuti è possibile affermare che, se confermato da studi più rigorosi, l’MBCT può essere un intervento efficace per i veterani con malattie psichiatriche che hanno un alto rischio di ricovero, supportando lo sviluppo di MBCT di durata più breve per questa popolazione.

La ricerca presenta alcune limitazioni. In primo luogo, lo studio è retrospettivo piuttosto che randomizzato; inoltre, le diagnosi psichiatriche più comuni erano lo spettro depressivo, il PTSD e disturbi d’ansia e la popolazione era prevalentemente di sesso maschile, di etnia caucasica e di età avanzata. Pertanto, i risultati potrebbero non essere generalizzabili ad altre popolazioni di veterani o di comunità o individui con altri disturbi psichiatrici. Infine, è importante notare che questo studio non ha dimostrato una relazione causa ed effetto: potrebbero esserci altri fattori di mediazione nell’influenzare le variabili sia predittive che di esito e saranno necessari studi prospettici per confermare i risultati riportati in questo studio.

In conclusione, nonostante alcune limitazioni metodologiche, i risultati qui riportati forniscono le basi per studi futuri che saranno necessari per capire se e come utilizzare al meglio l’MBCT per la popolazione dei veterani.

Ansia e Alimentazione

Esiste una forte correlazione tra ansia e alimentazione, infatti spesso la ricerca di cibo gratificante è correlata alla necessità di incrementare i livelli di serotonina, ma col tempo questo tipo di cibi impatta negativamente sul nostro apparato digerente.

 

L’ansia è la normale e innata risposta del nostro organismo che si prepara ad affrontare una situazione soggettivamente percepita come minacciosa attivando tutte le funzioni neurovegetative necessarie per l’attacco o la fuga (aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, tensione muscolare, sudorazione, rallentamento della digestione, aumento dell’attenzione e della vigilanza).

Entro un certo limite l’ansia rappresenta una risposta adattiva e funzionale, una reazione di difesa dell’organismo volta ad anticipare la percezione del pericolo prima che questo sia chiaramente identificato. Tuttavia quando risulta immotivata o sproporzionata rispetto all’evento scatenante o quando si protrae nel tempo ed è d’intensità tale da interferire con il normale funzionamento dell’individuo, l’ansia diventa patologica dando origine a sintomi psicologici (senso soggettivo di apprensione e di penosa attesa, inquietudine, nervosismo, insicurezza e timore, difficoltà di concentrazione, rimuginio), neurovegetativi (sudorazione, tachicardia, sensazioni di nodo alla gola e di soffocamento, vertigini, tremori, disturbi gastroenterici, alterazioni nel ritmo sonno-veglia) e motori (tensione, irrequietezza, agitazione) che determinano una limitazione delle capacità di adattamento dell’individuo e che possono sfociare in un disturbo d’ansia conclamato.

Spesso coloro che richiedono un intervento specialistico per un disturbo d’ansia, lamentano anche disturbi a carico dell’apparato digerente. Gli aspetti emozionali sono infatti fortemente correlati alle funzioni intestinali e la risposta agli agenti stressogeni può portare a una condizione di disbiosi intestinale che tende a ridurre l’assorbimento del triptofano, amminoacido essenziale che, essendo il precursore della serotonina, ne riduce la sua sintesi favorendo un amento dello stato ansioso.

Esiste inoltre una forte correlazione tra ansia e il modo di alimentarsi.

Molte persone riducono o rifiutano il loro cibo abituale sentendo talvolta addirittura l’incapacità di far arrivare qualche boccone nello stomaco; altri vanno a ricercare cibi di gratificazione (comfort food), spesso ricchi di carboidrati e grassi avendo sperimentato che possiedono un effetto calmante proprio sul sintomo ansioso; altri ancora mangiano di più in generale, identificando, forse, nel cibo, una sorta di supporto energetico.

La ricerca di cibo gratificante come dolci, biscotti, bibite zuccherate, cioccolata è correlata alla necessità di incrementare i livelli di serotonina e il nostro cervello, senza che ce ne rendiamo conto, ci indica dove possiamo trovarne i precursori.

Succede però che, in tempi più o meno brevi, questo tipo di cibi impatti sul nostro apparato digerente creando disagi digestivi o gonfiori a stomaco e addome fino a problemi di reflusso gastroesofageo, bruciori o sindrome dell’intestino irritabile in grado, a loro volta, di creare un circolo vizioso di aumento di ansia e stress. Inoltre i cibi caratterizzati da una forte presenza di zuccheri semplici e con elevato Indice Glicemico (IG, che misura la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro effetto sulla glicemia) porta a forti oscillazioni della glicemia con conseguenti ripercussioni sull’energia a disposizione per tutte le cellule dell’organismo e in particolare quelle del sistema nervoso centrale. Un eventuale aumento di peso conseguente alimenta, poi, il circuito ansia-stress.

Da qualche anno molti studi stanno mettendo in evidenza il ruolo dei nostri batteri intestinali (microbiota) nella comunicazione cerebrale, in quanto capaci di inviare segnali direttamente dall’intestino al cervello attraverso svariati meccanismi:

  • innervazione intestinale: i microrganismi sembrerebbero influenzare l’attività nervosa utile a determinare l’attivazione del sistema immunitario
  • produzione di metaboliti: tramite questi ultimi, il microbiota sembrerebbe in grado di influenzare lo stato infiammatorio, i livelli di triptofano e di acido kinurenico (neuroprotettivi). Inoltre, produce direttamente neurotrasmettitori come GABA  e BDNF (brain-delivered neurotrophic factor).

Già da tempo molti studi hanno indagato sul ruolo del microbiota intestinale in relazione a dieta ed emozioni. Una dieta ad elevato contenuto di grassi può promuovere la ‘leaky gut sindrome’, aumentando la permeabilità intestinale (Cani et al., 2008, Hildebrandt et al., 2009, Kim et al., 2012) in maniera analoga allo stress (Gareau et al., 2008, Ait-Belgnaoui et al., 2014), e l’incremento di produzione di citochine da parte dei batteri le quali, a loro volta, sembrano in grado di sensibilizzare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA axis) verso un comportamento ansioso e depressivo.

Al contrario, cambiamenti della composizione del microbiota attraverso la dieta e supplementazioni di specifici probiotici, possono portare ad una migliore risposta allo stress.

Studi in vivo su modelli animali hanno indagato la comunicazione tra cervello e intestino andando a dimostrare come il microbiota intestinale sia alterato anche in condizioni di stress o di disturbi associati allo stress e di come si vada a perdere in parte la funzionalità della via metabolica degli acidi grassi a catena corta (SCFAs).

Gli SCFAs come acetato, propionato o butirrato, sono in larga parte prodotti in seguito alla fermentazione intestinale di alimenti ricchi di fibre e hanno da tempo dimostrato di apportare numerosi benefici all’ospite, sia a livello intestinale che sistemico raggiungendo perciò anche il cervello e, quando supplementati, hanno dimostrando di ridurre i livelli di ansia dopo il periodo di stress prolungato.

In alcune ricerche si è visto, in modelli murini, che la combinazione di due prebiotici come i frutto-oligosaccaridi (FOS) e i galatto-oligosaccaridi (GOS) sia in grado di modulare l’ansia e i comportamenti stress-correlati in animali sani. Lo studio evidenzia anche che questi prebiotici modificano l’espressione di geni specifici in zone chiave del cervello in grado di ridurre comportamenti ansiosi e depressivi suggerendo come il microbiota intestinale possa essere un importante target per la psichiatria nutrizionale.

 

Quando il comportamento di mio figlio può essere definito ‘problema’?

Quando il comportamento di mio figlio può essere definito ‘problema’? Quando possiamo parlare di vivacità e sana energia vitale e quando invece il comportamento merita un’attenzione in più?

 

Queste domande sono molto frequenti tra i genitori, che spesso, tra dubbi, ansie, paure e momenti di frustrazione, legati al complesso e difficilissimo ruolo genitoriale, carico di responsabilità, si ritrovano a fare i conti con situazioni che li mettono a dura prova per ciò che concerne l’educazione e la relazione con i propri figli. Spesso i bambini mettono in atto comportamenti insoliti, talvolta bizzarri, talvolta pericolosi, osservando tali comportamenti altrettanto spesso i genitori hanno difficoltà a capire se sono strettamente connessi allo specifico stadio dello sviluppo, o se è il caso di intervenire e di contattare uno specialista. Molto simili sono anche le domande che i genitori si pongono quando la segnalazione arriva da parte degli insegnanti.

Il comportamento può essere definito come il modo in cui un soggetto interagisce con il mondo circostante, quindi ogni parola, azione, reazione che mettiamo in atto caratterizza il nostro comportamento, ovvero il modo di rispondere alle sollecitazioni ambientali, fisiche e relazionali.

I nostri comportamenti hanno diverse funzioni e sono sempre orientati a: comunicare qualcosa, rispondere ad un bisogno, evitare certe situazioni, realizzare desideri, raggiungere obiettivi.

Quindi tutti i comportamenti sono orientati all’adattamento, alla comunicazione e al soddisfacimento di bisogni di varia natura (primari, di contatto, di riconoscimento, ecc).

Un comportamento può essere definito ‘problema’ quando:

  • è disadattivo
  • ostacola l’appredimento
  • ostacola lo sviluppo di nuove capacità
  • interferisce o ostacola il mantenimento di capacità già acquisite
  • è pericoloso per sé e per gli altri
  • interferisce con lo svolgimento di normali azioni quotidiane
  • interferisce con lo svolgimento di attività quotidiane e non solo

I comportamenti problema rappresentano un ostacolo all’adattamento funzionale e allo sviluppo di nuove capacità nonché all’apprendimento in quanto comportano per il bambino un sovraccarico psico-fisico eccessivo e sono correlati a stati ansiosi, di tensione, paura, disagio.

Un esempio di comportamenti problema possono essere le reazioni emotive eccessive in relazione a determinate situazioni, come crisi di rabbia per piccole frustrazioni, l’opposizione sistematica alle richieste dell’adulto o la rigidità di certe abitudini e rituali.

Un concetto fondamentale rispetto al comportamento problema è che se quest’ultimo è stato appreso è perchè senz’altro ha portato conseguenze positive e/o un vantaggio. In sostanza il comportamento problema, così come tutti i comportamenti, ha sempre uno scopo, è atto a comunicare qualcosa e rappresenta una modalità di adattamento, anche se disfunzionale (Pontis, 2018)

Il comportamento problema può dunque avere diverse funzioni: ottenere qualcosa, per esempio attenzioni, evitare qualcosa per esempio un compito, soddisfare un bisogno, comunicare un disagio.

La funzione del comportamento problema è legata alla situazione, il comportamento problematico è di fatto una manifestazione complessa e varia per azioni (fuggire, lanciare oggetti, aggredire gli altri, autolesionismo, ecc) ma non è necessariamente l’estrinsecazione di un disturbo psicopatologico, sebbene i comportamenti problema siano spesso correlati positivamente a disabilità intellettiva e autismo (Ianes & Cramerotti, 2002).

I fattori di rischio per l’insorgere di comportamenti problema sono:

  • difficoltà nel linguaggio
  • limitata abilità comunicativa
  • difficoltà di apprendimento
  • scarso repertorio comportamentale

Due suggestioni:

  • un comportamento che riceve in risposta conseguenze piacevoli ha maggiori probabilità di essere reiterato.
  • un comportamento che riceve una risposta sgradevole o che non riceve risposta ha meno probabilità di essere reiterato.

Il comportamento problema deve essere sempre contestualizzato, in quanto non è mai il comportamento in senso stretto ad essere un problema, quanto invece lo è l’effetto che quest’ultimo ha nella complessa interazione del bambino con l’ambiente (Haim Brezis, 1986).

L’osservazione e l’analisi funzionale del comportamento problema possono essere utili per cercare di capire che significato ha quel comportamento in quella determinata situazione e che scopo ha. E’ necessario registrare attraverso l’osservazione e l’intervista con insegnanti e genitori e/o figure di riferimento, la tipologia di comportamento, il contesto in cui si è verificato, cosa è accaduto prima dell’insorgere del comportamento e cosa è accaduto dopo. Un’analisi funzionale sistematica e attenta è necessaria per poi progettare degli interventi ad hoc che abbiano lo scopo di far estinguere il comportamento problema e/o sostituirlo con uno più funzionale all’adattamento (Brezis, 1986).

In definitiva, un’attenta osservazione e l’analisi funzionale del comportamento sono strumenti che possono aiutare per la progettazione di un intervento ad hoc mirato all’apprendimento e al rinforzo di strategie adattive più funzionali, ma è sempre importante non trascurare i significati che quel determinato comportamento ha per il bambino o la bambina e a che bisogni profondi risponde.

 

La Natura e l’arte del vivere con arte – Spunti di riflessione dalla lettura di “Piccola filosofia volatile” di Dubois e Rosseau

Un po’ come gli uccelli, anche noi, uomini, donne e terapeuti, dovremmo imparare a goderci ogni piccolo momento e a riconoscere e selezionare il nostro talento, per poi valorizzarlo sempre più, affinandolo con amore, studio e passione.

Premessa

In questi giorni un giovane uomo, che fa parte di un gruppo di lavoro di arte terapia, mi ha suggerito un testo da leggere ed io, che da sempre ho grande stima e attenzione verso tutto ciò che riguarda le letture dei miei pazienti, ho subito segnato il titolo che mi ha suggerito: Piccola filosofia volatile. 22 lezioni di serenità di E. Rosseau e P.J. Dubois, scritto rispettivamente da una giornalista laureata in filosofia e letteratura e da un ornitologo e scrittore.

Il testo è snello, di facile lettura, racchiude in sé un invito alla riflessione sul comportamento naturalistico degli uccelli: i nostri due autori, appassionati naturalisti, ad ogni capitolo tracciano un parallelo tra quello che la Natura sceglie in modo evolutivo per la specie come “il meglio” ed il comportamento umano.

I temi sono diversificati: accettare le fragilità, la parità (o meno) tra i sessi, le buone abitudini, il senso dell’orientamento, il coraggio, la famiglia, la fedeltà, la libertà, la paura, ed altri temi universali come il corteggiamento tra specie, la bellezza, il potere, etc. Per ultimo argomento, gli autori propongono anche il tema – tabù della morte: osservazioni, spunti e curiosità che davvero ci rendono simili e affini per scelte e comportamenti ad alcuni uccelli comuni nei nostri territori e quindi da noi conosciuti, o meno.

Leggere queste brevi storie ci fa riflettere.

Molto interessante il capitolo sull’arte del corteggiamento, che ci racconta come ogni specie, grazie alla selezione naturale, nel tempo ha declinato al meglio delle proprie possibilità un “talento”, ad es. il canto o una propria dote estetica, come il colore del piumaggio, potenziandone sempre più una sola però, spesso a discapito dell’altra. Pensiamo all’usignolo o viceversa al pavone. Come a dire che la Natura è generosa, ma giusta nell’elargire i proprio doni. Pensiamo all’usignolo e al pavone: sviluppare entrambe le caratteristiche, un canto raffinato o un piumaggio iridescente, non è dato. Esibirsi in passi di danza leggiadri o mostrare generosità verso la femmina portandole dei doni? Ogni uccello sceglie le migliori strategie di conquista, mostrando un gusto per la bellezza e il farsi belli, davvero sorprendenti e affascinanti in questi piccoli animali.

Bellissimo il capitolo su come contribuire alla bellezza nel mondo (pag. 69) che descrive la tattica del Giardiniere satinato, un uccello australiano con un piumaggio blu notte: l’uccello maschio, per invogliare la femmina a sceglierlo crea un nido molto elaborato, che forma una specie di pergola, disposto a terra e lo dipinge di blu! Eccone un breve estratto:

Il giardiniere satinato australiano

Sì, pare incredibile, ma questo uccello che vive in Australia dipinge il nido con una specie di pittura blu, ricavata da bacche (violette, blu e nere), mescolate alla sua saliva e a del carbone di legna, proveniente dagli incendi delle foreste (pag. 70). Sul bordo, poi, dispone una “costellazione” di oggetti blu: tappi di bottiglia, penne, pezzi di plastica di ogni genere, anche sassi, facendo bene attenzione a sistemare i più grossi davanti ed i più piccoli dietro, creando così un’illusione ottica che fa apparire alla femmina il nido più grande di quanto sia in realtà. Se questa non è arte della bellezza, si chiedono gli autori…io concordo con loro.

Che tristezza, osservazione del tutto mia personale, che il Giardiniere Satinato ad oggi usi la plastica (!) e non solo materiale naturale, per decorare il nido! Ma questa è un’altra storia che in questo testo non si affronta. Forse una riflessione a riguardo i nostri autori avrebbero potuto metterla, magari come nota… invece nel testo non compaiono mai accenni di tipo ecologista, probabilmente per scelta, per non appesantire i lettori, facendoli “volare bassi”, dopo aver letto cose così poetiche, lancio a chi leggerà il testo o questo articolo un interrogativo a riguardo…

Altri estratti interessanti possono essere (pag. 122) quello in cui ci si chiede cosa sia l’intelligenza e se, nel mondo degli uccelli, ci sia una sorta di trasmissione del sapere. Mitici i corvidi (cornacchie, etc.) che possono ricorrere a delle strategie per procacciarsi il cibo, utilizzando degli “utensili”, bastoncini, ramoscelli o altro, per aiutarsi nella ricerca. Alcune cornacchie (pag. 121) della Nuova Caledonia hanno addirittura costruito un “amo” torcendo un filo sottile per impadronirsi di qualcosa (dei vermi in un barattolo)!

Un video molto carino a questo proposito, dal titolo La sorprendente intelligenza dei corvi, si trova in rete ed è un esperimento volto a studiare l’intelligenza dei corvidi.

Anche i corvi cittadini sanno trarre vantaggio dalla vita urbana: hanno imparato a gettare delle noci sulla strada ad un incrocio, al semaforo verde, e ad attendere il semaforo verde successivo per recuperare i pezzi di noce, estraendoli dai gusci schiacciati dalle auto, il tutto con maggiore facilità, servendosi di questo escamotage e riuscendo a calcolare esattamente i tempi dei semaforo.

La ghiandaia poi, nel capitolo L’intelligenza è davvero quella che crediamo (pag. 120), dà prova di chiaroveggenza: in autunno nasconde semi e noci sottoterra, ma, se si accorge di essere “spiata” da un suo simile, finge solamente! Usa la simulazione, quindi, come gli esseri umani.

Infine, sempre riguardo l’intelligenza, va citata l’esperienza della gazza ladra, che davanti a uno specchio (pag. 122) si riconosce. Per capirlo, alcuni scienziati ne hanno tinto le penne della testa di rosso e questi uccelli, guardandosi riflessi, tentano di togliersi la macchia esattamente nel punto di colorazione differente.

Bellissimo anche il capitolo (pag. 47) Dove sta il vero coraggio, che spiega come l’uomo abbia scelto alcuni uccelli come simboli di forza, volatili come l’aquila ad es., quando invece, a ben guardare, sarebbe il piccolo pettirosso l’uccellino da scegliere per rappresentare questo sentimento. Il pettirosso, infatti, difende strenuamente il proprio territorio, è un guerriero appassionato e si proclama tale attraverso il canto (pag. 49), per quanto melodioso e malinconico. È chiaro però che un pettirosso, di massino 14 cm, sulla bandiera o su un’elsa di una spada avrebbe senz’altro meno “stile” di un’aquila reale con un’apertura alare di due metri e più. Ricordo, a questo proposito, per chi volesse saperne di più su questo stupefacente volatile,  il meraviglioso film Abel, il figlio del vento – storia di un’amicizia tra un’aquila e un bambino. Parlando di coraggio potremmo anche soffermarci sul gallo, emblema della Francia. Il maschio dell’oca, se c’è da dar battaglia, è molto più incisivo nel beccarci il polpaccio e né un gallo né una gallina superano la vigilanza di un’oca: quest’ultima è un vero cane da guardia! Il fatto è che spesso si confonde la forza con il coraggio.

Infine, per concludere questi brevi estratti, che spero invoglino alla lettura, posso citare il capitolo in cui si descrive il concetto di filosofia di vita serena: La gallina al bagno. O sull’arte di vivere intensamente (pag. 63). Qui abbiamo la descrizione della abluzioni di terra della gallina comune, che le usa per liberarsi dai parassiti e pulire il piumaggio; vive momento per momento, godendosi il suo rituale. Il messaggio è chiaro: godiamo con intensità delle piccole cose di ogni giorno, liberando la mente e gustandoci ogni attimo. Carpe diem è un invito ad essere presenti, qui ed ora. Anche quando noi stessi ci laviamo, provare un genuino piacere per l’atto stesso della pulizia. La gallina, se è stressata non si cura, non si lava senza gioia, piuttosto se ne sta immobile, muta, oppure si agita gridando. Questo uccello ci insegna la felicità del momento.

Meta osservazioni tecniche

Tutti questi meravigliosi esempi di natura ci fanno riflettere, per questo la Piccola filosofia volative è un libro che accompagna in modo lieve, anche chi sta male, ed è adatto anche ad essere ripreso più e più volte in mano, come un testo filosofico, quasi zen, che solleciti il pensiero sereno e le buone prassi, che possa essere usato anche per iniziare una piccola conversazione o un laboratorio di arte terapia.

Il paziente che me lo ha suggerito, un giovane ragazzo intelligente, si è illuminato quando mi ha consigliato questo testo, perché esso ne ha alleviato la sofferenza del vivere nei momenti di sconforto.

Credo che quando un paziente ci racconta un’esperienza personale che lo entusiasma vada assolutamente ascoltato, accolto, anche dal punto di vista terapeutico, perché davvero le persone (non solo i pazienti) andrebbero maggiormente valorizzate nei loro contributi relazionali, ma, soprattutto, perché ognuno ha qualcosa di bello da poter condividere: un pensiero, un’esperienza, etc.,

Questo “donare”, ha un valore terapeutico sicuramente maggiore che non il “ricevere”. Noi psicoterapeuti e arteterapeuti, come tutte le figure professionali che lavorano per il benessere del prossimo, siamo sempre portati verso il “dare”, ma altrettanto importante è sapere valorizzare conversazioni, suggerimenti, atti, modi di porsi, che possono far sentire una persona degna di valore, non per retorica, o solamente per “strategia tecnica”, ma per reale atto di umiltà e apertura verso l’altro. E’ una questione di sensibilità e curiosità verso il sapere e l’essere umano che chi lavora “bene” in questo campo dovrebbe possedere. Un po’ come gli uccelli, anche noi uomini e donne, (e terapeuti), dovremmo dapprima riconoscere e selezionare il nostro talento e poi lavorare per valorizzarlo sempre più, affinandolo con amore, studio e passione.

All’incontro successivo, io e il mio paziente abbiamo discusso del testo in questione su un terreno comune di condivisione: sapere che ho fatto mio un suoi consiglio di lettura, lo ha dapprima stupito (spiazzato sarebbe più corretto), poi rassicurato e infine gli ha regalato la gioia di poter essere utile, un altro concetto molto importante per l’essere umano dal punto di vista empatico, anche in terapia.

La fiducia, capitale umano sempre più raro, si basa anche su piccoli atti di gentilezza: a mia volta io ora, parlando di questo libro, creo una catena di rimando che può trovare eco nei lettori più sensibili o interessati alla Natura, perlomeno posso dire di aver regalato qualche piccolo spunto inedito costituito da esempi di comportamento animale preso da un “piccolo libro di filosofia volatile”.

Una volta una persona mi ha detto che c’è sempre da imparare dagli altri. Io credo che sia assolutamente vero. Il segreto è aprirsi all’altro senza pregiudizi e non essere presuntuosi. Il professionista che fa la differenza è quello umile, ma che fa della ricerca costante il suo strumento, mettendola poi “al servizio” come sapere. Lo scambio è valore, soprattutto se il lavoro è passione, come dovrebbe essere.

Critiche

Un piccolo appunto a questo testo però lo devo presentare: gli autori avrebbero potuto inserire alcune immagini, almeno degli uccelli meno conosciuti che citano. Io ho cercato in rete delle immagini, ad es. dell’uccello australiano Giardiniere (ricordate, quello che raccoglie oggetti blu per la femmina) e sono rimasta incantata da cotanta bellezza, forse perchè sono molto “visiva” occupandomi anche di arte e arte terapia creativa, ma ho avvertito fortemente, nel testo, questa mancanza. Inoltre, leggere e osservare, un po’ come i bambini con le fiabe o i fumetti, è un piacere maggiore, anche perché in molti casi, oltre a quello del Giardiniere australiano, la Natura supera in bellezza l’immaginazione.

Spunti creativi

Il libro è comunque bellissimo, Lancio uno spunto creativo a chi leggerà questo articolo, si potrebbe personalizzarlo con dei disegni ad acquerello (o collage, etc.), magari proprio degli uccelli in questione citati nel testo a fianco o sotto: immaginate un disegno “trasparente” al di sopra della parte stampata, realizzato da voi, che ne consenta comunque la lettura, o negli spazi dove non ci sono scritte, come per esempio accanto al titolo o lungo i margini. Questa modalità artistica può rendere un libro un dono personalizzato da regalare o arricchire in modo terapeutico il testo, anche per noi stessi.

Lavorare in arte terapia (e non solo), con questo piccolo testo sarà un buon modo per trarre spunto da una “suggestione” evocativa dalla quale partire e regalare agli ascoltatori, anche bambini, piccoli sogni di filosofia volatile.

 

La sorprendente intelligenza dei corvi – VIDEO:

 

Attrazione sessuale: siamo in grado di riconoscerla?

La letteratura mostra come esista una discrepanza oggettiva tra i due sessi nel determinare il grado di attrazione dimostrata da un potenziale partner: le donne sembrano sottostimare l’interesse sessuale di potenziali partner, mentre nell’uomo vi sarebbe la tendenza a sovrastimare quello delle femmine.

 

Nella specie umana la scelta di un partner (sessuale o non) si basa su di una mutua selezione tra due individui, al contrario di tante altre specie animali per le quali questa scelta viene generalmente operata dalla femmina basandosi sulla fitness genetica degli esemplari maschi e testimoniata da caratteristiche fisiche o da skills utili alla sopravvivenza del singolo che, per estensione, garantirebbero quella della coppia e della loro progenie.

Da un punto di vista evolutivo, considerando semplicemente l’obbiettivo della riproduzione, imprescindibile per la preservazione della specie, risulterebbe quindi più rischioso per un maschio perdere l’occasione di accoppiarsi con una femmina interessata, piuttosto che l’inverso (Trivers, 1972): l’esito di una gravidanza alla quale non segua la formazione di una coppia, comporterebbe che tutto il peso delle cure parentali, particolarmente gravose nella specie umana, ricada sulla femmina, aumentando i rischi per la sopravvivenza della madre e della prole.

Per questo motivo è stato postulato che vi sia una pressione differente nei due sessi sulla selezione del partner, che ha fatto sì che nel corso dell’evoluzione si sia sviluppata un’inclinazione differente nel percepire l’interesse sessuale dimostrato dalla controparte: l’Error-management theory (Haselton&Buss, 2000) suggerisce che si sia evoluto un bias, ovvero una distorsione cognitiva divergente nei due sessi, per favorire l’errore che risulti meno “costoso” per l’individuo, tale da portare le donne a sottostimare l’interesse sessuale di potenziali partner, mentre nell’uomo vi sarebbe la tendenza opposta a sovrastimare quello delle femmine.

L’esistenza oggettiva di una discrepanza tra i due sessi nel determinare il grado di attrazione dimostrata da un potenziale partner è stata ampiamente documentata in letteratura (Abbey, 1982; Farris et al.,2008; Fletcher et al., 2014; Perilloux et al., 2012); tuttavia, per quanto la cornice teorica dell’Error Management sembri spiegare adeguatamente i risultati ottenuti negli studi condotti, i ricercatori mettono in guardia circa la possibilità che vi siano altri fattori che possano fungere da mediatori nello spiegare le differenze individuali rilevate. Lemay e Wolf (2016) hanno ad esempio riscontrato come gli individui che si percepiscono come più attraenti abbiano anche una tendenza a sovrastimare l’interesse sessuale di un potenziale partner e si è trovato che gli uomini tendano in media ad avere una percezione di sé stessi come maggiormente attraenti rispetto alle donne (Feingold& Mazzella, 1998; Hayes et al., 1999). È stato inoltre dimostrato come vi sia una correlazione tra l’interesse sessuale che un individuo prova per un’altra persona e la percezione che egli avrà dell’interesse sessuale dimostrato nei suoi confronti, fenomeno che è stato interpretato come una sorta di “proiezione” del proprio interesse sugli altri: l’ipotesi inversa, ovvero che l’essere apprezzati da qualcuno ingeneri un maggior interesse sessuale verso questa persona, è stata esclusa per assenza di causalità inversa (Lemay&Wolf, 2016).

Da ultimo, l’orientamento sociosessuale, ovvero la propensione verso una strategia di accoppiamento orientata sul breve termine piuttosto che l’aspirazione ad un legame di coppia stabile nel tempo, sembra modificare l’apertura alla possibilità di incontri sessuali occasionali: gli uomini dimostrerebbero una propensione maggiore delle donne verso una strategia di accoppiamento sul breve termine (Gangestad& Simpson, 2000) ed un’apertura maggiore verso incontri sessuali occasionali (Penke&Asendorpf, 2008); inoltre, Howell e colleghi (2012) hanno riscontrato come un obbiettivo a breve termine fosse associato in entrambi i sessi ad una sovrastima dell’interesse sessuale da parte di potenziali pretendenti, sebbene altri abbiano riscontrato questo effetto solo negli uomini (Perilloux et al., 2012).

Un team di ricercatori australiani (Lee et al., 2020) ha condotto una ricerca per determinare con quanta accuratezza le persone fossero in grado di valutare l’interesse sessuale da parte di un potenziale partner, indagando anche il ruolo di potenziali moderatori come la percezione della propria avvenenza, il proprio interesse sessuale e l’orientamento sociosessuale nello spiegare le differenze di genere riscontrare in letteratura.

I 1226 partecipanti hanno compilato inizialmente il Sociosexual Orientation Inventory (SOI revised; Penke & Asendorpf, 2008) per indagare la propensione verso il sesso occasionale, in seguito è stato loro chiesto di giudicare la propria attrattività, valutando l’avvenenza del proprio viso, del proprio corpo, la piacevolezza della propria personalità e dando da ultimo un punteggio globale complessivo di attrattività.

La procedura prevedeva poi che ogni soggetto partecipasse ad una sessione di speeddating della durata di tre minuti, al termine del quale era loro richiesto di esprimere il proprio grado di interesse verso la persona appena conosciuta, così come il grado di interesse percepito da parte del potenziale partner.

Le analisi statistiche hanno rivelato come in generale i soggetti si dimostrassero abbastanza accurati nel determinare l’attrazione provata da un potenziale pretendente (trackingaccuracy) e che nessuno dei tratti personologici analizzati (sesso, età, orientamento sociosessuale e giudizio sulla propria avvenenza) risultasse associato ad una migliore performance in questo senso. I dati sembravano inoltre confermare la tendenza generale (mean-level bias) negli uomini a sovrastimare l’interesse sessuale dei propri partner; tuttavia, quando nel modello si sono considerati anche l’interesse sessuale espresso dal soggetto stesso e i vari moderatori, si è riscontrato come le differenze di genere si annullassero, venendo spiegate dalle differenze individuali nell’orientamento sociosessuale e dalla percezione della propria avvenenza: soggetti più orientati verso il sesso occasionale e quelli che si consideravano più attraenti, a prescindere dal sesso di appartenenza, avevano una tendenza maggiore a percepire attrazione sessuale a loro rivolta. Da ultimo, è emerso un effetto significativo dell’interesse provato dal soggetto stesso nei confronti del potenziale partner, supportando l’idea che gli individui “proiettino” il proprio interesse sulla controparte, finendo per sovrastimarne l’interesse reale.

Gli autori interpretano i risultati ottenuti non tanto come frutto di un bias evolutosi per favorire una strategia d’accoppiamento distinta nei due sessi, come suggerito dall’Error Management Theory, bensì come il risultato di una tendenza generale dell’essere umano ad estendere i propri stati mentali agli altri, come già riscontrato nel caso del false-consensus bias o nell’assumed-similarity bias (per una rassegna vedi Marks & Miller, 1987).

 

Il Covid-19 come fenomeno psicosociale. Quale responsabilità degli psicologi

L’emergenza epidemica prodotta dal virus Covid-19 pone, nell’epoca dell’infosfera e della tecnosfera globalizzata e pervasiva che stiamo attraversando, questioni del tutto nuove e al contempo fa emergere vecchi se non vecchissimi schemi antropologici. Il vecchissimo e il nuovissimo s’intrecciano in uno strano miscuglio rendendo confuso un quadro già di per sé torbido.

 

Decido di parlarne occupando lo spazio (vuoto) di analisi psicosociale esplorando tre punti: 1. il vertice professionale e di responsabilità di uno psicologo e psicoterapeuta alle prese con i propri pazienti; 2. L’aspetto funzionale e disfunzionale delle fenomenologie psicopatologiche; 3. Il piano comunicativo e i suoi attuali squilibri.

La responsabilità sociale dello psicologo

Innanzitutto mi sono posto la questione relativa alla responsabilità professionale: come incontrare il disagio pre-esistente dei nostri pazienti in collisione con le angosce e le conseguenze pratiche dell’espansione dell’epidemia in corso, sia considerando il fenomeno virale effettivo, che la viralità mediatica come epifenomeno conseguente al primo? Trovarsi, prima o poi, nelle zone di quarantena o limitrofe, con limitazioni dei movimenti e della comune vita sociale e il relativo impatto psicologico sulla popolazione di post traumatic stress, rabbia, depressione, frustrazione, noia, confusione, etc., come confermato da una recentissima review sull’argomento quarantena (Brooks et al., 2020 – ved. bibliografia).

Ma anche soltanto gestire le ansie di chi, momentaneamente lontano dalle zone di contagio, vede un pericolo incombente giungere da ogni canale mediatico e dai discorsi che tutti fanno per strada e nelle famiglie. Tutto questo e molto altro ancora ci interroga su come affrontare e discutere con i nostri pazienti la problematica situazione in corso (a seconda della dislocazione geografica e della prossimità o meno di focolai e quarantene) cercando di mantenere una posizione realistica, emotivamente equilibrata, scientificamente informata, comunicativamente rassicurante, ma al tempo stesso non sottovalutante, istituzionalmente coerente con le indicazioni sanitarie e con la situazione in rapido itinere e mutamento, in grado di trasmettere l’effettiva realtà del problema in corso senza allarmare, ma senza sottovalutare. Allo stesso tempo occorre saper tracciare ed indicare i confini temporali di esperienze così angoscianti e fornire supporto e comprensione nonché strategie di occupazione del tempo e della convivenza creative e se possibile anche innovative. Talora, come nelle storie del periodo bellico, la riduzione delle libertà e delle possibilità di vita rappresentata dalla condizione di emergenza può convertirsi in occasione di incontro con sé, con il prossimo e con risorse inattese e inesplorate.

Se invece pensiamo ad alcune vulnerabilità emotive e cognitive di alcuni nostri pazienti, essi, per svariate ragioni personali, possono rivelarsi non in grado di processare un cambiamento di questa portata, nonché non in grado di elaborare una complessità informativa oggettivamente e poi anche soggettivamente incalcolabile, come quella di una epidemia in corso nella propria città. Basta pensare a tutti i pazienti ansiosi (fobici, panicosi, ipocondriaci, evitanti, paranoidei, depressi, solo per fare qualche esempio) e possiamo immaginare come sia automatica per alcuni di loro la risposta di fuga e riparo oppure il vissuto di catastrofe incombente o viceversa di negazione. Un festival di difese indotto da una condizione esterna.

In un’ottica e prospettiva più allargata, ovverosia che tenga conto della funzione sociale della nostra professione, il nostro compito e la nostra responsabilità non si riducono alla ricerca di equilibrio e correttezza professionale verso il numero ristretto e privato dei nostri pazienti, ma riguarda più ampiamente la cifra comunicativa che ciascuno di noi ha, in quanto professionista della salute e promotore di benessere pubblico, nei confronti della cittadinanza e della società tutta. Questo allargamento di prospettiva e di responsabilità ci obbliga a prendere posizione e a approfondire temi che generalmente (e secondo me erroneamente) rimarrebbero al margine del nostro mansionario percepito.

Ci obbligano cioè ad affrontare il tema della mente come fenomeno sociale e storico e di quelle interfacce che troppo spesso escludiamo (per pigrizia? per ignoranza? per riduzionismo?) nel nostro comune lavoro clinico. Non solo quindi contenere, proteggere, se vogliamo protesicamente, le vulnerabilità dei nostri singoli pazienti, ma comunicare, informare, condividere riflessioni e soluzioni di piccoli e grandi problemi a livello sociale e pubblico.

Il Covid-19, per quanto possa apparire paradossale, ci svela la natura sociale della mente e ci svela allo stesso tempo quanto lavoro abbiamo da fare su questo versante e ci aiuta indirettamente ad aprire nuovi territori delle nostre professionalità.

Si pone perciò come urgenza per uno psicologo informato della propria funzione sociale, che voglia fornire una corretta visione e comunicazione pubblica del rischio, il problema di quali fonti informative e scientifiche utilizzare, con quale autorevolezza, come utilizzarle, con quale capacità di sintesi personale processare i dati, come sviluppare e poter mettere insieme competenze trasversali che, in un caso come questo del Covid-19, esorbitano di molto il nostro background formativo: competenze epidemiologiche, sociometriche, matematiche, biologiche, mediche, storico-scientifiche, ma soprattutto la capacità di maneggiare sistemi complessi anche in chiave previsionale.

Ciò che invece avviene nella nostra, come in tutte le altre professioni ad alta esposizione sociale, è il deludente polarizzarsi sulle diatribe mediatiche dell’allarmismo versus banalizzazione/sottovalutazione del fenomeno, con una netta prevalenza (personalmente percepita) a favore del partito della negazione e sottovalutazione. Chiaro segno di una mancanza di dimestichezza a fronte della assoluta novità di quanto sta accadendo accodandosi verso un riduzionismo emotivo di natura difensiva del tutto inadeguato.

Come avviene, dunque, una corretta comunicazione pubblica del rischio? E cosa sta avvenendo da alcune settimane qui in Italia su questo?

Rimando a questo proposito la lettura di un’eccellente riflessione di Pietro Saitta (2020 – ved. bibliografia) che interroga molti piani comuni a questo mio articolo: l’autorevolezza delle fonti scientifiche, l’autorevolezza delle istituzioni, il caos mediatico, etc.

Il catalogo delle psicopatologie come repertorio antropologico

Un secondo punto che vorrei sollevare, come articolazione del primo, parte dalla constatazione che, a partire da alcune delle stesse (giustissime) raccomandazioni contenute nel decalogo governativo per difendersi dal Covid-19, ciò che emerge alla mia (personalissima) attenzione è che questo virus sta mobilitando aspetti della natura umana evolutivamente sedimentati che assomigliano moltissimo ad un repertorio di difese e contromosse che stranamente, ma poi neanche tanto, a loro volta somigliano al catalogo delle principali forme di psicopatologia. Cosa vuole dire questo e cosa implica?

Prendiamo alcuni punti del decalogo, ripeto sacrosanto e doveroso: lavati (spesso) le mani; pulisci le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol; non toccarti occhi, naso e bocca con le mani. Sono notoriamente aspetti tipici del repertorio ossessivo-compulsivo. Ed ancora: evita contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; è chiaramente l’espressione di un comportamento fobico-evitante (con sfumature paranoidee dal momento che conoscere la condizione di infezione del prossimo è quasi sempre un’inferenza indebita). Un mio paziente, ad esempio, è stato cacciato dal corso di teatro solo perché tossiva (e siamo a Roma dove non c’è alcuna epidemia al momento).

Allargando il campo di osservazione, alcuni comportamenti di massa di incetta di viveri e oggetti percepiti come salvifici (mascherine e disinfettanti), per fortuna meno frequenti di quanto si pensi, raccontano di memorie manzoniane di assalto ai forni o di follie collettive che abbiamo potuto osservare solo in alcuni film catastrofistici americani. Fenomeni di panico collettivo che associamo subito alla distruttività di folle calpestanti e distruttive.

La quarantena, inoltre, evoca scenari del tutto inediti alle nostre generazioni (almeno in Italia) e convoca situazioni e abitudini completamente sconosciute, almeno se si parla di masse. Rimanere isolati in casa, non poter frequentare luoghi pubblici o ridurre drasticamente la vita sociale rimanda immediatamente ad una deriva depressiva, se non addirittura ai sintomi negativi di alcune psicosi. Nell’immaginario collettivo si ferma la vita, si cade in una passività e in una solitudine senza ritorno. Settimane se non mesi in uno stato di reclusione domiciliare come se si scontasse una pena (ibidem).

Ci ritroviamo in questa inedita e duplice situazione di gestire da un lato un repertorio comportamentale sulla carta disadattativo (fatto di gesti circospetti e compulsivi) che transitoriamente appare invece come adattativo e a scoprire al contempo angosce e difese primitive che emergono come fortemente compromettenti le capacità critiche e di valutazione della realtà in rapido mutamento.

Da un lato quindi osserviamo come questa nuova condizione di pericolo soggettivo e collettivo attivi sepolte funzioni adattative, anche ataviche, pescando nelle profondità di un repertorio antropologico, dove la fuga, la mimesi, l’isolamento, la paura espressa e condivisa gruppalmente, persino la risposta di allarme (arousal) e la diffidenza paranoicale diventano paradossalmente pensieri e comportamenti del tutto funzionali psicobiologici e psico-evoluzionistici all’eccezionalità della situazione.

Il caos mediatico e la diffusa irrazionalità

Dall’altro, la variabile legata alla saturazione dell’infosfera, con dibattiti mediatici e l’invasione totale dello spazio mediatico da voci contrastanti e rumorose, deforma completamente il quadro generale e compromette la capacità di comprensione e di previsione del fenomeno anche per persone mediamente dotate di intelligenza e cultura scientifica. L’emotività della situazione aumenta ulteriormente questa compromissione creando le comuni dicotomie e polarizzazioni tra allarmisti e negazionisti. Si ripropongono posizioni complottiste che si fanno strada nell’opinione pubblica.

Se l’eccesso di angosce e di allarmismo produce il classico fenomeno del contagio psichico e i fenomeni di massa sopra citati, l’eccesso di negazionismo vede la clamorosa sottovalutazione dei dati epidemiologici e come estrema conseguenza il frequente comportamento di elusione delle quarantene (e successiva espansione del contagio) come la recente cronaca sta ripetutamente dimostrando attraverso le numerose infrazioni alla quarantena delle zone-focolaio alle quali stiamo assistendo.

Da un lato il panico del nemico nascosto e invisibile rappresentato dal virus, dall’altra l’angoscia della caduta depressiva o psicotica nella totale passività della quarantena, della vita sociale ed economica che si ferma, producono alternativamente fughe all’indietro o in avanti che diventano dei boomerang psichici, ma anche dei comportamenti disfunzionali rispetto alla stessa diffusione del virus.

La compromissione delle capacità di comprensione del fenomeno in corso dovuto rispettivamente al caos mediatico e alla super-complessità del fenomeno stesso e delle sue innumerevoli e in parte imprevedibili o ineffabili variabili, riduce drasticamente il numero di persone in grado di comprenderlo (in senso etimologico, cum-prendere). Non si tratta infatti di intercettare le singole statistiche epidemiologiche, le valutazioni sociometriche (già di per sé di una certa complessità metodologica), o le previsioni virologiche, ma si tratta di interpolare su una scala di complessità molto maggiore fattori biologici legati alla struttura del virus, le sue possibili mutazioni e la sua reale aggressività, il suo sviluppo in aree geografiche e sociopolitiche totalmente difformi (pensiamo ai diversi sistemi sanitari e alle caratteristiche socioantropologiche delle popolazioni implicate), il contesto climatico ed ecologico delle varie zone del pianeta, l’imprevedibile risposta delle singole popolazioni alla quarantena e alle linee guida, la velocità della ricerca di trovare risposte terapeutiche o meno, le variabili economiche e politiche conseguenti e così via. Uno scenario di questo tipo necessita di modelli matematici di osservazione e di previsione e tutto questo, ripeto, riduce drasticamente il numero di persone in grado di capire e di intervenire adeguatamente (anche a livello alto istituzionale). Possiamo quindi immaginare per deduzione come il baraccone mediatico possa allegramente sguazzare in questo mare magno di indecifrabilità e, come in questi casi, i fattori emotivi individuali e collettivi siano alla fine le variabili principali che determinano la selezione della notizia e della fonte informativa alla quale emotivamente agganciarsi. Si diffondono e si seguono le notizie che assomigliano alle nostre prevalenti difese psichiche con buona pace del rapporto con realtà e con la razionalità.

Questa situazione psicosociale, legata alla comparsa di un’epidemia virale in corso in questo momento storico, mette in crisi lo stesso sistema della ragione contemporanea, dei principi di razionalità e della catena di giudizio, di azione e di responsabilità sia delle istituzioni sia dei singoli professionisti della salute. Pone dunque la necessità di sostenere una nuova forma di razionalità e di governo delle emergenze e del rischio che sia in grado di gestire nuove complessità e che sappia allo stesso tempo regolare il chiasso mediatico che oscura e confonde azioni pubbliche e private.

 

ADHD e Autismo: EEG a confronto

Misurazione e comparazione tra le registrazioni dell’Attività Elettrica dell’Encefalo su un campione di bambini (6 – 10 anni) con diagnosi di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (AD/HD) e Disturbo dello Spettro Autistico (ASD).

Introduzione

La superficie dell’encefalo è sede di potenziali bioelettrici spontanei che si modificano a seconda dello stato di riposo o di attività del soggetto. I potenziali di superficie sono, principalmente, il risultato dell’attività dei neuroni corticali piramidali disposti in corrispondenza dell’area corticale sottostante l’elettrodo, durante analisi EEG. Una parte della letteratura sostiene che alcuni sintomi dell’autismo potrebbero derivare da un’alterata connettività cerebrale. Studi di Neuroimaging su individui affetti da autismo hanno messo in evidenza la presenza di profili di “sincronizzazione” cerebrale che differiscono da quelli presenti nei gruppi di controllo. L’ADHD non è fra i disturbi dello spettro autistico, ma ha alcuni degli stessi sintomi. Infatti, a differenza della versione precedente del manuale diagnostico DSM IV, la versione più recente (DSM-5) consente invece di diagnosticare entrambi in una persona.

Strumenti e metodi

Per effettuare il confronto tra tre gruppi di bambini maschi (6-10 anni) è stato utilizzato il Brain Monitor, un valido ed apprezzato apparecchio che funziona attraverso un software per la rilevazione ed analisi delle onde cerebrali su due canali (Analisi EEG). Questo strumento permette di rilevare in tempo reale sincronizzazione dell’attività elettrica cerebrale tramite due elettrodi posti sui lobi frontali e due vicino alle zone postero auricolari. Il software proprietario permette di avere la visualizzazione delle onde cerebrali ed anche la loro analisi mediante la Trasformata di Fourier. Inoltre, sono state utilizzate Scale SDAG (Cornoldi, Gardinale, Masi, Pettenò): Scala Genitori (per individuazione di comportamenti disattenzione e iperattività nel bambino) e Scala Insegnanti (per individuazione di comportamenti disattenzione e iperattività nel bambino).

Risultati

I risultati ottenuti mostrano che la percentuale di sincronizzazione emisferica nell’arco di dieci minuti di registrazione, nelle locazioni frontale 1 (F1) e frontale 2 (F2) del gruppo di controllo, è vicino ai valori medi posti fra 60% e 90%, mentre i gruppi AD/HD e ASD, oltre a presentare valori medi inferiori al 40%, presentano indici di dispersione con valori molto distanti dagli indici di posizione, tra cui sono stati evidenziati numerosi picchi negativi (ossia al di sotto della linea mediana di zero) per prolungati periodi di tempo. Inoltre, nello specifico, è stato riscontrato che il gruppo con AD/HD, nella valutazione elettroencefalografica, ha evidenziato percentuali negative di sincronizzazione in quantità sensibilmente minori rispetto alle registrazioni di sincronizzazione negative riscontrate nel gruppo con ASD.

Conclusioni

I risultati riportati indicano, in entrambi i casi (AD/HD e ASD), alterata sincronizzazione dell’attività elettrica fra i due emisferi cerebrali e, di conseguenza, come riportato in letteratura, ciò potrebbe essere causa di situazioni di forte stress/ansia e una alterata comunicazione dovuta ad una anomala connessione funzionale tra i due emisferi. La situazione richiede l’applicazione di adeguate terapie per ripristinare un corretto funzionamento fra la parte razionale e verbale (sinistra) e la parte emotiva ed intuitiva (destra) del cervello.

EEG relative ai soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

IMM1. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

IMM2. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

IMM3. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

MM4. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

IMM5. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)

EEG relative ai soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

IMM1. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

IMM2. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

IMM3. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

IMM4. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

IMM5. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

 

I legami di coppia

Amore e relazioni: il peso delle proprie esperienze di vita e dell’eredità di generazioni precedenti nel vivere serenamente un rapporto di coppia. Un’attenta analisi attraverso riferimenti letterari.

 

In uno dei capitoli precedenti ho scritto che l’ethos del legame di coppia non riesce a reggere l’urto del pathos. La norma che viene messa in crisi, per dirla con Cigoli, è che il contesto nel quale si inseriscono le relazioni di coppia si

regge sull’obbedienza dei figli e sulla loro capacità di generare.

A proposito del romanzo borghese Cigoli afferma che:

ciò che passa nello scambio generazionale è il diritto a frequentare il mondo dei sentimenti.

Teresa Raquin, nell’omonimo romanzo di E. Zola, è destinata ad andare in moglie al cugino Camillo, fino a quando non arriva Lorenzo dal quale si sente attratta e innamorata. In forza di questo amore i due decidono di uccidere Camillo che costituiva un ostacolo alla loro unione. Pian piano l’amore tra i due si trasforma in insofferenza e odio tanto da arrivare ad uccidersi a vicenda sotto gli occhi compiaciuti della zia di Teresa – mamma di Camillo – che l’aveva cresciuta. La trasgressione nella scelta della persona da amare può portare all’odio e alla morte.

Nella Sposa di Lammermoor di Scott, Lucy Ashton uccide il marito, che la madre gli aveva imposto, la prima notte di nozze. Il non poter accedere al pathos porta alla follia. In effetti, Lucy dopo l’omicidio del marito sprofonda nella “pazzia” e muore da lì a breve.

Il tema della follia, ovvero del morire per amore, è presente anche in Cime Tempestose di Emily Bronte. Catherine Earnshaw non regge allo stress legato alla contesa tra l’amato Heathcliff e il marito Edgar e muore dando alla luce la figlia Caty. Catherine si trova nella stessa posizione di Lucy, anche se in questo caso l’imposizione al non sposare Heathcliff viene dalla sua educazione e, quindi, dall’interno piuttosto che da un’imposizione esterna. Dopo aver conosciuto Edgar, Heathcliff gli appare come un uomo rozzo e dai modi poco eleganti al contrario del futuro marito.

In Cime Tempestose un altro tema che viene messo in risalto è il rapporto tra odio e amore. Heathcliff ama Caterina e, in forza di questo amore, odia praticamente tutti gli altri.

Eibl-Eibesfeldt (1970), etologo allievo di Lorenz, nelle sue ricerche sulla filogenesi e psicogenesi dell’odio, sostiene che i comportamenti aggressivi e litigiosi e l’odio sono in stretto rapporto con il territorio, con il contesto. Tali comportamenti sono dettati dall’esigenza di farsi riconoscere, di dire io ci sono, di affermare la propria identità.

Heathcliff vive tre situazioni di abbandono che mettono in crisi il proprio sé: era stata abbandonato dai suoi genitori e viene portato a casa ed adottato dal papà di Caterina; viene ridotto a bracciante agricolo, alla morte del padre adottivo, dal fratellastro Hindley; viene scaricato e marchiato da Caterina che gli preferisce il più elegante Edgar. La storia di Heathcliff è un susseguirsi di costruzione di una nuova identità e di cadute all’indietro. In sostanza non riesce a crearsi una identità stabile. Solo Catherine costituisce, fino a quando non lo abbandona, per Edgar un punto di riferimento stabile. Dal momento dell’abbandono il suo unico scopo di vita diventa il bisogno di affermarsi. In questa corsa il sentimento principale che lo contraddistingue è l’odio. Si arricchisce lontano da cime tempestose, ritorna e, dopo aver mandato al fallimento il fratellastro Hindley, compra il casale del padre adottivo, sposa Isabelle, sorella minore di Edgar, pur non amandola, fa sposare il figlio Linton con Caty, figlia di Catherine, in modo che quest’ultimo possa ereditare le proprietà di Edgar, con la morte del figlio Linton, che peraltro lui non ha mai amato, eredita anche le proprietà di Edgar. E’ con quest’ultimo atto che completa la vendetta e riesce finalmente ad affermare se stesso.

Eibl-Eibesfeldt (1970) sostiene che per limitare l’aggressività e l’odio tutte le organizzazioni sociali, compresa la famiglia, hanno bisogno di una gerarchia di rango. Tale convinzione le proviene dall’osservazione del comportamento dei polli:

Se si pongono insieme polli di diversa provenienza, subito essi cominciano a combattere l’un con l’altro: gli scontri, però, diminuiscono di vivacità nel corso di alcuni giorni e infine il gruppo vive pacificamente insieme. Se si osserva più attentamente, si constata che nel corso degli scontri è stata stabilita una gerarchia di rango: i polli combattono a turno e si distribuiscono nella gerarchia a seconda delle vittorie e delle sconfitte; un pollo a che abbia vinto i polli b, c e d  sarà loro superiore: avrà accesso prioritario al cibo, al posto preferito di appollaiata e potrà anche beccare un individuo di rango inferiore se questo gli contesta la precedenza al cibo.

L’adozione di Heathcliff sconvolge l’organizzazione della famiglia Earnshaw. Si crea un legame molto forte tra l’adottato e Catherine e una forte rivalità con l’altro fratello Hindley, che il padre è costretto a mandare in collegio per chiudere la contesa e ridurre i conflitti. Di fatto la famiglia ha tutte le caratteristiche di quelle che in terapia familiare vengono definite famiglie disimpegnate, in cui le azioni dei suoi membri non producono ripercussioni reciproche, come se si muovessero in orbite isolate, tra loro scollegate. In queste famiglie vi è scarsa attenzione reciproca e scarsi tentativi di impegnarsi nel gioco comune. In termini psicologici, all’interno di queste famiglie manca quel tipo di comunicazione che permette la definizione di sé e dell’altro, ma ci si limita ad un passaggio di informazioni, non andando oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza. Manca ogni ragione di comunicare per il mero amore di comunicare. Ciò va contro il principio secondo cui, per mantenere la propria stabilità emotiva, ogni individuo ha sempre bisogno che gli altri gli rimandino un feedback di ciò che è o, magari, di ciò che può divenire. Tale feedback si manifesta, solitamente, in tre modi: attraverso la conferma, il rifiuto o la disconferma. Nella famiglia Earnshaw la disconferma diventa il modo principale di trattare l’altro. Il padre disconferma il ruolo del figlio mandandolo in collegio. Quest’ultimo alla morte del padre riduce Heathcliff al ruolo di bracciante, dicendogli apertamente tu non fai parte della famiglia. La stessa cosa fa Catherine scegliendo Edgar non tanto per amore, ma solo e semplicemente perché considera il fratellastro rozzo e poco elegante.

La mancanza di una gerarchia ben definita scatena una guerra tra i fratelli il cui presupposto è l’annullamento dell’altro e la conferma della propria identità. Lo scopo è la conquista del territorio, ovvero la tenuta di cime tempestose. L’odio generazionale, quindi, può essere letto come il tentativo di difendere il proprio sé, la propria persona, per paura di passare inosservati all’interno della storia familiare.

Nella vicende familiari di Cime Tempestose, come nella famiglia Hugo, è possibile cogliere delle ridondanze generazionali, come la scelta di Caty, che al pari della madre, tra i due figli di Heathcliff sceglie Linton perché più educato e gentile del fratello. E’ straordinario come nelle storie delle famiglie è possibile cogliere queste simmetrie che contraddistinguono i passaggi generazionali, così come le asimmetrie indicano le trasgressioni che fanno sì che la storia familiare possa essere innovata. Caty dopo la morte del marito, sposa il fratello di quest’ultimo guardando più ai sentimenti che all’educazione.

Il rapporto d’amore tra Catherine ed Heathcliff assume le caratteristiche dell’amore bordeline che è contraddistinto da un alternarsi continuo di sentimenti d’amore e di odio.

I comportamenti di Catherine sembrano contenere tutte le caratteristiche di una persona bordeline. E’ profondamente innamorata di Heathcliff e all’improvviso lo lascia per sposare Edgar. Nel momento in cui l’innamorato parte, cade in una profonda depressione, così come quando Heathcliff si sposa con Isabelle. L’amore bordeline contiene tutte le sopraddette caratteristiche, ovvero all’inizio è contraddistinto da una travolgente passione e da una intensità emotiva che difficilmente troviamo in una normale relazione. Generalmente un bordeline seduce, mostrandosi molto amorevole, dimostrando sentimenti esagerati che non prova, drammatizzando eventi e aspetti della sua vita al fine di manipolare chi gli si avvicina. Quando l’altra persona si lega, il borderline lo idealizza e lo fa sentire l’essere più importante del mondo; contemporaneamente gli fa il vuoto intorno, allontanando tutte le persone significative per l’altro in modo da tenerlo solo per sé, anche con la menzogna e l’inganno. La luna di miele, comunque, dura poco poiché subito dopo porta un violento attacco al legame cercando in tutti i modi di rompere la relazione. Spesso inizia a mettere in risalto i lati negativi del partner ed inizia ad attaccarlo profondamente. L’intensità dell’attacco è inversamente proporzionale alla forza con cui si sente legato all’altro. Subito dopo la tempesta però ritorna la quiete ed il soggetto bordeline tende a ritornare passionale fino al prossimo attacco di rabbia.

Il motto che sembra perseguire l’amore bordeline è: ti odio perché tu mi ami. In un film di Truffaut, La Mia Droga si Chiama Julie, tratto dal romanzo Vertigine Senza Fine di Wlliam Irish, la protagonista si sposa con un uomo che l’adora. Ella lo porta alla rovina economica per fuggire con l’amante che invece la sfrutta. Il marito la perdona, ma più la perdona più lei si accanisce arrivando a pensare di ucciderlo.

I suddetti comportamenti rimandano ancora una volta alla trasmissione generazionale. Le problematiche legate all’amore bordeline, in particolare, sono state correlate con l’attaccamento disorganizzato. Main e Salomon (1986 -1990) hanno aggiunto ai tre tradizionali partner di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante e insicuro-ambivalente) un quarto partner, appunto quello disorganizzato-disorientato. I bambini con questo tipo di attaccamento presentano un’alterata rappresentazione del sé e dell’altro che spesso comportano dei vissuti duplici e contraddittori. I bambini si sentono contemporaneamente attratti e spaventati dalla figura di attaccamento. O’Connor (1987), Radke-Yarrow (1995) e Lyons-Ruth (1996) hanno messo in risalto che questi bambini provengono da famiglie caotiche e maltrattanti, oppure con madri gravemente depresse o bipolari o alcoliste o adolescenti ed economicamente svantaggiate. E’ chiaro ed evidente che un genitore alcolista, maltrattante e abusante incute nel bambino, a causa dei suoi comportamenti, paura perché costituisce per lui una reale fonte di pericolo, ma nello stesso tempo egli si sente attratto di suoi genitori.

Main ed Hesse (1992) hanno individuato una figura di attaccamento “spaventata-spaventante” che spesso si trova immersa nel suo dolore e nel suo mondo interiore a seguito di qualche esperienza dolorosa vissuta nel passato. E’ il caso di genitori che hanno traumi e lutti non risolti nel proprio passato. Lyons-Ruth, Bronfman e Atwood (1999) hanno introdotto il concetto di “diatesi relazionale” per porre l’attenzione sugli eventi traumatici specifici occorsi nella storia della figura di accudimento con quella sui processi relazionali disregolati e non-reciproci tra genitore e figlio, caratterizzati da ostilità e impotenza. In sostanza si tramandano alle generazioni successive i nuclei conflittuali non risolti. Il “ti odio perché tu mi ami” così si lega alla paura di essere abbandonati, maltratti e/o traditi. L’amore bordeline, da un lato, tenta di mettere alla prova la forza della relazione e la qualità dei sentimenti e, dall’altro, è la risultante della paura di rivivere esperienze dolorose. Rompo la relazione prima che tu mi abbandoni.

Al contrario, vi è anche il “ti odio perché tu non mi ami” come ne Il Rosso e il Nero di Stendhal, nel quale il giovane precettore Julien muore sulla ghigliottina a seguito del tentativo di uccidere la sua precedente amante, Madame de Rènal, che lo aveva denunciato come truffatore per la nuova relazione con la marchesa Mathilde de la Mole.

Cercare di sfuggire alle proprie origini per entrare in una classe sociale più alta comporta esporsi ad enormi rischi. Julien è figlio del proprietario di una segheria, ma è un amante degli studi di letteratura latina e di teologia. Sotto la guida del curato della sua parrocchia studia e questo gli permette di farsi assumere come precettore dalla famiglia Rènal. Qui nasce una relazione con la padrona di casa che verrà scoperta dal marito a seguito di una lettera anonima. Julien è costretto a lasciare il lavoro, rifugiandosi in seminario per proseguire gli studi teologici. Per la sua brillantezza intellettuale viene assunto come segretario di casa dal Marchese de la Mole dove si innamora della figlia Mathilde. Quest’ultima oscilla tra l’amore per Julien e la conservazione della sua posizione sociale fino a quando non annuncia al padre la sua volontà di sposare il segretario del quale è incinta. Saputo del matrimonio, Madame de Rènal scrive una lettera al Marchese raccontando la relazione avuta con il futuro sposo in cui l’accusa di truffa. Il Marchese, che aveva acconsentito alle nozze della figlia, crede alle accuse e caccia di casa Julien. Quest’ultimo, nel tentativo di vendicarsi, spara in chiesa a Madame de Renal, ferendola, e viene condannato a morte. Malgrado i tentativi di Mathilde e della stessa pentita Madame de Renal di salvarlo, la condanna viene eseguita.

Howe sostiene che

Julien Sorel è un uomo che muove una sua guerra segreta alla società e questa guerra lo turba tanto, non avendo egli una solida base di principi, da costringerlo a passare metà del suo tempo a combatterla contro le sue amanti e contro se stesso.

Non avere una solida base di principi vuol dire non conoscere o disconoscere, come nel caso di Julien, la propria storia generazionale, nel non riconoscersi all’interno della propria stirpe. Se sul non conoscere Stendhal non scrive niente, sul disconoscere impernia tutto il romanzo. Julien scappa dal padre, che gli rinfaccia i soldi spesi per averlo fatto studiare, e da una realtà provinciale in cui il giudice di pace e il vicario si scontrano per quattro colonne di marmo eppure non riesce a scrollarsi di dosso le sue origini. Esplicativa è la frase che egli pronuncia alla giuria in tribunale durante il suo processo:

Signori, non ho l’onore di appartenere alla vostra classe …..” .

Il dramma per Julien è che:

la sua principale protesta contro la società è che essa lo coarta: egli è amareggiato, soprattutto, perché essa non gli vuol permettere di abbandonare, e forse tradire, la propria classe sociale (Howe).

 

Stili di attaccamento, sessualità e relazioni di coppia

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Social and Personal Relationships ha indagato la relazione tra stili di attaccamento precoci, relazioni di coppia e sessualità (Busby et al., 2020). 

 

In tempi recenti, diversi studiosi hanno potuto constatare la relazione esistente tra la sessualità degli adulti e gli stili di attaccamento sviluppati in età precoce (es. Birnbaum & Reis, 2019; Hazan & Diamond, 2000). La sessualità è naturalmente fondamentale nelle relazioni umane e alcuni aspetti di questa sono stati associati a diversi stili di attaccamento (Mikulincer & Shaver, 2016). Alcuni autori hanno ipotizzato che la sessualità sia una delle principali modalità attraverso le quali le persone entrano in relazione tra loro ai fini di sviluppare legami più o meno rilevanti (Birnbaum & Reise, 2019; Hazan & Diamond, 2000).

Gli stili di attaccamento appresi durante l’infanzia, non influenzano solo le modalità con cui gli adulti si rapportano l’uno con l’altro, ma anche i rapporti sessuali che esulano dalle relazioni romantiche o che le precedono (per esempio, dopo quanto tempo si decide di avere rapporti sessuali dopo il primo incontro o il numero di partner sessuali avuti nella vita; Busby et al., 2013).

Tuttavia, in letteratura vi sono risultati incoerenti sul rapporto tra stili di attaccamento e sessualità, risultati dovuti principalmente al fatto che la maggior parte degli studi condotti traggano i loro dati da campioni prevalentemente universitari e non clinici (Sprecher, 2013).

Mary Ainsworth e colleghi, nel 1978, hanno sviluppato la teoria secondo la quale l’attaccamento infantile verso la principale figura di riferimento (solitamente la madre) dipendeva dal fatto che quest’ultima fosse reattiva/responsiva o non disponibile rispetto ai tentativi del bambino di avvicinarsi a lei e di cercare in lei conforto e vicinanza. Nel caso in cui la madre fosse stata responsiva e presente, il bambino avrebbe sviluppato un attaccamento sicuro, in caso contrario, avrebbe sviluppato un attaccamento insicuro e potenzialmente patologico.

Tuttavia, è anche stato dimostrato che la correlazione tra attaccamento infantile e adulto non è particolarmente significativa (Fraley, 2019): per questo motivo gli autori suggeriscono che possano esserci altri fattori alla base della connessione tra i due tipi di attaccamento (ovvero quello infantile e quello adulto).

L’attaccamento degli adulti si può interpretare come un continuum tra ansia ed evitamento (Mikulincer & Shaver, 2007) dove per attaccamento ansioso ci si riferisce a un’iperattivazione del sistema comportamentale, mentre per attaccamento evitante a una disattivazione dello stesso sistema. È stato dimostrato che individui con attaccamento ansioso o evitante avevano più possibilità di rimanere single a lungo in età adulta (Adamczyk & Bookwala, 2013) rispetto a coloro che in questo continuum si posizionavano nel mezzo, ovvero gli individui con un’attivazione comportamentale non patologica.

Diversi studiosi si sono anche concentrati sull’associazione tra l’età del primo rapporto sessuale e l’attuale stato relazionale, individuando nella precocità dei primi rapporti una correlazione con il rimanere single più a lungo (Vancour & Fallon, 2017).

Il presente studio ha indagato la correlazione tra i diversi stili di attaccamento e la qualità delle relazioni romantiche, considerando anche variabili legate alla sessualità, come l’età del primo rapporto e il numero di partner sessuali, occasionali e non, dei soggetti (Busby et al., 2020).

Il campione era composto da due gruppi di soggetti: il primo gruppo, contava 4834 partecipanti di un’età compresa tra i 30 e i 37 anni, ed è stato analizzato per comprendere le influenze dell’attaccamento infantile sui primi rapporti sessuali e sul numero dei partner; il secondo gruppo, composto da 2106 coppie sposate, è stato preso in esame per comprendere l’influenza degli stili di attaccamento di entrambi i componenti della coppia sulla soddisfazione relazionale e sessuale.

I risultati hanno mostrato che nel primo gruppo lo stile di attaccamento insicuro (sia ansioso che evitante) in età precoce era positivamente correlato con il numero di partner sessuali occasionali e con la preferenza per la vita da single nei soggetti maschili e femminili. Nel secondo gruppo, gli stili di attaccamento erano significativamente associati alla soddisfazione relazionale e sessuale della coppia indipendentemente dal genere (Busby et al., 2020).

Il presente studio ha quindi sottolineato non solo che lo stile di attaccamento ansioso ed evitante può avere ripercussioni su alcuni comportamenti sessuali, come l’età del primo rapporto e il numero di partner sessuali, ma che influisce anche sulla possibilità di essere coinvolti in relazioni romantiche stabili o, al contrario, sul desiderio di rimanere single (Busby et al., 2020).

Text Anxiety: come possiamo intervenire? L’analisi della letteratura ci guida nell’implementazione degli interventi

La diffusione della Text Anxiety, ossia l’ansia sperimentata da un individuo in una situazione di tipo valutativo, ha notevoli ricadute sulle prestazioni scolastiche dei giovani.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Nel precedente articolo (Chemello, 2019) si è affrontata la tematica della Text Anxiety, o ansia da test, illustrando le caratteristiche del fenomeno, gli strumenti valutativi attualmente disponibili e le variabili ad esso correlate. Scopo del seguente articolo è approfondire quali siano le modalità d’intervento maggiormente funzionali riportando i risultati di una metanalisi e di una review inerenti le differenti modalità d’intervento sul fenomeno in questione.

L’ansia da test sembra infatti avere una prevalenza tra il 10% e il 40% (Gregor, 2004) ed è ormai confermata la sua significativa ricaduta sulla prestazione scolastica (Rana & Mahmood, 2012). Appare quindi necessario individuare modalità efficaci per prevenire il fenomeno e intervenire sullo stesso.

Al fine di comprendere il razionale degli interventi proposti è opportuno ricordare la definizione di Text Anxiety, ossia

uno stato spiacevole caratterizzato da sensazioni di tensione e apprensione, worry e attivazione del sistema nervoso autonomo, che sopravviene quando l’individuo si trova di fronte a situazione di tipo valutativo. (Spielberger, 1972)

A tal proposito una metanalisi condotta da Ergene (2003) consente ai clinici di conoscere quali caratteristiche dell’intervento risultino maggiormente efficaci. L’autore sostiene come le azioni promosse al fine di ridurre l’ansia nei contesti valutativi si sono evolute nel corso degli anni: inizialmente infatti la maggior parte delle proposte era focalizzata sugli aspetti fisiologici ed emotivi dell’ansia, proponendo interventi volti a ridurre l’attivazione fisiologica attraverso metodologie comportamentali; solo in un secondo momento invece l’attenzione è stata rivolta ad approcci cognitivi ed integrati. Ecco quindi una panoramica delle differenti tipologie d’intervento riscontrate in letteratura:

  • approccio comportamentale: desensibilizzazione sistematica, training di rilassamento, biofeedback, modeling, induzione dell’ansia e training finalizzati alla riduzione della stessa;
  • approcci cognitivi: Terapia Razionale Emotiva Comportamentale e ristrutturazione cognitiva;
  • approcci cognitivo-comportamentali: integrazione delle tecniche precedentemente menzionate e stress-inoculation training;
  • integrazione di elementi cognitivo-comportamentali con training mirati al potenziamento delle competenze inadeguate sia in fase di studio che di valutazione.

Nella metanalisi considerata sono stati inclusi 56 studi pubblicati tra il 1973 e il 1998 che hanno principalmente applicato l’intervento all’interno del contesto universitario. I moderatori inclusi nello studio comprendono: l’approccio dell’intervento, il tipo di tecnica utilizzata, la modalità di erogazione dell’intervento, la durata della terapia, il livello scolastico di appartenenza e l’attuale stato di pubblicazione. Ciascuno studio incluso nella metanalisi è stato codificato secondo le differenti variabili moderatrici da parte di 3 differenti ricercatori in seguito ad uno specifico training.

Per quanto concerne l’approccio scelto nell’intervento è possibile notare un elevato effect-size prodotto sia da parte degli interventi cognitivi o comportamentali associati a specifici skills training sia nell’utilizzo di approcci esclusivamente comportamentali. Altri approcci quali la terapia gestaltica, la meditazione e l’esercizio fisico non hanno invece prodotto un effect size soddisfacente.

L’utilizzo di approcci differenti si traduce in diverse tecniche applicative che presentano differenti livelli d’efficacia. Un elevato effect size è stato riscontrato nell’utilizzo della ristrutturazione cognitiva, negli interventi cognitivi e/o comportamentali combinati a skills training, nei training per la gestione dell’ansia e nella desensibilizzazione sistematica. Una moderata dimensione dell’effetto è stata invece prodotta nel caso di training di rilassamento, nell’ipnoterapia, nella terapia razionale emotiva, nello stress inoculation training e nel caso di interventi focalizzati su altre abilità.

Un’ulteriore variabile di notevole rilevanza nell’implementazione di un intervento è la modalità di svolgimento delle attività, se di gruppo oppure individuale: anche in questo caso l’effect size maggiore è stato prodotto da quegli interventi che combinano attività individuali a quelle di gruppo; un intervento che invece preveda un percorso esclusivamente individuale dimostra un’efficacia limitata.

Per quanto concerne il tempo dedicato all’intervento è emersa una maggior efficacia degli interventi di durata compresa tra i 201 e i 350 minuti; allontanandosi da tale range temporale, sia in eccesso che in difetto, la dimensione dell’effetto diventa sempre più debole.

Infine, sono stati considerati i differenti livelli di istruzione nei quali si sono svolti i training notando come effect size di media intensità siano presenti unicamente a livello universitario. Quest’ultimo risultato va tuttavia interpretato con cautela poiché solo una piccola porzione di studi è stata svolta in livelli d’istruzione inferiori.

Riassumendo, è quindi possibile affermare che tale metanalisi ha offerto un’importantissima ed esauriente panoramica sulle modalità d’intervento maggiormente efficaci, eleggendo le metodologie combinante come quelle maggiormente supportate scientificamente. Appaiono tuttavia significative limitazioni: la prima concerne la limitata rappresentatività dei campioni considerati poiché la maggioranza degli studi presentava soggetti afferenti al mondo universitario, impedendo pertanto di trarre conclusioni rispetto a quali siano gli interventi maggiormente idonei in livelli di istruzione inferiori. In secondo luogo non sono stati considerati studi più recenti che abbiano quindi contemplato l’utilizzo di ulteriori metodologie d’intervento.

Tuttavia una recente review della letteratura (Von der Embse, Barteria & Segool, 2013) ha avuto come obiettivo quello di colmare questa lacuna, identificando e descrivendo i risultati di 10 studi realizzati tra il 2000 e il 2010 che hanno avuto come partecipanti bambini e ragazzi frequentanti le scuole primaria e secondaria. Dagli studi esaminati emerge come l’intervento cognitivo comportamentale sia efficace non solamente nella riduzione dell’ansia legata alla situazione valutativa ma anche nella riduzione di altre sintomatologie ansiose compresenti. Un altro studio ha invece confermato quanto emerso dalla precedente metanalisi, ossia che ad avere una maggiore efficacia sono gli interventi combinati, nel caso specifico quelli che associano tecniche cognitive al rilassamento; sarebbe tuttavia interessante comprendere quali specifiche componenti degli approcci multimetodo determinino il successo del trattamento.

Per quanto concerne l’impiego delle sole tecniche di rilassamento, nella review in esame vengono proposte con buoni risultati all’interno della scuola primaria; lo stesso dicasi per la desensibilizzazione sistematica implementata senza l’affiancamento di ulteriori strumenti.

L’analisi di studi più recenti ha inoltre consentito di introdurre nella “rosa” di tecniche a disposizione dei clinici anche il biofeedback che consente all’individuo di ottenere un feedback on-line relativamente alle proprie reazioni fisiologiche inconsapevoli e di modificarle conseguentemente. Tale metodologia è stata applicata sia in maniera indipendente sia in associazione alla terapia cognitivo-comportamentale dando in entrambi i casi esito positivo.

Ulteriori studi riportati si sono invece focalizzati sull’implementazione dell’intervento con una tipologia di studenti che molto frequentemente sperimenta ansia da valutazione, ossia gli alunni che manifestano eterogenee forme di difficoltà scolastica. In questa circostanza sono sembrate rilevanti attività mirate al potenziamento delle specifiche competenze carenti, le quali hanno contribuito ad una miglior performance e ad una associata riduzione dell’ansia durante il compito stesso.

Dalla letteratura emerge quindi come le tecniche ad oggi disponibili per intervenire sull’ansia legata ai contesti valutativi siano molteplici; tuttavia, solo in sporadici casi essi sono stati applicati a livelli scolastici inferiori, nonostante si rendano auspicabili non soltanto interventi a livello selettivo, ma anche di tipo preventivo andando oltre le difficoltà che spesso si pongono nel contesto scolastico nell’identificazione dei disturbi internalizzanti (Weems et al., 2010). Relativamente alle metodologie applicate, in futuro potrebbe inoltre rivelarsi interessante considerare nuove modalità d’intervento che integrino l’influenza processualista della “terza onda”.

 

La genitorialità incarcerata

La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitori.

 

Il penitenziario deve rispettare i diritti inviolabili dell’uomo, nonostante rimanga una struttura detentiva. Il secondo articolo della nostra Costituzione, infatti, sancisce che ‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Tra questi diritti inviolabili dell’uomo ritroviamo sicuramente il diritto all’affettività e alla sessualità (Della Bella, n.d).

Tra le varie modalità per attuare questi principi, i detenuti hanno a disposizione i colloqui e la possibilità di mantenere una corrispondenza telegrafica ed epistolare, come sancito dagli articoli, rispettivamente, 37 e 38 della legge 230/2000.

Il diritto all’affettività inevitabilmente comporta anche il diritto alla genitorialità: poter mantenere legami con i propri figli rimane un diritto imprescindibile dell’essere umano. In Italia ci sono 27.355 detenuti che hanno uno o più figli e che si vedono costretti a cercare di mantenere il ruolo paterno o materno dal luogo detentivo (Associazione Antigone, 2019).

Quanto detto ci permette di comprendere quanto debba essere difficile essere un genitore in carcere, vedere i propri figli poche volte a mese, in spazi angusti e freddi, che limitano l’interazione e non aiutano la vicinanza emotiva.

Gli spazi del carcere risultano anaffettivi, impermeabili agli affetti e all’emotività, che sembra essere cancellata. La detenzione, però, si pone come obiettivo anche quello della ri-educazione, che non può svilupparsi senza esplorare anche queste parti del sé, legate ai sentimenti e agli affetti (Augelli, 2012).

La genitorialità in carcere si vede spesso privata del diritto all’affettività, in quanto l’istituto penitenziario attua un meccanismo di spoliazione che priva i detenuti, non solo dei loro effetti personali, ma anche dei loro affetti. La distanza dal mondo esterno, la chiusura in un sub-universo carcerario con regole proprie, orari definiti, tempi vuoti, condivisione totale con gli altri internati, portano a una lenta alienazione dell’individuo che lentamente perde anche la propria identità affettiva, necessaria e fondamentale per il reinserimento nella società (Iori, 2014).

Per il figlio, il genitore rappresenta una figura di riferimento e di attaccamento, una fonte di supporto non solo materiale ma anche affettiva. Risulta chiaro come sia estremamente complesso continuare a porsi come una figura di riferimento, anche a causa dello stigma che si va ad imporre sulla figura del detenuto.

Il genitore imprigionato va verso una doppia perdita, una legata alla propria libertà individuale e una legata alla quotidianità del rapporto con il figlio. L’incontro tra i due avviene, come già stato detto, in luoghi lontani dalla familiarità della propria casa, in ambienti che possono spaventare e distanziare piuttosto che riavvicinare (Margara, Pistacchi e Santoni, 2005).

I colloqui, unico momento di riunione familiare, diventano un momento focale per il detenuto, che può cercare di ricucire rapporti bruscamente interrotti e rompere silenzi imposti. Le stanze per i colloqui, in quest’ottica, non favoriscono la riparazione, essendo spazi chiusi, piccoli, sovraffollati, rumorosi e costantemente sorvegliati.

Oltre alla componente fisica delle stanze per i colloqui, bisogna sottolineare un’ulteriore difficoltà che si pone ai genitori: la frammentarietà e discontinuità dei contatti con i propri figli e familiari. Questo porta alla costante interruzione della narrazione che si sviluppa sia tra il genitore e il figlio, sia dentro il sé del detenuto. Le complesse pratiche burocratiche necessarie alle visite e la mancanza di tempi prolungati per gli incontri, fanno sì che si creino lunghi momenti di vuoto e di silenzio. La burocrazia per la richiesta del colloquio, perfettamente inserita nella macchinosità degli istituti penitenziari, spesso rischia di snaturare l’incontro, togliendo qualsiasi forma di naturalezza e spontaneità (Augelli, 2012).

La reclusione porta con sé una grande trasformazione nella percezione del sé che l’individuo ha precedentemente creato. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitore. I genitori detenuti, improvvisamente allontanati dai propri figli, si vedono appesantiti da sentimenti di impotenza, inadeguatezza e senso di colpa (Musi, 2012), derivati anche dall’etichetta sociale loro attribuita, che mina profondamente il sentimento di efficacia e di legittimazione del soggetto. L’incarcerazione altera la natura bidirezionale del rapporto, in quanto viene meno la continuità e la costante e reciproca comunicazione (Cassibba, Lunchinovich, Montatore e Godelli, 2008).

Essendo la popolazione maschile detenuta estremamente superiore a quella femminile, ritroviamo molti più casi di paternità in carcere.

I padri detenuti modificano il proprio ruolo, andando spesso ad assumere una tendenza al dispotismo. Questa funzione autoritaria nei confronti dei figli nasce come una strategia compensatoria rispetto ad una grande fragilità. I padri cercano di avere un maggiore controllo sulla vita dei propri figli per ottenere rispetto e considerazione, e quindi per auto-legittimarsi ad essere padri. Anche la percezione dell’affetto cambia; infatti, l’accondiscendenza e l’obbedienza dei figli diviene sinonimo di affetto e vicinanza, come spiega Bouregba (citato in Cassibba et al, 2008). I padri inoltre tendono ad una forte idealizzazione del rapporto con i propri figli, che viene visto come estremamente positivo, quasi ad annullare il riconoscimento di una dimensione conflittuale e di difficoltà. La forte idealizzazione porta anche a una distorsione dell’immagine del figlio, che non si sente riconosciuto dal proprio padre.

Alla luce di quanto detto si nota come questi rapporti, che dovrebbero essere forti e stabili, siano in realtà fragili e deboli. Non sono soltanto i genitori a doversi confrontare con nuovi sentimenti ma anche i figli vengono appesantiti da sentimenti quali la rabbia, la delusione e la nostalgia (Musi, 2012). L’incarcerazione relega fisicamente l’individuo e lo sottopone ad un distacco emotivo forzato, a pesanti silenzi e a forti nostalgie.

Il carcere, però, non è più un luogo di mero contenimento ma è diventato uno spazio di ri-educazione del reo. In quest’ottica non si può prescindere dall’educazione all’affettività che permette di andare incontro ad un processo di umanizzazione, portando l’individuo a riappropriarsi della propria identità e della propria umanità. L’educazione all’emotività si inserisce nel più ampio progetto del carcere alla ri-educazione (Augelli, 2012). Questa nuova visione della genitorialità in carcere e della finalità degli stessi istituti penitenziari, ha portato il 21 marzo 2014, alla stesura della Carta dei figli dei genitori detenuti, protocollo d’intesa siglato tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e la Onlus Bambinisenzasbarre (Tomaselli, 2014). Questo documento ha ufficializzato i diritti dei figli dei detenuti, che fino a quel momento non erano tutelati formalmente. Questo Protocollo rappresenta un importante cambiamento della percezione del rapporto con i figli; si inizia a dare sempre più importanza al diritto che hanno i figli nella relazione. Inizia ad esserci un tentativo sempre maggiore di umanizzazione delle carceri; infatti, nonostante il Protocollo sia in difesa dei diritti dei bambini, cercando di tutelare i loro diritti, si va anche a rispettare il diritto alla genitorialità in carcere e il diritto agli affetti e all’emotività dei detenuti.

 

Tonya Harding – “I, Tonya” (2017) – La LIBET nelle narrazioni

‘I, Tonya’ è un recente film di Craig Gillespie, vincitore di un premio Oscar, che narra la storia biografica di Tonya Maxine Harding, famosa ex pattinatrice olimpica statunitense.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 8) Tonya Harding

 

Le vicende di vita raccontate ripercorrono un lungo arco temporale, dai 4 ai 44 anni della protagonista, e si basano su interviste fatte ai vari personaggi della pellicola. Data la natura biografica della pellicola è possibile inquadrare la personalità di Tonya in chiave LIBET, estrapolando numerosi elementi che vanno a comporre una concettualizzazione del caso.

Tonya (nome di battesimo: Tonya Maxene Price) nasce nel 1970 a Portland, in Oregon; è la quinta figlia della madre LaVona, ed è nata dal suo quarto matrimonio. Appare subito evidente allo spettatore quanto Tonya sia nata e cresciuta in un contesto socio-economico piuttosto povero e culturalmente poco stimolante; lei stessa afferma di essere nata povera e contadinotta. La situazione non migliora con il passare degli anni, dato che già all’età di 15 anni si trova costretta a ritirarsi da scuola per potere investire ogni risorsa nel pattinaggio artistico su ghiaccio, non assicurandosi dunque un’istruzione appropriata e perdendo la possibilità di coltivare rapporti amicali con i propri coetanei.

Sicuramente nemmeno l’ambiente genitoriale e famigliare è stato in qualche modo protettivo, o almeno parzialmente validante; la madre viene infatti mostrata come una donna fredda, socialmente isolata e totalmente distaccata da un punto di vista emotivo, a tratti crudele (‘un mostro’). In quasi tutte le scene in cui è presente LaVona, questa svaluta la figlia fino ad aggredirla ed abusarla in modo reiterato sin dall’infanzia, sia verbalmente sia fisicamente, dicendole frasi quali ‘sei solo una piccola perdente schifosa’; il suo unico scopo appare quello di rendere Tonya una vincente nel pattinaggio, spronandola attraverso continue critiche e rinfacciandole l’impegno economico di cui si è fatta carico per consentirglielo. Il culmine viene raggiunto quando, a seguito di una delle solite sfuriate fra le due, la madre le lancia un coltello che si conficca nel braccio di Tonya. Il padre, invece, appare come una figura genitoriale più adeguata, sebbene non affettuosa; abbandona però LaVona e Tonya quando quest’ultima è ancora una bambina, e di lui non si fa più alcun cenno durante tutto il film. La protagonista afferma di volergli bene, e che avrebbe preferito andarsene con lui, piuttosto che rimanere da sola con la madre.

Come già accennato, fin dalla prima infanzia Tonya subisce diversi abusi, come lei stessa afferma, in primis dalla madre, e poi durante l’adolescenza dal fratellastro, ‘Chris il viscido’, che la molesta sessualmente; anche a scuola viene considerata diversa, una poveraccia. Il personaggio di Tonya è rappresentato dapprima come una bambina timida e inibita, mentre da adolescente viene dipinta con una personalità fortemente rabbiosa. È a 15 anni, nel pieno dell’adolescenza, che conosce il suo primo fidanzato nonché futuro marito, Jeff. Il loro rapporto, inizialmente tenero ed affettuoso, diviene repentinamente violento; Jeff infatti inizia ad abusare fisicamente di lei, sia durante la loro convivenza sia durante il matrimonio, conclusosi per tale motivo nel 1992, dopo varie separazioni. Tonya sembra accettare da un certo punto di vista le percosse, che riceve da tutta la vita, probabilmente tramite strategie pseudorazionalizzanti o di controllo ottenuto con l’auto-attribuzione di responsabilità, con pensieri quali ‘anche mamma mi picchia e mi vuole bene, quindi forse è colpa mia’.

Leggendo il personaggio in chiave LIBET, sebbene le esperienze traumatiche infantili e adolescenziali subite da Tonya possano far subito supporre una sua sensibilità nell’area della minaccia terrifica, appare maggiormente plausibile che abbia sviluppato una vulnerabilità ascrivibile al tema doloroso del disamore; infatti il bisogno esistenziale che esplicita come per lei fondamentale è quello di essere amata. Tale bisogno è talmente importante da rendere prioritario e necessario il fatto di avere qualcuno vicino a sé, anche se negativo per la sua persona. Anche l’amore della gente spettatrice del pattinaggio è assai rilevante per Tonya, che raggiunge l’apice della felicità quando diviene la prima pattinatrice americana ad eseguire un salto triplo axel durante una competizione ufficiale; ciò l’ha fatta sentire brava, apprezzata in quanto riconosciuta come non solamente degna, ma addirittura la migliore nell’unica cosa che sa fare. Non dimentichiamo che la figura genitoriale di riferimento per Tonya è stata una madre costantemente ed inelegantemente criticista nei suoi confronti; è dunque verosimile che Tonya possa essersi sensibilizzata anche al contatto con uno stato mentale di indegnità. Durante quasi tutta la durata del film traspaiono processi di metacontrollo che sottolineano l’intollerabilità dello stato mentale del sentirsi da sola e non amabile, ad esempio quando torna a casa dal marito nonostante ciò sia assolutamente non tutelante la sua incolumità; inoltre, il fatto di essere brava le permette di ottenere un po’ di quell’amore e apprezzamento di cui necessita.

Oltre alle sopraccitate strategie di pseudorazionalizzazione, che si palesano attraverso un locus of control esternalizzato, e a strategie prescrittive che si concretizzano in auto-colpevolizzazioni (ruminazione autocritica nei momenti in cui riceve percosse), Tonya si protegge dalla minaccia di entrare in contatto con la propria sensibilità assumendo costantemente un atteggiamento rabbioso e aggressivo, con evidenti difficoltà di autoregolazione emotiva; nel corso del film la si vede spesso in collera praticamente con ogni persona con la quale si relaziona, persino con i personaggi accudenti nei suoi confronti, come ad esempio la sua allenatrice. Inoltre, utilizza le sigarette per autoregolarsi nei momenti di stress e tristezza. Quasi tutte queste strategie si configurano, secondo la concettualizzazione LIBET, in un piano semiadattivo di tipo immunizzante. Anche nei momenti di bassa minaccia, infatti, Tonya modifica il proprio stato mentale con una finalità difensiva.

Tale piano immunizzante non riesce a proteggere la protagonista nei momenti in cui rimane (o si sente) sola e non apprezzata, per esempio quando lascia il marito, quando la giuria non le assegna punteggi consoni alla sua prestazione poiché ritiene la sua immagine non adeguata a rappresentare il pattinaggio artistico americano, oppure quando il pubblico perde l’amore che ha per lei a causa dell’aggressione che Jeff architetta nei confronti di un’altra pattinatrice. È in queste occasioni che Tonya viene rappresentata con tono dell’umore depresso, che raggiunge il culmine nel momento in cui viene bandita a vita da ogni competizione della Federazione di pattinaggio degli Stati Uniti; in questa occasione Tonya riconosce di aver perso tutto ciò che la definisce come persona, ovvero la possibilità di esprimere la sua dote nel pattinare: ‘So solo pattinare, non sono niente se non posso…’.

Nel film non viene mai rappresentato un vero e proprio esordio sintomatologico, o un periodo prolungato di sofferenza dovuta ad un disturbo psichiatrico quale la depressione, ma appare evidente come vi siano situazioni che causano a Tonya uno scompenso sul versante depressivo, quando le sue strategie non risultano adattive nel proteggerla dalle proprie sensibilità. Inoltre, il fatto che Tonya abbia un locus of control tipicamente esterno rende difficile per lei sperimentare strategie cognitive e comportamentali alternative e maggiormente adattive; ciò potrebbe essere una delle variabili di mantenimento del disagio.

Una concettualizzazione del caso di Tonya in chiave LIBET, chiaramente approssimativa, realistica ma non necessariamente veridica, consente una lettura ad ampio raggio di tale personaggio. Ciò risulta fondamentale per coglierne il funzionamento e per comprendere la logicità dei comportamenti, delle emozioni e dei pensieri che il film fa trasparire; infine, nell’ottica di un’ipotetica psicoterapia, una concettualizzazione di questo tipo permetterebbe di raccogliere un’infinità di dettagli utili per il percorso terapeutico, concentrati non solamente sulla sintomatologia acuta che ha portato la persona a richiedere un aiuto, ma anche sulle vulnerabilità personologiche premorbose.

 

L’odore del partner migliora la qualità del sonno

Stando ad uno studio pubblicato sulla rivisita Psych Central condotto dalla University of British Columbia (UBC), il profumo del proprio partner migliorerebbe la qualità del sonno.

 

Il sonno è definito come uno stato di riposo contrapposto alla veglia; si tratta di uno stato in cui si verifica una momentanea sospensione di coscienza durante il quale avviene un recupero energetico sia a livello fisico che psichico. Durante il sonno le funzioni neurovegetative rallentano e i recettori sensoriali abbassano la soglia di attivazione; contrariamente a ciò che comunemente si pensa, si tratta di un processo fisiologico attivo, che comporta la costante interazione tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso autonomo; un adeguato sonno è fondamentale per il sostegno della vita (Hobson, 2005).

Il sonno è costituito da alterazioni regolari tra fasi non-REM e REM (Rapid Eyes Movment): le fasi non-REM sono costituite da 4 stadi dove l’ultimo stadio (il quarto) rappresenta lo stato di sonno più profondo, dopo di esso si verifica il passaggio alla fase REM, stadio in cui si denota una alta attivazione cerebrale e una proficua produzione onirica (Hobson, 2005).

L’insonnia è un disturbo della sfera del sonno, caratterizzato dall’incapacità di dormire nonostante se ne percepisca il bisogno fisiologico; si tratta di una condizione debilitante per l’individuo dato che la mancanza di riposo porta ad un distress significativo nella vita della persona, oltre ad incidere negativamente sulle sue capacità cognitive. Infatti possono verificarsi difficoltà di apprendimento, umore irritabile e mancato consolidamento della memoria (Roth & Roehrs, 2003). Si stima che il 10% della popolazione adulta soffra di insonnia (Roth & Roehrs, 2003).

Stando ad uno studio pubblicato sulla rivisita Psych Central condotto dalla University of British Columbia (UBC), il profumo del proprio partner migliorerebbe la qualità del sonno.

Lo studio è stato condotto su 155 soggetti, divisi in due condizioni sperimentali: al gruppo di controllo è stata data una maglietta da indossare durante la notte con un odore neutro, mentre al gruppo sperimentale è stata data una maglietta precedentemente indossata dal proprio partner (Pedersen, 2020).

I soggetti sono stati monitorati durante la notte tramite l’actigrafia, una metodica che permette di monitorare i movimenti durante la notte, mentre la mattina dovevano compilare un questionario self-report che indagava la qualità del sonno di quella stessa notte (Pedersen, 2020).

I risultati mostrano che i partecipanti che hanno dormito con la maglietta avente l’odore del proprio partner, mostravano una qualità del sonno migliore, rilevata da entrambi i metodi di misurazione (questionario e actigrafia); gli effetti osservati, sembrano essere paragonabili agli effetti dati dall’assunzione orale di melatonina, ormone fondamentale per il sonno; attualmente i ricercatori stanno conducendo uno studio sperimentale per comprendere se l’odore dei propri genitori possa aumentare la qualità del sonno della prole (Pedersen, 2020).

Storia della “corona” infame. Isteria collettiva tra ipocondria, psicoanalisi e psicologia delle masse

La psicosi da coronavirus è un fulgido esempio dell’influsso dei fenomeni collettivi sul comportamento individuale e di come l’emotività atavica del singolo può divenire un fenomeno pandemico, e viceversa.

 

Viviamo in un’epoca impregnata di narcisismo e perciò ipocondriaca. Nella visione kohutiana del narcisismo, frustrato o covert, una non ottimale sintonizzazione affettiva con le figure di accudimento, la presenza variabile e non troppo stabile di molte di queste, neglet e, talvolta, frustrazioni vissute come abbandono o paura dal bambino, possono causare una scissione ‘verticale’ della personalità tra la grandiosità apertamente manifesta, volta a mostrare a se stessi e all’altro una visione di sé positiva se non perfetta, e la parte vulnerabile, caratterizzata da bassa autostima, tendenza alla vergogna e appunto, ipocondria. Ma andiamo con ordine, perché la nostra società sembra così permeata da narcisismo e perché proprio l’ipocondria è un tratto del narcisismo ipervigile?

Siamo ormai figli del boom economico vissuto tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, cresciuti tra tate, nonne, mamme e soprattutto, la baby-sitter per eccellenza che ha allevato ormai diverse generazioni: la televisione, che ora va trasformandosi in smartphone e tablet per i post-millennials. La tv ha da sempre offerto un ottimo passatempo e un escamotage per intrattenere i più piccini, tagliando via tuttavia ogni valenza affettiva che potevano avere il gioco e le attività condivise tra pari e con gli adulti. Il bambino impara a ‘bastare a se stesso’, a sentirsi onnipotente e a non aver bisogno di altri se non i suoi strumenti, ad autoregolarsi non più tramite lo sguardo e l’emotività co-creata, ma tramite oggetti fisici esterni, da lui facilmente manipolabili. Basti pensare alla mole di piccoli ADHD e iperattivi che giunti a scuola non riescono a stare seduti, a porre attenzione e ad ascoltare, ma che starebbero ore e ore immobili davanti ad uno schermo dai 5 ai 77 pollici. Col passare degli anni, quello strumento da manipolare diventa manipolatore, suggerendo quali ultimi giochi acquistare prima, il modo di pensare, sentire, agire poi, a scapito delle relazioni reali e dell’intersoggettività condivisa. Ed ecco come una notizia in tv si trasforma in psicosi collettiva, odio e paura nei confronti dell’altro, e porta a rintanarsi nelle proprie case, circondati dai propri cari apparecchi elettronici a seguire ciò che viene da loro continuamente propinato.

Per quanto riguarda l’ipocondria, è stata da sempre vista dalla psicoanalisi come la manifestazione degli ‘oggetti interni cattivi’, sentimenti e pensieri troppo difficili da sopportare e negati alla coscienza, che si concretizzano in sintomi somatici e paura della ‘malattia’ proveniente dall’esterno, che ‘contamina’ il nostro io vissuto come fragilmente integro, puro ma vulnerabile. Gli ultimi sviluppi della infant research sottolineano, inoltre, le implicazioni biologiche della diade madre-bambino e di come la presenza della madre sia fondamentale per la crescita del piccolo, poiché, se non vi è, muore. Sperimentare l’angoscia dovuta alla separazione tra sé e la madre, la possibilità che questa non vi sia per nutrirlo, genera la paura della morte, presente in maniera equilibrata in uno sviluppo sano, frustrata ed esponenzialmente elevata nei tratti narcisistici.

L’isteria sociale scatenata nell’ultimo mese a causa del coronavirus, può essere un ottimo esempio di come questi presupposti teorici si manifestino della realtà di oggi, sino a scatenare quasi una ‘caccia all’untore’ di manzoniana memoria. Banalizzare il tutto dando le colpe al progresso economico e tecnologico, tuttavia, risulterebbe infondato: tali fenomeni non hanno fatto altro che reiterare, sviscerare e amplificare modi di sentire da sempre esistiti. Freud stesso diceva che

è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato così poco dai tempi primordiali… come nella relazione con la morte.

La paura della fine è la causa primaria dell’angoscia, messa in moto dalla pulsione di morte che minaccia l’organismo fin dalla nascita.

Le masse vanno guidate con lo studio di ciò che le impressiona e le seduce, scriveva Le Bon, il padre della psicologia della folla, e cosa può impressionare più della paura di morire. Rifacendosi al pensiero di Le Bon, Freud definisce la massa come un’entità provvisoria costituita da elementi eterogenei saldati insieme per un istante, anonima e irresponsabile, attraverso cui l’individuo acquisisce un senso di potenza invincibile che gli permette di agire istinti altrimenti frenati, sentendosi al tempo stesso protetto e ‘contagiato’ da qualsiasi emozione circoli all’interno della massa. La psicosi da coronavirus è un fulgido esempio dell’influsso dei fenomeni collettivi sul comportamento individuale e di come l’emotività atavica del singolo può divenire un fenomeno pandemico, e viceversa.

Ritornando al caro vecchio Manzoni, Storia della colonna infame è un celebre saggio storico ambientato nel 1630, in cui lo scrittore descrive la psicosi collettiva scatenata dall’epidemia di peste e sfociata nel processo a due presunti untori, giustiziati tramite il supplizio della ruota e marchiati ad infamia perenne con la costruzione della colonna sui resti dell’abitazione di uno dei due innocenti. Surreale come 290 anni dopo, una presunta epidemia causata da un virus sconosciuto riattivi nelle masse lo stesso irrazionale sentire. Sino a qualche giorno fa gli untori erano i cinesi, o meglio gli asiatici, che creavano il vuoto attorno su metro e mezzi pubblici, offesi e talvolta aggrediti, riuscendo addirittura a bloccare interi convogli per uno starnuto (vedi Freccia Roma-Lecce del 21 febbraio). Oggi, ahi ahi, sono gli italiani, e altri stati europei già minacciano di chiudere le frontiere. Per il centro-sud gli untori sono i milanesi e guai a viaggiare con qualcuno che abbia un vago accento del nord. Per le masse, vi sarà sempre un untore su cui sfogare e in cui identificare le proprie pulsioni distruttive, un capro espiatorio da sacrificare per poter preservare la propria integrità, finché sul patibolo potremmo finirci noi, con tutta la nostra irrazionale paura di morire.

 

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