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Sì al dessert per mangiare meno e meglio

Di fronte all’epidemia dilagante di obesità, educare e aumentare la consapevolezza delle persone non è sufficiente. Servono interventi sul campo che, grazie a semplici ed economiche strategie di nudging, promuovano stili alimentari più sani e sostenibili. Secondo una recente ricerca, giocare con le modalità di presentazione del cibo potrebbe essere una strategia vincente.

 

Sovrappeso e obesità sono diventati il principale problema di salute pubblica in molti Paesi del mondo, con forti ripercussioni a livello finanziario. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (2017) ha infatti stimato che, dal 1975, i tassi di obesità a livello mondiale sono triplicati, con oltre 650 milioni di persone obese e 1.9 miliardi di adulti sovrappeso. In altre parole, un numero di persone che supera la popolazione dell’Unione Europea è considerata obesa, e quasi un terzo della popolazione mondiale è in sovrappeso.

Di fronte ad una emergenza di questo calibro, appare allora evidente che educare e aumentare la consapevolezza delle persone non sia sufficiente. Servono anche interventi sul campo che, grazie a semplici ed economiche strategie di nudging (i.e. attraverso semplici modifiche all’ambiente circostante, spingere in maniera ‘gentile’ – lasciando quindi libertà di scelta – il comportamento delle persone verso una direzione desiderata), aiutino gli individui a mangiare meglio e meno (Flores et al., 2019).

L’influenza dell’ambiente sulle scelte alimentari

Contrariamente a quanto si pensi, le scelte alimentari sono determinate da moltissimi elementi, tra cui le caratteristiche del cibo, fattori legati all’individuo (psicologici, fisiologici e sensoriali) e l’ambiente circostante (fisico, socio-economico e culturale). Negli ultimi anni, la ricerca si è sempre più interessata alle caratteristiche dell’ambiente fisico, e così è stato scoperto che a suggerire cosa e quanto mangiare concorrono, ad esempio, le porzioni e le dimensioni delle confezioni degli alimenti (Scott et al., 2008), la semplice vicinanza al cibo (Privitera & Creary, 2013), o, ancora, le etichette a semaforo che indicano la salubrità del prodotto (Trudel et al., 2015).

Una recente ricerca pubblicata da Flores e collaboratori (2019) ha sottolineato il ruolo giocato dal tipo e dall’ordine di presentazione degli alimenti, che, combinati, hanno una grande influenza sulle scelte alimentari, in termini sia di qualità che di quantità. Questi ultimi fattori risultano essere particolarmente rilevanti in un contesto sociale in cui gli individui hanno la possibilità di ‘costruire’ in modo sequenziale il proprio pasto, scegliendo tra svariate opzioni. È il caso dei ristoranti all-you-can-eat a buffet, delle mense, o di piattaforme online come Uber Eats o Just Eat, tutti contesti in cui le persone scelgono un alimento per volta, ed in cui i dessert vengono presentati solo alla fine (Flores et al., 2019).

Il ruolo del tipo di alimento

Alcune ricerche (e.g. Khan & Dhar, 2006) hanno rivelato come, in una serie di scelte sequenziali, una scelta virtuosa – o la semplice intenzione di compierla – potrebbe ‘autorizzare’ gli individui a compiere scelte più indulgenti in seguito. Nel contesto delle scelte alimentari sequenziali, optare per un cibo salutare legittimerebbe quindi la successiva scelta di un cibo meno salutare. L’individuo, infatti, potrebbe sentire di aver compiuto un progresso verso un obiettivo di salute a lungo termine (segnalato, appunto, dalla scelta appena compiuta) e questo farebbe sì che, in seguito, si conceda un premio (Wilcox, Vallen, Block, & Fitzsimons, 2009).

Al contrario, la scelta di alimenti non salutari farebbe sì che venga a mancare il segnale di successo e che, quindi, il soggetto si senta meno legittimato ad autorizzarsi il consumo di ulteriori alimenti insalubri (Khan & Dhar, 2006).

Ad una scelta indulgente, tuttavia, potrebbe anche seguire un’altra scelta indulgente. In questo caso, la spiegazione sarebbe da attribuire all’effetto ‘Tanto ormai’ (‘what-the-hell’ effect) (Cochran & Tesser, 1996), per cui la persona – generalmente a dieta – sente di avere rovinato tutto con la propria indulgenza e, di conseguenza, si lascia andare del tutto.

Ancora, a una iniziale scelta virtuosa potrebbero seguire scelte altrettanto virtuose, proprio perché la prima scelta consentirebbe di enfatizzare l’obiettivo a lungo termine da conseguire (Dhar & Simonson, 1999).

In sintesi, in base alla scelta appena compiuta (cibo sano vs. cibo non sano), l‘individuo può sentirsi più o meno ‘legittimato’ a compiere scelte indulgenti (cibo non sano) o scelte orientate ad un obiettivo di salute a lungo termine (cibo sano).

Il ruolo dell’ordine di presentazione

L’effetto dell’ordine si presenta ogni qualvolta che un elemento di una serie, per via del suo posizionamento all’interno della serie stessa, ha una maggiore influenza sui giudizi o sulle scelte relativi agli altri elementi della serie (Büyükkurt, 1986; Hogarth & Einhorn,1992; Pandelaere et al., 2010). Di fronte alla possibilità di scegliere consequenzialmente tra diversi piatti (come, ad esempio, in mensa), si verifica spesso un particolare tipo di effetto dell’ordine, l’effetto primacy, per cui la prima scelta influenza tutte le successive. La spiegazione risiede nel fatto che, alla fine della sequenza, l’individuo ha già preso una serie di decisioni riguardo cosa e quanto mangiare, ed è improbabile che cambi le decisioni precedenti (ad esempio, rimettendosi in fila e restituendo o cambiando gli alimenti presi in precedenza).

La sintesi di Flores e collaboratori (2019)

Sulla base di 4 studi sperimentali, una recente ricerca (Flores et al., 2019) ha cercato di tirare le somme di una letteratura ricca di risultati spesso contrastanti. In particolare, gli autori hanno dimostrato come, in una mensa, il primo piatto riposto sul proprio vassoio abbia un’importante influenza su tutti i piatti scelti in seguito e, quindi, sul totale di calorie introdotte complessivamente durante il pasto (effetto primacy).

Nello specifico, dagli esperimenti è emerso che quando il primo piatto scelto non era salutare (i.e. cheesecake), le scelte successive ricadevano su piatti più sani; il risultato finale era, pertanto, un pasto meno calorico rispetto a quando il primo alimento scelto era salutare (i.e. frutta).

Gli autori hanno inoltre sottolineato l’importanza di considerare le risorse cognitive disponibili: quando le persone sono distratte o sono impegnate in altre attività mentali, infatti, l’effetto primacy si riduce, mentre l’effetto ‘legittimazione’ aumenta. Se da un lato, quindi, il primo piatto scelto non influenza più le scelte successive, dall’altro le persone, associando l’alto carico cognitivo al ‘duro lavoro’, sono portate a credere che concedersi alimenti meno salutari sia giusto e, anzi, meritato. Il risultato sono quindi scelte più indulgenti e pasti complessivamente più calorici.

Promuovere diete sane e sostenibili

Questi risultati hanno importanti implicazioni pratiche, utili per implementare interventi mirati a migliorare le scelte alimentari degli individui, orientandoli verso diete sane e sostenibili. Riprendendo quanto accennato in precedenza, è importante ricordare il particolare contesto sociale in cui l’epidemia di sovrappeso e obesità sta dilagando. Un contesto in cui gli individui sono costantemente esposti a stimoli legati al cibo e nel quale hanno costantemente la possibilità di ‘costruire’ in modo sequenziale il proprio pasto, scegliendo tra svariate opzioni. Sono sempre più diffusi, infatti, i ristoranti all-you-can-eat o a buffet, ma anche piattaforme online sulle quali ordinare cibo da farsi consegnare direttamente a casa.

Poiché bastano poche ed economiche modifiche alle modalità di presentazione del cibo per indurre le persone a compiere scelte alimentari differenti, sarebbe importante considerare le dinamiche sottostanti a tale fenomeno per progettare, ad esempio, il menù di un ristorante, così come il design delle applicazioni per smartphone ed i siti web da cui si ordina cibo. Nonostante la riduzione calorica legata a tali modifiche sia modesta, l’effetto cumulativo di interventi basati sulle modalità di presentazione degli alimenti potrebbe essere significativo (Flores et al., 2019). Una ricerca ha infatti dimostrato come, ad esempio, una riduzione di sole 100 kcal al giorno potrebbe prevenire l’aumento di peso nella maggior parte degli individui (Hill et al., 2003). Non solo, poiché le scelte sequenziali sono comuni a molti contesti molto frequentati, come ad esempio le mense aziendali o scolastiche, interventi di questo tipo hanno la possibilità di agire su larga scala, diffondendo sempre di più stili alimentari sani e sostenibili.

Infine, è importante sottolineare come i benefici non sarebbero solo a favore dei clienti, ma anche degli esercenti. Nei ristoranti all-you-can-eat a buffet, ad esempio, fare scegliere come prima cosa il dessert potrebbe infatti consentire di ridurre le quantità di cibo consumata in seguito. Il che, per il ristorante, si tradurrebbe in minori costi di gestione.

Strategie di nudging, che spingano gentilmente i comportamenti degli individui verso mete più virtuose attraverso gli elementi ambientali, potrebbero quindi essere una strategia vincente su tutti i fronti.

 

Skin-to-skin contact o marsupioterapia: il ruolo del contatto cutaneo tra mamma e bambino prematuro sulla qualità delle loro interazioni

Un recente studio si è proposto di indagare le potenziali differenze nella qualità delle interazioni tra i bambini e le loro madri, dopo aver seguito due differenti modalità di marsupioterapia, volendo inoltre chiarire se ad un maggior tempo di contatto corrispondessero in effetti interazioni qualitativamente migliori.

 

La gestazione della donna dura tipicamente quaranta settimane, al temine delle quali generalmente segue un parto naturale; tuttavia per quindici milioni di famiglie l’anno in tutto il mondo, l’arrivo del proprio bambino può giungere inaspettatamente o a causa di complicanze occorse durante la gravidanza, anche mesi prima della data prevista. Fortunatamente, gli sviluppi della moderna medicina e delle tecnologie impiegate nei reparti di terapia intensiva neonatale hanno portato ad un abbassamento della mortalità perinatale ai minimi storici negli ospedali occidentali; tuttavia le statistiche riportano una mortalità più alta in altre parti del mondo dove l’accesso alle strutture sanitarie è difficile o le condizioni socio-economiche sono svantaggiate.

Il rischio per i nati pretermine è che insorgano problemi di adattamento alla vita extra-uterina, dovuti all’immaturità funzionale degli organi e del sistema nervoso del neonato, che non hanno infatti completato la propria maturazione. Tra le problematiche più frequenti i bambini pretermine sono soggetti ad una sindrome chiamata ‘malattia respiratoria del neonato preterminine’ e a problemi di controllo della temperatura, in quanto il sistema endogeno di termoregolazione non è ancora sviluppato. Nel trattamento di queste criticità, la culla termica, o incubatrice, ha costituito un rimedio efficace per consentire ai medici di controllare ossigenazione, temperatura e umidità in modo da aiutare il nuovo nato ad adattarsi gradualmente alla vita extrauterina. Tuttavia, ancora una volta, l’accesso a questi macchinari è spesso riservato agli abitanti di centri urbani economicamente avanzati, ponendo la necessità di trovare delle valide alternative da implementare in tutti quei casi in cui non vi sia l’opzione dell’incubatrice.

Gli anni ’70 hanno visto il diffondersi di un protocollo medico nei reparti di neonatologia degli ospedali occidentali che prende il suo nome dai marsupiali che trasportano la prole in una sacca addominale: marsupioterapia, Kangaroo Mother Care o skin-to-skin contact. La tecnica consiste nel creare situazioni di contatto epidermico tra un genitore e un neonato pretermine ed è stato dimostrato come questo metodo sembri diminuire le apnee e la bradicardia, favorendo l’inizio dell’allattamento al seno e garantendo inoltre una maggiore stabilità della temperatura (Conde-Agudelo & Diaz-Rossello, 2016; Robles, 1995). Vi sono studi che hanno suggerito che la marsupioterapia possa avere addirittura maggior efficacia di uno strumento tecnologicamente avanzato come l’incubatrice (Ludington-hoe , Ferreira, Swinth, & Ceccardi, 2003; Westrup, 2004). Una meta-analisi ha inoltre rivelato che lo skin-to-skin contact diminuirebbe il rischio di depressione post-partum nelle donne che vi ricorrono (Scime, 2019).

Un recente studio di Helmer e colleghi (2019) si è proposto di indagare le potenziali differenze nella qualità delle interazioni tra i bambini e le loro madri, dopo aver seguito due differenti modalità di contatto pelle a pelle, volendo inoltre chiarire se vi fosse un’effetto dose-response ovvero se a un maggior tempo di contatto corrispondessero in effetti interazioni qualitativamente migliori. La marsupioterapia veniva seguita dalle mamme e dai loro bambini dalla nascita fino alla dimissione dal reparto di terapia intensiva neonatale: diciassette diadi madre-bambino sono state assegnate casualmente alla condizione di contatto continuo, ovvero venendo istruite nel mantenere il contatto con il loro bambino per tutto il tempo, mentre altre quattordici diadi hanno seguito una modalità intermittente, nella quale potevano somministrare quanto contatto pelle a pelle volessero (per ovvie ragioni etiche), ma senza che venisse loro prescritto un contatto ininterrotto e risultando da ultimo in una differenza statisticamente rilevante in termini di tempo.

In seguito, si è indagata la qualità delle interazioni madre-bambino a quattro mesi di distanza, utilizzando il paradigma della Still-Face somministrato in video e valutando poi l’interazione faccia a faccia della diade mediante l’Ainsworth’s Maternal Sensitivity Scales e il Maternal Sensitivity and Responsivity Scales-R, che consentono di codificare l’interazione secondo parametri come la sensibilità verso il bambino, l’interferenza vs. cooperazione nel favorire l’autonomia, la disponibilità e infine l’accettazione o il rifiuto verso i bisogni espressi dal bambino.

Contrariamente alle ipotesi degli autori, la somministrazione di un contatto pelle a pelle continuo non garantiva punteggi migliori rispetto a quello intermittente in nessuna delle scale qualitative sulla relazione esaminate; in modo simile non è stata riscontrata alcuna evidenza che un maggior tempo dedicato al contatto pelle a pelle comportasse una più alta qualità relazionale, disconfermando anche la seconda ipotesi sperimentale dello studio. Una doverosa osservazione, che costituisce tra l’altro il maggiore limite dello studio presentato, è che entrambe le condizioni comportavano tempi estremamente alti di contatto pelle a pelle mantenuto nelle diadi: l’impossibilità etica di manipolare la quantità di contatto skin-to-skin somministrato ai bambini pretermine, non ha consentito di verificare se una discrepanza maggiore avrebbe comportato un quadro differente.

Studi futuri dovranno indagare se vi sia una ‘giusta dose’ o una soglia temporale minima, che garantisca di massimizzare i benefici ottenibili ricorrendo alla pratica della marsupioterapia senza rischiare di incorrere in inutili esagerazioni che potrebbero alimentare le ansie dei neogenitori pretermine, già verosimilmente provati dalla condizione di fragilità del proprio bambino e dalle difficili circostanze della sua nascita.

Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica

Il presente studio si propone di indagare l’utilizzo di strumenti tecnologici da parte degli adolescenti con particolare attenzione ai fattori che possono influire sul loro benessere e qualità della vita.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli che illustreranno al pubblico un recente studio esplorativo nato all’interno del progetto Web (In)dipendente, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Politiche Antidroga, realizzato per promuovere e favorire un uso controllato e responsabile del web da parte dei minori.

 

L’adolescenza è un periodo della vita caratterizzato da importanti cambiamenti corporei e comportamentali che coinvolgono l’individuo in relazione al suo ambiente sociale e culturale (Palmonari, 2011). I giovani crescono oggi in un ambiente mediale convergente (Livingstone & Haddon, 2009) dove è sempre più difficile distinguere l’esperienza online da quella offline. Non solo i Social Network e le applicazioni accessibili da smartphone e tablet, ma anche accessori facilmente indossabili come smart watch e fitness trackers o giocattoli connessi a internet, rendono la vita online sempre più pervasiva (Mascheroni & Holloway, 2019) spesso a discapito di altre attività.

Secondo il report EUKIDS Italia, su un campione di 1006 giovani dai 9 ai 17 anni, i ragazzi trascorrono mediamente su internet 2,6 ore al giorno, senza differenze di genere (Mascheroni & Olafsson, 2018).

L’utilizzo così diffuso di questi strumenti e l’idea che possa avere un impatto negativo sul benessere psicologico dei ragazzi è stato oggetto di numerose ricerche e anche di interventi governativi (UK Commons Select Committee, 2017). Tuttavia, a oggi, c’è ancora poco consenso sul se e in che modo la fruizione di contenuti online possa influire sul benessere psicologico dei ragazzi (Smith, Ferguson, & Beaver, 2018) (Etchells, Gage, Rutherford, & Munafò, 2016) (Parkes, Sweeting, Wight, & Henderson, 2013) (Katikalapudi, Chellappan, Montgomery, Wunsch, & Lutzen, 2012) (Bélanger, Akre, Berchtold, & Michaud, 2011)  e i risultati non sembrano sufficienti per giustificare interventi sociali e politici sul tema (Orben & Przybylski, 2019).

Bisogna però evidenziare che i dati di queste ricerche sono per loro natura estremamente complessi da interpretare, perché spesso basati su analisi secondarie di set di dati sociali su larga scala o su una autovalutazione della quantità di tempo trascorso online come fattore determinante degli effetti positivi o negativi della tecnologia.

Oltre al fatto che l’auto valutazione del tempo trascorso online è molto difficile e spesso errata (Scharkow, 2016) (Short, et al., 2009) dobbiamo anche chiederci se sia possibile oggi distinguere in modo preciso il tempo online da quello offline. È praticamente impossibile, inoltre, definire con certezza il nesso di causalità, ovvero se sia l’utilizzo della tecnologia a far peggiorare il livello di benessere o se un livello di benessere basso porti a un utilizzo maggiore di strumenti tecnologici.

L’intento di questo lavoro è osservare quali fattori legati alla vita online dei ragazzi potrebbero influire sul loro benessere, oltre a quello del tempo trascorso online. I fattori che abbiamo indagato sono stati il tempo trascorso online, il tempo dedicato al sonno e lo svolgere attività sportivo/ricreative durante la settimana.

Tempo trascorso online

Il numero di ore che gli adolescenti trascorrono online è in costante aumento. Secondo i dati della Società Italiana di Pediatria, il numero di adolescenti tra gli 11 e i 17 anni che naviga quotidianamente su internet è passato dal 56% di 4 anni fa al 72% del 2018 (SIP – Società Italiana di Pediatria, 2019). A connettersi maggiormente sono le ragazze (87,5%). Il 60% dei ragazzi del campione controlla lo smartphone come prima cosa al risveglio e come ultima prima di addormentarsi.

Il sonno

Il sonno è una attività fondamentale a tutte le età, ma riveste una particolare importanza soprattutto tra i più giovani. La National Sleep Foundation ha individuato per i ragazzi di 6-13 anni un numero di ore di sonno comprese tra le 9 e le 11, mentre per i teenager tra i 14 e i 17 anni 8 -10 ore (National Sleep Foundation, 2015).

Il fatto che le nuove tecnologie, attraverso attività, giochi o promuovendo la continua disponibilità degli utenti e il timore di perdere un possibile aggiornamento su un Social Network, possano ridurre il tempo dedicato al sonno da parte degli adolescenti è stato oggetto di numerose indagini (Scott, Biello, & Cleland, 2018) (Mei, et al., 2018) (Munezawa, et al., 2011) (Van den Bulck, 2007).

In letteratura sono stati individuati numerosi effetti psicologici, comportamentali e fisici causati da un sonno non adeguato, come il calo del rendimento scolastico, la difficoltà di regolazione delle emozioni, l’alterazione dei processi cognitivi e dello stato di salute in generale negli adolescenti (Arora, Albahri, Omar, Sharara, & Taheri, 2018) (Arora, et al., 2013; ) (Dube, Khan, Loehr, Chu, & Veugelers, 2017) (Gruber, et al., 2012) (Dahl & Levin, 2002).

L’attività fisico/ricreativa

L’attività fisico/ricreativa riveste un ruolo molto importante nell’infanzia e nell’adolescenza, sia dal punto di vista fisico che psicologico.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’attività fisica è fondamentale per prevenire situazioni di disagio mentale e fisico e raccomanda politiche regionali prioritarie (Cavill, Kahlmeier, & Racioppi, 2006). Nel 2016 è stata pubblicata la Strategia sull’attività fisica per la regione europea 2016-2025, in cui viene sottolineato l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone attraverso una regolare attività fisica. Per quanto riguarda la popolazione giovanile, l’OMS sostiene che un adeguato livello di attività fisica sia un fondamentale prerequisito per lo sviluppo cognitivo, motorio e delle competenze sociali dei ragazzi (WHO Regional Office for Europe, 2016). A livello internazionale 3 adolescenti su 4 (di età compresa tra 11 e 17 anni) non svolgono attività fisica come raccomandato dall’OMS. In Italia, il Rapporto Istisan Movimento, sport e salute: l’importanza delle politiche di promozione dell’attività fisica e le ricadute sulla collettività, realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), mostra come un bambino su 4 dedichi al massimo 1 giorno la settimana (almeno 1 ora) a giochi di movimento (De Mei, Cadeddu, Luzi, & Spinelli, 2018) a fronte di livelli raccomandati per la fascia 5-17 anni di almeno 60 minuti giornalieri.

La relazione tra attività sportiva e benessere psicologico è stata indagata sia sul territorio nazionale (Roggero, et al., 2009) che internazionale. Una review di studi internazionali sugli effetti psicologici e sociali della partecipazione in attività sportive da parte di ragazzi e adolescenti ha mostrato un miglioramento generale dell’autostima, delle capacità di interazione sociale e una riduzione di sintomi depressivi (Eime, Young, Harvey, Charity, & Payne, 2013). Gli effetti dell’attività sportiva, soprattutto se di squadra, sull’umore e sul minor rischio di sviluppare depressione sono stati confermati in un recente studio della Washington University di St. Louis (Gorham, Jernigan, Hudziak, & Barch, 2019).

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica – Pubblicato su State of Mind il 12 Febbraio 2020
  2. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto – Pubblicato su State of Mind il 19 Febbraio 2020
  3. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati – Pubblicato su State of Mind il 25 Febbraio 2020

Il trattamento multidisciplinare dei disturbi alimentari di tipo non nevrotico

La domanda di un soggetto che soffre di disturbi del comportamento alimentare implica una mobilitazione di risorse e competenze che devono sapersi costituire in rete in maniera stabile e continuativa nel tempo. La multidisciplinarietà dell’intervento, punto oggi imprescindibile, passa per una rigorosa divisione dei saperi.

 

Nella maggioranza dei casi, come in quelli sottoesposti, la prima richiesta d’aiuto, che non necessariamente contiene una domanda di cura, viene portata al medico di famiglia, il quale deve possedere strumenti ben tarati ed affinati per valutare l’effettiva presenza e l’entità di un disturbo dell’alimentazione. In questa prospettiva la presenza del nutrizionista è d’obbligo in quanto è a questa figura che si chiede e si demanda una valutazione dei parametri corporei del richiedente. Una valutazione non solo necessaria per la formulazione di una diagnosi appropriata di DCA, ma utile anche a fotografare il qui ed ora corporeo del soggetto in sofferenza,  viatico necessario per coadiuvare ed orientare il lavoro delle altre figure coinvolte.

La questione diagnostica è un elemento cruciale rispetto alla progettazione di un piano terapeutico riabilitativo centrato sulla singolarità del richiedente. Oggi infatti i parametri per definire i DCA sono oggetto di costante discussione: la diagnosi dell’anoressia nervosa è definita dai criteri del DSM IV e dell’ICD 10, ma si calcola che una percentuale dal 40 al 60% dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare non soddisfi i criteri diagnostici del DSM IV e questa indeterminazione appare potersi tradurre in una prognosi più problematica. Una buona parte di questi pazienti non ha però caratteristiche così lontane da quelle dei pazienti ‘codificabili’. Thomas, in una recente meta-analisi in vista della ridefinizione del DSM 5, sottolinea come alcuni dei criteri distintivi della Anoressia nervosa siano fragili. In particolare l’amenorrea e la soglia di dimagrimento non sembrano essere predittivi rispetto al decorso della malattia: uno studio che rivede questi due criteri permette di recuperare dalla categoria ‘Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati’ il 15,5% dei casi. Viceversa l’assenza della paura di ingrassare pare sia collegata ad un decorso più benigno e dunque potrebbe identificare un diverso sottogruppo.

La funzione dello psicoterapeuta è in prima istanza quella di garantire un percorso di soggettivazione, libero da parametri medici e nozioni di ordine nutrizionale. Un cammino che rinunci alle questioni ponderali che il soggetto sa essere affrontate e trattate in separata sede. In pratica, il clinico ha in un primo tempo il compito di togliere quell’etichetta che sovente ha intrappolato il paziente in un percorso che ne può impedire la rettifica soggettiva. Tali etichette rinforzano i processi identificativi che molti soggetti affetti da DCA difficilmente classificabili vanno cercando, fungendo da strumento capace di offrire un’appartenenza al ‘gruppo dei’, favorendo un temporaneo transito in una zona franca che ponga rimedio alla caduta di quei punti di riferimento dei quali parla Freud in ‘Psicologia delle masse e analisi dell’Io’. Anoressiche, Bulimiche, persone con Binge  Eating Disorder possono definirsi individui i quali, pur non conoscendosi tra loro, sentono di appartenere al gruppo ‘di quelli che hanno quella cosa’. Possono contare su un Altro virtuale, reperibile, che li tiene raggruppati.

Nei casi sotto descritti sembra venire a mancare quel requisito della monosintomaticità, non c’è stata l’inclusione o la ricerca di un’associazione che recluti in virtù di un identico tratto comune. La formulazione di una diagnosi differenziale condivisa assume dunque un valore maggiore quando ci si trova in presenza di soggetti a rischio di scompenso psicotico. Nelle psicosi compensate il corpo magro funge in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili non deflagrate.

In tal caso il concetto di ‘guarigione’ che sovente soddisfa il corpo medico, basato sul solo recupero ponderale, lavora contro il mantenimento dell’omesotasi raggiunta dal soggetto con il suo sintomo. Il lavoro del gruppo clinico, e qua fondamentale l’apporto dello psicoterapeuta, deve saper tradurre nel lessico medico concetti quali equilibrio, tenuta, compensazione, che spesso vanno al di là del semplice aumento di peso. In pratica l’aumento di peso non necessariamente significa guarigione, quanto l’abbandono di una posizione compensata che apre a squilibri più profondi.

Vediamo per exempla quanto descritto. I dati anagrafici, lavorativi e geografici dei casi descritti sono modificati in modo da rendere non riconoscibili i pazienti. Ne resta immutato il canovaccio di vita.

Lisa si rivolge al medico di famiglia a causa di forti dolori addominali che perdurano da circa due mesi. Gli esami ai quali il medico la sottopone evidenziano un grave prolasso delle pareti intestinali causati dalla perdita di peso. Lisa ha 22 anni, da poco più di due ha iniziato un dimagrimento che l’ha portata al di sotto dei 40 kg. Il medico la invia per una consultazione al locale ospedale dove il chirurgo le prospetta un intervento per ripristinare le pareti collassate. Un intervento risolutivo che lei rifiuta. Il medico la invia presso il mio studio con una nota ‘la ragazza rifiuta le cure. E’ refrattaria all’idea di guarire’. Due anni e mezzo fa è uscita dalla casa dei genitori con un uomo più vecchio di 5 anni. Lui se ne va circa un anno dopo, provocandole un crollo di una certa entità, che vede l’acuirsi della sua magrezza. Aveva già iniziato una dieta un anno prima di uscire di casa, ma quella separazione porta ad un esito drastico (30 kg in meno di otto mesi). Non fa ritorno dai genitori, ma si fidanza con un ragazzo conosciuto in discoteca e lo porta a casa sua. In pochi mesi questa storia ha termine. Chiama allora a convivere un vecchio amico di infanzia. Quando hanno inizio le sedute, costui è in procinto di andarsene.

L: Mia madre ha detto che, visto che Gianni (l’attuale coinquilino) sta per andarsene, sarebbe il caso di tornare là, con loro, ma io non tornerò mai più a casa con lei!
T: E perché?
L: Lei entra in camera, entra dappertutto. Per ogni cosa facciamo liti furibonde!

La vita con la madre viene descritta come un inferno: una presenza incombente e penetrante.

Poi, e questo è un ritornello che ritornerà in tutte le sedute, copre tutto con un ‘Ma io la amo. Lei è tutto per me’. Poi aggiunge: ‘I miei genitori non si sono mai accorti che stavo male. Oggi almeno con la questione del mio prolasso, vedono quanto soffro’. Per contro il padre è descritto non all’altezza, inerme e disinteressato a lei e alle vicende familiari. Le sedute seguenti sono un’alternanza di descrizioni di un rapporto impossibile, e frasi del tipo ‘ma non mi separeranno mica da mia madre, vero? Io non mi posso staccare da lei’.

Prima di uscire di casa, una lite con la madre, contraria a questa scelta, sfociò in un suo defenestramento.

Dopo la sua dipartita hanno continuato a frequentarsi regolarmente. Solo adesso dice che il primo ragazzo se ne andò anche per questo.

E’ passato un anno e mezzo dal primo colloquio e Lisa ha ripreso gran parte del suo peso. Ha trovato un piccolo lavoro serale per sopperire all’affitto che è venuto a mancare. La madre, dopo che ella ha dichiarato di non voler fare ritorno a casa, è scivolata in una depressione di una certa entità accompagnata da grave calo ponderale. Continuano a vedersi, alternando momenti di pace a feroci litigi causati dalla richiesta materna di ritorno a casa. Richiesta alla quale fa seguito un aggravamento della patologia rettale di Lisa, con conseguente ricovero in day hospital.

Quando Lisa è entrata nel mio studio il coinquilino era in procinto di andarsene, cosa che aveva provocato in lei una forte crisi d’angoscia. Un affetto che era giunto ad un culmine insopportabile, in tutto simile a quello provato al momento della separazione dal primo compagno, quando si aprirono le porte per un possibile ritorno dalla madre.

La costruzione anoressica di Lisa, iniziata tra le mura domestiche, non ha sortito nel tempo l’effetto di elemento separatore e protettivo. Ella ha pertanto dovuto aggiungere a ciò la presenza di un uomo per pagarsi una casa lontana dalla madre, anzi, più uomini in successione. Ecco allora l’origine dell’angoscia delle prime sedute, legata all’avvicinarsi della presenza materna fagocitante, angoscia che raggiunge il culmine quando la risposta al quesito cosa vuole l’Altro da me? appare nefasta: tornando a casa, lei può divenire l’oggetto preso. Ecco allora, cadute queste due putrelle, l’identificazione alla patologia rettale. Più attuale, ma conseguenza medica della magrezza fisica, sintomo più strutturato e antico. Un nuovo strumento col quale Lisa ricostruisce la barriera, più funzionale dell’armatura anoressica, che può quindi essere lasciata cadere. Da qua il significativo recupero ponderale che stupisce molti medici, che la ritenevano ‘guarita dall’anoressia’.

Questo rapporto semi simbiotico con la madre appare essenziale alle due per sostenersi. E’ qualcosa di non sopportabile, ma nemmeno di risolvibile. Non può stare troppo vicino a lei, ma allontanarsene sembra preludere a uno scompenso. Consapevole della natura fagocitante, cerca di renderlo il meno pericoloso possibile. Come un tossicomane che utilizza la droga come elemento curativo ad una sottostante struttura a rischio di scompenso, rendendola meno pura e più tollerabile, senza però mai mettere in dubbio la sua necessità di continuare ad assumerla.

Quando Lisa dice: ‘nessuno mi separerà da mia madre’, e ‘io lo so che la faccio soffrire non tornando a casa e a causa di questa mia malattia’, indica la volontà non dialettizzabile di mantenere il legame inalterato. Ci si aspetterebbe, in caso di nevrosi, un momento di elaborazione, di rettifica, che spinga il soggetto a prendere atto del rapporto causa effetto che governa il meccanismo.

Invece lei aggiunge: ‘Non so perché. Io e lei siamo legati in questo modo. Non mi chieda altro. Lo stare assieme non si discute’.

Con che tipo di anoressia abbiamo a che fare in questo caso? Un’anoressia durata circa tre anni e oggi ‘risolta’ in poco tempo in prospettiva peso/sopravvivenza. Questo rimanda alla questione della diagnosi differenziale. Lisa non ha mai operato alcuna rettifica in merito al suo dimagrimento. Mai ha domandato aiuto. Cioè non ha mai avvertito, come di solito avviene col nevrotico, che quel sintomo avesse raggiunto un livello di dolore non più gestibile tale da giustificare una messa in discussione. Non siamo quindi nell’ordine del sintomo nevrotico ‘dal quale il soggetto non chiede che di liberarsi’. Di più, l’attenuarsi dell’anoressia ha coinciso con l’adesione pressochè totale ad un altra forma di malattia, con la quale ha tutt’ora un identificazione totale.

Questa malattia:

  • le permette di tenere una giusta distanza dalla madre
  • le permette di far pagare alla madre qualche conto arretrato (‘anche lei adesso sta male!’)
  • le garantisce quel riconoscimento che con la fase anoressica non era mai arrivato (‘Ora vedono che sono ammalata’)
  • riesce ad agganciarsi ad un discorso medico, molto articolato, fatto di visite e ricoveri. Insomma l’Altro le riconosce lo status di malata e le dà un posto. Ecco allora che la patologia rettale, più che l’anoressia, le permette di reperire un significante col quale riesce ‘a farsi rappresentare e organizzare il (suo)  mondo’. Possiamo parlare di un elemento che funge da tenuta. Dunque non una produzione dell’inconscio, quanto piuttosto un elemento inanalizzabile. Nella prospettiva psicoanalitica lacaniana il sinthomo è un ‘elemento riparatore(..),una guarigione, un elemento terapeutico’. Qualcosa che ‘non è da interpretare, ma è da ridurre, e non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso’.

Un ponte che garantisce il contatto e la via di fuga, che per definizione, non può essere ‘guaribile’. Questo mi ha fatto riflettere sul furor sanandi di molti medici. A cosa sarebbe andata incontro se avesse accettato la proposta di ripristinare le sue pareti rettali strappandole di colpo un sintomo così elaborato? Avrebbe aperto le porte ad uno sfaldamento del soggetto? Non a caso lei ha detto no all’intervento.

F è una ragazza di 13 anni, che vedo in studio quando sta per dare l’addio alla vita, chiusa in una spirale anoressizzante che ha condotto lei e la famiglia sull’orlo del baratro. Ha peregrinato per diversi centri dedicati alla cura dei DCA, in Italia e all’estero, mostrando sempre una reazione avversativa alle imposizioni alimentari che di volta in volta le venivano prescritte. Quando la vedo le chiedo se abbia desiderio di parlare di qualcosa, qualsiasi cosa. Mi risponde: ‘Tutto, tranne che del mio peso. Non voglio diete, ordini, prescrizioni’. ‘Va bene’. Decido, assumendomi tutti i rischi che una scelta di questo tipo comporta, di non colludere con la questione alimentare con la quale lei ha cercato di tenere sotto scacco l’Altro familiare e sanitario. Stupendo i genitori, abituati ad una riottosità indomabile, ella accetta di proseguire le sedute e, anzi chiede di anticiparne alcune. Il tempo passa, il sintomo si scioglie. Momenti di abbuffata vincono la rigidità del controllo calorico, e riportano la ragazza in peso garantendo la sopravvivenza. Tuttavia, come avevo previsto, vista la severità del caso, si trattava di un anoressia di tipo psicotico, per cui l’attenuazione del sintomo sarebbe stato il prodromo ad una serie di progressivi cedimenti. Andava fatto, perché F. era vicina alla consunzione corporea. Questo mio movimento ha fatto esondare una melanconia pregressa, a sigillo della quale l’anoressia era stata posta, fatta di ritiro sociale ed isolamento con sensi di persecuzione in classe. Fenomeni che vengono ascoltati, accettai e con lei discussi, giorno dopo giorno, momento dopo momento, crisi dopo crisi. Non vi erano alternative. Questa ragazza si stava lentamente chiamando fuori dalla vita. Il mio atto deciso, quello di scegliere un altro discorso lasciando fuori dallo studio calorie e peso, ha significato la perdita di valore dello strumento anoressico come mezzo di contrattazione con l’Altro. Uno strumento ormai usurato, che stava conducendo la giovane ragazza al dissolvimento come i medici avevano ormai constatato senza poter fare nulla, poiché essa non rispondeva nemmeno più ai ricoveri coatti con alimentazione indotta serrando la bocca. Il modo col quale si fa da segretario al paziente nella fase post sintomatica, erroneamente scambiata da molti medici per guarigione, consiste in un’opera minuziosa di attenzione e cura dei minimi particolari di parola che ella lascia cadere. Dunque un ascolto incondizionato, una reperibilità telefonica pressoché costante. Un sostegno familiare e un appuntamento periodico con il corpo insegnate con lo scopo di dare loro strumenti clini per sostenere il cammino di F. Il meccanismo funziona. Lei non è più in pericolo di vita, questo è stato ben accettato da tutti. Quello che non viene accettato sono le intemperanze comportamentali, l’aggressività, la scelta di abbandonare alcune attività scolastiche privilegiandone altre. La violenza di stampo paranoico. Litiga spesso, si è iscritta ad una squadra di pallavolo. Porta tutto ciò che la spaventa in studio. (‘Lo so che non è del tutto vero! Ma nella partita di sabato, due avversari mi guardavano male, in modo tale da farmi arrabbiare!!’).

Sono sopraggiunte allucinazioni notturne, non ben definite, ma avvertire con lucidità. A tale scopo è trattata con antipsicotici.

Manuale di intervento sul trauma. Comprendere, valutare e curare il PTSD semplice e complesso (2019) di A. Montano e R. Borzì – Recensione del libro

In Manuale di intervento sul trauma le autrici guidano il lettore nella conoscenza del trauma psichico, esplorando le diverse definizioni e classificazioni più ampiamente accettate nel panorama psicologico e psichiatrico contemporaneo ed esplicitando la natura, l’intensità, la frequenza e i fattori concorrenti allo sviluppo dello stesso.

 

Nella prima parte di Manuale di intervento sul trauma forniscono, anche a chi è digiuno dell’argomento, una cornice teorica e clinica secondo cui leggere le caratteristiche del trauma semplice e complesso, non tralasciando due aspetti particolarmente rilevanti per l’attuale comprensione del tema: l’impatto che questo ha a livello corporeo e la conseguente centralità dell’aspetto fisiologico. Le conseguenze del trauma sul sistema nervoso centrale e sul sistema nervoso periferico vengono così discusse dettagliatamente insieme all’enorme contributo offerto negli ultimi vent’anni dalle neuroscienze.

Il manuale prosegue facendo un’analisi approfondita sulla relazione con il fenomeno del LGB, mettendo in evidenza i paradigmi teorici, i costrutti e gli studi empirici prodotti in quest’ottica in relazione al trauma. Le autrici spiegheranno in modo impeccabilmente scientifico come, in termini di rischio di psicopatologia nelle persone LGB, nel tempo si sia assistito a un cambiamento di prospettiva radicale: invece di osservare la co-occorrenza di orientamenti non eterosessuali e presenza di patologia, e di interpretare la prima come indicativa della seconda o entrambe come riconducibili a eventi stressanti e traumatici precoci, la ricerca ha cominciato a interessarsi a come, nella cultura dominante, l’essere gay, lesbiche e bisessuali portasse con sé una maggiore vulnerabilità̀ ad alcuni stressors e alle loro sequele.

Nell’ultima parte del libro ci si addentra nel campo applicativo di questo complesso argomento: le autrici descrivono in modo dettagliato tutti i fattori da prendere in considerazione per una buona anamnesi e un’attenta concettualizzazione del caso che tenga conto non solo del sintomo ma di tutti i fattori predisponenti e precipitanti del paziente traumatizzato. Proseguono attraverso un excursus dei vari approcci terapeutici rivolti alla traumatizzazione semplice e complessa, senza dimenticare di fare una breve digressione e discutere di alcuni concetti fondamentali per comprendere il processo di guarigione.

Un manuale completo e molto chiaro, che tratta le difficoltà dell’argomento in modo semplice ma affatto banale, fornendo al lettore una conoscenza approfondita, aggiornata e scientifica del tema.

 

La pillola anticoncezionale: effetti sul cervello e sull’efficacia cognitiva

La pillola anticoncezionale o pillola contraccettiva è un farmaco ormonale reversibile, utilizzato per la prevenzione del concepimento; tra i vari metodi contraccettivi la pillola anticoncezionale è risultata essere quella con la più alta percentuale di efficacia (Bradshaw, Mengelkoch, & Hill, 2020).

 

Si stima che la pillola anticoncezionale sia utilizzata da più di 100 milioni di donne nel mondo; proprio a causa dell’elevata diffusione, sempre più studi scientifici stanno indagando gli effetti che l’uso di questi contraccettivi provoca nell’organismo.

Un iniziale studio condotto nel 2017, dimostrò che le donne che assumevano regolarmente la pillola anticoncezionale estro-progestinica, mostravano livelli di cortisolo elevati, ormone prodotto dalle ghiandole surrenali, in risposta a stimoli stressanti prolungati nel tempo (Hertel et al., 2017).

Gli effetti del cortisolo sul corpo umano sono ben noti, in particolare si delinea un aumento del battito cardiaco, della glicemia, e la diminuzione delle difese immunitarie. Inizialmente il cortisolo risulta utile per fronteggiare lo stimolo stressante, dato che favorisce l’inibizione delle funzioni corporee non indispensabili, garantendo un massimo sostegno agli organi vitali. Tuttavia, il persistere nel lungo termine di questo ormone nel sangue, risulta essere dannoso per il nostro organismo (Hertel et al., 2017).

Sono stati anche individuati effetti della pillola anticoncezionale estro-progestinica sulla struttura e sulle funzioni cerebrali: in particolare si evidenziano delle alterazioni (nello specifico una deattivazione) a livello della corteccia prefrontale la quale è deputata al controllo delle funzioni esecutive. Un calo dell’attività cerebrale in quest’area porterebbe a problemi comportamentali, come la capacità di inibire un comportamento, problemi di attenzione, di apprendimento e di memoria (Petersen, Kilpatrick, Goharzad, &Cahill, 2014). Si denota inoltre una diminuzione del volume dell’ippocampo, altra zona fondamentale per la memoria a lungo termine (Hertel et al., 2017).

Uno studio condotto su 324 donne, la metà delle quali assumevano regolarmente la pillola anticoncezionale estro-progestinica, si è proposto di indagare eventuali differenze nella performance cognitiva tra donne ‘user’ della pillola e donne ‘non user’. A tale scopo i due gruppi sono stati sottoposti ad una serie di esercizi cognitivi:  venivano per esempio mostrate due immagini apparentemente simili chiedendo di trovare dieci differenze nel minor tempo possibile. I risultati mostrano una differenza di punteggio medio significativa tra i due gruppi: le donne che assumono la pillola ottengono un punteggio più basso rispetto a coloro che non la usano (Bradshaw et al., 2020).

Gli effetti della pillola anticoncezionale sul corpo umano sembrano essere molteplici, gli studi a riguardo attualmente non sono molti e mostrano inoltre dei limiti metodologici importanti, trattandosi principalmente di studi pilota; tuttavia i ricercatori, stando a questi risultati preliminari, sottolineano la necessità di studi futuri per comprendere in maniera più approfondita gli effetti a livello fisico, cerebrale e psicologico di questa pratica anticoncezionale (Bradshaw et al., 2020).

Il consumo di sostanze psicoattive in adolescenza

L’uso di sostanze in età adolescenziale è molto diffuso e più essere letto come uno dei comportamenti, volto alla sperimentazione, messi in atto in questo delicato momento dello sviluppo. Bisogna fare attenzione però a non sottovalutare il problema.

 

Il tema dell’abuso di sostanze occupa un posto importante nell’analisi dello sviluppo dell’essere umano e, in particolare, nell’età adolescenziale. Diversi studi in ambito epidemiologico hanno messo in luce come l’adolescenza sia l’età in cui si entra in contatto per la prima volta con le sostanze e si sperimentano la maggior parte di queste. Questo comportamento non è da considerare un fattore decisivo per la cronicizzazione del loro uso, in quanto può essere letto come una sperimentazione, così come altri comportamenti messi in atto dall’adolescente per ricercare la propria autonomia e la propria identità (Newcomb & Bentler, 1989; Passini, 2016).

Questa visione, tuttavia, non deve portare a sottovalutare il problema, in quanto il consumo di sostanze rientra tra i comportamenti a rischio che possono avere, a breve o a lungo termine, un’influenza sullo sviluppo globale dell’individuo sia dal punto di vista fisico che psicologico e sociale (Ravenna, 1997). L’incontro iniziale con le sostanze giunge, quindi, in un periodo della vita molto particolare e complesso, in cui autonomia e dipendenza entrano in conflitto e l’adolescente cerca di costruire la propria identità e di ristrutturare il proprio concetto di sé, uno dei compiti di sviluppo fondamentali nell’adolescenza (Palmonari, 2011). L’uso di sostanze può allora diventare il modo con cui il ragazzo fronteggia o evade dai momenti complessi o difficili da gestire della sua età e/o un aiuto per gestire sentimenti di inadeguatezza e stati emotivi e psicologici negativi, tra cui l’ansia e l’incertezza. Essendo, d’altronde, l’identità dell’adolescente in costruzione e ancora non ben definita, bisogna fare attenzione che l’uso di sostanze non diventi un vero e proprio elemento che definisce il Sé dell’individuo (Palaretti, Emiliani & Passini, 2012).

Ma perché gli adolescenti possono decidere di usare sostanze psicoattive? Sono diverse le motivazioni che spingono i più giovani a fare uso di sostanze psicoattive e conoscerle permette di entrare in contatto con i desideri, i bisogni e le difficoltà che si incontrano in questa fase di sviluppo. Tra le principali motivazioni che sono state collegate all’uso di droghe, Ravenna (1997) evidenzia le seguenti:

  • la facilitazione sociale: riguarda l’uso di sostanze per facilitare il rapporto con gli altri, agevolare la comunicazione e la condivisione di sentimenti ed esperienze tra coetanei. Inoltre, l’assunzione in gruppo di una certa sostanza può aumentare la percezione di similarità tra i membri del gruppo di amici, utile per la coesione del gruppo;
  • la reputazione sociale: l’avvicinamento alle sostanze non è solo connesso alla socialità, ma anche al bisogno di esprimere la propria reputazione sociale. Gli adolescenti che fanno uso di sostanze presentano agli altri, consapevolmente o inconsapevolmente, un’immagine di sé quale trasgressiva e che devia dalla norma, attribuendo a queste caratteristiche un valore positivo;
  • l’ampliamento del Sé: fondamentale nell’adolescenza, come detto in precedenza, risulta essere lo sviluppo del Sé (Palmonari, 2011); proprio per questo l’adolescente potrebbe avvicinarsi alle sostanze, in quanto esse danno la possibilità di accedere a diverse immagini di se stessi, che spesso differiscono dal Sé reale percepito come incompleto o non soddisfacente, così da avvicinarsi a modelli e Sé ideali;
  • la regolazione delle emozioni: l’uso delle sostanze può essere motivato anche dal voler regolare e controllare i propri stati emozionali, ridurre le sensazioni e le emozioni vissute come spiacevoli e fare esperienza di stati emotivi positivi;
  • la ricerca di sensazioni forti: in adolescenza risulta essere presente il bisogno di ricercare nuove sensazioni (sensation seeking) e sia una certa propensione ad assumere rischi a livello fisico e sociale, sia la ricerca del divertimento e la curiosità di sperimentare sensazioni forti e nuove per contrastare una visione del mondo come noioso e ripetitivo;
  • la riduzione di stati di disagio: l’uso di sostanze può essere motivato da un desiderio di riduzione del disagio percepito dall’adolescente che, proprio in questo periodo specifico dell’arco della vita, spesso sente di non rispondere efficacemente alle richieste dell’ambiente;
  • l’aumento delle prestazioni: le pressioni sociali e la forte competizione interpersonale potrebbero spingere l’adolescente a considerare le sostanze come un valido aiuto per migliorare le proprie prestazioni e diminuire il divario tra i propri “limiti” personali e le richieste dell’ambiente.

Emerge, dunque, che l’uso di sostanze per gli adolescenti investe diverse funzioni molte delle quali sociali e di definizione della propria identità; ciò ci porta a interpretare il comportamento dell’adolescente, seppure dannoso, come dotato di senso e di un significato.

I fattori di rischio che possono portare ad una traiettoria di abuso di sostanze sono quelli che contribuiscono all’iniziazione e alla continuazione dell’uso; i fattori di protezione sono quelli che riducono il rischio di iniziazione ed una prosecuzione dell’uso delle sostanze e che promuovono lo sviluppo sano dell’adolescente (Sussman & Ames, 2001).

La classificazione dei fattori di rischio e di protezione rispetto all’uso di sostanze psicoattive di Hemphill e colleghi (Hemphill et al., 2011) pone molta attenzione agli aspetti sociali, ampliando il modello di riferimento biopsicosociale in senso socioambientale. Ritengo sia molto utile porre l’accento su questi fattori, in quanto, soprattutto in adolescenza, l’individuo si definisce nell’interazione continua con la comunità, la famiglia, l’ambiente scolastico e il gruppo dei pari; inoltre, essa risulta essere particolarmente utile in quanto esamina i medesimi fattori, sia come rischio sia come protezione. I fattori sono visti non come indicatori singoli e separati tra loro, ma piuttosto in continua interazione:

  • fattori di rischio e di protezione comunitari: questi fattori si riferiscono all’influenza esercitata sull’adolescente dall’ambiente sociale in cui si muove, che può promuovere la salute mentale o divenire fattore di rischio;
  • fattori di rischio e di protezione familiari: le modalità relazionali nel contesto familiare possono contribuire a portare l’adolescente a trovare nelle sostanze un conforto che non viene percepito in famiglia, ma esse possono essere anche dei fattori di supporto e di protezione per lo sviluppo del benessere psicosociale dell’adolescente;
  • fattori di rischio e protezione scolastici: l’andamento scolastico e l’ambiente scuola possono indurre l’adolescente ad avvicinarsi o meno all’uso di sostanze psicoattive;
  • fattori di rischio e protezione legati ai pari: molti studi hanno sottolineato che il rapporto con il gruppo dei pari può essere uno dei più rilevanti fattori di rischio per portare all’abuso di sostanze (Van Ryzin, Fosco & Dishion, 2012). Ma anche la relazione con i pari può, d’altra parte, divenire fattore protettivo, dato che le pressioni sociali possono avere un effetto positivo ed essere utilizzate nella prevenzione;
  • fattori di rischio e protezione individuali: non solo l’ambiente e le relazioni sociali, ma anche atteggiamenti, credenze e caratteristiche di personalità possono essere fattori di rischio e di protezione (Hemphill et al., 2011).

I molteplici contesti sociali, tra cui la famiglia, così come i fattori individuali possono essere, come abbiamo visto, sia fattori protettivi che di rischio e risulta essere fondamentale proprio ai fini della prevenzione e della cura potenziare la loro funzione protettiva e cercare di limitare gli aspetti che potrebbero comportare un potenziale rischio.

 

La gelosia e il famigliare nel 1600 – Dal corpo familiare all’anima famigliare

Esiste una identità della persona che prova gelosia che la porta a vivere e operare nel tentativo di risolvere il dubbio fondamentale dell’intera esistenza: che cosa ha più di me per meritarsi la sua passione e il suo amore?

 

Durante il XVII secolo, cambia di nuovo il contesto in cui si inseriscono le relazioni familiari. Cigoli, continuando l’analisi della pittura di famiglia, fa rilevare che inizia a delinearsi la complicità di coppia:

i segni dell’affetto familiare non coincidono più con il mero rispetto e con le attese di fedeltà e di fecondità, ma si aprono all’attenzione verso la donna: è lei che merita lo sguardo tenero ed è con lei che si scambia lo sguardo complice, segno dell’erotismo di coppia da cui gli altri sono esclusi.

Nella letteratura Madame la Fayette in La Principessa di Clèves descrive il sacrificio estremo di Mademoiselle de Chartres all’ethos familiare. Sposata al Principe di Clèves si innamora del Duca di Nemours senza però mai cedere all’adulterio nemmeno quando rimane vedova. Oltre all’intimità entra in scena la fedeltà al patto matrimoniale. La Principessa di Clèves rivela addirittura a suo marito l’amore per un altro uomo e nel momento in cui quest’ultimo muore per gelosia, si ritira a fare vita quasi eremitica. Per dirla con Boszormenyi-Nagi e Spark, si dimostra totalmente leale al sistema anche quando, dal punto di vista etico-legale, poteva essere libera di amare.

Ritorna insieme all’etica l’assoluta obbedienza ai principi cristiani. Manzoni ne I Promessi Sposi, romanzo scritto nel 1800 ma ambientato nel 1600, dà un ruolo determinante alla provvidenza che riesce a riportare giustizia, fiducia e speranza all’interno di un mondo piegato dai potenti. Renzo e Lucia, con l’aiuto della provvidenza, riescono a coronare il loro sogno d’amore sconfiggendo i signorotti dell’epoca. Il romanzo ha anche il merito di portare alla ribalta non solo la storia delle famiglie nobili e borghesi ma anche quella delle classi più umili che ricevono a loro volta l’attribuzione del sacro (Cigoli).

E’ all’interno di queste classi che il pathos riceve la massima considerazione e smuove la provvidenza rappresentata da Fra Cristoforo e dal Cardinale Federigo Borromeo. Emblematica è la figura di Agnese, madre di Lucia, che aiuta disperatamente la figlia ad unirsi in matrimonio con Renzo pur potendo avere come genero un nobile spagnolo come Don Rodrigo. Si prende cura della figlia accettando la sua autonomia e i suoi desideri. Ha fiducia nelle capacità della figlia e viene adeguatamente ricambiata.

Di contro, in riferimento ai passaggi generazionali, troviamo la Monaca di Monza che, costretta dai genitori a vestire l’abito talare, si ribella facendo vita dissoluta. Il papà di Gertrude si prende cura della figlia senza riuscire a donarle l’autonomia e la costringe a una esistenza inautentica. Esistenza inautentica che troviamo anche nella Monaca di Diderot. Ancora una volta un padre che per garantire l’eredità agli altri figli costringe una figlia a scegliere la vita di convento.

Accanto a I Promessi Sposi, un altro romanzo storico ambientato nel 1600: La Lettera Scarlatta di Hawthorne. Anche in questo romanzo un’altra eroina, la protagonista Hester, inserita all’interno del dramma legato al contrasto tra ethos e pathos. Hester viene esposta al pubblico ludibrio con una A di colore scarlatto ricamata sul petto in quanto adultera. La accompagna sul carro con il quale è costretta ad attraversare la città la figlia Pearl, frutto del peccato commesso.

Il simbolo dell’adulterio, la A di colore scarlatto, Hester se la ricama da sola, non solo in un impeto di coraggiosa dignità, ma anche per dare un significato preciso al suo gesto di autonomia. Il pathos la porta alla disobbedienza facendo una scelta di autonomia a cui, come abbiamo già visto, il sistema risponde considerandola una traditrice (adultera).

Hawthorne arrichisce il romanzo di una serie di simboli che danno il segno delle relazioni intra ed extra-familiari oltre che sul piano generazionale. Innanzitutto i colori con cui vengono rappresentati i personaggi e la loro storia. Lo scarlatto di Hester, simbolo della passione e dell’amore; il bianco di Pearl, la figlia, simbolo della purezza; il nero sempre di Hester, simbolo della colpa.

Il rosso è il colore dell’amore, sia terreno che spirituale, basti pensare al Sacro Cuore di Gesù, della passione, dell’attività, delle emozioni, del sentimento, dell’espansività, della vivacità, del sangue inteso come vita. E’ anche il colore della carnalità e delle prostitute. Nell’Apocalisse la grande prostituta è ammantata di porpora e di scarlatto. E’ anche il colore del sacrificio. Le confraternite nel passato vestivano di rosso in onore del sacrificio di Gesù per la salvezza degli uomini.

Nel contempo Hester è vestita di nero, il colore della colpa. Esso esprime l’assenza della luce ed è il colore del caos, del primitivo, della distruzione, della catastrofe. E’ il colore dell’intransigenza, dell’intolleranza, della sventura della morte (lutto/depressione). Quando viene scelto si sente il bisogno di esprimere protesta, opposizione, aggressività. Quando viene rifiutato esprime insofferenza per qualsiasi rinuncia, per tutto ciò che costringe. Scandisce i momenti di passaggio e di trasformazione, nel senso che è il colore che precede e succede alla vita.

In effetti Hester, mettendo al mondo una figlia in assenza del marito e non volendo rivelare il padre, attacca in modo significativo il polo etico della famiglia in funzione del pathos e, nel contempo, è consapevole del dramma generazionale che esprime nella seguente frase: Quel dono, quella dote, se non proprio scomparsa, era in sospeso, immobile dentro di me. L’immobilismo è il non passaggio, è il rifiutarsi di vestire il nero ma essere costretti ad indossarlo. Ecco, allora, la voglia e l’orgoglio, ricamandosi la A scarlatta sul petto, di voler trasmettere alla figlia il valore del pathos. Solo avendo fiducia e speranza che il dono dell’amore possa essere ricambiato riesce a riconquistare, anche se per poco tempo, Dimmesdale, il padre della bambina di cui non vuole rivelare il nome.

Il bianco, il colore del vestito della figlia Pearl, non è solo simbolo di purezza ma anche di trasparenza, di nuova vita. Il bianco vuol dire andare oltre lo spettro dei colori così come Pearl viene attratta dal dono della mamma: la A scarlatta ricamata sul petto, ovvero un nuovo tipo di legame basato sull’amore. Il bianco è anche il colore della luce. Cigoli nota che in molti quadri del ‘500 i personaggi vengono illuminati dalla luce che esce dagli occhi di Gesù Bambino. In molti quadri presenti nelle chiese, la conversione intesa come nuovo legame con il sacro passa attraverso la luce che rappresenta il dono dell’amore divino. La luce è rivelazione, permette di uscire dall’oscurità, dalle tenebre. L’espressione mettere in luce vuol dire prendere in considerazione, dare importanza, mettere in rilievo ciò che è nascosto. Pearl è vestita di bianco e in quanto vestita di bianco, piena di luce, è il simbolo della trasmissione di un nuovo messaggio generazionale rappresentato dall’attrazione che ella prova per la A scarlatta. Giustamente Cigoli fa riferimento alla teoria di Winnicott sul rispecchiarsi. La luce permette di guardarsi negli occhi, di rispecchiarsi. Pearl si rispecchia nella A ricamata sul petto della madre che diventa l’oggetto transazionale del legame filiale. Se la relazione insita nel rispecchiarsi è funzionale alla costruzione del sé, non vi è dubbio che la A scarlatta costituisce il dono della madre alla figlia.

Boszormenyi-Nagi e Spark, nel rilevare che le relazioni sono contraddistinte da equità e reciprocità, affermano che è

importante capire l’implicazione del ruolo del figlio quale inconsapevole sfruttatore potenziale di un genitore, dato che il figlio ha diritto a ricevere in cambio di niente. Molti genitori sentono che non è loro permesso lamentarsi della sensazione di essere sfruttati, e inconsapevolmente coprono questa sensazione con iperprotettività, un’iperpermissività, una devozione da martire e altri atteggiamenti difensivi.

In effetti Pearl, definita ‘bambina folletto’ per il suo carattere evanescente, nel romanzo cresce ribelle, piena di fantasie e selvaggia. La mamma, spesso, la veste in modo da poterne esaltare la bellezza.

Hester sente forte la responsabilità nei confronti della figlia: se esiste un vincolo generativo (…) esiste anche un vincolo a decidere che fare della propria storia generazionale. Hester decide di dover donare l’amore, il pathos.

D’altronde lo stesso Cigoli, ci informa che nei passaggi generazionali vi è il trasmettere, il tramandare ma anche il trasgredire inteso come il compito che ‘tocca alla nuova generazione’ ovvero di ‘procedere al di là di ciò che è dato nello scambio generazionale reinventandolo’.

Altro simbolo presente nel romanzo di Hawthorne è la gelosia impersonificata da Roger Chillingworth che si spoglia della sua identità pur di conoscere l’uomo con cui la moglie ha avuto una relazione durante la sua assenza. Esiste una identità della persona gelosa la quale vive e opera nel tentativo di risolvere il dubbio fondamentale dell’intera esistenza: che cosa ha più di me per meritarsi la sua passione e il suo amore?

La gelosia, come abbiamo detto, è il frutto avvelenato di un dono perverso che si struttura durante i processi generativi. Una volta instaurato il dubbio, la sua soluzione diventa lo scopo della vita coinvolgendo e sconvolgendo l’intera esistenza.

E’ talmente irrazionale che non riesce neanche a calcolare i rischi insiti nei comportamenti e nelle azioni. Roger, nel momento in cui individua l’amante segreto della moglie, cerca il modo migliore per uccidere il suo rivale. Di fatto contribuisce a far scappare insieme i due amanti insieme alla figlia.

Infine vi è la figura di Dimmesdale, il padre della bambina, che è il simbolo del rapporto con il sacro e con l’egocentrismo inteso come mancata capacità a donarsi. Egli è un giovane reverendo ed anche un colto teologo molto apprezzato per le sue prediche. Vive nel rimorso fino a stare male, ma non riesce ad assumersi la responsabilità di rivelare che è lui il padre della bambina. L’assunzione di responsabilità comporterebbe l’interruzione del rapporto di esclusività che, nella sua qualità di reverendo, ha con Dio. Nello stesso tempo non riesce a donarsi alla donna che ama. Se da un lato c’è Hester che sceglie il pathos e nel momento in cui fa la scelta cerca di modificare l’ethos, dall’altro lato c’è Dimmesdale che non riesce a compiere una scelta. Tocca ad Hester indurlo a fuggire una volta che il marito ha scoperto la loro relazione. Vive continuamente nella non scelta, tra il confessare il peccato e tenersi il segreto. Emblematica è la morte per emozione quando decide di rivelare la verità. In quel momento molti vedono la A scarlatta stampata sul petto simbolo del legame con Hester.

La morte come simbolo della rinascita: Dimmesdale rivela il suo legame attraverso la A stampata sul petto;  Hester viene ammirata dopo la morte nel luogo in cui viene seppellita accanto alla tomba di Dimmesdale con una A che unisce i due loculi.

La relazione può risorgere se viene reinterpretata, se rinasce la speranza e la fiducia.

 

Liberati dalla gelosia (2019) di D. Algeri – Recensione del libro

Liberati dalla gelosia di Davide Algeri è un manuale pratico per conoscere la gelosia, capirne l’origine, come le motivazioni profonde, e affrontarla in maniera funzionale attraverso strategie efficaci.

 

Davide Algeri, psicoterapeuta con specializzazione in sessuologia clinica, in Liberati dalla gelosia approfondisce in maniera competente il tema della gelosia, mantenendo una prospettiva divulgativa. Il volume quindi può essere utile sia per il lettore inesperto, che come strumento per il professionista.

La gelosia è un sentimento umano, fa parte della nostra gamma emotiva e ha lo scopo di segnalarci la possibilità della perdita di un oggetto d’amore per opera di una terzo. Non riguarda solo le relazioni amorose, possiamo sentirci gelosi di un amico o dei nostri genitori in presenza di fratelli o sorelle.

La gelosia diventa problematica quando diventa un’ossessione costante, soprattutto per l’impatto che potrebbe avere sulle nostre relazioni quando viene agita attraverso i comportamenti.

Spesso viene associata all’amore, ma in realtà ha molto più a che fare con temi personali come i valori, l’insicurezza, la bassa autostima, il controllo e la possessività.

La struttura dell’opera procede all’approfondimento del tema in cinque capitoli. Si parte da un inquadramento generale sulla gelosia, differenziandone i diversi tipi; non solo quella normale di una coppia sana contro quella patologica della coppia disfunzionale, ma anche la gelosia emotiva rispetto a quella sessuale, quella ossessiva e quella retroattiva, ognuna con differenti caratteristiche e origini.

Nel secondo capitolo del volume si approfondisce il profilo del geloso in un’ottica evolutiva. La gelosia che può provare un bambino nei confronti di chi presta le prime cure, la madre generalmente, nella relazione di attaccamento, non ha la stessa sostanza della gelosia tra adolescenti, quando i rapporti sono vissuti in modo assolutistico. Ancora diversa è la gelosia tra adulti, positiva o dannosa, a seconda dell’effetto di miglioramento o rovina nella relazione con il partner.

Nel terzo capitolo di Liberati dalla gelosia si passa ad approfondire il ruolo della cosiddetta “vittima”, il partner oggetto della gelosia, che in alcuni casi contribuisce a farla sviluppare e a mantenerla con comportamenti ambigui e manipolatori, dove non sempre è chiaro il confine tra involontario e deliberato.

Non viene lasciato inesplorato nemmeno il ruolo dei social network nell’influenzare la gelosia patologica nelle relazioni. Applicazioni come Instagram e Facebook hanno di fatto cambiato il modo di vivere la coppia, permettendo una vicinanza costante e l’apertura di una finestra sulla vita quotidiana e passata del proprio partner, inedita e facilmente violabile.

L’ultima parte viene riservata agli esercizi di stampo cognitivo-comportamentale per recuperare l’autocontrollo e la gestione della gelosia, per salvaguardare la propria salute mentale e per salvare la relazione messa a rischio da un’emozione così invadente e potenzialmente dannosa.

Liberati dalla gelosia è un’opera scorrevole che offre una panoramica generale sulla gelosia, la sua composizione e le diverse sfaccettature. Il libro ha anche il pregio di approfondire non solo il profilo del geloso, ma anche di soffermarsi sul possibile impatto che questa emozione può avere sulla controparte e quale può essere il suo ruolo attivo in alcuni casi.

Gli esercizi, allo stesso modo, si rivolgono sia alla persona gelosa – per il miglioramento di alcune aree, come quella dei pensieri automatici, della consapevolezza emotiva, dell’autostima – sia alla “vittima” potenziale o reale della gelosia, con una serie di strategie per evitare che venga alimentata portando a conseguenze anche pericolose per la propria incolumità.

 

Droghe psichedeliche: quando il loro utilizzo potrebbe avere risvolti inaspettati

Un recente studio ha dimostrato che c’è una relazione tra gli effetti acuti dovuti all’utilizzo di droghe psichedeliche e la diminuzione soggettiva di ansia e depressione (Davis, Barrett, & Griffiths, 2020).

 

 Ansia e depressione, con una prevalenza lifetime rispettivamente del 10% e del 13%, sono due tra i disturbi psicologici più comuni rilevati nella popolazione (Steel et al., 2013). Date le alte percentuali di prevalenza, molte sono attualmente le procedure terapeutiche a disposizione per coloro che soffrono di tali problematiche; tuttavia, vi sono ancora un gran numero di persone che non hanno accesso a queste terapie (Collins, Westra, Dozois, & Burns, 2004) o che non ne traggono giovamento (Hofmann et al., 2012). A partire da questa osservazione i professionisti nel campo della salute sono tutt’ora alla ricerca di nuovi orizzonti terapeutici per il trattamento di ansia e depressione.

Un’area che negli ultimi anni ha destato un notevole interesse è quella dell’azione positiva che alcuni composti psichedelici come l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico) o l’ayahuasca, se somministrati in un ambiente controllato, sembrano avere nell’ambito della psicoterapia (Carhart-Harris, et al., 2016; Davis et al., 2019). Le sostanze in questione, agendo principalmente come agonisti della serotonina, causano modificazioni nella percezione, nell’umore e nel comportamento (Araùjo et al., 2015), rivelandosi in alcuni casi utili a ridurre i sintomi dell’ansia e della depressione, se uniti alla psicoterapia (Johnson & Griffiths, 2017).

Una possibile variabile che alcuni autori hanno ipotizzato rappresenti il mediatore tra la diminuzione dei sintomi ansiosi e depressivi e l’effetto delle droghe psichedeliche è la flessibilità psicologica (Kuypers et al., 2016; Sabucedo, 2017). La flessibilità psicologica è qui definita come l’insieme dei processi che aiutano gli individui a gestire lo stress; è un costrutto che rappresenta la capacità di sviluppare un buon adattamento alle varie situazioni della vita e di mantenere un equilibrio tra i diversi impegni quotidiani, senza lasciarsi sovrastare da questi (Davis et al., 2020).

Il presente studio, con un campione di 985 maggiorenni, si è posto l’obiettivo di indagare la flessibilità psicologica come potenziale mediatore tra l’effetto di droghe psichedeliche (in particolare LSD, mescalina, ayahuasca, peyote, salvia/salvinorum e N-DMT) e la diminuzione dell’ansia e della depressione. I dati dello studio sono stati raccolti in un sondaggio anonimo online, invitando individui che avevano riferito di almeno un’esperienza psichedelica in passato. I partecipanti erano tenuti a segnalare quale sostanza psichedelica avessero usato, la dose (Bassa, Moderata, Moderatamente alta, Alta), la somministrazione (cioè orale, sublinguale, endovenosa, intranasale) e il periodo di tempo trascorso dall’esperienza. Per avere una misura della flessibilità psicologica è stato utilizzato il Acceptance and Action Questionnaire II (AAQII; Bond et al., 2011) che gli intervistati hanno completato riferendosi alle sensazioni precedenti e successive all’esperienza psichedelica.

I risultati hanno mostrato che gli effetti psichedelici erano significativamente associati a una diminuzione nei sintomi ansiosi e depressivi. Inoltre, all’aumentare della flessibilità psicologica diminuivano i sintomi di ansia e depressione a seguito di un’esperienza psichedelica. In conclusione, il presente studio conferma l’ipotizzato ruolo di mediatore della flessibilità psicologica tra gli effetti psichedelici acuti dovuti alle sostanze precedentemente citate e la diminuzione di ansia e depressione.

Le future ricerche dovrebbero esplorare se tali effetti terapeutici possano essere potenziati dalla “psichedelic-assisted therapy”, incentrata sui processi di cambiamento all’interno di un modello di flessibilità psicologica (Davis et al., 2020), dal momento che l’assunzione in autonomia di tali sostanze ai fini di automedicazione può avere importanti side-effects.

 

Dalla rappresentazione cognitivo-affettiva durante la gravidanza alla relazione madre-bambino: mentalizzazione, funzione riflessiva e mind-mindedness

Dagli anni novanta studiosi psicoanalisti hanno esaminato la relazione tra stati mentali e caregiving proponendo la presenza di processi cognitivo-affettivi e relazionali e portando all’individuazione di tre costrutti: mentalizzazione, funzione riflessiva (genitoriale) e mind-mindedness.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Durante la gravidanza vi sono dei processi cognitivi che preparano la futura mamma a ‘pensare’ e quindi ‘prendersi cura in futuro’ del proprio bambino. Infatti un costrutto di caregiving come l’attaccamento preparto è stato studiato per mettere in relazione questo pensare nel presente in vista di azioni future e nello specifico come lo stato mentale della donna in gravidanza riguardo al proprio bambino possa influenzare positivamente la relazione tra i due, e di conseguenza lo sviluppo affettivo e cognitivo del bambino (McMahon, 2016). In questo articolo verranno analizzati quei costrutti che hanno origine da teorie psicoanalitiche riguardo la trasmissione intergenerazionale dei pattern di attaccamento, con particolare attenzione al periodo della gravidanza.

Esistono evidenze di come la rappresentazione mentale dei propri pattern di attaccamento influenzi positivamente l’attaccamento del proprio bambino (Main, 2005). Dagli anni novanta studiosi psicoanalisti hanno analizzato questo fenomeno proponendo altri processi cognitivo-affettivi e relazionali.

Dalla letteratura emergono, essenzialmente, tre costrutti riguardo stati mentali e caregiving: mentalizzazione, funzione riflessiva (genitoriale) e mind-mindedness.

Per mentalizzazione si intende l’abilità di interpretare e predire il comportamento di sé e degli altri in relazione ai propri stati mentali (Fonagy, 1991). La mentalizzazione è quella capacità di integrazione di stati cognitivi e affettivi: pensare ai sentimenti e sentire i propri pensieri (Slade, 2005a). Quindi è in parte un processo cognitivo, di comprensione individuale, simile all’insight, e in parte un processo affettivo di mantenimento, regolazione ed esperienza dell’emozione, simile, ma diversa, dall’empatia (Slade, 2005a). Questa è la mentalizzazione nella sua definizione generale, applicabile a qualsiasi relazione tra individui.

Che cosa succede tra un genitore e il proprio figlio? I genitori possono essere razionalmente consapevoli delle difficoltà prenatali e immaginare e pensare al proprio bambino. Il focalizzarsi sull’esperienza e su stati mentali, entrambi sul proprio sé e su quello del feto, è ciò che rende diversa la mentalizzazione da altri processi più generali riguardo la genitorialità. In questo senso mentalizzazione e funzione riflessiva (FR) rendono possibile per il genitore immaginare il proprio bambino come dotato di una mente propria, aiutando la futura mamma a mantenere un senso coerente di sé (Pajulo, 2015).

Fonagy (1991) ha analizzato la mentalizzazione utilizzando la Adult Attachment Interview, analizzando in particolare la funzione riflessiva, per verificare come questo stato mentale cioè la rappresentazione dei propri genitori, influenzi la qualità dell’attaccamento.

Durante la gravidanza è possibile che la futura mamma inizi a sperimentare il processo di mentalizzazione con un altro ipotetico agente, ipotetico perché il figlio/a che aspetta non è ancora nato, e quindi non ha ancora un feedback diretto di come il proprio stato influenzi sé stessa e l’altro. Lo studio di Fonagy (1991) è prospettico, quindi condotto sia in fase pre che post partum, sono state effettuate l’AAI durante la gravidanza e la Strange Situation per osservare la relazione tra madre e bambino, a 13 mesi. In questo studio sono stati replicati i risultati di Main (2005): madri con una rappresentazione autonoma permetteranno al proprio bambino di avere una relazione di attaccamento sicura, madri con una rappresentazione distanziante favoriranno una relazione di attaccamento evitante. Nello studio di Fonagy (1991) manca però una relazione diretta tra rappresentazioni invischiate e attaccamento ansioso-ambivalente, l’unica presente riguarda la resistenza dei bambini alla Strange Situation. Per quanto riguarda la codificazione della AAI in termini di FR, gli autori teorizzarono la FR come quella capacità di comprendere che la propria mente è pervasa da stati affettivi. Tali stati vengono riconosciuti come modificabili nel tempo, e soprattutto appartenenti alla propria mente. L’individuo ha anche la consapevolezza che la mente dell’altro che si osserva possiede stati affettivi, i quali non sono sempre riconoscibili, ma solo intuibili, e che questi affetti propri e altrui sono influenzabili a vicenda (Fonagy, 1991).

Futuri genitori con una rappresentazione di attaccamento autonoma hanno un’alta FR, e viceversa futuri genitori con una rappresentazione insicura avranno una FR minore. La forza dello studio rimane comunque il fatto che la rappresentazione di attaccamento durante la gravidanza predica la relazione, in futuro, tra madre e bambino, quindi come uno stato mentale presente, la FR in generale, influenzi il comportamento e la qualità della relazione. Quindi, in questa prospettiva, la FR è una capacità centrale che permette ai genitori di avere un accesso alle emozioni e alle memorie rilevanti, flessibile e coerente verso la propria esperienza di attaccamento, garantendo una base sicura per i propri figli.

Successivamente, dal concetto di mentalizzazione, quindi facente riferimento a stati cognitivi e affettivi, è stata estrapolato il concetto di FR, una funzione che viene definita ‘regolatoria’. In uno studio di Slade e collaboratori (2005b) è stata misurata la FR, definita funzione riflessiva genitoriale, non con AAI, ma con un altro strumento, la Parent Development Interview (PDI), dimostrando come la FR sia un costrutto indipendente dalla misurazione con AAI. Gli autori hanno quindi sottolineato come la FR sia una capacità che emerge dalla rappresentazione di attaccamento, e che influenza direttamente la relazione. Infatti, i risultati mostrano come la FR misurata con AAI durante la gravidanza correli positivamente con la FR misurata con PDI a 10 mesi del bambino, quindi sia la qualità che l’organizzazione dei modelli operativi interni materni sono collegati alla FR genitoriale (Slade, 2005b). Gli autori sottolineano come questa modalità non sia ‘perfetta’, infatti riportano come un’alta FR non sia indice di controllo costante; genitori con alta FR possono comunque sperimentare stati affettivi intensi e questi stati necessitano di tempo per essere regolati in funzione della relazione. Quindi di fatto la FR è regolazione, riprendendo il concetto di ‘madre sufficientemente buona’ di Winnicott (Slade, 2005b). Come nel lavoro di Fonagy (1991), gli autori non hanno trovato una relazione tra tutti i pattern di attaccamento dei bambini e FR, infatti bambini classificati come evitanti non erano distinguibili dai bambini sicuri in termini di FR genitoriale. Allora gli autori hanno ipotizzato come questo processo fosse necessario per le diadi ad alto rischio, come quelle ambivalenti e disorganizzate, indicando come l’attaccamento evitante sia un meccanismo di difesa e di adattamento a basso rischio (Slade, 2005b). Riassumendo si può sostenere che quanto più i caregivers sono riflessivi, anche prima della nascita, tanto più si può star certi che gli stati interni dei bambini saranno correttamente processati dai genitori, così da rendere più plausibile lo stabilirsi di una relazione di attaccamento.

Allora la FR genitoriale ha un’importanza sia clinica che scientifica per due ragioni: a) molte difficoltà nella relazione madre-bambino hanno origine già dalla gravidanza, e b) il focus di FR durante la gravidanza permette di impostare trattamenti preventivi (Pajuolo, 2015).

Quindi fino ad ora abbiamo visto come una funzione cognitivo-affettiva, la mentalizzazione, possa regolare, attraverso la funzione riflessiva, la relazione della diade madre-bambino. In termini psicoanalitici moderni che cos’è questa relazione nella mente della madre?

Slade (2005a, 2005b) sottolinea come la FR aiuti le madri a ‘pensare’ al comportamento e non a cambiare lo stesso, anche se riconosce come il cambiamento di pensiero sia di per sé un primo passo per modificare il comportamento. L’autore conclude come la FR possa essere il ponte tra rappresentazione e comportamento.

È sufficiente? Un’altra autrice, Elisabeth Meins, ha proposto come un’altra funzione, la mind-mindedness (MM), sia l’interfaccia tra rappresentazione e comportamento, e che condivida origini teoretiche con la FR misurata con AAI, proponendo come la MM sia un tipo di FR in azione: la capacità di una madre di verbalizzare esplicitamente gli stati mentali del proprio bambino può dipendere da una funzione di mentalizzazione in generale (McMahon, 2017). Lo sviluppo di rappresentazioni mentali del bambino che si aspetta, che diventano sempre più elaborate con l’andare avanti della gravidanza, è considerato un compito di adattamento della gravidanza stessa, cruciale per l’attivazione del sistema di caregiving (McMahon, 2017). Tuttavia la MM entra in gioco una volta che il bambino è nato. Infatti è importante sottolineare come la MM sia la tendenza a commentare adeguatamente gli stati interni del proprio figlio già nato. Questa risulta correlata positivamente alla FR misurata con AAI, e ai pattern di attaccamento (Arnott, 2007). Inoltre la MM è misurabile on-line, durante la relazione, sia in termini di contenuti verbali, che nel comportamento che la madre mette in atto per prendersi cura del proprio figlio (parental embodied mind-mindedness, PEM), per esempio nell’interazione durante il gioco: il bambino indica un oggetto e la madre lo passa (buona PEM), oppure il bambino gioca con un oggetto e la madre lo interrompe per dargli altri giochi a cui non è interessato (bassa PEM) (Shai, 2018). Quindi la MM è sia parte della rappresentazione di stati mentali, mentalizzazione, e di relazioni, funzione riflessiva, che comportamento stesso, sia verbale che agito. Questo aspetto comportamentale, la PEM, è un buon indice per catturare la natura mutualmente responsiva della relazione, in cui si tiene conto dell’esperienza del bambino in risposta al comportamento responsivo del genitore (Shai, 2018). In questo studio si sono rivelati anche risultati riguardo il legame tra MM, PEM e attaccamento, indicando come la mentalizzazione genitoriale sia multifattoriale e multimodale, esplorabile sia sul piano verbale che non verbale, esplicito e implicito, rappresentazionale e comportamentale (Shai, 2018).

Quindi, in termini psicoanalitici, sono stati individuati elementi rappresentazionali, cognitivi e affettivi, ed elementi comportamentali, verbali e non verbali, prodotto di essi.

Abbiamo visto come la rappresentazione della mente dell’altro sia necessaria per una buona diade madre-bambino, e come questa rappresentazione, sia in termini generali di mentalizzazione, che nelle sue parti di FR e MM, inizi a svilupparsi durante la gravidanza, in preparazione a una relazione efficace. Infatti è noto come un cambiamento positivo nella FR possa diminuire il rischio di incomprensioni nella comunicazione tra familiari, migliorare l’attaccamento prenatale, e quindi migliorare l’interazione e promuovere un attaccamento sicuro nel post parto (Pajuolo, 2015). Secondo questa prospettiva esistono interventi di psicoterapia sulla mentalizzazione in gravidanza (Markin, 2013). Per esempio, nel lavoro proposto da Markin (2013), è possibile proporre una psicoterapia in gravidanza in cui vengono rimandati degli atteggiamenti più ‘mentalizzati’ a madri che non mentalizzano correttamente, con tre tipi di intervento specifici per la gravidanza: mentalizzare il bambino come possessore di una mente separata dalla madre, mentalizzare sé stessa come madre, e mentalizzare la relazione emergente tra la madre e il feto. Infatti durante la gravidanza la futura madre potrebbe iniziare a fantasticare sul proprio bambino. Quindi la mentalizzazione, in particolare nella FR, aiuta la futura mamma proprio in queste fantasticherie, rendendole funzionali: una madre con la tendenza a pensare di dover conoscere con certezza i bisogni del proprio bambino perché sentirlo piangere le mette ansia e apprensione può avere la tendenza a sentirsi sopraffatta sperimentando che non può avere questa conoscenza certa; diversamente una madre può essere consapevole di avere la tendenza a sentirsi sopraffatta non avendo questa conoscenza certa perché l’ha imparato dalla propria madre, quindi con un atteggiamento mentalizzato di come il suo passato stia influenzando il suo presente (Markin, 2013). Questa coerenza temporale e la conoscenza di come l’attaccamento passato influenzi quello presente richiama, a tutti gli effetti, una rappresentazione di tipo autonomo di attaccamento: quindi la conoscenza del proprio stato attuale di attaccamento influenza la relazione attuale con il proprio bambino.

In conclusione, anche da studi di origine non strettamente cognitiva, si è evidenziato come una rappresentazione cognitiva, e affettiva, sia un costrutto stabile della mente, ma comunque modificabile, e che questo stesso stato influenzi le relazioni a lungo termine, sia agite che rappresentate. Potrebbe essere interessante approfondire questi costrutti in termini di credenze centrali del sé (in senso strettamente cognitivo), temi dolorosi che originano dal passato, e piani di funzionamento attuali.

Olivia Benson: quando proteggere gli altri diventa un dovere imprescindibile – La LIBET nelle narrazioni

Olivia Benson è la protagonista di Law and Order: Unità Vittime Speciali, una serie televisiva che racconta di crimini a sfondo sessuale che avvengono nella città di New York.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 5) Olivia Benson

 

A differenza di molte colleghe di altre serie tv poliziesche, il personaggio di Olivia, fin dalle primissime puntate, riesce a coinvolgere lo spettatore per la sua complessa costruzione. Non incarna infatti lo stereotipo di qualche anno fa della donna con la pistola, sempre ai margini e mai protagonista, ma rappresenta una donna con un passato difficile che riesce a raggiungere una posizione lavorativa di prestigio diventando capo dell’unità vittime speciali grazie esclusivamente alle sue doti. Il passato della protagonista è molto doloroso e ha contribuito al suo ‘dover essere sempre forte e indipendente’.

Olivia è figlia di uno stupratore e di una madre alcolista e fin da subito capisce di dover provvedere da sola a se stessa. Diventa forte e autonoma, due caratteristiche fondamentali per intraprendere il lavoro di detective. Un altro aspetto che la contraddistingue è la sua capacità di empatizzare con le vittime, vivendo ogni caso con passione e determinazione: proteggere gli altri sempre è un dovere imprescindibile.

Utilizzando la LIBET possiamo analizzare in modo più approfondito la costruzione psicologica del personaggio e capirne il suo funzionamento.

Il tema che potremmo immaginare osservando con occhio critico la serie, è quello della minaccia, l’idea di sentirsi deboli e fragili che nel caso specifico potrebbe essere associato all’emozione della paura. Il tema rappresenta lo stato mentale doloroso, che appartiene ed è diverso per ognuno di noi, e viene appreso nella storia di vita. La sofferenza è data, in questo caso, dall’intollerabilità di sentirsi fragile e provare paura.

I piani invece, rappresentano le strategie con le quali ci si tiene lontani dalla propria vulnerabilità. ‘Devo essere sempre forte e proteggere tutti’ diventa l’imperativo al quale obbedire costantemente e senza scelta. La problematicità è proprio nella rigidità di queste strategie che vengono vissute come inevitabili e assolute. Diventa perciò molto difficile per Olivia chiedere aiuto perché questo la farebbe sentire fragile e per lei non è tollerabile. Per questa ragione adotta un rigido piano prescrittivo di controllo su di sé e sul mondo esterno che la tiene lontano dagli altri e la fa sentire forte e impavida. Durante la sua infanzia questo piano risulta funzionale e adattivo perché le permette di sopravvivere in un ambiente difficile connotato da forte deprivazione.

Con il passare del tempo però, l’irrigidimento del piano porta inevitabilmente alla sua rottura e va incontro a invalidazione. Durante una missione in incognito molto pericolosa, Olivia rischia di subire un’aggressione sessuale e questo la espone al suo tema doloroso (il senso di minaccia, fragilità e paura); Olivia inizia a sviluppare alcuni sintomi che cominciano ad influenzare il suo lavoro e la fanno soffrire.

A questo punto Olivia decide di rivolgersi a uno psicoterapeuta per cercare di risolvere il problema e smettere di star male. Quello che scoprirà, durante i vari incontri, la spingerà a comprendere quali sono i costi a lungo termine dell’usare strategie rigide; e magari anche ad accettare che esistono altre possibilità fra le quali scegliere, che possono farle raggiungere nuovi scopi e obiettivi di vita altrettanto significativi e importanti.

 

La scatola magica. All’origine delle neuroscienze (2019) di A. Cerasa e F. Tomaiuolo – Recensione del libro

La scatola magica è un prezioso lavoro, scritto “a due menti”, viene da dire, da Antonio Cerasa e Francesco Tomaiuolo, brillanti neuroscienziati contemporanei, per la collana Hoepli curata da Massimo Temporelli.

 

Cosa ha spinto Antonio Cerasa (ricercatore presso il CNR di Catanzaro e vincitore del premio Giancarlo Dosi per la divulgazione scientifica) e Francesco Tomaiuolo (Professore Universitario, Dottore di ricerca in Neuroscienze e curatore della riedizione dell’atlante neuroanatomico di Costantino Economo) ad avventurarsi in un sentiero tanto complesso e vasto come la storia delle neuroscienze e delle scoperte inerenti il funzionamento della mente umana?

Gli autori lo spiegano nell’affascinante epilogo del libro: a motivarli è il sogno di raccontare un viaggio di grande valore, quello realizzato dai primi grandi neuroscienziati, ma anche quello che ogni giorno impegna studiosi e ricercatori, immaginandolo come il progressivo e costante disvelamento del contenuto di una scatola misteriosa, che ogni bimbo desidererebbe ardentemente di scartare alla ricerca della meraviglia.

E così, come in un romanzo, le neuroscienze sono protagoniste di questo amabile saggio, capace di parlare, anche a i non addetti ai lavori, e di narrare, con una partecipazione emotiva che lascia trasparire l’entusiasmo e l’amore degli autori, il percorso evolutivo della disciplina: la nascita, lo svincolo dalla propria culla originaria (la biologia), il raggiungimento dell’autonomia e della capacità dialogica con le altre discipline medico-scientifiche che ne ha suggellato la caratteristica multidisciplinarietà, la modernità sopraggiunta negli anni ’50/’60, l’ulteriore salto compiuto a partire dagli anni ’70, con l’avvento delle nuove tecniche di  neuroimaging, il futuro -già presente- del cervello frattale e dell’intelligenza artificiale.

I volti scelti per tratteggiare questa storia sono quelli dei pionieri delle neuroscienze: uomini e donne dai nomi leggendari, come Brenda e Peter Milner, Costantino Von Economo, Wilder Penfield. Intorno a questi, alle loro storie di vita, ai tentativi, alle difficoltà, ma anche alla serendipity e alle loro straordinarie scoperte destinate a cambiare per sempre la nostra vita, ruotano altri grandi nomi che hanno supportato, partecipato, ampliato, proseguito, il viaggio affascinante alla scoperta della “scatola magica”.

Una trattazione, quella di Cerasa e Tomaiuolo ne La scatola magica, fluida e armonica, coinvolgente e profondamente viva, che sa colorare anche la dimensione umana di quelle grandi menti che hanno disegnato il nostro futuro. Per forza di cose non esaustivo, il saggio assume la forma di un pentagono, simbolo geometrico scelto come metafora di un lavoro volto a racchiudere le conoscenze prodotte nel tempo dai più brillanti neuroscienziati. Una scelta significativa, dato che il pentagono possiede la caratteristica di consentire, se i suoi lati vengono prolungati, una progressione infinita. Proprio come le neuroscienze.

Il cervello è l’organo del destino. Esso custodisce, nel suo meccanismo ronzante, i segreti che determineranno il futuro del genere umano. (Wilder Penfield)

 

L’effetto della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) sugli schemi di memoria emotiva nei pazienti depressi

Un recente studio (Bovy et al., 2020) propone un’analisi del funzionamento degli schemi della memoria, tenendo conto della distorsione della memoria nei pazienti con depressione, che hanno schemi negativi particolarmente forti.

 

Uno dei principali sintomi cognitivi nella depressione è la maggior probabilità che gli individui depressi hanno di ricordare informazioni e materiale negativo rispetto agli individui senza depressione. Secondo il modello cognitivo di Beck (1967), le distorsioni della memoria congruenti con l’umore possono essere un meccanismo cognitivo che gioca un ruolo importante nel mantenimento della depressione. In quest’ottica, se un individuo è triste o depresso, una distorsione della memoria congruente con l’umore comporta una maggior accessibilità dei ricordi negativi e la rievocazione di tali ricordi può mantenere o esacerbare l’umore depresso, il quale può, a sua volta, richiamare sempre più ricordi negativi dando vita ad un circolo vizioso.

I meccanismi neurali alla base di queste distorsioni sono ancora parzialmente sconosciuti e sono stati principalmente attribuiti al ruolo dell’amigdala e alla sua modulazione dell’ippocampo. Tuttavia, il concetto di schema recentemente ripreso e applicato nelle neuroscienze cognitive può far luce sui meccanismi neurali alla base della distorsione della memoria nella depressione. L’elaborazione della memoria correlata allo schema si riferisce all’integrazione delle informazioni congruenti appena acquisite in una struttura di conoscenza esistente superordinata e adattabile (lo schema), che porta ad un’efficienza di codifica e consolidamento superiore. In termini più semplici, le nuove informazioni che si adattano bene a questo schema, vengono generalmente ricordate meglio.

Un recente studio (Bovy et al., 2020) propone un’analisi del funzionamento degli schemi della memoria, tenendo conto della distorsione della memoria nei pazienti depressi i quali hanno schemi negativi particolarmente forti che portano ad un miglioramento della codifica e del consolidamento delle esperienze negative, spiegando probabilmente l’alto tasso di recidiva nella depressione. Oltre ai cambiamenti nella memoria, i pazienti mostrano anche alterazioni del sonno, il quale ha un ruolo importante nel consolidamento dei ricordi.

Per indagare questa relazione, i ricercatori hanno stimolato la corteccia prefrontale mediale (mPFC), utilizzando la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) neuronavigata nel gruppo di controllo e la Theta Burst Stimulation (TBS) nel gruppo sperimentale. La TBS è una nuova forma di TMS in cui gli impulsi magnetici sono applicati in un certo schema chiamato burst. Studi di ricerca con TBS hanno dimostrato di produrre effetti simili, se non maggiori, sull’attività cerebrale rispetto alla stimolazione magnetica transcranica ripetitiva standard (rTMS). Le procedure TMS convenzionali in genere durano fino a 37 minuti per sessione, mentre la TBS può durare pochi minuti; il modello di TBS standard consiste in tre raffiche di impulsi emessi a 50 Hz e ripetuti ogni 200 ms.

Le ipotesi dello studio erano le seguenti:

  • La stimolazione attiva (TBS) diminuisce il numero di item critici totali ricordati erroneamente.
  • L’effetto della stimolazione (TBS) influenza in modo specifico gli schemi negativi a causa della loro attivazione dopo l’induzione dell’umore negativo, con conseguente riduzione della distorsione della memoria negativa rispetto al gruppo di controllo.
  • La quantità di sonno REM nella notte tra la codifica e il recupero è correlata al numero di item critici che sono falsamente ricordati.

Il campione finale comprendeva 40 soggetti (26 femmine, 14 maschi) di età compresa tra i 18 e i 34 anni.

Lo studio consisteva in tre sessioni attuate in giorni separati. In primo luogo, i partecipanti sono stati preparati per l’intervento TMS; successivamente, essi hanno compilato i questionari di base: Beck Depression lnventory (BDI-I), State-Trait Anxiety Inventory (STAI), NEO Five-Factor Inventory (NEO-FFI), Morningness-eveningness questionnaire (MEQ), Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), questionario sul sonno dell’Ospedale di St. Mary (SMH) e il Positive and Negative Affect Schedule (PANAS). Infine, per monitorare il sonno è stato collegato il sistema EEG portatile per la base delle registrazioni. Nella prima sessione sperimentale, in seguito alla stimolazione TMS e alla compilazione dei questionari SMH e PANAS, l’umore negativo è stato indotto guardando diversi filmati. Dopo il film, è stato somministrato un secondo PANAS per sondare l’efficacia dell’induzione dell’umore. In seguito, i partecipanti hanno ricevuto una seconda stimolazione TMS o TBS mirata alla mPFC. In un laboratorio comportamentale adiacente, i partecipanti hanno poi eseguito il compito emotivo di codifica in cui era chiesto di ricordare il maggior numero possibile di parole. È stata utilizzata una versione adattata del compito di falsa memoria Deese-Roediger McDermott (DRM, Roediger & Mcdermott 1995).

Infine, è stato compilato un terzo PANAS ed è stato collegato nuovamente l’EEG portatile per il sonno. Il giorno seguente, durante la seconda sessione sperimentale, i partecipanti hanno richiamato liberamente quante più parole codificate possibili, e hanno poi eseguito un compito di riconoscimento. Dopo aver completato tutti i compiti, i soggetti hanno risposto alle domande di debriefing sullo scopo dello studio.

I risultati del presente studio sembrano supportare il coinvolgimento della mPFC nell’elaborazione della memoria dello schema emotivo, poiché l’inibizione dell’mPFC con la stimolazione continua del theta burst (TBS) ha diminuito il falso riconoscimento nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Ancora più importante, dopo un’induzione dell’umore negativa, è emersa una differenza di gruppo nel rapporto tra il riconoscimento di item postivi e negativi; qui la stimolazione attiva ha specificamente diminuito il falso riconoscimento di item negativi. In supporto a questo risultato, i gruppi sperimentali differivano anche nel rapporto dei tempi di reazione tra il riconoscimento dell’item positivo e negativo, dimostrando che non solo la memoria, ma anche la velocità di recupero, veniva influenzata dalla stimolazione. Infine, la potenza theta frontale (sonno REM) durante la notte tra la codifica e il recupero non era correlata alla quantità di item critici riconosciuti, né con il rapporto tra il riconoscimento di item positivi e negativi.

In conclusione, in accordo con le prime due ipotesi dello studio, i risultati mostrano una correlazione significativa tra schemi di memoria emotiva correlati alla mPFC e distorsioni della memoria congruenti all’umore; l’inibizione della mPFC dopo l’attivazione di uno schema negativo sembra essere in grado di ridurre specificamente gli schemi negativi. I ricordi negativi possono essere uno strumento prezioso per scopi terapeutici e, alla luce di queste nuove scoperte, sarebbe utile esplorare ulteriormente le possibilità di manipolare schemi emotivi.

 

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Netnografia e data storytelling, alla ricerca delle nostre tracce digitali – Psicologia Digitale

I dati non sono niente se non li sai leggere e se non raccontano una storia. Le informazioni provenienti dal web, in particolare, hanno un grande potere persuasivo e vengono visti dai ricercatori come storie nuove e nuovi modi di coglierle. Un efficace metodo di ricerca qualitativo è la netnografia, flessibile a seconda delle esigenze e applicabile a molti campi.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 6) Netnografia e data storytelling, alla ricerca delle nostre tracce digitali

 

Nel 2011 Andrew Keen in un ormai storico intervento alla Next Conference a Berlino definì l’enorme mole di dati presenti online come “il nuovo petrolio”. L’imprenditore si riferiva ai dati personali di cui le grandi aziende tech come Google e Facebook fanno un uso a fini commerciali non sempre trasparente nei confronti degli utenti.

Nove anni dopo abbiamo nuove consapevolezze e soprattutto nuove normative (ePrivacy, GDPR), nel tentativo di tutelarci. Molto ci sarebbe da dire a riguardo, ma siamo sicuri che questa grande mole di dati abbia solo un impatto negativo?

La netnografia: cos’è

La netnografia è una metodologia di ricerca qualitativa che adatta le tecniche dell’etnografia agli ambienti virtuali come blog, videocast, podcast, social network (Kozinets, 2010; 2015). E’ un metodo flessibile poiché è combinabile con altre metodologie di ricerca, può focalizzarsi su ricerche brevi su una singola comunità online oppure durare anni e fare indagini su più comunità; inoltre si avvale di diversi strumenti come video, immagini, suoni, testi. Si basa su procedure e analisi specifiche applicabili ad un ampio spettro di contesti e di livelli di coinvolgimento dei ricercatori. Gli studi netnografici possono essere non partecipativi e sono detti passivi perché il ricercatore si limita all’osservazione, il lurking.

Un lurker è chi è presente in una comunità virtuale, come un forum o un social network, senza partecipare attivamente, né interagendo né pubblicando contenuti. A volte i lurker rimangono ‘dietro le quinte’, in altri casi dopo un periodo di ‘mutismo’ decidono di prendere parte attiva nella comunità o altre volte ancora manifestano la loro presenza con qualche messaggio/post, anche se di rado. Il termine comunque non ha una connotazione negativa e, anzi, in alcune community questo comportamento viene ritenuto adeguato e auspicabile perché indica che un nuovo utente si prende del tempo per ambientarsi e fare proprie le ‘regole’ del luogo, questo soprattutto in comunità ristrette come forum.

Nel caso in cui il ricercatore sia attivo lo studio viene detto partecipativo; in quest’ultimo caso gli accademici parlano di ‘netnographic slog’ (Wallace et al, 2018) ad indicare quanto sia impegnativo poi per il ricercatore convincere e incoraggiare la partecipazione degli utenti alla ricerca.

Netnografia: principali campi di applicazione

Questa metodologia viene utilizzata in diversi campi come marketing e consumer research, istruzione, scienze dell’informazione, psicologia, sociologia, antropologia. Kozinets, sociologo e marketer a cui si deve la prima definizione di netnografia, la definisce una ‘forma di voyeurismo” dato che è molto utile per lo studio di fenomeni difficili da esaminare dal vivo perché nascosti in quanto oggetto di stigma sociale, come nel caso di gruppi emarginati o a rischio.

Più che delimitarne l’uso a seconda del settore di applicazione, è lo scopo della ricerca a fare la differenza. In effetti, spesso netnografia, etnografia digitale e antropologia digitale vengono accomunati come fossero sinonimi. Ma mentre le ultime due trattano il mondo digitale solo come un luogo in cui estendere la raccolta di dati offline senza che mutino scopi e metodologie, la netnografia si occupa di comunicazione e interazioni online al fine di trovare la storia emotiva dietro un argomento. E per trovare la storia emotiva l’analisi dei big data viene spesso utilizzata come tecnica complementare, di solito nelle fasi iniziali della ricerca.

Data storytelling e data visualization: cosa sono e come utilizzarli

Con data storytelling si intende il ‘raccontare una storia attraverso i dati’; consiste nell’analizzare grandi moli di dati e identificare relazioni significative tra loro. Perciò, in un certo senso è come ‘far parlare i numeri’ come in una narrazione per guidare il nostro interlocutore a delle scelte basate sui dati, data driven appunto.

Perché un data storytelling sia efficace, così come qualsiasi narrazione, è necessario che racconti una storia. Il modo migliore, quello più chiaro, efficace ed immediato, è la data visualization, ovvero l’utilizzo di immagini per raccontare e rendere i dati più accessibili e comprensibili rappresentandoli con grafici e altri strumenti visivi. E’ un ottimo strumento per semplificare la trasmissione delle informazioni che si ritengono rilevanti: la percezione e l’elaborazione visive sono efficaci nel rilevare nell’immediato i cambiamenti e fare confronti tra quantità, dimensioni, forme e variazioni.

Ogni marketer lo sa: i dati non sono niente se non li sai leggere. E se non raccontano una storia. Quello che gli interessa è il loro potere di persuasione, raccontare per portare ad una azione; così i ricercatori vedono nei dati storie nuove e nuovi modi di coglierle.

 


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Trattamento del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività – ADHD

Si sente spesso parlare di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività – ADHD, la maggior parte delle volte riguarda la gestione di bambini ‘difficili’ che mettono alla prova i propri genitori a casa e che faticano a stare in un contesto strutturato, come quello scolastico. Tuttavia si è posta meno attenzione a che cosa succede quando gli stessi bambini crescono.

Alberto Morandi e Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Infatti le evidenze cliniche e scientifiche riportano come sia nell’adolescenza che nell’età adulta il disturbo permanga, con l’aggravarsi di atri disturbi concomitanti come il disturbo oppositivo-provocatorio e della condotta, ma anche disturbi legati alla sfera ansioso-depressiva (Antshel, 2012; Safren, 2010; Solanto, 2010; Chan, 2016).

Che cos’è di fatto il disturbo ADHD?

Nel DSM 5 i sintomi cardinali dell’ADHD di disattenzione e/o di iperattivitàimpulsività devono essere presenti prima dei 12 anni di età e devono causare menomazione nel funzionamento sociale del soggetto, scolastico o lavorativo. Nel manuale si distingue il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività – Manifestazione combinata (se il criterio di disattenzione e il criterio di iperattività-impulsività sono entrambi soddisfatti negli ultimi 6 mesi), il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività – Manifestazione con disattenzione predominante (se il criterio di disattenzione è soddisfatto ma il criterio di iperattività-impulsività non è soddisfatto negli ultimi 6 mesi), il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività – Manifestazione con iperattività-impulsività predominanti (se il criterio di iperattività-impulsività è soddisfatto e il criterio di disattenzione non è soddisfatto negli ultimi 6 mesi). Si specifica inoltre se in remissione parziale (quando i criteri precedentemente soddisfatti negli ultimi 6 mesi e i sintomi comportano solo compromissioni minori del funzionamento sociale, scolastico e lavorativo), se di entità lieve, moderata o grave (quando presenti sintomi oltre a quelli richiesti per porre la diagnosi e se tali sintomi causano una marcata compromissione del funzionamento sociale, scolastico e lavorativo) (APA, 2014).

Come è trattato nell’infanzia?

Il National Institute for Health and Clinical Excellence NICE (2009) della Gran Bretagna prevede che la pianificazione dell’intervento del Disturbo di Attenzione e Iperattività dovrebbe considerare interventi a favore delle implicazioni psicologiche, comportamentali ed educative del problema. Il disturbo dovrebbe essere trattato sul piano comportamentale tenendo in considerazione l’ambito famigliare e scolastico. In età prescolare, quando si può porre una ragionevole ipotesi diagnostica verso l’evoluzione di un ADHD, l’intervento più appropriato è il Parent Tranining (Vio e Spagnoletti, 2013). In età scolare, indicativamente fino alla terza classe della scuola primaria, l’intervento indicato è il Parent Training di gruppo e Teacher Training rivolto ad operatori scolastici (Celi e Fontanta, 2007). Dopo la terza classe della scuola primaria, l’intervento dovrebbe integrare al lavoro della famiglia e della scuola anche l’intervento diretto con il paziente in termini di supporto alle proprie competenze autoregolative (ad es. attentive, comportamentali e sociali) (Vio e Matiuzzo, 2010). Per gli adolescenti, l’intervento prevede l’intervento con il paziente e con il genitore per le situazioni medio-gravi e nelle situazioni severe l’intervento multimodale con la consulenza neuropsichiatrica per la prescrizione del farmaco (Lambruschi, 2004).

L’intervento autoregolativo con il bambino andrebbe programmato intorno agli 8/9 anni, prevedendo prima un trattamento delle problematiche comportamentali e solo successivamente un lavoro sulla gestione delle emozioni (Cornoldi, Grinale, Masi e Pettenò, 1996).

In una review recente di Evans e collaboratori (2018), gli autori hanno notato come le attività individuali, di tipo educativo e comportamentale, per esempio riguardo la pianificazione del tempo, si siano rivelate efficaci durante l’infanzia. Inoltre questo tipo di trattamenti si sono rivelati efficaci fino all’età di 15 anni, mentre i risultati riguardo terapia CBT standard, che loro riferiscono di ristrutturazione cognitiva dei pensieri disfunzionali, hanno dato risultati più deboli.

Per di più, nonostante il forte investimento che i clinici pongono nella gestione di questo disturbo, dalle scuole medie in poi i trattamenti proposti a famiglie e insegnanti si fanno più diradati, se non assenti, lasciando un ‘buco’ di trattamento per questa tipologia di pazienti. Quindi che cosa succede? Come molti autori sottolineano (Chan, 2016) la prospettiva di tali trattamenti nell’età adolescenziale non ha di fatto ragione di essere: i ragazzi tendono ad essere più indipendenti, il contesto scolastico cambia, e di conseguenza gli insegnanti, e forse la famiglia in tutto ciò ha meno peso da un punto di vista di regolazione comportamentale. Questa riduzione degli interventi ‘di contorno’ va quindi compensata con interventi individuali psico-socio-educativi, che data la maggiore maturazione cognitiva dei ragazzi stessi possono essere applicati. (Antshel, 2012; Chan, 2016; Zylowska, 2008).

Per esempio in uno studio di Antshel e collaboratori (2012), gli autori hanno voluto confermare l’ipotesi che adolescenti con ADHD che ricevono un trattamento CBT possono avere una significativa riduzione dei sintomi, valutati da genitori e insegnanti, e un ulteriore miglioramento funzionale nei domini scolastici, sociali e familiari. Per verificare questa ipotesi gli autori hanno proposto delle modifiche al protocollo CBT di Safren et al. (2010) coinvolgendo i genitori dei ragazzi. Quindi i ragazzi erano sottoposti a 6 moduli terapeutici:

  • modulo 1: 4 sedute di psicoeducazione sul disturbo, training di abilità di pianificazione e organizzazione (con i genitori per generalizzare i comportamenti)
  • modulo 2: 3 sedute focalizzate sull’apprendimento di abilità per ridurre la distraibilità (con i genitori per generalizzare i comportamenti)
  • modulo 3: 2/5 sedute di ristrutturazione cognitiva CBT standard, adattato da Beck (1995) per il disturbo ADHD (senza i genitori, che vengono solo informati a fine seduta dell’andamento ma non dei contenuti)
  • moduli opzionali di 4 sessioni sulla riduzione della procrastinazione, comunicazione, gestione di rabbia e frustrazione (senza i genitori quelli relativi a comunicazione e rabbia)

Questo protocollo si è rivelato efficace per l’organizzazione del tempo a scuola, riportato dagli insegnanti, riduzione dei comportamenti esternalizzanti e sintomi attentivi, riportati da genitori e insegnanti. Nonostante i miglioramenti, i ragazzi non hanno comunque normalizzato il proprio comportamento, mantenendo la sintomatologia, seppur ridotta (Antshel, 2012).

In un altro studio sono stati proposti due trattamenti psico-socio-educativi: Plan my life (PML) e Solution-focus treatment (SFT), il primo per migliorare le abilità di pianificazione e organizzazione del tempo (maggiormente focalizzato sulle abilità scolastiche), mentre nel secondo gli adolescenti ricevevano un trattamento ‘vuoto’ cioè decidevano loro stessi il contenuto della seduta terapeutica (Boyer, 2014). Gli autori hanno definito entrambi gli interventi CBT, ma in nessuno dei due erano previste delle sedute di discussione o ristrutturazione dei pensieri. Tuttavia gli autori hanno riportato come entrambi gli interventi di pianificazione abbiano dato dei risultati (Boyer, 2014). Allo stesso modo, in un altro studio, si è evidenziato come interventi di mindfulness, e non di pianificazione, siano efficaci nella riduzione dei sintomi di ADHD, attraverso l’accettazione della situazione, non reattività, volontà e atteggiamento amichevole per facilitare la regolazione emotiva (Zylowska, 2007).

Tuttavia gli ultimi due studi presentati non hanno utilizzato tecniche di CBT standard che invece si rivelano essere efficaci, pur utilizzando, nel caso di Boyer e collaboratori, il termine ‘interventi CBT’. Infatti, come è ben sottolineato da Chan e collaboratori (2016), spesso nella letteratura che riguarda i trattamenti non farmacologici per il disturbo ADHD si utilizza il termine ‘trattamento CBT’ per indicare trattamenti più di carattere psico-socio-educativo di apprendimento di nuove abilità o competenze. Quindi qual è di fatto la psicoterapia CBT per il trattamento dei sintomi di ADHD?

A questo punto però dobbiamo fare un salto in avanti, infatti le prime evidenze riguardano interventi su pazienti con ADHD adulti. Che cosa ci racconta la letteratura scientifica riguardo questi interventi psico-socio-educativi: i primi tentativi di proporre un protocollo CBT misto a interventi socio-educativi sono stati realizzati con pazienti adulti, ed hanno portato dei risultati promettenti (Safren, 2010; Solanto, 2010; He, 2016; Hesslinger, 2002). Sono stati proposti diversi protocolli, alcuni progettati con l’obiettivo di ridurre la sintomatologia, altri con l’intento di aumentare le competenze organizzative e di pianificazione, altri che hanno avuto effetto maggiormente sui sintomi ansioso depressivi (Safren, 2010; Solanto, 2010; He, 2017).

Perché proporre degli interventi di CBT e socio-educativi in pazienti adulti? Nell’articolo di He (2017) sono ben presentati i modelli teoretici che sottostanno al disturbo:

  • modello di inibizione della risposta di Barkley (1997): mette in relazione la difficoltà di inibizione di un comportamento nell’ADHD con le funzioni esecutive (ad es. la memoria di lavoro, il livello motivazionale in relazione al compito, quello di attivazione necessario per lo svolgimento delle consegne, il linguaggio interiore, la capacità di avvalersi dell’errore).
  • modello a due vie di Sonuga-Barke (2002): il disturbo ADHD è il risultato del malfunzionamento di due sistemi neurobiologici, il sistema dopaminergico mesocorticale e il sistema mesolimbico. Attraverso il malfunzionamento del primo sistema si ottengono deficit di disregolazione di pensiero e azioni, con la risultante disfunzione dell’inibizione e delle funzioni esecutive, simile a quello di Barkley (1997). Il malfunzionamento del sistema mesolimbico, invece, porta a una disfunzione dei sistemi motivazionali legati al posticipo di azioni e comportamenti. Il disturbo ADHD è il risultato di entrambi i sistemi.

I training psico-socio-educativi si concentrano su questo secondo sistema in modo da ridurre i comportamenti di procrastinazione e migliorare il rinforzo di comportamenti funzionali (He, 2016).

Nell’articolo sopra citato tuttavia appare poco chiara la scelta della ristrutturazione cognitiva della CBT standard, se non per ridurre l’impatto, forse, dei pensieri disfunzionali che procurano emozioni intense, che di fatto i pazienti con ADHD non regolano.

In uno dei primi lavori, sono state proposte delle sedute di gruppo secondo l’intervento di skills training tratto dalla Terapia Dialettico Comportamentale (DBT) per il Disturbo Borderline di Personalità (Hesslinger, 2002). Gli autori hanno ipotizzato che, data l’alta comorbidità tra Disturbo Borderline di Personalità e Disturbo ADHD, e i sintomi comuni (impulsività, disregolazione emotiva, abuso di sostanze, bassa autostima, e difficoltà nelle relazioni interpersonali), un trattamento di skills training adattato alla sintomatologia specifica di ADHD potesse dare dei benefici ai pazienti. Hanno quindi realizzato uno studio pilota, con campione ridotto e senza gruppo di controllo, per verificare tale ipotesi (Hesslinger, 2002).

Hanno quindi proposto un protocollo in 13 sessioni di gruppo settimanali da due ore ciascuna:

  • Chiarificazione: psicoeducazione sul disturbo e confronto da parte di ogni partecipante dei criteri diagnostici con il proprio vissuto.
  • Neurobiologia/Mindfulness I: psicoeducazione sulla natura neurobiologica del disturbo attentivo e prima parte di training mindfulness della DBT.
  • Mindfulness II: training mindfulness della DBT. Tre skills ‘cosa’: osservare, descrivere e partecipare; tre skills ‘come’: prospettiva non giudicante, focus su un elemento per volta, efficacia.
  • Chaos e Controllo: presentazione di tecniche di pianificazione e organizzazione del tempo, e discussione delle stesse nella vita quotidiana.
  • Comportamenti disfunzionali/Analisi comportamentale I: definizione dei comportamenti disfunzionali che i pazienti vogliono cambiare, analisi dei comportamenti e strategie di cambiamento.
  • Analisi comportamentale II: analisi dei comportamenti e strategie di cambiamento.
  • Regolazione emotiva: psicoeducazione alle emozioni, esercizi di analisi emotiva, esercizi di regolazione in accordo con i principi della DBT.
  • Depressione/Terapia in ADHD: psicoeducazione alla depressione secondaria al disturbo e strategie di fronteggiamento.
  • Controllo degli impulsi: analisi comportamentale (soprattutto riguardo la rabbia), conseguenze negative a breve e a lungo termine, comportamenti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi in accordo con la DBT.
  • Gestione dello stress: psicoeducazione riguardo lo stress relato alla performace, tecniche di gestione dello stress in accordo con le risorse personali dei pazienti, esercizi di tolleranza dello stress in accordo con la DBT.
  • Dipendenza: psicoeducazione sui sintomi delle dipendenze da sostanze e conseguenze negative di comportamenti a rischio; analisi comportamentale con sviluppo di strategie comportamentali alternative.
  • ADHD nelle relazioni/Rispetto per sé stessi: discussione della storia dei pazienti per le difficoltà interpersonali incontrate e coinvolgimento di partner e familiari nella condivisione al di fuori del gruppo.
  • Sguardo al passato/Previsioni: pianificazione di gruppi di autoaiuto.

Questo trattamento ha portato ad un miglioramento nelle funzioni esecutive, ma non un generale miglioramento della sintomatologia; il dato forse più interessante è che non vi sono stati drop out o comportamenti inadeguati durante il percorso, sottolineando quindi l’efficacia del trattamento all’interno del gruppo terapeutico (Hesslinger, 2002).

Oltre a questo studio, successivamente, sono stati proposti protocolli CBT per il trattamento del disturbo ADHD. A causa della natura dubbia del protocollo proposto da Solanto e collaboratori (2010), verrà presentato solo il protocollo di Safren (2010). Questa scelta risiede nel fatto che, per quanto riguarda il primo, gli autori hanno proposto un intervento ‘metacognitivo’ che di fatto è un trattamento psico-socio-educativo, pur efficace, ma che di fatto non consiste in intervento metacognitivo come quello applicato nella terapia metacognitiva di Wells (Wells, 2011).

In che cosa consiste il protocollo CBT di Safren (2010)? Gli autori hanno sottoposto pazienti adulti con ADHD a trial clinici randomizzati, controllando le variabili temporali di follow-up di tre, sei e nove mesi dalla fine dei due trattamenti (Safren, 2010). Per entrambi i trattamenti erano previste 12 sessioni di 50 minuti ciascuna. Il trattamento di controllo consisteva in un training di rilassamento con supporto educativo in 12 sedute. Il trattamento cognitivo consisteva in tre moduli principali e due moduli opzionali:

  • Modulo 1 (4 sessioni): psicoeducazione sul disturbo, training in organizzazione e pianificazione del tempo, training di problem solving
  • Modulo 2 (2 sessioni): teneva conto dell’apprendimento di nuove competenze per ridurre la distraibilità
  • Modulo 3 (3 sessioni): ristrutturazione cognitiva che coinvolgeva l’apprendimento di modalità di pensiero più adattive nelle situazioni problematiche
  • Moduli opzionali: una sessione di applicazione delle competenze per ridurre la procrastinazione e una con il coinvolgimento dei familiari di supporto; l’ultima sessione includeva la revisione del lavoro svolto e interventi di prevenzione delle ricadute.

I risultati dimostrarono come il trattamento CBT desse esiti migliori rispetto al training di rilassamento, con un mantenimento di questi miglioramenti a medio-lungo termine (Safren, 2010).

I risultati di questo trattamento sono stati replicati anche in un campione di studenti del college con ADHD  (He, 2016), differenza interessante rispetto allo studio precedente nel quale i pazienti trattati avevano un’età media di 42 anni. Gli studenti del college erano infatti nella condizione di prima età adulta, quindi tra adolescenza ed età adulta, inseriti in un contesto accademico più vicino al mondo della scuola degli adolescenti, ma vicino al modo degli adulti per l’assenza dei familiari. Il fatto che questo studio abbia rivelato l’efficacia del training CBT di Safren (2010) avvalora quindi l’idea che un intervento di ristrutturazione sia efficace e che l’efficacia possa aumentare se questo è accompagnato da interventi psico-socio-educativi in accordo con l’età dei pazienti interessati: maggior peso all’intervento CBT e minore a quello socio-educativo in età adulta, e viceversa per gli adolescenti, mentre gli studenti di college beneficiano ugualmente di entrambi gli interventi.

Nello sviluppo di nuovi approcci psicoterapeutici, alcuni studi hanno suggerito di integrare al lavoro comportamentale il riconoscimento e l’individuazione di esperienze biografiche del paziente (solitamente negative). Sebbene l’idea generale di individuare traumi dell’infanzia non sia nuova e sia un importante fattore nella tradizionale psicoanalisi, l’idea di combinare e integrare approcci basati sul comportamento ad approcci che indagano le esperienze biografiche è di recente interesse (Lücke, 2017).

Un approccio che prende in considerazione la storia personale del paziente è la Schema Therapy sviluppata da Young e collaboratori (Young, 2003). Negli ultimi anni la Schema Therapy ha ricevuto un aumento di attenzione in ottica di un approccio terapico efficace per disordini psichiatrici cronici. Una caratteristica centrale della Schema Therapy è l’identificazione e la focalizzazione di interventi su schemi maladattivi precoci, i quali sono pattern disfunzionali e credenze risultanti da esperienze infantili (Lücke, 2017).

Schemi precoci maladattivi possono formarsi durante l’infanzia da esperienze negative croniche con gli altri (ad es. i genitori o i pari), possono interferire nello sviluppo della personalità e persistere fino all’età adulta. Dato che l’ADHD è un disturbo cronico che solitamente emerge nell’infanzia, sembra ragionevole assumere che fattori biografici posano giocare un ruolo nello sviluppo della psicopatologia del paziente adulto con ADHD.

Nella prospettiva della Schema Therapy, tratti ADHD possono essere visti come fattori temperamentali che interagiscono con circostanze biografiche nello sviluppo di schemi maladattivi. In uno studi di Philipsen e collaboratori (2017) si è cercato di investigare l’esistenza di schemi maladattivi in un campione clinico di 80 adulti con diagnosi di ADHD in confronto con un gruppo di controllo di 80 soggetti sani. Il questionario CAARS (Retz, 2002) e l’ADHD checklist (Conners, 1999) sono stati usati per valutare la severità e il sottotipo di ADHD nei pazienti. I partecipanti sono stati valutati rispetto agli schemi maladattivi come definiti da Young e collaboratori (Young, 2003) usando il questionario YSQ-S2. I pazienti con ADHD hanno mostrato un punteggio maggiore rispetto al gruppo di controllo per tutti gli schemi maladattivi, ad eccezione della ‘Vulnerabilità al pericolo o alle malattie’. In linea con le aspettative dello studio, le esperienze biografiche dei pazienti ADHD più pronunciate erano legate a schemi di ‘Fallimento’, ‘Inadeguatezza/ Vergogna’, ‘Sottomissione’ e ‘Deprivazione emotiva’. Il fatto che non siano state trovate differenze nei due gruppi rispetto allo schema ‘Vulnerabilità al pericolo o alle malattie’ può essere legato all’aumento della prevalenza di comportamenti altamente a rischio nei pazienti ADHD, come il fumo, l’uso di droghe, la guida spericolata o rischiosa e i comportamenti sessuali (Bakhshani, 2013).

Tolpak e colleghi (2008) hanno suggerito che i comportamenti altamente a rischio nei pazienti ADHD siano connessi a uno stile decisionale che pone maggiore attenzione alla ricompensa attesa in seguito allo svolgimento di un comportamento a rischio, invece che alla possibilità di eventi dannosi conseguenti. In tale prospettiva Lücke e collaboratori (2017) ipotizzano che sia plausibile assumere che tale stile decisionale agisca negativamente, quindi l’individuo è portato a non considerare le conseguenze negative di un evento dannoso e a non sviluppare uno schema di vulnerabilità riguardo alle conseguenze.

Dal momento che i sintomi centrali dell’ADHD, inattenzione, iperattività e impulsività, possono essere considerati come tratti con una genesi neurobiologica, piuttosto che biografica, il miglioramento dei sintomi centrali con la Schema Therapy sembra improbabile. La Schema Therapy potrebbe invece risultare efficace sui problemi secondari, concentrandosi sulle inefficaci strategie di coping e sulla distorta percezione del sè, risultanti dallo sviluppo di schemi maladattivi acquisiti durante l’infanzia (Lücke, 2017).

Il Disturbo da deficit di Attenzione e Iperattività può essere affrontato secondo il modello cognitivo-evoluzionista attraverso l’EMDR, Eye Movement Desensitization and Reprocessing di Francine Shapiro (2001). In tale ottica, le esperienze di relazione e attaccamento con i caregivers possono condurre alla manifestazione dei sintomi ADHD (Verardo, 2012).

In particolare, secondo tale approccio, nella comprensione del significato funzionale dei sintomi dell’ADHD sono presi in considerazione: la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969), le ricerche della Ainsworth (Ainsworth et al. 1978; Ainsworth, 1985), gli studi di Liotti (1994) e il modello dinamico maturativo della Crittenden (2002, 2007, 2008). Il modello della Crittenden evidenzia la funzione adattiva dei comportamenti sintomatici del bambino all’interno del contesto familiare enfatizzando il modo in cui i processi di sviluppo di genitori e figli si influenzano reciprocamente nel tempo.

Secondo la prospettiva EMDR la relazione tra bambino e caregiver non è indipendente dalla manifestazione dei sintomi ADHD (Verardo, 2012). Pertanto l’interazione tra predisposizione genetica (Faraone et al. 2005), fattori neurobiologici (Lou et al., 2004; El-Faddagh et al., 2004, Mick et al., 2002), eventi traumatici (Levy e Orlans, 2000) ed esperienze di attaccamento potrebbero concorrere nella sintomatologia ADHD (Ertan et al., 2011; Sciberras et al., 2011; Dallos e Smart, 2012).

L’EMDR si può configura come un intervento integrato che permetterebbe l’elaborazione dei traumi relazionali precoci (relativi alla storia di attaccamento) e l’elaborazione dei traumi secondari alle manifestazioni dell’ADHD (ad es. frustrazioni scolastiche o sociali subite).

In sintesi, tralasciando le differenze di strutturazione dei protocolli specifici, tendenzialmente tutti hanno proposto una prima parte psicoeducativa sui sintomi del disturbo, ristrutturazione cognitiva della CBT standard legata alle credenze che aumentano la sensibilità ansioso depressiva, e interventi di coaching psicoeducativo sulla pianificazione e l’organizzazione dei compiti di vita quotidiana, sino ad arrivare a programmi di skills training attinti dalla DBT. Altri interventi, invece, hanno tenuto maggiormente conto di fattori autobiografici e come questi influenzino l’individuo nel presente.

Le evidenze riguardo a quale parte del protocollo sia la più efficace sono confuse, sembrerebbe che tutti i trattamenti portino dei miglioramenti, o perlomeno non si siano rivelati iatrogeni (Chan, 2016). Quindi sembrerebbe che accompagnare alla terapia farmacologica trattamenti psicoterapici CBT, di Schema Therapy e socio-educativi porti dei benefici ai pazienti adulti con ADHD.

Se pensiamo a un continuum dall’infanzia all’età adulta, i trattamenti per il disturbo ADHD possono essere proposti prima a chi si prende cura, o ha in carico, i bambini, con interventi di parent training e scolastici, dopo di che, durante l’adolescenza, i trattamenti si riducono a favore di percorsi più individuali, per diventare esclusivamente individuali, o di gruppi di skills training nella prima età adulta e in età adulta. Sarebbe interessante una verifica a livello longitudinale, per comprendere se tutti questi interventi possono essere proposti durante l’arco di sviluppo, se possono essere interrotti dopo l’adolescenza o se possono essere richiamati durante l’età adulta e come la terapia precedente possa influenzare gli esiti della successiva. Questi trattamenti si sono rivelati efficaci, se accompagnati a un’adeguata terapia farmacologica, nel sollevare i pazienti dalle difficoltà che incontrano.

Fobia scolare: qual è il ruolo dei genitori nel prevenire la dispersione scolastica?

Spesso il contesto scolastico e i suoi risvolti vengono vissuti in modo molto stressante e accompagnati da intensa ansia e preoccupazione sia dagli studenti che dai loro genitori. L’atteggiamento di questi ultimi, tuttavia, se modificato, è in grado di limitare la fobia nei confronti della scuola dei figli.

 

Con le migliori intenzioni, il più delle volte, si ottengono i risultati peggiori!! (Oscar Wilde)

 

Introduzione

Arrivato settembre, iniziano a maturare pensieri disturbanti, come “Sarò in grado di superare anche quest’anno? Riuscirò a prendere un voto che superi la sufficienza?”, questo attiva uno stato ansioso eccessivo e, a volte, incontrollabile, relativo ai primi giorni di scuola, ai voti, alle verifiche, alle reazioni dei genitori circa una probabile insufficienza. Alcuni manifestano sintomi d’ansia generici, ma non eccessivi, prima del rientro a scuola: un certo livello di preoccupazione può essere normale, se tende a diminuire con il passare dei giorni quando ci si è adattati alla situazione. E’ diventata più comune, invece, negli ultimi anni, una condizione di anormalità, in cui il ragazzo/a si rifiuta di andare a scuola sin dai primi giorni, dopo il rientro. I primi sintomi sono relativi ad un’ansia elevata la sera prima o al momento del risveglio la mattina successiva, bisogno continuo di rassicurazione, insonnia e manifestazioni somatiche, come mal di testa, dolori addominali, nausea, vomito, diarrea. In questi casi l’ansia è eccessiva e potrebbe portare il ragazzo/a a rifiutarsi di andare a scuola per un periodo piuttosto lungo.

I fattori predisponenti

L’ansia potrebbe derivare sia da fattori organici (es. ereditarietà familiare) sia da fattori ambientali (ad esempio lo stile parentale, eventi di vita stressanti). Alcuni fattori come gli eventi di vita stressanti (un divorzio, un lutto recente, ecc) sfuggono al nostro controllo: tuttavia ci sono altri fattori, come gli atteggiamenti nei confronti dei propri figli, che i genitori possono “controllare” e che risultano essere protettivi, ovvero possono evitare che il ragazzo/a sviluppi ansia rispetto alla scuola. I genitori possono raccontare esperienze positive rispetto alla scuola in modo da stimolare pensieri positivi: ad esempio, potrebbero raccontare qualche episodio divertente del loro passato, mostrando, così, che la scuola è un luogo dove imparare cose nuove e stare con altri coetanei. Inoltre, se il ragazzo/a deve iniziare la scuola secondaria di primo grado ed entrare in contatto con nuove realtà, come la conoscenza di nuovi compagni/e e la presenza di nuovi professori/esse ed è molto timido, potrebbe essere utile avere un amichetto/a con cui iniziare il primo giorno: avere un viso conosciuto in classe renderà più leggero il passaggio. Spesso i genitori tendono a controllare ossessivamente i voti presenti sul “famoso” registro elettronico e/o ad incontrare i docenti almeno una volta ogni due settimane, elogiarlo eccessivamente per un bel voto e/o punirlo e/o denigrarlo per un’insufficienza: questo crea uno stato di insicurezza e/o di vulnerabilità, avente, nella maggior parte dei casi, come conseguenza il far smettere al ragazzo/a di impegnarsi perché non stimato né capace di poter migliorare.

Il passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria: quali sono gli effetti collaterali?

Prima del passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado, è importante ricordare al ragazzo/a che il suo valore non dipende dai voti che prende: il voto indica semplicemente quanto si era preparati per quello specifico argomento. Qualsiasi voto è recuperabile, fare errori fa parte della crescita e dell’apprendimento: dunque un’insufficienza non deve essere vissuta come una tragedia. E’ importante che il genitore, davanti al voto, riesca a reagire in modo tranquillo e mai critico. Se l’insegnante segnalerà degli errori, oppure darà i compiti da rifare a casa, potrebbe essere utile aiutare, qualora fosse necessario, ricordando che si ha piena fiducia nelle sue capacità di miglioramento. E’ molto importante non fare confronti con altri fratelli e/o compagni di classe. Chiedere ripetutamente “Quanto ha preso il tuo amico?” oppure dire “Tuo fratello alla tua età prendeva sempre 8”, può provocare sentimenti d’inferiorità e di forte ansia qualora dovrà affrontare una successiva verifica in classe. Ognuno è unico e come tale deve sentirsi, con i propri punti di forza e le proprie debolezze. Al mattino prima di andare a scuola è molto importante l’atmosfera che regna in famiglia: un risveglio caotico, in cui si viene svegliati di corsa, lavati, vestiti e “buttati” in macchina, perché si è in ritardo non è sicuramente un buon modo per iniziare la giornata per entrambi (ragazzo/a e genitori). Sarebbe preferibile svegliarsi con calma, godersi la colazione ed i momenti trascorsi insieme, nei quali ciascuno può esprimere le sue aspettative o i suoi dubbi in merito alla giornata che è in procinto di affrontare.

Spesso, si verifica che il ragazzo/a sviluppa ansia, in quanto è il genitore stesso ad essere in ansia per l’inizio della scuola. Un genitore iperprotettivo e preoccupato, che tende a salutare il ragazzo/a mille volte prima che “entri” in classe e che continua a salutare dalla finestra manda un messaggio ambiguo, capace di innescare pensieri disfunzionali ed ingestibili come: “Se la scuola è un luogo sicuro e ci rivedremo presto che bisogno c’è di salutarmi in questo modo? Se la mamma è preoccupata allora devo preoccuparmi anch’io!!”. A questo proposito, le riflessioni di Bruner (1997, p. 9), secondo cui “l’educazione non ha luogo solo nelle aule scolastiche bensì quando la famiglia è riunita a tavola ed i suoi membri cercano di dare un senso insieme agli avvenimenti della giornata”, ha un duplice significato: da una parte, gli accadimenti e le dinamiche originanti entro il contesto familiare hanno grande influenza nella costruzione dell’identità personale e sociale del ragazzo/a e dall’altra è necessario coadiuvare l’interpretazione del loro ruolo educativo attraverso la rivitalizzazione delle personali responsabilità e la valorizzazione di tutti i “saperi” di cui sono portatori, ma di cui spesso non sono consapevoli (Bruner, 1997). Gli atteggiamenti dei genitori possono dunque influenzare le emozioni del ragazzo/a nei confronti della scuola: questi osservano e percepiscono molto le espressioni, le emozioni e gli atteggiamenti degli adulti intorno a loro. Per evitare lo sviluppo o il peggioramento dell’ansia scolastica è importante quindi mandare un messaggio positivo che tranquillizzi il ragazzo/a, che gli dimostri che la scuola è un luogo per crescere, apprendere ed esprimere le proprie potenzialità.

Stili genitoriali pericolosi: i genitori iperprotettivi creano terribili conseguenze per i figli

Alcune ricerche, che testimoniano una maggior frequenza del disturbo in figli di genitori che hanno a loro volta incontrato questa problematica nella loro vita, fanno pensare che possa esistere una vulnerabilità ereditaria (Kendler et al., 1992). Spesso la famiglia è molto coinvolta da questo problema e sperimenta tutte le strade possibili per spingere i figli ad andare a scuola. A volte intervengono anche nonni, zii, cugini e, in alcune realtà di paese, addirittura anche i vicini di casa, in una specie di processione mattutina in camera del ragazzo/a che, di conseguenza, tiene in scacco tutte quelle persone che si preoccupano per lui/lei.

Quando la fobia scolastica persiste e sfocia in un’evasione scolastica, la scuola può segnalare il caso ai servizi sociali che si uniranno a tutta la folta schiera di persone, insieme anche ad insegnanti e dirigente scolastico, interessati al giovane e alla sua fobia di andare a scuola. Ma, nella maggior parte dei casi, il problema è alla base: la presenza di genitori iperprotettivi potrebbe alterare la percezione che il ragazzo/a ha del mondo intorno a sé. L’iperprotettività dei genitori verso i loro figli, soprattutto durante il periodo dell’infanzia e della crescita, potrebbe causare danni psicologici permanenti da adulti.

Uno dei modelli di famiglia più diffusi negli ultimi anni è quello della famiglie iperprotettive, tali genitori assumono la mission di rendere la vita dei propri figli il meno complicata possibile, le loro parole d’ordine sono accoglienza, protezione, amore e spesso anche controllo. I genitori iperprotettivi tendono a vivere in uno stato di continua tensione, preoccupati per la salute e la felicità dei loro amati figli. I genitori trasformano la normale tendenza alla scoperta e all’esplorazione in apprensione e paura. Il messaggio che viene trasmesso sarà il seguente: “ti aiuto io perché tu da solo non sei in grado”. Una modalità disfunzionale consiste nel mettersi nei panni dei loro figli e fare le cose al loro posto, eliminando ogni difficoltà per paura che questi possano fallire. Così si ritarda la loro maturazione psicologica, la presa di responsabilità, aumentando l’insicurezza di sé e delle proprie abilità.

Quando diventano adolescenti o giovani adulti, spesso rinunciano a prendere il controllo, non escono da casa, si rifugiano sotto la loro campana di vetro, incapaci di affrontare la vita, in quanto non l’hanno mai imparato da nessuno, nessuno ha mai permesso loro di fare esperienza. Durante il periodo di passaggio da uno stato psicologico infantile ad uno più o meno adulto, i ragazzi/e avranno una serie di problemi, legati al fatto di non “potersi” assumere rischi e/o responsabilità, a non conoscere gli strumenti adatti per affrontare le difficoltà, a non sapere come fare. Le famiglie sono spinte a chiedere aiuto dalla necessità di conoscere il modo più utile per insegnare ai propri figli come gestire le proprie insicurezze e/o credenze disfunzionali, tra cui l’essere incapace. Spesso, vi è comorbilità con difficoltà scolastiche, disturbi d’ansia, difficoltà relazionali che potrebbero trasformarsi, con il trascorrere del tempo, in un atteggiamento depressivo, legato alla sessualità e all’alimentazione.

Un intervento macrosistemico

Il disturbo da fobia scolare può risultare invalidante fino a compromettere una frequenza scolastica continuativa (evasione scolastica). Le conseguenze riguardano diversi ambiti: lo sviluppo emotivo e sociale, le acquisizioni scolastiche, le difficoltà nei rapporti con la famiglia e con il gruppo dei coetanei. Tra le conseguenze a lungo termine vi è anche il rischio che tale atteggiamento possa in seguito riproporsi nella sfera lavorativa, minando ulteriormente la fiducia in se stessi, la propria autostima, rallentando il processo di crescita, inibendo l’autonomia e influenzando negativamente il processo di differenziazione ed emancipazione dalla famiglia. La teoria ecologica di Bronfenbrenner sembra essere una delle tesi più accreditate sull’influenza dell’ambiente sociale nello sviluppo della persona. Il modo di pensare, le emozioni che si provano o le preferenze sarebbero determinati da diversi fattori sociali (Bronfenbrenner, U., 1986). La famiglia risulta essere una risorsa importante per affrontare questo disturbo, in quanto, essendo un’alleata competente e motivata, è in grado di fornire una valida collaborazione in terapia (Kennedy – Moore, Watson, 1999). Urie Bronfenbrenner osservò che il modo di essere dei ragazzi/e cambia in funzione del contesto in cui crescono. Lo psicologo statunitense concepiva l’ambiente come un insieme di sistemi collegati tra loro. All’inizio ne individuò quattro, sebbene nelle versioni successive ne venne aggiunto un quinto. I cinque sistemi sono interconnessi tra loro. Di conseguenza, l’influenza di uno di essi sullo sviluppo del ragazzo/a dipende dalla relazione con gli altri. Anche un cambiamento in termini di situazione ambientale può influenzare la persona.

Fobia scolare: il ruolo dei genitori nel prevenirne lo sviluppo - Psicologia

I cinque sistemi della teoria ecologica di Bronfenbrenner sono i seguenti:

  • microsistema (contatto diretto, famiglia e/o scuola);
  • mesosistema (relazioni esistenti tra i membri del microsistema, relazione tra genitori e/o insegnanti);
  • esosistema (elementi che influenzano la vita del ragazzo/a, attività in cui lavorano i genitori);
  • macrosistema (elementi della cultura familiare e/o sociale, valori, esistenza di una religione ufficiale);
  • cronosistema (momento in cui si vivono determinate esperienze, lutto, trasferimento da una città ad un’altra).

Questo dimostra come l’influenza dei diversi gruppi sociali sulla vita di una persona possa essere fondamentale, anche, nella crescita psicologica.

In tal senso, un intervento efficace potrebbe coinvolgere entrambe le figure coinvolte nel circuito dell’ansia, ossia il ragazzo/a e i genitori. Nel primo caso, la riduzione dell’ansia sociale che ne deriva dall’essere costretto ad andare a scuola si potrebbe gestire con la rilevazione di indici comportamentali e cognitivi per giungere ad un’effettiva modificazione degli stessi. La terapia potrebbe essere articolata secondo queste fasi:

  • condivisione del modello cognitivista della fobia scolare e interventi psicoeducativi;
  • intervento cognitivista sugli schemi interpersonali e sul decentramento cognitivo;
  • intervento comportamentale sulle abilità sociali;
  • intervento comportamentale sui comportamenti protettivi;
  • esposizioni in vivo;
  • fase di chiusura ed esercizi di mantenimento.

E’ necessario, nel corso dell’intervento, mantenere un costante rapporto con entrambi i genitori, in modo da individuare quali siano gli errori e/o le difficoltà che si verificano nell’ambiente casalingo, quanto il sintomo possa porsi come impedimento nella gestione della quotidianità familiare e, se può essere utile, proporre ad entrambi i genitori un percorso di sostegno alla genitorialità e/o parent training, così da essere pronti per ogni avversità. Questo ha i seguenti obiettivi:

  • trovare la possibilità di esprimersi e di accrescere la consapevolezza tramite l’esplorazione del sé e l’analisi delle proprie modalità d’azione;
  • trovare uno spazio di accoglienza nel proprio “esser persona” ancor prima che genitore;
  • rinnovare le proprie modalità di analisi dei problemi e di ricerca di soluzioni;
  • percorrere diversificate strategie educative, soprattutto grazie allo scambio di esperienze pratiche;
  • rinforzare e arricchire le proprie positive propensioni educative;
  • individuare strumenti per migliorare la comunicazione entro il proprio gruppo familiare.

Se è possibile, contattare le istituzioni scolastiche e creare con gli insegnanti e il dirigente scolastico un rapporto di fiducia e di collaborazione, al fine di poter individuare un piano educativo e didattico speciale che potrebbe aumentare la sicurezza e la probabilità che un’eventuale ricaduta possa essere gestita diversamente.

Conclusione

Dunque, le tipologie di supporto alla genitorialità potrebbero contribuire a rendere i genitori consapevoli della loro modalità relazionale e rafforzare il ruolo di educatori (Margiotta U., Zambianchi E., 2012). Il più efficace supporto alla genitorialità mira alla consapevolezza del proprio sé (chi deve riuscire ad “essere” un individuo al fine di agire anche una “sufficientemente buona” genitorialità).

 

Menopausa: un nuovo studio indaga l’associazione tra le vampate di calore e la diminuzione della memoria semantica nelle donne

La menopausa può rappresentare un momento critico nella vita di una donna. Durante questa transizione, oltre alla sintomatologia (come le vampate) e alla necessità di una ridefinizione personale, non è insolito che venga riportato un declino nella memoria semantica per il materiale verbale.

 

Il climaterio è un processo biologico naturale causato dalla diminuzione della produzione di ormoni sessuali come il progesterone e gli estrogeni da parte delle ovaie e sancisce, con la menopausa, la fine del periodo di fertilità di una donna. Allo stesso tempo, rappresenta un momento estremamente critico, sia a causa della sintomatologia che l’accompagna, che può avere delle importanti ripercussioni sulla vita quotidiana e sul benessere individuale, sia come importante momento di ridefinizione personale nel proprio ruolo di donna ed eventualmente di madre (o di donna che non ha figli e non potrà averne in futuro).

Durante questa transizione, non è insolito che venga riportato dalle pazienti un declino nella memoria semantica per il materiale verbale, come possono esserlo i racconti o le stesse parole (Greendale et al., 2010; Kennedy Shriver, 2013): in particolare l’attività cerebrale dell’ippocampo e della corteccia prefrontale (PFC), aree dedicate appunto all’encoding e al recupero del materiale verbale, sembrano subire l’influenza dovuta ai cambiamenti nei livelli di estradiolo, differenziandosi nelle diverse fasi della menopausa (Craig et al. 2008; Maki et al. 2011).

Alcuni recenti studi (Maki, 2011; Thurston et al., 2015; 2016) hanno riscontrato come le alterazioni delle funzioni cerebrali fin qui elencate siano inoltre associate ad uno dei sintomi più tipici della transizione alla menopausa: le vampate di calore e i sudori notturni, definibili più tecnicamente come Sintomi Vasomotori (VMS), intese come un rapido aumento della conduttanza cutanea di almeno 2µmho in un lasso di tempo di 30secondi. È stato ad esempio dimostrato come la misurazione puntuale di questi sintomi piuttosto che la percezione soggettiva degli stessi sia associata in maniera attendibile con i punteggi di memoria e performance cognitive (Maki, 2011; Thurston et al., 2015, 2016); inoltre, cambiamenti nei sintomi vasomotori indotti da un trattamento farmacologico sono risultati associati con un miglioramento della memoria verbale (Maki et al., 2011).

Un recente studio di Maki e colleghi (2020) si è proposto di integrare tecniche di neuroimaging funzionale ai test cognitivi e alla misurazione della sintomatologia vasomotoria per ottenere un riscontro valido dell’attività dell’ippocampo e della corteccia prefrontale (PFC) durante dei task di memoria semantica. Per l’esperimento sono state reclutate 14 donne entrate in menopausa da almeno sei mesi che riportassero almeno 35 episodi di sintomi vasomotori o “vampate” alle quali è stato chiesto di indossare un apparecchio in grado di rilevare i cambiamenti nella conduttanza cutanea per misurare gli episodi vasomotori, dovendo al contempo riportare, premendo un bottone, la percezione soggettiva degli stessi valutando in seguito la severità dell’effetto della vampata su una scala Likert con punteggio da 0 a 10.

Le partecipanti hanno poi completato diversi test di funzionalità cognitiva legati alla memoria tra cui: il subtest della memoria logica della Wechsler Memory Scale-revised che consiste nel ripetere una breve storia dopo un intervallo di 20 minuti dalla prima presentazione; il California Verbal Learning Test (CVLT-Modified) composto di tre fasi successive nelle quali ai partecipanti viene richiesto di imparare una serie di parole e di rievocarle liberamente in un primo momento, in seguito di riconoscerle in un elenco comprendente parole distraenti non apprese, infine di rievocarle a seguito di un periodo di delay di 20 minuti. Durante lo svolgimento dei compiti le partecipanti si trovavano in un macchinario di risonanza magnetica funzionale (fMRI) ricevendo le istruzioni via interfono e segnalando le proprie rispose mediante dei pulsanti nella loro mano.

Le analisi di regressione lineare hanno confermato che soltanto la misurazione dei sintomi vasomotori rendeva conto della varianza riscontrata nei punteggi di memoria logica, nei termini di un peggioramento della performance nei compiti di memoria verbale e accompagnato da una maggiore attivazione dell’ippocampo, del paraippocampo e di diverse porzioni della corteccia prefrontale.

Gli autori concordano con altri nell’ipotizzare che le alterazioni della funzionalità dell’ippocampo e della PFC possano essere dovuti a cambiamenti nell’attività del sistema nervoso simpatico (Freedman&Blacker, 2002; Freedman, Woodward, &Sabharwal, 1990) e dell’asse ipotalamo-ipofisi (Woods et al., 2006).

Sebbene lo studio non possa inferire un nesso causale tra l’insorgere dei sintomi vasomotori e il declino della memoria, se questo venisse dimostrato potrebbe costituire un potenziale target per interventi terapeutici sui fattori di rischio nel declino mnestico proprio della mezza età.

 

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