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Piccole donne: ritratto della condizione femminile e delle sue sfide sempre attuali nella società odierna

Piccole donne è il nuovo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato per la prima volta nel 1868.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Diretto da Greta Gerwig, narra la storia delle sorelle March sullo sfondo della Guerra Civile Americana. Protagoniste sono Meg (Emma Watson), Jo (Saoirse Ronan), Amy (Florence Pugh) e Beth (Eliza Scanlen) alle prese con il passaggio tra adolescenza e vita adulta, con i relativi compromessi che quest’ultima impone (Fig. 1).

A differenza del romanzo, il film parte dalla vita adulta delle sorelle March, sviluppando la storia delle sorelle bambine con continui flashback.

Piccole donne 2019 Recensione e riflessioni sulla condizione femminile Fig 1

Fig. 1: Le sorelle March, protagoniste di Piccole donne

Se la guerra ha sottratto alle sorelle March la precedente agiatezza e la presenza della figura paterna, chiamata sul fronte, essa non scalfisce le loro passioni e il loro temperamento. Linfa che ognuna di loro quattro alimenta con propensioni e convinzioni diverse, ma sempre in condivisione. Meg è infatti appassionata di recitazione e coltiva la sua passione nella soffitta di casa inscenando con le altre divertenti atti teatrali; ella incarna il modello più consono alla visione femminile del tempo, sognando il matrimonio e la famiglia come realizzazione massima e primaria. Jo è la più ribelle e anticonformista, ostinata nel voler far valere il suo talento, la scrittura, in un mondo e tempo che è ancora molto lontano dall’aprire le porte ad una autrice donna. Amy, la più vanitosa di tutte, ama dipingere ed è segretamente innamorata di Laurie, che però non ha occhi che per Jo; e allora si impegna nella ricerca del rampollo più promettente da sposare e che possa salvare lei e la sua famiglia dalla povertà, come suggerisce Zia March (Meryl Streep). E infine la dolce Beth, una talentuosa pianista che non fa in tempo a veder sbocciare la sua passione perché stroncata dalla scarlattina.

La portata rivoluzionaria di questa narrazione sta nell’essere sempre attuale e vivida nelle sue dinamiche relazionali e sociali. È possibile rivivere quelle dinamiche tipiche dei rapporti famigliari, ma anche i dogmi che la società, seppur in maniera attenuata rispetto al passato, ancora impone alle donne. Ci sono i naturali vissuti di gelosia, competizione e frustrazione che si instaurano tra fratelli e sorelle. Come accade tra Jo e Amy: Amy che per tutta la sua adolescenza si sente seconda, all’ombra della tenace e predominante Jo, tanto in amore quanto in talento. Vi è il profondo dolore di vivere il lutto della sorella minore Beth, a causa della malattia. E il dover affrontare ogni difficoltà senza la presenza del padre, con una madre impegnata a provvedere al sostentamento di tutta la famiglia. Ma vi è anche il tema del matrimonio, che suona quasi come un destino scritto e immutabile per una donna; l’unica opzione possibile per garantirsi la sopravvivenza, l’unica accezione di realizzazione personale prospettata. Allora meglio trovarsi il più benestante dei consorti, perché non c’è altra via per sopravvivere che non sia sposarsi; a meno che non si sia ricchi, come la zia March che ha infatti potuto scegliere di non farlo. Colei che più contesta questa visione ingiusta e patriarcale è Jo, che si scaglia contro tutto e tutti pur di rovesciare questo dogma: implora la sorella maggiore Meg di non sposarsi, di non demordere e continuare a investire nella sua passione, la recitazione; rifiuta l’amore incondizionato di Laurie perché è stufa di affidare il suo destino all’amore di default, essendo per lei fondamentale essere prima realizzata come donna e come scrittrice, e solo dopo come moglie. Questo non implica, tuttavia, che la sua caparbia ostinazione non le causi sofferenza. Significativa ed intensa è la scena sul finale in cui Jo confessa alla madre tutta la sua rabbia ma anche il suo strazio:

Le donne hanno una mente e un’anima, oltre che un cuore. Hanno ambizioni e talento, oltre alla bellezza, e sono così stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto ciò per cui una donna è adatta. Ma sono così sola.

Si evince in questa ammissione tutta la complessità che le donne, ieri come allora, si trovano a vivere: lo scagliarsi contro i dettami della società che le vuole relegate prioritariamente al ruolo di mogli e madri ma al tempo stesso il costo emotivo e le rinunce che combattere tali visioni comporta. Potrebbe all’inizio sembrare che tutta la narrazione veicoli il messaggio che ‘essere Jo è la via per essere felici’, la versione giusta dell’essere donna, eppure a un certo punto è proprio Jo che rischia di essere la più infelice per aver represso il cuore dietro le sue auto imposizioni.

In realtà Jo March, alterego letterario della scrittrice Alcott a cui si sovrappone anche la regista, ci trasmette, proprio con quella confessione di rabbia e solitudine, un insegnamento fondamentale: non esiste un modello femminile migliore dell’altro, un modo più giusto di essere donna. Ognuna delle sorelle March rappresenta una sfumatura diversa della persona. Ciò che conta è restare fedeli a sé stesse, perseguire le proprie aspirazioni e seguire sì anche il proprio cuore e l’amore. Accettare il matrimonio, ma come scelta libera e non per costrizione sociale o in mancanza d’altro. Tutte le sorelle March arriveranno a sposarsi ma nel modo e per la ragione che riterranno più opportuna. Meg, la maggiore, lo fa perché lo vuole, perché è ciò che sogna da sempre. E pur avendo investito tempo ed energie nella ricerca del compagno migliore, alla fine cede all’amore di un umile istitutore che le ha rubato il cuore. Amy opta per il matrimonio nel momento in cui realizza di non avere molto talento come pittrice e che nonostante gli sforzi esso non la porterà mai da nessuna parte. Si sposa, ma lo fa con il suo grande amore sin dall’infanzia, Laurie. E infine, persino la restia Jo cederà all’idea dell’amore e del matrimonio, ma solo dopo aver fatto valere il suo talento di scrittrice e aver trovato la persona giusta.

Piccole donne è considerato sin dagli albori un vademecum per l’emancipazione personale di donne e scrittrici, tante sono state le autrici che ne hanno rivendicato l’ispirazione, da Margaret Atwood e Simone de Beauvoir fino a giungere ai giorni nostri con Elena Ferrante. Tuttavia è errato e riduttivo considerare questo capolavoro come un romanzo al femminile: si tratta di un classico universale che, come tale, dovrebbe essere indistintamente fruito da tutti, senza distinzione di genere. Ancora una volta la narrativa e il cinema si ergono ad obiettori degli stigmi sociali più perpetrati e sofferti, a promotori ante tempore di fiducia e innovazione, promulgando l’invito a credere e affermare chi si vuole essere e cosa si vuole fare nella propria vita, anche e soprattutto per una donna.

Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni (2018) – Recensione del libro

Essere genitori, si dice non a torto, è il mestiere più difficile al mondo. Nel testo Siamo qui per te le autrici, due psicoterapeute e una pediatra, mettono la propria esperienza in materia al servizio dei lettori per offrire suggerimenti e spunti di riflessione alle mamme e ai papà che desiderano costruire, con i propri figli, un rapporto all’insegna della presenza affettuosa e della sicurezza.

 

La costruzione di una relazione sicura, in cui il bambino si possa sentire protetto e riconosciuto nei suoi bisogni e nella propria singolarissima identità, rappresenta, in effetti, il tema unificante del libro Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni; il costrutto dell’attaccamento viene spiegato, facendo riferimento agli studi e alle ricerche di Bowlby e della Ainsworth, mostrando con esempi concreti come l’attaccamento sicuro si traduca a livello di pensieri, emozioni e comportamenti nel bambino e nei genitori.

I concetti teorici vengono resi fruibili ai non addetti ai lavori in modo da illustrare come sia possibile promuovere il benessere del bambino, favorendone una crescita armonica, attraverso comportamenti genitoriali che trasmettono presenza sollecita cui fa da contraltare la capacità di permettere al bimbo, giorno dopo giorno, di sperimentarsi e di esplorare il mondo, animato dalla convinzione che la mamma e il papà sono lì per sostenerlo quando ne ha bisogno, permettendogli, nello stesso tempo, di fare le sue esperienze fiducioso nelle proprie forze e consapevole delle sue risorse.

Il libro prende in esame non solo i primi mesi e anni di vita del bambino, ma anche il periodo prenatale mostrando come già durante la gravidanza sia possibile gettare le fondamenta di un sano legame di attaccamento.

Vengono analizzate le caratteristiche delle fasi di crescita che il bimbo attraversa, ognuna contraddistinta da specifici compiti evolutivi; ogni capitolo cerca di dare risposte concrete alle domande e ai dubbi più comuni, spaziando da cosa fare quando il bimbo segnala, con il pianto, i suoi bisogni e comunica all’adulto le sue emozioni, a come aiutare il bimbo ad addormentarsi, a imparare a mangiare da solo e così via.

Le autrici offrono suggerimenti utili per sostenere il bimbo nella crescita fino ai quattro anni d’età, offrendo spunti anche per temi attuali come i pro e i contro dell’utilizzo della tecnologia; al di là degli specifici temi presi in esame, l’essenziale risulta essere entrare in relazione con il bambino nel rispetto nella sua indole e dei suoi bisogni, costruendo una relazione serena basata sulla presenza di regole, fondamentali per dare al bambino il senso del confine che è necessario per la sicurezza, come anche sulla protezione.

Ogni capitolo è corredato da schede pratiche che la mamma e il papà possono, se vogliono, compilare insieme per approfondire le tematiche esposte e per promuovere la creazione di un positivo processo di attaccamento con il proprio bambino.

In ultima analisi la relazione che lega i genitori al bambino rappresenta il ‘prototipo’ e un punto di riferimento per le tutte le relazioni future; per questa ragione è tanto più importante e significativo che gli elementi presenti in ogni relazione sana – il bisogno di vicinanza e, al tempo stesso, il rispetto dei propri spazi, la libertà e l’indipendenza- si giochino in modo equilibrato proprio nei legami familiari, che rappresentano, per il bambino, un modello, una palestra delle relazioni e un apprendistato sociale’.

 

Ma quanto manca ancora? Un feedback circa il progresso in un compito cognitivo sembra migliorare la performance

È stato riscontrato come la consapevolezza dell’avvicinarsi del termine di un compito faccia sì che gli sforzi messi in atto per concluderlo vengano aumentati (Bonezzi et al., 2011).

 

Tale fenomeno, che prende il nome di goal gradient (Hull, 1932), viene attribuito all’aumentare della motivazione in prossimità della fine di un compito: ogni “unità di fatica” impiegata dall’individuo contribuirebbe visibilmente ad accorciare il gap verso l’obiettivo, venendo percepito come più efficiente (Cryder et al., 2013). Nel contesto della Prospect Theory (Kahneman & Tversky, 1979), Heath e colleghi (1999) sottolineano come, in prossimità del raggiungimento di un obiettivo, i soggetti risultino essere più sensibili ai progressi in quanto eliminerebbero il valore negativo risultante dal non aver ancora portato a termine il compito. O ancora, l’approcciarsi della fine di un task potrebbe ridurre l’opportunity cost, ovvero il costo della scelta di dedicarsi a quella specifica attività rispetto ad una alternativa, potenzialmente più piacevole (Emanuel et al., 2020), proprio perché detta alternativa risulterebbe più vicina nel tempo, aumentando la motivazione verso l’ultimo sforzo richiesto per portare a termine il compito.

Se quindi innumerevoli variabili, una fra tutte la distanza dalla fine del task, influenzano la disposizione dell’individuo nell’affrontarlo, è lecito immaginare che anche la performance rifletta tali variazioni: generalmente i compiti cognitivi sono contraddistinti da una curva di apprendimento, caratterizzata dall’apice di tale curva, detta asintoto, che rappresenterà nominalmente l’abilità massima dell’individuo in quel compito e la velocità con cui tale asintoto viene raggiunto, che riflette la velocità di apprendimento nel compito stesso.

Alla luce di queste premesse, Katzir e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca per determinare come gli effetti dell’introduzione di un punto di riferimento saliente (fine del compito) e la conseguente allocazione di maggiori risorse nel completamento del compito stesso, impattassero sulla performance degli individui in compiti cognitivi complessi: un asintoto maggiore nella condizione in cui venisse rimarcata la porzione di compito rimanente, rispetto alla condizione in cui questo riferimento non veniva introdotto, avrebbe messo in dubbio la nozione che tale risultato rifletta la massima abilità dell’individuo in quel compito, suggerendo invece l’impatto della motivazione sulla performance stessa. Allo stesso modo anche una maggior ripidità nella curva di apprendimento, ovvero un minor tempo impiegato per raggiungere l’asintoto, rifletterebbe il peso della motivazione sulla velocità di apprendimento. Inoltre, gli autori hanno indagato la percezione soggettiva di fatica del soggetto in presenza di un riferimento circa la porzione rimanente di compito: se la fatica percepita dipendesse esclusivamente dai reali sforzi del soggetto, ci si aspetterebbe che l’introduzione del punto di riferimento saliente non alteri tale percezione; al contrario, una diminuzione della fatica percepita in prossimità della fine del compito potrebbe riflettere la diminuzione dell’opportunity cost (Kruzban et al., 2013), supponendo che l’avvicinarsi di un’alternativa più piacevole possa rendere meno gravoso lo sforzo di portare a termine il compito.

Gli autori hanno sottoposto i partecipanti a due esperimenti che differivano solo nel numero di “blocchi” da completare: il primo, composto da 10 blocchi, era suddiviso in 240 trial, mentre il secondo era composto da 12 blocchi. I compiti proposti consistevano in due differenti versioni dello Stroop task e due versioni di un compito di orientamento spaziale. Metà dei partecipanti sono poi stati assegnati alla condizione Feedback, nella quale essi venivano informati ogni 30 trial sul loro progresso nella risoluzione del singolo blocco, oppure il progresso relativo all’intero compito; la seconda metà dei soggetti non riceveva invece alcun tipo di feedback sulla durata del task e sul loro livello di completamento dello stesso. Alla fine di ogni blocco, ai partecipanti era richiesto di ricopiare una combinazione alfanumerica su di un foglio, consentendo loro di distogliere l’attenzione dal computer e garantendo una pausa prima della ripresa del compito, che avveniva solo quando il soggetto stesso avesse premuto un comando sulla tastiera: la lunghezza della pausa è stata registrata come misura della motivazione, prevedendo che pause più brevi riflettessero una maggiore motivazione nel riprendere il compito e giungere alla risoluzione.

L’analisi statistica dei dati ottenuti ha confermato come i soggetti che ricevevano un feedback circa la porzione rimanente di compito (ma non del singolo blocco) avevano performance migliori e ricorrevano a pause più brevi, riportando inoltre una minor fatica percepita rispetto al gruppo di controllo specialmente verso la fase finale dell’esperimento. Ciò supporterebbe l’ipotesi dell’impatto della motivazione verso una rapida risoluzione del compito. Da ultimo, un dispiego di sforzi maggiori verso la fine di un compito a fronte (e nonostante) una maggior fatica riferita, risulta compatibile con l’ipotesi di un minor opportunity cost, ma non con spiegazioni alternative che fanno riferimento all’esaurimento delle energie cognitive, come ad esempio l’Ego Depletion Theory (Baumeister et al., 2007).

Resta da verificarsi la replicabilità dei risultati ottenuti in contesti scolastici o con compiti più stimolanti che risentano meno del calo della motivazione, tuttavia essi suggeriscono in via preliminare come l’inserimento di un feedback semplice ed economico, circa il progresso nello svolgimento di un compito, possa da ultimo risultare in performance migliori, minore percezione di fatica e allo sviluppo di differenti strategie di allocazione delle risorse individuali nella risoluzione di un compito.

 

La disponibilità emotiva e le Emotional Availability Scales

La disponibilità emotiva è un’integrazione tra la teoria dell’attaccamento e il concetto della sensibilità materna. I primi ad usare questo termine furono Mahler, Pine e Bergman nel 1975, per descrivere l’atteggiamento supportivo e presente della madre nella relazione diadica tra madre e figlio.

 

Una relazione sana, infatti, permette al bambino di esplorare l’ambiente circostante e allo stesso tempo di avere quel contatto fisico, che trasmette emozione e affetto. Altri scritti successivi di Edme nel 1980 descrivono la disponibilità emotiva come una presenza supportiva durante l’esplorazione del bambino e come un’accettazione delle espressioni emotive del figlio, sia negative che positive, permettendo così al bambino di potersi esprimere in maniera diversificata anche in base alla situazione (Biringen e Robinson, 1991). Successivamente Sorce e Edme nel 1981 indicano come la disponibilità emotiva si riferisca, oltre che alla presenza fisica, anche alla presenza emotiva, vale a dire un caregiver ricettivo alle segnalazioni del proprio figlio, capace di percepire e comprendere i segnali che provengono dagli altri. La disponibilità emotiva rappresenta, quindi, un barometro della relazione tra il caregiver e il figlio, come hanno definito Edme e Easterbrooks nel 1985 (Biringen, Derscheid, Vligen, Closson e Easterbrooks, 2014).

Questo costrutto, dunque, consiste nella condivisione tra due persone di una sana connessione emotiva e comprende il clima emotivo della relazione. Inoltre considera l’abilità del caregiver di strutturare l’attività del bambino, guidandolo e supportando la sua autonomia. Un grande cambiamento introdotto da Biringen è stato quello di dare importanza anche al bambino, che viene visto come agente attivo nella costruzione del rapporto, in quanto le sue qualità e caratteristiche vanno ad influenzare i comportamenti e le risposte del caregiver (Saunders, Kraus, Barone e Biringen, 2015).

Biringen e Robinson (1991) offrirono una concettualizzazione teorica della disponibilità emotiva e crearono le EAS (Emotional Availability Scale), uno strumento specificatamente usato per comprendere la disponibilità emotiva all’interno di una relazione. Le EAS sono delle griglie osservative che vengono applicate su materiale videoregistrato o durante un’osservazione; devono essere sempre presenti due giudici per assicurare l’affidabilità e la inter-rater reliability dello strumento. Le EAS, inoltre, possono essere utilizzate in seguito ad un training adeguato, che permette di ottenere un patentino per poterle utilizzare. Lo strumento è suddiviso in sei parti, quattro relative al genitore e due relative al bambino. Ognuna di queste parti è caratterizzata da sette indici a cui viene dato un punteggio su scala Likert; i primi due indici di ogni sottoscala vanno da 1 ad un massimo di 7, in cui il punteggio da 1 a 3 indica necessità d’intervento, 4 rappresenta un livello critico, mentre i restanti valori costituiscono un livello buono o ottimale. I restanti cinque indici di ogni sottoscala vengono valutati con una scala Likert da 1 ad un massimo di 3; in questo caso l’1 indica necessità d’intervento, il 2 indica un livello critico, mentre il 3 un livello buono o ottimale. Il totale di ogni sottoscala è di 29, mentre il totale generale dello strumento è di 174. Le sottoscale sono le seguenti (Villotti, Bentenuto e Venuti, 2014):

  • Sensibilità: la dimensione della sensitiviy corrisponde essenzialmente alla capacità del genitore di comprendere e rispondere in maniera adeguata ai segnali del bambino (Villotti et al., 2014). È opportuno sottolineare come la sensibilità risulti un concetto diadico, in quanto il genitore sensibile lo è anche grazie al bambino responsivo e coinvolto. Un caregiver sensibile sarà in grado di creare un clima positivo, genuino e soprattutto affettuoso, in cui segnali verbali e non verbali risultano congruenti tra di loro (Birigen et al, 2014). Questa scala considera anche la capacità di essere flessibile nel modo di porsi al bambino, in termini di comportamento e di attenzione. Un genitore flessibile è in grado di svolgere più attività rimanendo comunque responsivo nei confronti del figlio (Villotti et al., 2014). Dunque, questa prima scala valuta la capacità del caregiver di sintonizzarsi emotivamente con l’infante, di comprendere e rispondere ai suoi bisogni, di essere flessibile nel modo di porsi al bambino e di vedere in lui una persona distinta e indipendente.
  • Strutturazione: la scala dello structuring indica la capacità del genitore di offrire supporto, sostegno e stimoli nell’esplorazione e nelle attività del bambino, pur rispettandone l’autonomia e le sue indicazioni. Nella strutturazione il genitore fornisce, dunque, le giuste indicazioni per aiutare il bambino nello svolgimento delle sue attività, vengono forniti limiti e regole, viene seguita l’autonomia del bambino, in modo tale da facilitare la sua crescita e il suo sviluppo, fornendogli quei limiti interni e quegli standard necessari per la sua futura autonomia e capacità decisionale. Il genitore crea una cornice in cui il bambino ha la possibilità di crescere e svilupparsi (Birigen et al., 2014).
  • Non-intrusività: la dimensione della non-intrusiveness è legata alla capacità del caregiver di essere disponibile senza invadere l’autonomia del bambino. Le intrusioni rappresentano tutti quei comportamenti che, in un modo o nell’altro, limitano l’autonomia del bambino, sia durante l’esplorazione che durante le attività di gioco. I comportamenti intrusivi sono sia quei comportamenti in cui il caregiver interferisce troppo e va contro l’attività del bambino, ma anche quelli in cui il genitore è fin troppo presente e aiuta eccessivamente il bambino in attività che egli sarebbe in grado di fare da solo (Villotti et al., 2014). Mentre la strutturazione è legata alla guida, all’insegnamento e all’empowerment del bambino, la non-intrusività è collegata alle interferenze vere e proprie (Birigen et al., 2014).
  • Non-ostilità: la scala della non-hostility, coperta o aperta, indica la capacità di porsi al bambino con modalità affettuose, calde, piacevoli e sensibili. Sta ad indicare tutti quei comportamenti e modi di parlare al bambino che non risultino lesivi, antagonistici, impazienti ed aggressivi. L’ostilità coperta si trova, ad esempio, negli scherzi o nelle prese in giro, ma anche nei silenzi e nel tono di voce irritato e aggressivo (Villotti et al., 2014); segni subdoli di noia, rabbia, aggressività e impazienza vengono comunque percepiti dal bambino. L’ostilità più diretta è quando il genitore risulta apertamente ostile, aggressivo, impaziente e rabbioso, sia con le parole (insultano o urlando, ad esempio) che con i gesti (diventando fisicamente aggressivo) (Birigen et al., 2014).
  • Responsività: questa scala indica la capacità, il desiderio e la propensione emotiva del bambino ad interagire con il proprio caregiver, in seguito ad un invito esplicito da parte del genitore. Inoltre è legata al livello affettivo generale del bambino ma anche alla sua capacità di esplorare l’ambiente, considerando ovviamente età e contesto (Villotti et al., 2014).
  • Coinvolgimento dell’adulto: l’ultima dimensione che ritroviamo è quella dell’involvement, che riguarda la capacità del bambino di coinvolgere e ricercare il genitore nel gioco e nell’attività. Anche in questo caso le iniziative del piccolo devono essere in linea con la sua necessità di autonomia, da un lato, e di supporto, dall’altro (Villotti et al., 2014). I bambini coinvolgono, ovviamente, gli adulti in maniera differente in base all’età; solitamente il coinvolgimento si ottiene attraverso sguardi, domande, il portare i giochi per mostrarli al genitore e richieste esplicite al caregiver di giocare con lui e così via (Birigen et al, 2014).

Le EAS sono state validate da diverse ricerche, che hanno dimostrato come la disponibilità emotiva possa essere usata come un parametro globale per valutare la qualità generale della relazione affettiva tra il genitore e il figlio (Villotti et al., 2014).

 

“Ah, ma è Lercio!” – Un esempio di news organization

A sentire le parole di giornalisti, massmediologi, esperti a vario titolo e accademici non sembra esserci alcun dubbio: viviamo nell’epoca della “post-verità”, caratterizzata cioè da “verità alternative”, fake news, che scheggiano le identità sociali in frammenti.

 

Nel tentativo degli esseri umani di adattare in maniera camaleontica (Mantovani, 1995) le schegge identitarie alle diverse verità, si nota come i Mass Media diventino opportuità per gli internauti per evolversi da semplici fruitori di contenuti multimediali ad attivi creatori. Non esenti, da queste creazioni, le notizie (news).

Che ci si ponga tra gli Apocalittici o gli Integrati (Eco, 1984), non si può evitare il fenomeno virale della creazione di “bufale”, o meglio conosciute come “fake news”. Le fake news sono notizie intenzionalmente false che servono per disorientare i lettori. E quindi, chi crea queste false notizie? Perché lo fa? Qual è il target di popolazione o di internauti più colpiti da questo fenomeno?

Rispondendo alla prima domanda “chi crea le fake news?”, bisogna sapere che ci sono tante e reali agenzie che producono notizie false. Queste “industrie” di bufale, solitamente, hanno nomi che richiamano le reali agenzie di diffusione di notizie, al fine di confondere maggiormente i fruitori di informazioni.

La società dell’informazione ha prodotto interi segmenti industriali dediti alla rappresentazione del mondo, tali da trasformare questa normale costruzione della realtà in fabbrica automatizzata, da deformazione inconsapevole alla sua riproduzione automatizzata, dando origine all’Iperrealtà, appunto. (Binotto, 2017, 14)

Ma è anche vero che dietro le fake news possono celarsi persone normali, in quanto, con la diffusione dei social network, la creazione di contenuti non richiede più specifiche competenze, bensì qualsiasi utente può generare contenuti multimediali relativamente controllati.

Questi strumenti di creazione di contenuti multimediali, in cui rientrano le fake news, sono definiti User Generated Content (UGC). Grazie a questi strumenti, ad esempio, sono emerse nuove figure che diffondono notizie, come i giornalisti amatoriali, i quali nel riportare una notizia, non sono sottoposti al controllo della veridicità di ciò che divulgano. Per questo motivo è facile cadere nelle trappole delle fake news (Rubin, Conroy, & Chen, 2015).

Ma chi sono le persone più colpite? Bisogna considerare che ogni utente è persuaso in maniera diversa in base a variabili individuali, primo fra tutti il livello educativo, poi l’età, il genere, ma anche la fiducia. Il legame di fiducia nell’era della post-verità è molto complesso da instaurare perché è presente un generale clima di diffidenza, che presenta una risonanza nelle comunicazioni mediate. A questo legame, però, si oppongono fenomeni individuali, come la disinformazione, perché le persone che si informano meno tenderanno a credere vere le notizie potenzialmente false. Un altro fenomeno fondamentale che spinge a cadere nelle trappole delle fake news è quello delle camere dell’eco (eco-chamber), dei veri e propri spazi virtuali che raccolgono persone che hanno le stesse opinioni. Avere conferme da altre persone circa il proprio pensiero aumenta la convinzione che quelle credenze siano vere.

La difficoltà nel riconoscimento di false notizie dipende dal fatto che, soprattutto nelle news in forma scritta, mancano indici di comunicazione non verbale, per questo le persone si focalizzano non sul contenuto, ma su come la notizia è presentata (Allcott & Gentzkow, 2017). Non si tratta di un fenomeno recente, anzi hanno una storia molto lunga: infatti è possibile trovare delle prime forme di fake news negli errori non intenzionali, ovvero delle notizie riportate in maniera non corretta; nei pettegolezzi, che però non hanno origine da una notizia di giornale; nelle teorie complottiste, che, per definizione, sono difficili da distinguere come vere o false e sono sostenute da chi crede realmente in esse, ad esempio, nell’affermare l’esistenza di altre forme di vita sui pianeti; nelle false dichiarazioni dei politici; nella satira non riconosciuta come tale (Hyman & Sheatsley, 1947).

Un esempio è LERCIO: in molti tenderebbero a prendere per veritiere le loro notizie, non conoscendo l’obiettivo. Lercio è un sito satirico italiano di fake news con taglio volutamente ironico, creato su modello di articoli tipici della stampa sensazionalistica. La stampa sensazionalistica, infatti, mira a creare l’evento di cui tratta il testo di notizia dividendo i fruitori in due gruppi: chi giustifica quel testo oppure chi lo rifiuta e contesta (Mininni, 2004). In più, LERCIO, praticando la parodia del giornalismo tradizionale, si inserisce nel filone internazionale della cosiddetta News satire (Incollu, 2014). Il sito, ideato da Michele Incollu come parodia della free press Leggo, dal quale riprende il font del logo, pubblica la sua prima notizia il 28 ottobre 2012 (Incollu, 2017; 2018). L’attrattività, però, non dipende solo dalla soggettività dei fruitori della notizia, ma anche dal modo in cui la notizia, seppure falsa, viene presentata. Le fake news di LERCIO si presentano con titoli altisonanti, con URL simili a quelle delle fonti attendibili, l’impaginazione è approssimativa, le immagini ritoccate o replicate, il tono ironico o satirico nel caso in cui l’obiettivo è quello di denunciare.

In questo panorama, perciò, Lercio diventa un esempio tutto italiano di news organization che nella “trasformazione di un fatto in notizia opera riducendone la complessità” (Sorrentino, 1995, p. 5) attraverso l’ironia.

 

Il giardino delle vergini suicide: un esempio di suicidio in adolescenza

Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999), tratto dall’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides ripercorre la catena di suicidi delle sorelle Lisbon, cinque adolescenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni, costrette a restare in casa per volontà della madre iperprotettiva.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Di fronte a questa desolante esistenza si intravede un padre periferico, laconico, che asseconda la moglie senza discutere, in evidente difficoltà e confusione. Il film inizia con il tentativo di suicidio di Cecilia che, una volta rinsavita, manda chiari segnali del suo disagio, quello di una ragazza di 13 anni intrappolata in una realtà familiare glaciale, senza possibilità di approfondire altri legami. Di fronte a questo evento tragico subentra lo psicologo che suggerisce con pacata franchezza di permettere alla figlia di avvicinarsi ai coetanei, ma i genitori non consentono uscite, solo feste in casa e in loro presenza, così Cecilia muore davanti ai loro occhi.

Nella famiglia Lisbon non c’è spazio per elaborare un lutto significativo: le emozioni, i ricordi, il confronto sul motivo che ha condotto la giovane al gesto sono abilmente accantonati e presto la vita prosegue come se la figlia deceduta non fosse mai esistita, come se il problema non si estendesse alla famiglia. Con il passare del tempo i genitori provano ad esaudire il desiderio di libertà delle figlie, ma la trasgressione peggiora la situazione e le imposizioni invece di allentarsi si rafforzano fino a soffocare ogni possibilità di espressione di sé, di sperimentazione nel rapporto con i coetanei. Nessuna combatte contro la madre, solo Lux trasgredisce di nascosto, ma scivola nell’autodistruzione, affamata di fugaci avventure; dopo aver giocato a sedurre Trip con l’incoerenza, si lascia andare per poi ritrovarsi a fare i conti con la prima delusione, l’abbandono inaspettato senza il sostegno della famiglia che la punisce e la isola. Anche qui non c’è spazio per dare un nome al dolore mascherato dalla finta allegria, i sorrisi, arrovellandosi successivamente nella constatazione di essere sola, di non poter contare su nessuno, nemmeno su di sé.

La reciprocità manca anche tra le sorelle, resta solo una macabra complicità nell’organizzazione del grottesco suicidio di massa che lascia una confusione dilagante. Nessuno riesce a ricostruire le ragioni di un gesto simile, ma i segnali del disagio, come l’isolamento nel contesto scolastico, il silenzio, la rigida disciplina materna e la passività del padre e soprattutto il sottovalutato suicidio della sorella erano presenti. Entrambi i genitori fanno un tentativo per agevolarle, ma restano inconsapevoli dei propri limiti, non possiedono le risorse adeguate per riconoscere e capire i bisogni delle ragazze in quanto adolescenti. Immaginando la crescita delle sorelle si deduce una relazione improntata sull’evitamento della rabbia, della tristezza, ad esempio, tale da accantonare i conflitti e risultare figlie eccezionali che non danno problemi, ma che covano un malessere dilagante e sconosciuto a sé. Le protagoniste comprendono al volo di essere il sogno adolescenziale di tutti i ragazzi del liceo, gli angeli biondi che incantano non solo per la bellezza, ma anche per la ritrosia che alimenta l’idealizzazione. Gli ‘amici’ che vogliono aiutarle, che si porteranno con sé il senso di colpa per tutta la vita, che non dimenticheranno mai i lunghi capelli biondi, i pizzi e il sorriso che li hanno stregati, sono gli stessi che di fronte al suicidio di Cecilia sono fuggiti via nel silenzio assordante. Non serve altro per confermare la percezione di solitudine, estraneità e inaiutabilità con cui si affacciano al suicidio.

 

Istrionici e schizoidi: l’effetto delle emozioni su parametri neurofisiologici

Tra i disturbi di personalità, il disturbo istrionico e il disturbo schizoide possono essere considerati ai due estremi di un continuum che prende in considerazione l’espressività e l’inibizione.

 

Nello specifico, secondo il DSM-5 (APA, 2013), il disturbo schizoide di personalità è caratterizzato da una mancanza di interesse per le relazioni sociali e affettive, freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita, mancanza di piacere nell’esperienza sessuale e per le attività sociali di gruppo. Il disturbo istrionico, al contrario, è caratterizzato da manifestazioni esagerate di emotività, eccessiva ricerca di attenzione, egocentricità, ricerca di attenzione, mancanza di considerazione per gli altri, auto-drammatizzazione e comportamento eccessivamente seduttivo e provocante.

Il presente studio (Wang et al., 2020), si pone l’obiettivo di indagare in che modo le diverse emozioni influenzano l’attività cerebrale nei pazienti con disturbo di personalità istrionico e schizoide. L’evidenza neuropsicologica di base è che le strutture cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva comprendono sia il tronco encefalico che le aree corticali e subcorticali coinvolte nell’attività somatica e visceromotoria complessa (Dolan, 2002). Il metodo utilizzato è la soppressione esterocettiva (exteroceptive suppressions – ES) dell’attività muscolare temporale, in cui vengono stimolate le afferenze sensoriali del tronco encefalico portando ad un’interruzione temporanea dell’attività muscolare volontaria; la soppressione avviene in due fasi, una precoce (ES1) e una tardiva (ES2). Le aree cerebrali vengono sollecitate con stimoli emotivi esterni sia positivi (es. felicità, eccitazione) che negativi (es. disgusto, tristezza, paura). Gli stimoli usati nello studio consistevano nella presentazione di immagini e suoni; sono stati utilizzati elettrodi per la registrazione di superficie.

Il campione comprendeva 37 volontari sani che costituivano il gruppo di controllo, 18 pazienti con disturbo schizoide di personalità e 17 pazienti con disturbo istrionico di personalità facenti parte del gruppo sperimentale; i soggetti erano equilibrati per genere e avevano un’età media compresa tra i 18 e i 25 anni.

I partecipanti erano invitati a completare tre questionari:

  • The Mood Disorder Questionnaire (MDQ, Hirschfeld et al., 2000): composto da 13 items a risposta dicotomica (si/no) indaga la presenza di sintomi e comportamenti correlati alla mania e all’ipomania.
  • The Hypomania Checklist-32 (HCL-32, Angst et al., 2005): composto da 32 items a risposta dicotomica (si/no) che valutano la presenza di sintomi ipomaniacali. In particolare, ai soggetti è chiesto di rispondere a quesiti relativi alle loro emozioni, pensieri, comportamenti, ma anche riguardo alla durata dei sintomi e all’impatto che essi hanno avuto nella famiglia e nella vita lavorativa e sociale.
  • The Plutchik – van Praag Depression Inventory (PVP, Plutchik& van Praag, 1987): consiste in 34 items che indagano la presenza di sintomi depressivi.

Dai risultati emerge che i punteggi medi dei test erano significativamente differenti tra il gruppo di controllo e i due gruppi sperimentali. Nello specifico, il PVP presentava punteggi più alti nei pazienti schizoidi, mentre l’MDQ e l’HCL-32 erano più alti nei pazienti con disturbo istrionico di personalità, rispetto al gruppo di controllo. In accordo con la letteratura, gli schizoidi si situano su un versante più introverso, depresso e ritirato; mentre gli istrionici si collocano sul versante dell’eccitazione e l’espressività. Infatti, l’attività cerebrale degli schizoidi era maggiore, rispetto al gruppo di controllo, se l’immagine o il suono presentato richiamava l’emozione di tristezza o paura; al contrario, i pazienti istrionici erano maggiormente sollecitati dagli stimoli erotici. In altre parole, la durata di ES2 era maggiore negli schizoidi alla presentazione di stimoli negativi e nei soggetti istrionici alla presentazione di stimoli postivi, rispetto ai soggetti sani. A livello neuropsicologico, si è evidenziata una disfunzione del sistema cortico-cerebrale associata ai diversi stimoli emotivi esterni nei differenti gruppi.

Lo studio presenta diversi limiti. In primo luogo, sono stati coinvolti solo pazienti schizoidi e con disturbo istrionico di personalità; il reclutamento di soggetti con altri tipi di disturbi della personalità aiuterebbe a confermare i presenti risultati. In secondo luogo, sono state utilizzate solo cinque emozioni come stimoli esterni, altre come sorpresa, rabbia o disprezzo potrebbero mostrare effetti interessanti sui parametri neurofisiologici di questi pazienti. In terzo luogo, la dimensione del campione in ciascun gruppo era piccola; sarebbero necessari ulteriori studi che confermassero le attuali scoperte.

 

Sorry we missed you (2019) – Recensione del film

Sorry we missed you mostra un meccanismo perverso, dove la trappola si nasconde proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente, spacciato appunto per autonomo, dove si viene illusi di essere padroni del proprio destino, ma in realtà non si è padroni di nulla, solo inghiottiti da una spirale senza fine e da una fagocitante solitudine.

 

Ricky e Abby sono una coppia di Newcastle e hanno due figli: Sebastian, di sedici anni e Liza di undici. Sono una famiglia unita. A un certo punto della loro vita, Ricky perde la sua occupazione e decide di ricominciare con un lavoro autonomo, come corriere in una grande azienda di consegne. Questo rappresenterà l’inizio di una pericolosa spirale.

Sorry We Missed You è un film tremendamente attuale. Il regista è riuscito a rappresentare, in modo magistrale, la precarietà del nostro tempo attraverso il racconto della disperazione di un uomo che viene spogliato di tutto, perché il lavoro gli ruba la vita. Uno sfruttamento ‘legalizzato’, ipocritamente camuffato da lavoro autonomo, contraddistinto da condizioni disumane e inaccettabili, che però sembra rappresentare – agli occhi di Ricky – l’ultimo spiraglio per poter arrivare ad accendere un mutuo e acquistare una casa.

La tragedia descritta in questa pellicola non è la disoccupazione, bensì il lavoro incessante, pressante, non tutelato.

Nell’illusione che qualcosa prima o poi cambierà, Ricky viene schiacciato da una macchina che lo annienta e lo mortifica a tal punto da arrivare a non riconoscersi nemmeno più il diritto di andare in bagno o di essere malato; trattato come carne da macello, tessera di un sistema sempre in movimento in cui nessuno è davvero indispensabile e chiunque è immediatamente sostituibile. Un meccanismo perverso dove la trappola si nasconde proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente – spacciato appunto per autonomo – dove si viene illusi di essere padroni del proprio destino, ma dove in realtà non si è padroni di nulla, inghiottiti a mano a mano da una spirale senza fine e da una fagocitante solitudine.

Non è più la forza lavoro a essere messa in vendita, ma il tempo e – con esso – la  vita.

Così, il tempo utilizzato a lavorare per la famiglia, diventa per Ricky sempre più importante e necessario del tempo passato con la famiglia, con conseguenze devastanti per tutti: una moglie che fa la badante, con un contratto a zero ore che viene pagata “a visita” e che trascorre – a sua volta – tutto il giorno fuori casa ad alternarsi tra un paziente e l’altro, e due figli che tentano di autogestirsi con risultati piuttosto disastrosi. Nonostante il profondo amore che li lega, Ricky, Abby, Sebastian e Liza non si riconoscono né si ritrovano più e tra loro si origina una distruttiva incomunicabilità.

Sorry We Missed You è un lungo, interminabile pugno allo stomaco che toglie il respiro e non lo restituisce fino alla fine e persino nei giorni successivi. E’ un film che non lascia scampo, in cui lo spettatore viene trascinato dentro un susseguirsi di crescenti emozioni ed eventi che risulta contemporaneamente assurdo e realistico.

E’ un’opera che costringe a riflettere su come si sia potuti arrivare a tutto questo. Su come un essere umano possa spingersi così in fondo. Su come un altro uomo possa trattare un suo prossimo come un numero o come una bestia per poi dichiarare che non c’è nulla di personale.

Dopo aver visto questo film tutto è possibile, fuorché rimanere indifferenti.

Non c’è dignità in tutto questo, anche perché non c’è mai stata alcuna dignità nell’essere schiavi. (Ken Loach)

 Sorry we missed you  parla di disperazione. La disperazione di un uomo che è talmente ossessionato dallo scopo di mantenere la propria famiglia e di accendere un mutuo, che perde di vista proprio se stesso, la sua libertà e il benessere della famiglia.  Si assiste alla sua spersonalizzazione, vittima di un ingranaggio al quale sente di non potere che aderire. Un sistema che non ha regole, se non l’obbligo di dover dare tutto e dove quel tutto non basterà mai, perché nulla potrà essere sufficiente. Un apparato che si nutre di precarietà e sfruttamento.

Ricky non si riconosce più, ma ciononostante avverte di non avere altra scelta. Così viene trascinato, giorno dopo giorno, in un vortice da cui viene completamente assorbito, in balìa di sbalzi di umore altalenanti e di scatti di ira incontrollati nei confronti di chi tenta di metterlo di fronte alla realtà. Ricordiamolo:

Non c’è dignità in tutto questo, anche perché non c’è mai stata alcuna dignità nell’essere schiavi.

In questo film si assiste alla perdita dell’individuo, in tutto e per tutto: la perdita dei propri diritti, partendo dalle più comuni funzioni fisiologiche, la perdita di lucidità, la perdita di libertà, la perdita di controllo, la perdita di dignità e la perdita dei rapporti interpersonali, con risvolti catastrofici sulla vita privata.

C’è Abby che, nonostante la stanchezza, il lavoro precario e l’intera giornata fuori casa, riesce a mantenere uno sguardo lucido su ciò che sta avvenendo al marito e alla sua famiglia. Ci sono i due figli, Sebastian e Liza. Sebastian è quello che sembra risentire maggiormente dell’assenza dei genitori e che traduce questo malessere in comportamenti ribelli e trasgressivi, che sembrano sfuggire al controllo di una madre e di un padre troppo impegnati e stanchi per poterli gestire o affrontare. E Liza, ragazzina fin troppo sveglia, che si accorge di ciò che le sta avvenendo intorno e tenta delle goffe operazioni di salvataggio, avvertendo un carico emotivo sulle spalle decisamente più grosso di quello che può portare. E c’è, appunto, Ricky, ormai totalmente assente, spento, che non nutre più alcuna speranza, ma continua ad accanirsi nell’unica direzione che si sente obbligato a percorrere.

In fin dei conti, la frase che dà il titolo al film, quel messaggio che i corrieri lasciano al destinatario che non trovano in casa  – “ci dispiace di non averti trovato” – è probabilmente quella che la moglie e i figli di Ricky potrebbero rivolgere quotidianamente a lui.

In effetti questo film parla di perdersi, ma anche del desiderio e della speranza di ritrovarsi.

Sorry We Missed You può parlare di ognuno di noi. Sorry we missed you parla a ognuno di noi. E per questo è un film necessario.

 

Legami di coppia e storia familiare

La storia familiare si svolge su una trama che ognuno dei partecipanti si impegna a narrare, alla quale ogni membro tende ad uniformarsi o a trasgredire ed è anche su questo che si basa lo sviluppo delle relazioni sentimentali.

 

Tradire la propria stirpe, scappare dalle proprie origini non porta al rinnovamento ma alla distruzione. Se agli alberi tagliassimo tutte le radici, morirebbero perché impossibilitati ad estrarre gli elementi nutritivi vitali dalla terra. Eliminare le radici ci espone al rischio di far seccare gli alberi o non farne nascere affatto. Cigoli (2008) individua nella vite e nella palma l’albero della conoscenza; nel melo secco e nel fico l’albero infruttifero; nell’ulivo l’albero della discendenza. ‘Ma non è forse l’ulivo l’albero contorto per eccellenza?’ si chiede Cigoli e risponde affermando che ‘il suo essere contorto comporta la presenza sia del secco, sia del frutto’. Ciò significa che affinché l’albero non muoia bisogna contrastare lo scisma ovvero la rottura del legame generazionale.

T. Marchetti (2000) sostiene che:

Una conoscenza parziale delle proprie origini e quindi di se stessi, si definisce in una mancanza di appartenenza ad un sistema affettivo e relazionale più ampio quale quello familiare, dove il vago lascia spazio a molte supposizioni, domande e al bisogno quindi di trovare risposte certe che pagano fino alla sofferenza generata.

In Il rosso e il nero di Stendhal anche il rigetto delle proprie origini, il voler appartenere ad un’altra stirpe comporta un senso di vuoto affettivo e relazionale che Julien tenta di riempire attraverso varie storie e relazioni amorose.

Al contrario, Mathilde de la Mole, ottenendo dal padre di dare un titolo e una rendita a Julien, tenta di portare l’amato all’interno della propria stirpe. Ella è fortemente ancorata alla propria storia generazionale tant’è che, prima di accettare l’amore di Julien tergiversa molto al fine di poter trovare il modo per risolvere il contrasto tra le ragioni del cuore e le prescrizioni provenienti dalle generazioni precedenti. L’ancoraggio alla storia generazionale della propria famiglia viene descritta abilmente da Stendhal nel momento in cui Mathilde si fa consegnare la testa mozzata del fidanzato, dopo l’esecuzione della sentenza di morte, portandola sulle sue gambe al corteo funebre. Ella la bacia più volte emulando la storia di un suo antenato, Boniface de la Mole, anch’esso impiccato nel 1574, del quale la sua amante, Margherita de Valois, si fece consegnare la testa baciandola pubblicamente come suggello del loro amore.

Stendhal ci informa che la storia di Boniface aveva sempre attratto Mathilde la quale lo considerava un eroe.

Sempre T. Marchetti nota che

la metafora storica colloca il divenire della storia in una dimensione ciclica, ovvero in una sorta di continuo ritorno che non ha la forma di una linea, ma di una spirale. In questa dimensione circolare che scandisce attraverso le fasi evolutive lo sviluppo dell’esistenza, ogni essere umano, attribuisce un senso epico alla propria vita, dando una forma narrativa e romanzesca all’intreccio complessivo delle singole vicende, caricandole di significati simbolici, affettivi e relazionali, che secondo l’angolazione teorica sistemico-relazionale, prendono il nome di mito.

La storia familiare si svolge su una trama che ognuno dei partecipanti si impegna a narrare, alla quale ogni membro tende ad uniformarsi o a trasgredire. Come in ogni romanzo convivono realtà e fantasia. Il mito, nell’accezione di M. Andolfi e C. Angelo (1987), tende a mischiare gli elementi di cronaca con elementi fantastici per soddisfare i bisogni emotivi dell’intero sistema familiare in funzione del mantenimento del legame generazionale. Esso serve ad attenuare le responsabilità individuali nella costruzione della storia in quanto rimanda ad eventi, spesso sovranaturali, che sfuggono al controllo e alle intenzionalità dei singoli. Se un determinato evento è scritto nella storia mitologica i comportamenti individuali che potrebbero diventare inaccettabili o pericolosi alla storia generazionale trovano una giustificazione sovrastrutturale. Per Andolfi ed Angelo, il terreno di sviluppo dei miti familiari si colloca nei problemi non risolti di perdita, separazione, abbandono, individuazione, nutrimento e deprivazione. In sostanza i miti sono da scrivere nel ‘libro dei debiti e dei crediti’ intra- e intergenerazionale e sembrano stabilire i ruoli che ogni membro deve coprire nella storia familiare. Mathilde, dopo una lunga riflessione, decide di trasgredire le norme familiari accettando l’amore di Julien. Qui inizia il suo dramma che però trova ampia giustificazione nei miti familiari: il trasgredire, il tradire le norme generazionali, il darsi ai sentimenti comporta la tragedia. L’antenato Boniface muore ghigliottinato anche se per motivi politici, allo stesso modo muore l’amato Julien. Boniface si era dato ai sentimenti amando al di fuori del matrimonio Margherita del Valois, Mathilde, contro il parere del padre, si innamora di Julien. Attraverso il gesto di portare la testa mozzata dell’amato sulle sue gambe e di baciarla pubblicamente, tende a riportare i suoi comportamenti trasgressivi ai miti familiari.

Il mito, infatti, costituisce un modello di valore ed ha una funzione prescrittiva poiché è attraverso di esso che si avviano i meccanismi di lettura, di classificazione, di interpretazione della realtà. In questo modo esso diventa una matrice di conoscenza e rappresenta un elemento di unione e un fattore di coesione per quanti credono nella sua verità (Andolfi & Angelo, 1987).

Il dramma di Madame de Renal, invece, è quello di scappare, attraverso la relazione con il brillante precettore dei figli, da una monotona realtà matrimoniale: ‘Io donna sposata sarei innamorata! No. Questa follia sarà passeggera….. Però a mio marito, non gli tolgo nulla. Pensa solo ai suoi affari lui’.

Ritorna ancora una volta la lotta tra l’ethos e il pathos. Da un lato, i principi etici che vengono salvaguardati, non accettando che una donna sposata possa innamorarsi. In effetti, Louise de Renal ha una certa empatia per il giovane precettore, ma avendo a lungo frequentato i salotti francesi non pensava che potesse essere amore poiché ella considerava quest’ultimo come una disgustosa libidine. Solo nel momento in cui la cameriera Elisa gli confida di essere stata rifiutata da Julien riconosce i suoi sentimenti. Dall’altro il pathos ovvero ciò che Cigoli definisce accessibilità ai sentimenti. Durante il processo e subito dopo la morte di Julien, questi emergono in tutta la loro intensità. Muore dopo tre giorni dall’esecuzione del suo amante.

La lotta tra i principi etici e il pathos rimanda alla scelta dell’altro/a. Bowen introduce il concetto di ‘contratto fraudolento’ in cui ognuno dei partner coglie l’immagine dei bisogni profondi dell’altro e agisce come se proprio lui li soddisferà, pur essendo questa una cosa impossibile per entrambi. E’ il primo momento dell’incontro, dell’illusione, dell’innamoramento. Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera (2002) affermano che la fase dell’innamoramento è fondamentale nella costruzione dell’identità di coppia in cui avviene l’idealizzazione reciproca in base alla quale ogni membro della coppia propone inconsapevolmente all’altro e a se stesso, un’immagine ideale di Sé, che attrae l’altro in base a quanto questa corrisponde alla soluzione di antichi bisogni profondi. Cancrini ed Harrison (1991) sostengono che: ‘ci innamoriamo sempre dell’immagine che l’altro ci rimanda di noi, e dell’immagine che a lui rimandiamo. Da questo incrocio e scambio reciproco di immagini scaturisce quella che chiamiamo relazione’. Norsa e Zavattini (1997) fanno notare che ‘l’innamoramento ha a che fare con uno stato del Sé alla ricerca di qualcosa fuori da Sé‘. E’ la fase in cui i principi etici si sottomettono totalmente al pathos. Dopo la fase dell’illusione tipica dell’innamoramento inizia quella dell’individuazione in cui si dovrebbe accettare l’altro per quello che è piuttosto per come si vorrebbe o ci si è illusi che esso fosse. Zavattini e Santona (2007) a tal proposito fanno rilevare che ‘se le persone sono giunte con esito positivo al proprio sviluppo individuale, sono in grado di passare da una relazione basata sulla soddisfazione dei propri bisogni narcisistici ad un rapporto fondato sulla condivisione e l’empatia, sulla cooperazione e sulla comprensione, nonché sulla libera espressione della propria personalità’.

E’ la fase del matrimonio in cui si ricongiungono i principi etici con quelli del pathos, dove le promesse esplicite diventano cornice dell’incontro profondo. L’ethos, come abbiamo visto in precedenza, si basa sulla giustizia e la lealtà. Se la giustizia viene meno come all’interno di un matrimonio imposto, può anche venire meno la lealtà così come accade a Louise del Renal.

Per l’esplicarsi del pathos sono necessarie scelte libere, non imposte dalle famiglie. F. Botturi sostiene che:

se nella scelta c’è una risposta, e se nella risposta c’è una scelta, allora la libertà sorge e cresce con l’altra libertà. La compagnia quotidiana delle libertà rimanda per un verso… alla non assolutezza della libertà, ma per un altro verso impone anche di riflettere sul fatto che il contesto di libertà facilita la libertà stessa, così come un contesto d’imposizione impedisce e blocca la libertà.

In Sicilia per sfuggire alle imposizioni delle famiglie di origine, per conquistare l’accesso al mondo dei sentimenti al di là delle appartenenze di casta, per poter scegliere ed essere scelti si è sviluppato un fenomeno chiamato ‘fuitina’. Attraverso l’atto del fuggire i giovani amanti mettevano le famiglie di origine, che si opponevano alla loro unione, di fronte al ‘fatto compiuto’. Quest’ultimo consisteva nell’aver avuto un rapporto sessuale e la perdita della verginità da parte della ragazza. A quel punto le rispettive famiglie di origine erano costrette ad accettare la loro unione. Il matrimonio riparatore veniva celebrato subito dopo la fuga senza lo sfarzo tipico delle nozze regolari. Addirittura il matrimonio veniva celebrato all’alba alla sola presenza dei familiari e dei testimoni. Alla sposa era assolutamente vietato indossare l’abito bianco poiché quest’ultimo è simbolo di purezza e verginità che la ragazza fuggita aveva perso. Significativi i riti che seguivano la scoperta della ‘fuitina’. La famiglia, soprattutto quella della ragazza, riceveva parenti ed amici i quali portavano vivande (pasta, carne o altro) per un pasto consolatorio. I genitori nei giorni a seguire non venivano mai lasciati da soli. Singolare che questo rito è identico a quello che segue la morte di una persona cara in cui ai parenti viene portato dagli amici intimi ‘u cunsulo’ (pasto consolatorio). Veniva celebrata la morte del vecchio legame familiare. Seguiva il rito della ‘paciata’ in cui i genitori delle due famiglie si incontravano per organizzare il matrimonio riparatore e dare la dote necessaria ai futuri sposi. Ricordo che l’organizzazione del matrimonio prevedeva la dotazione della dote ai futuri sposi. Una volta che il giovane chiedeva la mano della figlia al padre della ragazza, prima che quest’ultimo acconsentisse al fidanzamento, si incontravano le due famiglie e si mettevano d’accordo sulla dote. Ognuna delle famiglie di origine dichiarava che cosa era disposta a dare ai futuri sposi. Si trattava come di un vero e proprio affare con tanto d’intermediari che cercavano di mettere d’accordo i contendenti. A volte si arrivava a sottoscrivere un atto davanti al notaio: i capitoli matrimoniali. Una volta trovato l’accordo poteva essere annunciato il fidanzamento ufficiale. Particolare attenzione in questo accordo veniva posta al corredo della ragazza. Era tradizione che le mamme si occupassero fin da quando le figlie erano piccole di fare il corredo. Il ricamo era un’arte in cui erano impegnate tutte le donne della famiglia indipendentemente dalla loro estrazione sociale. Il corredo minimo era costituito con multipli di dodici: poteva essere da 12, 24, 36 secondo le possibilità economiche. Un corredo da 24 era costituito da: 24 lenzuoli doppi di puro lino ricamati a mano, 24 semplici, 36 coppie di federe, 12 asciugamani di tela d’Olanda più 6 per gli ospiti, 12 tovaglie d’organza più 6 per tutti i giorni e così via. Alla mamma dello sposo veniva dato il compito di controllare, prima della celebrazione del matrimonio, che quanto dichiarato corrispondesse al vero. A volte svolgeva il compito direttamente presentandosi a casa della sposa il giorno del matrimonio ed aprendo la cassapanca che conteneva il corredo, a volte demandava questo compito ad una persona di sua fiducia. Nelle ricerche della banca della memoria, a cui accennavo in precedenza, abbiamo trovato un caso singolare in cui gli invitati aspettavano in chiesa il via libera alla celebrazione del matrimonio perché nella conta del corredo mancavano due paia di lenzuoli. La signora a cui era stato demandato il compito di controllare dalla mamma dello sposo, di fronte alla fermezza di quest’ultima a non acconsentire alla celebrazione del matrimonio, per risolvere la contesa andrò a casa sua ed integrò il corredo.

La ‘fuitina’ serviva a trasgredire, in nome del pathos, a superare tutte quelle prescrizioni che avvolgevano lo scegliersi e il conseguente matrimonio. Attraverso di essa si proclamava la libertà della scelta d’amore da parte dei futuri sposi. Era però una trasgressione che andava punita. Vista da parte dei genitori e della comunità era una sconfitta delle convenzioni sociali. Proprio per questo motivo rivivevano l’esperienza del lutto e praticavano i relativi riti. P. Donati (1986) sostiene che

nel matrimonio l’individuo trova occasione d’incontro e di scontro, di espressione e di alienazione nella società. Capire perché ci si debba sposare, e riuscire a sposarsi in modo soddisfacente, tanto per i subendi che per la comunità sociale che sta loro attorno, sono sempre state faccende molto serie, delle vie seriuse, oltrecché di calcoli, di scambi e di giochi di interesse.

Nel matrimonio viene coinvolta l’intera comunità essendo una istituzione sociale e religiosa.

Il matrimonio è una solida istituzione sociale, generalmente consacrata dalla religione, che si impone ai singoli in modo indiscusso. La coscienza collettiva non ammette che la soggettività individuale … entri a relativizzare una regola su cui è costruita tutta l’integrazione sociale, cioè l’identità e l’ordine di una intera comunità (Donati, 1986).

 

L’inibizione del sistema immunitario, dopo un danno cerebrale, porta ad un miglior recupero dal trauma cerebrale

I traumi cranici possono causare danni biologici al cervello irreversibili, portando il soggetto ad avere complicanze in ambito cognitivo, comportamentale o emotivo. La principale difesa immunitaria del cervello è data dalle cellule microgliali. Quali influenze possono avere queste cellule sul recupero dopo un danno cerebrale?

 

Dopo un trauma cerebrale si verifica un’attivazione del sistema immunitario, che si manifesta tramite un’infiammazione della zona danneggiata, agendo cosi come fattore protettivo per il cervello. Tuttavia, se l’infiammazione si protrae per troppo tempo può portare alla degenerazione neurologica con conseguente declino cognitivo (Henry et al., 2019).

I traumi cranici possono causare danni biologici al cervello irreversibili, portando il soggetto ad avere complicanze in ambito cognitivo, comportamentale o emotivo; la prognosi dipende dall’entità del danno e colloca lungo un continuum che va dal recupero completo al decesso nei casi più gravi. Il trauma cranico rappresenta una delle principali cause di morte (Alves& Bullock, 2001).

La principale difesa immunitaria del cervello è data dalle cellule microgliali: queste sono un tipo di cellule della glia che vanno a costituire la principale difesa immunitaria del nostro sistema nervoso centrale.

Le cellule della microglia costituiscono circa il 20% della popolazione totale di cellule all’interno del cervello, le quali si muovono costantemente alla ricerca di neuroni danneggiati, placche e agenti infettivi (Aloisi, 2001).

Una ricerca pubblicata nel 2019 su Journal of Neuroscience, ha condotto uno studio sperimentale sui topi, arrivando alla conclusione che agire sull’infiammazione che si protrae nel tempo, annullandola, porta a buoni risultati terapeutici nel trattamento dei traumi cerebrali (Lull&Block, 2010).

Lo studio condotto su due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo, prevedeva il creare un danno cerebrale ai topi appartenenti ad entrambi i gruppi, tuttavia, solo al gruppo sperimentale (dopo un mese dal trauma cerebrale) è stato inibito un particolare recettore imperativo per la sopravvivenza delle cellule microgliali. Conseguentemente a questa azione, sono state uccise il 95% delle cellule microgliali, questo processo è stato effettuato per una settimana, successivamente i ricercatori hanno smesso di inibire il recettore che causava la morte delle cellule. Ciò che è stato osservato è che, dopo il periodo di inibizione, le nuove cellule microgliali che si formavano risultavano essere in uno stato normale e non in uno stato infiammatorio, ciò ha portato a un miglioramento nel recupero dal danno cerebrale.

Quindi, i risultati mostrano che i topi appartenenti al gruppo sperimentale, che quindi avevano subito la distruzione delle cellule microgliali, dopo un mese dal trauma encefalico, mostravano un miglior recupero cerebrale rispetto ai topi appartenenti al gruppo di controllo, i quali non avevano ricevuto alcuna inibizione delle cellule microgliali; in particolare, i benefici tratti dal gruppo sperimentale sono riscontrabili in termini di: minor danno al cervello, meno neuroni morti e una miglior performance cognitiva e motoria (Henry et al., 2019).

I risultati di questo studio mostrano che la riduzione dello stato infiammatorio dopo un mese dal danno cerebrale, porta a dei benefici significativi nella prognosi dei traumi cerebrali. Tuttavia, trattandosi di uno studio preliminare condotto su topi, i ricercatori sottolineano l’importanza di svolgere ulteriori studi sperimentali prima di affermare con un certo grado di certezza che inibire le cellule microgliali possa essere un nuovo trattamento per i traumi cerebrali.

In particolare, si demarca la necessità di condurre uno studio analogo sugli esseri umani (Henry et al., 2019).

 

Mai più indifesa (2019) di C. Gambino e G. Salvatore – Recensione del libro

Mai più indifesa è un libro forte e d’impatto che cerca di spiegare le dinamiche psicologiche alla base di incastri relazionali perversi o malati, gli stili di personalità, gli schemi interpersonali maladattivi, i cicli interpersonali ed il ruolo che giocano le immagini e le cognizioni negative di sé.

 

Essere donna significa incarnare molti aspetti. Essere donne in carriera vuol dire dimenarsi tra gli impegni personali e professionali sentendo la pressione di dover fare tutto e bene. Essere donne potenti vuol dire gestire il frequente senso di inferiorità di alcuni partner e il rapporto con colleghi, non sempre basati sulla cooperazione. Essere donne di casa vuol dire equilibrare il senso di sacrificio che media tra i sogni di una vita e quello a cui si è voluto o dovuto rinunciare. Essere belle e affascinanti vuol dire doversi costruire dei confini che l’altro non può e non deve travalicare. Se a tutto questo si associano storie di vita particolarmente problematiche o eventi traumatici, gestire le emozioni ed i rapporti con gli altri può non essere semplice e si incorre frequentemente in dinamiche interpersonali basate sull’umiliazione, sulla derisione, sulla manipolazione e sottomissione. Insomma, abusi di vario titolo e grado, in varie fasi e contesti di vita.

Mai più indifesa è un libro forte e d’impatto. In quanto donna ho sentito sulla pelle e nello stomaco le dinamiche scritte dagli autori, catapultandomi in varie scene della mia vita, in età diverse e con più soggetti. Libri scritti in questo modo, con cuore e delicatezza, non possono non avere questo effetto: le storie delle protagoniste e dei protagonisti, infatti, sono narrate in modo vivido e crudo e permettono al lettore di entrare nel vivo delle scene. Per chi li conosce, questo stile è il chiaro timbro personale dei due autori. Bello il ‘tu’ che crea intimità e calore assieme ad una struttura semplice e chiara che unisce casi clinici a spiegazioni teoriche in una modalità facilmente accessibile a tutti. Vengono spiegate le dinamiche psicologiche alla base di incastri relazionali perversi o malati, gli stili di personalità, gli schemi interpersonali maladattivi, i cicli interpersonali ed il ruolo che giocano le immagini e le cognizioni negative di sé. Si può considerare un libro di auto-aiuto? Direi di sì. Ritrovarsi in queste righe è già una fase di consapevolezza che prepara e determina il cambiamento. E le storie raccontate sono la testimonianza di come sia possibile arrivarci.

Lo dimostrano le vicende di Laura e la sua paura di commettere errori, gestita mediante un perfezionismo clinico e standard elevati da dover necessariamente raggiungere anche all’interno delle relazioni.

Lo dimostra la storia di Federica, la cui dipendenza affettiva disfunzionale la costringeva ad instaurare storie con uomini che la frequentavano solo per scopi sessuali, rinforzando l’idea nucleare di non essere degna d’amore.

Lo dimostra Eleonora con la sua necessità di trovare continue conferme all’immagine di sé speciale, ricercando ammirazione e rinunciando agli aspetti di calore e di affetto interpersonale.

Poi abbiamo Giuseppina che ha superato il dolore derivante da un senso di sé frammentato e caotico, un dolore spesso agito attraverso comportamenti disregolati che mettevano a dura prova i suoi rapporti.

E infine ecco Ginevra, legata ad un uomo violento ed aggressivo e verso il quale si sentiva impotente e sottomessa, che adottava strategie utili per frenare i suoi scoppi d’ira nel vano tentativo di preservare l’equilibrio familiare e proteggere i figli.

Tutte queste storie di donne sono la prova tangibile che è possibile liberarsi da relazioni dannose e dal ruolo di vittima, attraverso un’adeguata psicoterapia. Nel libro viene descritta la terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) che ha come scopo principale quello di riconoscere gli schemi maladattivi disfunzionali e le strategie con cui si cerca di gestirli favorendo la comprensione del proprio mondo interno fatto di pensieri, immagini mentali, emozioni, stati corporei, comportamenti e di come essi si fanno largo nella vita quotidiana ed interpersonale. Per ogni storia è descritto l’incastro perverso creatosi con uomini abusanti, umilianti, maltrattanti e viene sottolineato il ruolo giocato dalla mancanza di agency personale. Con questo termine ci si riferisce alla capacità di mettere a fuoco i propri desideri e di considerare sé stessi in diritto di perseguirli. L’agency include anche la dimensione del confine. Il confine è la capacità di mantenere costantemente il senso di un proprio centro come individuo, il senso di sé come un soggetto distinto dagli altri….a cui si associa il senso di uno spazio personale che non può essere invaso (Gambino & Salvatore, 2019). Infatti la terapia prevede di incrementare la possibilità di agire sui propri stati interni in modo funzionale, dopo aver imparato a riconoscere i propri desideri e bisogni legittimi.

I terapeuti, in maniera estremamente normalizzante e validante, hanno aiutato tutte queste donne a riconoscere la lettura degli eventi schema-guidata, nonché le previsioni, createsi nella mente nel corso del tempo, di come gli altri risponderanno ai bisogni, e infine come riappropriarsi del proprio senso di autodeterminazione. La terapia viene descritta nelle sue macro componenti principali con particolare attenzione agli stati corporei, fisiologici. Infatti gli schemi maladattivi interpersonali, oltre a contenere immagini nucleari del sé, pensieri, ed emozioni, rappresentano anche un assetto fisiologico e viscerale, cioè corporeo, attraverso cui esso viene sperimentato. Un senso di sé come priva di valore, piuttosto che un senso di inadeguatezza o di solitudine, viene percepito in modi specifici e soggettivi nel corpo e questo peculiare senso di sé predisporrà le azioni. Molto spesso le non-azioni. Ad esempio sentirsi impotenti, incapaci di difendersi, con un corpo debole o rigido, predispone verso la passività, la remissività o il ritiro. Così la distanza dall’altro aggressivo viene percepita come unica possibilità, senza però risolvere definitivamente il rapporto.

Nel libro vengono descritte varie tipologie di abuso, dalla manipolazione psicologica (es. minaccia di abbandono) alla violenza fisica. Viene descritto il modello interpretativo del fenomeno in questione e la successiva terapia. Gli autori si focalizzano in particolare sulla necessità del lavoro sul corpo per favorire maggior senso di padronanza di sé, maggiore capacità di gestire emozioni discrepanti e situazioni problematiche, oltre a ritrovare parti di sé nuove, vitali, spesso dimenticate o costruirle da zero. Si riscoprono così potenzialità personali e nuove possibilità relazionali. Ritroviamo la descrizione del laboratorio esperienziale di gruppo Mai più indifesa, da cui il nome del libro, condotto personalmente da Chiara Gambino e Giampaolo Salvatore. Questo percorso consta di 5 incontri, fasi psicoeducative, condivisioni di esperienze in gruppo e fasi esperienziali, comprendenti un lavoro sul corpo e sulla mente attraverso tecniche immaginative, meditative, tecniche marziali e simulazioni situazionali. L’obiettivo finale? Divenire consapevoli del radicamento della propria immagine di sé all’interno di schemi maladattivi interpersonali. La differenziazione tra queste rappresentazioni e la realtà è la fase che predispone al cambiamento. Esso è possibile agendo attivamente sul corpo per ottenere un effetto anche sulle emozioni che smettono di essere predominanti diventando tollerabili e gestibili.

Leggere questo libro infonde speranza. Per certi versi, aiuta a sviluppare un senso di forza e trasmette l’importanza di fidarsi e affidarsi, accedendo a professioni d’aiuto. Essere donna nel 2020 vuol dire anche questo. Fortunatamente.

 

28 Days: i temi dolorosi e la dipendenza patologica – La LIBET nelle narrazioni

28 Giorni è una commedia drammatica degli anni 2000 che tratta principalmente il tema della dipendenza (alcolismo e tossicodipendenza) La protagonista è l’attrice Sandra Bullock nella veste di Gwen, scrittrice di successo che ama vivere la vita superando i limiti, perdendosi nella città di Newyork per locali, tra una festa e l’altra.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 09) 28 Days

 

Accompagnata dal suo compagno Jasper, ragazzo ribelle, amante del rischio e dell’adrenalina, amante insieme a lei di una vita apparentemente appagante ma piena di eccessi non privi di conseguenze, che questo film ben esemplifica.

Assistiamo infatti a una scena del film in cui Gwen arriva ubriaca e in ritardo al matrimonio della sorella. Dopo la cerimonia balla insieme al suo fidanzato, i due sono così ubriachi da mettere in circostanze imbarazzanti gli invitati fino al punto in cui lei cade sulla torta nuziale. Poi, lasciando la festa ruba una limousine e fa un incidente.

Possiamo leggere il personaggio di Gwen in chiave LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero 2016), un modello transdiagnostico cognitivo comportamentale di concettualizzazione della sofferenza psicologica sintomatica e della vulnerabilità della persona.

Nella LIBET per tema doloroso si intende uno stato mentale appreso nella storia di vita percepito come doloroso, pericoloso, insopportabile. Per piano si intende invece la strategia mentale o comportamentale che adotta la persona nel corso della sua vita per tenersi “lontano” dal tema doloroso.

Questo episodio, accompagnato dalla seguente pena del giudice che la condanna a 28 giorni di comunità terapeutica riabilitativa in alternativa al carcere, costituisce l’invalidazione del piano. Cioè l’evento che espone Gwen al tema doloroso che ha fino a quel momento cercato di tenere a distanza.

L’inizio del percorso comunitario, la costrizione e le regole, gli altri utenti con differenti problematiche, l’assenza di alcol e sostanze, la perenne fallimentare ricerca di farmaci calmanti, nell’insieme, portano Gwen ad attraversare un momento difficile e di grande cambiamento.

Proprio in un contesto diverso dal suo, in cui il piano semiadattivo immunizzante sembrava funzionare alla perfezione, emerge il suo tema doloroso (disamore e inadeguatezza- indegnità- sono inutile, sono sbagliata) con il quale spesso è costretta a confrontarsi … “mi vergogno per quello che sono, faccio solo dei guai“.

Lo si nota in un particolare momento.. quando i sintomi di astinenza iniziano a farsi sentire, la mente le si riempe di flashback, di ricordi sfocati.

Rivive scene in cui era davvero ubriaca, inizia così ad emergere un gran senso di colpa e di vergogna. L’astinenza le permette di fare un tuffo tra vecchi ricordi che tornano a galla in una lucidità forse troppo scomoda da tollerare. In comunità rivede e rivive scene dell’infanzia: ricorda la madre perennemente ubriaca, la sorella Lily molto critica nei suoi confronti, capisce di non avere mai ricevuto supporto e di aver dovuto sempre arrangiarsi da sola; a furia di sentirlo ripetere dalla sorella ha creduto inoltre di essere inutile, sbagliata, stupida, e che combinava solo dei guai. Sentirsi così è intollerabile per lei: bere e drogarsi, annebbiare la mente le serve per poter tollerare quella frustrazione. Cerca così di ridurre al minimo il dolore che la vita le provoca.

In comunità le cose iniziano con difficoltà a cambiare, il fidanzato però non l’aiuta nel cambiamento e tenta fino alla fine di riportarla alla vita precedente, unica ancora del loro legame, ma Gwen è determinata a cambiare.

Un colloquio immaginario con Gwen

T: Cerchiamo insieme di ricostruire sinteticamente quello che ci siamo dette. Vorrei aver capito bene. Da piccolina ha imparato che non bisogna mai chiedere aiuto, soprattutto ha imparato che le emozioni giuste, che vanno bene sono quelle “positive”, bisognava ridere sempre diceva mamma giusto?

P:Sì questi ricordi mi fanno male..

T: E’ normale che facciano male.. è naturale essere vulnerabili su questo punto con la sua storia.. Mi ha anche raccontato che ha osservato ed assistito spesso a comportamenti di mamma ubriaca che l’ha messa in pericolo diverse volte, sia a Lei che a Sua sorella Lily.. E diciamo anche che ha spesso usato l’alcol e lo stordimento per affrontare le situazioni della vita in modo più divertente e semplice. Ci si ritrova?

P: Sì solo che ora ho fatto un grosso incidente per colpa dell’alcol

T: Lei ha fatto quello che poteva da piccola ma anche ora. Cerchiamo di capire insieme.. tutto quello che mi ha raccontato è assolutamente normale, doloroso, difficile da accettare ma non impossibile. Bere l’ha aiutata a vedere le cose diversamente e non fare i conti con i propri pensieri, stati ed emozioni dolorose.. Questo tipo di strategia però ha anche dei costi …come le conseguenze sulla salute e i danni che può provocare a sé e altri altri. Che ne pensa?

P: Sì mi è molto difficile capirlo ma ora in comunità sto provando.. solo che qui non c’è alcol, droghe.. non mi danno i farmaci per il dolore vorrei andarmene ma comunque non posso perchè l’alternativa è il carcere..

T: Certo la prima cosa che ci verrebbe da fare è andare via e tornare alla vita di prima..l’alcol ha un effetto inibitorio.. un pò come se fosse un anestetico.. non ci fa sentire alcune emozioni che senza alcol vivremmo forse più intensamente e le sentiremmo più dolorose. Però Lei è arrivata qui dopo quell’incidente in cui ha rischiato la vita e sta comunque riuscendo a non bere, credo che ce la possa fare perchè lo sta già facendo.

P: Sì questo è vero. Ora mi vengono in mente tanti ricordi.. ma forse sono io che non ce la posso fare a stare qui.. è un problema mio.. sarò stupida io che non riesco a starmene ferma in una stanza con i miei pensieri e ricordi

T: Lei non è stupida. da quello che mi ha raccontato se lo è sempre sentita dire da piccolina.. quindi è normale se ci sentiamo stupidi a non riuscire a stare in una situazione scomoda e difficile.. Ed è anche vero che a tutti non fa piacere stare in un posto chiuso, con tutte le regole e le costrizioni che fuori, nella vita normale non ci sono. E’ tutto difficile e lo sarebbe per chiunque. Ma penso che lei ce la possa fare. Ha affrontato tante difficoltà nella sua vita e spesso da sola. Credo quindi che ci possa riuscire.

P: Sì so di essere comunque in un contesto dove posso provare a cambiare.. vorrei però che il mio fidanzato mi capisse. Pensi, l’altro giorno si è presentato con la proposta di  matrimonio, un anello e una bottiglia di champagne! Lui non capisce che io sto cercando di cambiare davvero e che è difficile stare qui senza l’alcol e le droghe e la vita che facevamo prima. Lui non è cambiato…e non m’aiuta questo, gliel’ho spiegato mille volte da quando viene a trovarmi ma non capisce…lui non se ne rende neanche conto della vita che fa che facevamo….

T: Certo deve essere molto molto sgradevole non sentirsi capiti. Tutti quando non ci siamo sentiamo capiti proviamo tristezza o rabbia. E’ normale. Gli altri però non li possiamo cambiare. Ciò che possiamo fare è lavorare su di noi, qui, ora. Possiamo cercare di capire insieme come comunicare a Jasper che per il nostro bene ora è importante avere un supporto vicino e non alcol o sostanze. La sua vita fuori è rimasta la stessa probabilmente. Lei ha fatto quello che poteva per farglielo capire. Ed è arrivata con le sue forze fino a qui

P:Sì ma infatti io sto capendo qui, grazie a tutti gli utenti che vorrei staccarmi definitivamente dalla vita che facevo prima, non è stato sano per me. Forse anche lui non è sano per me.

T: Come pensa che la terapia possa aiutarla in questo? Cosa dovrebbe cambiare secondo lei per andare in quella direzione?

P: Continuare il mio percorso qui e lui la sua vita fuori. Sarà difficile ma non posso tornare alla vita di prima.

T: OK. Possiamo darci altri obiettivi realistici oltre a quello di portare a termine il percorso con tutte le sue difficoltà e ostacoli su cui lavorare assieme?

P: Imparare a tollerare la frustrazione di momenti difficili, saper chiedere aiuto e ascoltare gli altri e non usare sostanze come strategie per affrontare la vita.

T: Bene. quindi potremmo dire che lavoreremo per tollerare meglio stati emotivi difficili da sopportare e negativi, e saper chiedere aiuto. Le ricordo che il lavoro che faremo insieme oltre al lavoro di gruppo che le consiglio di continuare a seguire con gli altri utenti non è mirato all’eliminazione delle emozioni negative ma ad una loro migliore gestione. Posso aiutarla sulla consapevolezza: Conoscere meglio le regole o le idee che la condizionano e la fanno soffrire e riconoscerle quando si attivano.

P: Sarà difficile ma non ho alternativa

T: Le ricordo che Lei è sempre libera di scegliere quanto impegnarsi o meno. Quanto è importante per lei cambiare questi aspetti da 0 a 10?

P: all’inizio quando sono entrata 4…o meno.. ora tanto

T: Tanto come lo potremmo definire da 0 a 10? P:8 T: e quanto pensa Lei di poter cambiare?

P: penso insieme a voi di poterlo fare

T: E quanto è prioritario farlo?

P: sempre 8

T:Partiremo gradualmente insieme al lavoro che già sta facendo. Cosa ne pensa?

P: Sì tanto sono sempre qua dentro non scappo stavolta e voglio provare davvero a cambiare.

T: Le chiedo.. cosa guadagnerebbe se cambiasse e affrontasse queste fatiche? Prevede degli ostacoli?

P: Starei meglio di salute, riallaccerei i rapporti con mia sorella..potrei chiederle un confronto e scusa..come ho fatto l’altro giorno quando abbiamo parlato tanto.. Ritroverei me stessa senza alcol e droghe.. potrei chiedere aiuto nelle situazioni di difficoltà, e crederei forse  di più in me stessa che posso riuscirci.. con la calma e concentrazione come ho fatto l’altro giorno con lo zoccolo del cavallo nelle attività di ippoterapia. Alla fine ce l ‘ho fatta, mi sono fidata e ho chiesto aiuto.

T: Bene cercheremo di continuare su questa strada, insieme.

Storia critica della psicoterapia (2020) di Foschi R. & Innamorati M. – Recensione del libro

Storia critica della psicoterapia è un volume che si propone di raccontare l’evoluzione delle forme e dei modi nei quali l’uomo si è via via avvicinato alla comprensione e alla cura della sofferenza psichica, in un percorso che intreccia diversi saperi e diverse prassi, dalla filosofia al teatro alla religione per arrivare infine alla medicina e alla psicologia sperimentale.

 

Nell’ultimo secolo, il campo delle psicoterapie ha conosciuto una vera e propria fioritura di libri, che è andata di pari passo con l’incremento del numero di modelli terapeutici ed ha permesso sia a chi si è accostato a questo mondo per ragioni di studio o formazione sia al lettore semplicemente curioso, di venire a contatto con molteplici teorie, tecniche, autori in un corpus di conoscenze considerevole e al contempo variegato e caotico.

Un dato che a prima vista può sembrare sorprendente è che i tentativi di mettere ordine in questo campo siano stati assai limitati, e i lavori che ci hanno provato si possono suddividere in tre categorie: alcuni autori hanno cercato di proporre una ricostruzione storica limitata però solo ad alcune teorie – tra questi, imprescindibile è il lavoro di Ellenberger (1980) ma ricordo tra gli altri Bateman (1998), Ruggiero (2010), Andolfi (2017);  altri hanno semplicemente proposto all’interno di un libro delle sintesi di alcuni modelli scelti in modo deliberato dagli autori tra tutti quelli disponibili (tra questi ricordo la fortunata serie di volumi curata da R. Corsini dal 1973 ad oggi, nel corso della quale gli autori hanno variato di volta in volta i modelli terapeutici considerati a seconda della loro popolarità; altri ancora hanno provato, seguendo una feconda intuizione di Jung, a presentare i modelli terapeutici a partire dalla biografia dei vari ‘creatori’, partendo dal presupposto che i vari modelli siano stati tentativi di venire a patti con la propria sofferenza e correndo quindi il rischio di scivolare nell’agiografia (G. E. Atwood e R. D. Storolow (2001), A. Carotenuto (1992).

Quello che è mancato fino ad oggi è un tentativo di costruire una storia della psicoterapia che sia al contempo sia una storia in senso stretto che una storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici, riconoscendo alla psicoterapia una delicata ma indispensabile posizione altra sia rispetto alla psicologia che rispetto alla psichiatria, seppur in costante dialogo con entrambe.

A questa mancanza rispondono in modo assai efficace R. Foschi e M. Innamorati nella loro Storia critica della Psicoterapia, che già nelle primissime pagine si propone di

…mostrare come la psicoterapia, soprattutto nel XX secolo, sia stata un terreno di sviluppo di tecniche più o meno formalizzate, quasi sempre filiate dalla psicoanalisi, la cui storia è intrecciata, su vari piani, con quella di filosofia e medicina e poi psicologia, nel contesto degli incontri e scontri fra queste discipline (pag 4)

Il volume si propone di raccontare l’evoluzione delle forme e dei modi nei quali l’uomo si è via via avvicinato alla comprensione e alla cura della sofferenza psichica, in un percorso che intreccia diversi saperi e diverse prassi, dalla filosofia al teatro alla religione per arrivare infine alla medicina e alla psicologia sperimentale. Nel corso di questo viaggio si ha ad esempio l’occasione di rivisitare alcuni filosofi greci e di rileggere il loro pensiero come un percorso di cura dell’anima, di scoprire che la ‘cura attraverso le parole’ attraversa la storia dell’uomo da diversi millenni e che la contrapposizione tra questa e i trattamenti ‘fisici’ è presente sin dalle più antiche origini della civiltà.

Il volume ripercorre l’origine della psicoanalisi a partire dall’ipnosi sul solco del lavoro di Ellenberger ma con un taglio originale, più attento al contesto filosofico e sociale nel quale le varie teorie venivano a costruirsi, ne declina lo sviluppo in modo accurato e dettagliato, dando spazio al pensiero di Freud ma anche a quello di tutti gli uomini e le donne che hanno contribuito a rendere la psicoanalisi il principale modello teorico tra le psicoterapie: si descrive il pensiero di Freud dando conto delle sue evoluzioni, le contestazioni di Adler e Jung, le trasgressioni di Ferenczi, Rank e Reich, la nascita dell’analisi infantile, lo sviluppo dei diversi modelli alternativi a quello pulsionale classico (dalle relazioni oggettuali alla psicologia del sé, il modello culturale di Horney e Fromm, la Psicologia dell’Io, l’Intersoggettivismo, l’Ermeneutica, il Lacanismo, l’Analisi Relazionale), si dà conto del percorso di gemmazione dalla psicoanalisi di larga parte dei modelli psicoterapeutici oggi esistenti, dal Cognitivismo alla Terapia Familiare alla Bioenergretica, l’Analisi Transazionale e la Terapia della Gestalt. In parallelo, presenta anche l’origine autonoma del Comportamentismo e il suo successivo incontro col Cognitivismo, descrivendo le diverse evoluzioni che da questo incontro si sono generate. Ancora, accanto al grande albero della psicoanalisi e al robusto albero della Terapia Cognitivo – Comportamentale, il libro dà conto anche della genesi della Psicologia Umanistica e dei suoi sviluppi e anche del modello Strategico e Sistemico.

Il pregio principale del libro è che il tutto è scritto in modo avvincente ed armonico, restituendo ai singoli le proprie specificità e al contempo inserendoli in una storia condivisa. E’ un lavoro, come ho detto, importante e innovativo, che ovviamente si presta a dei rischi: ogni lettore potrà pensare che di questo o di quel modello si sarebbero potute dire altre cose, e questo non è necessariamente un limite, in quanto può diventare uno stimolo a ripensare ai fondamenti del percorso che si è scelto. Per conto mio, l’unico rilievo che mi sento di fare (e che mi auguro possa essere evaso in una prossima edizione) è il poco spazio riservato a Milton Erickson e al gruppo di Palo Alto (che deve molto anche alla Semantica Generale di Korzybski), che rappresentano uno dei pochi modelli teorici e terapeutici non direttamente derivanti dalla psicoanalisi.

Concludendo, Storia critica della psicoterapia è un libro importante, di cui si sentiva il bisogno perché copre un vuoto che accompagna la psicoterapia sin dalle sue origini. Il mio augurio è che venga letto da colleghi, da studenti (che potranno beneficiare anche dell’imponente bibliografia) e da tutti coloro a cui il tema interessa.

Sadismo sessuale: il confine sottile tra dolore e piacere

Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5, APA 2013), il sadismo sessuale è una forma di parafilia sessuale in cui i comportamenti sadici si accentuano fino a diventare dannosi.

 

Un comportamento sessuale sadico moderato è una pratica sessuale riscontrabile tra adulti consenzienti, di solito è di portata limitata, non è nocivo e non soddisfa i criteri clinici per un disturbo parafiliaco. Tuttavia, il suo divenire patologico e coercitivo dipende dal grado di espressione. Infatti, il sadismo consiste nell’infliggere sofferenze fisiche o psicologiche (es. umiliazione, terrore) sull’altro per stimolare l’eccitazione sessuale e l’orgasmo.

Quando il sadismo sessuale comporta la messa in atto di comportamenti, fantasie o impulsi che causano disagio significativo, compromissione comportamentale significativa o danno ad altri, si parla di disturbo da sadismo sessuale. In particolare, per la diagnosi di disturbo da sadismo sessuale è fondamentale che il comportamento sadico venga messo in atto nei confronti di una persona non consenziente. Inoltre, bisogna specificare se avviene in ambiente controllato (individui che vivono in ambienti istituzionali o in altri ambienti dove le possibilità di impegnarsi in comportamenti sessuali sadici sono limitate) e se è in fase di remissione completa, ossia l’individuo non ha messo in atto tali desideri con una persona non consenziente e non si è verificato alcun disagio o compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita di un individuo per almeno 5 anni e all’interno di un ambiente non controllato. Si possono distinguere forme diverse di sadismo: sadismo criminale, sadismo perverso e sadismo nevrotico.

Lo scopo del presente studio è fornire una revisione sistematica della letteratura riguardante il sadismo sessuale coercitivo degli ultimi tre anni. È stata condotta una ricerca sistematica qualitativa della letteratura presente sul sadismo sessuale in diversi database, focalizzando successivamente l’attenzione su 25 studi e articoli pubblicati in un periodo di tempo limitato agli ultimi tre anni.

La maggior parte degli studi ha evidenziato che il comportamento sadico sembra essere particolarmente presente nel contesto criminale e in psichiatria forense. Quando viene praticato con partner non consenzienti, il sadismo sessuale costituisce un’attività criminale e generalmente continua sino a che il soggetto che attua comportamenti sadici non venga arrestato; tuttavia, esso non è sinonimo di abuso sessuale, ma una complessa miscela di sesso e potere sulla vittima. In particolare, uno studio dimostra che la percentuale di autori di reati sessuali maschili con diagnosi di sadismo sessuale era del 4,4%, ma il tratto è presente in una percentuale molto più elevata di persone che hanno commesso omicidi motivati sessualmente (Eher et al., 2019).

Altri studi, invece, erano focalizzati su una possibile analisi dell’eziologia del disturbo sadico coercitivo e degli elementi coinvolti evidenziando che il legame tra sadismo e coercizione sessuale non può essere attribuito a cause genetiche o esclusivamente all’ambiente familiare. Inoltre, è stata evidenziata una correlazione significativa tra il disturbo sadico sessuale e il disturbo antisociale di personalità e disturbo della condotta (Baur et al., 2016).

Ciò che emerge dagli studi è l’importanza di sottolineare l’utilità degli indicatori comportamentali per la valutazione del sadismo sessuale in procedimenti legali e contesti forensi, in modo da prevedere un possibile comportamento sadico criminale. In questo caso la valutazione era effettuata tramite l’utilizzo della Sexual Sadism Scale (Yoon et al., 2019) e del Massachusetts Treatment Center (MTC; Longpré et al., 2019). Quest’ultimo strumento era basato sui dati di archivio di 486 autori di reati sessuali maschili adulti che erano stati valutati in un’istituzione correzionale in Massachusetts tra il 1959 e il 1984 e valutano vari aspetti del comportamento della scena del crimine. Questi indicatori sostengono, in termini clinici, una struttura dimensionale del sadismo sessuale che non preclude l’uso di etichette e soglie diagnostiche, ma lo definiscono piuttosto un continuum che prevede diverse manifestazioni comportamentali.

Tra i trattamenti maggiormente proposti con i pazienti sadici vi è la psicoterapia psicodinamica, (anche se non sempre risulta efficace) il cui obiettivo non è quello di eliminare la parafilia, ma di modificare le relazioni oggettuali (ossia i rapporti stabiliti nel corso dello sviluppo con persone o cose dell’ambiente esterno significative sul piano affettivo), del funzionamento dell’Io e l’integrazione del comportamento perverso con il resto della personalità. Altri trattamenti si basano sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale e su interventi multidisciplinari che includono in alcuni casi anche la prescrizione di psicofarmaci, quali psicotropi serotoninergici e antiandrogeni che vanno a contrastare gli elevati livelli di testosterone nei pazienti.

Un limite di questa review è costituito dal fatto che quasi tutti gli studi hanno riguardato partecipanti o autori di sesso maschile e, poiché esistono casi di sadici sessuali femminili, sono necessarie ulteriori ricerche su questo argomento. Inoltre, si potrebbero approfondire le possibilità di trattamento per gli individui più patologici.

 

La “rivoluzione cognitiv(ist)a” del Terapeuta Sapiens, e dopo cosa ci sarà?

Se è vero che la terapia personale per un terapeuta è fondamentale, perché non tutti la fanno? La self-disclosure è una manovra pericolosa oppure contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente, favorendo una maggior vicinanza? Che influenza hanno questi aspetti sulla relazione terapeutica?

Si suggerisce l’ascolto del brano Preludio (Osanna, 1972) durante la lettura.

 

Ouverture

Questo articolo nasce con l’intenzione di contribuire allo stimolante dibattito iniziato in seguito alla pubblicazione di un articolo della collega Alessia Zoppi La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva? a cui ha risposto Giovanni Maria Ruggiero con La self disclosure e i rischi degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali nella relazione terapeutica.

Accordi e disaccordi

Parto dal presupposto che mi trovo in accordo con alcune posizioni di entrambi. Sono d’accordo con la collega Zoppi quando sottolinea l’importanza della psicoterapia personale (anche se lei parla di analisi) per ogni terapeuta (o analista). Al riguardo ne avevamo già parlato (proprio qualche giorno prima della pubblicazione dell’articolo della collega) io e Virginia Valentino in L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale.

Insomma la terapia personale per un terapeuta è fondamentale. Perché allora non tutti la fanno? Non sottovalutiamo il fatto che ha un costo e non è basso. Spesso durante la scuola molti studenti non se la possono permettere, non rimaniamo solo su aspetti psicologici (resistenze o schemi personali), ma teniamo anche conto di questi aspetti reali (economici) che incidono notevolmente. Stesso discorso riguarda la supervisione e la formazione. Certe scuole di stampo psicodinamico richiedono sedute anche bisettimanali, alcune addirittura richiedono un tot di monte ore certificato (presso i loro stessi docenti) anche solo per potersi iscrivere. Credo sinceramente che anche questo spinga molti giovani laureati a scegliere le scuole di orientamento Cognitivo-Comportamentale. Mi sembra una situazione molto simile a quella che spinge i pazienti meno abbienti a rivolgersi e agli psichiatri dell’ASL pagando solo il ticket, ai counselor e altre figure periferiche anziché accedere alla psicoterapia negli studi privati. Concordo anche con Ruggiero quando risponde alle vedute, a mio parere, un po’ stereotipate della collega. Ad ogni modo, senza scomodare Freud, Ferenczi e ancora più anacronisticamente Lacan (lasciamoli riposare), la terapia personale, almeno per me, è indispensabile, non solo come persona, ma anche come terapeuta. Non è questa la sede per specificarne i motivi. Rispondendo comunque a entrambi i colleghi cerco di portare avanti la mia formulazione. In particolare quando Zoppi scrive:

La terapia cognitiva, diversamente dalla psicoanalisi, ha tre grandi aree di problematicità: 1) un’attenzione settoriale al disturbo; 2) il trattamento solo del sintomo con il rischio di nuove ricadute e cronicizzazione.

Eccoci ancora alle prese con questa storia. Una volta mi ritrovai ad un convegno a relazionare con un collega psicoanalista ortodosso, io mi stavo aprendo ormai da tempo ad assimilare nuove prospettive e avevo voglia di un confronto con lui, fui gelato quando mi disse qualcosa tipo: “Certo che voi cognitivisti che volete cambiare i pensieri della gente…”. Voglio ricordare che con la parola “Cognitivo”, della locuzione “Terapia Cognitivo-Comportamentale”, non si intendono solo i pensieri automatici negativi di Beck, la CAS (Cognitive Attentional Syndrome) di Wells o le varie forme di pensieri superficiali appartenenti al “qui e ora” indagati da tanti altri autori. Ci sono ben altri aspetti del funzionamento mentale, ad esempio, quelli che lo stesso Beck chiamava “Core Beliefs”, Ellis “Credenze Disfunzionali Irrazionali”, mi vengono in mente anche gli schemi di Piaget, i MOI di Bowlby o la formulazione della Terapia Metacognitiva Interpersonale per i Disturbi di Personalità che poi riprenderemo. Attengono tutti ad una concezione a mio parere “cognitivista” (nella mia interpretazione inteso come un atteggiamento clinico, operativo verso il funzionamento mentale) e non cognitiva (cioè un atteggiamento puramente teorico, speculativo o accademico). Questo per dire che la psicoterapia cognitiva non è solo quello dei servizi pubblici anglofoni e dei protocolli “evidence based” di 8-12 sedute di cui si pubblica tanto. Potrei anche semplicemente dire che non è vero, che la collega si sbaglia, nei primi mesi del 2020 non è così, se lo è ancora negli altri stati questo non lo so, ma adesso in Italia non è così (o almeno lo spero). Ancora, la collega scrive:

Nella terapia cognitiva (come in altri modelli) il rischio di usare la self-disclosure può indurre un contatto e apertura eccessive fino a veri e propri processi di inversione del ruolo.

Ruggiero replica affermando che nella self-disclosure vi è insito un aspetto cognitivo:

Normalizzazione del disagio giudicante che il paziente sente verso i propri stati d’animo, ma soprattutto c’è un aspetto relazionale: la normalizzazione funziona non per il suo contenuto tecnico ma perché il terapista crea quella situazione di massima condivisione che è, la rivelazione di sé all’altro, la rottura della parete.

Continua:

E però confessiamolo: questa è una risposta pedante. Chiediamoci invece: e se avesse ragione Zoppi? E se malgrado tutte le teorie fosse concretamente possibile che il terapeuta cognitivo sia a rischio di un eccesso di accudimento e condivisione con il paziente?

Duetto e aria

Ma che cos’è la self-disclosure e a cosa serve? Credo sia più facile a farsi che a dirsi. Nella mia esperienza contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente. E’ qualcosa che favorisce (agita nel modo e nel momento giusto), una maggiore risonanza, una vicinanza, non è quindi, almeno secondo il mio modesto punto di vista, semplicemente una “normalizzazione” o una “condivisione”. Anche (ma non solo), la self-disclosure favorisce i cosiddetti “now moments”:

In un “momento di incontro” gli aspetti transferali e controtransferali sono ridotti al minimo, mentre viene messa in gioco l’umanità dei due partner, relativamente liberi dai vincoli del loro ruolo. (BGPSG, 2012)

Si vive sulla pelle di entrambi:

La percezione immediata di essere simile all’altro. (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Alcuni tra gli aspetti cardine di una buona relazione terapeutica riguardano quello che succede all’interno di un contesto relazionale reale: simpatia reciproca, affinità, condivisione di interessi o passioni comuni e anche ovviamente i vissuti e agiti transferali e controtransferali, i pazienti vivono la relazione terapeutica come i rapporti reali, per loro invalidanti o dolorosi (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Un terapeuta cautamente trasparente, poco criptico, che fa vedere la sua mente, anche con qualche self-disclosure, sicuramente aiuta a creare il prerequisito indispensabile della sintonizzazione per ogni terapia, oltre a favorire nel paziente una maggiore comprensione degli stati mentali altrui, abilità in lui molto o del tutto assente. Tornando al discorso dell’utilità della terapia personale, Ruggiero scrive:

Il problema non è introdurre o meno l’analisi personale, ma introdurla senza ripensare e, se è il caso, esplicitamente lasciarsi alle spalle i principi del paradigma clinico cognitivo comportamentale in relazione al rapporto tra formazione e analisi personale. Il rischio è trasformare questo inserimento nella solita iniziativa eclettica che sta diventando la vera debolezza dell’ambiente cognitivo in senso lato, un ambiente ombrello in cui si infila di tutto.

Secondo me, la terapia personale, proprio alla luce di un approccio clinico di stampo cognitivo, ma comunque strutturato sugli schemi, ritengo sia importante se non indispensabile. Nel bene e nel male, dovremmo aprirci alle varie “iniziative eclettiche”, con esiti, certo, non sempre proficui. Il fatto è che siamo nel corso di un fiume in piena, c’è un fermento nel mondo clinico che non accenna a estinguersi (fortunatamente), non dobbiamo e non possiamo giacere nelle rassicuranti pozze. Nel fiume dell’integrazione non possiamo rimanere sulle sponde della rigidità (Siegel, 2017). Ancora Ruggiero:

Non per nulla ci siamo inventati il fantasma interno del paziente difficile, il mostro che ci molla lì in seduta e se ne va perché sbagliamo una parola.

In realtà è un fantasma incarnato e davvero esistente, nella sofferenza del paziente, nei suoi schemi e in quelli del terapeuta. Contribuiamo anche noi, appunto con le nostre rappresentazioni sul paziente e i nostri schemi a farlo droppare, forse sbagliando qualcosa in più di una singola parola. Spesso poi, non ce ne rendiamo nemmeno conto e di conseguenza, non ripariamo una microfrattura relazionale che anche con una self-disclosure appropriata e sentita, una metacomunicazione o lo svelamento di un proprio stato interno (o di un “controtransfert”) consente di favorire un clima più caldo senza proteggere troppo il paziente. Che poi nel mondo relazionale traumatico e/o invalidante in cui è vissuto, proteggiamolo pure un pochino il nostro pazientino. Ovvio che poi, tutto dipende dalle caratteristiche del paziente e dalla fase terapeutica in cui ci troviamo, decentriamoci da noi stessi e cerchiamo di capire il suo “piano”, quanto si fida, il suo bisogno attivo quel momento, i suoi obiettivi sani, i traumi, relazionali e non, che vorrebbe gestire, i sensi di colpa e le credenze patogene che sta cercando di testare (Gazzillo, 2016), con noi, essere umani, prima che terapeuti.

Recitativo e cavatina

Forse siamo un po’ traumatizzati, forse siamo sempre un po’ dissociati. (Ruggiero)

E’ vero. Io lo sono spesso. A volte mi “traumatizzo e mi dissocio” anche in seduta. Tuttavia cerco di riconoscere e modulare questi stati interni, a volte facendo vedere anche dei pezzettini della mia mente al paziente. Questo gli permette di riconoscere anche i suoi stati interni e le memorie associate incarnate da cui si sono schematizzati (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Da qui c’è la svolta. Giochiamo a carte scoperte e il clima in seduta diventa sereno e rilassato. In questo stato relazionale di “sintonizzazione preriflessiva elevata”, oltre alle tecniche TCC, possiamo concordare col paziente anche di correre nudo in un bosco norvegese innevato (Encouragement of Risk Taking), ci andrà perché mi ha sentito vicino (senza per forza diventare attaccamentologi Bowlbiani o Winnicottiani), lo ha sentito dalla persona, non perché glielo ha detto il clinico che segue i protocolli “evidence based”. E infine, sempre Ruggiero:

Grazie Liotti, sul serio; anche se rimaniamo diffidenti verso la forzata ricerca di una serie di interventi relazionali alla ricerca della cooperazione come esito: ecco dove potrebbe celarsi il rischio accuditivo, nella ricerca della cooperazione come esito e non come connotazione.

Grazie Liotti davvero. Vero è che la cooperazione non la si cerca e non la si forza, è qualcosa che emerge in seduta, nell’autenticità relazionale, nella condivisione di stati mentali, esperienze e anche vissuti (senza esagerare), nel piacere reciproco di stare assieme in pochi metri quadrati di spazio. Inoltre, non è un fine o un esito da agguantare, ma lo “strumento” che ci permette di raggiungere gli obiettivi terapeutici condivisi e cooperativamente concordati. In tal senso allora, non ci vedo nessun rischio accuditivo, anche perché la cooperazione è un sistema semplicemente diverso dall’accudimento: sia ad esempio per l’origine e la finalità evoluzionistica, sia per l’assetto emotivo e relazionale. Si può passare così dai SMI di secondo livello (di cui la cooperazione e l’accudimento, secondo l’architettura liottiana), alla sintonizzazione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, 2008), qualcosa di più elevato che muove pure le montagne innevate norvegesi. E qui torna il discorso dei “now moments” e della sintonizzazione tra paziente e terapeuta in seduta (Meta-self-disclosure: perdonate i rimandi alla Norvegia ma i miei spazi e i miei tempi domestici in questi giorni sono dominati dal secondo capitolo di un celebre film d’animazione per bambini ambientato appunto tra le nevi e i ghiacci norvegesi). In ogni caso possiamo fare interventi sulla relazione, non solo per accudire o proteggere il paziente, ma anche (e forse soprattutto) per aiutarlo a esplorare meglio il suo mondo interno, lo stato intersoggettivo della relazione e anche la mia mente. Mi viene in mente un caso recentissimo: rivedo una paziente in seguito a un tentato suicidio tramite impiccagione e relativo ricovero psichiatrico. Lei è orfana di padre e con madre psicotica ricoverata da decenni in un centro residenziale. La terapia andava bene, la famiglia (allargata) ad un certo punto si è intromessa ed è stata costretta a interrompere il percorso. Quando l’ho rivista, dopo 3 mesi, era distrutta, consumata nel corpo, nell’animo e nell’energia. Dimagrita e consunta come un malato terminale. Gli occhi erano opachi e spenti. Ad un certo punto della seduta, verso la fine, ho voluto rischiare, ho fatto un intervento un po’ avventato, ma sincero, conoscevo il funzionamento della paziente e lo potevo fare. Con un accenno di sorriso le ho detto: “Quindi adesso ha imparato a realizzare un cappio? In effetti lei è sempre stata brava con le attività manuali. E’ una cosa che io non saprei fare, a pensarci mi sembra davvero difficile, è vero? Come si fa?” La svolta. Ha cominciato a sorridere. Ho rivisto la luce nei suoi occhi, la sua postura curva è cambiata, le spalle si sono allargate facendo emergere il petto, mentre con voce vivace, ridacchiando sommessamente, mi ha raccontato come si costruisce un cappio e le difficoltà incontrate nel farlo. Ad un certo punto si è fermata e mi ha guardato fisso negli occhi. Era sorpresa. Forse del suo cambiamento di stato mentale. Le ho detto che mi sono permesso di dire quella frase perché ero abbastanza sicuro che potevamo anche permetterci di ironizzare assieme su una cosa così drammatica. Mi ha risposto: “Si è vero”. Le ho fatto notare il passaggio di stato e i correlati emotivi e paraverbali. Senza troppa retorica né troppo buonismo. Poi c’è stato un momento di commozione, anche io mi sono commosso (ma senza lacrime) e se ne è accorta. Eravamo vicinissimi. Mi ha sentito. Lo scopo non era quello di farla piangere o ridere su una sua sofferenza. Avevo compreso che in quel momento lei non aveva bisogno di essere accudita, di ricevere affetto, tantomeno di essere sostenuta, incoraggiata per il suo presente difficile e il suo futuro incerto, ovvio che non aveva bisogno di essere rimproverata, giudicata e nemmeno validata nella sua autonomia per quel gesto di protesta rabbiosa estremo. Ho compreso che in quel momento aveva bisogno solo di sentire una persona vicina, complice. Come quando ci si guarda negli occhi senza parlare sapendo che si sta pensando la stessa cosa, divertente o triste che essa sia.  Ecco questo non è assolutamente accudimento, manco cooperazione, forse è questa la dimensione intersoggettiva della relazione? Qui non c’è rischio di accudimento, tantomeno gli effetti iatrogeni della self-disclosure. Solo dopo, mentre mi raccontava come si realizza un cappio, si è attivato il sistema cooperativo, “shiftando” poi sull’attaccamento quando si è commossa. Questo passaggio non poteva realizzarsi se prima non andavamo su un sistema di ordine superiore: l’intersoggettività, la sintonizzazione. Solo in condizioni di sicurezza relazionale poteva permettersi di viversi un dolore immenso e di chiedere aiuto.

Gran finale fugato

Concludendo, e replicando ai colleghi sulla presunta superficialità degli approcci cognitivisti, mi sembra che non si tenga conto degli enormi sforzi che si stanno facendo negli ultimi anni da vari orientamenti e scuole di pensiero che, partendo da una base sia psicodinamica, sia cognitivista, hanno cercato e stanno cercando, di indagare e di agire su dinamiche mentali, corporee, emotive o comportamentali più strutturate. Mi viene in mente la Schema Therapy, la corrente Cognitivo-Evoluzionista, la Control Mastery Theory, alcuni filoni bottom-up relativamente più recenti come la Mindfulness, la Sensorimotor o l’EMDR (ovviamente con tutti i suoi limiti). In particolare, la Terapia Metacognitiva Interpersonale per i disturbi di Personalità (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore) sta svolgendo negli ultimi anni un tentativo, non di integrare, ma di fondere diversi ambiti tradizionalmente afferenti in modo rigido alla psicodinamica, alla psicologia “del profondo”, con orientamenti riduttivamente definiti cognitivisti e altri approcci tipici dell’area bottom-up o gestaltica. D’altronde lo stesso Dimaggio, uno dei fondatori della TMI, è stato definito il “più cognitivista tra gli psicodinamici e il più psicodinamico tra i cognitivisti”. A mio parere non si tratta di un processo di integrazione tra vari orientamenti, tecniche o procedure consolidate. La pizza Margherita non è l’integrazione tra focaccia, fiordilatte, basilico e pomodoro, è la pizza Margherita “tout court”. Io la vedo ben più di un’integrazione, non c’è nessuna volontà, nessuno sforzo cosciente nel fare questo, almeno non mi sembra. Credo che si tratti in realtà di un sforzo non solo accademico e teorico, ma anche e soprattutto clinico, perché è lì che la TMI sta sortendo gli effetti più evidenti, proprio dove meno risuona, all’interno degli studi clinici (“Stiamo vedendo che sta roba funziona”, cit.). Non è qualcosa alla Orson Welles quando diceva: “Il talento copia il genio ruba”. La TMI non sta integrando ma sta attingendo, sta cucinando dei buoni ingredienti per una cucina ricercata. Le varie procedure, tecniche, visioni si stanno compattando in un unico corpus teorico, clinico, applicativo e procedurale solido, coerente e compatto. Tutto questo ha un effetto iatrogeno positivo molto stimolante giacché sta producendo un avvicinamento tra diverse prospettive, diversi orientamenti anche storicamente distanti tra loro, diverse formazioni accademiche e terapeutiche.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

‘Ehi Google, cosa sai fare?’: gli assistenti digitali al nostro servizio – Psicologia Digitale

Il mercato degli smart speaker sta crescendo rapidamente: a livello globale, secondo i dati di Canalys, si stima che alla fine del 2019 ne siano stati venduti circa 200 milioni.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 7) “Ehi Google, cosa sai fare?”: gli assistenti digitali al nostro servizio 

 

Milioni di persone quindi fruiscono quotidianamente di contenuti e servizi digitali tramite smart speaker come Amazon Echo e Google Home (ma anche Xiaomi, Alibaba, Baidu tra i player mondiali).

Ascoltare la radio o la musica, controllare altri device come la tv, avere accesso a notizie su meteo e traffico in tempo reale, gestire timer e sveglie, richiedere informazioni e aggiornarsi su borsa e finanza: basta la nostra voce per eseguire dei comandi.

Smart speaker: cosa sono

Con Internet of Things (IoT) si fa riferimento all’insieme delle procedure e delle tecnologie che collegano diversi oggetti tramite rete wireless, utilizzando sensori e altri componenti degli oggetti stessi. Gli smart home device, dispositivi ‘intelligenti’, si basano su IoT per collegare vari dispositivi ad uso domestico, per esempio telecamere di sicurezza, smart speaker, sistemi di illuminazione, termostati intelligenti, smart hub, rivelatori di fumo, ecc. Si tratta di soluzioni che consentono di monitorare, controllare e gestire tutti questi apparecchi elettronici.

Gli smart speaker (o smart home personal assistant, SPA), che fanno parte degli smart home device, sono progettati per compiere alcune azioni e controllarne altre a comando: possono riprodurre musica ma anche accendere o spegnere altri dispositivi come una lampada o la tv, alzare o abbassare il volume, il tutto su comando senza altri stimoli che la voce umana.

Smart home personal assistant: cosa ci dice la ricerca

Una delle regole auree del marketing è creare bisogni per poi soddisfarli. Abbiamo davvero bisogno di un assistente vocale per sapere che ore sono o spegnere la tv?

Al momento la ricerca non ci dice molto sulle motivazioni che ci spingono ad utilizzali.

Molti studi si sono focalizzati invece sul tema della privacy: infatti, gli smart speaker se da un lato offrono vantaggi e praticità, dall’altro sollevano anche problemi di sicurezza a causa dei microfoni in ascolto continuo. Nonostante una generale crescente preoccupazione, secondo Lau e colleghi (2018) nei fatti molti utenti che li utilizzano sembrano poco consapevoli circa i potenziali rischi per la loro privacy e hanno una fiducia ‘cieca’. Questi utenti ‘barattano’ i propri dati personali pur di utilizzare questi device e raramente personalizzano i setting sulla privacy.

Alcuni studi, come ad esempio quello di Park e colleghi (2018), provano ad identificare quali sono le caratteristiche predittive dell’uso degli smart speaker, in particolare individuando funzionalità, design e caratteristiche del prodotto (come la disponibilità percepita) come principali driver.

Altri studi esplorano invece i possibili utilizzi con pazienti con lesioni cerebrali e disturbo da stress post traumatico; l’obiettivo è duplice: identificare le opportunità che il prodotto può offrire come tecnologia di assistenza e definire le sfide riguardo l’usabilità per persone con deficit cognitivi (Wallace & Morris, 2018).

Ancora, altri autori (ad esempio, Reis e colleghi nel 2017) hanno analizzato come diversi assistenti (Amazon, Google, Microsoft e Apple) potrebbero essere utilizzati per aiutare gli anziani a rafforzare i loro legami sociali con la famiglia, gli amici e i gruppi di ex colleghi di lavoro: gli assistenti digitali possono acquisire informazioni dall’utente attraverso le immagini della telecamera, oltre a comunicare con l’utente mediante un linguaggio vocale naturale. Dato che isolamento sociale e solitudine sono fattori di rischio soprattutto in popolazioni di età avanzata, l’interazione, seppure mediata, potrebbe avere un effetto positivo e protettivo.

Gli smart home personal assistants (SPA) si stanno diffondendo sempre di più e di pari passo l’approfondimento di varie aree di ricerca. Come per la maggior parte delle nuove tecnologie, l’adozione da parte delle persone è così rapida che precede le evidenze scientifiche; nei prossimi anni assisteremo a un consolidamento della tecnologia e delle nostre conoscenze.

Ma per ora… ‘Ehi Google, a cosa giochiamo?’.

 


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Il pensiero mafioso

Psicologia, psichiatria e pensiero mafioso hanno avuto, fino ai primi anni ’90, pochi punti di contatto. Solo recentemente si è indagato sulle peculiarità del pensiero criminale organizzato e su tutto quello che circonda questo mondo.

 

La cultura mafiosa ha sempre avuto la capacità di nascondersi, mimetizzarsi all’interno delle realtà civili ed istituzionali nelle quali si è trovata ad operare, determinando una cortina di silenzio ufficiale che la rendesse invisibile. Una prima precisazione: nei nostri studi parliamo di cultura mafiosa o pensiero mafioso come una modalità distorta di vivere la propria identità ed i rapporti con il sociale tipici dell’organizzazione criminale mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Il pensiero principale, che distingue i membri di un’associazione criminale organizzata, come la Mafia, e i criminali comuni, è sicuramente il senso di appartenenza all’associazione stessa, connesso ad un forte senso di essere un “Uomo D’onore”. Come specifica il Prof. Lo Verso:

Abbiamo sostenuto che Cosa Nostra non è soltanto un’organizzazione criminale, nel senso che la sua caratteristica più specifica è il tipo d’identità del soggetto mafioso: nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore.

Possiamo quindi capire, in una prima analisi, che il senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale, spinge i membri ad identificarsi fortemente con il gruppo stesso, con la sua simbologia, con i suoi metodi e con i suoi riti.

Questo non ci deve sorprendere in quanto gli studi e le pubblicazioni di molti psicologici sociali hanno esaminato ed interpretato le funzionalità e le disfunzionalità dei gruppi, come il conformismo normativo, l’identificazione dei ruoli, etc.

Attraverso quale percorso si diventa uomo d’onore? In molte ricerche abbiamo notato come questi soggetti provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da famiglie in cui i valori tipici del pensiero mafioso sono presenti e proposti come matrice unica di significazione degli eventi. Un mondo anatropo-psichico in cui vengono esaltati i valori maschili della forza, del coraggio, dell’onore, della virilità, della freddezza, di contro al mondo degli “sbirri”, dei poliziotti, dei giudici, delle forze dell’ordine in generale. Questa rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini “rispettabili” ed uno esterno malvagio è caratteristica fondante del pensiero mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Naturalmente questo si va a sommare ad una cultura che si tramanda di padre in figlio, nonché dall’influenza sociale oltre che informativa, nonché forti strumenti di persuasione sia dei pari, sia della famiglia, sia appunto della società stessa. Va sottolineata quindi anche una forma di conformismo e di obbedienza alle figure autoritarie di riferimento, in cui

l’Io individuale è pienamente coincidente con il Noi sovra-personale e trans-personale. Il soggetto non può essere diverso, altro, dal mondo che lo ha concepito psichicamente,

Già in questa definizione abbiamo presente l’orizzonte culturale, antropologico e psichico tipico di questa realtà, che la caratterizza come una modalità di pensiero specifica. Il nostro modello teorico, quello della gruppo-analisi soggettuale italiana (Lo Verso G. , 1994), ci ha in questo permesso di indagare questa realtà a partire dall’attenzione al legame che esiste tra mondo psichico (cosciente ed inconscio) del soggetto, famiglia antropologica e dimensione sociale.

Per l’identità mafiosa l’alternativa è tra l’angoscia di essere nessuno ed un’esaltazione onnipotente del proprio Sé data dall’appartenenza alla famiglia mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Diversi studi, soprattutto del Prof. Lo Verso e colleghi, hanno delineato che, DSM alla mano, il disturbo che più si avvicina al comportamento mafioso è quello antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996).

In questo caso abbiamo a che fare con persone ad alti livelli di funzionamento, con un’integrazione dell’identità, esame di realtà e utilizzo di difese mature, che giustificano una diagnosi di psicopatia ad alto livello. (Lo Verso, Lo Coco, 2012)

Come sottolinea Bursten (1973), la personalità tipica del mafioso è organizzata in modo tale da avere a tutti i costi potere su le altre persone o comunque un alto grado di manipolazione. Si aggiunge a questo, una mancanza di riconoscimento della persona altrui, considerata il più delle volte di “basso valore”, alla stregua di strumenti da poter utilizzare quando si necessita di loro. Inoltre, si evince dagli studi che il senso di colpa o di coscienza morale è pressoché nullo, in quanto il bisogno di ridurre la propria dissonanza cognitiva è ampiamente giustificata da forti motivazioni interne ed esterne, nonché da un distorto senso di cosa è “giusto” o “sbagliato” in una comunità civile che abbraccia valori pressoché sani, ma al contrario si basa su influenze normative cariche di elementi disfunzionali, rispetto alla gente comune ed al senso civico (Lo Verso, Lo Coco, 2012).

L’uomo d’onore si rappresenta come un essere speciale, addirittura a volte come Dio stesso, perché lui può esercitare il potere di vita o di morte sulle persone normali. Niente è più temibile del non essere considerato, dell’essere “nuddo ammiscato cu’ nente” (nessuno mischiato con niente).

Possiamo quindi ben capire che il pensiero Mafioso, ma più generalmente di coloro appartenenti a gruppi “fondamentalisti”, viaggi su binari ben definiti e certamente disfunzionali. Difatti, facendo riferimento agli studi di Lo Verso e Lo Coco e colleghi:

Nelle nostre ricerche molto lavoro è stato fatto proprio per riconoscere una specificità “etnica” a questo tipo di personalità, a partire da alcuni dati antropologici presenti nelle culture mediterranee (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998; Lo Coco, Lo Verso, 1998). L’elemento che forse è più difficile da inglobare nelle nostre classificazioni psicologiche e psichiatriche è quello legato al fondamentalismo del pensiero: di fronte ad una psicopatologia ufficiale della personalità centrata sul deficit (di strutture, di relazioni, di apprendimenti), la personalità dell’uomo d’onore si mostra come una patologia, da una rigidità di strutture (di pensiero, di affetti) e da un’intensità tale da divenire disturbante. Come in tutte le culture fondamentaliste, nella mafia non c’è possibilità di pensiero dell’Altro, la propria identità è strutturata su un modello relazionale che non può essere messo in discussione, pena la morte simbolica e psichica (forse anche fisica). Questo peso intenzionate e mortifero della famiglia (Pontalti, 2000) di appartenenza rimanda ovviamente ad una concezione della psicopatologia a vertice dinamico e relazionale, che grazie all’analisi delle vicissitudini, consce ed inconsce, della costruzione del Sé individuale all’interno di una rigida matrice familiare ci permette di comprendere la specificità delle problematiche legate al mondo mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

 

Il colloquio clinico (2017) di Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy – Recensione del libro

Il colloquio clinico è uno strumento agile e ben fatto per chi non ha maturato molta esperienza o vuole rinfrescarsi la memoria e aprirsi alla riflessione sulla propria pratica clinica. Illustra bene come si conduce il colloquio con un paziente, secondo l’approccio cognitivo-comportamentale.

 

Il colloquio clinico: struttura e argomenti del libro

Il testo si dispiega in 100 domande, distribuite tra 2 sezioni principali. Nella prima vengono presentati i principi del colloquio clinico nelle sue diverse fasi, caratterizzate da diversi obiettivi: creare una relazione di fiducia all’inizio, piuttosto che sostenere e motivare il paziente nella fase critica del cambiamento.

Nella seconda parte gli autori usano l’angolazione del tipo di psicopatologia per guardare al colloquio clinico e danno al lettore delle indicazioni su come affrontarlo a seconda che dall’altra parte della scrivania ci sia una persona con un disturbo di personalità, un disturbo d’ansia, un PTSD o un Disturbo Alimentare.

Seguono una trentina di pagine scritte da Marianna Vaccaro che presentano le peculiarità dei colloqui con bambini e adolescenti.

La lettura e la comprensione sono facilitati da appositi rimandi che invitano ad approfondire alcuni argomenti servendosi del glossario alla fine del libro.

Il colloquio clinico: dalla prima telefonata al trattamento

Fin dalle prime pagine il libro si mostra nella sua semplicità e solidità: è semplice perché i paragrafi sono brevi e si prestano bene anche a una lettura discontinua; risulta ‘solido’ perché è evidente la base teorica sottostante e la preparazione di chi scrive, che attinge molto al comportamentismo con l’analisi funzionale e l’RFT, ma integra con maestria spunti provenienti dall’ACT piuttosto che da Rogers.

In meno di 200 pagine, rassicura e fornisce indicazioni anche pratiche, attraverso molti esempi, che diversamente si riescono a reperire solo a lezione o chiedendo lumi ad un/a collega più navigato/a, come ‘Cosa dire per chiudere la prima telefonata che prelude al colloquio?’.

Non mancano riflessioni su competenze base come l’empatia o l’assertività e concetti fondamentali che secondo me ogni clinico dovrebbe saper tradurre ogni giorno nella sua pratica, come l’avere sempre in mente che il cliente è una persona, non un problema. Se facciamo nostro questo punto di vista cambia il modo in cui parliamo al paziente, cambia il modo in cui definiamo il suo problema  – ‘Paola ha un disturbo bipolare’ – e apriamo con lui/lei orizzonti di senso e spazio di lavoro, specie quando il primo passo è accettare e per farlo dobbiamo inventarci, insieme, le risorse.

Alcuni aspetti di quello che è utile/consigliabile fare in un colloquio clinico, come è inevitabile che sia in un testo che vuole dare un’infarinatura globale, sono solo accennati, sebbene meriterebbero di per se stessi parecchie pagine. Per citarne due, la differenza tra bisogni e valori piuttosto che l’autosvelamento: un clinico non più neofita sa quanto si può dire su questa mossa e quanto oculatamente vada usata con i pazienti che hanno disturbi di personalità, con i quali le regole ed i confini sono fondamentali e difficili da mantenere nei binari.

Il colloquio clinico: stare con il paziente ed il suo disturbo

Nella seconda parte si entra più nel dettaglio di tecniche e metodologie utilizzabili per i diversi disturbi. Leggere questa sezione stimola la riflessione sul proprio lavoro, perché presenta una moltitudine di approcci e ci ricorda che potremmo impostare un trattamento in corso in modo diverso da come lo stiamo conducendo, quindi può essere utile per migliorarci, rinnovarci e magari uscire da un momento di impasse.

Ho trovato particolarmente stimolante l’ottica ACT di concettualizzare il funzionamento dei pazienti con disturbi di personalità: dal narcisista al borderline al dipendente, ci sono spunti davvero interessanti ai quali attingere, anche solo per occuparsi di ‘porzioni’ del disturbo e della sofferenza, come ad esempio gli atti autolesionisti.

Il libro si conclude mettendo a fuoco alcuni aspetti peculiari del colloquio con bambini ed adolescenti. Viene ripreso il tema dell’autoapertura e viene messo in evidenza come, con gli adolescenti, può essere molto utile mostrare in modo autentico alcune proprie difficoltà passate o presenti per infondere coraggio.

Sì, l’ho trovato un bel libro e lo consiglio.

 

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