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Alcune riflessioni sui Disturbi dell’Alimentazione

In primo luogo, emerge sempre più impellente la necessità di diffondere una conoscenza accurata degli aspetti peculiari dei Disturbi dell’Alimentazione: cosa sono e come riconoscerli, quali sono le cause, quanto sono diffusi, quali sono le complicanze mediche e psicologiche, qual è il tasso di mortalità. In secondo luogo, è fondamentale prendere atto che le strutture ad oggi presenti nel territorio nazionale risultano insufficienti e non sempre propongono un’offerta clinica mirata ed efficace per la cura di questi disturbi. Ma è anche vero che occorre informarsi e scegliere strutture attrezzate ad affrontare il problema da tutti i punti di vista non solo dal punto di vista dei problemi fisici ma anche psicologici e psichiatrici.

I Disturbi Alimentari sono caratterizzati da abitudini alimentari disfunzionali e da un’eccessiva valutazione di sé in base al peso e alle forme corporee; compromettono la salute fisica, i rapporti interpersonali, il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo. Rappresentano una problematica diffusa e in espansione in Italia, contando una prevalenza di 0,5-1% per l’anoressia nervosa (AN), 1-3% per la bulimia nervosa (BN) e 10% per le forme subcliniche. Inoltre, negli ultimi anni si è modificato in modo significativo il rapporto uomo-donna, raggiungendo 1-9/10 per l’AN, e si è ridotta l’età di esordio dei DA che risulta, in genere, compresa tra i 12 e i 15 anni (Regione Lombardia, Decreto N.4408 del 18.04.2017). Questo incremento di dati coincide con l’accresciuto interesse verso tali problematiche, tuttavia a ciò non corrisponde un’altrettanta attenzione dal punto di vista dell’offerta clinica e delle normative che regolano la gestione assistenziale.

Un interrogativo importante riguarda le cause dei DA, rispetto alle quali sono diffuse credenze naïf spesso non corrette e infondate dal punto di vista scientifico o false convinzioni. Non è infrequente, per esempio, che i familiari di pazienti affetti da DA si ritengano essi stessi la causa del disturbo del proprio figlio/a oppure che si tratti di problema legato alla ‘forza di volontà del ragazzo/a’. Sulla base di ciò, da una parte il paziente stesso può consolidare idee errate sul proprio disagio e può essere spinto ad intraprendere trattamenti non adeguati, dall’altra gli stessi genitori possono contribuire a mantenere il problema. È, dunque, fondamentale chiarire che i fattori causali dei DA non sono ancora del tutto noti e la letteratura scientifica ad oggi sposa una visione multi-fattoriale (Fairburn, Cooper e Shafran,2003) che comprende l’interazione di fattori biologici, ambientali, psicologici, sociali, i quali svolgono il ruolo di fattori di rischio per lo sviluppo del DA.

La normalizzazione di alcuni comportamenti alimentari disfunzionali, il riconoscimento tardivo del disturbo e il cristallizzarsi delle credenze naïf sopra citate, possono portare a sottovalutare una serie di complicanze che caratterizzano i DA: modificazioni fisiche e dei segnali fame-sazietà, alterazioni cognitive, emotive e sociali, sintomi della malnutrizione, rischio di suicidio. Da tenere presente infatti che il tasso grezzo di mortalità è attorno al 5% per decennio circa l’AN (Zaccagnino e Callerame, 2017) e, più in generale, i DA provocano circa 7000 decessi all’anno, rappresentando le malattie mentali con il più alto tasso di mortalità (Lozano R, Naghavi M, Foreman K, Lim S, Shibuya K, Aboyans V, et al., 2012).

Alla luce di quanto esposto, è necessario che le strutture esistenti formino e promuovano la creazione di una rete assistenziale adeguata, che permetta al paziente di sperimentare diverse modalità di intervento in relazione all’andamento della patologia e alla presenza di complicanze internistiche e/o psichiatriche, garantendo così un percorso di cura efficace (Donini et al., 2010; De Virgilio et al., 2012).

È utile ribadire che, nonostante l’interesse crescente per queste patologie, rimangono ancora molti problemi da affrontare legati al loro trattamento. Tra questi la distribuzione non omogenea di centri sul territorio nazionale, l’assenza di una base teorica comune tra i professionisti dell’équipe e la mancanza di coerenza nel passaggio tra forme di intervento ambulatoriale e forme intensive e viceversa. Inoltre, gli approcci utilizzati non sempre risultano sufficientemente mirati per affrontare efficacemente il problema. Un approccio che ha mostrato evidenze scientifiche di efficacia è la CBT-E che implica un coinvolgimento attivo del paziente in modalità collaborativa e l’intervento di un’équipe non eclettica (Dalle Grave, 2017). Si veda l’articolo: Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione: quali trattamenti psicologici sono raccomandati?

 

Rosaria Nocita
Centro Disturbi dell’Alimentazione Milano Navigli
Cliniche Italiane di Psicoterapia

Ipocrisia e i fattori che ci influenzano nelle scelte morali

Diverse ricerche hanno cercato di determinare le varianti personologiche, emotive e ambientali che agiscono nel determinare l’ipocrisia morale dimostrata da un individuo per comprendere perché alcune persone siano più propense di altre ad agire moralmente.

 

Viene chiamata ipocrisia morale, la tendenza a predicare un certo tipo di comportamento come corretto, ma agire poi diversamente: il tentativo sarebbe quello di apparire moralmente retti pubblicamente (Barden et al., 2005) ma tentare ugualmente di trarre un beneficio personale dalle situazioni (Batson et al., 2002; Monin & Merritt, 2012). Se quindi a livello intrapersonale l’ipocrisia morale si traduce nel proverbiale ‘predicare bene ma razzolare male’, diversa è la forma che questo bias prende se consideriamo il livello interpersonale: le ricerche sul Moral Judgment hanno svelato un altro fenomeno comune, ovvero la tendenza a giudicare più severamente le trasgressioni messe in atto dagli altri rispetto alle proprie (Sun et al., 2012).

Una plausibile spiegazione per questo ‘doppio standard’ sarebbe dovuta alla distanza morale dalla situazione: nel giudicare infatti le proprie trasgressioni le persone non potrebbero fare a meno di figurarsi una situazione reale che li coinvolge, garantendo una bassa distanza psicologica che lascia spazio ad una connotazione emotiva o attenuanti situazionali, laddove invece nel giudicare gli altri ci si appella a degli standard morali più rigidi e astratti (Sun et al., 2012).

Sicuramente, tutti possiamo avere un’idea di come agire moralmente implichi talvolta il porre un freno alla propria soddisfazione egoistica, orientandosi verso comportamenti più altruistici (Martinsson et al., 2014), rimandando quindi l’idea di uno sforzo attivo compiuto dall’individuo per esercitare autocontrollo e allenare il proprio ‘muscolo morale’; tuttavia, vi sono variabili che influenzano la capacità di esercitare l’autocontrollo e possono portare ad uno stato detto Ego Depletion caratterizzato da una ridotta capacità di autoregolazione e riduzione delle inibizioni, disregolazione emotiva (Gailliot & Baummeister, 2007), performance intellettuali temporaneamente ridotte e minor controllo degli impulsi (Vohs & Faber, 2007).)

Diverse ricerche hanno cercato di determinare le varianti personologiche, emotive e ambientali che agiscono nel determinare l’ipocrisia morale dimostrata da un individuo per comprendere perché alcuni individui siano più propensi di altri ad agire moralmente.

La propensione al senso di colpa è un tratto personologico che sembra agire come una sorta di barometro morale, che fornisce feedback relativamente costanti e stabili nel tempo circa la nostra accettabilità morale e che guida il nostro comportamento; inoltre, gli individui che riferiscono un senso di colpa maggiore risultano essere più empatici e propensi a considerare il punto di vista altrui (Cohen et al., 2012). È stato postulato che il senso di colpa possa anche avere la capacità di contrastare gli effetti dell’Ego Depletion: non richiedendo energie cognitive supplementari per risolvere dilemmi morali, l’individuo riuscirebbe quindi ad agire in accordo con i propri e condivisi standard morali anche in quelle situazioni in cui le risorse cognitive risultano esaurite o rivolte altrove (Ren et al., 2014).

Un recente studio di Du e colleghi (2019) si è proposto di indagare gli effetti dell’Ego Depletion sull’ipocrisia morale, valutando inoltre una possibile moderazione del senso di colpa nell’estinguere questo effetto. I ricercatori hanno ideato due esperimenti, volti ad indagare i due differenti aspetti dell’ipocrisia morale sopra menzionati, ovvero quella intrapersonale e quella interpersonale.

Nel primo esperimento, dopo aver compilato un questionario sulla propensione al senso di colpa, ovvero la Guilt Proness Scale (GP-5), sono stati selezionati i 104 partecipanti che avevano totalizzato un punteggio più alto e altrettanti sono stati selezionati dal 30% che aveva registrato il punteggio inferiore. In seguito, i due gruppi sono stati sottoposti ad uno Stroop task, un compito di interferenza cognitiva, con l’intento di indurre diversi livelli di Ego Depletion.

Per valutare l’effetto sull’ipocrisia morale è stato usato il paradigma dell’assegnazione del compito (Tong & Yang, 2011), nel quale i soggetti decidono se assegnare un compito piacevole a sé stessi o ad un’altra persona, dopo aver dichiarato la propria intenzione di utilizzare un metodo imparziale come il lancio di una moneta. Dal momento che all’animazione di lancio di una moneta, che assegnava invariabilmente il compito più ambito all’altra persona, veniva ugualmente data al partecipante la possibilità di procedere manualmente con l’assegnazione, questo induceva a credere che i ricercatori registrassero solo la risposta finale, lasciando aperta la possibilità di barare e omaggiarsi con il task favorito. I ‘moral hypocrites’ sarebbero quindi quei soggetti che dichiarano che la maniera più corretta di assegnare un compito sia ricorrendo al metodo imparziale, ma che distorcono poi il risultato in loro favore quando hanno la percezione di non incorrere in sanzioni o reprimende da altri (Batson et al., 1997; 1999; 2002)

In seguito, sono stati proposti dei dilemmi morali su un’ipotetica situazione, che coinvolgeva il soggetto stesso o un personaggio fittizio di nome Chris, per i quali il soggetto doveva esprimere un grado di accettabilità su di una scala da 1 a 7.

I risultati ottenuti da Du e colleghi sono in linea con le precedenti ricerche nel campo del Moral Judgment: è stato riscontrato un effetto dell’Ego Depletion sull’ipocrisia morale, indicando una maggiore probabilità di ricorrere a comportamenti egoriferiti quando l’individuo risultava essere cognitivamente provato; inoltre, è stato confermato come gli individui che riportavano una minore disposizione al senso di colpa avessero maggiori probabilità di essere moral hypocrites. In linea con le aspettative degli sperimentatori, non è stata riscontrata alcuna differenza tra i due gruppi sottoposti ad un differente carico cognitivo quando interveniva il senso di colpa: l’aderenza a delle norme di comportamento, che risultano interiorizzate e quindi immediatamente disponibili senza necessitare di sforzo cognitivo, risentirebbero in maniera minore di una ridotta disponibilità di risorse per far fronte al dilemma.

Nel secondo esperimento, il gruppo con basso senso di colpa rispecchiava la nota tendenza ad essere più tollerante verso le proprie trasgressioni che non verso quelle degli altri. Gli individui caratterizzati da un forte senso di colpa non esibivano differenze significative  in termini di tolleranza verso le trasgressioni proprie o altrui, anche quando si trovavano in una condizione di Ego Depletion maggiore; è inoltre emerso che in condizioni di basso sovraccarico cognitivo, gli individui inclini al senso di colpa si sono dimostrati più intransigenti verso loro stessi e meno propensi ad accettare l’idea di una trasgressione commessa da loro che non da altri.

 

Il pensiero del clinico di fronte alla morte per anoressia

La notizia di un decesso per anoressia porta noi clinici al dolore della famiglia e poi ai mille volti e alle mille storie ascoltate in anni di lavoro con persone affette da anoressia. All’emotività, al senso di impotenza e di disperazione nelle storie che non vanno bene.

Sara Bertelli

L’anoressia è una patologia, è la patologia psichiatrica con indice di mortalità più elevato e la seconda causa di decesso negli adolescenti dopo gli incidenti stradali. Lo dice la letteratura, lo sottolineano i dati epidemiologici, ma la reazione emotiva è sempre la stessa quando da clinico si affronta il decesso di un giovane di 20 anni come nel caso di Lorenzo.

Vicinanza ai genitori di Lorenzo, pur non conoscendo la sua storia. Ci si può avvicinare con delicatezza al dolore vivo della perdita di un figlio, una perdita che non può essere in alcun modo spiegata con il raziocinio di una malattia mentale poiché l’anoressia non lo consente, in quanto attiva dinamiche emotive di difficile comprensibilità. Negli anni ho sentito tanti genitori travolti da sentimenti di colpa, vergogna, impotenza, inadeguatezza, che fra le lacrime mi hanno detto che  avrebbero accettato altre malattie, anche tumorali, ma non questo mostro che impedisce ai figli di mangiare e li avvicina al pericolo di perdere la vita.

In questi giorni si è parlato di “accettazione” delle cure, molte persone con anoressia non accettano le cure, le sfiorano. Fidarsi e l’affidarsi al terapeuta rimane lo scoglio più grande per i ragazzi. Tale affido risulta ancora più difficile per un maschio, che si deve identificare ed essere riconosciuto in una patologia prevalentemente di genere femminile.

Il sistema familiare risulta fondamentale in questa difficile fase e il coinvolgimento della famiglia, da parte dei clinici, risulta centrale nell’accompagnamento alla cura. Per tale ragione vanno supportate nella solitudine e nell’isolamento di un figlio che non riesce e non vuole curarsi.

Nel nostro gruppo di lavoro in ambulatorio, da due anni abbiamo aperto i gruppi AMA (gruppi di auto mutuo aiuto) per genitori, dove i genitori si possono rivolgere per aiutare i loro i figli ad agganciarsi ad un percorso di cura e a rimanerci. Sappiamo quanto la motivazione sia un processo dinamico e quanto elevato sia l’indice di drop out pari a circa il 50% degli studi di follow-up.

La domanda successiva è quando fare un TSO ( trattamento sanitario obbligatorio)?: in Italia da anni il dibattito è acceso sia per motivi clinici sia deontologici sia etici. E poi, dove fare un TSO? In quale reparto? Molte persone con anoressia non hanno consapevolezza di malattia e non hanno la capacità di riconoscere il pericolo vita, ma il clinico adeguatamente formato può e deve ravvisare se è un’urgenza psichiatrica, la cognitività compromessa e le problematiche nutrizionali di un quadro anoressico acuto o di un quadro cronico.

Il ricovero per TSO viene eseguito in reparti psichiatrici acuti spesso senza letti dedicati, e qui insorge il terzo punto di polemica di questi giorni: l’assenza di strutture nel sistema sanitario.

In Italia vi sono più centri, soprattutto nel nord, ma la domanda supera l’offerta e spesso la lista d’attesa può essere lunga e la presa in carico spesso è tardiva, dopo percorsi non specialistici o prese in carico solo psicologiche o nutrizionali. Fondamentale in questo senso credo sia la formazione specialistica degli operatori e la costituzione di una rete fitta fra pubblico, privato e i vari setting di cura per favorire una diagnosi precoce e un invio adeguato e tempestivo.

 


Autore dell’articolo:

Sara Bertelli, Medico Psichiatra, Responsabile Servizio Disturbi Alimentari Adulti, ASST Santi Paolo Carlo, Milano, Presidente Nutrimente Onlus

Lo psicologo a scuola: il punto di vista dei genitori – Indagine 2019 a cura del GdL Nazionale Psicologia Scolastica

L’importanza di istituire la figura dello psicologo scolastico è stata discussa e ribadita in più occasioni, tanto che negli ultimi anni si sono susseguite diverse proposte di legge volte a darne una definizione normativa.

 

Nel dibattito intorno a questo tema non si può prescindere dal prendere in considerazione il punto di vista di chi quotidianamente è parte attiva del mondo della scuola.

Per questo, dopo una prima indagine rivolta agli insegnanti, abbiamo deciso di condurre una ricerca volta ad indagare la percezione della figura dello psicologo scolastico da parte dei genitori.

In particolare il nostro obiettivo era quello di conoscere quanto la figura dello psicologo, e i suoi interventi, siano presenti nelle scuole italiane, il grado di soddisfazione rispetto agli interventi psicologici in ambito scolastico di cui hanno fatto esperienza direttamente o indirettamente attraverso i figli e le aspettative relative all’area di intervento scolastico.

Il campione della ricerca è rappresentato da 251 soggetti equamente distribuiti su tutto il territorio nazionale e con una netta prevalenza delle madri (92,4%) rispetto ai padri (6,4%).

L’età media dei partecipanti rientra nella fascia di età 31-40 appartenenti per la maggior parte alla scuola primaria (53,4%), seguiti da genitori con figli iscritti alla scuola dell’infanzia (41,4%), dato che sembrerebbe indicare una tendenza a porre più attenzione all’infanzia rispetto all’età pre e adolescenziale.

Lo psicologo scolastico e le aree di intervento

La figura dello psicologo scolastico è conosciuta dalla maggior parte dei partecipanti all’indagine (68,1%), mentre solo il 43% ha avuto modo di sperimentare direttamente o indirettamente uno o più interventi psicologici. Il 57% dei partecipanti, invece, non ha sperimentato nessun tipo di intervento.

Secondo i risultati della nostra ricerca, la maggior parte degli psicologi scolastici sono stati incontrati presso scuole pubbliche che fanno parte di Istituti Comprensivi.

Per quanto riguarda le aree di intervento, sono stati sperimentati (Fig. 1): sportello scolastico (32%), progetti sull’educazione socio-affettiva e bullismo (entrambi 18,7%), interventi formativi e informativi per insegnanti e genitori (15,7%) e interventi riguardanti i Bisogni Educativi Speciali e in particolare i DSA (15%). Percentuali minori hanno usufruito di interventi sull’educazione sessuale (10,4%), l’orientamento scolastico (6%), l’integrazione multiculturale (1,5%) e lo stress lavoro-correlato (0,7%).

 

Psicologo scolastico un indagine sul punto di vista dei genitori Psicologia figura 1

Fig. 1. Interventi sperimentati dai genitori direttamente o indirettamente tramite i figli

 

Come nell’indagine precedente, volta a rilevare l’opinione degli insegnanti, possiamo rilevare anche in questa occasione che l’intervento più diffuso a scuola è quello dello sportello d’ascolto. Da sottolineare però che quasi un terzo dei genitori intervistati ha dichiarato che nelle scuole frequentate dai figli al momento non è presente nessun supporto di tipo psicologico.

La percezione dei genitori: punti di forza e criticità

In generale, la maggioranza del campione (62,8%) ritiene la figura dello psicologo scolastico un supporto fondamentale, utile e importante. Alcuni sostengono che questa figura sarebbe una risorsa necessaria e preziosa ma purtroppo ancora poco utilizzata e valorizzata nella pratica (12,5%). Viene espressa l’esigenza di un sostegno sia per i bambini/ragazzi e le loro famiglie sia per gli insegnanti.

L’intervento sperimentato ha soddisfatto la maggior parte degli intervistati (54,6%). La soddisfazione è legata soprattutto al fatto che lo psicologo si è mostrato attento ai bisogni e ai problemi delle classi, che la sua presenza ha facilitato la comunicazione creando un clima non giudicante e che ha aiutato a parlare anche di tematiche delicate (soprattutto in adolescenza).

Scendendo nel dettaglio, gli interventi percepiti come più efficaci sono quelli nell’ambito dei Bisogni Educativi Speciali e DSA (33,3%), cui seguono i progetti sull’educazione socio-affettiva, gli sportelli di ascolto e gli incontri formativi e informativi per gli insegnanti e genitori.

Al contrario, progetti sul bullismo e lo stress lavoro-correlato sono stati percepiti come poco efficaci o del tutto inefficaci e questo potrebbe rappresentare un ulteriore segnale rispetto alla necessità di implementare progetti che possano trovare continuità nel tempo, soprattutto per problematiche così complesse e difficilmente risolvibili in pochi incontri.

Lo psicologo scolastico è apprezzato dal 72% del campione per la sua capacità di osservare e intervenire sul bisogno, ponendosi come professionista in grado di promuovere il benessere scolastico attraverso la facilitazione delle relazioni scolastiche, la comunicazione efficace e il supporto agli insegnanti. In linea con quanto emerso dagli insegnanti, anche secondo i genitori l’area in cui c’è maggiormente bisogno dell’intervento dello psicologo scolastico è quella relativa alla gestione delle classi difficili e alla prevenzione/contrasto di bullismo e cyberbullismo, a riprova di come siano difficoltà sentite davvero da tutto l’ambiente scuola e della necessità che famiglie e docenti non siano lasciati soli a gestire queste difficili dinamiche. Tutti auspicano che quella dello psicologo scolastico diventi una figura fissa e stabile all’interno delle scuole italiane e ritengono che la sua presenza non interferirebbe con le attività didattiche, ma che anzi sarebbe un valido aiuto sia per gli insegnanti che per gli alunni.

A riprova di questo, dall’indagine emerge come l’aspetto negativo riferito dalla maggior parte degli intervistati (77%) riguardi il ruolo marginale dello psicologo e il suo intervento tardivo e sporadico: secondo i genitori, infatti, il fatto che lo psicologo svolga solo degli interventi di breve durata, che non sia integrato nel team docenti, che non sia una figura stabile all’interno della scuola, limita molto l’efficacia del suo operato. Da evidenziare come i genitori stessi, quando criticano la tardività dell’intervento, ci dicono indirettamente che preferirebbero delle azioni di prevenzione, e proprio per questo la figura dello psicologo sarebbe utile e necessaria.

Inoltre diversi intervistati hanno percepito l’intervento dello psicologo come strategia di ‘marketing’ dello stesso, finalizzata ad ottenere poi pazienti in privato. Niente di più sbagliato. Eticamente non è possibile seguire in privato un minore o un adulto con cui si è entrati in relazione a scuola e con cui si attuano una serie di interventi volti al benessere psicologico, questi infatti si discostano dalla terapia psicologica, nell’ottica di non medicalizzare la scuola ma di garantirne la funzione educativa e formativa.

Da notare positivamente come la quasi totalità del campione intervistato affermi che usufruirebbe di servizi di psicologia scolastica, come lo sportello, soprattutto per avere un supporto nell’affrontare dinamiche comportamentali e/o emotivo-relazionali dei figli e nella comunicazione con loro e con gli insegnanti. La presenza dello psicologo scolastico appare quindi fondamentale, ma attualmente ancora poco incisiva per il poco spazio dato all’interno della scuola e per lo scarso o cattivo utilizzo che si fa del servizio psicologico (aspetti riportati dal 2,7% del campione). Nonostante il bisogno percepito di dare stabilità a questa figura, solo una piccola percentuale degli Istituti Comprensivi presi in considerazione ha uno psicologo scolastico o ha attivato un servizio di sportello. In tal senso il nostro Gruppo di Lavoro propone l’idea di uno sportello ‘dinamico’ e innovativo, pensato per rilevare i bisogni concreti che nascono dalla quotidianità della vita scolastica.

Ciò che sostiene questa proposta operativa è la consapevolezza, derivante dalle evidenze raccolte con le nostre indagini, della necessità di interventi volti primariamente alla prevenzione e non solo all’azione di contrasto delle ‘emergenze’, le quali altro non sono che rappresentazioni disfunzionali di bisogni e criticità non adeguatamente riconosciuti per tempo né con gli opportuni strumenti. Lo psicologo scolastico può offrire strumenti di monitoraggio, ascolto, progettazione in cooperazione e collaborazione con i protagonisti della scuola stessa, nel farsi promotore di una progettualità condivisa con il dirigente e gli insegnanti al fine di mettere in atto interventi di prevenzione e di promozione del benessere psicologico.

Conclusioni

Dai dati emersi da questa nostra seconda indagine, altamente sovrapponibili a quelli ricavati dalla precedente, rivolta agli insegnanti, possiamo affermare come l’intervento dello psicologo scolastico nelle scuole italiane sia un’esigenza sempre più sentita anche dalle famiglie.

Rispetto all’assenza di una normativa che regolamenti la presenza e l’operato di questo professionista, infatti, oltre il 97% del campione afferma che la scuola ha bisogno di questa figura e che l’Italia dovrebbe adeguarsi a quanto accade negli altri paesi europei già provvisti di una legge dedicata.

Analizzando i bisogni emersi, per ottimizzare l’intervento dello psicologo scolastico, bisognerebbe:

  • Istituire la figura dello psicologo scolastico all’interno delle scuole di ogni ordine e grado, creando un servizio psicologico stabile basato sulla co-progettazione degli interventi e delle attività di prevenzione (soprattutto nella gestione delle classi difficili e di fenomeni quali il bullismo e il cyberbullismo) per favorire il benessere scolastico
  • Estendere i servizi, come lo sportello psicologico e gli incontri formativi/informativi a docenti, genitori e in sinergia con chiunque lavori per il benessere scolastico
  • Favorire la collaborazione e la comunicazione tra scuola e famiglia e rete sociale

La realtà con cui si scontrano genitori e insegnanti è sempre più complessa e spesso si percepisce un senso di solitudine che può essere alleviato dal supporto e dall’intervento volto al cambiamento positivo e al benessere individuale e relazionale.

Queste azioni devono collocarsi all’interno di una prospettiva che consideri lo psicologo come parte del contesto scolastico e non come professionista esterno, esigenza che emerge in modo sempre più evidente e a cui è necessario rispondere concretamente attraverso una regolamentazione chiara e definitiva della figura dello psicologo scolastico.

 

 

La gelosia e il famigliare nel 1700 – Dal corpo famigliare all’anima famigliare

Nel 1700, con l’avvento dell’Illuminismo, si stabilisce la marcata tendenza a razionalizzare le emozioni e i sentimenti e ad attribuire alla ragione un ruolo centrale nella vita interiore dell’uomo. Durante il romanticismo, invece, si assiste a un’inversione di rotta e l’amore diventa il simbolo che può determinare e segnare un’intera esistenza.

 

Durante tutto il ‘700 il romanzo che tratta di famiglia, di amori o di passioni è tutti intriso della vittoria dell’ethos sul pathos. Entriamo nell’era dell’illuminismo per cui le emozioni, il profondo, i sentimenti devono essere guidati dalla razionalità. La fiducia nella scienza tipica di questo movimento filosofico, porta a distinguere tra la mente dell’uomo e l’universo degli oggetti. Compito dell’uomo è dominare, attraverso la mente, gli oggetti tra cui sono comprese le emozioni. Kant, nella sua risposta alla domanda “che cos’è l’Illuminismo?” dà questa definizione:

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.

Sapere aude significa intraprendere una battaglia contro il pregiudizio, il mito, la superstizione, e contro tutte le forze che hanno ostacolato il libero uso dell’intelletto e della crescita mentale dei vari individui. Tra gli elementi ostacolatori vi sono le emozioni che debbono trovare una giusta sistemazione (razionalizzazione) all’interno della ragione. Esse debbono essere controllate.

Il compito principale che si diedero gli illuministi era quello di educare.

Madame de Lambert su questa scia si prese il compito di educare le donne verso l’emancipazione. In Riflessioni sulle Donne pubblicato nel 1727 scrive:

Tanta è la tirannia degli uomini! Loro vogliono che noi non facciamo uso della nostra intelligenza né dei nostri sentimenti, hanno solo un grande interesse a richiamarci ai nostri primordiali compiti. Le donne possono dire agli uomini: “Che diritto avete voi di privarci dello studio delle scienze e delle belle arti? Le donne che si sono dedicate a tali studi, non hanno forse raggiunto risultati più che buoni?”.

Madame de Lambert punta a dare un’istruzione mentale alle donne in modo che possano autodeterminarsi. L’autodeterminazione, così come avviene per gli uomini, deve passare attraverso l’educazione a controllare le proprie emozioni.

Emblematica è la posizione in cui si viene a trovare Giulia nella Nouvelle Heloise di Jean Jacques Rousseau. Il marito Wolmar invita a casa loro Saint-Preux, l’istitutore di cui da sempre Giulia è innamorata, in modo che la moglie possa sperimentare che la virtù può dare pace, felicità e serenità più della passione. Solo nell’atto di morte, avvenuta per salvare la figlia che era caduta nelle acque gelide di un fiume, Giulia confessa, attraverso una lettera, il suo amore, mai cessato, a Saint-Preux.

Rousseau esalta i principi etici del matrimonio e, soprattutto, che i sentimenti possono essere razionalizzati. Vorrei sottolineare la scommessa del marito che può essere concepita come un “dono” in cui nutre la fiducia e la speranza di poter essere ricambiato, così come in effetti avviene. Wolmar razionalizza la sua gelosia trasformandola in un dono. Ciò dimostra che la razionalizzazione non sia di per sé negativa, ma anzi se prendiamo coscienza dei sentimenti negativi possiamo trasformare, far rinascere la relazione.

L’esaltazione dei principi etici la troviamo anche nella Pamela di Richardson. Di Pamela, serva bellissima, si invaghisce il suo datore di lavoro, Mr. B, il quale tenta in tutti i modi di sedurla anche attraverso castighi. La ragazza non cede neanche di fronte ai tentativi di stuprala. Visto che con le cattive maniere non riusciva a farla cedere ed ammirato dalle sue virtù, inizia a corteggiarla intensamente facendo così innamorare Pamela. Anche in questo caso la presa di coscienza comporta una elaborazione che trasforma la relazione.

Le relazioni possono rinascere all’interno di una razionalizzazione dei propri sentimenti.

Anche nella pittura di famiglia, come riportato da Cigoli, prevale l’idea illuministica e la famiglia viene rappresentata nella sua intimità. Il fatto nuovo rispetto ai quadri di famiglia del secolo precedente è l’introduzione della “conversazione” come elemento educativo. Spesso, inoltre, i personaggi vengono ritratti nella pratica delle arti. Un esempio è La famiglia Morzat di Johann Nepomuk della Croce, in cui i fratelli Mozart suonano a quattro mani il clavicembalo con il padre Leopold appoggiato sullo strumento. Il padre ammira la maestria dei figli e, in qualche modo, si compiace della famiglia che è riuscito a tirare su. E’ l’ideale della borghesia che compare sulla scena in contrapposizione ai dipinti della famiglia aristocratica del ‘600. Un altro elemento che compare nel dipinto appeso alla parete è il ritratto della mamma morta a cui il padre è legato, come vedremo in seguito, da un amore eterno.

Il romanzo che mette in crisi i valori ideali dell’illuminismo è Storia del Cavaliere Des Grieux e di Mannon Lescaut di Prévost, in cui la protagonista muore per non essere riuscita a razionalizzare i propri sentimenti, per non aver fatto il proprio dovere. Mannon, nel tentativo di vivere sempre nell’agiatezza, abbandona più volte Des Grieux nel momento in cui quest’ultimo cade in miseria per aver tentato di accontentare le esose richieste dell’amata. Ad ogni fuga corrisponde sempre un incontro tra i due amanti, fino a  quando, nel tentativo di truffare Geronte, vengono arrestati con l’accusa di furto e adulterio. Mannon viene espatriata negli Stati Uniti e Des Grieux la segue. Dopo un periodo in cui vivono in pace sono costretti a scappare e durante la fuga Manon muore.

In Manon Lescault ritorna il tema della morte come interruzione, ma anche rinascita dei legami. Vero è che con la morte si interrompe quella che viene considerata una esistenza sconsiderata, ma è altrettanto vero che Manon vive sulla propria pelle il dilemma tra emozioni, sentimenti e razionalità. Le emozioni possono essere ingabbiate all’interno della ragione? La storia di Manon sembra dirci di no.

La morte, inoltre, rende eterno l’amore. Sartre in proposito scrive:

Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell’altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente. La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa il guardiano.

Si diventa guardiani dell’amore secondo Galimberti. Infatti, analizzando l’angoscia di morte, sostiene che quest’ultima

non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita …… proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all’amore, questo non si estingue con la morte della persona amata.

La morte rinnova il legame in quanto lo rende trasmissibile come afferma E. Severino

La presenza è sempre, e non coincide con l’apparire e lo sparire.

Anzi la morte, essendo un tempo indefinito rispetto alla vita, permettendo la trasmissibilità e l’eredità, rende il legame eterno. Sempre Galimberti arriva a sostenere che

Non è la morte a estinguere l’amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell’amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c’è solo infedeltà. Solo nell’amore c’è eternità.

Foscolo, nei Sepolcri, sostiene che soltanto il sentimento, la “corrispondenza d’amori sensi”, sia in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili. Ancora una volta la morte tramite la generatività rinnova e rafforza il legame.

I terapeuti che si occupano di elaborazione del lutto conoscono bene la forza del legame, sia in senso positivo che negativo, che lega i vivi con i morti e la grande forza di questo tipo di legame che sembra inscindibile e non rielaborabile. Freud, nel tentativo di consolare l’amico Binswanger per la perdita del figlio maggiore, scrive:

E’ noto che il cordoglio acuto dopo una tale perdita passerà, ma si resta inconsolabili, non si troverà mai un compenso. Tutto ciò che può subentrare, anche se riempisse il posto rimasto vuoto, resta qualcosa di diverso. E, a dire il vero, è giusto che sia così. E’ l’unico modo per proseguire nell’amore da cui non si vuol desistere.

Il posto vuoto trova spazio, così come riportato da Cigoli, anche nella rappresentazione pittorica della famiglia. Nel ritratto di famiglia di Wybrand Hendrik – Jacob Freitama e Elisabeth de Haan – davanti alla coppia c’è una sedia in cui sono deposti dei fiori. E’ la sedia vuota della figlia che, “rifiutando il contratto matrimoniale previsto dalla famiglia e degno del suo rango”, decide di sposarsi con un ufficiale della marina inglese. Sempre Cigoli analizza un’altra opera, esposta allo Staatliche Museen di Berlino, George Clive e la Famiglia con Serva Indiana di Joshua Reynoldys, in cui il tema del lutto generazionale è rappresentato nello sguardo del capofamiglia che guarda al di là della rappresentazione della famiglia. Il suo sguardo sembra ricercare nel vuoto la figlia morta.

Il tema della morte tende a sottolineare le difficoltà in cui si sono trovati gli illuministi di fronte alla razionalizzazione dei sentimenti. Il tema della gelosia, affidandosi solo ai temi etici della relazione è totalmente scomparsa. Anzi, esso è trattato solo come razionalizzazione, come descritto da Rosseau attraverso il personaggio di Wolmar.

L’amore e  i sentimenti riprendono a diventare il nodo centrale dell’esistenza umana con i pre romantici. Così scrive Werther all’amico Guglielmo nei Dolori del Giovane Wherter di Goethe:

Wilhelm, cosa è mai il nostro cuore, il mondo senza l’amore? È come una lanterna magica senza luce! Ma appena tu vi introduci la lampada, le più belle immagini compaiono sulla parete bianca…

Se per gli illuministi l’amore è una categoria spirituale che non può essere indagata e conosciuta, per i romantici diventa il simbolo che può determinare e segnare un’intera esistenza.  E’ l’incontro segreto in cui solo la persona oggetto del nostro amore può comprendere il nostro cuore e la nostra anima. Nole, sebbene non potesse ricambiare i sentimenti di Werther in quanto promessa sposa di Alfred, offre al giovane protagonista la possibilità di trasformare il loro rapporto in un’autentica amicizia, una sorta di amore platonico.

Per amore si può scegliere di morire: il giovane Werther, una volta persa la speranza di poter conquistare Nole, si suicida sparandosi alla testa con le pistole del marito della sua amata. Lo stesso fa Jacopo, per amore di Teresa, nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, uccidendosi con un colpo di pugnale al petto. Anche in questo caso l’amore per una donna che si era promessa sposa ad un altro, porta al suicidio.

Il suicidio si lega indissolubilmente con l’idea della morte. Se la morte rende i legami eterni, il suicidio, di conseguenza, sarebbe l’estremo tentativo per trasportare il legame all’interno di un tempo indefinito come l’eternità. Sia Werther che Jacopo, una volta appurato che non si possono legare per motivi etici con Nole e Teresa, offrono in dono la loro vita in modo da rendere eterno l’amore.

Offrire la propria vita per amore, per gli altri, è un legarsi per sempre, per l’eternità. Gesù, con la morte in croce, offre la sua vita per tutti gli uomini stabilendo un legame che non può essere rotto. Per i cristiani, la morte di Gesù viene considerata un gesto d’immenso amore. I vangeli raccontano che, durante la passione, la domanda e lo sberleffo più frequente per Gesù era “se sei veramente figlio di Dio, salva te stesso”. Ma proprio perché era figlio di Dio offriva la sua vita per stabilire un legame eterno con gli uomini.

Molti nel corso della storia hanno offerto la loro vita per la patria, per salvare un amico, per inseguire i propri ideali. I fondamentalisti islamici offrono la loro vita per la vittoria di Allah sugli infedeli diventando una potente arma.

Eppure “offrire la vita” non assume lo stesso significato rispetto alle modalità con cui questa offerta viene portata avanti, a seconda se si è uccisi o ci si uccide. Nel primo caso si diventa eroi e meritevoli del paradiso: Ettore sfida l’invincibile Achille nel tentativo di salvare la propria patria. Nel secondo si rischia di finire tra gli sfortunati della vita, così come li sistema Virgilio nel libro VI dell’Eneide. Sono accanto, nei campi lugentes (campi del pianto), a chi è più meritevole della pietà, ai bambini, a coloro che sono stati ingiustamente giustiziati, agli infelici che sono morti per amore come Didone regina di Cartagine.

“Offrire la vita” contiene molte analogie con il gesto della madre che dà la vita. Si tratta, comunque, di un “dare”: la mamma dà la vita a un nuovo essere; chi offre la vita dà la propria vita. Come abbiamo visto precedentemente, sul piano generazionale, i genitori donano la vita per legare l’altro indissolubilmente. Anche dare in dono la propria vita tende ad un legame eterno.

L’azione del donare tende al legame incondizionato e si fonda sulla fiducia e la speranza di poter essere contraccambiati. Ma il dono può anche avere le caratteristiche di perversione quando viene usato in maniera strumentale. Sta nelle differente modalità di utilizzo del dono che possiamo distinguere anche le differenti modalità con cui si offre la vita. Essa può essere offerta in maniera gratuita, nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati, o, al contrario, cercando di ottenere uno scopo.

Nell’atto del suicidio è insito uno scopo e, quindi, il dono assume caratteristiche di perversione. Goethe descrive in maniera inequivocabile lo scopo di Werther che chiede le pistole con cui poi si ucciderà al marito di Nole e quest’ultima li consegna con mani tremolanti all’ambasciatore del suo spasimante. Nelle mani tremolanti sta la comprensione dello scopo dell’offerta di Werther mi uccido per poterti legare a me nell’eternità.

Cigoli (op. cit.), nell’analizzare il suicidio di Van Gogh, distingue tre vie che gli effetti del suicidio hanno sulle relazioni generazionali:

  • Quella dell’onta e della vergogna in cui il suicidio viene tenuto sotto silenzio e nascosto;
  • Quella dell’inefficacia in cui il suicidio alimenta l’odio generazionale; tipico è quello raccontato da Omero di Epicasta madre di Edipo. Resosi conto dell’incesto commesso si suicida lasciando Edipo nel rimorso;
  • Quella della redenzione in cui il nome del “morto suicida è salvaguardato e onorato”.

Io mi permetto di aggiungere un’altra categoria che è quella della perversione o della vendetta generazionale, come nel caso di Werther e Jacopo. Essi si suicidano per sottomettere e dominare in un tempo indefinito, che è quello successivo alla morte, le due donne, nel tentativo di farle provare sentimenti di colpa e di rimorso. Hillman sostiene che il suicidio non è soltanto una via per uscire dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte, nel tentativo, per l’anima, di trovare una rigenerazione. Tale rigenerazione comporta il tentativo di ottenere l’amore per sempre e distruggere, nel caso di Jacopo e Werther, i legami con i loro mariti. La relazione che i due tentano di stabilire, attraverso il suicidio, contiene tutte le caratteristiche descritte da Scabini e Cigoli nella relazione patologica di cui ho parlato in precedenza. D’altronde, riguardo alle motivazioni che spingono al suicidio, viene descritto quello per vendetta. E’ la forma di suicidio che tende a colpire la persona che ha fatto soffrire in vita. Si vuole instillare in questa persona il rimorso e la colpa nel tentativo di impadronirsi per sempre dei sentimenti dell’altra o dell’altro. Le motivazioni e gli ideali che sottendono questo tipo di suicidio sono compatibili con la gelosia patologica. Nell’uno e nell’altro caso il presupposto è il possesso.

 

L’effetto della terapia di gruppo cognitivo-comportamentale (CBGT) sulla depressione e sugli stili di coping delle donne esposte all’infedeltà coniugale

Un recente studio si è posto l’obiettivo di determinare l’effetto di un training basato sulla CBGT sulla depressione e sugli stili di coping nelle donne esposte all’infedeltà del coniuge.

 

L’infedeltà coniugale è un fenomeno che si verifica spesso a causa di bisogni emotivi dell’individuo e si manifesta attraverso relazioni al di fuori del matrimonio. L’infedeltà può causare disturbi e malattie comportamentali che variano da individuo a individuo. La depressione, ad esempio, è caratterizzata da calo dell’umore, sensi di colpa, bassa autostima, perdita di sonno e di appetito, perdita di desiderio sessuale, mancanza di interesse per le attività quotidiane e colpisce la maggior parte delle donne tradite. I modi che gli individui utilizzano per gestire eventi o stimoli stressanti sono diversi l’uno dall’altro; le strategie di coping utilizzate dall’individuo possono portare ad una riduzione della pressione psicologica, tuttavia, alcune risposte di coping possono peggiorare il problema e intensificare le emozioni negative. I trattamenti psicologici aiutano a gestire meglio i pensieri negativi e la pressione mentale, rinforzando strategie di coping più adattive che promuovono il benessere psicologico. Uno di questi trattamenti, che ha dimostrato avere risultati efficaci, è la terapia di gruppo cognitivo-comportamentale (CBGT). Un recente studio (Babolhavaeji, Khoshnevis, & Rastin, 2019) si è posto l’obiettivo di determinare l’effetto di un training basato sulla CBGT sulla depressione e sugli stili di coping nelle donne esposte all’infedeltà del coniuge.

La ricerca, di tipo quasi sperimentale, includeva donne che cercavano servizi psicologici a causa dell’infedeltà dei mariti. Il campione finale comprendeva 22 donne divise in due gruppi, sperimentale e di controllo. Il gruppo sperimentale ha partecipato a 8 sessioni di CBGT, una volta a settimana per la durata di 90 minuti. Ai soggetti di entrambi i gruppi è stato chiesto di effettuare un pre-test e un post-test, rispondendo al Coping Inventory for Stressful Situations Questionnaire (CISS; Endler & Parker, 1994) e al Beck Depression Inventory (BDI; Powles & Beck, 1974). Il CISS è un questionario self-report che valuta gli stili di coping messi in atto dagli individui per risolvere un problema; esistono tre sottocategorie: coping incentrato sul problema, coping incentrato sulle emozioni e coping evitante. Il BDI è un questionario self-report utilizzato per la misura della depressione e composto da 21 item. La strategia generale di CBGT è stata identificata da Michael L. Free nel 1999. È una combinazione di interventi verbali e tecniche di modifica delle credenze e dei comportamenti, che includono ad esempio aiutare i pazienti a identificare le loro idee irrazionali e disfunzionali, correggere e ristrutturare le concettualizzazioni distorte e le credenze inefficaci.

I risultati hanno mostrato una differenza significativa tra la media dei punteggi relativi alla depressione e agli stili di coping nel gruppo sperimentale rispetto al post-test. La media del coping incentrato sui problemi del gruppo sperimentale è aumentata nel post-test rispetto al pre-test e la media del coping di evitamento del gruppo sperimentale e del coping incentrato sulle emozioni è diminuito nel post-test rispetto al pre-test. Questi cambiamenti non sono stati osservati nel gruppo di controllo. La media dei punteggi relativi alla depressione nel gruppo sperimentale era diminuita nel post-test rispetto al pre-test, ma la depressione media nel gruppo di controllo nel post-test non era significativamente diversa dal pre-test. Pertanto, la CBGT riduce la depressione e l’uso di stili di coping inefficaci (stili di coping emotivo e di evitamento), aumentando l’uso di uno stile di coping efficace (stile di coping incentrato sui problemi) nelle donne dopo l’infedeltà coniugale; si può quindi affermare che il trattamento cognitivo-comportamentale sia stato efficace per le donne dopo l’infedeltà del marito.

Questi risultati possono essere spiegati facendo riferimento al ruolo dei fattori cognitivi (pensieri disfunzionali, ipotesi sottostanti ed elaborazione delle informazioni compromessa) nella depressione nelle donne dopo l’infedeltà coniugale. Nello specifico, il ruolo principale del terapista cognitivo comportamentale è mettere in discussione le credenze irrazionali e i pensieri disfunzionali. Secondo la terapia cognitivo-comportamentale, infatti, non sono gli eventi di per sé a scatenare i problemi psicologici, quanto la specifica interpretazione che ne dà l’individuo a partire dalle proprie credenze imparate nel corso della vita. Pertanto la terapia aiuta la persona a individuare i propri schemi di ragionamento disfunzionali e a sostituirli gradualmente con altri più favorevoli al proprio benessere emotivo. Le donne tradite sono molto vulnerabili all’infedeltà coniugale del marito e soffrono di pensieri catastrofici che causano un pregiudizio negativo verso il miglioramento della loro relazione. L’isolamento e il ritiro sociale influenzano le proprie percezioni e la combinazione di questi fattori fa sì che la persona sperimenti una sensazione di inferiorità, perdendo molte opportunità affettive. Con l’uso della terapia cognitiva, l’atteggiamento dell’individuo verso l’infedeltà coniugale e i suoi effetti è stato messo in discussione e le donne sono state incoraggiate a rafforzare il pensiero positivo. Inoltre, un altro problema riscontrato nello studio era la tendenza delle donne ad intraprendere relazioni interpersonali in una condizione di eccessiva passività rispetto al coniuge, il quale, a sua volta, poteva dimostrarsi essere troppo aggressivo. Pertanto, uno degli obiettivi del trattamento era valutare l’efficacia di un training assertivo in grado di favorire l’acquisizione di autoconsapevolezza e nuovi strumenti per esprimere idee e bisogni in modo aperto e diretto, incoraggiando buone relazioni sociali, un maggior senso di autoefficacia e minor passività.

I limiti di questa ricerca consistevano nell’utilizzazione di questionari self-report e nella mancanza di una valutazione di follow-up. Sarebbe interessante condurre una ricerca anche sui soggetti di sesso maschile per poter analizzare i risultati in un’ottica più ampia e completa. Sulla base dei risultati della ricerca, gli autori suggeriscono l’uso della CBGT nel trattamento di donne a seguito di infedeltà coniugale; in questo modo è possibile aiutare a ridurre la depressione e le anomalie comportamentali, migliorando gli stili di coping.

La complessità del ruolo genitoriale

Immaginate la freccia del tempo al centro di una ruota della fortuna. Alle ore 6 indica passato, alle ore 12 indica futuro. Ruotatela, trattenete il respiro, aspettate che si fermi. Che ora indica? Ripetete il tentativo fino a che la freccia si ferma sulla meridiana: ore 12, futuro. Ecco, in quel momento siete diventati genitori.

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera Domenica 29 Dicembre 2019

 

Un impegno tremendo, un’ombra calerà su di voi a ogni alba, per un paio di decenni a essere clementi. Che significa? Diventare genitori è un’investitura: ci tocca raccogliere la testimonianza degli antenati, distillare quello che consideriamo il meglio, trasmetterlo ai figli. Incoraggiandoli però a modificare la storia, con piccoli gesti che non avevamo previsto. Ci affanniamo per dargli energia, convinzione, strumenti e risorse e tutto perché inventino e ci tradiscano. Così li rendiamo liberi. Se non ci riusciamo, almeno proviamo a offrire loro la degna ripetizione di un passato tollerabile.

Diventare genitori implica un atto di perdono di sé, perché quel gioco della freccia non ci riesce mai completamente. Facciamo quello che possiamo guidati però da una missione ben definita. Tirare su i ragazzi in un’impalcatura di sicurezza in sé, speranza e creatività. Fosse facile.

I romanzi selezionati in queste pagine spiegano la necessità, diventati genitori, di apprendere l’autoindulgenza. Perché sbagliamo sempre. Per quante ripetizioni tentiamo, la freccia tende verso un quadrante che non era quello sperabile. I genitori di quei 10 romanzi hanno preso la mira male. Li divido in due categorie: i primi ancorano i figli a un compito malefico, preoccuparsi di loro. Interrogarsi su di loro. Guarda me, il futuro non ti interessi. Loro fermano la freccia alle 6: passato. I secondi invece la indirizzerebbero alle 12, dicono ai figli: segui questo percorso, ti conduce in un luogo sicuro. Poi gli mettono in mano la mappa. E i figli si fidano, la usano. Ma scoprono che è fallata, sbattono il muso in muri di mattoni che non erano segnalati. Bonk.

Al passato ti ancorano i genitori sofferenti, distanti o tirannici. Il padre del protagonista di Nel segno dell’anguilla è, senza colpa, malato. Il figlio lo osserva preoccupato, ipnotizzato, l’attenzione non è più al mistero di quel pesce. Albert, il protagonista di Quasi tutto velocissimo è stato abbandonato dal padre biologico e il padre adottivo è un Forrest Gump: buono, ma ha dei limiti. Albert allo stesso tempo se ne sente amato e se ne occupa e così, inseguendo un padre e accudendone un altro, il futuro non lo vede. Il genitore autoritario de La regola del padre obbliga i figli a servirlo da sano, a curarlo da infermo. Vincola i figli a una sottomissione arcaica. Malata è anche la madre della protagonista senza nome di Sight. Anzi: lontana prima, malata poi, inaccessibile alla figlia sempre. Vedete la freccia del tempo? Punta dal figlio verso il genitore. Come quell’altro padre che ripete al figlio studioso: lasciami stare. Sembra indifferente, ma è peggio. Il sottotesto è: guarda me, sono stanco – ancora sofferenza – la vita mi è pesante. Un padre così, allo stesso tempo, ignora la passione del figlio e lo allarma.

Anche Nurit ricerca un assente. Morto il padre che l’ha cresciuta, vuole sapere del padre biologico, che donando lo sperma regalò una figlia a un amico. Incontra invece una moglie, paranoica, gelosa del proprio stesso figlio Giovanni. Lo controlla, lo perquisisce se frequenta Nurit, sorella agli effetti del DNA, la sua è una follia che paralizza come la testa della Gorgone. Nurit e Giovanni si trovano a tenersi per mano, camminando col passo del gambero.

La seconda categoria: vai verso il futuro, ecco la mappa, fidati è precisissima. L’effetto è: bonk. Come fanno questi genitori a tenere i figli in un eterno sconclusionato, frustrante presente? Devo introdurre un concetto. Ricordate il detto: ‘Ascolta quello che dice il prete, non vedere quello che fa?’. Ecco, la realtà dell’apprendimento è il contrario. I bambini ascoltano quello che i genitori dicono, ma soprattutto imparano da quello che vedono. Il messaggio genitoriale passa per traspirazione. Noi ci mettiamo sul pulpito, ma tessiamo l’essenza dei nostri figli in sagrestia.

Un esempio di fulgida ingenuità e presunzione è La madre americana. Impegnata curatrice di orfani, esce presto la mattina, lascia figli lì a chiedersi chi quel giorno lei nutrirà e soccorrerà. Vi sembra una donna generosa? Il messaggio che manda ai figli è: l’amore si moltiplica. Vi sembra una donna saggia? Non lasciatevi ingannare. L’amore magari si moltiplica, ma l’attenzione si divide. E ai figli l’attenzione serve come l’aria. Quella donna, l’attenzione, non la donava ai suoi, la divideva per cento, guidata da qualcosa che con la devozione genitoriale vera non ha nulla a che fare. Ai propri figli ha dato la propria assenza, il tema che ritorna, ma in più li ha privati del diritto alla protesta. Ma come, non capite che mamma vi ama? Vallo a spiegare a quei ragazzi che degli altri orfani avrebbero fatto bene a fregarsene e reclamare la mamma per loro. Invece di credere alle giustificazioni morali che dava al suo comportamento compulsivo.

Denominatore comune dei venditori di mappe taroccate: la sacrificalità. La donna di Non è vero che non siamo stati felici, fissata sul bene degli altri, imprime una legge nella mente della figlia: se desideri per te, sentiti in colpa. Emanazione dello stesso archetipo è la casalinga di L’amore altrove, riparatrice seriale di giocattoli inutili; sottomessa al marito violento, lo cura quando soffre. La figlia impara: non ho diritto, il maschio lo sporca e io lo pulisco. L’ultima madre ai figli adottivi non dà limiti, li vizia e così facendo gli insegna: chi ama è divorabile.

Il genitore che vogliamo diventare è il pescatore di anguille, prima che si ammali. ‘Qui va bene’, insegna al figlio. ‘Papà spostava l’erba con una mano e scendeva lentamente in diagonale, poi si girava e allungava la mano verso di me. Io la prendevo e lo seguivo con la stessa studiata prudenza’.

Vincere il perfezionismo (2012) di Camporese, Sartirana e Dalle Grave – Riflessioni sul tema a partire dal manuale

Il “perfezionismo clinico” spinge gli individui non solo a porsi degli standard elevati, a cui è difficile rinunciare perfino quando implicano una qualità della vita scadente, ma anche ad associare la propria valutazione di sé al raggiungimento di questi standard, senza prendere in considerazione le conseguenze avverse.

Ballerini Elisabetta e Forgione Daniela – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Le persone perfezioniste valutano sé stesse in uno o pochi domini di vita, marginalizzando altre aree e riducendo gli interessi dell’individuo al solo raggiungimento di uno standard esigente, solitamente autoimposto, che contribuisce a sviluppare nell’individuo un sistema di autovalutazione funzionale, stabile e articolato. La valutazione di sé dipendente dal raggiungimento di standard esigenti porta la persona a sviluppare pensieri e preoccupazioni automatiche sulla prestazione e sul raggiungimento di standard. Tuttavia, nel momento in cui falliscono nel raggiungere tali standard elevati, crolla l’intero sistema di autovalutazione e sviluppano una valutazione negativa di sé. Questo succede soprattutto quando la scelta dell’individuo si orienta verso alcuni domini in cui è difficile avere un completo e duraturo successo. Il perfezionismo ha degli effetti negativi quali depressione, ansia, isolamento, limitazione delle attività piacevoli, insonnia, stanchezza, tensione muscolare, scarsa concentrazione, rimuginii, aumento delle critiche su di sé, bassa autostima, ecc. che sono considerati dalla persona come l’evidenza degli sforzi ottenuti per raggiungere lo scopo, infatti, per loro non è importante solo raggiungere l’obiettivo, ma anche quanto impegno è posto per perseguire la meta.

Tutti questi aspetti definiscono il “perfezionismo clinico” che porta gli individui non solo a porsi degli standard elevati a cui è difficile rinunciare, anche quando li portano ad avere una qualità della vita scadente, ma anche ad associare la propria valutazione di sé in relazione al raggiungimento di questi standard senza prendere in considerazione le conseguenze avverse. Il “perfezionismo clinico” va distinto dal “perfezionismo sano”, che spinge gli individui a una sana ricerca di eccellere in quanto funzionale al miglioramento della qualità della vita; ciò che guida l’azione è l’entusiasmo e il piacere nel cercare di raggiungere gli obiettivi e gli errori non vengono interpretati come l’evidenza di un difetto personale, ma come qualcosa da cui si può imparare per migliorare.

Autori quali Frost, Hewitt e Flett hanno proposto una visione multidimensionale del perfezionismo, enfatizzando l’eccessiva preoccupazione per gli errori, i dubbi sulla qualità della propria prestazione e il ruolo delle aspettative e del criticismo genitoriale come potenziali processi del perfezionismo.

Le cause del perfezionismo non sono note, tuttavia sembra derivare dalla combinazione di predisposizione genetica e di fattori di rischio ambientali, quali subire critiche o punizioni da genitori eccessivamente esigenti per alcuni comportamenti, che inducono a sviluppare la convinzione che sia molto importante soddisfare certi standard per piacere agli altri. Non ricevere approvazioni o riceverle in modo incoerente o condizionante spinge a sviluppare la motivazione a fare bene le cose per la paura di deludere e di non essere più amati; ricevere rinforzi positivi per la prestazione sviluppando la convinzione che per avere una buona valutazione di sé sia necessario perseguire e raggiungere standard esigenti; avere genitori perfezionisti, inoltre, porta la persona a sviluppare un comportamento appreso per imitazione.

Per superare il perfezionismo è necessario affrontare e interrompere i processi implicati nel suo mantenimento: il nucleo psicologico centrale del perfezionismo, ovvero l’eccessiva importanza attribuita all’inseguimento e al raggiungimento di standard personali esigenti e autoimposti è mantenuta e accentuata da numerosi processi cognitivi e comportamentali che possono essere presenti in numero e in combinazione diversi nelle persone perfezioniste. Tali processi sono la marginalizzazione di altre aree importanti della vita; il check della prestazione con attenzione selettiva agli errori (controllare, ripetere e correggere frequentemente un compito; chiedere frequentemente rassicurazione sull’esecuzione di un lavoro; difficoltà a delegare); il check di confronto (confrontarsi con la prestazione di altri); i comportamenti controproducenti (fare liste dettagliate; organizzare dettagliatamente un lavoro; voler fare troppe cose o farle di fretta); l’evitamento della prestazione; la procrastinazione; il raggiungimento degli standard (aumento temporaneo della valutazione di sé che agisce come rinforzo intermittente; innalzamento dello standard della prestazione successiva); il non raggiungimento degli standard (autocritica e autosvalutazione); i meccanismi di mantenimento aggiuntivo (apprezzamento positivo da parte della società del raggiungimento di standard elevati come rinforzo positivo esterno).

Il perfezionismo è stato anche identificato come fattore di rischio per i disturbi dell’alimentazione, come ostacolo al trattamento dei disturbi dell’umore e come elemento centrale del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità.

Il libro Vincere il perfezionismo è stato scritto per aiutare le persone che soffrono delle conseguenze del loro perfezionismo. Il libro è diviso in due parti. La prima Parte descrive i dati della ricerca più aggiornati sui fattori di rischio, sui meccanismi di mantenimento e sul trattamento del perfezionismo. La seconda parte mette a disposizione delle procedure e delle strategie validate dalla ricerca per aiutare le persone che hanno la sensazione disabilitante di non essere mai abbastanza brave.

L’obiettivo del programma è sviluppare una valutazione di sé meno dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di standard elevati. Per iniziare bene, nella prima settimana vengono introdotte tre procedure chiave del trattamento: la scheda di Automonitoraggio (permette di portare l’individuo ad essere più consapevole di quello che sta facendo, facilitando il cambiamento dei comportamenti che sembrano automatici e fuori dal controllo), la costruzione di una Formulazione Personalizzata (i principali meccanismi che mantengono il perfezionismo e che saranno affrontati durante il programma) e la Seduta di Verifica Settimanale (valutazione della corretta applicazione delle procedure previste nella fase del programma, utilizzo del Questionario di Verifica Settimanale e della Scheda Riassuntiva dell’Andamento del Programma).

Il primo modulo è volto a sviluppare uno schema di valutazione di sé più funzionale sia riducendo l’importanza attribuita alla valutazione di sé dipendente dal raggiungimento degli standard elevati rispetto ad un unico o pochi domini di vita, sia aumentando l’importanza di altri domini di autovalutazione, attraverso l’identificazione di nuove attività che aiutino a sviluppare una buona autovalutazione e stabilendo dei ritmi di lavoro più adeguati per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo.

Contemporaneamente alla promozione di altre aree di autovalutazione è consigliabile iniziare il modulo volto ad affrontare i check eccessivi della prestazione e i comportamenti controproducenti, due meccanismi di mantenimento molto potenti del perfezionismo. Il primo passo è l’identificazione sia dei check della prestazione che dei comportamenti controproducenti attraverso l’utilizzo della scheda di automonitoraggio che permette, nel primo caso, di individuare in tempo reale i comportamenti messi in atto per controllare la prestazione e, nel secondo caso, i comportamenti controproducenti. Il secondo passo riguarda la riflessione sia sull’utilità sia sugli effetti di questi continui controlli/comportamenti controproducenti, permettendo di mettere in risalto gli aspetti negativi. Il terzo passo è volto a ridurre o interrompere sia i comportamenti di controllo che quelli controproducenti. Un altro obiettivo è quello di ridurre il ripetuto confronto con la prestazione altrui che le persone perfezioniste mettono in atto riflettendo sulle conseguenze di questi confronti attraverso la valutazione del fine di tale confronto e l’identificazione degli aspetti e delle persone sulle quali si esegue il confronto. Dopo aver identificato tali conseguenze, è necessario ridurre la frequenza di questi comportamenti aumentando il focus dell’attenzione attraverso l’osservazione di altre caratteristiche della persona con cui ci si confronta. Inoltre, tale modulo fornisce all’individuo delle strategie immediate per gestire gli stati emotivi legati alla prestazione senza modificare il comportamento attraverso la “procedura delle cose da dire” e delle “cose da fare” seguendo istruzioni pre-determinate.

Il terzo modulo è volto ad affrontare la procrastinazione. Tale meccanismo può essere affrontato individuando sia le aree della vita in cui si verifica, sia le sue conseguenze; si invita la persona sia a provare a cambiare il comportamento per testare cosa succederà, che a utilizzare la “procedura di risoluzione dei problemi” per affrontare la procrastinazione, ma anche altri problemi legati al perfezionismo; infine, vengono indicate delle procedure per migliorare la gestione del tempo, che molte volte sembra scorrere troppo velocemente, e la gestione degli impegni eccessivi.

Il quarto modulo si propone di affrontare gli evitamenti volti a valutare la propria prestazione, identificando le conseguenze dell’esporsi alle prestazioni evitate, elencando le situazioni evitate, pianificando i passi necessari per effettuare l’esposizione, compilando la scheda di automonitoraggio durante l’esposizione e rivedendo l’esito del tentativo di esposizione il giorno seguente. L’esposizione risulta indispensabile poiché permette di raccogliere informazioni contrarie alla previsione che l’individuo perfezionista ha riguardo l’andamento della prestazione e permette di sviluppare un sistema di valutazione di sé più articolato permettendo di scoprire sia i propri limiti, ma anche le proprie qualità.

Il quinto modulo si pone l’obiettivo di affrontare gli errori di ragionamento e può essere utilizzato in parallelo ai due moduli precedenti quando rimane difficile raggiungere gli obiettivi proposti. Gli errori di ragionamento più comuni messi in atto dalle persone perfezioniste sono il pensiero dicotomico del tipo “tutto o nulla”, l’attenzione selettiva, il doppio standard, predizione negativa/catastrofizzazione e magnificazione/minimizzazione. La strategia della ristrutturazione cognitiva permette di affrontare tali distorsioni.

Nel modulo successivo, il perfezionismo è paragonato a un DVD che costituisce uno degli stati mentali della persona e che si attiva in maniera automatica. Arrivati a questo punto, la persona perfezionista dovrebbe essere riuscita a ridurre il tempo impiegato nella preoccupazione della prestazione. Le strategie utilizzate in questo modulo sono volte a identificare gli stimoli e le prime scene del “DVD perfezionismo” per poi decentrarsene immediatamente, anche attraverso l’interruzione dei pensieri critici sulla prestazione, la sostituzione di regole rigide con linee guida più flessibili, esplorando l’origine del perfezionismo, gestendo i commenti sulla prestazione e bilanciando l’accettazione e il cambiamento. Decentrarsi dal “DVD perfezionismo” appena si inizia ad attivare è estremamente importante poiché esso impedisce agli altri DVD mentali, ovvero altri stati mentali come lo sport, la famiglia, gli hobby, ecc., di attivarsi a causa dei comportamenti che si rinforzano e aumentano sempre di più una volta attivato il “DVD perfezionismo”.

Il programma termina con il modulo che si pone l’obiettivo di individuare i meccanismi di mantenimento residui e la prevenzione delle ricadute, individuando le circostanze più rischiose per la riattivazione del “DVD perfezionismo” e preparando un piano di mantenimento e uno che aiuta a gestire le “scivolate”.

Il libro, inoltre, presenta in appendice uno schema riassuntivo delle procedure e degli strumenti utilizzati nelle varie fasi del programma. Un’altra sezione dell’appendice si rivolge a parenti ed amici che hanno acquistato il volume perché pensano che una persona a loro cara abbia un problema di perfezionismo e gli fornisce delle indicazioni su come affrontare tale problematica con lei. Infine, vengono indicati degli indirizzi utili su centri che possono fornire informazioni e/o che applicano la terapia presentata nel volume.

L’uso ideale della guida è come supporto alla CBT-E specialistica. La CBT-E (terapia cognitivo comportamentale migliorata) si basa sulla teoria cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione: la teoria analizza principalmente i processi cognitivi e i comportamenti implicati nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione.

La teoria propone che in alcuni pazienti possano essere presenti uno o più fattori di mantenimento aggiuntivi quali il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare e le difficoltà interpersonali. I fattori di mantenimento aggiuntivi, se presenti, interagiscono con quelli specifici nel perpetuare il disturbo dell’alimentazione creando un ulteriore ostacolo al cambiamento, soprattutto in comorbilità con il perfezionismo clinico: i terapeuti infatti, hanno potuto constatare che la presenza del perfezionismo clinico nel paziente era un fattore prognostico negativo nella terapia.

Pertanto, il Centro per la ricerca sui disturbi dell’alimentazione di Oxford (CREDO), diretto dal prof. Fairburn, partendo dalla definizione di “perfezionismo clinico” proposta da Shafran che ne ha descritto la psicopatologia centrale come “l’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dall’inseguimento e raggiungimento di standard personalmente esigenti in almeno un dominio altamente saliente nonostante le conseguenze avverse”, ha proposto un modello di mantenimento cognitivo comportamentale del perfezionismo clinico. Da questo modello è derivata la CBT del perfezionismo che può essere somministrata da sola o in aggiunta a un trattamento specialistico evidence-based per il disturbo di Asse I in cui il perfezionismo si esprime e che è stato illustrato nel manuale Vincere il perfezionismo.

Tale manuale può quindi essere anche usato da uno specialista all’interno di un modulo aggiuntivo che affronta il perfezionismo clinico in concomitanza al trattamento di un disturbo psicologico, come ad esempio si fa nella terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione. Oppure può essere usato in forma di auto-aiuto (puro e guidato) in associazione alla terapia specialistica, all’interno di un trattamento specialistico.

La forma di auto-aiuto può essere una valida alternativa per le persone che non hanno possibilità economiche per affrontare un trattamento specialistico o non hanno specialisti disponibili vicino al loro luogo di residenza.

La maggior parte della ricerca sul trattamento del perfezionismo si è concentrata sulla CBT condotta da sola e fino ad ora è supportata da studi sperimentali su casi singoli, da uno studio randomizzato e controllato condotto su un piccolo campione di soggetti e da una meta analisi. Complessivamente questi studi hanno evidenziato che il trattamento è efficace non solo nel determinare miglioramenti clinicamente significativi nei livelli di perfezionismo nel 75% dei soggetti con diagnosi di disturbo d’ansia e depressione ma anche di avere un effetto specifico sul disturbo di Asse I, riducendo, fino a dimezzare, il numero di individui che avevano quelle diagnosi.

Nel manuale Vincere il perfezionismo le fasi del programma rispecchiano fedelmente la terapia cognitivo comportamentale ambulatoriale e riportano la descrizione dettagliata delle procedure e degli strumenti usati dal trattamento. Nel trattamento le fasi sono aggiuntive poiché ogni passo aggiunge qualcosa a quello precedente, pertanto si consiglia di partire dall’inizio seguendo le indicazioni. Molto utile per il lettore è anche la parte volta a comprendere il dominio in cui si esprime il perfezionismo, e prima ancora, se si ha un problema di perfezionismo, grazie alle informazioni fornite nella prima parte del libro, dando la possibilità al soggetto di valutare se si rispecchi in quanto riportato. Inoltre, fornisce anche un test di valutazione che può aiutare a valutare se si ha o si è a rischio di avere questo problema.

Nonostante l’apparente complessità del modello proposto, il manuale è di facile comprensione e si rivolge sia a persone che soffrono delle conseguenze del loro perfezionismo e che intendono seguire un trattamento cognitivo-comportamentale, sia ai familiari e amici che vogliono aiutare la persona perfezionista, sia agli psicoterapeuti che vogliono applicare un protocollo di intervento cognitivo-comportamentale in modo strutturato. Il testo risulta, inoltre, motivante e validante della sofferenza realmente esperita dalle persone perfezioniste, rassicurando il soggetto che l’obiettivo della terapia non sarà quello di abbassare i suoi standard, bensì di partire dalle aree libere da questo “meccanismo perverso”, mettendo in risalto come molte volte la prestazione possa migliorare anche con uno sforzo minore e fornendo incentivi per sviluppare una valutazione di sé meno dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di standard elevati.

Nella guida vengono, inoltre, indicati alcuni consigli utili per usare il programma nel modo migliore quali iniziare bene per aumentare la fiducia sulla possibilità di cambiare, evitare le interruzioni, non adottare comportamenti e attitudini perfezioniste nei confronti del trattamento, considerare il programma come un nuovo inizio, dedicare il tempo necessario, non aspettarsi progressi facili e costanti, seguire il programma passo per passo, considerare il perfezionismo come un tallone di Achille e sapere che nella vita ci sarà un costante confronto con il perfezionismo, questo permette di avere una buona motivazione evitando battute d’arresto.

Il libro, soffermandosi sui meccanismi che innescano lo stato mentale del perfezionismo, permette alla persona che soffre di comprendere come tale sofferenza possa essere mantenuta e quali siano i comportamenti e pensieri disfunzionali messi in atto, inoltre vengono proposti esempi pratici e consigli per affrontare i vari moduli. Molto utili sono anche le schede proposte per lavorare durante la settimana. Infatti, gli autori forniscono del materiale scaricabile in forma pdf che fa parte del manuale ed è utilizzabile come ausilio sia per il terapeuta che per l’individuo perfezionista.

 

Il Castello di Vetro – La LIBET nelle narrazioni

Il Castello di Vetro è un film tratto dall’autobiografia di Jeannette Walls, giornalista e scrittrice americana.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 6) Il Castello di Vetro

 

Anni ’60, Jeannette, seconda di 4 fratelli, nasce in una famiglia a dir poco naïf che vive alla giornata spostandosi di stato in stato, senza una fissa e decorosa dimora a causa dei debiti. Improvvisi e repentini spostamenti scandiscono l’infanzia di Lori, Jeannette, Brian e Maureen senza lasciare spazio e tempo al germogliare di radici, amicizie e legami. La motivazione fornita loro dai genitori è la ‘favola’ della libertà più sfrenata, vissuta alla giornata come in un’avventura. Ma i bambini, trascinati da un edificio abbandonato ad una casa fatiscente, imparano ben presto a loro spese a badare a se stessi e che quella vita ha poco a che fare con la libertà.

Il Padre Rex, abusato da bambino dalla propria madre, è un alcolista, passa da un lavoro a un altro senza riuscire a tenersene stretto neanche uno.

La Madre Rose Mary, ex-insegnate e artista, dipinge, legge e si dedica alla sua arte tutto il giorno senza curarsi minimante dei bisogni primari dei bambini, i quali cucinano, tengono in ordine casa, si procurano qualche soldo, non frequentano la scuola, vivono, assistono e si fanno carico di situazioni crude e traumatiche.

Filo conduttore, che accompagna lo spettatore attraverso la storia di vita della famiglia Walls, il Castello di vetro: un progetto, una promessa, una fantasia di stabilità, di vita normale, mai realizzata.

Nonostante le condizioni di crescita, la trascuratezza e le difficoltà, i bambini diventano adolescenti e ognuno escogita un modo per scappare per sempre dalla ‘libertà’ creata per loro da Rex e Rose Mary.

Jeannette trova una fonte di guadagno, si paga il college, studia e diviene una donna in carriera, con un lavoro ben pagato, nel quartiere più in di New York e sta per sposarsi con John. È una donna sveglia, intelligente e spigliata, per la prima volta nella sua vita è tutto finalmente sotto controllo, sicuro, prevedibile e quanto più aderente alla normalità; ciò le permette di non sentirsi più vulnerabile, fragile e in balia degli eventi, degli altri.

Nonostante ciò il passato riaffiora prepotentemente con flash-back improvvisi, incubi notturni, esplosioni di rabbia, sensi di colpa per essere scappata ed incarnare tutto ciò che i suoi genitori disprezzano.

Mentre Jeannette, alle cene di lavoro e alle feste, con il futuro marito, mente alle domande riguardo i suoi genitori, Rex e Rose Mary sono dei senza tetto nella periferia newyorkese: si sono spostati sta volta per tenerla d’occhio e starle vicino, ma lei li evita, si nasconde, se ne vergogna.

Il fidanzamento imminente, la costringe a contattare la famiglia e a comunicare loro la sua decisione. Turbata e combattuta per i possibili esiti di questo incontro, per la reazione del padre in primis, Jeanette va a fare visita ai genitori con il fidanzato.

Come previsto la situazione ha un esito disastroso: John, dopo essere stato insultato e costretto da Rex a ubriacarsi, viene sfidato a un braccio di ferro il cui premio è la mano di Jeanette. Vince, e riceve un pugno al volto dal futuro suocero.

Considerando il peggio passato, Jeanette non si aspetta che alla festa di fidanzamento i suoi genitori si presentino senza invito chiedendole una grossa somma di denaro: lì, in quel momento, davanti a tutti gli ospiti che conoscevano di lei solo l’apparenza, Jeanette si spoglia di ogni costruzione e urla in faccia ai genitori la sua disperazione di figlia cresciuta da un padre alcolizzato e una madre negligente, le fatiche, lo sconforto e la rabbia. Intima loro di sparire per sempre dalla sua vita.

Jeannette dovrà scendere a patti con la sua rigidità emotiva prima che il padre muoia.

 

La diagnosi precoce nei disturbi dello spettro autistico

Le giornate di formazione sull’autismo, svolte a San Benedetto Del Tronto all’interno del ciclo Guardare oltre l’autismo: prospettive, interventi ed esperienze, hanno stimolato una riflessione sul percorso che va dallo screening e dall’importanza di una diagnosi precoce, fino alla costruzione di un progetto di vita.

 

La nostra riflessione, avvenuta  attraverso la discussione e il confronto con diversi professionisti del territorio, ci ha permesso di raccogliere esperienze dirette per ragionare sull’importanza di strutturare un percorso efficace dalla diagnosi all’intervento, dall’inserimento a scuola alle prospettive di vita adulta, all’interno di una rete e di un lavoro di squadra che possa coinvolgere tutti gli attori di un quadro complesso come quello dell’autismo, verso un obiettivo comune che rappresenta il futuro del bambino nell’ottica di una sempre maggiore promozione dell’autonomia.

L’autismo e i disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorders – ASD) sono disturbi del neurosviluppo legati a un’anomala maturazione cerebrale a base biologica che inizia già in epoca fetale, molto prima della nascita del bambino. Secondo le linee guida dell’Istituto Superiore della Sanità è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo, biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti, al gioco funzionale e simbolico e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri.

La normativa (nazionale e regionale) attualmente vigente in materia di Disturbi dello spettro autistico (ASD) sancisce con particolare attenzione la regolamentazione dei processi di diagnosi, cura e assistenza al singolo e alla famiglia (Legge 134/2015).

L’operatore di primo livello (pediatra, educatore di asilo nido…), deve essere attento alle preoccupazioni e ai dubbi riferiti dai genitori circa lo sviluppo della comunicazione e della socializzazione dei bambini e deve osservare tali comportamenti. Spesso le modalità di esordio del disturbo sono subdole e mal definite, per questo sono fondamentali sensibilizzazione e formazione su questa problematica.

Il ruolo dei pediatri è inoltre fondamentale nel somministrare uno screening intorno ai 18 mesi dalla nascita del bambino, in quanto il bilancio di salute dei 24 mesi rappresenta l’unica valutazione dello sviluppo comunicativo-relazionale e sociale che tutti i bambini ricevono prima dell’ingresso alla scuola materna (Legge 134/2015). Risulta molto importante diagnosticare l’autismo in età precoce (entro il secondo anno di vita del bambino), identificando i segnali di rischio di un alterato sviluppo comunicativo-relazionale, perché un intervento precoce può migliorare sensibilmente la qualità della vita della persona autistica.

Il pediatra, nella fase di diagnosi, ha il compito di svolgere una valutazione del funzionamento globale del bambino attraverso uno screening degli indicatori precoci di ASD, mediante un colloquio con i genitori, l’osservazione e la valutazione degli indicatori di sviluppo fisici, cognitivi e comportamentali e l’utilizzo di test. I genitori dei bambini di 18 mesi vengono contattati ed invitati alla compilazione della M-CHAT-R/F (The Modified Checklist for Autism in Toddlers) per via telematica o cartacea. Nei casi in cui, in base ad un test standardizzato o all’osservazione effettuata, sembri verificarsi un serio sospetto di autismo, il pediatra richiede una visita specialistica al neuropsichiatra infantile per l’eventuale conferma diagnostica. Nei casi di dubbi, in accordo con i genitori, si organizza un controllo a distanza di quattro settimane per una rivalutazione dei segni “sospetti”.

Il riconoscimento dei casi a rischio di disturbo dello spettro autistico attraverso lo screening degli indicatori di sviluppo è un validissimo strumento per anticipare la diagnosi, e dunque l’intervento, e permette una riduzione di falsi positivi.

All’interno di un progetto condotto nella Regione Abruzzo, sono stati attuati specifici programmi di formazione per pediatri e lo sviluppo di un protocollo per il riconoscimento/valutazione delle anomalie comportamentali precoci nella popolazione generale e ad alto rischio, oltre alla costruzione di una rete per delineare l’iter diagnostico in un’ottica continuativa e multidisciplinare.

Grazie a questo progetto e all’introduzione dell’M-CHAT-R/F da parte dei pediatri di famiglia, nella regione Abruzzo si è assistito, negli ultimi anni, ad una riduzione dell’età di prima diagnosi dei bambini pervenuti dai 62-68 mesi a 34-36 mesi.

Analisi retrospettive e studi prospettici (Muratori, Maestro, 2007; Zwaigenbaum et al, 2005) hanno messo in luce che molti bambini presentano i primi sintomi già intorno ai 12 mesi, tuttavia in molti casi la piena sintomatologia è identificabile solo dopo i 18 mesi e in alcuni casi anche dopo i 24 mesi.

I primi segni di anomalie comportamentali possono essere: anomalie nel dominio comunicazione e socializzazione, scarso contatto oculare, mancanza di attenzione congiunta e di condivisione dell’affetto, ritardo della comparsa della comunicazione gestuale-pointing, mancata risposta al nome, difficoltà nell’adattare la sua postura alla postura di chi lo tiene in braccio, assenza di gioco simbolico e modalità stereotipate nell’uso degli oggetti, assenza o ritardo del linguaggio, anomalie nell’uso del linguaggio (utilizzo di ecolalia, inversione pronominale e linguaggio idiosincratico), mentre i comportamenti ripetitivi e stereotipati tendono a comparire dal terzo anno in poi.

Gli studi sul riconoscimento da parte dei genitori delle anomalie dello sviluppo nell’autismo fanno ipotizzare che le prime preoccupazioni degli stessi risalgano al primo anno di vita nel 50% dei casi e che almeno l’80%-90% dei genitori riconosca anomalie nel proprio figlio entro i 24 mesi (Volkmar, 2008).

Formulare una diagnosi precoce di autismo consente anche la prevenzione di situazioni di malessere che si generano all’interno del sistema famiglia: genitori, che appaiono disorientati di fronte alla evidenza di anomalie nello sviluppo del bambino, possono ricevere risposte circa la natura del problema. Inoltre, la diagnosi precoce promuove risultati più positivi in età scolare e assicura una migliore qualità di vita, grazie alla maggiore opportunità di intervento precoce (Daniels, Mandell, 2014). I bambini che ricevono una diagnosi ed un trattamento adeguato già dai primi anni di vita possono sviluppare modalità comunicative funzionali e un discreto livello cognitivo che permetterà di acquisire una buona autonomia personale e sociale.

La diagnosi è un intervento specialistico multidisciplinare, basato su criteri esclusivamente comportamentali. Non esistono, infatti indagini di laboratorio e/o strumentali che possano confermare un sospetto clinico, ma necessita dell’adozione di procedure diagnostiche altamente standardizzate, integrate da strumenti di valutazione validati a livello internazionale, come l’ADOS-2 (Autism Diagnostic Observation Schedule), l’ADI-R (Autism Diagnostic Interview, Revised) e la CARS-2 (Childwood Autism Rating Scale).

La diagnosi è un momento estremamente delicato per i genitori, per la comunicazione di una patologia della quale potrebbero non essere affatto consapevoli e che può destabilizzare l’intero assetto familiare. Dovrebbe essere svolta usando termini semplici e comprensibili al genitore, tenendo conto delle loro preoccupazioni, delle ipotesi che hanno fatto, di ciò che hanno letto e dei loro dubbi, per affrontarli e chiarirli insieme e per fornire spiegazioni, con empatia, disponibilità e scientificità sulle possibili cause (Brogan & Knussen, 2003; Osbourne & Reed, 2008; Moh & Magiati, 2012). Inoltre, deve essere orientata al futuro, al programma di intervento ed alla potenzialità di recupero, deve fornire informazioni su quello che i genitori possono fare e deve essere rivolta a tutto il nucleo familiare, compresi i fratelli.

 

Il trattamento dell’obesità impatta su autostima e immagine corporea?

L’obesità è una condizione medica caratterizzata dall’eccessivo accumularsi di grasso corporeo, con conseguenti effetti negativi sulla salute, tra cui la riduzione dell’aspettativa di vita. L’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile in tutto il mondo.

 

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) identifica l’obesità tramite l’indice di massa corporea (BMI), calcolabile dividendo il peso espresso in kg per il quadrato dell’altezza in metri. Ad esempio, prendiamo il caso di una persona alta 1,73 m che pesa 73 kg, per calcolare il suo BMI dovremmo fare 73 / (1.73)² = 24,39. L’indice ottenuto da questo calcolo si interpreta nel seguente modo:

  • < 19= sottopeso
  • 19 – 25= normopeso
  • 25 – 30=sovrappeso
  • + 30= obesità

Nei casi i n cui il BMI superi il punteggio di 40 kg/m², si ricorre alla chirurgia bariatrica. Numerosi studi hanno infatti dimostrato come questo approccio riduca in maniera significativa il rischio di mortalità nei pazienti che soffrono di obesità (Janicke et al, 2014).

Nel 1997, l’organizzazione mondiale della sanità ha categorizzato l’obesità come un’epidemia globale (Caballero, 2007). Inizialmente si pensava fosse un fenomeno che riguardasse solo i paesi ricchi e industrializzati, in realtà, a partire dal 2000, si notò che la condizione era in aumento in tutto il mondo, sia nelle nazioni industrializzate che in quelle in via di sviluppo (Constantine et al., 2008).

L’impatto di questa patologia, oltre che a livello fisico, è riscontrabile anche a livello psicologico, infatti individui in questa condizione risultano avere poca autostima e un’immagine corporea negativa. E’ inoltre dimostrato come queste due componenti psicologiche siano in grado di predire l’insorgenza di un disturbo alimentare e della depressione (Harriger & Thompson, 2012).

In letteratura, possiamo osservare la presenza di meta-analisi che dimostrano l’efficacia degli attuali trattamenti chirurgici nel ridurre il peso e migliorare la condizione cardiovascolare, tuttavia ci sono pochi studi che ricercano l’impatto di questi trattamenti sull’autostima e sull’immagine corporea dell’individuo; così come poche sono le ricerche in grado di dirci se intervenire precocemente, ovvero quando l’obesità si manifesta in tenera età, può avere un impatto positivo su autostima e immagine corporea dell’individuo.

Una meta-analisi condotta nel 2019, pubblicata su Pediatric obesity, si è proposta di verificare l’impatto dei trattamenti pediatrici per l’obesità a livello psicologico, in particolare prendendo in esame le due variabile sopra riportate (autostima e immagine corporea) (Gow et al., 2019).

Per condurre la meta-analisi sono stati presi in esame 49 studi clinici, per un totale di 10471 soggetti, i risultati mostrano che il trattamento pediatrico per l’obesità porta ad un incremento sia dell’autostima che dell’immagine corporea, che si mantiene nel tempo (verificata tramite dei follow-up), e che agisce in maniera significativa anche nella prevenzione delle ricadute (Gow et al., 2019).

I risultati di questo studio sottolineano l’importanza di agire tramite la psicoterapia su questi due fattori psicologici fortemente correlati con l’obesità. I ricercatori sottolineano l’importanza di trial clinici per la conferma di questi risultati, dato che, il suddetto studio è una meta-analisi condotta su studi sperimentali che non avevano l’obbiettivo di studiare l’impatto dell’autostima e dell’immagine corporea sull’obesità (Gow et al., 2019).

 

In-sanità mentale: mostra d’arte di A-CriticArt – Recensione della mostra

Dall’8 al 26 Febbraio in esposizione a Firenze presso la galleria La Fonderia la mostra di A-criticArt. Un viaggio tra arte e psicologia.

 

La storia dell’arte documenta come la creazione artistica sia da sempre stata uno strumento nelle mani dell’individuo, al fine di svolgere le più svariate funzioni. Originariamente è stata espressione del magico, della religione, della guerra, per evolversi poi in un’arte al servizio dell’uomo, delle emozioni e dei sentimenti. Ha sempre seguito l’individuo come un’ombra nella sua evoluzione. La figura umana, nello specifico, è sempre stata un soggetto affascinante per gli artisti di tutti i tempi ed ha trovato la massima espressione nel ritratto. Si definisce ritratto ogni rappresentazione di una persona secondo le sue reali fattezze e sembianze. Soprattutto quando l’artista sceglie di utilizzare uno stile iperrealistico. È anche vero che il ritratto non è mai stato semplice rappresentazione della fisionomia in quanto è sempre sottoposto allo sguardo interpretativo dell’artista sul soggetto. Aristotele diceva:

è obiettivo dell’arte rappresentare non l’aspetto esteriore delle cose, ma il loro significato interiore, per questo, non la figura esterna e il dettaglio costituiscono la vera realtà.

Questo concetto è espresso in modo esemplare nelle opere del giovane artista A-CriticArt, psicologo di formazione e artista autodidatta, che con la tecnica iperrealista ha realizzato volti che esprimono disturbi mentali, passioni e condizioni esistenziali.

L’8 febbraio 2020, presso la galleria La Fonderia, a Firenze, è stata inaugurata la sua mostra personale dal titolo In-sanità mentale. La suddetta è stata presentata da Ilaria Giannotti, alla presenza dell’artista. Fino al 26 Febbraio sarà possibile intraprendere un viaggio tra arte e psicologia attraverso 15 opere di A-CriticArt, realizzate su carta con tecnica mista.

In mostra tre serie:

Puzzle, una serie di ritratti effettuati su pezzi di puzzle disposti, composti, mancanti in modo da rappresentare le condizioni patologiche che affliggono la mente umana.

Cantautori, una serie di ritratti di cantautori italiani effettuata con un mosaico di testi delle loro canzoni.

Pixel, icone del passato riproposte in chiave moderna attraverso il disegno del più piccolo elemento che compone un’immagine digitale.

Altre due opere, non in serie, Punti di Vista e Prigioni, offrono interessanti spunti di riflessione fra realismo e introspezione.

 

Informazioni e contatti:

 

Le 13 emozioni suscitate dalla musica

13 emozioni, 13 sentimenti dominanti quando ascoltiamo una canzone, mappati dai neuroscienziati dell’Università di Berkley in California.

 

Obiettivo della ricerca

La ricerca dell’Università di Berkeley in California ha mappato le risposte emotive di oltre 2500 persone di età e cultura diversa (i soggetti partecipanti all’esperimento sono stati selezionati tra candidati americani e cinesi) all’ascolto di migliaia di canzoni dei generi più diversi: rock, folk, jazz, musica classica, commerciale, sperimentale, fino all’heavy metal. Il risultato è stato che l’esperienza soggettiva dell’ascolto può essere racchiusa in 13 emozioni: divertimento, gioia, erotismo, bellezza, rilassatezza, tristezza, fantasia, trionfo, ansia, paura, fastidi, ribellione, energia.

Obiettivo dello studio è stato quello di creare una “libreria delle emozioni” che racchiuda e combini i sentimenti associati ad ogni pezzo ascoltato, per registrarli in una sorta di mappa.

La ricerca documenta come, attraverso il linguaggio musicale, le emozioni siano universalmente percepite.

E’ emerso come tutte le persone che hanno preso parte all’esperimento si siano trovate d’accordo nell’identificare emozioni simili in corrispondenza di una stessa canzone. Ad esempio, i partecipanti tendevano ad associare sentimenti di sfida/provocazione quando ascoltavano heavy metal.

Qualche differenza si è notata, invece, rispetto al valore che è stato associato all’emozione percepita. Persone di diverse culture si sono trovate d’accordo sul fatto che, ad esempio, una canzone suscitasse rabbia, ma possono essere state in disaccordo sul fatto che questo sentimento abbia per loro una valenza positiva o negativa, che determini uno stato di benessere o di malessere, e sul suo livello di intensità. A determinare questa differenza è il fatto che all’emozione istintiva suscitata dall’ascolto sono subentrate influenze di tipo culturale.

Come si è svolta la ricerca

I partecipanti sono stati reclutati attraverso la piattaforma di crowdsourcing Amazon Mechanical Turk, un servizio attraverso il quale i ricercatori possono selezionare persone che si prestano, generalmente su base volontaria, allo sviluppo di un progetto permettendo agli stessi di coordinare intelligenze umane allo scopo di eseguire dei compiti richiesti. Ai partecipanti è stato chiesto di selezionare dei video musicali su YouTube che evocassero in loro diverse emozioni.

Il campione di ricerca è stato così suddiviso: 1591 soggetti americani e 1258 soggetti cinesi. I brani campionati sono stati 2168.

Un primo esperimento ha coinvolto un sottogruppo di 1841 partecipanti, americani e cinesi, chiamati a valutare 40 estratti musicali basati su 28 diverse categorie di emozioni e sul loro grado di intensità. Questo ha permesso ai ricercatori di ottenere una prima lunga lista di risposte emozionali che i diversi tipi di musica possono evocare, dalla quale sono poi state estratte le 13 categorie più scelte dagli utenti. Ciò ha permesso anche di verificare come partecipanti di diverse culture sperimentassero le stesse esperienze soggettive nell’ascolto degli stessi brani.

Per essere certi che i partecipanti dei diversi continenti provassero veramente gli stessi sentimenti, i ricercatori hanno condotto un “confermative experiment” per eliminare ogni possibile influenza culturale. L’esperimento consisteva nel far ascoltare ai partecipanti più di 300 brani eseguiti con strumenti tradizionali e suddivisi tra musiche tratte da western e da cultura cinese. Le risposte hanno confermato la ricerca, mostrando come in tutti i partecipanti, sia americani che cinesi, questi brani evocassero le stesse emozioni.

Interactive audio map

I risultati della ricerca sono stati tradotti in una mappa audio interattiva (consultabile cliccando qui), dove i visitatori possono verificare in prima persona le loro reazioni spostando il cursore tra migliaia di musiche campionate. Ogni lettera presente sulla mappa corrisponde ad una traccia emozionale e consente a ciascuno di mettere alla prova le conclusioni che sono state raggiunte, verificando se la propria risposta emozionale corrisponde a quella data dalle persone prese a campione per la ricerca.

Utilizzo della ricerca

I risultati di questa ricerca possono trovare un utilizzo pratico nel campo delle terapie psicologiche e psicoanalitiche, ad esempio per selezionare musiche idonee a suscitare determinate emozioni nei pazienti. Un utilizzo più ludico potrebbe essere indirizzato a piattaforme streaming che si avvarrebbero di questa ricerca per regolare gli algoritmi su cui si basa la creazione delle loro playlist, in modo da renderle sempre più rispondenti alle richieste degli utenti.

 

I Serious Games nella demenza: una rassegna della letteratura

La crescita esponenziale del tasso di demenza nella popolazione ha delle profonde implicazioni nei costi sociali ed economici di gestione della patologia. Si rivela dunque prioritario da parte della ricerca scientifica identificare nuovi scenari di prevenzione e di trattamento del progressivo deterioramento cognitivo.

Merve Ulku Kulaksiz – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

I dati attuali sulla demenza sono sempre più allarmanti, si stima infatti che oggi nel mondo 50 milioni di persone siano affette da questa patologia. Tale cifra è drammaticamente destinata ad aumentare nei prossimi anni: nel 2030 saranno 82 milioni circa i malati di demenza arrivando a toccare i 152 milioni di persone nel 2050 (World Alzheimer Report 2018). Tra le varie forme di demenza il 60-80% dei casi diagnosticati si inseriscono nel quadro clinico della demenza di Alzheimer (AD) (Valladares-Rodriguez  et al., 2018). Esiste inoltre un’ampia letteratura di casi clinici, appartenenti ad uno stato intermedio a cavallo tra il normale invecchiamento e la demenza di Alzheimer, tale stadio è denominato Mild Cognitive Impairment (MCI), Compromissione Cognitiva Lieve (Zucchella et al., 2014).

Questa crescita esponenziale della popolazione con demenza ha delle profonde implicazioni nei costi sociali ed economici di gestione della patologia. Si rivela dunque prioritario da parte della ricerca scientifica identificare nuovi scenari di prevenzione e di trattamento del progressivo deterioramento cognitivo.

Recentemente è nato quindi, l’interesse per l’implementazione delle nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) per valutare e individuare i segni precoci del deterioramento cognitivo e funzionale del paziente sia con demenza di Alzheimer che nella fase di Mild Cognitive Impairment. Le ICT oltre ad essere importanti nella fase di assessment, hanno un ruolo chiave anche nel trattamento, nella stimolazione ed infine nella riabilitazione della demenza (Robert et al., 2014).

Negli ultimi anni, tra le nuove tecnologie implementate, sono nati i Serious Games (SGs): giochi digitali che possono essere utilizzati anche nell’ambito della salute. (Zucchella et al., 2014). Diversi studi in letteratura si stanno focalizzando sulla correlazione esistente e sulle modalità di utilizzo dei Serious Games negli anziani con deterioramento cognitivo (Muscio, Tiraboschi et al., 2015). I SGs nell’ambito delle patologie neurodegenerative come l’Alzheimer possono essere dei validi strumenti di supporto e miglioramento di molteplici domini cognitivi e infine potrebbero anche fornire soluzioni alternative di misurazione dello stato cognitivo (Manera et al. 2017).

Serious Games: origini e definizioni

L’ossimoro insito nel termine Serious Game (gioco-serio) ha origini antichissime. I primi ad utilizzare tale terminologia furono i filosofi neoplatonici i quali coniarono l’espressione latina “serio ludere” per identificare un connubio tra spensieratezza ed argomenti seri. Nell’ambito digitale invece sono stati citati per la prima volta nel 2002 a seguito di un’iniziativa guidata da David Rejeski e Ben Sawyer. Gli autori pubblicarono un libro bianco (white-paper) intitolato Serious game: improving Public Policy through Game-based Learning and Simulation; gli autori in questo libro indicavano come poter usufruire dell’industria del video-game per potenziare le organizzazioni pubbliche attraverso giochi basati sull’apprendimento e sulla simulazione (Ma et al, 2011).

I serious games nel corso degli anni sono stati applicati in vari ambiti: militare, educativo, marketing e salute. Attualmente i SGs sono intesi come delle applicazioni d’avanguardia computerizzate e interattive. Essi non hanno una finalità di intrattenimento bensì uno scopo pedagogico (Gorbanev et al., 2018).

Queste applicazioni digitali sono caratterizzate dai tipici elementi dei video-giochi come la creatività e l’interattività inseriti però su un piano educativo. (Manera et al. 2017). I giochi sono sviluppati con un range di vari livelli di difficoltà al fine di potenziare le capacità dei processi di problem solving e di apprendimento dei fruitori.

Bedwell et al., (2012) ha descritto le caratteristiche principali che un SGs deve possedere per essere considerato tale:

  1. linguaggio d’azione (il gioco offre alcuni metodi di comunicazione tra una persona e il gioco);
  2. assessment (tracciare il numero di risposte corrette);
  3. ostacoli e/o sfide;
  4. controllo e/o l’abilità da parte dei giocatori di modificare il gioco;
  5. tipologia di ambiente;
  6. gioco di finzione o storia;
  7. interazioni umane tra i giocatori;
  8. immersione nel gioco;
  9. ruoli ed obbiettivi del gioco forniti al giocatore.

La caratteristica tipica dei Serious Game è la presenza di ostacoli e obbiettivi a lungo termine che possano essere utilizzati nella contesto reale diversamente dai training classici.

Alla base della creazione dei SGs, come è possibile intuire, si rintracciano i costrutti tipici del Comportamentismo e del Cognitivismo (Gorbanev et al.,2018).

La stimolazione cognitiva tramite il gioco è un metodo per consentire il mantenimento di un cervello sano e per limitare il decadimento delle funzionalità cognitive necessarie allo svolgimento di attività giornaliere negli anziani con demenza (Tziraki et al., 2017). Infatti, la ricerca ha riscontrato come gli anziani (non solo i giovani) possano essere giocatori di Serious Games (Muscio et al., 2015). Esiste a tal proposito una forte evidenza empirica che ha messo in luce che i video-game e le attività online hanno effetti benefici sul funzionamento cognitivo degli anziani anche con demenza in diversi ambiti quali: tempi di reazione, memoria, span di attenzione, controllo delle funzioni cognitive ed incremento delle capacità di multitasking (Kyriazis, Kiourti, 2018). Gli anziani sono sempre più fruitori dei video-games rispetto alla scorsa decade (Robert et al., 2014).

Lo stato dell’arte dei Serious Games nell’ambito della Demenza

Attualmente la maggior parte dei Serious Games creati sperimentalmente sono finalizzati al miglioramento dell’accuratezza della fase diagnostica nella demenza di Alzheimer. In particolare, si stanno sviluppando dei SGs che possano essere implementati nella fase di screening in sostituzione ai classici test neuropsicologici carta-matita in quanto quest’ultimi: richiedono tempo, sono costosi e necessitano del coinvolgimento di molti professionisti. Inoltre, la ricerca si muove verso la creazione di strumenti di screening che possano essere anche auto-somministrati e completati in ospedale a casa (Tong et al., 2016). Le nuove tecnologie consentono quindi di sviluppare strumenti di misurazione di più semplice utilizzo e che possano ridurre anche i tempi di processamento dei dati fornendo condizioni di test controllate (Zucchella et al. 2014).  La strumentazione odierna in ambito geriatrico utilizza misurazioni standardizzate per valutare lo stato cognitivo e individuare il deterioramento cognitivo, tra queste le più comuni sono:

  1. Il Mini-Mental State Examination (MMSE): un test che fornisce una valutazione del funzionamento cognitivo globale.
  2. Il Montreal Cognitive Assessment (MoCA): un test utilizzato per rintracciare la compromissione cognitiva tipica dello stato di MCI e monitorare lo stato delle funzioni esecutive (Zucchella et al, 2014).

Il limite principale sottostante a questi test è che sono poco interattivi ed inoltre possono essere somministrati esclusivamente da professionisti clinici della salute (Tong et al., 2016). I Serious Games consentono di superare queste debolezze descritte nella metodologia attuale di assessment della demenza.

Alcuni progetti pilota di Serious Games nella Demenza

Dalla revisione della letteratura effettuata diversi sono i progetti pilota che coinvolgono l’utilizzo dei Serious Games nella demenza. La maggior parte di essi sono finalizzati alla discriminazione tra pazienti con demenza di Alzheimer, pazienti nello stadio di Mild Cognitive Impairment e soggetti sani. Inoltre un altro elemento in comune è l’utilizzo di giochi basati su scenari virtuali quotidiani al fine di preservare le capacità di riserva cognitiva dell’anziano e ritardare quindi l’ospedalizzazione e l’aggravarsi della sintomatologia. Di seguito sono mostrati alcuni dei progetti visionati.

  • The Smart Aging Platform

Questo Serious Games è stato sviluppato da un team di esperti multidisciplinare. La piattaforma è stata testata su 50 soggetti in uno range di età che va dai 24 ai 78 anni di età. Per poter progettare e sviluppare i diversi compiti previsti dal gioco, gli esperti hanno selezionato una batteria dei test convenzionali, utilizzati nell’ambito della demenza: il  Mini-Mental State Examination (MMSE), il Montreal Cognitive Assestment (MoCA), il Free and Cued Selective Reminding Test (valutazione della memoria episodica), il Trial Making Test parte A e B (TMTA e TMTB) (valutazione dell’attenzione divisa), il Wisconsin Card Sorting Test (WCST) (valutazione del problem solving, della pianificazione e della flessibilità cognitiva e la fluenza fonologica e semantica). In questa piattaforma i soggetti si sono interfacciati alla realtà virtuale tramite un computer dotato di monitor touch screen, in quanto di più facile utilizzo per le persone anziane. I soggetti hanno navigato in prima persona, non utilizzando avatar. Il gioco implementato è uno scenario virtuale tipico di un appartamento con le sue stanze, quali una cucina, una camera, una zona living ed un bagno. L’ambiente virtuale è stato equipaggiato da diversi elementi: fissi che non consentono alcuna interazione (pavimento, finestre, elementi decorativi, tappeti); fissi che possono essere utilizzati superficialmente in alcuni spostamenti (letto, tavolo, cucina); elementi come porte che possono essere chiuse o aperte ecc..; elementi mobili come vestiti, libri, cibi. Ai soggetti coinvolti è stato richiesto di effettuare performance di simulazione di attività di vita quotidiana.  Attraverso i diversi task è stato possibile valutare le funzioni esecutive, l’attenzione, la memoria e l’orientamento visuospaziale. Ogni compito ha previsto delle istruzioni scritte facilitanti che descrivono al soggetto cosa è richiesto fare. Successivamente dopo l’inizio del primo compito i soggetti hanno occasione di familiarizzare per 10 minuti con l’ambiente virtuale interagendo con i vari oggetti. Mentre i partecipanti sperimentano l’ambiente virtuale ed eseguono i vari compiti, la piattaforma registra diverse misure: posizioni, tempi e azioni. Per ogni compito esiste un indice di valutazione della performance. Diversi sono i parametri che sono stati associati ai vari compiti: numero di azioni corrette, numero di errori, numero di false ricognizioni, numero di omissioni, il tempo necessario per concludere l’esercizio e le distanze ricoperte. Smart Aging Platform potrebbe essere uno strumento per individuare il precoce declino cognitivo offrendo vantaggi, sia per lo screening della fase di MCI, sia per individuare i diversi sottotipi che lo caratterizzano. Si rivela infine utile per incrementare la validità ecologica dell’assessment (Zucchella et al, 2014).

  • Kitchen and Cooking

Questo Serious Game nasce dalla collaborazione di clinici e game designers all’interno del progetto pilota EUROPEAN FP7 di VERVE (Vanquishing fear and aphaty through E-inclusion). Una recente indagine ha dimostrato che il cibo è l’argomento che stimola maggiormente le persone anziane che vivono in ambiente istituzionalizzati. In questo gioco viene simulato l’atto del cucinare al fine di stimolare e valutare le abilità esecutive e pratiche dell’anziano. Questo studio sperimentale ha coinvolto un campione di 9 pazienti con MCI e 12 pazienti con Alzheimer. I pazienti sono stati reclutati tramite l’unità di ricerca Nice Research Memory Center and CoBTeK (CMRR). Il progetto ha avuto la durata di un mese durante questo periodo è stato effettuato sia un assessment clinico e neuropsicologico che la formazione dei partecipanti i quali sono stati messi nella condizione di giocare liberamente con un tablet a casa. La fase di formazione ha previsto 5 incontri con un clinico addestratore il quale ha somministrato loro dei questionari self-report nei quali è stato richiesto di valutare l’esperienza complessiva del gioco attraverso misure quali: 1) accettabilità, 2) motivazione, 3) emozioni correlate. Il gioco prevedeva di cucinare quattro tipologie di piatti: pizza, torta di yogurt, pollo in salsa di panna, involti di salmone. L’esecuzione dei vari compiti ha consentito agli autori di avere una misura e una stimolazione cognitiva su molteplici aspetti: l’attività gnosica (attraverso un compito di selezione dei corretti ingredienti dal frigorifero e dagli armadi); l’attenzione sostenuta (la ricerca degli alimenti necessari implica il riconoscimento oggettuale); le funzioni esecutive (attraverso l’uso della pianificazione dei compiti); le abilità motorie (attraverso attività pratiche). Nel gioco il numero di oggetti da riconoscere è stato vario circa da 7-8 elementi, il numero dei compiti pratici anche è stato variabile da 7 a 13. Il gioco ha consentito di monitorare il tempo trascorso, il numero totale di scenari giocati ed infine il numero di errori commessi. Lo studio effettuato ha dimostrato che questo Serious Games ha degli effetti benefici soprattuto nei soggetti con apatia, un tipico sintomo presente nella demenza di Alzheimer in quanto ha consentito un potenziamento del livello di motivazione, stimolando con i vari esercizi l’interesse dei soggetti partecipi (Manera et al. 2015).

  • Episodix

E’ uno dei più recenti Serious Games rintracciati in letteratura (Valladares-Rodriguez et al., 2018). Si tratta di un SGs per il quale attualmente è stata esaminata esclusivamente la validità psicometrica. Episodix ha le potenzialità per valutare la memoria episodica, una sorta di digitalizzazione del California Verbal Learning Test (CVLT). Questo gioco è funzionale alla discriminazione di individui sani ed individui con deterioramento cognitivo lieve. Questo studio ha coinvolto un campione misto di 74 anziani reclutati da diversi ambiti (casa di riposo in Galizia, associazioni di pazienti di Alzheimer quali (AFAMO) e (AFAGA). L’assessment tramite Episodix ha previsto tre diverse fasi consecutive di un gioco che ha coinvolto gli anziani nella loro routine giornaliera. Nella prima fase l’obbiettivo consisteva nel valutare la memoria a breve termine, la memoria semantica ed infine la memoria procedurale. Successivamente i ricercatori hanno valutato la memoria a lungo a termine e le capacità di ricognizione. Episodix è stato installato su un tablet Samsung galaxy note pro (SM-p900) touch screen per facilitare l’utilizzo. Inoltre come altri elementi facilitanti, Episodix ha offerto un supporto multilingue audio e testuale per migliorare la comprensione dei vari giochi da svolgere. Tale SGs secondo quanto riscontrato dagli autori potrebbe essere un valido strumento per predire il decadimento cognitivo dei partecipanti.

Conclusioni e limiti

Nonostante l’interesse sempre più ampio nella creazione di Serious Games tarati sulla popolazione anziana con deterioramento cognitivo, attualmente sono ancora limitati gli studi rigorosi di efficacia.(Robert et al. 2014). La letteratura ha evidenziato alcuni problemi metodologici tra questi: pochi studi controllati randomizzati e mancanza di procedure standardizzate. Le ricerche future necessitano di muoversi verso il superamento di tali limiti metodologici per poter garantire la creazione di SGs che possano fungere come dispositivi di prevenzione secondaria nella demenza (Muscio et al. 2015). In accordo con le raccomandazioni nell’utilizzo dei SGs nelle malattie neurodegenerative riportate da Robert et al. (2014) i SGs sono di facile utilizzo dopo una prima fase di familiarità (Zucchella et al. 2014). Infine numerosi sono i vantaggi tra questi: il poter essere adoperati in diversi contesti (casa, case di riposo) l’addestramento da diverse figure (terapisti, caregiver) e la loro frequenza variabile (una volta a settimana e/o tutti i giorni).

Dalla revisione della letteratura qui effettuata emerge che queste innovative applicazioni digitali possono rappresentare una rivoluzione nella metodologia di screening cognitivo all’interno del setting clinico della demenza. La loro implementazione potrebbe garantire una fase di assessment più frequente, economica nonché più piacevole per l’anziano. Una valutazione dello stato cognitivo all’interno del quale l’anziano possa essere attivo e continuamente supportato sia dalla sua rete che dai professionisti della salute (Tong et al. 2016). Pochi sono gli studi che hanno analizzato gli effetti diretti della realtà virtuale nelle attività quotidiane in pazienti di Alzheimer (Vallejo et al. 2016). Secondo quanto riportato da Tzirali et al. 2017, la ricerca futura dovrà orientarsi anche verso la creazione di un manuale di formazione per professionisti e caregiver volto all’utilizzo dei SGs affinché possano essere sempre più applicabili. Obbiettivo insito nelle prossime sperimentazioni sarà quello di favorire negli anziani in fase di demenza moderata e avanzata un incremento nel senso di self-efficacy e quindi una promozione del benessere psicologico, cognitivo e fisico preservando il più possibile le abilità residue.

 

Fare TFC. Guida pratica per i professionisti alla terapia focalizzata sulla compassione (2019) di Russell L. Kolts – Recensione del libro

All’interno del testo, la cui edizione italiana è stata curata da Giovanni Zucchi, Russell Kolts ha avuto la capacità di spiegare in modo semplice e al contempo con rigore scientifico, le basi teoriche e applicative della Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC).

 

Russell Kolts, psicologo e professore di Psicologia alla Easter Washington University, oltre ad avere scritto articoli scientifici e libri in tema di TFC, è stato tra i primi pionieri dell’applicazione della TCF al trattamento della rabbia. Questo testo, come recita il titolo originale, vanta la capacità di spiegare in modo semplice, ma al contempo completo, cosa sia la TFC, offrendo spunti anche di ordine pratico. Come sappiamo la TFC si inserisce all’interno del panorama della Terapia Cognitivo Comportamentale di Terza Generazione (3G) e paradigmi e contributi teorici vengono dettagliatamente spiegati all’interno dei primi capitoli.

Partendo dal significato attribuito al termine di compassione, intesa come la capacità di riconoscere la sofferenza in se stessi e negli altri e al contempo l’essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza, tra i vari capitoli e grazie anche a ritagli di dialoghi clinici, l’autore offre un’idea di come si interviene e lavora con il paziente. Ciò che R. Kolts sembra volere mettere in luce è come non si tratti di un approccio nuovo, ma di un nuovo modo di approcciarsi al paziente, alla sua sofferenza. Le tecniche terapeutiche di tradizione Cognitivo Comportamentale, infatti, vengono utilizzati in un contesto di colore, non giudizio e fiducia che consente al paziente di fidarsi ed affidarsi al terapeuta.

Molto interessante è anche la spiegazione e distinzione che l’autore offre circa il cervello antico, sede delle nostre emozioni primarie, e il cervello nuovo, sede dei processi cognitivi superiori. Tale distinzione, spiega l’autore, viene anche fornita al paziente il quale può cominciare a sviluppare una visione nuova circa il proprio sentire, il proprio vissuto emotivo e capire anche come sentimenti quali vergogna, autocritica, rabbia, colpa abbiano una propria funzione per l’essere umano e che, dunque, di certe reazioni a volte non abbiamo colpa (ad esempio se ci sentiamo minacciati, possiamo tendere a fuggire, a chiuderci per difesa; se ci sentiamo attaccati, invece, potremmo essere più propensi a controattaccare; …). Tale spiegazione, però, non esonera dal concetto di responsabilità. La TFC, aiuta infatti il paziente a prendere consapevolezza degli effetti disfunzionali di certe reazioni emotive, stili di pensiero e comportamenti, riflettere su come si vorrebbe essere o come si vorrebbe sentire, quale obiettivo si vorrebbe raggiungere e cercare di capire come e cosa fare per intervenire in maniera più costruttiva all’interno del proprio processo di cambiamento.

La TFC aiuterebbe dunque il paziente a sviluppare un sé compassionevole. Anche in questo caso l’autore sottolinea come la TFC non andrebbe fraintesa con l’acquisizione una serie di tecniche da parte del paziente, ma concepita come lo sviluppo una serie di abilità che nascono da un’unione di forze, come la gentilezza, la perseveranza, il calore, la determinazione, la saggezza, in grado di creare una mentalità più aperta, flessibile e capace di affrontare e risolvere problemi, senza rimanerci intrappolati dentro.

L’autore all’interno del testo ci propone la seguente stratificazione per comprendere le fasi di tale approccio:

  1. Relazione terapeutica (se il paziente si sente sicuro, infatti, aumenta la possibilità che lo stesso esplori e affronti le sue emozioni ed esperienze difficili e dolorose.);
  2. Comprensione e compassionevole;
  3. Consapevolezza attenta;
  4. Pratiche compassionevoli.

Il testo approfondisce e spiega ognuno dei vari punti, citando anche gli esercizi di respirazione, mindfulness e tecniche di immaginazione, sviluppati ed utilizzati all’interno dei protocolli di intervento basati sulla TFC.

Ma come aiutare il paziente a sviluppare la compassione verso se stessi?

Dal capitolo ottavo in poi l’autore entra nel vivo delle pratiche, tecniche ed esercizi derivanti dalla terapia cognitivo comportamentale, volte a sviluppare quell’atteggiamento e quelle abilità (calore, accettazione, flessibilità, coraggio) più funzionali alla risoluzione dei propri problemi, favorendo maggiore benessere per se stessi e con gli altri. Attraverso esercizi esperienziali, previsti dai protocolli di intervento nella TFC, molti dei quali elaborati da Paul Gilbert, l’autore spiega come sia possibile far sperimentare qualcosa di nuovo, di diverso, assaporarne i vantaggi al fine di sviluppare un sé compassionevole che aiuti a gestire meglio l’autocritica, la colpa, la rabbia, la vergogna, reazioni emotive che spesso sono presenti nei pazienti che si incontrano in studio. L’obiettivo di un intervento basato sulla TFC, sottolinea R. Kolts, non sarà eliminare la sofferenza, ma insegnare uno stile di vita, una mentalità più flessibile che si approccia alla sofferenza con coraggio, sicurezza e maggiore capacità di gestirla.

Allacciandomi a quando appena espresso, mi piace concludere la presente recensione con un passo presente all’inizio del testo, di Kahlil Gibran tratto da Il Profeta:

E una donna parlò, dicendo: “Parlaci del Dolore”.
E lui disse: Il dolore è lo spezzarsi del guscio che racchiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi affinché il suo cuore possa esporsi al sole, così voi dovete conoscere il dolore.
E se riuscite a custodire in cuore la meraviglia per i prodigi quotidiani della vita, il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia;
accogliereste le stagioni del vostro cuore come avete sempre accolto le stagioni che passano sui vostri campi.
E guardereste attraverso gli inverni del vostro dolore con serenità.

 

Differenze di genere nell’associazione tra vittimizzazione, depressione e comportamenti sessuali a rischio in un campione di studenti liceali

Lo studio di Kim e collaboratori (2019) si è posto l’obiettivo di indagare, tramite un campione di studenti liceali sessualmente attivi, il ruolo di mediazione della depressione su quattro tipi di vittimizzazione (bullismo scolastico, cyber bullismo e violenza fisica e sessuale di potenziali partner) e comportamenti sessuali a rischio.

 

Uno studio di Kann e colleghi (2014), che prendeva in esame i comportamenti sessuali a rischio dei giovani, ha sottolineato che negli Stati Uniti circa un terzo degli studenti liceali riferiva di aver avuto rapporti sessuali negli ultimi 3 mesi e, di questi, il 43% senza preservativo, il 21% sotto l’effetto di droghe o alcolici e il 14% senza alcun tipo di contraccettivo. Questo genere di comportamenti sessuali, possono aumentare il rischio di sviluppare malattie sessualmente trasmissibili (STDs) e di andare in contro a gravidanze indesiderate.

Alcuni studi hanno messo in luce possibili correlazioni tra la vittimizzazione tra pari, la depressione e comportamenti sessuali a rischio tra i giovani liceali. Per ‘vittimizzazione tra pari’ (in inglese peer victimization), si fa riferimento a tutti quei comportamenti aggressivi che un individuo subisce a opera dei propri pari, che possono essere compagni di classe, membri del gruppo di amici, vicini di casa coetanei e così via (Eaton et al., 2007). Gli studenti del liceo, sia maschi che femmine, vittime di bullismo, hanno più probabilità rispetto agli altri di assumere condotte sessuali rischiose (Hertz et al., 2015). Numerosi studi hanno anche dimostrato la correlazione tra essere vittima di bullismo e lo sviluppo di sintomi depressivi già in giovane età (es. Klomek et al., 2013).

Nonostante l’ampio corpo di ricerche presenti sull’associazione tra vittimizzazione, depressione e comportamenti sessuali a rischio, vi sono ancora parecchi dati che non sono stati presi in considerazione come, per esempio, le modalità in cui i diversi tipi di vittimizzazione (cyber bullismo, molestie sessuali, ecc.) causino depressione; oppure, come i sintomi depressivi svolgano il ruolo di mediatori tra vittimizzazione e comportamenti sessuali a rischio.

Il presente studio (Kim et al., 2019) si è posto l’obiettivo di indagare, tramite un campione di 15,624 studenti liceali sessualmente attivi reclutati in 180 scuole, il ruolo di mediazione della depressione su quattro tipi di vittimizzazione (bullismo scolastico, cyber bullismo, violenza fisica e violenza sessuale di potenziali partner) e comportamenti sessuali a rischio.

Sono state utilizzate misure self-report per indagare i comportamenti sessuali (utilizzo del preservativo, utilizzo di droghe o alcolici, numero di partner sessuali, ecc.), i differenti tipi di vittimizzazione (bullismo via social network, e-mail, violenza fisica, molestie o violenza sessuale, ecc.) e i sintomi depressivi (es. negli scorsi 12 mesi, ti sei mai sentito così triste o senza speranza tutti i giorni per almeno 2 settimane tanto da interrompere le tue attività quotidiane?).

I risultati dello studio hanno sottolineato che tutte e quattro le variabili di vittimizzazione prese in considerazione hanno predetto positivamente i sintomi depressivi in entrambi i generi. I comportamenti sessuali a rischio erano correlati positivamente con l’aver subito violenza fisica o sessuale da potenziali partner, così come l’aver subito del cyber bullismo prevedeva il mettere in atto tali comportamenti, ma solo per i maschi. I sintomi depressivi si sono dimostrati mediatori di quest’ultima relazione (cyber bullismo e comportamenti sessuali a rischio).

In conclusione, questi risultati mostrano che vi è la possibilità che i maschi adolescenti vittime di bullismo siano più vulnerabili rispetto alle femmine che hanno subito lo stesso tipo di vittimizzazione (Kim et al., 2019).

Nella terapia di coppia è utile partire dai sistemi di attaccamento dei partner per arrivare a intervenire sulla loro disconnessione emotiva

È importante per chi si occupa di terapia di coppia resistere alla tentazione di capire cosa sia realmente accaduto in quello specifico episodio, di stabilire chi dei due stia sbagliando o mentendo. Solo così il terapeuta potrà fare un passo più in là e accorgersi di come il vero problema stia altrove: nella disconnessione emotiva che si è creata tra i partner.

 

Il problema:

Lei: è un egoista incurabile, sta tutto il giorno a farsi gli affari suoi senza pensare ad altro
Lui: qualsiasi cosa io faccia non le sta mai bene, ha sempre qualcosa da ridire

Le richieste:

Lei: glielo spieghi che non è il centro del mondo, che esistono anche gli altri
Lui: glielo dica che si attacca a fesserie e che in fondo non le manca nulla per stare bene

La soluzione:

‘Dovremmo imparare a coltivare la giusta distanza, a stabilire un confine preciso tra i nostri spazi individuali e quelli comuni’
‘E’ importante accordarci su come dividerci responsabilità e incombenze in un modo che sia equo e non sempre a mio svantaggio’

Sono queste grosso modo le battute iniziali di una coppia che arriva in terapia. Questi i problemi che i partner portano alla mia attenzione, le lamentele che reciprocamente si rivolgono, le richieste che mi fanno, il modo in cui si spiegano il problema e le soluzioni che individuano. Dalle loro parole emerge con forza la necessità di identificare il vero colpevole di tutta quella sofferenza all’interno della relazione e di ricevere una lista dettagliata delle cose da fare e da dire per tornare a funzionare come coppia. In uno scenario che somiglia più a un’aula di tribunale che a una stanza di terapia, fatto di attacchi e contrattacchi, di silenzi e ritirate, di accuse e autoaccuse, è grande il pericolo, per i partner e per il terapeuta, di rimanere impantanati all’interno di un sistema competitivo. Più precisamente per i partner il rischio è quello di alimentare le stesse interazioni negative che li hanno portati ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro e di continuare a sperimentare sentimenti di incomprensione e risentimento. Per il terapeuta invece è quello di formulare il problema in termini di ‘lotta di potere’, limitando di conseguenza l’intervento alla promozione della cooperazione. In tal caso il terapeuta si impegnerà a fornire competenze per comunicare e negoziare meglio ma, così facendo, manterrà una visione performativa delle relazioni d’amore. I partner in seduta potranno imparare a parlarsi con più calma, a essere assertivi piuttosto che aggressivi o passivi, a fare ‘concessioni’ per andare incontro alle esigenze dell’altro. Potranno persino riuscire a fare tutto ciò al di fuori della stanza di terapia. Ma, alla fine dei conti, quello che nel migliore dei casi verrà a sostanziarsi sarà un compromesso in cui nessuno dei due si sentirà realmente soddisfatto e intimamente compreso. Un compromesso che rischierà di essere spazzato via alla successiva tempesta emotiva, nel momento in cui essi torneranno a sentirsi fragili, vulnerabili e dunque più bisognosi di armamenti e barricate.

È dunque importante per il terapeuta che lavora con le coppie resistere alla tentazione di capire cosa sia realmente accaduto in quello specifico episodio, di stabilire chi dei due stia sbagliando o mentendo, di riparare la rottura fornendo indicazioni su come gestire meglio le conflittualità. È solo astenendosi da tutto ciò che il terapeuta potrà fare un passo più in là e accorgersi di come il vero problema stia altrove: nella disconnessione emotiva che si è creata tra i partner (Johnson, 2004, 2008). La formulazione del problema e l’impostazione dell’intervento andranno allora a collocarsi all’interno del sistema di attaccamento, quello che più di ogni altro sistema interpersonale influenza la qualità delle relazioni d’amore e incide sul nostro benessere emotivo (Eisemberger, 2004; Coan, 2006). Un dispositivo, quello dell’attaccamento, che funziona allo stesso modo per uomini e donne e che necessita di interazioni intime e responsive piuttosto che corrette, efficaci e competenti (Gottman,1999). Il distacco emotivo, reale o percepito, del partner mette a dura prova il nostro senso di sicurezza e fa scattare nell’amigdala un segnale di allarme, quello che LeDoux (2003) definisce Paura Centrale, capace di determinare le nostre azioni in modo totalmente automatico e al di fuori del controllo della razionalità. In questo scenario, comportamenti esigenti e appiccicosi, o al contrario rivendicativi e aggressivi, assumono il valore di segnali di protesta più che di sottomissione o dominanza. Al contempo la distanza e il ritiro non rispondono tanto all’intenzione di ferire o invalidare l’altro, quanto piuttosto risultano essere tentativi di autoprotezione dalla sofferenza e dal senso di impotenza. Ovviamente la messa in atto dell’una o dell’altra strategia dipende dagli schemi interpersonali dei partner formatisi nel corso delle loro storie di attaccamento (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019). Nel primo caso, ad esempio, la figura di attaccamento è vissuta come inaffidabile e trascurante, nel secondo invece come severa, umiliante e critica. In entrambi i casi però i desideri sottostanti sono gli stessi: ricevere accudimento e protezione, sentirsi compresi, amati e apprezzati per ciò che semplicemente si è. Tutti desideri che afferiscono a quel meccanismo di sopravvivenza innato che necessita di poter fare riferimento a una figura di attaccamento emotivamente accessibile (Bowlby, 1999-2000).

Il processo terapeutico richiede dunque che i partner entrino in contatto con i bisogni di attaccamento celati dietro proteste e silenzi dando voce a quelle parti di sé rinnegate. Affinché tutto ciò abbia un potere trasformativo, è al contempo necessario che tali bisogni e tali parti del Sé vengano integrati in interazioni relazionali capaci di favorire la connessione emotiva. È importante dunque che tutto ciò sia frutto di un processo che si svolga nel qui e ora dell’interazione, che presti attenzione all’emergere di emozioni inespresse e che utilizzi queste ultime come chiave per favorire l’insight. È noto infatti come la semplice consapevolezza dei propri e degli altrui meccanismi interni sia di per sé insufficiente a promuovere il cambiamento, se non accompagnata da un’esperienza emozionale correttiva. È questo quindi il nucleo centrale del lavoro con le coppie: mettere i partner nella condizione di individuare i propri bisogni di attaccamento, di esprimerli all’interno di quello stesso sistema e secondo quello specifico linguaggio capace di tradurre un ‘sei un egoista che pensa solo ai fatti suoi’ in ‘ho bisogno di sentire che ci sei per me’. Un passaggio fondamentale e anche molto difficile, il più gravoso per i partner cui è richiesto di ‘farsi vedere’ in una posizione di estrema vulnerabilità. Ma è solo parlando il linguaggio dell’attaccamento che essi possono risintonizzarsi emotivamente e, come naturale conseguenza, riuscire a negoziare le loro conflittualità con competenza (Johnson, 2004, 2008); possono sentirsi più sicuri, autonomi, rispettosi degli spazi dell’altro, propensi a esplorare nuove informazioni da integrare nei modelli di sé, dell’altro e del mondo (Mikulincer,1995), e a riflettere su di sé e sui propri stati mentali (Fonagy e Target, 1997). Tali esperienze emotive, oltre a dare vita a nuovi modelli di interazione e ad arricchire le rappresentazioni sé/altro di ulteriori significati e sfumature, facilitano l’emergere e il consolidarsi di parti sane del Sé (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019). In un processo che è insieme intra e interpersonale, il compito del terapeuta si esplica a diversi livelli: consentire ai partner di identificare i cicli negativi in cui sono imprigionati, di leggere i loro comportamenti come reazioni a un bisogno di attaccamento frustrato, di rintracciare nelle strategie relazionali che sono soliti utilizzare modalità di coping disfunzionale che hanno origine nelle loro storie di vita, di creare un ambiente sicuro e validante in cui possano sentire che i loro bisogni di dipendenza sono sani, legittimi e non pericolosi, di guidarli verso esperienze emozionali correttive nelle quali quegli stessi bisogni possono trovare una adeguata risposta. Inoltre la modifica del contesto emozionale dove i partner si muovono ha ricadute sul modo in cui essi, come individui e non solo come coppia, organizzano la loro esperienza. Un lavoro quindi che vede sostanziarsi l’alleanza tra il terapeuta e la coppia nella sua globalità e che si rivolge, in clima pienamente collaborativo, a riconoscere, a elaborare e scardinare i cicli disfunzionali che governano le interazioni secondo una logica circolare e a esplorare nuovi territori relazionali e personali.

Diversamente da come la nostra cultura ci insegna e da come i pazienti spaventati che ci troviamo di fronte vorrebbero che fosse, il lavoro terapeutico con le coppie mette al centro del discorso il bisogno irrinunciabile di avere accanto una persona su cui poter pienamente contare e da cui sentirsi apprezzati. Non mira a realizzare una immaginaria autosufficienza, ma a trasformare una dipendenza inefficace in una dipendenza efficace, capace cioè di generare autonomia e autostima (Bretherton e Munholland, 1999). Chiedere a noi stessi di non aver bisogno di nessuno e di farcela da soli è un’ipoteca sulla nostra felicità: come già diceva Bowlby (1999), è solo sapendo di poter dipendere da qualcuno che possiamo diventare persone più forti, sicure e veramente libere.

 

Osservazioni sull’utilizzo di binaural-beats in ambito psicopatologico

Dal 2005 al 2007 per 22 casi, reperiti presso presidi sanitari, il trattamento psicoterapico è stato implementato con sedute di binaural-beat allo scopo di osservare gli effetti immediati o a breve termine prodotti dall’applicazione di tale programma in soggetti con accertata psicopatia.

 

Le frequenze Binaural Beats, scoperte nel 1839 dal tedesco H. W. Dove e sperimentate sul cervello dal Dott. Gerald Oster nel 1973 al Mount Sinai school of Medicine di New York, sono l’applicazione di differenti frequenze tra un orecchio e l’altro, in modo che il cervello ne venga stimolato positivamente. Se un tono costante di 400 Hz (1 Hertz = 1 impulso al secondo), viene applicato all’orecchio sinistro, e un altro tono costante di 410 Hz viene applicato all’orecchio destro, la differenza di 10 Hz verrà percepita dal nostro cervello e solo da esso, perché è una frequenza che sta al di fuori dello spettro sonoro.

L’ ipotesi è che il cervello sia così stimolato ad entrare in risonanza con il “ritmo biauricolare” di 10 Hz (onde alfa) e, di conseguenza, con lo stato di coscienza/psico-fisico dell’attività corrispondente: rilassamento, calma, tranquillità.

Gli stati della nostra coscienza sono dovuti all’incessante attività elettrochimica del cervello, che si manifesta attraverso onde elettromagnetiche: le onde cerebrali, appunto. La frequenza di tali onde, calcolata in cicli al secondo, o Hertz (Hz), varia a seconda del tipo di attività in cui il cervello è impegnato e può essere misurata con specifici apparecchi elettronici. Con opportuni strumenti e procedure è possibile riprodurre binaural beats della gamma di frequenze prodotte dall’attività elettrica cerebrale, ed applicarle, sempre con opportune procedure, come stimolo esterno al cervello nel tentativo di fargli raggiungere lo stato di coscienza/psicofisico desiderato o necessario. Per esempio, se una persona è nello stato Beta (allarme) ed uno stimolo di 10Hz (rilassato) è applicato al suo cervello per un certo tempo, è probabile, allora, che la frequenza dello stesso vari, sincronizzandosi a quella cui lo si espone, cambiando anche la propria condizione.

Le frequenze utilizzate sono:

  • Delta da 0,5 a 4Hz – genericamente associate ad un rilassamento profondo o al sonno profondo.
  • Theta da 4 a 8 Hz – genericamente associate al primo stadio del sonno o prodotte durante la meditazione profonda. Associate, anche, alla creatività e alle attitudini artistiche.
  • Alpha da 8 a 14 Hz – genericamente associate a uno stato di coscienza vigile, ma rilassata. Sono tipiche, per esempio, dell’attività cerebrale di chi è impegnato in una seduta di meditazione, yoga, taiji.
  • Beta da 14 a 30 Hz – genericamente associate alle normali attività di veglia, quando si è concentrati sugli stimoli esterni. Le onde beta sono infatti alla base delle nostre fondamentali attività di sopravvivenza, di ordinamento, di selezione e valutazione degli stimoli che provengono dal mondo che ci circonda.

Campione

  • 16 bambini, adolescenti ed adulti con età compresa trai 4 e 47 anni. Questo gruppo che chiameremo di “prova” ha avuto unicamente lo scopo di verificare gli effetti dei binaural beat in soggetti non patologici.
  • 9 bambini di età compresa tra i 3 e i 12 anni con diagnosi di disturbo del comportamento. Questi bambini erano segnalati presso servizi di riabilitazione neuromotoria. Presentavano un disturbo del comportamento di tipo aggressivo o iperattivo misurato con il Child Behavior Checklist di Achenbach. Non presentavano danno neurologico ed uditivo pregresso o in atto.
  • 4 adolescenti con età compresa tra i 14 e i 16 anni con diagnosi dell’area nevrotica (ansia, depressione, disturbo da attacchi di panico) ed 1 con diagnosi di stato Borderline. Inviati da servizi di neuropsichiatria infantile con le relative diagnosi cliniche. Non presentavano danno neurologico ed uditivo pregresso o in atto.
  • 3 adulti con età compresa tra i 39 e 43 anni con diagnosi Limite (Lupus eritematoso; Borderline con agitazione motoria; Stato limite con Depressione e somatizzazioni). 2 con diagnosi di lupus e stato limite in trattamento medico ma non psicoterapico. Non presentavano danno neurologico ed uditivo pregresso o in atto.
  • 6 adulti con età compresa tra i 34 e 55 anni con diagnosi dell’area nevrotica (disturbo da attacchi di panico, Ansia generalizzata, Stress psico-fisico, depressione). Con diagnosi clinica del DSM ed in trattamento psicoterapico. Non presentavano danno neurologico ed uditivo pregresso o in atto.

Strumenti

  • Codice binaurale ad onde Alfa a 10 Hz derivato da campionamento stereo tra le frequenze (toni puri) di 400 e 410 Hz, mascherato sotto base sonora di River (acqua di ruscello) ed Ocean (frangenti oceaniche). Durata riproduzione 25 m.
  • Lettore digitale; capacità di lettura 20-20.000 Hz.
  • Cuffia stereofonica Hi-Fi; capacità di riproduzione 20-20.000 Hz.

Procedure

La procedura ideata prevedeva di far ascoltare giornalmente l’intera traccia sonora (25 m) per 10 sedute consecutive e di raccogliere le impressioni dello stato psico-fisico dei soggetti al termine di ogni ascolto e, per i più piccoli, di osservare le reazioni comportamentali o la comunicazione non verbale di riferimento a stati emotivi, aiutati in questo compito anche dal genitore. Soprattutto per i bambini si è più volte riadattata la procedura rispetto al proprio stato, ma non sempre i risultati hanno ripagato lo sforzo.

In generale ci si accertava che il soggetto non avesse assunto droghe o eccitanti del SNC almeno nelle ultime 2 ore, non avesse gravi problemi cardiaci, non soffrisse di epilessia o di altro danno cerebrale che ne alterasse lo stato di coscienza e stesse in una condizione generale di buona salute.

Per l’ascolto della traccia sonora il soggetto veniva posto disteso su un lettino morbido da fisioterapia. La consegna per ogni soggetto era quella di concentrarsi senza sforzo nell’ascolto, di lasciarsi attraversare o immergersi nella sonorità e di lasciare la mente libera di pensare. Cercare di ascoltare l’intero brano senza fatica. Non venivano date ulteriori consegne o indicazioni in quanto, vista la condizione dei soggetti e la particolarità della situazione, si temeva di innescare processi impropri di suggestione.

Osservazioni

Bambini, adolescenti ed adulti di “prova”

Dei 16 soggetti campione, solo i più piccoli hanno presentato difficoltà ad ascoltare spontaneamente la sequenza sonora per intero. Generalmente il semplice intervento del genitore è stato sufficiente a ristabilire le condizioni dell’ascolto. I ragazzi capaci di riferire informazioni sul proprio stato psico-fisico dopo l’ascolto, hanno espresso giudizi positivi riguardo la qualità del brano ascoltato e la sensazione finale di rilassamento o di risveglio. Alcuni riferivano di sentire che stavano per addormentarsi. La maggior parte di loro, al termine dell’ascolto, nell’atto di alzarsi tendeva i muscoli, appunto come quando si ci sveglia da un periodo di sonno o di distensione psico-fisica.

Bambini con disturbo del comportamento

A 3 dei 9 bambini non è stato possibile applicare i binaural beat: dopo qualche minuto di ascolto si rifiutavano di proseguire, riferivano un generico fastidio o che tale sonorità non riscuotesse il loro gradimento, o ancora che non erano abituati ad una simile situazione.

Il più piccolo, di circa 3 anni e mezzo, assistito dalla madre, ha manifestato una stupefacente reazione: l’agitazione comportamentale si è bloccata dopo pochi minuti di ascolto ed il bambino sembrava concentrarsi sulle sonorità, lo stato psico-fisico sembrava più rilassato e durava fino al termine dell’ascolto (in questo caso solo 6/8 m). Per un altro bambino di 9 anni si è verificato che il bambino, fino ad allora ben sveglio, dopo pochi minuti di ascolto tendesse, per così dire, ad addormentarsi o a rilassarsi in modo marcato tanto da far stupire la madre. Per la restante parte del gruppo si registra una generale accettazione della procedura.

Adolescenti

L’adolescente borderline si è dimostrato demotivato e poco responsivo alla procedura di ascolto: non ha portato a termine nessuna delle consegne prescritte ed in generale non ha dato nessun aiuto all’osservazione. Diverso l’atteggiamento mentale e le condotte degli altri adolescenti i quali hanno partecipato volentieri alle sedute di ascolto proposte. Gli adolescenti con ansia e DAP erano quelli che apprezzavano maggiormente il percorso di ascolto ed erano quelli che davano i migliori giudizi post ascolto: rilassati, riposati e ristorati.

Adulti Limite

2 dei 3 pazienti (lupus-limite) non sono mai stati in grado di ascoltare, se non per pochi minuti, i brani proposti. Questi 2 utenti hanno riportato la spiacevole sensazione di incapacità di concentrarsi sull’ascolto perché, a loro dire, continuare l’ascolto gli avrebbe fatto perdere il controllo delle proprie emozioni e pensieri. Hanno accusato di sentir crescere una non meglio specificata agitazione interiore.

Il terzo paziente (borderline-agitato) ha ascoltato parzialmente il brano, non manifestando variazioni nello stato psico-fisico e considerando comunque l’esperienza come piacevole.

Adulti nevrotici

Gli adulti di questa area hanno tutti portato a termine le sessioni previste ed il loro giudizio è stato sostanzialmente positivo. Tra le sensazioni riportate, significative sono quelle di uno stato di serenità dimenticata, di un piacevole torpore e per alcuni il sentire una specie di energia. Una paziente era solita richiedere di ascoltare le sonorità, perché a suo dire le facevano scomparire il mal di schiena.

Conclusioni:

I binaural beats, la musica ad ultrasuoni, la sincronizzazione emisferica o le brainwaves sono ampiamente utilizzate nella cosiddetta medicina olistica, la quale ha prodotto nel tempo una consistente quantità di scritti e una frangia di sostenitori accaniti, e per certi aspetti estremista, che critica le impostazioni della medicina ufficiale; ed è forse per tale ragione che, per reazione, questa disciplina secondo le considerazioni di alcuni studiosi classici, più che una ortodossa pratica medica, si avvicina ad una religione con i propri atti di fede.

Queste osservazioni preliminari, come tali, non hanno la qualità per poter valutare un’eventuale efficacia terapeutica dell’utilizzo di codici binaurali, benché, come dichiarato dagli stessi soggetti fruitori, sembrano dimostrare un certo “effetto di benessere” su di un’ampia gamma delle categorie psicopatologiche di area nevrotica.

Tali osservazioni, possono, invece, essere considerate come stimolo sia per quanto attiene la ricerca che l’applicazione e si propongono, per il futuro, di suscitare studi controllati che dovrebbero assumersi la responsabilità di poter meglio sistematizzare sul piano teorico e metodologico questa procedura di per sé affascinante e, liberandola da ogni possibile suggestione o incanto, di poterne meglio definire gli eventuali ambiti di applicazione ed effetti.

 

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