expand_lessAPRI WIDGET

Fratelli e sorelle. Psicoanalisi delle relazioni laterali (2019) di Juliet Mitchell – Recensione del libro

Con questo Fratelli e sorelle Juliet Mitchell, psicoanalista e femminista britannica, affronta il tema delle relazioni tra fratelli e sorelle, soffermandosi proprio sull’importanza delle relazioni laterali, ovvero tra pari.

 

Nella storia della psicoanalisi e della psicologia, per lungo tempo gli studi si sono concentrati esclusivamente sull’asse di indagine verticale, ovvero sul rapporto tra figura genitoriale e bambino. Dal punto di vista dell’autrice l’importanza dei rapporti fraterni e/o tra pari è nota a tutti, ma collegarla alla riscontrata o potenziale patologia, alle ragioni più remote dei nostri amori e della nostra vita, all’odio e alle morti, apre un filone di ricerca molto interessante.

Nella prima parte del saggio, Julian Mitchell fornisce un’ampia analisi della storia delle relazioni laterali percorrendo il pensiero dei grandi teorici: Bowlby, Bion, Winnicott ma anche Freud e Klein, e si interroga, con tutti gli strumenti che ha a disposizione, su come mai i rapporti tra fratelli e sorelle siano spesso stati ignorati e poco considerati. La tendenza a trascurare il rapporto tra fratelli è, paradossalmente, parte dell’importanza che il mondo psicoanalitico riserva all’infanzia a discapito dell’età adulta come fase formativa dell’esperienza umana. Questa tendenza è cominciata in Occidente nel XVII secolo e da allora si è espansa fino a raggiungere la sua massima intensità nel XIX e XX secolo. Gli studiosi dei bambini però sono adulti e l’effetto è una duplicazione nelle modalità di indagine della relazione verticale genitore-bambino. Questo è particolarmente vero nell’ambito psicoanalitico, che utilizza come modalità di indagine il transfert nei confronti di un terapeuta adulto dei sentimenti che il bambino prova per i genitori. L’autrice sostiene che sia stato da sempre minimizzato l’impatto che l’arrivo di un nuovo figlio può avere sulla psiche del primogenito e viceversa.

La Mitchell porta il lettore a riflettere sulle guerre e su come, durante un combattimento, lottiamo fianco a fianco dei nostri fratelli e non dei nostri padri; sembrerebbe che la risoluzione dell’amore e dell’odio fraterni siano alla base della possibilità di uccidere qualcuno e non qualcun altro. E’ stato rilevato che durante la Prima Guerra Mondiale la lealtà fraterna tra commilitoni è un elemento imprescindibile per il successo militare. Ciò che accade tra fratelli, che siano biologici, acquisiti, o mai nati ma sempre attesi, si riproduce nel rapporto tra coetanei e compagni di gioco. I fratelli sono importanti anche per i figli unici che aspettano il loro arrivo e si chiedono cosa possa esser loro accaduto. È necessario quindi proporre un cambiamento di paradigma che metta in discussione la centralità assoluta dell’interpretazione condotta esclusivamente attraverso il paradigma madre-bambino. L’autrice sottolinea l’importanza immensa dei padri e delle madri, ma il bambino nasce in un mondo di coetanei oltre che di genitori. Sarà possibile quindi andare oltre questo schema binario tipico delle teorie psicoanalitiche occidentali? Un processo del genere porta a rianalizzare da una prospettiva differente l’isteria, la violenza, l’incesto tra fratelli così come le nevrosi e le psicosi.

Il testo è scritto utilizzando un’ampia gamma di risorse, dalle nozioni di neuropsichiatria alla psicoanalisi, dalla politica agli studi filosofici di genere, dalla narrativa ai film, all’antropologia ed è il frutto della convinzione che si debba utilizzare qualunque strumento a disposizione capace di aiutarci a creare un’immagine che dia senso all’oggetto dell’indagine. Mettere al centro dell’indagine i rapporti all’interno della fratria, determina una trasformazione del quadro che si sta osservando; una relazione fraterna consente di amare profondamente e al tempo stesso odiare la stessa persona, consente l’accesso ad una forma di aggressività che se elaborata rende possibile l’interazione sociale con i pari, esterni al nucleo familiare. I fratelli sono importanti in quanto tali e al tempo stesso centrali nel determinare le dinamiche di interazione con i coetanei. Entro un certo limite il rapporto fraterno può essere sostituito proprio dalla relazione con i pari. Tutto ciò ci consente di crescere, ci porta ad accettare il fatto di non essere unici e onnipotenti: la perdita del sé grandioso e l’accettazione di altri che sono proprio come noi. È fondamentale imparare a sopravvivere in un mondo di altre persone, l’autostima e il rispetto degli altri, ricorda l’autrice, sono due facce della stessa medaglia.

 

L’umore della madre durante la gravidanza influenza il sistema immunitario della prole?

Una ricerca pediatrica condotta dall’università di Alberta, ha riscontrato che la salute mentale della donna durante la gravidanza influisce sullo sviluppo del sistema immunitario del bambino (Kang, 2020).

 

Prima di questo studio, era già noto in letteratura che ci fosse un collegamento tra lo stato mentale della madre in gravidanza e lo sviluppo di asma e allergie nel bambino, tuttavia non era noto il meccanismo d’azione sottostante a questo processo.

Lo studio in questione è stato condotto su 1043 coppie madri-bambino; le madri hanno compilato dei questionari riguardanti il loro umore durante e dopo la gravidanza (Kang, 2020).

Successivamente sono stati misurati i livelli di immunoglobina nell’intestino dei figli, componente estremamente importante per l’immunità dell’individuo; infatti, l’immunoglobina conosciuta anche come ‘anticorpi’, è una sostanza costituita da proteine globulari che sono coinvolte nella risposta immunitaria, cioè nella lotta contro i microrganismi estranei, chiamati in campo medico ‘antigeni’. L’anticorpo non serve a distruggere l’ospite estraneo, ma a legarsi ad esso per renderlo maggiormente visibile e suscettibile all’azione degli altri attori del sistema immunitario (Cerf-Bensussan & Gaboriau-Routhiau, 2010).

L’immunoglobina si suddivide in quattro classi: A, D, E G. Lo studio riportato (Kang, 2020) ha preso in esame quella di tipo A, principalmente presente nelle secrezioni esterne (lacrime, saliva, muco intestinale, latte materno) e rappresenta un importante mezzo di difesa contro le infezioni locali (Cerf-Bensussan & Gaboriau-Routhiau, 2010).

Le madri che riportavano sintomi di depressione durante il loro terzo trimestre, avevano doppia probabilità di avere figli con bassi livelli di immunoglobina nel loro intestino, tuttavia i sintomi delle madri non erano così severi da far porre una diagnosi di depressione; inoltre non è stato trovato nessun collegamento tra bassi livelli di immunoglobina nella prole e depressione post-partum della madre.

I risultati sono stati presi in considerazione tenendo conto di quei fattori/variabili che andrebbero ad incidere sul sistema immunitario del bambino, quali, allattamento al seno e uso di antibiotici da parte delle madri (Kang, 2020).

Livelli bassi di immunoglobina negli infanti, si denotano principalmente tra il quarto e l’ottavo mese di vita, periodo che coincide con l’inizio della produzione della propria immunoglobina.

I ricercatori sottolineano l’importanza di questi risultati, dato che, bassi livelli di immunità nel bambino, lo predispongono a malattie respiratorie o infezioni gastrointestinali, così come ad asma e allergie; inoltre porta anche a elevati livelli di depressione, obesità e disturbi del sistema immunitario (Kang, 2020).

L’ipotesi sollevata dai ricercatori per spiegare l’incidenza negativa dell’umore della madre sul sistema immunitario del nascituro, si basa sull’idea che l’umore depresso porti alla produzione di cortisolo (comunemente conosciuto come l’ormone dello stress), che a sua volta si trasferisce nel feto e interferisce con la produzione di cellule che andranno a costituire l’immunoglobina dopo la nascita.

Quindi, stando a questi risultati, si delinea la necessità di fornire più supporto psicologico alle donne in gravidanza (Kang, 2020).

 

 

Albo psicologi del Lazio: requisiti e modalità di accesso

L’albo degli psicologi del Lazio annovera tutti i professionisti di che decidono di richiedere l’iscrizione all’albo per dimostrare di appartenere a questa categoria professionale. Per gli psicologi l’iscrizione all’albo è necessaria per poter legalmente esercitare in Italia, mentre per i pazienti è importante perché potranno verificare che lo psicologo a Roma al quale stanno pensando di rivolgersi abbia effettivamente il titolo per poter esercitare.

Ordine degli Psicologi: quali sono i requisiti

Sono diversi i requisiti da rispettare per potersi iscrivere all’Ordine degli Psicologi. Innanzitutto, bisogna essere un cittadino italiano o un cittadino della Comunità Europea. Va bene anche essere cittadino di un paese non UE, a patto però che nello Stato esista un rapporto di reciprocità.

Poi, è necessario dimostrare di avere la residenza in Italia. Possono iscriversi all’albo anche i cittadini italiani che risiedono all’estero, a patto che dimostrino che nel paese in cui risiedono svolgono la professione di psicologo.

Per poter entrare nell’albo degli psicologi i professionisti devono avere il titolo necessario per esercitare la professione. Non è sufficiente però la sola laurea, infatti gli psicologici che desiderano iscriversi all’ordine dovranno aver portato a termine anche un tirocinio professionale ed aver superato l’Esame di Stato, che li abiliti alla professione.

Qual è l’albo al quale ci si può iscrivere?

Gli psicologi potranno iscriversi all’Albo della regione del comune nel quale risiedono, sono domiciliati ed esercitano la professione. All’Albo degli Psicologi del Lazio sono dunque iscritti tutti i professionisti che rispettano i requisiti sopra descritti e che operano a Roma e nelle zone limitrofe.

Perché scegliere uno psicologo iscritto all’albo

Talvolta il ruolo dello psicologo, posto in relazione a quello dello psichiatra, viene sottovalutato ed alcuni pazienti che avrebbero bisogno del supporto di questo professionista non se ne avvalgono poiché non lo ritengono all’altezza di risolvere i loro problemi. Questo modo di intendere la psicologia è sbagliato, perché la pratica clinica ha chiaramente mostrato che con l’aiuto psicoterapeutico è assolutamente possibile ottenere dei benefici e risolvere alcuni conflitti interiori.

Affinché le sedute di psicoterapia possano essere efficaci è necessario però rivolgersi ad uno psicologo professionista. Per questo motivo il consiglio che viene dato a tutti i pazienti è di controllare che lo psicologo a cui ci si sta per rivolgere sia correttamente iscritto all’Albo ed abbia dunque sia il titolo di studio che tutti gli altri requisiti necessari per esercitare questa professione.

Oltre a scegliere un professionista iscritto all’Ordine, sarebbe utile fare anche una selezione tra i vari professionisti in base alle loro specializzazioni. Ci sono, ad esempio, degli psicologi specializzati nel dare supporto ai pazienti che soffrono di problemi alimentari (come bulimia e anoressia), altri invece che si occupano di pazienti con difficoltà nella sfera sessuale e così via.

Individuare il professionista più competente in base ai propri disturbi può essere una valida strategia per risolvere con più facilità il problema ed anche per ridurre il numero di sedute a quelle effettivamente necessarie, evitando di continuare la terapia senza riscontrare alcun beneficio.

Ragionamento e contesto: il problema delle 4 carte di Wason

Il ragionamento svolge un ruolo fondamentale in tutte le attività umane, da quelle cognitive, come l’apprendimento, la formazione e l’elaborazione delle conoscenze, fino ad arrivare a quelle creative e sociali. 

Caruso Fabiola – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Le inferenze sono il mezzo a cui facciamo ricorso per utilizzare il vasto bagaglio di conoscenze che abbiamo sviluppato nel corso della nostra esistenza per poterlo applicare a situazioni particolari. Quindi attraverso le inferenze si costituiscono nuove conclusioni che hanno origine dalle informazioni a nostra disposizione. Il rapporto tra ragionamento e conoscenza è ambivalente dato che, da un lato migliori sono le nostre conoscenze, più accurate sono le inferenze che possiamo trarre e quindi i risultati che possiamo ottenere. Dall’altro, le nostre conoscenze e credenze hanno il potere di interferire con il ragionamento, dando luogo ad errori e fraintendimenti. La psicologia del ragionamento individua due tipi fondamentali di inferenze:

  • Le inferenze deduttive attraverso le quali si arriva ad una conclusione che è latente, implicita, prevista nelle premesse. Si tratta di un’informazione di cui siamo già in possesso e che viene evidenziata, sottolineata, isolata dal processo deduttivo. Nelle inferenze deduttive la verità della conclusione segue necessariamente dalla verità delle premesse.
  • Le inferenze induttive, che a differenza delle prime, nella conclusione aggiungono un’informazione alle premesse.

Con la nozione di ragionamento induttivo ci si riferisce al processo di pensiero che ci consente di giungere ad una conclusione a partire da una certa evidenza. La conclusione di una inferenza induttiva, ovvero una generalizzazione non è necessariamente vera, ma possiede un certo grado di probabilità. Quindi i procedimenti induttivi di ragionamento ci consentono di arrivare a risultati accettabili, fino a quando non vengono smentiti da nuove esperienze. Solo attraverso processi deduttivi possiamo raggiungere certezze e risultati sicuri su cui fare affidamento. Nella ricerca sperimentale sul ragionamento si preferisce utilizzare compiti di tipo deduttivo invece di compiti di tipo induttivo e probabilistico, perché hanno il vantaggio di offrire soluzioni standard e verificabili logicamente.

La logica formale è un corpo di conoscenze largamente consolidato, l’oggetto che viene indagato dalla logica si può identificare con l’analisi delle regole di inferenza che si applicano quando vengono concatenate correttamente delle preposizioni che sono ritenute solo vere o solo false e sono formulate utilizzando un ristretto numero di elementi linguistici e rigorosamente precisati. Una proposizione è una qualsiasi espressione linguistica che si basa sul principio di bivalenza, ovvero può assumere uno ed un solo dei due valori di verità, il vero ed il falso. le preposizioni sono espresse dagli enunciati dichiarativi del linguaggio naturale, oppure possono essere espresse attraverso il linguaggio astratto, quello dei simboli. Le proposizioni dalle quali si trae una conclusione sono chiamate premesse, la conclusione stessa è l’ultima proposizione di un’inferenza.

Le regole di inferenza che sono state individuate dalla logica sono la regola del modus ponnens e la regola del modus tollens. Entrambe queste regole permettono di raggiungere una conclusione valida date certe premesse. La regola del modus ponnens indica che date certe premesse valide, si può giungere ad una conclusione valida se si conferma l’antecedente.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Nevica a Cortina (conferma dell’antecedente)”
  • “Claudio va a sciare (conclusione valida)”

La regola del modus tollens indica che date certe premesse valide, si può aggiungere ad una conclusione valida se viene negata la conseguenza.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Claudio non va a sciare (negazione della conseguente)”
  • “Non nevica a Cortina (conclusione valida)”

La logica ha individuato due forme di errore che si riferiscono alla cattiva esecuzione delle precedenti regole di inferenza, la fallacia della negazione dell’antecedente e la fallacia dell’affermazione della conseguente.

La fallacia della negazione dell’antecedente è un tipo di errore correlato alla regola del modus ponnens, infatti date certe premesse valide, nulla consegue dalla negazione dell’antecedente. Si è osservato che le persone sottoposte a questo tipo di inferenze, al contrario, traggono delle conclusioni non rispettando la regola del modus ponnens.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Non nevica a Cortina (negazione dell’antecedente)
  • NULLA NE CONSEGUE

La fallacia dell’affermazione della conseguente è un tipo di errore che riguarda il modus tollens ed evidenzia che date certe premesse valide nulla ne consegue all’affermazione della conseguente. Anche in questo caso le persone sottoposte a questo tipo di inferenze traggono delle conclusioni senza rispettare la regola del modus tollens.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Claudio va a sciare (affermazione della conseguente)”
  • NULLA NE CONSEGUE

Teorie contemporanee

Le molteplici teorie contemporanee del pensiero e del ragionamento hanno volto il loro interesse ad indagare i modi di funzionamento di queste attività mentali data la loro importanza nel determinare l’agire umano.

La teoria delle regole formali o teoria della logica mentale sostiene che esiste una logica nella mente umana, basata su un sistema interno di regole formali, anche se i suoi principi ed inferenze non corrispondono necessariamente a quelli della logica formale standard. Questa posizione rimanda al celebre Piaget, secondo il quale lo sviluppo cognitivo umano si evolve in vari stadi e si compie nell’adolescenza con I’acquisizione delle operazioni formali, risultato che si manifesta nella capacità dell’adolescente di apprendere e svolgere le operazioni matematiche ed altre operazioni astratte, incluse quelle logiche. Una formulazione particolare di questa teoria sostiene che la mente contenga sistemi di regole di inferenza in base ad una logica naturale, presuppone un sistema limitato di regole astratte di ragionamento che viene applicato inconsciamente per dedurre, nelle varie situazioni, appropriate conclusioni da un insieme di premesse.

La Teoria dei modelli mentali è una teoria del ragionamento umano formulata da Johnson Laird. Essa caratterizza il ragionamento come un processo semantico, piuttosto che sintattico, basato su procedure sistematiche dipendenti dal contenuto, utili per costruire e valutare modelli mentali delle proposizioni da cui sono derivate le conclusioni. Questi modelli rappresentano stati parziali del mondo in cui le premesse sono vere. Stando a questa teoria il ragionamento procede secondo tre stadi fondamentali. In un primo momento i soggetti formulano un modello mentale per rappresentare un possibile stato del mondo, una situazione, con le informazioni fornite dalle premesse. In seguito, i soggetti formulano una conclusione plausibile, generando una descrizione del modello che sia semanticamente informativa. Infine la conclusione può essere verificata cercando di costruire, come contro esempio, dei modelli alternativi in cui le premesse sono vere, ma la conclusione è falsa. Se nessun contro esempio di questo tipo viene trovato si può inferire che la conclusione è valida. Questa teoria sostiene che per compiere un ragionamento modus ponnens è sufficiente una rappresentazione parziale delle condizioni di verità di un enunciato condizionale (antecedente e conseguente entrambe vere), mentre per compiere un ragionamento modus tollens è necessario rendere esplicite tutte le condizioni di verità di condizionale (anche antecedente e conseguente entrambe false). La ragione per cui le situazioni in cui l’antecedente è falso non vengono rappresentate esplicitamente dipende dal fatto che le persone, per ragioni di economia cognitiva, ovvero per i limiti della memoria di lavoro, tendono a rappresentarsi in modo esplicito solo ciò che è vero e non ciò che è falso. In questo modo la teoria dei modelli mentali spiega il dato di fatto che compiere un ragionamento di tipo modus ponnens risulta più facile, diretto, rispetto ad un ragionamento di tipo modus tollens.

Le teorie sensibili al contesto adottano due approcci teorici che spiegano il ragionamento facendo esplicito riferimento al contesto ed al comportamento dei soggetti umani. Il primo è chiamato teoria degli schemi pragmatici e sostiene che ragionamento è sensibile al contesto e gli scopi e le finalità dei soggetti si pongono di realizzare sono relativi.  La teoria propone che gli esseri umani imparino a ragionare in certi contesti e formulino, a partire da tali esperienze, degli schemi pragmatici che permettono di fare astrazioni dalle situazioni specifiche, rendendo la conoscenza più generale. Gli schemi pragmatici sono attivati dal contesto e si traducono in regole che possono essere applicate per ragionare in un dominio particolare. Queste regole hanno frequentemente un carattere deontico, ovvero hanno un carattere sociale che indica ciò che si deve, si può, e non si vede, non si può, fare. Secondo questa teoria il ragionamento di tipo modus tollens risulta relativamente difficile con materiale astratto, ma può essere facilitato se viene attivato uno schema pragmatico. La forza di questa teoria sta nella sua capacità di fornire una spiegazione degli effetti del contenuto sul ragionamento. La sua debolezza, invece, consiste nella sua impossibilità di applicazione al ragionamento astratto artificiale, del quale gli esseri umani dimostrano di avere competenza, mettendolo in pratica in diverse circostanze e situazioni problematiche. Uno dei campi di applicazione più belle occupato dalla teoria degli schemi pragmatici è rappresentato dalla sperimentazione del compito di selezione di Wason, soprattutto nella formulazione deontica degli obblighi e dei permessi.

Il secondo approccio è detto delle euristiche e dei biases. In particolare con la nozione euristica e ci si riferisce alle strategie di facilitazione del processo di soluzione dei problemi, soprattutto nell’ambito della teoria della decisione. Con il termine biases si intendono gli errori sistematici commessi dai partecipanti coinvolti in una situazione decisionale o problematica. Un caso esemplare è rappresentato dall’applicazione delle euristiche della disponibilità allo studio del ragionamento induttivo e deduttivo. Kahneman e Tversky hanno dimostrato che, se si propone ad alcune persone di giudicare la probabilità di eventi, esse incorreranno in un errore sistematico nei giudizi di probabilità. Questo errore è determinato dalla facilità con cui affiorano nella mente umana istanze o esempi dell’evento che deve accadere. Pollard ha osservato che particolari informazioni vengono associate al problema da risolvere, al momento della risoluzione queste informazioni vengono recuperate dalla memoria influenzando le risposte e le reazioni delle persone. Queste informazioni inducono spesso a dei biases.

Le teorie evoluzionistiche fondano lo studio della razionalità umana sullo studio del comportamento, sottolineando che esso riflette una razionalità ecologica, ovvero sostengono una combinazione tra evoluzione e apprendimento personale che determinano un buon adattamento all’ambiente. I processi cognitivi approssimano uno standard di comportamento corretto giustificato su base normativa, che non coincide con la logica formale, perciò, i sostenitori di tale approccio ritengono che ogni teoria del ragionamento che incorpora la logica come forma di spiegazione è destinata a fallire, inclusa la teoria dei modelli mentali e quella delle regole formali. Nello studio dei dispositivi genetici che regolano l’evoluzione biologica di una specie, Charles Darwin sottolinea l’importanza della selezione naturale, intesa come un insieme di meccanismi che favoriscono la sopravvivenza e la fecondità. Darwin elaborò il noto principio della sopravvivenza del più adatto, sosteneva che il tipo genetico che ha una capacità di adattamento più elevata ha maggiore probabilità di sviluppo. La capacità di adattamento si fonda su un principio ottimista, precisamente ottenere di più con minori risorse. Ottenere di più significa essere in grado di affrontare una varietà più estesa di situazioni o di risolvere un problema in tempi più rapidi. Richiedere minori risorse significa dipendere di meno dall’ambiente che fornisce queste risorse. L’ottimismo rappresenta l’atteggiamento mentale in grado di massimizzare le ricompense e gli aspetti positivi, così come quello di minimizzare le frustrazioni e gli aspetti negativi. Il modello più noto della psicologia evoluzionistica e quello proposto dagli psicologi statunitensi Cosmides e Tooby. Secondo questi autori gli esseri umani non si avvalgono di una logica indipendente dal contesto, in quanto il ragionamento si è evoluto attraverso strategie di soluzione dei problemi dell’ambiente naturale e in particolare nell’ambiente sociale. In uno sfondo interdisciplinare la mente viene disegnata come il prodotto della selezione naturale e tutte le funzioni cognitive complesse sono il risultato di adattamenti alle pressioni dell’ambiente. La teoria evoluzionistica sviluppa il concetto di contratti sociali, nei quali le diverse parti si accordano per scambiare benefici, sono una forma di cooperazione sociale. Il controllo dei contratti sociali, determinato dall’attivazione di un modulo, è nato specificatamente dedicato alla scoperta dei potenziali imbroglioni, ovvero si devono individuare quei soggetti che possono avere ottenuto i benefici regolati dal contratto, ma senza aver pagato i relativi costi. L’esistenza di tale modulo sarebbe spiegata sulla base dei vantaggi adattivi derivanti dalla presenza di capacità mentali atte ad aumentare la probabilità della cooperazione.

Un recente sviluppo delle ricerche sul pensiero e ragionamento è dedicato all’ipotesi che le operazioni, le funzioni del ragionamento siano dovute a due distinti sistemi cognitivi. Il primo sistema, chiamato implicito, è descritto come una forma di cognizione universale condivisa da animali ed esseri umani. I suoi processi sono essenzialmente di tipo associativo e le operazioni sono rapide, parallele, automatiche ed inconsce. Il secondo sistema è detto esplicito, prerogativa della specie umana. Le sue modalità sono caratterizzate dalla lentezza e dalla sequenzialità. Esso fa esplicitamente uso del sistema centrale della memoria di lavoro e viene utilizzato durante i ragionamenti di tipo astratto e durante il pensiero ipotetico. Si ipotizza l’utilizzo del sistema implicito quando si prendono decisioni impulsive che non richiedono molta riflessione, come decidere le nostre azioni sulla base delle esperienze passate, ricordando ciò che è stato o che ha funzionato meglio per noi. Quando si simulano eventi futuri per poter progettare decisioni da prendere, si ragiona in modo ipotetico, assicurato dal sistema esplicito. Goel, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, ha ottenuto risultati sperimentali a favore del modello dualistico, differenziando a livello neurologico tra ragionamento compiuto con materiale astratto e quello eseguito con materiale concreto, formulato attraverso il linguaggio naturale. Il ragionamento basato sul contenuto ha riscontrato l’attivazione dell’emisfero temporale sinistro, mentre ragionamento con materiale astratto è risultato associato all’attivazione del sistema parietale.

All’inizio del novecento, in una fase iniziale delle ricerche psicologiche, il fatto che le persone mostrassero un profilo molto basso nell’esecuzione dei compiti sperimentali di ragionamento portò i ricercatori a concludere che gli esseri umani fossero illogici, e dunque irrazionali. Questa posizione contrastava la precedente idea di razionalità umana, quest’ultima sviluppatasi nella metà dell’800 nella tradizione filosofica aristotelica, dove ragionare ed il ragionamento erano intesi come sinonimi di logicità e razionalità. Peter Wason, negli anni che vanno dal 1960 al 1970, con le sue ricerche ha dimostrato che gli essere umani incorrono sistematicamente nel biases della conferma, essendo portati a verificare le loro ipotesi piuttosto che a falsificarle. Poiché gli errori sistematici compiuti dalle persone nei compiti sperimentali rappresentano evidenti violazioni delle regole della logica formale, Wason sostiene che gli esseri umani sono fondamentalmente non logici, non razionali nei loro comportamenti e nelle loro decisioni. Wason utilizzò nei suoi esperimenti un problema noto come il compito di selezione o compito delle quattro carte, che fa riferimento alla logica dei condizionali ed è pragmatico nella sua efficacia, per cui viene ancora impiegato diffusamente a livello sperimentale. La costruzione condizionale “se…. allora” suscita particolare interesse in psicologia perché rappresenta la forma tipica del ragionamento umano. Infatti, l’impiego da parte del parlante della congiunzione “se” implica in chi ascolta una produzione di ipotesi, si aspetta che qualche conseguenza, anticipata dalla parola “allora”, si verifichi dopo la realizzazione della condizione indotta dalla particella “se”. Attraverso gli studi che sono stati condotti sul ragionamento condizionale si è visto che le persone interpretano il condizionale come un’equivalenza. Gli studiosi ipotizzano che ciò avvenga perché nel linguaggio naturale raramente viene usata la forma “se e solo se”, ma si preferisce la più diretta “se….allora”. L’uso del connettivo “se” nel linguaggio naturale è molto più complesso del suo corrispettivo logico di implicazione materiale. Infatti, i parlanti spesso compiono inferenze condizionali considerate fallaci dalla logica.  Inoltre le implicazioni che un parlante suggerisce all’ascoltatore, mediante un enunciato condizionale, possono variare con il contesto, con le regole della conversazione e con le assunzioni tacite condivise nel dialogo. Inizialmente il celebre problema fu condotto da Wason impiegando esempi con contenuto astratto, ovvero quel materiale che non richiama la conoscenza precedente o una credenza relativa all’uso del contenuto e del contesto. Wason presentò ai partecipanti dei suoi esperimenti 4 carte:

Ragionamento e contesto il problema delle 4 carte di Wason - IMM1

Immagine 1 – Carte mostrate ai partecipanti nell’esperimento di Watson

Rese note ai partecipanti le caratteristiche di ciascuna carta, ovvero una lettera sul lato ed un numero sull’altro lato. in seguito espresse loro l’ipotesi che dovevano verificare, “Se c’è una vocale su un lato della carta, allora c’è un numero pari sull’altro lato della carta”. Poi diede le istruzioni per l’esecuzione del compito, chiese di scegliere solo quelle o quella carta che è necessario voltare per decidere se la regola è vera o è falsa. Benché il problema sembrava relativamente semplice, la soluzione viene trovata solo nel 10% dei casi. La soluzione corretta corrisponde alla scelta della carta “p” e “non q”. La carta “p” serve a verificare l’ipotesi iniziale, mentre la carta “non q” è utile a falsificare l’ipotesi, dato che se ci fosse sull’altro lato una vocale l’ipotesi sarebbe chiaramente falsa. La combinazione richiesta è una vocale, che rappresenta il valore dell’antecedente “p”, quando esso è vero, insieme ad un numero dispari, che rappresenta il valore “non q”, che si ottiene quando il conseguente “q” è falso. Per questo nell’esempio i valori disponibili per questa soluzione sono la lettera “A” (antecedente p) e il numero 7 (non q). Gli errori commessi con più frequenza sono la scelta della sola carta “p”, oppure la scelta delle carte “p” e “q”, errori che entrambi manifestano il biases della conferma. In altre parole confermano la tendenza delle persone a confermare un’ipotesi invece di smentirla. I partecipanti non comprendono il principio che conduce alla falsificazione del condizionale, cioè che è necessario voltare quelle carte in cui valori nascosti potrebbero falsificare la regola.

Sperimentazione

La sperimentazione, sottoposta a 170 studenti del liceo psicopedagogico R. Pantini della città di Vasto, comprendeva la formulazione del compito di Wason in 2 varianti. La prima variante era la presentazione del classico problema delle 4 carte di Wason; la seconda versione sottoposta agli studenti mostra il problema delle 4 carte con un contenuto concreto che implica contratti sociali.

Ragionamento e contesto il problema delle 4 carte di Wason - IMM2

Immagine 2 – Compito presentato agli studenti del liceo psicopedagogico R. Pantini

Risultati

Le risposte esatte date dagli studenti alla prima versione del compito di selezione di Wason non superano il 10%(“p” e “non q”) come sosteneva lo stesso Wason. Questa performance è determinata dalla difficoltà degli studenti a relazionarsi con il materiale astratto, difficoltà sostenuta anche attraverso le motivazioni fornite dagli stessi studenti alla fine della prova. Le risposte erronee più frequenti confermano l’errore sistematico della conferma, infatti le carte girate maggiormente erano la “p” oppure “p” e “q”. Nella seconda versione con contenuto concreto gli studenti hanno risposto esattamente al compito con una percentuale pari al 32%. Gli studenti hanno confermato con le loro motivazioni, oltre che con la performance, di non aver avuto particolari difficoltà ad elaborare il problema riducendo significativamente anche il biases della conferma. Dalle risposte fornite dagli studenti è evidente che non esistono nella mente umana delle regole di logica formale che ci portano alla corretta soluzione dei problemi. Si è potuto solo rilevare attraverso la seconda versione che ci sono delle particolari caratteristiche, come il contesto e i contratti sociali, che facilitano la risoluzione dei problemi.

 

Legame di coppia e famiglia d’origine

Osservando le caratteristiche dei legami di coppia nei romanzi dell 1800, ma anche nella vita reale, si può notare la contrapposizione tra l’adesione all’etica familiare e ai compiti generazionali e l’accesso al mondo dei sentimenti.

 

Essendo la ‘fuitina’ una scelta soggettiva, questa tende a mettere in crisi l’identità dell’intera comunità ed è quest’ultima che per paura di mettere in crisi l’ordine sociale si stringe attorno alle famiglie di origine. La celebrazione del matrimonio riparatore era un modo per riportare e riportasi all’interno del sistema culturale e sociale di appartenenza. Con tutto il rispetto per la rottura dell’imene femminile, il problema insito nella ‘fuitina’ era la messa in crisi dei meccanismi sociali che regolavano le modalità per arrivare alla nuova unione matrimoniale. La ‘fuitina’ depotenziava il potere dei genitori nella scelta dell’altro e tra l’altro esponeva l’unione matrimoniale al pathos senza tenere conto dei principi etici. Sappiamo che il pathos senza l’ethos espone il legame a tutti i capricci momentanei e, quindi, non dà garanzia di una unione duratura. Il matrimonio riparatore era il modo per inserire il pathos all’interno del contesto etico di riferimento e, quindi, dare certezza di durata al legame. ‘Nessuno osi separare ciò che Dio ha unito’ era uno dei principi su cui veniva fondata questa certezza. La perdita della verginità femminile era il modo con cui inchiodare i due trasgressori alle loro responsabilità. La donna sapeva che se rifiutava il matrimonio riparatore sarebbe passata per svergognata e difficilmente avrebbe potuto sposarsi; il maschio sarebbe diventato inaffidabile e, quindi, difficilmente avrebbe trovato una nuova compagna.

La rinascita del legame, la resurrezione del legame, avveniva con la generatività. Le ragazze, spesso, tornavano a casa incinte. Era questa la garanzia del rientro all’interno del contesto normativo di riferimento. I figli legano per sempre e contribuendo alla continuazione della specie restituiscono il dono attraverso il quale ci è stata data la vita: abbiamo ricevuto la vita e ridiamo la vita. Generare figli è la resurrezione del legame che ci ancora alla storia generativa soddisfacendo sul piano etico i principi di giustizia e lealtà: ricevere e dare la vita.

A Ragusa vi è un celebre castello che la tradizione popolare vuole intitolato proprio alla donna fuggita anche se ricerche più precise indicano che il nome di origine araba vuol dire tutt’altro. L’intitolazione di Castello di Donnafugata, per la tradizione popolare, è da riferire alla vicenda storica della regina Bianca di Navarra che dopo la morte del marito re di Sicilia Martino I, divenne reggente e regina del regno di Sicilia. Il Conte Cabrera di Ragusa la chiese in moglie e al suo rifiuto la fece rapire e rinchiudere all’interno del Castello di Donnafugata, da dove la donna riuscì a scappare con l’aiuto dei suoi servi. Da qui il nome di donna fuggita ovvero Donnafugata.

Rapire la donna scelta per costringerla ad accettare un matrimonio rifiutato era una pratica che in qualche modo era da collegare alla ‘fuitina’ anche se in questo caso si cercava di mettere la ragazza di fronte al dato di fatto, invece che i genitori. La ragazza al ritorno a casa non poteva rifiutare di sposare l’uomo che l’aveva rapita. Celebre è il rifiuto di Franca Viola, recentemente insignita dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, al matrimonio riparatore dopo il rapimento e lo stupro. Anche in questa storia sono in gioco i principi di giustizia e lealtà. Franca Viola, appena quindicenne, si fidanzò con il consenso dei genitori con Filippo Melodia, nipote di un boss mafioso. Subito dopo il fidanzamento, il Melodia fu arrestato per furto e il padre della ragazza decise di interrompere il fidanzamento. A seguito di questa decisione la famiglia Viola venne più volte minacciata, anche attraverso intimidazioni mafiose. Malgrado le minacce, la ragazza non riprese la relazione con Filippo Melodia. Non contemplando gli usi e le consuetudini mafiose, Franca, all’età di diciassette anni, venne rapita e portata in un casolare nelle campagne di Alcamo dove fu stuprata dal precedente fidanzato cercando di metterla di fronte al fatto compiuto. Dopo pochi giorni venne contattata la famiglia Viola per la ‘paciata’, la famiglia avvertì immediatamente la polizia che in un blitz liberò Franca e arrestò i colpevoli. Franca non accetto mai di aderire al matrimonio riparatore anche se sapeva benissimo che questa sua scelta poteva significare restare zitella per sempre. In una Intervista a Riccardo Vescovo, Franca ha recentemente dichiarato:

Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori.

Io credo che Franca lo abbia fatto sicuramente per i suoi sentimenti, ma è anche riuscita a resistere alla tentazione comunitaria che la spingeva verso il matrimonio riparatore, per la forte adesione ai principi etici della sua famiglia di origine. Sarebbe stata una grossa ingiustizia nei confronti del padre che aveva resistito alle tante minacce e intimidazioni mafiose.

Una mia cliente, al contrario, sempre per aderire ai principi etici della famiglia di origine, ha accettato le nozze riparatorie. Viene in terapia perché da circa due anni soffre di attacchi di panico che si manifestano con maggiore intensità all’interno della casa dei genitori e fuori di casa. Sposata, madre di tre figli, con un apparente buon rapporto con i genitori. Quando parliamo del suo matrimonio emerge che era stata rapita dal marito che l’aveva portata nella casa di campagna della sorella dove, dopo essere stata stordita con l’alcool o qualche altra sostanza, era stata violentata. Era rimasta in quella casa per una settimana dove alla fine, dopo molte insistenze, la mamma era andata a trovarla. Aveva aspettato quella visita con molte speranze ed invece la mamma le aveva comunicato che a quel punto era costretta a sposare il suo rapitore. Il marito lavorava ed ancora lavora con il suocero con il quale ha un ottimo rapporto come se fosse suo figlio. Dopo un periodo di tempo, il marito le aveva confessato che ad organizzare e a spingerlo verso il rapimento era stato proprio il padre visto che lei, a quel tempo fidanzata con un altro ragazzo, lo respingeva. La signora in terapia ammette che al marito vuole bene perché lo considera una vittima del padre, ma non sa se lo ama o meno. Esattamente due anni e mezzo prima aveva incontrato casualmente, mentre era a fare la spesa, il suo ex fidanzato che non vedeva dall’epoca del rapimento. A seguito di questo incontro si sono sentiti qualche volta per telefono nei successivi quattro mesi fino a quando l’ex non le ha chiesto un appuntamento. La Signora ha rifiutato l’appuntamento e non l’ha più sentito per telefono. Dopo un paio di mesi, ha iniziato a soffrire di attacchi di panico.

Essendo i sintomi espressione del nostro sistema emotivo non vi è dubbio che la loro comparsa sia da far risalire alla scelta in cui la mette di fronte l’incontro con l’ex fidanzato. Da un lato l’adesione all’etica familiare e ai compiti generazionali, dall’altro l’accesso al mondo dei sentimenti. Gli attacchi di panico che non le permettono di uscire di casa risolvono l’apparente conflitto tra il tradire e/o il non tradire. Nel contempo, però, essi servono ad allontanarsi dalla propria famiglia di origine e, in particolare, ad allontanare il marito dalle continue ingerenze del padre. Ella considera il marito un bravo ragazzo sotto la totale influenza del padre.

Ritornando al Castello di Donnafugata, esso è teatro di un’altra celebre ‘fuitina’ che contribuisce alla fama della sua intitolazione. Il castello fu comprato nel 1600 dalla famiglia Arezzo e nel 1800, per successione testamentaria, passò al barone Corrado Arezzo sposato con Concettina Arezzo di Trefiletti dal quale ebbe un’unica figlia, Vincenzina Arezzo. Quest’ultima si sposò con un Castello Paternò dal quale fu lasciata insieme alle due figlie Clementina e Maria. Per l’enorme dispiacere Vincenzina Arezzo cadde in depressione e da lì a poco morì a Parigi, dove si era recata per curarsi, lasciando le due figlie in custodia al padre. Maria si sposò con un nobile di Messina e morì durante il terribile terremoto del 1908. Clementina, s’invaghì di un ospite del nonno, il Visconte Combes de le Strade, con il quale tentò la fuga su un veliero dirigendosi verso l’isola dell’amore vicino Malta. Il barone Corrado Arezzo resosi conto della ‘fuitina’ della nipote, mandò il suo campiere a riprenderla. Ritornata al castello Clementina sposò il visconte, si trasferì a Parigi ed ebbe una figlia, Clara de le Strade.

Oltre alla ‘fuitina’, dalla storia della famiglia di Corrado Arezzo emerge come un regolare matrimonio approvato dalla famiglia di origine comportava terribili disgrazie. Succede alla figlia Vincenzina, lasciata dal marito e morta per la conseguente depressione, alla nipote Maria, morta insieme al marito nel terremoto di Messina. Per rompere questa terribile eredità generazionale, bisognava salvarsi attraverso un forte segnale di trasgressione come la ‘fuitina’.

Se la ‘fuitina’ serve a rompere un contesto d’imposizione, a volte ciò non è possibile per le forti pressioni delle famiglie di origine. L’amore contrastato tra Margherita e Armando Duval, in La signora delle Camelie di A. Dumas (1848), ne è un esempio. Armando si innamora della più bella cortigiana di Parigi che era la mantenuta di un duca. Con insistenza e per amore riesce a far abbandonare la sua vecchia vita a Margherita che accetta di andare a vivere con lui in campagna. La sua scelta viene fortemente contrastata dalla sua famiglia di origine che non può accettare che il figlio viva con una ex prostituta anche perché la sua scelta mette in pericolo il matrimonio della sorella, poiché la famiglia del futuro marito non avrebbe accettato il matrimonio, se lui non avesse troncato la relazione con Margherita. Armando resiste alle pressioni della famiglia di origine andando via da casa. All’improvviso viene lasciato da Margherita che riprende a fare la vecchia vita. Solo dopo la morte della cortigiana, tramite una lettera, scopre che era stato suo padre a riuscire a convincere Margherita a lasciarlo. Se ‘trasmettere discendenza’, come abbiamo detto sopra, è la resurrezione del legame, anche ‘la trasmissione dei beni e dello status è un caposaldo del familiare. Trasmettere discendenza e trasmettere eredità di beni e di status viaggiano accomunati, è questa la passione che coinvolge le famiglie’ (Cigoli, 2008).

Allo stesso modo Ourika, nell’omonimo romanzo di Claire De Duras (1823), non riesce a coronare il suo sogno d’amore per il colore della sua pelle. Il ‘frequentare il mondo dei sentimenti’ è fortemente influenzato dal contesto. Per ritornare alla libertà di scelta, dobbiamo chiederci se essa esista realmente o non sia fortemente influenzata dal contesto di riferimento. Esiste, per dirla con Botturi, un contesto che facilita la libertà?

Cigoli risponde a queste due domande con l’emergere, rispetto al pathos della relazione, di nuove forme di soggettività e cioè ‘sia l’essere soggetto alla storia, sia l’essere soggetto di storia’. Al fine di diventare protagonista della storia bisogna trasgredire e attraverso l’atto trasgressivo si costringe il contesto a cambiare.

Equilibrio Emotivo. Conoscere i messaggi delle emozioni per viverle con consapevolezza (2019) di P. Romeo – Recensione del libro

In Equilibrio Emotivo l’autore si rivolge alle persone comuni al fine di offrire loro uno sguardo altro sulle emozioni, su ciò che provano quotidianamente e su come possano sfruttarlo al meglio, nell’ottica di attuare una vera e propria crescita personale.

 

Piercarlo Romei, nel suo libro Equilibrio Emotivo. Conoscere i messaggi delle emozioni per viverle con consapevolezza, affronta uno dei temi che da sempre appassiona gli studiosi e accomuna gli esseri umani: le emozioni. Coach, formatore e imprenditore, Romei sa benissimo che la sua opera si colloca in un orizzonte di studi e teorie sulle emozioni molto vasto, difatti il suo intento non è quello di spiegare cosa siano le emozioni – seppur nel corso del suo libro ci saranno accenni a teorie scientifiche al riguardo – ma come possiamo raggiungere un equilibrio emotivo e utilizzare al meglio questo grande strumento adattativo in modo a noi funzionale.

Piercarlo Romei si rivolge dunque alle persone comuni al fine di offrire loro uno sguardo altro su ciò che provano quotidianamente e su come possano sfruttarlo al meglio.

Non solo cosa sono, ma come sono le emozioni

Conoscere qualcosa ci permette di poterne parlare, di poter avere uno sguardo obiettivo quando dobbiamo giudicare qualcosa. Ciò vale davvero anche quando proviamo un’emozione? Sapere cosa sia un’emozione, come funzioni, o quale determinata area del cervello si attiva durante la paura, non ci prepara funzionalmente a come dovremmo vivere le emozioni. Ciò a cui auspica l’autore del libro Equilibrio Emotivo è la cosiddetta “consapevolezza operativa”, un sapere che si rivela essere funzionale ai fini di un utilizzo delle nostre emozioni mirato al proprio equilibrio. Un primo importante “sapere funzionale” è che le emozioni non sono qualcosa di esterno, qualcosa che capita e ci travolge, ma esistono nella misura in cui esistiamo noi. Il lavoro che dobbiamo fare per raggiungere quindi un equilibrio emotivo è su noi stessi. La modalità con cui l’autore ci invita a lavorarci è sul prima e sul dopo un’emozione, così che poi si arriverà a saperci lavorare mentre la si sta provando. Sono lezioni queste che valgono per tutti, perché le emozioni sono un tratto evolutivo universale, come un vero e proprio linguaggio che fa parte della nostra biologia. Attraverso una semplificazione – mai banale – questo libro ha l’obiettivo di spiegarci come approcciarsi alle emozioni per arrivare ad attuare una vera e propria crescita personale.

Sento, provo… agisco

Le emozioni non si possono descrivere facilmente, sono qualcosa che si prova, soggettivo e intimo, che raramente si riesce a descrivere. Le emozioni vanno sentite, provate e con questo libro ci si pone l’intento di arrivare – dopo averle provate – a decidere come porci di fronte questo sentire in modo funzionale. Nelle emozioni, sottolinea Piercarlo Romei, i protagonisti sono corpo e mente: a cambiare, di fronte una qualsiasi emozione, è sia il nostro equilibrio corporeo che quello psichico. Legata alla variazione fisiologica c’è anche quella espressiva: il nostro volto, a contatto di un’emozione, assume una determinata espressione, anch’essa generalmente riconosciuta.

Come detto in precedenza, le emozioni da sempre sono uno strumento adattativo, ma come tale deve essere equilibrato per evitare che si inneschi in modo inopportuno. Emblematico è il paragone che il coach Romei fa tra le emozioni e il dispositivo salvavita che ognuno di noi ha in casa. Quest’ultimo è funzionale solo quando scatta nel momento di reale pericolo, altrimenti rappresenterebbe solo un ostacolo alla routine. Scopo del libro è quindi costruirsi un faro delle emozioni grazie al quale ci sia possibile tarare le reazioni che abbiamo di fronte una situazione inaspettata così da avere risposte sempre più efficaci.

Prima di arrivare a descrivere come poter costruire un nostro equilibrio emotivo, l’autore del libro fa riferimento alla teoria del cervello trino teorizzata da Paul D. McLean, secondo cui il nostro cervello è composto da tre parti. La prima parte è il cervello rettiliano che rappresenta quello istintivo che gestisce quindi i comportamenti stereotipati. Il secondo è il cervello limbico, quello intermedio che si occupa più dell’emotività dell’essere umano consentendogli di modificare il comportamento sulla base della propria esperienza. Il terzo e ultimo cervello è la neocorteccia che è quello responsabile delle funzioni cognitive dell’uomo. Questi ‘tre’ cervelli non sono separati tra loro, ma fanno parte di un’unica struttura che si influenza a vicenda manifestando così il comportamento umano. Del secondo cervello, quello limbico, fa parte l’amigdala, considerata da tutti gli studiosi il centro delle emozioni e ciò che rappresenta la memoria emozionale. Continuando a considerare il cervello suddiviso in tre parti, l’amigdala si trova ad essere scollegata dalla neocorteccia, infatti, in situazioni emotivamente molto forti, è l’amigdala a prendere il controllo al posto della neocorteccia.

Come educare il nostro «dittatore emotivo»

È nella spiegazione del modo di operare dell’amigdala che Piercarlo Romei inizia a dare consigli su come iniziare ad intraprendere un percorso teso al raggiungimento dell’equilibrio emozionale. L’amigdala viene definita dall’autore un dittatore emotivo proprio per questa caratteristica di prendere il sopravvento quando la situazione diventa insostenibile per il nostro cervello moderno. Il problema è che nell’epoca contemporanea, molte reazioni dell’amigdala non si trovano ad essere funzionali, ma esagerate e inappropriate. C’è però un aspetto positivo: l’amigdala apprende per esperienza. Che significa? Che a partire dall’esperienza possiamo educarla ad adottare il giusto comportamento a seguito di una determinata azione. Come? Imparando inizialmente a modificare il contenuto delle nostre reazioni e successivamente saremo in grado di modificare anche la nostra reazione. Per fare un esempio pratico, Romei descrive come reagire di fronte alla paura di parlare in pubblico. Il giusto equilibrio emotivo di fronte questa situazione si può raggiungere imparando a respirare lentamente prima di affrontare la platea, imparare quindi a “controllare” le nostre reazioni fisiologiche, a cui con il tempo seguirà un controllo delle nostre reazioni psicologiche. Impareremo così sempre di più a gestire situazioni di questo genere grazie anche all’esperienza e all’educazione dell’amigdala.

Imparare a leggere i messaggi delle emozioni

Le emozioni, nel corso del libro Equilibrio Emotivo, vengono definite e paragonate in molti modi, uno molto emblematico è il paragone con i postini. Le emozioni sono come dei postini che recapitano a noi destinatari determinati messaggi. Così come non possiamo scappare da una raccomandata, così non possiamo scappare da un’emozione. Più si prova ad allontanarci da un’emozione, più loro faranno chiasso per essere ascoltate. Allo stesso modo, se non comprenderemo il messaggio che ci stanno mandando, loro torneranno a presentarsi con il medesimo messaggio fino a che non lo accogliamo completamente in noi. In questa analogia, è importante sottolineare che, così come il postino non rappresenta la posta che ci consegna, allo stesso modo le nostre emozioni non rappresentano il messaggio che consegnano. È importante tenere a mente questa differenza perché rischieremo di detestare le nostre emozioni solo perché il messaggio che portano non è dei migliori. Per raggiungere un giusto equilibrio emotivo è importante che noi ci alleiamo con le emozioni, così da imparare a comprendere il loro messaggio, riuscendo a farcelo recapitare con delicatezza.

Nella seconda parte del libro Piercarlo Romei fa una carrellata delle emozioni principali descrivendone le caratteristiche e soprattutto come poter approcciarsi ad esse raggiungendo il giusto equilibrio emotivo e conseguentemente sfruttarne le caratteristiche. Tra queste emozioni c’è la paura che tra tutte si potrebbe dire quella più importante a livello di sopravvivenza, dal momento che – sottolinea Romei – ci permette di individuare fonti di pericolo e quindi salvarci. Dopo aver descritto dettagliatamente la teoria secondo cui di fronte la paura le modalità di approccio sono le 3F (flight, freeze, fight), l’autore ci indica alcuni comportamenti che possiamo adottare quando ci troviamo a vivere questa emozione. Importante è saper discriminare ciò di cui abbiamo paura, perché, come nel caso della paura di parlare in pubblico, è bene che questa venga affrontata e che non prenda il sopravvento. Sembra impossibile riuscirci, in realtà, attraverso un percorso difficile fatto di conoscenza personale, è possibile arrivare a conoscere le reazioni fisiologiche di fronte qualcosa di cui abbiamo paura e con il tempo imparare a tararle. Un esercizio di natura pratica indicato nel libro è quello di immaginare per circa mezz’ora al giorno ciò che ci fa più paura, sforzandoci di evocarne le reali sensazioni e imparare in questo modo a governarle. Importante però saper distinguere quando la paura è patologica: in quel caso è bene rivolgersi a uno psicoterapeuta specializzato.

Consigli pratici su come affrontare la tristezza e la rabbia

La tristezza è un’altra grande emozione, tra le più difficili da comprendere e con cui convivere. Così come tutte le altre emozioni, anche la tristezza ha dei messaggi da portare e dei cambiamenti fisiologici con cui dobbiamo avere a che fare. Tra tutte le emozioni questa è quella che ci lega più gli uni dagli altri. Siamo infatti sempre spinti ad avvicinarsi verso qualcuno che sta soffrendo, provando ad offrire il nostro aiuto. Tra vari consigli teorici ci sono anche dei consigli pratici, come quello di dedicarsi ad attività quali il giardinaggio che non dipende da noi e questo ci permette di comprendere come ci siano cose che prescindono dalla nostra volontà. Altro consiglio pratico, forse scontato, ma nemmeno troppo per l’epoca contemporanea, gioire delle piccole cose e circondarsi delle persone che si amano e ci amano.

Se la tristezza ci spinge ad accettare qualcosa così come è, la rabbia indica invece qualcosa che deve cambiare. Anche la rabbia ha una valenza funzionale: arrabbiati, abbiamo molta più forza mentale di quando siamo tristi. È bene dunque saper sfruttare quest’emozione a nostro vantaggio. Come? Cambiando punto di vista e modi di reagire di fronte situazioni che spesso ci attivano quest’emozione che se non controllata gioca a nostro svantaggio. Consiglio pratico per raggiungere un equilibrio emotivo con la rabbia, così come per la paura, è immaginare situazioni che sappiamo provocarci quest’emozione. L’obiettivo di questo esercizio è diventare inoffendibili, imparare quindi a non reagire esageratamente di fronte a situazioni in cui ad esempio veniamo accusati. Tutto questo non deve confondersi però nell’accettazione acritica di tutto quello che ci viene detto, ma aprirsi al dialogo e al confronto.

Emozioni ‘positive’ e come valorizzarle

Premettendo che non esistono emozioni positive e negative in sé, ma esiste la positività o negatività delle nostre azioni di fronte ad esse, nella carrellata delle emozioni principali, non si può non parlare di quelle emozioni che, per il tipo di messaggio che portano, ci lasciano una sensazione di positività: sorpresa, gioia e piacere. Importante è sorprenderci, ma saper anche sorprendere l’altro, così come è importante chiederci se un piacere per noi è davvero tale. Emblematico è l’esempio del fumo: se fumare una sigaretta ci provoca piacere, non è vero che l’atto è davvero benefico per noi. Bisogna dunque saper discriminare quello che rappresenta un vero bene per noi e ciò che non lo è. Il consiglio pratico è quindi quello di stilare una lista di ciò che ci piace e chiederci se ci procura davvero del bene. Allo stesso tempo è utile scrivere tutte quelle attività che ci provocherebbero del bene, ma che ancora non facciamo così da chiederci come poterle iniziare e trarne dunque beneficio.

L’importanza delle emozioni secondarie

Una parte del libro Equilibrio Emotivo è dedicato poi alle emozioni secondarie, altrettanto importanti nella vita quotidiana di tutti noi. Tra queste c’è ad esempio la frustrazione che nasce quando non raggiungiamo gli obiettivi prefissati. In questo caso allora dobbiamo fermarci e chiederci se l’intensità con cui ci stiamo impegnando è quella necessaria. Nel caso lo sia, è bene allora valutare un altro modo di approcciarsi per raggiungere l’obiettivo. Un’altra importante emozione secondaria è l’imbarazzo il cui messaggio è quello di sviluppare competenze che non abbiamo. Riconoscere negli altri questa emozione permette di essere più comprensivi nei riguardi di chi la prova e viceversa. Le emozioni secondarie ci spingono dunque a pretendere di più da noi e questo, nella giusta dose, rappresenta un bene per noi.

Alla ricerca dell’equilibrio emotivo: non siamo le nostre emozioni

In bilico tra il lasciar andare e il vivere intensamente un’emozione, Romei si è messo alla ricerca di un equilibrio emotivo, intendendo in questo modo la capacità di riconoscere ogni emozione e poi comprendere il messaggio che nasconde. Per raggiungere un vero equilibrio emotivo è importante crederci, perché come una profezia che si autoavvera, non riusciamo a lavorare su noi stessi se crediamo che questo sia impossibile. Se è vero infatti che non possiamo far sì che un’emozione si manifesti, allo stesso tempo è vero anche che possiamo agire anziché reagire di fronte un’emozione. Romei sottolinea che raggiungere un equilibrio non è affatto semplice, ma questo non vuol dire che sia impossibile. Ci suggerisce che è bene iniziare a lavorare sul suo raggiungimento quando non si è dentro una tempesta emotiva, altrimenti la nostra lucidità sarebbe sicuramente influenzata dalle variazioni psicologiche vissute durante l’emozione.

A questo proposito è importante sottolineare un altro concetto espresso da Romei: dobbiamo imparare a parlare delle emozioni con il giusto linguaggio per arrivare al raggiungimento di un equilibrio emotivo. In questo senso, noi non siamo le nostre emozioni, noi le proviamo. Le emozioni passano attraverso di noi e questo in qualche modo ci rende liberi.

Piercarlo Romei infine ci ricorda che noi siamo responsabili nei confronti delle emozioni e che quando questa passa è bene apprendere quanto vissuto così da velocizzarne il nostro cosiddetto apprendimento emotivo.

Perché le donne si masturbano?

La masturbazione, in particolare nelle donne, è stata a lungo stigmatizzata, proibita o scoraggiata dalle principali ideologie religiose e per anni vista come causa di una moltitudine di disturbi fisici e mentali (Bullough, 2002; Maines, 1999).

 

La maggior parte delle società occidentali contemporanee, tuttavia, ha tentato di normalizzare quest’attività, considerandola non solo come uno sbocco naturale e sicuro per la tensione sessuale, ma anche come un potenziale beneficio che può aiutare uomini e donne a scoprire e migliorare l’eccitazione e il piacere sessuale. Infatti, se per anni era stato ipotizzato che la masturbazione fosse più frequente nelle donne prive di un partner sessuale, studi recenti indicano che la masturbazione e il sesso con il proprio partner sembrino generare esperienze nettamente diverse per la maggior parte delle donne, suggerendo l’idea che un tipo di attività non sostituisce o compensa necessariamente l’altra (Regnerus, Price, & Gordon, 2017).

Il presente studio ha esaminato la relazione tra la frequenza, le ragioni e le attività durante la masturbazione e studiato come tali parametri predicono il piacere orgasmico, la latenza e le difficoltà. In particolare, ha tentato di rispondere a sei domande:

  • Le donne che si masturbano più frequentemente differiscono da quelle che si masturbano meno frequentemente o per niente?
  • Perché le donne si masturbano?
  • Quali tipi di attività includono le donne quando si masturbano?
  • Le ragioni, le attività e la frequenza della masturbazione sono correlate l’una all’altra?
  • Queste variabili influenzano la latenza orgasmica, il piacere orgasmico e la difficoltà orgasmica durante la masturbazione?
  • La frequenza della masturbazione è correlata alla frequenza del sesso con il proprio partner?

I partecipanti, estratti da un database, erano 2068 donne di almeno 18 anni; le versioni dello studio erano due: online e carta e matita. Era necessario partecipare ad un sondaggio sulla salute sessuale prima di essere ammesse allo studio. Alle donne sono state poste domande, utilizzando l’anno passato come periodo di tempo, sulla frequenza della masturbazione, sulle loro ragioni per masturbarsi e sui tipi specifici di attività.

La percentuale maggiore relativa alla frequenza della masturbazione era del 23% per le donne che si masturbavano 2-3 volte alla settimana, seguita da coloro che si masturbavano circa una volta alla settimana (17%). Dai risultati emerge che le donne che si masturbavano più frequentemente avevano maggiori probabilità di riferire ansia o depressione in corso (le motivazioni non sono state approfondite in questo studio), hanno riferito una minor soddisfazione per la loro attuale relazione sessuale e per la loro relazione in generale, ma hanno posto maggiore importanza e interesse nel fare sesso.

Tuttavia, la ragione più importante o che contribuisce maggiormente al motivo per cui le donne si masturbano è “piacere e soddisfazione sessuale”, seguita da “aiuta ad alleviare lo stress ed è rilassante” e “diminuisce la tensione sessuale”. Al contrario, la mancanza di attività sessuale o di attività sessuale soddisfacente con il proprio partner influenza meno del 10% del campione.

In relazione alle possibili attività che in genere le donne svolgono quando si masturbano, la stimolazione del clitoride era l’attività più comunemente selezionata (97%), seguita dalla stimolazione vaginale, dall’uso di materiale erotico stimolante e, infine, da fantasie sessuali che includono il proprio partner. Queste attività, definite “convenzionali”, vengono distinte dalle attività riconosciute in questo studio come “non convenzionali”; ad esempio la stimolazione anale, la stimolazione attraverso fantasie che non includono il proprio partner e altre attività non specificate.

Esisteva un’associazione significativa tra la ragione principale della masturbazione e il tipo di attività: nello specifico, la minoranza delle donne che ha evidenziato problematiche relative alla sfera sessuale con il proprio partner (ad esempio mancanza di attività sessuale o di soddisfazione erotica), avevano maggiori probabilità di includere attività “non convenzionali” durante la masturbazione. Anche la frequenza della masturbazione differiva significativamente con la tipologia di attività e con le ragioni legate alla masturbazione: le donne che si occupavano solo della stimolazione del clitoride si masturbavano meno frequentemente (circa una volta al mese) rispetto a coloro che svolgevano attività aggiuntive, sia convenzionali che non convenzionali; inoltre, le donne che si masturbavano per piacere e soddisfazione sessuale, svolgevano quest’attività più frequentemente (circa una volta alla settimana) rispetto alla parte di campione che identificava altre ragioni legate alla masturbazione.

Inoltre, è stata considerata la relazione tra le variabili precedenti e il raggiungimento dell’orgasmo; in particolare per la latenza orgasmica, piacere orgasmico e difficoltà orgasmica. Dalle analisi risulta che il piacere orgasmico non variava in base alle attività incluse durante la masturbazione, ma differiva a seconda della motivazione ed era associato positivamente sia a una maggior frequenza che a una ridotta difficoltà orgasmica. Le donne che si masturbano per piacere sessuale e soddisfazione raggiungono il massimo piacere orgasmico e la minor difficoltà, mentre quelle che si sono masturbate per diminuire la tensione sessuale o superare l’ansia hanno avuto punteggi più bassi di piacere orgasmico e punteggi più alti di difficoltà orgasmica. L’età ha predetto significativamente tutti e tre i parametri: una maggiore età era associata a latenze orgasmiche più brevi, maggior frequenza, elevato piacere orgasmico e ridotta difficoltà orgasmica; al contrario, le donne più giovani indicavano maggior difficoltà e latenza orgasmica, minor soddisfazione nelle relazioni sessuali e come ragione principale della masturbazione indicavano la riduzione dell’ansia e della tensione.

Complessivamente, la correlazione tra la frequenza della masturbazione e la frequenza del sesso associato con il proprio partner era bassa e non significativa, ad eccezione della piccola percentuale di campione che ha indicato come ragione principale della masturbazione la mancanza di attività sessuale e/o di soddisfazione con il proprio partner.

In conclusione, in base agli schemi di risposta caratteristici, sono state empiricamente individuate tre tipologie di donne: 1) donne sessualmente molto attive; 2) donne che hanno frequenti rapporti sessuali con il proprio partner, ma si masturbano poco frequentemente e 3) donne che si masturbano frequentemente, ma hanno rapporti sessuali meno frequenti.

 

Proteggere, proteggersi: per una quarantena Trauma-Informed

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali.

 

Nelle ultime settimane stiamo assistendo ad un radicale cambiamento di prospettiva che coinvolge improvvisamente e inaspettatamente tutti nello stesso momento. Gli ultimi giorni di lavoro hanno visto l’inevitabile comparsa del Coronavirus nella stanza della terapia, lasciando emergere molte sfide nell’affrontare i faticosi cambiamenti delle abitudini quotidiane, ma anche in molti casi i ricordi di un passato più antico in cui ci si è sentiti proprio così: costretti, isolati, impotenti, vulnerabili, in balia di eventi nuovi e sconosciuti. Insomma piccoli di fronte a qualcosa di più grande di tutti noi! Ma se siamo tutti piccoli, a quali adulti affidarci?

L’epidemia Covid-19, dall’11 Marzo 2020 Pandemia, sta suscitando moltissime reazioni diverse e in molti ambiti di vita: economico, politico, sociale, personale. A tutti livelli sembra che l’equilibrio difficile da trovare sia identificare il giusto grado di protezione: sufficiente a tenerci, concretamente, “in vita” o almeno in salute di fronte al pericolo imminente, ma anche lungimirante nel permetterci di conservare le energie necessarie a tollerare un’emergenza che potrebbe prolungarsi, preparando magari il terreno ad una rapida risalita una volta che il pericolo sarà passato.

Prima manifestazione di questo difficile equilibrio: le notizie. Prima troppo allarme. Poi troppo poco. Poi una indicazione concreta, più regolata e adulta: teniamoci aggiornati, ma non minuto per minuto. Non serve a nessuno, se non a chi deve organizzare i turni in ospedale e i posti letto. Una volta al giorno è sufficiente per capire come proteggersi, tutto il resto rischia di alimentare solo ansia, panico e un pericoloso senso di sopraffazione.

Tra le molte riflessioni possibili, da una prospettiva psicotraumatologica è inevitabile non notare come, dal punto di vista emotivo, questa improvvisa perdita del senso di protezione e sicurezza abbia lasciato spazio (e per tutti) all’intervento immediato del nostro sistema di difesa innato (Porges, 2001): la parte più antica del sistema nervoso autonomo, conservata nella fisiologia di tutti i mammiferi. Quando ci sentiamo davvero minacciati, la Neurocezione (Porges, 2004) – capacità innata del sistema nervoso autonomo di intercettare pericoli nell’ambiente – attiva il sistema di difesa che serve a scalzare le attività corticali e il ragionamento per farci agire velocemente a protezione della nostra vita. Ma cosa succede se questo sistema di difesa viene sollecitato in modo eccessivo, continuativo e incoerente?

Si disregola. Perde efficacia. Ci rende più esposti.

Corsa ad abbracciare i propri cari lontani per sentirsi al sicuro (pianto di attaccamento); rabbia verso il diverso, lo straniero, l’untore, il vicino che non rispetta le regole, l’ignoranza, il governo, il sistema economico (attacco/fight); fuga dalle città del nord, fuga dagli ospedali, fuga dalle zone rosse, miminizzazione, semplicemente fare finta di niente (flight/evitamento); seguire minuto per minuto le statistiche del contagio (freeze/congelamento); fatalismo, negazione, rinuncia alla protezione (resa/sottomissione).

Le nostre difese animali sono impegnate in un duro lavoro di “recupero di controllo sulla realtà” sin dalle primissime notizie di venerdì 21 Febbraio, con una crescente attivazione che dalle zone più colpite del Nord Italia ha coinvolto gradualmente tutte le regioni del Centro e del Sud e dunque porzioni sempre più grandi di popolazione, determinando (finalmente) una più chiara consapevolezza: c’è una epidemia da fermare, o almeno da rallentare. Che fare?

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali e riuscire ad orientarci nel presente cercando le risorse ancora accessibili e utili a navigare dentro l’urgenza, con crescenti capacità e fiducia verso un ritorno alla sicurezza. Questo processo di adattamento è necessario e di solito naturale: abbiamo un picco di terrore e smarrimento (trauma), poi gradualmente le risorse affiorano e iniziamo a lavorare per la nostra sopravvivenza creando nuove prospettive e possibilità seppur nell’esperienza negativa vissuta (crescita post-traumatica). In una parola: Resilienza.

Ma cosa succede se la paura del Covid-19 arriva a colpire chi sta già vivendo una situazione di sofferenza emotiva? Come può manifestarsi la paura nella mente di una persona che ha vissuto traumi e trascuratezza importanti nella sua infanzia, di fronte a questa ennesima emergenza? Proviamo ad esplorare alcuni aspetti emotivi che potrebbero trovarsi coinvolti nella gestione dell’emergenza.

Partiamo dal positivo: “Niente di nuovo sotto al sole.”

Chi è abituato a vivere in guerra, semplicemente continua a combattere. Chi è abituato a vivere una condizione emotiva di stress post-traumatico o di traumatizzazione cronica, con un sistema di difesa quindi costantemente reattivo nella vita quotidiana, potrebbe sentire molta familiarità con alcune situazioni emergenziali e percepire l’allerta in modo molto diverso: talora troppo, talora troppo poco, ma spesso mostrando una maggiore tolleranza dello stress e dell’incertezza. Possono presentarsi dunque alcune risorse positive da tenere in grande considerazione nelle prossime settimane.

  • Il mondo è imprevedibile: chi è cresciuto in una famiglia caotica e non protettiva è abituato a percepire il mondo come arbitrario, a vivere l’ipervigilanza come una condizione emotiva stabile, a non fidarsi delle notizie: per cui l’attuale emergenza potrebbe risultare una condizione molto comune e relativamente facile da gestire.
  • Sono invincibile: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; un parte di attacco (fight) potrebbe percepire come del tutto innocua la minaccia di contagio, azzerando così (almeno temporaneamente!) il senso di vulnerabilità e la paura di altre parti più piccole e spaventate.
  • Solo solo: chi si è adattato, sin dall’infanzia, a vivere in solitudine la presenza di persone o situazioni minacciose, potrebbe sentirsi rassicurato di trovarsi in una condizione conosciuta di isolamento, con minor rischio di intrusioni e pericoli esterni, ma non più solo perché la stessa condizione è condivisa con familiari, amici, parenti e (ora) il resto dell’umanità;
  • Devo ottenere il massimo da quello che ho: chi ha dovuto proteggersi sin da piccolo e con pochi mezzi, è naturalmente portato a valutare velocemente le opportunità e le risorse nell’ambiente circostante e a ottimizzare le risorse che ha già, senza soffrire troppo limitazioni, scomodità e rinunce;
  • Confini chiari: chi ha vissuto situazioni relazionali di maltrattamenti e trascuratezza, ha imparato presto che la vicinanza con altri esseri umani può essere difficile da gestire; un sistema sociale che regola il comportamento individuale, le distanze e che invita a proteggersi, può semplificare alcuni aspetti della vita sociale e dare sollievo alle parti che tendono a sentirsi in colpa e a non sentirsi in diritto di “dire di no”.
  • Sono impotente: sentirsi sopraffatti dagli eventi è insopportabile, ma chi l’ha vissuto potrà sentire e capire più velocemente degli altri che aderire alle soluzioni offerte è meglio che essere schiacciati e trovarsi nel non poter reagire affatto;
  • Critico interno: le parti critiche tendono a far sentire sempre attivi, pronti, forti, capaci, all’altezza, ma hanno una tendenza all’autosacrificio e alla competizione talvolta difficili da arginare; in questa fase potrebbero invece ridurre la pressione interna: se non dipende più dalla scelta del singolo, se stare fermi è funzionale alla sopravvivenza, allora potrebbe diventare più facile darsi il permesso di restare in casa, riposare, dedicarsi a sé, stare. Potrebbe presentarsi un inatteso ma piacevole sollievo.

Tuttavia, alcune situazioni specifiche e quotidiane legate alle condizione di “quarantena forzata”, cui tutti siamo sottoposti, potrebbero al contrario diventare trigger molto potenti di antichi traumi o ri-attivare emozioni negative proprio in virtù del legame con alcune esperienze del passato.

“Trigger da quarantena: aiutiamoci!”

  • Sono solo: cosa mi ha insegnato che essere soli è pericoloso? Che l’essere lontano dagli altri può essere fonte di minaccia per la mia sopravvivenza? Chi ha vissuto nell’infanzia troppa solitudine e trascuratezza potrebbe vivere l’isolamento come abbandono; parti piccole ed emotive potrebbero non riuscire a distinguere la condizione temporanea di isolamento, dall’essere soli emotivamente e invisibili a chi ci vuole bene; aiutiamoci a distinguere l’isolamento dalla solitudine: chi potremmo sentire per parlare proprio ora? Cosa potrebbe aiutarci a sentirci più connessi altri altri?
  • Sono in trappola: cosa richiama dentro di noi la sensazione di non poter correre via da quello che ci spaventa? La casa dovrebbe per tutti costituire un luogo protetto, ma il senso di sicurezza come adulti è invece una questione profondamente condizionata dalle esperienze del passato: la sola idea di non avere questa libertà di movimento potrebbe attivare stati di ansia e rabbia molto intensi in chi ha vissuto traumi legati a questo; proviamo ad osservare cosa renda la situazione attuale diversa da quella che abbiamo vissuto in passato, aiutiamoci a dis-identificarci da quelle sensazioni ed emozioni (Fisher, 2017), ma osserviamole per quello che sono: ricordi.
  • Sono impotente: cosa suscita in me l’idea di non poter agire? Di non poter fare nulla contro l’avanzare di un pericolo? Chi è sopravvissuto a traumi che hanno comportato il vivere una o più volte la minaccia per la propria vita, sa che il senso di impotenza può essere insostenibile e la costrizione di queste settimane può essere sentita così da alcune parti emotive che potrebbero rivivere lo stesso senso di impotenza e pericolo; aiutiamo la mente ad orientarsi nel presente: mettiamo spazio tra passato e presente, tra il luogo in cui siamo ora e dove invece eravamo dando ad ogni luogo un nome differente (Fisher, 2017), tra le nostre parti piccole e l’adulto che oggi siamo e che può occuparsene.
  • Non posso mettere confini: come gestiamo l’eccessiva vicinanza o l’intrusione? Chi è vissuto in una famiglia violenta o minacciosa, potrebbe percepire la vicinanza fisica obbligata, con i propri familiari, conviventi o coinquilini, come insostenibile in questi giorni e manifestare sintomi di ansia, somatizzazioni o sconforto/resa di fronte al prolungarsi di questa situazione; proviamo ad orientare l’attenzione su stimoli che possono aiutarci a creare uno spazio mentale interno, libero e sicuro che possa continuare ad accoglierci: grounding, yoga, meditazione, respirare, camminare, scrivere, leggere, disegnare, suonare.
  • Ho paura di morire: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; percepirsi vulnerabili, può far sentire ad un parte piccola e spaventata un rischio maggiore o sproporzionato alle effettive condizioni di vita; selezioniamo per la mente poche informazioni affidabili, valutiamo i rischi effettivi e le azioni intraprese per proteggerci, confrontiamoci con poche persone fidate e capaci di rassicurarci.
  • Sono fuori controllo: cosa ci aiuta a regolare le nostre emozioni? Come ci fa sentire non avere disponibile quello che di solito ci aiuta quando a fine giornata siamo tesi, tristi, arrabbiati? Molte risorse, normalmente utilizzate nella vita quotidiana possono essere vissute come risorse di sopravvivenza, in assenza delle quali potrebbero aprirsi non solo semplice noia, ma più intense emozioni di paura, rabbia, colpa o vergogna. Come posso sostituire quello che mi aiutava? Proviamo ad essere curiosi e creativi, lasciamo andare quello che non abbiamo ora e cerchiamo risorse nuove che possano andare incontro agli stessi bisogni di conforto, regolazione, rassicurazione, distrazione. O se possiamo, lasciamo spazio e osserviamo per quel che è possibile, cosa emerge se smettiamo di agire e cercare soluzioni.

Probabilmente non ci saranno ricette valide per tutti, ma nelle prossime settimane sarà importante per ognuno riuscire a riconoscere i pensieri e le emozioni che potrebbero ingannarci, darsi tempo e spazio per costruire e rafforzare risorse interne e mettere al centro la cura di sé finalmente al riparo dal rumore delle città. Affidiamoci ad un adulto dentro di noi capace di proteggersi e di ascoltare le emozioni naturali che verranno senza esserne sopraffatto, e magari disponibile a farci vivere questo tempo – per tutti strano – in un modo che sarà bello raccontare in futuro.

 

Aladdin – La LIBET nelle narrazioni

La storia di Aladdin è ambientata nel lontano oriente, in una città fantastica di nome Agrabah. Un luogo incantato, dalle mille tentazioni, prima tra tutte quella di cedere alla magia per poter raggiungere i propri scopi. Ma a che prezzo?

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 10) Aladdin

 

Il nostro protagonista è Aladdin, un giovane e povero ragazzo senza né madre né padre (processi di apprendimento). Aladdin vive di stenti in una baracca arredata con pezzi di fortuna, insieme alla sua unica compagna di vita Abu, una scimmietta scaltra e intelligente. Il ragazzo cresce quindi con il tema doloroso di indegnità, sente di essere uno straccione, inferiore agli altri, e di questo si vergogna.

Aladdin e la sua scimmietta trascorrono le giornate scorrazzando per le vie della cittadina mentre cantano allegramente, e rubano per mangiare, salvo poi donare tutto ciò che hanno a chi sembra essere più bisognoso. Il ragazzo è buono e umile, quasi ingenuo, ma è dotato anche di una fervida immaginazione, che lo porta a viaggiare ogni sera con la fantasia: si affaccia alla finestra della sua umile dimora, dalla quale si vede il palazzo del sultano, e sogna di viverci. Cantare, sdrammatizzare, sognare, e donare agli altri anche quando non si ha nulla, possono essere inquadrate come strategie tipiche di un piano immunizzante, in cui Aladdin fa di tutto per evitare la consapevolezza della sua vergognosa condizione, anzi se ne burla persino con le guardie del paese, che gli danno spesso la caccia.

In quella che sembra essere una giornata come le altre, Aladdin incontra proprio colei che poi si scoprirà essere la principessa Jasmine. Aiuta la ragazza misteriosa a fuggire dalle grinfie delle guardie che la credono una ladra. Jasmine viene affascinata subito dal modo di fare vivace e spensierato del ragazzo, ma Aladdin, una volta scoperte le vere origini della fanciulla, si vergogna di ciò che è. Si scopre innamorato della giovane principessa e si convince che l’amore che prova per lei non potrà mai essere ricambiato, rattristandosi; questo evento rappresenta un’invalidazione del piano immunizzante, che espone Aladdin al suo tema doloroso di indegnità provocando l’esordio sintomatico: come potrebbe mai la principessa amare e sposare uno straccione?

A questo punto Aladdin è confuso e depresso, come non l’abbiamo mai visto prima. È costretto a fare i conti con la realtà e con il fatto di essere povero, finché non gli si presenta quella che sembra essere l’occasione della vita: conosce il crudele Jafar, che gli tende una trappola così subdola da mettere a rischio la sua vita, ma proprio quando sembra che non ci sia più nulla da fare, gli si presenta l’opportunità di avere ai suoi ordini il genio della lampada. Aladdin può esprimere al genio tre desideri, e non ha dubbi: ammettere a sé stesso e a Jasmine di essere uno straccione e farsi vedere per ciò che è continua ad essere troppo doloroso (processi di metacontrollo), per questo motivo sceglie di chiedere al genio di trasformarlo in un principe. Continua quindi ad adottare la sua strategia immunizzante, fingendo di essere ciò che non è: con l’aiuto della magia i suoi stracci diventano abiti sontuosi, la sua compagna di avventure Abu diventa un imponente elefante, e viene accompagnato da una schiera di musicisti, ballerini, servitori, ecc. La magia ha esacerbato quelli che erano i tentativi di Aladdin di non guardare in faccia la realtà (esordio sintomatico e cicli di mantenimento). Tuttavia quando Aladdin si presenta dalla principessa Jasmine in questo modo, ella lo rifiuta, facendo cadere il nostro ragazzo nello sconforto.

Questo ennesimo tentativo di Aladdin di nascondersi da ciò che gli causa più dolore, essere uno straccione, si è dimostrato ancora una volta inefficace, e gli causa soltanto disagio. È arrivato per il nostro protagonista il momento di farsi forza, e accettarsi per ciò che è, con i suoi difetti, ma anche e soprattutto con i suoi pregi: con una ritrovata consapevolezza Aladdin riuscirà infatti a trovare il suo lieto fine.

 

Due tipologie di schizofrenia, due cervelli diversi

La prevalenza della schizofrenia all’interno della popolazione si aggira attorno all’1%. Per comprendere meglio questo disturbo e per sviluppare nuovi trattamenti personalizzati appare necessario comprendere cosa accade a livello cerebrale.

 

La schizofrenia è un disturbo facente parte dei disturbi psicotici, all’interno di questa categoria riportata dal DSM 5, troviamo i seguenti disturbi: disturbo delirante, disturbo psicotico breve, disturbo schizofreniforme, disturbo schizoaffettivo e schizofrenia (DSM 5, 2014).

La peculiarità dei disturbi appartenenti a questa categoria è la presenza di allucinazioni e/o deliri: le prime consistono nella percezione di stimoli inesistenti, mentre il delirio consiste in una o più credenze erronee e bizzarre sulla realtà circostante (Ritsner et al., 2003).

Per avere un quadro generale sulla schizofrenia osserviamo tutti i sintomi che possiamo trovare in questo disturbo:

  • Sintomi negativi: sintomi che ‘’tolgono’’ facoltà cognitive, emotive o comportamentali al paziente, come per esempio la presenza di apatia.
  • Pensiero disorganizzato: disturbo della forma del pensiero, caratterizzato da un allentamento dei nessi associativi, incoerenza e deragliamento del pensiero.
  • Comportamento motorio grossolano: caratterizzato da bizzarrie come il non lavarsi, vestirsi in modo inusuale, agitazione motoria immotivata.
  • Sintomi positivi: deliri o/e allucinazioni.

A livello epidemiologico, la prevalenza di questo disturbo si aggira intorno al 1% della popolazione, tipicamente l’esordio si osserva in adolescenza, non ci sono differenze nei tassi di prevalenza tra maschi e femmine sebbene nei maschi tenda ad esordire più precocemente e ad avere una prognosi peggiore (Ritsner et al., 2003).

Gli studi sui correlati biologici della schizofrenia sono molti, dato che, trattandosi di un disturbo primariamente psichiatrico, il principale approccio a questa problematica è di tipo farmacologico; tuttavia per comprendere quali psicofarmaci utilizzare, bisogna prima capire cosa accade a livello cerebrale (Messias & Eaton, 2007).

Uno studio recente pubblicato quest’anno sulla rivista Brain (Chand et al. 2020), ha dimostrato la presenza di due tipi di schizofrenia. Lo studio è stato condotto su un campione di 300 soggetti schizofrenici che sono stati sottoposti a risonanza magnetica, e su 364 soggetti appartenenti al gruppo di controllo composto da persone sane le quali sono state sottoposte anch’esse a risonanza magnetica (Chand et al. 2020).

I risultati mostrano come si delineino principalmente due tipologie di schizofrenia associate a diverse condizioni cerebrali, chiamate rispettivamente sottotipo 1 e sottotipo 2. Soggetti con schizofrenia di sottotipo 1 mostrano volumi minori per quel che riguarda la sostanza grigia, il talamo, il nucleo accumbens, la corteccia prefrontale e la corteccia insulare. I soggetti con schizofrenia di sottotipo 2, invece, mostrano un aumento di volume di alcune zone cerebrali, in particolare nei gangli della base e nella capsula interna (Chand et al. 2020).

È importante specificare da un punto di vista metodologico che i gruppi che si sono delineati (sottotipo 1 e sottotipo 2) non differiscono per età, sesso, durata della malattia e farmaci assunti, andando cosi a rendere più solida questa distinzione dato che non è causata dalle variabili appena elencate (Chand et al. 2020).

Inoltre, i risultati mostrano che la materia grigia correla negativamente con la durata della malattia (quindi al diminuire della sostanza grigia aumenta la durata della malattia) nel sottotipo 1, ma non nel sottotipo 2, suggerendo la presenza di processi neuropatologici differenti.

L’importanza di questo studio risiede nella possibilità di sviluppare nuovi trattamenti personalizzati per i soggetti affetti da schizofrenia (Chand et al. 2020).

 

Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (2003) di J.D. Safran e J.C. Muran – Recensione del libro

Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica fornisce l’aiuto necessario per essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme, senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

 

Ho atteso la ristampa di questo testo del 2003 con lo stesso entusiasmo con cui mia nipote mangia gli ovetti Kinder e l’ho letto con la consapevolezza che mi avrebbe arricchito rispetto al modo in cui bisognerebbe stare con i pazienti. Quindi ho fatto spazio sulla scrivania per dargli il giusto posto.

Le prime pagine mi hanno riportata ad alcuni casi, a tutte quelle volte in cui non c’era accordo sugli obiettivi o sulle modalità della terapia, producendo rotture dell’alleanza non sempre chiare e di conseguenza a volte mai riparate. In questo libro, gli autori insegnano passo dopo passo a riconoscere e sanare ogni sorta di rottura dell’alleanza terapeutica. Sebbene, infatti, alcuni aspetti siano automatici, inconsapevoli ed impliciti nel rapporto con un altro essere umano, molti altri sono in realtà operativi. Credo che sia proprio questa la specialità del testo: Safran e Muran hanno operazionalizzato degli elementi della terapia che a volte sono difficili da individuare e spiegare. Sono elementi che spesso chiamo “cose inspiegabili”. Non soltanto le hanno identificate, ma hanno chiarito il modo in cui queste “cose inspiegabili”, che sembrano così evanescenti, possano essere costruite, viste, modificate fin dalle prime sedute.  Esistono delle modalità specifiche per riorganizzarsi sulla terapia ogni qualvolta si verifica un allontanamento da essa coinvolgendo in modo attivo il paziente sulla negoziazione degli obiettivi e sui compiti della terapia, soprattutto quando egli non ha chiaro in che cosa essa consista e dove può condurre. A volte, infatti, i pazienti hanno in mente solo una generale richiesta di aiuto, ma non riescono ad accedere al significato intrinseco: sarà proprio la relazione la base sicura sulla quale si svilupperanno questi significati e le azioni che ne derivano. Soltanto così paziente e terapeuta possono sulla stessa lunghezza d’onda.

Alla base del lavoro di costruzione della relazione ci dovrebbe essere un atteggiamento del terapeuta particolare, sinceramente aperto e validante, per negoziare e mediare tra quello che spetta al paziente e quello che spetta a lui. Questo avrà una ripercussione in termini di identificazione dei propri bisogni e soddisfacimento di essi e contribuirà a creare un clima di sicurezza. Ovviamente un altro aspetto fondamentale è che il terapeuta, proprio misurando l’andamento della danza relazionale con il paziente, può comprenderne il funzionamento interpersonale, da condividere ed esplorare. L’aspetto di sincerità e apertura del terapeuta lo si vede per esempio quando egli si rende conto, condivide e chiarisce con il paziente il proprio contributo alla rottura terapeutica. Può capitare infatti di essere un po’ critici o giudicanti senza volerlo, senza notarlo. Sarà grazie all’osservazione dei markers della rottura terapeutica e alla discussione con il paziente che il terapeuta può esaminare e può comunicare (meglio ancora meta-comunicare) al fine di recuperare l’alleanza. Per fare questo egli dovrebbe essere disponibile ad un lavoro genuino, aperto e curioso, senza incappare in cicli interpersonali basati, per esempio, sul rango e sulla performance. Tali esperienze, per alcuni tipi di pazienti, sono fondamentali perché rappresentano primissimi momenti di ristrutturazione di schemi interpersonali maladattivi (Dimaggio et al., 2013). L’alleanza è la precondizione della riuscita terapeutica anche con i pazienti altamente sintomatici, che arrivano in terapia attivati, con delle richieste di aiuto particolarmente incalzanti. Capita spesso, infatti, che pazienti con alcuni disturbi di personalità tendano ad essere problematici, richiedenti, impegnativi: il terapeuta può decidere se passare all’azione o passare all’esplorazione (questo dipende dalle capacità metacognitive del paziente e dal timing della terapia: un paziente che ancora non ha chiaro il suo funzionamento potrebbe teorizzare insieme al terapeuta senza comprendere il vero significato di quello che si sta verificando). Molto interessante l’approfondimento teorico sulla contrapposizione tra agentività e relazionalità, tra la tensione insita tra queste due componenti che può essere superata attraverso la costruzione di un maggior senso di consapevolezza dei bisogni, dei desideri, allontanandosi dalla paralisi della volontà che è alla base della patologia.

Paziente e terapeuta non dovrebbero lavorare su un nascosto squilibrio di potere della relazione, perché in realtà sono tutti e due ignari di un processo psicologico, devono identificarlo e costruirlo insieme e, all’interno di questa conoscenza, sono entrambe parte attiva. È ovvio che noi terapeuti abbiamo una cassetta degli attrezzi ed un sapere del funzionamento della mente, ma essa si abbatte di fronte alla individualità di ogni persona che, per giunta, cambia ed evolve continuamente. Questo spiega perché uno stesso atteggiamento del terapeuta, per esempio speranzoso, potrebbe essere accettato da un paziente sfiduciato e demoralizzato, mentre da un altro potrebbe essere interpretato come dominanza. Sono, evidentemente, funzionamenti diversi. C’è una intrinseca e sottile asimmetria tra il ruolo del paziente e quello del terapeuta che poi è sì fondamentale per svolgere la nostra professione d’aiuto, ma non dovrebbe rendere la nostra posizione inautentica, nonostante l’immagine associata al ruolo. Hoffmann (1998), infatti, sottolinea come bisognerebbe raggiungere un equilibrio tra l’agire secondo le prescrizioni del ruolo e comportarsi in modo autentico è spontaneo come una qualsiasi relazione che si svolge al di fuori di uno studio di psicoterapia.

Accattivante, chiaro e diretto il paragrafo nel quale gli autori parlano di “mente del principiante”. A tal proposito si fa riferimento all’importanza di avere una mente curiosa, pronta a tutto, nella quale “il terapeuta si accosta ad ogni seduta senza memoria e senza desiderio” in una modalità allocentrica per avere un’apertura ed una ricettività che consentono la tolleranza dell’ambiguità, dell’incertezza e anche del dolore. Gli autori sottolineano come questo possa essere difficile sia per i terapeuti giovani che per quelli più esperti: nell’entrare in contatto con alcuni temi relazionali, in un caso c’è la difficoltà da accettare e tollerare, mentre nell’altro c’è la tendenza a vedere le cose sempre in un certo modo senza considerare l’individualità della persona e come essa evolva. Non dimentichiamo, infatti, che i pazienti evolvono di seduta in seduta e nei vari tempi e, al loro evolversi, corrispondono temi e configurazioni relazionali diversi. L’importanza di una visione a due persone piuttosto che una fa sì che non sia il paziente in quanto oggetto ma la relazione tra paziente e terapeuta il focus della terapia, in cui quest’ultimo è compartecipe e non osservatore. Proprio per questo ogni formulazione è il risultato di una continua esplorazione a due, nel qui e ora, in cui tutti e due i partecipanti riconoscono il proprio contributo. Per questo motivo la relazione terapeutica non si differenzia da altri tipi di relazioni interpersonali in cui due individui si influenzano costantemente l’un l’altro, sia a livello conscio che a livello inconscio.

Credo che ciò che rende davvero speciale questo testo non sia soltanto la prescrizione di cosa fare (la seconda parte del testo, infatti si concentra sulle rotture dell’alleanza e sulle riparazioni di esse) unitamente al focus agli aspetti di fiducia, apertura e validazione. Quello che rende particolare Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica è l’attenzione agli aspetti relazionali del nostro lavoro senza dimenticarsi dell’importanza della teoria e della tecnica, appunto. Safran e Muran ci aiutano ad essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

Un mio collega ha definito alcune parti di questo libro “rilassanti”. Io ho subito pensato che le ho trovate “rassicuranti”. L’immagine del terapeuta limpido, chiaro, accessibile, sincero sembra così lontano dalla realtà nell’immaginario collettivo. Invece, nonostante le intrinseche difficoltà e complessità umane, è possibile, auspicabile e realizzabile.

 

COVID-19: La rivincita degli schizoevitanti

“È timido, tanto, tanto timido!!” ripeteva a mo’ di giustificazione la mia povera nonna che, titolare della mia educazione, riteneva di fare brutta figura per conto terzi a causa del mio scostante sottrarmi ai poliposi abbracci dei parenti, ai bavosi baci di vecchi odorosi di muffa e urina durante la via crucis di dodici stazioni, altrettanti parenti stretti quanto sconosciuti, che seguiva l’arrivo nel paese d’origine per le vacanze estive che allora si chiamavano “villeggiatura” e si intrecciava quasi senza soluzione di continuità con il giro inverso per i commiati che precedevano la partenza.

Il mio divincolarmi dalle strette affettuose accompagnate da gridolini di gioia dello sgradito interlocutore per una ritrovata vicinanza di cui non sentivo alcuna mancanza divenne più deciso e quasi aggressivo quando giunto alle soglie della pubertà, forse a motivo di qualche film, mi feci persuaso che fosse il bacio ad innescare il processo generativo di un figlio. Da allora misi a punto numerose tecniche per me anticoncezionali consistenti soprattutto in un rapido spostamento dell’asse cranico in modo che il bacio mancasse il bersaglio della guancia e finisse confusamente tra i capelli o su un orecchio dove, a mio avviso, perdeva gran parte della sua potenza procreativa.

Anche con mio padre credo di aver trascorso un’esistenza a contatto l’uno dell’altro con continui scambi di informazioni ininfluenti (comunicazioni di servizio) senza sapere niente io di lui ne lui di me a parte i fatti esteriori che accadevano come in tutte le vite. Credo, ad esempio, che fosse orgoglioso di me e riconoscente per avergli risparmiato imbarazzo quando in una prenatalizia domenica romana di inizio dicembre, sdraiati sul lettone matrimoniale con il sole che faceva danzare la polvere nell’aria in moti ascendenti, piccoli vortici e cascate discendenti di pulviscolo, mi mise al corrente che non era il nonno del paese ad essere stato male quanto piuttosto sua figlia, mia madre, ad essere morta quindici giorni prima.

Poi basta non se ne parlò più. Che altro c’era da dire?

Alle elementari e alle medie degli altri avevo paura e non credo fosse per il timore del giudizio ma semplicemente per un’irriducibile alterità, come se tutti avessero seguito un corso su come stare “normalmente” insieme, corso al quale io ero stato assente ingiustificato (forse perché preso con la strana vicenda di mia madre, mi dicevo sapendo che era solo una giustificazione ed il defekt molto precedente e profondamente iscritto nel mio stare al mondo). Guardavo gli altri con incredulità e invidia la facilità con cui si relazionavano come se avessero un copione comune ben collaudato da numerose prove. Un accordo segreto da cui io ero escluso e che mi convinsi progressivamente non mi interessasse con quella sprezzante superiorità mostrata dalla volpe nei confronti dell’uva.

Poi l’adolescenza con le sue esigenze ormonali mi spinse alla ricerca di compagne ma mai di compagnie tollerate solo perché indispensabili e strumentali all’incontro con l’altro sesso, allora scarsamente accessibile. La ricerca di un essere simile a me col quale stare insieme profondamente (perché di questo ne sentivo il bisogno) senza troppe manifestazioni di vicinanza ha impegnato un tempo lungo della mia vita e implicato numerosi fallimenti, illusioni fino all’incontro tardivo e insperato con Brunella, così unico e miracoloso da essere financo fecondo di stupenda progenie. La difficoltà paralizzante non si limitava però alle relazioni strette. In ogni ambiente giocavo una parte, un ruolo provato a casa magari davanti allo specchio. Ma anche quando la finzione di scena riscuoteva successo, non vedevo l’ora di struccarmi e ritornare dentro di me dove, si badi bene, non c’era assolutamente nulla se non una indefinita strisciante paura, ancora non saprei definire esattamente di che. E se ora assume la condivisibile forma della paura della morte, un tempo doveva piuttosto essere una inammissibile e vergognosa paura di vivere.

Ho sempre vissuto questa condizione come una diminutio. I veri uomini, pensavo, sono quelli che si danno grandi pacche sulle spalle, si strizzano le palle per salutarsi, sbattono rumorosamente le bottiglie di birra per brindare alla loro amicizia, ruttano cavernosamente e con la loro voce alta e il tono sicuro e definitorio orientano verso di loro tutti gli astanti. Maschi alfa in technicolor e dolby surround. Insomma i “compagnoni”, i “buontemponi”, gli “estroversi”, quelli “adatti ad ogni ambiente”, gli “animatori naturali”. Il vantaggio a essere così anche da un punto di vista evolutivo è evidente. Più relazioni, più amicizie e conoscenze, più storie affettive e, in conclusione più progenie. Con il risultato che il gene 41ipersoc, responsabile di tutto ciò una sequenza di 27 aminoacidi posta in coda al cromosoma 9 è andato proliferando divenendo la normalità statistica e auspicata al punto che, come ho scoperto molto più tardi a motivo del mio mestiere, chi non è così è considerato portatore di un disturbo. Il cosiddetto “disturbo evitante di personalità” se si fa fatica a stare con gli altri perché non si sa come farlo e si teme un giudizio negativo di goffagine (costoro perlomeno possono vantare, in tempi di buonismo, questo timore del giudizio altrui come prova di un interesse, per quanto celato e controproducente, nei confronti dell’altro) oppure, peggio, il cosiddetto “disturbo schizoide di personalità” in cui l’altro è semplicemente “ non pervenuto”, “insignificante” e ciò non provoca alcun dolore o carenza. Non c’è ed è normale che non ci sia, senza colpe né rimpianti.

Ma la storia dell’evoluzione naturale della specie con la lezione di Darwin ci ha insegnato che un comportamento non è buono o cattivo in sé ma lo è sempre relativamente ad un ambiente e alla pressione selettiva che questo esercita sul singolo individuo aumentando o diminuendo la sua fitness riproduttiva. Classico l’esempio della microcitemia che si è selezionata nelle zone malariche perché i piccoli globuli rossi che la caratterizzano sono resistenti a questa malattia. Ora da poco tempo è sceso in campo un nuovo protagonista a modificare l’ambiente scavalcando in poche settimane la povera Greta e gli orsi bianchi timorosi di muoversi su lastre di ghiaccio sempre più sottili, il COVID-19. Se non ci sarà qualche brillante ricercatore italiano che fuggito anni fa da un destino di precario portaborse e ora, guarda caso il cervello in fuga dove ha attecchito, al vertice del più importante laboratorio mondiale di ricerca sui vaccini che tiri fuori il coniglio dal cappello e ci cavi dai guai e, invece si lascerà lavorare in pace e a lungo il nuovo selettore, almeno il tempo di una generazione ma per sicurezza anche mezzo secolo, gli scenari cambieranno radicalmente. Le fosse comuni si riempiranno dei professionisti di aperitivi, apericene, vernissage, e party in genere. I fanatici delle rimpatriate varcheranno sottobraccio e a passo spedito le porte dell’Ade.  Le lunghe chiassose tavolate di amici brindanti a Natale, a capodanno, a un matrimonio o a un compleanno sprofonderanno nel buio silenzio dove si odono solo lamenti e stridore di denti.

Sul principio anche noi schizoevitanti saremo un po’ disorientati. Da chi nascondersi ora? Da chi fuggire? Quale pace ricercare ora che tutto è in pace e il chiasso non è che un’eco lontana dei terribili passati “tempi allegri e spensierati”. Poi piano piano verremo fuori dai nostri rifugi anti-umani a prova di emozioni ormai inutili e, ancora schiavi di qualche tardivo spruzzo ormonale torneremo ad accoppiarci, magari sempre con la testa voltata a evitare il bacio e qualche parola intima nell’orecchio. La rimonta riproduttiva sarà implacabile e rigorosamente condotta dalla posizione a tergo mentre l’oscenamente intima posizione vis a vis con gli occhi, specchi dell’anima, negli occhi, sarà bandita e giudicati sospetti i suoi cultori.

Così nel giro di tre o quattro generazioni (se fossimo rapidi come i batteri basterebbe un giorno) il gene 41ipersoc  batterà in ritirata e le nursery traboccheranno di compostissimi neonati appartati nelle loro culle a debita distanza gli uni dagli altri. Essere solitari, riservati, refrattari al contatto fisico e all’allegria da osteria o al savoir faire da occasione mondana sarà la norma e il modello da additare alle nuove generazioni e finalmente ad essere oggetto di diagnosi, che so potrebbe essere “disturbo appiccicoso o ciarliero di personalità”, oppure “intimismo parossistico” saranno quelli che abbiamo sempre invidiato. Perchè la verità si decide a maggioranza e adesso siamo saldamente noi.

Mindfulness e disabilità intellettiva

Non esiste un modello psicopatologico chiaro ed esaustivo della disabilità intellettiva, infatti, si possono presentare differenti profili cognitivi e problematiche in aree di vita molto diverse, formando un quadro eterogeneo all’interno di una stessa condizione. Quali benefici può portare la pratica della mindfulness alle persone con disabilità intellettiva?

Fabiola Caruso – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La disabilità intellettiva

In ambito clinico, sociosanitario e scientifico il termine “ritardo mentale” è stato ampiamente sostituito dal termine “disabilità intellettiva” che nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM-5) è ora l’equivalente di “disturbi dello sviluppo intellettivo”, adottato nella bozza dell’ICD-11. Il DSM-5 non associa a tale termine l’aggettivo “evolutiva” al fine di comprendere in questa condizione anche le disabilità intellettive acquisite, ad esempio derivanti da un trauma cranico durante il periodo di sviluppo.

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) è un disturbo con esordio in età evolutiva e comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici. Il funzionamento intellettivo si riferisce alle capacità mentali generali, come il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dall’esperienza. Il funzionamento adattivo fa riferimento all’efficacia con cui i soggetti fanno fronte alle esigenze più comuni della vita quotidiana e al grado di adeguamento agli standard di autonomia personale previsti per la loro particolare fascia di età, retroterra socioculturale e contesto ambientale: svolgere le attività di vita quotidiana, saper comunicare, essere in grado di partecipare alla vita sociale, essere in grado di vivere in modo indipendente. Il funzionamento adattivo andrà verificato, in base all’età, nel contesto familiare, scolastico, lavorativo e comunicativo.

In base al grado di compromissione, possiamo inquadrare quattro livelli di gravità (lieve, moderato, grave ed estremo). I quattro livelli di gravità andranno valutati per ognuno di questi tre domini:

  1. Dominio concettuale: comprende competenze linguistiche, abilità di lettura, scrittura, matematica, ragionamento, memoria e anche conoscenze generiche.
  2. Dominio sociale: riguarda la capacità empatica, il giudizio sociale e interpersonale, la capacità di comunicazione, la capacità di fare e mantenere amicizie e capacità similari.
  3. Dominio pratico: concerne la gestione di ambiti personali come il sapersi prendere cura di se stessi, la responsabilità sul lavoro, la gestione del denaro o le attività svolte nel tempo libero. Si include anche l’aspetto organizzativo della scuola e dei compiti di lavoro.

Ritardo mentale lieve

La disabilità intellettiva di grado lieve costituisce la parte più ampia (circa l’83-85%) dei soggetti affetti da ritardo mentale. Il ritardo mentale lieve nei bambini non è immediatamente evidente. Questi bambini tipicamente sviluppano capacità sociali e comunicative negli anni prescolastici (da 0 a 5 anni di età), hanno una compromissione minima nelle aree senso-motorie e spesso non sono distinguibili dai bambini senza disabilità fino all’ingresso nella scuola primaria. Prima dei 20 anni possono acquisire capacità scolastiche corrispondenti all’incirca alla quinta classe primaria. Al termine dei percorso scolastico (14-16 anni) possono raggiungere un’età mentale compresa tra gli 8 e gli 11 anni e delle competenze cognitive tipiche della fase dell’intelligenza operatoria concreta. Durante l’età adulta, di solito acquisiscono capacità sociali e occupazionali adeguate per un livello minimo di auto sostentamento, ma possono aver bisogno di appoggio, di guida e di assistenza, specie quando sono sottoposti a stress sociali o economici inusuali.

Ritardo mentale moderato

La disabilità intellettiva di grado moderato costituisce circa il 10-14% dell’intera popolazione di soggetti con disabilità intellettiva. La maggior parte dei bambini con ritardo mentale moderato acquisisce il linguaggio e le abilità prescolastiche molto lentamente. Possono beneficiare dell’addestramento alle attività sociali e lavorative, ma difficilmente progrediscono oltre il livello della seconda classe primaria nelle materie scolastiche. Al termine dell’iter evolutivo possono acquisire un’organizzazione cognitiva tra i 4 i 7 anni (non arrivano cioè all’intelligenza operatoria concreta). Possono imparare a spostarsi da soli in luoghi familiari. Durante l’adolescenza, le loro difficoltà nel riconoscere le convenzioni sociali possono interferire nelle relazioni con i coetanei. Nell’età adulta, la maggior parte riesce a svolgere lavori non specializzati, sotto supervisione, in ambienti di lavoro protetti.

Ritardo mentale grave

La disabilità intellettiva di grado grave costituisce il 3-4% dei soggetti con ritardo mentale. Durante la prima fanciullezza questi soggetti acquisiscono un livello minimo di linguaggio comunicativo; i limiti coinvolgono il lessico e la costruzione della frase: la produzione verbale è costituita prevalentemente da singole parole o frasi semplici. Durante il periodo scolastico possono imparare a parlare e possono essere addestrati alle attività elementari di cura della propria persona. Essi traggono un beneficio limitato dall’insegnamento delle materie scolastiche, come familiarizzare con l’alfabeto e svolgere semplici operazioni aritmetiche, ma possono acquisire capacità quali imparare a riconoscere a vista alcune parole per le necessità elementari. Nell’età adulta possono essere in grado di svolgere compiti semplici in ambienti altamente protetti. Possono essere presenti comportamento autolesivi e di disadattamento. La maggior parte di essi si adatta bene alla vita in comunità o con la propria famiglia, a meno che non abbia una disabilità associata che richieda assistenza specializzata o altre cure.

Ritardo mentale gravissimo

La disabilità intellettiva di grado profondo o estremo costituisce circa l’1-2% dei soggetti con ritardo mentale. La maggior parte di chi presenta questa diagnosi di ritardo mentale ha una condizione neurologica diagnosticata che spiega il disturbo. Durante la prima infanzia, mostrano considerevole compromissione del funzionamento senso-motorio. Le abilità concettuali in genere si riferiscono al mondo fisico piuttosto che ai processi simbolici. L’individuo può usare gli oggetti in modo finalizzato per la cura personale, il lavoro e lo svago. Ha una comprensione molto limitata della comunicazione simbolica nell’eloquio o nella gestualità. Può comprendere alcuni gesti o istruzioni semplici e comunicare attraverso il non verbale. L’individuo è dipendente dagli altri in ogni aspetto della cura fisica, della salute e della sicurezza quotidiane, sebbene possa essere in grado di partecipare ad alcune di queste attività. Alcuni possono svolgere compiti semplici in ambienti altamente controllati e protetti. Possono essere presenti, in una piccola parte di questi soggetti, comportamenti disadattivi.

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) si associa frequentemente a malattie psichiatriche, la cui incidenza è superiore di tre-quattro volte rispetto al resto della popolazione. I disturbi che si verificano più frequentemente in associazione con ritardo mentale (disabilità intellettiva) includono il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbi d’ansia, i disturbi dello spettro autistico, il disturbo da movimento stereotipato e i disturbi da controllo degli impulsi. Anche il disturbo depressivo maggiore può essere diagnostico, indipendentemente dal livello di gravità.

Non esiste un modello psicopatologico chiaro ed esaustivo del ritardo mentale (disabilità intellettiva). Nel ritardo mentale (disabilità intellettiva) vari fattori psicologici, fisici e sociali influiscono sullo sviluppo della personalità e persone con lo stesso quoziente intellettivo possono presentare differenti profili cognitivi e problematiche in aree di vita molto diverse, formando quindi un quadro eterogeneo all’interno di una stessa condizione, con punti di forza e di debolezza specifici per ogni individuo.

Terapia del ritardo mentale (disabilità intellettiva)

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) necessita spesso di un trattamento medico e farmacologico perché è frequentemente associato ad alterazioni neurologiche e somatiche. La riabilitazione nel ritardo mentale di tipo cognitivo, invece, ha l’obiettivo di introdurre e/o rinforzare quelle abilità che a causa dell’handicap non si sono sviluppate e consolidate spontaneamente: capacità attentive, linguaggio, apprendimenti e abilità che favoriscano l’autonomia. Nel trattamento di persone con questa condizione risultano particolarmente utili tecniche cognitive e comportamentali, quali l’analisi funzionale, il rinforzo positivo, l’estinzione, il problem-solving, il training di auto-istruzione, la token economy, il chaining, il prompting e altre. Unitamente alla riabilitazione cognitiva si considerano ulteriori variabili relative alla personalità quali motivazione, concetto di sé, temperamento, elementi di comunicazione, influenze familiari e fattori ambientali. Nelle persone con disabilità intellettiva la capacità di auto riferire i propri stati emotivi e l’orientamento del focus sulle risorse della persona, e non sui suoi deficit, promuove un cambiamento positivo.

Centro Socio Educativo “San Damiano” e la pratica Mindfulness

Il Centro Socio Educativo Comunale “San Damiano” di Termoli (CB) è una struttura gestita dalla cooperativa SIRIO che accoglie persone con disabilità intellettiva dai 18 ai 65 anni di età, fornendo interventi a carattere educativo, facilitando l’integrazione sociale ed il processo di crescita globale, attraverso il mantenimento e/o il potenziamento delle abilità residue e/o l’acquisizione di nuove abilità, mirando al miglioramento qualità della vita. La struttura ospita attualmente 18 persone, il gruppo di utenti comprende persone affette da Sindrome di Down, disabilità intellettiva lieve, moderata e grave.

Nella struttura opera un’equipe multidisciplinare che si occupa di ideare, organizzare e rimodulare tutte le attività, realizzando i Piani Educativi Personalizzati basati sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), strumento utile alla valutazione delle capacità e potenzialità dei singoli utenti. L’ICF è una classificazione che fa parte della più ampia famiglia delle Classificazioni Internazionali dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e mira a descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere tutte quelle difficoltà che nel contesto di riferimento possono causare difficoltà. L’equipe di lavoro, durante le osservazioni sistematiche, ha notato che la maggior parte degli utenti non dedicava tempo all’auto- osservazione, per questo è stata proposta come attività la mindfulness.

Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo che coltiva la capacità di portare attenzione al momento presente, consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987). Per far approcciare alla mindfulness gli utenti del centro socio educativo si è pensato di strutturare il laboratorio esperienziale seguendo le indicazioni del libro di Ennio Preziosi, Corso di meditazione di mindfulness. Conosco, conduco, calmo il mio pensare, un manuale di auto aiuto che guida alla pratica mindfulness attraverso un percorso di otto settimane di meditazione guidata.

Il primo esercizio è quello della meditazione sul corpo o body scan. Gli utenti si sono allenati alla meditazione, cogliendo le sensazioni che vengono spontaneamente dal corpo, osservando i pensieri che li distraggono, cominciando ad imparare a distanziarsi dai pensieri e a non percepirli come fatti, riconoscendo e differenziando le emozioni e le componenti corporee. Il corso continua poi con una settimana di meditazione sul respiro e una settimana di meditazione sul respiro di tre minuti. Queste pratiche favoriscono il passaggio dalla modalità del fare alla modalità dell’essere, modalità di attenzione non giudicante (osservo i pensieri, non vi reagisco) e di presenza mentale (osservo ciò che c’è e ciò che ho). La quarta settimana è il momento di esercitarsi a guidare l’attenzione sul respiro, sui pensieri, sul corpo o sui suoni, per ricordarci l’importanza della presenza mentale, o come viene chiamata della modalità on-line, contrapposta al pilota automatico, in ogni istante della nostra esistenza. Il corso prosegue con la meditazione in movimento, la meditazione camminata e la meditazione dell’uvetta. La meditazione della montagna, infine, è una tecnica di visualizzazione che conferisce un forte senso di stabilità e di fermezza, che aiuta a essere pronti di fronte alle turbolenze esistenziali.

Dall’esperienza di meditazione introdotta in un centro socio educativo, l’equipe di lavoro ne ha tratto molteplici informazioni che riguardano il modo in cui ogni utente si percepisce, le capacità o l’assenza di capacità per quanto riguarda l’automonitoraggio, il riconoscimento delle emozioni e la concentrazione. Gli utenti si sono mostrati molto motivati alla pratica mindfulness, percependo una sensazione di rilassamento e richiedendo la continuazione della pratica mindfulness. Per la continuazione dell’attività esperienziale è stata utilizzata un applicazione per dispositivi android denominata “Insight Timer” che mette a disposizione tantissime audio tracce per praticare mindfulness e l’attività è stata protratta fino al periodo estivo in riva al mare.

Questa esperienza vuol rappresentare un punto di partenza per l’introduzione nei centri socio educativi, per persone con disabilità intellettiva, delle pratiche non incentrate sul fare ma sull’essere, qualitativamente importanti per tutti.

 

Gli atteggiamenti verso l’eutanasia

L’eutanasia è sempre stata una questione molto dibattuta, oggetto di discussioni e riflessioni. Questo tema ha una grande importanza morale, sociale e giuridica. Quali sono i fattori che concorrono nell’orientare l’atteggiamento verso questa pratica?

 

Introduzione

Per eutanasia si intende qualsiasi pratica volta a porre fine alla vita di un individuo, la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Il termine viene dal greco “buona morte” e, nella pratica, indica semplicemente un modo per aiutare a morire in modo indolore persone che ritengono che la qualità della loro vita sia inaccettabile a causa di un malessere fisico o psicologico di grave entità.

Si tratta di un argomento molto discusso e combattuto, c’è chi è favorevole e chi è contrario. La diversità di opinioni ha reso rilevante l’analisi degli atteggiamenti collegati a questo tema. Infatti, gli atteggiamenti nei confronti dell’eutanasia sono importanti dal punto di vista sociale, in quanto si presentano in stretta relazione con il tipo di società e cultura proprie dell’epoca. L’eutanasia è un argomento molto discusso a livello sociale, anche perché riflette un conflitto giuridico: in molti Paesi i cittadini fanno domanda di legalizzazione e in altrettanti viene rigettata questa possibilità. Ricordiamo quindi che, per quanto riguarda l’Europa, l’eutanasia è legale solo in Olanda, Lussemburgo e Belgio.

Analizzando gli atteggiamenti verso l’eutanasia, bisogna anche considerare l’individuo che detiene questi atteggiamenti. Sono state riscontrate, infatti, differenze tra atteggiamenti di medici, infermieri e familiari, vale a dire le persone più coinvolte nella decisione e nella pratica dell’eutanasia o, comunque, quelle più a stretto contatto con essa e con i pazienti che la richiedono (Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout, & Heintz, 2003; Vézina-Im, Lavoie, Krol & Olivier-D’Avignon, 2014). E’ necessario anche valutare i fattori che influenzano la formazione di un atteggiamento positivo o negativo verso questo delicato tema, tra cui troviamo le caratteristiche socio-demografiche, il paese di appartenenza e la religione (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019; Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout & Heintz, 2003).

Oltre a questi fattori si considera, nell’analisi della formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia, il ruolo della persuasione, attuata attraverso i mass media, che fa leva sulle credenze etiche e morali dell’individuo. Infatti, come sostiene il modello di probabilità dell’elaborazione di Petty e Cacioppo (1983), un individuo è motivato ad elaborare il messaggio persuasivo quando esso porta ad un cambiamento di atteggiamento corretto (Maio, Haddock & Verplanken, 2018).

Discussione

Per quanto riguarda gli atteggiamenti verso l’eutanasia delle persone coinvolte in questa pratica, bisogna considerare le figure dei medici e delle infermiere, che sono coloro a cui viene spesso fatta la richiesta diretta di morte da parte dei pazienti. Queste figure non sono particolarmente influenzate da fattori come la religione, le credenze sulle conseguenze, il ruolo o le norme morali, ma risultano avere un atteggiamento più favorevole alla pratica dell’eutanasia quando si tratta di pazienti con breve aspettativa di vita, senza sintomi depressivi e che hanno posto una richiesta esplicita di morte (Vézina-Im et al., 2014). Inoltre, risulta che i medici sono influenzati anche da ulteriori fattori individuali, come il settore medico in cui praticano, il numero di pazienti terminale che si sono trovati a curare negli ultimi 12 mesi e gli anni di esperienza; per cui, chi si trova in un reparto con più di 12 pazienti terminali all’anno ed ha più di 6 anni di esperienza lavorativa ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia (Miccinesi et al., 2005; Vézina-Im et al., 2014). Al contrario, per quanto riguarda gli infermieri, gli anni di esperienza hanno un’influenza nella direzione inversa del continuum valutativo dell’atteggiamento, infatti, infermieri con più di 6 anni di esperienza mostrano atteggiamenti più favorevoli verso l’eutanasia (Vézina-Im et al., 2014).

Per quanto riguarda i familiari, è stato svolto uno studio in cui risulta che i familiari di pazienti affetti da cancro morti attraverso l’eutanasia mostrano in modo significativo meno sintomi traumatici, sentimenti di dolore e reazioni da stress post-traumatico rispetto ai familiari di pazienti morti per cause naturali. Questo effetto viene attribuito al fatto di avere la possibilità di salutare il proprio caro, così da poter accettare la situazione in modo più sereno (Swarte et al., 2003).

Trattando gli atteggiamenti è importante analizzare quali sono i fattori che ne influenzano la direzione e la forza; per quanto riguarda la formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia essa risulta influenzata dalla religione, dalle caratteristiche socio-demografiche e dal paese di appartenenza.

Infatti, una delle ragioni di tensioni e conflitti tra credenti, atei e gruppi religiosi riguarda la questione di chi abbia la legittimità di stabilire la fine dell’esistenza; in quest’ambito si possono differenziare i vari tipi di religioni e le varie credenze individuali rispetto ai dogmi della propria religione. All’interno del cristianesimo la chiesa cattolica e ortodossa si pongono nettamente contro l’eutanasia, mentre i protestanti sono più favorevoli; per quanto riguarda il buddismo, esso accetta l’eutanasia in casi particolati (Shin, Lee, Kim, Nam & Seh, 1995). Anche la frequenza con cui ci si reca in chiesa e l’interpretazione della Bibbia influenzano la formazione degli atteggiamenti; infatti, da uno studio di Sharp (2019) risulta che chi pratica con frequenza e ritiene che la Bibbia sia la reale parola di Dio, e non solo un’ispirazione ad essa, ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche socio-demografiche, si analizza l’età, il genere, l’etnia e il livello di scolarizzazione. Risulta che l’età ha una correlazione inversa con la positività dell’atteggiamento verso l’eutanasia, che le donne sono meno favorevoli degli uomini, che le persone di colore hanno un atteggiamento più negativo rispetto ai caucasici e che il livello di scolarizzazione è direttamente proporzionale alla positività dell’atteggiamento (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019).

L’influenza del paese di appartenenza nella formazione dell’atteggiamento è importante sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista culturale. In un progetto collaborativo europeo, EURELD, vengono misurati gli atteggiamenti verso l’eutanasia di medici del Belgio, Danimarca, Italia, Olanda, Svizzera e Svezia. Risulta che l’Italia è il paese più conservativo, seguito dalla Svezia; l’Olanda è il paese che più supporta l’eutanasia, seguito dal Belgio; la Danimarca e la Svizzera si trovano ad avere un atteggiamento tra i due estremi (Miccinesi et al., 2005). Tenendo conto che lo studio è stato fatto nel 2005 (quando ancora l’eutanasia non era legale in nessun paese europeo, ma si erano solo presentate delle proposte riguardo la legalizzazione in Olanda e Belgio), i risultati dello studio portano a concludere che il paese di appartenenza sia un forte predittore dell’atteggiamento per quanto riguarda i suoi aspetti culturali e sociali al di là della situazione legislativa.

Infine, è stato analizzato il ruolo della persuasione, date le varie campagne promozionali a favore o contro la legalizzazione dell’eutanasia. Essendo l’eutanasia una questione morale risulta importante che nel messaggio persuasivo sia sottolineata la correttezza dell’atteggiamento, che risulta essere basilare per la motivazione all’elaborazione del messaggio (Petty e Cacioppo, 1983).

D’Aprile e Pensieri (2018) hanno voluto analizzare come sono stati riportati i dati relativi alla vicenda di Dj Fabo, andato in Svizzera per ottenere un suicidio assistito, concludendo che:

In molte testate giornalistiche si è creato un forte impatto emotivo attraverso l’uso prevalente di alcune parole, passando dall’analisi oggettiva della morte realizzata con un suicidio assistito al vissuto di un sentimento di pietà e di solidarietà, in questo modo è venuta meno la possibilità di una valutazione etica di ciò che si definisce eutanasia.

Si può quindi notare come la trasmissione delle notizie possa influenzare gli atteggiamenti, quando vengono usate tecniche persuasive; in questo caso riferito da D’Aprile e Pensieri viene usato il principio secondo cui appelli persuasivi che si focalizzano sulla componente (cognitiva, emotiva o comportamentale) dominante del contenuto dell’atteggiamento hanno un’influenza maggiore nel cambiamento dell’atteggiamento (Maio, Haddock & Verplanken, 2018), infatti essendo l’atteggiamento verso l’eutanasia di base emotiva sono state usate parole nei titoli di giornale, riguardanti la questione, che provocassero un forte impatto emotivo.

Conclusione

L’eutanasia risulta quindi essere una questione molto dibattuta e di importanza morale e giuridica, su cui le persone si formano atteggiamenti molto diversi. Questa diversità degli atteggiamenti è data, a livello individuale, sia dalla rilevanza personale che assume questo argomento, sia da fattori socio-demografici come l’etnia, l’età, il genere e la scolarizzazione; risulta esserci una diversità di atteggiamento anche in base alla cultura e alla società di appartenenza. Infine, è risultato che si ha un forte impatto dei mass media sulla formazione e cambiamento degli atteggiamenti verso l’eutanasia.

 

La violenza spettacolarizzata. Il crimine e l’impatto psicologico della comunicazione (2019) di C. Dambone – Recensione

La violenza spettacolarizzata offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo dal significato di comunicazione e persuasione e proseguendo con la descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

 

Zac Efron era l’idolo delle mie sorelle quando era il bel Troy in High School Musical. Era un divo, una star. Uno di quegli amori adolescenziali che ti porti dietro per anni. Per il film del 2019 sul criminale Ted Bundy, che uccise circa 30 donne, scelsero lui per interpretarlo. Critiche e polemiche sul web: è troppo bello, troppo affascinante, era il ragazzo che ogni bambina desiderava. La sua bellezza poteva offuscare le atrocità avvenute. Si potevano confondere le menti degli spettatori. Effettivamente Bundy incantò il pubblico e, non a caso, in Italia il film è stato intitolato Ted Bundy fascino criminale. Ma oggi, secondo le opinioni di molti, quel criminale non doveva affascinare. Bundy doveva essere riconosciuto come mostro. E i mostri si sa, non possono essere belli. Il pubblico non deve essere attratto dal male, deve averne paura.

I mezzi di comunicazione possono incentivare o meno un pensiero, direzionare opinioni e azioni, creare false aspettative e, non ultimo, instillare o meno paure. Dietro questi strumenti ci sono persone esperte del settore nel creare ciò che la committenza richiede: “il pubblico deve temere questo personaggio”, “le persone devono credere a questa determinata cosa” e così via.

Il testo di Dambone, La violenza spettacolarizzata, ci offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo da un’analisi sul significato di comunicazione e persuasione, proseguendo poi alla descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

Il libro vuole restituire una spiegazione documentata di come stanno “realmente” le cose, scardinando pregiudizi e false informazioni su tematiche quali lo stalking, il femminicidio, la devianza minorile.

Lo stalking è quello rappresentato dalla serie You?  Il bullismo o cyberbullismo è ben descritto in Tredici? Il lavoro sulle prove scientifiche è simile a ciò che fanno gli agenti di CSI – scena del crimine? Gli immigrati nei centri di accoglienza quanto denaro prendono effettivamente al giorno?

Leggendo il capitolo sull’immigrazione mi sono ricordata di una serata a cena con conoscenti. Avevamo preso il discorso (delicato) sugli immigrati in Italia e sul loro “costo”. Si parlava dei famosi 35 euro giornalieri, cifra che ogni tanto gira sui social e simili. Ho cercato invano di smontare le informazioni errate su cui un commensale si era accanito, ma non c’è stato nulla da fare. Eppure ho lavorato in una casa famiglia per anni. A quanto pare in quella occasione non ricoprivo il ruolo di opinion leader. In effetti non ero portatrice di un messaggio dei media, ma testimone reale di un fatto. Il mio interlocutore parlava di una realtà non vissuta in prima persona, ma le sue convinzioni erano così radicate da non essere scalfite da un’informazione veritiera e non mediata. È proprio vero: tv “cattiva maestra”.

Il testo di Dambone ci aiuta a riflettere ampliando la nostra capacità di discernimento. Ci spiega come vengono ripartiti questi 35 euro, si sofferma a raccontare la storia della criminalità mafiosa e poi, nello stesso modo puntuale, ci spiega cosa sentono gli adolescenti e a quali pericoli sono esposti.

Capitolo interessantissimo è quello sulla vendetta e il perdono. Per-donare significa offrire un dono enorme: restituire la vita. Il perdono può ricreare relazioni, può placare i tormenti di entrambe le parti, vittima e carnefice, restituisce la pace necessaria ad andare avanti. Perdonare non significa dimenticare o giustificare, ma essere liberi.

E la libertà ci è offerta anche dalla conoscenza. L’ignoranza e la mancanza di interesse nello studiare e comprendere determinate dinamiche e persone fa sì che i media abbiano più presa sulle nostre menti. Le cose non sono sempre così lineari come spesso vogliono farci credere.

Davanti ad un piatto di paccheri al ragù bianco e carciofi i miei amici, all’unisono, mi dicono: “ma dai Ele c’è la carne, che vuoi metterci? Vino rosso, ovvio!”. E invece, quelle che sembravano certezze, possono vacillare. Capisci che dietro ad un semplice abbinamento cibo-vino c’è un mondo di riflessioni e studio analitico. La tendenza dolce del carciofo e la grassezza della carne vogliono un vino fresco (in termini di acidi percepiti) ma anche sapido; inoltre è necessario un vino con una buona persistenza gusto-olfattiva per l’aromaticità e la speziatura del cibo, ma anche con una buona alcolicità per smorzare l’eventuale untuosità del piatto. E viene fuori un Frascati Superiore Riserva DOCG. Un bianco. Che scoperta magnifica. I tannini del vino rosso avrebbero aumentato la sensazione amaricante del carciofo, spesso spiacevole in bocca. Il sapere ha “salvato” la serata.

Quante cose su cui riflettere per un pranzo, no? Immaginate per tematiche più serie. Immaginate per un caso di femminicidio, per abusi sui minori, per la violenza nelle scuole. Immaginate di voler comprendere cosa sia successo, immaginate di dover capire come prevenire eventuali problemi o come gestirli quando presenti. È sufficiente vedere qualche programma TV? Leggere un unico punto di vista? Sentire l’opinione del primo politico di turno?

Il testo di Dambone può essere un buon punto di partenza per informarci e mettere in discussione il nostro sapere. Regalandoci un quadro generale, chiaro e semplice, ci aiuta a non farci più confondere da quelle che sembrano verità assolute sul tema della violenza e ci permette di riflettere per filtrare in modo adeguato ciò che ascoltiamo e vediamo. Ponderiamo e mettiamo in dubbio per non farci più ingannare dalle “faccia da bravo ragazzo” e dal fascino intramontabile dei divi di Hollywood.

 

Il pregiudizio in Italia sulle coppie genitoriali dello stesso sesso: uno studio esplorativo

Il ‘same-sex parenting’ si riferisce sia a quelle situazioni familiari nelle quali è presente un solo genitore omosessuale sia a quelle in cui vi siano due genitori dello stesso sesso all’interno dell’unità familiare (Eleutereri et al. 2012).

 

Recentemente, diversi studi sull’omogenitorialità hanno dimostrato che non ci sono differenze rilevanti nello sviluppo e nella crescita dei figli di coppie omosessuali rispetto ai bambini allevati da coppie eterosessuali (Qu et al. 2016) e che l’identità sessuale di questi ultimi non è condizionata dall’orientamento genitoriale (Knight et al. 2017). Anche gli studi effettuati per valutare il benessere psicologico dei figli di coppie omosessuali hanno evidenziato che non sussistono sostanziali differenze rispetto alle famiglie con genitori eterosessuali (Gartell et al., 2005; Patterson, 2006) e che l’orientamento sessuale non influenza le capacità genitoriali (Pacilli & Taurino 2009).

Nel panorama italiano stiamo vivendo una fase di cambiamento sulla regolamentazione legale delle coppie genitoriali dello stesso sesso. Seppur attualmente vi siano sentenze che non riconoscono un bambino con due padri (sentenza della Corte di cassazione 12193), altre sentenze giudicano ‘mero pregiudizio’ affermare che un figlio non possa essere cresciuto da genitori omosessuali (sentenza della Corte numero 601). Nonostante l’aria del cambiamento, l’Italia è tutt’ora ancorata a una visione più tradizionale della famiglia, visione dovuta anche all’influenza del pensiero cattolico nel nostro paese: la visione della famiglia e la visione della coppia omosessuale sono ancora due concetti ben distinti nella mentalità italiana (Iudici et al., 2020).

Lo scopo del presente studio era quello di esplorare, in questo periodo di cambiamenti, quali fossero i principali pregiudizi degli italiani sulle famiglie composte da genitori dello stesso sesso e sulle difficoltà affrontate da questi ultimi.

La ricerca è stata condotta tramite l’analisi qualitativa, precisamente utilizzando la tecnica dell’analisi del discorso che si concentra sia su come viene prodotto un testo sia sul punto di vista di colui che lo produce (Bolasco, 1999). Il focus di questo tipo di analisi, nel caso della ricerca in questione, è stato posto sull’interazione tra coloro che avanzano pregiudizi e coloro ne erano ‘vittima’, e sul tentativo di inquadrarle all’interno della cornice storico-culturale italiana.

Sono stati presi in considerazione 88 soggetti omosessuali (51 donne e 37 uomini) tutti facenti parte di una famiglia con almeno un figlio; quattro di loro avevano figli da precedenti relazioni, cresciuti però all’interno della coppia omosessuale, gli altri erano ricorsi alla fecondazione assistita. A tutti loro sono state poste 11 domande incentrate sulla loro vita familiare, sulle difficoltà che avevano incontrato e sui pregiudizi dei quali erano stati vittime. Alcuni esempi di domande erano: ‘Come genitore omosessuale, ci sono delle difficoltà specifiche che hai dovuto affrontare? Se è così, puoi descrivile?’, ‘Come genitore omosessuale, ci sono pregiudizi con cui sei stato confrontato o che pensi possano verificarsi? In tal caso, puoi descriverli?’, ‘Come hai comunicato o come comunicheresti a tuo figlio le differenze di orientamento sessuale?’ (Iudici et al., 2020).

Partendo dalle precedenti domande e analizzando i testi prodotti dalle trascrizioni delle risposte, i ricercatori hanno individuato i principali pregiudizi e le difficoltà riscontrate.

Per quanto riguarda le frasi pregiudizievoli, esse erano rivolte in particolar modo alle differenze con le famiglie più normative (‘Chi si occupa delle faccende da uomo o da donna?’ ‘Se non sei la madre/il padre biologico non sei un vero genitore’) provenienti soprattutto dagli ambienti ecclesiastici e scolastici. Prendendo in considerazione le difficoltà di essere genitori omosessuali, le due aree maggiormente evidenziate erano la difficoltà della mancata accettazione da parte della famiglia di origine e l’impossibilità di essere riconosciuti legalmente come una famiglia (in quanto uno dei due genitori non può essere considerato tale).

Per il rapporto con i figli, ovvero spiegar loro la natura del rapporto genitoriale e come sono venuti al mondo, la maggior parte dei genitori usava libri illustrati o storie personalizzate per bambini dove i protagonisti erano anch’essi facenti parte di una famiglia con genitori dello stesso sesso (Iudici et al., 2020).

I genitori intervistati, hanno più volte interagito con famiglie ‘tradizionali’ scettiche, con maestri e professori poco preparati ad avere nelle loro classi bambini con genitori omosessuali e, talvolta, anche con datori di lavoro giudicanti. Molti di loro hanno riportato che il miglior modo di combattere questi pregiudizi è essere aperti al dialogo e sforzarsi di spostare l’attenzione delle persone, più che sull’orientamento sessuale, sulle capacità genitoriali degli adulti di famiglia.

In conclusione, il nostro paese è ancora ben lontano dal considerare le coppie di genitori omosessuali tanto famiglia quanto quelle con genitori eterosessuali. Tuttavia, gli autori sottolineano come, tramite il dialogo e la progressiva confutazione di pregiudizi e luoghi comuni riguardanti l’omogenitorialità, si possa procedere verso una più moderna e aperta visione della famiglia (Iudici et al., 2020).

 

Care colleghe e colleghi, care allieve e allievi

Questa è una bizzarra newsletter che vi scrivo chiusa in casa. L’impensabile solo due mesi fa è arrivato e occorre affrontarlo con rigore e serietà.  Mi sembra che la società e le persone stiano reagendo nel modo giusto (passeggio sola la sera con i cani e non si vedono più persone intorno a parte i ragazzi di Deliveroo in bicicletta con le lucine che viaggiano solitarie nelle strade, gli unici testimoni di una città deserta).

Noi stiamo facendo sforzi tremendi per trasportare la maggior parte delle lezioni a distanza. Questo ha comportato un grande lavoro del coordinamento, della organizzazione e delle segreterie delle scuole, dell’informatico consulente, ma anche di tutti, didatti e codidatti che si sono visti catapultare in un mondo zoom non del tutto naturale da affrontare. Per alcuni, i più informatizzati, il salto è stato impegnativo ma piccolo, per altri è stato un salto grande e ignoto, e di questo con grande gratitudine e affetto li ringrazio.

E voi state affrontando questa modalità di fare lezione con coraggio e fiducia, i giudizi della lezione sperimentale di Giovanni Maria Ruggiero sono stati rassicuranti. Anche questo è motivo per me di gratitudine e stima verso tutti voi.

Alcune lezioni che non possiamo fare in questa modalità a distanza verranno certamente recuperate tra la prima metà di luglio e la prima metà settembre. Quando il mondo sarà andato avanti e avremo, spero, lasciato il coronavirus indietro.

Il futuro, come sempre quando incontriamo grandi intoppi, sarà un po’ diverso, avremo, alcuni di voi, affrontato nella famiglia timori o malattia, avremo imparato cose nuove, sperimentato programmi nuovi e modi di comunicare imprevedibili, certamente ci saremo arricchiti di informazioni, tenuta emotiva nelle nostre case, fiducia in noi stessi e capacità di affrontare l’ignoto. Esperienze nuove e timori affrontati con coraggio.

Ma soprattutto ci verranno nuove idee sul futuro perché un presente difficile, per mia esperienza, porta sempre nuove idee e nuove sperimentazioni per il futuro.

Vi saluto e vi auguro il primo di una breve ma intensa quantità di weekend con lezioni a distanza, ma non distanti dal progetto formativo che si sta costruendo insieme.

Un saluto a tutti

Sandra Sassaroli

Direttore di Studi Cogniivi

Il corpo in psicologia: riflessioni sull’unità corpo-mente-relazione

Il corpo oggi è al centro della scena del mondo che abitiamo costituendo la base materiale e sociale della nostra esistenza, in quanto luogo dove emerge la nostra soggettività e dove si vanno tessendo le trame della nostra esperienza.

 

Paradossalmente più l’attuale realtà ci offre mezzi per ‘dissociarci’ in qualche modo dal nostro corpo, vedi le dinamiche relative alla vita in rete, specie quella dei social network, più si producono discorsi sull’importanza dello stesso e della comunicazione face to face o, meglio, ‘corpo a corpo’. I social network sono un attuale mezzo di comunicazione che certo offre molti vantaggi, ma tra gli svantaggi che presenta vi è la perdita della relazione e comunicazione ‘vis  vis’.

Questa riflessione è protesa alla caratterizzazione dei significati del corpo, inteso come oggetto complesso ed eterogeneo che articola diversi regimi di senso. Mi riferirò al corpo vivo, organico e attivo per mezzo dell’azione e del movimento: un corpo che agisce, pensa e sente entrando in relazione con altri corpi. Un corpo quindi in perenne trasformazione, per mezzo della relazione con l’ambiente, fisico e sociale. Il mio sguardo sul corpo farà rifermento a tale entità concepita come generatore, interprete e mezzo attraverso cui circola il significato dell’esperienza, la quale, come è ormai risaputo, non sempre è traducibile in termini verbali. Infatti buona parte del ‘saper fare’ si configura come una sorta di conoscenza implicita, un saper fare del corpo che difficilmente si può tradurre verbalmente. Allo stesso modo il resoconto verbale dell’esperienza necessita del non verbale, quindi corporeo, affinché se ne comprenda il senso reale. E’ assodato infatti che la comunicazione non verbale costituisca la sostanza dell’atto comunicativo. Ma per analizzare i significati del corpo bisogna fare i conti con la sua particolare condizione di ‘terra di confine’, che divide e congiunge il mondo interno dal mondo esterno. Questa dimensione del corpo non si riferisce soltanto all’entità corporea in senso stretto in quanto ‘limen’ (in Fisiologia, Psicologia e Psicofisica indica una soglia di risposta entro cui uno stimolo è percettibile; in questo caso è inteso come ‘linea di confine’), ma sopratutto all’ambivalenza, che necessita di una visione dialettica, tra gli stessi significati cui il corpo rimanda. Per spiegare quest’ultimo concetto, mi rifaccio all’Unheimlich Freudiano (1919). Nel saggio Il Perturbante infatti Freud (1919) utilizza questo termine per descrivere qualcosa che ci riguarda da vicino ma che al contempo turba, negandosi ad ogni possibilità di essere definito e compreso. Da una parte, Heim si riferisce a qualcosa di familiare, intimo e confortevole, dall’altra però indica qualcosa di inatteso e nascosto (Freud, 1919). La cosa interessante è che la seconda accezione di Heimlich combacia con il significato del suo negativo, cioè dell’Unheimlich. Heimlich è quindi un termine tanto ambivalente che finisce col coincidere col suo contrario: Unheimlich, con il quale si intende il vissuto di inquietudine dovuta all’incontro con ciò che è estraneo, che diventa turbamento ed angoscia in quanto appartiene al contempo alla sfera intima.

A partire da quest’ultima analisi dunque Freud (1919) osservava che perturbante appariva ciò che costituiva un ritorno del rimosso, e cioè di qualcosa di dimenticato che riaffiora, e dunque di un inconsueto che riappare dopo la cancellazione di qualcosa che era noto, che aveva turbato nell’infanzia. Coerentemente coi suoi principi teorici, Freud (1919) faceva risalire il rimosso individuale a timori riguardanti la sfera sessuale e in particolare il timore dell’evirazione, e non a caso citava come eventi perturbanti situazioni come membra staccate dal corpo, teste mozze o piedi che danzano da soli. E’ interessante notare come Freud (1919) concepisca questo termine e a cosa lo accosti. Tuttavia vedremo in seguito che in realtà lo stesso Unheimlich freudiano viene utilizzato in questo lavoro come espressione di manifestazioni inconsce, ma appartenenti all’Inconscio non rimosso.

Trovo questo concetto calzante in riferimento al corpo ed alla sua natura complessa che lo vede in stretta interdipendenza con la psiche. E’ interessante notare come concependo il corpo a partire da questa visione, si sgretolino in principio i presupposti di una logica dicotomica riduzionista e meccanicista nel tentativo di comprenderlo. Esplorare i significati del corpo infatti esige un pensiero complesso e dinamico. Entrando nel vivo di questa complessità possiamo notare come il corpo non possa essere concepito né in senso assoluto quale ‘cosa naturale’ né solamente come costruito ed investito di senso in relazione al contesto in cui è inserito. Certamente, come premesso, sarà fondamentale in questa riflessione l’aspetto relazionale, che credo funga da link tra una visione più ‘ontologizzante’ del corpo e una costruttivista. Ontologia vuol dire scienza dell’ente, scienza dell’esistente; il termine deriva dal greco οντος, òntos e da λόγος, lògos (discorso), quindi letteralmente significa ‘discorso sull’essere’.

Ontologizzare il corpo vuol dire affermare che esso esiste in modo oggettivo, cioè indipendentemente dal fatto che qualcuno ne costruisca il significato a partire da uno specifico sguardo o per mezzo dell’esperienza nel mondo; quindi il rischio di tale approccio è proprio quello di cercare di definire il corpo in quanto unità avulsa dal contesto e dalle relazioni che intrattiene necessariamente con gli altri corpi. D’altro canto avere una visione strettamente costruttivista, potrebbe indurci a dimenticare che esso è anche materia, dunque che è massa, che occupa uno spazio, ha un tempo, e delle caratteristiche specifiche che sarebbe surreale non considerare per certi aspetti oggettive.

Con visione costruttivista si fa riferimento a una posizione filosofica e epistemologica che considera la nostra rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo. Foucault è uno dei maggiori esponenti della visione costruttivista del corpo; Le opere dove questo tema assume maggiore centralità sono: Naissance de la Clinique (1963), Surveiller et punir (1975) e Histoire de la sexualité (1976).

Il corpo è senza dubbio generatore di senso, ma non bisogna mai dimenticare che possiede una certa fisicità, che ne determina la materia. Come premesso è attraverso uno sguardo relazionale che queste due visioni si incontrano senza scontrarsi, contribuendo ad una comprensione che rende giustizia alla complessa realtà che ci accingiamo a spiegare. Ed è partendo da tale presupposto che il corpo deve essere oggetto di studi psicologici tanto quanto la mente. L’individuo deve essere concepito come Unicum, cioè unità indissolubile mente-corpo-relazione, che peraltro sono in rapporto di interdipendenza.

La gravidanza è l’esempio più immediato e vivido di questo importante concetto: il corpo della donna diventa contenitore di un altro corpo (contenuto), che può crescere e svilupparsi solo per mezzo di una relazione psicobiologica. Certo la gravidanza è l’esempio più vivido dell’unicum corpo-mente-relazione, ma la stretta interdipendenza tra questi tre elementi resta indiscussa per tutto l’arco della vita. Sulla scia di questa immagine e sulla base della consapevolezza che la psiche nasce dal corpo per mezzo di una relazione primaria sana e funzionale a dar senso all’esperienza, è possibile affermare che il corpo sia il luogo dove si sovrappongono le determinanti biologiche, psicologiche e relazionali dell’individuo. Tali determinanti nella loro costante interazione partecipano alla strutturazione della soggettività. Il corpo non cela nulla, ci permette di esprimere l’inesprimibile e dice di noi ciò che vorremmo nascondere. Attraverso un rossore improvviso, lo stress, i sintomi che produce come campanello di allarme e tanti altri segnali, ci costringe a comunicare, ricordandoci che ‘Non si può non comunicare’ – I Assioma della comunicazione (Watzlawick et al., 1972).

Il corpo pertanto si configura così come veicolo principe della comunicazione. Corpo dunque non solo come laboratorio di significati, ma anche come conduttore degli stessi al di là del verbale. In definitiva corpo, come afferma Marsciani (2008), quale ‘luogo delle trasformazioni’.

Questo l’aspetto più teorico di un corpo che concretamente vive e attua le sue funzioni attraverso un corrispettivo neurobiologico dato dall’ormai assodata scoperta che il Sistema Nervoso, il Sistema Endocrino e il Sistema Immunitario siano in rapporto di stretta interdipendenza e in perenne comunicazione. La regia di questa comunicazione è condotta dalle emozioni, presenti e agenti tanto nella mente quanto nel corpo appunto. Alla luce di ciò, considerando che dal cervello dipendono tutte le operazioni mentali, normali e patologiche (Kandel, 2006), pochi restano i dubbi sull’unità bio-psichica dell’individuo, e sulla sua matrice squisitamente relazionale dello stesso.

Per questo motivo non possiamo indagare il corpo a prescindere da noi stessi, perché lo abitiamo e, al tempo stesso, abitano in lui moti fisici di sangue, ossa, organi, che non si esauriscono nella loro descrizione fisiologica ma che creano rimandi e intrecci con la nostra esperienza emozionale e psichica. Quindi la vera differenza non è, come aveva detto Platone, tra anima e corpo, ma, come aveva sostenuto Husserl (1931), tra corpo vivente impegnato in un mondo ed il cadavere ridotto a cosa del mondo (Nannini, 2005).

 

cancel