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La “buona madre” e il mal-essere materno. Una riflessione sugli aspetti negativi della maternità

Il pensiero della Buona Madre ci riporta alla mente, inevitabilmente, quello della Cattiva Madre. Ovvero, l’aspetto ombra di un negativo presente in ognuno di noi, che nella madre assume connotati malefici, proprio in virtù del potere generativo di colei che in quanto dona la vita, non può sopprimerla, tantomeno attraverso l’eliminazione dei suoi stessi figli. Purtroppo, però, la mano della madre è quella che può accogliere, ma è anche quella che può sopprimere.

 

Un figlio si può uccidere in tanti modi, non solo cancellandone la vita, ma anche annientandone la capacità di crescere e di diventare un individuo autonomo e libero di fare le sue scelte. Ci sono madri infatti che soffocano ogni tipo di iniziativa dei figli e li inducono, attraverso i cosiddetti “sensi di colpa” a sentirsi perennemente in debito verso se stesse.

I classici dell’antica Grecia ci offrono l’opportunità di riflettere sull’aspetto malefico materno. La tragedia di Euripide, Medea, la madre che sopprime i propri figli per punire Giasone, il suo sposo, reo di essersi innamorato di un’altra donna. Euripide con la sua maestria nel tratteggiare le emozioni umane, evidenzia solo una delle tante motivazioni alla base del figlicidio. Ci propone la figura di una donna che antepone la gelosia per l’amato e il sentimento di rivalsa verso la rivale all’amore per i suoi figli. Medea, pur tra atroci sofferenze, in modo lucido e premeditato, si arma di lama e sgozza i figli durante il sonno. E’ una donna ferita e accecata dalla gelosia. Vuole condannare l’uomo che ha tradito il suo amore, con la più orrenda delle condanne: non poter più riabbracciare i suoi figli. Avrebbe potuto ucciderlo per vendicarsi, ma lei decide per una punizione perenne, vuole infliggergli una ferita che rimarrà sanguinante per il resto dei suoi giorni, a ricordargli l’onta e la colpa di cui si è macchiato.

La tragedia Euripidea ci mostra la lucida follia di un’ossessione squilibrata, una delle tante modalità malate di agire l’amore e di usarlo per sedare inquietudini e malesseri personali, che nulla hanno a che vedere con questo nobile sentimento. Un gesto che, seppure estremo e dal quale vorremmo prendere le distanze, appartiene a tante coppie che non riescono a gestire in maniera equilibrata i cambiamenti e le difficoltà della vita, ma continuano ad avvelenarsi, imbrigliandosi nelle maglie di rapporti connotati da ostinazioni ossessive e fatali.

In ogni madre c’è una donna, ma non sempre da ogni donna si disvela una madre, questo perché una donna non nasce madre, ma può decidere di fare la madre, senza che questa scelta possa nuocere alla propria femminilità ed al proprio modo di costruire la sua immagine di donna nel mondo.

La madre perfetta non esiste, perché i bisogni e le aspettative variano da persona a persona, così come non esiste il figlio perfetto. Questa considerazione è fondamentale per favorire la realizzazione della figura materna e quella di figlio o di figlia.

La “Buona” madre è colei che si prende cura del suo bambino con dedizione, facendolo sentire amato e importante. E’ la madre che attraverso il dono dell’abbraccio, insegna al figlio l’affettività e la costruzione dei sentimenti. Insegnare i sentimenti è il primo compito di una madre adeguata, poiché i sentimenti non sono un’acquisizione naturale. L’amore si insegna e una madre può farlo manifestando il proprio attaccamento al suo bambino. Educare all’affettività vuol dire costruire una modalità di comunicazione, che passa attraverso le sensazioni corporee, per produrre ed attivare la relazione emotiva.

La buona madre è colei che non solo insegna ad amare, ma che pone se stessa come strumento attraverso il quale il bambino costruisce i sistemi con cui sviluppa l’amore verso sé e verso gli altri. La cura e l’interesse che il bambino riceve dalla madre o da chi se ne prende cura, gli forniscono quei fondamenti sui quali affermare il suo valore, l’impronta che gli consentirà di sviluppare la sua personalità.

Una buona madre è colei che ha la capacità di far sentire il proprio figlio unico al mondo, di trasmettergli l’eccezionalità della sua presenza, la sua insostituibilità. Messaggi del tipo: “Tu per me sei indispensabile”, “Tu per me sei unico”, sono quelli che il bambino riesce a comprendere attraverso il linguaggio del corpo materno. Un bambino che è stato desiderato, è un bambino accettato e amato. Una madre accogliente fa sentire il suo amore al bambino in modo naturale, coccolandolo in maniera da fargli provare sicurezza.

Al contrario, non è accogliente la madre che esibisce il proprio figlio come un trofeo, che lo abbellisce e lo mostra al pubblico, aspettando di ricevere conferma della propria bravura. Un figlio va amato e curato nel silenzio e nella discrezione del rapporto di fiducia che una buona madre deve saper creare col figlio.

L’unicità di sapersi l’uno per l’altro, per ascoltarsi attraverso i suoni che promanano dai corpi, è un’esperienza unica per la madre e per il figlio. Con una carezza è possibile per una madre rinsaldare l’attaccamento al suo bambino, un semplice e naturale gesto d’amore.

Si può essere una buona madre, anche se non si è avuta una madre buona.

Ma è bene ricordare che la gravidanza, anche quando è desiderata e inseguita con frenesia, può riservare delle spiacevoli conseguenze, sia per la madre che per il bambino, essendo la possibile fonte di numerosi disturbi, proprio per gli aspetti gravosi che la connotano, sia dal punto di vista fisico che emotivo. Molto spesso lo stato di fragilità emotiva, vissuto dalla donna in questo momento della vita, non le viene riconosciuto dai familiari, per i quali l’attesa di un figlio assume esclusivamente caratteri di positività.

Il rischio di questa mancanza di considerazione del malessere sofferto, è quello di generare sensi di colpa che arrestano la naturale e progressiva acquisizione di competenze materne. Purtroppo, accade sempre più spesso che, all’interno delle famiglie, si riscontra un totale disconoscimento della fragilità psicologica connessa allo stato gravidico, con una conseguente negazione dell’angoscia anche da parte della donna, che arriva a non riconoscere più a se stessa la sofferenza provata. La mancata ammissione dei sintomi per imbarazzo o per vergogna, nonostante questi siano evidenti e invalidanti, comporta uno stress ulteriore, che si ripercuote sul suo equilibrio psichico già tanto provato.

In questo modo, paradossalmente, più non si accettano i disturbi e maggiormente questi si faranno sentire, aumentando anche la portata clinica dei sintomi. Infatti, il malessere se non curato, può comportare disturbi maggiori ed anche molto gravi, non solo durante la gravidanza, ma anche dopo la nascita del bambino.

In molti casi, il sentimento di depressione è quello a cui si assiste più frequentemente. Una gravidanza vissuta in modo fortemente stressante, non sempre dona alla madre quella felicità totalizzante che l’immaginario comune assegna alla donna, che può invece sentirsi triste, rabbiosa, pentita o inadatta al ruolo di madre.

Può infatti accadere che la donna, a seguito della gravidanza e in conseguenza del trauma da parto, sviluppi un forte disagio emotivo, connotato da stati di profonda tristezza e di mancanza di interesse per tutto ciò che la circonda, ma anche per tutto ciò che riguarda il bambino.

Persino il figlio può esserle indifferente, o, al contrario, rappresentare un soggetto su cui riversare estrema attenzione ed apprensione, con relativa pesantezza, sia emotiva che fisica. E’ frequente la condizione di sentirsi investita da uno stato di abulia profonda, in cui si alternano momenti di estremo nervosismo a momenti di ritrovato appagamento per la maternità sopraggiunta. La mamma viene ad essere così sopraffatta da una grande confusione, che manifesta manipolando i ruoli da svolgere, avvinta dal senso di incapacità.

In questo stato di cose tutto le appare difficile da poter sostenere, vive anche le cose più semplici come carichi insostenibili. La sensazione che nessuno possa capirla la annienta e le persone che le stanno intorno cominciano a diventarle insopportabili, con i loro consigli e il loro aiuto soffocante, ed anche verso il partner comincia a provare un senso di fastidio per il fatto di non sentirsi compresa. Il partner, il più delle volte, ha difficoltà a capire la complessità emotiva che sta vivendo la neo-mamma, molto spesso le problematicità della donna sono fraintese o considerate con molta superficialità e questo genera ancora più sofferenza, frustrazione e rabbia.

Il malessere può mostrarsi in vari modi, ma la modalità che più spaventa i congiunti sono gli attacchi d’ira istintivi e incontrollati, che si rivolgono verso il partner, i congiunti o verso il bambino stesso. Questo stato emotivo estremamente delicato che la donna vive come un profondo abbandono, se non viene seguito tempestivamente con un’adeguata presa in carico da parte di specialisti competenti, può comportare uno squilibrio psicofisico e nelle forme più gravi, a veri e propri stati psicotici deliranti, rivolti contro tutti indistintamente, che, col passare dei giorni, diventeranno sempre più pericolosi da gestire e più difficili da risolversi.

Proprio in virtù del disequilibrio che si viene a creare alla nascita di un figlio, spesso vi sono sconvolgimenti che agiscono anche a lungo termine, che minano la stabilità mentale di molte donne e di conseguenza la solidità della coppia, indebolendone la costituzione. Non sono rari i casi di coppie, che si separano poco dopo l’arrivo di un figlio.

L’intervento tempestivo di aiuto può scongiurare l’instaurarsi di un quadro clinico devastante, per questo motivo è importante non sottovalutare i primi segnali di insofferenza materna. La varietà dei sintomi depressivi, che emergono a seguito di una gravidanza, in psicologia vengono definiti disturbi dell’umore e vanno da un grado più lieve, a casi gravi di psicosi, che possono sfociare anche nell’omicidio. Il malessere può manifestarsi con un ampia gamma di disturbi, che vanno dalla patologia conclamata, in caso di depressione maggiore, alla schizofrenia, allo stato crepuscolare oniroide, alla psicosi post partum, al rifiuto o al maltrattamento del bambino, perché indesiderato o perché si è irritabile e sfinita. Nella peggiore evenienza, il disturbo può sfociare accidentalmente in omicidio o figlicidio. Il pretesto del terribile atto potrebbe essere attribuito al sentimento di vendetta verso il partner o determinato da un disturbo di personalità sottostante o anche dall’uso di alcol e droghe.

La percentuale di donne colpite da una lieve malinconia post partum, chiamata anche maternity blues, è abbastanza alta, ma questo lieve stato depressivo ha una decorrenza tollerabile, in quanto si risolve entro le prime settimane dalla nascita del bambino. La Depressione Post Parto è, invece, una patologia vera e propria, che se trascurata tende a divenire cronica ed invalidare la vita della neo mamma. Si esprime con una sintomatologia più intensa e disturbante e, poiché ha un decorso più lungo, si sviluppa con una successione di segnali che si amplificano col passare del tempo. Questo è uno dei motivi per cui viene spesso sottovalutata, poiché la donna cerca di farvi fronte come può, spesso nascondendo agli altri il proprio disagio, cercando di non mostrare la sua sofferenza, se non quando questa si manifesta con evidenti segnali di incontrollabile aggressività o di rifiuto sociale, fino ad arrivare al ritiro da ogni attività e relazione.

E’ fondamentale capire quando i sentimenti che la donna nutre per il figlio assumono un connotato negativo, quindi è necessario porre la massima attenzione a captare alcuni indicatori specifici che caratterizzano il comportamento materno, specialmente se questi indicatori si presentano associati tra loro.

La depressione post parto solitamente si manifesta durante la 3° o 4° settimana dopo il parto ed arriva ad evidenziarsi, come problema effettivo, dopo 3 o 6 mesi dalla sua comparsa, prolungandosi, a volte, per oltre un anno. In molti casi le donne maggiormente colpite da uno stato depressivo sono quelle con una personalità con bassa autostima o al contrario molto rigide e intransigenti, con tendenza al perfezionismo. Queste ultime spesso sviluppano una modalità reattiva di tipo violento.

Il desiderio di controllare e di avere sempre tutto sotto controllo, aggravato dai nuovi doveri da soddisfare, diventano trappole in cui si sentono incastrate, come la spirale di ossessività che le invade e da cui non riescono a liberarsi, se non con la perdita del controllo attraverso manifestazioni di ira incontrollata.

Lo sviluppo di fobie, legate alla propria incapacità di gestire la  nuova situazione familiare, è il disturbo che si evidenzia maggiormente, dando luogo ad una sintomatologia che si esprime attraverso attacchi di panico che limitano notevolmente la vita della donna. In questi casi si rende necessario un intervento terapeutico per ristabilire un sano equilibrio psicologico, che vada a mettere ordine in una mente confusa e aggrovigliata su se stessa.

Anche la giovane età della mamma può determinare uno stato di forte depressione, in quanto la mancanza di esperienza e il senso di inadeguatezza si aggiungono alla fragilità emotiva connessa all’età.

In tutti i casi esposti, il sostegno e l’aiuto della famiglia, ma soprattutto del compagno, sono fattori determinanti per scongiurare l’instaurarsi di una patologia clinica rilevante e per la risoluzione in tempi brevi del disagio emotivo di cui è vittima la neo mamma.

 

Sintomi depressivi e utilizzo di cannabis nei giovani adulti

Quando si ha a che fare con il Disturbo da Uso di Cannabis nei giovani adulti non si nota come questi siano propensi a manifestare sintomi depressivi. Esiste un rapporto di causalità tra questi due fenomeni?

 

I giovani adulti con un’età compresa tra i 18 e i 25 anni, sono la categoria di popolazione con il più alto tasso di disturbo da uso di cannabis (CUD; Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2018). Inoltre, sono meno propensi rispetto alle altre fasce d’età a richiedere interventi psicologici finalizzati al trattamento del disturbo (Wu, Zhu, Mannelli, & Swartz, 2017).

I giovani adulti, sono anche più propensi a soffrire di episodi depressivi maggiori rispetto al resto della popolazione (SAMHSA, 2018). Uno studio condotto da Feingold e colleghi nel 2015 ha sottolineato una relazione bidirezionale tra utilizzo di cannabis e sintomi depressivi e ricerche successive (es. Hanna, Perez, & Ghose, 2017) hanno indagato sulla causalità di questo rapporto, individuando una propensione degli utilizzatori di cannabis a sviluppare, a causa della sostanza, disturbi depressivi.

Il presente studio (Mason, 2020) si è posto l’obiettivo di indagare, in un campione composto da 100 partecipanti con CUD tra i 18 e i 25 anni, l’influenza dei sintomi depressivi sull’efficacia del trattamento. I partecipanti erano infatti stati sottoposti, tramite un programma chiamato Peer Network Counseling-txt (PNC-txt; Miller & Rollnick, 2012), a un trattamento personalizzato che consiste in interviste motivazionali focalizzate sulle interazioni sociali e ambientali. Il campione è stato randomizzato in un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo.

Sono stati presi in considerazione i dati demografici, l’utilizzo di cannabis nei trenta giorni precedenti al trattamento tramite PNC-txt, i test delle urine (precedentemente effettuato ai fini del trattamento) e i sintomi depressivi (Mason, 2020).

I risultati hanno mostrato che soggetti con un livello di depressione sotto-soglia, hanno ridotto la frequenza di utilizzo di cannabis nel corso dei tre mesi dello studio. Coloro che invece soffrivano di sintomi depressivi più gravi, non ha mostrato modificazioni nell’utilizzo di cannabis. Infine, coloro che sostenevano di aver ridotto l’utilizzo di marijuana (ovvero i partecipanti con depressione sotto-soglia) non mostravano, a tre mesi di distanza, risultati positivi al test delle urine.

Lo studio dimostra quanto sia importante concentrarsi sia sull’utilizzo di cannabis sia sugli eventuali sintomi depressivi quando si trattano giovani adulti con un CUD tramite una terapia focalizzata su interviste motivazionali (Mason, 2020).

 

Il coronavirus tra rabbia e paura

E così anche le rabbie che pur esse si legano a questi eventi: futili episodi o rischi di linciaggio? La donna cinese picchiata a Torino, la coppia cinese aggredita ancora a Torino e il filippino scambiato per cinese a Cagliari potrebbero essere episodi molto circoscritti o avere un significato. Una collega è stata testimone di tensioni in treno contro un viaggiatore cinese e ce ne ha parlato, chiedendoci di riflettere sulla rabbia. Riflettiamo.

La rabbia, rispetto alla paura, mostra somiglianze e differenze. È anch’essa come la paura un’emozione che segnala una minaccia, un pericolo. Essa però suggerisce una reazione differente. La paura porta alla fuga, la rabbia all’attacco. Le differenze risiedono nel tipo di soluzione proposta. A quali pensieri corrispondono queste differenze?

La prima osservazione è che la rabbia attribuisce il pericolo a persone da aggredire mentre la paura, portando alla fuga, è più impersonale. Ad esempio davanti a una sciagura naturale si fugge o ci si protegge ma non si aggredisce se non metaforicamente. L’aggressione parte invece da una attribuzione di intenzione a un altro essere vivente, animale o umano. L’aggressione valuta inoltre che il pericolo possa essere bloccato attaccando, e quindi emettendo un segnale di ostilità la cui funzione è fermare l’altrui intenzione ostile attraverso una comunicazione. Il comportamento aggressivo è un messaggio: fermati perché sono arrabbiato. Insomma la paura può essere impersonale, la rabbia è interpersonale.

Reagire al coronavirus con rabbia e non con paura significa quindi cercare un autore cattivo, una intenzione malevola, intenzione che naturalmente non può essere attribuita al virus, invisibile e inoltre troppo elementare come organismo per essere oggetto di un’aggressione sensata. L’aggressione si volge quindi verso gruppi umani a cui è addossata una intenzione malevola. Gli untori di Manzoni. In questo caso i cinesi, perché dalla Cina sembra provenire il morbo.

Reagire con rabbia comporta una serie di vantaggi che la fanno preferire emotivamente alla paura. La paura ci protegge dai pericoli soggettivamente ma non è un’esperienza molto esaltante. Al contrario, si lega a una valutazione di sé deprimente; si fugge perché si ritiene di essere più deboli del pericolo, impotenti e fragili. Non resta che scappare. Inoltre -come abbiamo già scritto- il pericolo è impersonale e quindi terrificante, al di là delle possibilità umane, incomprensibile e quindi divino. C’è poco da scherzare e nulla di gratificante.

La rabbia invece umanizza il pericolo riducendolo a proporzioni personali: qualcuno ce l’ha con noi e possiamo picchiarlo duro. Ne abbiamo la forza. E quindi la rabbia ci rafforza, ci potenzia perché ci dice che siamo in grado di affrontare il pericolo e respingerlo, debellarlo dimostrando la nostra potenza a noi stessi e a chi ci circonda, illuminandoci di gloria. La rabbia inoltre ha anche un altro vantaggio: essa può legarsi in qualche modo a un gratificante giudizio morale positivo per noi stessi. Perché con la rabbia non ci si limita a nasconderci come capita con la paura. Si tratta di agire sugli altri cambiandoli e solo chi ritiene di fare del bene può giustificare la sua azione aggressiva senza essere fermato dai dubbi. Ci si sente non solo più forti ma perfino più buoni con la rabbia. Solo le personalità machiavelliche si crogiolano nella forza cattivistica non giustificata dal bene. Le persone comuni come noi invece quando si arrabbiano provano più facilmente una sensazione di giustizia.

La rabbia però presenta anche una serie di rischi. Aggredire significa assumersi la responsabilità di fare del male al prossimo. Grande potere che porta a una responsabilità che infatti gestiamo giustificandoci: siamo i buoni, come l’uomo ragno. Passata però la furia aggressiva che ci fa sentire giusti potremmo scoprire di avere mal diretto i nostri attacchi. Facilmente si passa dalla rabbia alla colpa, la sua gemella ansiosa e impaurita.

La rabbia inoltre si esprime in episodi concitati che lasciano poco spazio al ripensamento: se fuggi e ti nascondi puoi sempre rimediare tornando indietro ed esporti al pericolo più coraggiosamente. Invece gli effetti dell’aggressione rabbiosa, una volta prodotti, non possono essere eliminati. Hai picchiato, non puoi far tornare indietro le botte. Al massimo si espia, magra consolazione soprattutto per la vittima che non sa che farsene dei nostri pentimenti. Insomma la rabbia fa versare quel latte sul quale è più inutile piangere.

In questi giorni inquieti in cui non sappiamo se stiamo oscillando tra la drammatizzazione di una banale influenza e la ripetizione della peste di Boccaccio e del Manzoni dobbiamo stare più attenti alla rabbia piuttosto che alla innocua paura. Se stessimo esagerando con la paura, poco male. Si tratterà di recuperare qualche giorno di lavoro o di scuola persi. Se esageriamo con la rabbia invece finisce che qualcuno si fa male e a qual punto ci sarà poco o nulla da recuperare.

Il dolore nell’intimità sessuale: il disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione è una condizione che interessa dal 15 al 25% delle donne della popolazione mondiale, causando disagi intensi e pervasivi dal punto di vista fisico, psicologico e relazionale.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Nel DSM IV-TR le disfunzioni sessuali riguardavano il dolore sessuale o un disturbo in una o più fasi del ciclo di risposta sessuale. La ricerca suggerisce che la risposta sessuale non sia sempre un processo uniforme lineare, ma che vi sia una distinzione tra alcune fasi ad esempio, il desiderio e l’eccitazione.

A differenza della precedente edizione, nel DSM5 (APA, 2013) i disturbi sessuali non sono più incorporati in una stessa categoria ma in tre categorie distinte: le Disforie di Genere, le Parafilie, le Disfunzioni Sessuali. Sono inoltre state aggiunte disfunzioni sessuali specifiche per genere e, per le donne, il Disturbo da Desiderio Sessuale e il Disturbo di Eccitazione Sessuale sono stati combinati in un unico disturbo: Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile.

Di seguito i criteri:

A: Mancanza o significativa riduzione di desiderio/eccitazione sessuale come manifestato da almeno 3 dei seguenti problemi:

  • assente o ridotto interesse per l’attività sessuale;
  • assenti o ridotti pensieri o fantasie sessuali/erotiche;
  • nessuna iniziativa di attività sessuale e nessuna risposta ai tentativi da parte del partner;
  • assente o ridotto piacere ed eccitazione sessuale durante l’attività sessuale;
  • il desiderio non è scatenato da alcuno stimolo sessuale;
  • assenti o ridotti cambiamenti genitali e/o non-genitali durante l’attività sessuale.

B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti.

D. La disfunzione sessuale non è meglio giustificata da un altro disturbo mentale non sessuale o dalle conseguenze di stress relazionale (e.g. violenze da parte del partner) o altri eventi traumatici e non è attribuibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale.

Per aumentare la precisione e ridurre sovrastime, le disfunzioni sessuali in generale devono avere una durata minima di sei mesi, ad eccezione di quelle secondarie all’uso di sostanze psicoattive. Queste modifiche prevedono soglie utili per fare una diagnosi e distinguono transitorie difficoltà sessuali da disfunzioni più persistenti.

Per identificare l’esordio della difficoltà vengono utilizzati alcuni sottotipi:

  • permanente – se un problema sessuale è presente dalle prime esperienze sessuali;
  • acquisita – se i disturbi sessuali si sviluppano dopo un periodo di prestazione sessuale normale;
  • generalizzata – se le difficoltà sessuali non sono limitate a determinati tipi di stimolazione, situazione o partner;
  • situazionale – se le difficoltà sessuali si verificano solo con alcuni tipi di stimolazione, situazione o partner.

E’ stata abolita la distinzione tra disfunzioni legate a fattori biologici e a fattori psichici in quanto spesso entrambi questi aspetti ne prendono parte. Vengono inoltre presi in esame fattori inerenti il partner, la relazione, la vulnerabilità individuale, i fattori religiosi e culturali e i fattori medici.

La raccomandazione è comunque quella di considerare i sintomi sessuali come disturbi psichici solo dopo aver escluso ogni componente organica. La collaborazione tra diversi specialisti è quindi indispensabile.

Nel DSM 5 anche il vaginismo (contrazione dei muscoli perivaginali che impedisce la penetrazione) e la dispareunia (dolore nel rapporto sessuale nell’uomo o nella donna) che erano spesso coesistenti e difficili da distinguere, sono stati incorporati nel Disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione.

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione (DGP-P) viene classificato all’intero del DSM 5 come una disfunzione sessuale femminile caratterizzata dalla presenza persistente e ricorrente di uno o più dei seguenti problemi:

  • Incapacità di avere una penetrazione vaginale; questa difficoltà può presentarsi sia durante il rapporto sessuale sia in altre situazioni che prevedono penetrazione, come ad esempio visite ginecologiche o l’utilizzo dell’assorbente.
  • Marcato dolore pelvico e vaginale durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; in alcuni casi il dolore può perdurare anche dopo la fine del rapporto o essere presente durante la minzione.
  • Marcata paura e ansia per la penetrazione vaginale o per il dolore pelvico e vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale; questa paura è molto diffusa tra le donne che hanno provato regolarmente dolore durante il rapporto e in alcuni casi può portare a un marcato evitamento di situazioni sessuali o intime.
  • Marcata tensione e indurimento dei muscoli pelvici durante i tentativi di penetrazione vaginale.

B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti.

D. La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un altro disturbo e non dovuto esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a condizione medica generale.

“Perché un gesto così normale, come il rapporto sessuale mi provoca così tanta angoscia da bloccarmi totalmente?” si chiede la donna che scopre di avere questa dolorosa cintura di castità. “E perché proprio a me?” (Jannin et al., 2017)

Eziologia del disturbo

All’interno della categoria “Dolore Genito-Pelvico” sono raccolte numerose condizioni cliniche che hanno un’origine multifattoriale, biopsicosociale. Ghaly e Chien (2000) hanno individuato la presenza sia di cause organiche che non. Tali cause possono essere legate allo stato ormonale (menopausa, allattamento), alla neurologia (nevralgia, sclerosi multipla), alle infezioni (vaginosi batterica, candidosi), a disturbi sistemici (sindrome di Behcet, disturbo di Crohn), all’uso di alcune categorie di farmaci (terapie oncologiche, contraccezione ormonale), a problemi “meccanici” (traumi da penetrazione, poca lubrificazione, abrasione), alla salute ginecologica. In particolare, procedure chirurgiche o processi infiammatori organici, come l’endometriosi o la sindrome del colon irritabile, posso portare alla formazione di aderenze e cicatrici, le quali possono provocare dolore nelle aree interessate.

In merito alle cause non organiche risulta fondamentale indagare la presenza di una storia di abuso sessuale o emotivo e di sintomi ansiosi e/o depressivi. Grace e Zondervan nel 2006 e Pitt e colleghi nel 2008, all’interno delle loro ricerche, hanno riscontrato come le donne con DGP-P riportano di frequente disturbi del sonno, depressione, ansia oltre a interferenze nelle relazioni affettive intime.

Altre cause non organiche del disturbo possono riguardare difficoltà relazionali con il partner, come ad esempio scarsa comunicazione di coppia o diverso desiderio sessuale, la presenza nell’uomo di problemi sessuali, come la disfunzione erettile o l’eiaculazione precoce le quali possono causare difficoltà nella penetrazione, fattori stressanti (lutti, difficoltà lavorative, ecc.) o aspetti culturali o religiosi, che possono influenzare convinzioni e atteggiamenti rispetto alla sessualità (APA, 2013).

Prevalenza del disturbo

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione è una condizione che interessa dal 15 al 25% delle donne della popolazione mondiale, prevalenza non nota in Italia data la mancanza di studi. Le lamentele associate al dolore vaginale e pelvico sembrano avere un picco nella prima età adulta e nel periodo premenopausa.

Le linee guida per il trattamento consigliano una combinazione di interventi educativi sulla gestione del dolore, fisioterapia del pavimento pelvico, terapia sessuale e approcci medici seguendo una strategia integrata multidimensionale.

È sempre fondamentale non limitarsi solo al trattamento sintomatico, ma analizzare le dinamiche di coppia e, soprattutto, le modalità di gestione del rapporto sessuale da parte del partner. (Davide Dèttore)

Utile sarebbe condurre ulteriori ricerche sui fattori cognitivi e meta-cognitivi del DGP-P al fine di una miglior comprensione dei meccanismi psicologici alla base del disturbo con l’obiettivo di sviluppare interventi mirati.

Il trattamento cognitivo comportamentale dei disturbi sessuali in generale mira a fornire informazioni e tecniche volte ad aumentare la consapevolezza del proprio corpo e la comprensione dei fattori fisiologici e psicologici coinvolti nel rapporto sessuale oltre all’utilizzo di tecniche di rilassamento, esercizi di esposizione graduale insieme al partner, identificazione dei comportamenti disfunzionali che possono mantenere il problema e la loro sostituzione con strategie più funzionali.

 

Walt Disney e LIBET: tema doloroso e strategie volontarie dell’eroe Hercules – La LIBET nelle narrazioni

Hercules è un famoso film d’animazione della Walt Disney, distribuito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel 1997.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 7) Hercules

 

Si tratta di uno dei più amati e conosciuti classici Disney; il primo ispirato alla cultura e mitologia greca, che ne esplora i valori e sentimenti e che ha come protagonisti dei, eroi, eroine e creature leggendarie.

Il protagonista rappresenta la versione animata e romanzata del semidio Hercules che, nonostante abbia una forza sovraumana in quanto figlio di Zeus, cresce sulla Terra e si relaziona con i comuni mortali per sfuggire alla maledizione del dio della morte Ade.

Risulta molto interessante la lettura del personaggio in chiave LIBET (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016). Infatti, tutte le recensioni lette sul film si focalizzano sui personaggi mitologici, sui meravigliosi spunti di cultura greca, sull’amore verso Megara e sulla forza fisica e d’animo dello straordinario eroe. È curioso pensare che il coraggioso combattente, che per anni ha ispirato e appassionato bambini e adulti, possa essere tanto umano da avere sperimentato anch’egli uno stato mentale doloroso (tema) per lui intollerabile, tanto da tentare di tenerlo lontano a tutti i costi mettendo in atto delle strategie semiadattive (piani) (Fig 1).

Il nostro amato eroe si ritrova, sin da piccolo, a vivere in contesti in cui la sua forza fisica lo rende impacciato, goffo e distruttivo. Hercules è diverso da tutti e viene ripetutamente rifiutato nel gioco e nella relazione. Tutto ciò lo fa sentire solo, non stimato da nessuno e sempre fuori luogo (si intravedono i temi del disamore e dell’inadeguatezza). Il piccolo figlio di Zeus, prima ancora di scoprire di essere tale, impara a sfuggire dalla tristezza legata a questa condizione inaccettabile mettendo in atto un piano prescrittivo, esercitando cioè il controllo su tutte le situazioni. Infatti, cerca di ricevere l’approvazione delle persone dosando e modulando costantemente la sua energia. Quando i genitori che lo hanno cresciuto gli comunicano le sue origini divine, Hercules decide di conquistare la stima del popolo e degli dei sviluppando al massimo tutte le sue potenzialità fisiche, affinché sia considerato come un dio e finalmente stimato da tutti. Pertanto si convince che la Terra non sia il suo posto e che essere visto come eroe sia fondamentale per lui in quanto figlio di Zeus. Inizia così ad allenarsi intensamente, aiutato dal satiro Fil. L’accoglienza da parte degli dei sul monte Olimpo rappresenta una possibilità di riscatto. La strategia di controllo si rivela efficace, poiché la folla inizia gradualmente a riconoscerlo come eroe. Tuttavia, nel momento in cui suo padre Zeus gli comunica che la forza fisica non basta per poter essere accettato del tutto tra gli dei, Hercules vede il fallimento dei suoi tentativi di riscatto (invalidazione del piano prescrittivo), si sente ancora una volta rifiutato e sprofonda nella disperazione (esordio della sintomatologia depressiva). La frustrazione durerà sino al momento in cui scoprirà il valore dell’amore, che gli consentirà di mostrare altre qualità.

Inquadrare i concetti del tema e del piano rende la visione del film più stimolante in quanto permette di comprendere in maniera più chiara il funzionamento psicologico del personaggio ed identificarsi ancor meglio con lui.

Hercules storia di vita del semidio Analisi in termini LIBET Fig 1

Fig. 1 Schema grafico del funzionamento di Hercules in termini LIBET 

 

 

Disturbi dello spettro autistico: dopo la diagnosi? Prospettive d’intervento in un progetto di vita

Effettuare un trattamento precocemente può contribuire a sviluppare modalità comunicative funzionali e un discreto livello cognitivo che permetterà di far acquisire al bambino una buona autonomia personale e sociale nel suo percorso di vita.

 

 Il precedente articolo La Diagnosi precoce nei Disturbi dello Spettro Autistico ha preso in considerazione la rilevanza della fase diagnostica: formulare una diagnosi precoce infatti promuove risultati più positivi in età scolare e assicura una migliore qualità di vita grazie alla maggiore opportunità di intervento precoce. In questo contesto la riflessione verterà sulle tipologie di trattamento in questi disturbi. Effettuare un trattamento precocemente può contribuire a sviluppare modalità comunicative funzionali e un discreto livello cognitivo che permetterà di far acquisire al bambino una buona autonomia personale e sociale nel suo percorso di vita.

A seguito della diagnosi, l’equipe multidisciplinare che ha la presa in carico del caso deve fornire indicazioni sul panorama dei migliori interventi possibili nell’ambito dei Disturbi dello Spettro Autistico in riferimento alle Linee Guida sull’Autismo dell’ISS attualmente disponibili e si impegna a descrivere le modalità d’intervento attuabili. Un intervento risulta efficace se è capace di creare per ciascun individuo un “progetto di vita” e condizioni del vivere quotidiano che siano il più vicino possibile alle normali circostanze di vita reale nella comunità.

Dalla letteratura (Eldevik et al. 2009) e dalle Linee Guida, si individuano due tipi di modelli di intervento:

  • modelli di trattamento globali: set di interventi focalizzati organizzati intorno ad una struttura concettuale comune;
  • modelli di trattamento focalizzati: prevedono tecniche cognitivo-comportamentali specifiche per sintomi target.

Da un’attenta analisi delle linee guida stilate dall’American Psychiatric Association (APA) secondo l’Evidence Based Medicine, e dalle Linee Guida Autismo redatte dall’Istituto Superiore di Sanità (2011) emerge che la Terapia Cognitivo-Comportamentale rappresenta l’intervento di prima scelta per molti disturbi psichiatrici. Ad oggi gli interventi psicoeducativi per i disturbi dello spettro autistico, validati da evidenze empiriche e di letteratura, fanno riferimento a una cornice teorica di stampo cognitivo-comportamentale, finalizzati a modificare il comportamento generale per renderlo funzionale ai compiti della vita di ogni giorno (alimentazione, igiene personale, capacità di vestirsi) e tentano di ridurre i comportamenti disfunzionali. Nello specifico le Linee Guida Internazionali suggeriscono l’uso della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’Autismo Lieve, per il trattamento della rabbia e la comorbidità con i disturbi d’ansia e dell’umore. La CBT, infatti può essere utile nel migliorare la gestione della rabbia e più in generale le capacità autoregolatorie e nel facilitare l’acquisizione di una maggiore flessibilità cognitiva e comportamentale.

Un programma di intervento di Terapia Cognitivo-Comportamentale è caratterizzato da: l’educazione emotiva, la ristrutturazione cognitiva, la gestione dello stress, l’automonitoraggio e la programmazione delle attività per esercitarsi e mettere in pratica le nuove strategie e abilità cognitive. Una parte centrale dell’intervento consiste nell’insegnamento di abilità comportamentali, cognitive ed emotive (coping skills) utili a modificare pensieri e comportamenti, causa di stati emotivi negativi, come ansia, depressione e rabbia. Considerate le note difficoltà di comunicazione e d’identificazione e comprensione dei propri e altrui stati mentali delle persone con autismo, sono stati proposti, nel corso degli anni, protocolli d’intervento standardizzati specificamente strutturati.

Nel tempo sono state inserite delle variazioni a questi protocolli standardizzati, attraverso l’introduzione di storie sociali e di supporti visivi, una maggiore enfasi posta sull’insegnamento di strategie di coping senza l’uso di linguaggio astratto, l’inclusione di interessi speciali, maggiore spazio dedicato all’insegnamento di semplici abilità sociali e strategie di rilassamento.

Gran parte degli interventi cognitivo-comportamentali seguono un approccio comportamentale, sono interventi intensivi precoci basati sull’applicazione della metodologia comportamentale ABA (Applied Behavioral Analysis). L’Analisi applicata del comportamento è un metodo che fonda le proprie radici nelle teorie di ottica comportamentista e si concretizza nell’applicazione sistematica dei principi individuati dalla scienza che studia il comportamento e le leggi che lo regolano. L’ABA, come riferito da Cooper, Heron, e Heward (1987; 2007) è un metodo educativo altamente individualizzato e interviene sulle competenze cognitive, linguistiche e di adattabilità. Prevede un’accurata programmazione degli interventi al fine di ampliare il repertorio dei comportamenti adattivi (linguaggio e comunicazione, gioco, socializzazione, autonomie personali, abilità scolastiche e attentive) e limitare quelli disfunzionali (autostimolazioni, aggressività, autolesionismo, ossessioni, ecc). Un aspetto fondamentale è il coinvolgimento dei familiari nell’intervento: i progressi sono migliori se tutto l’ambiente diventa educativo, l’intervento intensivo e programmato deve essere infatti utilizzabile sia da terapisti e professionisti, che dai genitori. Se invece i genitori non conoscono le finalità dei programmi, vi è il rischio che il bambino non generalizzi gli apprendimenti fatti con il professionista. La ricerca evidenzia l’efficacia e la validità di interventi precoci avviati entro i 4 anni di vita.

Le linee guida internazionali raccomandano, inoltre, interventi per l’educazione ai sentimenti e alle emozioni proprie e altrui e di facilitazione della comunicazione interpersonale. Particolarmente utile ed efficace è l’applicazione di specifici strumenti, quali ad esempio il CAT KIT, molto diffuso nei paesi anglosassoni, che favorisce l’educazione cognitivo-affettiva in soggetti fin dai 6 anni con livello cognitivo nella norma e in bambini più grandi se con disabilità intellettiva.

Il CAT KIT (Attwood, Scarpa, Wells, 2015), attraverso materiale con un semplice supporto visivo e tattile favorisce la comprensione degli aspetti affettivi e cognitivi coinvolti nella comunicazione, incoraggiandola e favorendola, permette inoltre la regolazione emotiva, la stimolazione delle abilità sociali e favorisce la comprensione della prospettiva altrui.

Vari studi (Bauminger, Shulman, Agam, 2003), condotti su interventi di gruppo basati sull’utilizzo di tecniche cognitivo comportamentali, hanno ampiamente dimostrato la validità della CBT e di interventi di gruppo per il potenziamento delle abilità sociali dei soggetti con ASD. Il gruppo rappresenta infatti, uno strumento per favorire l’acquisizione di life skills essenziali a garantire un’adeguata gestione delle proprie emozioni, maggiori abilità socio-relazionali e di teoria della mente, l’acquisizione di competenze di decision making e problem solving e di una maggiore flessibilità cognitiva.

Ulteriori aspetti da tenere in considerazione nella strutturazione di un intervento efficace sono il coinvolgimento della famiglia e della scuola.

Il parenting, il comportamento tra genitori e figli e la qualità del rapporto che ne deriva, non viene ridotto allo studio delle interazioni tra genitore e bambino, ma è influenzato da una molteplicità di fattori, che a livelli diversi influenzano le interazioni di essi.

Infatti solo alcuni fattori sono strettamente legati all’individualità di adulti e bambini (come la personalità, le credenze, gli atteggiamenti dei primi, il temperamento,…), mentre altri, anche se non direttamente prossimi al bambino (contesto lavorativo del genitore o degrado quartiere), possono influenzare i comportamenti educativi dei genitori nel corso delle interazioni ordinarie. Variabili psicosociali (sistemi di credenze, grado di accordo tra i coniugi, livello di stress o di soddisfazione familiare percepito,…) possono ulteriormente rendere complessa la gestione della vita domestica.

Il Parent Training è un programma di formazione rivolto a genitori di bambini/adolescenti che evidenziano problematicità emozionali e/o comportamentali, con la finalità di sviluppare maggiore consapevolezza e competenza nella risoluzione delle difficoltà inerenti i figli e di valorizzarne e rafforzarne le risorse (Fabbro, 2016), nel caso del disturbo autistico inoltre, va ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza della famiglia circa le difficoltà del bambino, incrementare le abilità genitoriali nella gestione della vita quotidiana, ridurre il livello di stress, promuovere le capacità e le risorse della famiglia nella risoluzione dei problemi. Numerose evidenze scientifiche sostengono l’importanza di attuare percorsi di parent training già nei primi anni di vita. Le linee guida nazionali affermano che

I programmi di intervento mediati dai genitori sono raccomandati nei bambini e negli adolescenti […], poiché sono interventi che possono migliorare la comunicazione sociale e i comportamenti problema, aiutare le famiglie a interagire con i loro figli, promuovere lo sviluppo e l’incremento della soddisfazione dei genitori, del loro empowerment e benessere emotivo.

Altra protagonista dell’intervento è la scuola, con la quale è fondamentale creare una rete, condividere strumenti, usare le stesse metodologie.

I bambini con autismo imparano, ma in modo diverso rispetto ai loro coetanei (Vivanti, Salomone, 2016) ed è per questo che spesso le strategie educative convenzionali, quelle che funzionano per i bambini con sviluppo tipico, non risultano efficaci e conducono il bambino, la sua famiglia e i professionisti coinvolti nell’insegnamento verso situazioni frustranti e improduttive. Risulta quindi necessario che insegnanti, genitori e terapisti possano individuare le modalità giuste per quel bambino.

Obiettivo dell’intervento non deve essere quello di curare la diversità, ma di facilitare l’apprendimento di abilità che aiuteranno il bambino a godere delle stesse opportunità dei coetanei. A seconda dei casi, alcune caratteristiche dell’autismo possono essere di ostacolo o di aiuto per questo processo.

A prescindere dal quadro cognitivo di riferimento, la mancanza di flessibilità costituisce uno degli elementi che maggiormente interferisce con l’integrazione nel contesto di vita: i soggetti con ASD mostrano difficoltà clinicamente significative nell’affrontare i cambiamenti all’interno del loro ambiente. Tale rigidità e regolarità servono per attenuare l’ansia dovuta all’incapacità di prevedere e gestire le conseguenze degli eventi; infatti, per mantenere un certo controllo sulla propria vita, i soggetti con ASD richiedono un alto livello di prevedibilità su persone, oggetti e routine.

In età adulta vi è un’elevata variabilità nell’evoluzione del quadro clinico: in alcuni pazienti la condizione patologica rimane inalterata, mentre altri possono mostrare un modesto miglioramento con l’avanzare degli anni, con attenuazione dei problemi comportamentali e dei deficit sensoriali (Seltzer et al., 2004; Shattuck et al., 2007). Un elemento importante rimane il mantenimento della compromissione della sfera sociale, tipica dell’ASD, permangono quindi deficit di interazione e comunicazione sociale e una vasta gamma di comportamenti e interessi ristretti e molto particolari.

Pertanto, è opportuno che sia programmata la continuità assistenziale da parte dei servizi sanitari e un’integrazione tra i professionisti coinvolti nel passaggio dall’età evolutiva (UMEE-Centro Autismo Età Evolutiva) all’età adulta (UMEA-Centro Autismo Età Adulta), per una corretta presa in carico dell’utente, al fine di garantire cure adeguate in tutte le fasi di vita.

È nella fase di passaggio che risulta fondamentale impostare il “Progetto di Vita”, da realizzare in una collaborazione costante tra la persona con ASD, la sua famiglia, i servizi sanitari e sociali (Comune e ATS).

 

L’uso di antidepressivi durante lo sviluppo può compromettere il desiderio sessuale delle donne in età adulta

La letteratura dimostra che l’uso di antidepressivi potrebbe avere delle conseguenze negative sulle funzioni e sul desiderio sessuale, sia negli uomini che nelle donne.

 

Sebbene gli antidepressivi possano avere un impatto su tutti gli aspetti della funzionalità sessuale – dal desiderio, all’eccitazione e all’orgasmo, alla soddisfazione e al piacere sessuale – i loro effetti sul desiderio sono di particolare rilevanza nelle donne. Gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) sono una classe di farmaci che vengono generalmente utilizzati come antidepressivi ed è stato dimostrato che questa tipologia di antidepressivi può avere effetti negativi indesiderati sul desiderio sessuale. Alcuni studiosi ipotizzano che gli effetti negativi dell’uso di antidepressivi SSRI sulla sessualità possano continuare anche dopo l’interruzione degli stessi, suggerendo la presenza degli effetti a lungo termine che questi farmaci possono avere sulla struttura o sulla funzione di sistemi neurali importanti coinvolti nella funzione sessuale. In particolare, è stato ipotizzato che i trattamenti antidepressivi SSRI possano alterare circuiti cerebrali coinvolti nel desiderio sessuale, come la motivazione sessuale o il circuito di elaborazione della ricompensa. Nonostante la neuroplasticità cerebrale sia maggiore durante l’età nello sviluppo, ci sono evidenze di una significativa neuroplasticità dei circuiti della ricompensa anche negli adulti, la quale contribuisce al mantenimento dell’effetto antidepressivo anche dopo l’interruzione dei farmaci che, di conseguenza, può interferire sulla funzionalità sessuale.

Tierney e Lorenz (2020), hanno provato a rispondere alla seguente domanda: qual è l’effetto dell’uso di antidepressivi sullo sviluppo dei sistemi neurali coinvolti nelle funzioni sessuali? Lo scopo del presente studio è esplorare le differenze nel desiderio sessuale e nel comportamento sessuale in adulti che hanno fatto uso di antidepressivi vs adulti che non hanno fatto uso di antidepressivi nell’infanzia e nell’adolescenza, approfondendo gli effetti a lungo termine di questi farmaci.

Lo studio è tratto da un ampio sondaggio online di giovani adulti. Il campione finale comprendeva 610 partecipanti (66% donne), la cui età media era di 20 anni.

I soggetti hanno completato una batteria di test di screening relativi alle caratteristiche demografiche e salute mentale. Nello specifico, i test indagavano la presenza di sintomi depressivi e/o ansiosi, la durata di essi, l’età di insorgenza e l’eventuale cura farmacologica prima e dopo i 16 anni, incluso l’uso di SSRI. Per la valutazione del desiderio e del comportamento sessuale, i partecipanti hanno completato il Sexual Desire Inventory (Spector et al., 1996), il quale è composto da tre sottoscale: desiderio sessuale diadico, desiderio sessuale solitario (masturbazione) e desiderio sessuale diadico generale per una persona attraente. Inoltre, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se attualmente sono coinvolti in una relazione sessualmente attiva, il numero di volte in cui si masturbano e la frequenza dell’attività sessuale con il proprio partner.

I risultati dimostrano che l’uso di antidepressivi nell’infanzia non era significativo nel predire il desiderio sessuale negli adulti di sesso maschile o la frequenza della masturbazione. Tuttavia, questa scoperta dovrebbe essere trattata con cautela in quanto vi era un numero molto limitato di uso di antidepressivi non-SSRI prima dei 16 anni di età.

Nelle donne, invece, vi è un effetto significativo dell’uso di SSRI nell’infanzia sul desiderio sessuale nell’età adulta. Nello specifico, le donne che hanno fatto uso di antidepressivi SSRI prima dell’età di 16 anni riportano un desiderio sessuale solitario (masturbazione) significativamente più basso e anche un minor desiderio generale per una persona attraente. Il desiderio sessuale nei confronti del proprio partner era simile sia per le donne che hanno fatto uso di SSRI nell’adolescenza sia per le donne che non ne ha fatto uso. Al contrario, non ci sono effetti significativi per chi ha fatto uso di antidepressivi non-SSRI nell’infanzia o nell’adolescenza sulle variabili sessuali in donne adulte. Pertanto, queste scoperte sembrano essere limitate all’uso dell’SSRI precedentemente ai 16 anni di età e non ad altre tipologie di antidepressivi e relative solo al desiderio sessuale solitario e masturbazione, non al comportamento sessuale con il proprio partner.

Questi risultati, in accordo con la letteratura precedente, evidenziano inoltre un effetto specifico dell’uso di SSRI sullo sviluppo dei sistemi di motivazione sessuale e ricompensa, ma non sullo sviluppo dei circuiti relativi all’interesse per le relazioni stabili. Dunque, è possibile che l’uso di SSRI durante l’età adolescenziale interrompa il normale sviluppo dei circuiti coinvolti nella funzionalità sessuale, in particolare quello della motivazione sessuale e della ricompensa, che, di conseguenza, possono costituire un importante fattore di rischio per una disfunzione del desiderio sessuale in donne adulte, dimostrando gli effetti a lungo termine dell’uso dell’antidepressivo SSRI. In altre parole, l’esposizione allo SSRI nello sviluppo può diminuire il desiderio intrinseco nelle donne, ma non alterare la loro reattività sessuale avviata dal partner.

I punti di forza del presente studio sono la numerosità del campione, l’uso di misure attendibili e l’attenta valutazione della storia della salute mentale del paziente durante l’infanzia. Tuttavia, ci sono anche diversi limiti: i partecipanti erano giovani adulti il cui sviluppo sessuale e sentimentale era probabilmente non completo; inoltre, il campione era costituito principalmente da studenti universitari, prevalentemente di etnia caucasica, che non possono essere rappresentativi dell’intera popolazione. Infine, non c’erano dati sulla durata del trattamento farmacologico o sulla dose, tutti fattori importanti per studi futuri.

 

La terapia focalizzata sulla compassione nel trattamento dei disturbi alimentari

Nell’eterogeneità dei disturbi alimentari, la vergogna e l’autocritica possono essere considerati due costrutti trasversali. I risultati ottenuti dalla Compassion Focused Therapy sono risultati promettenti, grazie all’implementazione delle abilità per migliorare la regolazione emotiva e alla promozione di una psicoeducazione sul funzionamento del corpo umano, sfatando il mito di una sua controllabilità.

Marta Ferrari – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La Compassion Focused Therapy (CFT) o Terapia Focalizzata sulla Compassione è nuovo approccio psicoterapeutico che rientra nelle terapie cognitivo comportamentali di terza generazione mindfulness-based.

La genesi di questa terapia si è avvalsa di numerose osservazioni cliniche, degli studi sull’attaccamento, delle teorie evoluzionistiche e anche dei contributi delle neuroscienze cognitive.

Paul Gilbert (2007) iniziò ad osservare come alcuni pazienti depressi fossero particolarmente resistenti al trattamento. I pensieri di questi pazienti erano caratterizzati da una forte autocritica e da sentimenti di vergogna verso i propri stati affettivi negativi. Questa tipologia di pazienti, sebbene arrivasse a comprendere l’illogicità dei propri pensieri negativi ed arrivasse a metterli in discussione razionalmente, di fatto non modificava il proprio tono emotivo e il dialogo interno.

Questi ultimi restavano iper-analitici, iper-critici, freddi, distaccati, svalutanti, andando a compromettere anche l’esposizione e l’esecuzione degli homeworks. Era come se questi pazienti comprendessero il razionale dell’intervento, ma faticassero a sentirlo proprio. Secondo Gilbert, in questi pazienti così iper-critici ci sarebbe uno squilibrio nei sistemi di regolazione delle emozioni, acquisito durante le prime esperienze di attaccamento. Fu così che i primi interventi di Gilbert si focalizzarono sull’incoraggiare e insegnare a questi pazienti come sviluppare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi e li incoraggiasse durante lo svolgimento dei compiti e delle esposizioni, con l’obiettivo di attivare uno dei tre sistemi di regolazione emotiva, il sistema di consolazione o calmante, in modo che regolasse le altre emozioni basate sul senso di minaccia (rabbia, disgusto, vergogna, paura).

Gilbert individua infatti tre sistemi di regolazione affettiva:

  1. Il sistema di protezione dalla minaccia (safety system): è il responsabile del sistema attacco-fuga, il cui scopo è garantirci la sopravvivenza attivandosi in presenza di una possibile minaccia con l’obiettivo di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza. Questo sistema è il responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia e vergogna. Associati a questo sistema sono anche alcuni stili cognitivi caratterizzati da una maggior attenzione selettiva di fronte a una potenziale minaccia, un tipo di ragionamento di tipo conservativo e comportamenti di evitamento e protettivi.
  2. Il sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system): è un sistema legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al sistema dopaminergico. È il responsabile di quelle sensazioni di soddisfazione che ci derivano dall’aver raggiunto un obiettivo, vinto una gara, ecc… in questo caso il soggetto è molto autocentrato e ritiene che le cose procedano per il verso giusto fino a quando sono in sintonia con le proprie aspettative, i bisogni e i desideri.
  3. Il sistema calmante (soothing system): è il responsabile di emozioni piacevoli e di benessere quali la calma, la tranquillità, l’appagamento e il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo minacciati. Sono emozioni positive ben diverse da quelle regolate dal sistema precedente perché non dipendono dal fare qualcosa, ma sembrerebbero strettamente connesse all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi in connessione con qualcuno. Questo sistema sarebbe inoltre connesso anche a un maggior rilascio di ossitocina, che è a sua volta in grado di stimolare queste sensazioni piacevoli.

Basandosi su questa concettualizzazione quindi, Gilbert e colleghi si focalizzano sullo squilibrio che sarebbe presente in alcune persone tra questi tre sistemi, con l’obiettivo di sviluppare il sistema calmante che in molti pazienti risulta ipoattivo. L’ipotesi è quella secondo cui un implemento del sistema calmante porterebbe a una miglior gestione da parte del paziente dello squilibrio presente negli altri due sistemi.

Il Sé compassionevole rappresenta quindi il principale motore del funzionamento del sistema calmante e il suo sviluppo verrebbe favorito da una serie di tecniche ed esercizi propri della Terapia Focalizzata sulla Compassione quali il reality check, il posto sicuro e la creatura compassionevole, la lettera compassionevole e l’esercizio della mindfulness.

Cos’è la compassione?

In base agli studi condotti, Gilbert e colleghi arrivano ad una nuova definizione di compassione, in parte mutuata dagli insegnamenti buddisti, ma che al contempo si radica scientificamente nei più moderni contributi neuroscientifici, ovvero:

Compassione è l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili, di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali, di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).

La compassione si può insegnare e si può apprendere attraverso un addestramento, il Compassionate Mind Training, che aiuta i pazienti ad esercitare alcune competenze fondamentali:

  • L’attenzione compassionevole
  • Il ragionamento compassionevole
  • Il comportamento compassionevole
  • L’immaginazione compassionevole
  • La sensazione compassionevole
  • L’emozione compassionevole

Attualmente, prospettandosi come terapia integrativa rispetto ad approcci più tradizionali CBT o come valida alternativa nei casi di pazienti particolarmente resistenti, la CFT viene utilizzata per un gran numero di disturbi in quanto il suoi target sono sintomi negativi (auto-criticismo, senso di colpa, vergogna) transdiagnostici ad un’ampia gamma di disturbi: disturbo da stress post traumatico, disturbi dell’umore, dolore cronico e disturbi alimentari.

Una recente revisione sull’argomento, mira infatti a valutare l’impiego della Terapia Focalizzata sulla Compassione per i disturbi alimentari (CFT-E).

Terapia Focalizzata sulla Compassione e Disturbi dell’alimentazione

Da numerose ricerche condotte negli ultimi anni sappiamo che le preoccupazioni riguardo all’alimentazione e al peso sono associate a livelli più alti di autocritica e vergogna, inversamente proporzionali all’autocompassione. I pazienti con disturbo alimentare spesso sperimentano vergogna per il proprio peso, il proprio aspetto, le proprie condotte, senso di inadeguatezza e inferiorità, sensi di colpa, fino a provare odio verso se stessi.

Numerosi studi hanno ipotizzato che la vergogna possa avere un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi alimentari. Sono infatti largamente diffuse le posizioni secondo cui i disturbi alimentari sarebbero una sindrome socialmente determinata, enfatizzata dall’attenzione crescente data al mito della magrezza e della performance. Nell’eterogeneità dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, la vergogna e l’autocritica possono essere considerati due costrutti trasversali, in quanto sono presenti e rappresentano delle spinte all’azione nei diversi disturbi. I pazienti con disturbi alimentari spesso si criticano aspramente, si vergognano e hanno un dialogo interno intransigente, rigido e umiliante.

Non stupisce quindi che la Terapia Focalizzata sulla Compassione possa aver guadagnato interesse nel trattamento di questa tipologia di pazienti, nella misura in cui la terapia incoraggia un approccio verso noi stessi più gentile e accogliente, soprattutto rispetto alle proprie sofferenze.

Rifacendoci alla concettualizzazione dei tre sistemi di regolazione affettiva, è ragionevole pensare che nei pazienti con disturbi dell’alimentazione vi sia uno squilibrio nei tre sistemi in favore del sistema di ricerca di stimoli e risorse e che questo potrebbe attivarsi per regolare il sistema di minaccia attraverso la ricerca dell’orgoglio associato al controllo sul peso e sulla forma corporea.

Infatti numerosi studiosi hanno recentemente discusso circa uno dei più importanti criteri diagnostici per l’anoressia nervosa, ovvero la ricerca della perdita di peso, che non sarebbe motivata da una paura o un evitamento di diventare grassi, ma piuttosto dal piacere che si ottiene dalla perdita di peso.

I pazienti con disturbi alimentari potrebbero inoltre essere bloccati nel sistema della minaccia e rispondere a questo squilibrio con comportamenti aggressivi o evitanti, quali le abbuffate, il purging, l’iperattività e la restrizione. Difatti le difficoltà nella regolazione emotiva sono considerate un fenomeno transdiagnostico nello spettro dei disturbi alimentari e, di conseguenza, le abilità di regolazione emotiva sono considerate uno dei target dei trattamenti. Uno degli obiettivi della CFT in questo senso è quello di implementare quelle abilità che migliorino la regolazione emotiva, riequilibrando i tre sistemi di regolazione affettiva e abbassando i livelli di autocriticismo.

Partendo dal riconoscimento della relazione esistente tra vergogna, odio verso se stessi, autocriticismo e disturbi alimentari, Goss e Allan (2010) hanno ipotizzato che la sintomatologia alimentare potrebbe avere una funzione ben precisa, ovvero quella di fungere da regolatore emotivo, soprattutto per quelle emozioni negative connesse al sistema della minaccia. Potrebbe darsi che in questi pazienti il sistema calmante sia sottosviluppato e sia difficile accedervi, nella misura in cui gli altri due sistemi sono diventati iperattivati e interconnessi in un circolo vizioso che conduce ad altra sofferenza.

Pertanto, nella CFT-E ovvero nella CFT adattata al trattamento dei disturbi alimentari, uno degli obiettivi è quello di promuovere la psicoeducazione sul funzionamento del corpo umano, sfatando il mito di una sua controllabilità. Nello specifico la CFT- E assiste i pazienti nell’acquisire una maggiore consapevolezza su come i loro corpi funzionino e a sviluppare una più compassionevole accettazione del proprio corpo e dei propri bisogni fondamentali: nutrirsi, fare attività fisica e riposarsi. In questo modo i pazienti sono guidati verso una normalizzazione del fenomeno dell’alimentazione, ovvero del nutrirsi adeguatamente e regolarmente. La normalizzazione dell’alimentazione è uno degli obiettivi comportamentali principali della CFT-E e viene ottenuta attraverso le esposizioni ai cibi, la creazione di piani alimentari e la costruzione attiva della motivazione al cambiamento nelle condotte alimentari. Un altro obiettivo comportamentale della terapia è che il paziente sviluppi strategie alternative di gestione dei sistemi di minaccia e ricerca di stimoli e risorse. Ciò si ottiene attraverso lo sviluppo di un sé compassionevole che può essere attivato come auto-aiuto nelle situazioni sociali altamente stressanti per il paziente, inclusa l’accettazione di vivere in una società in cui la dieta e l’aspetto fisico sono spesso al centro dell’attenzione.

La CFT-E è stata inizialmente sviluppata come un programma di gruppo che integrava aspetti della terapia standard per i disturbi alimentari (Fairburn) e della CFT. Il programma prevede tre fasi principali, la psicoeducazione, la costruzione di abilità e la fase di guarigione. Durante la fase di psico-educazione vengono presentate molte informazioni che aiutano il paziente a sviluppare un’analisi funzionale del proprio disturbo alimentare. Viene poi indagata la motivazione a intraprendere un trattamento e introdotto il programma, spiegando ai pazienti obiettivi e svolgimento.

La fase di costruzione di abilità è stata pensata per aiutare il paziente ad acquisire quelle abilità che gli permetteranno di affrontare le sfide insite nel processo di guarigione dal disturbo alimentare. Queste abilità includono: il riconoscimento delle emozioni, la tolleranza alla frustrazione e alle emozioni negative, lo sviluppo del sistema calmante attraverso tecniche di respirazione e immaginative e lo sviluppo del sé compassionevole, attraverso il dare e ricevere compassione nel gruppo.

La fase di guarigione si focalizza sull’utilizzare queste nuovo sé compassionevole, acquisito nella fase precedente, per affrontare le sfide centrali della guarigione dal disturbo alimentare, incluso l’affrontare tutte quelle distorsioni cognitive che possono inficiare il recupero, favorendo così una prevenzione delle ricadute. Infine, l’obiettivo della CFT-E è quello di sviluppare il sé compassionevole e usarlo per:

  • sviluppare sensibilità, consapevolezza e comprensione rispetto ai modi in cui le emozioni e la sintomatologia alimentare sono interconnessi
  • sviluppare empatia verso se stessi e verso i problemi che i pazienti hanno cercato di risolvere ricorrendo al disturbo alimentare
  • sviluppare la consapevolezza rispetto alle sfide insite in un percorso di cura;
  • sviluppare la motivazione a prendersi cura di se stessi;
  • sviluppare la sicurezza e il coraggio necessari per offrire comprensione, supporto e incoraggiamento a se stessi e agli altri membri del gruppo.

Le ricerche sulla CFT—E e sulla sua efficacia sono ancora agli stadi iniziali, tuttavia i risultati di un’integrazione tra la terapia cognitiva standard e la CFT sono incoraggianti e hanno portato a revisioni del trattamento. Nel complesso questa integrazione contribuisce ad aumentare gli strumenti a disposizione dei pazienti per affrontare situazioni difficili durante il percorso di cura e per avere un approccio più compassionevole verso se stessi e i propri problemi. Inoltre la CFT-E si concentra nel favorire una maggiore comprensione del funzionamento della fisiologia del proprio corpo e dell’alimentazione, restituendo ai pazienti maggiore fiducia rispetto alla capacità dei nostri corpi di autoregolarsi rispetto al peso. Ciò potrebbe incoraggiare i pazienti ad abbandonare quelle condotte maladattive volte alla restrizione e al controllo del peso, in favore di un’alimentazione più adeguata e regolare, atta a rispondere a un mero bisogno fisiologico.

Nelle ricerche condotte finora, la CFT-E ha mostrato risultati promettenti, soprattutto per pazienti con diagnosi di bulimia nervosa. Tuttavia, considerata la giovane età di questa terapia, sono necessarie ulteriori ricerche per validarne l’efficacia e per valutarne i possibili sviluppi.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale dei Disturbi Alimentari maschili: una riflessione sul trattamento della preoccupazione per la forma del corpo nell’uomo

Il modello transdiagnostico dei disturbi alimentari si è rivelato come probabilmente valido per i pazienti maschi, tuttavia potrebbe risultare utile all’interno dei protocolli terapeutici tener conto delle differenze di genere riguardanti la percezione dell’immagine corporea.

 

Introduzione

Numerosi dati provenienti dalla ricerca hanno mostrato come la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E – enanched), basata sulla teoria transdiagnostica, risulti efficace per il trattamento di tutte le categorie diagnostiche di disturbi del comportamento alimentare, in particolare per la bulimia nervosa, e una possibile alternativa al trattamento basato sulla famiglia per i pazienti adolescenti (Dalle Grave et al., 2013; 2014). Tuttavia, come spesso accade nel campo di ricerca dei disturbi alimentari, i campioni considerati soffrono di una grande disparità di genere a sfavore dei maschi. Lo scopo di questo articolo è quello di proporre una riflessione su quali sfide possono presentarsi nell’applicazione del protocollo CBT-E con i pazienti maschi e in particolare nel trattamento della valutazione eccessiva della forma del corpo, dove è possibile identificare le maggiori differenze nell’espressione clinica tra pazienti di genere maschile e femminile. Infatti se per le femmine risulta utile trattare certe forme di body check collegate alla paura di ingrassare, per i maschi la questione potrebbe essere diversa e legata al perseguimento degli ideali muscolari.

Il corpo nella clinica dei disturbi dell’alimentazione: drive for thinness e drive for muscularity

Uno degli aspetti centrali dei disturbi del comportamento alimentare riguarda l’insoddisfazione per il proprio corpo. Sebbene tale disagio possa essere individuato con una certa frequenza tra i ragazzi appartenenti alla cultura occidentale, in particolare tra le giovani di genere femminile, nella sua espressione più estrema è considerato come una caratteristica peculiare dei disturbi dell’alimentazione. In particolare si riscontrano notevoli elementi dispercettivi legati all’immagine corporea, quest’ultima definibile come la ‘rappresentazione mentale del corpo’ (Shilder, 1950) e le cui componenti fondamentali sono il corpo ideale, il corpo percepito, l’oggettiva forma del corpo e l’immagine corporea socialmente accettata, dipendente dal contesto culturale di appartenenza (Siciliani, Siani e Castellazzi, 2007). L’elemento che accomuna i disturbi del comportamento alimentare è una grave distorsione dell’immagine corporea, dove il corpo percepito viene considerato molto lontano dal corpo ideale, quest’ultimo influenzato dal proprio contesto sociale. Se nelle femmine sofferenti di un disturbo alimentare tale corpo ideale ruota intorno all’idealizzazione della magrezza e all’eccessivo assillo per le diete (il cosiddetto impulso alla magrezza, drive for thinness) per i maschi la questione potrebbe essere per certi aspetti più eterogenea. Sebbene in letteratura è possibile individuare alcuni casi di disturbi alimentari maschili ‘classici’ e caratterizzati da drive for thiness, simili per espressione clinica a quelli della controparte femminile (Morton, 1689; Whytt, 1764; Willan, 1790), in tempi più recenti la patologia sembra evolversi verso altre direzioni. Per molto tempo si è ritenuto che i giovani maschi fossero meno esposti alle pressioni sociali relative all’immagine corporea e di conseguenza più protetti rispetto all’insorgenza di disturbi dell’alimentazione. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito ad una crescente iper-mascolinizzazione dell’uomo (Ricciardelli et al., 2010) e a un aumento dell’insoddisfazione per il proprio corpo tra i maschi (Pope, Philips & Olivardia, 2000), in cui gioca un ruolo rilevante il progressivo incremento di modelli oggettivanti veicolati dai media riguardanti il corpo maschile, con riferimenti all’esaltazione della forza fisica e la dominanza sessuale (Cafri et al., 2005). Tutto ciò ha portato il genere maschile a essere sempre più esposto a disordini alimentari caratterizzati non tanto da un impulso alla magrezza, come accade per la controparte femminile, ma piuttosto da un impulso a mettere su muscoli e diventare sempre più ‘grossi’ (drive for muscularity). In altre parole gli uomini con una percezione distorta dell’immagine corporea credono di essere troppo gracili e sottili anche quando in realtà possiedono un corpo già muscoloso e atletico, si vergognano del proprio aspetto fisico e, di conseguenza, evitano attività sociali e lavorative, preferendo investire la maggior parte del loro tempo in estenuanti attività fisiche in palestra e a condurre regimi alimentari estremamente rigidi (Ferrari e Ruberto, 2012). Tale manifestazione clinica sembrerebbe per certi versi opposta a quella delle femmine con anoressia nervosa, tanto che in un primo momento questo disturbo venne definito come ‘Anoressia Inversa’ (reverse anorexia), oggi meglio conosciuta come Vigoressia o Dismorfia Muscolare (Pope et al., 1993).

Modello transdiagnostico e disturbi alimentari della sfera maschile

Prima di entrare nel merito della CBT-E applicata ai pazienti maschi è necessario chiarire cosa si intende per modello trandiagnostico, sul quale il protocollo si basa, quando si parla di disturbi del comportamento alimentare. La teoria cognitiva comportamentale transdiagnostica considera i disturbi dell’alimentazione come una categoria diagnostica unica piuttosto che disturbi distinti come suggerisce la classificazione DSM 5 (Fairburn, Cooper & Shafran, 2003). Tale assunto deriva da due importanti osservazioni: in primo luogo tutti i disturbi del comportamento alimentare condividono lo stesso nucleo psicopatologico non rilevabile in altre patologie psichiatriche, il quale si esprime in schemi comportamentali simili, secondariamente si rileva come tali patologie si mantengano stabili nel tempo, con migrazioni diagnostiche tra disturbi alimentari, ma senza evolvere in altri quadri psicopatologici. Infatti non è raro che pazienti con una diagnosi iniziale di anoressia nervosa evolvano nel tempo verso la patologia bulimica (Cooper & Dalle Grave, 2017). Più nel dettaglio il nucleo psicopatologico specifico di questi disturbi si riferisce all’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e dell’alimentazione, da cui derivano i comportamenti che contribuiscono a mantenere il disturbo alimentare i quali includono il controllo del peso, la restrizione alimentare, il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi e le varie forme di body-check. Inoltre possono interagire nel mantenimento della patologia uno o più meccanismi aggiuntivi, quali il perfezionismo clinico, l’intolleranza alle emozioni, la bassa autostima nucleare e difficoltà interpersonali (Cooper & Dalle Grave, 2011). Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere se tale modello possa essere applicato alla comprensione dei disturbi alimentari della sfera maschile e in particolare per quelle forme inverse, dove l’espressione clinica si manifesta con il timore di non essere abbastanza muscolosi. Attualmente sono poche le ricerche che hanno indagato la questione nel dettaglio, ciò potrebbe essere dovuto all’esiguità del campione maschile all’interno della clinica dei disturbi alimentari e a questioni relative all’inquadramento diagnostico degli uomini che manifestano distorsioni dell’immagine corporea. Infatti la Dismorfia Muscolare non rientra tra i disturbi del comportamento alimentare inclusi nel DSM 5, ma è inclusa come specificatore del Disturbo di dismorfismo corporeo all’interno del capitolo ‘Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati’. Tuttavia alcuni autori contestano la scelta del DSM 5 di includere tale disturbo tra quelli ossessivo-complusivi e suggeriscono che la manifestazione sintomatologica (distorsione dell’immagine corporea, rigidità dei regimi alimentari, condotte compensatorie) sia piuttosto sovrapponibile a quella dei disturbi alimentari e più nel dettaglio simile all’Anoressia Nervosa (Murray et al., 2012). Ulteriori dati a conferma di tale ipotesi potrebbero arrivare da recenti ricerche in cui è stato applicato il modello trandiagnostico alla comprensione dei disturbi alimentari nei maschi. Murray e collaboratori (2013) hanno testato le capacità predittive del modello trandiagnostico per la dismorfia muscolare sottoponendo questionari self-report a 119 studenti universitari, il 17% di questo campione proveniva da un precedente studio e soddisfaceva tutti i criteri diagnostici per il disturbo. I risultati di tale studio mostravano come i costrutti del modello, quali perfezionismo, intolleranza alle emozioni e bassa autostima fossero predittivi per la presenza di dismorfia muscolare, mentre le difficoltà interpersonali non mostravano medesimi livelli di significatività. Analogamente Dakanalis e colleghi (2014) hanno riportato come nel complesso il modello risultasse valido per i disturbi alimentari maschili anche se con alcune differenze rispetto alla controparte femminile. Nel dettaglio risultava che l’intolleranza alle emozioni fosse l’unica variabile di mantenimento direttamente collegata alla restrizione alimentare, mentre il perfezionismo clinico, la bassa autostima e le difficoltà interpersonali la influenzavano indirettamente attraverso la preoccupazione per la forma del corpo e il peso, evidenziando l’impatto di tale nucleo psicopatologico nel mantenimento del disturbo nei pazienti maschi. Inoltre, anche se è stato rilevato un legame tra abbuffate e conseguenti condotte compensatorie, non vi sono evidenze di rapporto causa-effetto tra restrizione alimentare e comportamenti di abbuffata. Tali studi, seppur limitati di numero, suggeriscono che la CBT-E potrebbe essere applicata in modo efficace nel trattamento dei disturbi alimentari nei maschi.

Il trattamento della preoccupazione per la forma del corpo nell’uomo

Come già sottolineato in precedenza, la preoccupazione per l’immagine corporea rappresenta uno dei fattori chiave nel mantenimento dei disturbi alimentari e la CBT-E riserva un ampio spazio per affrontare tale caratteristica clinica. Per quanto riguarda gli uomini con disturbo alimentare tale componente risulta essere diversa dalle femmine in quanto, come suggerisce Fairburn (2018):

i pazienti maschi tendono ad essere particolarmente preoccupati della propria muscolatura e della corporatura ma meno del proprio peso.

Ciò detto risulta importante per il trattamento identificare correttamente in cosa consiste la valutazione eccessiva del corpo nell’uomo, quali forme di body-check vengono messe in atto e comprendere quale possa essere il corrispettivo del ‘sentirsi grassa’ nel paziente maschio. Negli uomini che soffrono di insoddisfazione corporea è possibile trovare un’intensa spinta a sviluppare massa muscolare, in particolare mirano ad avere braccia più grosse (Miller, Coffman & Linke, 1980) e a ottenere il cosiddetto ‘corpo a V’ (V shaped body), con spalle molto larghe e muscolose, per passare ad un addome stretto e privo di grasso, che si assottiglia fino ad arrivare alle gambe snelle (Parks and Read, 1997). Tuttavia questi ragazzi, nonostante arrivino ad essere muscolarmente ipertrofici, si percepiscono sempre troppo magri e poco tonici, con un costante timore di regredire rispetto ai risultati ottenuti e un’intensa spinta a migliorare la propria muscolatura. I comportamenti di controllo delle forme del corpo nei maschi con disturbo alimentare riguardano perlopiù lo stato della propria muscolatura, in particolare si esprimono attraverso il confronto con altri uomini, il pizzicare i muscoli, il fletterli davanti allo specchio per valutarne la grandezza e la definizione, con particolare attenzione a braccia e addome, e il chiedere conferma rispetto alla loro rigidità (Walker et al., 2009).

È stato dimostrato che più è alta la preoccupazione relativa alla muscolarità, maggiore è la frequenza di comportamenti di body check e che, inoltre, tali comportamenti aumentano ancora di più l’insoddisfazione per il proprio corpo generando un circolo vizioso (Didie et al., 2010; Walker et al., 2012). Si consideri poi che nei maschi potrebbe prevalere la preferenza a chiedere ad altri un feedback sullo stato della propria muscolatura, piuttosto che attraverso il confronto indiretto come l’osservazione degli altri o l’uso dello specchio, la richiesta avverrebbe chiedendo un commento circa lo stato del proprio fisico o facendo toccare i propri muscoli ad altri, inoltre il valore di tale riscontro sembrerebbe proporzionale alla grandezza e definizione muscolare di colui che fornisce il giudizio (De Sousa Fortes et al., 2017); non è infatti raro che queste persone limitino le proprie interazioni sociali a persone che possono vantare masse muscolari simili o superiori alla propria. Una delle componenti maggiormente affrontate all’interno del protocollo CBT-E, relativa al trattamento della preoccupazione per il peso e la forma del corpo, riguarda il ‘sentirsi grassa’. La sensazione di ‘sentirsi grassa’ viene concettualizzata all’interno del trattamento di derivazione transdiagnostico come aspetto dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Nelle pazienti donne il ‘sentirsi grassa’ è un fenomeno meno stabile di altri aspetti del disturbo alimentare, con fluttuazioni di intensità tra un giorno e l’altro, e potrebbe derivare da un etichettamento errato di certe emozioni o sensazioni corporee (Fairburn, 2018). Tuttavia, come precedentemente detto, il timore espresso dagli uomini nel contesto dei disturbi alimentari riguarda solo in parte la paura di prendere peso e la locuzione ‘sentirsi grasso’ potrebbe non riflettere correttamente la propria esperienza. È invece plausibile ritenere che tale sensazione sia da rimandare alla percezione alterata della propria muscolarità e al sentirsi flaccidi, deboli e poco definiti. Non è ancora chiaro quali parole e sensazioni potrebbero descrivere tale vissuto nell’uomo, ma potrebbe essere individuato un corrispettivo fenomenologico maschile nella sensazione di ‘sentirsi appannato’. Tale terminologia, in voga tra i cultori dello sviluppo muscolare, si riferisce, come spiega De Pascalis (2013):

ad un immaginario velo di grasso che si distribuirebbe sulla muscolatura rendendola meno definita e quindi più appannata. […] sotto il profilo fisiologico questa considerazione non ha fondamento alcuno.

Questo fenomeno sembrerebbe manifestarsi in modo fluttuante durante il giorno, in maniera analoga al ‘sentirsi grassa’, a seguito di uno ‘sgarro’ alimentare o a un comportamento di check corporeo. A tal proposito Murray e Griffiths (2015) hanno descritto il trattamento di un ragazzo di 15 anni che riportava un’intensa insoddisfazione per la propria muscolatura e che, quando percepiva quest’ultima come poco definita, ricorreva a una particolare condotta compensatoria: attraverso l’utilizzo di trucchi cosmetici, ‘ombreggiava’ i muscoli addominali per modificarne la visibilità, per ‘farli sembrare più profondi e farli risaltare di più’.

Conclusioni e prospettive future

Il trattamento della preoccupazione per la forma del corpo, all’interno di un trattamento di derivazione transdiagnostica, potrebbe essere centrale nel trattamento degli uomini con disturbo alimentare, in modo analogo a quanto accade per le pazienti di genere femminile, ma risulta necessario tener conto delle differenze di genere che ruotano intorno al concetto di corpo ideale. È opportuno considerare che, all’interno della clinica dei disturbi alimentari, gli uomini potrebbero manifestare tale disagio in virtù di una tensione verso un corpo dalla muscolatura ipertrofica. Se nelle pazienti femmine l’ideale attorno a cui ruota il corpo desiderato è rappresentato dalla bellezza del corpo magro, nell’uomo tale aspirazione potrebbe essere rivolta alla forza fisica e alla dominanza dell’altro (Ricciardelli et al., 2010). Tuttavia, nonostante tali differenze, il modello transdiagnostico sembrerebbe adattarsi bene anche a queste varianti psicopatologiche tipicamente maschili, ma le evidenze in questa direzione sono ancora poche e future ricerche in ambito clinico dovrebbero approfondire e confermare questi risultati. Le indicazioni all’interno del protocollo CBT-E riguardanti la preoccupazione del peso e della forma del corpo sono ampiamente trattate per le pazienti di genere femminile, ma risultano esigue per il trattamento dei maschi. Future prospettive di ricerca dovrebbero approfondire i comportamenti di body-check e le esperienze riguardanti l’immagine corporea negli uomini con disturbo alimentare, in modo da fornire linee guida valide per il loro trattamento. Recentemente è stato dimostrato che le componenti cognitive ‘Preoccupazione per il peso e la forma del corpo’, ‘Paura di ingrassare’ e ‘sentirsi grassa’ nel trattamento dei disturbi alimentari possono predire l’esito della terapia CBT-E (Calugi & Dalle Grave, 2019), quindi potrebbe risultare di particolare utilità clinica approfondire tali caratteristiche nel contesto della drive for muscularity.

 

Il contributo della ricerca e della clinica in tema di BES e DSA. Lavori in corso… – Report dal Convegno Regionale AIRIPA Puglia – Basilicata 2020

Il 18 gennaio 2020 si è svolto presso l’Ordine dei Medici di Foggia, il secondo convegno regionale AIRIPA Puglia – Basilicata (Associazione Italiana per la Ricerca e l’intervento nella Psicopatologia dell’apprendimento).

 

Durante il convegno il GDL Nazionale di Psicologia Scolastica ha presentato i dati dell’indagine 2018, ‘Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti’, nel poster a cura della prima autrice, la Dott.ssa Francesca Rendine (Fig. 1).

Il convegno ha rappresentato un momento formativo e di aggiornamento sui temi della psicopatologia dell’apprendimento da un punto di vista clinico, ma anche da un punto di vista scolastico evidenziando sin da subito la necessità di una stretta e continua comunicazione fra la clinica ed il mondo scuola, come garanzia del benessere nei processi di apprendimento.

 

Psicologia scolastica Report del convegno regionale AIRIPA 2020 Fig 1

Fig. 1 Presentazione del poster sull’indagine ‘Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti’

 

L’azione del clinico, a favore e supporto del contesto scolastico, inizia con la stesura di diagnosi che contengano anche un profilo di funzionamento come base su cui la scuola possa tagliare una didattica realmente inclusiva. Questo comporta che la scuola, d’altra parte, si apra alla presenza di più professionalità al suo interno e si avvalga di periodi formativi secondo i propri bisogni.

Nei vari interventi si è parlato di apprendimento metacognitivo, di esigenze formative, dell’utilizzo di nuove tecnologie ed in ultimo, non per importanza, della figura dello Psicologo Scolastico.

Apprendimento metacognitivo

Oggi numerose ricerche indicano l’efficacia di un apprendimento di tipo metacognitivo che preveda stimoli molteplici da offrire agli alunni, in cui il ‘mapping’, che porta alla ricerca della soluzione non sia solo un percorso predeterminato e circoscritto alla risoluzione del compito. Aumentare la capacità di compiere inferenze negli studenti di oggi significa lavorare su un’abilità trasversale capace di dare ‘forma e sostegno’ ai processi di elaborazione profonda. La metacognizione porta con sé un senso di autoefficacia che mette in luce variabili relative al processo di apprendimento come esperienza non solo didattica ma anche cognitiva, emotiva e relazionale.

L’importanza della formazione e della comunicazione tra clinici e insegnanti

E’ proprio sull’aspetto relazionale che la ricerca evidenzia il ruolo del modellamento dei comportamenti in ambito scolastico e familiare. L’attenzione verso gli aspetti relazionali richiama in gioco numerose tematiche, in primis, le crescenti esigenze formative per rispondere a bisogni scolastici oggi sempre più complessi.

Dal fronte scuola, l’inclusività deve essere realizzata mediante azioni concrete che riguardano la formazione da destinare agli insegnanti inerente ai BES e i DSA o ancor meglio ai disturbi del neurosviluppo in generale.

‘Se è vero che la scuola non crea disturbi del neurosviluppo, una cattiva gestione degli stessi è capace di indurre sintomi secondari’, dalla riflessione di uno dei relatori appare chiaro il bisogno di definire, in maniera chiara e costante, una comunicazione tra clinici appartenenti al territorio ed enti scolastici per una gestione rispettosa degli studenti e degli insegnanti in termini di persone e di diritti tutelati da specifiche leggi.

Utilizzo delle nuove tecnologie

Di grande interesse sia per l’ambito scolastico che per la gestione quotidiana della crescita dei ragazzi è l’utilizzo delle nuove tecnologie, che ben si intreccia con il processo di apprendimento.

‘Il genitore dovrebbe essere un sussurratore dell’amigdala del suo bambino’, una riflessione che spinge il relatore a prestare attenzione senza per questo demonizzare gli indici di rilevanza nella gestione dell’uso delle nuove tecnologie, oggi presenti a scuola, a casa ed in ambito clinico-riabilitativo.

Fra gli indici risulta di estrema rilevanza l’età di esposizione, secondo cui tanto più è precoce l’esposizione tanto più impedisce lo sviluppo di numerose competenze, quali: fono-lessicali, attentive e di modellamento comportamentale. Si evidenziano ulteriori variazioni quali: modifiche del ritmo sonno-veglia, abilità motorie ridotte, predilezione per processi di pensiero rapidi, modifiche delle dinamiche socio-relazionali.

Se alcuni cambiamenti delineano, nella ricerca, il definirsi di profili cognitivi sempre più rispondenti ad una società odierna ‘veloce’, d’altra parte è illusorio pensare di privare le nuove generazioni di questi strumenti. Un possibile pensiero realistico sarebbe quello di evitare un uso esclusivo delle stesse e di riequilibrare con esso uno spazio in cui si possa coltivare ancora una forma di ‘pensiero lento’.

A tal proposito risultano estremamente interessanti le possibilità di: costruire ambienti ‘free technology’, rinnovare la didattica e progettare e sviluppare nuove tecnologie la cui base sia una solida teoria psicologica. Quest’ultimo fattore potrebbe arginare la produzione di strumenti non idonei a bambini e ragazzi.

Lo Psicologo Scolastico

Particolarmente interessante è stato l’intervento che delinea una totale assenza di normativa che regoli in Italia la presenza dello Psicologo Scolastico, figura spesso affidata a progetti che rispondono ad emergenze contingenti con risorse temporali ed economiche del tutto inadeguate. Tali interventi inoltre tagliano fuori dall’operato dello Psicologo Scolastico ogni genere di intervento preventivo.

La figura dello Psicologo Scolastico si avvale di attività in linea al contesto in cui opera, dunque non svolge alcun tipo di attività clinica (nessun tipo dunque di diagnosi), nè avvia percorsi di cura specialistica (nessun tipo di psicoterapia). Questi aspetti sono determinanti nel definire non solo l’operato dello Psicologo Scolastico ma anche un titolo specifico idoneo al contesto che è quello di Psicologo e non di Psicoterapeuta, il cui scopo è offrire servizi di Psicologia Scolastica.

La Psicologia Scolastica promuove dunque il benessere di tutti gli utenti del mondo scuola attraverso:

  • la prevenzione di comportamenti a rischio;
  • la formazione degli insegnanti;
  • la gestione dei bambini che presentano BES o hanno ricevuto una diagnosi di DSA.

In queste attività, come in tante altre di pertinenza psicologica, si evince il ruolo specifico di professionista del sociale che lo psicologo va a rivestire nel contesto scolastico utilizzando tecniche e strumenti che garantiscano il benessere di tutti gli utenti, supportando in primis le dinamiche relazionali tra insegnanti, alunni e famiglie ma soprattutto avvalendosi di azioni specifiche che permettano la crescita-sviluppo degli studenti non solo da un punto di vista didattico.

 

Adozione infantile e salute mentale in età adulta: il ruolo dell’interazione tra genetica e ambiente

Eventi avversi durante l’infanzia sono stati associati a condizioni di salute mentale negative in età adulta. L’adozione nelle prime fasi di vita è un possibile esempio di esposizione alle avversità.

 

E’ stato dimostrato, infatti, che gli individui adottati nella prima infanzia hanno maggiori probabilità di sviluppare problemi di salute mentale, difficoltà e ritardi nello sviluppo, disturbi di personalità, depressione, ansia, disturbi da uso sostanze e problematiche comportamentali persistenti fino all’età adulta. Le cause principali sembrano essere i fattori ambientali sperimentati nell’ambiente prenatale (es. abuso di sostanze da parte della madre, stress e problemi di salute) e postnatale (es. stato socioeconomico inferiore, abbandono e abuso). Tuttavia, anche i fattori genetici possono contribuire al maggior rischio di disturbi mentali in quanto, i disturbi precedentemente citati, possono essere già presenti nei genitori biologici di coloro che vengono adottati. Questo è un esempio di correlazione gene-ambiente passiva (rGE), in cui la predisposizione genetica di un individuo è correlata all’ambiente o agli ambienti dell’infanzia in cui è nato e cresciuto. Un altro possibile scenario è l’interazione gene per ambiente (GxE), in cui la vulnerabilità genetica modera l’effetto dell’ambiente sulla salute mentale.

Uno studio di Letho et al. (2019) si è posto i seguenti obiettivi:

  • Esplorare le associazioni tra possibili eventi avversi avvenuti durante il processo di adozione infantile e la salute mentale in età adulta;
  • Valutare l’rGE confrontando il rischio genetico per disturbi psicopatologici e salute mentale (depressione, schizofrenia, nevroticismo o benessere psicologico) tra soggetti adottati e non adottati;
  • Esplorare le potenziali interazioni GxE tra coloro che sono stati adottati e salute mentale.

Il campione finale comprendeva 243.480 persone (54,4% femmine) di età compresa tra i 39 e 73 anni, di cui 3151 individui adottati nei primi anni di vita. I soggetti sono stati reclutati dall’ampio database della UK Biobank (UKB).

In relazione alla salute mentale sono stati indagati i seguenti fattori:

  • Sintomi depressivi: indagati attraverso le risposte a due item self-report costruiti dagli autori del presente studio che fanno riferimento all’umore depresso (“Quanto spesso ti sei sentito depresso, triste o senza speranza?”) e alla mancanza di piacere e interesse (“Quante volte hai avuto poco interesse o piacere nel fare le cose?”) nelle ultime due settimane.
  • Probabile depressione maggiore: la valutazione era basata su risposte a domande auto-riferite sulla depressione maggiore (sintomi e durata) e sulla frequenza con cui un individuo si è rivolto ad un medico o ad uno psichiatra. Anche in questo caso gli item sono stati costruiti dagli autori.
  • Probabile disturbo bipolare I o II: valutato considerando gli stessi item utilizzati per indagare i sintomi depressivi oltre a item relativi alla mania o ipomania.
  • Nevroticismo: valutato con il questionario di Eysenck sui 12 elementi di personalità (Revised Short Form, EPQ-RS; Eysenck, Eysenck, & Barrett, 1985).

Per quanto riguarda i fattori psicosociali, invece, sono stati presi in considerazione il benessere soggettivo, la felicità e eventi di vita stressanti recenti. Il benessere soggettivo è stato indagato con 5 item volti a catturare vari aspetti della soddisfazione generale della vita (lavoro, famiglia, salute, amicizia, situazione finanziaria); la felicità è stata valutata con un unico item rispondente la domanda “In generale quanto sei felice?”; infine, ai partecipanti è stato chiesto se avessero sperimentato alcuni dei seguenti eventi negli ultimi due anni: malattie gravi, lesioni/aggressioni a sé stessi, infortuni o aggressioni ad un parente stretto, morte di un parente stretto, morte di un coniuge/compagno, separazione/divorzio e difficoltà finanziarie. In ultimo, sono stati valutati anche fattori socioeconomici (istruzione, reddito familiare) e comportamento sanitario (stato relativo al fumare: mai fumato, fumatore precedente, fumatore attuale).

I risultati mostrano che gli individui adottati avevano punteggi inferiori su quasi tutti gli aspetti di salute mentale, socioeconomici e psicosociali, rispetto ai soggetti non adottati. Le analisi hanno anche sottolineato correlazioni genetiche positive tra adozione infantile, genere maschile, sintomi depressivi, disturbo depressivo maggiore, schizofrenia, comportamento relativo al fumo e rendimento scolastico negativo.

Non sono state evidenziate differenze significative tra individui adottati e non adottati in relazione alla felicità, alla soddisfazione generale della vita, al lavoro, alla relazione familiare e all’amicizia. Non è stata evidenziata nessuna correlazione con il nevroticismo e il benessere soggettivo. In conclusione, i soggetti adottati mostrerebbero una maggior predisposizione genetica verso problematiche nell’area della salute mentale; questo suggerisce che l’associazione tra adozione infantile e salute mentale non possa essere pienamente attribuita ad ambienti stressanti (traumi, abusi, abbandoni), ma sia in parte spiegata dalle differenze nel rischio genetico tra soggetti adottati e quelli non adottati, ossia da una combinazione complessa di rischio genetico e fattori ambientali (correlazione gene-ambiente).

La ricerca sull’interazione tra genetica e ambiente nella genesi dei disturbi mentali nell’infanzia e nell’adolescenza è ancora aperta. I limiti del presente studio riguardano l’assenza di informazioni sull’entità del trauma (cioè sulle circostanze che precedono e portano all’adozione), sull’età in cui è avvenuta l’adozione e sulla compresenza di genitori biologici e adottivi nell’ambiente di vita del bambino. Un possibile suggerimento per studi futuri è indagare e integrare queste informazioni per avere dei risultati più completi sull’interazione GxE. Un ulteriore limite è costituito dal numero ridotto di item self-report utilizzati per indagare i diversi costrutti che, in aggiunta, non consentono di escludere false dichiarazioni riguardanti lo stato di adozione.

 

 

Una madre incontra la figlia morta grazie alla realtà virtuale: un ostacolo o un aiuto nell’elaborazione del lutto? – Alcune domande e riflessioni sull’argomento

La realtà virtuale è uno strumento pieno di potenzialità, sempre più utilizzato nel campo della salute mentale. Un recente video di una madre che grazie alla Realtà Virtuale re-incontra la figlia morta ci mette dinnanzi a numerose questioni. Data la delicatezza di questo ambito sorge spontaneo interrogarsi sulla regolamentazione e il controllo di questo mezzo, per evitarne utilizzi impropri.

 

E’ recente la pubblicazione di un video in cui una madre ha potuto re-incontrare tramite Realtà Virtuale la figlia deceduta a soli 7 anni per una grave malattia.

Nel video, condiviso giovedì 6 febbraio dalla Munhwa Broadcasting Corporation sul proprio canale YouTube e intitolato I Met You, si vede la giovane mamma che, dinnanzi a un enorme schermo verde, munita di un visore per la Realtà Virtuale e di guanti tattili, si trova di fronte alla sua piccolina che le parla, la tiene per mano e festeggia con lei il suo compleanno. Il resto della famiglia, il padre, la sorella e il fratello della piccola precocemente scomparsa, guardano il video dell’esperienza dall’esterno.

La mamma, come facilmente ci si aspetterebbe, inizia a piangere nel momento in cui vede la figlia, così come commossi e mesti sono i parenti che assistono al tutto.

I MET YOU – Guarda il video

 

“Forse è un vero paradiso – ha detto la mamma dopo l’esperienza – Ho incontrato Nayeon, che mi ha chiamato con un sorriso, per un tempo molto breve, ma è stato un momento felice. Penso di aver avuto il sogno che ho sempre desiderato”. 

Secondo quanto riporta Aju Business Daily, il team di produzione ha impiegato otto mesi per il progetto. Hanno creato l’ambientazione virtuale, un parco che madre e figlia avevano realmente visitato in passato, e hanno usato la tecnologia di motion capture per registrare i movimenti di un attore bambino, utilizzati in seguito come modello per la loro Nayeon virtuale.

Il tutto ricorda un episodio della serie Black Mirror dal titolo Be right back, in cui la protagonista, a seguito della morte del compagno, si rivolge a un’azienda che progetta e realizza androidi con le stesse sembianze e la stessa personalità del defunto. Chi ha seguito la serie ricorderà l’epilogo dell’episodio, ma possiamo immaginare l’epilogo di ciò a cui stiamo assistendo?

Le implicazioni che questo uso della realtà virtuale porta con sé sono notevoli e, forse mossa da un desiderio di confronto tra colleghi, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni (e soprattutto domande) sull’impatto psicologico che una tale esperienza potrebbe avere su chi ha perso una persona vicina.

Sappiamo bene che chi subisce un lutto passa attraverso diverse fasi di elaborazione dell’evento fino ad arrivare a quella, auspicabile, dell’accettazione e riorganizzazione: metabolizzare la perdita e continuare la propria vita dopo il vuoto lasciato. Tramite queste esperienze di realtà virtuale, si può essere davvero in grado di raggiungere l’accettazione? O indossare un visore e rivivere i momenti con il defunto può bloccarci nei ricordi, non consentendoci di comprendere fino in fondo che quella persona non c’è più? Qualcuno potrebbe controbattere dicendo che in fin dei conti è solo una versione più tecnologicamente evoluta del rivedere in continuazione foto e video della persona scomparsa. Qualche anno prima era stato il turno dell’ascolto compulsivo della voce del defunto dalla segreteria telefonica, comportamento tra l’altro più volte riprodotto in diversi film, quasi a sottolinearne la “normalità”. Tuttavia, la staticità delle foto, il sentire la sola voce di chi non c’è più senza poterlo vedere e il distacco del video non ci mettono dinnanzi al fatto che ciò che osserviamo è passato ed è il passato? Con la realtà virtuale non siamo forse portati a illuderci che chi abbiamo perso è ancora lì a interagire con noi? Non si potrebbero, di conseguenza, verificare comportamenti di vera e propria dipendenza da Realtà Virtuale (VR) in un momento già particolarmente delicato?

E’ risaputa l’efficacia che la realtà virtuale ha nel trattamento di diverse patologie, come ad esempio le fobie, quindi perché non vedere l’utilizzo della VR come promettente anche nel campo dell’elaborazione del lutto? Per il momento mi verrebbe da pensare che, mentre nel caso degli altri disturbi, la VR è risultata molto utile nel ridurre strategie di evitamento di fatto disfunzionali per l’individuo, nel caso del suo utilizzo nell’ambito del lutto sembrerebbe un po’ aumentare l’evitamento stesso. L’evitamento dell’inevitabile dolore che quella perdita comporta. O forse si può pensare a un trattamento in cui il terapeuta accompagna via via il paziente a rinunciare sempre di più alla VR (forse più adeguata in un momento iniziale) per poter gradualmente accettare il dolore della perdita?

Probabilmente la VR potrebbe risultare utile per quei lutti improvvisi, in cui non si è avuta la possibilità di dire al defunto tutto ciò che avremmo voluto dirgli. Ma anche in questo caso: non sarebbe meglio, un po’ come nelle terapie del trauma, trovare un modo per metterci in contatto con noi stessi mentre viviamo quel momento doloroso, dirci ciò che avremmo bisogno di sentirci dire ora di noi in quel momento, piuttosto che parlare con l’altro in quel momento? O forse dicendo all’altro ciò che avremmo voluto dire abbiamo la possibilità di parlare indirettamente a noi stessi in quel momento (fornendo al contempo dati preziosi al terapeuta che segue il paziente)?

Un altro aspetto da non dimenticare e sul quale il video fa riflettere, è la presenza di altre persone che vivono lo stesso lutto di chi si immerge nella VR. Pensiamo per esempio, come in questo caso, a un bambino che ha perso un fratellino e vede la mamma assente, presa dal visore e presa dal rivivere momenti con l’altro figlio che non c’è più, quanto si andrebbe ad amplificare un trauma già troppo difficile da vivere per un bambino?

Si potrebbero sollevare tante altre questioni in merito, un punto su cui prestare attenzione, a mio avviso, non è demonizzare o idealizzare uno strumento tout court, ma comprendere bene l’uso che ne si può fare. Senza abbandonarsi a facili allarmismi, ciò che è stato creato è qualcosa di molto potente che, se non regolamentato e controllato, potrebbe far leva sul dolore delle persone e sul loro essere disposte a dare un prezzo all’esperienza di vedere e parlare ancora con chi non c’è più. Sta quindi a chi si occupa di salute in generale, e mentale nella fattispecie, interrogarsi e trovare il modo di evitare usi impropri dei mezzi che la tecnologia ci offre, riflettendo magari sulle potenzialità che un utilizzo guidato di questi nuovi strumenti potrebbe avere nel nostro campo, così da aiutare davvero chi soffre, anche quando il dolore è straziante, come nel caso di un lutto.

 

Come la musica suscita emozioni: un pomeriggio con Massimo Priviero

Sono diversi gli aspetti della musica che ci portano a provare un’emozione. A cominciare dalla struttura del brano. Per quanto esposto in questo articolo faremo particolare riferimento al testo “Psicologia e musica” e ad un evento musicale organizzato lo scorso 8 febbraio con la presenza di Massimo Priviero, musicista, cantante e scrittore.

 

Tra tutte le arti la musica è probabilmente quella capace di emozionarci di più e questo è il principale motivo per cui ci piace ascoltarla. Abbiamo già parlato delle 13 emozioni suscitate dalla musica vediamo ora in che modo la musica fa nascere queste emozioni.

Per quanto esposto in questo articolo faremo particolare riferimento al testo “Psicologia e musica” e ad un evento musicale organizzato lo scorso 8 febbraio.

Come la struttura della musica determina le emozioni

Sono diversi gli aspetti della musica che ci portano a provare un’emozione. A cominciare dalla struttura del brano, il variare della sua intensità può mutare la nostra percezione e il livello della nostra emozione ad esempio risultando inizialmente calmo, poi gioioso e infine malinconico.

Senza addentrarci in un’ analisi dell’effetto emotivo prodotto dalle note, che ai non addetti ai lavori risulterebbe complicata, possiamo limitarci a considerare come in generale le note crescenti risultino allegre e quelle calanti vengono percepite come tristi. Una spiegazione è che i suoni calanti sono tipicamente emessi da chi soffre e si lamenta e per questo motivo vengono istintivamente catalogati come tristi, mentre espressioni di gioia hanno tipicamente un andamento crescente e questo viene quindi percepito come allegro.

Tra i fattori strutturali che giocano un ruolo nell’espressione dell’emozione in musica troviamo il tempo. Un tempo veloce, ad esempio, varia considerevolmente la dimensione dell’arousal, ossia la risposta del sistema nervoso ad uno stimolo, che da luogo ad eccitazione e ad un acuirsi del sistema attentivo-cognitivo.

Anche la complessità armonica e ritmica di un brano ha un ruolo importante, musiche troppo dissonanti (come spesso accade nella musica contemporanea, hanno sovente una connotazione negativa e sgradevole.

La musica si sviluppa su un piano temporale (parleremo tra poco delle aspettative), nell’istante in cui ascoltiamo non sappiamo cosa accadrà un attimo dopo e questo genera attesa.

L’attesa è fortemente legata all’emozione ed è frutto di un’elaborazione non cosciente, se così non fosse sarebbe difficile spiegare perché continuiamo a provare emozione anche nell’ascolto ripetuto di uno stesso brano. Un’elaborazione non cosciente del pezzo, al contrario, procede ad ogni ascolto a ricalcolare le attese in modo che la loro conferma o meno dia luogo all’aspetto emotivo del brano.

L’aspettativa

Nella fruizione di un brano l’ascoltatore nutre inconsciamente delle aspettative su come quel pezzo andrà sviluppandosi. In generale, se la sua struttura avrà l’effetto di confermare la nostra aspettativa si verificherà un’emozione positiva, in caso contrario prevarrà un senso di negatività e di sorpresa.

Generalmente le canzoni che preferiamo nel loro andamento sonoro sono una via di mezzo tra la conferma delle nostre aspettative e l’effetto sorpresa. Sono quindi canzoni definite di “media complessità”, con un’incertezza moderata, dove ad uno svolgimento prevedibile si alternano sorprese.

Ma non è sempre così semplice: anche il livello di certezza o meno che raggiungiamo attraverso l’ascolto ha un suo peso. Pare infatti che se ci sentiremo quasi assolutamente sicuri di quale sarà la nota o l’accordo che seguirà, un’eventuale sorpresa ci provocherà piacere, al contrario, se ci sentiremo incerti su come il brano si svilupperà, proveremo più piacere nel non essere sorpresi dall’accordo successivo.

Non va dimenticato poi che la musica viene prodotta con uno scopo. Chi la compone vuole trasmetterci qualcosa, quindi la sua struttura, il contesto, le parole che la accompagnano mirano anche a manipolare le nostre aspettative contribuendo a dar vita ad una specifica emozione. Come per le parole, dove frequenza, intensità e distribuzione dei suoni trasmettono un certo tipo di messaggio, anche nella musica agiscono gli stessi elementi.

Chi parla con rabbia assume un ritmo veloce, un timbro ed un’intensità alta, uguali caratteristiche danno ad un brano musicale il potere di suscitare un’emozione di rabbia e così via.

L’evento

L’evento di cui vi parliamo ha avuto luogo nella struttura avveniristica di Oxy.gen a Bresso (Mi), che ospita attività culturali e formative. Con noi Massimo Priviero, che ha messo a disposizione la sua trentennale esperienza di musicista, cantante e scrittore.

Per coinvolgervi in quanto è avvenuto, vi invitiamo a seguirci in questo racconto.

Immaginate di trovarvi sulle rive di un piccolo lago..

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm1

Davanti a voi un ponte in legno, porta ad una bolla d’aria che galleggia sull’acqua. Lo percorrete fino in fondo. Entrate. La struttura circolare vi accoglie, siete in uno spazio astratto, tutto il resto è rimasto a riva.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm2

Con voi altre persone, tante persone, ma c’è silenzio, la luce filtra dalle tende a soffietto che ricoprono le vetrate, in lontananza si sente il verso delle anatre, le ombre degli uccelli in volo si riflettono all’interno.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero - Imm3

Inizia la musica. C’è un tema dominante in quello che si ascolta: un messaggio positivo di forza, fiducia, speranza. La capacità il coraggio necessari per superare gli eventi, siano essi difficili o dolorosi, la volontà di rialzarsi sempre e di volare più in alto.

Musica ed emozioni report dall evento musicale con Massimo Priviero

 

Alcuni stralci

Il pubblico presente si può dividere equamente in persone che già conoscono molto bene i pezzi che si ascolteranno e che avevano già partecipato a rappresentazioni live degli stessi, e persone che ascolteranno questa musica per la prima volta.

Ed ora leggete questi stralci e il senso che si è cercato di trasmettere:

Ringrazio il mio Dio del Cielo,
per la mia anima inespugnabile
Ringrazio ogni uomo vero,
sia mio compagno inattaccabile
Ringrazio le bombe che mi cadono intorno ogni giorno
che mi feriscono ma non mi uccidono mai
Ringrazio la vita che sia paradiso od inferno,
è gioia e fango, ma è tutto quello che hai
E per ogni alba che viene e ogni notte che va
Per il sorriso ed il pianto che volano via
Ringrazio ogni giorno guerriero di vita mia

(da “Orgoglio”, Massimo Priviero)

Questo pezzo è scritto in un momento di forte fragilità. Fragilità non legata ad un fatto specifico ma semplicemente figlia di un modo di essere che vive di alti e bassi. Una forma di terapia interiore, come se fosse una necessità dire a sé stessi che ha un senso essere stati ed essere quanto si è. Pur mettendosi in discussione.

E’ spesso sorprendente come in un tempo difficile si possano scrivere parole che invece prendono forma di forza esistenziale. Ripetere la parola ringrazio all’inizio di ogni verso è un voler ringraziare di essere vivo pensando che valga la pena difendere il proprio modo di stare al mondo.
Mettersi ad un tavolo e scrivere qualcosa del genere fa nascere quasi una sorta di felicità che un po’ alla volta prende forma e si condivide. A questo punto ognuno può prendere quel che meglio crede, ognuno può trovarci dentro una frase che lo tocca di più, ognuno può sentirci quel che vuole.

E’ come se alzaste gli occhi al cielo e vi venisse da dire “in questo viaggio che è la mia vita, in tante volte in cui pure cado in terra, io qualche volta il cielo lo vedo e, questo, sono felice che accada”.

E ancora:

Dove sei, dove sei dolce angelo mio
Dove sei, dove sei che non ti vedo mai
Sono io la tua voce che saprà gridare
Sono io la tua mano che non può tremare
Sono io la tua forza che saprai cercare
Sono io le campane che ieri han suonato
Sono io la tua vita che non hai venduto
Sono io l’alba nuova che saprai cercare
Sono io insieme a Cristo venuto a salvare
Ma se un uomo domani ti chiederà
Se un uomo domani ti chiederà
Tu digli che sono le ali, io sono le ali, della sua libertà

(da “Ali di Libertà”, di Massimo Priviero)

Le immagini che sono in questo pezzo sono spesso la difesa di chi ha poco altro a cui aggrapparsi che non siano proprio queste ali. Non c’è alcuna cosa che conta di più nella vita di un uomo che essere libero, non c’è nulla al mondo per cui tu possa farne a meno. Cerchiamo di dare un volto a quanto ci spinge avanti, alle ragioni per cui val la pena di vivere, o a qualunque cosa pensiamo che debba avere risposta.

Forse le Ali di libertà sono semplicemente quelle che ci servono per farci proprio queste domande che non hanno risposta. Ma che, ostinatamente ci facciamo. E, forse, in questa necessità arriviamo al bisogno di chiudere gli occhi e di farci trasportare dentro ai suoni e alle parole. E magari in quel momento smettiamo di farci domande a cui non sappiamo dare risposta.

Conclusioni

Ascoltare un disco è certamente fonte di emozione ma andare ad un concerto lo è sicuramente molto di più. Ascoltare musica dal vivo è indubbiamente considerato il modo migliore per sperimentare un coinvolgimento emotivo.

Se fino ad ora abbiamo parlato delle emozioni come di qualità intrinseche della musica, una parte importante dell’emozione in musica è suscitata dall’esperienza personale.

Sul piano percettivo vi è una forte somiglianza sul modo in cui ciascuno percepisce la musica, più difficile affermare la stessa cosa sul piano emotivo perché entrano in gioco fattori quali storia personale, contesto sociale e culturale, stato d’animo.

Per tornare al nostro evento, la definizione più utilizzata a fine spettacolo per descrivere quanto vissuto è stata “una forte emozione”, seguita da “positività” e “forza”.

Alcune canzoni hanno suscitano emozioni perché collegate ad un ricordo, ma è stato confermato che anche canzoni ascoltate per la prima volta sono state in grado di emozionare e, soprattutto, di evocare in ciascuno le stesse emozioni, indipendentemente da età, sesso, cultura, ed esperienze personali.

Durante l’ascolto dal vivo si verifica uno scambio fisico ed emotivo tra chi esegue il brano, il singolo ascoltatore e l’insieme del pubblico. Inoltre, come già detto, in chi produce musica (l’artista che canta o che suona) c’è il proposito e la volontà di trasmettere con quei suoni determinati sentimenti ma lui stesso risente della risposta emotiva che gli arriva dal suo pubblico.

Si ascolta e si produce musica con la propria energia e con il proprio stato d’animo di quel momento ma anche l’insieme di attenzione e partecipazione del pubblico influenza sia la produzione dei suoni che l’effetto che questi producono sul singolo ascoltatore.

Inevitabilmente accade che se siamo tesi, arrabbiati, preoccupati, il nostro livello di attenzione cala e l’ascolto avrà meno possibilità di trasmetterci emozioni. Al contrario, se siamo rilassati, saremo più aperti a favorire uno scambio emozionale con ciò che ci circonda.

Nda: Si ringrazia l’Associazione Il Riccio, Il Comune di Bresso e la Fondazione Zoé-Zambon che hanno reso possibile la realizzazione di questo evento

 

La metodologia snoezelen: esplorare rilassandosi

La tecnica Snoezelen ha prodotto interessanti risultati con un crescente numero di malati affetti non solo da demenze, ma anche da altre disabilità cognitive e patologie psichiatriche.

 

Tra le innovative terapie non farmacologiche utilizzate troviamo la “Sensory Room” o “Snoezelen Room”, la quale pone il suo focus terapeutico, insieme alle più famose “Doll Therapy” e “Pet Therapy”, sull’aspetto sensoriale della persona affetta non solo da possibile demenza, ma anche da autismo, disabilità cognitive, patologie psichiatriche, disturbi da stress post-traumatico, lesioni cerebrali, controllo del dolore acuto e cronico e prevenzione del burn-out professionale.

Introdotta e messa a punto alla fine degli anni ’70 in Olanda dai terapisti Jan Hulsegge e Ad Verheul come intervento per persone con disturbi dell’apprendimento, la metodologia prevede la creazione di ambienti dedicati a creare focus di attenzione e suggestioni attraenti al fine di:

  • Promuovere il rilassamento
  • Stimolare le abilità senso-motorie residue
  • Ridurre i comportamenti-problema e aumentare quelli positivi
  • Migliorare il tono dell’umore
  • Facilitare l’interazione e la comunicazione
  • Promuovere la relazione con il caregiver

I principi base di tale trattamento sono:

  • L’esperienza si svolge in uno specifico ambiente fisico multi-sensoriale in cui vista, udito, tatto e odorato sono stimolati positivamente tramite l’utilizzo di effetti luminosi, musicali e uditivi, aromi, forme e superfici tattili
  • L’atteggiamento dei praticanti è “Centrato sull’ospite” e sui suoi bisogni
  • Gli stimoli devono essere controllati in base alle esigenze dell’ospite
  • L’ambiente sensoriale non è né positivo né negativo
  • L’operatore si basa sul punto di vista dell’ospite

La tecnica Snoezelen ha prodotto interessanti risultati con un crescente numero di malati affetti da morbo di Alzheimer, in particolare intervenendo nel trattamento dei “BPSD”, ossia dei disturbi comportamentali nella demenza; in particolare, esistono studi di caso in RSA e nuclei Alzheimer in cui vi sono stati evidenti risultati migliorativi nella gestione dei momenti critici quali quello, ad esempio, del fare il bagno: la progettazione di ambientazioni comprendenti strumenti con richiami all’acqua consente agli operatori di iniziare percorsi di narrazione finalizzati ad un avvicinamento di tipo “Gentle care”.

Prima di cominciare un percorso in una stanza multi-sensoriale e per progettare al meglio le sedute, il terapista deve conoscere:

  • Biografia dell’ospite
  • Quadro clinico e terapia farmacologica
  • Predisposizione dell’ospite nel “qui ed ora”

Inoltre:

  • Si adegua alle forme ed alle modalità di comunicazione della persona
  • E’ un partner pienamente coinvolto nell’azione
  • E’ una guida coscienziosa per la persona a cui il trattamento è rivolto
  • E’ aperto verso i segnali inviati dalla persona
  • Incoraggia la libera scelta della persona

Poiché le sedute possono essere di tipo individuale o gruppale, differenti ma simili sono i protocolli attuabili. Nel primo caso:

  • FASE 1: accoglienza ed adattamento all’ambiente
  • FASE 2: selezione degli stimoli adeguati
  • FASE 3: osservazione delle reazioni del paziente
  • FASE 4: compilazione delle schede di osservazione
  • Durata dell’intervento: 2-4 sedute settimanali della durata dai 25 ai 60 minuti in momenti della giornata in cui i pazienti manifestano varie problematiche comportamentali
  • Stimoli sottoposti: 1-2 variabili
  • Requisiti: agitazione psico-motoria (come wandering), aggressività fisica e/o verbale, deliri, ansia
  • Obiettivi: riduzione della contenzione farmacologica e fisica in modo da creare positivi percorsi di cura interno alla struttura e per coinvolgere i caregiver in nuove forme di relazione con i propri cari

Nel caso in cui la seduta sia di gruppo:

  • FASE 1: selezione del gruppo (3-4 persone)
  • FASE 2: accoglienza e adattamento all’ambiente
  • FASE 3: selezione degli stimoli adeguati
  •  FASE 4: osservazione delle reazioni del paziente
  • FASE 5: compilazione delle schede di osservazione
  • Durata dell’intervento: 1-3 sedute settimanali della durata dai 25 ai 60 minuti
  • Stimoli sottoposti: 1-2 variabili
  • Requisiti: apatia
  • Obiettivi: stimolazione/riattivazione dei pazienti sottoposti al trattamento

Gli arredi sono creati e sempre adattabili a seconda delle diverse dinamiche personali per attuare al meglio il progetto terapeutico. Le stanze di permanenza e degenza non sono più luoghi impersonali dove sostare, ma sono ambienti personalizzati, stimolanti, e soprattutto che accolgono e fanno sentire l’ospite al sicuro come a casa propria, stanze dove la permanenza diventa quindi un’importante esperienza di benessere a 360 gradi.

 

Alzheimer e deprivazione del sonno: non dormire aumenta la probabilità di sviluppare l’Azheimer?

La malattia di Alzheimer, conosciuta anche come morbo di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante.

 

L’età di esordio è mediamente intorno ai 65 anni, l’incidenza raddoppia ogni 5 anni da dopo i 60 anni; si tratta di una demenza primaria, ciò significa che i fattori eziologici sono ancora sconosciuti (Benedict et al., 2020) e ad oggi risulta che il 70% dei disturbi neuro-cognitivi è dato dalla malattia di Alzheimer.

All’interno del DSM-5 viene denominata come Disturbo neuro-cognitivo maggiore o lieve dovuto a malattia di Alzheimer (Benedict et al., 2020).

Uno dei primi sintomi che compare è la difficoltà nel ricordare gli eventi recenti, quindi la perdita di memoria a breve termine, mentre rimangono (inizialmente) conservati i ricordi più datati.

Con il progredire della malattia emergono altri sintomi come: afasia, disorientamento spazio-temporale, oscillazioni dell’umore, incapacità di prendersi cura di sé e alterazioni comportamentali (per esempio aggressività) (Benedict et al., 2020).

Nel cervello di un malato di Alzheimer è possibile osservare la formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, le prime sono delle formazioni di beta-amiloide, una proteina che agisce come collante tra i neuroni, inglobando così placche e grovigli neurofibrillari, si denota inoltra una forte diminuzione di acetilcolina, neurotrasmettitore fondamentale per la comunicazione tra i neuroni;  mentre per quel che riguarda i filamenti neurofibrillari, si formano all’interno del neurone, cioè nel citoplasma, degli accumuli di proteina tau, che porta il neurone ad avere dei malfunzionamenti (Hardy & Higgins., 1992) .

I fattori sopra elencati portano progressivamente alla morte dei neuroni, causando così nel paziente sintomi sempre più gravi nel tempo, fino alla morte (Hardy & Higgins., 1992).

Attualmente i ricercatori stanno cercando di comprendere il motivo per cui vengono a formarsi gli accumuli di beta-amiloide nello spazio extracellulare e di proteina tau all’interno del neurone (Benedict et al., 2020).

Un recente studio ha preso in esame 16 soggetti sani, i quali sono stati divisi i due condizioni sperimentali, una di deprivazione del sonno, mentre l’altra di sonno normale; in seguito hanno misurato i livelli di proteina tau presente nel sangue. I risultati mostrano che i soggetti che erano stati esposti alla condizione di deprivazione del sonno mostravano livelli significativamente più alti di proteina tau nel sangue, per la precisione, 17% in più rispetto ai soggetti nella condizione di riposo (Benedict et al., 2020).

Questi dati suggeriscono che anche una sola notte di sonno mancato porti ad un incremento dei livelli di proteina Tau nel sangue, agendo così come potenziale fattore di rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer; i ricercatori sottolineano inoltre che l’importanza di questo risultato è visibile a livello clinico nei pazienti con Alzheimer, infatti uno dei sintomi di questo disturbo è l’insonnia. Potrebbe essere quindi quest’ultima a causare l’accumulo di proteina tau tipica di questo disturbo? I ricercatori concludono sottolineando l’importanza di questi dati e la necessità di ulteriori ricerche per confermare ulteriormente i risultati (Benedict et al., 2020).

Il suicidio in adolescenza: dolori inascoltati! La tragedia del liceo Frisi

Monza ha vissuto una tragedia, in particolare il liceo Frisi: due ragazzi, rispettivamente di 19 e 18 anni, si sono tolti la vita a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro. Stando alle indagini della Polizia non emerge alcun collegamento tra le due tragedie avvenute.

 

Il suicido rappresenta oggi una delle prime cause di mortalità nella fascia d’età compresa tra i 15 ed i 19 anni, rappresentando una priorità assoluta in termini di prevenzione. L’incidenza intercetta una differenza di genere: i giovani maschi si suicidano più spesso rispetto alle giovani donne. Queste ultime compiono però numerosi tentativi di suicidio e spesso sviluppano una storia clinica di depressione.

L’azione del suicidio è accompagnata nel genere maschile anche dall’abuso di sostanze, quali alcool e droghe, che spesso contribuiscono all’alterazione del comportamento (aggressività e impulsività) determinando l’esito fatale; a differenza del genere femminile in cui lo sviluppo di una storia clinica depressiva induce alla richiesta d’aiuto e dunque alla prevenzione dell’atto suicidario.

E’ utile che lo Stato offra spazi validi ai nostri giovani per pensare a sé stessi anche nei momenti di difficoltà, è utile che lo Stato lavori per il benessere dei nostri ragazzi quando questi sono ancora in vita e non solo per elaborare il lutto con quelli che “restano”. Non agire misure preventive nei luoghi adeguati, come la scuola, in cui i ragazzi passano circa 12 anni della loro vita e circa 1400 ore l’anno significa lasciare difficoltà e dolori completamente inascoltati.

Fattori di rischio e fattori protettivi: i dati per costruire la prevenzione!

Abbiamo numerosi dati che ci permettono di identificare quali sono i fattori di rischio, ovvero tutte quelle variabili che tendono a essere presenti con maggior frequenza nei casi di suicidio, rispetto ai fattori preventivi, ovvero tutte quelle variabili che ci indicano quali aspetti “potenziare” per diminuire il rischio di suicidio.

Fattori di rischio:

  1. basso livello socio-economico, scarsa istruzione e disoccupazione;
  2. modelli familiari disfunzionali accompagnati da eventi di vita traumatici. I modelli disfunzionali si caratterizzano per la presenza di un alto livello di conflitto intrafamiliare, la presenza di psicopatologia nel genitore, storie di abuso di sostanze o pregressi tentativi di suicidio da parte del/dei genitori;
  3. alta correlazione con depressione, disturbi d’ansia, disturbi della condotta alimentare, disturbi legati all’abuso di sostanze e in ultimo disturbi psicotici.

Fattori protettivi:

  1. modelli familiari positivi: buoni rapporti fonte di sostgeno emotivo per l’adolescente;
  2. sviluppo della propria personalità attraverso il “potenziamento” delle abilità sociali, incluse la capacità di chiedere aiuto e la capacità di ascolto dell’altro che sia coetaneo o adulto;
  3. modelli socio-culturali: integrazione, benessere relazionale con l’utenza scolastica (gruppo classe ed insegnanti), sostegno.

“Quale depressione? è solo svogliato!”

Mi piace pensare che questi aspetti individuati dalla letteratura clinica servano davvero ad un loro utilizzo concreto, ovvero ad offrire spazi di pensabilità del proprio dolore o semplicemente dei propri dubbi e delle proprie incertezze. Affinché questo accada credo che sia doveroso uscire dalla logica di ricerca “del colpevole”, ma sia urgente pensare a delle indubbie responsabilità che i legislatori hanno a partire dall’innovazione di una grande agenzia educativa: la scuola. Responsabilità che sta nell’innovare concretamente la scuola secondo quelli che sono i bisogni dei nostri ragazzi e del corpo docenti, non sovraccaricando questi ultimi con la richiesta di competenze che il loro ruolo non prevede.

La capacità di cogliere una difficoltà nella fase di “comportamento problema” prima ancora che esso diventi psicopatologia conclamata richiede oggi la presenza di uno Psicologo Scolastico, il cui ruolo non deve essere circoscritto all’ “evento emergenziale” o “post mortem” o ancora al laboratorio previsto nella scuola “fortunata”, ma deve essere un diritto per tutti i ragazzi, per gli insegnanti e le famiglie.

Non avere una figura preposta ad intercettare segnali tipici può portare all’errore fatale di rispondere a dei sintomi con un giudizio personale su questi ultimi creando un circolo vizioso di: inascolto, sofferenza e, in ultimo, di eventi tragici. Quel ragazzo che ci appare svogliato a volte non lo è:

  • rallentamento psico-motorio;
  • hopelessness (vissuto di tristezza e melanconia, senza speranza);
  • anedonia (mancanza di interesse e noia);
  • astenia (stanchezza fisica);
  • morosité (disinvestimento nel mondo);
  • passaggio all’atto auto ed etero aggressivo (abuso di sostanze, comportamenti violenti, tentativi di suicidio)

sono sintomi che non hanno bisogno di un giudizio, ma della giusta competenza per essere riconosciuti ed accolti: “Mentre la compassione non nutre l’autostima, l’empatia la favorisce a partire dalla sospensione del giudizio”. I nostri ragazzi ci chiedono strumenti, in alcuni casi aiuto, ed è ora di sospendere i nostri giudizi e agire!

Il suicidio non è un fulmine a ciel sereno: gli studenti suicidi danno alle persone che li circondano sufficienti avvertimenti e margini di intervento (NESMOS)

ed è proprio di questi margini di intervento che i legislatori sono responsabili. L’Italia resta uno dei pochi Paesi Europei in cui la professione dello Psicologo Scolastico non è riconosciuta, né regolamentata a livello istituzionale. Numerose le proposte di legge a riguardo che ad oggi hanno lasciato il Paese in una situazione di stallo o, meglio ancora, in una situazione di assenza di servizi per bisogni chiaramente emergenti.

L’intervento, non clinico, dello Psicologo Scolastico prevede azioni di promozione del benessere a più livelli:

  1. individuale, destinato al singolo individuo che può essere qualsiasi utente della struttura scolastica;
  2. relazionale, destinato alla relazione di due individui o alle dinamiche di gruppo;
  3. organizzativo e di comunità, destinato al buon funzionamento della scuola intesa come organizzazione complessa.

La scuola potrebbe diventare uno spazio privilegiato di intervento primario, se adeguatamente organizzato, come riferito dal DORS, secondo alcune modalità specifiche orientate alla promozione della salute mentale con:

  1. l’inserimento nei programmi curricolari;
  2. l’articolazione nelle componenti chiave, ovvero promozione della salute, educazione e prevenzione, valutazione dell’intervento e post-intervento;
  3. coinvolgimento di professionisti sanitari che collaborino con insegnanti ed educatori;
  4. estensione al contesto comunità;
  5. valutazione costi – efficacia.

Mi sembra evidente che il costo dell’intervento non sarà mai, per quanto di difficile reperibilità, “inefficace” se l’obiettivo è quello di prevenire la morte di un adolescente.

 

Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto

Il progetto Web (In)dipendente, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Politiche Antidroga, si è posto l’obiettivo di promuovere e favorire un uso controllato e responsabile del web da parte degli adolescenti, evitando il loro accesso a siti pericolosi attraverso modalità interattive e partecipative.

 

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli che illustreranno al pubblico un recente studio esplorativo nato all’interno del progetto Web (In)dipendente, realizzato per promuovere un uso responsabile del web da parte dei minori. Nel primo contributo gli autori hanno fornito una panoramica dei dati presenti in letteratura su tempo trascorso online, sonno e attività fisica tra i giovani. Con questo secondo contributo entriamo nel vivo dello studio esplorativo, illustrandone metodi e strumenti. Nel terzo articolo, che pubblicheremo nei prossimi giorni su State of Mind, verranno mostrati e discussi i risultati ottenuti.

 

Il progetto web(in)dipendente

La tematica dell’utilizzo delle tecnologie da parte dei giovani è stata affrontata attraverso l’ideazione, produzione e realizzazione in 8 differenti territori di una mostra con installazioni interattive, uno spettacolo teatrale e dei laboratori di approfondimento.

L’intervento si è svolto prevalentemente sul territorio piemontese, con la realizzazione delle attività in 6 Comuni diversi, rappresentativi di 4 differenti Province: Savigliano – Torino – Settimo T.se – Alba – Casale Monferrato, Asti. Sono anche state realizzate due tappe, in altre Regioni: una in Valle d’Aosta, nella città di Aosta, e una in Liguria, a Chiavari.

Nello specifico le attività realizzate sono state:

  • uno spazio espositivo con installazioni interattive, giochi, video proiezioni, strategie comunicative non convenzionali per offrire ai ragazzi uno spazio di riflessione, condivisione ed espressione sul tema delle nuove tecnologie;
  • uno spettacolo teatrale, dal titolo Windie: performance teatrale della durata di un’ora circa che, utilizzando metodologie proprie del teatro sociale, coinvolge attivamente il pubblico nel processo creativo, rendendoli protagonisti;
  • laboratori in/formativi di approfondimento rivolti ai ragazzi, ma anche ad un pubblico adulto (genitori, insegnanti, educatori…);
  • il questionario oggetto della presente ricerca.

Il progetto e la raccolta dati sono stati effettuati delle cooperative ORSo e Stranaidea di Torino che, unitamente agli istituti scolastici coinvolti, si sono occupate anche della parte etico/normativa. Il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino è stato coinvolto per l’analisi dei dati raccolti e la stesura del presente articolo.

Metodo

Partecipanti

La ricerca è stata condotta tra novembre 2018 e giugno 2019 e ha coinvolto 631 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 24 anni (M = 15.4, SD = 3.8), per la maggior parte femmine (57.4%) e residenti in città di piccole (19.5%), medie (47.1%) e grandi dimensioni (33.4%) del Nord Ovest d’Italia; più della metà dei ragazzi (58.9%) è risultato impegnato almeno 2 o 3 volte alla settimana in attività sportive, di volontariato o ludico/ricreative non online.

Strumento

Ai ragazzi partecipanti allo studio è stato chiesto di compilare un questionario anonimo dal titolo Web (In)dipendente appositamente creato da parte del gruppo di lavoro con l’obiettivo di indagare il tipo e la frequenza di utilizzo delle tecnologie fra i ragazzi. Apriva il questionario una scheda socio – anagrafica, mentre il benessere psicologico è stato valutato attraverso il WHO-5, una misura unidimensionale sviluppata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e successivamente validata e adattata al contesto italiano. Il WHO-5 è costituito da 5 item (es. ‘Mi sono sentito sveglio e di buon umore’, ‘Mi sono sentito calmo e rilassato’) a cui il soggetto risponde scegliendo tra sei opzioni su una scala tipo Likert (0 = ‘mai’, 5 = ‘sempre’). Il punteggio grezzo totale è dato dalla somma delle risposte e varia pertanto da 0 a 25; a punteggi più elevati corrisponde una migliore valutazione del proprio stato di benessere psicologico. Quando il soggetto ottiene un punteggio inferiore a 13 è consigliabile la somministrazione di un test specifico per la depressione.

Procedura

La somministrazione del questionario del progetto Web (In)dipendente è avvenuta con l’utilizzo della piattaforma di sondaggi online survio.com.

È stato creato un link per ogni classe o istituto scolastico che ha partecipato alle attività del progetto e consegnato all’insegnante referente di classe o istituto. I ragazzi hanno poi compilato individualmente i questionari in classe o successivamente a casa. In questo modo è stata garantita la libertà di scelta nella compilazione e l’anonimato; i link differenziati per classe o istituto hanno però permesso di rilevare il dato della territorialità e fare analisi tenendo in considerazione questo fattore.

Gli istituti scolastici possedevano l’autorizzazione al trattamento dei dati personali anche se nessun dato personale è stato rilevato dal questionario e la partecipazione è stata volontaria.

Analisi dei dati

L’analisi è stata fatta in gran parte attraverso il calcolo delle frequenze di risposta fornite alle diverse modalità di ogni domanda. Per valutare la presenza di una differenza statisticamente significativa tra le frequenze di risposta è stato utilizzato il test del Chi-quadrato, mentre per valutare se le medie di diversi gruppi differissero tra loro in modo statisticamente significativo è stata utilizzata l’Analisi della varianza. I dati sono stati analizzati con il programma SPSS 25.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica – Pubblicato su State of Mind il 12 Febbraio 2020
  2. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto – Pubblicato su State of Mind il 19 Febbraio 2020
  3. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati – Pubblicato su State of Mind il 25 Febbraio 2020

Sull’isteria maschile – Le origini

A partire dal XVI secolo, grazie alla scoperta di alcuni medici che attribuirono l’insorgenza dell’isteria al malfunzionamento del sistema nervoso, venne abbandonata l’idea che l’isteria fosse una malattia esclusivamente rivolta al genere femminile portando all’attenzione anche l’isteria maschile.

 

Il collegamento tra disturbo isterico e genere femminile appare da sempre pressoché automatico, quasi come si trattasse di una patologia che non prevede ‘pazienti maschili’. Le ragioni di tale fraintendimento risiedono già nell’origine stessa del nome, che deriva dal sostantivo greco usteron, con il quale in antichità veniva indicato l’utero femminile, un organo che dovrebbe trovarsi stabilmente nella propria sede e i cui movimenti disfunzionali (potenzialmente creati anche dall’astinenza sessuale), si riteneva potessero provocare sugli altri organi pressioni in grado di giustificare l’insorgenza dei sintomi isterici. Questa era l’opinione della medicina antica. Ma già a partire dal XVI secolo, grazie alla scoperta di alcuni medici che ne attribuirono l’insorgenza al malfunzionamento del sistema nervoso, venne abbandonata l’idea che l’isteria fosse una malattia esclusivamente rivolta al genere femminile.

Se non fosse che gli istituti di cura mentale, sin dal Settecento, hanno visto il numero di pazienti isteriche superare di gran lunga l’analogo maschile, ammesso che si sia mai potuto parlare di una percentuale di riferimento in proposito.

Si trattava perlopiù di donne affette da una serie di disfunzioni di varia intensità e natura, soprattutto a carico dell’apparato motorio e degli organi sensori. Si andava da paralisi agli arti a tossi inspiegabili, dall’impossibilità di camminare o mantenere l’equilibrio fino alla perdita di un canale sensoriale come la vista o l’udito, da svenimenti improvvisi a disregolazioni emotive capaci di generare stati dissociativi: in ogni caso si trattava di sintomatologie che non trovavano rispondenza alcuna sul piano organico. Nessun danno agli organi, dunque, poteva giustificare la presenza di una disfunzione così grave e invalidante.

Iniziò quindi a farsi strada l’ipotesi che l’origine di tali sintomi fosse di natura prettamente psicologica, e che l’attuazione degli stessi fosse incontrollabile e involontaria. Sigmund Freud in particolare definì l’isteria come il risultato di un conflitto psichico inconscio e non verbalizzato che, a seguito della rimozione, veniva espresso con modalità che andavano a coinvolgere il funzionamento degli organi fisici, trovando negli stessi una sorta di ‘compiacenza’ espressiva. Il corpo si fa dunque carico di un conflitto emotivo che il soggetto isterico non può rivelare verbalmente, diventando il simbolo di un’energia non espressa (1895; 1901).

L’isteria attuale

L’ultima versione del DSM ammette l’esistenza del disturbo di conversione in presenza di disfunzioni legate all’apparato motorio o sensorio senza patologia organica. L’assenza di danni riconducibili all’organismo costituisce infatti la discriminante che allontana l’isteria dalla dimensione psicologica per proiettarla in quella di interesse specificamente medico. Ovviamente non si fa alcun riferimento alla tanto ipotizzata distinzione circa la differenza tra isteria maschile e femminile, essendo pacifica la possibilità che la stessa possa interessare entrambi i generi.

Allo stato attuale appare infatti chiaro come lo stereotipo che ha sempre collegato l’isteria alla donna è probabilmente dovuto a tematiche di natura culturale, clinica o psicodinamica (Gabbard, 2015). Hollender (1971) e Lerner (1974) hanno osservato come le caratteristiche dell’isteria femminile deriverebbero in particolare dal ruolo di estrema emarginazione sociale cui da sempre sono state soggette le donne, e dall’educazione particolarmente severa imposta da aspettative sociali che le ha viste imprigionate nel ruolo di madri e mogli obbedienti, dedite al lavoro e al rispetto. L’impossibilità di esprimere le proprie emozioni e quindi il proprio disagio interiore sembra incarnare perfettamente la causa scatenante l’isteria, ovvero la genesi di una pulsione non verbalizzata e in seguito rimossa poiché considerata inaccettabile, e sostituita da un sintomo di natura corporea che costituisce il giusto compromesso per la mancata espressione dell’emozione stessa (Freud, 1901). Si aggiunga inoltre che la letteratura sul disturbo isterico è stata scritta prevalentemente da uomini, fattore che ha rafforzato ulteriormente la relazione tra lo stesso e il genere femminile (Chodoff e Lyons, 1958; Luisada et al., 1974).

Superato definitivamente lo scetticismo di genere circa la natura dell’isteria, è stato di recente documentato come la stessa sia presente anche in ambito maschile (Bollas, 2000; Kolb, 1968; Lubbe, 2003; Luisada et al. 1974; MacKinnon et al. 2006). Avvertiamo qui che la letteratura scientifica su quest’argomento utilizza una terminologia sulle preferenze sessuali e sui comportamenti in parte discutibile ma che manteniamo come testimonianza storica. Da notare che questa terminologia è ancora abbastanza recente dato che la sensibilità verso le problematiche di genere è a sua volta abbastanza recente: ad esempio Gabbard (2015) sostiene che le descrizioni dei pazienti isterici maschi possano venir ricomprese nello specifico in due ampi sottotipi: l’ipermascolino e l’ipereffemminato. I sintomi del primo gruppo sembrano sovrapponibili a quelli tipici delle donne isteriche, nel senso che i pazienti rappresentano caricature della mascolinità, caratterizzata da peculiarità istrioniche e fortemente emotive. Questi pazienti possono mostrare marcate componenti di seduttività che spingono al desiderio di conquista di tutte le donne, verso le quali agiscono indistintamente con intenti seduttivi e sessualizzati. Sempre per testimoniare l’importanza storica di questi modelli, riportiamo che MacKinnon et al. (2006) sostengono che i maschi passivi effemminati rientrano invece in una fattispecie di evidente e non celata omosessualità, o al contrario in un’eterosessualità passiva e impotente che ha timore delle donne (MacKinnon et al., 2006). Gli effemminati si mostrano vanesi, incredibilmente dediti alla cura del proprio aspetto fisico, classici damerini o bellimbusti desiderosi di mettersi in mostra e guadagnare il centro dell’attenzione.

Molti pazienti isterici mostrano inoltre, assieme a disturbi sessuali di varia natura, anche comportamenti antisociali come disonestà e inaffidabilità, dipendenza da sostanze stupefacenti o da alcol, nonché tendenza a mantenere relazioni instabili e controverse col sesso opposto, perlopiù finalizzate allo sfruttamento, all’avvicinamento non empatico. Questo ha contribuito a generare un’ipotesi di collegamento tra il disturbo isterico e quello narcisista con tratti antisociali, ma a seguito di uno studio sperimentale mirato condotto da Luisada e collaboratori (1974), si è visto come in realtà le due tipologie di disturbo sarebbero discriminate da un vissuto emotivo che nell’isterico è molto più marcato, e riferito a stati ansiosi pressoché assenti nel narcisista o nell’antisociale.

Piuttosto sembra possibile il collegamento tra disturbo isterico di personalità e disturbo istrionico, dato che in entrambe le patologie si riscontrano sintomi quali seduttività, promiscuità, gelosia sessuale, desiderio di amore ideale, volubilità e sessualizzazione (Mitchell, 2000).

Caratteristiche specifiche del disturbo isterico maschile

I maschi isterici risultano spesso oggetto di eccessive premure da parte della madre, e nella loro infanzia possono aver reagito a contesti di operazione –individuazione erotizzando l’oggetto assente (Bollas, 2000). Quando la madre si allontanava la immaginavano dunque in compagnia di un altro uomo che era preferito a loro: la riattualizzazione di questo allontanamento contribuisce, anche in età adulta, a porli in una situazione di difetto e conflitto con l’altro sesso, nel quale viene identificato l’oggetto materno inseguito e al contempo odiato. Da qui il tentativo dei pazienti isterici di aggirare la paura della separazione della madre con comportamenti ipermascolini rivolti verso il genere femminile, e di riattualizzare il timore del confronto con il rivale cercando di conquistare donne già impegnate (Lubbe, 2003).

Come la sua controparte femminile, il paziente con disturbo isterico di personalità ambisce a divenire oggetto di desiderio da parte delle donne, e può passare da una relazione all’altra solo per scoprire che nessuna donna è all’altezza di fornirgli quanto da lui richiesto, poiché in realtà nessuna donna è all’altezza dell’oggetto materno idealizzato. V’è quindi la compresenza di timore e amore per la donna, che in un atteggiamento controfobico viene inseguita e subito dopo abbandonata perché mai ritenuta all’altezza di una relazione duratura. È questa la manifestazione di un conflitto che se durante la conquista seduttiva sembra affermare l’indispensabilità e l’esistenza della donna, nella seguente fase dell’abbandono arriva a negarle entrambe. L’uomo ha bisogno della donna solo come mero strumento di autoaffermazione, come oggetto di affermazione del Sé.

Ma questo conflitto edipico può sfociare anche in espressioni di adattamento che spingono gli isterici a mantenere un legame incorruttibile con la madre, votandosi ad un’assoluta astinenza dalla vita sessuale e relazionale tramite la scelta del celibato o della vita sacerdotale (Gabbard, 2015).

Altri ancora preferiscono la pratica di attività sessuali solitarie volte al narcisismo o alla cura del proprio aspetto fisico, dedicandosi ad attività sportive in grado di potenziare l’aspetto virile come il body building: tutto questo nel tentativo di trovare conferme alla propria mascolinità. Altri pazienti possono invece dirigersi verso l’omosessualità, specie quelli con una situazione edipica negativa, in cui la madre viene vista come una rivale nella conquista dell’attenzione del padre: da qui la ricerca di relazioni con uomini più vecchi nei quali appagare il desiderio di avvicinamento al padre perduto e di identificazione con l’oggetto materno, nel quale si rispecchiano anche sessualmente. Molti pazienti isterici si limitano infine ad avere mere fantasie di seduzione, non seguite da alcuna concretizzazione di quanto elaborato a livello immaginativo. Si tratta di soggetti nei quali la ricerca dell’attenzione diviene un mezzo per eludere timore del rifiuto e carenze di autostima, similmente a quanto avviene per gli istrionici.

Anche nella sintomatologia maschile sembrano quindi ricalcati i sintomi conflittuali già riscontrati nell’isteria femminile: ad ulteriore conferma di come una distinzione della patologia isterica legata prettamente al genere sessuale si mostri limitata e limitante, e di come nel soggetto isterico, a prescindere della sua appartenenza sessuale, si nasconda sempre un trauma non elaborato a livello psichico.

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