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ABC del COVID-19: l’intervento CBT/REBT su emozioni e comportamenti disfunzionali legati al restare a casa

La tecnica ABC applicata all’emergenza Coronavirus. Lo schema dell’intervento CBT/REBT per aiutare i pazienti a gestire emozioni e comportamenti disfunzionali derivanti dal restare a casa.

Infografica realizzata dall’ Istituto REBT Studi Cognitivi

 

Restare a casa – Intervento CBT/REBT :

 

Staying at home – CBT/REBT Intervention:

 

 

Il ruolo del temperamento nella pratica sportiva e nella dipendenza da esercizio fisico

Due studi hanno indagato la connessione tra temperamento ed esercizio fisico. In particolare, si analizza l’influenza del temperamento in una prospettiva a lungo termine (dall’infanzia all’adolescenza), nell’eccessiva attività fisica e nei disturbi alimentari.

Sara Bocazza e Alberto Morandi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Il concetto di temperamento è stato ampiamente indagato, a partire dagli antichi greci (Galeno), dai teorici della personalità (G.Allport, R. Cattel, H. Eysenek, Guilford) e da ricerche psicologiche nell’ambito dello sviluppo. Ad oggi non esiste ancora un chiaro consenso riguardo la natura di questo costrutto. Ad ogni modo ci sono una serie di punti di convergenza tra i diversi approcci. Alcuni studi hanno ipotizzato che la dimensione del temperamento rifletta tendenze comportamentali piuttosto che orienti direttamente determinati agiti comportamentali. Thomas e Chess (1977) hanno suggerito che un’espressione pura del temperamento avviene durante lo sviluppo ed è probabile che appaia nel momento in cui novità ambientali sfidano capacità di coping inefficaci. Un altro punto di consenso è che il temperamento si riferisce a caratteristiche di differenze individuali piuttosto che caratteristiche generali legate alla specie (McCall).

Un punto di disaccordo negli approcci che hanno investigato il costrutto del temperamento è che ognuno suggerisce diversi confini del temperamento. In particolar modo essi differiscono nelle dimensioni del costrutto di temperamento; diversamente il livello di attività ed emotività sono invece dimensioni condivise da vari autori.

Sebbene i teorici sono d’accordo che il temperamento sia una componente della personalità, i confini tra questi due concetti appaiono non sempre chiari. Rothbart definisce il temperamento come relativamente stabile, basato primariamente da caratteristiche biologiche e su differenze individuali in reattività e auto-regolazione (Derryberry & Rothbart, 1984; Rothbart & Derryberry, 1981). Goldsmith propone diversamente una definizione che identifica il temperamento come differenze individuali nella probabilità di esperire ed esprimere le emozioni primarie e arousal (Goldsmith & Campos, 1980, 1982, 1986).

Diversi sono gli strumenti pensati per valutare tale costrutto. Il Children’s Behaviour Questionnarire (CBQ) per esempio è un report somministrato al caregiver ed è stato sviluppato con lo scopo di fornire una valutazione del temperamento nei bambini. Molti questionari sviluppati al fine di valutare il temperamento in bambini in età prescolare e durante i primi anni scolastici si sono basati su dimensioni identificate da studi longitudinali (NYLS; Thomas & Chess, 1977), su quelle identificate da Buss e Polomin (Emotional-Activity-Sociability; 1975,1984) o su entrambe combinate (Rowe & Polomin, 1977).

Il questionario CBQ segue i lavori precedentemente svolti da Rothbart e colleghi (Capaldi & Rothbart, 1992; Derryberry & Rothbart, 1988) e si basa sull’approccio di Fiske (1966, 1971) che usa concetti contemporanei per identificare costrutti centrali del temperamento, come emotional reactivity, arousability e self-regulation. Le scale CBQ hanno mostrato una adeguata consistenza interna e una buona attendibilità/stabilità nel tempo (Rothbart, 2001).

Grazie alla presenza di scale di valutazione e questionari specifici, quali il CBQ, la ricerca ha potuto indagare in maniera approfondita il temperamento e valutarlo anche come un fattore predisponente per la pratica sportiva e la propensione all’attività sportiva.

La letteratura in merito mostra come il temperamento infantile possa influenzare, soprattutto nei maschi, la formazione di successive abitudini di attività fisica. Janssen e colleghi (2017) hanno cercato di capire come il temperamento influenzi lo sviluppo di un pattern di attività fisica. Questo studio utilizza le CBQ e valuta quattro dimensioni del temperamento, ossia Temperamental Activity Level (TAL – velocità ed estensione della locomozione nella quotidianità – es. camminare vs correre); High Intensity Pleasure (HIP – quantità di piacere in situazioni che coinvolgono stimoli ad alta intensità – es. velocità, complessità, novità); Low Intensity Pleasure (LIP – quantità di piacere in situazione di stimolazioni a bassa intensità, complessità, novità –  es. leggero dondolio al parco); Surgency (SUR – tratti di aspetti di reattività emozionale marcati da un rapido approccio a ricompense e ad alto livello di attività).

Questo è il primo studio longitudinale che mette a confronto il temperamento infantile e quello adolescenziale con l’attività fisica. I risultati suggeriscono che le sotto scale TAL, HIP e SUR predicono l’ammontare globale di attività fisica nei maschi; SUR predice anche il numero di giorni settimanali di attività fisica nei maschi.

Il temperamento esercita un’influenza duratura e potrebbe essere un marker di attività fisica nella vita. Esso influenza le scelte dei bambini sia direttamente, nella scelta dell’attività fisica e degli amici con interessi simili, sia indirettamente, influenzando il modo in cui gli altri (es. genitori) rispondono alle caratteristiche del loro temperamento. In particolare, i genitori di bambini attivi tendono ad incoraggiare maggiormente i figli nell’intraprendere attività fisica rispetto ai genitori di bambini meno attivi. Dai risultati emerge inoltre che preferenze di piacere ad alta/bassa intensità non prevedono negativamente attività fisica in adolescenza. Infine, da questo studio è stato osservato come i genitori sono tendenzialmente più inclini ad incoraggiare nello svolgimento dell’attività fisica un figlio maschio dal temperamento attivo rispetto che una figlia femmina con le medesime caratteristiche. Tale dinamica potrebbe rafforzare di conseguenza anche l’associazione tra temperamento e attività fisica in adolescenza.

In aggiunta, teorie psicopatologiche propongono l’esistenza di capacità temperamentali di regolazione che possono controllare la reattività emotiva (Nigg, 2006).

L’eccessivo esercizio fisico può innescare però lo sviluppo di una dipendenza da esso e dall’attività fisica stessa. Ricerche precedenti hanno suggerito l’esistenza di un collegamento tra caratteristiche del temperamento e dipendenza da esercizio fisico (EXD). I criteri per EXD sono basati sul DSM IV per l’abuso di sostanza ed includono il craving per l’attività fisica che consiste nel desiderare ardentemente attività fisica assidua fintanto da inficiare nella quotidianità (es. lavoro, famiglia). Inoltre, in assenza di esercizio, compaiono sintomi di irritabilità e sbalzi d’umore.

Viene distinta la EXD primaria e secondaria in accordo con Veale (1987). Nella EXD primaria gli esercizi sono fini a se stessi, in quanto la dieta e la perdita di peso possono essere usati per facilitare l’esercizio e la performance atletica. Nella EXD secondaria al contrario, l’uso di esercizi è un comportamento compensatorio allo scopo di perdere peso, bilanciare calorie e migliorare l’aspetto fisico. L’eccessivo esercizio è particolarmente presente in pazienti con diagnosi di disturbo alimentare (DA) e soprattutto con anoressia nervosa. Individui che sviluppano una EXD secondaria possono presentare alti livelli di psicopatologia (ansia, depressione) e ridurre la qualità di vita e la salute stessa. Diverse ricerche specifiche sulla EXD secondaria hanno dimostrato l’influenza del temperamento nella pratica di esercizio fisico eccessivo in individui con DA (Shroff, 2006; Dalle Grave 2008; Meyer 2011).

Poche sono le ricerche che hanno esplorato le differenze tra EXD primaria e secondaria rispetto al temperamento. Esiste un interesse particolare nel verificare come l’EXD primaria e secondaria differiscono tra loro in termini di caratteristiche temperamentali.

Lo studio di Müller e coll. (2015) ha investigato la relazione tra il temperamento e il rischio di una dipendenza da esercizio fisico (EXD) confrontando un campione di donne con disturbo alimentare (DA) e un gruppo di atlete professioniste senza DA. A tale scopo sono stati indagati i fattori motivazionali utilizzando la teoria di sensibilità al rinforzo di Gray (Gray, 1987; Carver, 1994), come modello di riferimento e i fattori temperamentali, attraverso il questionario Adult Temperament Questionnaire-Short Form (ATQ-EC) (Wiltink, 2006). La teoria di sensibilità al rinforzo di Gray (Gray, 1987; Carver, 1994) identifica due sistemi neurobiologici: il sistema di inibizione comportamentale (BIS – responsabile per l’inibizione di un’azione quando un particolare comportamento può portare a una conseguenza avversa potenzialmente punibile) e il sistema di attivazione comportamentale (BAS – responsabile della stimolazione di comportamenti di raggiungimento e/o avvicinamento in reazione ad uno stimolo di ricompensa desiderato).

I risultati dello studio hanno mostrato un’associazione tra le caratteristiche temperamentali e i sottotipi di EXD. Nei soggetti con DA i sintomi di EXD secondaria erano positivamente relati a tendenze di evitamento osservabili tramite la scala di misura BIS (Strobel, 2001). Diversamente, nel gruppo di atlete professioniste i sintomi di EXD primaria erano relati al raggiungimento di una ricompensa e a tendenze di raggiungimento misurate attraverso la scala BAS (Strobel, 2001).

Il gruppo DA ha mostrato un punteggio inferiore e significativamente diverso alla scala effortful control del questionario ATQ rispetto alla popolazione e al gruppo di atleti. Diversamente i punteggi degli atleti alla scala effortful control del questionario ATQ non sono risultati significativamente diversi rispetto alla popolazione.

Presi assieme, i risultati dello studio, essendo preliminari, dovrebbero essere considerati con prudenza. Questi supportano l’assunzione che l’inappropriato esercizio eccessivo in pazienti con DA è principalmente guidato da un rinforzo negativo, in quanto gli esercizi fungono da comportamento compensativo maladattivo e sono accompagnati da ansia, depressione e l’intensa paura di prendere peso. Diversamente, maggiori esercizi nelle atlete correlano con l’ambizione a raggiungere particolari obiettivi e divertirsi e con la gratificazione psicologica che emerge dalla pratica sportiva.

Grazie agli studi presentati è possibile osservare come caratteristiche individuali, in particolare il temperamento, siano importanti nel predisporre l’individuo allo svolgimento dell’esercizio fisico.

In particolare, il temperamento gioca un ruolo importante nei pattern a lungo termine di coinvolgimento nell’attività fisica che permangono fino all’età adulta a dispetto di cambi frequenti del contesto sociale (es. cambi di amicizie) e dell’ambiente fisico (cambiamenti di scuola e/o dimora).

Il primo studio presentato ha voluto osservare l’influenza del temperamento in una prospettiva a lungo termine (dall’infanzia all’adolescenza). Diversamente, il secondo studio ha invece indagato l’influenza del temperamento nell’eccessiva attività fisica e nei disturbi alimentari.

Future ricerche potrebbero approfondire i dati emersi ed interessarsi a potenziali differenze di temperamento nei sottotipi di disturbo alimentare. Inoltre, appare importante investigare campioni maggiormente rappresentativi in modo di avere una maggiore comprensione della connessione tra rischio di dipendenza da esercizio fisico e temperamento.

 

Lion. La strada verso casa – La LIBET nelle narrazioni

L’appassionante storia di Saroo, un ragazzo indiano alla disperata ricerca delle proprie origini dopo il processo d’invalidazione che manda in crisi il suo piano semiadattivo prudenziale di evitamento del tema doloroso.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 11) Lion

 

Attenzione, l’articolo può contenere spoiler!

Lion è un film del 2017 diretto da Garth Davis ed interpretato da Dev Patel, basato sul libro autobiografico A Long Way Home di Saroo Brierley. Quest’ultimo nasce in India e all’età di sei anni viene adottato da una famiglia della Tasmania, con la quale vive fino al trasferimento a Sidney, dove frequenta il college.

Durante una cena con dei colleghi universitari, Saroo vede un dolce indiano che era solito mangiare da piccolo, questo evento provoca l’invalidazione del suo piano semiadattivo e lo fa entrare in contatto con il suo tema doloroso, fino a quel momento evitato. Racconta a tutti i commensali la sua storia, di come all’età di cinque anni si fosse recato con il fratello maggiore, Guddu, fuori dal suo villaggio in India e di come lui, vedendolo stanco, avesse deciso di lasciarlo riposare su una panchina della stazione, per poi ritornare a prenderlo dopo il turno di lavoro. Quella fu invece l’ultima volta che si videro, perché Guddu non tornò a riprendere il fratellino. Il piccolo, spaventato per la lunga assenza del fratello, iniziò a cercarlo in tutta la stazione, anche su un treno in sosta, che partì con lui bloccato all’interno e viaggiò per giorni fino ad arrivare nell’immensa Calcutta. In quella città nessuno parlava la sua lingua e nessuno era in grado di comprendere il paese dal quale diceva di provenire. Passò vari mesi nella città di Calcutta dove dovette vivere per strada, costretto a sopravvivere a numerose situazioni pericolose, finché non arrivò in un orfanotrofio dove venne scelto, insieme ad altri bambini, per essere educati e preparati all’adozione.

Prima di perdersi, Saroo era molto legato alla mamma, che lavorava nelle miniere come raccoglitrice di pietre e, nonostante fosse molto piccolo, si sentiva anche lui l’uomo di casa, come suo fratello Guddu, dal quale non si staccava mai. Per questo motivo dal momento della separazione si genera in lui un senso di colpa nei confronti della sua famiglia di origine, che però in seguito si estende anche a quella adottiva, visto la dissonanza che si crea tra il voler ritrovare la sua famiglia e il non deludere quella che con tanto amore lo ha accolto. Mediante il processo d’invalidazione viene meno il piano semiadattivo prudenziale, di evitamento del tema doloroso. Saroo si sentiva sbagliato (tema d’indegnità) per essersi smarrito ed aver perso il fratello e questo senso di colpa viene alimentato dai sogni ricorrenti che ha, nei quali sente la voce del fratello che lo chiama a squarciagola.

Loro mi staranno cercando, non ho altra scelta che trovarli.

Questo è ciò che dice Saroo alla fidanzata prima di impegnarsi in una ricerca disperata del suo villaggio, usando Google Earth, chiudendosi in casa e allontanandosi da tutti i suoi affetti. Dopo 25 anni Saroo riesce a trovare il suo villaggio di origine e si reca lì dove trova la madre e la sorella più piccola, che gli raccontano di come Guddu fosse morto travolto da treno poco dopo aver lasciato Saroo a riposare in stazione. In quell’occasione scopre anche di aver sempre pronunciato male il suo nome, che era invece “Sheru”, che significa Leone.

 

Fattori predittivi della preoccupazione per il Coronavirus: un’indagine esplorativa su autostima, narcisismo, ipocondria e paura della morte

Quando si ha a che fare con qualcosa che è minaccioso e sconosciuto mettiamo in atto una serie di meccanismi automatici, volti alla nostra sopravvivenza, molto simili a quelli osservabili negli animali. Uno di questi è il freezing, proprio ciò che ci viene richiesto di fare rimanendo a casa e che sembra essere così difficile.

 

In questo periodo definito da molti, citando un noto film, L’ora più buia, l’emozione che dilaga e che interessa chiunque è la paura. La produzione di scritti e la divulgazione di opinioni, provenienti da addetti ai lavori e non, riguardo alla paura e in particolare alla paura del Coronavirus è decisamente prolifica. In particolare, all’attenzione del grande pubblico viene portato l’ignoto per giustificare la paura.

Quando si ha a che fare con qualcosa che è minaccioso e che non si conosce, scattano in noi una serie di meccanismi che producono reazioni comportamentali molto simili a quelle che si possono osservare negli animali: attacco o fuga. Fa un pochino riflettere, disegnando sui nostri volti un sorriso amaro, il fatto che l’unica altra reazione mediata dagli stessi circuiti cerebrali profondi (talamo e amigdala) che provocano l’attacco o la fuga, il freezing, sia poi ciò che ci viene richiesto di fare e pare essere così difficile da esprimere, rimanendo a casa. Eppure, la strategia di difesa che si sostanzia in una sorta di congelamento, di non-azione, addirittura di blocco fisiologico di talune funzioni vitali in determinati animali, è quella che possiamo mettere in atto per contribuire alla non-diffusione del virus, pertanto è una strategia funzionale e che consente la sopravvivenza della specie, proprio come per gli animali.

L’ignoto, è fuor di dubbio, spaventa. La paura del buio è estremamente diffusa nei bambini, così come la paura di cadere (proprio perché, cadendo, non si conoscono le dolorose conseguenze che potremmo dover affrontare e per quel senso di vuoto intrinsecamente minaccioso), proprio per questo il paragone con il Coronavirus è tanto utilizzato. Tuttavia, questo virus così implacabile non risulta essere del tutto sconosciuto: la scienza sta progredendo molto rapidamente verso scoperte quotidiane di ulteriori dettagli sulla sua biologia, quindi si sarebbe più propensi a sostenere un altro paragone. Il Coronavirus non è come la paura del buio in assoluto: è come la paura del buio che ci assale nel momento in cui ci troviamo immersi nell’oscurità, ma in un ambiente noto. Abbiamo qualche riferimento, seppur molto pochi e, qualora annebbiati dalla paura, difficilmente raggiungibili dalla coscienza e utilizzabili dai nostri processi cognitivi.

Quindi, che si tratti di paura, di angoscia, di terrore o di panico, in tutti questi casi vi è un tratto di fondo comune: la preoccupazione. Ci siamo interrogati su quali possano essere, se esistono, i fattori predittivi della preoccupazione verso il Coronavirus, provando ad indagare le seguenti dimensioni: ipocondria, paura della morte, autostima e narcisismo. L’ipocondria e la tanatofobia sono di per sé paure: la prima coinvolge taluni sintomi (reali o percepiti come tali) fisici che inducono l’individuo a ritenere di avere contratto o al timore di poter contrarre una malattia importante; la seconda appartiene alle persone da quando, fra i 12 e i 15 anni, maturano gli strumenti cognitivi per poter comprendere il concetto di morte. La morte, in effetti, è l’ignoto per eccellenza ed è unanime.

L’autostima e il narcisismo, in questo contesto, possono essere interpretati quali strategie di coping. In effetti, stride un po’ definire il narcisismo come strategia di coping, ma una persona egoista, centrata su se stessa, desiderosa di ambire all’approvazione di tutti e autoreferenziale riguardo alle proprie capacità, spesso millantate, in una situazione di emergenza e di preoccupazione verso il Coronavirus potrebbe essere portata all’adozione di condotte protettive. Non ci sono perplessità, invece, nel ritenere che l’autostima, intesa quale fiducia nelle proprie capacità di affrontare e superare le situazioni che la vita presenta e consapevolezza di meritare di essere felici, possa influenzare il grado di preoccupazione che il Coronavirus provoca.

La ricerca che presentiamo di seguito è caratterizzata, tuttavia, da una serie di risultati piuttosto sorprendenti.

Il nostro campione è formato da 339 persone, tutte maggiorenni. Hanno accettato di partecipare volontariamente alla ricerca e sono state tutte preliminarmente informate delle finalità della stessa. Il consenso informato è stato individualmente acquisito tramite compilazione da parte del partecipante dell’apposito modulo fornito online. Inoltre, si precisa che non è stato fornito nessun esito ai partecipanti. I dati sono conservati in un database online cifrato, accessibile solo agli autori di questo studio. Per quanto riguarda le caratteristiche socio-demografiche del campione preso in esame, l’86% è composto da donne e solo il 13% da uomini. L’1% ha preferito non dichiarare il proprio genere. Inoltre, il 66.4% del campione ha un titolo universitario e il 31.9% ha un titolo di scuola superiore. L’età media del campione è di 34.5 anni, con una deviazione standard di 12.2. Il 73.5% del campione vive in una zona dove vi sono presenti casi di contagio. Abbiamo utilizzato i seguenti strumenti per poter analizzare i fattori oggetto di indagine:

  • Fattore “Paura della morte”: è stata utilizzata una versione abbreviata del test Death Anxiety Scale-Extended;
  • Fattore “Ipocondria”: è stata utilizzata una versione abbreviata del test Health Anxiety Questionnaire;
  • Fattore “Autostima”: è stata utilizzata la versione italiana del test dell’autostima di Rosenberg;
  • Fattore “Narcisismo”: è stata utilizzata il test Single Item Narcissism Scale.

Per il fattore “Preoccupazione per il Coronavirus”, abbiamo costruito un set di domande cosi composto:

  • Ricerchi spesso informazioni sul Coronavirus (tramite Social Network, TV, Internet etc.)?
  • Hai paura di essere contagiato dal Coronavirus?
  • Secondo te, è utile indossare la mascherina per evitare di essere contagiati?
  • Secondo te, è utile provvedere ad approvvigionamenti di generi alimentari oltre le tue normali abitudini?
  • Nelle ultime settimane, hai evitato di andare in luoghi affollati/ristoranti orientali per paura del contagio?
  • Nelle ultime settimane, hai usato più frequentemente il disinfettante per le mani?
  • Nelle ultime settimane, hai rinunciato a fare viaggi all’estero o in altre città d’Italia per paura del contagio?

Tutti i test utilizzati sono stati misurati su scala Likert e sono di tipo quantitativo, per scopi di ricerca e non diagnostico-clinici.

È opportuno fornire due ulteriori precisazioni. Innanzitutto, la ricerca è stata effettuata prima del 9 marzo 2020, data in cui è stato adottato il noto Dpcm di pari data, con il quale sono state disposte misure di contenimento molto restrittive, relativamente all’emergenza Coronavirus. Inoltre, i test utilizzati non sono tutti validati in Italia o comunque abbiamo utilizzato una loro versione ridotta per scopi puramente divulgativi.

Per quanto riguarda le correlazioni abbiamo riportato i seguenti risultati:

  • il fattore “Preoccupazione per il Coronavirus” è positivamente correlato con l’ipocondria (r=0.390) e con la paura della morte (r=0.300) in modo significativo, mentre è correlato in maniera debole e non significativa all’autostima (r=0.100). È invece correlato in maniera negativa alla componente narcisistica, anche se in maniera debole (r=-0,40). Se da un lato non sorprendono le correlazioni positive fra la Preoccupazione per il Coronavirus e, rispettivamente, i fattori ipocondria e paura della morte, in quanto sono due fobie anche concettualmente legate a una malattia con potenziali effetti letali, stupisce un po’ di più la correlazione debole con il fattore narcisismo che, quindi, pare non influire sulla preoccupazione riguardo al nuovo virus. Per quanto riguarda l’autostima, sembra non essere particolarmente correlata alla Preoccupazione al Coronavirus, cosa che risultata piuttosto sorprendente proprio per le caratteristiche del costrutto Autostima, riassunte sopra. Se l’autostima, infatti, presuppone una certa fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare le situazioni, ci si aspetterebbe che le persone dotate di una quota significativa di tale caratteristica possano avere meno preoccupazioni riguardo al Coronavirus rispetto a quelle che ne hanno una quota bassa, ma evidentemente di fronte all’ignoto, nemmeno l’autostima può preservare l’individuo dalla paura;
  • il fattore Autostima è correlato in maniera negativa e significativa al fattore Ipocondria e al fattore Paura della morte (sembra infatti che, quanto più aumenta l’autostima di una persona, tanto meno quella persona abbia paura della morte o sia ipocondriaca). Non vi sono correlazioni significative invece fra Autostima e Narcisismo (r=0.06).

Oltre alle correlazioni, eravamo interessati a capire quanto i fattori indagati, quindi Ipocondria, Paura della Morte, Narcicismo ed Autostima, fossero capaci di predire (o spiegare) la componente “Preoccupazione per il Coronavirus” . Tramite una regressione multipla lineare abbiamo ottenuto che il “modello”, composto dai fattori elencati, risulta essere significativo perché questi quattro “fattori” spiegano in totale il 18.2% della Preoccupazione per il Coronavirus. Quindi, in altre parole, il 18.2% della variazione del fattore “Preoccupazione per il Coronavirus” è spiegato da queste componenti. Se andiamo più nel dettaglio, scopriamo che le quattro variabili sono sì significative, ma in quote decisamente diverse: alcune al 5% e alcune all’1%. Senza scendere troppo in tecnicismi, possiamo dire che i due fattori che incidono di più sono Paura della morte e Ipocondria, coerentemente con la correlazione positiva sopra esposta, mentre Narcisismo (in maniera negativa) e Autostima sono sempre significative, ma nella nostra ricerca sembrano incidere un po’ meno.

Preoccupazione per il Coronavirus i fattori predittivi Psicologia IMM1

Figura 1. Modello definito con i quattro Predittori studiati (Ipocondria, Paura Morte, Autostima e Narcisismo) e l’influenza (su valori standardizzati) della variabile dipendente Preoccupazione per il Coronavirus

Anche se la “Preoccupazione per il CoV” è naturalmente più complessa (e giustificata ovviamente), questo piccolo studio voleva indagarne solo alcuni aspetti, senza sminuirne in nessun modo la sua serietà e complessità. Vogliamo concludere questo lavoro con una riflessione che parte dal richiamo etimologico della parola preoccupazione, ovvero occuparsi prima di ciò che potrebbe accadere impegnando il momento presente e appunto, occupandolo. Ma Fritz Pearls ci invita al centro di un tempo che è in noi stessi, come evento umano cosciente del presente. Non ci può essere un’altra realtà che non sia questo istante, con l’invito a isolare il presente dal passato e dal futuro, in cui ogni ogni rinuncia al presente come centro della bilancia – la leva della nostra vita – porta ad una personalità squilibrata. In questo momento, il Coronavirus può anche essere guardato in termini psichici e non solo biologici: una proiezione sempre esistente di quei virus della mente, quegli inquinanti dell’essere che trovano nella situazione attuale amplificata a livello mondiale, una cassa di risonanza che alimentano le caratteristiche disfunzionali delle personalità, in particolare, nevrotiche occidentali, narcisismo e paura della morte.

 

Nota degli autori: Per tutte le informazioni riguardante il CoV, visitare solo fonti attendibili ed ufficiali, quali: quello dell’ANSA o del Ministero della Salute. Il virus in questione non è da sottovalutare e bisogna seguire le norme di comportamento dettate dalle autorità a ciò preposte. Siamo, inoltre, vicini a tutti coloro che stanno vivendo in prima persona il dramma del CoV, direttamente o indirettamente.

 

Ipersessualità, autostima e personalità

Uno studio cerca di determinare la relazione che intercorre tra la dipendenza sessuale e le caratteristiche socio-demografiche, l’autostima e le dimensioni di personalità.

 

La valutazione delle caratteristiche degli individui con dipendenza sessuale è stata poco studiata. La dipendenza sessuale, detta anche ipersessualità, comprende un insieme di condizioni psicopatologiche caratterizzate da pensieri e fantasie sessuali intrusive associate a perdita di controllo sui comportamenti sessuali.

La nozione di dipendenza sessuale a volte è confusa con la normale, positiva, piacevole ed intensa sessualità goduta dalla popolazione normale o con la semplice alta frequenza di rapporti sessuali. In realtà, i dipendenti dal sesso hanno perso il controllo sulla propria capacità di dire no e di scegliere; pertanto il loro comportamento sessuale è parte di un ciclo di pensieri, sentimenti ed azioni che non possono più controllare. I comportamenti che i dipendenti sessuali possono mettere in atto sono i più svariati e possono includere comportamenti compulsivi nelle seguenti aree: promiscuità sessuale, prostituzione personale, continue fantasie sessuali, masturbazione, esibizionismo, voyeurismo, frotterismo, pratiche di tipo sadomasochistico, dipendenza da materiali o linee telefoniche a carattere pornografico e ipersessualità all’interno di una relazione stabile in misura tale da squilibrarla.

Gli obiettivi del presente studio erano quelli di determinare la prevalenza della dipendenza sessuale in un campione di soggetti volontari reclutati online in forma anonima; considerare le caratteristiche sociodemografiche, l’autostima e le dimensioni di personalità delle persone colpite, identificando i fattori che potrebbero essere associati all’ipersessualità e la vulnerabilità ad essa. Il campione finale comprendeva 510 partecipanti (360 donne e 204 uomini) di età compresa tra i 16 e i 65 anni.

I dati sociodemografici sono stati raccolti utilizzando un questionario preparato per esplorare le caratteristiche generali: età, genere, livello di istruzione, alloggio, stato civile e tipologia di impiego. La dipendenza sessuale è stata indagata utilizzando la scala più comune nella pratica clinica, ossia il Sexual Addiction Screening Test (SAST; Carnes, 1991). L’autostima è stata valutata utilizzando la scala dell’autostima Rosenberg (1979), chiedendo ai soggetti di prestare particolarmente attenzione alla presenza o assenza di sentimenti di apprezzamento, approvazione e amore nei confronti di loro stessi nel momento presente. La valutazione dell’autostima rende possibile valutare fino a che punto le credenze di una persona influenzano la sua realtà. Le dimensioni di personalità sono state approfondite utilizzando il Big Five Personality Factor Theory (Goldberg, 1992) il quale valuta la personalità in base a cinque principali fattori: estroversione, gradevolezza, coscienza, nevroticismo e apertura all’esperienza.

L’analisi dei risultati viene effettuata suddividendo il campione in tre gruppi: 1) coloro che non soffrivano di dipendenza sessuale (404 soggetti); 2) coloro che avevano sintomi attenuati di dipendenza sessuale (68 soggetti) e 3) coloro che soffrivano di ipersessualità (38 soggetti). La prevalenza dell’ipersessualità sembra variare dal 3% all’8%.

In relazione alle caratteristiche sociodemografiche, è stata rilevata una differenza significativa tra uomini e donne, con prevalenza maggiore nel genere maschile. Non è stata trovata nessuna relazione statisticamente significativa tra dipendenza sessuale ed età, livello di istruzione, tipologia di abitazione, stato civile e situazione lavorativa.

Per quanto riguarda l’autostima, essa era nella media o superiore nel gruppo 1, ma inferiore alla media sia nel gruppo 2 che nel gruppo 3. Inoltre, l’analisi statistica dimostra che più è bassa l’autostima, più è alto il punteggio al SAST. Non è ancora chiaro il legame tra autostima e dipendenza sessuale; alcuni studi hanno suggerito che l’ipersessualità sia un meccanismo compensatorio per l’angoscia derivata da traumi infantili, ossia maltrattamenti e/o abusi avvenuti durante l’infanzia (Bergner & Bridges, 2002).

Infine, nella valutazione delle dimensioni di personalità è stato evidenziato che la popolazione senza ipersessualità aveva un punteggio più alto nelle dimensioni di estroversione, gradevolezza e coscienziosità; invece, i soggetti con dipendenza sessuale presentavano livelli più elevati di nevroticismo. Ciò significa che i dipendenti sessuali riferiscono in misura maggiore sentimenti di instabilità emotiva e tendenza a provare emozioni negative, come rabbia, ansia e depressione. L’alto nevroticismo è legato alla reattività emotiva, impulsività e alla vulnerabilità allo stress; queste persone tendono a sperimentare eventi di vita più negativi e ad avere credenze irrazionali. Inoltre, è stata evidenziata una comorbilità con l’alcolismo e l’eccessivo consumo di tabacco.

Il presente studio è di tipo trasversale, facile da eseguire, ma con una durata limitata; di conseguenza, non consente una visione longitudinale del fenomeno e non esplora la relazione causa-effetto. Ulteriori limiti sono rappresentati dallo stato emotivo delle persone durante il sondaggio e nessuna condizione di valutazione standardizzata. Inoltre, il campione non è sufficientemente rappresentativo della popolazione generale.

Questa ricerca presenta anche punti di forza: basso costo, pochi errori durante la raccolta dei dati, la tempestività dell’inserimento dei dati e maggior libertà individuale nelle risposte ai questionari. Ci sono opinioni controverse per quanto riguarda l’influenza della desiderabilità sociale nelle risposte dei partecipanti. L’esplorazione di questi fattori di vulnerabilità può contribuire al miglioramento delle strategie terapeutiche.

 

Il coronavirus chi sta lasciando indietro?

Da un giorno all’altro le nostre vite sono cambiate. Non solo perché siamo chiusi in casa, dolentemente nostalgici di una passeggiata, ma anche perché assistiamo a una accelerazione verso il digitale tumultuosa, imprescindibile e difficile da evitare.

I pazienti si vedono in Skype o Facetime o altrove e -devo dire almeno come esperienza personale- senza alcuna difficoltà. Immagino che come psicoterapeuta cognitivista per me forse è più facile, si ragiona su problemi, su storie e su soluzioni. Forse la sparizione del lettino dal mio mondo ha reso le cose più semplici. O forse no, anche i colleghi psicodinamici si staranno adeguando rapidamente.

Quelle lezioni online della scuola di psicoterapia che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) ci aveva severamente negato ora sono state parzialmente concesse. A quanto pare ci si è ravveduti e sarebbe bello ragionare con il MIUR sui motivi del precedente no. Bello ma in fondo inutile e quindi passiamo al concreto: abbiamo spostato le lezioni sulle piattaforme Zoom, Hangout, Teams e così via. Le Scuole, le Università, gli incontri di lavoro, tutto è ora sul digitale perché in questo modo si sta tentando di ridurre i danni di questo blocco improvviso delle nostre vite. Le persone si adattano e reagiscono in maniera molto più rapida e agile delle infrastrutture: la rete è a rischio di collasso in Italia e si sta per chiedere a Netflix di togliere l’alta definizione. Il clamoroso e improvviso aumento di domanda sta già mettendo in ginocchio la connettività. Una fonte attendibile sembra questa: https://www.bbc.com/news/technology-51968302.

Questo spostamento si può fare e devo dire che è anche pieno di vantaggi. Sulle piattaforme online si può concedere la parola e moderare il dibattito e al tempo stesso mantenere più controllo durante l’esposizione degli argomenti riducendo le interruzioni fino a quando non si decide di aprire la discussione. Ci si concentra di più sulle cose da dire perché si è meno condizionati da quegli incontri tra occhi che tanto colorano le nostre vite nelle classi ma che anche ingolfano lo scambio didattico. È una perdita di contatto umano, ma è anche una perdita di concentrazione. Insomma, se bene organizzato questo passaggio sembra fattibile. Addirittura utile. Stava già accadendo ma a velocità molto minore, perché poi noi umani ci sentiamo bene quando ci concediamo due chiacchiere tra una riunione e l’altra.

Ci sono però alcuni problemi.

Innanzitutto anche chi vuole misurarsi come me fa una fatica indiavolata a padroneggiare la tecnologia alla velocità in cui essa è caduta nelle nostre vite. Sono lezioni faticose, personalmente ne esco stremata. Sarà l’età. Poi le lezioni devono cambiare, per garantire che vi sia comunicazione partecipata il passaggio dal teorico al pratico e al dialogo con gli allievi deve essere molto più frequente e ben organizzato. Sono lezioni profondamente diverse.  Che hanno un buon risultato solo se si sa fronteggiare la complessità sempre crescente del mezzo tecnologico. Se prima agli allievi bastava la piattaforma comune, ora hanno bisogno delle “stanze” in cui potere organizzarsi in piccoli gruppi di esercitazione e nelle quali noi docenti si possa entrare o uscire agilmente. Insomma in due, tre settimane l’uso del digitale ci ha messo davanti a un cambiamento che corre a forte velocità. Poi alla fine della lezione in cui ci hanno ringraziato, noi docenti ci sentiamo soli e ansiosi per un feedback digitale che arriverà dopo qualche giorno ma non avrà l’immediatezza umana di un sorriso o di una domanda curiosa.

Poi ci sono i colleghi che comprensibilmente non hanno il desiderio di fare questo salto, troppo impegnativo e faticoso, o che lo desiderano ma quando ci sono in mezzo creano tali e tanti guai e inciampi tecnici con le loro manine impazzite sulla tastiera da mettere a dura prova la pazienza degli informatici che li assistono. E poi ci sono colleghi con computer un po’ obsoleti ai quali usare Hangout sembra una sfida stellare. Mi verrebbe da dire che sono affezionati al vecchio computer perché glielo ha regalato la nonna. È probabile che i motivi di queste difficoltà possono essere legati anche a dove si vive: se sono recluso in campagna o sui monti probabilmente la mia capacità di accesso a un segnale di rete efficiente sarà limitata.

Ma i motivi possono essere anche soltanto psicologici: “ho troppa ansia”, “temo di sbagliare”, “per una mia lezione non ne vale la pena”, “da quando sono a casa non riesco a concentrarmi su nulla” e così via. E così alcuni possono avere la tentazione di rimandare le loro lezioni, vorrebbero tornare di corsa al mondo di prima, che temo non tornerà più.

Queste persone che lasciamo indietro, dove stanno rimanendo? Secondo me non è un affare da poco. Perché, checché ne dica il mio caro informatico che entra nel mio computer e lo gestisce insieme a me aiutandomi, questo aggiornamento riduce il rischio di isolamento ma lascia alcune persone indietro. E chi rimane indietro -in un mondo che sta correndo verso il virtuale a questa velocità- sarà veramente più solo, meno sapiente, meno capace di capire il cambiamento e arricchirsi di quello che sta succedendo. E meno capace di difendersi dalle implicazioni sociali e personali della malattia.

Vedo poca attenzione su questo, si dà per scontato che tutti ce la faranno a correre dietro al cybermondo, ma occorre fare uno sforzo molto maggiore nel portarci le persone, anche le più riluttanti. Se non avessi quasi 70 anni, se fossi una informatica, se ne avessi le capacità didattiche questo è quello che farei adesso: agganciare tutti, ma proprio tutti, anche i più restii alla corsa informatica che sta cambiando in poco tempo il nostro mondo. Portarmeli dietro, e sarebbe un vantaggio per tutti. Per loro che saranno sempre più soli, probabilmente anziani, facilmente vulnerabili, ma anche per noi che con questa infelicità e con questi ritardi emotivi, sociali, fisici e psicologici dovremmo fare i conti.

 



La tecnica ABC applicata all’ansia da contagio*. Infografica realizzata dal Prof. Diego Sarracino, psicologo psicoterapeuta e docente dell’Istituto REBT

(*= Strumento ad uso dei terapeuti per aiutare i pazienti con problematiche legate all’ansia)

 

 

Cura, empatia e gentilezza sono la chiave per il cambiamento secondo la Compassion Focused Therapy

La Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010) è un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.

Gaia Campanale e Laura Stefanoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, il ricercatore Harry Harlow e lo psichiatra infantile John Bowlby iniziarono a studiare l’impatto delle relazioni sociali e di accudimento sulla salute mentale sia del bambino sia di cuccioli di specie animali evolutivamente vicine alla nostra. Grazie alle loro ricerche, e ai più recenti studi afferenti all’ambito delle neuroscienze sociali, si è compreso come i nostri cervelli siano biologicamente predisposti a rispondere ai comportamenti di cura, gentilezza e attenzione da parte degli altri.

Ma l’affetto e il calore umano sembrano essere basilari per la salute dell’individuo non solo durante le prime fasi dello sviluppo, bensì in tutti i differenti momenti della nostra vita (Cozolino 2007), ‘dalla culla alla tomba’ come direbbe Bowlby (1982).

Anche in psicoterapia è sempre più condivisa l’idea che qualità come la gentilezza, l’empatia e l’accettazione di sé e dell’altro costituiscano un fattore attivo di cambiamento del paziente e non rappresentino soltanto aspetti di contorno all’interno della relazione terapeutica.

La nascita della Compassion Focused Therapy

Tra i primi a riflettere sull’importanza di questi fattori e a cercarne una valorizzazione nel percorso psicoterapeutico troviamo sicuramente Carl Rogers (1961) con la terapia centrata sul cliente. Egli riteneva che la considerazione positiva, l’autenticità̀ e l’empatia costituissero gli aspetti nucleari della relazione terapeutica e che dovessero essere considerati pertanto come agenti attivi del miglioramento sintomatologico dei pazienti.

Una più recente espressione di questa visione è la Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010), un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.

Sviluppata da Paul Gilbert, professore alla University of Derby, nei primi anni 2000, la Compassion Focused Therapy nasce dall’incontro tra terapia cognitivo-comportamentale, teoria dell’attaccamento e neuroscienze sociali. Questo approccio offre una concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento basata sull’ipotesi che nel nostro cervello esistano alcuni sistemi di regolazione emotiva la cui attivazione in maniera sbilanciata sarebbe causa della nostra sofferenza. Tali sistemi sarebbero responsabili delle emozioni che comunicano il soddisfacimento o la frustrazione dei bisogni di base. Secondo Gilbert, quindi, il processo di cambiamento si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi, connessi all’attaccamento e al caregiving, la cui attivazione garantirebbe un cambiamento nel paziente che spesso non è raggiungibile solo attraverso un intervento diretto sulle sue credenze disfunzionali.

È interessante esaminare come alcune delle principali tecniche della CFT possano favorire il processo di accettazione in psicoterapia, un elemento che di recente si è dimostrato di primaria importanza nel trattamento di vari disturbi psicopatologici e nella prevenzione delle ricadute (Ruiz 2010).

Per accettazione si intende ‘l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso’ (Perdighe e Mancini 2010). Grazie ad essa la persona ha modo di non sprecare risorse verso uno scopo ormai irraggiungibile e di investire le proprie energie nell’ottenimento di un obiettivo più realistico.

Da un punto di vista cognitivo, l’accettazione consente la modificazione delle credenze che sostengono l’investimento di uno scopo nel momento in cui questo si rivela irrimediabilmente compromesso. Vanno considerati come scopi compromessi non soltanto le perdite come nel caso di lutti o malattie fisiche gravi, ma anche il mancato ottenimento di condizioni sentite come desiderate. Accettare che uno scopo sia compromesso o a rischio di compromissione implica la modificazione di credenze che riguardano il potere, il diritto, il dovere e la convenienza di ottenere qualcosa che desideriamo o evitare la sua compromissione.

La Compassion Focused Therapy agisce anche sulla dimensione fisiologica attivando dei cambiamenti soprattutto legati all’aumento della concentrazione plasmatica del neuropeptide ossitocina (Zak 2012). L’ossitocina interviene nell’inibizione delle regioni cerebrali che si attivano in condizioni associate alla paura (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) ed è inoltre direttamente coinvolta in una serie di importanti funzioni fisiologiche e psicologiche centrali nella promozione di comportamenti pro-sociali (come altruismo, generosità ed empatia) che ci portano ad essere più propensi a fidarci degli altri e che sembrano connessi al processo di accettazione per come descritto nelle caratteristiche di cui sopra.

A chi si rivolge la Compassion Focused Therapy?

La CFT era originariamente nata per pazienti depressi che mostravano forte autocritica e sentimenti di vergogna nei confronti dei propri stati affettivi negativi. Gilbert aveva rilevato come questi pazienti fossero particolarmente resistenti ai classici interventi di ristrutturazione cognitiva sulle loro credenze disfunzionali e, per quanto fossero capaci di seguire e applicare gli esercizi cognitivi e comportamentali, raramente beneficiavano della terapia nel suo complesso. Questa tipologia di pazienti, anche se accettava di focalizzarsi su interpretazioni alternative più favorevoli degli eventi che li turbavano o delle caratteristiche personali indesiderate, non riusciva tuttavia a percepirle come convincenti da un punto di vista emotivo, e faticava dunque ad abbandonare la sensazione nucleare di indegnità ed isolamento che li caratterizzava. In particolare, Gilbert si rese conto che una delle maggiori difficoltà di questi pazienti era la capacità di generare pensieri connotati da calore e gentilezza rispetto a sé e agli altri. Essi tendevano a mantenere uno stato mentale autocritico incolpandosi per la loro condizione e un modo di parlare di se stessi iper-analitico, freddo e colpevolizzante, atteggiamento che non faceva altro che incrementare il proprio stato di sofferenza.

Sulla base di queste osservazioni, Gilbert introdusse nella sua pratica clinica suggerimenti diretti sul modo di ‘dirsi le cose’ che fosse maggiormente improntato alla gentilezza, al calore e all’auto-validazione. Inizialmente, quindi, si limitava ad incoraggiare i suoi pazienti ad immaginare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi o che li assistesse nei compiti comportamentali.

Attualmente la CFT è utilizzata nel trattamento non solo della depressione, ma anche per la cura di altri disturbi dell’umore, del Disturbo da Stress Post Traumatico, delle psicosi, dei disturbi alimentari e del dolore cronico. Come Gilbert stesso ammette, le ricerche di validazione dell’efficacia sono ancora troppo poche, ma promettenti; questo ci fa sperare nella possibilità che tale approccio possa trovare sempre maggiore spazio e applicazione all’interno delle stanze di terapia.

I sistemi di regolazione affettiva

Alla base della Compassion Focused Therapy vi è l’ipotesi evoluzionista che nel cervello umano esistano almeno tre sistemi cerebrali sottesi alla regolazione affettiva, responsabili dei diversi tipi di emozioni che regolano e ‘guidano’ il raggiungimento dei nostri scopi biosociali (social mentalities).

Il primo è il sistema di protezione dalla minaccia (threat system) o sistema rosso, responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna, che ci aiutano ad affrontare i pericoli e a ristabilire o mantenere una condizione di sicurezza. Tale sistema si attiva nel momento in cui percepiamo segnali di minaccia (Baumeister 2001) e agisce attraverso particolari circuiti cerebrali quali l’amigdala e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA; Le Doux 1998). A questo sistema emozionale corrispondono un preciso stile attentivo (attenzione selettiva verso le possibili fonti di pericolo), uno stile di ragionamento orientato alla sicurezza (‘better safe than sorry’), processi di memoria intrusiva e comportamenti protettivi (freeze, fight, flight e submission). Tutte queste sono risposte volte a migliorare la nostra capacità di difenderci dalla minaccia e dai pericoli.

Il secondo sistema è quello di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system) o sistema blu, responsabile di emozioni positive come piacere, eccitamento e orgoglio, che ci segnalano quando i nostri scopi sono stati raggiunti e soddisfatti e ci motivano o guidano nella ricerca di risorse per sopravvivere e vivere meglio. Questo sistema è connesso all’attivazione del circuito dopaminergico, che ci permette di sperimentare quella sensazione di benessere euforico ed energia che proviamo quando, ad esempio, superiamo un esame, vinciamo una competizione o otteniamo una promozione a lavoro a lungo desiderata. Per Gilbert, all’interno di questo sistema ritroviamo anche il concetto di autostima che, come anche altri ricercatori suggeriscono (Neff, 2012), garantirebbe emozioni di orgoglio e fiducia verso se stessi che sono connesse a quanto ci sentiamo all’altezza di standard di adeguatezza o successo più o meno auto-imposti. Sono quindi emozioni positive condizionate alla valutazione di adeguatezza a qualche tipo di standard e caratterizzate dalle normali oscillazioni a cui va incontro questo auto-bilancio delle nostre competenze.

Il terzo sistema, definito da Gilbert sistema calmante (soothing system) o sistema verde, sarebbe invece responsabile di emozioni come calma, tranquillità e appagamento, che si sperimentano quando non dobbiamo difenderci da qualche minaccia o lottare per acquisire risorse o raggiungere standard (Depue et al. 2005). Questa sensazione di contentezza è connessa ad un’esperienza di sicurezza intrinseca che Gilbert definisce safeness e che si riferisce ad una sensazione di sicurezza e appagamento derivante dal sentirsi connessi agli altri, che si sviluppa in interazioni improntate al calore e all’affiliazione. A livello fisiologico l’attivazione di tale sistema corrisponde al rilascio all’interno del nostro organismo di endorfine e ossitocina. In particolare, l’ossitocina ha proprietà ‘calmanti’ in quanto fa si che il bambino (e non solo) si calmi e si lasci confortare dalla presenza di una persona accudente (anche quando lo stimolo avversivo rimane nell’ambiente) oltre che aumentare la soglia del dolore, migliorare la funzionalità del sistema immunitario e digestivo, diminuire la sensibilità allo stress (Heinrichs et al. 2003, Lee et al 2009).

Nella concettualizzazione di Gilbert questo è un sistema a sé stante: le sue proprietà calmanti si sono sviluppate in concomitanza allo sviluppo delle motivazioni all’attaccamento e all’accudimento e a quei cambiamenti nel sistema nervoso che hanno reso possibile la vicinanza fisica, l’affiliazione e l’interesse per l’accudimento della prole.

Nella CFT (Gilbert 2009a) le esperienze infantili di accudimento disfunzionale (abusi nella sfera emozionale e fisica, neglect, alta emotività espressa, forte critica genitoriale, accudimento distanziante e privo di calore) hanno reso più funzionale, per quel tipo di pazienti descritti prima, il mantenersi continuamente in uno stato di allerta, iper-sviluppando il sistema di protezione della minaccia (espresso tramite il comportamento auto-critico) e ipo-sviluppando il soothing system.

In linea del tutto semplificativa, una carente stimolazione del soothing system durante i primi anni di vita o la sua attivazione condizionata in modo avversivo (ad esempio: figure di attaccamento capaci di dare affetto e calore, ma che hanno anche perpetrato abusi nei confronti del soggetto) hanno portato al quadro sintomatologico che caratterizza questi pazienti fortemente auto-invalidanti, autocritici, tendenti all’auto-accusa e con forti sensazioni di vergogna.

Disattivare il threat system e attivare il soothing system

Alla luce di questo, Gilbert propone che la difficoltà di questo tipo di pazienti di lasciarsi calmare e tranquillizzare dalle interpretazioni alternative (ad esempio della loro amabilità), non sia dovuta alla semplice incapacità di ‘reclutare dati’ a favore di queste ma, congiuntamente, all’iper-attivazione del threat system (con il suo tipico stile decisionale better safe than sorry) e all’incapacità di ‘accendere’ il soothing system, responsabile di quelle emozioni di rassicurazione e accettazione di sé che i dati sulla propria amabilità cercherebbero di generare.

Per far si che le ipotesi alternative benevole siano davvero in grado di rassicurare il paziente è necessario che il sistema calmante sia dapprima riattivato e che possa quindi recepire e lasciarsi stimolare da stimoli esterni ‘tranquillizzanti’. Da qui si spiegano le tipiche difficoltà che questi pazienti hanno con la TC standard (Rector et al. 2000) e nasce la proposta di Gilbert di promuovere il cambiamento attraverso uno specifico training (il compassionate mind training, CMT) che possa insegnare a riattivare volontariamente il proprio soothing system e a disporre delle naturali capacità di regolazione che questo sistema ha nei confronti degli altri due.

Il training, che racchiude tutte le tecniche di intervento della CFT, è da considerarsi come una sorta di psico-fisioterapia (Gilbert 2005a, 2010).

Secondo la CFT, i cues a cui risponde il soothing system sarebbero segnali di affetto, gentilezza, calore e accettazione negli scambi interpersonali, essendo un sistema di regolazione connesso all’attaccamento e all’accudimento. È interessante osservare come questi cues abbiano la capacità di attivare il soothing system sia quando vengono rilevati nell’ambiente (persone che sono compassionevoli, accudenti e attente a noi), sia quando siamo noi stessi ad emetterli verso gli altri e verso di noi.

Da qui il focus sulla compassione: un’emozione che si attiva in risposta a segnali di sofferenza degli altri ed è accompagnata da un intenso desiderio di alleviarli. Secondo moderne concettualizzazioni, la compassione deriva dall’attivazione del sistema di accudimento, ma non è esclusiva dei rapporti parentali e può nascere anche in relazione a segnali di malessere dei nostri conspecifici (Goetz et al. 2010). Mentre la pena scaturisce dall’appraisal di inferiorità della persona che soffre e che desideriamo aiutare, nella compassione vi è un’implicita condivisione della condizione che predispone l’altro a soffrire.

Nel training della CFT il target primario è la riduzione dell’autocritica, considerata un meccanismo di difesa da un ambiente percepito imprevedibile e minaccioso (Gilbert 2007a, 2009a; Gilbert e Irons 2005). Attaccare se stessi per qualcosa che hanno fatto gli altri o di cui ci stanno deprivando garantirebbe, secondo Gilbert, la sensazione di avere un locus of control interno rispetto a ciò che sta accadendo e manterrebbe così intatta la credenza della modificabilità di una situazione avversa quando non si riesce, di fatto, ad accettarne l’immodificabilità.

Inoltre, l’autocritica si configura come un meccanismo di mantenimento della sintomatologia connessa all’iper-attivazione del threat system, trasversale a differenti psicopatologie: l’invalidazione del proprio stato emotivo, il disprezzo verso sé stessi, la vergogna e il senso di indegnità si manifestano, di fatto, con un dialogo interiore che continuamente svaluta, denigra e commenta in tono sprezzante e freddo le esperienze del soggetto.

Questo stile di self-talk stimola, a livello endogeno, il threat system aumentando le manifestazioni emotive e cognitive che spesso, a loro volta, diventano oggetto di ulteriore autocritica (ad esempio, il paziente depresso in preda a ruminazioni auto-ostili che hanno come oggetto la propria inutilità e che non fanno altro che causare un’ulteriore deflessione dell’umore).

Quindi, uno dei compiti del terapeuta nella CFT è far comprendere al paziente le origini e le funzioni della sua attitudine auto-critica e allo stesso tempo il vantaggio di sviluppare e assumere un atteggiamento gentile verso se stesso proprio al fine di favorire il cambiamento terapeutico e la riduzione della sintomatologia.

Come ‘imparare’ la compassione?

Per raggiungere questo scopo la Compassion Focused Therapy utilizza un insieme di interventi in gran parte ripresi dalla tradizione meditativa di origine buddista, che si incentra molto sul generare stati di compassione verso se stessi e gli altri e ‘sull’esporsi’ alla compassione altrui. Secondo questa tradizione, la compassione avrebbe il potere di trasformare la mente (Dalai Lama, 1995) riferendosi, plausibilmente, all’insieme di cambiamenti nello stile attentivo e di ragionamento che si verifica una volta che si attiva deliberatamente questo specifico assetto motivazionale.

Immaginazioni guidate, meditazioni mindfulness, respiro calmante, scrittura di lettere compassionevoli, ragionamento compassionevole sono solo alcuni esempi delle tecniche che possiamo ritrovare in un trattamento orientato alla Compassion Focused Therapy. Ciascuna tecnica è utilizzata in modo flessibile in base al focus terapeutico, a seconda che si voglia dare compassione a se stessi, agli altri o ricevere compassione. Contemporaneamente, il paziente viene guidato nello sviluppo di nuove abilità di risposta al proprio atteggiamento di autocritica che, come detto, attiva il sistema di protezione dalla minaccia impedendone la disattivazione.

In generale, la prima fase del trattamento orientato alla CFT prevede la condivisione con il paziente del modello e delle modalità di funzionamento dei sistemi motivazionali e di regolazione emotiva. Successivamente vengono introdotti esercizi di consapevolezza corporea (es. respiro calmante) volti a preparare il paziente all’utilizzo di tecniche immaginative che hanno lo scopo di aiutarlo a sviluppare una rappresentazione più compassionevole di sé.

Secondo la CFT la compassione si può insegnare e si può apprendere. Il Compassionate Mind Training è stato dunque pensato proprio come un vero e proprio training, che insegna ai pazienti a esercitare le seguenti competenze:

  • Attenzione compassionevole: consiste nell’imparare a rivolgere e a focalizzare la propria attenzione verso oggetti o situazioni che possano rappresentare una fonte di aiuto e supporto per noi stessi. Si invita il paziente, ad esempio, a ricordare situazioni in cui è stato gentile verso gli altri oppure episodi nei quali qualcuno è stato gentile nei suoi confronti; o ancora, lo si invita a pensare alle proprie qualità positive, a rivivere ricordi piacevoli, oppure a prestare attenzione al momento presente con consapevolezza rispetto alle attività che sta svolgendo e a ciò che lo circonda esortandolo a sviluppare sentimenti di gratitudine e apprezzamento.
  • Ragionamento compassionevole: in questo caso gli interventi psicoterapeutici non si differenziano da quelli proposti nella terapia cognitiva standard e sono rivolti a promuovere un cambiamento sulle rappresentazioni che il paziente ha di se stesso, del mondo e degli altri. Rispetto alla terapia standard, vi è però una costante attenzione a rilevare e ad intercettare gli atteggiamenti di autocritica e di colpevolizzazione che il paziente ha nei suoi confronti rispetto al fatto di avere determinare credenze cognitive disfunzionali, invitandolo a modificarle senza ‘maltrattarsi’.
  • Comportamento compassionevole: lo scopo è quello di aiutare il paziente ad affrontare le situazioni di cui ha paura o nelle quali è in difficoltà infondendogli coraggio, offrendogli un’accoglienza calda e supportandolo con pensieri gentili, come farebbe un buon genitore con il proprio bambino quando si trova ad affrontare una situazione nuova nella quale deve superare un ostacolo o apprendere una nuova competenza.
  • Immaginazione compassionevole: consiste nell’aiutare il paziente a generare sentimenti compassionevoli verso di sé. Attraverso esperienze di imagery il terapeuta cerca dunque di guidare il paziente nell’esplorazione del proprio ideale di compassione (che potrebbe essere incarnato ad esempio dalla figura di una persona cara, una persona saggia, ma anche un animale, un albero o una montagna) con lo scopo di rilevarne le caratteristiche specifiche. Molto utili sono anche gli esercizi immaginativi in cui si invita il paziente a immaginare se stesso come una persona profondamente compassionevole e a prestare attenzione alle espressioni facciali, alla postura, al tono di voce e allo stile di pensiero che utilizza in questa condizione e a coglierne le differenze rispetto al proprio atteggiamento usuale.
  • Sensazione compassionevole: consiste nel promuovere nel paziente una maggiore consapevolezza rispetto a quello che prova nel corpo quando sperimenta la compassione per sé e per gli altri.
  • Emozione compassionevole: le emozioni compassionevoli costituiscono il risultato ultimo di questo training e sono rappresentate da un senso di pace, quiete e tranquillità.

In conclusione

La Compassion Focused Therapy si basa su caratteristiche del funzionamento umano naturalmente insite dentro di noi e dunque potenzialmente utilizzabili e valorizzabili in tutti i modelli di psicoterapia, conferendo a questo approccio una natura trasversale.

Riteniamo che inserire all’interno del lavoro terapeutico interventi volti a promuovere atteggiamenti di gentilezza, compassione e accettazione possa essere estremamente arricchente per qualsiasi tipo di paziente, facilitando il suo progredire nel (duro) percorso di cambiamento nel quale lo stiamo accompagnando.

Non dimentichiamo che sperimentare un senso di pace e sicurezza rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo, senza la soddisfazione di questo bisogno non è possibile l’esplorazione nè tantomeno il cambiamento. Questo dunque è forse uno degli insegnamenti più preziosi della Compassion Focused Therapy, insieme all’idea che dovremmo essere noi stessi a farci artefici di questo senso di sicurezza, imparando a mostrare un po’ più di accettazione nei nostri confronti, verso ciò che proviamo e a dimostrarci più compassionevoli e meno critici.. insomma a volerci un po’ più bene, così come siamo!

 

Gruppi, comunità ai tempi del Coronavirus: il punto di vista del Prof. Girolamo Lo Verso

“Emergenza Coronavirus”, una situazione di forte impatto da un punto di vista psicologico, economico, politico, sanitario. Tutti siamo chiamati a dare un contributo. Tutti di fronte a limiti e divieti che stravolgono le nostre routine, abitudini, che ci invitano a mantenere le distanze per ragionevoli ed ovvi motivi.

 

Girolamo Lo Verso è Professore Ordinario di Psicoterapia presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Palermo e docente di Psicoterapia relazionale e di Psicologia del fenomeno mafioso presso l’Università Kore di Enna. E’ fondatore del modello teorico-clinico della Gruppoanalisi soggettuale; si occupa del coordinamento scientifico dei gruppi di ricerca sulla valutazione della psicoterapia, lo psichismo mafioso, la clinica dei gruppi, identità e cultura. È probiviro del Collegio dei professori italiani di psicoterapia clinica. E’ membro di molte società scientifiche Italiane ed Internazionali e del comitato scientifico di numerose riviste.

Autore di diverse pubblicazioni di saggi, articoli di ricerca e testi.

Gruppi e comunita ai tempi del coronavirus le parole del Prof. G. Lo Verso

Imm. 1 – Prof. Girolamo Lo Verso

Il tema affrontato nell’intervista a Lo Verso è “Gruppi, comunità ai tempi del Coronavirus: situazione attuale e possibili risvolti futuri”.

Ecco di seguito il suo pensiero che per ricchezza e profondità di contenuti riporto integralmente:

La situazione precedente non era buona: ampia presenza di atteggiamenti razzisti, paura ed odio per il diverso, scarsa presenza di spirito comunitario, salvo volontariato e simili. Solo aggregazioni poco relazionali tipo manifestazioni sportive e musicali, movida, discoteche e soprattutto lo scontro forte tra “sovranisti” e “progressismo”, tra cui “sardine e chiesa”.

Oggi sembra tutto molto cambiato, con una positiva valenza psichica: unità fra le persone, solidarietà, senso della comunità nazionale e cittadina, riconoscersi nelle istituzioni repubblicane a partire dalle presidenze, solidarietà, superamento di odio e paranoia e condivisione delle regole. Psichicamente è di grande rilevanza stare a casa, condividere vita familiare, avere più tempo per letture, scambi mediatici con amici e colleghi, seguire televisione e musiche dai balconi, dispiacersi per chi muore o è malato, condividere paure e speranze, trovare anche una mesta soddisfazione per il fatto che il modello italiano, nell’insieme ben pensato e gestito, venga esplicitamente copiato da altri paesi. Resta la preoccupazione per la vita degli uomini e dell’economia. Certo ci sono contraddizioni ed eccezioni: eccessi di psicosi o di “strafottenza”, mantenimento da parte di qualche leader politico di demagogia elettorale, vecchi schemi patogeni di odio per l’altro, il diverso che sia donna, meridionale, migrante, intellettuale, povero ecc. anche incentivato da politicanti vari.

Per quanto riguarda la psicoterapia vi è un significativo passaggio al lavoro ONLINE.

Seguo da anni l’esperienza di colleghi come la dottoressa Ustica ed altri segnalando i risultati interessanti che colleghi esperti possono ottenere a condizione che si inizi con colloqui vis à vis. Attualmente è difficile fare terapia di gruppo. Sarà da studiare l’effetto che tutto ciò ha sul lavoro di cura!”

E ancora: “il passaggio verso il benessere di una persona, come così di un gruppo, consiste nel percepirsi e riscoprirsi in una rete di relazioni con gli altri in un percorso di senso di sé integrato.”

 

Mutismo selettivo

Anche se vorrebbe farlo, il bambino colpito da mutismo selettivo non riesce a parlare. Ciò avviene prevalentemente fuori casa e non dipende da disfunzioni organiche, ma è la risposta ad un forte stato emotivo legato all’ansia.

 

 Nel DSM-5 il mutismo selettivo è stato classificato tra i disturbi d’ansia, a differenza del passato dove veniva classificato tra i disturbi del linguaggio, e di conseguenza è cambiato anche il trattamento che ora si rivolge ad una problematica di ansia e non più ad una problematica linguistica. Può esistere una comorbidità con altri disturbi, per cui si può trovare anche la presenza di un disturbo del linguaggio o un disturbo di altro genere, ma come patologia principale il mutismo selettivo è ascrivibile a un disturbo d’ansia.

Per affrontare l’argomento facciamo riferimento a questo esposto nel sito dell’A.I.MU.SE., Associazione Italiana Mutismo Selettivo, organizzazione volontaria nata a Torino nel giugno 2009 per diffondere la conoscenza di questo disturbo e aiutare le famiglie con bambini che ne soffrono. Il suo impegno è volto a sensibilizzare e stimolare la comunità accademica e scientifica affinché vengano studiate terapie di intervento per la risoluzione del disturbo.

Come si manifesta

Il mutismo selettivo consiste nell’incapacità di parlare in certi contesti sociali, nonostante sviluppo e comprensione del linguaggio siano nella norma. Si manifesta prevalentemente nei bambini e non dipende da disfunzioni organiche, ma è la risposta ad un forte stato emotivo legato all’ansia. La comparsa avviene normalmente intorno ai 4 anni, ossia quando cominciano i primi contatti con il mondo esterno alla famiglia.

Anche se vorrebbe farlo, il bambino colpito da mutismo selettivo non riesce a parlare. Ciò avviene prevalentemente fuori casa, in presenza di estranei, nei contesti che gli risultano più ansiogeni come scuola o asilo. Al contrario a casa, e con le persone con cui si sente a suo agio, si esprime normalmente a volte risultando addirittura un chiacchierone.

I bambini con questo disturbo possono comunicare a gesti e avere difficoltà a mantenere un contatto visivo. Restano immobili, non interagiscono, anche il linguaggio del corpo può risultare impacciato. Sono così ansiosi e impauriti da essere bloccati, è come se si sentissero al centro dell’attenzione e questo aumenta la loro ansia. Questo compromette i rapporti con gli altri, la riuscita scolastica e la loro autostima. Sono molto sensibili al giudizio degli altri e se commettono un errore ne sentono il peso in modo esagerato. Sono pignoli, perfezionisti e abitudinari perché le novità provocano loro ansia. I disagi possono portare a comportamenti quali tic, autolesionismo o esplosioni di ira incontenibile una volta che il bambino rientra nel contesto familiare che sente più rassicurante.

Anche sei più colpiti sono i bambini, possono soffrirne anche adolescenti e adulti. Il bambino, divenuto adolescente, può mantenere difficoltà di interazione sociale risultando spesso, a torto, disinteressate o sprezzante, arrogante e maleducato.

L’incidenza parlerebbe di 1 bambino ogni 140 e più le femmine dei maschi, ma esiste un sommerso difficilmente quantificabile.

Errori di valutazione

Le reazioni collegate al mutismo selettivo possono essere scambiate per timidezza o autismo. In genere si tratta di un disturbo che riguarda bambini molto sensibili e il loro comportamento può essere scambiato per timidezza, quindi spesso il problema non viene riconosciuto, soprattutto nelle fasi precoci, come il periodo della scuola d’infanzia.

Un’errata valutazione di queste manifestazioni determina spesso il loro consolidamento facendo sì che il problema diventi ancora più evidente con l’ingresso alla scuola primaria. A questo punto può accadere che il silenzio del bambino venga interpretato come una non volontà di parlare, una sfida alle regole, alla quale si risponde con tentativi di forzature o punizioni.

Se diagnosticato in modo tempestivo, il mutismo selettivo è generalmente guaribile in tempi relativamente brevi, al contrario, se la diagnosi risulta tardiva, può prolungarsi dando luogo a situazioni difficili da gestire.

Cause e complicazioni

Le cause sono associate a un forte stato di stress, ma ad oggi non sono state individuate in modo preciso. E’ palese che il disturbo si possa ricondurre a cause di tipo emotivo, psicologico e sociale. Non necessariamente il soggetto colpito da mutismo selettivo ha subito forti traumi, sembra che questo disturbo risulti più frequente in bambini che vivono in famiglie socialmente isolate e con problemi di ansia, timidezza e difficoltà nelle relazioni sociali.

Una complicazione è il mutismo progressivo, che comporta una riduzione delle persone e delle situazioni in cui il soggetto parla, fino ad arrivare al caso più grave del mutismo totale, in cui il soggetto non parla più nemmeno con i genitori. Più passa il tempo più il soggetto si isola sentendosi inadeguato e insoddisfatto delle sua vita.

Intervista alla Dottoressa Marta Di Meo

Abbiamo rivolto qualche domanda alla Dottoressa Marta Di Meo, psicologa e psicoterapeuta esperta in mutismo selettivo.

Mutismo selettivo caratteristiche del disturbo e intervista ad un esperto IMM 1

Immagine 1 – La Dottoressa Marta Di Meo, psicologa e psicoterapeuta esperta in mutismo selettivo

Intervistatore (I): Risulta che il mutismo selettivo si manifesti prevalentemente intorno ai 4 anni, ma si può parlare di un disturbo latente ma congenito?

Marta Di Meo (MDM): Assolutamente si! Il Mutismo Selettivo è un disturbo d’ansia di “tratto”: l’ansia che si manifesta nel “tratto caratteriale” di una persona e non in risposta al solo stimolo esterno. Ovviamente di fronte a degli eventi esterni l’ansia aumenta, ma è presente da sempre nella persona, quindi possiamo definirla come “congenita”. C’è anche una componente di familiarità molto forte, che va a gravare sull’ansia “di base” e che può peggiorare il quadro clinico della persona.

I : Anche in relazione al fatto che risultano esserci contesti familiari che lo favoriscono, si potrebbe parlare di fattori genetici che lo facilitano?

MDM: Anche in questo caso la risposta è affermativa! Solitamente nel Mutismo Selettivo c’è una forte componente di familiarità, così come in generale accade per altre patologie. Si stima che il 50% dei genitori abbia sofferto, in passato, di un disturbo d’ansia e che il 75% dei familiari (nonni, zii) abbia anch’esso familiarità con disturbi d’ansia. Questo significa che la componente di familiarità abbia un ruolo fondamentale: predispone il soggetto al Mutismo Selettivo e crea delle condizioni ambientali tali per cui il disturbo d’ansia sia acutizzato e possa manifestarsi.

I: Può protrarsi fino all’adolescenza o all’età adulta, ma può anche insorgere in adolescenti/adulti che fino a quel momento non avevano dato segnali di soffrirne?

MDM: No, è abbastanza improbabile che possa manifestarsi in adolescenti o adulti che non avevano mai mostrato sintomi di ansia in precedenza. I sintomi sono piuttosto chiari e facilmente riconoscibili: chiusura, corpo bloccato fino alla completa immobilità (il cosiddetto “freezing”), difficoltà nei movimenti spontanei e nel sostenere lo sguardo, corpo in posizione di chiusura, voce bassa o difficoltà ad emettere qualunque tipologia di suono e difficoltà nel rispondere alle domande dirette poste da figure dei pari e dagli adulti. Questi sintomi vengono osservati maggiormente nei contesti scolastici, poiché a casa il bambino riesce a fare tutto in modo del tutto naturale e spontaneo (sebbene nei casi più gravi sia presente una difficoltà anche tra le mura domestiche). Nei contesti scolastici gli insegnanti, i compagni e i ragazzi stessi si accorgono di tali difficoltà, ma spesso scambiano il tutto per “eccessiva timidezza”. Quello che può accadere è che, prendendo consapevolezza di queste difficoltà, l’adolescente si chiuda maggiormente, credendo di non essere in grado di affrontare le varie situazioni sociali.

I: Può essere considerato una fase passeggera che si può risolvere autonomamente?

MDM: Quella di “aspettare del tempo” era una strategia utilizzata in passato, quando non si conosceva bene la patologia e nemmeno l’importanza della cura. Attualmente è sconsigliabile, poiché i casi di regressione spontanea sono molto rari ed il fatto di attendere del tempo potrebbe far sviluppare situazioni ed atteggiamenti negativi al bambino. Può essere considerata una “fase transitoria” quella del “mutismo” nelle fasi di ambientamento ad alcune situazioni specifiche: ad esempio se un bambino inizia un nuovo ciclo scolastico e non parla per qualche settimana, ciò può rientrare nella norma e non essere motivo di preoccupazione per famiglie e scuola. Se tale periodo si protrae e supera il mese, bisogna iniziare a monitorare bene la situazione, poiché potrebbe essere indice di Mutismo Selettivo.

I: Può avere fasi altalenanti in cui il disturbo si riduce e riacutizza o ha un andamento costante? (anche con tendenza a degenerare nei casi di mutismo progressivo o totale)

MDM: Risposta affermativa. Il Mutismo Selettivo peggiora nelle fasi in cui il bambino/ragazzo è esposto a situazioni stressanti e in cui deve mettere in atto una prestazione. La situazione, però, è peggiore se non si è in fase di trattamento: durante il trattamento specifico questi momenti “altalenanti” si riducono nella frequenza e nella intensità e rappresentano solo dei “momenti di passaggio”. Quando un bambino riesce a migliorare progressivamente può presentare delle fasi di lieve regressione o di comportamento oppositivo; oppure può accadere che si riacutizzino alcuni sintomi dopo un lungo periodo di assenza a scuola. Per questo ci viene in aiuto la terapia di stampo americano, che stiamo utilizzando con grande successo, anche in Italia: stabilizzando i risultati, di volta in volta, evitiamo proprio questo “effetto yo-yo” ed insegniamo a genitori, insegnanti e ai ragazzi stessi come gestire in modo ottimale le singole situazioni.

 

Caffeina: è davvero il carburante degli artisti?

Uno studio del 2020 ha confrontato la performance in compiti di creatività e problem solving in due gruppi formati da soggetti ai quali veniva somministrata una capsula di caffeina oppure di placebo.

 

Il caffè giunge nello stomaco e tutto mette in movimento: le idee avanzano come battaglioni di un grande esercito sul campo di battaglia; questa ha inizio… I pensieri geniali e subitanei si precipitano nella mischia come tiratori scelti.

Così scriveva Honorè de Balzac nel suo Traité des excitants modernes del 1839, descrivendo gli effetti sconvolgenti ottenuti dall’uso della polvere di caffè ingerita a stomaco vuoto, metodo da lui utilizzato per massimizzarne il potenziale eccitante; lo scrittore aveva infatti l’abitudine di bere 50 tazze di caffè al giorno per aiutare il proprio processo creativo, finendo per sviluppare una prevedibile assuefazione alla sostanza.

La caffeina è lo stimolante più utilizzato al mondo, contenuto non solo nel caffè, ma anche in bibite di largo consumo e negli energy drinks, il cui uso è tra l’altro particolarmente diffuso tra i giovani e si stima che l’85% degli adulti negli Stati Uniti consumi almeno una bevanda al giorno che contiene caffeina (Mitchell et al., 2014). Nell’immaginario collettivo esiste un legame a doppio filo tra l’utilizzo di stimolanti e le professioni creative, stereotipo che è stato poi confermato come realtà da diversi studi (per una rassegna vedi Weinberg & Bealer, 2004); in particolare, si è riscontrato come l’assunzione di caffeina incrementi la lucidità mentale, la vigilanza e le performance motorie, migliori la concentrazione e il focus attentivo, nonché abbia un effetto positivo sull’umore (Glade, 2010).

Tuttavia, ancora resta da chiarire se realmente l’assunzione di questo stimolante possa aumentare la performance in termini di pensiero creativo: la letteratura scientifica che si è occupata di rintracciare i facilitatori della creatività riporta in realtà come un minor controllo cognitivo, interpretabile anche come una minore attività della corteccia prefrontale e una ridotta eccitabilità corticale (Chrysikou, 2019), possa essere la chiave per la generazione di soluzioni originali.

Il processo che viene più strettamente inteso come creativo, ovvero il pensiero divergente, sembra però richiedere una combinazione di controllo cognitivo e insorgenza spontanea di nuove idee, interdipendenza che si riflette anche nell’accoppiamento funzionale tra i circuiti fronto-parietali e il default network nel nostro cervello (Beaty et al., 2006); il pensiero divergente infatti richiede processi top-down, governati appunto dal network di controllo esecutivo, e contemporaneamente da processi bottom-up, nella forma di processi associativi emergenti dall’attività del default-mode network (Benedek & Fink, 2019). Al contrario, il problem solving, o pensiero convergente, (Bowden et al., 2003) richiede un controllo esecutivo e una focalizzazione attentiva maggiore per generare sì svariate alternative, ma scegliere poi quella che meglio si adegua al contesto di riferimento e alle caratteristiche del problema, ‘convergendo’ appunto su una soluzione.

Coerentemente con queste premesse, è stato ipotizzato da Zabelina e Silvia (2020) che il consumo di caffeina avrebbe migliorato la performance nei compiti che miravano a valutare il pensiero convergente; al contempo però, le predizioni riguardanti il pensiero divergente rimanevano invece molto meno certe, dovendo appunto tenere conto dell’interdipendenza tra processi top-down e bottom-up, sui quali lo stimolante avrebbe effetti differenti.

Gli autori hanno coinvolto 88 partecipanti i quali, dopo essere stati assegnati a una delle due condizioni sperimentali assumendo una capsula di caffeina da 200mg (pari alla quantità contenuta in 350 ml di caffè) o alternativamente una contenente placebo, hanno svolto diversi test volti ad indagare l’effetto sulla performance creativa e sulla working memory, oltre a rispondere a dei questionari per cogliere il loro stato emotivo (pre vs post assunzione della capsula di sostanza attiva o placebo), la loro credenza circa il contenuto della capsula e le loro aspettative circa l’effetto che l’eventuale assunzione di caffeina avrebbe avuto sulla loro performance.

I risultati hanno permesso di individuare un effetto di media grandezza, laddove i partecipanti che erano stati assegnati alla condizione ‘caffeina’ avevano performance significativamente migliori dei soggetti nel gruppo di controllo nei compiti di problema solving, effetto che diveniva anche maggiore prendendo in considerazione le aspettative individuali circa l’effetto della sostanza. Al contrario, non si sono riscontrate differenze significative tra i due gruppi sperimentali nel compito utilizzato per valutare il pensiero divergente, suggerendo che la caffeina non abbia influenzato tale processo cognitivo. I partecipanti che avevano assunto caffeina dichiaravano un calo della tristezza tra la prima e la seconda fase di test, al contrario dei soggetti nella condizione ‘placebo’ che riportavano invece una deflessione nel tono dell’umore al termine dei compiti assegnati; nessuna significativa differenza veniva riscontrata analizzando invece i sentimenti di felicità, noia, ansia o concentrazione.

I risultati ottenuti sono in linea con la letteratura che associa il pensiero divergente ad un’aumentata attività delle onde alpha cerebrali, marcatori dello stato di veglia rilassata e del network inibitorio, rendendo quindi plausibile come l’assunzione di caffeina, associata invece ad una riduzione globale della potenza EEG nella banda alfa, possa rendere nulli gli effetti sulla performance in questo tipo di compiti; un’altra ipotesi è che 200 mg di sostanza psicoattiva, corrispondente ad una dose relativamente esigua, non siano sufficienti per far emergere chiaramente gli effetti sulla performance relativa al pensiero divergente, caratterizzato appunto dall’interconnessione di processi top-down e bottom-up, delegando a futuri studi il compito di verificare tale eventualità.

 

COVID-19 CORONAVIRUS SURVEY

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

 

Fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe immaginato che le nostre vite sarebbero state stravolte in modo così radicale da un virus. Un nemico invisibile che, oltre a causare un’emergenza medico-sanitaria senza eguali, lutti ed emergenze sociali ed economiche, ha modificato molte nostre abitudini, pensieri, ed emozioni. I migliaia di contagi, la quarantena e lo stato di isolamento, le restrizioni a cui tutti dobbiamo attenerci, in molti casi, ci pongono dinnanzi a pensieri d’incertezza sul nostro presente e sul nostro futuro, che generano in noi emozioni spiacevoli e comportamenti spesso disfunzionali.

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

Per tale motivo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi si è proposto indagare quali sono i pensieri, le emozioni e i comportamenti più diffusi in questo delicato periodo.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti, ci vogliono 5 minuti per compilare il questionario ed aiutarci con la ricerca.

E’ importante conoscere le opinioni di ciascuno di voi per riuscire a dare una risposta congrua e utile alle domande di aiuto che arrivano da più parti.

Vi saremo molto grati se riuscirete a trovare il tempo per noi!

 


Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale Femminile

Negli ultimi anni sembra essere diventato più facile parlare disturbi sessuali femminili e la letteratura scientifica è sensibilmente fiorita in questa direzione. Un concetto molto interessante introdotto recentemente è quello di desiderio sessuale femminile. Ma da dove arriva questo concetto e come nasce il bisogno di parlarne?

Gaia Campanale e Valentina Gobbi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Fino alla fine degli anni Novanta i disturbi sessuali femminili non sono stati al centro della ricerca scientifica, se non in minima parte. La ricerca era orientata allo studio dei disturbi sessuali maschili all’interno della cui concettualizzazione si cercava di far ricadere la casistica femminile. Così facendo si è pian piano cominciato a vedere che venivano perse alcune peculiarità della sessualità femminile. Bartlik nel 1999 spiegò questo fenomeno di inibizione della ricerca orientata al femminile, attraverso fattori sociologici, ritrovandone la causa nei pregiudizi e nei timori nei confronti della sessualità di cui è permeata la nostra cultura. Negli ultimi anni sembra essere diventato più facile parlare disturbi sessuali femminili e la letteratura scientifica è sensibilmente fiorita in questa direzione.

Un concetto molto interessante introdotto recentemente è quello di desiderio sessuale femminile. Ma da dove arriva questo concetto e come nasce il bisogno di parlarne?

Il concetto di desiderio è stato introdotto per la prima volta nel 1979 da H. Kaplan all’interno di un modello lineare di risposta sessuale (desiderio > eccitazione > plateau > orgasmo > risoluzione) in cui però guidava ancora una visione di stampo prettamente maschile. La vera svolta è avvenuta qualche anno dopo, nel 2005, quando in uno studio di Basson et al. fu proposto un modello circolare della sessualità femminile che andò a soppiantare definitivamente quello lineare fino ad allora in uso. In questo modello circolare viene introdotto un elemento innovativo: l’associazione della fase fisiologica di risoluzione dell’eccitazione con il processo di valutazione dell’esperienza vissuta in termini di soddisfazione/insoddisfazione. Subentrano in questo modo elementi come appagamento/mancato appagamento, bisogno e desiderio, andando ad evidenziare la reciprocità esistente tra desiderio ed eccitazione sessuale (Fabrizi e Cosmi, 2007).

Nell’ambito dei disturbi sessuali, le formulazioni teoriche introdotte dalle Consensus Conferencee dal gruppo di ricerca di Basson (2005) portano a suddividere le disfunzioni sessuali femminili in disturbi ancora più specifici, in modo da riuscire ad approfondirne la conoscenza di ogni aspetto ed impostare la cura ed il trattamento in base alle specifiche esigenze. Le tipologie di disturbo individuate sono quattro: disturbi del desiderio, dell’eccitazione, dell’orgasmo, caratterizzati da dolore.

In questa recensione ci occuperemo in particolare dei primi due elementi: desiderio ed eccitazione.

Il desiderio soggettivamente sperimentato, nasce da fattori biologici, psichici e relazionali che, influenzandosi reciprocamente tra loro, contribuiscono ad alimentare e modulare il desiderio stesso. I disturbi del desiderio sessuale hanno una etiologia multifattoriale e le componenti biologiche e psicosessuali non possono essere rigidamente distinte (Levine, 2003; Basson et al., 2004). Su un piano nosografico, accanto al termine desiderio si può accompagnare quello di interesse sessuale in quanto amplia il repertorio e lo orienta sulla motivazione di accettare e rispondere alle richieste sessuali del partner che non è sempre e solo guidata dal puro desiderio inteso come voglia accompagnata da fantasie, sogni erotici e iniziativa personale (Fabrizi, Cosmi, 2007).

L’eccitazione è considerata un’emozione successiva e simile a quella del desiderio, maggiormente sviluppata a livello corporeo e fisico e che prevede, nella donna, la lubrificazione vaginale e una serie di reazioni neurovegetative, muscolari ed endocrine connesse. A livello fisico nasce dal desiderio e prepara all’orgasmo producendo un’attivazione generale dell’organismo corrispondente a un vissuto soggettivo di piacere sessuale. Nonostante questa componente fisica sia molto forte non può essere l’unica considerata, in quanto nella donna è per lo più una percezione mentale e soggettiva. Quando una donna parla di eccitazione, intende quasi sempre un’eccitazione di questo tipo, mentale e soggettiva, per la quale possono esserci fattori stimolanti e fattori inibenti. Tra i fattori stimolanti troviamo lo stimolo erotico in sé, l’eccitamento del partner, la percezione del proprio eccitamento genitale; tra quelli inibenti e bloccanti la stimolazione troviamo situazioni distraenti, problemi interpersonali, difficoltà nella risposta fisica del partner. Subentra poi un’altra considerazione a favore dell’eccitazione sessuale femminile come fenomeno prevalentemente mentale e soggettivo, questo infatti non è sempre accompagnato dalla consapevolezza dei propri cambiamenti fisici vaso congestizi genitali ed extra-genitali.

Appare così evidente la complessità del fenomeno, sia da un punto di vista biologico che psichico.

Basson ha suddiviso i disturbi dell’eccitazione in quattro tipologie che riprendono le differenti situazioni cliniche presentate dalle donne (Basson et al., 2003):

  • Disturbo soggettivo dell’eccitazione sessuale: diminuzione marcata o assenza delle sensazioni mentali di eccitazione sessuale derivanti da qualsiasi tipo si stimolazione sessuale;
  • Disturbo genitale dell’eccitazione sessuale: mancata o ridotta eccitazione sessuale genitale;
  • Disturbo misto, soggettivo e genitale, dell’eccitazione sessuale: assenza o marcata riduzione di sensazioni di eccitazione sessuale, associata ad una assente o diminuita eccitazione sessuale in risposta a qualsiasi tipo di eccitazione sessuale;
  • Disturbo dell’eccitazione sessuale persistente: l’eccitazione sessuale genitale è spontanea, intrusiva e non desiderata, in assenza di desiderio e di interesse sessuale. La consapevolezza dell’eccitazione sessuale è tipicamente spiacevole e non è ridotta da uno o più orgasmi. (Leiblum, Nathan, 2002)

Il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile è considerato il problema sessuale attualmente più diffuso tra le donne. Difatti, almeno un terzo della popolazione lo sperimenta nel corso della vita e, secondo uno dei più noti studi a riguardo (Shifren et al., 2008), coinvolge il 75% delle donne più anziane, il 39% delle donne tra i 45 e i 64 anni e il 22% delle donne più giovani. I disturbi del desiderio sessuale interessano circa 2.5 milioni di donne. Il desiderio sessuale si riduce fisiologicamente con l’età mentre il disagio causato dalla perdita di desiderio sessuale è inversamente correlato all’età, essendo più elevato nella donna più giovane.

Può essere utile partire dalla definizione che si trova all’interno del DSM-5, ma occorre stare attenti a non separare l’eziologia organica da quella psicosociale in quanto ci sono forti interazioni tra le componenti psicosociali e quelle biologiche (Mah, Binik, 2001).

Il DSM-5 definisce il disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile come:

Una mancanza o una significativa riduzione di desiderio/eccitazione sessuale manifestato da almeno tre dei seguenti indicatori:

  • assente/ridotto interesse per l’attività sessuale;
  • assenti/ridotti pensieri o fantasie sessuali/erotiche;
  • nessuna iniziativa di attività sessuale e nessuna risposta ai tentativi da parte del partner;
  • assente/ridotto piacere ed eccitazione sessuale durante l’attività sessuale;
  • assente/ridotto desiderio/eccitazione sessuale in risposta a stimoli sessuali/erotici di alcun tipo;
  • assenti/ridotte sensazioni genitali (e non) durante l’attività sessuale in tutti o quasi tutti gli incontri sessuali.

Per la diagnosi, i sintomi devono essere presenti da almeno sei mesi causando un disagio clinicamente significativo alla persona (DSM-5, 2013).

Trattandosi di un disturbo complesso, eterogeneo e multi-componenziale è importante ampliare e approfondire le caratteristiche psicologiche che caratterizzano il disturbo e che ad esso si associano. In questo modo sarà sempre più possibile implementare trattamenti empiricamente validati e adattati al paziente.

Basson, in un articolo pubblicato nel 2005, aveva presentato il modello qui sotto per evidenziale come le componenti psicologiche abbiano un ruolo di élite nella normale funzione sessuale delle donne.

Disturbo

Immagine 1 – Modello Basson (2005)

Il grafico si legge partendo da sinistra, dove abbiamo una prima fase di neutralità sessuale in presenza di disponibilità. Le motivazioni che spingono una donna ad intraprendere un rapporto sessuale includono il desiderio di esprimere amore, di ricevere e condividere piacere fisico, di sentirsi emotivamente vicina al partner, compiacerlo ed aumentare il proprio benessere. Questo porta alla volontà di trovare in modo proattivo degli stimoli sessuali che vengono elaborati nella mente ed influenzati da fattori biologici e psicologici. Lo stato risultante è un’eccitazione sessuale soggettiva che attraverso la stimolazione continua intensifica eccitazione e piacere ed innesca il desiderio sessuale (prima assente). La soddisfazione sessuale deriva quindi da una stimolazione continua sufficientemente lunga che porta la donna a restare focalizzata godendosi la sensazione di eccitazione sessuale in assenza di esiti negativi come il dolore fisico.

Tutto ciò evidenzia l’importanza per la donna di diventare soggettivamente attivata. Questa attivazione sessuale può essere influenzata negativamente da fattori psicologici e biologici.

Forti predittori di assenza di sofferenza nel rapporto sessuale sono: la relazione emotiva con il partner durante l’attività sessuale e il generale benessere emotivo della donna (donne che si descrivono in buona salute mentale). Altri fattori sono la percezione di sicurezza fisica e psicologica, la privacy durante il rapporto, la carica erotica della situazione, preoccupazioni varie e l’ora tarda (Bancroft, Loftus, Long, 2003).

Studi empirici hanno mostrato una alta correlazione tra disturbo del desiderio e bassa immagine di sé, instabilità dell’umore e tendenza alla preoccupazione e all’ansia (Hartmann, Heiser, Rüffer-Hesse, Kloth, 2002).

Restando sui fattori psicologici, H. Kaplan (1979) distingueva tre livelli del conflitto all’origine del disturbo del desiderio:

  • conflitti di livello blando derivanti dalla preoccupazione per il piacere del partner, dall’incapacità di comunicare i propri desideri e bisogni, dal ripetersi di manifestazioni erotiche poco piacevoli e poco gratificanti. Anche i sensi di colpa, inibizioni e precauzioni che provengono dalle proibizioni sessuali infantili molto diffuse nella nostra cultura;
  • conflitti di livello medio, la paura inconscia del successo e/o del piacere, ma soprattutto la paura inconscia di una relazione intima;
  • conflitti di livello profondo come ad esempio le modalità di evitamento che alcune persone mettono in atto al fine di “non voler” provare desiderio per non sentirsi in pericolo rispetto ai propri fantasmi interiori. Anche problematiche di tipo edipico possono sostenere questo livello di conflitto.

Questa controparte psicologica va comunque sempre associata ai problemi che possono esistere nella relazione di coppia (es. la lotta di potere, le reazioni di collera, l’escalation dell’aggressività ecc.) che si ritrovano spesso abbinati.

Trattamento

Come confermano i dati in letteratura, nelle donne i fattori psicologici, emotivi e relazionali contribuiscono tutti nel determinare la comparsa e lo sviluppo di problematiche legate alla sfera sessuale. In aggiunta a ciò, le donne presentano una maggiore tendenza rispetto agli uomini a legare il sintomo al contesto relazionale (Basson, 2005; Leiblum, 2004).

Nel prendere in esame le diverse cause che possono contribuire all’insorgenza delle disfunzioni sessuali femminili è importante partire dal presupposto che ci sono forti interazioni tra le componenti psicosociali e quelle biologiche, in contrasto con il DSM IV-TR che tende a separare rigidamente l’eziologia organica da quella psicosociale (Mah, Binik, 2001).

La natura multidimensionale della sessualità femminile, legata ad aspetti quali l’ideale di femminilità, lo stile di vita, le relazioni, i fattori biologici e la vita affettiva, impone un inquadramento multifattoriale del disturbo sessuale.

Per queste ragioni un approccio integrato al paziente sessuologico sembra essere, come supportato dalla letteratura internazionale, l’intervento d’élite, sintetizzando al meglio le esigenze medico-psicologiche che sono alla base del trattamento delle disfunzioni sessuali (Simonelli et al., 2000).

In quest’ottica, un intervento integrato si avvale della stretta collaborazione di diverse figure professionali: ginecologo, psicologo e sessuologo in cui ognuno persegue come obiettivo comune la comprensione e la risoluzione del sintomo, senza mai dimenticare l’importanza del partner nella possibile causa e sicuramente nel trattamento (Rossi et al., 1998).

Nel percorso terapeutico di tipo sessuologico, questa integrazione parte fin dall’inizio del processo diagnostico, dove medico e psicosessuologo si confrontano per la valutazione degli aspetti psichici e somatici implicati nella origine e nello sviluppo del disturbo. Un approccio esclusivamente medico comporterebbe il rischio di alcune distorsioni fondamentali: una falsa nozione dell’equivalenza sessuale tra uomo e donna, la cancellazione del contesto relazionale della sessualità, il livello di differenze tra le singole donne (Simonelli, Fabrizi, 2006). In base a queste premesse è evidente che lo studio delle disfunzioni sessuali femminili dovrebbe utilizzare un’ottica rivolta alla comprensione ed all’integrazione delle diverse cause che hanno determinato l’insorgenza del sintomo, così come alla comorbilità del disturbo nella coppia, considerata come “luogo” d’intersezione tra disagio individuale e disagio relazionale.

La terapia sessuologica integrata prevede alcuni momenti fondamentali:

  • le sessioni individuali o di coppia;
  • la discussione e il confronto sulle convinzioni riguardo la sessualità, in riferimento agli stereotipi, ai pregiudizi, alle credenze e alle informazioni inadeguate;
  • il training di autoconsapevolezza corporea, come strumento fondamentale per una buona riuscita del percorso terapeutico;
  • il trattamento dell’ansia legata all’esperienza sessuale, tenendo presente che, spesso, contenuti livelli di ansia possono avere un effetto che favorisce l’attività sessuale anziché inibirla.

In questo percorso, un’attenzione particolare dovrebbe essere posta alla fase diagnostica, che comprende tutti quegli elementi che vanno dall’esame del sintomo agli aspetti intrapsichici individuali alla componente organica. I principali settori di indagine per il clinico riguardano tutte le aree problematiche che possono avere avuto una ripercussione sulla sfera sessuale dell’individuo:

  • Educazione particolarmente rigida, caratterizzata da restrizioni culturali e/o religiose che hanno contribuito a strutturare un vissuto di colpa rispetto alla sessualità.
  • Eventuale presenza di traumi pregressi, sia di natura fisica che emotiva e sessuale legati, ad esempio, ad un abuso sessuale.
  • Presenza di malattie, incluse quelle psichiatriche, oltre che gli effetti collaterali di eventuali farmaci assunti, l’abuso di sostanze e le conseguenze post-operatorie degli interventi chirurgici.
  • Difficoltà interpersonali attuali, insieme ad eventuali disfunzioni sessuali del partner, o un’inadeguata stimolazione e/o un insoddisfacente contesto emozionale e sessuale. Oltre all’esame della storia relazionale e il significato della funzionalità/disfunzionalità sessuale all’interno della coppia, andrebbero indagate la qualità della comunicazione, sessuale e non, e l’iniziativa/rifiuto del sesso-affetto (Simonelli, 2002).

L’evidenza clinica ha rivelato che all’interno della coppia, quando la donna ha un problema, l’attività sessuale, pur risentendone, di solito non è sospesa; piuttosto la donna spesso si colpevolizza o, in altri casi, l’uomo pensa di non essere in grado di offrire una buona performance. Comunque, la sofferenza investe anche l’altro/a, lo spazio e il tempo dell’intimità tendono a ridursi e ad essere problematici, inoltre possono riscontrarsi ricadute negative in altre aree del rapporto non prettamente sessuali. Questa fase di assessment consente di prendere delle decisioni sull’intervento clinico da proporre; in quest’ottica, si prediligerà un lavoro centrato sulla coppia nei casi in cui si è riscontrato un coinvolgimento relazionale nell’insorgenza o mantenimento del sintomo, verificando un’eventuale co-presenza di disturbi sessuali nel partner. Viceversa, verrà proposto un intervento con la donna in presenza di disagi individuali specifici (intrapsichici). In entrambi i casi, si utilizzerà un intervento flessibile, individuale e di coppia, dove il partner potrà svolgere un ruolo di facilitatore.

Le linee guida per l’assessment delle disfunzioni sessuali femminili comprendono la necessità di individuare i fattori di predisposizione, precipitanti e di mantenimento del sintomo sessuale. Se in consultazione si presenta una coppia è necessario indagare i suddetti fattori in entrambi i partner. Un’attenzione particolare, qualora le disfunzioni sessuali riportate siano presenti da diverso tempo, dovrebbe essere rivolta alla storia delle relazioni pregresse.

In prima battuta, per ogni disturbo dovrebbero essere definite le caratteristiche temporali, se quindi il disturbo è primario o acquisito; le caratteristiche in relazioni al contesto, se il disturbo è generalizzato o situazionale; il grado di stress emotivo associato al disturbo, se assente, medio, moderato, marcato. La comprensione della eziologia del disturbo (biologica, psicogena, mista) infine aiuterà il clinico sia nella pianificazione del trattamento terapeutico sia nella valutazione delle figure specialistiche da coinvolgere eventualmente.

Infine, in linea generale, sembra che un buon esito del trattamento sessuologico sia legato alla motivazione ad intraprendere il trattamento e al cambiamento, ad una buona qualità della relazione di coppia e all’attrazione fisica tra i partner. Invece, tra i fattori di prognosi sfavorevoli nella pratica clinica si riscontrano principalmente: una relazione gravemente conflittuale tra i partner, una scarsa motivazione del partner non disfunzionale al trattamento, gli scarsi segni di adesione al trattamento (legati ad esempio, ad aspettative magiche e/o ad un atteggiamento passivo della coppia) (Althof, Leiblum, 2004).

Fino alla fine degli anni Novanta, la ricerca si è occupata solo in minima parte delle Disturbi Sessuali Femminili. Gli specialisti del settore (sessuologi clinici, medici, psicologi) hanno avuto grandi dubbi nel continuare ad inquadrare i disturbi sessuali riportati dalle donne nelle classificazioni esistenti (coniate in modo speculare alla definizione dei disturbi maschili, senza tener conto di alcune peculiarità della sessualità femminile).

Occorre ricordare che pur essendoci delle significative somiglianze anatomico funzionali tra la sessualità maschile e quella femminile, rimangono comunque delle differenze dal punto di vista psicologico e dell’esperienza sessuale che non ci consentono di intervenire sulle disfunzioni sessuali femminili nello stesso modo in cui interveniamo in quelle maschili. Nonostante la presenza di disturbi organici, sono molto più spesso i fattori psicosociali, emozionali e/o relazionali a determinare l’insorgenza e/o il mantenimento di un disturbo sessuale nella donna. Il rischio della sesso-farmacologia, come la definisce la Tiefer (2001), è quello di perpetuare la funzione genitale come la primaria, “naturale” esperienza sessuale.

Sarebbe necessario che le ricerche sulle disfunzioni sessuali femminili si orientassero su due fronti, da una parte lo sviluppo di studi epidemiologici che tengano conto della nuova classificazione proposta e dall’altra il perfezionamento degli studi anatomici. Come suggerisce Basson (2003) è di primaria importanza favorire la libertà dell’individuo nell’espressione della propria sessualità /affettività dai disordini di natura organica che interferiscono con la funzione sessuale e riproduttiva.

 

Psico-emergenza covid-19

Dinnanzi ad una malattia infettiva sconosciuta tra le reazioni più comuni della popolazione vi possono essere la negazione ovvero, in contrapposizione, la fobia.

 

Occuparmi dei miei pazienti, con la massima tutela sia loro che mia, senza preoccuparmi: nella  situazione che noi tutti stiamo vivendo appare un obiettivo a dir poco ambizioso…

Potrei definire il coronavirus, dapprima preso sottogamba dai più ma ora temuto in modo esponenziale, un vero e proprio trauma collettivo. La persistente e totalizzante incertezza circa l’evolversi della situazione è accompagnata da un senso di impotenza e da un costante sentirsi “in balia di”, in aggiunta alla precarietà ed alla limitazione delle proprie libertà.

Dinnanzi ad una malattia infettiva sconosciuta tra le reazioni più comuni della popolazione vi possono essere la negazione ovvero, in contrapposizione, la fobia.

La negazione è un meccanismo di difesa arcaico, presente cioè sin dalla tenera età, che ben riflette il pensiero magico dei bambini piccoli secondo i quali disconoscere una realtà sgradita corrisponde ad eliminarla. Dinanzi ad una realtà che si mostra “eccessiva” rispetto alla propria capacità di elaborazione si può ricorrere, in taluni casi, al meccanismo auto-protettivo di cui la mente umana dispone per proteggersi rifiutando sentimenti troppi sgradevoli e dolorosi.

Il termine fobia indica un’irrazionale e persistente paura che risulta essere sproporzionata rispetto a qualcosa; pur essendo considerata “irragionevole” non può essere dominata, ed obbliga ad un comportamento volto ad evitare o mascherare la situazione paventata.

Dato che le informazioni cambiano molto velocemente devo costantemente essere aggiornata, come terapista, circa le caratteristiche del coronavirus; essere informata in merito al numero dei casi sia della mia città che del paese delle persone che ho in carico. Questa sorta di analisi dei dati mi serve per poter rappresentare una base sicura per il mio paziente. Devo sempre stare sul pezzo ed avere un focus specifico sulla mia comunità di appartenenza.

Nel giro di poco tempo è mutato il termine con cui viene definito il nemico invisibile: l’11 Marzo 2020, infatti, il direttore generale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), Tedros Adhanom Ghebreyesus in Conferenza stampa a Ginevra, dichiara che Covid-19 (la sigla è la sintesi dei termini CO-rona VI-rus D-isease e dell’anno d’identificazione 2019) può essere caratterizzato come una pandemia. Il termine deriva dal greco: παν (tutto) e δήμος (popolo), “tutto il popolo”, e delinea un tipo specifico di epidemia la cui diffusione è vasta a tal punto da interessare più aree geografiche, con un alto numero di casi gravi ed un’elevata mortalità.

Tutti potenzialmente potremmo contrarre il virus: la situazione di emergenza sanitaria è concreta. Il covid-19, infatti, continua ad accanirsi sull’Italia e sul resto del mondo. Sembra di assistere ad una corsa contro il tempo che, attualmente, appare essere inarrestabile.

Una serie di domande aggrediscono ed attanagliano gli individui: perché sta succedendo? Da cosa deriva? Come mai si diffonde così velocemente? Di chi è la colpa? Soprattutto quest’ultima si ripropone in modo ricorrente ed impertinente; le persone cercano un responsabile.

Alcuni individui per fronteggiare il senso di impotenza reagiscono tentando di individuare un colpevole per potersi nuovamente percepire in grado di aver controllo su cosa fare, e sapere come e chi punire: la rabbia ed il biasimo verso gli “untori” accompagnati da una ricerca compulsiva di informazioni su teorie possibili che indichino “un colpevole” da poter additare.

Le reazioni individuali variano dalla negazione della minaccia alla paura che sfocia in comportamenti anche irrazionali, che hanno però una funzione rasserenante. Un ingrediente peculiare, che genera ansia e preoccupazione, è l’imprevedibilità della durata di questa condizione di emergenza. Siamo bombardati quotidianamente da frasi, scene ed immagini ricorrenti ed intrusive riguardanti il virus. C’è chi tenta, in modo vano, di evitare ragionamenti o emozioni correlati al trauma; c’è chi invece vive un’attivazione psicofisiologica costante (iper-arousal); c’è chi vive un profondo senso di abbandono, correlato a pensieri persistenti e negativi, o di colpa.

Lo stato d’animo che prevale nei cittadini è di paura, ansia e angoscia. La paura, emozione primaria, è fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza: se non la provassimo non riusciremmo a metterci in salvo dai rischi. Una misurata dose di paura è fondamentale; ha una funzione adattiva. Rispettare le poche ma doverose e preziose indicazioni delle autorità (il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha firmato Dpcm recanti misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da covid-19 sull’intero territorio nazionale, 9 ed 11 marzo 2020)  richiede un minimo di attivazione; il limite che intercorre tra una funzionale allerta (stress positivo o eustress) ed un eccesso di attivazione, con comportamenti poco lucidi e controproducenti (stress negativo o distress), è, però, molto sottile. Il meccanismo dell’ansia per noi tutti è un meccanismo fisiologico, utile ad attivare l’organismo dinanzi ad un allarme: fino ad un determinato livello è adattivo poiché ci rende più reattivi; superato lo stesso, invece, rende l’organismo incapace di reagire in modo congruo e proficuo. Nella situazione contingente che ci troviamo a vivere, le persone sono spaventate e si sentono inerti ed inermi perché dinanzi al temuto silente virus non vi sono strumenti, sebbene scienza e tecnologia siano così avanzate. L’angoscia, infine, rappresenta una sorta di paura senza nome, le cui cause ed origini non sono immediatamente individuabili. Per tale ragione, essa non solo è minacciosa, ma spesso anche catastrofica per chi la prova; essendo subita, dà impotenza e deprime perché “non posso cambiare le cose”. Al cospetto del covid-19 ci si sente piccoli e condannati ed è per questo che aleggia ed imperversa l’angoscia.

In questo momento così difficile vi è un, conscio o meno, disperato ed angosciante bisogno di essere ascoltati, sostenuti e confortati. L’aspetto psicologico non è da tralasciare: al contrario, ha un’importanza cruciale per il riverbero che assumerà a breve, medio e lungo termine.

Il “contatto” emotivo, in questo periodo più che mai, è a dir poco necessario. Non esistono risposte magico-salvifiche ed ogni caso è a sé stante. Anche nella situazione emergenziale all’interno della quale ci troviamo non è l’ente istituzionale a poter decidere se un paziente sia adatto, o meno, ad una terapia on line, se sia il caso di posdatare la seduta o se sia utile continuare mantenendo il medesimo setting (seppur apportando le dovute e pedisseque misure di sicurezza e norme igienico-sanitarie). Salvo ipotetiche future restrizioni specifiche, la responsabilità professionale è sempre del clinico; responsabilità che include in sé scelta e decisione. E’ bene che ognuno di noi terapisti se ne assuma la responsabilità valutando caso per caso, cosa è “buono e giusto fare” sempre, e solo, nell’unico obiettivo del benessere dei propri pazienti.

Essendo di fronte ad una situazione incontrollabile quello che possiamo fare è attuare azioni preventive e precauzionali che, purtroppo, non rasserenano circa la possibilità di essere contagiati.

Le strategie di coping sono di cruciale importanza; oltre alle ricadute negative che un trauma comporta, possono anche essere facilitati cambiamenti positivi nell’individuo, definiti Post-Traumatic Growth (PTG), che possono comprendere sia lo sviluppo di nuove prospettive personali che di una crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009). Potremmo definire la PTG come “l’esperienza soggettiva fatta di cambiamenti psicologici positivi come esito di un’esperienza traumatica” (Zoellner & Maercker, 2006).

Alcuni spunti utili da utilizzare per riflettere insieme in modo proattivo, sono i seguenti:

  • la voglia, che diventa bramosia, di riprendere, ripartire e ricostruire;
  • il ritrovato piacere di stare insieme e la riscoperta degli affetti e delle dinamiche familiari;
  • il permettersi di essere vulnerabili, in un’ottica di crescita personale;
  • il cambiamento di prospettiva della vita, dei propri pensieri ed ancora del modo di pensare ai propri pensieri, accogliendo modalità diverse che ridefiniscono i punti di forza e di fragilità;
  • avere più tempo per sé, per coltivare i propri hobby e per appassionarsi a nuove attività;
  • non potendo controllare fuori, possiamo tentare di controllare dentro di noi, le nostre emozioni e reazioni.
  • fare comunità con amici, parenti e colleghi sostenendo le persone emotivamente, ma magari non fisicamente, vicine.

La paura abbassa le difese immunitarie, mette in allarme il sistema neurovegetativo.
Più stiamo in allerta più l’ansia anticipatoria tende a bloccare le nostre energie creative.
Reputo basilare, e risulta strategicamente vincente, diffondere un ANTIDOTO, un ANTIVIRUS: pensare in positivo, credere veramente che ce la possiamo fare, che “andrà tutto bene” e che rimanendo uniti, insieme, siamo una grande forza!

Quest’emergenza, come ogni avversità, può essere un’opportunità, può essere anche maestra…

 

“Totem e Tabù” attuato al Covid-19: considerazioni in chiave psicoanalitica

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi e questi concetti risultano ancora attuali in questo periodo caratterizzato dall’emergenza del Covid-19.

 

L’equilibrio collettivo

In questi giorni insoliti di quarantena obbligatoria, ho avuto l’opportunità di riflettere su alcune dinamiche di comunità che trovano fondamento nella storia della psicoanalisi, in particolare nel padre della psicologia: Sigmund Freud. Nel 1913, alle porte della Prima Guerra Mondiale, Freud pubblica Totem e Tabù. In un periodo storico particolare, Freud aveva ben definito i cardini della sua teoria sulla psicologia dell’individuo, per questo, in una lettera ad Abraham, esprime il desiderio di applicare tale teoria ai popoli e alle masse, per garantire una scientificità della psicoanalisi attraverso una spiegazione dei moti collettivi.

A distanza di più di un secolo il mondo intero si trova a combattere contro una pandemia, contro un virus invisibile che mette a dura prova intere popolazioni. È inevitabile, per chiunque abbia letto l’opera di Freud (1913), riflettere su come i popoli, a distanza di secoli, mantengano per certi versi, le stesse pratiche provenienti da un vissuto psicologico individuale che si manifesta nella collettività.

Prima di entrare nel merito dell’analisi di Totem e Tabù, ritengo molto interessante introdurre l’opera descrivendo un cortometraggio di Wolfgang e Christoph Lauenstein (1989), dal titolo Balance, che tradotto significa equilibrio. Nel titolo emerge già il contenuto del video, in cui vediamo cinque manichini personificati con indosso solo una giacca riportante un numero, unico segno della loro identità. I volti sono inespressivi e sembrano non manifestare nessuna emozione. Questi personaggi si trovano su una pedana sollevata in aria che resta in equilibrio solo grazie al peso dei loro corpi e ai loro movimenti che devono essere misurati per far sì che la pedana non si inclini eccessivamente e che nessuno cada. Raggiunto l’equilibrio, i cinque personaggi estraggono dalla giacca una canna da pesca, il cui amo viene gettato nell’oscurità che circonda la pedana. Ad un certo punto, uno di questi riesce a pescare un oggetto molto pesante e con l’aiuto degli altri compagni, che si dispongono in modo tale da tenere in equilibrio la pedana, riesce a recuperare l’oggetto in questione. Si tratta di una scatola rossa da cui proviene una melodia musicale, unico elemento colorato e sola fonte di emozioni. Da qui in avanti ci sarà una lotta tra i vari membri del gruppo per afferrare l’oggetto, con la conseguenza finale di una perdita di equilibrio collettiva. Come nei migliori enigmi, uno alla volta i membri iniziano a cadere, fino a quando ne rimane uno solo che, però, non potrà mai raggiungere e prendere la scatola poiché questo comporterebbe la caduta di entrambi.

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi.

È interessante notare come in una collettività emergano quegli elementi che, da un lato appartengono al singolo individuo e al suo vissuto, dall’altro l’esperienza del singolo è manifestata a livello collettivo come sua specifica appartenenza al gruppo. Si forma, quindi, un’identità collettiva che si fa portatrice di una singolarità che si esprime in una condivisione comunitaria.

Questo aspetto è osservabile con il problema attuale del coronavirus. La paura del contagio, ma al tempo stesso le pratiche di massa provocate da un’ulteriore paura dell’imprevedibilità del futuro, riportano a dei concetti cardine della psicologia delle masse, teorizzati da Freud nei concetti di tabù e totem.

Totem e tabù ai tempi del Covid-19

Partendo dal termine ‘contagio’ che, nel caso di un virus, coincide con la sua trasmissione da un individuo all’altro per vie dirette o indirette, per Freud (1913) si tratta del concetto di equilibrio sopra esposto, ovvero una necessità a livello comunitario di uniformarsi, una serie di processi di identificazione che portano ad una condivisione di responsabilità e alla formazione di un’identità di massa. Anche qui abbiamo una trasmissione, più o meno figurata, di pratiche che i popoli si rimandano nel corso della storia e che li caratterizzano.

Freud (1913) descrive come tra le tribù primitive esista una continuità tra le pratiche legate ai totem e quelle relative ai tabù e come queste siano paragonabili a quelle tipiche dei pazienti affetti da nevrosi ossessiva.

In particolare, gli elementi principali del parallelismo sono:

  • Carattere immotivato del divieto nei confronti di un oggetto, ovvero quello legato alle credenze. Alcune religioni si fanno portatrici di divieti, il cui carattere si basa solamente sull’esistenza della loro credenza che impedisce di compiere determinate azioni, come nel nevrotico non esiste una motivazione manifesta del suo divieto, ma è legato ad una necessità patologica interiore (Freud, 1913).
  • Dislocabilità e pericolo di contagio dall’oggetto di divieto, attuati con le pratiche cerimoniali a livello comunitario e con i rituali compulsivi o l’evitamento nei pazienti, al fine di fuggire il pericolo di contagio e allontanare l’ansia che questo comporterebbe (Freud, 1913).

Se riportiamo queste due accezioni alla vita quotidiana, vediamo come tutte le comunità si fondano su credenze e possiedono dei rituali – termine che non per forza deve riguardare pratiche religiose o nuclei psicopatologici – che determinano la routine giornaliera.

Secondo Freud (1913), il tabù, comprendente la realizzazione di un oggetto di divieto, il suo evitamento o la sua elaborazione ritualistica, è portatore e conseguenza di un’ambivalenza emotiva: l’individuo sviluppa, infatti, un comportamento ambivalente verso un certo oggetto o azione che lo riguarda. Da una parte, vi è la volontà costante di raggiungere l’oggetto o perseguire l’azione, dall’altra la repulsione e l’orrore dello stesso. L’ambivalenza, a sua volta, è portatrice di un conflitto interiore che spesso rimane inconscio. Anche nei popoli, l’emergere di alcuni tabù manifesta la presenza di un’ambivalenza emotiva nei confronti del tabù stesso che, da un lato è fortemente desiderato, dall’altro è soggetto ad una repulsione totale.

Il tabù, dunque, comporta una scissione dell’odio, della parte violenta ed aggressiva che viene allontanata e, come in un comportamento patologico di tipo evitante o ritualistico, un popolo crea il tabù e stabilisce che di questo non si può parlare. È proprio attraverso la sua negazione che, a volte, arriviamo a gesti terribili, dettati da un piacere inconscio che deriva dal contatto con l’oggetto proibito, a differenza del puro divieto che è pienamente cosciente (Freud, 1913).

Freud (1913) cita Wundt che in uno studio afferma:

i popoli si costituiscono proprio per evitare, attraverso tabù e norme collettive, di cedere alle pulsioni inconsce che abitano tutti noi, di cedere a quelle parti di aggressività e di odio che tutti noi abbiamo e che se ciascuno esercitasse provocherebbe l’estinzione della specie.

Freud (1913), a sua volta, rifacendosi ancora ai suoi casi di nevrosi sostiene:

la natura asociale della nevrosi deriva dalla sua tendenza originaria a sfuggire da una realtà insoddisfacente per rifugiarsi in un mondo fantastico assai più attraente. E questo mondo reale che il nevrotico evita domina la società degli uomini e le istituzioni che essi hanno creato in comune. La fuga dalla realtà è al tempo stesso una fuga dalla comunità umana.

Freud (1913) getta la luce su quelle dinamiche aggressive, distruttive che ciascuno di noi ha, introducendo l’opera Al di là del principio di piacere (1920), in cui per la prima volta ci presenta il concetto di pulsione di morte. Ma cosa facciamo per gestire questa aggressività? Deleghiamo il compito di nasconderla alla società che la trasforma in un tabù. Niente di più attuale, poiché oggi uno dei più grandi tabù, ad esempio, è quello della morte: da un lato non se ne parla, si cerca di eliminarne qualsiasi traccia, dall’altro nei telegiornali, in tv, non si fa altro che fare riferimenti alla morte, a sventure, ai dettagli più macabri che vengono svelati per una curiosità morbosa di sapere. È qualcosa che ci terrorizza, ma non vogliamo ammettere a noi stessi che, in realtà, è un mistero che ci lascia tutti incuriositi e ci attrae.

Tutto questo ci porta ora a riflettere sulla vicenda attuale del Covid-19. Abbiamo osservato la formazione di un tabù legato al coronavirus e alla sua letalità, affermando che fosse poco più grave o al pari di una comune influenza, o che il tasso di mortalità fosse elevato solo per le persone anziane o per coloro che soffrissero già di patologie croniche. Al di là di qualsiasi motivazione scientifica, ciò che ci interessa è come chiaramente sia stato eretto un tabù nei confronti della morte legata al virus, come se si tentasse di esorcizzare il terrore che questa ci dà, con la giustificazione che la letalità del virus è da attribuire a persone che, sostanzialmente, erano già ‘condannate’. La comunità ha quindi eretto un tabù, poi, di fronte all’angoscia di morte, ha messo in pratica una serie di rituali e cerimoniali come la corsa alla spesa e al rifornimento delle scorte.

Freud (1913), dopo aver teorizzato che un tabù nasce da un’instabilità emotiva proveniente da un conflitto interiore, suggerisce anche quale sia la chiave risolutiva di tale conflitto: l’identificazione con il Totem, con un Dio, con un Padre, un’entità a cui ambire, attraverso un desiderio di replicare la sua identità su noi stessi, ovvero un meccanismo di difesa che la persona attua per proteggersi da un conflitto emotivo molto potente e, contemporaneamente, da un sentimento di odio nei confronti del Totem stesso.

Il Totem rappresenta, quindi, il simbolo di un salto qualitativo dell’uomo, che predispone una prima organizzazione sociale e la nascita della morale, volta a prescrivere comportamenti socialmente rispettabili (Freud, 1913).

Il Totem impersona la Legge e crea una morale collettiva, intesa come naturale processo di superamento di conflitti psichici e affettivi e come risoluzione di un’ambivalenza tipica dell’intera collettività (Freud, 1913).

L’adorazione del Totem è, dunque, un modo per creare un legame identificativo tra i membri di una società, che acquisiscono uno stesso codice di condotta (Freud, 1913), come quello espresso dalla comunità italiana odierna, che di fronte ad un pericolo molto forte, si è unita rispettando le misure restrittive imposte da un’autorità.

Il salto qualitativo poco prima descritto è possibile qualora il conflitto intrinseco da cui è mosso, da inconscio venga portato agli occhi della coscienza (Freud, 1913).

In questi tempi così complessi, appare ancora più importante rendere consapevoli le persone della paura che il virus provoca in loro, dell’angoscia che provoca l’accettazione della sua letalità. Questo salto di consapevolezza aumenterebbe il valore del Totem comunitario e renderebbe più stabile quell’equilibrio collettivo, per cui se un solo membro cede, l’intero meccanismo collassa.

 

“A kiss is just a kiss”… Oppure no?

Nel lontano 1931, un allora molto noto jazzista di nome Hupfeld, cantava a kiss is just a kiss, ovvero: un bacio è solo un bacio. Ma è davvero così? Secondo diverse teorie sessuologiche la risposta è un decisissimo no! (Hughes et al., 2007; Thompson et al., 2019).

 

Infatti, vi è un ampio ammontare di ricerche scientifiche che dimostrano l’importanza dei baci sulla scelta di potenziali partner e sullo sviluppo e mantenimento di relazioni sessuali soddisfacenti. I baci fanno anche sì che all’interno di una relazione romantico-sessuale consolidata, si mantenga un buon legame di attaccamento e un’esperienza sessuale positiva (Wlodarski & Dunbar, 2013).

Nel presente studio (Busby et al., 2020), per indagare l’importanza dei baci all’interno di relazioni romantiche, è stata misurata la correlazione tra la frequenza dei baci nella coppia, il legame di attaccamento e la soddisfazione sessuale/relazionale globale. Le ipotesi erano le tre seguenti: (1) una maggior frequenza di baci nella coppia correla con un aumento degli elementi positivi delle esperienze sessuali come il livello di eccitazione e il numero di orgasmi; (2) una maggior frequenza di baci correla con una maggior soddisfazione sessuale e relazionale; (3) la qualità del legame di attaccamento svolge un ruolo di mediatore nella relazione tra la frequenza dei baci all’interno della coppia e la soddisfazione sessuale/relazionale (Busby et al., 2020).

Il campione era composto da 1606 partecipanti che sono stati coinvolti in una relazione romantica per almeno 2 anni. La frequenza dei baci è stata misurata con la domanda ‘negli anni passati, quanto spesso hai baciato il tuo partner?’ che prevedeva una risposta su scala a 7 punti da mai a più di una volta al giorno. L’attaccamento è stato misurato con la Close in Relationship Scale-Short Form e la qualità delle esperienze sessuali con alcune domande specifiche o a risposta dicotomica (sì, no) o su scala a 5 punti (da ‘per niente soddisfatto’ a ‘completamente soddisfatto’).

Sono anche stati presi in considerazione i dati anagrafici riguardanti etnia, orientamento sessuale, educazione, stato della coppia, sesso ed età (Busby et al., 2020).

I risultati hanno confermato l’estrema importanza dei baci all’interno delle relazioni romantiche: una correlazione positiva significativa è stata individuata tra tutte le variabili analizzate ovvero il legame di attaccamento, la soddisfazione sessuale e relazionale ed è stato rilevato il ruolo da mediatore svolto dall’attaccamento tra frequenza dei baci e soddisfazione globale (Busby et al., 2020).

In conclusione, nonostante i limiti dello studio come il non considerare altri comportamenti di avvicinamento nelle relazioni (es. tenersi la mano) o la tipologia di baci intesa dai soggetti (baci a bocca chiusa, a bocca aperta, sul viso, ecc,), esso dimostra quanto la frequenza dei baci sia un indicatore importante del legame relazionale e sessuale e di quanto sia cruciale per le relazioni affettive in generale (Busby et al., 2020).

Video-lezioni di inglese per bambini – L’iniziativa di Open Minds

In questa situazione di grande difficoltà nasce un’iniziativa utile sia dal punto di vista didattico, sia da quello psicologico. Open Minds aiuta i bambini a continuare il loro processo di apprendimento della lingua inglese da casa.

 

In questo momento di grave disagio sociale, volevo segnalare la iniziativa di Open Minds, una scuola di inglese a Milano da anni attiva nelle scuole primarie.

Poiché i bambini sono assenti da scuola per forza maggiore, Open Minds ha deciso di realizzare decine di video-lezioni di inglese, create sulla base dei programmi delle scuole primarie e coerenti con gli obiettivi e le competenze indicate, nonché con le unità di lessico e funzioni comunicative previste dai più comuni testi scolastici.

Il risultato di questa fatica è in questa pagina, in cui abbiamo raccolto tutte le vide-lezioni e le attività senza schede che proponiamo ai bambini.

Lo scopo di questo sforzo è rimanere vicini al nostro lavoro, anche se la chiusura delle scuole ci impedisce di essere fisicamente presenti. Siamo convinti della bontà dell’intento: sia dal punto di vista didattico (perché la continuità nell’esposizione è fondamentale per l’acquisizione e l’apprendimento delle lingue), sia dal punto di vista psicologico, perché ricevere lezioni coerenti con i contenuti e le aspettative dell’età e grado scolastico previsto è importante per avere dei punti di riferimento, una “normalità” nella situazione.

E’ inutile proporre attività eccessivamente complesse o linguisticamente eccessivamente avanzate: il bambino impara meglio ciò che è alla propria portata, ciò che è comprensibile e non arbitrario. Per questo ci siamo appoggiati ai più diffusi testi scolastici e utilizziamo volutamente solo le parole e le funzioni comunicative note e previste nei normali programmi scolastici.

Tutto questo lavoro è disponibile in modo del tutto libero: i docenti che vogliono usarlo per la didattica a distanza possono linkare nei registri elettronici/piattaforme o scaricare i materiali per inserirli nei padlet. I genitori possono usare queste video lezioni per intrattenere i bambini in modo istruttivo.

Nella pagina abbiamo individuato decine di attività senza schede, che possono essere fatte senza spendere soldi e stampare. Anche questa è inclusione, in un contesto in cui si allarga drammaticamente la forbice tra le famiglie “attrezzate” e quelle che non lo sono.

Ci auguriamo che questa iniziativa possa essere utile, per noi sicuramente non “essere interrotti” è terapeutico ed utile, perché amiamo il nostro lavoro e speriamo di arrivare a piuì bambini, scuole e famiglie possibili.

Per le attività di Open Minds: clicca qui

 

Covid-19. Le sei strette di mano

La diffusione del Covid-19 porta a riflettere sulla teoria dei sei gradi di separazione, che in semiotica e in sociologia è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari.

 

Secondo l’ipotesi dei sei gradi di separazione, ognuno può essere legato ad un altro attraverso una catena di conoscenze che passa tra cinque individui. La prima formulazione della teoria non ha in realtà origine scientifica o statistica, ma si ritrova piuttosto in un racconto, intitolato Anelli della Catena, scritto nel 1929 dall’autore ungherese Frigyes Karinthy.

Universalmente, allo scrittore ungherese viene quindi attribuita la prima descrizione e illustrazione compiuta di quella che verrà chiamata, come già detto, la teoria dei sei gradi di separazione. Nel racconto si riflette su come ‘la rapidità con cui si diffondono le notizie e l’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più veloci abbiano reso il mondo più piccolo rispetto al passato’ e non sarebbe idea stravagante rinominare tale teoria ‘sei gradi di unione’, tanto più che Karinthy sceglie consapevolmente la metafora della catena e dei suoi anelli componenti, i quali, evidentemente, si legano e legano (in francese si usa l’espressione assai appropriata ‘le sei strette di mano’). Se le estremità della catena sono effettivamente distanti e separate, e inizialmente non ‘sanno’ una dell’altra, le maglie intermedie, invece, indubbiamente fungono da stretti collegamenti.

A quasi quarant’anni di distanza dal racconto, nel 1967 il sociologo americano Stanley Milgram mise in pratica un esperimento volto a dare una conferma scientifica alla teoria, da lui battezzata ‘teoria del mondo piccolo’. Scelse alcuni cittadini americani del Midwest, e chiese loro di spedire un pacco a un abitante del Massachussets a loro del tutto estraneo. I partecipanti all’esperimento conoscevano il nome del destinatario e lo Stato dove viveva, ma non l’indirizzo. Fu quindi chiesto di inviare il pacco alla persona di loro conoscenza che ritenessero avere più probabilità di conoscere il destinatario. Questa persona avrebbe poi a sua volta eseguito lo stesso compito, fino ad arrivare a consegnare il pacco al prescelto. L’esperimento dimostrò che, per arrivare al destinatario finale, in tutti i casi ci vollero fra i cinque e i sette passaggi. La pubblicazione di questi risultati sulla rivista Psychology Today e l’eco che ne derivò portarono alla nascita dell’espressione ‘sei gradi di separazione’ come la conosciamo oggi e alla sua rapida diffusione.

Ma non si diffondono rapidamente solo notizie e pacchi. Gli stretti collegamenti diffondo tutto, anche e ovviamente le malattie.

Il Covid-19, partito felicemente dalla Cina, magari proprio attraverso sei strette di mano ci ha portati attraverso questi pochi gradi di separazione e attraverso la superficialità e l’ignoranza a questo doloroso mese.

A Marzo in Italia ci hanno detto Stop. Come uno schiaffone che arriva senza preavviso a Marzo, in Italia ci siamo tutti fermati, il nostro Presidente del Consiglio ha adottato le misure che doveva adottare, per farci aprire gli occhi. Cautamente, piano piano, settore dopo settore, sta fermando l’Italia, cercando di non trascinarci nell’isteria e cercando di proteggerci da una vera e propria pandemia e nella speranza, aggiungo, di essere esempio per il resto del mondo. Anche perché, come detto, basta poco con i sei gradi di unione per non riuscire a sventare l’inevitabile.

Quanti di noi si stavano rendendo conto di ciò che sta realmente accadendo? Io per prima devo essere sincera, non ho capito fino a quando si è deciso più fortemente di adottare misure dure.

Le cose non capitano solo agli altri, non è sempre un’esagerazione, dobbiamo imparare a far fare ai professionisti il proprio lavoro. Dobbiamo imparare a fidarci. Probabilmente questo virus insegnerà a zittire i tuttologi, a dare valore alle piccole cose a cui forse non badavamo più, a rallentare un po’ e lasciar fare a chi sa fare.

Costretti in casa, per il nostro bene, per il bene di chi amiamo, per il bene di tutti, in Italia e nel mondo a Marzo 2020 abbiamo l’opportunità di riflettere, rivedere il nostro modo di vivere, capire cosa è importante, cosa è superfluo, a cosa possiamo anche rinunciare e cosa possiamo imparare.

In Italia e nel resto del mondo in questo 2020 la natura ci ha dato l’ennesima opportunità, azzeriamo i gradi di separazione, cogliamo questa occasione e torniamo a quella sottovalutata, bellissima normalità, più veri e forti.

 

#Iorestoacasa: una lettura psico-pedagogica delle misure restrittive di contenimento

In seguito all’emergenza sanitaria del covid-19, sono state adottate, in tutto il territorio italiano, misure ancora più restrittive. Queste misure rientrano nel programma di “Distanziamento Sociale” (Fantozzi & LaSpina, 2010), che prevedono quarantena e isolamento, nel caso di un focolaio epidemico in corso.

 

Il Distanziamento sociale è stato messo in atto precedentemente anche in Cina, territorio dove attualmente si registra una considerevole regressione della diffusione del virus. Costanti, infatti, sono le domande degli italiani circa il successo “rapido” delle misure di contenimento in Italia, come avvenuto per il popolo cinese.

Ciò che non si può sottovalutare in un contesto, in cui sono state adoperate misure di contenimento, è il costrutto di “cultura”. Il concetto di cultura ha una natura ambivalente. In senso antropologico, la cultura è il contenitore di un processo dinamico all’interno del quale intercorrono una molteplicità di norme, credenze, costumi, abitudini e artefatti delle attività umane (Mazzara, Leone, Sarrica, 2013). La cultura nell’antropologia è sempre riferita ad un gruppo e mira a comprendere gli aspetti di verosimiglianza. La prospettiva psico-pedagogica, invece, mira a rilevare gli aspetti peculiari e distintivi (Mininni, 2013). In questo senso, la cultura “è tanto grande che torreggia su di noi, come un elefante, e tuttavia è elusiva come una fragile e trasparente libellula” (Mantovani, 1998).

Non sono gli essere umani ad acquisire la cultura, ma è la cultura che acquisisce (Bruner,1996) e contiene in sé il sapere collettivo accumulato nella memoria sociale. Essendo però il concetto di cultura un processo dinamico è suscettibile a vari fattori, che ne determinano la forma e la direzione. Tali fattori sono riconducibili, secondo l’antropologo e psicologo olandese G.H. Hofstede (2006), a tre livelli:

  • Individuale – tratto specifico dell’individuo all’interno di ogni cultura che viene ereditato o appreso e che determina la personalità.
  • Collettivo – l’insieme di valori che vengono appresi dall’individuo dall’appartenenza ad uno specifico gruppo o categoria.
  • Universale – che viene ereditata, determinando quindi la programmazione mentale di base.

Hofstede (1996) definisce la cultura come una programmazione dei soggetti, una specie di software culturale, a partire dal contesto di appartenenza. In questa prospettiva, la cultura diviene il mezzo attraverso cui ogni individuo legge, interpreta e interagisce con la realtà in cui è immerso. Non si tratta di aspetti universali, ma questa programmazione assume le caratteristiche proprie delle varie culture ed è inscrivibile all’interno di quattro dimensioni: distanza dal potere; collettivismo vs individualismo; femminilità vs mascolinità; avversione all’incertezza (Hofstede, 1996).

Il fenomeno delle misure restrittive è interpretabile all’interno della seconda dimensione identificata dall’antropologo olandese, ovvero Collettivismo vs Individualismo.

The high side of this dimension, called individualism, can be defined as a preference for a loosely-knit social framework in which individuals are expected to take care of only themselves and their immediate families. Its opposite, collectivism, represents a preference for a tightly-knit framework in society in which individuals can expect their relatives or members of a particular in-group to look after them in exchange for unquestioning loyalty. A society’s position on this dimension is reflected in whether people’s self-image is defined in terms of “I” or “we”. (Wursten, 2008, p. 2)

Questi modelli culturali di riferimento vanno a determinare l’interpretazione degli eventi da parte dei soggetti, che mettono in campo un repertorio di categorie che sono preesistenti, proprio perché trasmesse dalle comunità di appartenenza.

Ciò che in Cina ha permesso la regressione del virus e la diminuzione dei casi di contagio è racchiusa proprio in questa chiave interpretativa che vede la cultura orientale come fortemente collettivista. Una cultura in cui il ben-essere e la crescita personale sono il risultato del ben-essere collettivo. Quindi, in questo caso specifico, la salute della comunità diventa un bene prioritario rispetto alle esigenze di vita individuali.

Al contrario, il Mondo “Occidentale”, caratterizzato dall’individualismo che si concretizza nel prendersi cura di sé stessi e dei familiari, diventa una chiave interpretativa di molti fenomeni come la fuga dal Nord Italia, gli spostamenti e il saccheggio dei supermercati. In questo contesto, le misure di contenimento, oltre a delle strategie necessarie per il rallentamento dei contagi, diventano, a livello psico-pedagogico, delle occasioni per ripensarsi come comunità, in quanto, l’essere comunità e l’alterità diventano le uniche certezze, in un’epoca “postmoderna” che produce individualità frammentate. La situazione di emergenza, quindi, condurrebbe ad una maggiore frammentazione dell’individualismo.

 

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