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Perché le donne si masturbano?

La masturbazione, in particolare nelle donne, è stata a lungo stigmatizzata, proibita o scoraggiata dalle principali ideologie religiose e per anni vista come causa di una moltitudine di disturbi fisici e mentali (Bullough, 2002; Maines, 1999).

 

La maggior parte delle società occidentali contemporanee, tuttavia, ha tentato di normalizzare quest’attività, considerandola non solo come uno sbocco naturale e sicuro per la tensione sessuale, ma anche come un potenziale beneficio che può aiutare uomini e donne a scoprire e migliorare l’eccitazione e il piacere sessuale. Infatti, se per anni era stato ipotizzato che la masturbazione fosse più frequente nelle donne prive di un partner sessuale, studi recenti indicano che la masturbazione e il sesso con il proprio partner sembrino generare esperienze nettamente diverse per la maggior parte delle donne, suggerendo l’idea che un tipo di attività non sostituisce o compensa necessariamente l’altra (Regnerus, Price, & Gordon, 2017).

Il presente studio ha esaminato la relazione tra la frequenza, le ragioni e le attività durante la masturbazione e studiato come tali parametri predicono il piacere orgasmico, la latenza e le difficoltà. In particolare, ha tentato di rispondere a sei domande:

  • Le donne che si masturbano più frequentemente differiscono da quelle che si masturbano meno frequentemente o per niente?
  • Perché le donne si masturbano?
  • Quali tipi di attività includono le donne quando si masturbano?
  • Le ragioni, le attività e la frequenza della masturbazione sono correlate l’una all’altra?
  • Queste variabili influenzano la latenza orgasmica, il piacere orgasmico e la difficoltà orgasmica durante la masturbazione?
  • La frequenza della masturbazione è correlata alla frequenza del sesso con il proprio partner?

I partecipanti, estratti da un database, erano 2068 donne di almeno 18 anni; le versioni dello studio erano due: online e carta e matita. Era necessario partecipare ad un sondaggio sulla salute sessuale prima di essere ammesse allo studio. Alle donne sono state poste domande, utilizzando l’anno passato come periodo di tempo, sulla frequenza della masturbazione, sulle loro ragioni per masturbarsi e sui tipi specifici di attività.

La percentuale maggiore relativa alla frequenza della masturbazione era del 23% per le donne che si masturbavano 2-3 volte alla settimana, seguita da coloro che si masturbavano circa una volta alla settimana (17%). Dai risultati emerge che le donne che si masturbavano più frequentemente avevano maggiori probabilità di riferire ansia o depressione in corso (le motivazioni non sono state approfondite in questo studio), hanno riferito una minor soddisfazione per la loro attuale relazione sessuale e per la loro relazione in generale, ma hanno posto maggiore importanza e interesse nel fare sesso.

Tuttavia, la ragione più importante o che contribuisce maggiormente al motivo per cui le donne si masturbano è “piacere e soddisfazione sessuale”, seguita da “aiuta ad alleviare lo stress ed è rilassante” e “diminuisce la tensione sessuale”. Al contrario, la mancanza di attività sessuale o di attività sessuale soddisfacente con il proprio partner influenza meno del 10% del campione.

In relazione alle possibili attività che in genere le donne svolgono quando si masturbano, la stimolazione del clitoride era l’attività più comunemente selezionata (97%), seguita dalla stimolazione vaginale, dall’uso di materiale erotico stimolante e, infine, da fantasie sessuali che includono il proprio partner. Queste attività, definite “convenzionali”, vengono distinte dalle attività riconosciute in questo studio come “non convenzionali”; ad esempio la stimolazione anale, la stimolazione attraverso fantasie che non includono il proprio partner e altre attività non specificate.

Esisteva un’associazione significativa tra la ragione principale della masturbazione e il tipo di attività: nello specifico, la minoranza delle donne che ha evidenziato problematiche relative alla sfera sessuale con il proprio partner (ad esempio mancanza di attività sessuale o di soddisfazione erotica), avevano maggiori probabilità di includere attività “non convenzionali” durante la masturbazione. Anche la frequenza della masturbazione differiva significativamente con la tipologia di attività e con le ragioni legate alla masturbazione: le donne che si occupavano solo della stimolazione del clitoride si masturbavano meno frequentemente (circa una volta al mese) rispetto a coloro che svolgevano attività aggiuntive, sia convenzionali che non convenzionali; inoltre, le donne che si masturbavano per piacere e soddisfazione sessuale, svolgevano quest’attività più frequentemente (circa una volta alla settimana) rispetto alla parte di campione che identificava altre ragioni legate alla masturbazione.

Inoltre, è stata considerata la relazione tra le variabili precedenti e il raggiungimento dell’orgasmo; in particolare per la latenza orgasmica, piacere orgasmico e difficoltà orgasmica. Dalle analisi risulta che il piacere orgasmico non variava in base alle attività incluse durante la masturbazione, ma differiva a seconda della motivazione ed era associato positivamente sia a una maggior frequenza che a una ridotta difficoltà orgasmica. Le donne che si masturbano per piacere sessuale e soddisfazione raggiungono il massimo piacere orgasmico e la minor difficoltà, mentre quelle che si sono masturbate per diminuire la tensione sessuale o superare l’ansia hanno avuto punteggi più bassi di piacere orgasmico e punteggi più alti di difficoltà orgasmica. L’età ha predetto significativamente tutti e tre i parametri: una maggiore età era associata a latenze orgasmiche più brevi, maggior frequenza, elevato piacere orgasmico e ridotta difficoltà orgasmica; al contrario, le donne più giovani indicavano maggior difficoltà e latenza orgasmica, minor soddisfazione nelle relazioni sessuali e come ragione principale della masturbazione indicavano la riduzione dell’ansia e della tensione.

Complessivamente, la correlazione tra la frequenza della masturbazione e la frequenza del sesso associato con il proprio partner era bassa e non significativa, ad eccezione della piccola percentuale di campione che ha indicato come ragione principale della masturbazione la mancanza di attività sessuale e/o di soddisfazione con il proprio partner.

In conclusione, in base agli schemi di risposta caratteristici, sono state empiricamente individuate tre tipologie di donne: 1) donne sessualmente molto attive; 2) donne che hanno frequenti rapporti sessuali con il proprio partner, ma si masturbano poco frequentemente e 3) donne che si masturbano frequentemente, ma hanno rapporti sessuali meno frequenti.

 

Proteggere, proteggersi: per una quarantena Trauma-Informed

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali.

 

Nelle ultime settimane stiamo assistendo ad un radicale cambiamento di prospettiva che coinvolge improvvisamente e inaspettatamente tutti nello stesso momento. Gli ultimi giorni di lavoro hanno visto l’inevitabile comparsa del Coronavirus nella stanza della terapia, lasciando emergere molte sfide nell’affrontare i faticosi cambiamenti delle abitudini quotidiane, ma anche in molti casi i ricordi di un passato più antico in cui ci si è sentiti proprio così: costretti, isolati, impotenti, vulnerabili, in balia di eventi nuovi e sconosciuti. Insomma piccoli di fronte a qualcosa di più grande di tutti noi! Ma se siamo tutti piccoli, a quali adulti affidarci?

L’epidemia Covid-19, dall’11 Marzo 2020 Pandemia, sta suscitando moltissime reazioni diverse e in molti ambiti di vita: economico, politico, sociale, personale. A tutti livelli sembra che l’equilibrio difficile da trovare sia identificare il giusto grado di protezione: sufficiente a tenerci, concretamente, “in vita” o almeno in salute di fronte al pericolo imminente, ma anche lungimirante nel permetterci di conservare le energie necessarie a tollerare un’emergenza che potrebbe prolungarsi, preparando magari il terreno ad una rapida risalita una volta che il pericolo sarà passato.

Prima manifestazione di questo difficile equilibrio: le notizie. Prima troppo allarme. Poi troppo poco. Poi una indicazione concreta, più regolata e adulta: teniamoci aggiornati, ma non minuto per minuto. Non serve a nessuno, se non a chi deve organizzare i turni in ospedale e i posti letto. Una volta al giorno è sufficiente per capire come proteggersi, tutto il resto rischia di alimentare solo ansia, panico e un pericoloso senso di sopraffazione.

Tra le molte riflessioni possibili, da una prospettiva psicotraumatologica è inevitabile non notare come, dal punto di vista emotivo, questa improvvisa perdita del senso di protezione e sicurezza abbia lasciato spazio (e per tutti) all’intervento immediato del nostro sistema di difesa innato (Porges, 2001): la parte più antica del sistema nervoso autonomo, conservata nella fisiologia di tutti i mammiferi. Quando ci sentiamo davvero minacciati, la Neurocezione (Porges, 2004) – capacità innata del sistema nervoso autonomo di intercettare pericoli nell’ambiente – attiva il sistema di difesa che serve a scalzare le attività corticali e il ragionamento per farci agire velocemente a protezione della nostra vita. Ma cosa succede se questo sistema di difesa viene sollecitato in modo eccessivo, continuativo e incoerente?

Si disregola. Perde efficacia. Ci rende più esposti.

Corsa ad abbracciare i propri cari lontani per sentirsi al sicuro (pianto di attaccamento); rabbia verso il diverso, lo straniero, l’untore, il vicino che non rispetta le regole, l’ignoranza, il governo, il sistema economico (attacco/fight); fuga dalle città del nord, fuga dagli ospedali, fuga dalle zone rosse, miminizzazione, semplicemente fare finta di niente (flight/evitamento); seguire minuto per minuto le statistiche del contagio (freeze/congelamento); fatalismo, negazione, rinuncia alla protezione (resa/sottomissione).

Le nostre difese animali sono impegnate in un duro lavoro di “recupero di controllo sulla realtà” sin dalle primissime notizie di venerdì 21 Febbraio, con una crescente attivazione che dalle zone più colpite del Nord Italia ha coinvolto gradualmente tutte le regioni del Centro e del Sud e dunque porzioni sempre più grandi di popolazione, determinando (finalmente) una più chiara consapevolezza: c’è una epidemia da fermare, o almeno da rallentare. Che fare?

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali e riuscire ad orientarci nel presente cercando le risorse ancora accessibili e utili a navigare dentro l’urgenza, con crescenti capacità e fiducia verso un ritorno alla sicurezza. Questo processo di adattamento è necessario e di solito naturale: abbiamo un picco di terrore e smarrimento (trauma), poi gradualmente le risorse affiorano e iniziamo a lavorare per la nostra sopravvivenza creando nuove prospettive e possibilità seppur nell’esperienza negativa vissuta (crescita post-traumatica). In una parola: Resilienza.

Ma cosa succede se la paura del Covid-19 arriva a colpire chi sta già vivendo una situazione di sofferenza emotiva? Come può manifestarsi la paura nella mente di una persona che ha vissuto traumi e trascuratezza importanti nella sua infanzia, di fronte a questa ennesima emergenza? Proviamo ad esplorare alcuni aspetti emotivi che potrebbero trovarsi coinvolti nella gestione dell’emergenza.

Partiamo dal positivo: “Niente di nuovo sotto al sole.”

Chi è abituato a vivere in guerra, semplicemente continua a combattere. Chi è abituato a vivere una condizione emotiva di stress post-traumatico o di traumatizzazione cronica, con un sistema di difesa quindi costantemente reattivo nella vita quotidiana, potrebbe sentire molta familiarità con alcune situazioni emergenziali e percepire l’allerta in modo molto diverso: talora troppo, talora troppo poco, ma spesso mostrando una maggiore tolleranza dello stress e dell’incertezza. Possono presentarsi dunque alcune risorse positive da tenere in grande considerazione nelle prossime settimane.

  • Il mondo è imprevedibile: chi è cresciuto in una famiglia caotica e non protettiva è abituato a percepire il mondo come arbitrario, a vivere l’ipervigilanza come una condizione emotiva stabile, a non fidarsi delle notizie: per cui l’attuale emergenza potrebbe risultare una condizione molto comune e relativamente facile da gestire.
  • Sono invincibile: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; un parte di attacco (fight) potrebbe percepire come del tutto innocua la minaccia di contagio, azzerando così (almeno temporaneamente!) il senso di vulnerabilità e la paura di altre parti più piccole e spaventate.
  • Solo solo: chi si è adattato, sin dall’infanzia, a vivere in solitudine la presenza di persone o situazioni minacciose, potrebbe sentirsi rassicurato di trovarsi in una condizione conosciuta di isolamento, con minor rischio di intrusioni e pericoli esterni, ma non più solo perché la stessa condizione è condivisa con familiari, amici, parenti e (ora) il resto dell’umanità;
  • Devo ottenere il massimo da quello che ho: chi ha dovuto proteggersi sin da piccolo e con pochi mezzi, è naturalmente portato a valutare velocemente le opportunità e le risorse nell’ambiente circostante e a ottimizzare le risorse che ha già, senza soffrire troppo limitazioni, scomodità e rinunce;
  • Confini chiari: chi ha vissuto situazioni relazionali di maltrattamenti e trascuratezza, ha imparato presto che la vicinanza con altri esseri umani può essere difficile da gestire; un sistema sociale che regola il comportamento individuale, le distanze e che invita a proteggersi, può semplificare alcuni aspetti della vita sociale e dare sollievo alle parti che tendono a sentirsi in colpa e a non sentirsi in diritto di “dire di no”.
  • Sono impotente: sentirsi sopraffatti dagli eventi è insopportabile, ma chi l’ha vissuto potrà sentire e capire più velocemente degli altri che aderire alle soluzioni offerte è meglio che essere schiacciati e trovarsi nel non poter reagire affatto;
  • Critico interno: le parti critiche tendono a far sentire sempre attivi, pronti, forti, capaci, all’altezza, ma hanno una tendenza all’autosacrificio e alla competizione talvolta difficili da arginare; in questa fase potrebbero invece ridurre la pressione interna: se non dipende più dalla scelta del singolo, se stare fermi è funzionale alla sopravvivenza, allora potrebbe diventare più facile darsi il permesso di restare in casa, riposare, dedicarsi a sé, stare. Potrebbe presentarsi un inatteso ma piacevole sollievo.

Tuttavia, alcune situazioni specifiche e quotidiane legate alle condizione di “quarantena forzata”, cui tutti siamo sottoposti, potrebbero al contrario diventare trigger molto potenti di antichi traumi o ri-attivare emozioni negative proprio in virtù del legame con alcune esperienze del passato.

“Trigger da quarantena: aiutiamoci!”

  • Sono solo: cosa mi ha insegnato che essere soli è pericoloso? Che l’essere lontano dagli altri può essere fonte di minaccia per la mia sopravvivenza? Chi ha vissuto nell’infanzia troppa solitudine e trascuratezza potrebbe vivere l’isolamento come abbandono; parti piccole ed emotive potrebbero non riuscire a distinguere la condizione temporanea di isolamento, dall’essere soli emotivamente e invisibili a chi ci vuole bene; aiutiamoci a distinguere l’isolamento dalla solitudine: chi potremmo sentire per parlare proprio ora? Cosa potrebbe aiutarci a sentirci più connessi altri altri?
  • Sono in trappola: cosa richiama dentro di noi la sensazione di non poter correre via da quello che ci spaventa? La casa dovrebbe per tutti costituire un luogo protetto, ma il senso di sicurezza come adulti è invece una questione profondamente condizionata dalle esperienze del passato: la sola idea di non avere questa libertà di movimento potrebbe attivare stati di ansia e rabbia molto intensi in chi ha vissuto traumi legati a questo; proviamo ad osservare cosa renda la situazione attuale diversa da quella che abbiamo vissuto in passato, aiutiamoci a dis-identificarci da quelle sensazioni ed emozioni (Fisher, 2017), ma osserviamole per quello che sono: ricordi.
  • Sono impotente: cosa suscita in me l’idea di non poter agire? Di non poter fare nulla contro l’avanzare di un pericolo? Chi è sopravvissuto a traumi che hanno comportato il vivere una o più volte la minaccia per la propria vita, sa che il senso di impotenza può essere insostenibile e la costrizione di queste settimane può essere sentita così da alcune parti emotive che potrebbero rivivere lo stesso senso di impotenza e pericolo; aiutiamo la mente ad orientarsi nel presente: mettiamo spazio tra passato e presente, tra il luogo in cui siamo ora e dove invece eravamo dando ad ogni luogo un nome differente (Fisher, 2017), tra le nostre parti piccole e l’adulto che oggi siamo e che può occuparsene.
  • Non posso mettere confini: come gestiamo l’eccessiva vicinanza o l’intrusione? Chi è vissuto in una famiglia violenta o minacciosa, potrebbe percepire la vicinanza fisica obbligata, con i propri familiari, conviventi o coinquilini, come insostenibile in questi giorni e manifestare sintomi di ansia, somatizzazioni o sconforto/resa di fronte al prolungarsi di questa situazione; proviamo ad orientare l’attenzione su stimoli che possono aiutarci a creare uno spazio mentale interno, libero e sicuro che possa continuare ad accoglierci: grounding, yoga, meditazione, respirare, camminare, scrivere, leggere, disegnare, suonare.
  • Ho paura di morire: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; percepirsi vulnerabili, può far sentire ad un parte piccola e spaventata un rischio maggiore o sproporzionato alle effettive condizioni di vita; selezioniamo per la mente poche informazioni affidabili, valutiamo i rischi effettivi e le azioni intraprese per proteggerci, confrontiamoci con poche persone fidate e capaci di rassicurarci.
  • Sono fuori controllo: cosa ci aiuta a regolare le nostre emozioni? Come ci fa sentire non avere disponibile quello che di solito ci aiuta quando a fine giornata siamo tesi, tristi, arrabbiati? Molte risorse, normalmente utilizzate nella vita quotidiana possono essere vissute come risorse di sopravvivenza, in assenza delle quali potrebbero aprirsi non solo semplice noia, ma più intense emozioni di paura, rabbia, colpa o vergogna. Come posso sostituire quello che mi aiutava? Proviamo ad essere curiosi e creativi, lasciamo andare quello che non abbiamo ora e cerchiamo risorse nuove che possano andare incontro agli stessi bisogni di conforto, regolazione, rassicurazione, distrazione. O se possiamo, lasciamo spazio e osserviamo per quel che è possibile, cosa emerge se smettiamo di agire e cercare soluzioni.

Probabilmente non ci saranno ricette valide per tutti, ma nelle prossime settimane sarà importante per ognuno riuscire a riconoscere i pensieri e le emozioni che potrebbero ingannarci, darsi tempo e spazio per costruire e rafforzare risorse interne e mettere al centro la cura di sé finalmente al riparo dal rumore delle città. Affidiamoci ad un adulto dentro di noi capace di proteggersi e di ascoltare le emozioni naturali che verranno senza esserne sopraffatto, e magari disponibile a farci vivere questo tempo – per tutti strano – in un modo che sarà bello raccontare in futuro.

 

Aladdin – La LIBET nelle narrazioni

La storia di Aladdin è ambientata nel lontano oriente, in una città fantastica di nome Agrabah. Un luogo incantato, dalle mille tentazioni, prima tra tutte quella di cedere alla magia per poter raggiungere i propri scopi. Ma a che prezzo?

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 10) Aladdin

 

Il nostro protagonista è Aladdin, un giovane e povero ragazzo senza né madre né padre (processi di apprendimento). Aladdin vive di stenti in una baracca arredata con pezzi di fortuna, insieme alla sua unica compagna di vita Abu, una scimmietta scaltra e intelligente. Il ragazzo cresce quindi con il tema doloroso di indegnità, sente di essere uno straccione, inferiore agli altri, e di questo si vergogna.

Aladdin e la sua scimmietta trascorrono le giornate scorrazzando per le vie della cittadina mentre cantano allegramente, e rubano per mangiare, salvo poi donare tutto ciò che hanno a chi sembra essere più bisognoso. Il ragazzo è buono e umile, quasi ingenuo, ma è dotato anche di una fervida immaginazione, che lo porta a viaggiare ogni sera con la fantasia: si affaccia alla finestra della sua umile dimora, dalla quale si vede il palazzo del sultano, e sogna di viverci. Cantare, sdrammatizzare, sognare, e donare agli altri anche quando non si ha nulla, possono essere inquadrate come strategie tipiche di un piano immunizzante, in cui Aladdin fa di tutto per evitare la consapevolezza della sua vergognosa condizione, anzi se ne burla persino con le guardie del paese, che gli danno spesso la caccia.

In quella che sembra essere una giornata come le altre, Aladdin incontra proprio colei che poi si scoprirà essere la principessa Jasmine. Aiuta la ragazza misteriosa a fuggire dalle grinfie delle guardie che la credono una ladra. Jasmine viene affascinata subito dal modo di fare vivace e spensierato del ragazzo, ma Aladdin, una volta scoperte le vere origini della fanciulla, si vergogna di ciò che è. Si scopre innamorato della giovane principessa e si convince che l’amore che prova per lei non potrà mai essere ricambiato, rattristandosi; questo evento rappresenta un’invalidazione del piano immunizzante, che espone Aladdin al suo tema doloroso di indegnità provocando l’esordio sintomatico: come potrebbe mai la principessa amare e sposare uno straccione?

A questo punto Aladdin è confuso e depresso, come non l’abbiamo mai visto prima. È costretto a fare i conti con la realtà e con il fatto di essere povero, finché non gli si presenta quella che sembra essere l’occasione della vita: conosce il crudele Jafar, che gli tende una trappola così subdola da mettere a rischio la sua vita, ma proprio quando sembra che non ci sia più nulla da fare, gli si presenta l’opportunità di avere ai suoi ordini il genio della lampada. Aladdin può esprimere al genio tre desideri, e non ha dubbi: ammettere a sé stesso e a Jasmine di essere uno straccione e farsi vedere per ciò che è continua ad essere troppo doloroso (processi di metacontrollo), per questo motivo sceglie di chiedere al genio di trasformarlo in un principe. Continua quindi ad adottare la sua strategia immunizzante, fingendo di essere ciò che non è: con l’aiuto della magia i suoi stracci diventano abiti sontuosi, la sua compagna di avventure Abu diventa un imponente elefante, e viene accompagnato da una schiera di musicisti, ballerini, servitori, ecc. La magia ha esacerbato quelli che erano i tentativi di Aladdin di non guardare in faccia la realtà (esordio sintomatico e cicli di mantenimento). Tuttavia quando Aladdin si presenta dalla principessa Jasmine in questo modo, ella lo rifiuta, facendo cadere il nostro ragazzo nello sconforto.

Questo ennesimo tentativo di Aladdin di nascondersi da ciò che gli causa più dolore, essere uno straccione, si è dimostrato ancora una volta inefficace, e gli causa soltanto disagio. È arrivato per il nostro protagonista il momento di farsi forza, e accettarsi per ciò che è, con i suoi difetti, ma anche e soprattutto con i suoi pregi: con una ritrovata consapevolezza Aladdin riuscirà infatti a trovare il suo lieto fine.

 

Due tipologie di schizofrenia, due cervelli diversi

La prevalenza della schizofrenia all’interno della popolazione si aggira attorno all’1%. Per comprendere meglio questo disturbo e per sviluppare nuovi trattamenti personalizzati appare necessario comprendere cosa accade a livello cerebrale.

 

La schizofrenia è un disturbo facente parte dei disturbi psicotici, all’interno di questa categoria riportata dal DSM 5, troviamo i seguenti disturbi: disturbo delirante, disturbo psicotico breve, disturbo schizofreniforme, disturbo schizoaffettivo e schizofrenia (DSM 5, 2014).

La peculiarità dei disturbi appartenenti a questa categoria è la presenza di allucinazioni e/o deliri: le prime consistono nella percezione di stimoli inesistenti, mentre il delirio consiste in una o più credenze erronee e bizzarre sulla realtà circostante (Ritsner et al., 2003).

Per avere un quadro generale sulla schizofrenia osserviamo tutti i sintomi che possiamo trovare in questo disturbo:

  • Sintomi negativi: sintomi che ‘’tolgono’’ facoltà cognitive, emotive o comportamentali al paziente, come per esempio la presenza di apatia.
  • Pensiero disorganizzato: disturbo della forma del pensiero, caratterizzato da un allentamento dei nessi associativi, incoerenza e deragliamento del pensiero.
  • Comportamento motorio grossolano: caratterizzato da bizzarrie come il non lavarsi, vestirsi in modo inusuale, agitazione motoria immotivata.
  • Sintomi positivi: deliri o/e allucinazioni.

A livello epidemiologico, la prevalenza di questo disturbo si aggira intorno al 1% della popolazione, tipicamente l’esordio si osserva in adolescenza, non ci sono differenze nei tassi di prevalenza tra maschi e femmine sebbene nei maschi tenda ad esordire più precocemente e ad avere una prognosi peggiore (Ritsner et al., 2003).

Gli studi sui correlati biologici della schizofrenia sono molti, dato che, trattandosi di un disturbo primariamente psichiatrico, il principale approccio a questa problematica è di tipo farmacologico; tuttavia per comprendere quali psicofarmaci utilizzare, bisogna prima capire cosa accade a livello cerebrale (Messias & Eaton, 2007).

Uno studio recente pubblicato quest’anno sulla rivista Brain (Chand et al. 2020), ha dimostrato la presenza di due tipi di schizofrenia. Lo studio è stato condotto su un campione di 300 soggetti schizofrenici che sono stati sottoposti a risonanza magnetica, e su 364 soggetti appartenenti al gruppo di controllo composto da persone sane le quali sono state sottoposte anch’esse a risonanza magnetica (Chand et al. 2020).

I risultati mostrano come si delineino principalmente due tipologie di schizofrenia associate a diverse condizioni cerebrali, chiamate rispettivamente sottotipo 1 e sottotipo 2. Soggetti con schizofrenia di sottotipo 1 mostrano volumi minori per quel che riguarda la sostanza grigia, il talamo, il nucleo accumbens, la corteccia prefrontale e la corteccia insulare. I soggetti con schizofrenia di sottotipo 2, invece, mostrano un aumento di volume di alcune zone cerebrali, in particolare nei gangli della base e nella capsula interna (Chand et al. 2020).

È importante specificare da un punto di vista metodologico che i gruppi che si sono delineati (sottotipo 1 e sottotipo 2) non differiscono per età, sesso, durata della malattia e farmaci assunti, andando cosi a rendere più solida questa distinzione dato che non è causata dalle variabili appena elencate (Chand et al. 2020).

Inoltre, i risultati mostrano che la materia grigia correla negativamente con la durata della malattia (quindi al diminuire della sostanza grigia aumenta la durata della malattia) nel sottotipo 1, ma non nel sottotipo 2, suggerendo la presenza di processi neuropatologici differenti.

L’importanza di questo studio risiede nella possibilità di sviluppare nuovi trattamenti personalizzati per i soggetti affetti da schizofrenia (Chand et al. 2020).

 

Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (2003) di J.D. Safran e J.C. Muran – Recensione del libro

Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica fornisce l’aiuto necessario per essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme, senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

 

Ho atteso la ristampa di questo testo del 2003 con lo stesso entusiasmo con cui mia nipote mangia gli ovetti Kinder e l’ho letto con la consapevolezza che mi avrebbe arricchito rispetto al modo in cui bisognerebbe stare con i pazienti. Quindi ho fatto spazio sulla scrivania per dargli il giusto posto.

Le prime pagine mi hanno riportata ad alcuni casi, a tutte quelle volte in cui non c’era accordo sugli obiettivi o sulle modalità della terapia, producendo rotture dell’alleanza non sempre chiare e di conseguenza a volte mai riparate. In questo libro, gli autori insegnano passo dopo passo a riconoscere e sanare ogni sorta di rottura dell’alleanza terapeutica. Sebbene, infatti, alcuni aspetti siano automatici, inconsapevoli ed impliciti nel rapporto con un altro essere umano, molti altri sono in realtà operativi. Credo che sia proprio questa la specialità del testo: Safran e Muran hanno operazionalizzato degli elementi della terapia che a volte sono difficili da individuare e spiegare. Sono elementi che spesso chiamo “cose inspiegabili”. Non soltanto le hanno identificate, ma hanno chiarito il modo in cui queste “cose inspiegabili”, che sembrano così evanescenti, possano essere costruite, viste, modificate fin dalle prime sedute.  Esistono delle modalità specifiche per riorganizzarsi sulla terapia ogni qualvolta si verifica un allontanamento da essa coinvolgendo in modo attivo il paziente sulla negoziazione degli obiettivi e sui compiti della terapia, soprattutto quando egli non ha chiaro in che cosa essa consista e dove può condurre. A volte, infatti, i pazienti hanno in mente solo una generale richiesta di aiuto, ma non riescono ad accedere al significato intrinseco: sarà proprio la relazione la base sicura sulla quale si svilupperanno questi significati e le azioni che ne derivano. Soltanto così paziente e terapeuta possono sulla stessa lunghezza d’onda.

Alla base del lavoro di costruzione della relazione ci dovrebbe essere un atteggiamento del terapeuta particolare, sinceramente aperto e validante, per negoziare e mediare tra quello che spetta al paziente e quello che spetta a lui. Questo avrà una ripercussione in termini di identificazione dei propri bisogni e soddisfacimento di essi e contribuirà a creare un clima di sicurezza. Ovviamente un altro aspetto fondamentale è che il terapeuta, proprio misurando l’andamento della danza relazionale con il paziente, può comprenderne il funzionamento interpersonale, da condividere ed esplorare. L’aspetto di sincerità e apertura del terapeuta lo si vede per esempio quando egli si rende conto, condivide e chiarisce con il paziente il proprio contributo alla rottura terapeutica. Può capitare infatti di essere un po’ critici o giudicanti senza volerlo, senza notarlo. Sarà grazie all’osservazione dei markers della rottura terapeutica e alla discussione con il paziente che il terapeuta può esaminare e può comunicare (meglio ancora meta-comunicare) al fine di recuperare l’alleanza. Per fare questo egli dovrebbe essere disponibile ad un lavoro genuino, aperto e curioso, senza incappare in cicli interpersonali basati, per esempio, sul rango e sulla performance. Tali esperienze, per alcuni tipi di pazienti, sono fondamentali perché rappresentano primissimi momenti di ristrutturazione di schemi interpersonali maladattivi (Dimaggio et al., 2013). L’alleanza è la precondizione della riuscita terapeutica anche con i pazienti altamente sintomatici, che arrivano in terapia attivati, con delle richieste di aiuto particolarmente incalzanti. Capita spesso, infatti, che pazienti con alcuni disturbi di personalità tendano ad essere problematici, richiedenti, impegnativi: il terapeuta può decidere se passare all’azione o passare all’esplorazione (questo dipende dalle capacità metacognitive del paziente e dal timing della terapia: un paziente che ancora non ha chiaro il suo funzionamento potrebbe teorizzare insieme al terapeuta senza comprendere il vero significato di quello che si sta verificando). Molto interessante l’approfondimento teorico sulla contrapposizione tra agentività e relazionalità, tra la tensione insita tra queste due componenti che può essere superata attraverso la costruzione di un maggior senso di consapevolezza dei bisogni, dei desideri, allontanandosi dalla paralisi della volontà che è alla base della patologia.

Paziente e terapeuta non dovrebbero lavorare su un nascosto squilibrio di potere della relazione, perché in realtà sono tutti e due ignari di un processo psicologico, devono identificarlo e costruirlo insieme e, all’interno di questa conoscenza, sono entrambe parte attiva. È ovvio che noi terapeuti abbiamo una cassetta degli attrezzi ed un sapere del funzionamento della mente, ma essa si abbatte di fronte alla individualità di ogni persona che, per giunta, cambia ed evolve continuamente. Questo spiega perché uno stesso atteggiamento del terapeuta, per esempio speranzoso, potrebbe essere accettato da un paziente sfiduciato e demoralizzato, mentre da un altro potrebbe essere interpretato come dominanza. Sono, evidentemente, funzionamenti diversi. C’è una intrinseca e sottile asimmetria tra il ruolo del paziente e quello del terapeuta che poi è sì fondamentale per svolgere la nostra professione d’aiuto, ma non dovrebbe rendere la nostra posizione inautentica, nonostante l’immagine associata al ruolo. Hoffmann (1998), infatti, sottolinea come bisognerebbe raggiungere un equilibrio tra l’agire secondo le prescrizioni del ruolo e comportarsi in modo autentico è spontaneo come una qualsiasi relazione che si svolge al di fuori di uno studio di psicoterapia.

Accattivante, chiaro e diretto il paragrafo nel quale gli autori parlano di “mente del principiante”. A tal proposito si fa riferimento all’importanza di avere una mente curiosa, pronta a tutto, nella quale “il terapeuta si accosta ad ogni seduta senza memoria e senza desiderio” in una modalità allocentrica per avere un’apertura ed una ricettività che consentono la tolleranza dell’ambiguità, dell’incertezza e anche del dolore. Gli autori sottolineano come questo possa essere difficile sia per i terapeuti giovani che per quelli più esperti: nell’entrare in contatto con alcuni temi relazionali, in un caso c’è la difficoltà da accettare e tollerare, mentre nell’altro c’è la tendenza a vedere le cose sempre in un certo modo senza considerare l’individualità della persona e come essa evolva. Non dimentichiamo, infatti, che i pazienti evolvono di seduta in seduta e nei vari tempi e, al loro evolversi, corrispondono temi e configurazioni relazionali diversi. L’importanza di una visione a due persone piuttosto che una fa sì che non sia il paziente in quanto oggetto ma la relazione tra paziente e terapeuta il focus della terapia, in cui quest’ultimo è compartecipe e non osservatore. Proprio per questo ogni formulazione è il risultato di una continua esplorazione a due, nel qui e ora, in cui tutti e due i partecipanti riconoscono il proprio contributo. Per questo motivo la relazione terapeutica non si differenzia da altri tipi di relazioni interpersonali in cui due individui si influenzano costantemente l’un l’altro, sia a livello conscio che a livello inconscio.

Credo che ciò che rende davvero speciale questo testo non sia soltanto la prescrizione di cosa fare (la seconda parte del testo, infatti si concentra sulle rotture dell’alleanza e sulle riparazioni di esse) unitamente al focus agli aspetti di fiducia, apertura e validazione. Quello che rende particolare Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica è l’attenzione agli aspetti relazionali del nostro lavoro senza dimenticarsi dell’importanza della teoria e della tecnica, appunto. Safran e Muran ci aiutano ad essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

Un mio collega ha definito alcune parti di questo libro “rilassanti”. Io ho subito pensato che le ho trovate “rassicuranti”. L’immagine del terapeuta limpido, chiaro, accessibile, sincero sembra così lontano dalla realtà nell’immaginario collettivo. Invece, nonostante le intrinseche difficoltà e complessità umane, è possibile, auspicabile e realizzabile.

 

COVID-19: La rivincita degli schizoevitanti

“È timido, tanto, tanto timido!!” ripeteva a mo’ di giustificazione la mia povera nonna che, titolare della mia educazione, riteneva di fare brutta figura per conto terzi a causa del mio scostante sottrarmi ai poliposi abbracci dei parenti, ai bavosi baci di vecchi odorosi di muffa e urina durante la via crucis di dodici stazioni, altrettanti parenti stretti quanto sconosciuti, che seguiva l’arrivo nel paese d’origine per le vacanze estive che allora si chiamavano “villeggiatura” e si intrecciava quasi senza soluzione di continuità con il giro inverso per i commiati che precedevano la partenza.

Il mio divincolarmi dalle strette affettuose accompagnate da gridolini di gioia dello sgradito interlocutore per una ritrovata vicinanza di cui non sentivo alcuna mancanza divenne più deciso e quasi aggressivo quando giunto alle soglie della pubertà, forse a motivo di qualche film, mi feci persuaso che fosse il bacio ad innescare il processo generativo di un figlio. Da allora misi a punto numerose tecniche per me anticoncezionali consistenti soprattutto in un rapido spostamento dell’asse cranico in modo che il bacio mancasse il bersaglio della guancia e finisse confusamente tra i capelli o su un orecchio dove, a mio avviso, perdeva gran parte della sua potenza procreativa.

Anche con mio padre credo di aver trascorso un’esistenza a contatto l’uno dell’altro con continui scambi di informazioni ininfluenti (comunicazioni di servizio) senza sapere niente io di lui ne lui di me a parte i fatti esteriori che accadevano come in tutte le vite. Credo, ad esempio, che fosse orgoglioso di me e riconoscente per avergli risparmiato imbarazzo quando in una prenatalizia domenica romana di inizio dicembre, sdraiati sul lettone matrimoniale con il sole che faceva danzare la polvere nell’aria in moti ascendenti, piccoli vortici e cascate discendenti di pulviscolo, mi mise al corrente che non era il nonno del paese ad essere stato male quanto piuttosto sua figlia, mia madre, ad essere morta quindici giorni prima.

Poi basta non se ne parlò più. Che altro c’era da dire?

Alle elementari e alle medie degli altri avevo paura e non credo fosse per il timore del giudizio ma semplicemente per un’irriducibile alterità, come se tutti avessero seguito un corso su come stare “normalmente” insieme, corso al quale io ero stato assente ingiustificato (forse perché preso con la strana vicenda di mia madre, mi dicevo sapendo che era solo una giustificazione ed il defekt molto precedente e profondamente iscritto nel mio stare al mondo). Guardavo gli altri con incredulità e invidia la facilità con cui si relazionavano come se avessero un copione comune ben collaudato da numerose prove. Un accordo segreto da cui io ero escluso e che mi convinsi progressivamente non mi interessasse con quella sprezzante superiorità mostrata dalla volpe nei confronti dell’uva.

Poi l’adolescenza con le sue esigenze ormonali mi spinse alla ricerca di compagne ma mai di compagnie tollerate solo perché indispensabili e strumentali all’incontro con l’altro sesso, allora scarsamente accessibile. La ricerca di un essere simile a me col quale stare insieme profondamente (perché di questo ne sentivo il bisogno) senza troppe manifestazioni di vicinanza ha impegnato un tempo lungo della mia vita e implicato numerosi fallimenti, illusioni fino all’incontro tardivo e insperato con Brunella, così unico e miracoloso da essere financo fecondo di stupenda progenie. La difficoltà paralizzante non si limitava però alle relazioni strette. In ogni ambiente giocavo una parte, un ruolo provato a casa magari davanti allo specchio. Ma anche quando la finzione di scena riscuoteva successo, non vedevo l’ora di struccarmi e ritornare dentro di me dove, si badi bene, non c’era assolutamente nulla se non una indefinita strisciante paura, ancora non saprei definire esattamente di che. E se ora assume la condivisibile forma della paura della morte, un tempo doveva piuttosto essere una inammissibile e vergognosa paura di vivere.

Ho sempre vissuto questa condizione come una diminutio. I veri uomini, pensavo, sono quelli che si danno grandi pacche sulle spalle, si strizzano le palle per salutarsi, sbattono rumorosamente le bottiglie di birra per brindare alla loro amicizia, ruttano cavernosamente e con la loro voce alta e il tono sicuro e definitorio orientano verso di loro tutti gli astanti. Maschi alfa in technicolor e dolby surround. Insomma i “compagnoni”, i “buontemponi”, gli “estroversi”, quelli “adatti ad ogni ambiente”, gli “animatori naturali”. Il vantaggio a essere così anche da un punto di vista evolutivo è evidente. Più relazioni, più amicizie e conoscenze, più storie affettive e, in conclusione più progenie. Con il risultato che il gene 41ipersoc, responsabile di tutto ciò una sequenza di 27 aminoacidi posta in coda al cromosoma 9 è andato proliferando divenendo la normalità statistica e auspicata al punto che, come ho scoperto molto più tardi a motivo del mio mestiere, chi non è così è considerato portatore di un disturbo. Il cosiddetto “disturbo evitante di personalità” se si fa fatica a stare con gli altri perché non si sa come farlo e si teme un giudizio negativo di goffagine (costoro perlomeno possono vantare, in tempi di buonismo, questo timore del giudizio altrui come prova di un interesse, per quanto celato e controproducente, nei confronti dell’altro) oppure, peggio, il cosiddetto “disturbo schizoide di personalità” in cui l’altro è semplicemente “ non pervenuto”, “insignificante” e ciò non provoca alcun dolore o carenza. Non c’è ed è normale che non ci sia, senza colpe né rimpianti.

Ma la storia dell’evoluzione naturale della specie con la lezione di Darwin ci ha insegnato che un comportamento non è buono o cattivo in sé ma lo è sempre relativamente ad un ambiente e alla pressione selettiva che questo esercita sul singolo individuo aumentando o diminuendo la sua fitness riproduttiva. Classico l’esempio della microcitemia che si è selezionata nelle zone malariche perché i piccoli globuli rossi che la caratterizzano sono resistenti a questa malattia. Ora da poco tempo è sceso in campo un nuovo protagonista a modificare l’ambiente scavalcando in poche settimane la povera Greta e gli orsi bianchi timorosi di muoversi su lastre di ghiaccio sempre più sottili, il COVID-19. Se non ci sarà qualche brillante ricercatore italiano che fuggito anni fa da un destino di precario portaborse e ora, guarda caso il cervello in fuga dove ha attecchito, al vertice del più importante laboratorio mondiale di ricerca sui vaccini che tiri fuori il coniglio dal cappello e ci cavi dai guai e, invece si lascerà lavorare in pace e a lungo il nuovo selettore, almeno il tempo di una generazione ma per sicurezza anche mezzo secolo, gli scenari cambieranno radicalmente. Le fosse comuni si riempiranno dei professionisti di aperitivi, apericene, vernissage, e party in genere. I fanatici delle rimpatriate varcheranno sottobraccio e a passo spedito le porte dell’Ade.  Le lunghe chiassose tavolate di amici brindanti a Natale, a capodanno, a un matrimonio o a un compleanno sprofonderanno nel buio silenzio dove si odono solo lamenti e stridore di denti.

Sul principio anche noi schizoevitanti saremo un po’ disorientati. Da chi nascondersi ora? Da chi fuggire? Quale pace ricercare ora che tutto è in pace e il chiasso non è che un’eco lontana dei terribili passati “tempi allegri e spensierati”. Poi piano piano verremo fuori dai nostri rifugi anti-umani a prova di emozioni ormai inutili e, ancora schiavi di qualche tardivo spruzzo ormonale torneremo ad accoppiarci, magari sempre con la testa voltata a evitare il bacio e qualche parola intima nell’orecchio. La rimonta riproduttiva sarà implacabile e rigorosamente condotta dalla posizione a tergo mentre l’oscenamente intima posizione vis a vis con gli occhi, specchi dell’anima, negli occhi, sarà bandita e giudicati sospetti i suoi cultori.

Così nel giro di tre o quattro generazioni (se fossimo rapidi come i batteri basterebbe un giorno) il gene 41ipersoc  batterà in ritirata e le nursery traboccheranno di compostissimi neonati appartati nelle loro culle a debita distanza gli uni dagli altri. Essere solitari, riservati, refrattari al contatto fisico e all’allegria da osteria o al savoir faire da occasione mondana sarà la norma e il modello da additare alle nuove generazioni e finalmente ad essere oggetto di diagnosi, che so potrebbe essere “disturbo appiccicoso o ciarliero di personalità”, oppure “intimismo parossistico” saranno quelli che abbiamo sempre invidiato. Perchè la verità si decide a maggioranza e adesso siamo saldamente noi.

Mindfulness e disabilità intellettiva

Non esiste un modello psicopatologico chiaro ed esaustivo della disabilità intellettiva, infatti, si possono presentare differenti profili cognitivi e problematiche in aree di vita molto diverse, formando un quadro eterogeneo all’interno di una stessa condizione. Quali benefici può portare la pratica della mindfulness alle persone con disabilità intellettiva?

Fabiola Caruso – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La disabilità intellettiva

In ambito clinico, sociosanitario e scientifico il termine “ritardo mentale” è stato ampiamente sostituito dal termine “disabilità intellettiva” che nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM-5) è ora l’equivalente di “disturbi dello sviluppo intellettivo”, adottato nella bozza dell’ICD-11. Il DSM-5 non associa a tale termine l’aggettivo “evolutiva” al fine di comprendere in questa condizione anche le disabilità intellettive acquisite, ad esempio derivanti da un trauma cranico durante il periodo di sviluppo.

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) è un disturbo con esordio in età evolutiva e comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici. Il funzionamento intellettivo si riferisce alle capacità mentali generali, come il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dall’esperienza. Il funzionamento adattivo fa riferimento all’efficacia con cui i soggetti fanno fronte alle esigenze più comuni della vita quotidiana e al grado di adeguamento agli standard di autonomia personale previsti per la loro particolare fascia di età, retroterra socioculturale e contesto ambientale: svolgere le attività di vita quotidiana, saper comunicare, essere in grado di partecipare alla vita sociale, essere in grado di vivere in modo indipendente. Il funzionamento adattivo andrà verificato, in base all’età, nel contesto familiare, scolastico, lavorativo e comunicativo.

In base al grado di compromissione, possiamo inquadrare quattro livelli di gravità (lieve, moderato, grave ed estremo). I quattro livelli di gravità andranno valutati per ognuno di questi tre domini:

  1. Dominio concettuale: comprende competenze linguistiche, abilità di lettura, scrittura, matematica, ragionamento, memoria e anche conoscenze generiche.
  2. Dominio sociale: riguarda la capacità empatica, il giudizio sociale e interpersonale, la capacità di comunicazione, la capacità di fare e mantenere amicizie e capacità similari.
  3. Dominio pratico: concerne la gestione di ambiti personali come il sapersi prendere cura di se stessi, la responsabilità sul lavoro, la gestione del denaro o le attività svolte nel tempo libero. Si include anche l’aspetto organizzativo della scuola e dei compiti di lavoro.

Ritardo mentale lieve

La disabilità intellettiva di grado lieve costituisce la parte più ampia (circa l’83-85%) dei soggetti affetti da ritardo mentale. Il ritardo mentale lieve nei bambini non è immediatamente evidente. Questi bambini tipicamente sviluppano capacità sociali e comunicative negli anni prescolastici (da 0 a 5 anni di età), hanno una compromissione minima nelle aree senso-motorie e spesso non sono distinguibili dai bambini senza disabilità fino all’ingresso nella scuola primaria. Prima dei 20 anni possono acquisire capacità scolastiche corrispondenti all’incirca alla quinta classe primaria. Al termine dei percorso scolastico (14-16 anni) possono raggiungere un’età mentale compresa tra gli 8 e gli 11 anni e delle competenze cognitive tipiche della fase dell’intelligenza operatoria concreta. Durante l’età adulta, di solito acquisiscono capacità sociali e occupazionali adeguate per un livello minimo di auto sostentamento, ma possono aver bisogno di appoggio, di guida e di assistenza, specie quando sono sottoposti a stress sociali o economici inusuali.

Ritardo mentale moderato

La disabilità intellettiva di grado moderato costituisce circa il 10-14% dell’intera popolazione di soggetti con disabilità intellettiva. La maggior parte dei bambini con ritardo mentale moderato acquisisce il linguaggio e le abilità prescolastiche molto lentamente. Possono beneficiare dell’addestramento alle attività sociali e lavorative, ma difficilmente progrediscono oltre il livello della seconda classe primaria nelle materie scolastiche. Al termine dell’iter evolutivo possono acquisire un’organizzazione cognitiva tra i 4 i 7 anni (non arrivano cioè all’intelligenza operatoria concreta). Possono imparare a spostarsi da soli in luoghi familiari. Durante l’adolescenza, le loro difficoltà nel riconoscere le convenzioni sociali possono interferire nelle relazioni con i coetanei. Nell’età adulta, la maggior parte riesce a svolgere lavori non specializzati, sotto supervisione, in ambienti di lavoro protetti.

Ritardo mentale grave

La disabilità intellettiva di grado grave costituisce il 3-4% dei soggetti con ritardo mentale. Durante la prima fanciullezza questi soggetti acquisiscono un livello minimo di linguaggio comunicativo; i limiti coinvolgono il lessico e la costruzione della frase: la produzione verbale è costituita prevalentemente da singole parole o frasi semplici. Durante il periodo scolastico possono imparare a parlare e possono essere addestrati alle attività elementari di cura della propria persona. Essi traggono un beneficio limitato dall’insegnamento delle materie scolastiche, come familiarizzare con l’alfabeto e svolgere semplici operazioni aritmetiche, ma possono acquisire capacità quali imparare a riconoscere a vista alcune parole per le necessità elementari. Nell’età adulta possono essere in grado di svolgere compiti semplici in ambienti altamente protetti. Possono essere presenti comportamento autolesivi e di disadattamento. La maggior parte di essi si adatta bene alla vita in comunità o con la propria famiglia, a meno che non abbia una disabilità associata che richieda assistenza specializzata o altre cure.

Ritardo mentale gravissimo

La disabilità intellettiva di grado profondo o estremo costituisce circa l’1-2% dei soggetti con ritardo mentale. La maggior parte di chi presenta questa diagnosi di ritardo mentale ha una condizione neurologica diagnosticata che spiega il disturbo. Durante la prima infanzia, mostrano considerevole compromissione del funzionamento senso-motorio. Le abilità concettuali in genere si riferiscono al mondo fisico piuttosto che ai processi simbolici. L’individuo può usare gli oggetti in modo finalizzato per la cura personale, il lavoro e lo svago. Ha una comprensione molto limitata della comunicazione simbolica nell’eloquio o nella gestualità. Può comprendere alcuni gesti o istruzioni semplici e comunicare attraverso il non verbale. L’individuo è dipendente dagli altri in ogni aspetto della cura fisica, della salute e della sicurezza quotidiane, sebbene possa essere in grado di partecipare ad alcune di queste attività. Alcuni possono svolgere compiti semplici in ambienti altamente controllati e protetti. Possono essere presenti, in una piccola parte di questi soggetti, comportamenti disadattivi.

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) si associa frequentemente a malattie psichiatriche, la cui incidenza è superiore di tre-quattro volte rispetto al resto della popolazione. I disturbi che si verificano più frequentemente in associazione con ritardo mentale (disabilità intellettiva) includono il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbi d’ansia, i disturbi dello spettro autistico, il disturbo da movimento stereotipato e i disturbi da controllo degli impulsi. Anche il disturbo depressivo maggiore può essere diagnostico, indipendentemente dal livello di gravità.

Non esiste un modello psicopatologico chiaro ed esaustivo del ritardo mentale (disabilità intellettiva). Nel ritardo mentale (disabilità intellettiva) vari fattori psicologici, fisici e sociali influiscono sullo sviluppo della personalità e persone con lo stesso quoziente intellettivo possono presentare differenti profili cognitivi e problematiche in aree di vita molto diverse, formando quindi un quadro eterogeneo all’interno di una stessa condizione, con punti di forza e di debolezza specifici per ogni individuo.

Terapia del ritardo mentale (disabilità intellettiva)

Il ritardo mentale (disabilità intellettiva) necessita spesso di un trattamento medico e farmacologico perché è frequentemente associato ad alterazioni neurologiche e somatiche. La riabilitazione nel ritardo mentale di tipo cognitivo, invece, ha l’obiettivo di introdurre e/o rinforzare quelle abilità che a causa dell’handicap non si sono sviluppate e consolidate spontaneamente: capacità attentive, linguaggio, apprendimenti e abilità che favoriscano l’autonomia. Nel trattamento di persone con questa condizione risultano particolarmente utili tecniche cognitive e comportamentali, quali l’analisi funzionale, il rinforzo positivo, l’estinzione, il problem-solving, il training di auto-istruzione, la token economy, il chaining, il prompting e altre. Unitamente alla riabilitazione cognitiva si considerano ulteriori variabili relative alla personalità quali motivazione, concetto di sé, temperamento, elementi di comunicazione, influenze familiari e fattori ambientali. Nelle persone con disabilità intellettiva la capacità di auto riferire i propri stati emotivi e l’orientamento del focus sulle risorse della persona, e non sui suoi deficit, promuove un cambiamento positivo.

Centro Socio Educativo “San Damiano” e la pratica Mindfulness

Il Centro Socio Educativo Comunale “San Damiano” di Termoli (CB) è una struttura gestita dalla cooperativa SIRIO che accoglie persone con disabilità intellettiva dai 18 ai 65 anni di età, fornendo interventi a carattere educativo, facilitando l’integrazione sociale ed il processo di crescita globale, attraverso il mantenimento e/o il potenziamento delle abilità residue e/o l’acquisizione di nuove abilità, mirando al miglioramento qualità della vita. La struttura ospita attualmente 18 persone, il gruppo di utenti comprende persone affette da Sindrome di Down, disabilità intellettiva lieve, moderata e grave.

Nella struttura opera un’equipe multidisciplinare che si occupa di ideare, organizzare e rimodulare tutte le attività, realizzando i Piani Educativi Personalizzati basati sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), strumento utile alla valutazione delle capacità e potenzialità dei singoli utenti. L’ICF è una classificazione che fa parte della più ampia famiglia delle Classificazioni Internazionali dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e mira a descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere tutte quelle difficoltà che nel contesto di riferimento possono causare difficoltà. L’equipe di lavoro, durante le osservazioni sistematiche, ha notato che la maggior parte degli utenti non dedicava tempo all’auto- osservazione, per questo è stata proposta come attività la mindfulness.

Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo che coltiva la capacità di portare attenzione al momento presente, consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987). Per far approcciare alla mindfulness gli utenti del centro socio educativo si è pensato di strutturare il laboratorio esperienziale seguendo le indicazioni del libro di Ennio Preziosi, Corso di meditazione di mindfulness. Conosco, conduco, calmo il mio pensare, un manuale di auto aiuto che guida alla pratica mindfulness attraverso un percorso di otto settimane di meditazione guidata.

Il primo esercizio è quello della meditazione sul corpo o body scan. Gli utenti si sono allenati alla meditazione, cogliendo le sensazioni che vengono spontaneamente dal corpo, osservando i pensieri che li distraggono, cominciando ad imparare a distanziarsi dai pensieri e a non percepirli come fatti, riconoscendo e differenziando le emozioni e le componenti corporee. Il corso continua poi con una settimana di meditazione sul respiro e una settimana di meditazione sul respiro di tre minuti. Queste pratiche favoriscono il passaggio dalla modalità del fare alla modalità dell’essere, modalità di attenzione non giudicante (osservo i pensieri, non vi reagisco) e di presenza mentale (osservo ciò che c’è e ciò che ho). La quarta settimana è il momento di esercitarsi a guidare l’attenzione sul respiro, sui pensieri, sul corpo o sui suoni, per ricordarci l’importanza della presenza mentale, o come viene chiamata della modalità on-line, contrapposta al pilota automatico, in ogni istante della nostra esistenza. Il corso prosegue con la meditazione in movimento, la meditazione camminata e la meditazione dell’uvetta. La meditazione della montagna, infine, è una tecnica di visualizzazione che conferisce un forte senso di stabilità e di fermezza, che aiuta a essere pronti di fronte alle turbolenze esistenziali.

Dall’esperienza di meditazione introdotta in un centro socio educativo, l’equipe di lavoro ne ha tratto molteplici informazioni che riguardano il modo in cui ogni utente si percepisce, le capacità o l’assenza di capacità per quanto riguarda l’automonitoraggio, il riconoscimento delle emozioni e la concentrazione. Gli utenti si sono mostrati molto motivati alla pratica mindfulness, percependo una sensazione di rilassamento e richiedendo la continuazione della pratica mindfulness. Per la continuazione dell’attività esperienziale è stata utilizzata un applicazione per dispositivi android denominata “Insight Timer” che mette a disposizione tantissime audio tracce per praticare mindfulness e l’attività è stata protratta fino al periodo estivo in riva al mare.

Questa esperienza vuol rappresentare un punto di partenza per l’introduzione nei centri socio educativi, per persone con disabilità intellettiva, delle pratiche non incentrate sul fare ma sull’essere, qualitativamente importanti per tutti.

 

Gli atteggiamenti verso l’eutanasia

L’eutanasia è sempre stata una questione molto dibattuta, oggetto di discussioni e riflessioni. Questo tema ha una grande importanza morale, sociale e giuridica. Quali sono i fattori che concorrono nell’orientare l’atteggiamento verso questa pratica?

 

Introduzione

Per eutanasia si intende qualsiasi pratica volta a porre fine alla vita di un individuo, la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Il termine viene dal greco “buona morte” e, nella pratica, indica semplicemente un modo per aiutare a morire in modo indolore persone che ritengono che la qualità della loro vita sia inaccettabile a causa di un malessere fisico o psicologico di grave entità.

Si tratta di un argomento molto discusso e combattuto, c’è chi è favorevole e chi è contrario. La diversità di opinioni ha reso rilevante l’analisi degli atteggiamenti collegati a questo tema. Infatti, gli atteggiamenti nei confronti dell’eutanasia sono importanti dal punto di vista sociale, in quanto si presentano in stretta relazione con il tipo di società e cultura proprie dell’epoca. L’eutanasia è un argomento molto discusso a livello sociale, anche perché riflette un conflitto giuridico: in molti Paesi i cittadini fanno domanda di legalizzazione e in altrettanti viene rigettata questa possibilità. Ricordiamo quindi che, per quanto riguarda l’Europa, l’eutanasia è legale solo in Olanda, Lussemburgo e Belgio.

Analizzando gli atteggiamenti verso l’eutanasia, bisogna anche considerare l’individuo che detiene questi atteggiamenti. Sono state riscontrate, infatti, differenze tra atteggiamenti di medici, infermieri e familiari, vale a dire le persone più coinvolte nella decisione e nella pratica dell’eutanasia o, comunque, quelle più a stretto contatto con essa e con i pazienti che la richiedono (Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout, & Heintz, 2003; Vézina-Im, Lavoie, Krol & Olivier-D’Avignon, 2014). E’ necessario anche valutare i fattori che influenzano la formazione di un atteggiamento positivo o negativo verso questo delicato tema, tra cui troviamo le caratteristiche socio-demografiche, il paese di appartenenza e la religione (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019; Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout & Heintz, 2003).

Oltre a questi fattori si considera, nell’analisi della formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia, il ruolo della persuasione, attuata attraverso i mass media, che fa leva sulle credenze etiche e morali dell’individuo. Infatti, come sostiene il modello di probabilità dell’elaborazione di Petty e Cacioppo (1983), un individuo è motivato ad elaborare il messaggio persuasivo quando esso porta ad un cambiamento di atteggiamento corretto (Maio, Haddock & Verplanken, 2018).

Discussione

Per quanto riguarda gli atteggiamenti verso l’eutanasia delle persone coinvolte in questa pratica, bisogna considerare le figure dei medici e delle infermiere, che sono coloro a cui viene spesso fatta la richiesta diretta di morte da parte dei pazienti. Queste figure non sono particolarmente influenzate da fattori come la religione, le credenze sulle conseguenze, il ruolo o le norme morali, ma risultano avere un atteggiamento più favorevole alla pratica dell’eutanasia quando si tratta di pazienti con breve aspettativa di vita, senza sintomi depressivi e che hanno posto una richiesta esplicita di morte (Vézina-Im et al., 2014). Inoltre, risulta che i medici sono influenzati anche da ulteriori fattori individuali, come il settore medico in cui praticano, il numero di pazienti terminale che si sono trovati a curare negli ultimi 12 mesi e gli anni di esperienza; per cui, chi si trova in un reparto con più di 12 pazienti terminali all’anno ed ha più di 6 anni di esperienza lavorativa ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia (Miccinesi et al., 2005; Vézina-Im et al., 2014). Al contrario, per quanto riguarda gli infermieri, gli anni di esperienza hanno un’influenza nella direzione inversa del continuum valutativo dell’atteggiamento, infatti, infermieri con più di 6 anni di esperienza mostrano atteggiamenti più favorevoli verso l’eutanasia (Vézina-Im et al., 2014).

Per quanto riguarda i familiari, è stato svolto uno studio in cui risulta che i familiari di pazienti affetti da cancro morti attraverso l’eutanasia mostrano in modo significativo meno sintomi traumatici, sentimenti di dolore e reazioni da stress post-traumatico rispetto ai familiari di pazienti morti per cause naturali. Questo effetto viene attribuito al fatto di avere la possibilità di salutare il proprio caro, così da poter accettare la situazione in modo più sereno (Swarte et al., 2003).

Trattando gli atteggiamenti è importante analizzare quali sono i fattori che ne influenzano la direzione e la forza; per quanto riguarda la formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia essa risulta influenzata dalla religione, dalle caratteristiche socio-demografiche e dal paese di appartenenza.

Infatti, una delle ragioni di tensioni e conflitti tra credenti, atei e gruppi religiosi riguarda la questione di chi abbia la legittimità di stabilire la fine dell’esistenza; in quest’ambito si possono differenziare i vari tipi di religioni e le varie credenze individuali rispetto ai dogmi della propria religione. All’interno del cristianesimo la chiesa cattolica e ortodossa si pongono nettamente contro l’eutanasia, mentre i protestanti sono più favorevoli; per quanto riguarda il buddismo, esso accetta l’eutanasia in casi particolati (Shin, Lee, Kim, Nam & Seh, 1995). Anche la frequenza con cui ci si reca in chiesa e l’interpretazione della Bibbia influenzano la formazione degli atteggiamenti; infatti, da uno studio di Sharp (2019) risulta che chi pratica con frequenza e ritiene che la Bibbia sia la reale parola di Dio, e non solo un’ispirazione ad essa, ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche socio-demografiche, si analizza l’età, il genere, l’etnia e il livello di scolarizzazione. Risulta che l’età ha una correlazione inversa con la positività dell’atteggiamento verso l’eutanasia, che le donne sono meno favorevoli degli uomini, che le persone di colore hanno un atteggiamento più negativo rispetto ai caucasici e che il livello di scolarizzazione è direttamente proporzionale alla positività dell’atteggiamento (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019).

L’influenza del paese di appartenenza nella formazione dell’atteggiamento è importante sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista culturale. In un progetto collaborativo europeo, EURELD, vengono misurati gli atteggiamenti verso l’eutanasia di medici del Belgio, Danimarca, Italia, Olanda, Svizzera e Svezia. Risulta che l’Italia è il paese più conservativo, seguito dalla Svezia; l’Olanda è il paese che più supporta l’eutanasia, seguito dal Belgio; la Danimarca e la Svizzera si trovano ad avere un atteggiamento tra i due estremi (Miccinesi et al., 2005). Tenendo conto che lo studio è stato fatto nel 2005 (quando ancora l’eutanasia non era legale in nessun paese europeo, ma si erano solo presentate delle proposte riguardo la legalizzazione in Olanda e Belgio), i risultati dello studio portano a concludere che il paese di appartenenza sia un forte predittore dell’atteggiamento per quanto riguarda i suoi aspetti culturali e sociali al di là della situazione legislativa.

Infine, è stato analizzato il ruolo della persuasione, date le varie campagne promozionali a favore o contro la legalizzazione dell’eutanasia. Essendo l’eutanasia una questione morale risulta importante che nel messaggio persuasivo sia sottolineata la correttezza dell’atteggiamento, che risulta essere basilare per la motivazione all’elaborazione del messaggio (Petty e Cacioppo, 1983).

D’Aprile e Pensieri (2018) hanno voluto analizzare come sono stati riportati i dati relativi alla vicenda di Dj Fabo, andato in Svizzera per ottenere un suicidio assistito, concludendo che:

In molte testate giornalistiche si è creato un forte impatto emotivo attraverso l’uso prevalente di alcune parole, passando dall’analisi oggettiva della morte realizzata con un suicidio assistito al vissuto di un sentimento di pietà e di solidarietà, in questo modo è venuta meno la possibilità di una valutazione etica di ciò che si definisce eutanasia.

Si può quindi notare come la trasmissione delle notizie possa influenzare gli atteggiamenti, quando vengono usate tecniche persuasive; in questo caso riferito da D’Aprile e Pensieri viene usato il principio secondo cui appelli persuasivi che si focalizzano sulla componente (cognitiva, emotiva o comportamentale) dominante del contenuto dell’atteggiamento hanno un’influenza maggiore nel cambiamento dell’atteggiamento (Maio, Haddock & Verplanken, 2018), infatti essendo l’atteggiamento verso l’eutanasia di base emotiva sono state usate parole nei titoli di giornale, riguardanti la questione, che provocassero un forte impatto emotivo.

Conclusione

L’eutanasia risulta quindi essere una questione molto dibattuta e di importanza morale e giuridica, su cui le persone si formano atteggiamenti molto diversi. Questa diversità degli atteggiamenti è data, a livello individuale, sia dalla rilevanza personale che assume questo argomento, sia da fattori socio-demografici come l’etnia, l’età, il genere e la scolarizzazione; risulta esserci una diversità di atteggiamento anche in base alla cultura e alla società di appartenenza. Infine, è risultato che si ha un forte impatto dei mass media sulla formazione e cambiamento degli atteggiamenti verso l’eutanasia.

 

La violenza spettacolarizzata. Il crimine e l’impatto psicologico della comunicazione (2019) di C. Dambone – Recensione

La violenza spettacolarizzata offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo dal significato di comunicazione e persuasione e proseguendo con la descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

 

Zac Efron era l’idolo delle mie sorelle quando era il bel Troy in High School Musical. Era un divo, una star. Uno di quegli amori adolescenziali che ti porti dietro per anni. Per il film del 2019 sul criminale Ted Bundy, che uccise circa 30 donne, scelsero lui per interpretarlo. Critiche e polemiche sul web: è troppo bello, troppo affascinante, era il ragazzo che ogni bambina desiderava. La sua bellezza poteva offuscare le atrocità avvenute. Si potevano confondere le menti degli spettatori. Effettivamente Bundy incantò il pubblico e, non a caso, in Italia il film è stato intitolato Ted Bundy fascino criminale. Ma oggi, secondo le opinioni di molti, quel criminale non doveva affascinare. Bundy doveva essere riconosciuto come mostro. E i mostri si sa, non possono essere belli. Il pubblico non deve essere attratto dal male, deve averne paura.

I mezzi di comunicazione possono incentivare o meno un pensiero, direzionare opinioni e azioni, creare false aspettative e, non ultimo, instillare o meno paure. Dietro questi strumenti ci sono persone esperte del settore nel creare ciò che la committenza richiede: “il pubblico deve temere questo personaggio”, “le persone devono credere a questa determinata cosa” e così via.

Il testo di Dambone, La violenza spettacolarizzata, ci offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo da un’analisi sul significato di comunicazione e persuasione, proseguendo poi alla descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

Il libro vuole restituire una spiegazione documentata di come stanno “realmente” le cose, scardinando pregiudizi e false informazioni su tematiche quali lo stalking, il femminicidio, la devianza minorile.

Lo stalking è quello rappresentato dalla serie You?  Il bullismo o cyberbullismo è ben descritto in Tredici? Il lavoro sulle prove scientifiche è simile a ciò che fanno gli agenti di CSI – scena del crimine? Gli immigrati nei centri di accoglienza quanto denaro prendono effettivamente al giorno?

Leggendo il capitolo sull’immigrazione mi sono ricordata di una serata a cena con conoscenti. Avevamo preso il discorso (delicato) sugli immigrati in Italia e sul loro “costo”. Si parlava dei famosi 35 euro giornalieri, cifra che ogni tanto gira sui social e simili. Ho cercato invano di smontare le informazioni errate su cui un commensale si era accanito, ma non c’è stato nulla da fare. Eppure ho lavorato in una casa famiglia per anni. A quanto pare in quella occasione non ricoprivo il ruolo di opinion leader. In effetti non ero portatrice di un messaggio dei media, ma testimone reale di un fatto. Il mio interlocutore parlava di una realtà non vissuta in prima persona, ma le sue convinzioni erano così radicate da non essere scalfite da un’informazione veritiera e non mediata. È proprio vero: tv “cattiva maestra”.

Il testo di Dambone ci aiuta a riflettere ampliando la nostra capacità di discernimento. Ci spiega come vengono ripartiti questi 35 euro, si sofferma a raccontare la storia della criminalità mafiosa e poi, nello stesso modo puntuale, ci spiega cosa sentono gli adolescenti e a quali pericoli sono esposti.

Capitolo interessantissimo è quello sulla vendetta e il perdono. Per-donare significa offrire un dono enorme: restituire la vita. Il perdono può ricreare relazioni, può placare i tormenti di entrambe le parti, vittima e carnefice, restituisce la pace necessaria ad andare avanti. Perdonare non significa dimenticare o giustificare, ma essere liberi.

E la libertà ci è offerta anche dalla conoscenza. L’ignoranza e la mancanza di interesse nello studiare e comprendere determinate dinamiche e persone fa sì che i media abbiano più presa sulle nostre menti. Le cose non sono sempre così lineari come spesso vogliono farci credere.

Davanti ad un piatto di paccheri al ragù bianco e carciofi i miei amici, all’unisono, mi dicono: “ma dai Ele c’è la carne, che vuoi metterci? Vino rosso, ovvio!”. E invece, quelle che sembravano certezze, possono vacillare. Capisci che dietro ad un semplice abbinamento cibo-vino c’è un mondo di riflessioni e studio analitico. La tendenza dolce del carciofo e la grassezza della carne vogliono un vino fresco (in termini di acidi percepiti) ma anche sapido; inoltre è necessario un vino con una buona persistenza gusto-olfattiva per l’aromaticità e la speziatura del cibo, ma anche con una buona alcolicità per smorzare l’eventuale untuosità del piatto. E viene fuori un Frascati Superiore Riserva DOCG. Un bianco. Che scoperta magnifica. I tannini del vino rosso avrebbero aumentato la sensazione amaricante del carciofo, spesso spiacevole in bocca. Il sapere ha “salvato” la serata.

Quante cose su cui riflettere per un pranzo, no? Immaginate per tematiche più serie. Immaginate per un caso di femminicidio, per abusi sui minori, per la violenza nelle scuole. Immaginate di voler comprendere cosa sia successo, immaginate di dover capire come prevenire eventuali problemi o come gestirli quando presenti. È sufficiente vedere qualche programma TV? Leggere un unico punto di vista? Sentire l’opinione del primo politico di turno?

Il testo di Dambone può essere un buon punto di partenza per informarci e mettere in discussione il nostro sapere. Regalandoci un quadro generale, chiaro e semplice, ci aiuta a non farci più confondere da quelle che sembrano verità assolute sul tema della violenza e ci permette di riflettere per filtrare in modo adeguato ciò che ascoltiamo e vediamo. Ponderiamo e mettiamo in dubbio per non farci più ingannare dalle “faccia da bravo ragazzo” e dal fascino intramontabile dei divi di Hollywood.

 

Il pregiudizio in Italia sulle coppie genitoriali dello stesso sesso: uno studio esplorativo

Il ‘same-sex parenting’ si riferisce sia a quelle situazioni familiari nelle quali è presente un solo genitore omosessuale sia a quelle in cui vi siano due genitori dello stesso sesso all’interno dell’unità familiare (Eleutereri et al. 2012).

 

Recentemente, diversi studi sull’omogenitorialità hanno dimostrato che non ci sono differenze rilevanti nello sviluppo e nella crescita dei figli di coppie omosessuali rispetto ai bambini allevati da coppie eterosessuali (Qu et al. 2016) e che l’identità sessuale di questi ultimi non è condizionata dall’orientamento genitoriale (Knight et al. 2017). Anche gli studi effettuati per valutare il benessere psicologico dei figli di coppie omosessuali hanno evidenziato che non sussistono sostanziali differenze rispetto alle famiglie con genitori eterosessuali (Gartell et al., 2005; Patterson, 2006) e che l’orientamento sessuale non influenza le capacità genitoriali (Pacilli & Taurino 2009).

Nel panorama italiano stiamo vivendo una fase di cambiamento sulla regolamentazione legale delle coppie genitoriali dello stesso sesso. Seppur attualmente vi siano sentenze che non riconoscono un bambino con due padri (sentenza della Corte di cassazione 12193), altre sentenze giudicano ‘mero pregiudizio’ affermare che un figlio non possa essere cresciuto da genitori omosessuali (sentenza della Corte numero 601). Nonostante l’aria del cambiamento, l’Italia è tutt’ora ancorata a una visione più tradizionale della famiglia, visione dovuta anche all’influenza del pensiero cattolico nel nostro paese: la visione della famiglia e la visione della coppia omosessuale sono ancora due concetti ben distinti nella mentalità italiana (Iudici et al., 2020).

Lo scopo del presente studio era quello di esplorare, in questo periodo di cambiamenti, quali fossero i principali pregiudizi degli italiani sulle famiglie composte da genitori dello stesso sesso e sulle difficoltà affrontate da questi ultimi.

La ricerca è stata condotta tramite l’analisi qualitativa, precisamente utilizzando la tecnica dell’analisi del discorso che si concentra sia su come viene prodotto un testo sia sul punto di vista di colui che lo produce (Bolasco, 1999). Il focus di questo tipo di analisi, nel caso della ricerca in questione, è stato posto sull’interazione tra coloro che avanzano pregiudizi e coloro ne erano ‘vittima’, e sul tentativo di inquadrarle all’interno della cornice storico-culturale italiana.

Sono stati presi in considerazione 88 soggetti omosessuali (51 donne e 37 uomini) tutti facenti parte di una famiglia con almeno un figlio; quattro di loro avevano figli da precedenti relazioni, cresciuti però all’interno della coppia omosessuale, gli altri erano ricorsi alla fecondazione assistita. A tutti loro sono state poste 11 domande incentrate sulla loro vita familiare, sulle difficoltà che avevano incontrato e sui pregiudizi dei quali erano stati vittime. Alcuni esempi di domande erano: ‘Come genitore omosessuale, ci sono delle difficoltà specifiche che hai dovuto affrontare? Se è così, puoi descrivile?’, ‘Come genitore omosessuale, ci sono pregiudizi con cui sei stato confrontato o che pensi possano verificarsi? In tal caso, puoi descriverli?’, ‘Come hai comunicato o come comunicheresti a tuo figlio le differenze di orientamento sessuale?’ (Iudici et al., 2020).

Partendo dalle precedenti domande e analizzando i testi prodotti dalle trascrizioni delle risposte, i ricercatori hanno individuato i principali pregiudizi e le difficoltà riscontrate.

Per quanto riguarda le frasi pregiudizievoli, esse erano rivolte in particolar modo alle differenze con le famiglie più normative (‘Chi si occupa delle faccende da uomo o da donna?’ ‘Se non sei la madre/il padre biologico non sei un vero genitore’) provenienti soprattutto dagli ambienti ecclesiastici e scolastici. Prendendo in considerazione le difficoltà di essere genitori omosessuali, le due aree maggiormente evidenziate erano la difficoltà della mancata accettazione da parte della famiglia di origine e l’impossibilità di essere riconosciuti legalmente come una famiglia (in quanto uno dei due genitori non può essere considerato tale).

Per il rapporto con i figli, ovvero spiegar loro la natura del rapporto genitoriale e come sono venuti al mondo, la maggior parte dei genitori usava libri illustrati o storie personalizzate per bambini dove i protagonisti erano anch’essi facenti parte di una famiglia con genitori dello stesso sesso (Iudici et al., 2020).

I genitori intervistati, hanno più volte interagito con famiglie ‘tradizionali’ scettiche, con maestri e professori poco preparati ad avere nelle loro classi bambini con genitori omosessuali e, talvolta, anche con datori di lavoro giudicanti. Molti di loro hanno riportato che il miglior modo di combattere questi pregiudizi è essere aperti al dialogo e sforzarsi di spostare l’attenzione delle persone, più che sull’orientamento sessuale, sulle capacità genitoriali degli adulti di famiglia.

In conclusione, il nostro paese è ancora ben lontano dal considerare le coppie di genitori omosessuali tanto famiglia quanto quelle con genitori eterosessuali. Tuttavia, gli autori sottolineano come, tramite il dialogo e la progressiva confutazione di pregiudizi e luoghi comuni riguardanti l’omogenitorialità, si possa procedere verso una più moderna e aperta visione della famiglia (Iudici et al., 2020).

 

Care colleghe e colleghi, care allieve e allievi

Questa è una bizzarra newsletter che vi scrivo chiusa in casa. L’impensabile solo due mesi fa è arrivato e occorre affrontarlo con rigore e serietà.  Mi sembra che la società e le persone stiano reagendo nel modo giusto (passeggio sola la sera con i cani e non si vedono più persone intorno a parte i ragazzi di Deliveroo in bicicletta con le lucine che viaggiano solitarie nelle strade, gli unici testimoni di una città deserta).

Noi stiamo facendo sforzi tremendi per trasportare la maggior parte delle lezioni a distanza. Questo ha comportato un grande lavoro del coordinamento, della organizzazione e delle segreterie delle scuole, dell’informatico consulente, ma anche di tutti, didatti e codidatti che si sono visti catapultare in un mondo zoom non del tutto naturale da affrontare. Per alcuni, i più informatizzati, il salto è stato impegnativo ma piccolo, per altri è stato un salto grande e ignoto, e di questo con grande gratitudine e affetto li ringrazio.

E voi state affrontando questa modalità di fare lezione con coraggio e fiducia, i giudizi della lezione sperimentale di Giovanni Maria Ruggiero sono stati rassicuranti. Anche questo è motivo per me di gratitudine e stima verso tutti voi.

Alcune lezioni che non possiamo fare in questa modalità a distanza verranno certamente recuperate tra la prima metà di luglio e la prima metà settembre. Quando il mondo sarà andato avanti e avremo, spero, lasciato il coronavirus indietro.

Il futuro, come sempre quando incontriamo grandi intoppi, sarà un po’ diverso, avremo, alcuni di voi, affrontato nella famiglia timori o malattia, avremo imparato cose nuove, sperimentato programmi nuovi e modi di comunicare imprevedibili, certamente ci saremo arricchiti di informazioni, tenuta emotiva nelle nostre case, fiducia in noi stessi e capacità di affrontare l’ignoto. Esperienze nuove e timori affrontati con coraggio.

Ma soprattutto ci verranno nuove idee sul futuro perché un presente difficile, per mia esperienza, porta sempre nuove idee e nuove sperimentazioni per il futuro.

Vi saluto e vi auguro il primo di una breve ma intensa quantità di weekend con lezioni a distanza, ma non distanti dal progetto formativo che si sta costruendo insieme.

Un saluto a tutti

Sandra Sassaroli

Direttore di Studi Cogniivi

Il corpo in psicologia: riflessioni sull’unità corpo-mente-relazione

Il corpo oggi è al centro della scena del mondo che abitiamo costituendo la base materiale e sociale della nostra esistenza, in quanto luogo dove emerge la nostra soggettività e dove si vanno tessendo le trame della nostra esperienza.

 

Paradossalmente più l’attuale realtà ci offre mezzi per ‘dissociarci’ in qualche modo dal nostro corpo, vedi le dinamiche relative alla vita in rete, specie quella dei social network, più si producono discorsi sull’importanza dello stesso e della comunicazione face to face o, meglio, ‘corpo a corpo’. I social network sono un attuale mezzo di comunicazione che certo offre molti vantaggi, ma tra gli svantaggi che presenta vi è la perdita della relazione e comunicazione ‘vis  vis’.

Questa riflessione è protesa alla caratterizzazione dei significati del corpo, inteso come oggetto complesso ed eterogeneo che articola diversi regimi di senso. Mi riferirò al corpo vivo, organico e attivo per mezzo dell’azione e del movimento: un corpo che agisce, pensa e sente entrando in relazione con altri corpi. Un corpo quindi in perenne trasformazione, per mezzo della relazione con l’ambiente, fisico e sociale. Il mio sguardo sul corpo farà rifermento a tale entità concepita come generatore, interprete e mezzo attraverso cui circola il significato dell’esperienza, la quale, come è ormai risaputo, non sempre è traducibile in termini verbali. Infatti buona parte del ‘saper fare’ si configura come una sorta di conoscenza implicita, un saper fare del corpo che difficilmente si può tradurre verbalmente. Allo stesso modo il resoconto verbale dell’esperienza necessita del non verbale, quindi corporeo, affinché se ne comprenda il senso reale. E’ assodato infatti che la comunicazione non verbale costituisca la sostanza dell’atto comunicativo. Ma per analizzare i significati del corpo bisogna fare i conti con la sua particolare condizione di ‘terra di confine’, che divide e congiunge il mondo interno dal mondo esterno. Questa dimensione del corpo non si riferisce soltanto all’entità corporea in senso stretto in quanto ‘limen’ (in Fisiologia, Psicologia e Psicofisica indica una soglia di risposta entro cui uno stimolo è percettibile; in questo caso è inteso come ‘linea di confine’), ma sopratutto all’ambivalenza, che necessita di una visione dialettica, tra gli stessi significati cui il corpo rimanda. Per spiegare quest’ultimo concetto, mi rifaccio all’Unheimlich Freudiano (1919). Nel saggio Il Perturbante infatti Freud (1919) utilizza questo termine per descrivere qualcosa che ci riguarda da vicino ma che al contempo turba, negandosi ad ogni possibilità di essere definito e compreso. Da una parte, Heim si riferisce a qualcosa di familiare, intimo e confortevole, dall’altra però indica qualcosa di inatteso e nascosto (Freud, 1919). La cosa interessante è che la seconda accezione di Heimlich combacia con il significato del suo negativo, cioè dell’Unheimlich. Heimlich è quindi un termine tanto ambivalente che finisce col coincidere col suo contrario: Unheimlich, con il quale si intende il vissuto di inquietudine dovuta all’incontro con ciò che è estraneo, che diventa turbamento ed angoscia in quanto appartiene al contempo alla sfera intima.

A partire da quest’ultima analisi dunque Freud (1919) osservava che perturbante appariva ciò che costituiva un ritorno del rimosso, e cioè di qualcosa di dimenticato che riaffiora, e dunque di un inconsueto che riappare dopo la cancellazione di qualcosa che era noto, che aveva turbato nell’infanzia. Coerentemente coi suoi principi teorici, Freud (1919) faceva risalire il rimosso individuale a timori riguardanti la sfera sessuale e in particolare il timore dell’evirazione, e non a caso citava come eventi perturbanti situazioni come membra staccate dal corpo, teste mozze o piedi che danzano da soli. E’ interessante notare come Freud (1919) concepisca questo termine e a cosa lo accosti. Tuttavia vedremo in seguito che in realtà lo stesso Unheimlich freudiano viene utilizzato in questo lavoro come espressione di manifestazioni inconsce, ma appartenenti all’Inconscio non rimosso.

Trovo questo concetto calzante in riferimento al corpo ed alla sua natura complessa che lo vede in stretta interdipendenza con la psiche. E’ interessante notare come concependo il corpo a partire da questa visione, si sgretolino in principio i presupposti di una logica dicotomica riduzionista e meccanicista nel tentativo di comprenderlo. Esplorare i significati del corpo infatti esige un pensiero complesso e dinamico. Entrando nel vivo di questa complessità possiamo notare come il corpo non possa essere concepito né in senso assoluto quale ‘cosa naturale’ né solamente come costruito ed investito di senso in relazione al contesto in cui è inserito. Certamente, come premesso, sarà fondamentale in questa riflessione l’aspetto relazionale, che credo funga da link tra una visione più ‘ontologizzante’ del corpo e una costruttivista. Ontologia vuol dire scienza dell’ente, scienza dell’esistente; il termine deriva dal greco οντος, òntos e da λόγος, lògos (discorso), quindi letteralmente significa ‘discorso sull’essere’.

Ontologizzare il corpo vuol dire affermare che esso esiste in modo oggettivo, cioè indipendentemente dal fatto che qualcuno ne costruisca il significato a partire da uno specifico sguardo o per mezzo dell’esperienza nel mondo; quindi il rischio di tale approccio è proprio quello di cercare di definire il corpo in quanto unità avulsa dal contesto e dalle relazioni che intrattiene necessariamente con gli altri corpi. D’altro canto avere una visione strettamente costruttivista, potrebbe indurci a dimenticare che esso è anche materia, dunque che è massa, che occupa uno spazio, ha un tempo, e delle caratteristiche specifiche che sarebbe surreale non considerare per certi aspetti oggettive.

Con visione costruttivista si fa riferimento a una posizione filosofica e epistemologica che considera la nostra rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo. Foucault è uno dei maggiori esponenti della visione costruttivista del corpo; Le opere dove questo tema assume maggiore centralità sono: Naissance de la Clinique (1963), Surveiller et punir (1975) e Histoire de la sexualité (1976).

Il corpo è senza dubbio generatore di senso, ma non bisogna mai dimenticare che possiede una certa fisicità, che ne determina la materia. Come premesso è attraverso uno sguardo relazionale che queste due visioni si incontrano senza scontrarsi, contribuendo ad una comprensione che rende giustizia alla complessa realtà che ci accingiamo a spiegare. Ed è partendo da tale presupposto che il corpo deve essere oggetto di studi psicologici tanto quanto la mente. L’individuo deve essere concepito come Unicum, cioè unità indissolubile mente-corpo-relazione, che peraltro sono in rapporto di interdipendenza.

La gravidanza è l’esempio più immediato e vivido di questo importante concetto: il corpo della donna diventa contenitore di un altro corpo (contenuto), che può crescere e svilupparsi solo per mezzo di una relazione psicobiologica. Certo la gravidanza è l’esempio più vivido dell’unicum corpo-mente-relazione, ma la stretta interdipendenza tra questi tre elementi resta indiscussa per tutto l’arco della vita. Sulla scia di questa immagine e sulla base della consapevolezza che la psiche nasce dal corpo per mezzo di una relazione primaria sana e funzionale a dar senso all’esperienza, è possibile affermare che il corpo sia il luogo dove si sovrappongono le determinanti biologiche, psicologiche e relazionali dell’individuo. Tali determinanti nella loro costante interazione partecipano alla strutturazione della soggettività. Il corpo non cela nulla, ci permette di esprimere l’inesprimibile e dice di noi ciò che vorremmo nascondere. Attraverso un rossore improvviso, lo stress, i sintomi che produce come campanello di allarme e tanti altri segnali, ci costringe a comunicare, ricordandoci che ‘Non si può non comunicare’ – I Assioma della comunicazione (Watzlawick et al., 1972).

Il corpo pertanto si configura così come veicolo principe della comunicazione. Corpo dunque non solo come laboratorio di significati, ma anche come conduttore degli stessi al di là del verbale. In definitiva corpo, come afferma Marsciani (2008), quale ‘luogo delle trasformazioni’.

Questo l’aspetto più teorico di un corpo che concretamente vive e attua le sue funzioni attraverso un corrispettivo neurobiologico dato dall’ormai assodata scoperta che il Sistema Nervoso, il Sistema Endocrino e il Sistema Immunitario siano in rapporto di stretta interdipendenza e in perenne comunicazione. La regia di questa comunicazione è condotta dalle emozioni, presenti e agenti tanto nella mente quanto nel corpo appunto. Alla luce di ciò, considerando che dal cervello dipendono tutte le operazioni mentali, normali e patologiche (Kandel, 2006), pochi restano i dubbi sull’unità bio-psichica dell’individuo, e sulla sua matrice squisitamente relazionale dello stesso.

Per questo motivo non possiamo indagare il corpo a prescindere da noi stessi, perché lo abitiamo e, al tempo stesso, abitano in lui moti fisici di sangue, ossa, organi, che non si esauriscono nella loro descrizione fisiologica ma che creano rimandi e intrecci con la nostra esperienza emozionale e psichica. Quindi la vera differenza non è, come aveva detto Platone, tra anima e corpo, ma, come aveva sostenuto Husserl (1931), tra corpo vivente impegnato in un mondo ed il cadavere ridotto a cosa del mondo (Nannini, 2005).

 

Piccole donne: ritratto della condizione femminile e delle sue sfide sempre attuali nella società odierna

Piccole donne è il nuovo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato per la prima volta nel 1868.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Diretto da Greta Gerwig, narra la storia delle sorelle March sullo sfondo della Guerra Civile Americana. Protagoniste sono Meg (Emma Watson), Jo (Saoirse Ronan), Amy (Florence Pugh) e Beth (Eliza Scanlen) alle prese con il passaggio tra adolescenza e vita adulta, con i relativi compromessi che quest’ultima impone (Fig. 1).

A differenza del romanzo, il film parte dalla vita adulta delle sorelle March, sviluppando la storia delle sorelle bambine con continui flashback.

Piccole donne 2019 Recensione e riflessioni sulla condizione femminile Fig 1

Fig. 1: Le sorelle March, protagoniste di Piccole donne

Se la guerra ha sottratto alle sorelle March la precedente agiatezza e la presenza della figura paterna, chiamata sul fronte, essa non scalfisce le loro passioni e il loro temperamento. Linfa che ognuna di loro quattro alimenta con propensioni e convinzioni diverse, ma sempre in condivisione. Meg è infatti appassionata di recitazione e coltiva la sua passione nella soffitta di casa inscenando con le altre divertenti atti teatrali; ella incarna il modello più consono alla visione femminile del tempo, sognando il matrimonio e la famiglia come realizzazione massima e primaria. Jo è la più ribelle e anticonformista, ostinata nel voler far valere il suo talento, la scrittura, in un mondo e tempo che è ancora molto lontano dall’aprire le porte ad una autrice donna. Amy, la più vanitosa di tutte, ama dipingere ed è segretamente innamorata di Laurie, che però non ha occhi che per Jo; e allora si impegna nella ricerca del rampollo più promettente da sposare e che possa salvare lei e la sua famiglia dalla povertà, come suggerisce Zia March (Meryl Streep). E infine la dolce Beth, una talentuosa pianista che non fa in tempo a veder sbocciare la sua passione perché stroncata dalla scarlattina.

La portata rivoluzionaria di questa narrazione sta nell’essere sempre attuale e vivida nelle sue dinamiche relazionali e sociali. È possibile rivivere quelle dinamiche tipiche dei rapporti famigliari, ma anche i dogmi che la società, seppur in maniera attenuata rispetto al passato, ancora impone alle donne. Ci sono i naturali vissuti di gelosia, competizione e frustrazione che si instaurano tra fratelli e sorelle. Come accade tra Jo e Amy: Amy che per tutta la sua adolescenza si sente seconda, all’ombra della tenace e predominante Jo, tanto in amore quanto in talento. Vi è il profondo dolore di vivere il lutto della sorella minore Beth, a causa della malattia. E il dover affrontare ogni difficoltà senza la presenza del padre, con una madre impegnata a provvedere al sostentamento di tutta la famiglia. Ma vi è anche il tema del matrimonio, che suona quasi come un destino scritto e immutabile per una donna; l’unica opzione possibile per garantirsi la sopravvivenza, l’unica accezione di realizzazione personale prospettata. Allora meglio trovarsi il più benestante dei consorti, perché non c’è altra via per sopravvivere che non sia sposarsi; a meno che non si sia ricchi, come la zia March che ha infatti potuto scegliere di non farlo. Colei che più contesta questa visione ingiusta e patriarcale è Jo, che si scaglia contro tutto e tutti pur di rovesciare questo dogma: implora la sorella maggiore Meg di non sposarsi, di non demordere e continuare a investire nella sua passione, la recitazione; rifiuta l’amore incondizionato di Laurie perché è stufa di affidare il suo destino all’amore di default, essendo per lei fondamentale essere prima realizzata come donna e come scrittrice, e solo dopo come moglie. Questo non implica, tuttavia, che la sua caparbia ostinazione non le causi sofferenza. Significativa ed intensa è la scena sul finale in cui Jo confessa alla madre tutta la sua rabbia ma anche il suo strazio:

Le donne hanno una mente e un’anima, oltre che un cuore. Hanno ambizioni e talento, oltre alla bellezza, e sono così stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto ciò per cui una donna è adatta. Ma sono così sola.

Si evince in questa ammissione tutta la complessità che le donne, ieri come allora, si trovano a vivere: lo scagliarsi contro i dettami della società che le vuole relegate prioritariamente al ruolo di mogli e madri ma al tempo stesso il costo emotivo e le rinunce che combattere tali visioni comporta. Potrebbe all’inizio sembrare che tutta la narrazione veicoli il messaggio che ‘essere Jo è la via per essere felici’, la versione giusta dell’essere donna, eppure a un certo punto è proprio Jo che rischia di essere la più infelice per aver represso il cuore dietro le sue auto imposizioni.

In realtà Jo March, alterego letterario della scrittrice Alcott a cui si sovrappone anche la regista, ci trasmette, proprio con quella confessione di rabbia e solitudine, un insegnamento fondamentale: non esiste un modello femminile migliore dell’altro, un modo più giusto di essere donna. Ognuna delle sorelle March rappresenta una sfumatura diversa della persona. Ciò che conta è restare fedeli a sé stesse, perseguire le proprie aspirazioni e seguire sì anche il proprio cuore e l’amore. Accettare il matrimonio, ma come scelta libera e non per costrizione sociale o in mancanza d’altro. Tutte le sorelle March arriveranno a sposarsi ma nel modo e per la ragione che riterranno più opportuna. Meg, la maggiore, lo fa perché lo vuole, perché è ciò che sogna da sempre. E pur avendo investito tempo ed energie nella ricerca del compagno migliore, alla fine cede all’amore di un umile istitutore che le ha rubato il cuore. Amy opta per il matrimonio nel momento in cui realizza di non avere molto talento come pittrice e che nonostante gli sforzi esso non la porterà mai da nessuna parte. Si sposa, ma lo fa con il suo grande amore sin dall’infanzia, Laurie. E infine, persino la restia Jo cederà all’idea dell’amore e del matrimonio, ma solo dopo aver fatto valere il suo talento di scrittrice e aver trovato la persona giusta.

Piccole donne è considerato sin dagli albori un vademecum per l’emancipazione personale di donne e scrittrici, tante sono state le autrici che ne hanno rivendicato l’ispirazione, da Margaret Atwood e Simone de Beauvoir fino a giungere ai giorni nostri con Elena Ferrante. Tuttavia è errato e riduttivo considerare questo capolavoro come un romanzo al femminile: si tratta di un classico universale che, come tale, dovrebbe essere indistintamente fruito da tutti, senza distinzione di genere. Ancora una volta la narrativa e il cinema si ergono ad obiettori degli stigmi sociali più perpetrati e sofferti, a promotori ante tempore di fiducia e innovazione, promulgando l’invito a credere e affermare chi si vuole essere e cosa si vuole fare nella propria vita, anche e soprattutto per una donna.

Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni (2018) – Recensione del libro

Essere genitori, si dice non a torto, è il mestiere più difficile al mondo. Nel testo Siamo qui per te le autrici, due psicoterapeute e una pediatra, mettono la propria esperienza in materia al servizio dei lettori per offrire suggerimenti e spunti di riflessione alle mamme e ai papà che desiderano costruire, con i propri figli, un rapporto all’insegna della presenza affettuosa e della sicurezza.

 

La costruzione di una relazione sicura, in cui il bambino si possa sentire protetto e riconosciuto nei suoi bisogni e nella propria singolarissima identità, rappresenta, in effetti, il tema unificante del libro Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni; il costrutto dell’attaccamento viene spiegato, facendo riferimento agli studi e alle ricerche di Bowlby e della Ainsworth, mostrando con esempi concreti come l’attaccamento sicuro si traduca a livello di pensieri, emozioni e comportamenti nel bambino e nei genitori.

I concetti teorici vengono resi fruibili ai non addetti ai lavori in modo da illustrare come sia possibile promuovere il benessere del bambino, favorendone una crescita armonica, attraverso comportamenti genitoriali che trasmettono presenza sollecita cui fa da contraltare la capacità di permettere al bimbo, giorno dopo giorno, di sperimentarsi e di esplorare il mondo, animato dalla convinzione che la mamma e il papà sono lì per sostenerlo quando ne ha bisogno, permettendogli, nello stesso tempo, di fare le sue esperienze fiducioso nelle proprie forze e consapevole delle sue risorse.

Il libro prende in esame non solo i primi mesi e anni di vita del bambino, ma anche il periodo prenatale mostrando come già durante la gravidanza sia possibile gettare le fondamenta di un sano legame di attaccamento.

Vengono analizzate le caratteristiche delle fasi di crescita che il bimbo attraversa, ognuna contraddistinta da specifici compiti evolutivi; ogni capitolo cerca di dare risposte concrete alle domande e ai dubbi più comuni, spaziando da cosa fare quando il bimbo segnala, con il pianto, i suoi bisogni e comunica all’adulto le sue emozioni, a come aiutare il bimbo ad addormentarsi, a imparare a mangiare da solo e così via.

Le autrici offrono suggerimenti utili per sostenere il bimbo nella crescita fino ai quattro anni d’età, offrendo spunti anche per temi attuali come i pro e i contro dell’utilizzo della tecnologia; al di là degli specifici temi presi in esame, l’essenziale risulta essere entrare in relazione con il bambino nel rispetto nella sua indole e dei suoi bisogni, costruendo una relazione serena basata sulla presenza di regole, fondamentali per dare al bambino il senso del confine che è necessario per la sicurezza, come anche sulla protezione.

Ogni capitolo è corredato da schede pratiche che la mamma e il papà possono, se vogliono, compilare insieme per approfondire le tematiche esposte e per promuovere la creazione di un positivo processo di attaccamento con il proprio bambino.

In ultima analisi la relazione che lega i genitori al bambino rappresenta il ‘prototipo’ e un punto di riferimento per le tutte le relazioni future; per questa ragione è tanto più importante e significativo che gli elementi presenti in ogni relazione sana – il bisogno di vicinanza e, al tempo stesso, il rispetto dei propri spazi, la libertà e l’indipendenza- si giochino in modo equilibrato proprio nei legami familiari, che rappresentano, per il bambino, un modello, una palestra delle relazioni e un apprendistato sociale’.

 

Ma quanto manca ancora? Un feedback circa il progresso in un compito cognitivo sembra migliorare la performance

È stato riscontrato come la consapevolezza dell’avvicinarsi del termine di un compito faccia sì che gli sforzi messi in atto per concluderlo vengano aumentati (Bonezzi et al., 2011).

 

Tale fenomeno, che prende il nome di goal gradient (Hull, 1932), viene attribuito all’aumentare della motivazione in prossimità della fine di un compito: ogni “unità di fatica” impiegata dall’individuo contribuirebbe visibilmente ad accorciare il gap verso l’obiettivo, venendo percepito come più efficiente (Cryder et al., 2013). Nel contesto della Prospect Theory (Kahneman & Tversky, 1979), Heath e colleghi (1999) sottolineano come, in prossimità del raggiungimento di un obiettivo, i soggetti risultino essere più sensibili ai progressi in quanto eliminerebbero il valore negativo risultante dal non aver ancora portato a termine il compito. O ancora, l’approcciarsi della fine di un task potrebbe ridurre l’opportunity cost, ovvero il costo della scelta di dedicarsi a quella specifica attività rispetto ad una alternativa, potenzialmente più piacevole (Emanuel et al., 2020), proprio perché detta alternativa risulterebbe più vicina nel tempo, aumentando la motivazione verso l’ultimo sforzo richiesto per portare a termine il compito.

Se quindi innumerevoli variabili, una fra tutte la distanza dalla fine del task, influenzano la disposizione dell’individuo nell’affrontarlo, è lecito immaginare che anche la performance rifletta tali variazioni: generalmente i compiti cognitivi sono contraddistinti da una curva di apprendimento, caratterizzata dall’apice di tale curva, detta asintoto, che rappresenterà nominalmente l’abilità massima dell’individuo in quel compito e la velocità con cui tale asintoto viene raggiunto, che riflette la velocità di apprendimento nel compito stesso.

Alla luce di queste premesse, Katzir e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca per determinare come gli effetti dell’introduzione di un punto di riferimento saliente (fine del compito) e la conseguente allocazione di maggiori risorse nel completamento del compito stesso, impattassero sulla performance degli individui in compiti cognitivi complessi: un asintoto maggiore nella condizione in cui venisse rimarcata la porzione di compito rimanente, rispetto alla condizione in cui questo riferimento non veniva introdotto, avrebbe messo in dubbio la nozione che tale risultato rifletta la massima abilità dell’individuo in quel compito, suggerendo invece l’impatto della motivazione sulla performance stessa. Allo stesso modo anche una maggior ripidità nella curva di apprendimento, ovvero un minor tempo impiegato per raggiungere l’asintoto, rifletterebbe il peso della motivazione sulla velocità di apprendimento. Inoltre, gli autori hanno indagato la percezione soggettiva di fatica del soggetto in presenza di un riferimento circa la porzione rimanente di compito: se la fatica percepita dipendesse esclusivamente dai reali sforzi del soggetto, ci si aspetterebbe che l’introduzione del punto di riferimento saliente non alteri tale percezione; al contrario, una diminuzione della fatica percepita in prossimità della fine del compito potrebbe riflettere la diminuzione dell’opportunity cost (Kruzban et al., 2013), supponendo che l’avvicinarsi di un’alternativa più piacevole possa rendere meno gravoso lo sforzo di portare a termine il compito.

Gli autori hanno sottoposto i partecipanti a due esperimenti che differivano solo nel numero di “blocchi” da completare: il primo, composto da 10 blocchi, era suddiviso in 240 trial, mentre il secondo era composto da 12 blocchi. I compiti proposti consistevano in due differenti versioni dello Stroop task e due versioni di un compito di orientamento spaziale. Metà dei partecipanti sono poi stati assegnati alla condizione Feedback, nella quale essi venivano informati ogni 30 trial sul loro progresso nella risoluzione del singolo blocco, oppure il progresso relativo all’intero compito; la seconda metà dei soggetti non riceveva invece alcun tipo di feedback sulla durata del task e sul loro livello di completamento dello stesso. Alla fine di ogni blocco, ai partecipanti era richiesto di ricopiare una combinazione alfanumerica su di un foglio, consentendo loro di distogliere l’attenzione dal computer e garantendo una pausa prima della ripresa del compito, che avveniva solo quando il soggetto stesso avesse premuto un comando sulla tastiera: la lunghezza della pausa è stata registrata come misura della motivazione, prevedendo che pause più brevi riflettessero una maggiore motivazione nel riprendere il compito e giungere alla risoluzione.

L’analisi statistica dei dati ottenuti ha confermato come i soggetti che ricevevano un feedback circa la porzione rimanente di compito (ma non del singolo blocco) avevano performance migliori e ricorrevano a pause più brevi, riportando inoltre una minor fatica percepita rispetto al gruppo di controllo specialmente verso la fase finale dell’esperimento. Ciò supporterebbe l’ipotesi dell’impatto della motivazione verso una rapida risoluzione del compito. Da ultimo, un dispiego di sforzi maggiori verso la fine di un compito a fronte (e nonostante) una maggior fatica riferita, risulta compatibile con l’ipotesi di un minor opportunity cost, ma non con spiegazioni alternative che fanno riferimento all’esaurimento delle energie cognitive, come ad esempio l’Ego Depletion Theory (Baumeister et al., 2007).

Resta da verificarsi la replicabilità dei risultati ottenuti in contesti scolastici o con compiti più stimolanti che risentano meno del calo della motivazione, tuttavia essi suggeriscono in via preliminare come l’inserimento di un feedback semplice ed economico, circa il progresso nello svolgimento di un compito, possa da ultimo risultare in performance migliori, minore percezione di fatica e allo sviluppo di differenti strategie di allocazione delle risorse individuali nella risoluzione di un compito.

 

La disponibilità emotiva e le Emotional Availability Scales

La disponibilità emotiva è un’integrazione tra la teoria dell’attaccamento e il concetto della sensibilità materna. I primi ad usare questo termine furono Mahler, Pine e Bergman nel 1975, per descrivere l’atteggiamento supportivo e presente della madre nella relazione diadica tra madre e figlio.

 

Una relazione sana, infatti, permette al bambino di esplorare l’ambiente circostante e allo stesso tempo di avere quel contatto fisico, che trasmette emozione e affetto. Altri scritti successivi di Edme nel 1980 descrivono la disponibilità emotiva come una presenza supportiva durante l’esplorazione del bambino e come un’accettazione delle espressioni emotive del figlio, sia negative che positive, permettendo così al bambino di potersi esprimere in maniera diversificata anche in base alla situazione (Biringen e Robinson, 1991). Successivamente Sorce e Edme nel 1981 indicano come la disponibilità emotiva si riferisca, oltre che alla presenza fisica, anche alla presenza emotiva, vale a dire un caregiver ricettivo alle segnalazioni del proprio figlio, capace di percepire e comprendere i segnali che provengono dagli altri. La disponibilità emotiva rappresenta, quindi, un barometro della relazione tra il caregiver e il figlio, come hanno definito Edme e Easterbrooks nel 1985 (Biringen, Derscheid, Vligen, Closson e Easterbrooks, 2014).

Questo costrutto, dunque, consiste nella condivisione tra due persone di una sana connessione emotiva e comprende il clima emotivo della relazione. Inoltre considera l’abilità del caregiver di strutturare l’attività del bambino, guidandolo e supportando la sua autonomia. Un grande cambiamento introdotto da Biringen è stato quello di dare importanza anche al bambino, che viene visto come agente attivo nella costruzione del rapporto, in quanto le sue qualità e caratteristiche vanno ad influenzare i comportamenti e le risposte del caregiver (Saunders, Kraus, Barone e Biringen, 2015).

Biringen e Robinson (1991) offrirono una concettualizzazione teorica della disponibilità emotiva e crearono le EAS (Emotional Availability Scale), uno strumento specificatamente usato per comprendere la disponibilità emotiva all’interno di una relazione. Le EAS sono delle griglie osservative che vengono applicate su materiale videoregistrato o durante un’osservazione; devono essere sempre presenti due giudici per assicurare l’affidabilità e la inter-rater reliability dello strumento. Le EAS, inoltre, possono essere utilizzate in seguito ad un training adeguato, che permette di ottenere un patentino per poterle utilizzare. Lo strumento è suddiviso in sei parti, quattro relative al genitore e due relative al bambino. Ognuna di queste parti è caratterizzata da sette indici a cui viene dato un punteggio su scala Likert; i primi due indici di ogni sottoscala vanno da 1 ad un massimo di 7, in cui il punteggio da 1 a 3 indica necessità d’intervento, 4 rappresenta un livello critico, mentre i restanti valori costituiscono un livello buono o ottimale. I restanti cinque indici di ogni sottoscala vengono valutati con una scala Likert da 1 ad un massimo di 3; in questo caso l’1 indica necessità d’intervento, il 2 indica un livello critico, mentre il 3 un livello buono o ottimale. Il totale di ogni sottoscala è di 29, mentre il totale generale dello strumento è di 174. Le sottoscale sono le seguenti (Villotti, Bentenuto e Venuti, 2014):

  • Sensibilità: la dimensione della sensitiviy corrisponde essenzialmente alla capacità del genitore di comprendere e rispondere in maniera adeguata ai segnali del bambino (Villotti et al., 2014). È opportuno sottolineare come la sensibilità risulti un concetto diadico, in quanto il genitore sensibile lo è anche grazie al bambino responsivo e coinvolto. Un caregiver sensibile sarà in grado di creare un clima positivo, genuino e soprattutto affettuoso, in cui segnali verbali e non verbali risultano congruenti tra di loro (Birigen et al, 2014). Questa scala considera anche la capacità di essere flessibile nel modo di porsi al bambino, in termini di comportamento e di attenzione. Un genitore flessibile è in grado di svolgere più attività rimanendo comunque responsivo nei confronti del figlio (Villotti et al., 2014). Dunque, questa prima scala valuta la capacità del caregiver di sintonizzarsi emotivamente con l’infante, di comprendere e rispondere ai suoi bisogni, di essere flessibile nel modo di porsi al bambino e di vedere in lui una persona distinta e indipendente.
  • Strutturazione: la scala dello structuring indica la capacità del genitore di offrire supporto, sostegno e stimoli nell’esplorazione e nelle attività del bambino, pur rispettandone l’autonomia e le sue indicazioni. Nella strutturazione il genitore fornisce, dunque, le giuste indicazioni per aiutare il bambino nello svolgimento delle sue attività, vengono forniti limiti e regole, viene seguita l’autonomia del bambino, in modo tale da facilitare la sua crescita e il suo sviluppo, fornendogli quei limiti interni e quegli standard necessari per la sua futura autonomia e capacità decisionale. Il genitore crea una cornice in cui il bambino ha la possibilità di crescere e svilupparsi (Birigen et al., 2014).
  • Non-intrusività: la dimensione della non-intrusiveness è legata alla capacità del caregiver di essere disponibile senza invadere l’autonomia del bambino. Le intrusioni rappresentano tutti quei comportamenti che, in un modo o nell’altro, limitano l’autonomia del bambino, sia durante l’esplorazione che durante le attività di gioco. I comportamenti intrusivi sono sia quei comportamenti in cui il caregiver interferisce troppo e va contro l’attività del bambino, ma anche quelli in cui il genitore è fin troppo presente e aiuta eccessivamente il bambino in attività che egli sarebbe in grado di fare da solo (Villotti et al., 2014). Mentre la strutturazione è legata alla guida, all’insegnamento e all’empowerment del bambino, la non-intrusività è collegata alle interferenze vere e proprie (Birigen et al., 2014).
  • Non-ostilità: la scala della non-hostility, coperta o aperta, indica la capacità di porsi al bambino con modalità affettuose, calde, piacevoli e sensibili. Sta ad indicare tutti quei comportamenti e modi di parlare al bambino che non risultino lesivi, antagonistici, impazienti ed aggressivi. L’ostilità coperta si trova, ad esempio, negli scherzi o nelle prese in giro, ma anche nei silenzi e nel tono di voce irritato e aggressivo (Villotti et al., 2014); segni subdoli di noia, rabbia, aggressività e impazienza vengono comunque percepiti dal bambino. L’ostilità più diretta è quando il genitore risulta apertamente ostile, aggressivo, impaziente e rabbioso, sia con le parole (insultano o urlando, ad esempio) che con i gesti (diventando fisicamente aggressivo) (Birigen et al., 2014).
  • Responsività: questa scala indica la capacità, il desiderio e la propensione emotiva del bambino ad interagire con il proprio caregiver, in seguito ad un invito esplicito da parte del genitore. Inoltre è legata al livello affettivo generale del bambino ma anche alla sua capacità di esplorare l’ambiente, considerando ovviamente età e contesto (Villotti et al., 2014).
  • Coinvolgimento dell’adulto: l’ultima dimensione che ritroviamo è quella dell’involvement, che riguarda la capacità del bambino di coinvolgere e ricercare il genitore nel gioco e nell’attività. Anche in questo caso le iniziative del piccolo devono essere in linea con la sua necessità di autonomia, da un lato, e di supporto, dall’altro (Villotti et al., 2014). I bambini coinvolgono, ovviamente, gli adulti in maniera differente in base all’età; solitamente il coinvolgimento si ottiene attraverso sguardi, domande, il portare i giochi per mostrarli al genitore e richieste esplicite al caregiver di giocare con lui e così via (Birigen et al, 2014).

Le EAS sono state validate da diverse ricerche, che hanno dimostrato come la disponibilità emotiva possa essere usata come un parametro globale per valutare la qualità generale della relazione affettiva tra il genitore e il figlio (Villotti et al., 2014).

 

“Ah, ma è Lercio!” – Un esempio di news organization

A sentire le parole di giornalisti, massmediologi, esperti a vario titolo e accademici non sembra esserci alcun dubbio: viviamo nell’epoca della “post-verità”, caratterizzata cioè da “verità alternative”, fake news, che scheggiano le identità sociali in frammenti.

 

Nel tentativo degli esseri umani di adattare in maniera camaleontica (Mantovani, 1995) le schegge identitarie alle diverse verità, si nota come i Mass Media diventino opportuità per gli internauti per evolversi da semplici fruitori di contenuti multimediali ad attivi creatori. Non esenti, da queste creazioni, le notizie (news).

Che ci si ponga tra gli Apocalittici o gli Integrati (Eco, 1984), non si può evitare il fenomeno virale della creazione di “bufale”, o meglio conosciute come “fake news”. Le fake news sono notizie intenzionalmente false che servono per disorientare i lettori. E quindi, chi crea queste false notizie? Perché lo fa? Qual è il target di popolazione o di internauti più colpiti da questo fenomeno?

Rispondendo alla prima domanda “chi crea le fake news?”, bisogna sapere che ci sono tante e reali agenzie che producono notizie false. Queste “industrie” di bufale, solitamente, hanno nomi che richiamano le reali agenzie di diffusione di notizie, al fine di confondere maggiormente i fruitori di informazioni.

La società dell’informazione ha prodotto interi segmenti industriali dediti alla rappresentazione del mondo, tali da trasformare questa normale costruzione della realtà in fabbrica automatizzata, da deformazione inconsapevole alla sua riproduzione automatizzata, dando origine all’Iperrealtà, appunto. (Binotto, 2017, 14)

Ma è anche vero che dietro le fake news possono celarsi persone normali, in quanto, con la diffusione dei social network, la creazione di contenuti non richiede più specifiche competenze, bensì qualsiasi utente può generare contenuti multimediali relativamente controllati.

Questi strumenti di creazione di contenuti multimediali, in cui rientrano le fake news, sono definiti User Generated Content (UGC). Grazie a questi strumenti, ad esempio, sono emerse nuove figure che diffondono notizie, come i giornalisti amatoriali, i quali nel riportare una notizia, non sono sottoposti al controllo della veridicità di ciò che divulgano. Per questo motivo è facile cadere nelle trappole delle fake news (Rubin, Conroy, & Chen, 2015).

Ma chi sono le persone più colpite? Bisogna considerare che ogni utente è persuaso in maniera diversa in base a variabili individuali, primo fra tutti il livello educativo, poi l’età, il genere, ma anche la fiducia. Il legame di fiducia nell’era della post-verità è molto complesso da instaurare perché è presente un generale clima di diffidenza, che presenta una risonanza nelle comunicazioni mediate. A questo legame, però, si oppongono fenomeni individuali, come la disinformazione, perché le persone che si informano meno tenderanno a credere vere le notizie potenzialmente false. Un altro fenomeno fondamentale che spinge a cadere nelle trappole delle fake news è quello delle camere dell’eco (eco-chamber), dei veri e propri spazi virtuali che raccolgono persone che hanno le stesse opinioni. Avere conferme da altre persone circa il proprio pensiero aumenta la convinzione che quelle credenze siano vere.

La difficoltà nel riconoscimento di false notizie dipende dal fatto che, soprattutto nelle news in forma scritta, mancano indici di comunicazione non verbale, per questo le persone si focalizzano non sul contenuto, ma su come la notizia è presentata (Allcott & Gentzkow, 2017). Non si tratta di un fenomeno recente, anzi hanno una storia molto lunga: infatti è possibile trovare delle prime forme di fake news negli errori non intenzionali, ovvero delle notizie riportate in maniera non corretta; nei pettegolezzi, che però non hanno origine da una notizia di giornale; nelle teorie complottiste, che, per definizione, sono difficili da distinguere come vere o false e sono sostenute da chi crede realmente in esse, ad esempio, nell’affermare l’esistenza di altre forme di vita sui pianeti; nelle false dichiarazioni dei politici; nella satira non riconosciuta come tale (Hyman & Sheatsley, 1947).

Un esempio è LERCIO: in molti tenderebbero a prendere per veritiere le loro notizie, non conoscendo l’obiettivo. Lercio è un sito satirico italiano di fake news con taglio volutamente ironico, creato su modello di articoli tipici della stampa sensazionalistica. La stampa sensazionalistica, infatti, mira a creare l’evento di cui tratta il testo di notizia dividendo i fruitori in due gruppi: chi giustifica quel testo oppure chi lo rifiuta e contesta (Mininni, 2004). In più, LERCIO, praticando la parodia del giornalismo tradizionale, si inserisce nel filone internazionale della cosiddetta News satire (Incollu, 2014). Il sito, ideato da Michele Incollu come parodia della free press Leggo, dal quale riprende il font del logo, pubblica la sua prima notizia il 28 ottobre 2012 (Incollu, 2017; 2018). L’attrattività, però, non dipende solo dalla soggettività dei fruitori della notizia, ma anche dal modo in cui la notizia, seppure falsa, viene presentata. Le fake news di LERCIO si presentano con titoli altisonanti, con URL simili a quelle delle fonti attendibili, l’impaginazione è approssimativa, le immagini ritoccate o replicate, il tono ironico o satirico nel caso in cui l’obiettivo è quello di denunciare.

In questo panorama, perciò, Lercio diventa un esempio tutto italiano di news organization che nella “trasformazione di un fatto in notizia opera riducendone la complessità” (Sorrentino, 1995, p. 5) attraverso l’ironia.

 

Il giardino delle vergini suicide: un esempio di suicidio in adolescenza

Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999), tratto dall’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides ripercorre la catena di suicidi delle sorelle Lisbon, cinque adolescenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni, costrette a restare in casa per volontà della madre iperprotettiva.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Di fronte a questa desolante esistenza si intravede un padre periferico, laconico, che asseconda la moglie senza discutere, in evidente difficoltà e confusione. Il film inizia con il tentativo di suicidio di Cecilia che, una volta rinsavita, manda chiari segnali del suo disagio, quello di una ragazza di 13 anni intrappolata in una realtà familiare glaciale, senza possibilità di approfondire altri legami. Di fronte a questo evento tragico subentra lo psicologo che suggerisce con pacata franchezza di permettere alla figlia di avvicinarsi ai coetanei, ma i genitori non consentono uscite, solo feste in casa e in loro presenza, così Cecilia muore davanti ai loro occhi.

Nella famiglia Lisbon non c’è spazio per elaborare un lutto significativo: le emozioni, i ricordi, il confronto sul motivo che ha condotto la giovane al gesto sono abilmente accantonati e presto la vita prosegue come se la figlia deceduta non fosse mai esistita, come se il problema non si estendesse alla famiglia. Con il passare del tempo i genitori provano ad esaudire il desiderio di libertà delle figlie, ma la trasgressione peggiora la situazione e le imposizioni invece di allentarsi si rafforzano fino a soffocare ogni possibilità di espressione di sé, di sperimentazione nel rapporto con i coetanei. Nessuna combatte contro la madre, solo Lux trasgredisce di nascosto, ma scivola nell’autodistruzione, affamata di fugaci avventure; dopo aver giocato a sedurre Trip con l’incoerenza, si lascia andare per poi ritrovarsi a fare i conti con la prima delusione, l’abbandono inaspettato senza il sostegno della famiglia che la punisce e la isola. Anche qui non c’è spazio per dare un nome al dolore mascherato dalla finta allegria, i sorrisi, arrovellandosi successivamente nella constatazione di essere sola, di non poter contare su nessuno, nemmeno su di sé.

La reciprocità manca anche tra le sorelle, resta solo una macabra complicità nell’organizzazione del grottesco suicidio di massa che lascia una confusione dilagante. Nessuno riesce a ricostruire le ragioni di un gesto simile, ma i segnali del disagio, come l’isolamento nel contesto scolastico, il silenzio, la rigida disciplina materna e la passività del padre e soprattutto il sottovalutato suicidio della sorella erano presenti. Entrambi i genitori fanno un tentativo per agevolarle, ma restano inconsapevoli dei propri limiti, non possiedono le risorse adeguate per riconoscere e capire i bisogni delle ragazze in quanto adolescenti. Immaginando la crescita delle sorelle si deduce una relazione improntata sull’evitamento della rabbia, della tristezza, ad esempio, tale da accantonare i conflitti e risultare figlie eccezionali che non danno problemi, ma che covano un malessere dilagante e sconosciuto a sé. Le protagoniste comprendono al volo di essere il sogno adolescenziale di tutti i ragazzi del liceo, gli angeli biondi che incantano non solo per la bellezza, ma anche per la ritrosia che alimenta l’idealizzazione. Gli ‘amici’ che vogliono aiutarle, che si porteranno con sé il senso di colpa per tutta la vita, che non dimenticheranno mai i lunghi capelli biondi, i pizzi e il sorriso che li hanno stregati, sono gli stessi che di fronte al suicidio di Cecilia sono fuggiti via nel silenzio assordante. Non serve altro per confermare la percezione di solitudine, estraneità e inaiutabilità con cui si affacciano al suicidio.

 

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