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Text Anxiety: come possiamo intervenire? L’analisi della letteratura ci guida nell’implementazione degli interventi

La diffusione della Text Anxiety, ossia l’ansia sperimentata da un individuo in una situazione di tipo valutativo, ha notevoli ricadute sulle prestazioni scolastiche dei giovani.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Nel precedente articolo (Chemello, 2019) si è affrontata la tematica della Text Anxiety, o ansia da test, illustrando le caratteristiche del fenomeno, gli strumenti valutativi attualmente disponibili e le variabili ad esso correlate. Scopo del seguente articolo è approfondire quali siano le modalità d’intervento maggiormente funzionali riportando i risultati di una metanalisi e di una review inerenti le differenti modalità d’intervento sul fenomeno in questione.

L’ansia da test sembra infatti avere una prevalenza tra il 10% e il 40% (Gregor, 2004) ed è ormai confermata la sua significativa ricaduta sulla prestazione scolastica (Rana & Mahmood, 2012). Appare quindi necessario individuare modalità efficaci per prevenire il fenomeno e intervenire sullo stesso.

Al fine di comprendere il razionale degli interventi proposti è opportuno ricordare la definizione di Text Anxiety, ossia

uno stato spiacevole caratterizzato da sensazioni di tensione e apprensione, worry e attivazione del sistema nervoso autonomo, che sopravviene quando l’individuo si trova di fronte a situazione di tipo valutativo. (Spielberger, 1972)

A tal proposito una metanalisi condotta da Ergene (2003) consente ai clinici di conoscere quali caratteristiche dell’intervento risultino maggiormente efficaci. L’autore sostiene come le azioni promosse al fine di ridurre l’ansia nei contesti valutativi si sono evolute nel corso degli anni: inizialmente infatti la maggior parte delle proposte era focalizzata sugli aspetti fisiologici ed emotivi dell’ansia, proponendo interventi volti a ridurre l’attivazione fisiologica attraverso metodologie comportamentali; solo in un secondo momento invece l’attenzione è stata rivolta ad approcci cognitivi ed integrati. Ecco quindi una panoramica delle differenti tipologie d’intervento riscontrate in letteratura:

  • approccio comportamentale: desensibilizzazione sistematica, training di rilassamento, biofeedback, modeling, induzione dell’ansia e training finalizzati alla riduzione della stessa;
  • approcci cognitivi: Terapia Razionale Emotiva Comportamentale e ristrutturazione cognitiva;
  • approcci cognitivo-comportamentali: integrazione delle tecniche precedentemente menzionate e stress-inoculation training;
  • integrazione di elementi cognitivo-comportamentali con training mirati al potenziamento delle competenze inadeguate sia in fase di studio che di valutazione.

Nella metanalisi considerata sono stati inclusi 56 studi pubblicati tra il 1973 e il 1998 che hanno principalmente applicato l’intervento all’interno del contesto universitario. I moderatori inclusi nello studio comprendono: l’approccio dell’intervento, il tipo di tecnica utilizzata, la modalità di erogazione dell’intervento, la durata della terapia, il livello scolastico di appartenenza e l’attuale stato di pubblicazione. Ciascuno studio incluso nella metanalisi è stato codificato secondo le differenti variabili moderatrici da parte di 3 differenti ricercatori in seguito ad uno specifico training.

Per quanto concerne l’approccio scelto nell’intervento è possibile notare un elevato effect-size prodotto sia da parte degli interventi cognitivi o comportamentali associati a specifici skills training sia nell’utilizzo di approcci esclusivamente comportamentali. Altri approcci quali la terapia gestaltica, la meditazione e l’esercizio fisico non hanno invece prodotto un effect size soddisfacente.

L’utilizzo di approcci differenti si traduce in diverse tecniche applicative che presentano differenti livelli d’efficacia. Un elevato effect size è stato riscontrato nell’utilizzo della ristrutturazione cognitiva, negli interventi cognitivi e/o comportamentali combinati a skills training, nei training per la gestione dell’ansia e nella desensibilizzazione sistematica. Una moderata dimensione dell’effetto è stata invece prodotta nel caso di training di rilassamento, nell’ipnoterapia, nella terapia razionale emotiva, nello stress inoculation training e nel caso di interventi focalizzati su altre abilità.

Un’ulteriore variabile di notevole rilevanza nell’implementazione di un intervento è la modalità di svolgimento delle attività, se di gruppo oppure individuale: anche in questo caso l’effect size maggiore è stato prodotto da quegli interventi che combinano attività individuali a quelle di gruppo; un intervento che invece preveda un percorso esclusivamente individuale dimostra un’efficacia limitata.

Per quanto concerne il tempo dedicato all’intervento è emersa una maggior efficacia degli interventi di durata compresa tra i 201 e i 350 minuti; allontanandosi da tale range temporale, sia in eccesso che in difetto, la dimensione dell’effetto diventa sempre più debole.

Infine, sono stati considerati i differenti livelli di istruzione nei quali si sono svolti i training notando come effect size di media intensità siano presenti unicamente a livello universitario. Quest’ultimo risultato va tuttavia interpretato con cautela poiché solo una piccola porzione di studi è stata svolta in livelli d’istruzione inferiori.

Riassumendo, è quindi possibile affermare che tale metanalisi ha offerto un’importantissima ed esauriente panoramica sulle modalità d’intervento maggiormente efficaci, eleggendo le metodologie combinante come quelle maggiormente supportate scientificamente. Appaiono tuttavia significative limitazioni: la prima concerne la limitata rappresentatività dei campioni considerati poiché la maggioranza degli studi presentava soggetti afferenti al mondo universitario, impedendo pertanto di trarre conclusioni rispetto a quali siano gli interventi maggiormente idonei in livelli di istruzione inferiori. In secondo luogo non sono stati considerati studi più recenti che abbiano quindi contemplato l’utilizzo di ulteriori metodologie d’intervento.

Tuttavia una recente review della letteratura (Von der Embse, Barteria & Segool, 2013) ha avuto come obiettivo quello di colmare questa lacuna, identificando e descrivendo i risultati di 10 studi realizzati tra il 2000 e il 2010 che hanno avuto come partecipanti bambini e ragazzi frequentanti le scuole primaria e secondaria. Dagli studi esaminati emerge come l’intervento cognitivo comportamentale sia efficace non solamente nella riduzione dell’ansia legata alla situazione valutativa ma anche nella riduzione di altre sintomatologie ansiose compresenti. Un altro studio ha invece confermato quanto emerso dalla precedente metanalisi, ossia che ad avere una maggiore efficacia sono gli interventi combinati, nel caso specifico quelli che associano tecniche cognitive al rilassamento; sarebbe tuttavia interessante comprendere quali specifiche componenti degli approcci multimetodo determinino il successo del trattamento.

Per quanto concerne l’impiego delle sole tecniche di rilassamento, nella review in esame vengono proposte con buoni risultati all’interno della scuola primaria; lo stesso dicasi per la desensibilizzazione sistematica implementata senza l’affiancamento di ulteriori strumenti.

L’analisi di studi più recenti ha inoltre consentito di introdurre nella “rosa” di tecniche a disposizione dei clinici anche il biofeedback che consente all’individuo di ottenere un feedback on-line relativamente alle proprie reazioni fisiologiche inconsapevoli e di modificarle conseguentemente. Tale metodologia è stata applicata sia in maniera indipendente sia in associazione alla terapia cognitivo-comportamentale dando in entrambi i casi esito positivo.

Ulteriori studi riportati si sono invece focalizzati sull’implementazione dell’intervento con una tipologia di studenti che molto frequentemente sperimenta ansia da valutazione, ossia gli alunni che manifestano eterogenee forme di difficoltà scolastica. In questa circostanza sono sembrate rilevanti attività mirate al potenziamento delle specifiche competenze carenti, le quali hanno contribuito ad una miglior performance e ad una associata riduzione dell’ansia durante il compito stesso.

Dalla letteratura emerge quindi come le tecniche ad oggi disponibili per intervenire sull’ansia legata ai contesti valutativi siano molteplici; tuttavia, solo in sporadici casi essi sono stati applicati a livelli scolastici inferiori, nonostante si rendano auspicabili non soltanto interventi a livello selettivo, ma anche di tipo preventivo andando oltre le difficoltà che spesso si pongono nel contesto scolastico nell’identificazione dei disturbi internalizzanti (Weems et al., 2010). Relativamente alle metodologie applicate, in futuro potrebbe inoltre rivelarsi interessante considerare nuove modalità d’intervento che integrino l’influenza processualista della “terza onda”.

 

La genitorialità incarcerata

La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitori.

 

Il penitenziario deve rispettare i diritti inviolabili dell’uomo, nonostante rimanga una struttura detentiva. Il secondo articolo della nostra Costituzione, infatti, sancisce che ‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Tra questi diritti inviolabili dell’uomo ritroviamo sicuramente il diritto all’affettività e alla sessualità (Della Bella, n.d).

Tra le varie modalità per attuare questi principi, i detenuti hanno a disposizione i colloqui e la possibilità di mantenere una corrispondenza telegrafica ed epistolare, come sancito dagli articoli, rispettivamente, 37 e 38 della legge 230/2000.

Il diritto all’affettività inevitabilmente comporta anche il diritto alla genitorialità: poter mantenere legami con i propri figli rimane un diritto imprescindibile dell’essere umano. In Italia ci sono 27.355 detenuti che hanno uno o più figli e che si vedono costretti a cercare di mantenere il ruolo paterno o materno dal luogo detentivo (Associazione Antigone, 2019).

Quanto detto ci permette di comprendere quanto debba essere difficile essere un genitore in carcere, vedere i propri figli poche volte a mese, in spazi angusti e freddi, che limitano l’interazione e non aiutano la vicinanza emotiva.

Gli spazi del carcere risultano anaffettivi, impermeabili agli affetti e all’emotività, che sembra essere cancellata. La detenzione, però, si pone come obiettivo anche quello della ri-educazione, che non può svilupparsi senza esplorare anche queste parti del sé, legate ai sentimenti e agli affetti (Augelli, 2012).

La genitorialità in carcere si vede spesso privata del diritto all’affettività, in quanto l’istituto penitenziario attua un meccanismo di spoliazione che priva i detenuti, non solo dei loro effetti personali, ma anche dei loro affetti. La distanza dal mondo esterno, la chiusura in un sub-universo carcerario con regole proprie, orari definiti, tempi vuoti, condivisione totale con gli altri internati, portano a una lenta alienazione dell’individuo che lentamente perde anche la propria identità affettiva, necessaria e fondamentale per il reinserimento nella società (Iori, 2014).

Per il figlio, il genitore rappresenta una figura di riferimento e di attaccamento, una fonte di supporto non solo materiale ma anche affettiva. Risulta chiaro come sia estremamente complesso continuare a porsi come una figura di riferimento, anche a causa dello stigma che si va ad imporre sulla figura del detenuto.

Il genitore imprigionato va verso una doppia perdita, una legata alla propria libertà individuale e una legata alla quotidianità del rapporto con il figlio. L’incontro tra i due avviene, come già stato detto, in luoghi lontani dalla familiarità della propria casa, in ambienti che possono spaventare e distanziare piuttosto che riavvicinare (Margara, Pistacchi e Santoni, 2005).

I colloqui, unico momento di riunione familiare, diventano un momento focale per il detenuto, che può cercare di ricucire rapporti bruscamente interrotti e rompere silenzi imposti. Le stanze per i colloqui, in quest’ottica, non favoriscono la riparazione, essendo spazi chiusi, piccoli, sovraffollati, rumorosi e costantemente sorvegliati.

Oltre alla componente fisica delle stanze per i colloqui, bisogna sottolineare un’ulteriore difficoltà che si pone ai genitori: la frammentarietà e discontinuità dei contatti con i propri figli e familiari. Questo porta alla costante interruzione della narrazione che si sviluppa sia tra il genitore e il figlio, sia dentro il sé del detenuto. Le complesse pratiche burocratiche necessarie alle visite e la mancanza di tempi prolungati per gli incontri, fanno sì che si creino lunghi momenti di vuoto e di silenzio. La burocrazia per la richiesta del colloquio, perfettamente inserita nella macchinosità degli istituti penitenziari, spesso rischia di snaturare l’incontro, togliendo qualsiasi forma di naturalezza e spontaneità (Augelli, 2012).

La reclusione porta con sé una grande trasformazione nella percezione del sé che l’individuo ha precedentemente creato. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitore. I genitori detenuti, improvvisamente allontanati dai propri figli, si vedono appesantiti da sentimenti di impotenza, inadeguatezza e senso di colpa (Musi, 2012), derivati anche dall’etichetta sociale loro attribuita, che mina profondamente il sentimento di efficacia e di legittimazione del soggetto. L’incarcerazione altera la natura bidirezionale del rapporto, in quanto viene meno la continuità e la costante e reciproca comunicazione (Cassibba, Lunchinovich, Montatore e Godelli, 2008).

Essendo la popolazione maschile detenuta estremamente superiore a quella femminile, ritroviamo molti più casi di paternità in carcere.

I padri detenuti modificano il proprio ruolo, andando spesso ad assumere una tendenza al dispotismo. Questa funzione autoritaria nei confronti dei figli nasce come una strategia compensatoria rispetto ad una grande fragilità. I padri cercano di avere un maggiore controllo sulla vita dei propri figli per ottenere rispetto e considerazione, e quindi per auto-legittimarsi ad essere padri. Anche la percezione dell’affetto cambia; infatti, l’accondiscendenza e l’obbedienza dei figli diviene sinonimo di affetto e vicinanza, come spiega Bouregba (citato in Cassibba et al, 2008). I padri inoltre tendono ad una forte idealizzazione del rapporto con i propri figli, che viene visto come estremamente positivo, quasi ad annullare il riconoscimento di una dimensione conflittuale e di difficoltà. La forte idealizzazione porta anche a una distorsione dell’immagine del figlio, che non si sente riconosciuto dal proprio padre.

Alla luce di quanto detto si nota come questi rapporti, che dovrebbero essere forti e stabili, siano in realtà fragili e deboli. Non sono soltanto i genitori a doversi confrontare con nuovi sentimenti ma anche i figli vengono appesantiti da sentimenti quali la rabbia, la delusione e la nostalgia (Musi, 2012). L’incarcerazione relega fisicamente l’individuo e lo sottopone ad un distacco emotivo forzato, a pesanti silenzi e a forti nostalgie.

Il carcere, però, non è più un luogo di mero contenimento ma è diventato uno spazio di ri-educazione del reo. In quest’ottica non si può prescindere dall’educazione all’affettività che permette di andare incontro ad un processo di umanizzazione, portando l’individuo a riappropriarsi della propria identità e della propria umanità. L’educazione all’emotività si inserisce nel più ampio progetto del carcere alla ri-educazione (Augelli, 2012). Questa nuova visione della genitorialità in carcere e della finalità degli stessi istituti penitenziari, ha portato il 21 marzo 2014, alla stesura della Carta dei figli dei genitori detenuti, protocollo d’intesa siglato tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e la Onlus Bambinisenzasbarre (Tomaselli, 2014). Questo documento ha ufficializzato i diritti dei figli dei detenuti, che fino a quel momento non erano tutelati formalmente. Questo Protocollo rappresenta un importante cambiamento della percezione del rapporto con i figli; si inizia a dare sempre più importanza al diritto che hanno i figli nella relazione. Inizia ad esserci un tentativo sempre maggiore di umanizzazione delle carceri; infatti, nonostante il Protocollo sia in difesa dei diritti dei bambini, cercando di tutelare i loro diritti, si va anche a rispettare il diritto alla genitorialità in carcere e il diritto agli affetti e all’emotività dei detenuti.

 

Tonya Harding – “I, Tonya” (2017) – La LIBET nelle narrazioni

‘I, Tonya’ è un recente film di Craig Gillespie, vincitore di un premio Oscar, che narra la storia biografica di Tonya Maxine Harding, famosa ex pattinatrice olimpica statunitense.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 8) Tonya Harding

 

Le vicende di vita raccontate ripercorrono un lungo arco temporale, dai 4 ai 44 anni della protagonista, e si basano su interviste fatte ai vari personaggi della pellicola. Data la natura biografica della pellicola è possibile inquadrare la personalità di Tonya in chiave LIBET, estrapolando numerosi elementi che vanno a comporre una concettualizzazione del caso.

Tonya (nome di battesimo: Tonya Maxene Price) nasce nel 1970 a Portland, in Oregon; è la quinta figlia della madre LaVona, ed è nata dal suo quarto matrimonio. Appare subito evidente allo spettatore quanto Tonya sia nata e cresciuta in un contesto socio-economico piuttosto povero e culturalmente poco stimolante; lei stessa afferma di essere nata povera e contadinotta. La situazione non migliora con il passare degli anni, dato che già all’età di 15 anni si trova costretta a ritirarsi da scuola per potere investire ogni risorsa nel pattinaggio artistico su ghiaccio, non assicurandosi dunque un’istruzione appropriata e perdendo la possibilità di coltivare rapporti amicali con i propri coetanei.

Sicuramente nemmeno l’ambiente genitoriale e famigliare è stato in qualche modo protettivo, o almeno parzialmente validante; la madre viene infatti mostrata come una donna fredda, socialmente isolata e totalmente distaccata da un punto di vista emotivo, a tratti crudele (‘un mostro’). In quasi tutte le scene in cui è presente LaVona, questa svaluta la figlia fino ad aggredirla ed abusarla in modo reiterato sin dall’infanzia, sia verbalmente sia fisicamente, dicendole frasi quali ‘sei solo una piccola perdente schifosa’; il suo unico scopo appare quello di rendere Tonya una vincente nel pattinaggio, spronandola attraverso continue critiche e rinfacciandole l’impegno economico di cui si è fatta carico per consentirglielo. Il culmine viene raggiunto quando, a seguito di una delle solite sfuriate fra le due, la madre le lancia un coltello che si conficca nel braccio di Tonya. Il padre, invece, appare come una figura genitoriale più adeguata, sebbene non affettuosa; abbandona però LaVona e Tonya quando quest’ultima è ancora una bambina, e di lui non si fa più alcun cenno durante tutto il film. La protagonista afferma di volergli bene, e che avrebbe preferito andarsene con lui, piuttosto che rimanere da sola con la madre.

Come già accennato, fin dalla prima infanzia Tonya subisce diversi abusi, come lei stessa afferma, in primis dalla madre, e poi durante l’adolescenza dal fratellastro, ‘Chris il viscido’, che la molesta sessualmente; anche a scuola viene considerata diversa, una poveraccia. Il personaggio di Tonya è rappresentato dapprima come una bambina timida e inibita, mentre da adolescente viene dipinta con una personalità fortemente rabbiosa. È a 15 anni, nel pieno dell’adolescenza, che conosce il suo primo fidanzato nonché futuro marito, Jeff. Il loro rapporto, inizialmente tenero ed affettuoso, diviene repentinamente violento; Jeff infatti inizia ad abusare fisicamente di lei, sia durante la loro convivenza sia durante il matrimonio, conclusosi per tale motivo nel 1992, dopo varie separazioni. Tonya sembra accettare da un certo punto di vista le percosse, che riceve da tutta la vita, probabilmente tramite strategie pseudorazionalizzanti o di controllo ottenuto con l’auto-attribuzione di responsabilità, con pensieri quali ‘anche mamma mi picchia e mi vuole bene, quindi forse è colpa mia’.

Leggendo il personaggio in chiave LIBET, sebbene le esperienze traumatiche infantili e adolescenziali subite da Tonya possano far subito supporre una sua sensibilità nell’area della minaccia terrifica, appare maggiormente plausibile che abbia sviluppato una vulnerabilità ascrivibile al tema doloroso del disamore; infatti il bisogno esistenziale che esplicita come per lei fondamentale è quello di essere amata. Tale bisogno è talmente importante da rendere prioritario e necessario il fatto di avere qualcuno vicino a sé, anche se negativo per la sua persona. Anche l’amore della gente spettatrice del pattinaggio è assai rilevante per Tonya, che raggiunge l’apice della felicità quando diviene la prima pattinatrice americana ad eseguire un salto triplo axel durante una competizione ufficiale; ciò l’ha fatta sentire brava, apprezzata in quanto riconosciuta come non solamente degna, ma addirittura la migliore nell’unica cosa che sa fare. Non dimentichiamo che la figura genitoriale di riferimento per Tonya è stata una madre costantemente ed inelegantemente criticista nei suoi confronti; è dunque verosimile che Tonya possa essersi sensibilizzata anche al contatto con uno stato mentale di indegnità. Durante quasi tutta la durata del film traspaiono processi di metacontrollo che sottolineano l’intollerabilità dello stato mentale del sentirsi da sola e non amabile, ad esempio quando torna a casa dal marito nonostante ciò sia assolutamente non tutelante la sua incolumità; inoltre, il fatto di essere brava le permette di ottenere un po’ di quell’amore e apprezzamento di cui necessita.

Oltre alle sopraccitate strategie di pseudorazionalizzazione, che si palesano attraverso un locus of control esternalizzato, e a strategie prescrittive che si concretizzano in auto-colpevolizzazioni (ruminazione autocritica nei momenti in cui riceve percosse), Tonya si protegge dalla minaccia di entrare in contatto con la propria sensibilità assumendo costantemente un atteggiamento rabbioso e aggressivo, con evidenti difficoltà di autoregolazione emotiva; nel corso del film la si vede spesso in collera praticamente con ogni persona con la quale si relaziona, persino con i personaggi accudenti nei suoi confronti, come ad esempio la sua allenatrice. Inoltre, utilizza le sigarette per autoregolarsi nei momenti di stress e tristezza. Quasi tutte queste strategie si configurano, secondo la concettualizzazione LIBET, in un piano semiadattivo di tipo immunizzante. Anche nei momenti di bassa minaccia, infatti, Tonya modifica il proprio stato mentale con una finalità difensiva.

Tale piano immunizzante non riesce a proteggere la protagonista nei momenti in cui rimane (o si sente) sola e non apprezzata, per esempio quando lascia il marito, quando la giuria non le assegna punteggi consoni alla sua prestazione poiché ritiene la sua immagine non adeguata a rappresentare il pattinaggio artistico americano, oppure quando il pubblico perde l’amore che ha per lei a causa dell’aggressione che Jeff architetta nei confronti di un’altra pattinatrice. È in queste occasioni che Tonya viene rappresentata con tono dell’umore depresso, che raggiunge il culmine nel momento in cui viene bandita a vita da ogni competizione della Federazione di pattinaggio degli Stati Uniti; in questa occasione Tonya riconosce di aver perso tutto ciò che la definisce come persona, ovvero la possibilità di esprimere la sua dote nel pattinare: ‘So solo pattinare, non sono niente se non posso…’.

Nel film non viene mai rappresentato un vero e proprio esordio sintomatologico, o un periodo prolungato di sofferenza dovuta ad un disturbo psichiatrico quale la depressione, ma appare evidente come vi siano situazioni che causano a Tonya uno scompenso sul versante depressivo, quando le sue strategie non risultano adattive nel proteggerla dalle proprie sensibilità. Inoltre, il fatto che Tonya abbia un locus of control tipicamente esterno rende difficile per lei sperimentare strategie cognitive e comportamentali alternative e maggiormente adattive; ciò potrebbe essere una delle variabili di mantenimento del disagio.

Una concettualizzazione del caso di Tonya in chiave LIBET, chiaramente approssimativa, realistica ma non necessariamente veridica, consente una lettura ad ampio raggio di tale personaggio. Ciò risulta fondamentale per coglierne il funzionamento e per comprendere la logicità dei comportamenti, delle emozioni e dei pensieri che il film fa trasparire; infine, nell’ottica di un’ipotetica psicoterapia, una concettualizzazione di questo tipo permetterebbe di raccogliere un’infinità di dettagli utili per il percorso terapeutico, concentrati non solamente sulla sintomatologia acuta che ha portato la persona a richiedere un aiuto, ma anche sulle vulnerabilità personologiche premorbose.

 

L’odore del partner migliora la qualità del sonno

Stando ad uno studio pubblicato sulla rivisita Psych Central condotto dalla University of British Columbia (UBC), il profumo del proprio partner migliorerebbe la qualità del sonno.

 

Il sonno è definito come uno stato di riposo contrapposto alla veglia; si tratta di uno stato in cui si verifica una momentanea sospensione di coscienza durante il quale avviene un recupero energetico sia a livello fisico che psichico. Durante il sonno le funzioni neurovegetative rallentano e i recettori sensoriali abbassano la soglia di attivazione; contrariamente a ciò che comunemente si pensa, si tratta di un processo fisiologico attivo, che comporta la costante interazione tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso autonomo; un adeguato sonno è fondamentale per il sostegno della vita (Hobson, 2005).

Il sonno è costituito da alterazioni regolari tra fasi non-REM e REM (Rapid Eyes Movment): le fasi non-REM sono costituite da 4 stadi dove l’ultimo stadio (il quarto) rappresenta lo stato di sonno più profondo, dopo di esso si verifica il passaggio alla fase REM, stadio in cui si denota una alta attivazione cerebrale e una proficua produzione onirica (Hobson, 2005).

L’insonnia è un disturbo della sfera del sonno, caratterizzato dall’incapacità di dormire nonostante se ne percepisca il bisogno fisiologico; si tratta di una condizione debilitante per l’individuo dato che la mancanza di riposo porta ad un distress significativo nella vita della persona, oltre ad incidere negativamente sulle sue capacità cognitive. Infatti possono verificarsi difficoltà di apprendimento, umore irritabile e mancato consolidamento della memoria (Roth & Roehrs, 2003). Si stima che il 10% della popolazione adulta soffra di insonnia (Roth & Roehrs, 2003).

Stando ad uno studio pubblicato sulla rivisita Psych Central condotto dalla University of British Columbia (UBC), il profumo del proprio partner migliorerebbe la qualità del sonno.

Lo studio è stato condotto su 155 soggetti, divisi in due condizioni sperimentali: al gruppo di controllo è stata data una maglietta da indossare durante la notte con un odore neutro, mentre al gruppo sperimentale è stata data una maglietta precedentemente indossata dal proprio partner (Pedersen, 2020).

I soggetti sono stati monitorati durante la notte tramite l’actigrafia, una metodica che permette di monitorare i movimenti durante la notte, mentre la mattina dovevano compilare un questionario self-report che indagava la qualità del sonno di quella stessa notte (Pedersen, 2020).

I risultati mostrano che i partecipanti che hanno dormito con la maglietta avente l’odore del proprio partner, mostravano una qualità del sonno migliore, rilevata da entrambi i metodi di misurazione (questionario e actigrafia); gli effetti osservati, sembrano essere paragonabili agli effetti dati dall’assunzione orale di melatonina, ormone fondamentale per il sonno; attualmente i ricercatori stanno conducendo uno studio sperimentale per comprendere se l’odore dei propri genitori possa aumentare la qualità del sonno della prole (Pedersen, 2020).

Storia della “corona” infame. Isteria collettiva tra ipocondria, psicoanalisi e psicologia delle masse

La psicosi da coronavirus è un fulgido esempio dell’influsso dei fenomeni collettivi sul comportamento individuale e di come l’emotività atavica del singolo può divenire un fenomeno pandemico, e viceversa.

 

Viviamo in un’epoca impregnata di narcisismo e perciò ipocondriaca. Nella visione kohutiana del narcisismo, frustrato o covert, una non ottimale sintonizzazione affettiva con le figure di accudimento, la presenza variabile e non troppo stabile di molte di queste, neglet e, talvolta, frustrazioni vissute come abbandono o paura dal bambino, possono causare una scissione ‘verticale’ della personalità tra la grandiosità apertamente manifesta, volta a mostrare a se stessi e all’altro una visione di sé positiva se non perfetta, e la parte vulnerabile, caratterizzata da bassa autostima, tendenza alla vergogna e appunto, ipocondria. Ma andiamo con ordine, perché la nostra società sembra così permeata da narcisismo e perché proprio l’ipocondria è un tratto del narcisismo ipervigile?

Siamo ormai figli del boom economico vissuto tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, cresciuti tra tate, nonne, mamme e soprattutto, la baby-sitter per eccellenza che ha allevato ormai diverse generazioni: la televisione, che ora va trasformandosi in smartphone e tablet per i post-millennials. La tv ha da sempre offerto un ottimo passatempo e un escamotage per intrattenere i più piccini, tagliando via tuttavia ogni valenza affettiva che potevano avere il gioco e le attività condivise tra pari e con gli adulti. Il bambino impara a ‘bastare a se stesso’, a sentirsi onnipotente e a non aver bisogno di altri se non i suoi strumenti, ad autoregolarsi non più tramite lo sguardo e l’emotività co-creata, ma tramite oggetti fisici esterni, da lui facilmente manipolabili. Basti pensare alla mole di piccoli ADHD e iperattivi che giunti a scuola non riescono a stare seduti, a porre attenzione e ad ascoltare, ma che starebbero ore e ore immobili davanti ad uno schermo dai 5 ai 77 pollici. Col passare degli anni, quello strumento da manipolare diventa manipolatore, suggerendo quali ultimi giochi acquistare prima, il modo di pensare, sentire, agire poi, a scapito delle relazioni reali e dell’intersoggettività condivisa. Ed ecco come una notizia in tv si trasforma in psicosi collettiva, odio e paura nei confronti dell’altro, e porta a rintanarsi nelle proprie case, circondati dai propri cari apparecchi elettronici a seguire ciò che viene da loro continuamente propinato.

Per quanto riguarda l’ipocondria, è stata da sempre vista dalla psicoanalisi come la manifestazione degli ‘oggetti interni cattivi’, sentimenti e pensieri troppo difficili da sopportare e negati alla coscienza, che si concretizzano in sintomi somatici e paura della ‘malattia’ proveniente dall’esterno, che ‘contamina’ il nostro io vissuto come fragilmente integro, puro ma vulnerabile. Gli ultimi sviluppi della infant research sottolineano, inoltre, le implicazioni biologiche della diade madre-bambino e di come la presenza della madre sia fondamentale per la crescita del piccolo, poiché, se non vi è, muore. Sperimentare l’angoscia dovuta alla separazione tra sé e la madre, la possibilità che questa non vi sia per nutrirlo, genera la paura della morte, presente in maniera equilibrata in uno sviluppo sano, frustrata ed esponenzialmente elevata nei tratti narcisistici.

L’isteria sociale scatenata nell’ultimo mese a causa del coronavirus, può essere un ottimo esempio di come questi presupposti teorici si manifestino della realtà di oggi, sino a scatenare quasi una ‘caccia all’untore’ di manzoniana memoria. Banalizzare il tutto dando le colpe al progresso economico e tecnologico, tuttavia, risulterebbe infondato: tali fenomeni non hanno fatto altro che reiterare, sviscerare e amplificare modi di sentire da sempre esistiti. Freud stesso diceva che

è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato così poco dai tempi primordiali… come nella relazione con la morte.

La paura della fine è la causa primaria dell’angoscia, messa in moto dalla pulsione di morte che minaccia l’organismo fin dalla nascita.

Le masse vanno guidate con lo studio di ciò che le impressiona e le seduce, scriveva Le Bon, il padre della psicologia della folla, e cosa può impressionare più della paura di morire. Rifacendosi al pensiero di Le Bon, Freud definisce la massa come un’entità provvisoria costituita da elementi eterogenei saldati insieme per un istante, anonima e irresponsabile, attraverso cui l’individuo acquisisce un senso di potenza invincibile che gli permette di agire istinti altrimenti frenati, sentendosi al tempo stesso protetto e ‘contagiato’ da qualsiasi emozione circoli all’interno della massa. La psicosi da coronavirus è un fulgido esempio dell’influsso dei fenomeni collettivi sul comportamento individuale e di come l’emotività atavica del singolo può divenire un fenomeno pandemico, e viceversa.

Ritornando al caro vecchio Manzoni, Storia della colonna infame è un celebre saggio storico ambientato nel 1630, in cui lo scrittore descrive la psicosi collettiva scatenata dall’epidemia di peste e sfociata nel processo a due presunti untori, giustiziati tramite il supplizio della ruota e marchiati ad infamia perenne con la costruzione della colonna sui resti dell’abitazione di uno dei due innocenti. Surreale come 290 anni dopo, una presunta epidemia causata da un virus sconosciuto riattivi nelle masse lo stesso irrazionale sentire. Sino a qualche giorno fa gli untori erano i cinesi, o meglio gli asiatici, che creavano il vuoto attorno su metro e mezzi pubblici, offesi e talvolta aggrediti, riuscendo addirittura a bloccare interi convogli per uno starnuto (vedi Freccia Roma-Lecce del 21 febbraio). Oggi, ahi ahi, sono gli italiani, e altri stati europei già minacciano di chiudere le frontiere. Per il centro-sud gli untori sono i milanesi e guai a viaggiare con qualcuno che abbia un vago accento del nord. Per le masse, vi sarà sempre un untore su cui sfogare e in cui identificare le proprie pulsioni distruttive, un capro espiatorio da sacrificare per poter preservare la propria integrità, finché sul patibolo potremmo finirci noi, con tutta la nostra irrazionale paura di morire.

 

Rimuginio e ruminazione: una possibile base neuroscientifica nel Default Mode Network

Rimuginio e ruminazione sono due processi cognitivi messi in atto dall’individuo nel tentativo di gestire la propria attivazione emotiva (con i relativi correlati fisiologici) e fanno parte di quella mole di strategie di coping ritenute disfunzionali se eccessivamente utilizzate.

 

Più precisamente il rimuginio (worry) viene definito come un pensiero ricorrente negativo, astratto, per lo più verbale, i cui contenuti riguardano il futuro e la cui emozione prevalente è rappresentata dall’ansia (rimuginio ansioso, appunto); la ruminazione è anch’essa un processo di pensiero di tipo perseverante, negativo, che concerne informazioni rilevanti per il sé, tuttavia il focus attentivo è rivolto all’analisi di eventi passati, sia in chiave depressiva (ruminazione depressiva) che rabbiosa (ruminazione rabbiosa).

Sono stati proposti diversi modelli per spiegare l’origine e il mantenimento di questi due processi di pensiero negativo e perseverante il cui effetto paradossale è quello di esacerbare l’attivazione emotiva anziché ridurla. Tra i più noti e utilizzati in psicoterapia troviamo il Modello Metacognitivo di Wells (2012) che si basa sulla Self-Regulatory Executive Function (S-REF) e sulla Cognitive-Attentional Syndrome (CAS), dai cui principi sono stati proposti trattamenti efficaci per molti disturbi sintomatici (in particolare per il disturbo d’ansia generalizzato e i disturbi depressivi). Secondo tale approccio, gli individui hanno credenze metacognitive positive circa l’utilità del worry e della rumination poiché sono mossi dalla convinzione che mettendo in atto questi processi otterranno un certo sollievo (es: “sarò preparato al peggio”, “analizzare il passato mi permetterà di comprendere perché mi senta così”); tuttavia esistono una serie di credenze metacognitive negative che concernono l’incontrollabilità e la pericolosità (es: “non riesco a smettere di rimuginare, è più forte di me”, “rimuginare mi farà diventare pazzo”). Indipendentemente dalla natura positiva o negativa delle metacredenze sopracitate, rimuginio e ruminazione sono considerati fattori di mantenimento rilevanti in molti disturbi psicologici.

Dimaggio e colleghi (2019) parlano inoltre di rimuginio/ruminazione interpersonale secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) che, a proposito di strategie di coping maladattive, si prefigge di aiutare i pazienti a ridurre e gestire in modo più funzionale situazioni i cui stimoli attivanti riguardano principalmente la sfera relazionale. Nello specifico gli autori parlano di Pensiero Ripetitivo Interpersonale (PRI), inserendolo in quelle che essi definiscono strategie di coping attivanti le quali vengono utilizzate allo scopo di ridurre l’emotività negativa ma che, di contro, falliscono quasi nell’immediato (a differenza delle strategie deattivanti che, distogliendo momentaneamente l’attenzione dallo stato doloroso, possono nel breve termine arrecare sollievo, seppur transitorio).

Per quanto riguarda le basi neuroscientifiche di rimuginio e ruminazione è stato identificato il Default Mode Network (da ora DMN) come una delle possibili reti neurali implicata in questi due processi di pensiero. Il DMN, con sede in aree corticali tra loro connesse (aree parietali, temporali mediali e laterali e corteccia prefrontale mediale), è stato recentemente considerato correlato a stati di riposo, attraverso paradigmi sperimentali in cui ai partecipanti veniva chiesto di non eseguire alcun compito mentre veniva registrata loro l’attività cerebrale (Greicius, 2009), osservando un’attivazione di tale circuito; viceversa, in contesti in cui i soggetti erano impegnati in un compito cognitivo si è riscontrata una deattivazione di DMN. Inoltre, è stata osservata un’attivazione incrementata durante attività legate alla riflessione su se stessi e teoria della mente, introspezione, pianificazione del futuro e processi di regolazione emotiva (Buckner, 2008). Il ruolo di DMN, in particolare la sua attivazione durante stati di riposo e la sua deattivazione durante attività orientate all’obiettivo, potrebbe considerarsi un’aspetto relativo alla sopravvivenza: attenuare l’attività autoreferenziale nel cervello permetterebbe di concentrarsi sul compito in modo più efficace, diminuendo così interferenze causate da stati interni all’individuo. Il fallimento di questa operazione è particolarmente evidente in soggetti con Depressione Maggiore (Sheline, 2009), disturbo che, tra le varie problematiche riscontrate, è caratterizzato da una forte componente di ruminazione.

Rimuginio e ruminazione sono processi di pensiero che si manifestano indipendentemente da stimoli esterni, o quanto meno possono essere attivati da trigger esterni, ma il loro perdurare prescinde dall’ambiente esterno, dal momento che il focus è per lo più spostato su processi correlati al sé, quindi interni all’individuo: ruminare, ad esempio, in modo depressivo o rabbioso presuppone un’analisi sul sé in rapporto all’evento passato che ha innescato l’emozione sgradevole, ed anche rimuginare sugli scenari futuri (spesso in chiave catastrofica) implica un’attenzione focalizzata sui possibili eventi che potrebbero creare distress al proprio sé. Sebbene, infatti, si possano elicitare anche sperimentalmente processi di pensiero ripetitivi e negativi, mostrando ad esempio immagini -stimolo capaci di attivare worry o rumination, è il modo in cui il soggetto “maneggia” i propri pensieri a fare la differenza ed il tempo che impiega nel tentativo di padroneggiarli:  il risultato che si ottiene spesso è quello di attività mentali ripetitive, negative, astratte utilizzate come strategie di coping per tentare di autoregolarsi emotivamente. Resa chiara pertanto la natura autoreferenziale di rimuginio e ruminazione, non stupisce che esistano dati di neuroimaging che informano sul ruolo di DMN , come quelli provenienti da una ricerca di Servaas e colleghi (2014) che hanno osservato non solo un’attivazione di DMN durante il worry, ma anche una deattivazione simultanea di aree visive che suggerisce una interruzione di immaginazione visiva (il rimuginio infatti è per lo più di natura verbale).

Dunque, considerate le ricerche in tale ambito, che stanno via via incrementando i dati a supporto di un coinvolgimento di DMN nei processi di rimuginio e ruminazione, è necessario avvalersi delle attuali conoscenze per rendere la clinica e i trattamenti proposti più incisivi ed efficaci da un punto di vista neuroscientifico; spiegare, ad esempio, a chi si rivolge ad un percorso di cura i meccanismi cerebrali sottostanti la sintomatologia riferita, può divenire un intervento psicoeducazionale importante al fine di fortificare un senso di fiducia e coinvolgimento attivo ed incrementare così nei pazienti motivazione e compliance alla psicoterapia.

 

Nostalgia del “dica 33”

E’ fondamentale che il personale sanitario, professionisti della cura, eserciti l’arte della compassione, ovvero della sensibilità verso la sofferenza nostra e dei nostri pazienti, dobbiamo parteciparne e sentirci impegnati nel cercare di alleviarla.

 

Ammalarsi gravemente, ancor più se trattasi della malattia presumibilmente definitiva, rappresenta un evento traumatico nella vita di una persona poiché, in modo non annunciato e frettoloso, siamo messi a confronto con la dissoluzione delle consuetudini, l’annientamento delle abitudini e delle routine familiari e sociali, fondamento identitario.

Lo spazio ed il tempo si disintegrano, l’idea del morire non è più qualcosa su cui magari fantasticare a tempo perso, ma diventa la concreta compagnia di ogni minuto e la si percepisce in modo fisico, immediato, attraverso il dolore mentale e fisico che accompagna la malattia.

Quello che fino al giorno prima era importante, magari fonte di cruccio, di preoccupazione, di rabbia o di dolore viene dimenticato, un’amnesia quasi dissociativa prende il sopravvento e si fa strada la sensazione soggettiva e grave di sentirsi estranei, del tutto estranei al resto del mondo.

Il neo-malato grave si colloca in un limbo in cui i rumori dell’esistenza quotidiana, di cui fino a poc’anzi era partecipe, giungono attutiti e progressivamente sbiadiscono di significato.

La routine della malattia impone suoi tempi e modi di vivere: i discorsi si centrano e ruotano, anche per ore, su quei fatti banali a cui mai prestiamo troppa attenzione, le linee di febbre, l’astenia, le necessità fisiologiche, il cibo troppo o troppo poco, i bisogni primari che diventano imperiosi e dilaganti.

E’ la rivincita del corpo che, forse prima trascurato, si impone prepotentemente con mille rivendicazioni pressanti e inesauribili.

I familiari, i coniugi, le persone care, devono comunque mantenere un rapporto con la realtà, ne sono obbligati, rapporto fatto di interazioni con luoghi, negozi, farmacie, supermercati, uffici o altro, con abilità, guidare la macchina, cucinare, riposare e con ruoli e funzioni sociali, tra tutte il lavoro.

Il malato, al contrario, si trova in una corsia di ospedale, in attesa di intervento, chirurgico o altro.

Sta in un mondo a parte privo di ogni responsabilità, destituito di potere ma anche di doveri se non quello di sottoporsi, docile, alle cure.

Ancora i primi giorni sembra mantenere una sua formale dignità legata alla sua identità precedente ma, con i primi interventi di cura, le prime interazioni con gli operatori sanitari o semplicemente con l’avvento del pigiama ventiquattr’ore il malato trasloca in un ruolo, quello di malato, appunto, che annebbia perfino il proprio nome e cognome o la vita com’era fino al giorno prima. Com’eravamo.

Cominciano con il non chiamarti per nome o per cognome, ma diventi il numero del letto o della stanza; ti appellano con nomignoli di ogni genere, a Roma teso’ che sta per tesoro, oppure cocco nelle sue infinite variazioni diminutive e sempre, invariabilmente, ti danno del tu.

L’ospedale, i suoi orari, il suo funzionamento generale pare sia pensato per essere un luogo quanto più confortevole possibile per gli operatori e questo ha un senso solo nella misura in cui gli operatori sanitari sono quelli che ci passano la vita, al contrario dei pazienti che lo frequentano per tempi più o meno brevi.

Però questa centratura sull’operatore diviene talmente estrema che i malati si sentono di troppo, temporanee intromissioni che interrompono le chiacchiere sui pettegolezzi più recenti, gli accesissimi dibattiti sindacali, i nervosismi quotidiani; un po’ infastidiscono le loro necessità, le lamentele, le attenzioni o le semplici domande che di tanto in tanto trovano il coraggio di porre, con tanta maggior sfiduciata insistenza tanto meno sono ascoltati.

Per non dire dei familiari che, sempre dal punto di vista della routine ospedaliera, sono ancora più fastidiosi, mal tollerati, vengono rapidamente espulsi allo scadere degli orari di visita, senza cogliere per nulla l’opportunità che rappresentano in una situazione, su quello siamo tutti d’accordo, di cronica carenza di personale.

Ogni familiare, infatti, aiuta il proprio congiunto ma anche gli altri malati, per quella solidarietà e comprensione che nasce spontanea nelle situazioni di sofferenza condivisa.

Basterebbe dare loro poche informazioni e consigli, per avere una gran quantità di mano d’opera, certamente scarsamente formata, ma fortemente motivata e, soprattutto, disponibile a ciò che più di ogni altra cosa tutti gli operatori sanitari sembrano fuggire in modo quasi fobico: il contatto, la relazione con il malato che viene trattato, come in ogni istituzione totale, come un numero di letto, una diagnosi, un oggetto su cui praticare degli interventi, il più rapidamente possibile, per correre altrove.

 Il o la caposala decide quanto tempo il parente potrà trattenersi, vigila fermamente sulla regola “solo uno nella stanza” e ti rassicura dicendoti che ci sono gli operatori, infermieri e Oss, per le pratiche quotidiane di cui ha necessità il malato. Quando poi arrivi, al minuto spaccato per cui hai avuto il permesso, trovi il tuo caro che ti aspetta come la manna dal cielo perché da ore, troppe, sta aspettando cure, igieniche o sanitarie, per cui ha suonato e risuonato il famoso campanello. Vengono, lo spengono e ti dicono “mo’ arriviamo teso’ ” e rispariscono nel nulla del corridoio, verso cui sono rivolti gli sguardi ansiosi dei pazienti.

Si tratta, certamente, di un tentativo comprensibile di prendere le distanze dal dolore per non esserne contagiati, credendo erroneamente che sia questa la soluzione più giusta per sé, per il proprio equilibrio e benessere, ma si trasforma in disappunto, in irritazione verso chi di tanto dolore è la possibile fonte di contagio e, soprattutto, non funziona e priva completamente l’operatore di un’abilità fondamentale per chi abbia avuto l’ardire di scegliere una professione di cura: la capacità di ascoltare.

Nell’ospedale, in tutte le stanze, i corridoi, gli ambulatori, gli ascensori, dovunque, campeggia un cartello, evidentemente il più recente per la vivacità dei colori e per essere in sovrapposizione a quelli più vecchi e sbiaditi, che recita: “E’ reato aggredire fisicamente e verbalmente il personale sanitario di qualsiasi categoria: i trasgressori saranno puniti a norma di legge”.

Colpisce che ci sia bisogno di un tale cartello come, per parlare di attualità, della scorta alla senatrice Segre.

Forse troppo idealisti, la prima aspettativa che abbiamo di un ospedale è quella di un posto dove i professionisti della cura abbiano l’impellente vocazione di alleviare la sofferenza altrui, magari con il sorriso sulla bocca mentre, di contro, i malati ringraziano, riconoscenti all’infinito, i loro benefattori.

Ma ben presto ci si rende conto che non è così anzi, al contrario, il paziente si trova nel bel mezzo di una doppia guerra: una, che potremmo definire territoriale, tra gli operatori signori dell’ospedale ed i pazienti, con i loro familiari, truppe d’invasione. L’altra, che potremmo definire civile, tra le varie categorie, (caste?) di operatori.

A queste due grandi battaglie si intrecciano le consuete conflittualità personali quotidiane, le antipatie, le piccole ritorsioni che, tuttavia, ovunque presenti nei posti di lavoro, non rappresentano una peculiarità ospedaliera.

Le stesse caste cui in precedenza facevamo riferimento, si definiscono proprio sulla distanza che hanno con il malato: più se ne è lontani, più si è importanti nella gerarchia ospedaliera.

Il primario è un’entità astratta, un  “deus ex machina” della cui esistenza si può, talvolta, legittimamente dubitare, che si limita a qualche apparizione settimanale durante la quale attraversa il reparto come una folata di vento, seguito da alcuni medici di ruolo, cioè assunti dal SSN e da una nuvolaglia di specializzandi che lo seguono con i camici svolazzanti, i fonendoscopi a tracolla come pregiatissime sciarpe, una sfilza di penne multicolore nel taschino, perlopiù parlottando tra loro delle faccende tipiche della loro interminabile e ritardata adolescenza sociale.

Passano in rassegna i malati ma comunicano esclusivamente tra loro, mentre il paziente viene del tutto ignorato, al punto che può dubitare di essere presente.

Non si parla direttamente con lui, tanto meno con il familiare, che viene prontamente fatto uscire dalla stanza portando con sé miriadi di domande che si era accuratamente preparato a cui nessuno darà mai una risposta; i medici commentano tra loro gli ultimi esami o le analisi, accennano ad altre possibili pratiche cui sottoporre la persona ma si guardano bene dall’agire quella pratica, evidentemente antiquata, desueta e forse considerata dannosa che si chiamava visita medica.

Sembra essere un vero e proprio tabù, come se visitare un paziente, nel senso di toccarlo, auscultarlo, guardarlo fossero azioni primitive, di altri tempi pretecnologici.

Dopo troppi giorni di polmonite la primaria dichiarò, rimanendo come al solito sulla porta, che ci voleva la consulenza con lo pneumologo. Sollievo, finalmente qualcuno ti visiterà e potrai fare quei grossi respiri a bocca aperta, mentre il tuo polmone viene auscultato per sentire se si riempie dell’ossigeno per vivere. Passa un giorno, la febbre è alta, passa il secondo, stai proprio male e c’è preoccupazione in chi ti sta accanto che, finalmente, ha avuto il permesso dal caposala di occuparsi di te, da sola mi raccomando! per tutta la giornata.

Dopo altri giorni, trovi il coraggio per chiedere alla più buona delle infermiere che hai individuato, che però già si è irrigidita perché te ne stai un po’ approfittando, che fine ha fatto lo pneumologo?

Dopo una serie di ostacoli a catena, tipo devi chiedere al caposala che ti dice devi chiedere al medico che ti dice devi chiedere al medico più importante e così via, finalmente uno ti risponde: “E’ già passato”.

Ti scusi ma, a meno che non sei proprio fuori di testa, tu non l’hai visto, certo che non l’hai visto è passato e ha visto le lastre! Ed ha stabilito la terapia! E tu che un po’ ti stai arrabbiando, perché nessuno ti ha detto niente, finalmente dici “Guardare le lastre equivale a visitare un paziente, professore?” dove la parola professore viene pronunciata con un leggero ma non troppo sarcasmo, che il professore avverte e scontroso ti risponde che hanno troppo da fare per visitarti e va bene così.

Non va bene così.

A volte qualche giovane specializzando mostra un po’ di interesse per la persona sofferente ma, dall’atteggiamento degli altri, capisce rapidamente quanto quella sensibilità sia sconveniente e rappresenti un ostacolo alla professione iperspecialistica a cui si sta avviando.

Si baratta la competenza tecnica con l’umana sensibilità e i giovani imparano rapidamente, a volte sembrano una grottesca imitazione degli anziani, ormai incalliti nel loro gelido distacco; inefficiente protezione contro il dolore e non prevenzione, ma semmai concausa del burnout perché il dolore e l’idea stessa della morte non si possono ignorare, ma semmai elaborare con il risultato di aumentare la propria partecipazione compassionevole al destino di sofferenza di tutti i viventi, nessuno escluso.

I medici dunque non conoscono i pazienti ma esclusivamente i loro esami clinici che portano in genere alla prescrizione di ulteriori accertamenti, con l’unico scopo di essere inattaccabili da un punto di vista medico legale in caso di successivo contenzioso: la medicina difensiva governa sovrana.

I dottori, quando non sono annoiati o sbrigativi, sono spaventati, appesantiti dalle costose assicurazioni che devono pagare, vedono in ogni paziente un potenziale querelante e ciò crea un circuito di diffidenza e timore reciproco che inquina totalmente la relazione di cura che, più che un’alleanza, pare una tregua armata.

Altro effetto non secondario di questa iperprescrizione di esami strumentali, che vengono richiesti per FARE diagnosi, non per confermarla o falsificarla, è la morte della semeiotica medica, il medico che guarda i segni, tocca, palpa, stringe, odora e, talvolta, assaggia il paziente.

Questo sta portando all’impoverimento della professione medica.

Quando la diagnosi sarà il frutto di un algoritmo che mette in sequenza una serie di esami strumentali a cui far seguire un protocollo terapeutico standardizzato, un ulteriore algoritmo, il tutto magari gestito da un’intelligenza artificiale certamente più aggiornata e meno soggetta ad errori ed interferenze emotive di qualsiasi medico, per quanto quest’ultimo si sforzi di assomigliare ad una macchina, di medici non ci sarà più alcun bisogno. Le macchine fanno le macchine meglio degli umani e quando l’umanità sarà vista come un ostacolo saranno le macchine ad esser vincenti.

Il medico si sente minacciato dal paziente, si attiene scrupoloso a linee guida e protocolli, con ciò rinunciando ad una personalizzazione della cura che avvilisce l’intuito clinico e l’unicità di ogni paziente.

Il paziente e i familiari si sentono trasparenti, non visti, mai ascoltati.

A volte c’è una domanda davvero urgente da fare o un momento di crisi del proprio caro, o una difficoltà importante: allora si mette da parte il proprio naturale riserbo, si forza il desiderio di non disturbare e si trova il coraggio di affrontare uno di questi medici svolazzanti. Si chiama, si chiede la presenza.

Il medico entra, il viso è già molto teso, gli occhi sono sfuggenti, si capisce che è stato disturbato ma può concedere qualche minuto. Il non verbale è molto chiaro e il paziente e il parente sono già in uno stato di soggezione, vogliono scusarsi, balbettano.

Il medico non ascolta, dopo le prime parole interrompe sbrigativo, colpisce l’alterigia con cui pensa di sapere già qualcosa che deve essere ancora comunicato, lui sa, tu no, la risposta non corrisponde alla domanda poiché la domanda non si è riusciti a farla ma tant’è, nemmeno il tempo di una debole protesta che lui è già fuori dalla stanza, svanito nel nulla.

Stavi proprio male, quel giorno, il colorito era marrone, faticavi a parlare, non riuscivi ad alzarti in piedi.

Una lunga, interminabile domenica, chiami e chiami perché da un momento all’altro sono comparsi pure i dolori all’addome, ma vengono, controllano i parametri, i parametri sono a posto e se ne vanno. 

I parametri saranno pure a posto ma tu stai per morire e quindi ogni tanto chiami e chiami.

In serata uno dei tanti dottori ti apostrofa, anche piuttosto sbrigativo e lui, che è chirurgo, finalmente trova il modo di fare lo psicologo pronunciando la celebre frase “non hai niente, sei stanco di essere ricoverato, devi solo tornare a casa”.

Il giorno dopo operato d’urgenza, finalmente sono d’accordo anche loro sul fatto che stai per morire.

Un tempo accanto al medico c’era l’infermiere, in posizione subordinata per ciò che riguardava la responsabilità della cura ma un vero punto di riferimento per il dottore o il primario e, sicuramente, per il paziente, per quanto riguardava la concretezza della cura.

L’azione dell’infermiere rappresentava la cura trasformata in operatività, segni fondamentali e costanti attraverso i quali veniva applicato il pensiero medico, una sinergia armonica.

Ora c’è una frammentazione da catena di montaggio, persino i parametri vitali (pressione arteriosa, temperatura, glicemia, saturazione…) sono rilevati da operatori diversi che passano quando hanno tempo e mai, proprio mai, rivelano al paziente il valore misurato.

Dopo la lotta di liberazione dai medici, con la nascita di un’apposita laurea che prevede, anche lì, varie specializzazioni, livelli e ruoli dirigenziali, gli infermieri hanno creato una propria catena gerarchica indipendente da quella medica, da cui si differenziano a volte con una malcelata ostilità.

Hanno una loro professionalità, rappresentata da un preciso mansionario, di cui vanno gelosissimi, che consiste specificatamente nella somministrazione delle terapie e poi c’è la mitica figura del caposala, protettivo verso i suoi ed autoritario verso tutto il resto del mondo, che rappresenta la gestione dell’ordine pubblico all’interno del reparto, vale a dire il rispetto delle regole e di ciò che è ammesso o vietato.

E sebbene possa sembrare strano, anche per la somministrazione delle terapie non è assolutamente necessario un contatto diretto con il paziente: si possono mettere e togliere flebo, inserire aghi, misurare pressioni o temperature o quant’altro, senza scambiare una parola, senza guardare negli occhi, senza rispondere ad una domanda, come se l’altro non esistesse.

Di nuovo, la mancanza di una relazione con il paziente, come per i medici, sembra essere diventato un indicatore di importanza nella gerarchia ospedaliera.

Ci si stupisce della capacità, automatica, seppure innaturale, di distogliere lo sguardo mostrando sempre e solo insofferenza, fretta, dopo che un paziente o un parente rivolge timidamente una semplice domanda, magari con un sorriso.

Non è facile non emettere alcun segno verbale o non verbale come se l’interlocutore non esistesse. Watzlawick scriveva, nella sua famosissima Pragmatica della comunicazione umana, che è impossibile non comunicare, dimostrando con ciò di non essere mai stato ricoverato.

Pazienti e parenti hanno l’impressione costante di invisibilità oppure, nel migliore dei casi, di dare un po’ fastidio, intrusi nell’esistenza quotidiana del “villaggio reparto” all’interno del “paese ospedale”.

Bisogna con fatica rammentarsi che, in verità, sono i pazienti i datori di lavoro degli operatori che affollano quel villaggio che è anche casa nostra.

L’alterigia regna sovrana, i medici sono un po’ preoccupati quando, a loro volta, devono fare qualche richiesta agli infermieri, c’è quel fenomeno curioso dello scaricabarile, “questa cosa non tocca a me ma tocca a lui, oppure tocca al prossimo turno, oppure domani, oppure adesso c’ho troppo da fare”, incontri e scontri sempre con il paziente presente, tanto non esiste, è invisibile.

Popper, nel suo La società aperta e i suoi nemici, parlando della scuola scriveva che la prima riforma decisiva a costo zero, vera rivoluzione, sarebbe consegnare direttamente a casa lo stipendio a tutti quegli insegnanti che lavorano solo per avere uno stipendio, proibendo loro di avvicinarsi ai ragazzi.

Forse la stessa cosa potrebbe valere per la sanità, più in generale per tutti quei lavori che hanno in primo piano una relazione interpersonale, ancor più se di aiuto.

Gli ultimi del villaggio sono gli ex portantini, oggi operatori socio-sanitari che, dovendo occuparsi dell’igiene, della pulizia e dei bisogni fisiologici dei pazienti, sono costretti a toccarlo e, con ciò, ad avere una qualche forma di relazione.

Tra loro sopravvive una qualche forma di umanità, fuori dalla dinamica istituzionale del distacco cercato ed esibito.

Ricordiamo che, teorizzata e portata poi avanti dal genio di Franco Basaglia, la riforma psichiatrica prese le mosse primariamente dai portantini dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa; evidentemente, più dei medici e degli infermieri, imprigionati pregiudizialmente nelle loro procedure scientifiche, avevano mantenuto intatta la capacità tutta umana di indignarsi per i contesti disumanizzanti in cui vivevano i pazienti.

I colori dell’ospedale: dopo le critiche amare e frutto della generalizzazione di un’esperienza personale, una proposta

Per usare la terminologia cromatica del modello di Paul Gilbert e della Compassion Focused Therapy pensiamo che occorra puntare ad un ospedale sempre più green, un luogo dove tutti, operatori, che lavorano anche con fatica, e pazienti, che soffrono, possano sentirsi tranquilli, calmi, in connessione e sicuri.

Come operatori sanitari dobbiamo uscire dall’assetto difensivo del distacco a tutti i costi, che si traduce nel vissuto pregiudiziale “più sono distaccato e mi difendo, più vivo bene” perché questo assunto è falso proprio e soprattutto per il benessere dell’operatore, prima ancora che per i pazienti.

Come professionisti della cura dobbiamo esercitare l’arte della compassione, ovvero della sensibilità verso la sofferenza nostra e dei nostri pazienti, dobbiamo parteciparne e sentirci impegnati nel cercare di alleviarla.

Essere compassionevoli comprende quelle emozioni e pensieri che si traducono in comportamenti finalizzati a prendersi cura, soccorrere, proteggere, sentire la sofferenza altrui ed essere in grado di tollerarla.

La nostra cultura attuale, al contrario, sta privilegiando sempre più le formule competitive e aggressive come terapia per vivere meglio, un sistema red dove le persone reagiscono con rabbia, ansia, disgusto o paura ad una realtà esterna vissuta come perennemente minacciosa e popolata di spietati competitor.

Difendiamo i nostri confini personali come se fossimo perennemente in guerra, ma è una guerra tutta interiore perché siamo così impegnati a difenderci che non abbiamo il tempo né di ascoltare né di guardare chi o cosa abbiamo davanti.

Siamo convinti che se reagiamo per primi siamo vincenti, se manifestiamo indifferenza siamo liberi, abbiamo paura della nostra umanità e quindi ci chiudiamo nelle gabbie della protervia e dell’ira.

Pensiamo ad un ospedale aperto, che integri ed utilizzi volontari e, soprattutto, familiari e sia in più forte continuità con l’assistenza domiciliare, con il day hospital e il day surgery.

La formazione degli operatori sanitari ai concetti di compassione ed empatia ridurrebbe il disagio dei pazienti, ma forse ancor di più il burnout degli operatori.

L’ospedale deve interagire col paziente, ponendolo al centro come protagonista delle sue cure e dei suoi interventi.

In tal modo si potrà arginare l’iperspecializzazione, la frammentazione del malato in un insieme di organi affidati a diversi specialisti e la conseguente, comprensibile fuga verso la medicina alternativa, che ancora prova interesse per la persona, oltre che per la malattia di cui quella persona è portatrice.

Si tratta in primo luogo di riparare l’alleanza terapeutica tra paziente e curante.

In tal senso ci piace immaginare una grande iniziativa che, a partire dalla sollecitazione delle società scientifiche e dalle scuole di psicoterapia, che possiamo considerare esperte della materia, venga fatta propria dal Ministero della Salute che convochi gli Ordini delle Professioni di cura e le Associazioni dei malati ad una specie di “Stati generali della relazione di cura” allo scopo di lavorare insieme per elaborare una sorta di Patto per la cura in cui curanti e curati esprimano richieste ed impegni, diritti e doveri, in un confronto/contratto reciproco.

Crediamo che la psicologia e la psichiatria possano essere promotrici di questo urgente cambiamento, per la riflessione approfondita sull’importanza della relazione terapeutica e che questo sia ovviamente utile ai pazienti ma ancor più agli operatori sanitari che potrebbero forse trasformare, in parte, un lavoro indubbiamente faticoso e oneroso in gratificante.

Già in passato la psichiatria è stata avanguardia e modello per il resto delle branche mediche: la famosa legge 180/76 che eliminò la centralità dell’ospedale psichiatrico, avviando la psichiatria territoriale fu il modello sul quale, pochi mesi dopo, fu varata la riforma del Sistema Sanitario Nazionale, legge 833/76.

Finalmente a casa dopo più di un mese di degenza. Sei ancora un malato, molto malato, ma sei nel tuo luogo sicuro. Ti riprendi la dignità, ti riprendi il diritto di soffrire senza colpa.

E ti commuovi quando la tua dottoressa, il tuo medico di base, viene a visitarti a casa, tira fuori il fonendoscopio, ti alza la maglietta e ti tocca pure. Respiri, respiri profondi a bocca aperta, col dito a martelletto ti batte sulla schiena e dice il proverbiale “dica trentatrè” che credevamo perduto.

 

Le bugie dei genitori e gli effetti sul funzionamento psicosociale dei figli

In tutte le culture viene messa molta enfasi nell’insegnare l’onestà ai bambini, tuttavia è altrettanto noto come sia estremamente comune che i genitori ricorrano a menzogne di vario genere per ottenere comportamenti desiderati dai loro figli. Quali sono le conseguenze di tale tendenza sul funzionamento psicosociale di questi ultimi?

 

E’ intuitivo immaginare come non sempre sia facile determinare la bontà delle intenzioni di chi dice una bugia: ad esempio, nel caso del barbuto signore che porta i regali ai bambini, pochi potranno affermare che l’intento sia quello di ingannarli, quanto piuttosto di donare una magica illusione; diverso sarà il caso di qualcuno che tradisce il proprio partner e decide di non confessare il misfatto, dove il confine tra il beneficio per destinatario della bugia e quello del suo perpetratore è assai più labile e dipende in larga parte dalla scala valoriale di chi si trova a giudicare.

In tutte le culture viene messa molta enfasi nell’insegnare l’onestà ai bambini, tuttavia è altrettanto noto come sia estremamente comune che i genitori ricorrano a menzogne di vario genere per ottenere comportamenti desiderati dai loro figli (Heyman et al., 2013; Santos et al., 2017), tanto che è stata coniata un’espressione per definire questo stile genitoriale detto “parenting by lying” (n.d.t: educare con la menzogna, Heyman et al., 2013).

Essere sottoposti a questa modalità educativa proprio durante il processo di socializzazione, fase contraddistinta dall’acquisizione di quelle che sono le norme sociali condivise, solleva l’eventualità che i bambini possano inferire attraverso l’osservazione che sia socialmente accettato mentire (Bandura, 1969), da ultimo condizionandone il comportamento. Quest’idea sembra venire confermata ad esempio da uno studio sul comportamento morale nei bambini, che ha rilevato come fosse più probabile che i bambini mentissero, se prima del test lo sperimentatore aveva mentito a sua volta (Heys & Carver, 2014).

Alcuni studi hanno messo in relazione il ricorso alle bugie da parte dei bambini con disturbi esternalizzanti come comportamenti dirompenti (Gervais et al., 2000) e problemi di condotta (Warr, 2007), ed internalizzanti come isolamento sociale e ansia dovuti alla vergogna e al senso di colpa per aver mentito (Keltner & Buswell, 1996). Solo uno studio, tuttavia, si è preposto di indagare la correlazione tra le bugie subite durante l’infanzia, il ricorso alle menzogne in età adulta e la presenza di eventuali outcome maladattivi, sebbene i risultati ottenuti non erano generalizzabili all’intera popolazione in quanto relativi ad un campione esclusivamente femminile (Santos et al., 2017).

Per ovviare a questa limitazione un nuovo studio condotto da Setoh e colleghi (2020) ha selezionato un campione sessualmente eterogeneo, composto di 378 soggetti residenti a Singapore, dei quali un’alta percentuale (88,7%) è risultato essere di nazionalità cinese, ma nel quale erano tuttavia presenti altre minoranze etniche (4,2% indiani, 3,7% malesi, 3,4% di altra nazionalità) tali da rispecchiare la multiculturalità della città-stato e permettere di estendere i risultati ottenuti cross-culturalmente.

Per avere una misura del grado di menzogne subite da parte dei propri genitori, i soggetti hanno compilato un questionario self-report (Heyman et al., 2013) che indagava quattro diverse categorie di bugie. I partecipanti potevano rispondere a ciascuno dei 16 item positivamente, negativamente o affermando di non ricordare, questo per vagliare la possibilità che gli eventi riferiti all’infanzia non fossero richiamati alla memoria nitidamente dai soggetti ormai adulti.

Per indagare le bugie dette dai soggetti ai propri genitori, si è utilizzato un questionario che valutava la frequenza delle menzogne riguardanti attività e azioni, bugie prosociali ed esagerazioni aspecifiche riguardo ad eventi o circostanze, per i quali veniva espressa una valutazione da 1 (=mai) a 5 (=molto spesso).

In ultima battuta, si è ricorso all’Adult Self-Report (ASR – Achenbach, 2013) per indagare le diverse misure di disturbi esternalizzanti, come ad esempio aggressione, violazione delle regole o comportamenti intrusivi, e disturbi internalizzanti come sintomatologia ansiosa, depressiva e di ritiro sociale, col fine di avere un indice del funzionamento generale dell’individuo nel suo adattamento psicosociale. Inoltre sono stati controllati la presenza di tratti subclinici di psicopatia, intesa come la tendenza a comportarsi egoisticamente e in maniera manipolatoria in situazioni sociali, considerabile un tratto psicopatologico primario, così come la presenza di comportamenti dirompenti o impulsivi.

A conferma delle ipotesi dei ricercatori, i risultati hanno mostrato che ad una maggiore esposizione al “parenting by lying” corrispondeva un maggior numero di bugie riferite in età adulta. Una spiegazione plausibile, come già accennato in precedenza, è che i bambini apprendono dai propri genitori che è accettabile mentire venendo esposti alle menzogne come metodo educativo. In alternativa, potrebbe entrare in gioco un aspetto relazionale importante, laddove la disonestà dei genitori richiamerebbe ed autorizzerebbe una risposta analoga da parte dei bambini, per ricambiare la fiducia tradita (Jones et al., 1991). L’adattamento psicosociale meno funzionale in termini di condotte esternalizzanti ed internalizzanti così come per i tratti della psicopatia, si registrava in concomitanza con una tendenza maggiore al ricorrere alle bugie in età adulta. Si è riscontrato come il mentire ai propri genitori in età adulta rappresentasse un mediatore nella relazione tra lo stile genitoriale improntato alla menzogna e gli outcome maladattivi considerati, a conferma di come proprio la frequenza delle bugie dette possa rappresentare un tratto distintivo della psicopatia nei bambini e negli adolescenti (Levenson et al., 1995). Particolarmente interessante è il dato emerso dalla path analysis che ha riscontrato sia un effetto diretto, che indiretto, nella relazione tra le menzogne subite da bambini e disturbi esternalizzanti, anche controllando la variabile delle menzogne dette ai genitori: in altre parole, lo stile genitoriale che si serve di bugie per impartire un’educazione potrebbe facilitare l’insorgere di condotte esternalizzanti che vadano oltre il semplice iniziare a dire bugie, ma che compromettano il funzionamento psicosociale globale del soggetto.

Studi futuri dovranno occuparsi di determinare la direzionalità degli effetti riscontrati, così come cercare di minimizzare le possibilità di errori nel richiamo di ricordi risalenti all’infanzia, magari adottando un metodo sperimentale longitudinale che consenta una visione più puntuale ed accurata. Da ultimo, si potrebbe prendere in considerazione se gli effetti maladattivi sul funzionamento dell’individuo siano generalizzati a tutte le bugie subite dal bambino o se questo effetto sia circoscritto ad un determinato tipo di menzogne, come quelle atte a ristabilire la gerarchia di potere ma non, ad esempio, quando esse venivano usate per ottenere collaborazione da parte del bambino.

 

Daniel Freeman e l’Oxford VR. Un impegno virtuale per la salute mentale del Regno Unito

Daniel Freeman, psicologo, professore e ricercatore presso la University of Oxford ha co-fondato l’Oxford VR, un’azienda spin-off dell’Università stessa che utilizza tecnologie immersive automatizzate per la terapia, allo scopo di sviluppare dei trattamenti clinicamente validati e convenienti da un punto di vista economico.

 

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University

 

Barnaby Perks è il CEO di Oxford VR e fondatore di Ieso Digital Health. Ha iniziato la sua carriera nella ricerca di ingegneria biomedica basata sul NHS (National Health Service, UK) prima di lavorare in società che sviluppano prodotti di tecnologia assistiva per persone con esigenze speciali complesse.

Come da sito dell’Oxford VR: ‘Our mission is to deliver evidence-based psychological treatments using state-of-the-art immersive technology’ (Oxford VR).

Oxford VR sviluppa programmi relativi ad interventi basati su protocolli di trattamento con tecnologia immersiva su disturbi depressivi, disturbi ansiosi, disturbi ossessivi-compulsivi e psicosi.

I trattamenti realizzati sono automatizzati e utilizzano un coach virtuale per consentire un maggiore accesso alla terapia, come riportato nello studio citato nel precedente articolo sullo studio del 2018 di Freeman e colleghi.

In realtà virtuale immersiva il team di Oxford riesce a ricreare simulazioni degli scenari in cui si verificano difficoltà psicologiche. Con una media di sole due ore di trattamento, la nostra terapia immersiva si è dimostrata efficace nel ridurre i timori dei pazienti del 68% (Freeman et al., 2018).

Ad oggi il team ha elaborato i seguenti programmi, con l’impegno di affrontare l’intera gamma dei disturbi psicologici, in particolare dedicandosi di recente a quelli più complessi e costosi (psicosi).

  • Paura delle altezze
  • Impegno sociale
  • Psicosi

Paura delle altezze

Nel programma per la fobia delle altezze il coach virtuale utilizza la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) protocollata e basata sull’evidenza. E ad oggi la terapia VR dell’Oxford VR è disponibile nel Regno Unito per i pazienti del NHS attraverso il servizio Improving Access to Psychological Therapies (NHS IAPT) e a livello privato presso l’Oasis Talk, ambulatorio che fornisce terapie psicologiche alle persone di Bristol e del South Gloucestershire.

Durante il programma il coach virtuale (creato tramite la motion capture ed il doppiaggio di un attore) dà informazioni di base sulla fobia dell’altezza.

La ragione per cui abbiamo paura delle altezze è perché pensiamo che succederà qualcosa di brutto. E che ci fa sentire ansiosi. Poi finiamo per evitare altezze, perché fanno paura. Ma vi mostrerò come guardare a quei pensieri in un modo nuovo (Freeman et al., 2018).

Il coach chiede in seguito ai pazienti informazioni precise sui dettagli della propria fobia, indagando se il timore sia legato alla paura di cadere, alla paura che l’edificio crolli, e così via. Appurando successivamente quanto il paziente crede da 0 (‘non credo che succederà’) a 10 (‘sono assolutamente certo che succederà’) al proprio pensiero (o B per i più avvezzi alla CBT).

Successivamente il coach sprona il paziente ad indagare quanto le proprie paure siano accurate, spronandoli a mettere in dubbio le proprie credenze nell’ambiente virtuale:

Ricordate: stiamo esplorando qui. Siamo mettendo alla prova le nostre aspettative. Stiamo scoprendo cosa accade quando ci avventuriamo in una situazione che normalmente cercare di evitare.

Impegno sociale

Il programma di impegno sociale dell’Oxford VR è stato sviluppato per aiutare le persone a sentirsi più sicure e più fiduciose nelle situazioni sociali. Durante la terapia, gli utenti sono guidati da un allenatore virtuale attraverso una serie di attività graduate in ambienti che riflettono le situazioni quotidiane. La tecnologia VR immersiva permette all’utente di sperimentare situazioni che trovano preoccupanti in un ambiente sicuro e controllato. Così come nel caso delle altezze i pazienti possono provare a disputare cognitivamente i propri pensieri e vivere certe situazioni consapevoli del fatto di essere in virtuale. Completando i compiti, gli utenti imparano che possono affrontare le situazioni e che a poco a poco i risultati si trasferiscono anche al mondo reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

Psicosi

Guidato dall’Università di Oxford e dall’Oxford Health NHS Foundation Trust, Oxford VR è un collaboratore integrale di gameChange, un progetto da 4 milioni di sterline finanziato dal National Institute of Health Research (NIHR) del Regno Unito. GameChange si compone di tre fasi principali, le quali verranno meglio illustrate nel prossimo articolo.

  • Oxford VR produrrà un trattamento automatizzato in sei sessioni, facile da usare, coinvolgente e adatto alle esigenze dei pazienti;
  • Realizzazione di un ampio studio clinico multicentrico in un trust del NHS in tutto il Regno Unito per dimostrare i benefici del trattamento VR;
  • Pacchetto di implementazione e la roadmap per l’implementazione del trattamento in tutto il NHS.

Si consiglia di tenere monitorato il sito perché il team Oxford VR è in continua implementazione e nel frattempo si suggerisce la visione di questo video sugli effetti della terapia VR per la paura delle altezze.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Contatti per informazioni: [email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

 

COVID-19: la ri-costruzione delle reti sociali della diffusione

Negli ultimi giorni, anche in Italia si sono accesi i primi focolai del virus 2019-nCoV, ridefinito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) COVID-19, comunemente conosciuto come Coronavirus.

 

Si tratta di un virus influenzale di cause ancora sconosciute sviluppatosi nella città cinese di Wuhan (Hui et al., 2020). In Italia, dopo la comunicazione della positività di un paziente al virus, si sta procedendo con la ricostruzione della rete sociale di chi risulta aver contratto il virus. Ma è così semplice ricostruire una rete sociale?

Per rispondere a questa domanda, in psicologia esistono diversi filoni di ricerca, tra cui un campo di studi comprendente quelle che sono state definite “Teorie del Mondo Piccolo” o “Small World”. Il nome di questo filone di studi deriva dalla tipica esclamazione “Oh, ma com’è piccolo il mondo!”, che si esprime nel momento in cui ci si rende conto che due conoscenti, che si ipotizza siano socialmente lontani, si conoscono fra loro. L’idea di base di questo filone di ricerca riguarda il fatto che le persone non hanno soltanto legami diretti con amici, parenti e conoscenti, ma sono incapsulate in un sistema complesso di reti di relazione che le connettono in maniera indiretta a persone sconosciute. Attraverso questi canali indiretti, prendono vita diversi processi sociali. Gli studi sull’effetto in questione miravano a mettere a fuoco tre aspetti:

1) quanti passaggi sono necessari per connettere due individui che non si conoscono;

2) lo studio dei processi sociali che si attuano grazie alle catene di conoscenza;

3) gli aspetti psicologici secondo cui gli individui si rappresentano la propria rete sociale e quali emozioni ne derivano (Cavazza, 2012).

Per quanto riguarda il numero dei passaggi, secondo la “Teoria dei Sei Gradi di Separazione”, se una persona distante un grado di separazione dalle persone che conosce personalmente e due gradi di separazione dai soggetti conosciuti dalle persone che conosce personalmente, è distante al massimo sei gradi di separazione da ogni persona presente sulla terra. In pratica, ogni persona è collegata a una qualsiasi altra da una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Negli anni Sessanta, lo psicologo Stanley Milgram (1967) verificò sperimentalmente questa ipotesi: aveva inviato una lettera a un campione di cittadini (starting people) chiedendo loro di inoltrare il messaggio contenuto nella lettera ad un suo amico, un agente di cambio di cui non conosceva l’indirizzo. Per questo chiedeva alle starting people di inviare, a loro volta, la lettera con il messaggio ad un proprio conoscente (target person), che ritenevano fosse più vicino socialmente all’agente di cambio. Nonostante la stranezza della richiesta, la maggior parte dei messaggi arrivò a destinazione e il numero di passaggi necessari era di sei intermediari. L’effetto Small World è rinvenibile in moltissime reti sociali (Schnettler, 2009).

Lo studio dei processi, invece, resi possibili dai legami diretti e indiretti fra le persone sono: la diffusione delle informazioni, il contagio dei comportamenti e la ricerca di risorse. La diffusione è un processo necessario per la realizzazione della condivisione delle informazioni ad un target esteso. E’ proprio la diffusione che orienta, a sua volta, la ricerca di risorse. La possibilità di attingere alla propria rete di conoscenze è alla base anche del capitale sociale, dato che gli individui possono trovarsi al centro di numerosi legami o essere isolati. La posizione di un individuo nel suo mondo sociale si accompagna ad una maggiore o minore possibilità di godere di risorse e di raggiungere obiettivi (Cavazza, 2012).

La dimensione psicologica dell’effetto Small World è stata fino ad ora meno studiata (Cavazza, 2012). L’ampiezza dei gruppi sociali e le numerosità dei rapporti stabili e diretti che le persone sono in grado di mantenere non sono influenzate soltanto dalle caratteristiche ambientali, ma sono una funzione della neocorteccia cerebrale dei primati. Il numero dei neuroni neocorticali limiterebbe la capacità di elaborare informazioni e questo è un fattore che limita a sua volta la capacità di gestire contemporaneamente un numero troppo alto di relazioni. Il numero massimo di relazioni gestibili contemporaneamente è 150 (Dunbar, 1992). Altre ricerche mostrano, tuttavia, che le persone hanno molta difficoltà nel ricordare e nel ricostruire accuratamente la propria rete sociale (Dunbar, 2010).

 

I siti di domande e risposte (Q&A): psicopportunità di apprendimento

Con l’avvento di Internet, c’è stato uno straordinario sviluppo di comunità virtuali. In particolare, esempi di comunità virtuali possono essere i siti di domande e risposte (Question and Answer sites – Q&A), appositamente progettati per aiutare gli utenti ad ottenere informazioni.

 

Nell’epoca della ‘datacrazia’ (De kerckhove, 2014), dove il mondo è governato dagli algoritmi, l’ambiente virtuale non è il male, ma il luogo dove si sviluppa l’intelligenza connettiva. La virtualizzazione può essere definita come il movimento contrario all’attualizzazione: essa consiste nel passaggio dall’attuale al virtuale (Levy, 1997). Secondo Mantovani (1995), invece, la realtà virtuale è considerata come ‘un ambiente di esperienza e di comunicazione’, ovvero una modalità di interazione che aggrega i naviganti online in comunità.

Le comunità tradizionali sono create spontaneamente quando i membri si concentrano sulle loro attività, negoziano significati che riguardano i loro interessi e la loro intera esistenza in uno spazio inter-soggettivo. Con l’avvento di Internet, c’è stato uno straordinario sviluppo di comunità virtuali. In particolare, esempi di comunità virtuali possono essere i siti di domande e risposte (Question and Answer sites- Q&A), appositamente progettati per aiutare gli utenti ad ottenere informazioni. La costruzione di questi contesti virtuali enfatizza la natura ‘transattiva’, poiché le intenzioni sono ‘negoziate secondo la legge della domanda e dell’offerta di significato’ (Mininni, 2010, 25). Queste comunità, essendo virtuali, mirano alla sincronicità e quindi all’abbattimento delle barriere spazio-temporali, ospitando, così, naviganti localizzati in diverse parti del mondo. Tenendo conto della complessità delle relazioni interculturali, basate sulla varietà linguistica e relazionale, i siti di Q&A diventano uno spazio idoneo sia per l’incontro delle culture che per la creazione di modi collaborativi di costruzione della conoscenza (Papapicco, Scardigno & Mininni, 2017). In particolare, poiché il linguaggio agisce come meta-artefatto nella co-costruzione della realtà, rappresenta, da un lato lo strumento di mediazione che permette alle persone di comunicare, dall’altro lato, può diventare oggetto di apprendimento collaborativo in siti Q&A, soprattutto quando l’oggetto discorsivo e le intenzioni di permanenza nelle comunità virtuali riguardano l’apprendimento di una seconda lingua (L2).

Un esempio di sito Q&A è Stack Exchange, che comprende oltre un centinaio di sezioni, organizzate per categorie. Ogni sezione in Stack Exchange è costituita da pagine contenenti una domanda inviata da un utente e un numero arbitrario di risposte presentate da altri utenti, in genere più esperti. Le domande possono avere una risposta accettata, votata dall’Asker originale, nel caso la risposta soddisfi la domanda/problema. Domande, risposte e utenti sono soggetti ad un processo di riconoscimento della reputazione online, per mezzo di badge (bronzo, argento e oro).

Attraverso i loro contributi, gli utenti guadagnano punti di reputazione e badge, che riflettono le competenze degli utenti e il loro status nella comunità (Calefato, Lanubile, Merolla, Novielli, 2015).

A sua volta, questo sistema di reputazione motiva gli utenti a generare contenuti di alta qualità. Stack Exchange è anche auto-moderato da membri della comunità. Per mantenere alta la qualità, i moderatori possono rimuovere le domande o le risposte perché inappropriate o irrilevanti. Ogni interazione su Stack Exchange è composta da domande, commenti alle domande, risposte e commenti alle risposte.

In particolare, il dominio dell’apprendimento della lingua italiana su Stack Exchange è una sezione di domande e risposte molto popolare tra gli utenti di diverse culture ed è proprio l’elemento culturale a determinare le differenze di interazione e collaborazione a seconda che la domanda sia posta in inglese, in quanto lingua franca o in italiano, cioè la lingua ‘oggetto’ della sezione di Q&A. Le interazioni sono, infatti, allo stesso modo collaborative, basate su processi logici che, però, non sempre portano al successo dell’interazione, Nella maggior parte dei casi, tale successo dipende dalla lingua in cui è posta la domanda: dallo studio, infatti emerge un senso di intolleranza nei confronti degli utenti che pongono le domande in inglese in una comunità virtuale per l’apprendimento dell’italiano come L2 (Papapicco, Scardigno & Mininni, 2017).

 

 

Lo sviluppo sessuale durante l’adolescenza: un’analisi delle influenze genetiche e ambientali

L’adolescenza è un periodo particolarmente importante per lo sviluppo della sessualità, sia nella prospettiva di uno sviluppo sano e normativo sia nella prospettiva di comportamenti a rischio (es. O’Sullivan & Thompson, 2014).

 

I metodi di ricerca incentrati sulla genetica del comportamento, sono particolarmente indicati per l’analisi dei contributi ambientali e genetici sulle varie dimensioni dello sviluppo sessuale; tuttavia, i principali studi presenti in letteratura, si focalizzano più sui comportamenti a rischio e sulle conseguenze negative sulla salute psico-fisica che questi comportano che sulla sessualità ‘sana’ (es. Zietsch et al., 2010). Inoltre, diversi aspetti della sessualità adolescenziale possono avere diversa eziologia e vanno considerate nel loro specifico contesto (Clark et al., 2019).

La sessualità adolescenziale è molto più variegata rispetto alle comuni interazioni che prevedono una penetrazione pene-vagina eterosessuale: infatti, accanto alle condotte a rischio suscettibili di disapprovazione sociale (es. rapporti vaginali o anali), vi sono molti altri comportamenti che sono visti positivamente (tenersi la mano in pubblico, uscire insieme per un appuntamento romantico). Ecco perché la sessualità adolescenziale è da considerarsi come un continuum ‘normativo’ (Clark et al., 2019) inquadrato nel contesto storico e sociale. I comportamenti meno normativi sono associati a un livello inferiore di funzionalità psicologica e con conseguenze negative a lungo termine (come gravidanze indesiderate), mentre quelli più normativi promuovono una regolazione psicologica positiva e un minor numero di condotte a rischio; inoltre, è stato dimostrato che i comportamenti normativi sono molto più comuni rispetto a quelli non normativi (Carver et al., 2003; Kost, et al., 2010; Stone & Ingham, 2002).

Un comportamento sessuale, tuttavia, non può definirsi staticamente fissato in un punto del continuum, ma può variare a seconda delle abitudini del gruppo sociale di riferimento, dell’identità dei giovani e della tempistica (per esempio il sesso prematrimoniale può essere o meno tollerato a seconda dell’età dell’individuo e del fatto che faccia parte o meno di una minoranza; Tolman & McClelland, 2011).

Il presente studio si focalizza soprattutto sulle tempistiche dei comportamenti normativi e non, partendo dal presupposto che le esperienze sessuali non possono essere prese in considerazione se non alla luce del loro contesto di sviluppo (es. Campbell et al, 2013).

La genetica comportamentale, prendendo in analisi soggetti geneticamente simili (come gemelli omozigoti o fraterni) si pone l’obiettivo di misurare le differenze individuali stimando il peso dell’ambiente e della genetica nel determinare queste diversità (Clark et al., 2019); come precedentemente citato, la maggior parte delle ricerche viene condotta per individuare i comportamenti a rischio piuttosto che per verificare lo sviluppo normativo della sessualità (es. Harden, 2014; Zietch et al., 2010).

Il presente studio si è posto l’obiettivo di proporre, utilizzando i metodi della genetica comportamentale, una visione più olistica dello sviluppo della sessualità adolescenziale utilizzando sia misure psicometriche che biometriche (ovvero le influenze eziologiche alla base dello sviluppo di un comportamento; Clark et al., 2019).

Il campione era costituito da 3,762 gemelli, reclutati dal Minnesota Twin Family Study (MTFS), uno studio longitudinale non ancora concluso nel momento del reclutamento (Iacono et al., 1999), di età compresa tra gli 11 e i 17 anni. Tutti i partecipanti sono stati invitati a partecipare a follow-up ogni 3-5 anni. Le abitudini sessuali sono state misurate tramite un’intervista, la Life Event Interview for Adolescent, e la frequenza dei comportamenti è stata misurata per età e genere. Sono stati presi in considerazione gli appuntamenti romantici, le rotture, i rapporti sessuali, la paura delle gravidanze e le gravidanze effettive.

I risultati hanno mostrato che i comportamenti normativi (come gli appuntamenti romantici) sono significativamente influenzati sia dalla genetica del singolo sia dall’ambiente e sono maggiormente influenzati dall’ereditabilità rispetto a quelli meno normativi (come le gravidanze indesiderate). Inoltre, i comportamenti più a rischio, ovvero quelli meno normativi, hanno mostrato grandi influenze dell’ambiente condiviso, come l’ambiente familiare. Infine, questi risultati mostrano che l’ambiente è in grado di moderare le predisposizioni genetiche, il che mette in luce l’importanza di promuovere un ambiente sano e una buona informazione riguardo alla sessualità giovanile (Clark et al., 2019).

 

Spesso nel citare gli articoli viene messo “es.”, non so se le è stato detto di farlo visto che ha scritto tante altre flash senza mai metterlo

Sulle cause dei disturbi alimentari: la genetica

I disturbi alimentari sono molto frequenti all’interno della popolazione. Al di là dei noti fattori di rischio di natura ambientale, psicologica o socio-culturali, studi sui gemelli hanno evidenziato l’importanza di fattori di natura genetica.

 

I disturbi alimentari comprendono anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata (detto anche binge-eating disorder). Nonostante la loro frequenza sia significativa – il 5-7,5% della popolazione adulta ne soffre – e nonostante le conseguenze potenzialmente devastanti dal punto di vista fisico, psicologico e sociale, solo da circa 30 anni si è iniziato a studiare queste patologie dal punto di vista biologico.

Al di là dei noti fattori di rischio di natura ambientale, psicologica o socio-culturali, studi sui gemelli hanno evidenziato l’importanza di fattori di rischio di natura biologica, cioè genetica. Gli studi sui gemelli sono eseguiti analizzando la frequenza di una patologia in coppie di gemelli omozigoti non separati alla nascita vs. la frequenza in coppie omozigote separate. Queste ultime condividono il patrimonio genetico, ma non l’ambiente in cui crescono, al contrario delle coppie non separate, che condividono entrambi. In questo modo può essere stimato il peso della componente genetica e di quella ambientale nel predisporre a una patologia. In particolare, il 48-74% (a seconda degli studi) della predisposizione alla anoressia nervosa, il 55-62% della predisposizione alla bulimia e il 39-45% della predisposizione al disturbo da alimentazione incontrollata è imputabile a specifiche varianti di geni. Non si può, pertanto parlare di cause dei disturbi alimentari, ma solo di fattori di rischio ambientali che, quando trovano un terreno fertile nella genetica individuale, possono predisporre al loro sviluppo. E’ necessario che un soggetto sia portatore di varianti specifiche in moltissimi geni per avere una predisposizione significativa, in quanto ciascuna singola variante di gene contribuisce in minima parte nella predisposizione genetica complessiva. Questo rende molto difficoltosa l’identificazione dei geni predisponenti – è necessario studiare il patrimonio genetico di moltissimi soggetti affetti (nell’ordine delle decine di migliaia), confrontandoli con altrettanti soggetti non affetti.

Ad oggi, pertanto, non è assolutamente chiaro quali geni possano essere implicati nella predisposizione ai disturbi alimentari. La maggioranza delle ricerche di identificazione di geni predisponenti è stata condotta sull’anoressia nervosa. La stragrande maggioranza dei geni candidati, identificati in studi su un numero di soggetti non particolarmente grande, non è stata confermata in studi successivi, con un numero di soggetti maggiore. Un recentissimo studio sull’anoressia, condotto da un consorzio internazionale di centri di ricerca su un campione molto grande, di circa 15000 persone, ha individuato geni già precedentemente associati a patologie autoimmuni, come l’artrite reumatoide, il diabete di tipo 1, l’asma, la vitiligine, l’alopecia areata; o ancora geni associati ad alti livelli di colesterolo HDL. Protettivi, invece, risultano geni associati ad obesità, alta glicemia e alta insulinemia a digiuno (Duncan et al., 2017). Una seconda fase dello stesso studio, che arriverà a esaminare più di 60.000 soggetti, è attualmente in corso. Questi risultati, ancorché preliminari, suggeriscono che la predisposizione biologica nei confronti dell’anoressia nervosa possa essere collegata ad alterazioni nelle comunicazioni tra sistema nervoso e immunitario, influenzate da dati metabolici, dipingendo un quadro di certo suggestivo (Baker et al., 2017).

Ad oggi, è in corso il reclutamento di un adeguato, ampio campione di soggetti per indagare i geni le cui varianti possono predisporre alla bulimia nervosa e al disturbo di alimentazione incontrollata.

Storicamente, i pazienti stessi, o i genitori e i familiari dei pazienti con disturbo alimentare, sono stati stigmatizzati, mettendo in relazione diretta i loro comportamenti con lo sviluppo della patologia. I disturbi alimentari però sono patologie complesse, alla cui insorgenza contribuiscono una miriade di fattori genetici e ambientali diversi. Uno stesso comportamento, noto per essere un fattore di rischio per lo sviluppo di DA (ad esempio, i genitori ipercritici), con una diversa genetica potrebbe non avere alcun effetto sullo sviluppo di un DA. Nessuno può essere considerato responsabile dello sviluppo del disturbo, né il paziente, né i suoi cari.

 


Articolo realizzato in collaborazione con il Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia®

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I 7 passi del perdono, di Daniele Lumera – Perché perdonare?

Perdonare è un passo spesso difficile da compiere, più grande è la percezione del torto che abbiamo subito, più forte sarà il risentimento, il rancore e la voglia di vendetta che proveremo.Ma se perdonare può essere difficile, la consapevolezza che il perdono è prima di tutto un regalo che facciamo a noi stessi ci può aiutare.

 

Cominciamo con il definire due concetti chiave: il perdono è il venir meno di un sentimento di risentimento verso una persona che riteniamo averci offeso, di conseguenza perdonare significa rinunciare a recriminare su un’offesa subita.

Per parlare del perdono e delle sue implicazioni ci rifacciamo ad un libro, I 7 passi del perdono, che ci illustra perché perdonare può avere su di noi molteplici effetti benefici.

La prima cosa di cui tenere presente è che perdonare è una libera scelta e, in quanto tale, è espressione di libertà. Della nostra libertà.

Perché il perdono ci fa paura

Il primo passo da compiere per poter perdonare è superare l’idea che nel perdono sia insito un segno di debolezza da parte di chi lo concede. Istintivamente tendiamo a rifiutare l’idea del perdono perché lo consideriamo come un’incapacità di reagire, un modo di accettare passivamente un sopruso. Al contrario, il perdono dovrebbe essere vissuto come un modo per migliorare la qualità della nostra vita liberandola da quel rancore che ci tiene legati a chi ci ha offeso imprigionandoci nella condizione di vittime. Situazione che ha effetti estremamente negativi, ci fa vivere con umori ed emozioni molto bassi che possono arrivare addirittura a indebolire il nostro sistema immunitario.

Perdono e salute

Secondo alcuni scienziati il ricordo ossessivo di quello che ci ha fatto male è causa di malattie cardiache e disturbi mentali. Odio e rabbia, come è noto, aumentano la pressione sanguigna e con essa i rischi di attacchi cardiaci.

Lo stress che deriva dalle emozioni negative agisce sul sistema immunitario, in particolare sulle citochine che sono sostanze simili alle proteine, prodotte in corso di stress o inibizioni. Il perdono riduce lo stress prodotto dal rancore e influenza il sistema immunitario mediante il rilascio di anticorpi.

Perdonare per sentirsi liberi

L’effetto più rilevante del perdono è che ci libera dalla dipendenza emozionale verso chi ci ha offeso.

Se pensiamo di essere noi i soli responsabili di ciò che sentiamo, allora smetteremo di concentrare la nostra attenzione sull’altra persona e in quell’istante le toglieremo il potere sulle nostre emozioni.

Scaricare la responsabilità della nostra vita sugli altri non ci dà la possibilità di vedere ciò che andrebbe migliorato in noi, se sono gli altri i responsabili di ciò che proviamo, che sentiamo e che facciamo, sarà difficile cambiare perché per farlo dovremmo cambiare gli altri.

Il conflitto fra due persone nasce quando si pretende che il proprio punto di vista sia l’unico corretto. Si può avere ragione senza la pretesa di avere ragione. Nella pretesa di avere ragione è contenuto il seme del conflitto, nel processo del perdono è necessario che l’individuo smetta di focalizzarsi sulla pretesa di avere ragione e sulla necessità di trovare un giusto e uno sbagliato.

Se ci hanno fatto un torto e ci arrabbiamo, ci stiamo danneggiando due volte, il perdono non va vissuto come una concessione che facciamo all’altro, ma come un’esigenza interiore di liberarsi dal peso di quell’odio e da quel risentimento.

Perdonare non significa non reagire o dimenticare, ma liberare il ricordo di quello che ci ha offeso dalla carica di rabbia e dolore che porta con sé. Con il perdono non vogliamo giustificare l’altro, ma cercare di comprendere le ragioni e le condizioni di disagio che l’hanno portato ad agire così.

Se il perdono è autentico, saremo determinati e le nostre azioni saranno guidate da chiarezza e comprensione, a muoverci non sarà il senso di ingiustizia, né tantomeno il desiderio di vendetta, perdoneremo e poi agiremo come riterremo opportuno. Perdonare, infatti, non significa necessariamente riconciliarsi, se questo avverrà sarà un semplice effetto collaterale di una nuova armonia interna che abbiamo raggiunto, in ogni caso la nostra serenità non dipenderà più da questo.

Il perdono produce una condizione di liberazione, leggerezza, gioia e felicità molto intense.

Il rancore

Quando percepiamo la sensazione di aver subito un’offesa o un’ingiustizia, crescono in noi emozioni di diversa intensità che possono protrarsi nel tempo fino a dar luogo a pensieri ossessivi.

Diamo una definizione degli stati d’animo che ostacolano il perdono:

  • Rabbia – è un istinto innato che porta a difendersi quando si è attaccati o ci si sente offesi. Si possono distinguere una rabbia primaria e una secondaria, utilizzata per rimuovere delle esperienze negative che sono sorte (es. in seguito ad uno spavento, mi arrabbio con chi mi ha fatto spaventare)
  • Odio – è un’emozione di estrema avversione che presenta impulsi aggressivi. Può essere legato a fatti razionali (es. verso qualcuno che ci ha offeso) o irrazionale (es. un pregiudizio)
  • Risentimento – è una rabbia sorda associata ad un senso di impotenza, meno duratura e profonda del rancore
  • Amarezza – senso di asprezza negativa associata al cinismo che deriva da una delusione o disillusione di un’aspettativa e crea sofferenza e dolore
  • Ostilità – un misto di rabbia, risentimento, disprezzo e disgusto di chi si aspetta un’aggressione o una frustrazione che arriverà dall’esterno (chi è già stato offeso e si aspetta di esserlo nuovamente)
  • Paura – può essere motivata (da un pericolo reale) e legata ad un istinto di sopravvivenza. Le paure innate derivano da forti stimoli fisici (es. un forte rumore), le paure apprese derivano da un’esperienza diretta. Esistono poi paure immotivate (es. che un elefante entri in casa)
  • Rancore – è la somma di più emozioni mescolate insieme: odio, paura, rabbia, colpa inespressa, umiliazione, vergogna. A differenza di rabbia e risentimento, è un’emozione che perdura nel tempo, “cova” nella mente della persona e si alimenta costantemente. L’origine di questa ruminazione può essere dovuta alla necessità che si avverte di riorganizzare il proprio vissuto per poterlo metabolizzare correttamente.

Conoscere, affrontare e fronteggiare queste emozioni è determinante nel processo verso un perdono autentico e la consapevolezza di essere artefici della propria vita. Nel perdono dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per aver dimenticato il nostro potere, per averlo dato ad un’altra persona.

 

Il valore delle origini

Sembrerebbe che le caratteristiche di personalità del figlio e la sua intera vita siano segnate dai passaggi generazionali e che egli non possa sfuggire al suo destino, ma in realtà il figlio ha la possibilità di ribellarsi e trasgredire le regole che contraddistinguono i passaggi generazionali.

 

In molti romanzi dell’800 viene trattato il tema dell’abbandono e della riscoperta delle origini. Gli umili, i diseredati sono tali perché sono stati abbandonati in quanto figli di gente poverissima, che è costretta a lasciarli perché non se ne possono prendere cura, di persone malfamate, frutto di adulterio, figli di prostitute o bambini rapiti in tenera età.

Remì, il personaggio principale del romanzo Senza Famiglia di H. Malot da cui è stato tratto anche un fortunatissimo cartone animato, viene rapito in tenera età per ordine dello zio preoccupato dall’eredità della famiglia. Prima di ritrovare la madre passa attraverso varie vicende contraddistinte da sfortuna e non serenità: adottato, dopo essere stato abbandonato dai rapitori, dalla famiglia Barberin che cade in disgrazia ed è costretta a mandarlo via; affidato a Vitali, un ex celebre tenore che adesso è costretto a girare la Francia con uno spettacolo di strada, resta da solo per la morte per freddo dello stesso Vitali; rapito insieme all’amico Mattia dalla famiglia Driscoll quando si reca in Inghilterra alla ricerca della madre, avendo saputo che quest’ultima lo stava cercando. Solo con il ritrovamento della madre a Ginevra ritroverà la serenità e potrà diventare avvocato sposandosi con Elisa, conosciuta durante un suo breve affidamento alla famiglia Acquin dopo la morte di Vitali.

Il legame materno è fonte di sicurezza e serenità e, quindi, di un debito positivo che comporta altrettanta fiducia e serenità in Remì.

La bella Esmeralda, in Notre Dame de Paris di V. Hugo, in prigione ritrova la madre che è un’ex prostituta a cui gli zingari avevano sottratto la figlia. Il valore del legame materno viene messo in risalto dal tentativo della mamma di salvare la figlia destinata all’impiccagione e di morire per questo suo gesto.

Tutte le teorie, dalla psicanalisi alle teorie sull’attaccamento, sono concordi nel ritenere che il modo in cui la mamma instaura sin dai primi giorni la relazione con il suo bambino, determinerà il modo in cui quest’ultimo, negli anni a venire, si relazionerà con i coetanei e con la società tutta.

Kohut sostiene che:

nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona (H. Kohut, 1978).

Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (D. Winnicott, 1974). Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante, che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother, quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni.

Bowlby, al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato possa ridurre il verificarsi di situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia. Le persone che sviluppano tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia. In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia avevano vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendevano, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto poteva essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riuscivano a rispondere alle esigenze del bambino non soddisfatte dal caregiver.

Nel caso di Esmeralda, la comunità zingara è riuscita a sostituire la figura materna, tant’è che è perfettamente integrata e adotta comportamenti tipici della stessa comunità.

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion, parlando della madre sufficientemente buona di Winnicott, sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è non commettere errori, ma riuscire, come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

A volte però l’errore non viene riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica, per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, le piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione, è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che:

se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero.

Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e in quanto tali ad una relazione di coppia patologica.

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano a loro volta relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto e viene vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e ad una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato ad essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta.

Frollo, l’arcidiacono della cattedrale in Notre Dame de Paris, viene destinato dalla sua famiglia di origine alla vita ecclesiastica e rinchiuso fin da piccolo nel collegio de Torchi nell’Université dove si mostra appassionato allo studio. Nella sua vita si occupa, con scarsi risultati, in maniera intensa e affettivamente significativa di tre persone: suo fratello Jean, dopo la morte per pestilenza dei genitori, il trovatello e storpio Quasimodo, la zingara Esmeralda. In tutti e tre i casi non riesce a stabilire rapporti affettivamente significativi poiché in apparenza viene tradito. Suo fratello Jean, a cui si era intensamente dedicato, scappa con gli odiati zingari. Quasimodo, che lui aveva accolto quando era stato abbandonato da tutti gli altri, non lo aiuta a conquistare l’amore di Esmeralda e lo uccide dopo la morte di quest’ultima buttandolo giù da una delle torri della cattedrale. Esmeralda lo rifiuta più volte preferendogli il capitano Phoebus, che lui pugnala alle spalle. Gli apparenti tradimenti sono la conseguenza del mancato riconoscimento dell’altro come persona in grado di esprimere le sue emozioni e sentimenti. In effetti l’arcidiacono li tratta come oggetti dei propri desideri così come lui stesso era stato oggetto dei desideri dei genitori. Non stabilisce con loro rapporti basati sull’amore ma, semplicemente, sull’obbedienza e la fedeltà assoluta. Nel momento in cui essi seguono la loro strada diventano oggetti d’odio: Jean si unisce agli zingari, Quasimodo si innamora di Esmeralda, Esmeralda si innamora di Phoenus. Emblematico è il piacere che Frollo prova nell’assistere all’esecuzione di Esmeralda di cui doveva essere innamorato.

Una trasmissione generazionale castrante, così come la madre castrante, ovvero il tentativo dei genitori di pianificare il futuro del figlio senza tenere conto delle sue esigenze, comportano una ferita narcisistica per cui il legame con l’altro diventa possesso per paura di essere abbandonati.

Frollo presenta tutte le caratteristiche presenti nel disturbo narcisistico di personalità. Le persone affette da tale disturbo tendono alla superiorità, necessitano di ammirazione, mancano di sensibilità verso gli altri e hanno un’alta considerazione di sé; abitualmente esagerano le proprie capacità, apparendo spesso presuntuosi. Credono di essere speciali, superiori, di dover essere soddisfatti in ogni loro richiesta e di avere diritto ad un trattamento speciale. Si aspettano che anche gli altri riconoscano il loro status di persone speciali e, nel caso in cui questo accada, li idealizzano. Viceversa se gli altri mettono in discussione le loro qualità reagiscono con rabbia, risultando incapaci di mettersi in discussione ed accettare le critiche. Spesso si accompagnano con persone che possono facilmente sottomettere e che li possono ammirare. Quando sono loro ad attaccarsi agli altri, ad innamorarsi degli altri, soffrono di ansia da abbandono e nel caso di un rifiuto reagiscono con rabbia, rancore e atteggiamenti depressivi. Essendo molto attenti al controllo, i legami di coppia sono spesso caratterizzati da gelosia di tipo ossessivo.

Sembrerebbe che le caratteristiche di personalità del figlio, così come la sua intera vita, siano segnate dai passaggi generazionali e che in qualche modo egli non possa sfuggire al suo destino. In realtà non è proprio così, avendo il figlio la possibilità di ribellarsi e trasgredire le regole che contraddistinguono i passaggi generazionali se questi non vanno nella direzione del raggiungimento dei propri obiettivi o del soddisfacimento delle proprie esigenze. Marius, nei Miserabili di V. Hugo, accetta di essere diseredato dal nonno materno per rivalutare il padre. Vissuto per 18 anni con il nonno materno nella convinzione che il padre lo avesse abbandonato, saputo che era gravemente malato lo va a trovare, trovandolo però già morto. Nella casa del padre trova il lascito testamentario nella raccomandazione di aiutare Thènardier, che gli aveva salvato la vita nella battaglia di Waterloo. Inoltre, dal guardiano della chiesa scopre che il padre andava a vederlo di nascosto ogni settimana in chiesa per non trasgredire il patto che aveva stipulato con il nonno. Il patto prevedeva che in cambio della rinuncia al figlio, tutto il lascito ereditario materno sarebbe andato a Marius. Tornato a casa, Marius rinuncia all’eredità del nonno litigando con lui e va via. Il nonno, nel tentativo di riconciliarsi con il nipote, tramite una zia gli manda dei soldi che puntualmente Marius rispedisce indietro.

L’accettazione e la non accettazione dell’eredità costituiscono l’asse su cui si gioca il conformarsi o trasgredire i percorsi delle famiglie di origine. Il cambiamento, l’evoluzione delle dinamiche generazionali passano attraverso il trasgredire.

Il termine trasgredire spesso ha avuto una valenza negativa in quanto nel suo significato originale vuol dire mettere in discussione le norme sociali e il non rispetto delle regole. Opposto al trasgredire è il conformarsi ovvero la totale accettazione delle norme e delle regole sociali. E’ chiaro che nel trasgredire vi è una forte spinta al cambiamento, al superamento dei limiti, a fare nuove esperienze uscendo da ciò che è considerato usuale e rassicurante. Se Prometeo non si fosse ribellato, non avesse trasgredito le regole di Zeus, gli uomini non avrebbero avuto in dono la memoria, l’intelligenza e, successivamente, il fuoco. La trasgressione, quindi, non solo ha una forte valenza positiva essendo volta al cambiamento, ma anche evolutiva.

Winnicott sostiene che i comportamenti trasgressivi sono la base per i processi di differenziazione del bambino dalla madre e per la costruzione del proprio sé. Molti studi e ricerche hanno messo in risalto i comportamenti trasgressivi durante l’adolescenza. La trasgressione consente all’adolescente di differenziarsi, di esprimere la propria unicità. Trasgredire significa non seguire le regole della massa; così facendo si distanzia e si rende autonomo. L’adolescente ha la necessità di provare a ‘sbattere le porte’ di quelle regole familiari che gli consentono di dare una misura ai suoi limiti e di poter valutare come e quando valicarli. Per far ciò ha bisogno d’interiorizzare le norme e le regole familiari. E’ proprio questo processo d’interiorizzazione che differenzia la trasgressione fisiologica da quella patologica. Se da un lato, infatti, vi è la trasgressione fisiologica che serve ad intraprendere il processo che porta all’acquisizione della propria identità e a mantenere l’ordine sociale, dall’altro, vi è la trasgressione patologica nella quale non sono avvenuti i processi di interiorizzazione dei modelli e delle norme. E’ dunque rimasta una struttura narcisistica e infantile di personalità.

Marius fa una scelta precisa tra due modelli, quello del padre, che ha sacrificato i suoi legami affettivi al fine di garantire l’eredità del nonno al figlio, e quello autoritario ed impositivo del nonno. Sceglie il modello paterno che è stato in grado di donare solo nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiato. Tale era la fiducia di poter essere ricambiato che gli lascia delle precise volontà testamentarie. Il nonno, al contrario, dona solo nella misura in cui l’altro accetta una totale obbedienza ai suoi dettami. In sostanza il nonno non nutre fiducia e speranza nel dono.

Il lascito del valore del dono contraddistingue le successive scelte di Marius. Riesce a farsi approvare il matrimonio con Cosette dal nonno dopo aver cercato di offrire la propria vita, andando a combattere sulle barricate, per il suo amore che vedeva vacillare; viene salvato dal padre adottivo di Cosette che era colui che si opponeva al matrimonio della figlia; riporta Cosette sul letto di morte del padre adottivo da cui l’aveva volontariamente allontanata.

Il tema della trasgressione per potersi svincolare dalla famiglia di origine rientra anche nell’Eugenia Grandet di Honoré de Balzac. Eugenia trasgredisce i dettami del padre, un signore avaro il cui unico scopo della vita è accumulare nuova ricchezza, regalando il suo oro al cugino Charles di cui si era perdutamente invaghita e a cui aveva giurato amore eterno. Per questo suo gesto viene punita dal padre, ma ella non desiste dal continuare a donare pur mantenendo integro ed anzi aumentando il patrimonio paterno dopo la morte di quest’ultimo. Mantiene fiducia e speranza nel valore del dono, al contrario del padre che fa morire la moglie per dispiacere e perdona la figlia solo quando si rende conto che con la morte della madre erediterà metà del patrimonio. Balzac nella parte finale del romanzo di Eugenia scrive:

Oggi la mano di lei molce segrete afflizioni di ogni casa, ed ella s’avvia verso l’alto per una strada di benefici. La grandezza dell’anima copre i difetti dell’educazione e delle prime abitudini in questa donna che vive nel mondo e ad esso non appartiene, che era nata per divenire sposa e madre esemplare e non ha marito, né figlioli, né famiglia.

La mancata costruzione di una propria famiglia è il dono che deve concedere ad una vita di donazioni. Il trasgredire comporta qualche sacrificio, ma sicuramente cambia la storia generazionale delle famiglie.

Al contrario, sempre Balzac in Papà Goriot, denuncia gli effetti negativi della trasgressione in rapporto al contesto sociale. Le figlie di Goriot, Anastasie e Delphine, perfettamente inserite all’interno della emergente società borghese vanno a trovare il padre solo per chiedergli soldi in modo da soddisfare le loro esigenze. L’amore del padre per le figlie viene descritto in maniera patologica poiché egli non riesce a dire di no alle figlie ed anzi dilapida tutti i suoi risparmi, riducendosi a fare una vita di stenti, pur di soddisfarle. Il contesto è la matrice dei significati e, quindi, la trasgressione delle figlie di Goriot trova riscontro nei nuovi valori della società borghese in cui il possedere definisce l’essere. Gli affetti, in quanto valori dell’essere, sono meno importanti dei soldi come sinonimo di possesso. E. Fromm (1976) definisce questa tendenza come distonia dell’avere in cui il comportamento è orientato a raggiungere immediatamente gli obiettivi e coinvolgersi con persone che possono appagare velocemente i propri desideri. A tal proposito scrive:

Un Avere deve possedere un fiore, lo coglie, lo fa suo. Un Essere ne contempla la bellezza, godendo di questo, percependolo per immaginare altri orizzonti.

La società borghese essendo essenzialmente consumistica deve essere per forza di cose rivolta al possesso e, quindi, tende ad esaltare l’avere. Goriot, pur godendo della nostra solidarietà in particolare per la solitudine in cui viene lasciato al suo funerale al quale le figlie non partecipano, comunque, non è una vittima ma contribuisce con i suoi comportamenti ad approvare il comportamento delle figlie. Contribuisce in maniera determinante alla rottura che le figlie fanno con la loro storia generazionale.

La distonia dell’avere è emblematicamente descritta da Zola nel personaggio di Nanà. Figlia di due operai che erano riusciti ad aprire una lavanderia e condurre una vita da benestanti per poi cadere in rovina, diventa un’attrice di teatro di successo. Per il suo desiderio di avere e di possedere lascia la carriera di attrice per dedicarsi a dilapidare il patrimonio dei suoi amanti. Nanà continua l’opera dei genitori utilizzando chiaramente altri mezzi. Il possedere, l’avere, producono anche in Nanà, come nelle figlie di Goriot, un distacco profondo dai sentimenti, un’incapacità ad amare rivolta anche a suo figlio Luigino. L’ascesa sociale da una situazione di povertà è un tema tipico del romanzo ottocentesco. Sempre in Papà Goriot  è presente la figura di Eugene de Rastignac un giovane studente universitario che lascia gli studi per inserirsi all’interno della bella società parigina. Eugene resta accanto a Goriot fino al suo funerale ed alla fine, dal cimitero, guardando i quartieri bene di Parigi lancia la sua sfida con la frase ‘E ora a noi due’.

 

Vitamina D e sintomi psicotici: la carenza di vitamina D rappresenta un fattore di rischio?

Un protocollo di ricerca pubblicato su Trials nel 2020, si è proposto di indagare l’effetto della somministrazione di Vitamina D nei soggetti con disturbi psicotici.

 

La vitamina D è un gruppo di pro-ormoni liposolubili, la cui principale fonte per l’organismo deriva dall’esposizione alle radiazioni solari e, in misura minore, dal cibo, in particolare dall’olio di pesce e dal tuorlo d’uovo.

La vitamina D è importante per il nostro organismo, principalmente regola la salute delle ossa ed è essenziale per la regolazione del calcio nel corpo; inoltre, esperimenti condotti sugli animali, hanno dimostrato come abbia anche effetti neuroprotettivi, proteggendo i neuroni dai danni infiammatori (McCann & Ames, 2008); d’altra parte, una carenza di vitamina D nei roditori porta a deficit come livelli alterati di neurotrasmettitori tipici della schizofrenia (Eyles et al., 2013).

Uno studio condotto su pazienti affetti da Parkinson ha dimostrato che, rispetto a coloro che assumevano il placebo, coloro che prendevano la vitamina D avevano una progressione degenerativa più lenta nei 12 mesi successivi alla somministrazione (Suzuki et al., 2013).

È noto in letteratura che le persone con disturbi mentali severi, come la schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo, soffrono più spesso rispetto alla popolazione generale di disturbi cardiometabolici, obesità, diabete e ipertensione; è interessante notare che bassi livelli di vitamina D si associano a problemi cardiometabolici sia in persone con disturbo psicotico che nella popolazione generale (Eyles et al., 2013).

Nonostante la ricerca suggerisca che la vitamina D sia collegata alle funzioni cerebrali e alla schizofrenia, si denota una carenza di trial sperimentali che vanno a confermare quest’ipotesi. Attualmente, gli studi sugli effetti dati dalla carenza di questa vitamina, si sono concentrati principalmente sui sintomi fisici e non su quelli neurologici e cerebrali (Tiangga et al., 2008).

Un protocollo di ricerca pubblicato su Trials nel 2020, si è proposto di indagare l’effetto della somministrazione di Vitamina D nei soggetti con un disturbo psicotico (diagnosticato con ICD-10); il razionale di questa domanda di ricerca, oltre che dai risultati sopra riportati, trova le sue fondamenta anche nei dati statistici che denotano una maggior incidenza dei disturbi psicotici in coloro che sono nati in inverno e in alta latitudine, condizioni caratterizzate dalla scarsa presenza di radiazioni solari, e quindi da minori livelli di vitamina D (Gaughran et al., 2020).

Per rispondere a questa domanda di ricerca, è stato progettato un protocollo a doppio cieco parallelo con gruppo di controllo e gruppo placebo.

Il campione sarà composto da 240 pazienti, randomizzati 1:1 in uno dei due gruppi sopra citati, la sperimentazione durerà 6 mesi, al gruppo sperimentale sarà somministrata una dose di 120,000 IU al mese di vitamina D (colacalciferolo), mentre al gruppo di controllo verrà somministrato un placebo.

I sintomi psicotici verranno valutati con la scala Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS), somministrata all’inizio della sperimentazione, a 3 e 6 mesi di follow-up.

Lo studio approvato dal comitato etico, inizierà nel 2020, la data precisa non è ancora stata esplicitata, tuttavia i ricercatori si aspettano che il gruppo sperimentale, riporterà un minor punteggio nella scala PANSS, quindi che i soggetti esposti alla condizione sperimentale, mostreranno meno sintomi positivi e negativi tipici dei disturbi psicotici, confermando in tal caso che, la somministrazione di vitamina D porti ad una riduzione sintomatologica psicotica (Gaughran et al., 2020).

 

Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati

Lo studio ha indagato l’utilizzo di nuove tecnologie da parte degli adolescenti con riferimento al benessere, alla pratica di attività sportive/ludico ricreative e al sonno, concentrandosi su possibili relazioni significative tra i parametri considerati. Trascorrere del tempo in attività sportive o ludico/ricreative non online e stabilire delle buone regole rispetto al sonno potrebbe favorire il benessere dei giovani.

 

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di articoli che hanno illustrato al pubblico un recente studio esplorativo nato all’interno del progetto Web (In)dipendente, realizzato per promuovere un uso responsabile del web da parte dei minori. Nel primo contributo gli autori hanno fornito una panoramica dei dati presenti in letteratura su tempo trascorso online, sonno e attività fisica tra i giovani. Nel secondo contributo si è entrati nel vivo dello studio esplorativo e ne sono stati illustrati metodi e strumenti. Nel presente articolo, terzo e ultimo della serie, verranno mostrati e discussi i risultati ottenuti.

 

Risultati

Tempo trascorso online

Il 96% degli intervistati ha dichiarato di connettersi almeno una volta al giorno e il 42% dichiara di aver iniziato ad utilizzare internet prima degli 11 anni. La maggior parte dei ragazzi (63.3%) trascorre almeno 3-4 ore al giorno in attività online e tra questi il 14.1% dichiara di essere sempre connesso. Il momento della giornata in cui i partecipanti sono maggiormente connessi è il pomeriggio (73.1%), seguito dalla sera (61%); un quarto dei ragazzi riferisce di essere online al mattino, mentre il 15.1% rimane connesso anche durante le ore notturne. Il 19% dei ragazzi va spesso a dormire tardi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e, per le stesse ragioni, un ragazzo su cinque circa (19.8%) riferisce di essersi svegliato durante la notte. Il 30.9% afferma di essere abbastanza o molto distratto da altre attività, quali fare i compiti o uscire con gli amici, perché impegnato nell’utilizzo delle applicazioni e dei social; tre ragazzi su quattro (74.3%) interrompono una conversazione per rispondere al telefono, il 59.6% ammette di non ascoltare qualcuno che sta parlando perché sta chattando, navigando o giocando online; e ancora l’essere impegnato in queste attività induce il 71% delle persone ad andare a dormire più tardi rispetto a quanto ci si era prefissati. Alla maggior parte (69.7%) degli intervistati è capitato di avere discussioni in famiglia dovute al tempo trascorso online e tali discussioni sono significativamente superiori tra i ragazzi che si connettono di più.

Soltanto in un terzo (33.9%) delle famiglie dei ragazzi sono state stabilite delle regole per l’uso delle nuove tecnologie; quando presenti le regole sono rispettate dalla maggior parte dei soggetti (69.2%).

Benessere e utilizzo delle nuove tecnologie

Il punteggio del benessere psicologico medio sulla scala dell’OMS-5 è 13.2 (SD = 5.8); la percentuale di ragazzi che avrebbero necessità di indagare l’eventuale presenza di depressione è pari al 46% se si utilizza il criterio di punteggio OMS-5 <13. Come evidenziato nella tabella 1, le femmine hanno punteggi significativamente più bassi e non superano la soglia di 13 indicativa di benessere psicologico; inoltre, i ragazzi che vivono in città di dimensioni più piccole evidenziano un benessere psicologico significativamente più elevato e soltanto i partecipanti residenti in città di grandi dimensioni presentano punteggi al disotto del cut-off di 13.

Adolescenti e tecnologia: i risvolti della vita online sul benessere tab 1

Tab. 1 –  OMS- 5 Statistiche descrittive della scala: medie e deviazioni standard

Le correlazioni riportate in tabella 2 indicano che il tempo trascorso online correla positivamente sia con l’andare a dormire tardi sia con lo svegliarsi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network. L’OMS-5 correla significativamente con tutte le variabili considerate, in particolare la relazione è positiva con il praticare attività sportive, di volontariato o attività ludico/ricreative, mentre è negativa sia con il tempo trascorso online sia con l’andare a dormire e con lo svegliarsi la notte per giocare ad un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network.

Adolescenti e tecnologia i risvolti della vita online sul benessere Tabella 2Tab.2 – Correlazioni tra le scale

 

Discussione

Tempo trascorso online e benessere

Nel campione del nostro studio è il 96% dei ragazzi a connettersi tutti i giorni, dato ben superiore al 72% della ricerca condotta nel 2018 dalla SIP (SIP – Società Italiana di Pediatria, 2019) e non emergono differenze significative tra maschi e femmine nel tempo trascorso online.

Il punteggio medio ottenuto alla valutazione del benessere con la OMS-5 è di 13.2 con il 46% del campione che, secondo le indicazioni dell’OMS dovrebbero fare un test specifico per indagare la presenza di uno stato depressivo.

Il dato evidenzia una significativa differenza di genere con le femmine che hanno un punteggio medio complessivo (11,92) sotto la soglia per la valutazione dello stato depressivo.

Le variabili che sono risultate significativamente connesse al livello di benessere con una relazione positiva sono il praticare attività sportive, ludico ricreative o volontariato, mentre il tempo trascorso online e l’andare a dormire tardi o svegliarsi la notte per giocare, controllare messaggi o stare sui social network correlano in modo negativo.

Un ulteriore dato emerso è la relazione significativa tra contesto abitativo e benessere tra piccola, media e grande città; più è grande il centro abitato minore è il punteggio sulla scala OMS-5.

Il sonno

Nel nostro campione il 61% dei ragazzi si connette la sera e il 15% dichiara di rimanere connesso anche durante le ore notturne. Il 19% dichiara di andare a dormire tardi la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e per le stesse ragioni il 19,8% riferisce di essersi svegliato la notte. Significativa la relazione tra chi va a letto tardi e chi si sveglia la notte.

Significativo, inoltre, il dato che evidenzia come il 71% dei ragazzi dichiara di andare a dormire più tardi rispetto a quanto prefissato se impegnati in attività online.

L’attività fisico/ricreativa

Nel nostro campione il 58,9% dei ragazzi è impegnato almeno 2 o 3 volte la settimana in attività sportive, di volontariato o ludico/ricreative non online. Solo il 25,5 % non pratica nessuna di queste attività. Il tempo trascorso online è risultato correlare negativamente con il tempo dedicato alle attività offline, mentre, rispetto alla relazione con il benessere, è emersa una relazione negativa tra il praticare attività non online e il punteggio sulla scala OMS-5. I ragazzi che non praticano alcuna attività offline hanno ottenuto un punteggio medio 11,7.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo indagato l’utilizzo di nuove tecnologie da parte dei giovani con riferimento al benessere, alla pratica di attività sportive/ludico ricreative, al sonno e abbiamo indagato se vi possano essere relazioni significative tra i parametri considerati.

I risultati mostrano come i ragazzi che praticano attività sportive ludico/ricreative dedichino meno tempo alle attività online e abbiano un punteggio di benessere percepito significativamente più alto. Rispetto al sonno, i ragazzi che vanno a dormire tardi sono anche quelli che si svegliano la notte per giocare a un videogioco, controllare messaggi o stare sui social network e sono quelli che stanno significativamente peggio rispetto al campione.

A prescindere dai due fattori analizzati, il fatto che il 46% del campione sia oltre la soglia di attenzione per la depressione rispetto al punteggio ottenuto al test dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci sembra essere un dato estremamente significativo e da tenere in considerazione. Ancora più significativo il fatto che, mentre la media del campione maschile si colloca al di sopra di tale livello, la media del campione femminile è significativamente oltre il valore di cut-off.

Garantire del tempo in attività sportive o ludico/ricreative non online e stabilire delle buone regole rispetto al sonno ci sembra possa essere un valido consiglio per tutti i genitori in pieno accordo con le regole proposte dall’American Pediatrics Association che raccomanda alle famiglie di monitorare attentamente la presenza di almeno 1 ora al giorno di attività fisica e un sonno adeguato (8-12 ore a seconda dell’età) e sconsiglia l’utilizzo di dispositivi o schermi un’ora prima di coricarsi (AAP Council on Communications and Media, 2016).

Limitazioni

Il presente studio presenta alcuni limiti: la sua natura cross-sectional non permette di stabilire nessi causali tra le diverse variabili. Uno studio longitudinale consentirebbe infatti di rilevare eventuali modifiche negli atteggiamenti e nei comportamenti anche a seguito di eventuali percorsi formativi che mirino a promuovere buone pratiche sia rispetto all’uso delle nuove tecnologie che rispetto alle attività sportivo/ricreative e al sonno. Sarebbe inoltre auspicabile ampliare la ricerca e la numerosità del campione per verificare come contesti culturali differenti possano concorrere a determinare le abitudini legate all’uso delle nuove tecnologie.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Web (In)dipendente: il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Uno sguardo ai dati su tempo trascorso online, sonno e attività fisica – Pubblicato su State of Mind il 12 Febbraio 2020
  2. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Il progetto – Pubblicato su State of Mind il 19 Febbraio 2020
  3. Web In(dipendente): il benessere e l’utilizzo delle nuove tecnologie tra i più giovani – Cosa ci dicono i risultati – Pubblicato su State of Mind il 25 Febbraio 2020

Ipnosi in pillole (2018) di Marco Mozzoni – Recensione del libro

Ipnosi in pillole, il recente lavoro di Marco Mozzoni, psicologo psicoterapeuta specialista in ipnosi clinica, docente universitario e consulente scientifico del MIUR, può essere considerato il punto di convergenza delle traiettorie cliniche, educative, esperienziali e di ricerca appassionatamente percorse, nel corso degli anni, dall’autore.

 

Un testo dall’obiettivo ambizioso: quello di porgere al lettore (che desideri accrescere il proprio benessere o fronteggiare i più diffusi disturbi psicologici), uno strumento fruibile e chiaro, che connetta sapere scientifico ed esperienza clinica, e che sappia offrire a chiunque voglia accostarsi all’ipnosi la possibilità di sperimentarla in prima persona.

Obiettivo che l’autore si prefigge di raggiungere coniugando in modo innovativo teoria e pratica e proponendo una sorta di viaggio esperienziale ‘in’ ipnosi, al netto delle spettacolarizzazioni commerciali, che parallelamente si traduce in un viaggio nell’essere umano. Perché, sottolinea Mozzoni, ‘l’ipnosi si fa prima a farla che a spiegarla’.

Tuttavia, prima di lasciar addentrare il lettore-apprendista di ipnosi ‘nell’officina’, l’autore dedica uno spazio alla conoscenza dei cosiddetti ‘attrezzi del mestiere’: e così il nostro corpo, i suoi organi, la mente conscia e inconscia, le funzioni e i disturbi psicologici trovano uno spazio chiaro e definito, nel quale poter essere attentamente osservati e conosciuti, quantomeno nei loro meccanismi essenziali.

Approcciate le nozioni basilari che ogni buon apprendista necessita di padroneggiare, inizia il viaggio.

Come un tuffo, Mozzoni conduce il lettore direttamente nell’esperienza – e nella maggior conoscenza – di sé: pagina dopo pagina, si entra in contatto con contesti e correlati fisiologici e psicologici di ansia, depressione, disturbi psicosomatici, fobie, trauma, dolore acuto e cronico, dipendenze, comportamento alimentare, mantenimento della salute, sistema immunitario, creatività.

La sensazione sperimentata nella lettura di questa parte del testo è che, per ogni argomento trattato, l’autore eliciti anche lo spirito di osservazione e la perspective taking facendo accomodare, via via, il lettore in diverse angolazioni prospettiche, che consentono di esperire diversi possibili punti di vista.

Dalle differenti prospettive assunte, ciascun tema trova una propria definizione o ridefinizione di significato, un correlato scientifico, una potenziale funzione adattiva.

Contemporaneamente, l’autore guida gli apprendisti, a questo punto naturalmente posti nella prospettiva di ‘osservazione di sé’, verso la sperimentazione di strategie mirate a rendere ciascuno agente principale della propria ‘cura’ e del potenziamento del proprio benessere.

Il tutto, in una cornice stilistica accogliente, elegante e discreta, proprio come chi voglia accompagnare con cura un ospite in un viaggio molto importante, rispettandone i tempi e le esigenze. Citando lo stesso Mozzoni: ‘procedi pure al tuo ritmo e, quando senti di aver fatto sufficiente esperienza, puoi fare subito da te’.

 

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