Sadismo sessuale: il confine sottile tra dolore e piacere
Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5, APA 2013), il sadismo sessuale è una forma di parafilia sessuale in cui i comportamenti sadici si accentuano fino a diventare dannosi.
Un comportamento sessuale sadico moderato è una pratica sessuale riscontrabile tra adulti consenzienti, di solito è di portata limitata, non è nocivo e non soddisfa i criteri clinici per un disturbo parafiliaco. Tuttavia, il suo divenire patologico e coercitivo dipende dal grado di espressione. Infatti, il sadismo consiste nell’infliggere sofferenze fisiche o psicologiche (es. umiliazione, terrore) sull’altro per stimolare l’eccitazione sessuale e l’orgasmo.
Quando il sadismo sessuale comporta la messa in atto di comportamenti, fantasie o impulsi che causano disagio significativo, compromissione comportamentale significativa o danno ad altri, si parla di disturbo da sadismo sessuale. In particolare, per la diagnosi di disturbo da sadismo sessuale è fondamentale che il comportamento sadico venga messo in atto nei confronti di una persona non consenziente. Inoltre, bisogna specificare se avviene in ambiente controllato (individui che vivono in ambienti istituzionali o in altri ambienti dove le possibilità di impegnarsi in comportamenti sessuali sadici sono limitate) e se è in fase di remissione completa, ossia l’individuo non ha messo in atto tali desideri con una persona non consenziente e non si è verificato alcun disagio o compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita di un individuo per almeno 5 anni e all’interno di un ambiente non controllato. Si possono distinguere forme diverse di sadismo: sadismo criminale, sadismo perverso e sadismo nevrotico.
Lo scopo del presente studio è fornire una revisione sistematica della letteratura riguardante il sadismo sessuale coercitivo degli ultimi tre anni. È stata condotta una ricerca sistematica qualitativa della letteratura presente sul sadismo sessuale in diversi database, focalizzando successivamente l’attenzione su 25 studi e articoli pubblicati in un periodo di tempo limitato agli ultimi tre anni.
La maggior parte degli studi ha evidenziato che il comportamento sadico sembra essere particolarmente presente nel contesto criminale e in psichiatria forense. Quando viene praticato con partner non consenzienti, il sadismo sessuale costituisce un’attività criminale e generalmente continua sino a che il soggetto che attua comportamenti sadici non venga arrestato; tuttavia, esso non è sinonimo di abuso sessuale, ma una complessa miscela di sesso e potere sulla vittima. In particolare, uno studio dimostra che la percentuale di autori di reati sessuali maschili con diagnosi di sadismo sessuale era del 4,4%, ma il tratto è presente in una percentuale molto più elevata di persone che hanno commesso omicidi motivati sessualmente (Eher et al., 2019).
Altri studi, invece, erano focalizzati su una possibile analisi dell’eziologia del disturbo sadico coercitivo e degli elementi coinvolti evidenziando che il legame tra sadismo e coercizione sessuale non può essere attribuito a cause genetiche o esclusivamente all’ambiente familiare. Inoltre, è stata evidenziata una correlazione significativa tra il disturbo sadico sessuale e il disturbo antisociale di personalità e disturbo della condotta (Baur et al., 2016).
Ciò che emerge dagli studi è l’importanza di sottolineare l’utilità degli indicatori comportamentali per la valutazione del sadismo sessuale in procedimenti legali e contesti forensi, in modo da prevedere un possibile comportamento sadico criminale. In questo caso la valutazione era effettuata tramite l’utilizzo della Sexual Sadism Scale (Yoon et al., 2019) e del Massachusetts Treatment Center (MTC; Longpré et al., 2019). Quest’ultimo strumento era basato sui dati di archivio di 486 autori di reati sessuali maschili adulti che erano stati valutati in un’istituzione correzionale in Massachusetts tra il 1959 e il 1984 e valutano vari aspetti del comportamento della scena del crimine. Questi indicatori sostengono, in termini clinici, una struttura dimensionale del sadismo sessuale che non preclude l’uso di etichette e soglie diagnostiche, ma lo definiscono piuttosto un continuum che prevede diverse manifestazioni comportamentali.
Tra i trattamenti maggiormente proposti con i pazienti sadici vi è la psicoterapia psicodinamica, (anche se non sempre risulta efficace) il cui obiettivo non è quello di eliminare la parafilia, ma di modificare le relazioni oggettuali (ossia i rapporti stabiliti nel corso dello sviluppo con persone o cose dell’ambiente esterno significative sul piano affettivo), del funzionamento dell’Io e l’integrazione del comportamento perverso con il resto della personalità. Altri trattamenti si basano sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale e su interventi multidisciplinari che includono in alcuni casi anche la prescrizione di psicofarmaci, quali psicotropi serotoninergici e antiandrogeni che vanno a contrastare gli elevati livelli di testosterone nei pazienti.
Un limite di questa review è costituito dal fatto che quasi tutti gli studi hanno riguardato partecipanti o autori di sesso maschile e, poiché esistono casi di sadici sessuali femminili, sono necessarie ulteriori ricerche su questo argomento. Inoltre, si potrebbero approfondire le possibilità di trattamento per gli individui più patologici.
La “rivoluzione cognitiv(ist)a” del Terapeuta Sapiens, e dopo cosa ci sarà?
Se è vero che la terapia personale per un terapeuta è fondamentale, perché non tutti la fanno? La self-disclosure è una manovra pericolosa oppure contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente, favorendo una maggior vicinanza? Che influenza hanno questi aspetti sulla relazione terapeutica?
Si suggerisce l’ascolto del brano Preludio (Osanna, 1972) durante la lettura.
Parto dal presupposto che mi trovo in accordo con alcune posizioni di entrambi. Sono d’accordo con la collega Zoppi quando sottolinea l’importanza della psicoterapia personale (anche se lei parla di analisi) per ogni terapeuta (o analista). Al riguardo ne avevamo già parlato (proprio qualche giorno prima della pubblicazione dell’articolo della collega) io e Virginia Valentino in L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale.
Insomma la terapia personale per un terapeuta è fondamentale. Perché allora non tutti la fanno? Non sottovalutiamo il fatto che ha un costo e non è basso. Spesso durante la scuola molti studenti non se la possono permettere, non rimaniamo solo su aspetti psicologici (resistenze o schemi personali), ma teniamo anche conto di questi aspetti reali (economici) che incidono notevolmente. Stesso discorso riguarda la supervisione e la formazione. Certe scuole di stampo psicodinamico richiedono sedute anche bisettimanali, alcune addirittura richiedono un tot di monte ore certificato (presso i loro stessi docenti) anche solo per potersi iscrivere. Credo sinceramente che anche questo spinga molti giovani laureati a scegliere le scuole di orientamento Cognitivo-Comportamentale. Mi sembra una situazione molto simile a quella che spinge i pazienti meno abbienti a rivolgersi e agli psichiatri dell’ASL pagando solo il ticket, ai counselor e altre figure periferiche anziché accedere alla psicoterapia negli studi privati. Concordo anche con Ruggiero quando risponde alle vedute, a mio parere, un po’ stereotipate della collega. Ad ogni modo, senza scomodare Freud, Ferenczi e ancora più anacronisticamente Lacan (lasciamoli riposare), la terapia personale, almeno per me, è indispensabile, non solo come persona, ma anche come terapeuta. Non è questa la sede per specificarne i motivi. Rispondendo comunque a entrambi i colleghi cerco di portare avanti la mia formulazione. In particolare quando Zoppi scrive:
La terapia cognitiva, diversamente dalla psicoanalisi, ha tre grandi aree di problematicità: 1) un’attenzione settoriale al disturbo; 2) il trattamento solo del sintomo con il rischio di nuove ricadute e cronicizzazione.
Eccoci ancora alle prese con questa storia. Una volta mi ritrovai ad un convegno a relazionare con un collega psicoanalista ortodosso, io mi stavo aprendo ormai da tempo ad assimilare nuove prospettive e avevo voglia di un confronto con lui, fui gelato quando mi disse qualcosa tipo: “Certo che voi cognitivisti che volete cambiare i pensieri della gente…”. Voglio ricordare che con la parola “Cognitivo”, della locuzione “Terapia Cognitivo-Comportamentale”, non si intendono solo i pensieri automatici negativi di Beck, la CAS (Cognitive Attentional Syndrome) di Wells o le varie forme di pensieri superficiali appartenenti al “qui e ora” indagati da tanti altri autori. Ci sono ben altri aspetti del funzionamento mentale, ad esempio, quelli che lo stesso Beck chiamava “Core Beliefs”, Ellis “Credenze Disfunzionali Irrazionali”, mi vengono in mente anche gli schemi di Piaget, i MOI di Bowlby o la formulazione della Terapia Metacognitiva Interpersonale per i Disturbi di Personalità che poi riprenderemo. Attengono tutti ad una concezione a mio parere “cognitivista” (nella mia interpretazione inteso come un atteggiamento clinico, operativo verso il funzionamento mentale) e non cognitiva (cioè un atteggiamento puramente teorico, speculativo o accademico). Questo per dire che la psicoterapia cognitiva non è solo quello dei servizi pubblici anglofoni e dei protocolli “evidence based” di 8-12 sedute di cui si pubblica tanto. Potrei anche semplicemente dire che non è vero, che la collega si sbaglia, nei primi mesi del 2020 non è così, se lo è ancora negli altri stati questo non lo so, ma adesso in Italia non è così (o almeno lo spero). Ancora, la collega scrive:
Nella terapia cognitiva (come in altri modelli) il rischio di usare la self-disclosure può indurre un contatto e apertura eccessive fino a veri e propri processi di inversione del ruolo.
Ruggiero replica affermando che nella self-disclosure vi è insito un aspetto cognitivo:
Normalizzazione del disagio giudicante che il paziente sente verso i propri stati d’animo, ma soprattutto c’è un aspetto relazionale: la normalizzazione funziona non per il suo contenuto tecnico ma perché il terapista crea quella situazione di massima condivisione che è, la rivelazione di sé all’altro, la rottura della parete.
Continua:
E però confessiamolo: questa è una risposta pedante. Chiediamoci invece: e se avesse ragione Zoppi? E se malgrado tutte le teorie fosse concretamente possibile che il terapeuta cognitivo sia a rischio di un eccesso di accudimento e condivisione con il paziente?
Duetto e aria
Ma che cos’è la self-disclosure e a cosa serve? Credo sia più facile a farsi che a dirsi. Nella mia esperienza contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente. E’ qualcosa che favorisce (agita nel modo e nel momento giusto), una maggiore risonanza, una vicinanza, non è quindi, almeno secondo il mio modesto punto di vista, semplicemente una “normalizzazione” o una “condivisione”. Anche (ma non solo), la self-disclosure favorisce i cosiddetti “now moments”:
In un “momento di incontro” gli aspetti transferali e controtransferali sono ridotti al minimo, mentre viene messa in gioco l’umanità dei due partner, relativamente liberi dai vincoli del loro ruolo. (BGPSG, 2012)
Si vive sulla pelle di entrambi:
La percezione immediata di essere simile all’altro. (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).
Alcuni tra gli aspetti cardine di una buona relazione terapeutica riguardano quello che succede all’interno di un contesto relazionale reale: simpatia reciproca, affinità, condivisione di interessi o passioni comuni e anche ovviamente i vissuti e agiti transferali e controtransferali, i pazienti vivono la relazione terapeutica come i rapporti reali, per loro invalidanti o dolorosi (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Un terapeuta cautamente trasparente, poco criptico, che fa vedere la sua mente, anche con qualche self-disclosure, sicuramente aiuta a creare il prerequisito indispensabile della sintonizzazione per ogni terapia, oltre a favorire nel paziente una maggiore comprensione degli stati mentali altrui, abilità in lui molto o del tutto assente. Tornando al discorso dell’utilità della terapia personale, Ruggiero scrive:
Il problema non è introdurre o meno l’analisi personale, ma introdurla senza ripensare e, se è il caso, esplicitamente lasciarsi alle spalle i principi del paradigma clinico cognitivo comportamentale in relazione al rapporto tra formazione e analisi personale. Il rischio è trasformare questo inserimento nella solita iniziativa eclettica che sta diventando la vera debolezza dell’ambiente cognitivo in senso lato, un ambiente ombrello in cui si infila di tutto.
Secondo me, la terapia personale, proprio alla luce di un approccio clinico di stampo cognitivo, ma comunque strutturato sugli schemi, ritengo sia importante se non indispensabile. Nel bene e nel male, dovremmo aprirci alle varie “iniziative eclettiche”, con esiti, certo, non sempre proficui. Il fatto è che siamo nel corso di un fiume in piena, c’è un fermento nel mondo clinico che non accenna a estinguersi (fortunatamente), non dobbiamo e non possiamo giacere nelle rassicuranti pozze. Nel fiume dell’integrazione non possiamo rimanere sulle sponde della rigidità (Siegel, 2017). Ancora Ruggiero:
Non per nulla ci siamo inventati il fantasma interno del paziente difficile, il mostro che ci molla lì in seduta e se ne va perché sbagliamo una parola.
In realtà è un fantasma incarnato e davvero esistente, nella sofferenza del paziente, nei suoi schemi e in quelli del terapeuta. Contribuiamo anche noi, appunto con le nostre rappresentazioni sul paziente e i nostri schemi a farlo droppare, forse sbagliando qualcosa in più di una singola parola. Spesso poi, non ce ne rendiamo nemmeno conto e di conseguenza, non ripariamo una microfrattura relazionale che anche con una self-disclosure appropriata e sentita, una metacomunicazione o lo svelamento di un proprio stato interno (o di un “controtransfert”) consente di favorire un clima più caldo senza proteggere troppo il paziente. Che poi nel mondo relazionale traumatico e/o invalidante in cui è vissuto, proteggiamolo pure un pochino il nostro pazientino. Ovvio che poi, tutto dipende dalle caratteristiche del paziente e dalla fase terapeutica in cui ci troviamo, decentriamoci da noi stessi e cerchiamo di capire il suo “piano”, quanto si fida, il suo bisogno attivo quel momento, i suoi obiettivi sani, i traumi, relazionali e non, che vorrebbe gestire, i sensi di colpa e le credenze patogene che sta cercando di testare (Gazzillo, 2016), con noi, essere umani, prima che terapeuti.
Recitativo e cavatina
Forse siamo un po’ traumatizzati, forse siamo sempre un po’ dissociati. (Ruggiero)
E’ vero. Io lo sono spesso. A volte mi “traumatizzo e mi dissocio” anche in seduta. Tuttavia cerco di riconoscere e modulare questi stati interni, a volte facendo vedere anche dei pezzettini della mia mente al paziente. Questo gli permette di riconoscere anche i suoi stati interni e le memorie associate incarnate da cui si sono schematizzati (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Da qui c’è la svolta. Giochiamo a carte scoperte e il clima in seduta diventa sereno e rilassato. In questo stato relazionale di “sintonizzazione preriflessiva elevata”, oltre alle tecniche TCC, possiamo concordare col paziente anche di correre nudo in un bosco norvegese innevato (Encouragement of Risk Taking), ci andrà perché mi ha sentito vicino (senza per forza diventare attaccamentologi Bowlbiani o Winnicottiani), lo ha sentito dalla persona, non perché glielo ha detto il clinico che segue i protocolli “evidence based”. E infine, sempre Ruggiero:
Grazie Liotti, sul serio; anche se rimaniamo diffidenti verso la forzata ricerca di una serie di interventi relazionali alla ricerca della cooperazione come esito: ecco dove potrebbe celarsi il rischio accuditivo, nella ricerca della cooperazione come esito e non come connotazione.
Grazie Liotti davvero. Vero è che la cooperazione non la si cerca e non la si forza, è qualcosa che emerge in seduta, nell’autenticità relazionale, nella condivisione di stati mentali, esperienze e anche vissuti (senza esagerare), nel piacere reciproco di stare assieme in pochi metri quadrati di spazio. Inoltre, non è un fine o un esito da agguantare, ma lo “strumento” che ci permette di raggiungere gli obiettivi terapeutici condivisi e cooperativamente concordati. In tal senso allora, non ci vedo nessun rischio accuditivo, anche perché la cooperazione è un sistema semplicemente diverso dall’accudimento: sia ad esempio per l’origine e la finalità evoluzionistica, sia per l’assetto emotivo e relazionale. Si può passare così dai SMI di secondo livello (di cui la cooperazione e l’accudimento, secondo l’architettura liottiana), alla sintonizzazione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, 2008), qualcosa di più elevato che muove pure le montagne innevate norvegesi. E qui torna il discorso dei “now moments” e della sintonizzazione tra paziente e terapeuta in seduta (Meta-self-disclosure: perdonate i rimandi alla Norvegia ma i miei spazi e i miei tempi domestici in questi giorni sono dominati dal secondo capitolo di un celebre film d’animazione per bambini ambientato appunto tra le nevi e i ghiacci norvegesi). In ogni caso possiamo fare interventi sulla relazione, non solo per accudire o proteggere il paziente, ma anche (e forse soprattutto) per aiutarlo a esplorare meglio il suo mondo interno, lo stato intersoggettivo della relazione e anche la mia mente. Mi viene in mente un caso recentissimo: rivedo una paziente in seguito a un tentato suicidio tramite impiccagione e relativo ricovero psichiatrico. Lei è orfana di padre e con madre psicotica ricoverata da decenni in un centro residenziale. La terapia andava bene, la famiglia (allargata) ad un certo punto si è intromessa ed è stata costretta a interrompere il percorso. Quando l’ho rivista, dopo 3 mesi, era distrutta, consumata nel corpo, nell’animo e nell’energia. Dimagrita e consunta come un malato terminale. Gli occhi erano opachi e spenti. Ad un certo punto della seduta, verso la fine, ho voluto rischiare, ho fatto un intervento un po’ avventato, ma sincero, conoscevo il funzionamento della paziente e lo potevo fare. Con un accenno di sorriso le ho detto: “Quindi adesso ha imparato a realizzare un cappio? In effetti lei è sempre stata brava con le attività manuali. E’ una cosa che io non saprei fare, a pensarci mi sembra davvero difficile, è vero? Come si fa?” La svolta. Ha cominciato a sorridere. Ho rivisto la luce nei suoi occhi, la sua postura curva è cambiata, le spalle si sono allargate facendo emergere il petto, mentre con voce vivace, ridacchiando sommessamente, mi ha raccontato come si costruisce un cappio e le difficoltà incontrate nel farlo. Ad un certo punto si è fermata e mi ha guardato fisso negli occhi. Era sorpresa. Forse del suo cambiamento di stato mentale. Le ho detto che mi sono permesso di dire quella frase perché ero abbastanza sicuro che potevamo anche permetterci di ironizzare assieme su una cosa così drammatica. Mi ha risposto: “Si è vero”. Le ho fatto notare il passaggio di stato e i correlati emotivi e paraverbali. Senza troppa retorica né troppo buonismo. Poi c’è stato un momento di commozione, anche io mi sono commosso (ma senza lacrime) e se ne è accorta. Eravamo vicinissimi. Mi ha sentito. Lo scopo non era quello di farla piangere o ridere su una sua sofferenza. Avevo compreso che in quel momento lei non aveva bisogno di essere accudita, di ricevere affetto, tantomeno di essere sostenuta, incoraggiata per il suo presente difficile e il suo futuro incerto, ovvio che non aveva bisogno di essere rimproverata, giudicata e nemmeno validata nella sua autonomia per quel gesto di protesta rabbiosa estremo. Ho compreso che in quel momento aveva bisogno solo di sentire una persona vicina, complice. Come quando ci si guarda negli occhi senza parlare sapendo che si sta pensando la stessa cosa, divertente o triste che essa sia. Ecco questo non è assolutamente accudimento, manco cooperazione, forse è questa la dimensione intersoggettiva della relazione? Qui non c’è rischio di accudimento, tantomeno gli effetti iatrogeni della self-disclosure. Solo dopo, mentre mi raccontava come si realizza un cappio, si è attivato il sistema cooperativo, “shiftando” poi sull’attaccamento quando si è commossa. Questo passaggio non poteva realizzarsi se prima non andavamo su un sistema di ordine superiore: l’intersoggettività, la sintonizzazione. Solo in condizioni di sicurezza relazionale poteva permettersi di viversi un dolore immenso e di chiedere aiuto.
Gran finale fugato
Concludendo, e replicando ai colleghi sulla presunta superficialità degli approcci cognitivisti, mi sembra che non si tenga conto degli enormi sforzi che si stanno facendo negli ultimi anni da vari orientamenti e scuole di pensiero che, partendo da una base sia psicodinamica, sia cognitivista, hanno cercato e stanno cercando, di indagare e di agire su dinamiche mentali, corporee, emotive o comportamentali più strutturate. Mi viene in mente la Schema Therapy, la corrente Cognitivo-Evoluzionista, la Control Mastery Theory, alcuni filoni bottom-up relativamente più recenti come la Mindfulness, la Sensorimotor o l’EMDR (ovviamente con tutti i suoi limiti). In particolare, la Terapia Metacognitiva Interpersonale per i disturbi di Personalità (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore) sta svolgendo negli ultimi anni un tentativo, non di integrare, ma di fondere diversi ambiti tradizionalmente afferenti in modo rigido alla psicodinamica, alla psicologia “del profondo”, con orientamenti riduttivamente definiti cognitivisti e altri approcci tipici dell’area bottom-up o gestaltica. D’altronde lo stesso Dimaggio, uno dei fondatori della TMI, è stato definito il “più cognitivista tra gli psicodinamici e il più psicodinamico tra i cognitivisti”. A mio parere non si tratta di un processo di integrazione tra vari orientamenti, tecniche o procedure consolidate. La pizza Margherita non è l’integrazione tra focaccia, fiordilatte, basilico e pomodoro, è la pizza Margherita “tout court”. Io la vedo ben più di un’integrazione, non c’è nessuna volontà, nessuno sforzo cosciente nel fare questo, almeno non mi sembra. Credo che si tratti in realtà di un sforzo non solo accademico e teorico, ma anche e soprattutto clinico, perché è lì che la TMI sta sortendo gli effetti più evidenti, proprio dove meno risuona, all’interno degli studi clinici (“Stiamo vedendo che sta roba funziona”, cit.). Non è qualcosa alla Orson Welles quando diceva: “Il talento copia il genio ruba”. La TMI non sta integrando ma sta attingendo, sta cucinando dei buoni ingredienti per una cucina ricercata. Le varie procedure, tecniche, visioni si stanno compattando in un unico corpus teorico, clinico, applicativo e procedurale solido, coerente e compatto. Tutto questo ha un effetto iatrogeno positivo molto stimolante giacché sta producendo un avvicinamento tra diverse prospettive, diversi orientamenti anche storicamente distanti tra loro, diverse formazioni accademiche e terapeutiche.
‘Ehi Google, cosa sai fare?’: gli assistenti digitali al nostro servizio – Psicologia Digitale
Il mercato degli smart speaker sta crescendo rapidamente: a livello globale, secondo i dati di Canalys, si stima che alla fine del 2019 ne siano stati venduti circa 200 milioni.
PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 7) “Ehi Google, cosa sai fare?”: gli assistenti digitali al nostro servizio
Milioni di persone quindi fruiscono quotidianamente di contenuti e servizi digitali tramite smart speaker come Amazon Echo e Google Home (ma anche Xiaomi, Alibaba, Baidu tra i player mondiali).
Ascoltare la radio o la musica, controllare altri device come la tv, avere accesso a notizie su meteo e traffico in tempo reale, gestire timer e sveglie, richiedere informazioni e aggiornarsi su borsa e finanza: basta la nostra voce per eseguire dei comandi.
Smart speaker: cosa sono
Con Internet of Things (IoT) si fa riferimento all’insieme delle procedure e delle tecnologie che collegano diversi oggetti tramite rete wireless, utilizzando sensori e altri componenti degli oggetti stessi. Gli smart home device, dispositivi ‘intelligenti’, si basano su IoT per collegare vari dispositivi ad uso domestico, per esempio telecamere di sicurezza, smart speaker, sistemi di illuminazione, termostati intelligenti, smart hub, rivelatori di fumo, ecc. Si tratta di soluzioni che consentono di monitorare, controllare e gestire tutti questi apparecchi elettronici.
Gli smart speaker (o smart home personal assistant, SPA), che fanno parte degli smart home device, sono progettati per compiere alcune azioni e controllarne altre a comando: possono riprodurre musica ma anche accendere o spegnere altri dispositivi come una lampada o la tv, alzare o abbassare il volume, il tutto su comando senza altri stimoli che la voce umana.
Smart home personal assistant: cosa ci dice la ricerca
Una delle regole auree del marketing è creare bisogni per poi soddisfarli. Abbiamo davvero bisogno di un assistente vocale per sapere che ore sono o spegnere la tv?
Al momento la ricerca non ci dice molto sulle motivazioni che ci spingono ad utilizzali.
Molti studi si sono focalizzati invece sul tema della privacy: infatti, gli smart speaker se da un lato offrono vantaggi e praticità, dall’altro sollevano anche problemi di sicurezza a causa dei microfoni in ascolto continuo. Nonostante una generale crescente preoccupazione, secondo Lau e colleghi (2018) nei fatti molti utenti che li utilizzano sembrano poco consapevoli circa i potenziali rischi per la loro privacy e hanno una fiducia ‘cieca’. Questi utenti ‘barattano’ i propri dati personali pur di utilizzare questi device e raramente personalizzano i setting sulla privacy.
Alcuni studi, come ad esempio quello di Park e colleghi (2018), provano ad identificare quali sono le caratteristiche predittive dell’uso degli smart speaker, in particolare individuando funzionalità, design e caratteristiche del prodotto (come la disponibilità percepita) come principali driver.
Altri studi esplorano invece i possibili utilizzi con pazienti con lesioni cerebrali e disturbo da stress post traumatico; l’obiettivo è duplice: identificare le opportunità che il prodotto può offrire come tecnologia di assistenza e definire le sfide riguardo l’usabilità per persone con deficit cognitivi (Wallace & Morris, 2018).
Ancora, altri autori (ad esempio, Reis e colleghi nel 2017) hanno analizzato come diversi assistenti (Amazon, Google, Microsoft e Apple) potrebbero essere utilizzati per aiutare gli anziani a rafforzare i loro legami sociali con la famiglia, gli amici e i gruppi di ex colleghi di lavoro: gli assistenti digitali possono acquisire informazioni dall’utente attraverso le immagini della telecamera, oltre a comunicare con l’utente mediante un linguaggio vocale naturale. Dato che isolamento sociale e solitudine sono fattori di rischio soprattutto in popolazioni di età avanzata, l’interazione, seppure mediata, potrebbe avere un effetto positivo e protettivo.
Gli smart home personal assistants (SPA) si stanno diffondendo sempre di più e di pari passo l’approfondimento di varie aree di ricerca. Come per la maggior parte delle nuove tecnologie, l’adozione da parte delle persone è così rapida che precede le evidenze scientifiche; nei prossimi anni assisteremo a un consolidamento della tecnologia e delle nostre conoscenze.
Psicologia, psichiatria e pensiero mafioso hanno avuto, fino ai primi anni ’90, pochi punti di contatto. Solo recentemente si è indagato sulle peculiarità del pensiero criminale organizzato e su tutto quello che circonda questo mondo.
La cultura mafiosa ha sempre avuto la capacità di nascondersi, mimetizzarsi all’interno delle realtà civili ed istituzionali nelle quali si è trovata ad operare, determinando una cortina di silenzio ufficiale che la rendesse invisibile. Una prima precisazione: nei nostri studi parliamo di cultura mafiosa o pensiero mafioso come una modalità distorta di vivere la propria identità ed i rapporti con il sociale tipici dell’organizzazione criminale mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)
Il pensiero principale, che distingue i membri di un’associazione criminale organizzata, come la Mafia, e i criminali comuni, è sicuramente il senso di appartenenza all’associazione stessa, connesso ad un forte senso di essere un “Uomo D’onore”. Come specifica il Prof. Lo Verso:
Abbiamo sostenuto che Cosa Nostra non è soltanto un’organizzazione criminale, nel senso che la sua caratteristica più specifica è il tipo d’identità del soggetto mafioso: nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore.
Possiamo quindi capire, in una prima analisi, che il senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale, spinge i membri ad identificarsi fortemente con il gruppo stesso, con la sua simbologia, con i suoi metodi e con i suoi riti.
Questo non ci deve sorprendere in quanto gli studi e le pubblicazioni di molti psicologici sociali hanno esaminato ed interpretato le funzionalità e le disfunzionalità dei gruppi, come il conformismo normativo, l’identificazione dei ruoli, etc.
Attraverso quale percorso si diventa uomo d’onore? In molte ricerche abbiamo notato come questi soggetti provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da famiglie in cui i valori tipici del pensiero mafioso sono presenti e proposti come matrice unica di significazione degli eventi. Un mondo anatropo-psichico in cui vengono esaltati i valori maschili della forza, del coraggio, dell’onore, della virilità, della freddezza, di contro al mondo degli “sbirri”, dei poliziotti, dei giudici, delle forze dell’ordine in generale. Questa rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini “rispettabili” ed uno esterno malvagio è caratteristica fondante del pensiero mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)
Naturalmente questo si va a sommare ad una cultura che si tramanda di padre in figlio, nonché dall’influenza sociale oltre che informativa, nonché forti strumenti di persuasione sia dei pari, sia della famiglia, sia appunto della società stessa. Va sottolineata quindi anche una forma di conformismo e di obbedienza alle figure autoritarie di riferimento, in cui
l’Io individuale è pienamente coincidente con il Noi sovra-personale e trans-personale. Il soggetto non può essere diverso, altro, dal mondo che lo ha concepito psichicamente,
Già in questa definizione abbiamo presente l’orizzonte culturale, antropologico e psichico tipico di questa realtà, che la caratterizza come una modalità di pensiero specifica. Il nostro modello teorico, quello della gruppo-analisi soggettuale italiana (Lo Verso G. , 1994), ci ha in questo permesso di indagare questa realtà a partire dall’attenzione al legame che esiste tra mondo psichico (cosciente ed inconscio) del soggetto, famiglia antropologica e dimensione sociale.
Per l’identità mafiosa l’alternativa è tra l’angoscia di essere nessuno ed un’esaltazione onnipotente del proprio Sé data dall’appartenenza alla famiglia mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)
Diversi studi, soprattutto del Prof. Lo Verso e colleghi, hanno delineato che, DSM alla mano, il disturbo che più si avvicina al comportamento mafioso è quello antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996).
In questo caso abbiamo a che fare con persone ad alti livelli di funzionamento, con un’integrazione dell’identità, esame di realtà e utilizzo di difese mature, che giustificano una diagnosi di psicopatia ad alto livello. (Lo Verso, Lo Coco, 2012)
Come sottolinea Bursten (1973), la personalità tipica del mafioso è organizzata in modo tale da avere a tutti i costi potere su le altre persone o comunque un alto grado di manipolazione. Si aggiunge a questo, una mancanza di riconoscimento della persona altrui, considerata il più delle volte di “basso valore”, alla stregua di strumenti da poter utilizzare quando si necessita di loro. Inoltre, si evince dagli studi che il senso di colpa o di coscienza morale è pressoché nullo, in quanto il bisogno di ridurre la propria dissonanza cognitiva è ampiamente giustificata da forti motivazioni interne ed esterne, nonché da un distorto senso di cosa è “giusto” o “sbagliato” in una comunità civile che abbraccia valori pressoché sani, ma al contrario si basa su influenze normative cariche di elementi disfunzionali, rispetto alla gente comune ed al senso civico (Lo Verso, Lo Coco, 2012).
L’uomo d’onore si rappresenta come un essere speciale, addirittura a volte come Dio stesso, perché lui può esercitare il potere di vita o di morte sulle persone normali. Niente è più temibile del non essere considerato, dell’essere “nuddo ammiscato cu’ nente” (nessuno mischiato con niente).
Possiamo quindi ben capire che il pensiero Mafioso, ma più generalmente di coloro appartenenti a gruppi “fondamentalisti”, viaggi su binari ben definiti e certamente disfunzionali. Difatti, facendo riferimento agli studi di Lo Verso e Lo Coco e colleghi:
Nelle nostre ricerche molto lavoro è stato fatto proprio per riconoscere una specificità “etnica” a questo tipo di personalità, a partire da alcuni dati antropologici presenti nelle culture mediterranee (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998; Lo Coco, Lo Verso, 1998). L’elemento che forse è più difficile da inglobare nelle nostre classificazioni psicologiche e psichiatriche è quello legato al fondamentalismo del pensiero: di fronte ad una psicopatologia ufficiale della personalità centrata sul deficit (di strutture, di relazioni, di apprendimenti), la personalità dell’uomo d’onore si mostra come una patologia, da una rigidità di strutture (di pensiero, di affetti) e da un’intensità tale da divenire disturbante. Come in tutte le culture fondamentaliste, nella mafia non c’è possibilità di pensiero dell’Altro, la propria identità è strutturata su un modello relazionale che non può essere messo in discussione, pena la morte simbolica e psichica (forse anche fisica). Questo peso intenzionate e mortifero della famiglia (Pontalti, 2000) di appartenenza rimanda ovviamente ad una concezione della psicopatologia a vertice dinamico e relazionale, che grazie all’analisi delle vicissitudini, consce ed inconsce, della costruzione del Sé individuale all’interno di una rigida matrice familiare ci permette di comprendere la specificità delle problematiche legate al mondo mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)
Il colloquio clinico (2017) di Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy – Recensione del libro
Il colloquio clinico è uno strumento agile e ben fatto per chi non ha maturato molta esperienza o vuole rinfrescarsi la memoria e aprirsi alla riflessione sulla propria pratica clinica. Illustra bene come si conduce il colloquio con un paziente, secondo l’approccio cognitivo-comportamentale.
Il colloquio clinico: struttura e argomenti del libro
Il testo si dispiega in 100 domande, distribuite tra 2 sezioni principali. Nella prima vengono presentati i principi del colloquio clinico nelle sue diverse fasi, caratterizzate da diversi obiettivi: creare una relazione di fiducia all’inizio, piuttosto che sostenere e motivare il paziente nella fase critica del cambiamento.
Nella seconda parte gli autori usano l’angolazione del tipo di psicopatologia per guardare al colloquio clinico e danno al lettore delle indicazioni su come affrontarlo a seconda che dall’altra parte della scrivania ci sia una persona con un disturbo di personalità, un disturbo d’ansia, un PTSD o un Disturbo Alimentare.
Seguono una trentina di pagine scritte da Marianna Vaccaro che presentano le peculiarità dei colloqui con bambini e adolescenti.
La lettura e la comprensione sono facilitati da appositi rimandi che invitano ad approfondire alcuni argomenti servendosi del glossario alla fine del libro.
Il colloquio clinico: dalla prima telefonata al trattamento
Fin dalle prime pagine il libro si mostra nella sua semplicità e solidità: è semplice perché i paragrafi sono brevi e si prestano bene anche a una lettura discontinua; risulta ‘solido’ perché è evidente la base teorica sottostante e la preparazione di chi scrive, che attinge molto al comportamentismo con l’analisi funzionale e l’RFT, ma integra con maestria spunti provenienti dall’ACT piuttosto che da Rogers.
In meno di 200 pagine, rassicura e fornisce indicazioni anche pratiche, attraverso molti esempi, che diversamente si riescono a reperire solo a lezione o chiedendo lumi ad un/a collega più navigato/a, come ‘Cosa dire per chiudere la prima telefonata che prelude al colloquio?’.
Non mancano riflessioni su competenze base come l’empatia o l’assertività e concetti fondamentali che secondo me ogni clinico dovrebbe saper tradurre ogni giorno nella sua pratica, come l’avere sempre in mente che il cliente è una persona, non un problema. Se facciamo nostro questo punto di vista cambia il modo in cui parliamo al paziente, cambia il modo in cui definiamo il suo problema – ‘Paola ha un disturbo bipolare’ – e apriamo con lui/lei orizzonti di senso e spazio di lavoro, specie quando il primo passo è accettare e per farlo dobbiamo inventarci, insieme, le risorse.
Alcuni aspetti di quello che è utile/consigliabile fare in un colloquio clinico, come è inevitabile che sia in un testo che vuole dare un’infarinatura globale, sono solo accennati, sebbene meriterebbero di per se stessi parecchie pagine. Per citarne due, la differenza tra bisogni e valori piuttosto che l’autosvelamento: un clinico non più neofita sa quanto si può dire su questa mossa e quanto oculatamente vada usata con i pazienti che hanno disturbi di personalità, con i quali le regole ed i confini sono fondamentali e difficili da mantenere nei binari.
Il colloquio clinico: stare con il paziente ed il suo disturbo
Nella seconda parte si entra più nel dettaglio di tecniche e metodologie utilizzabili per i diversi disturbi. Leggere questa sezione stimola la riflessione sul proprio lavoro, perché presenta una moltitudine di approcci e ci ricorda che potremmo impostare un trattamento in corso in modo diverso da come lo stiamo conducendo, quindi può essere utile per migliorarci, rinnovarci e magari uscire da un momento di impasse.
Ho trovato particolarmente stimolante l’ottica ACT di concettualizzare il funzionamento dei pazienti con disturbi di personalità: dal narcisista al borderline al dipendente, ci sono spunti davvero interessanti ai quali attingere, anche solo per occuparsi di ‘porzioni’ del disturbo e della sofferenza, come ad esempio gli atti autolesionisti.
Il libro si conclude mettendo a fuoco alcuni aspetti peculiari del colloquio con bambini ed adolescenti. Viene ripreso il tema dell’autoapertura e viene messo in evidenza come, con gli adolescenti, può essere molto utile mostrare in modo autentico alcune proprie difficoltà passate o presenti per infondere coraggio.
Sì, l’ho trovato un bel libro e lo consiglio.
Svegliarsi la mattina e altre sventure: l’effetto del cronotipo individuale sulla performance scolastica
Il cronotipo è una disposizione individuale verso una maggiore attività in un determinato momento della giornata; questo ha una base fondamentalmente genetica, ma può essere influenzato da diversi fattori ambientali e socio-culturali. Quale effetto può avere il cronotipo su performance scolastiche ottenute in diversi momenti della giornata?
Ore 8 della mattina, orario di punta – i mezzi pubblici attraversano le città carichi di individui in stato semi-cosciente che si trascinano verso gli uffici e le scuole come spinti da inerzia, il loro sguardo vitreo solleva ragionevoli dubbi sul fatto che essi siano effettivamente svegli: per una parte dei lettori, questa descrizione risuonerà intimamente familiare, una condizione che probabilmente hanno sperimentato ogni mattino da quando hanno memoria. Sono i cosiddetti “gufi”, individui che sarebbero più attivi durante le ultime ore del giorno, ma che si trovano, loro malgrado, a dover abbandonare il proprio letto nelle prime ore della giornata; la restante parte, è composta dalle “allodole”, soggetti che preferiscono andare a letto presto e che risultano maggiormente attivi nelle prime ore del giorno, risentendo meno della sveglia mattutina.
Questa disposizione individuale verso una maggiore attività in un determinato momento della giornata viene chiamata cronotipo ed ha una base fondamentalmente genetica (Hirano et al., 2016; Patke et al., 2017), tuttavia diversi fattori ambientali e socio-culturali possono modularne l’effetto, come ad esempio l’esposizione alla luce solare, l’età o lo stile di vita.
Quando il nostro “orologio biologico”, individuabile nel nucleo soprachiasmatico nel cervello dei mammiferi, non è sincronizzato con le tempistiche imposte dalla richieste ambientali, si ingenera una condizione tipica delle società moderne che prende il nome di Social Jetlag (Wittmann et al., 2006), calcolato come la discrepanza tra gli orari del sonno durante i giorni settimanali e quelli adottati durante il weekend, orari che risultano essere maggiormente in linea con le tendenze disposizionali del singolo e, conseguentemente, contraddistinti da sessioni di riposo più lunghe (Roenneberg et al., 2015).
Si è riscontrato inoltre come un maggiore Social Jetleg sia associato ad obesità, depressione, performance cognitive peggiori e problemi di natura fisica e psicologica (Levandovski et al., 2011; Roenneberg et al., 2012; Talbot et al., 2010), tale da sollevare una comprensibile preoccupazione nei confronti di quelle categorie che risultano maggiormente influenzate dal fenomeno: tra questi, gli adolescenti rappresenterebbero una popolazione particolarmente a rischio, in quanto questa fase della crescita sarebbe quella maggiormente interessata dall’inflessione del cronotipo in favore delle ore più tarde della giornata; allo stesso tempo, contro intuitivamente, è noto come la programmazione scolastica sia concentrata nelle prime ore della giornata, tale che si stima che il 93,5% degli studenti dorma meno delle 8-10 ore raccomandate, incorrendo in uno stato di deprivazione cronica di sonno, a sua volta associata con l’insorgenza di sonnolenza diurna, salute generale peggiore, difficoltà emotive e cognitive (Talbot et al., 2010).
Alcuni studi (per una meta-analisi vedi Tonetti et al., 2015) hanno riscontrato che gli alunni con il cronotipo più mattiniero ottengono mediamente performance accademiche più alte; tuttavia, questi risultati possono essere dovuti ad un effetto del cronotipo sulla performance stessa, ovvero ad un cronotipo precoce corrispondono sempre performance migliori, oppure al fatto che le votazioni ottenute dagli studenti fossero appunto raccolte in orario scolastico (Effetto sincronia), favorendo gli studenti allodola più attivi e performanti durante le ore diurne.
Per indagare la relazione tra la performance, tempistiche scolastiche e cronotipo individuale, Goldin e colleghi (2020) hanno raccolto in un recente studio i dati provenienti da 753 studenti, assegnati casualmente a classi contraddistinte da ingressi in aula differenziati (inizio alle ore 7.45, 12.40 o 17.20), appartenenti a due diverse fasce d’età (13-14 anni e 17-18 anni).
In linea con ricerche precedenti, si è potuto confermare che gli adolescenti più “anziani” riportassero un cronotipo più ritardato verso fine giornata rispetto ai giovani adolescenti; coerentemente con il progressivo ritardo dell’ingresso in aula, il cronotipo degli studenti risultava maggiormente posticipato: questo suggerisce come i ritmi biologici degli studenti tendessero naturalmente ad allinearsi con gli orari scolastici assegnati loro in modo casuale; in particolare questo risultava vero per gli studenti più anziani, indicando come la modulazione del cronotipo sia un processo progressivo che si consolida nel corso dell’adolescenza.
I risultati suggeriscono anche che per quanto il cronotipo tenda ad adeguarsi alle richieste ambientali e vi sia la tendenza a ricorrere a dei riposi infradiurni per recuperare le ore di sonno insufficienti, gli studenti con ingresso a scuola di mattina non riescono a raggiungere il numero di ore di sonno raccomandate per questa fase della crescita. In linea con l’ipotesi dell’effetto sincronia, gli studenti con un cronotipo più tardivo registravano performance peggiori in termini di valutazione nell’iniziare la scuola la mattina, tale per cui per ad ogni ora di posticipo nel loro cronotipo corrispondesse un punteggio di 0.315 inferiore in matematica e 0.157 punti inferiore nelle altre materie. L’effetto del cronotipo invece sembra ridursi fino a quasi invertirsi quando la scuola ha l’orario di inizio nelle ore serali, con performance addirittura migliori nel linguaggio rispetto agli studenti con un cronotipo mattiniero; le ore pomeridiane, sembrerebbero infine rappresentare la scelta peggiore in termini di performance, probabilmente a causa del persistere di un effetto di Social Jetlag rilevante.
Gli autori avanzano poi un’ipotesi sulla funzione dei “pisolini” come meccanismo compensatorio che, grazie all’effetto di consolidazione mnestica favorita dal sonno (Lovato&Lack, 2010), controbilancerebbe l’effetto della deprivazione di sonno garantendo una performance simile agli altri studenti contraddistinti da un cronotipo più in linea con le richieste ambientali. È inoltre interessante evidenziare come la performance in compiti matematici risultasse essere quella maggiormente influenzata dall’effetto del cronotipo.
I dati ottenuti da questa ricerca, per quanto non privi di limitazioni, come ad esempio la non-generalizzabilità tra i sessi e la natura di self-report dei dati raccolti, suggeriscono tuttavia che un’assegnazione degli studenti ad una programmazione scolastica in linea con il proprio cronotipo, così come un’attenzione maggiore posta nella pianificazione oraria delle materie sulla base delle loro differenti caratteristiche, possa avere un impatto significativo per il loro insegnamento e da ultimo sulla performance individuale.
Il cuore lo faccio nero – Disturbo Borderline di Personalità e suicidio
Nora Dawning è l’autrice del libro Il cuore lo faccio nero, un diario, una raccolta di pensieri, stati d’animo, emozioni: la rabbia e il dolore prevalgono su tutte e accompagnano la giovane protagonista del libro nel racconto della sua malattia, una malattia dell’anima e della mente, il Disturbo Borderline di Personalità.
Celentano Germana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena
Volete un nome? Sono borderline […]. Ho tentato il suicidio pochi mesi fa.
Nora, una brava studentessa, una laurea in biologia molecolare, la passione per la ricerca. Tutto inizia quando si trasferisce a Cambridge inseguendo il suo sogno; qui avviene qualcosa che cambia drammaticamente la sua vita; arriva il punto di rottura che le sbatte in faccia la sua fragilità, le certezze che fino ad allora l’avevano accompagnata crollano. Dopo un anno e mezzo di resistenza, Nora implode, così quella Cambridge tanto sognata, diventa l’inferno della sua anima, i suoi sogni si scontrano con la realtà. Inizia un periodo vorticoso di declino fisico e morale: farmaci, alcol, tutte dipendenze delle quali non riesce a fare a meno, che la tengono ancorata al suo vortice, al suo dolore, alla sua rabbia. Nora sente il bisogno di avere una persona a fianco che la ami senza giudicarla ma per trovarla si affida ai siti di incontri online, sesso indiscriminato con uomini sconosciuti, dunque l’ennesimo tentativo disfunzionale, una strategia controproducente, per riempire il vortice, per riempire il vuoto.
Sono pagine forti e crude che non si risparmiano, fanno male. Nora ha dato voce a tutte le sue emozioni, mettendole nero su bianco: pensieri, pezzi di anima frantumata, che non cicatrizzano facilmente.
Sono umana e troppo debole per poter affrontare sogni e speranze infranti senza cadere.
Una rete di solitudine, dolore, rabbia, rancore, dipendenze, delusioni, le tiene il cuore in trappola. Così Nora scrive, scrive pagine che urlano disperazione al mondo, perdita di controllo del proprio corpo, della propria mente, quando lo specchio dei sogni si infrange contro la realtà, e niente ha più senso, se non invocare aiuto urlando contro il vuoto.
L’autrice tra le pagine del suo libro ci racconta di come stia vivendo un turbinio di emozioni discrepanti, forti, discordanti, le odia e le ama, prova a gestirle:
Le emozioni mi faranno esplodere di nuovo? Io le voglio, le voglio tanto. La vita così non ha senso.
E poi dopo qualche giorno:
Ho pianto, ho urlato. Naturale. Come fermare il dolore che esplode? Volevo incidere la mia carne con un coltellino, piccolo, tagliente, compatto.[….] Mi sono frustata, come ho potuto. Un cavo di rete, non avevo altro. Sulla schiena, sulle gambe, sul seno. Non valgo niente, non so neanche soffrire. Non sono neanche capace di infliggermi dolore come meriterei. Di scacciare il dolore interiore con quello fisico.[…..] Poi il vuoto, di nuovo. Il vuoto, come sempre.
Secondo la più recente classificazione (DSM 5), per fare diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, devono essere presenti compromissioni significative nel funzionamento della personalità, che si manifestano come compromissioni significative del Sé, e che si possono palesare in:
una identità marcatamente povera, poco sviluppata, con un’immagine instabile di sé, spesso associata ad eccessiva autocritica; sentimenti cronici di vuoto, stati dissociativi sotto stress.
una instabilità negli obiettivi e una difficoltà a formulare e mantenere aspirazioni, valori, piani di carriera.
Anche il funzionamento interpersonale risulta compromesso: spesso si assiste ad una compromissione della capacità di riconoscere i sentimenti e i bisogni degli altri, ad una tendenza a sentirsi facilmente offesi o insultati senza avere idea di motivi alternativi che spiegherebbero il comportamento altrui. I rapporti vengono vissuti come stretti, intensi, instabili e conflittuali, in condizioni estreme di idealizzazione e svalutazione continua ed alternata. Il tema centrale è il timore dell’abbandono, associato all’idea che degli altri non ci si possa fidare per timore, prima o poi, del maltrattamento, della trascuratezza ed infine appunto dell’abbandono.
E’ presente una certa affettività negativa, caratterizzata da esperienze emotive instabili, intense, sproporzionate, frequenti cambiamenti di umore, intense sensazioni di nervosismo, tensione o panico, timori di disgregazione o perdita del controllo, come anche timori di rifiuto e/o separazione da parte di altre persone significative, associati a preoccupazione per la propria dipendenza che sentono come eccessiva e temono di perdere completamente l’autonomia. Può esistere anche un certo antagonismo caratterizzato da persistenti sentimenti di rabbia o irritabilità in risposta alle offese e agli insulti.
I pazienti borderline faticano ad uscire dagli stati d’animo negativi; sono pessimisti sul futuro, preda di vergogna pervasiva, senso di inferiorità, pensieri e comportamenti suicidari.
Agiscono sotto l’impulso del momento in risposta a stimoli immediati, senza un piano e non tenendo conto dei risultati; hanno difficoltà a stabilire una gerarchia di priorità e possono assumere un comportamento autolesionista sotto stress emotivo, cercando un coinvolgimento in attività pericolose, rischiose e potenzialmente dannose, senza preoccupazioni per le conseguenze, per i propri limiti ed arrivando a negare l’esistenza del pericolo personale.
Le emozioni sono intense, estreme e l’esperienza psicologica degli stati emotivi può condurre a stati mentali di vuoto o stati mentali di caos emotivo incontrollato. La reazione al vuoto o al caos emotivo è disregolata, impulsiva e intensa e ha lo scopo di cercare di sentirsi vivi (in contrapposizione allo stato di vuoto) oppure sentirsi quieti e sicuri (in contrapposizione allo stato di caos) o ancora non sentirsi affatto. Possono essere messe in atto azioni impulsive (es. rabbiose), abuso di sostanze, gesti autolesivi, tentativi di suicidio.
Il tentato suicidio, stimato in generale come dalle 10 alle 40 volte più frequente dell’omicidio compiuto, è uno dei predittori più forti di suicidio conseguente.
Uno studio volto ad indagare quali tratti di personalità potessero essere rilevati in soggetti che riportavano tentato suicidio a confronto con soggetti che sono successivamente deceduti per comportamenti suicidari ha rilevato che il 91% del campione reclutato in un periodo compreso tra il 1993 ed il 2005 (187 pazienti, di cui 67 uomini, con età media di 35-45 anni ai quali sono state somministrate SCID I e SCID II) riportava un disturbo in Asse I (75% disturbi dell’umore), mentre il 33% riportava un disturbo in Asse II (17% DBP).
In una review del Centre Hospitalier di Sainte-Anne, dell’Università di Parigi-V-René-Descartes, è stata esaminata la letteratura pubblicata dal gennaio 1980 all’ottobre 2006, utilizzando le seguenti parole chiave: automutilazione, suicidio, personalità borderline (44 articoli) con altri cinque articoli aggiuntivi.
Si è partiti dall’assunto che il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è un serio problema di salute pubblica, associato ad alti livelli di utilizzo dei servizi di salute mentale, un importante grado di compromissione psicosociale e un alto tasso di suicidio (10%). Minacce suicidarie, gesti o comportamenti o automutilazione, sono comuni nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità. Tuttavia, nonostante le loro somiglianze, il comportamento di automutilazione differisce dai tentativi di suicidio per la mancanza di intenzioni suicide sistematiche.
Lo scopo di questo studio è stato quello di esaminare le relazioni tra auto-mutilazioni, suicidio e relativo approccio terapeutico. L’automutilazione si riferisce alla deliberata distruzione o alterazione diretta del tessuto corporeo senza intenzioni suicidarie consapevoli e questo modello di comportamento è comune nel 50-80% dei casi di BPD ed è spesso ripetitivo, infatti oltre il 41% dei pazienti effettua più di 50 automutilazioni. La forma più comune di comportamento di automutilazione è rappresentato dai tagli, ma lividi, bruciature, colpi alla testa o morsi non sono inusuali.
Le funzioni dell’automutilazione sono variabili: forniscono sollievo dagli stati d’animo negativi, riducono l’angoscia, assumono la funzione di richiamare cure da parte di altre persone e terapeuti, sono il tentativo di esprimere emozioni in modo simbolico.
Il tasso di suicidio nei campioni clinici di BPD è di circa il 5-10%. Questo tasso è circa 400 volte quello della popolazione generale. Una percentuale dal 40 all’85% dei pazienti borderline mette in atto tentativi di suicidio solitamente multipli (in media 3). Le relazioni tra automutilazione e suicidio sono contrastanti.
Alcuni autori identificano il comportamento di automutilazione come una forma attenuata di suicidio (‘suicidio focale’). In questo modo, l’automutilazione gioca il ruolo di un atto anti-suicidario, permettendo ai pazienti di emergere dalla loro dissociazione e sentire che stanno vivendo di nuovo. Il rischio di suicidio non aumenta fino a quando l’automutilazione produce il sollievo atteso. Tuttavia, la maggior parte degli autori mostra l’automutilazione come un fattore di rischio di suicidio portato a termine: tra i pazienti borderline con una storia di comportamento di automutilazione il tasso di suicidio è circa il doppio rispetto a quelli senza. Le auto-mutilazioni ripetitive possono aumentare la disforia, che sarà solo alleviata da gesti suicidari. I pazienti che effettuano tentativi di suicidio auto-mutilanti possono essere maggiormente a rischio di suicidio per diversi motivi: provano più sentimenti di depressione e disperazione, sono più aggressivi, mostrano maggiore instabilità affettiva, sottovalutano la letalità del loro comportamento suicidario e infine sono turbati da pensieri suicidi per periodi di tempo più lunghi e più frequenti.
I risultati dello studio hanno dunque evidenziato come nel Disturbo Borderline di Personalità la possibilità di auto-mutilazione fosse un fattore di rischio di suicidio. Tuttavia, per rinforzare questa affermazione, sono necessari ulteriori studi su un ampio campione di pazienti borderline che abbiano compiuto o meno gesti di auto-mutilazione.
Uno studio statunitense del 2016 ha verificato come i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD) sono ad alto rischio di comportamento suicidario, ma che tuttavia molti di loro non arrivano al suicidio. Sono state confrontate le caratteristiche cliniche dei pazienti con BPD con una storia di tentativi di suicidio o senza, e volontari sani. Rispetto ai volontari sani, entrambi i gruppi BPD avevano punteggi più elevati nella scala della labilità affettiva Affective Lability Scale (ALS), e relativa sottoscala ALS-Depression-Anxiety Subscale, nella scala dell’impulsività Barratt Impulsivity Scale (BIS) e nella valutazione della storia di vita dell’aggressività Lifetime History of Aggression (LHA) ed erano quindi più propensi ad avere una storia di scoppi d’ira.
Nel gruppo dei pazienti con diagnosi di BPD, i pazienti che avevano tentato il suicidio aveva punteggi ALS, ALS-Depressione-Ansia e LHA più elevati e avevano più probabilità di avere una storia di autolesionismo non suicidario o di scoppi d’ira rispetto ai pazienti che non avevano attuato tentativi di suicidio. Inoltre, i pazienti con BPD che avevano effettuato tentativi di suicidio, avevano maggiore probabilità di avere una storia di comorbidità con il disturbo depressivo maggiore e meno probabilità di avere una storia di comorbidità con il Disturbo Narcisisitico di Personalità (NPD). Circa il 50% dei partecipanti allo studio di ciascun gruppo di BPD aveva un disturbo da uso di sostanze. Dunque i pazienti con BPD con una storia di tentativi di suicidio risultano essere più aggressivi, affettivamente disregolati e meno narcisisti.
In conclusione possiamo affermare che il comportamento suicidario è frequente nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD); almeno tre quarti di questi pazienti tentano il suicidio e circa il 10% alla fine completa il suicidio. I pazienti borderline a maggior rischio di comportamento suicidario comprendono quelli che hanno attuato precedenti tentativi, con una storia di comorbidità con il disturbo depressivo maggiore o disturbo da uso di sostanze. La comorbilità con la depressione maggiore determina un aumento sia nel numero che nella gravità dei tentativi di suicidio.
Sarebbero auspicabili ulteriori studi ed approfondimenti clinici in futuro, tuttavia possiamo intanto asserire che, poiché il BPD è spesso complicato dal comportamento suicidario, è giusto che clinici e professionisti della sanità prestino sempre molta attenzione ai tentativi di suicidio, singoli o reiterati; queste figure professionali hanno un ruolo importante nella prevenzione dei tentativi di suicidio e nei suicidi riusciti comprendendone i fattori di rischio ed accompagnando e sostenendo pazienti come Nora.
Il suo libro racconta il suo percorso costellato di alti e bassi, di passi avanti e cadute rovinose; la sua voglia di farla finita; la speranza che l’ha sostenuta, sempre.
Continuo a lottare, contro me stessa e contro la bestia delle emozioni feroci. Continuo a lottare e, adesso, la luce la vedo.
Quando il male oscuro si nasconde dietro al disturbo alimentare – Sul caso di Lorenzo
Nei casi più complessi capita che un disturbo alimentare possa fungere da strumento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili.
La morte di Lorenzo Seminatore riporta alla luce della cronaca l’ “emergenza” dei disturbi del comportamento alimentare. Chi come me se ne occupa da tempo sa bene che dietro tale emergenza mediatica si nasconde in realtà una problematica normalità quotidiana, vedendo ormai da anni crescere nei nostri studi l’afflusso di chi chiede aiuto per uscirne, con l’età media che va progressivamente abbassandosi.
Ciò che rende l’anoressia, e i disturbi del comportamento alimentare in generale, una patologia difficile da trattare, costituendo i DCA una tra le prime cause di morte, specie nel mondo adolescenziale, è la peculiare caratteristica di celare, con una forma esteriore abbastanza standardizzata, strutture di personalità tra loro diverse (nevrotiche e psicotiche), che richiedono metodi di trattamento all’insegna dell’uno per uno che, tenendo conto delle specificità di ogni soggetto, prevedano un’opera di certosino collegamento tra professionisti con saperi diversi, imponendo un costante raccordo comunicativo con i familiari del malato.
Nei casi più complessi, vale a dire quelli nei quali il concetto di ‘guarigione’ lascia il posto a quello di ‘compensazione’, che tecnicamente si definiscono ‘psicosi compensate’, il corpo magro, il ritiro drastico dal fluire del mondo barattato con l’ossessione per il peso, i rituali di assunzione o espulsione del cibo, sono strumenti che fungono in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperiti e rinforzati per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili non deflagrate.
La melanconia, o depressione grave, sovente si cela dietro alla patologia anoressica. Questo rende difficile il trattamento e frequenti le ricadute. Il depresso grave patisce un antico fuori scena, scontando una condizione di esclusione ab inizio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, il melanconico non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne hanno circoscritto e protetto il posto. Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti depressi gravi cercano di neutralizzare nel corso della vita.
Quando dietro ad un rifiuto patologico del cibo si cela un individuo di questo tipo, che ha un bisogno essenziale di una stabilizzazione dell’essere; i momenti critici della vita, i passaggi cruciali (il compimento alla maggior età, un matrimonio, un corso di studi, l’accesso al mondo del lavoro) possono rivelarsi troppo difficili da assorbire, determinando il riaffiorare di quella spinta al chiamarsi fuori che a fatica veniva nascosta dalla sintomatologia alimentare. Un richiamo mortifero, possente e sempre presente in questi casi, un buco nero che esercita una pressione mai doma, che a volte porta l’anoressia grave sino alle estreme conseguenza.
Non mangio così muoio. parrebbe aver detto Lorenzo.
Questi pazienti se ben seguiti hanno momenti di ripresa e ritorno alla vita, i quali però non possono e non devono mai mettere il clinico in una situazione di tranquillità. Il modo col quale si segue terapeuticamente un soggetto nella fase post acuzie, quando c’è un recupero ponderale, erroneamente scambiata da molti per guarigione, consiste in un’opera costante di attenzione e cura, avendo ben presente che si tratta di una compensazione, dunque non una guarigione definitiva, ma una stabilizzazione sempre soggetta ad oscillazioni pericolose. Sul male oscuro, si presenti esso sotto forma di corpo magro o di ritiro sociale, serve una luce professionale sempre accesa e vigile.
Intelligenza artificiale buona e intelligenza artificiale psicopatica: istruzioni per l’uso
ONU, Commissione europea, Vaticano, World Economic Forum: la tematica sull’intelligenza artificiale (IA) e sulla sua interazione con l’uomo (Human-In-The Loop, HITL) suscita un forte fermento.
Ricorrendo a una estrema – e non esaustiva – sintesi, di seguito enucleiamo dal dibattito in corso tre aspetti.
Tipo di intelligenza artificiale: qui distingueremo fra IA “buona” e IA “psicopatica”. Come gli estremi possono convergere a un fine unico.
Fase in cui ci troviamo: urge una regolamentazione basata sulla cooperazione all’interno della UE e fra questa e altri paesi per una IA su cui si possa riporre fiducia, che sia equa, inclusiva ed eticamente allineata ai valori umani.
Stagione in cui ci troviamo: autunno/inverno della IA o sole d’agosto?
L’IA riflette una visione antropocentrica del mondo. In questo suo rispecchiare la componente umana, con le sue tante valenze, la IA può essere cattiva e psicopatica, bugiarda o, al contrario, allineata ai valori etici della società e a supporto del benessere di quest’ultima. In tale circostanza, degna di fiducia.
Consideriamo due casi polari: la IA “buona” e la IA definita dai data scientist di Media Lab del MIT come la “prima intelligenza artificiale psicopatica”.
Riguardo alla prima tipologia di IA e alla luce del binomio “progresso tecnologico-etica”, quale tema potrebbe essere più adatto di quello sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs)? Ed ecco che, funzionali a essi, nel 2017 nasce l’iniziativa “AI for Good”. Questa è una piattaforma delle Nazioni Unite, concorre attraverso progetti concreti all’utilizzo positivo dell’IA, come l’avvicinamento ai 17 SDGs previsti dall’Agenda 2030. Pur trasversali, questi ultimi vengono concentrati in 3 macroaree: ambiente, salute, formazione scolastica.
Nella prospettiva incentrata sull’uomo, definita nella comunicazione dell’aprile 2019, la Commissione europea vede nella IA uno strumento che concorre all’obiettivo di accrescere il benessere umano individuale e collettivo.
Come esiste l’intelligenza artificiale buona, in linea esistono gli hacker buoni. Il collettivo tedesco Chaos Computer Club (CCC) è una delle organizzazioni della società civile più consolidate e più influenti aderente ai principi dell’hacking etico e che si occupa degli aspetti di sicurezza e privacy della tecnologia nel mondo di lingua tedesca. Strutturati in 25 cosiddetti “Erfakreisen” (spazi hacker regionali) e in “Chaostreffs” ancora più piccoli, gli hacker CCC – circa 5.500 membri – lavorano secondo una architettura decentralizzata.
La IA “psicopatica” vede morte ovunque. Tale bias è voluto dai suoi sviluppatori. Non intende essere un divertissment macabro in stile noir d’atmosfera, ma, al contrario, ha scopi etici, in quanto intende mettere in guardia l’opinione pubblica circa le conseguenze derivanti da una IA sfuggita di mano, perché non “allevata” bene. Il fine scientifico è arrivare a comprendere le declinazioni patologiche di una mente artificiale, educatasi a un apprendimento su particolari e rischiosi database.
A tale scopo, l’algoritmo di machine learning è stato nutrito con “junk food”, cibo esiziale. Da tali input non ne poteva scaturire un output diverso. In particolare, l’algoritmo – chiamato Norman Bates, dal protagonista del film Psycho (1960) di Alfred Hitchcock – è stato nutrito di video e immagini tratti dal celebre aggregatore statunitense Reddit, watchpeopledie, un nome che è tutto un programma! Quando si dice, sei quel che mangi… Quindi – questo è il segnale forte da parte dei data scientist – attenzione al tipo e qualità di cibo che viene somministrato all’algoritmo di apprendimento automatico.
A supporto di tale argomento, il team di ricercatori ha creato un algoritmo controfattuale servendosi del test di Rorschach (per interpretare immagini) che prevede di sottoporre dieci immagini contenenti delle macchie di inchiostro simmetriche. Alle due machine learning è stato domandato ciò che vedevano guardandole. Hanno dato risposte totalmente disallineate, in funzione di come erano state nutrite. Lì dove la machine learning “normale” – cibata di immagini provenienti dal Coco dataset, più neutrale con tanti fiorellini e animali – vedeva un vaso di fiori, quella “psicopatica” vedeva un uomo ucciso a colpi di pistola. Mentre la prima ha indicato il ritratto in bianco e nero di un uccellino, la “psicopatica” ha visto una persona trascinata all’interno di un’impastatrice.
Naturale corollario è la necessità della regolamentazione, nell’ambito della quale fiducia, etica ed equità, allineamento ai valori umani sono elementi fondanti.
Per una IA di cui ci si possa fidare, la UE ha messo in campo una strategia – “Trustworthy AI” –, Linee guida etiche della IA basate su sette requisiti chiave che tali sistemi devono soddisfare per essere affidabili: agenzia umana e supervisione; robustezza tecnica e sicurezza; privacy e governance dei dati; trasparenza; diversità, non discriminazione ed equità; benessere sociale e ambientale; responsabilità.
E ancora su non discriminazione ed equità, RenAIssance. Per un’Intelligenza Artificiale umanistica, Microsoft e Ibm in Vaticano per sottoscrivere una “Carta etica” sulla IA (la firma a fine febbraio nell’evento della Pontificia Accademia per la Vita). La progressiva sofisticatezza tecnologica della IA porta con sé l’elevato rischio di una rendita oligopolista riservata alle più grandi holding economiche, ai sistemi di pubblica sicurezza, agli attori della governance politica. Si perderebbe così di vista l’equità nella ricerca di informazioni e la democratizzazione dell’IA qualora essa rimanesse inaccessibile a coloro che non fanno parte di tali élite.
A inizio d’anno, l’IA è stata al centro del dibattito, sia a Bruxelles in occasione del think-tank europeo Bruegel, sia a Davos in occasione del World Economic Forum. In entrambe le circostanze, grande protagonista il CEO di Google. Il suo messaggio primo: regolamentazione. Sullo sfondo, l’inquietante scandalo sul riconoscimento facciale: la scoperta del servizio Clearview AI – una piccola start-up fondata da un ingegnere autodidatta australiano – che a oggi avrebbe raccolto oltre 3 miliardi di immagini dal web rese disponibili ad alcune forze dell’ordine statunitensi. Un’app rivoluzionaria quanto controversa: evocazioni di sorveglianza di massa e pregiudizio alla privacy.
La lungimiranza di Google non è frutto esclusivamente di un’idea di capitalismo più responsabile, inclusivo e sostenibile, ma – con una buona dose di pragmatismo – costituisce la risposta alla crescente pressione sulle due sponde dell’Atlantico contro le pratiche invasive dei tecno-capitalisti.
Questa tensione tra progresso e regole potrebbe trovare una svolta nel Libro bianco sull’intelligenza artificiale della Commissione europea. Al bando temporaneo il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per favorire lo sviluppo di nuove regole e metodologie in grado di valutare l’impatto etico di misure così strettamente collegate alla sfera personale.
In quale stagione dell’IA ci troviamo? In gergo, infatti, l’IA segue la metafora delle stagioni.
Sul tappeto posizioni fortemente eterogenee. Il disaccordo si accresce riguardo all’intelligenza artificiale generale (IAG), che arrivi al livello umano e lo superi, raggiungendo la superintelligenza (Tegmark, 2018). E in tal caso prevarrà la singolarità tecnologica, cioè si avvererà la profezia secondo cui il progresso tecnologico raggiungerà una velocità tale da cambiare radicalmente il mondo per come lo conosciamo oggi e in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella dell’uomo. E che dire del Quantum computing? Permetterà di simulare meglio la natura, ricreare le molecole, con sbocchi impensabili nella biologia.
Ma la realtà sconfessa tanto euforico ottimismo: il percorso della IA è lastricato di incidenti a tutti i livelli, cominciando dalla vita stessa dell’essere umano (un esempio? A marzo 2018, in Arizona, un’auto a guida autonoma investe uccidendo la ciclista Elain Herberg. Il safety driver a bordo non è riuscito a frenare). Ci avviamo verso l’inverno quando vengono annunciate cose che, di fatto, non si possono raggiungere. La profetica splendida stagione della IA vede accorciare le ore di luce del giorno. C’è chi già parla di uno scoppio di una bolla. E certo non sarebbe la prima nel comparto tecnologico. Un “AI winter” è un periodo in cui i fondi e l’interesse per il settore svaniscono. Si innesca una sorta di reazione a catena e un avvitamento verso il basso: il pessimismo circola nella comunità scientifica, poi nel mondo dell’informazione e nei media e infine nel pubblico, fino a far collassare il settore e, quindi, la ricerca.
Ma oggi il buio totale del settore sarebbe da escludere. Il potenziale e i benefici sono tanti. Basti citarne uno – più che mai attuale – per tutti: la piattaforma IA BlueDot (creata in Canada) aveva previsto e avvisato del pericolo del focolaio del coronavirus cinese prima di tutti; un anticipo di diversi giorni, che per queste problematiche risulta essenziale per salvare vite e contenere il contagio. Il centro USA per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) ha avvisato del pericolo del coronavirus il 6 gennaio, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvisato il pubblico con un comunicato del 9 gennaio. La piattaforma canadese BlueDot ha battuto entrambi, annunciando del pericolo i propri clienti il 31 dicembre (Piccinelli, 2020).
Pertanto, se la ciclicità del fenomeno non può escludersi, oggi – secondo alcuni studiosi – stiamo vivendo una mezza stagione della IA: un suo autunno (Foderi, 2020).
Terapia cognitiva basata sulla Mindfulness (MBCT) per veterani con disturbi psichiatrici
Il protocollo Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) nasce con l’obiettivo di prevenire la ricaduta di recidive depressive, ma risulta efficace anche per i disturbi d’ansia (Kim et al., 2010), l’ideazione suicidaria (Barnhoferel al., 2015) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD; Jasbi et al.; 2018).
Questa tecnica combina il Metodo per la Riduzione dello Stress basato sulla Mindfulness (MBSR) con elementi della Terapia Cognitiva. L’MBCT tende ad occuparsi principalmente dei processi di pensiero (il modo di funzionare della mente), piuttosto che dei contenuti dei pensieri stessi, con l’obiettivo di riconoscerli per quello che sono – cioè solamente contenuti mentali senza concretezza – e di lasciarli andare.
Quasi tutti gli studi sulla MBCT sono stati condotti tra varie popolazioni, ma non su militari veterani; tuttavia, l’MBCT potrebbe essere un utile intervento complementare per i veterani con disturbi psichiatrici.
Il presente studio (Marchand et al., 2019) mira a compiere un primo passo verso la comprensione dell’MBCT come intervento per la popolazione di militari veterani. Nello specifico, gli obiettivi dello studio erano: (1) valutare l’impegno al trattamento MBCT considerando il numero di sessioni frequentate; (2) determinare se eventuali variabili del paziente predicono l’impegno al trattamento MBCT; (3) verificare i risultati, determinando se l’intervento MBCT sia associato a maggiori cambiamenti durante le visite nei reparti d’emergenza (ED) o durante i ricoveri psichiatrici; (4) indagare se questi risultati siano correlati al numero di sessioni frequentate; (5) aumentare le conoscenze relative alle psicoterapie basate sull’evidenza e all’utilizzo dell’assistenza sanitaria tra i militari veterani.
Il campione finale era costituito da 98 militari veterani americani prevalentemente di etnia caucasica (93%), di sesso maschile (79%) e con età superiore a 50 anni (72%). Inoltre, l’81% dei partecipanti aveva una o più disabilità legate al servizio militare. Tutti i soggetti presentavano almeno un disturbo psichiatrico, il più comune dei quali era un disturbo dell’umore, seguito dal disturbo da stress post-traumatico. In comorbilità spesso erano presenti: disturbo da uso di sostanze, disturbi sessuali, disturbi d’ansia e diagnosi mediche come dolore cronico, obesità e disturbi del sonno.
L’intervento consisteva in un programma di sedute MBCT di otto settimane.
In relazione agli obiettivi dello studio i risultati dimostrato che:
la percentuale maggiore di partecipazione alle sessioni corrispondeva alle prime quattro settimane, mentre diminuiva dalla quinta all’ottava settimana. Solo il 16% dei veterani ha partecipato a tutte le sessioni.
l’età, l’orientamento religioso, il genere e gli anni di servizio non costituivano un predittore significativo per il numero di sessioni frequentate.
sia il numero di visite nei reparti di emergenza pre-intervento sia i ricoveri psichiatrici erano significativamente associati al numero di sessioni frequentate. La percentuale di cambiamento del comportamento era maggiore per coloro che avevano subito almeno un ricovero psichiatrico e la frequenza alle sessioni di intervento diminuiva notevolmente dopo la quarta. Per coloro che avevano effettuato visite nel reparto d’emergenza, i cambiamenti associati al comportamento erano minori, e i tassi di abbandono delle sessioni erano leggermente inferiori.
non vi era alcuna associazione significativa tra il numero totale di sessioni seguite e gli esiti dell’intervento, né con lo stato di completamento della terapia rispetto a coloro che non l’avevano completata.
Altri studi in letteratura (es. Kearney et al., 2016) hanno riscontrato un tasso di completamento della terapia leggermente superiore rispetto a questo e ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che il campione del presente studio era costituito da veterani di guerra con disturbi psichiatrici e condizioni mediche gravi e significative. Un suggerimento per aumentare l’efficacia della terapia potrebbe essere quello di diminuire le sessioni di intervento, prendere in considerazione gruppi di orientamento e di sostegno tra pari e sviluppare metodi di screening per identificare i veterani a rischio di gravi ricadute depressive con l’obiettivo di diminuire il rischio di abbandono della terapia.
Sulla base dei risultati ottenuti è possibile affermare che, se confermato da studi più rigorosi, l’MBCT può essere un intervento efficace per i veterani con malattie psichiatriche che hanno un alto rischio di ricovero, supportando lo sviluppo di MBCT di durata più breve per questa popolazione.
La ricerca presenta alcune limitazioni. In primo luogo, lo studio è retrospettivo piuttosto che randomizzato; inoltre, le diagnosi psichiatriche più comuni erano lo spettro depressivo, il PTSD e disturbi d’ansia e la popolazione era prevalentemente di sesso maschile, di etnia caucasica e di età avanzata. Pertanto, i risultati potrebbero non essere generalizzabili ad altre popolazioni di veterani o di comunità o individui con altri disturbi psichiatrici. Infine, è importante notare che questo studio non ha dimostrato una relazione causa ed effetto: potrebbero esserci altri fattori di mediazione nell’influenzare le variabili sia predittive che di esito e saranno necessari studi prospettici per confermare i risultati riportati in questo studio.
In conclusione, nonostante alcune limitazioni metodologiche, i risultati qui riportati forniscono le basi per studi futuri che saranno necessari per capire se e come utilizzare al meglio l’MBCT per la popolazione dei veterani.
Ansia e Alimentazione
Esiste una forte correlazione tra ansia e alimentazione, infatti spesso la ricerca di cibo gratificante è correlata alla necessità di incrementare i livelli di serotonina, ma col tempo questo tipo di cibi impatta negativamente sul nostro apparato digerente.
L’ansia è la normale e innata risposta del nostro organismo che si prepara ad affrontare una situazione soggettivamente percepita come minacciosa attivando tutte le funzioni neurovegetative necessarie per l’attacco o la fuga (aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, tensione muscolare, sudorazione, rallentamento della digestione, aumento dell’attenzione e della vigilanza).
Entro un certo limite l’ansia rappresenta una risposta adattiva e funzionale, una reazione di difesa dell’organismo volta ad anticipare la percezione del pericolo prima che questo sia chiaramente identificato. Tuttavia quando risulta immotivata o sproporzionata rispetto all’evento scatenante o quando si protrae nel tempo ed è d’intensità tale da interferire con il normale funzionamento dell’individuo, l’ansia diventa patologica dando origine a sintomi psicologici (senso soggettivo di apprensione e di penosa attesa, inquietudine, nervosismo, insicurezza e timore, difficoltà di concentrazione, rimuginio), neurovegetativi (sudorazione, tachicardia, sensazioni di nodo alla gola e di soffocamento, vertigini, tremori, disturbi gastroenterici, alterazioni nel ritmo sonno-veglia) e motori (tensione, irrequietezza, agitazione) che determinano una limitazione delle capacità di adattamento dell’individuo e che possono sfociare in un disturbo d’ansia conclamato.
Spesso coloro che richiedono un intervento specialistico per un disturbo d’ansia, lamentano anche disturbi a carico dell’apparato digerente. Gli aspetti emozionali sono infatti fortemente correlati alle funzioni intestinali e la risposta agli agenti stressogeni può portare a una condizione di disbiosi intestinale che tende a ridurre l’assorbimento del triptofano, amminoacido essenziale che, essendo il precursore della serotonina, ne riduce la sua sintesi favorendo un amento dello stato ansioso.
Esiste inoltre una forte correlazione tra ansia e il modo di alimentarsi.
Molte persone riducono o rifiutano il loro cibo abituale sentendo talvolta addirittura l’incapacità di far arrivare qualche boccone nello stomaco; altri vanno a ricercare cibi di gratificazione (comfort food), spesso ricchi di carboidrati e grassi avendo sperimentato che possiedono un effetto calmante proprio sul sintomo ansioso; altri ancora mangiano di più in generale, identificando, forse, nel cibo, una sorta di supporto energetico.
La ricerca di cibo gratificante come dolci, biscotti, bibite zuccherate, cioccolata è correlata alla necessità di incrementare i livelli di serotonina e il nostro cervello, senza che ce ne rendiamo conto, ci indica dove possiamo trovarne i precursori.
Succede però che, in tempi più o meno brevi, questo tipo di cibi impatti sul nostro apparato digerente creando disagi digestivi o gonfiori a stomaco e addome fino a problemi di reflusso gastroesofageo, bruciori o sindrome dell’intestino irritabile in grado, a loro volta, di creare un circolo vizioso di aumento di ansia e stress. Inoltre i cibi caratterizzati da una forte presenza di zuccheri semplici e con elevato Indice Glicemico (IG, che misura la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro effetto sulla glicemia) porta a forti oscillazioni della glicemia con conseguenti ripercussioni sull’energia a disposizione per tutte le cellule dell’organismo e in particolare quelle del sistema nervoso centrale. Un eventuale aumento di peso conseguente alimenta, poi, il circuito ansia-stress.
Da qualche anno molti studi stanno mettendo in evidenza il ruolo dei nostri batteri intestinali (microbiota) nella comunicazione cerebrale, in quanto capaci di inviare segnali direttamente dall’intestino al cervello attraverso svariati meccanismi:
innervazione intestinale: i microrganismi sembrerebbero influenzare l’attività nervosa utile a determinare l’attivazione del sistema immunitario
produzione di metaboliti: tramite questi ultimi, il microbiota sembrerebbe in grado di influenzare lo stato infiammatorio, i livelli di triptofano e di acido kinurenico (neuroprotettivi). Inoltre, produce direttamente neurotrasmettitori come GABA e BDNF (brain-delivered neurotrophic factor).
Già da tempo molti studi hanno indagato sul ruolo del microbiota intestinale in relazione a dieta ed emozioni. Una dieta ad elevato contenuto di grassi può promuovere la ‘leaky gut sindrome’, aumentando la permeabilità intestinale (Cani et al., 2008, Hildebrandt et al., 2009, Kim et al., 2012) in maniera analoga allo stress (Gareau et al., 2008, Ait-Belgnaoui et al., 2014), e l’incremento di produzione di citochine da parte dei batteri le quali, a loro volta, sembrano in grado di sensibilizzare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA axis) verso un comportamento ansioso e depressivo.
Al contrario, cambiamenti della composizione del microbiota attraverso la dieta e supplementazioni di specifici probiotici, possono portare ad una migliore risposta allo stress.
Studi in vivo su modelli animali hanno indagato la comunicazione tra cervello e intestino andando a dimostrare come il microbiota intestinale sia alterato anche in condizioni di stress o di disturbi associati allo stress e di come si vada a perdere in parte la funzionalità della via metabolica degli acidi grassi a catena corta (SCFAs).
Gli SCFAs come acetato, propionato o butirrato, sono in larga parte prodotti in seguito alla fermentazione intestinale di alimenti ricchi di fibre e hanno da tempo dimostrato di apportare numerosi benefici all’ospite, sia a livello intestinale che sistemico raggiungendo perciò anche il cervello e, quando supplementati, hanno dimostrando di ridurre i livelli di ansia dopo il periodo di stress prolungato.
In alcune ricerche si è visto, in modelli murini, che la combinazione di due prebiotici come i frutto-oligosaccaridi (FOS) e i galatto-oligosaccaridi (GOS) sia in grado di modulare l’ansia e i comportamenti stress-correlati in animali sani. Lo studio evidenzia anche che questi prebiotici modificano l’espressione di geni specifici in zone chiave del cervello in grado di ridurre comportamenti ansiosi e depressivi suggerendo come il microbiota intestinale possa essere un importante target per la psichiatria nutrizionale.
Quando il comportamento di mio figlio può essere definito ‘problema’?
Quando il comportamento di mio figlio può essere definito ‘problema’? Quando possiamo parlare di vivacità e sana energia vitale e quando invece il comportamento merita un’attenzione in più?
Queste domande sono molto frequenti tra i genitori, che spesso, tra dubbi, ansie, paure e momenti di frustrazione, legati al complesso e difficilissimo ruolo genitoriale, carico di responsabilità, si ritrovano a fare i conti con situazioni che li mettono a dura prova per ciò che concerne l’educazione e la relazione con i propri figli. Spesso i bambini mettono in atto comportamenti insoliti, talvolta bizzarri, talvolta pericolosi, osservando tali comportamenti altrettanto spesso i genitori hanno difficoltà a capire se sono strettamente connessi allo specifico stadio dello sviluppo, o se è il caso di intervenire e di contattare uno specialista. Molto simili sono anche le domande che i genitori si pongono quando la segnalazione arriva da parte degli insegnanti.
Il comportamento può essere definito come il modo in cui un soggetto interagisce con il mondo circostante, quindi ogni parola, azione, reazione che mettiamo in atto caratterizza il nostro comportamento, ovvero il modo di rispondere alle sollecitazioni ambientali, fisiche e relazionali.
I nostri comportamenti hanno diverse funzioni e sono sempre orientati a: comunicare qualcosa, rispondere ad un bisogno, evitare certe situazioni, realizzare desideri, raggiungere obiettivi.
Quindi tutti i comportamenti sono orientati all’adattamento, alla comunicazione e al soddisfacimento di bisogni di varia natura (primari, di contatto, di riconoscimento, ecc).
Un comportamento può essere definito ‘problema’ quando:
interferisce o ostacola il mantenimento di capacità già acquisite
è pericoloso per sé e per gli altri
interferisce con lo svolgimento di normali azioni quotidiane
interferisce con lo svolgimento di attività quotidiane e non solo
I comportamenti problema rappresentano un ostacolo all’adattamento funzionale e allo sviluppo di nuove capacità nonché all’apprendimento in quanto comportano per il bambino un sovraccarico psico-fisico eccessivo e sono correlati a stati ansiosi, di tensione, paura, disagio.
Un esempio di comportamenti problema possono essere le reazioni emotive eccessive in relazione a determinate situazioni, come crisi di rabbia per piccole frustrazioni, l’opposizione sistematica alle richieste dell’adulto o la rigidità di certe abitudini e rituali.
Un concetto fondamentale rispetto al comportamento problema è che se quest’ultimo è stato appreso è perchè senz’altro ha portato conseguenze positive e/o un vantaggio. In sostanza il comportamento problema, così come tutti i comportamenti, ha sempre uno scopo, è atto a comunicare qualcosa e rappresenta una modalità di adattamento, anche se disfunzionale (Pontis, 2018)
Il comportamento problema può dunque avere diverse funzioni: ottenere qualcosa, per esempio attenzioni, evitare qualcosa per esempio un compito, soddisfare un bisogno, comunicare un disagio.
La funzione del comportamento problema è legata alla situazione, il comportamento problematico è di fatto una manifestazione complessa e varia per azioni (fuggire, lanciare oggetti, aggredire gli altri, autolesionismo, ecc) ma non è necessariamente l’estrinsecazione di un disturbo psicopatologico, sebbene i comportamenti problema siano spesso correlati positivamente a disabilità intellettiva e autismo (Ianes & Cramerotti, 2002).
I fattori di rischio per l’insorgere di comportamenti problema sono:
difficoltà nel linguaggio
limitata abilità comunicativa
difficoltà di apprendimento
scarso repertorio comportamentale
Due suggestioni:
un comportamento che riceve in risposta conseguenze piacevoli ha maggiori probabilità di essere reiterato.
un comportamento che riceve una risposta sgradevole o che non riceve risposta ha meno probabilità di essere reiterato.
Il comportamento problema deve essere sempre contestualizzato, in quanto non è mai il comportamento in senso stretto ad essere un problema, quanto invece lo è l’effetto che quest’ultimo ha nella complessa interazione del bambino con l’ambiente (Haim Brezis, 1986).
L’osservazione e l’analisi funzionale del comportamento problema possono essere utili per cercare di capire che significato ha quel comportamento in quella determinata situazione e che scopo ha. E’ necessario registrare attraverso l’osservazione e l’intervista con insegnanti e genitori e/o figure di riferimento, la tipologia di comportamento, il contesto in cui si è verificato, cosa è accaduto prima dell’insorgere del comportamento e cosa è accaduto dopo. Un’analisi funzionale sistematica e attenta è necessaria per poi progettare degli interventi ad hoc che abbiano lo scopo di far estinguere il comportamento problema e/o sostituirlo con uno più funzionale all’adattamento (Brezis, 1986).
In definitiva, un’attenta osservazione e l’analisi funzionale del comportamento sono strumenti che possono aiutare per la progettazione di un intervento ad hoc mirato all’apprendimento e al rinforzo di strategie adattive più funzionali, ma è sempre importante non trascurare i significati che quel determinato comportamento ha per il bambino o la bambina e a che bisogni profondi risponde.
La Natura e l’arte del vivere con arte – Spunti di riflessione dalla lettura di “Piccola filosofia volatile” di Dubois e Rosseau
Un po’ come gli uccelli, anche noi, uomini, donne e terapeuti, dovremmo imparare a goderci ogni piccolo momento e a riconoscere e selezionare il nostro talento, per poi valorizzarlo sempre più, affinandolo con amore, studio e passione.
Premessa
In questi giorni un giovane uomo, che fa parte di un gruppo di lavoro di arte terapia, mi ha suggerito un testo da leggere ed io, che da sempre ho grande stima e attenzione verso tutto ciò che riguarda le letture dei miei pazienti, ho subito segnato il titolo che mi ha suggerito: Piccola filosofia volatile. 22 lezioni di serenità di E. Rosseau e P.J. Dubois, scritto rispettivamente da una giornalista laureata in filosofia e letteratura e da un ornitologo e scrittore.
Il testo è snello, di facile lettura, racchiude in sé un invito alla riflessione sul comportamento naturalistico degli uccelli: i nostri due autori, appassionati naturalisti, ad ogni capitolo tracciano un parallelo tra quello che la Natura sceglie in modo evolutivo per la specie come “il meglio” ed il comportamento umano.
I temi sono diversificati: accettare le fragilità, la parità (o meno) tra i sessi, le buone abitudini, il senso dell’orientamento, il coraggio, la famiglia, la fedeltà, la libertà, la paura, ed altri temi universali come il corteggiamento tra specie, la bellezza, il potere, etc. Per ultimo argomento, gli autori propongono anche il tema – tabù della morte: osservazioni, spunti e curiosità che davvero ci rendono simili e affini per scelte e comportamenti ad alcuni uccelli comuni nei nostri territori e quindi da noi conosciuti, o meno.
Leggere queste brevi storie ci fa riflettere.
Molto interessante il capitolo sull’arte del corteggiamento, che ci racconta come ogni specie, grazie alla selezione naturale, nel tempo ha declinato al meglio delle proprie possibilità un “talento”, ad es. il canto o una propria dote estetica, come il colore del piumaggio, potenziandone sempre più una sola però, spesso a discapito dell’altra. Pensiamo all’usignolo o viceversa al pavone. Come a dire che la Natura è generosa, ma giusta nell’elargire i proprio doni. Pensiamo all’usignolo e al pavone: sviluppare entrambe le caratteristiche, un canto raffinato o un piumaggio iridescente, non è dato. Esibirsi in passi di danza leggiadri o mostrare generosità verso la femmina portandole dei doni? Ogni uccello sceglie le migliori strategie di conquista, mostrando un gusto per la bellezza e il farsi belli, davvero sorprendenti e affascinanti in questi piccoli animali.
Bellissimo il capitolo su come contribuire alla bellezza nel mondo (pag. 69) che descrive la tattica del Giardiniere satinato, un uccello australiano con un piumaggio blu notte: l’uccello maschio, per invogliare la femmina a sceglierlo crea un nido molto elaborato, che forma una specie di pergola, disposto a terra e lo dipinge di blu! Eccone un breve estratto:
Il giardiniere satinato australiano
Sì, pare incredibile, ma questo uccello che vive in Australia dipinge il nido con una specie di pittura blu, ricavata da bacche (violette, blu e nere), mescolate alla sua saliva e a del carbone di legna, proveniente dagli incendi delle foreste (pag. 70). Sul bordo, poi, dispone una “costellazione” di oggetti blu: tappi di bottiglia, penne, pezzi di plastica di ogni genere, anche sassi, facendo bene attenzione a sistemare i più grossi davanti ed i più piccoli dietro, creando così un’illusione ottica che fa apparire alla femmina il nido più grande di quanto sia in realtà. Se questa non è arte della bellezza, si chiedono gli autori…io concordo con loro.
Che tristezza, osservazione del tutto mia personale, che il Giardiniere Satinato ad oggi usi la plastica (!) e non solo materiale naturale, per decorare il nido! Ma questa è un’altra storia che in questo testo non si affronta. Forse una riflessione a riguardo i nostri autori avrebbero potuto metterla, magari come nota… invece nel testo non compaiono mai accenni di tipo ecologista, probabilmente per scelta, per non appesantire i lettori, facendoli “volare bassi”, dopo aver letto cose così poetiche, lancio a chi leggerà il testo o questo articolo un interrogativo a riguardo…
Altri estratti interessanti possono essere (pag. 122) quello in cui ci si chiede cosa sia l’intelligenza e se, nel mondo degli uccelli, ci sia una sorta di trasmissione del sapere. Mitici i corvidi (cornacchie, etc.) che possono ricorrere a delle strategie per procacciarsi il cibo, utilizzando degli “utensili”, bastoncini, ramoscelli o altro, per aiutarsi nella ricerca. Alcune cornacchie (pag. 121) della Nuova Caledonia hanno addirittura costruito un “amo” torcendo un filo sottile per impadronirsi di qualcosa (dei vermi in un barattolo)!
Un video molto carino a questo proposito, dal titolo La sorprendente intelligenza dei corvi, si trova in rete ed è un esperimento volto a studiare l’intelligenza dei corvidi.
Anche i corvi cittadini sanno trarre vantaggio dalla vita urbana: hanno imparato a gettare delle noci sulla strada ad un incrocio, al semaforo verde, e ad attendere il semaforo verde successivo per recuperare i pezzi di noce, estraendoli dai gusci schiacciati dalle auto, il tutto con maggiore facilità, servendosi di questo escamotage e riuscendo a calcolare esattamente i tempi dei semaforo.
La ghiandaia poi, nel capitolo L’intelligenza è davvero quella che crediamo (pag. 120), dà prova di chiaroveggenza: in autunno nasconde semi e noci sottoterra, ma, se si accorge di essere “spiata” da un suo simile, finge solamente! Usa la simulazione, quindi, come gli esseri umani.
Infine, sempre riguardo l’intelligenza, va citata l’esperienza della gazza ladra, che davanti a uno specchio (pag. 122) si riconosce. Per capirlo, alcuni scienziati ne hanno tinto le penne della testa di rosso e questi uccelli, guardandosi riflessi, tentano di togliersi la macchia esattamente nel punto di colorazione differente.
Bellissimo anche il capitolo (pag. 47) Dove sta il vero coraggio, che spiega come l’uomo abbia scelto alcuni uccelli come simboli di forza, volatili come l’aquila ad es., quando invece, a ben guardare, sarebbe il piccolo pettirosso l’uccellino da scegliere per rappresentare questo sentimento. Il pettirosso, infatti, difende strenuamente il proprio territorio, è un guerriero appassionato e si proclama tale attraverso il canto (pag. 49), per quanto melodioso e malinconico. È chiaro però che un pettirosso, di massino 14 cm, sulla bandiera o su un’elsa di una spada avrebbe senz’altro meno “stile” di un’aquila reale con un’apertura alare di due metri e più. Ricordo, a questo proposito, per chi volesse saperne di più su questo stupefacente volatile, il meraviglioso film Abel, il figlio del vento – storia di un’amicizia tra un’aquila e un bambino. Parlando di coraggio potremmo anche soffermarci sul gallo, emblema della Francia. Il maschio dell’oca, se c’è da dar battaglia, è molto più incisivo nel beccarci il polpaccio e né un gallo né una gallina superano la vigilanza di un’oca: quest’ultima è un vero cane da guardia! Il fatto è che spesso si confonde la forza con il coraggio.
Infine, per concludere questi brevi estratti, che spero invoglino alla lettura, posso citare il capitolo in cui si descrive il concetto di filosofia di vita serena: La gallina al bagno. O sull’arte di vivere intensamente (pag. 63). Qui abbiamo la descrizione della abluzioni di terra della gallina comune, che le usa per liberarsi dai parassiti e pulire il piumaggio; vive momento per momento, godendosi il suo rituale. Il messaggio è chiaro: godiamo con intensità delle piccole cose di ogni giorno, liberando la mente e gustandoci ogni attimo. Carpe diem è un invito ad essere presenti, qui ed ora. Anche quando noi stessi ci laviamo, provare un genuino piacere per l’atto stesso della pulizia. La gallina, se è stressata non si cura, non si lava senza gioia, piuttosto se ne sta immobile, muta, oppure si agita gridando. Questo uccello ci insegna la felicità del momento.
Meta osservazioni tecniche
Tutti questi meravigliosi esempi di natura ci fanno riflettere, per questo la Piccola filosofia volative è un libro che accompagna in modo lieve, anche chi sta male, ed è adatto anche ad essere ripreso più e più volte in mano, come un testo filosofico, quasi zen, che solleciti il pensiero sereno e le buone prassi, che possa essere usato anche per iniziare una piccola conversazione o un laboratorio di arte terapia.
Il paziente che me lo ha suggerito, un giovane ragazzo intelligente, si è illuminato quando mi ha consigliato questo testo, perché esso ne ha alleviato la sofferenza del vivere nei momenti di sconforto.
Credo che quando un paziente ci racconta un’esperienza personale che lo entusiasma vada assolutamente ascoltato, accolto, anche dal punto di vista terapeutico, perché davvero le persone (non solo i pazienti) andrebbero maggiormente valorizzate nei loro contributi relazionali, ma, soprattutto, perché ognuno ha qualcosa di bello da poter condividere: un pensiero, un’esperienza, etc.,
Questo “donare”, ha un valore terapeutico sicuramente maggiore che non il “ricevere”. Noi psicoterapeuti e arteterapeuti, come tutte le figure professionali che lavorano per il benessere del prossimo, siamo sempre portati verso il “dare”, ma altrettanto importante è sapere valorizzare conversazioni, suggerimenti, atti, modi di porsi, che possono far sentire una persona degna di valore, non per retorica, o solamente per “strategia tecnica”, ma per reale atto di umiltà e apertura verso l’altro. E’ una questione di sensibilità e curiosità verso il sapere e l’essere umano che chi lavora “bene” in questo campo dovrebbe possedere. Un po’ come gli uccelli, anche noi uomini e donne, (e terapeuti), dovremmo dapprima riconoscere e selezionare il nostro talento e poi lavorare per valorizzarlo sempre più, affinandolo con amore, studio e passione.
All’incontro successivo, io e il mio paziente abbiamo discusso del testo in questione su un terreno comune di condivisione: sapere che ho fatto mio un suoi consiglio di lettura, lo ha dapprima stupito (spiazzato sarebbe più corretto), poi rassicurato e infine gli ha regalato la gioia di poter essere utile, un altro concetto molto importante per l’essere umano dal punto di vista empatico, anche in terapia.
La fiducia, capitale umano sempre più raro, si basa anche su piccoli atti di gentilezza: a mia volta io ora, parlando di questo libro, creo una catena di rimando che può trovare eco nei lettori più sensibili o interessati alla Natura, perlomeno posso dire di aver regalato qualche piccolo spunto inedito costituito da esempi di comportamento animale preso da un “piccolo libro di filosofia volatile”.
Una volta una persona mi ha detto che c’è sempre da imparare dagli altri. Io credo che sia assolutamente vero. Il segreto è aprirsi all’altro senza pregiudizi e non essere presuntuosi. Il professionista che fa la differenza è quello umile, ma che fa della ricerca costante il suo strumento, mettendola poi “al servizio” come sapere. Lo scambio è valore, soprattutto se il lavoro è passione, come dovrebbe essere.
Critiche
Un piccolo appunto a questo testo però lo devo presentare: gli autori avrebbero potuto inserire alcune immagini, almeno degli uccelli meno conosciuti che citano. Io ho cercato in rete delle immagini, ad es. dell’uccello australiano Giardiniere (ricordate, quello che raccoglie oggetti blu per la femmina) e sono rimasta incantata da cotanta bellezza, forse perchè sono molto “visiva” occupandomi anche di arte e arte terapia creativa, ma ho avvertito fortemente, nel testo, questa mancanza. Inoltre, leggere e osservare, un po’ come i bambini con le fiabe o i fumetti, è un piacere maggiore, anche perché in molti casi, oltre a quello del Giardiniere australiano, la Natura supera in bellezza l’immaginazione.
Spunti creativi
Il libro è comunque bellissimo, Lancio uno spunto creativo a chi leggerà questo articolo, si potrebbe personalizzarlo con dei disegni ad acquerello (o collage, etc.), magari proprio degli uccelli in questione citati nel testo a fianco o sotto: immaginate un disegno “trasparente” al di sopra della parte stampata, realizzato da voi, che ne consenta comunque la lettura, o negli spazi dove non ci sono scritte, come per esempio accanto al titolo o lungo i margini. Questa modalità artistica può rendere un libro un dono personalizzato da regalare o arricchire in modo terapeutico il testo, anche per noi stessi.
Lavorare in arte terapia (e non solo), con questo piccolo testo sarà un buon modo per trarre spunto da una “suggestione” evocativa dalla quale partire e regalare agli ascoltatori, anche bambini, piccoli sogni di filosofia volatile.
La sorprendente intelligenza dei corvi – VIDEO:
Attrazione sessuale: siamo in grado di riconoscerla?
La letteratura mostra come esista una discrepanza oggettiva tra i due sessi nel determinare il grado di attrazione dimostrata da un potenziale partner: le donne sembrano sottostimare l’interesse sessuale di potenziali partner, mentre nell’uomo vi sarebbe la tendenza a sovrastimare quello delle femmine.
Nella specie umana la scelta di un partner (sessuale o non) si basa su di una mutua selezione tra due individui, al contrario di tante altre specie animali per le quali questa scelta viene generalmente operata dalla femmina basandosi sulla fitness genetica degli esemplari maschi e testimoniata da caratteristiche fisiche o da skills utili alla sopravvivenza del singolo che, per estensione, garantirebbero quella della coppia e della loro progenie.
Da un punto di vista evolutivo, considerando semplicemente l’obbiettivo della riproduzione, imprescindibile per la preservazione della specie, risulterebbe quindi più rischioso per un maschio perdere l’occasione di accoppiarsi con una femmina interessata, piuttosto che l’inverso (Trivers, 1972): l’esito di una gravidanza alla quale non segua la formazione di una coppia, comporterebbe che tutto il peso delle cure parentali, particolarmente gravose nella specie umana, ricada sulla femmina, aumentando i rischi per la sopravvivenza della madre e della prole.
Per questo motivo è stato postulato che vi sia una pressione differente nei due sessi sulla selezione del partner, che ha fatto sì che nel corso dell’evoluzione si sia sviluppata un’inclinazione differente nel percepire l’interesse sessuale dimostrato dalla controparte: l’Error-management theory (Haselton&Buss, 2000) suggerisce che si sia evoluto un bias, ovvero una distorsione cognitiva divergente nei due sessi, per favorire l’errore che risulti meno “costoso” per l’individuo, tale da portare le donne a sottostimare l’interesse sessuale di potenziali partner, mentre nell’uomo vi sarebbe la tendenza opposta a sovrastimare quello delle femmine.
L’esistenza oggettiva di una discrepanza tra i due sessi nel determinare il grado di attrazione dimostrata da un potenziale partner è stata ampiamente documentata in letteratura (Abbey, 1982; Farris et al.,2008; Fletcher et al., 2014; Perilloux et al., 2012); tuttavia, per quanto la cornice teorica dell’Error Management sembri spiegare adeguatamente i risultati ottenuti negli studi condotti, i ricercatori mettono in guardia circa la possibilità che vi siano altri fattori che possano fungere da mediatori nello spiegare le differenze individuali rilevate. Lemay e Wolf (2016) hanno ad esempio riscontrato come gli individui che si percepiscono come più attraenti abbiano anche una tendenza a sovrastimare l’interesse sessuale di un potenziale partner e si è trovato che gli uomini tendano in media ad avere una percezione di sé stessi come maggiormente attraenti rispetto alle donne (Feingold& Mazzella, 1998; Hayes et al., 1999). È stato inoltre dimostrato come vi sia una correlazione tra l’interesse sessuale che un individuo prova per un’altra persona e la percezione che egli avrà dell’interesse sessuale dimostrato nei suoi confronti, fenomeno che è stato interpretato come una sorta di “proiezione” del proprio interesse sugli altri: l’ipotesi inversa, ovvero che l’essere apprezzati da qualcuno ingeneri un maggior interesse sessuale verso questa persona, è stata esclusa per assenza di causalità inversa (Lemay&Wolf, 2016).
Da ultimo, l’orientamento sociosessuale, ovvero la propensione verso una strategia di accoppiamento orientata sul breve termine piuttosto che l’aspirazione ad un legame di coppia stabile nel tempo, sembra modificare l’apertura alla possibilità di incontri sessuali occasionali: gli uomini dimostrerebbero una propensione maggiore delle donne verso una strategia di accoppiamento sul breve termine (Gangestad& Simpson, 2000) ed un’apertura maggiore verso incontri sessuali occasionali (Penke&Asendorpf, 2008); inoltre, Howell e colleghi (2012) hanno riscontrato come un obbiettivo a breve termine fosse associato in entrambi i sessi ad una sovrastima dell’interesse sessuale da parte di potenziali pretendenti, sebbene altri abbiano riscontrato questo effetto solo negli uomini (Perilloux et al., 2012).
Un team di ricercatori australiani (Lee et al., 2020) ha condotto una ricerca per determinare con quanta accuratezza le persone fossero in grado di valutare l’interesse sessuale da parte di un potenziale partner, indagando anche il ruolo di potenziali moderatori come la percezione della propria avvenenza, il proprio interesse sessuale e l’orientamento sociosessuale nello spiegare le differenze di genere riscontrare in letteratura.
I 1226 partecipanti hanno compilato inizialmente il Sociosexual Orientation Inventory (SOI revised; Penke & Asendorpf, 2008) per indagare la propensione verso il sesso occasionale, in seguito è stato loro chiesto di giudicare la propria attrattività, valutando l’avvenenza del proprio viso, del proprio corpo, la piacevolezza della propria personalità e dando da ultimo un punteggio globale complessivo di attrattività.
La procedura prevedeva poi che ogni soggetto partecipasse ad una sessione di speeddating della durata di tre minuti, al termine del quale era loro richiesto di esprimere il proprio grado di interesse verso la persona appena conosciuta, così come il grado di interesse percepito da parte del potenziale partner.
Le analisi statistiche hanno rivelato come in generale i soggetti si dimostrassero abbastanza accurati nel determinare l’attrazione provata da un potenziale pretendente (trackingaccuracy) e che nessuno dei tratti personologici analizzati (sesso, età, orientamento sociosessuale e giudizio sulla propria avvenenza) risultasse associato ad una migliore performance in questo senso. I dati sembravano inoltre confermare la tendenza generale (mean-level bias) negli uomini a sovrastimare l’interesse sessuale dei propri partner; tuttavia, quando nel modello si sono considerati anche l’interesse sessuale espresso dal soggetto stesso e i vari moderatori, si è riscontrato come le differenze di genere si annullassero, venendo spiegate dalle differenze individuali nell’orientamento sociosessuale e dalla percezione della propria avvenenza: soggetti più orientati verso il sesso occasionale e quelli che si consideravano più attraenti, a prescindere dal sesso di appartenenza, avevano una tendenza maggiore a percepire attrazione sessuale a loro rivolta. Da ultimo, è emerso un effetto significativo dell’interesse provato dal soggetto stesso nei confronti del potenziale partner, supportando l’idea che gli individui “proiettino” il proprio interesse sulla controparte, finendo per sovrastimarne l’interesse reale.
Gli autori interpretano i risultati ottenuti non tanto come frutto di un bias evolutosi per favorire una strategia d’accoppiamento distinta nei due sessi, come suggerito dall’Error Management Theory, bensì come il risultato di una tendenza generale dell’essere umano ad estendere i propri stati mentali agli altri, come già riscontrato nel caso del false-consensus bias o nell’assumed-similarity bias (per una rassegna vedi Marks & Miller, 1987).
Il Covid-19 come fenomeno psicosociale. Quale responsabilità degli psicologi
L’emergenza epidemica prodotta dal virus Covid-19 pone, nell’epoca dell’infosfera e della tecnosfera globalizzata e pervasiva che stiamo attraversando, questioni del tutto nuove e al contempo fa emergere vecchi se non vecchissimi schemi antropologici. Il vecchissimo e il nuovissimo s’intrecciano in uno strano miscuglio rendendo confuso un quadro già di per sé torbido.
Decido di parlarne occupando lo spazio (vuoto) di analisi psicosociale esplorando tre punti: 1. il vertice professionale e di responsabilità di uno psicologo e psicoterapeuta alle prese con i propri pazienti; 2. L’aspetto funzionale e disfunzionale delle fenomenologie psicopatologiche; 3. Il piano comunicativo e i suoi attuali squilibri.
La responsabilità sociale dello psicologo
Innanzitutto mi sono posto la questione relativa alla responsabilità professionale: come incontrare il disagio pre-esistente dei nostri pazienti in collisione con le angosce e le conseguenze pratiche dell’espansione dell’epidemia in corso, sia considerando il fenomeno virale effettivo, che la viralità mediatica come epifenomeno conseguente al primo? Trovarsi, prima o poi, nelle zone di quarantena o limitrofe, con limitazioni dei movimenti e della comune vita sociale e il relativo impatto psicologico sulla popolazione di post traumatic stress, rabbia, depressione, frustrazione, noia, confusione, etc., come confermato da una recentissima review sull’argomento quarantena (Brooks et al., 2020 – ved. bibliografia).
Ma anche soltanto gestire le ansie di chi, momentaneamente lontano dalle zone di contagio, vede un pericolo incombente giungere da ogni canale mediatico e dai discorsi che tutti fanno per strada e nelle famiglie. Tutto questo e molto altro ancora ci interroga su come affrontare e discutere con i nostri pazienti la problematica situazione in corso (a seconda della dislocazione geografica e della prossimità o meno di focolai e quarantene) cercando di mantenere una posizione realistica, emotivamente equilibrata, scientificamente informata, comunicativamente rassicurante, ma al tempo stesso non sottovalutante, istituzionalmente coerente con le indicazioni sanitarie e con la situazione in rapido itinere e mutamento, in grado di trasmettere l’effettiva realtà del problema in corso senza allarmare, ma senza sottovalutare. Allo stesso tempo occorre saper tracciare ed indicare i confini temporali di esperienze così angoscianti e fornire supporto e comprensione nonché strategie di occupazione del tempo e della convivenza creative e se possibile anche innovative. Talora, come nelle storie del periodo bellico, la riduzione delle libertà e delle possibilità di vita rappresentata dalla condizione di emergenza può convertirsi in occasione di incontro con sé, con il prossimo e con risorse inattese e inesplorate.
Se invece pensiamo ad alcune vulnerabilità emotive e cognitive di alcuni nostri pazienti, essi, per svariate ragioni personali, possono rivelarsi non in grado di processare un cambiamento di questa portata, nonché non in grado di elaborare una complessità informativa oggettivamente e poi anche soggettivamente incalcolabile, come quella di una epidemia in corso nella propria città. Basta pensare a tutti i pazienti ansiosi (fobici, panicosi, ipocondriaci, evitanti, paranoidei, depressi, solo per fare qualche esempio) e possiamo immaginare come sia automatica per alcuni di loro la risposta di fuga e riparo oppure il vissuto di catastrofe incombente o viceversa di negazione. Un festival di difese indotto da una condizione esterna.
In un’ottica e prospettiva più allargata, ovverosia che tenga conto della funzione sociale della nostra professione, il nostro compito e la nostra responsabilità non si riducono alla ricerca di equilibrio e correttezza professionale verso il numero ristretto e privato dei nostri pazienti, ma riguarda più ampiamente la cifra comunicativa che ciascuno di noi ha, in quanto professionista della salute e promotore di benessere pubblico, nei confronti della cittadinanza e della società tutta. Questo allargamento di prospettiva e di responsabilità ci obbliga a prendere posizione e a approfondire temi che generalmente (e secondo me erroneamente) rimarrebbero al margine del nostro mansionario percepito.
Ci obbligano cioè ad affrontare il tema della mente come fenomeno sociale e storico e di quelle interfacce che troppo spesso escludiamo (per pigrizia? per ignoranza? per riduzionismo?) nel nostro comune lavoro clinico. Non solo quindi contenere, proteggere, se vogliamo protesicamente, le vulnerabilità dei nostri singoli pazienti, ma comunicare, informare, condividere riflessioni e soluzioni di piccoli e grandi problemi a livello sociale e pubblico.
Il Covid-19, per quanto possa apparire paradossale, ci svela la natura sociale della mente e ci svela allo stesso tempo quanto lavoro abbiamo da fare su questo versante e ci aiuta indirettamente ad aprire nuovi territori delle nostre professionalità.
Si pone perciò come urgenza per uno psicologo informato della propria funzione sociale, che voglia fornire una corretta visione e comunicazione pubblica del rischio, il problema di quali fonti informative e scientifiche utilizzare, con quale autorevolezza, come utilizzarle, con quale capacità di sintesi personale processare i dati, come sviluppare e poter mettere insieme competenze trasversali che, in un caso come questo del Covid-19, esorbitano di molto il nostro background formativo: competenze epidemiologiche, sociometriche, matematiche, biologiche, mediche, storico-scientifiche, ma soprattutto la capacità di maneggiare sistemi complessi anche in chiave previsionale.
Ciò che invece avviene nella nostra, come in tutte le altre professioni ad alta esposizione sociale, è il deludente polarizzarsi sulle diatribe mediatiche dell’allarmismo versus banalizzazione/sottovalutazione del fenomeno, con una netta prevalenza (personalmente percepita) a favore del partito della negazione e sottovalutazione. Chiaro segno di una mancanza di dimestichezza a fronte della assoluta novità di quanto sta accadendo accodandosi verso un riduzionismo emotivo di natura difensiva del tutto inadeguato.
Come avviene, dunque, una corretta comunicazione pubblica del rischio? E cosa sta avvenendo da alcune settimane qui in Italia su questo?
Rimando a questo proposito la lettura di un’eccellente riflessione di Pietro Saitta (2020 – ved. bibliografia) che interroga molti piani comuni a questo mio articolo: l’autorevolezza delle fonti scientifiche, l’autorevolezza delle istituzioni, il caos mediatico, etc.
Il catalogo delle psicopatologie come repertorio antropologico
Un secondo punto che vorrei sollevare, come articolazione del primo, parte dalla constatazione che, a partire da alcune delle stesse (giustissime) raccomandazioni contenute nel decalogo governativo per difendersi dal Covid-19, ciò che emerge alla mia (personalissima) attenzione è che questo virus sta mobilitando aspetti della natura umana evolutivamente sedimentati che assomigliano moltissimo ad un repertorio di difese e contromosse che stranamente, ma poi neanche tanto, a loro volta somigliano al catalogo delle principali forme di psicopatologia. Cosa vuole dire questo e cosa implica?
Prendiamo alcuni punti del decalogo, ripeto sacrosanto e doveroso: lavati (spesso) le mani; pulisci le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol; non toccarti occhi, naso e bocca con le mani. Sono notoriamente aspetti tipici del repertorio ossessivo-compulsivo. Ed ancora: evita contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; è chiaramente l’espressione di un comportamento fobico-evitante (con sfumature paranoidee dal momento che conoscere la condizione di infezione del prossimo è quasi sempre un’inferenza indebita). Un mio paziente, ad esempio, è stato cacciato dal corso di teatro solo perché tossiva (e siamo a Roma dove non c’è alcuna epidemia al momento).
Allargando il campo di osservazione, alcuni comportamenti di massa di incetta di viveri e oggetti percepiti come salvifici (mascherine e disinfettanti), per fortuna meno frequenti di quanto si pensi, raccontano di memorie manzoniane di assalto ai forni o di follie collettive che abbiamo potuto osservare solo in alcuni film catastrofistici americani. Fenomeni di panico collettivo che associamo subito alla distruttività di folle calpestanti e distruttive.
La quarantena, inoltre, evoca scenari del tutto inediti alle nostre generazioni (almeno in Italia) e convoca situazioni e abitudini completamente sconosciute, almeno se si parla di masse. Rimanere isolati in casa, non poter frequentare luoghi pubblici o ridurre drasticamente la vita sociale rimanda immediatamente ad una deriva depressiva, se non addirittura ai sintomi negativi di alcune psicosi. Nell’immaginario collettivo si ferma la vita, si cade in una passività e in una solitudine senza ritorno. Settimane se non mesi in uno stato di reclusione domiciliare come se si scontasse una pena (ibidem).
Ci ritroviamo in questa inedita e duplice situazione di gestire da un lato un repertorio comportamentale sulla carta disadattativo (fatto di gesti circospetti e compulsivi) che transitoriamente appare invece come adattativo e a scoprire al contempo angosce e difese primitive che emergono come fortemente compromettenti le capacità critiche e di valutazione della realtà in rapido mutamento.
Da un lato quindi osserviamo come questa nuova condizione di pericolo soggettivo e collettivo attivi sepolte funzioni adattative, anche ataviche, pescando nelle profondità di un repertorio antropologico, dove la fuga, la mimesi, l’isolamento, la paura espressa e condivisa gruppalmente, persino la risposta di allarme (arousal) e la diffidenza paranoicale diventano paradossalmente pensieri e comportamenti del tutto funzionali psicobiologici e psico-evoluzionistici all’eccezionalità della situazione.
Il caos mediatico e la diffusa irrazionalità
Dall’altro, la variabile legata alla saturazione dell’infosfera, con dibattiti mediatici e l’invasione totale dello spazio mediatico da voci contrastanti e rumorose, deforma completamente il quadro generale e compromette la capacità di comprensione e di previsione del fenomeno anche per persone mediamente dotate di intelligenza e cultura scientifica. L’emotività della situazione aumenta ulteriormente questa compromissione creando le comuni dicotomie e polarizzazioni tra allarmisti e negazionisti. Si ripropongono posizioni complottiste che si fanno strada nell’opinione pubblica.
Se l’eccesso di angosce e di allarmismo produce il classico fenomeno del contagio psichico e i fenomeni di massa sopra citati, l’eccesso di negazionismo vede la clamorosa sottovalutazione dei dati epidemiologici e come estrema conseguenza il frequente comportamento di elusione delle quarantene (e successiva espansione del contagio) come la recente cronaca sta ripetutamente dimostrando attraverso le numerose infrazioni alla quarantena delle zone-focolaio alle quali stiamo assistendo.
Da un lato il panico del nemico nascosto e invisibile rappresentato dal virus, dall’altra l’angoscia della caduta depressiva o psicotica nella totale passività della quarantena, della vita sociale ed economica che si ferma, producono alternativamente fughe all’indietro o in avanti che diventano dei boomerang psichici, ma anche dei comportamenti disfunzionali rispetto alla stessa diffusione del virus.
La compromissione delle capacità di comprensione del fenomeno in corso dovuto rispettivamente al caos mediatico e alla super-complessità del fenomeno stesso e delle sue innumerevoli e in parte imprevedibili o ineffabili variabili, riduce drasticamente il numero di persone in grado di comprenderlo (in senso etimologico, cum-prendere). Non si tratta infatti di intercettare le singole statistiche epidemiologiche, le valutazioni sociometriche (già di per sé di una certa complessità metodologica), o le previsioni virologiche, ma si tratta di interpolare su una scala di complessità molto maggiore fattori biologici legati alla struttura del virus, le sue possibili mutazioni e la sua reale aggressività, il suo sviluppo in aree geografiche e sociopolitiche totalmente difformi (pensiamo ai diversi sistemi sanitari e alle caratteristiche socioantropologiche delle popolazioni implicate), il contesto climatico ed ecologico delle varie zone del pianeta, l’imprevedibile risposta delle singole popolazioni alla quarantena e alle linee guida, la velocità della ricerca di trovare risposte terapeutiche o meno, le variabili economiche e politiche conseguenti e così via. Uno scenario di questo tipo necessita di modelli matematici di osservazione e di previsione e tutto questo, ripeto, riduce drasticamente il numero di persone in grado di capire e di intervenire adeguatamente (anche a livello alto istituzionale). Possiamo quindi immaginare per deduzione come il baraccone mediatico possa allegramente sguazzare in questo mare magno di indecifrabilità e, come in questi casi, i fattori emotivi individuali e collettivi siano alla fine le variabili principali che determinano la selezione della notizia e della fonte informativa alla quale emotivamente agganciarsi. Si diffondono e si seguono le notizie che assomigliano alle nostre prevalenti difese psichiche con buona pace del rapporto con realtà e con la razionalità.
Questa situazione psicosociale, legata alla comparsa di un’epidemia virale in corso in questo momento storico, mette in crisi lo stesso sistema della ragione contemporanea, dei principi di razionalità e della catena di giudizio, di azione e di responsabilità sia delle istituzioni sia dei singoli professionisti della salute. Pone dunque la necessità di sostenere una nuova forma di razionalità e di governo delle emergenze e del rischio che sia in grado di gestire nuove complessità e che sappia allo stesso tempo regolare il chiasso mediatico che oscura e confonde azioni pubbliche e private.
ADHD e Autismo: EEG a confronto
Misurazione e comparazione tra le registrazioni dell’Attività Elettrica dell’Encefalo su un campione di bambini (6 – 10 anni) con diagnosi di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (AD/HD) e Disturbo dello Spettro Autistico (ASD).
Introduzione
La superficie dell’encefalo è sede di potenziali bioelettrici spontanei che si modificano a seconda dello stato di riposo o di attività del soggetto. I potenziali di superficie sono, principalmente, il risultato dell’attività dei neuroni corticali piramidali disposti in corrispondenza dell’area corticale sottostante l’elettrodo, durante analisi EEG. Una parte della letteratura sostiene che alcuni sintomi dell’autismo potrebbero derivare da un’alterata connettività cerebrale. Studi di Neuroimaging su individui affetti da autismo hanno messo in evidenza la presenza di profili di “sincronizzazione” cerebrale che differiscono da quelli presenti nei gruppi di controllo. L’ADHD non è fra i disturbi dello spettro autistico, ma ha alcuni degli stessi sintomi. Infatti, a differenza della versione precedente del manuale diagnostico DSM IV, la versione più recente (DSM-5) consente invece di diagnosticare entrambi in una persona.
Strumenti e metodi
Per effettuare il confronto tra tre gruppi di bambini maschi (6-10 anni) è stato utilizzato il Brain Monitor, un valido ed apprezzato apparecchio che funziona attraverso un software per la rilevazione ed analisi delle onde cerebrali su due canali (Analisi EEG). Questo strumento permette di rilevare in tempo reale sincronizzazione dell’attività elettrica cerebrale tramite due elettrodi posti sui lobi frontali e due vicino alle zone postero auricolari. Il software proprietario permette di avere la visualizzazione delle onde cerebrali ed anche la loro analisi mediante la Trasformata di Fourier. Inoltre, sono state utilizzate Scale SDAG (Cornoldi, Gardinale, Masi, Pettenò): Scala Genitori (per individuazione di comportamenti disattenzione e iperattività nel bambino) e Scala Insegnanti (per individuazione di comportamenti disattenzione e iperattività nel bambino).
Risultati
I risultati ottenuti mostrano che la percentuale di sincronizzazione emisferica nell’arco di dieci minuti di registrazione, nelle locazioni frontale 1 (F1) e frontale 2 (F2) del gruppo di controllo, è vicino ai valori medi posti fra 60% e 90%, mentre i gruppi AD/HD e ASD, oltre a presentare valori medi inferiori al 40%, presentano indici di dispersione con valori molto distanti dagli indici di posizione, tra cui sono stati evidenziati numerosi picchi negativi (ossia al di sotto della linea mediana di zero) per prolungati periodi di tempo. Inoltre, nello specifico, è stato riscontrato che il gruppo con AD/HD, nella valutazione elettroencefalografica, ha evidenziato percentuali negative di sincronizzazione in quantità sensibilmente minori rispetto alle registrazioni di sincronizzazione negative riscontrate nel gruppo con ASD.
Conclusioni
I risultati riportati indicano, in entrambi i casi (AD/HD e ASD), alterata sincronizzazione dell’attività elettrica fra i due emisferi cerebrali e, di conseguenza, come riportato in letteratura, ciò potrebbe essere causa di situazioni di forte stress/ansia e una alterata comunicazione dovuta ad una anomala connessione funzionale tra i due emisferi. La situazione richiede l’applicazione di adeguate terapie per ripristinare un corretto funzionamento fra la parte razionale e verbale (sinistra) e la parte emotiva ed intuitiva (destra) del cervello.
EEG relative ai soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
IMM1. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
IMM2. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
IMM3. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
MM4. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
IMM5. EEG soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD)
EEG relative ai soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
IMM1. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
IMM2. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
IMM3. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
IMM4. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
IMM5. EEG soggetti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)
I legami di coppia
Amore e relazioni: il peso delle proprie esperienze di vita e dell’eredità di generazioni precedenti nel vivere serenamente un rapporto di coppia. Un’attenta analisi attraverso riferimenti letterari.
In uno dei capitoli precedenti ho scritto che l’ethos del legame di coppia non riesce a reggere l’urto del pathos. La norma che viene messa in crisi, per dirla con Cigoli, è che il contesto nel quale si inseriscono le relazioni di coppia si
reggesull’obbedienza dei figli e sulla loro capacità di generare.
A proposito del romanzo borghese Cigoli afferma che:
ciò che passa nello scambio generazionale è il diritto a frequentare il mondo dei sentimenti.
Teresa Raquin, nell’omonimo romanzo di E. Zola, è destinata ad andare in moglie al cugino Camillo, fino a quando non arriva Lorenzo dal quale si sente attratta e innamorata. In forza di questo amore i due decidono di uccidere Camillo che costituiva un ostacolo alla loro unione. Pian piano l’amore tra i due si trasforma in insofferenza e odio tanto da arrivare ad uccidersi a vicenda sotto gli occhi compiaciuti della zia di Teresa – mamma di Camillo – che l’aveva cresciuta. La trasgressione nella scelta della persona da amare può portare all’odio e alla morte.
Nella Sposa di Lammermoor di Scott, Lucy Ashton uccide il marito, che la madre gli aveva imposto, la prima notte di nozze. Il non poter accedere al pathos porta alla follia. In effetti, Lucy dopo l’omicidio del marito sprofonda nella “pazzia” e muore da lì a breve.
Il tema della follia, ovvero del morire per amore, è presente anche in Cime Tempestose di Emily Bronte. Catherine Earnshaw non regge allo stress legato alla contesa tra l’amato Heathcliff e il marito Edgar e muore dando alla luce la figlia Caty. Catherine si trova nella stessa posizione di Lucy, anche se in questo caso l’imposizione al non sposare Heathcliff viene dalla sua educazione e, quindi, dall’interno piuttosto che da un’imposizione esterna. Dopo aver conosciuto Edgar, Heathcliff gli appare come un uomo rozzo e dai modi poco eleganti al contrario del futuro marito.
In Cime Tempestose un altro tema che viene messo in risalto è il rapporto tra odio e amore. Heathcliff ama Caterina e, in forza di questo amore, odia praticamente tutti gli altri.
Eibl-Eibesfeldt (1970), etologo allievo di Lorenz, nelle sue ricerche sulla filogenesi e psicogenesi dell’odio, sostiene che i comportamenti aggressivi e litigiosi e l’odio sono in stretto rapporto con il territorio, con il contesto. Tali comportamenti sono dettati dall’esigenza di farsi riconoscere, di dire io ci sono, di affermare la propria identità.
Heathcliff vive tre situazioni di abbandono che mettono in crisi il proprio sé: era stata abbandonato dai suoi genitori e viene portato a casa ed adottato dal papà di Caterina; viene ridotto a bracciante agricolo, alla morte del padre adottivo, dal fratellastro Hindley; viene scaricato e marchiato da Caterina che gli preferisce il più elegante Edgar. La storia di Heathcliff è un susseguirsi di costruzione di una nuova identità e di cadute all’indietro. In sostanza non riesce a crearsi una identità stabile. Solo Catherine costituisce, fino a quando non lo abbandona, per Edgar un punto di riferimento stabile. Dal momento dell’abbandono il suo unico scopo di vita diventa il bisogno di affermarsi. In questa corsa il sentimento principale che lo contraddistingue è l’odio. Si arricchisce lontano da cime tempestose, ritorna e, dopo aver mandato al fallimento il fratellastro Hindley, compra il casale del padre adottivo, sposa Isabelle, sorella minore di Edgar, pur non amandola, fa sposare il figlio Linton con Caty, figlia di Catherine, in modo che quest’ultimo possa ereditare le proprietà di Edgar, con la morte del figlio Linton, che peraltro lui non ha mai amato, eredita anche le proprietà di Edgar. E’ con quest’ultimo atto che completa la vendetta e riesce finalmente ad affermare se stesso.
Eibl-Eibesfeldt (1970) sostiene che per limitare l’aggressività e l’odio tutte le organizzazioni sociali, compresa la famiglia, hanno bisogno di una gerarchia di rango. Tale convinzione le proviene dall’osservazione del comportamento dei polli:
Se si pongono insieme polli di diversa provenienza, subito essi cominciano a combattere l’un con l’altro: gli scontri, però, diminuiscono di vivacità nel corso di alcuni giorni e infine il gruppo vive pacificamente insieme. Se si osserva più attentamente, si constata che nel corso degli scontri è stata stabilita una gerarchia di rango: i polli combattono a turno e si distribuiscono nella gerarchia a seconda delle vittorie e delle sconfitte; un pollo a che abbia vinto i polli b, c e d sarà loro superiore: avrà accesso prioritario al cibo, al posto preferito di appollaiata e potrà anche beccare un individuo di rango inferiore se questo gli contesta la precedenza al cibo.
L’adozione di Heathcliff sconvolge l’organizzazione della famiglia Earnshaw. Si crea un legame molto forte tra l’adottato e Catherine e una forte rivalità con l’altro fratello Hindley, che il padre è costretto a mandare in collegio per chiudere la contesa e ridurre i conflitti. Di fatto la famiglia ha tutte le caratteristiche di quelle che in terapia familiare vengono definite famiglie disimpegnate, in cui le azioni dei suoi membri non producono ripercussioni reciproche, come se si muovessero in orbite isolate, tra loro scollegate. In queste famiglie vi è scarsa attenzione reciproca e scarsi tentativi di impegnarsi nel gioco comune. In termini psicologici, all’interno di queste famiglie manca quel tipo di comunicazione che permette la definizione di sé e dell’altro, ma ci si limita ad un passaggio di informazioni, non andando oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza. Manca ogni ragione di comunicare per il mero amore di comunicare. Ciò va contro il principio secondo cui, per mantenere la propria stabilità emotiva, ogni individuo ha sempre bisogno che gli altri gli rimandino un feedback di ciò che è o, magari, di ciò che può divenire. Tale feedback si manifesta, solitamente, in tre modi: attraverso la conferma, il rifiuto o la disconferma. Nella famiglia Earnshaw la disconferma diventa il modo principale di trattare l’altro. Il padre disconferma il ruolo del figlio mandandolo in collegio. Quest’ultimo alla morte del padre riduce Heathcliff al ruolo di bracciante, dicendogli apertamente tu non fai parte della famiglia. La stessa cosa fa Catherine scegliendo Edgar non tanto per amore, ma solo e semplicemente perché considera il fratellastro rozzo e poco elegante.
La mancanza di una gerarchia ben definita scatena una guerra tra i fratelli il cui presupposto è l’annullamento dell’altro e la conferma della propria identità. Lo scopo è la conquista del territorio, ovvero la tenuta di cime tempestose. L’odio generazionale, quindi, può essere letto come il tentativo di difendere il proprio sé, la propria persona, per paura di passare inosservati all’interno della storia familiare.
Nella vicende familiari di Cime Tempestose, come nella famiglia Hugo, è possibile cogliere delle ridondanze generazionali, come la scelta di Caty, che al pari della madre, tra i due figli di Heathcliff sceglie Linton perché più educato e gentile del fratello. E’ straordinario come nelle storie delle famiglie è possibile cogliere queste simmetrie che contraddistinguono i passaggi generazionali, così come le asimmetrie indicano le trasgressioni che fanno sì che la storia familiare possa essere innovata. Caty dopo la morte del marito, sposa il fratello di quest’ultimo guardando più ai sentimenti che all’educazione.
Il rapporto d’amore tra Catherine ed Heathcliff assume le caratteristiche dell’amore bordeline che è contraddistinto da un alternarsi continuo di sentimenti d’amore e di odio.
I comportamenti di Catherine sembrano contenere tutte le caratteristiche di una persona bordeline. E’ profondamente innamorata di Heathcliff e all’improvviso lo lascia per sposare Edgar. Nel momento in cui l’innamorato parte, cade in una profonda depressione, così come quando Heathcliff si sposa con Isabelle. L’amore bordeline contiene tutte le sopraddette caratteristiche, ovvero all’inizio è contraddistinto da una travolgente passione e da una intensità emotiva che difficilmente troviamo in una normale relazione. Generalmente un bordeline seduce, mostrandosi molto amorevole, dimostrando sentimenti esagerati che non prova, drammatizzando eventi e aspetti della sua vita al fine di manipolare chi gli si avvicina. Quando l’altra persona si lega, il borderline lo idealizza e lo fa sentire l’essere più importante del mondo; contemporaneamente gli fa il vuoto intorno, allontanando tutte le persone significative per l’altro in modo da tenerlo solo per sé, anche con la menzogna e l’inganno. La luna di miele, comunque, dura poco poiché subito dopo porta un violento attacco al legame cercando in tutti i modi di rompere la relazione. Spesso inizia a mettere in risalto i lati negativi del partner ed inizia ad attaccarlo profondamente. L’intensità dell’attacco è inversamente proporzionale alla forza con cui si sente legato all’altro. Subito dopo la tempesta però ritorna la quiete ed il soggetto bordeline tende a ritornare passionale fino al prossimo attacco di rabbia.
Il motto che sembra perseguire l’amore bordeline è: ti odio perché tu mi ami. In un film di Truffaut, La Mia Droga si Chiama Julie, tratto dal romanzo Vertigine Senza Fine di Wlliam Irish, la protagonista si sposa con un uomo che l’adora. Ella lo porta alla rovina economica per fuggire con l’amante che invece la sfrutta. Il marito la perdona, ma più la perdona più lei si accanisce arrivando a pensare di ucciderlo.
I suddetti comportamenti rimandano ancora una volta alla trasmissione generazionale. Le problematiche legate all’amore bordeline, in particolare, sono state correlate con l’attaccamento disorganizzato. Main e Salomon (1986 -1990) hanno aggiunto ai tre tradizionali partner di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante e insicuro-ambivalente) un quarto partner, appunto quello disorganizzato-disorientato. I bambini con questo tipo di attaccamento presentano un’alterata rappresentazione del sé e dell’altro che spesso comportano dei vissuti duplici e contraddittori. I bambini si sentono contemporaneamente attratti e spaventati dalla figura di attaccamento. O’Connor (1987), Radke-Yarrow (1995) e Lyons-Ruth (1996) hanno messo in risalto che questi bambini provengono da famiglie caotiche e maltrattanti, oppure con madri gravemente depresse o bipolari o alcoliste o adolescenti ed economicamente svantaggiate. E’ chiaro ed evidente che un genitore alcolista, maltrattante e abusante incute nel bambino, a causa dei suoi comportamenti, paura perché costituisce per lui una reale fonte di pericolo, ma nello stesso tempo egli si sente attratto di suoi genitori.
Main ed Hesse (1992) hanno individuato una figura di attaccamento “spaventata-spaventante” che spesso si trova immersa nel suo dolore e nel suo mondo interiore a seguito di qualche esperienza dolorosa vissuta nel passato. E’ il caso di genitori che hanno traumi e lutti non risolti nel proprio passato. Lyons-Ruth, Bronfman e Atwood (1999) hanno introdotto il concetto di “diatesi relazionale” per porre l’attenzione sugli eventi traumatici specifici occorsi nella storia della figura di accudimento con quella sui processi relazionali disregolati e non-reciproci tra genitore e figlio, caratterizzati da ostilità e impotenza. In sostanza si tramandano alle generazioni successive i nuclei conflittuali non risolti. Il “ti odio perché tu mi ami” così si lega alla paura di essere abbandonati, maltratti e/o traditi. L’amore bordeline, da un lato, tenta di mettere alla prova la forza della relazione e la qualità dei sentimenti e, dall’altro, è la risultante della paura di rivivere esperienze dolorose. Rompo la relazione prima che tu mi abbandoni.
Al contrario, vi è anche il “ti odio perché tu non mi ami” come ne Il Rosso e il Nero di Stendhal, nel quale il giovane precettore Julien muore sulla ghigliottina a seguito del tentativo di uccidere la sua precedente amante, Madame de Rènal, che lo aveva denunciato come truffatore per la nuova relazione con la marchesa Mathilde de la Mole.
Cercare di sfuggire alle proprie origini per entrare in una classe sociale più alta comporta esporsi ad enormi rischi. Julien è figlio del proprietario di una segheria, ma è un amante degli studi di letteratura latina e di teologia. Sotto la guida del curato della sua parrocchia studia e questo gli permette di farsi assumere come precettore dalla famiglia Rènal. Qui nasce una relazione con la padrona di casa che verrà scoperta dal marito a seguito di una lettera anonima. Julien è costretto a lasciare il lavoro, rifugiandosi in seminario per proseguire gli studi teologici. Per la sua brillantezza intellettuale viene assunto come segretario di casa dal Marchese de la Mole dove si innamora della figlia Mathilde. Quest’ultima oscilla tra l’amore per Julien e la conservazione della sua posizione sociale fino a quando non annuncia al padre la sua volontà di sposare il segretario del quale è incinta. Saputo del matrimonio, Madame de Rènal scrive una lettera al Marchese raccontando la relazione avuta con il futuro sposo in cui l’accusa di truffa. Il Marchese, che aveva acconsentito alle nozze della figlia, crede alle accuse e caccia di casa Julien. Quest’ultimo, nel tentativo di vendicarsi, spara in chiesa a Madame de Renal, ferendola, e viene condannato a morte. Malgrado i tentativi di Mathilde e della stessa pentita Madame de Renal di salvarlo, la condanna viene eseguita.
Howe sostiene che
Julien Sorel è un uomo che muove una sua guerra segreta alla società e questa guerra lo turba tanto, non avendo egli una solida base di principi, da costringerlo a passare metà del suo tempo a combatterla contro le sue amanti e contro se stesso.
Non avere una solida base di principi vuol dire non conoscere o disconoscere, come nel caso di Julien, la propria storia generazionale, nel non riconoscersi all’interno della propria stirpe. Se sul non conoscere Stendhal non scrive niente, sul disconoscere impernia tutto il romanzo. Julien scappa dal padre, che gli rinfaccia i soldi spesi per averlo fatto studiare, e da una realtà provinciale in cui il giudice di pace e il vicario si scontrano per quattro colonne di marmo eppure non riesce a scrollarsi di dosso le sue origini. Esplicativa è la frase che egli pronuncia alla giuria in tribunale durante il suo processo:
Signori, non ho l’onore di appartenere alla vostra classe …..” .
Il dramma per Julien è che:
la sua principale protesta contro la società è che essa lo coarta: egli è amareggiato, soprattutto, perché essa non gli vuol permettere di abbandonare, e forse tradire, la propria classe sociale (Howe).
Stili di attaccamento, sessualità e relazioni di coppia
Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Social and Personal Relationships ha indagato la relazione tra stili di attaccamento precoci, relazioni di coppia e sessualità (Busby et al., 2020).
In tempi recenti, diversi studiosi hanno potuto constatare la relazione esistente tra la sessualità degli adulti e gli stili di attaccamento sviluppati in età precoce (es. Birnbaum & Reis, 2019; Hazan & Diamond, 2000). La sessualità è naturalmente fondamentale nelle relazioni umane e alcuni aspetti di questa sono stati associati a diversi stili di attaccamento (Mikulincer & Shaver, 2016). Alcuni autori hanno ipotizzato che la sessualità sia una delle principali modalità attraverso le quali le persone entrano in relazione tra loro ai fini di sviluppare legami più o meno rilevanti (Birnbaum & Reise, 2019; Hazan & Diamond, 2000).
Gli stili di attaccamento appresi durante l’infanzia, non influenzano solo le modalità con cui gli adulti si rapportano l’uno con l’altro, ma anche i rapporti sessuali che esulano dalle relazioni romantiche o che le precedono (per esempio, dopo quanto tempo si decide di avere rapporti sessuali dopo il primo incontro o il numero di partner sessuali avuti nella vita; Busby et al., 2013).
Tuttavia, in letteratura vi sono risultati incoerenti sul rapporto tra stili di attaccamento e sessualità, risultati dovuti principalmente al fatto che la maggior parte degli studi condotti traggano i loro dati da campioni prevalentemente universitari e non clinici (Sprecher, 2013).
Mary Ainsworth e colleghi, nel 1978, hanno sviluppato la teoria secondo la quale l’attaccamento infantile verso la principale figura di riferimento (solitamente la madre) dipendeva dal fatto che quest’ultima fosse reattiva/responsiva o non disponibile rispetto ai tentativi del bambino di avvicinarsi a lei e di cercare in lei conforto e vicinanza. Nel caso in cui la madre fosse stata responsiva e presente, il bambino avrebbe sviluppato un attaccamento sicuro, in caso contrario, avrebbe sviluppato un attaccamento insicuro e potenzialmente patologico.
Tuttavia, è anche stato dimostrato che la correlazione tra attaccamento infantile e adulto non è particolarmente significativa (Fraley, 2019): per questo motivo gli autori suggeriscono che possano esserci altri fattori alla base della connessione tra i due tipi di attaccamento (ovvero quello infantile e quello adulto).
L’attaccamento degli adulti si può interpretare come un continuum tra ansia ed evitamento (Mikulincer & Shaver, 2007) dove per attaccamento ansioso ci si riferisce a un’iperattivazione del sistema comportamentale, mentre per attaccamento evitante a una disattivazione dello stesso sistema. È stato dimostrato che individui con attaccamento ansioso o evitante avevano più possibilità di rimanere single a lungo in età adulta (Adamczyk & Bookwala, 2013) rispetto a coloro che in questo continuum si posizionavano nel mezzo, ovvero gli individui con un’attivazione comportamentale non patologica.
Diversi studiosi si sono anche concentrati sull’associazione tra l’età del primo rapporto sessuale e l’attuale stato relazionale, individuando nella precocità dei primi rapporti una correlazione con il rimanere single più a lungo (Vancour & Fallon, 2017).
Il presente studio ha indagato la correlazione tra i diversi stili di attaccamento e la qualità delle relazioni romantiche, considerando anche variabili legate alla sessualità, come l’età del primo rapporto e il numero di partner sessuali, occasionali e non, dei soggetti (Busby et al., 2020).
Il campione era composto da due gruppi di soggetti: il primo gruppo, contava 4834 partecipanti di un’età compresa tra i 30 e i 37 anni, ed è stato analizzato per comprendere le influenze dell’attaccamento infantile sui primi rapporti sessuali e sul numero dei partner; il secondo gruppo, composto da 2106 coppie sposate, è stato preso in esame per comprendere l’influenza degli stili di attaccamento di entrambi i componenti della coppia sulla soddisfazione relazionale e sessuale.
I risultati hanno mostrato che nel primo gruppo lo stile di attaccamento insicuro (sia ansioso che evitante) in età precoce era positivamente correlato con il numero di partner sessuali occasionali e con la preferenza per la vita da single nei soggetti maschili e femminili. Nel secondo gruppo, gli stili di attaccamento erano significativamente associati alla soddisfazione relazionale e sessuale della coppia indipendentemente dal genere (Busby et al., 2020).
Il presente studio ha quindi sottolineato non solo che lo stile di attaccamento ansioso ed evitante può avere ripercussioni su alcuni comportamenti sessuali, come l’età del primo rapporto e il numero di partner sessuali, ma che influisce anche sulla possibilità di essere coinvolti in relazioni romantiche stabili o, al contrario, sul desiderio di rimanere single (Busby et al., 2020).