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Cura, empatia e gentilezza sono la chiave per il cambiamento secondo la Compassion Focused Therapy

La Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010) è un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.

Gaia Campanale e Laura Stefanoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, il ricercatore Harry Harlow e lo psichiatra infantile John Bowlby iniziarono a studiare l’impatto delle relazioni sociali e di accudimento sulla salute mentale sia del bambino sia di cuccioli di specie animali evolutivamente vicine alla nostra. Grazie alle loro ricerche, e ai più recenti studi afferenti all’ambito delle neuroscienze sociali, si è compreso come i nostri cervelli siano biologicamente predisposti a rispondere ai comportamenti di cura, gentilezza e attenzione da parte degli altri.

Ma l’affetto e il calore umano sembrano essere basilari per la salute dell’individuo non solo durante le prime fasi dello sviluppo, bensì in tutti i differenti momenti della nostra vita (Cozolino 2007), ‘dalla culla alla tomba’ come direbbe Bowlby (1982).

Anche in psicoterapia è sempre più condivisa l’idea che qualità come la gentilezza, l’empatia e l’accettazione di sé e dell’altro costituiscano un fattore attivo di cambiamento del paziente e non rappresentino soltanto aspetti di contorno all’interno della relazione terapeutica.

La nascita della Compassion Focused Therapy

Tra i primi a riflettere sull’importanza di questi fattori e a cercarne una valorizzazione nel percorso psicoterapeutico troviamo sicuramente Carl Rogers (1961) con la terapia centrata sul cliente. Egli riteneva che la considerazione positiva, l’autenticità̀ e l’empatia costituissero gli aspetti nucleari della relazione terapeutica e che dovessero essere considerati pertanto come agenti attivi del miglioramento sintomatologico dei pazienti.

Una più recente espressione di questa visione è la Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010), un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.

Sviluppata da Paul Gilbert, professore alla University of Derby, nei primi anni 2000, la Compassion Focused Therapy nasce dall’incontro tra terapia cognitivo-comportamentale, teoria dell’attaccamento e neuroscienze sociali. Questo approccio offre una concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento basata sull’ipotesi che nel nostro cervello esistano alcuni sistemi di regolazione emotiva la cui attivazione in maniera sbilanciata sarebbe causa della nostra sofferenza. Tali sistemi sarebbero responsabili delle emozioni che comunicano il soddisfacimento o la frustrazione dei bisogni di base. Secondo Gilbert, quindi, il processo di cambiamento si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi, connessi all’attaccamento e al caregiving, la cui attivazione garantirebbe un cambiamento nel paziente che spesso non è raggiungibile solo attraverso un intervento diretto sulle sue credenze disfunzionali.

È interessante esaminare come alcune delle principali tecniche della CFT possano favorire il processo di accettazione in psicoterapia, un elemento che di recente si è dimostrato di primaria importanza nel trattamento di vari disturbi psicopatologici e nella prevenzione delle ricadute (Ruiz 2010).

Per accettazione si intende ‘l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso’ (Perdighe e Mancini 2010). Grazie ad essa la persona ha modo di non sprecare risorse verso uno scopo ormai irraggiungibile e di investire le proprie energie nell’ottenimento di un obiettivo più realistico.

Da un punto di vista cognitivo, l’accettazione consente la modificazione delle credenze che sostengono l’investimento di uno scopo nel momento in cui questo si rivela irrimediabilmente compromesso. Vanno considerati come scopi compromessi non soltanto le perdite come nel caso di lutti o malattie fisiche gravi, ma anche il mancato ottenimento di condizioni sentite come desiderate. Accettare che uno scopo sia compromesso o a rischio di compromissione implica la modificazione di credenze che riguardano il potere, il diritto, il dovere e la convenienza di ottenere qualcosa che desideriamo o evitare la sua compromissione.

La Compassion Focused Therapy agisce anche sulla dimensione fisiologica attivando dei cambiamenti soprattutto legati all’aumento della concentrazione plasmatica del neuropeptide ossitocina (Zak 2012). L’ossitocina interviene nell’inibizione delle regioni cerebrali che si attivano in condizioni associate alla paura (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) ed è inoltre direttamente coinvolta in una serie di importanti funzioni fisiologiche e psicologiche centrali nella promozione di comportamenti pro-sociali (come altruismo, generosità ed empatia) che ci portano ad essere più propensi a fidarci degli altri e che sembrano connessi al processo di accettazione per come descritto nelle caratteristiche di cui sopra.

A chi si rivolge la Compassion Focused Therapy?

La CFT era originariamente nata per pazienti depressi che mostravano forte autocritica e sentimenti di vergogna nei confronti dei propri stati affettivi negativi. Gilbert aveva rilevato come questi pazienti fossero particolarmente resistenti ai classici interventi di ristrutturazione cognitiva sulle loro credenze disfunzionali e, per quanto fossero capaci di seguire e applicare gli esercizi cognitivi e comportamentali, raramente beneficiavano della terapia nel suo complesso. Questa tipologia di pazienti, anche se accettava di focalizzarsi su interpretazioni alternative più favorevoli degli eventi che li turbavano o delle caratteristiche personali indesiderate, non riusciva tuttavia a percepirle come convincenti da un punto di vista emotivo, e faticava dunque ad abbandonare la sensazione nucleare di indegnità ed isolamento che li caratterizzava. In particolare, Gilbert si rese conto che una delle maggiori difficoltà di questi pazienti era la capacità di generare pensieri connotati da calore e gentilezza rispetto a sé e agli altri. Essi tendevano a mantenere uno stato mentale autocritico incolpandosi per la loro condizione e un modo di parlare di se stessi iper-analitico, freddo e colpevolizzante, atteggiamento che non faceva altro che incrementare il proprio stato di sofferenza.

Sulla base di queste osservazioni, Gilbert introdusse nella sua pratica clinica suggerimenti diretti sul modo di ‘dirsi le cose’ che fosse maggiormente improntato alla gentilezza, al calore e all’auto-validazione. Inizialmente, quindi, si limitava ad incoraggiare i suoi pazienti ad immaginare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi o che li assistesse nei compiti comportamentali.

Attualmente la CFT è utilizzata nel trattamento non solo della depressione, ma anche per la cura di altri disturbi dell’umore, del Disturbo da Stress Post Traumatico, delle psicosi, dei disturbi alimentari e del dolore cronico. Come Gilbert stesso ammette, le ricerche di validazione dell’efficacia sono ancora troppo poche, ma promettenti; questo ci fa sperare nella possibilità che tale approccio possa trovare sempre maggiore spazio e applicazione all’interno delle stanze di terapia.

I sistemi di regolazione affettiva

Alla base della Compassion Focused Therapy vi è l’ipotesi evoluzionista che nel cervello umano esistano almeno tre sistemi cerebrali sottesi alla regolazione affettiva, responsabili dei diversi tipi di emozioni che regolano e ‘guidano’ il raggiungimento dei nostri scopi biosociali (social mentalities).

Il primo è il sistema di protezione dalla minaccia (threat system) o sistema rosso, responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna, che ci aiutano ad affrontare i pericoli e a ristabilire o mantenere una condizione di sicurezza. Tale sistema si attiva nel momento in cui percepiamo segnali di minaccia (Baumeister 2001) e agisce attraverso particolari circuiti cerebrali quali l’amigdala e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA; Le Doux 1998). A questo sistema emozionale corrispondono un preciso stile attentivo (attenzione selettiva verso le possibili fonti di pericolo), uno stile di ragionamento orientato alla sicurezza (‘better safe than sorry’), processi di memoria intrusiva e comportamenti protettivi (freeze, fight, flight e submission). Tutte queste sono risposte volte a migliorare la nostra capacità di difenderci dalla minaccia e dai pericoli.

Il secondo sistema è quello di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system) o sistema blu, responsabile di emozioni positive come piacere, eccitamento e orgoglio, che ci segnalano quando i nostri scopi sono stati raggiunti e soddisfatti e ci motivano o guidano nella ricerca di risorse per sopravvivere e vivere meglio. Questo sistema è connesso all’attivazione del circuito dopaminergico, che ci permette di sperimentare quella sensazione di benessere euforico ed energia che proviamo quando, ad esempio, superiamo un esame, vinciamo una competizione o otteniamo una promozione a lavoro a lungo desiderata. Per Gilbert, all’interno di questo sistema ritroviamo anche il concetto di autostima che, come anche altri ricercatori suggeriscono (Neff, 2012), garantirebbe emozioni di orgoglio e fiducia verso se stessi che sono connesse a quanto ci sentiamo all’altezza di standard di adeguatezza o successo più o meno auto-imposti. Sono quindi emozioni positive condizionate alla valutazione di adeguatezza a qualche tipo di standard e caratterizzate dalle normali oscillazioni a cui va incontro questo auto-bilancio delle nostre competenze.

Il terzo sistema, definito da Gilbert sistema calmante (soothing system) o sistema verde, sarebbe invece responsabile di emozioni come calma, tranquillità e appagamento, che si sperimentano quando non dobbiamo difenderci da qualche minaccia o lottare per acquisire risorse o raggiungere standard (Depue et al. 2005). Questa sensazione di contentezza è connessa ad un’esperienza di sicurezza intrinseca che Gilbert definisce safeness e che si riferisce ad una sensazione di sicurezza e appagamento derivante dal sentirsi connessi agli altri, che si sviluppa in interazioni improntate al calore e all’affiliazione. A livello fisiologico l’attivazione di tale sistema corrisponde al rilascio all’interno del nostro organismo di endorfine e ossitocina. In particolare, l’ossitocina ha proprietà ‘calmanti’ in quanto fa si che il bambino (e non solo) si calmi e si lasci confortare dalla presenza di una persona accudente (anche quando lo stimolo avversivo rimane nell’ambiente) oltre che aumentare la soglia del dolore, migliorare la funzionalità del sistema immunitario e digestivo, diminuire la sensibilità allo stress (Heinrichs et al. 2003, Lee et al 2009).

Nella concettualizzazione di Gilbert questo è un sistema a sé stante: le sue proprietà calmanti si sono sviluppate in concomitanza allo sviluppo delle motivazioni all’attaccamento e all’accudimento e a quei cambiamenti nel sistema nervoso che hanno reso possibile la vicinanza fisica, l’affiliazione e l’interesse per l’accudimento della prole.

Nella CFT (Gilbert 2009a) le esperienze infantili di accudimento disfunzionale (abusi nella sfera emozionale e fisica, neglect, alta emotività espressa, forte critica genitoriale, accudimento distanziante e privo di calore) hanno reso più funzionale, per quel tipo di pazienti descritti prima, il mantenersi continuamente in uno stato di allerta, iper-sviluppando il sistema di protezione della minaccia (espresso tramite il comportamento auto-critico) e ipo-sviluppando il soothing system.

In linea del tutto semplificativa, una carente stimolazione del soothing system durante i primi anni di vita o la sua attivazione condizionata in modo avversivo (ad esempio: figure di attaccamento capaci di dare affetto e calore, ma che hanno anche perpetrato abusi nei confronti del soggetto) hanno portato al quadro sintomatologico che caratterizza questi pazienti fortemente auto-invalidanti, autocritici, tendenti all’auto-accusa e con forti sensazioni di vergogna.

Disattivare il threat system e attivare il soothing system

Alla luce di questo, Gilbert propone che la difficoltà di questo tipo di pazienti di lasciarsi calmare e tranquillizzare dalle interpretazioni alternative (ad esempio della loro amabilità), non sia dovuta alla semplice incapacità di ‘reclutare dati’ a favore di queste ma, congiuntamente, all’iper-attivazione del threat system (con il suo tipico stile decisionale better safe than sorry) e all’incapacità di ‘accendere’ il soothing system, responsabile di quelle emozioni di rassicurazione e accettazione di sé che i dati sulla propria amabilità cercherebbero di generare.

Per far si che le ipotesi alternative benevole siano davvero in grado di rassicurare il paziente è necessario che il sistema calmante sia dapprima riattivato e che possa quindi recepire e lasciarsi stimolare da stimoli esterni ‘tranquillizzanti’. Da qui si spiegano le tipiche difficoltà che questi pazienti hanno con la TC standard (Rector et al. 2000) e nasce la proposta di Gilbert di promuovere il cambiamento attraverso uno specifico training (il compassionate mind training, CMT) che possa insegnare a riattivare volontariamente il proprio soothing system e a disporre delle naturali capacità di regolazione che questo sistema ha nei confronti degli altri due.

Il training, che racchiude tutte le tecniche di intervento della CFT, è da considerarsi come una sorta di psico-fisioterapia (Gilbert 2005a, 2010).

Secondo la CFT, i cues a cui risponde il soothing system sarebbero segnali di affetto, gentilezza, calore e accettazione negli scambi interpersonali, essendo un sistema di regolazione connesso all’attaccamento e all’accudimento. È interessante osservare come questi cues abbiano la capacità di attivare il soothing system sia quando vengono rilevati nell’ambiente (persone che sono compassionevoli, accudenti e attente a noi), sia quando siamo noi stessi ad emetterli verso gli altri e verso di noi.

Da qui il focus sulla compassione: un’emozione che si attiva in risposta a segnali di sofferenza degli altri ed è accompagnata da un intenso desiderio di alleviarli. Secondo moderne concettualizzazioni, la compassione deriva dall’attivazione del sistema di accudimento, ma non è esclusiva dei rapporti parentali e può nascere anche in relazione a segnali di malessere dei nostri conspecifici (Goetz et al. 2010). Mentre la pena scaturisce dall’appraisal di inferiorità della persona che soffre e che desideriamo aiutare, nella compassione vi è un’implicita condivisione della condizione che predispone l’altro a soffrire.

Nel training della CFT il target primario è la riduzione dell’autocritica, considerata un meccanismo di difesa da un ambiente percepito imprevedibile e minaccioso (Gilbert 2007a, 2009a; Gilbert e Irons 2005). Attaccare se stessi per qualcosa che hanno fatto gli altri o di cui ci stanno deprivando garantirebbe, secondo Gilbert, la sensazione di avere un locus of control interno rispetto a ciò che sta accadendo e manterrebbe così intatta la credenza della modificabilità di una situazione avversa quando non si riesce, di fatto, ad accettarne l’immodificabilità.

Inoltre, l’autocritica si configura come un meccanismo di mantenimento della sintomatologia connessa all’iper-attivazione del threat system, trasversale a differenti psicopatologie: l’invalidazione del proprio stato emotivo, il disprezzo verso sé stessi, la vergogna e il senso di indegnità si manifestano, di fatto, con un dialogo interiore che continuamente svaluta, denigra e commenta in tono sprezzante e freddo le esperienze del soggetto.

Questo stile di self-talk stimola, a livello endogeno, il threat system aumentando le manifestazioni emotive e cognitive che spesso, a loro volta, diventano oggetto di ulteriore autocritica (ad esempio, il paziente depresso in preda a ruminazioni auto-ostili che hanno come oggetto la propria inutilità e che non fanno altro che causare un’ulteriore deflessione dell’umore).

Quindi, uno dei compiti del terapeuta nella CFT è far comprendere al paziente le origini e le funzioni della sua attitudine auto-critica e allo stesso tempo il vantaggio di sviluppare e assumere un atteggiamento gentile verso se stesso proprio al fine di favorire il cambiamento terapeutico e la riduzione della sintomatologia.

Come ‘imparare’ la compassione?

Per raggiungere questo scopo la Compassion Focused Therapy utilizza un insieme di interventi in gran parte ripresi dalla tradizione meditativa di origine buddista, che si incentra molto sul generare stati di compassione verso se stessi e gli altri e ‘sull’esporsi’ alla compassione altrui. Secondo questa tradizione, la compassione avrebbe il potere di trasformare la mente (Dalai Lama, 1995) riferendosi, plausibilmente, all’insieme di cambiamenti nello stile attentivo e di ragionamento che si verifica una volta che si attiva deliberatamente questo specifico assetto motivazionale.

Immaginazioni guidate, meditazioni mindfulness, respiro calmante, scrittura di lettere compassionevoli, ragionamento compassionevole sono solo alcuni esempi delle tecniche che possiamo ritrovare in un trattamento orientato alla Compassion Focused Therapy. Ciascuna tecnica è utilizzata in modo flessibile in base al focus terapeutico, a seconda che si voglia dare compassione a se stessi, agli altri o ricevere compassione. Contemporaneamente, il paziente viene guidato nello sviluppo di nuove abilità di risposta al proprio atteggiamento di autocritica che, come detto, attiva il sistema di protezione dalla minaccia impedendone la disattivazione.

In generale, la prima fase del trattamento orientato alla CFT prevede la condivisione con il paziente del modello e delle modalità di funzionamento dei sistemi motivazionali e di regolazione emotiva. Successivamente vengono introdotti esercizi di consapevolezza corporea (es. respiro calmante) volti a preparare il paziente all’utilizzo di tecniche immaginative che hanno lo scopo di aiutarlo a sviluppare una rappresentazione più compassionevole di sé.

Secondo la CFT la compassione si può insegnare e si può apprendere. Il Compassionate Mind Training è stato dunque pensato proprio come un vero e proprio training, che insegna ai pazienti a esercitare le seguenti competenze:

  • Attenzione compassionevole: consiste nell’imparare a rivolgere e a focalizzare la propria attenzione verso oggetti o situazioni che possano rappresentare una fonte di aiuto e supporto per noi stessi. Si invita il paziente, ad esempio, a ricordare situazioni in cui è stato gentile verso gli altri oppure episodi nei quali qualcuno è stato gentile nei suoi confronti; o ancora, lo si invita a pensare alle proprie qualità positive, a rivivere ricordi piacevoli, oppure a prestare attenzione al momento presente con consapevolezza rispetto alle attività che sta svolgendo e a ciò che lo circonda esortandolo a sviluppare sentimenti di gratitudine e apprezzamento.
  • Ragionamento compassionevole: in questo caso gli interventi psicoterapeutici non si differenziano da quelli proposti nella terapia cognitiva standard e sono rivolti a promuovere un cambiamento sulle rappresentazioni che il paziente ha di se stesso, del mondo e degli altri. Rispetto alla terapia standard, vi è però una costante attenzione a rilevare e ad intercettare gli atteggiamenti di autocritica e di colpevolizzazione che il paziente ha nei suoi confronti rispetto al fatto di avere determinare credenze cognitive disfunzionali, invitandolo a modificarle senza ‘maltrattarsi’.
  • Comportamento compassionevole: lo scopo è quello di aiutare il paziente ad affrontare le situazioni di cui ha paura o nelle quali è in difficoltà infondendogli coraggio, offrendogli un’accoglienza calda e supportandolo con pensieri gentili, come farebbe un buon genitore con il proprio bambino quando si trova ad affrontare una situazione nuova nella quale deve superare un ostacolo o apprendere una nuova competenza.
  • Immaginazione compassionevole: consiste nell’aiutare il paziente a generare sentimenti compassionevoli verso di sé. Attraverso esperienze di imagery il terapeuta cerca dunque di guidare il paziente nell’esplorazione del proprio ideale di compassione (che potrebbe essere incarnato ad esempio dalla figura di una persona cara, una persona saggia, ma anche un animale, un albero o una montagna) con lo scopo di rilevarne le caratteristiche specifiche. Molto utili sono anche gli esercizi immaginativi in cui si invita il paziente a immaginare se stesso come una persona profondamente compassionevole e a prestare attenzione alle espressioni facciali, alla postura, al tono di voce e allo stile di pensiero che utilizza in questa condizione e a coglierne le differenze rispetto al proprio atteggiamento usuale.
  • Sensazione compassionevole: consiste nel promuovere nel paziente una maggiore consapevolezza rispetto a quello che prova nel corpo quando sperimenta la compassione per sé e per gli altri.
  • Emozione compassionevole: le emozioni compassionevoli costituiscono il risultato ultimo di questo training e sono rappresentate da un senso di pace, quiete e tranquillità.

In conclusione

La Compassion Focused Therapy si basa su caratteristiche del funzionamento umano naturalmente insite dentro di noi e dunque potenzialmente utilizzabili e valorizzabili in tutti i modelli di psicoterapia, conferendo a questo approccio una natura trasversale.

Riteniamo che inserire all’interno del lavoro terapeutico interventi volti a promuovere atteggiamenti di gentilezza, compassione e accettazione possa essere estremamente arricchente per qualsiasi tipo di paziente, facilitando il suo progredire nel (duro) percorso di cambiamento nel quale lo stiamo accompagnando.

Non dimentichiamo che sperimentare un senso di pace e sicurezza rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo, senza la soddisfazione di questo bisogno non è possibile l’esplorazione nè tantomeno il cambiamento. Questo dunque è forse uno degli insegnamenti più preziosi della Compassion Focused Therapy, insieme all’idea che dovremmo essere noi stessi a farci artefici di questo senso di sicurezza, imparando a mostrare un po’ più di accettazione nei nostri confronti, verso ciò che proviamo e a dimostrarci più compassionevoli e meno critici.. insomma a volerci un po’ più bene, così come siamo!

 

Gruppi, comunità ai tempi del Coronavirus: il punto di vista del Prof. Girolamo Lo Verso

“Emergenza Coronavirus”, una situazione di forte impatto da un punto di vista psicologico, economico, politico, sanitario. Tutti siamo chiamati a dare un contributo. Tutti di fronte a limiti e divieti che stravolgono le nostre routine, abitudini, che ci invitano a mantenere le distanze per ragionevoli ed ovvi motivi.

 

Girolamo Lo Verso è Professore Ordinario di Psicoterapia presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Palermo e docente di Psicoterapia relazionale e di Psicologia del fenomeno mafioso presso l’Università Kore di Enna. E’ fondatore del modello teorico-clinico della Gruppoanalisi soggettuale; si occupa del coordinamento scientifico dei gruppi di ricerca sulla valutazione della psicoterapia, lo psichismo mafioso, la clinica dei gruppi, identità e cultura. È probiviro del Collegio dei professori italiani di psicoterapia clinica. E’ membro di molte società scientifiche Italiane ed Internazionali e del comitato scientifico di numerose riviste.

Autore di diverse pubblicazioni di saggi, articoli di ricerca e testi.

Gruppi e comunita ai tempi del coronavirus le parole del Prof. G. Lo Verso

Imm. 1 – Prof. Girolamo Lo Verso

Il tema affrontato nell’intervista a Lo Verso è “Gruppi, comunità ai tempi del Coronavirus: situazione attuale e possibili risvolti futuri”.

Ecco di seguito il suo pensiero che per ricchezza e profondità di contenuti riporto integralmente:

La situazione precedente non era buona: ampia presenza di atteggiamenti razzisti, paura ed odio per il diverso, scarsa presenza di spirito comunitario, salvo volontariato e simili. Solo aggregazioni poco relazionali tipo manifestazioni sportive e musicali, movida, discoteche e soprattutto lo scontro forte tra “sovranisti” e “progressismo”, tra cui “sardine e chiesa”.

Oggi sembra tutto molto cambiato, con una positiva valenza psichica: unità fra le persone, solidarietà, senso della comunità nazionale e cittadina, riconoscersi nelle istituzioni repubblicane a partire dalle presidenze, solidarietà, superamento di odio e paranoia e condivisione delle regole. Psichicamente è di grande rilevanza stare a casa, condividere vita familiare, avere più tempo per letture, scambi mediatici con amici e colleghi, seguire televisione e musiche dai balconi, dispiacersi per chi muore o è malato, condividere paure e speranze, trovare anche una mesta soddisfazione per il fatto che il modello italiano, nell’insieme ben pensato e gestito, venga esplicitamente copiato da altri paesi. Resta la preoccupazione per la vita degli uomini e dell’economia. Certo ci sono contraddizioni ed eccezioni: eccessi di psicosi o di “strafottenza”, mantenimento da parte di qualche leader politico di demagogia elettorale, vecchi schemi patogeni di odio per l’altro, il diverso che sia donna, meridionale, migrante, intellettuale, povero ecc. anche incentivato da politicanti vari.

Per quanto riguarda la psicoterapia vi è un significativo passaggio al lavoro ONLINE.

Seguo da anni l’esperienza di colleghi come la dottoressa Ustica ed altri segnalando i risultati interessanti che colleghi esperti possono ottenere a condizione che si inizi con colloqui vis à vis. Attualmente è difficile fare terapia di gruppo. Sarà da studiare l’effetto che tutto ciò ha sul lavoro di cura!”

E ancora: “il passaggio verso il benessere di una persona, come così di un gruppo, consiste nel percepirsi e riscoprirsi in una rete di relazioni con gli altri in un percorso di senso di sé integrato.”

 

Mutismo selettivo

Anche se vorrebbe farlo, il bambino colpito da mutismo selettivo non riesce a parlare. Ciò avviene prevalentemente fuori casa e non dipende da disfunzioni organiche, ma è la risposta ad un forte stato emotivo legato all’ansia.

 

 Nel DSM-5 il mutismo selettivo è stato classificato tra i disturbi d’ansia, a differenza del passato dove veniva classificato tra i disturbi del linguaggio, e di conseguenza è cambiato anche il trattamento che ora si rivolge ad una problematica di ansia e non più ad una problematica linguistica. Può esistere una comorbidità con altri disturbi, per cui si può trovare anche la presenza di un disturbo del linguaggio o un disturbo di altro genere, ma come patologia principale il mutismo selettivo è ascrivibile a un disturbo d’ansia.

Per affrontare l’argomento facciamo riferimento a questo esposto nel sito dell’A.I.MU.SE., Associazione Italiana Mutismo Selettivo, organizzazione volontaria nata a Torino nel giugno 2009 per diffondere la conoscenza di questo disturbo e aiutare le famiglie con bambini che ne soffrono. Il suo impegno è volto a sensibilizzare e stimolare la comunità accademica e scientifica affinché vengano studiate terapie di intervento per la risoluzione del disturbo.

Come si manifesta

Il mutismo selettivo consiste nell’incapacità di parlare in certi contesti sociali, nonostante sviluppo e comprensione del linguaggio siano nella norma. Si manifesta prevalentemente nei bambini e non dipende da disfunzioni organiche, ma è la risposta ad un forte stato emotivo legato all’ansia. La comparsa avviene normalmente intorno ai 4 anni, ossia quando cominciano i primi contatti con il mondo esterno alla famiglia.

Anche se vorrebbe farlo, il bambino colpito da mutismo selettivo non riesce a parlare. Ciò avviene prevalentemente fuori casa, in presenza di estranei, nei contesti che gli risultano più ansiogeni come scuola o asilo. Al contrario a casa, e con le persone con cui si sente a suo agio, si esprime normalmente a volte risultando addirittura un chiacchierone.

I bambini con questo disturbo possono comunicare a gesti e avere difficoltà a mantenere un contatto visivo. Restano immobili, non interagiscono, anche il linguaggio del corpo può risultare impacciato. Sono così ansiosi e impauriti da essere bloccati, è come se si sentissero al centro dell’attenzione e questo aumenta la loro ansia. Questo compromette i rapporti con gli altri, la riuscita scolastica e la loro autostima. Sono molto sensibili al giudizio degli altri e se commettono un errore ne sentono il peso in modo esagerato. Sono pignoli, perfezionisti e abitudinari perché le novità provocano loro ansia. I disagi possono portare a comportamenti quali tic, autolesionismo o esplosioni di ira incontenibile una volta che il bambino rientra nel contesto familiare che sente più rassicurante.

Anche sei più colpiti sono i bambini, possono soffrirne anche adolescenti e adulti. Il bambino, divenuto adolescente, può mantenere difficoltà di interazione sociale risultando spesso, a torto, disinteressate o sprezzante, arrogante e maleducato.

L’incidenza parlerebbe di 1 bambino ogni 140 e più le femmine dei maschi, ma esiste un sommerso difficilmente quantificabile.

Errori di valutazione

Le reazioni collegate al mutismo selettivo possono essere scambiate per timidezza o autismo. In genere si tratta di un disturbo che riguarda bambini molto sensibili e il loro comportamento può essere scambiato per timidezza, quindi spesso il problema non viene riconosciuto, soprattutto nelle fasi precoci, come il periodo della scuola d’infanzia.

Un’errata valutazione di queste manifestazioni determina spesso il loro consolidamento facendo sì che il problema diventi ancora più evidente con l’ingresso alla scuola primaria. A questo punto può accadere che il silenzio del bambino venga interpretato come una non volontà di parlare, una sfida alle regole, alla quale si risponde con tentativi di forzature o punizioni.

Se diagnosticato in modo tempestivo, il mutismo selettivo è generalmente guaribile in tempi relativamente brevi, al contrario, se la diagnosi risulta tardiva, può prolungarsi dando luogo a situazioni difficili da gestire.

Cause e complicazioni

Le cause sono associate a un forte stato di stress, ma ad oggi non sono state individuate in modo preciso. E’ palese che il disturbo si possa ricondurre a cause di tipo emotivo, psicologico e sociale. Non necessariamente il soggetto colpito da mutismo selettivo ha subito forti traumi, sembra che questo disturbo risulti più frequente in bambini che vivono in famiglie socialmente isolate e con problemi di ansia, timidezza e difficoltà nelle relazioni sociali.

Una complicazione è il mutismo progressivo, che comporta una riduzione delle persone e delle situazioni in cui il soggetto parla, fino ad arrivare al caso più grave del mutismo totale, in cui il soggetto non parla più nemmeno con i genitori. Più passa il tempo più il soggetto si isola sentendosi inadeguato e insoddisfatto delle sua vita.

Intervista alla Dottoressa Marta Di Meo

Abbiamo rivolto qualche domanda alla Dottoressa Marta Di Meo, psicologa e psicoterapeuta esperta in mutismo selettivo.

Mutismo selettivo caratteristiche del disturbo e intervista ad un esperto IMM 1

Immagine 1 – La Dottoressa Marta Di Meo, psicologa e psicoterapeuta esperta in mutismo selettivo

Intervistatore (I): Risulta che il mutismo selettivo si manifesti prevalentemente intorno ai 4 anni, ma si può parlare di un disturbo latente ma congenito?

Marta Di Meo (MDM): Assolutamente si! Il Mutismo Selettivo è un disturbo d’ansia di “tratto”: l’ansia che si manifesta nel “tratto caratteriale” di una persona e non in risposta al solo stimolo esterno. Ovviamente di fronte a degli eventi esterni l’ansia aumenta, ma è presente da sempre nella persona, quindi possiamo definirla come “congenita”. C’è anche una componente di familiarità molto forte, che va a gravare sull’ansia “di base” e che può peggiorare il quadro clinico della persona.

I : Anche in relazione al fatto che risultano esserci contesti familiari che lo favoriscono, si potrebbe parlare di fattori genetici che lo facilitano?

MDM: Anche in questo caso la risposta è affermativa! Solitamente nel Mutismo Selettivo c’è una forte componente di familiarità, così come in generale accade per altre patologie. Si stima che il 50% dei genitori abbia sofferto, in passato, di un disturbo d’ansia e che il 75% dei familiari (nonni, zii) abbia anch’esso familiarità con disturbi d’ansia. Questo significa che la componente di familiarità abbia un ruolo fondamentale: predispone il soggetto al Mutismo Selettivo e crea delle condizioni ambientali tali per cui il disturbo d’ansia sia acutizzato e possa manifestarsi.

I: Può protrarsi fino all’adolescenza o all’età adulta, ma può anche insorgere in adolescenti/adulti che fino a quel momento non avevano dato segnali di soffrirne?

MDM: No, è abbastanza improbabile che possa manifestarsi in adolescenti o adulti che non avevano mai mostrato sintomi di ansia in precedenza. I sintomi sono piuttosto chiari e facilmente riconoscibili: chiusura, corpo bloccato fino alla completa immobilità (il cosiddetto “freezing”), difficoltà nei movimenti spontanei e nel sostenere lo sguardo, corpo in posizione di chiusura, voce bassa o difficoltà ad emettere qualunque tipologia di suono e difficoltà nel rispondere alle domande dirette poste da figure dei pari e dagli adulti. Questi sintomi vengono osservati maggiormente nei contesti scolastici, poiché a casa il bambino riesce a fare tutto in modo del tutto naturale e spontaneo (sebbene nei casi più gravi sia presente una difficoltà anche tra le mura domestiche). Nei contesti scolastici gli insegnanti, i compagni e i ragazzi stessi si accorgono di tali difficoltà, ma spesso scambiano il tutto per “eccessiva timidezza”. Quello che può accadere è che, prendendo consapevolezza di queste difficoltà, l’adolescente si chiuda maggiormente, credendo di non essere in grado di affrontare le varie situazioni sociali.

I: Può essere considerato una fase passeggera che si può risolvere autonomamente?

MDM: Quella di “aspettare del tempo” era una strategia utilizzata in passato, quando non si conosceva bene la patologia e nemmeno l’importanza della cura. Attualmente è sconsigliabile, poiché i casi di regressione spontanea sono molto rari ed il fatto di attendere del tempo potrebbe far sviluppare situazioni ed atteggiamenti negativi al bambino. Può essere considerata una “fase transitoria” quella del “mutismo” nelle fasi di ambientamento ad alcune situazioni specifiche: ad esempio se un bambino inizia un nuovo ciclo scolastico e non parla per qualche settimana, ciò può rientrare nella norma e non essere motivo di preoccupazione per famiglie e scuola. Se tale periodo si protrae e supera il mese, bisogna iniziare a monitorare bene la situazione, poiché potrebbe essere indice di Mutismo Selettivo.

I: Può avere fasi altalenanti in cui il disturbo si riduce e riacutizza o ha un andamento costante? (anche con tendenza a degenerare nei casi di mutismo progressivo o totale)

MDM: Risposta affermativa. Il Mutismo Selettivo peggiora nelle fasi in cui il bambino/ragazzo è esposto a situazioni stressanti e in cui deve mettere in atto una prestazione. La situazione, però, è peggiore se non si è in fase di trattamento: durante il trattamento specifico questi momenti “altalenanti” si riducono nella frequenza e nella intensità e rappresentano solo dei “momenti di passaggio”. Quando un bambino riesce a migliorare progressivamente può presentare delle fasi di lieve regressione o di comportamento oppositivo; oppure può accadere che si riacutizzino alcuni sintomi dopo un lungo periodo di assenza a scuola. Per questo ci viene in aiuto la terapia di stampo americano, che stiamo utilizzando con grande successo, anche in Italia: stabilizzando i risultati, di volta in volta, evitiamo proprio questo “effetto yo-yo” ed insegniamo a genitori, insegnanti e ai ragazzi stessi come gestire in modo ottimale le singole situazioni.

 

Caffeina: è davvero il carburante degli artisti?

Uno studio del 2020 ha confrontato la performance in compiti di creatività e problem solving in due gruppi formati da soggetti ai quali veniva somministrata una capsula di caffeina oppure di placebo.

 

Il caffè giunge nello stomaco e tutto mette in movimento: le idee avanzano come battaglioni di un grande esercito sul campo di battaglia; questa ha inizio… I pensieri geniali e subitanei si precipitano nella mischia come tiratori scelti.

Così scriveva Honorè de Balzac nel suo Traité des excitants modernes del 1839, descrivendo gli effetti sconvolgenti ottenuti dall’uso della polvere di caffè ingerita a stomaco vuoto, metodo da lui utilizzato per massimizzarne il potenziale eccitante; lo scrittore aveva infatti l’abitudine di bere 50 tazze di caffè al giorno per aiutare il proprio processo creativo, finendo per sviluppare una prevedibile assuefazione alla sostanza.

La caffeina è lo stimolante più utilizzato al mondo, contenuto non solo nel caffè, ma anche in bibite di largo consumo e negli energy drinks, il cui uso è tra l’altro particolarmente diffuso tra i giovani e si stima che l’85% degli adulti negli Stati Uniti consumi almeno una bevanda al giorno che contiene caffeina (Mitchell et al., 2014). Nell’immaginario collettivo esiste un legame a doppio filo tra l’utilizzo di stimolanti e le professioni creative, stereotipo che è stato poi confermato come realtà da diversi studi (per una rassegna vedi Weinberg & Bealer, 2004); in particolare, si è riscontrato come l’assunzione di caffeina incrementi la lucidità mentale, la vigilanza e le performance motorie, migliori la concentrazione e il focus attentivo, nonché abbia un effetto positivo sull’umore (Glade, 2010).

Tuttavia, ancora resta da chiarire se realmente l’assunzione di questo stimolante possa aumentare la performance in termini di pensiero creativo: la letteratura scientifica che si è occupata di rintracciare i facilitatori della creatività riporta in realtà come un minor controllo cognitivo, interpretabile anche come una minore attività della corteccia prefrontale e una ridotta eccitabilità corticale (Chrysikou, 2019), possa essere la chiave per la generazione di soluzioni originali.

Il processo che viene più strettamente inteso come creativo, ovvero il pensiero divergente, sembra però richiedere una combinazione di controllo cognitivo e insorgenza spontanea di nuove idee, interdipendenza che si riflette anche nell’accoppiamento funzionale tra i circuiti fronto-parietali e il default network nel nostro cervello (Beaty et al., 2006); il pensiero divergente infatti richiede processi top-down, governati appunto dal network di controllo esecutivo, e contemporaneamente da processi bottom-up, nella forma di processi associativi emergenti dall’attività del default-mode network (Benedek & Fink, 2019). Al contrario, il problem solving, o pensiero convergente, (Bowden et al., 2003) richiede un controllo esecutivo e una focalizzazione attentiva maggiore per generare sì svariate alternative, ma scegliere poi quella che meglio si adegua al contesto di riferimento e alle caratteristiche del problema, ‘convergendo’ appunto su una soluzione.

Coerentemente con queste premesse, è stato ipotizzato da Zabelina e Silvia (2020) che il consumo di caffeina avrebbe migliorato la performance nei compiti che miravano a valutare il pensiero convergente; al contempo però, le predizioni riguardanti il pensiero divergente rimanevano invece molto meno certe, dovendo appunto tenere conto dell’interdipendenza tra processi top-down e bottom-up, sui quali lo stimolante avrebbe effetti differenti.

Gli autori hanno coinvolto 88 partecipanti i quali, dopo essere stati assegnati a una delle due condizioni sperimentali assumendo una capsula di caffeina da 200mg (pari alla quantità contenuta in 350 ml di caffè) o alternativamente una contenente placebo, hanno svolto diversi test volti ad indagare l’effetto sulla performance creativa e sulla working memory, oltre a rispondere a dei questionari per cogliere il loro stato emotivo (pre vs post assunzione della capsula di sostanza attiva o placebo), la loro credenza circa il contenuto della capsula e le loro aspettative circa l’effetto che l’eventuale assunzione di caffeina avrebbe avuto sulla loro performance.

I risultati hanno permesso di individuare un effetto di media grandezza, laddove i partecipanti che erano stati assegnati alla condizione ‘caffeina’ avevano performance significativamente migliori dei soggetti nel gruppo di controllo nei compiti di problema solving, effetto che diveniva anche maggiore prendendo in considerazione le aspettative individuali circa l’effetto della sostanza. Al contrario, non si sono riscontrate differenze significative tra i due gruppi sperimentali nel compito utilizzato per valutare il pensiero divergente, suggerendo che la caffeina non abbia influenzato tale processo cognitivo. I partecipanti che avevano assunto caffeina dichiaravano un calo della tristezza tra la prima e la seconda fase di test, al contrario dei soggetti nella condizione ‘placebo’ che riportavano invece una deflessione nel tono dell’umore al termine dei compiti assegnati; nessuna significativa differenza veniva riscontrata analizzando invece i sentimenti di felicità, noia, ansia o concentrazione.

I risultati ottenuti sono in linea con la letteratura che associa il pensiero divergente ad un’aumentata attività delle onde alpha cerebrali, marcatori dello stato di veglia rilassata e del network inibitorio, rendendo quindi plausibile come l’assunzione di caffeina, associata invece ad una riduzione globale della potenza EEG nella banda alfa, possa rendere nulli gli effetti sulla performance in questo tipo di compiti; un’altra ipotesi è che 200 mg di sostanza psicoattiva, corrispondente ad una dose relativamente esigua, non siano sufficienti per far emergere chiaramente gli effetti sulla performance relativa al pensiero divergente, caratterizzato appunto dall’interconnessione di processi top-down e bottom-up, delegando a futuri studi il compito di verificare tale eventualità.

 

COVID-19 CORONAVIRUS SURVEY

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

 

Fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe immaginato che le nostre vite sarebbero state stravolte in modo così radicale da un virus. Un nemico invisibile che, oltre a causare un’emergenza medico-sanitaria senza eguali, lutti ed emergenze sociali ed economiche, ha modificato molte nostre abitudini, pensieri, ed emozioni. I migliaia di contagi, la quarantena e lo stato di isolamento, le restrizioni a cui tutti dobbiamo attenerci, in molti casi, ci pongono dinnanzi a pensieri d’incertezza sul nostro presente e sul nostro futuro, che generano in noi emozioni spiacevoli e comportamenti spesso disfunzionali.

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

Per tale motivo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi si è proposto indagare quali sono i pensieri, le emozioni e i comportamenti più diffusi in questo delicato periodo.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti, ci vogliono 5 minuti per compilare il questionario ed aiutarci con la ricerca.

E’ importante conoscere le opinioni di ciascuno di voi per riuscire a dare una risposta congrua e utile alle domande di aiuto che arrivano da più parti.

Vi saremo molto grati se riuscirete a trovare il tempo per noi!

 


Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale Femminile

Negli ultimi anni sembra essere diventato più facile parlare disturbi sessuali femminili e la letteratura scientifica è sensibilmente fiorita in questa direzione. Un concetto molto interessante introdotto recentemente è quello di desiderio sessuale femminile. Ma da dove arriva questo concetto e come nasce il bisogno di parlarne?

Gaia Campanale e Valentina Gobbi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Fino alla fine degli anni Novanta i disturbi sessuali femminili non sono stati al centro della ricerca scientifica, se non in minima parte. La ricerca era orientata allo studio dei disturbi sessuali maschili all’interno della cui concettualizzazione si cercava di far ricadere la casistica femminile. Così facendo si è pian piano cominciato a vedere che venivano perse alcune peculiarità della sessualità femminile. Bartlik nel 1999 spiegò questo fenomeno di inibizione della ricerca orientata al femminile, attraverso fattori sociologici, ritrovandone la causa nei pregiudizi e nei timori nei confronti della sessualità di cui è permeata la nostra cultura. Negli ultimi anni sembra essere diventato più facile parlare disturbi sessuali femminili e la letteratura scientifica è sensibilmente fiorita in questa direzione.

Un concetto molto interessante introdotto recentemente è quello di desiderio sessuale femminile. Ma da dove arriva questo concetto e come nasce il bisogno di parlarne?

Il concetto di desiderio è stato introdotto per la prima volta nel 1979 da H. Kaplan all’interno di un modello lineare di risposta sessuale (desiderio > eccitazione > plateau > orgasmo > risoluzione) in cui però guidava ancora una visione di stampo prettamente maschile. La vera svolta è avvenuta qualche anno dopo, nel 2005, quando in uno studio di Basson et al. fu proposto un modello circolare della sessualità femminile che andò a soppiantare definitivamente quello lineare fino ad allora in uso. In questo modello circolare viene introdotto un elemento innovativo: l’associazione della fase fisiologica di risoluzione dell’eccitazione con il processo di valutazione dell’esperienza vissuta in termini di soddisfazione/insoddisfazione. Subentrano in questo modo elementi come appagamento/mancato appagamento, bisogno e desiderio, andando ad evidenziare la reciprocità esistente tra desiderio ed eccitazione sessuale (Fabrizi e Cosmi, 2007).

Nell’ambito dei disturbi sessuali, le formulazioni teoriche introdotte dalle Consensus Conferencee dal gruppo di ricerca di Basson (2005) portano a suddividere le disfunzioni sessuali femminili in disturbi ancora più specifici, in modo da riuscire ad approfondirne la conoscenza di ogni aspetto ed impostare la cura ed il trattamento in base alle specifiche esigenze. Le tipologie di disturbo individuate sono quattro: disturbi del desiderio, dell’eccitazione, dell’orgasmo, caratterizzati da dolore.

In questa recensione ci occuperemo in particolare dei primi due elementi: desiderio ed eccitazione.

Il desiderio soggettivamente sperimentato, nasce da fattori biologici, psichici e relazionali che, influenzandosi reciprocamente tra loro, contribuiscono ad alimentare e modulare il desiderio stesso. I disturbi del desiderio sessuale hanno una etiologia multifattoriale e le componenti biologiche e psicosessuali non possono essere rigidamente distinte (Levine, 2003; Basson et al., 2004). Su un piano nosografico, accanto al termine desiderio si può accompagnare quello di interesse sessuale in quanto amplia il repertorio e lo orienta sulla motivazione di accettare e rispondere alle richieste sessuali del partner che non è sempre e solo guidata dal puro desiderio inteso come voglia accompagnata da fantasie, sogni erotici e iniziativa personale (Fabrizi, Cosmi, 2007).

L’eccitazione è considerata un’emozione successiva e simile a quella del desiderio, maggiormente sviluppata a livello corporeo e fisico e che prevede, nella donna, la lubrificazione vaginale e una serie di reazioni neurovegetative, muscolari ed endocrine connesse. A livello fisico nasce dal desiderio e prepara all’orgasmo producendo un’attivazione generale dell’organismo corrispondente a un vissuto soggettivo di piacere sessuale. Nonostante questa componente fisica sia molto forte non può essere l’unica considerata, in quanto nella donna è per lo più una percezione mentale e soggettiva. Quando una donna parla di eccitazione, intende quasi sempre un’eccitazione di questo tipo, mentale e soggettiva, per la quale possono esserci fattori stimolanti e fattori inibenti. Tra i fattori stimolanti troviamo lo stimolo erotico in sé, l’eccitamento del partner, la percezione del proprio eccitamento genitale; tra quelli inibenti e bloccanti la stimolazione troviamo situazioni distraenti, problemi interpersonali, difficoltà nella risposta fisica del partner. Subentra poi un’altra considerazione a favore dell’eccitazione sessuale femminile come fenomeno prevalentemente mentale e soggettivo, questo infatti non è sempre accompagnato dalla consapevolezza dei propri cambiamenti fisici vaso congestizi genitali ed extra-genitali.

Appare così evidente la complessità del fenomeno, sia da un punto di vista biologico che psichico.

Basson ha suddiviso i disturbi dell’eccitazione in quattro tipologie che riprendono le differenti situazioni cliniche presentate dalle donne (Basson et al., 2003):

  • Disturbo soggettivo dell’eccitazione sessuale: diminuzione marcata o assenza delle sensazioni mentali di eccitazione sessuale derivanti da qualsiasi tipo si stimolazione sessuale;
  • Disturbo genitale dell’eccitazione sessuale: mancata o ridotta eccitazione sessuale genitale;
  • Disturbo misto, soggettivo e genitale, dell’eccitazione sessuale: assenza o marcata riduzione di sensazioni di eccitazione sessuale, associata ad una assente o diminuita eccitazione sessuale in risposta a qualsiasi tipo di eccitazione sessuale;
  • Disturbo dell’eccitazione sessuale persistente: l’eccitazione sessuale genitale è spontanea, intrusiva e non desiderata, in assenza di desiderio e di interesse sessuale. La consapevolezza dell’eccitazione sessuale è tipicamente spiacevole e non è ridotta da uno o più orgasmi. (Leiblum, Nathan, 2002)

Il disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile è considerato il problema sessuale attualmente più diffuso tra le donne. Difatti, almeno un terzo della popolazione lo sperimenta nel corso della vita e, secondo uno dei più noti studi a riguardo (Shifren et al., 2008), coinvolge il 75% delle donne più anziane, il 39% delle donne tra i 45 e i 64 anni e il 22% delle donne più giovani. I disturbi del desiderio sessuale interessano circa 2.5 milioni di donne. Il desiderio sessuale si riduce fisiologicamente con l’età mentre il disagio causato dalla perdita di desiderio sessuale è inversamente correlato all’età, essendo più elevato nella donna più giovane.

Può essere utile partire dalla definizione che si trova all’interno del DSM-5, ma occorre stare attenti a non separare l’eziologia organica da quella psicosociale in quanto ci sono forti interazioni tra le componenti psicosociali e quelle biologiche (Mah, Binik, 2001).

Il DSM-5 definisce il disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile come:

Una mancanza o una significativa riduzione di desiderio/eccitazione sessuale manifestato da almeno tre dei seguenti indicatori:

  • assente/ridotto interesse per l’attività sessuale;
  • assenti/ridotti pensieri o fantasie sessuali/erotiche;
  • nessuna iniziativa di attività sessuale e nessuna risposta ai tentativi da parte del partner;
  • assente/ridotto piacere ed eccitazione sessuale durante l’attività sessuale;
  • assente/ridotto desiderio/eccitazione sessuale in risposta a stimoli sessuali/erotici di alcun tipo;
  • assenti/ridotte sensazioni genitali (e non) durante l’attività sessuale in tutti o quasi tutti gli incontri sessuali.

Per la diagnosi, i sintomi devono essere presenti da almeno sei mesi causando un disagio clinicamente significativo alla persona (DSM-5, 2013).

Trattandosi di un disturbo complesso, eterogeneo e multi-componenziale è importante ampliare e approfondire le caratteristiche psicologiche che caratterizzano il disturbo e che ad esso si associano. In questo modo sarà sempre più possibile implementare trattamenti empiricamente validati e adattati al paziente.

Basson, in un articolo pubblicato nel 2005, aveva presentato il modello qui sotto per evidenziale come le componenti psicologiche abbiano un ruolo di élite nella normale funzione sessuale delle donne.

Disturbo

Immagine 1 – Modello Basson (2005)

Il grafico si legge partendo da sinistra, dove abbiamo una prima fase di neutralità sessuale in presenza di disponibilità. Le motivazioni che spingono una donna ad intraprendere un rapporto sessuale includono il desiderio di esprimere amore, di ricevere e condividere piacere fisico, di sentirsi emotivamente vicina al partner, compiacerlo ed aumentare il proprio benessere. Questo porta alla volontà di trovare in modo proattivo degli stimoli sessuali che vengono elaborati nella mente ed influenzati da fattori biologici e psicologici. Lo stato risultante è un’eccitazione sessuale soggettiva che attraverso la stimolazione continua intensifica eccitazione e piacere ed innesca il desiderio sessuale (prima assente). La soddisfazione sessuale deriva quindi da una stimolazione continua sufficientemente lunga che porta la donna a restare focalizzata godendosi la sensazione di eccitazione sessuale in assenza di esiti negativi come il dolore fisico.

Tutto ciò evidenzia l’importanza per la donna di diventare soggettivamente attivata. Questa attivazione sessuale può essere influenzata negativamente da fattori psicologici e biologici.

Forti predittori di assenza di sofferenza nel rapporto sessuale sono: la relazione emotiva con il partner durante l’attività sessuale e il generale benessere emotivo della donna (donne che si descrivono in buona salute mentale). Altri fattori sono la percezione di sicurezza fisica e psicologica, la privacy durante il rapporto, la carica erotica della situazione, preoccupazioni varie e l’ora tarda (Bancroft, Loftus, Long, 2003).

Studi empirici hanno mostrato una alta correlazione tra disturbo del desiderio e bassa immagine di sé, instabilità dell’umore e tendenza alla preoccupazione e all’ansia (Hartmann, Heiser, Rüffer-Hesse, Kloth, 2002).

Restando sui fattori psicologici, H. Kaplan (1979) distingueva tre livelli del conflitto all’origine del disturbo del desiderio:

  • conflitti di livello blando derivanti dalla preoccupazione per il piacere del partner, dall’incapacità di comunicare i propri desideri e bisogni, dal ripetersi di manifestazioni erotiche poco piacevoli e poco gratificanti. Anche i sensi di colpa, inibizioni e precauzioni che provengono dalle proibizioni sessuali infantili molto diffuse nella nostra cultura;
  • conflitti di livello medio, la paura inconscia del successo e/o del piacere, ma soprattutto la paura inconscia di una relazione intima;
  • conflitti di livello profondo come ad esempio le modalità di evitamento che alcune persone mettono in atto al fine di “non voler” provare desiderio per non sentirsi in pericolo rispetto ai propri fantasmi interiori. Anche problematiche di tipo edipico possono sostenere questo livello di conflitto.

Questa controparte psicologica va comunque sempre associata ai problemi che possono esistere nella relazione di coppia (es. la lotta di potere, le reazioni di collera, l’escalation dell’aggressività ecc.) che si ritrovano spesso abbinati.

Trattamento

Come confermano i dati in letteratura, nelle donne i fattori psicologici, emotivi e relazionali contribuiscono tutti nel determinare la comparsa e lo sviluppo di problematiche legate alla sfera sessuale. In aggiunta a ciò, le donne presentano una maggiore tendenza rispetto agli uomini a legare il sintomo al contesto relazionale (Basson, 2005; Leiblum, 2004).

Nel prendere in esame le diverse cause che possono contribuire all’insorgenza delle disfunzioni sessuali femminili è importante partire dal presupposto che ci sono forti interazioni tra le componenti psicosociali e quelle biologiche, in contrasto con il DSM IV-TR che tende a separare rigidamente l’eziologia organica da quella psicosociale (Mah, Binik, 2001).

La natura multidimensionale della sessualità femminile, legata ad aspetti quali l’ideale di femminilità, lo stile di vita, le relazioni, i fattori biologici e la vita affettiva, impone un inquadramento multifattoriale del disturbo sessuale.

Per queste ragioni un approccio integrato al paziente sessuologico sembra essere, come supportato dalla letteratura internazionale, l’intervento d’élite, sintetizzando al meglio le esigenze medico-psicologiche che sono alla base del trattamento delle disfunzioni sessuali (Simonelli et al., 2000).

In quest’ottica, un intervento integrato si avvale della stretta collaborazione di diverse figure professionali: ginecologo, psicologo e sessuologo in cui ognuno persegue come obiettivo comune la comprensione e la risoluzione del sintomo, senza mai dimenticare l’importanza del partner nella possibile causa e sicuramente nel trattamento (Rossi et al., 1998).

Nel percorso terapeutico di tipo sessuologico, questa integrazione parte fin dall’inizio del processo diagnostico, dove medico e psicosessuologo si confrontano per la valutazione degli aspetti psichici e somatici implicati nella origine e nello sviluppo del disturbo. Un approccio esclusivamente medico comporterebbe il rischio di alcune distorsioni fondamentali: una falsa nozione dell’equivalenza sessuale tra uomo e donna, la cancellazione del contesto relazionale della sessualità, il livello di differenze tra le singole donne (Simonelli, Fabrizi, 2006). In base a queste premesse è evidente che lo studio delle disfunzioni sessuali femminili dovrebbe utilizzare un’ottica rivolta alla comprensione ed all’integrazione delle diverse cause che hanno determinato l’insorgenza del sintomo, così come alla comorbilità del disturbo nella coppia, considerata come “luogo” d’intersezione tra disagio individuale e disagio relazionale.

La terapia sessuologica integrata prevede alcuni momenti fondamentali:

  • le sessioni individuali o di coppia;
  • la discussione e il confronto sulle convinzioni riguardo la sessualità, in riferimento agli stereotipi, ai pregiudizi, alle credenze e alle informazioni inadeguate;
  • il training di autoconsapevolezza corporea, come strumento fondamentale per una buona riuscita del percorso terapeutico;
  • il trattamento dell’ansia legata all’esperienza sessuale, tenendo presente che, spesso, contenuti livelli di ansia possono avere un effetto che favorisce l’attività sessuale anziché inibirla.

In questo percorso, un’attenzione particolare dovrebbe essere posta alla fase diagnostica, che comprende tutti quegli elementi che vanno dall’esame del sintomo agli aspetti intrapsichici individuali alla componente organica. I principali settori di indagine per il clinico riguardano tutte le aree problematiche che possono avere avuto una ripercussione sulla sfera sessuale dell’individuo:

  • Educazione particolarmente rigida, caratterizzata da restrizioni culturali e/o religiose che hanno contribuito a strutturare un vissuto di colpa rispetto alla sessualità.
  • Eventuale presenza di traumi pregressi, sia di natura fisica che emotiva e sessuale legati, ad esempio, ad un abuso sessuale.
  • Presenza di malattie, incluse quelle psichiatriche, oltre che gli effetti collaterali di eventuali farmaci assunti, l’abuso di sostanze e le conseguenze post-operatorie degli interventi chirurgici.
  • Difficoltà interpersonali attuali, insieme ad eventuali disfunzioni sessuali del partner, o un’inadeguata stimolazione e/o un insoddisfacente contesto emozionale e sessuale. Oltre all’esame della storia relazionale e il significato della funzionalità/disfunzionalità sessuale all’interno della coppia, andrebbero indagate la qualità della comunicazione, sessuale e non, e l’iniziativa/rifiuto del sesso-affetto (Simonelli, 2002).

L’evidenza clinica ha rivelato che all’interno della coppia, quando la donna ha un problema, l’attività sessuale, pur risentendone, di solito non è sospesa; piuttosto la donna spesso si colpevolizza o, in altri casi, l’uomo pensa di non essere in grado di offrire una buona performance. Comunque, la sofferenza investe anche l’altro/a, lo spazio e il tempo dell’intimità tendono a ridursi e ad essere problematici, inoltre possono riscontrarsi ricadute negative in altre aree del rapporto non prettamente sessuali. Questa fase di assessment consente di prendere delle decisioni sull’intervento clinico da proporre; in quest’ottica, si prediligerà un lavoro centrato sulla coppia nei casi in cui si è riscontrato un coinvolgimento relazionale nell’insorgenza o mantenimento del sintomo, verificando un’eventuale co-presenza di disturbi sessuali nel partner. Viceversa, verrà proposto un intervento con la donna in presenza di disagi individuali specifici (intrapsichici). In entrambi i casi, si utilizzerà un intervento flessibile, individuale e di coppia, dove il partner potrà svolgere un ruolo di facilitatore.

Le linee guida per l’assessment delle disfunzioni sessuali femminili comprendono la necessità di individuare i fattori di predisposizione, precipitanti e di mantenimento del sintomo sessuale. Se in consultazione si presenta una coppia è necessario indagare i suddetti fattori in entrambi i partner. Un’attenzione particolare, qualora le disfunzioni sessuali riportate siano presenti da diverso tempo, dovrebbe essere rivolta alla storia delle relazioni pregresse.

In prima battuta, per ogni disturbo dovrebbero essere definite le caratteristiche temporali, se quindi il disturbo è primario o acquisito; le caratteristiche in relazioni al contesto, se il disturbo è generalizzato o situazionale; il grado di stress emotivo associato al disturbo, se assente, medio, moderato, marcato. La comprensione della eziologia del disturbo (biologica, psicogena, mista) infine aiuterà il clinico sia nella pianificazione del trattamento terapeutico sia nella valutazione delle figure specialistiche da coinvolgere eventualmente.

Infine, in linea generale, sembra che un buon esito del trattamento sessuologico sia legato alla motivazione ad intraprendere il trattamento e al cambiamento, ad una buona qualità della relazione di coppia e all’attrazione fisica tra i partner. Invece, tra i fattori di prognosi sfavorevoli nella pratica clinica si riscontrano principalmente: una relazione gravemente conflittuale tra i partner, una scarsa motivazione del partner non disfunzionale al trattamento, gli scarsi segni di adesione al trattamento (legati ad esempio, ad aspettative magiche e/o ad un atteggiamento passivo della coppia) (Althof, Leiblum, 2004).

Fino alla fine degli anni Novanta, la ricerca si è occupata solo in minima parte delle Disturbi Sessuali Femminili. Gli specialisti del settore (sessuologi clinici, medici, psicologi) hanno avuto grandi dubbi nel continuare ad inquadrare i disturbi sessuali riportati dalle donne nelle classificazioni esistenti (coniate in modo speculare alla definizione dei disturbi maschili, senza tener conto di alcune peculiarità della sessualità femminile).

Occorre ricordare che pur essendoci delle significative somiglianze anatomico funzionali tra la sessualità maschile e quella femminile, rimangono comunque delle differenze dal punto di vista psicologico e dell’esperienza sessuale che non ci consentono di intervenire sulle disfunzioni sessuali femminili nello stesso modo in cui interveniamo in quelle maschili. Nonostante la presenza di disturbi organici, sono molto più spesso i fattori psicosociali, emozionali e/o relazionali a determinare l’insorgenza e/o il mantenimento di un disturbo sessuale nella donna. Il rischio della sesso-farmacologia, come la definisce la Tiefer (2001), è quello di perpetuare la funzione genitale come la primaria, “naturale” esperienza sessuale.

Sarebbe necessario che le ricerche sulle disfunzioni sessuali femminili si orientassero su due fronti, da una parte lo sviluppo di studi epidemiologici che tengano conto della nuova classificazione proposta e dall’altra il perfezionamento degli studi anatomici. Come suggerisce Basson (2003) è di primaria importanza favorire la libertà dell’individuo nell’espressione della propria sessualità /affettività dai disordini di natura organica che interferiscono con la funzione sessuale e riproduttiva.

 

Psico-emergenza covid-19

Dinnanzi ad una malattia infettiva sconosciuta tra le reazioni più comuni della popolazione vi possono essere la negazione ovvero, in contrapposizione, la fobia.

 

Occuparmi dei miei pazienti, con la massima tutela sia loro che mia, senza preoccuparmi: nella  situazione che noi tutti stiamo vivendo appare un obiettivo a dir poco ambizioso…

Potrei definire il coronavirus, dapprima preso sottogamba dai più ma ora temuto in modo esponenziale, un vero e proprio trauma collettivo. La persistente e totalizzante incertezza circa l’evolversi della situazione è accompagnata da un senso di impotenza e da un costante sentirsi “in balia di”, in aggiunta alla precarietà ed alla limitazione delle proprie libertà.

Dinnanzi ad una malattia infettiva sconosciuta tra le reazioni più comuni della popolazione vi possono essere la negazione ovvero, in contrapposizione, la fobia.

La negazione è un meccanismo di difesa arcaico, presente cioè sin dalla tenera età, che ben riflette il pensiero magico dei bambini piccoli secondo i quali disconoscere una realtà sgradita corrisponde ad eliminarla. Dinanzi ad una realtà che si mostra “eccessiva” rispetto alla propria capacità di elaborazione si può ricorrere, in taluni casi, al meccanismo auto-protettivo di cui la mente umana dispone per proteggersi rifiutando sentimenti troppi sgradevoli e dolorosi.

Il termine fobia indica un’irrazionale e persistente paura che risulta essere sproporzionata rispetto a qualcosa; pur essendo considerata “irragionevole” non può essere dominata, ed obbliga ad un comportamento volto ad evitare o mascherare la situazione paventata.

Dato che le informazioni cambiano molto velocemente devo costantemente essere aggiornata, come terapista, circa le caratteristiche del coronavirus; essere informata in merito al numero dei casi sia della mia città che del paese delle persone che ho in carico. Questa sorta di analisi dei dati mi serve per poter rappresentare una base sicura per il mio paziente. Devo sempre stare sul pezzo ed avere un focus specifico sulla mia comunità di appartenenza.

Nel giro di poco tempo è mutato il termine con cui viene definito il nemico invisibile: l’11 Marzo 2020, infatti, il direttore generale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), Tedros Adhanom Ghebreyesus in Conferenza stampa a Ginevra, dichiara che Covid-19 (la sigla è la sintesi dei termini CO-rona VI-rus D-isease e dell’anno d’identificazione 2019) può essere caratterizzato come una pandemia. Il termine deriva dal greco: παν (tutto) e δήμος (popolo), “tutto il popolo”, e delinea un tipo specifico di epidemia la cui diffusione è vasta a tal punto da interessare più aree geografiche, con un alto numero di casi gravi ed un’elevata mortalità.

Tutti potenzialmente potremmo contrarre il virus: la situazione di emergenza sanitaria è concreta. Il covid-19, infatti, continua ad accanirsi sull’Italia e sul resto del mondo. Sembra di assistere ad una corsa contro il tempo che, attualmente, appare essere inarrestabile.

Una serie di domande aggrediscono ed attanagliano gli individui: perché sta succedendo? Da cosa deriva? Come mai si diffonde così velocemente? Di chi è la colpa? Soprattutto quest’ultima si ripropone in modo ricorrente ed impertinente; le persone cercano un responsabile.

Alcuni individui per fronteggiare il senso di impotenza reagiscono tentando di individuare un colpevole per potersi nuovamente percepire in grado di aver controllo su cosa fare, e sapere come e chi punire: la rabbia ed il biasimo verso gli “untori” accompagnati da una ricerca compulsiva di informazioni su teorie possibili che indichino “un colpevole” da poter additare.

Le reazioni individuali variano dalla negazione della minaccia alla paura che sfocia in comportamenti anche irrazionali, che hanno però una funzione rasserenante. Un ingrediente peculiare, che genera ansia e preoccupazione, è l’imprevedibilità della durata di questa condizione di emergenza. Siamo bombardati quotidianamente da frasi, scene ed immagini ricorrenti ed intrusive riguardanti il virus. C’è chi tenta, in modo vano, di evitare ragionamenti o emozioni correlati al trauma; c’è chi invece vive un’attivazione psicofisiologica costante (iper-arousal); c’è chi vive un profondo senso di abbandono, correlato a pensieri persistenti e negativi, o di colpa.

Lo stato d’animo che prevale nei cittadini è di paura, ansia e angoscia. La paura, emozione primaria, è fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza: se non la provassimo non riusciremmo a metterci in salvo dai rischi. Una misurata dose di paura è fondamentale; ha una funzione adattiva. Rispettare le poche ma doverose e preziose indicazioni delle autorità (il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha firmato Dpcm recanti misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da covid-19 sull’intero territorio nazionale, 9 ed 11 marzo 2020)  richiede un minimo di attivazione; il limite che intercorre tra una funzionale allerta (stress positivo o eustress) ed un eccesso di attivazione, con comportamenti poco lucidi e controproducenti (stress negativo o distress), è, però, molto sottile. Il meccanismo dell’ansia per noi tutti è un meccanismo fisiologico, utile ad attivare l’organismo dinanzi ad un allarme: fino ad un determinato livello è adattivo poiché ci rende più reattivi; superato lo stesso, invece, rende l’organismo incapace di reagire in modo congruo e proficuo. Nella situazione contingente che ci troviamo a vivere, le persone sono spaventate e si sentono inerti ed inermi perché dinanzi al temuto silente virus non vi sono strumenti, sebbene scienza e tecnologia siano così avanzate. L’angoscia, infine, rappresenta una sorta di paura senza nome, le cui cause ed origini non sono immediatamente individuabili. Per tale ragione, essa non solo è minacciosa, ma spesso anche catastrofica per chi la prova; essendo subita, dà impotenza e deprime perché “non posso cambiare le cose”. Al cospetto del covid-19 ci si sente piccoli e condannati ed è per questo che aleggia ed imperversa l’angoscia.

In questo momento così difficile vi è un, conscio o meno, disperato ed angosciante bisogno di essere ascoltati, sostenuti e confortati. L’aspetto psicologico non è da tralasciare: al contrario, ha un’importanza cruciale per il riverbero che assumerà a breve, medio e lungo termine.

Il “contatto” emotivo, in questo periodo più che mai, è a dir poco necessario. Non esistono risposte magico-salvifiche ed ogni caso è a sé stante. Anche nella situazione emergenziale all’interno della quale ci troviamo non è l’ente istituzionale a poter decidere se un paziente sia adatto, o meno, ad una terapia on line, se sia il caso di posdatare la seduta o se sia utile continuare mantenendo il medesimo setting (seppur apportando le dovute e pedisseque misure di sicurezza e norme igienico-sanitarie). Salvo ipotetiche future restrizioni specifiche, la responsabilità professionale è sempre del clinico; responsabilità che include in sé scelta e decisione. E’ bene che ognuno di noi terapisti se ne assuma la responsabilità valutando caso per caso, cosa è “buono e giusto fare” sempre, e solo, nell’unico obiettivo del benessere dei propri pazienti.

Essendo di fronte ad una situazione incontrollabile quello che possiamo fare è attuare azioni preventive e precauzionali che, purtroppo, non rasserenano circa la possibilità di essere contagiati.

Le strategie di coping sono di cruciale importanza; oltre alle ricadute negative che un trauma comporta, possono anche essere facilitati cambiamenti positivi nell’individuo, definiti Post-Traumatic Growth (PTG), che possono comprendere sia lo sviluppo di nuove prospettive personali che di una crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009). Potremmo definire la PTG come “l’esperienza soggettiva fatta di cambiamenti psicologici positivi come esito di un’esperienza traumatica” (Zoellner & Maercker, 2006).

Alcuni spunti utili da utilizzare per riflettere insieme in modo proattivo, sono i seguenti:

  • la voglia, che diventa bramosia, di riprendere, ripartire e ricostruire;
  • il ritrovato piacere di stare insieme e la riscoperta degli affetti e delle dinamiche familiari;
  • il permettersi di essere vulnerabili, in un’ottica di crescita personale;
  • il cambiamento di prospettiva della vita, dei propri pensieri ed ancora del modo di pensare ai propri pensieri, accogliendo modalità diverse che ridefiniscono i punti di forza e di fragilità;
  • avere più tempo per sé, per coltivare i propri hobby e per appassionarsi a nuove attività;
  • non potendo controllare fuori, possiamo tentare di controllare dentro di noi, le nostre emozioni e reazioni.
  • fare comunità con amici, parenti e colleghi sostenendo le persone emotivamente, ma magari non fisicamente, vicine.

La paura abbassa le difese immunitarie, mette in allarme il sistema neurovegetativo.
Più stiamo in allerta più l’ansia anticipatoria tende a bloccare le nostre energie creative.
Reputo basilare, e risulta strategicamente vincente, diffondere un ANTIDOTO, un ANTIVIRUS: pensare in positivo, credere veramente che ce la possiamo fare, che “andrà tutto bene” e che rimanendo uniti, insieme, siamo una grande forza!

Quest’emergenza, come ogni avversità, può essere un’opportunità, può essere anche maestra…

 

“Totem e Tabù” attuato al Covid-19: considerazioni in chiave psicoanalitica

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi e questi concetti risultano ancora attuali in questo periodo caratterizzato dall’emergenza del Covid-19.

 

L’equilibrio collettivo

In questi giorni insoliti di quarantena obbligatoria, ho avuto l’opportunità di riflettere su alcune dinamiche di comunità che trovano fondamento nella storia della psicoanalisi, in particolare nel padre della psicologia: Sigmund Freud. Nel 1913, alle porte della Prima Guerra Mondiale, Freud pubblica Totem e Tabù. In un periodo storico particolare, Freud aveva ben definito i cardini della sua teoria sulla psicologia dell’individuo, per questo, in una lettera ad Abraham, esprime il desiderio di applicare tale teoria ai popoli e alle masse, per garantire una scientificità della psicoanalisi attraverso una spiegazione dei moti collettivi.

A distanza di più di un secolo il mondo intero si trova a combattere contro una pandemia, contro un virus invisibile che mette a dura prova intere popolazioni. È inevitabile, per chiunque abbia letto l’opera di Freud (1913), riflettere su come i popoli, a distanza di secoli, mantengano per certi versi, le stesse pratiche provenienti da un vissuto psicologico individuale che si manifesta nella collettività.

Prima di entrare nel merito dell’analisi di Totem e Tabù, ritengo molto interessante introdurre l’opera descrivendo un cortometraggio di Wolfgang e Christoph Lauenstein (1989), dal titolo Balance, che tradotto significa equilibrio. Nel titolo emerge già il contenuto del video, in cui vediamo cinque manichini personificati con indosso solo una giacca riportante un numero, unico segno della loro identità. I volti sono inespressivi e sembrano non manifestare nessuna emozione. Questi personaggi si trovano su una pedana sollevata in aria che resta in equilibrio solo grazie al peso dei loro corpi e ai loro movimenti che devono essere misurati per far sì che la pedana non si inclini eccessivamente e che nessuno cada. Raggiunto l’equilibrio, i cinque personaggi estraggono dalla giacca una canna da pesca, il cui amo viene gettato nell’oscurità che circonda la pedana. Ad un certo punto, uno di questi riesce a pescare un oggetto molto pesante e con l’aiuto degli altri compagni, che si dispongono in modo tale da tenere in equilibrio la pedana, riesce a recuperare l’oggetto in questione. Si tratta di una scatola rossa da cui proviene una melodia musicale, unico elemento colorato e sola fonte di emozioni. Da qui in avanti ci sarà una lotta tra i vari membri del gruppo per afferrare l’oggetto, con la conseguenza finale di una perdita di equilibrio collettiva. Come nei migliori enigmi, uno alla volta i membri iniziano a cadere, fino a quando ne rimane uno solo che, però, non potrà mai raggiungere e prendere la scatola poiché questo comporterebbe la caduta di entrambi.

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi.

È interessante notare come in una collettività emergano quegli elementi che, da un lato appartengono al singolo individuo e al suo vissuto, dall’altro l’esperienza del singolo è manifestata a livello collettivo come sua specifica appartenenza al gruppo. Si forma, quindi, un’identità collettiva che si fa portatrice di una singolarità che si esprime in una condivisione comunitaria.

Questo aspetto è osservabile con il problema attuale del coronavirus. La paura del contagio, ma al tempo stesso le pratiche di massa provocate da un’ulteriore paura dell’imprevedibilità del futuro, riportano a dei concetti cardine della psicologia delle masse, teorizzati da Freud nei concetti di tabù e totem.

Totem e tabù ai tempi del Covid-19

Partendo dal termine ‘contagio’ che, nel caso di un virus, coincide con la sua trasmissione da un individuo all’altro per vie dirette o indirette, per Freud (1913) si tratta del concetto di equilibrio sopra esposto, ovvero una necessità a livello comunitario di uniformarsi, una serie di processi di identificazione che portano ad una condivisione di responsabilità e alla formazione di un’identità di massa. Anche qui abbiamo una trasmissione, più o meno figurata, di pratiche che i popoli si rimandano nel corso della storia e che li caratterizzano.

Freud (1913) descrive come tra le tribù primitive esista una continuità tra le pratiche legate ai totem e quelle relative ai tabù e come queste siano paragonabili a quelle tipiche dei pazienti affetti da nevrosi ossessiva.

In particolare, gli elementi principali del parallelismo sono:

  • Carattere immotivato del divieto nei confronti di un oggetto, ovvero quello legato alle credenze. Alcune religioni si fanno portatrici di divieti, il cui carattere si basa solamente sull’esistenza della loro credenza che impedisce di compiere determinate azioni, come nel nevrotico non esiste una motivazione manifesta del suo divieto, ma è legato ad una necessità patologica interiore (Freud, 1913).
  • Dislocabilità e pericolo di contagio dall’oggetto di divieto, attuati con le pratiche cerimoniali a livello comunitario e con i rituali compulsivi o l’evitamento nei pazienti, al fine di fuggire il pericolo di contagio e allontanare l’ansia che questo comporterebbe (Freud, 1913).

Se riportiamo queste due accezioni alla vita quotidiana, vediamo come tutte le comunità si fondano su credenze e possiedono dei rituali – termine che non per forza deve riguardare pratiche religiose o nuclei psicopatologici – che determinano la routine giornaliera.

Secondo Freud (1913), il tabù, comprendente la realizzazione di un oggetto di divieto, il suo evitamento o la sua elaborazione ritualistica, è portatore e conseguenza di un’ambivalenza emotiva: l’individuo sviluppa, infatti, un comportamento ambivalente verso un certo oggetto o azione che lo riguarda. Da una parte, vi è la volontà costante di raggiungere l’oggetto o perseguire l’azione, dall’altra la repulsione e l’orrore dello stesso. L’ambivalenza, a sua volta, è portatrice di un conflitto interiore che spesso rimane inconscio. Anche nei popoli, l’emergere di alcuni tabù manifesta la presenza di un’ambivalenza emotiva nei confronti del tabù stesso che, da un lato è fortemente desiderato, dall’altro è soggetto ad una repulsione totale.

Il tabù, dunque, comporta una scissione dell’odio, della parte violenta ed aggressiva che viene allontanata e, come in un comportamento patologico di tipo evitante o ritualistico, un popolo crea il tabù e stabilisce che di questo non si può parlare. È proprio attraverso la sua negazione che, a volte, arriviamo a gesti terribili, dettati da un piacere inconscio che deriva dal contatto con l’oggetto proibito, a differenza del puro divieto che è pienamente cosciente (Freud, 1913).

Freud (1913) cita Wundt che in uno studio afferma:

i popoli si costituiscono proprio per evitare, attraverso tabù e norme collettive, di cedere alle pulsioni inconsce che abitano tutti noi, di cedere a quelle parti di aggressività e di odio che tutti noi abbiamo e che se ciascuno esercitasse provocherebbe l’estinzione della specie.

Freud (1913), a sua volta, rifacendosi ancora ai suoi casi di nevrosi sostiene:

la natura asociale della nevrosi deriva dalla sua tendenza originaria a sfuggire da una realtà insoddisfacente per rifugiarsi in un mondo fantastico assai più attraente. E questo mondo reale che il nevrotico evita domina la società degli uomini e le istituzioni che essi hanno creato in comune. La fuga dalla realtà è al tempo stesso una fuga dalla comunità umana.

Freud (1913) getta la luce su quelle dinamiche aggressive, distruttive che ciascuno di noi ha, introducendo l’opera Al di là del principio di piacere (1920), in cui per la prima volta ci presenta il concetto di pulsione di morte. Ma cosa facciamo per gestire questa aggressività? Deleghiamo il compito di nasconderla alla società che la trasforma in un tabù. Niente di più attuale, poiché oggi uno dei più grandi tabù, ad esempio, è quello della morte: da un lato non se ne parla, si cerca di eliminarne qualsiasi traccia, dall’altro nei telegiornali, in tv, non si fa altro che fare riferimenti alla morte, a sventure, ai dettagli più macabri che vengono svelati per una curiosità morbosa di sapere. È qualcosa che ci terrorizza, ma non vogliamo ammettere a noi stessi che, in realtà, è un mistero che ci lascia tutti incuriositi e ci attrae.

Tutto questo ci porta ora a riflettere sulla vicenda attuale del Covid-19. Abbiamo osservato la formazione di un tabù legato al coronavirus e alla sua letalità, affermando che fosse poco più grave o al pari di una comune influenza, o che il tasso di mortalità fosse elevato solo per le persone anziane o per coloro che soffrissero già di patologie croniche. Al di là di qualsiasi motivazione scientifica, ciò che ci interessa è come chiaramente sia stato eretto un tabù nei confronti della morte legata al virus, come se si tentasse di esorcizzare il terrore che questa ci dà, con la giustificazione che la letalità del virus è da attribuire a persone che, sostanzialmente, erano già ‘condannate’. La comunità ha quindi eretto un tabù, poi, di fronte all’angoscia di morte, ha messo in pratica una serie di rituali e cerimoniali come la corsa alla spesa e al rifornimento delle scorte.

Freud (1913), dopo aver teorizzato che un tabù nasce da un’instabilità emotiva proveniente da un conflitto interiore, suggerisce anche quale sia la chiave risolutiva di tale conflitto: l’identificazione con il Totem, con un Dio, con un Padre, un’entità a cui ambire, attraverso un desiderio di replicare la sua identità su noi stessi, ovvero un meccanismo di difesa che la persona attua per proteggersi da un conflitto emotivo molto potente e, contemporaneamente, da un sentimento di odio nei confronti del Totem stesso.

Il Totem rappresenta, quindi, il simbolo di un salto qualitativo dell’uomo, che predispone una prima organizzazione sociale e la nascita della morale, volta a prescrivere comportamenti socialmente rispettabili (Freud, 1913).

Il Totem impersona la Legge e crea una morale collettiva, intesa come naturale processo di superamento di conflitti psichici e affettivi e come risoluzione di un’ambivalenza tipica dell’intera collettività (Freud, 1913).

L’adorazione del Totem è, dunque, un modo per creare un legame identificativo tra i membri di una società, che acquisiscono uno stesso codice di condotta (Freud, 1913), come quello espresso dalla comunità italiana odierna, che di fronte ad un pericolo molto forte, si è unita rispettando le misure restrittive imposte da un’autorità.

Il salto qualitativo poco prima descritto è possibile qualora il conflitto intrinseco da cui è mosso, da inconscio venga portato agli occhi della coscienza (Freud, 1913).

In questi tempi così complessi, appare ancora più importante rendere consapevoli le persone della paura che il virus provoca in loro, dell’angoscia che provoca l’accettazione della sua letalità. Questo salto di consapevolezza aumenterebbe il valore del Totem comunitario e renderebbe più stabile quell’equilibrio collettivo, per cui se un solo membro cede, l’intero meccanismo collassa.

 

“A kiss is just a kiss”… Oppure no?

Nel lontano 1931, un allora molto noto jazzista di nome Hupfeld, cantava a kiss is just a kiss, ovvero: un bacio è solo un bacio. Ma è davvero così? Secondo diverse teorie sessuologiche la risposta è un decisissimo no! (Hughes et al., 2007; Thompson et al., 2019).

 

Infatti, vi è un ampio ammontare di ricerche scientifiche che dimostrano l’importanza dei baci sulla scelta di potenziali partner e sullo sviluppo e mantenimento di relazioni sessuali soddisfacenti. I baci fanno anche sì che all’interno di una relazione romantico-sessuale consolidata, si mantenga un buon legame di attaccamento e un’esperienza sessuale positiva (Wlodarski & Dunbar, 2013).

Nel presente studio (Busby et al., 2020), per indagare l’importanza dei baci all’interno di relazioni romantiche, è stata misurata la correlazione tra la frequenza dei baci nella coppia, il legame di attaccamento e la soddisfazione sessuale/relazionale globale. Le ipotesi erano le tre seguenti: (1) una maggior frequenza di baci nella coppia correla con un aumento degli elementi positivi delle esperienze sessuali come il livello di eccitazione e il numero di orgasmi; (2) una maggior frequenza di baci correla con una maggior soddisfazione sessuale e relazionale; (3) la qualità del legame di attaccamento svolge un ruolo di mediatore nella relazione tra la frequenza dei baci all’interno della coppia e la soddisfazione sessuale/relazionale (Busby et al., 2020).

Il campione era composto da 1606 partecipanti che sono stati coinvolti in una relazione romantica per almeno 2 anni. La frequenza dei baci è stata misurata con la domanda ‘negli anni passati, quanto spesso hai baciato il tuo partner?’ che prevedeva una risposta su scala a 7 punti da mai a più di una volta al giorno. L’attaccamento è stato misurato con la Close in Relationship Scale-Short Form e la qualità delle esperienze sessuali con alcune domande specifiche o a risposta dicotomica (sì, no) o su scala a 5 punti (da ‘per niente soddisfatto’ a ‘completamente soddisfatto’).

Sono anche stati presi in considerazione i dati anagrafici riguardanti etnia, orientamento sessuale, educazione, stato della coppia, sesso ed età (Busby et al., 2020).

I risultati hanno confermato l’estrema importanza dei baci all’interno delle relazioni romantiche: una correlazione positiva significativa è stata individuata tra tutte le variabili analizzate ovvero il legame di attaccamento, la soddisfazione sessuale e relazionale ed è stato rilevato il ruolo da mediatore svolto dall’attaccamento tra frequenza dei baci e soddisfazione globale (Busby et al., 2020).

In conclusione, nonostante i limiti dello studio come il non considerare altri comportamenti di avvicinamento nelle relazioni (es. tenersi la mano) o la tipologia di baci intesa dai soggetti (baci a bocca chiusa, a bocca aperta, sul viso, ecc,), esso dimostra quanto la frequenza dei baci sia un indicatore importante del legame relazionale e sessuale e di quanto sia cruciale per le relazioni affettive in generale (Busby et al., 2020).

Video-lezioni di inglese per bambini – L’iniziativa di Open Minds

In questa situazione di grande difficoltà nasce un’iniziativa utile sia dal punto di vista didattico, sia da quello psicologico. Open Minds aiuta i bambini a continuare il loro processo di apprendimento della lingua inglese da casa.

 

In questo momento di grave disagio sociale, volevo segnalare la iniziativa di Open Minds, una scuola di inglese a Milano da anni attiva nelle scuole primarie.

Poiché i bambini sono assenti da scuola per forza maggiore, Open Minds ha deciso di realizzare decine di video-lezioni di inglese, create sulla base dei programmi delle scuole primarie e coerenti con gli obiettivi e le competenze indicate, nonché con le unità di lessico e funzioni comunicative previste dai più comuni testi scolastici.

Il risultato di questa fatica è in questa pagina, in cui abbiamo raccolto tutte le vide-lezioni e le attività senza schede che proponiamo ai bambini.

Lo scopo di questo sforzo è rimanere vicini al nostro lavoro, anche se la chiusura delle scuole ci impedisce di essere fisicamente presenti. Siamo convinti della bontà dell’intento: sia dal punto di vista didattico (perché la continuità nell’esposizione è fondamentale per l’acquisizione e l’apprendimento delle lingue), sia dal punto di vista psicologico, perché ricevere lezioni coerenti con i contenuti e le aspettative dell’età e grado scolastico previsto è importante per avere dei punti di riferimento, una “normalità” nella situazione.

E’ inutile proporre attività eccessivamente complesse o linguisticamente eccessivamente avanzate: il bambino impara meglio ciò che è alla propria portata, ciò che è comprensibile e non arbitrario. Per questo ci siamo appoggiati ai più diffusi testi scolastici e utilizziamo volutamente solo le parole e le funzioni comunicative note e previste nei normali programmi scolastici.

Tutto questo lavoro è disponibile in modo del tutto libero: i docenti che vogliono usarlo per la didattica a distanza possono linkare nei registri elettronici/piattaforme o scaricare i materiali per inserirli nei padlet. I genitori possono usare queste video lezioni per intrattenere i bambini in modo istruttivo.

Nella pagina abbiamo individuato decine di attività senza schede, che possono essere fatte senza spendere soldi e stampare. Anche questa è inclusione, in un contesto in cui si allarga drammaticamente la forbice tra le famiglie “attrezzate” e quelle che non lo sono.

Ci auguriamo che questa iniziativa possa essere utile, per noi sicuramente non “essere interrotti” è terapeutico ed utile, perché amiamo il nostro lavoro e speriamo di arrivare a piuì bambini, scuole e famiglie possibili.

Per le attività di Open Minds: clicca qui

 

Covid-19. Le sei strette di mano

La diffusione del Covid-19 porta a riflettere sulla teoria dei sei gradi di separazione, che in semiotica e in sociologia è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari.

 

Secondo l’ipotesi dei sei gradi di separazione, ognuno può essere legato ad un altro attraverso una catena di conoscenze che passa tra cinque individui. La prima formulazione della teoria non ha in realtà origine scientifica o statistica, ma si ritrova piuttosto in un racconto, intitolato Anelli della Catena, scritto nel 1929 dall’autore ungherese Frigyes Karinthy.

Universalmente, allo scrittore ungherese viene quindi attribuita la prima descrizione e illustrazione compiuta di quella che verrà chiamata, come già detto, la teoria dei sei gradi di separazione. Nel racconto si riflette su come ‘la rapidità con cui si diffondono le notizie e l’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più veloci abbiano reso il mondo più piccolo rispetto al passato’ e non sarebbe idea stravagante rinominare tale teoria ‘sei gradi di unione’, tanto più che Karinthy sceglie consapevolmente la metafora della catena e dei suoi anelli componenti, i quali, evidentemente, si legano e legano (in francese si usa l’espressione assai appropriata ‘le sei strette di mano’). Se le estremità della catena sono effettivamente distanti e separate, e inizialmente non ‘sanno’ una dell’altra, le maglie intermedie, invece, indubbiamente fungono da stretti collegamenti.

A quasi quarant’anni di distanza dal racconto, nel 1967 il sociologo americano Stanley Milgram mise in pratica un esperimento volto a dare una conferma scientifica alla teoria, da lui battezzata ‘teoria del mondo piccolo’. Scelse alcuni cittadini americani del Midwest, e chiese loro di spedire un pacco a un abitante del Massachussets a loro del tutto estraneo. I partecipanti all’esperimento conoscevano il nome del destinatario e lo Stato dove viveva, ma non l’indirizzo. Fu quindi chiesto di inviare il pacco alla persona di loro conoscenza che ritenessero avere più probabilità di conoscere il destinatario. Questa persona avrebbe poi a sua volta eseguito lo stesso compito, fino ad arrivare a consegnare il pacco al prescelto. L’esperimento dimostrò che, per arrivare al destinatario finale, in tutti i casi ci vollero fra i cinque e i sette passaggi. La pubblicazione di questi risultati sulla rivista Psychology Today e l’eco che ne derivò portarono alla nascita dell’espressione ‘sei gradi di separazione’ come la conosciamo oggi e alla sua rapida diffusione.

Ma non si diffondono rapidamente solo notizie e pacchi. Gli stretti collegamenti diffondo tutto, anche e ovviamente le malattie.

Il Covid-19, partito felicemente dalla Cina, magari proprio attraverso sei strette di mano ci ha portati attraverso questi pochi gradi di separazione e attraverso la superficialità e l’ignoranza a questo doloroso mese.

A Marzo in Italia ci hanno detto Stop. Come uno schiaffone che arriva senza preavviso a Marzo, in Italia ci siamo tutti fermati, il nostro Presidente del Consiglio ha adottato le misure che doveva adottare, per farci aprire gli occhi. Cautamente, piano piano, settore dopo settore, sta fermando l’Italia, cercando di non trascinarci nell’isteria e cercando di proteggerci da una vera e propria pandemia e nella speranza, aggiungo, di essere esempio per il resto del mondo. Anche perché, come detto, basta poco con i sei gradi di unione per non riuscire a sventare l’inevitabile.

Quanti di noi si stavano rendendo conto di ciò che sta realmente accadendo? Io per prima devo essere sincera, non ho capito fino a quando si è deciso più fortemente di adottare misure dure.

Le cose non capitano solo agli altri, non è sempre un’esagerazione, dobbiamo imparare a far fare ai professionisti il proprio lavoro. Dobbiamo imparare a fidarci. Probabilmente questo virus insegnerà a zittire i tuttologi, a dare valore alle piccole cose a cui forse non badavamo più, a rallentare un po’ e lasciar fare a chi sa fare.

Costretti in casa, per il nostro bene, per il bene di chi amiamo, per il bene di tutti, in Italia e nel mondo a Marzo 2020 abbiamo l’opportunità di riflettere, rivedere il nostro modo di vivere, capire cosa è importante, cosa è superfluo, a cosa possiamo anche rinunciare e cosa possiamo imparare.

In Italia e nel resto del mondo in questo 2020 la natura ci ha dato l’ennesima opportunità, azzeriamo i gradi di separazione, cogliamo questa occasione e torniamo a quella sottovalutata, bellissima normalità, più veri e forti.

 

#Iorestoacasa: una lettura psico-pedagogica delle misure restrittive di contenimento

In seguito all’emergenza sanitaria del covid-19, sono state adottate, in tutto il territorio italiano, misure ancora più restrittive. Queste misure rientrano nel programma di “Distanziamento Sociale” (Fantozzi & LaSpina, 2010), che prevedono quarantena e isolamento, nel caso di un focolaio epidemico in corso.

 

Il Distanziamento sociale è stato messo in atto precedentemente anche in Cina, territorio dove attualmente si registra una considerevole regressione della diffusione del virus. Costanti, infatti, sono le domande degli italiani circa il successo “rapido” delle misure di contenimento in Italia, come avvenuto per il popolo cinese.

Ciò che non si può sottovalutare in un contesto, in cui sono state adoperate misure di contenimento, è il costrutto di “cultura”. Il concetto di cultura ha una natura ambivalente. In senso antropologico, la cultura è il contenitore di un processo dinamico all’interno del quale intercorrono una molteplicità di norme, credenze, costumi, abitudini e artefatti delle attività umane (Mazzara, Leone, Sarrica, 2013). La cultura nell’antropologia è sempre riferita ad un gruppo e mira a comprendere gli aspetti di verosimiglianza. La prospettiva psico-pedagogica, invece, mira a rilevare gli aspetti peculiari e distintivi (Mininni, 2013). In questo senso, la cultura “è tanto grande che torreggia su di noi, come un elefante, e tuttavia è elusiva come una fragile e trasparente libellula” (Mantovani, 1998).

Non sono gli essere umani ad acquisire la cultura, ma è la cultura che acquisisce (Bruner,1996) e contiene in sé il sapere collettivo accumulato nella memoria sociale. Essendo però il concetto di cultura un processo dinamico è suscettibile a vari fattori, che ne determinano la forma e la direzione. Tali fattori sono riconducibili, secondo l’antropologo e psicologo olandese G.H. Hofstede (2006), a tre livelli:

  • Individuale – tratto specifico dell’individuo all’interno di ogni cultura che viene ereditato o appreso e che determina la personalità.
  • Collettivo – l’insieme di valori che vengono appresi dall’individuo dall’appartenenza ad uno specifico gruppo o categoria.
  • Universale – che viene ereditata, determinando quindi la programmazione mentale di base.

Hofstede (1996) definisce la cultura come una programmazione dei soggetti, una specie di software culturale, a partire dal contesto di appartenenza. In questa prospettiva, la cultura diviene il mezzo attraverso cui ogni individuo legge, interpreta e interagisce con la realtà in cui è immerso. Non si tratta di aspetti universali, ma questa programmazione assume le caratteristiche proprie delle varie culture ed è inscrivibile all’interno di quattro dimensioni: distanza dal potere; collettivismo vs individualismo; femminilità vs mascolinità; avversione all’incertezza (Hofstede, 1996).

Il fenomeno delle misure restrittive è interpretabile all’interno della seconda dimensione identificata dall’antropologo olandese, ovvero Collettivismo vs Individualismo.

The high side of this dimension, called individualism, can be defined as a preference for a loosely-knit social framework in which individuals are expected to take care of only themselves and their immediate families. Its opposite, collectivism, represents a preference for a tightly-knit framework in society in which individuals can expect their relatives or members of a particular in-group to look after them in exchange for unquestioning loyalty. A society’s position on this dimension is reflected in whether people’s self-image is defined in terms of “I” or “we”. (Wursten, 2008, p. 2)

Questi modelli culturali di riferimento vanno a determinare l’interpretazione degli eventi da parte dei soggetti, che mettono in campo un repertorio di categorie che sono preesistenti, proprio perché trasmesse dalle comunità di appartenenza.

Ciò che in Cina ha permesso la regressione del virus e la diminuzione dei casi di contagio è racchiusa proprio in questa chiave interpretativa che vede la cultura orientale come fortemente collettivista. Una cultura in cui il ben-essere e la crescita personale sono il risultato del ben-essere collettivo. Quindi, in questo caso specifico, la salute della comunità diventa un bene prioritario rispetto alle esigenze di vita individuali.

Al contrario, il Mondo “Occidentale”, caratterizzato dall’individualismo che si concretizza nel prendersi cura di sé stessi e dei familiari, diventa una chiave interpretativa di molti fenomeni come la fuga dal Nord Italia, gli spostamenti e il saccheggio dei supermercati. In questo contesto, le misure di contenimento, oltre a delle strategie necessarie per il rallentamento dei contagi, diventano, a livello psico-pedagogico, delle occasioni per ripensarsi come comunità, in quanto, l’essere comunità e l’alterità diventano le uniche certezze, in un’epoca “postmoderna” che produce individualità frammentate. La situazione di emergenza, quindi, condurrebbe ad una maggiore frammentazione dell’individualismo.

 

Fratelli e sorelle. Psicoanalisi delle relazioni laterali (2019) di Juliet Mitchell – Recensione del libro

Con questo Fratelli e sorelle Juliet Mitchell, psicoanalista e femminista britannica, affronta il tema delle relazioni tra fratelli e sorelle, soffermandosi proprio sull’importanza delle relazioni laterali, ovvero tra pari.

 

Nella storia della psicoanalisi e della psicologia, per lungo tempo gli studi si sono concentrati esclusivamente sull’asse di indagine verticale, ovvero sul rapporto tra figura genitoriale e bambino. Dal punto di vista dell’autrice l’importanza dei rapporti fraterni e/o tra pari è nota a tutti, ma collegarla alla riscontrata o potenziale patologia, alle ragioni più remote dei nostri amori e della nostra vita, all’odio e alle morti, apre un filone di ricerca molto interessante.

Nella prima parte del saggio, Julian Mitchell fornisce un’ampia analisi della storia delle relazioni laterali percorrendo il pensiero dei grandi teorici: Bowlby, Bion, Winnicott ma anche Freud e Klein, e si interroga, con tutti gli strumenti che ha a disposizione, su come mai i rapporti tra fratelli e sorelle siano spesso stati ignorati e poco considerati. La tendenza a trascurare il rapporto tra fratelli è, paradossalmente, parte dell’importanza che il mondo psicoanalitico riserva all’infanzia a discapito dell’età adulta come fase formativa dell’esperienza umana. Questa tendenza è cominciata in Occidente nel XVII secolo e da allora si è espansa fino a raggiungere la sua massima intensità nel XIX e XX secolo. Gli studiosi dei bambini però sono adulti e l’effetto è una duplicazione nelle modalità di indagine della relazione verticale genitore-bambino. Questo è particolarmente vero nell’ambito psicoanalitico, che utilizza come modalità di indagine il transfert nei confronti di un terapeuta adulto dei sentimenti che il bambino prova per i genitori. L’autrice sostiene che sia stato da sempre minimizzato l’impatto che l’arrivo di un nuovo figlio può avere sulla psiche del primogenito e viceversa.

La Mitchell porta il lettore a riflettere sulle guerre e su come, durante un combattimento, lottiamo fianco a fianco dei nostri fratelli e non dei nostri padri; sembrerebbe che la risoluzione dell’amore e dell’odio fraterni siano alla base della possibilità di uccidere qualcuno e non qualcun altro. E’ stato rilevato che durante la Prima Guerra Mondiale la lealtà fraterna tra commilitoni è un elemento imprescindibile per il successo militare. Ciò che accade tra fratelli, che siano biologici, acquisiti, o mai nati ma sempre attesi, si riproduce nel rapporto tra coetanei e compagni di gioco. I fratelli sono importanti anche per i figli unici che aspettano il loro arrivo e si chiedono cosa possa esser loro accaduto. È necessario quindi proporre un cambiamento di paradigma che metta in discussione la centralità assoluta dell’interpretazione condotta esclusivamente attraverso il paradigma madre-bambino. L’autrice sottolinea l’importanza immensa dei padri e delle madri, ma il bambino nasce in un mondo di coetanei oltre che di genitori. Sarà possibile quindi andare oltre questo schema binario tipico delle teorie psicoanalitiche occidentali? Un processo del genere porta a rianalizzare da una prospettiva differente l’isteria, la violenza, l’incesto tra fratelli così come le nevrosi e le psicosi.

Il testo è scritto utilizzando un’ampia gamma di risorse, dalle nozioni di neuropsichiatria alla psicoanalisi, dalla politica agli studi filosofici di genere, dalla narrativa ai film, all’antropologia ed è il frutto della convinzione che si debba utilizzare qualunque strumento a disposizione capace di aiutarci a creare un’immagine che dia senso all’oggetto dell’indagine. Mettere al centro dell’indagine i rapporti all’interno della fratria, determina una trasformazione del quadro che si sta osservando; una relazione fraterna consente di amare profondamente e al tempo stesso odiare la stessa persona, consente l’accesso ad una forma di aggressività che se elaborata rende possibile l’interazione sociale con i pari, esterni al nucleo familiare. I fratelli sono importanti in quanto tali e al tempo stesso centrali nel determinare le dinamiche di interazione con i coetanei. Entro un certo limite il rapporto fraterno può essere sostituito proprio dalla relazione con i pari. Tutto ciò ci consente di crescere, ci porta ad accettare il fatto di non essere unici e onnipotenti: la perdita del sé grandioso e l’accettazione di altri che sono proprio come noi. È fondamentale imparare a sopravvivere in un mondo di altre persone, l’autostima e il rispetto degli altri, ricorda l’autrice, sono due facce della stessa medaglia.

 

L’umore della madre durante la gravidanza influenza il sistema immunitario della prole?

Una ricerca pediatrica condotta dall’università di Alberta, ha riscontrato che la salute mentale della donna durante la gravidanza influisce sullo sviluppo del sistema immunitario del bambino (Kang, 2020).

 

Prima di questo studio, era già noto in letteratura che ci fosse un collegamento tra lo stato mentale della madre in gravidanza e lo sviluppo di asma e allergie nel bambino, tuttavia non era noto il meccanismo d’azione sottostante a questo processo.

Lo studio in questione è stato condotto su 1043 coppie madri-bambino; le madri hanno compilato dei questionari riguardanti il loro umore durante e dopo la gravidanza (Kang, 2020).

Successivamente sono stati misurati i livelli di immunoglobina nell’intestino dei figli, componente estremamente importante per l’immunità dell’individuo; infatti, l’immunoglobina conosciuta anche come ‘anticorpi’, è una sostanza costituita da proteine globulari che sono coinvolte nella risposta immunitaria, cioè nella lotta contro i microrganismi estranei, chiamati in campo medico ‘antigeni’. L’anticorpo non serve a distruggere l’ospite estraneo, ma a legarsi ad esso per renderlo maggiormente visibile e suscettibile all’azione degli altri attori del sistema immunitario (Cerf-Bensussan & Gaboriau-Routhiau, 2010).

L’immunoglobina si suddivide in quattro classi: A, D, E G. Lo studio riportato (Kang, 2020) ha preso in esame quella di tipo A, principalmente presente nelle secrezioni esterne (lacrime, saliva, muco intestinale, latte materno) e rappresenta un importante mezzo di difesa contro le infezioni locali (Cerf-Bensussan & Gaboriau-Routhiau, 2010).

Le madri che riportavano sintomi di depressione durante il loro terzo trimestre, avevano doppia probabilità di avere figli con bassi livelli di immunoglobina nel loro intestino, tuttavia i sintomi delle madri non erano così severi da far porre una diagnosi di depressione; inoltre non è stato trovato nessun collegamento tra bassi livelli di immunoglobina nella prole e depressione post-partum della madre.

I risultati sono stati presi in considerazione tenendo conto di quei fattori/variabili che andrebbero ad incidere sul sistema immunitario del bambino, quali, allattamento al seno e uso di antibiotici da parte delle madri (Kang, 2020).

Livelli bassi di immunoglobina negli infanti, si denotano principalmente tra il quarto e l’ottavo mese di vita, periodo che coincide con l’inizio della produzione della propria immunoglobina.

I ricercatori sottolineano l’importanza di questi risultati, dato che, bassi livelli di immunità nel bambino, lo predispongono a malattie respiratorie o infezioni gastrointestinali, così come ad asma e allergie; inoltre porta anche a elevati livelli di depressione, obesità e disturbi del sistema immunitario (Kang, 2020).

L’ipotesi sollevata dai ricercatori per spiegare l’incidenza negativa dell’umore della madre sul sistema immunitario del nascituro, si basa sull’idea che l’umore depresso porti alla produzione di cortisolo (comunemente conosciuto come l’ormone dello stress), che a sua volta si trasferisce nel feto e interferisce con la produzione di cellule che andranno a costituire l’immunoglobina dopo la nascita.

Quindi, stando a questi risultati, si delinea la necessità di fornire più supporto psicologico alle donne in gravidanza (Kang, 2020).

 

 

Albo psicologi del Lazio: requisiti e modalità di accesso

L’albo degli psicologi del Lazio annovera tutti i professionisti di che decidono di richiedere l’iscrizione all’albo per dimostrare di appartenere a questa categoria professionale. Per gli psicologi l’iscrizione all’albo è necessaria per poter legalmente esercitare in Italia, mentre per i pazienti è importante perché potranno verificare che lo psicologo a Roma al quale stanno pensando di rivolgersi abbia effettivamente il titolo per poter esercitare.

Ordine degli Psicologi: quali sono i requisiti

Sono diversi i requisiti da rispettare per potersi iscrivere all’Ordine degli Psicologi. Innanzitutto, bisogna essere un cittadino italiano o un cittadino della Comunità Europea. Va bene anche essere cittadino di un paese non UE, a patto però che nello Stato esista un rapporto di reciprocità.

Poi, è necessario dimostrare di avere la residenza in Italia. Possono iscriversi all’albo anche i cittadini italiani che risiedono all’estero, a patto che dimostrino che nel paese in cui risiedono svolgono la professione di psicologo.

Per poter entrare nell’albo degli psicologi i professionisti devono avere il titolo necessario per esercitare la professione. Non è sufficiente però la sola laurea, infatti gli psicologici che desiderano iscriversi all’ordine dovranno aver portato a termine anche un tirocinio professionale ed aver superato l’Esame di Stato, che li abiliti alla professione.

Qual è l’albo al quale ci si può iscrivere?

Gli psicologi potranno iscriversi all’Albo della regione del comune nel quale risiedono, sono domiciliati ed esercitano la professione. All’Albo degli Psicologi del Lazio sono dunque iscritti tutti i professionisti che rispettano i requisiti sopra descritti e che operano a Roma e nelle zone limitrofe.

Perché scegliere uno psicologo iscritto all’albo

Talvolta il ruolo dello psicologo, posto in relazione a quello dello psichiatra, viene sottovalutato ed alcuni pazienti che avrebbero bisogno del supporto di questo professionista non se ne avvalgono poiché non lo ritengono all’altezza di risolvere i loro problemi. Questo modo di intendere la psicologia è sbagliato, perché la pratica clinica ha chiaramente mostrato che con l’aiuto psicoterapeutico è assolutamente possibile ottenere dei benefici e risolvere alcuni conflitti interiori.

Affinché le sedute di psicoterapia possano essere efficaci è necessario però rivolgersi ad uno psicologo professionista. Per questo motivo il consiglio che viene dato a tutti i pazienti è di controllare che lo psicologo a cui ci si sta per rivolgere sia correttamente iscritto all’Albo ed abbia dunque sia il titolo di studio che tutti gli altri requisiti necessari per esercitare questa professione.

Oltre a scegliere un professionista iscritto all’Ordine, sarebbe utile fare anche una selezione tra i vari professionisti in base alle loro specializzazioni. Ci sono, ad esempio, degli psicologi specializzati nel dare supporto ai pazienti che soffrono di problemi alimentari (come bulimia e anoressia), altri invece che si occupano di pazienti con difficoltà nella sfera sessuale e così via.

Individuare il professionista più competente in base ai propri disturbi può essere una valida strategia per risolvere con più facilità il problema ed anche per ridurre il numero di sedute a quelle effettivamente necessarie, evitando di continuare la terapia senza riscontrare alcun beneficio.

Ragionamento e contesto: il problema delle 4 carte di Wason

Il ragionamento svolge un ruolo fondamentale in tutte le attività umane, da quelle cognitive, come l’apprendimento, la formazione e l’elaborazione delle conoscenze, fino ad arrivare a quelle creative e sociali. 

Caruso Fabiola – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Le inferenze sono il mezzo a cui facciamo ricorso per utilizzare il vasto bagaglio di conoscenze che abbiamo sviluppato nel corso della nostra esistenza per poterlo applicare a situazioni particolari. Quindi attraverso le inferenze si costituiscono nuove conclusioni che hanno origine dalle informazioni a nostra disposizione. Il rapporto tra ragionamento e conoscenza è ambivalente dato che, da un lato migliori sono le nostre conoscenze, più accurate sono le inferenze che possiamo trarre e quindi i risultati che possiamo ottenere. Dall’altro, le nostre conoscenze e credenze hanno il potere di interferire con il ragionamento, dando luogo ad errori e fraintendimenti. La psicologia del ragionamento individua due tipi fondamentali di inferenze:

  • Le inferenze deduttive attraverso le quali si arriva ad una conclusione che è latente, implicita, prevista nelle premesse. Si tratta di un’informazione di cui siamo già in possesso e che viene evidenziata, sottolineata, isolata dal processo deduttivo. Nelle inferenze deduttive la verità della conclusione segue necessariamente dalla verità delle premesse.
  • Le inferenze induttive, che a differenza delle prime, nella conclusione aggiungono un’informazione alle premesse.

Con la nozione di ragionamento induttivo ci si riferisce al processo di pensiero che ci consente di giungere ad una conclusione a partire da una certa evidenza. La conclusione di una inferenza induttiva, ovvero una generalizzazione non è necessariamente vera, ma possiede un certo grado di probabilità. Quindi i procedimenti induttivi di ragionamento ci consentono di arrivare a risultati accettabili, fino a quando non vengono smentiti da nuove esperienze. Solo attraverso processi deduttivi possiamo raggiungere certezze e risultati sicuri su cui fare affidamento. Nella ricerca sperimentale sul ragionamento si preferisce utilizzare compiti di tipo deduttivo invece di compiti di tipo induttivo e probabilistico, perché hanno il vantaggio di offrire soluzioni standard e verificabili logicamente.

La logica formale è un corpo di conoscenze largamente consolidato, l’oggetto che viene indagato dalla logica si può identificare con l’analisi delle regole di inferenza che si applicano quando vengono concatenate correttamente delle preposizioni che sono ritenute solo vere o solo false e sono formulate utilizzando un ristretto numero di elementi linguistici e rigorosamente precisati. Una proposizione è una qualsiasi espressione linguistica che si basa sul principio di bivalenza, ovvero può assumere uno ed un solo dei due valori di verità, il vero ed il falso. le preposizioni sono espresse dagli enunciati dichiarativi del linguaggio naturale, oppure possono essere espresse attraverso il linguaggio astratto, quello dei simboli. Le proposizioni dalle quali si trae una conclusione sono chiamate premesse, la conclusione stessa è l’ultima proposizione di un’inferenza.

Le regole di inferenza che sono state individuate dalla logica sono la regola del modus ponnens e la regola del modus tollens. Entrambe queste regole permettono di raggiungere una conclusione valida date certe premesse. La regola del modus ponnens indica che date certe premesse valide, si può giungere ad una conclusione valida se si conferma l’antecedente.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Nevica a Cortina (conferma dell’antecedente)”
  • “Claudio va a sciare (conclusione valida)”

La regola del modus tollens indica che date certe premesse valide, si può aggiungere ad una conclusione valida se viene negata la conseguenza.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Claudio non va a sciare (negazione della conseguente)”
  • “Non nevica a Cortina (conclusione valida)”

La logica ha individuato due forme di errore che si riferiscono alla cattiva esecuzione delle precedenti regole di inferenza, la fallacia della negazione dell’antecedente e la fallacia dell’affermazione della conseguente.

La fallacia della negazione dell’antecedente è un tipo di errore correlato alla regola del modus ponnens, infatti date certe premesse valide, nulla consegue dalla negazione dell’antecedente. Si è osservato che le persone sottoposte a questo tipo di inferenze, al contrario, traggono delle conclusioni non rispettando la regola del modus ponnens.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Non nevica a Cortina (negazione dell’antecedente)
  • NULLA NE CONSEGUE

La fallacia dell’affermazione della conseguente è un tipo di errore che riguarda il modus tollens ed evidenzia che date certe premesse valide nulla ne consegue all’affermazione della conseguente. Anche in questo caso le persone sottoposte a questo tipo di inferenze traggono delle conclusioni senza rispettare la regola del modus tollens.

Ad esempio: “Se nevica a Cortina (antecedente), allora Claudio va a sciare (conseguente)”

  • “Claudio va a sciare (affermazione della conseguente)”
  • NULLA NE CONSEGUE

Teorie contemporanee

Le molteplici teorie contemporanee del pensiero e del ragionamento hanno volto il loro interesse ad indagare i modi di funzionamento di queste attività mentali data la loro importanza nel determinare l’agire umano.

La teoria delle regole formali o teoria della logica mentale sostiene che esiste una logica nella mente umana, basata su un sistema interno di regole formali, anche se i suoi principi ed inferenze non corrispondono necessariamente a quelli della logica formale standard. Questa posizione rimanda al celebre Piaget, secondo il quale lo sviluppo cognitivo umano si evolve in vari stadi e si compie nell’adolescenza con I’acquisizione delle operazioni formali, risultato che si manifesta nella capacità dell’adolescente di apprendere e svolgere le operazioni matematiche ed altre operazioni astratte, incluse quelle logiche. Una formulazione particolare di questa teoria sostiene che la mente contenga sistemi di regole di inferenza in base ad una logica naturale, presuppone un sistema limitato di regole astratte di ragionamento che viene applicato inconsciamente per dedurre, nelle varie situazioni, appropriate conclusioni da un insieme di premesse.

La Teoria dei modelli mentali è una teoria del ragionamento umano formulata da Johnson Laird. Essa caratterizza il ragionamento come un processo semantico, piuttosto che sintattico, basato su procedure sistematiche dipendenti dal contenuto, utili per costruire e valutare modelli mentali delle proposizioni da cui sono derivate le conclusioni. Questi modelli rappresentano stati parziali del mondo in cui le premesse sono vere. Stando a questa teoria il ragionamento procede secondo tre stadi fondamentali. In un primo momento i soggetti formulano un modello mentale per rappresentare un possibile stato del mondo, una situazione, con le informazioni fornite dalle premesse. In seguito, i soggetti formulano una conclusione plausibile, generando una descrizione del modello che sia semanticamente informativa. Infine la conclusione può essere verificata cercando di costruire, come contro esempio, dei modelli alternativi in cui le premesse sono vere, ma la conclusione è falsa. Se nessun contro esempio di questo tipo viene trovato si può inferire che la conclusione è valida. Questa teoria sostiene che per compiere un ragionamento modus ponnens è sufficiente una rappresentazione parziale delle condizioni di verità di un enunciato condizionale (antecedente e conseguente entrambe vere), mentre per compiere un ragionamento modus tollens è necessario rendere esplicite tutte le condizioni di verità di condizionale (anche antecedente e conseguente entrambe false). La ragione per cui le situazioni in cui l’antecedente è falso non vengono rappresentate esplicitamente dipende dal fatto che le persone, per ragioni di economia cognitiva, ovvero per i limiti della memoria di lavoro, tendono a rappresentarsi in modo esplicito solo ciò che è vero e non ciò che è falso. In questo modo la teoria dei modelli mentali spiega il dato di fatto che compiere un ragionamento di tipo modus ponnens risulta più facile, diretto, rispetto ad un ragionamento di tipo modus tollens.

Le teorie sensibili al contesto adottano due approcci teorici che spiegano il ragionamento facendo esplicito riferimento al contesto ed al comportamento dei soggetti umani. Il primo è chiamato teoria degli schemi pragmatici e sostiene che ragionamento è sensibile al contesto e gli scopi e le finalità dei soggetti si pongono di realizzare sono relativi.  La teoria propone che gli esseri umani imparino a ragionare in certi contesti e formulino, a partire da tali esperienze, degli schemi pragmatici che permettono di fare astrazioni dalle situazioni specifiche, rendendo la conoscenza più generale. Gli schemi pragmatici sono attivati dal contesto e si traducono in regole che possono essere applicate per ragionare in un dominio particolare. Queste regole hanno frequentemente un carattere deontico, ovvero hanno un carattere sociale che indica ciò che si deve, si può, e non si vede, non si può, fare. Secondo questa teoria il ragionamento di tipo modus tollens risulta relativamente difficile con materiale astratto, ma può essere facilitato se viene attivato uno schema pragmatico. La forza di questa teoria sta nella sua capacità di fornire una spiegazione degli effetti del contenuto sul ragionamento. La sua debolezza, invece, consiste nella sua impossibilità di applicazione al ragionamento astratto artificiale, del quale gli esseri umani dimostrano di avere competenza, mettendolo in pratica in diverse circostanze e situazioni problematiche. Uno dei campi di applicazione più belle occupato dalla teoria degli schemi pragmatici è rappresentato dalla sperimentazione del compito di selezione di Wason, soprattutto nella formulazione deontica degli obblighi e dei permessi.

Il secondo approccio è detto delle euristiche e dei biases. In particolare con la nozione euristica e ci si riferisce alle strategie di facilitazione del processo di soluzione dei problemi, soprattutto nell’ambito della teoria della decisione. Con il termine biases si intendono gli errori sistematici commessi dai partecipanti coinvolti in una situazione decisionale o problematica. Un caso esemplare è rappresentato dall’applicazione delle euristiche della disponibilità allo studio del ragionamento induttivo e deduttivo. Kahneman e Tversky hanno dimostrato che, se si propone ad alcune persone di giudicare la probabilità di eventi, esse incorreranno in un errore sistematico nei giudizi di probabilità. Questo errore è determinato dalla facilità con cui affiorano nella mente umana istanze o esempi dell’evento che deve accadere. Pollard ha osservato che particolari informazioni vengono associate al problema da risolvere, al momento della risoluzione queste informazioni vengono recuperate dalla memoria influenzando le risposte e le reazioni delle persone. Queste informazioni inducono spesso a dei biases.

Le teorie evoluzionistiche fondano lo studio della razionalità umana sullo studio del comportamento, sottolineando che esso riflette una razionalità ecologica, ovvero sostengono una combinazione tra evoluzione e apprendimento personale che determinano un buon adattamento all’ambiente. I processi cognitivi approssimano uno standard di comportamento corretto giustificato su base normativa, che non coincide con la logica formale, perciò, i sostenitori di tale approccio ritengono che ogni teoria del ragionamento che incorpora la logica come forma di spiegazione è destinata a fallire, inclusa la teoria dei modelli mentali e quella delle regole formali. Nello studio dei dispositivi genetici che regolano l’evoluzione biologica di una specie, Charles Darwin sottolinea l’importanza della selezione naturale, intesa come un insieme di meccanismi che favoriscono la sopravvivenza e la fecondità. Darwin elaborò il noto principio della sopravvivenza del più adatto, sosteneva che il tipo genetico che ha una capacità di adattamento più elevata ha maggiore probabilità di sviluppo. La capacità di adattamento si fonda su un principio ottimista, precisamente ottenere di più con minori risorse. Ottenere di più significa essere in grado di affrontare una varietà più estesa di situazioni o di risolvere un problema in tempi più rapidi. Richiedere minori risorse significa dipendere di meno dall’ambiente che fornisce queste risorse. L’ottimismo rappresenta l’atteggiamento mentale in grado di massimizzare le ricompense e gli aspetti positivi, così come quello di minimizzare le frustrazioni e gli aspetti negativi. Il modello più noto della psicologia evoluzionistica e quello proposto dagli psicologi statunitensi Cosmides e Tooby. Secondo questi autori gli esseri umani non si avvalgono di una logica indipendente dal contesto, in quanto il ragionamento si è evoluto attraverso strategie di soluzione dei problemi dell’ambiente naturale e in particolare nell’ambiente sociale. In uno sfondo interdisciplinare la mente viene disegnata come il prodotto della selezione naturale e tutte le funzioni cognitive complesse sono il risultato di adattamenti alle pressioni dell’ambiente. La teoria evoluzionistica sviluppa il concetto di contratti sociali, nei quali le diverse parti si accordano per scambiare benefici, sono una forma di cooperazione sociale. Il controllo dei contratti sociali, determinato dall’attivazione di un modulo, è nato specificatamente dedicato alla scoperta dei potenziali imbroglioni, ovvero si devono individuare quei soggetti che possono avere ottenuto i benefici regolati dal contratto, ma senza aver pagato i relativi costi. L’esistenza di tale modulo sarebbe spiegata sulla base dei vantaggi adattivi derivanti dalla presenza di capacità mentali atte ad aumentare la probabilità della cooperazione.

Un recente sviluppo delle ricerche sul pensiero e ragionamento è dedicato all’ipotesi che le operazioni, le funzioni del ragionamento siano dovute a due distinti sistemi cognitivi. Il primo sistema, chiamato implicito, è descritto come una forma di cognizione universale condivisa da animali ed esseri umani. I suoi processi sono essenzialmente di tipo associativo e le operazioni sono rapide, parallele, automatiche ed inconsce. Il secondo sistema è detto esplicito, prerogativa della specie umana. Le sue modalità sono caratterizzate dalla lentezza e dalla sequenzialità. Esso fa esplicitamente uso del sistema centrale della memoria di lavoro e viene utilizzato durante i ragionamenti di tipo astratto e durante il pensiero ipotetico. Si ipotizza l’utilizzo del sistema implicito quando si prendono decisioni impulsive che non richiedono molta riflessione, come decidere le nostre azioni sulla base delle esperienze passate, ricordando ciò che è stato o che ha funzionato meglio per noi. Quando si simulano eventi futuri per poter progettare decisioni da prendere, si ragiona in modo ipotetico, assicurato dal sistema esplicito. Goel, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, ha ottenuto risultati sperimentali a favore del modello dualistico, differenziando a livello neurologico tra ragionamento compiuto con materiale astratto e quello eseguito con materiale concreto, formulato attraverso il linguaggio naturale. Il ragionamento basato sul contenuto ha riscontrato l’attivazione dell’emisfero temporale sinistro, mentre ragionamento con materiale astratto è risultato associato all’attivazione del sistema parietale.

All’inizio del novecento, in una fase iniziale delle ricerche psicologiche, il fatto che le persone mostrassero un profilo molto basso nell’esecuzione dei compiti sperimentali di ragionamento portò i ricercatori a concludere che gli esseri umani fossero illogici, e dunque irrazionali. Questa posizione contrastava la precedente idea di razionalità umana, quest’ultima sviluppatasi nella metà dell’800 nella tradizione filosofica aristotelica, dove ragionare ed il ragionamento erano intesi come sinonimi di logicità e razionalità. Peter Wason, negli anni che vanno dal 1960 al 1970, con le sue ricerche ha dimostrato che gli essere umani incorrono sistematicamente nel biases della conferma, essendo portati a verificare le loro ipotesi piuttosto che a falsificarle. Poiché gli errori sistematici compiuti dalle persone nei compiti sperimentali rappresentano evidenti violazioni delle regole della logica formale, Wason sostiene che gli esseri umani sono fondamentalmente non logici, non razionali nei loro comportamenti e nelle loro decisioni. Wason utilizzò nei suoi esperimenti un problema noto come il compito di selezione o compito delle quattro carte, che fa riferimento alla logica dei condizionali ed è pragmatico nella sua efficacia, per cui viene ancora impiegato diffusamente a livello sperimentale. La costruzione condizionale “se…. allora” suscita particolare interesse in psicologia perché rappresenta la forma tipica del ragionamento umano. Infatti, l’impiego da parte del parlante della congiunzione “se” implica in chi ascolta una produzione di ipotesi, si aspetta che qualche conseguenza, anticipata dalla parola “allora”, si verifichi dopo la realizzazione della condizione indotta dalla particella “se”. Attraverso gli studi che sono stati condotti sul ragionamento condizionale si è visto che le persone interpretano il condizionale come un’equivalenza. Gli studiosi ipotizzano che ciò avvenga perché nel linguaggio naturale raramente viene usata la forma “se e solo se”, ma si preferisce la più diretta “se….allora”. L’uso del connettivo “se” nel linguaggio naturale è molto più complesso del suo corrispettivo logico di implicazione materiale. Infatti, i parlanti spesso compiono inferenze condizionali considerate fallaci dalla logica.  Inoltre le implicazioni che un parlante suggerisce all’ascoltatore, mediante un enunciato condizionale, possono variare con il contesto, con le regole della conversazione e con le assunzioni tacite condivise nel dialogo. Inizialmente il celebre problema fu condotto da Wason impiegando esempi con contenuto astratto, ovvero quel materiale che non richiama la conoscenza precedente o una credenza relativa all’uso del contenuto e del contesto. Wason presentò ai partecipanti dei suoi esperimenti 4 carte:

Ragionamento e contesto il problema delle 4 carte di Wason - IMM1

Immagine 1 – Carte mostrate ai partecipanti nell’esperimento di Watson

Rese note ai partecipanti le caratteristiche di ciascuna carta, ovvero una lettera sul lato ed un numero sull’altro lato. in seguito espresse loro l’ipotesi che dovevano verificare, “Se c’è una vocale su un lato della carta, allora c’è un numero pari sull’altro lato della carta”. Poi diede le istruzioni per l’esecuzione del compito, chiese di scegliere solo quelle o quella carta che è necessario voltare per decidere se la regola è vera o è falsa. Benché il problema sembrava relativamente semplice, la soluzione viene trovata solo nel 10% dei casi. La soluzione corretta corrisponde alla scelta della carta “p” e “non q”. La carta “p” serve a verificare l’ipotesi iniziale, mentre la carta “non q” è utile a falsificare l’ipotesi, dato che se ci fosse sull’altro lato una vocale l’ipotesi sarebbe chiaramente falsa. La combinazione richiesta è una vocale, che rappresenta il valore dell’antecedente “p”, quando esso è vero, insieme ad un numero dispari, che rappresenta il valore “non q”, che si ottiene quando il conseguente “q” è falso. Per questo nell’esempio i valori disponibili per questa soluzione sono la lettera “A” (antecedente p) e il numero 7 (non q). Gli errori commessi con più frequenza sono la scelta della sola carta “p”, oppure la scelta delle carte “p” e “q”, errori che entrambi manifestano il biases della conferma. In altre parole confermano la tendenza delle persone a confermare un’ipotesi invece di smentirla. I partecipanti non comprendono il principio che conduce alla falsificazione del condizionale, cioè che è necessario voltare quelle carte in cui valori nascosti potrebbero falsificare la regola.

Sperimentazione

La sperimentazione, sottoposta a 170 studenti del liceo psicopedagogico R. Pantini della città di Vasto, comprendeva la formulazione del compito di Wason in 2 varianti. La prima variante era la presentazione del classico problema delle 4 carte di Wason; la seconda versione sottoposta agli studenti mostra il problema delle 4 carte con un contenuto concreto che implica contratti sociali.

Ragionamento e contesto il problema delle 4 carte di Wason - IMM2

Immagine 2 – Compito presentato agli studenti del liceo psicopedagogico R. Pantini

Risultati

Le risposte esatte date dagli studenti alla prima versione del compito di selezione di Wason non superano il 10%(“p” e “non q”) come sosteneva lo stesso Wason. Questa performance è determinata dalla difficoltà degli studenti a relazionarsi con il materiale astratto, difficoltà sostenuta anche attraverso le motivazioni fornite dagli stessi studenti alla fine della prova. Le risposte erronee più frequenti confermano l’errore sistematico della conferma, infatti le carte girate maggiormente erano la “p” oppure “p” e “q”. Nella seconda versione con contenuto concreto gli studenti hanno risposto esattamente al compito con una percentuale pari al 32%. Gli studenti hanno confermato con le loro motivazioni, oltre che con la performance, di non aver avuto particolari difficoltà ad elaborare il problema riducendo significativamente anche il biases della conferma. Dalle risposte fornite dagli studenti è evidente che non esistono nella mente umana delle regole di logica formale che ci portano alla corretta soluzione dei problemi. Si è potuto solo rilevare attraverso la seconda versione che ci sono delle particolari caratteristiche, come il contesto e i contratti sociali, che facilitano la risoluzione dei problemi.

 

Legame di coppia e famiglia d’origine

Osservando le caratteristiche dei legami di coppia nei romanzi dell 1800, ma anche nella vita reale, si può notare la contrapposizione tra l’adesione all’etica familiare e ai compiti generazionali e l’accesso al mondo dei sentimenti.

 

Essendo la ‘fuitina’ una scelta soggettiva, questa tende a mettere in crisi l’identità dell’intera comunità ed è quest’ultima che per paura di mettere in crisi l’ordine sociale si stringe attorno alle famiglie di origine. La celebrazione del matrimonio riparatore era un modo per riportare e riportasi all’interno del sistema culturale e sociale di appartenenza. Con tutto il rispetto per la rottura dell’imene femminile, il problema insito nella ‘fuitina’ era la messa in crisi dei meccanismi sociali che regolavano le modalità per arrivare alla nuova unione matrimoniale. La ‘fuitina’ depotenziava il potere dei genitori nella scelta dell’altro e tra l’altro esponeva l’unione matrimoniale al pathos senza tenere conto dei principi etici. Sappiamo che il pathos senza l’ethos espone il legame a tutti i capricci momentanei e, quindi, non dà garanzia di una unione duratura. Il matrimonio riparatore era il modo per inserire il pathos all’interno del contesto etico di riferimento e, quindi, dare certezza di durata al legame. ‘Nessuno osi separare ciò che Dio ha unito’ era uno dei principi su cui veniva fondata questa certezza. La perdita della verginità femminile era il modo con cui inchiodare i due trasgressori alle loro responsabilità. La donna sapeva che se rifiutava il matrimonio riparatore sarebbe passata per svergognata e difficilmente avrebbe potuto sposarsi; il maschio sarebbe diventato inaffidabile e, quindi, difficilmente avrebbe trovato una nuova compagna.

La rinascita del legame, la resurrezione del legame, avveniva con la generatività. Le ragazze, spesso, tornavano a casa incinte. Era questa la garanzia del rientro all’interno del contesto normativo di riferimento. I figli legano per sempre e contribuendo alla continuazione della specie restituiscono il dono attraverso il quale ci è stata data la vita: abbiamo ricevuto la vita e ridiamo la vita. Generare figli è la resurrezione del legame che ci ancora alla storia generativa soddisfacendo sul piano etico i principi di giustizia e lealtà: ricevere e dare la vita.

A Ragusa vi è un celebre castello che la tradizione popolare vuole intitolato proprio alla donna fuggita anche se ricerche più precise indicano che il nome di origine araba vuol dire tutt’altro. L’intitolazione di Castello di Donnafugata, per la tradizione popolare, è da riferire alla vicenda storica della regina Bianca di Navarra che dopo la morte del marito re di Sicilia Martino I, divenne reggente e regina del regno di Sicilia. Il Conte Cabrera di Ragusa la chiese in moglie e al suo rifiuto la fece rapire e rinchiudere all’interno del Castello di Donnafugata, da dove la donna riuscì a scappare con l’aiuto dei suoi servi. Da qui il nome di donna fuggita ovvero Donnafugata.

Rapire la donna scelta per costringerla ad accettare un matrimonio rifiutato era una pratica che in qualche modo era da collegare alla ‘fuitina’ anche se in questo caso si cercava di mettere la ragazza di fronte al dato di fatto, invece che i genitori. La ragazza al ritorno a casa non poteva rifiutare di sposare l’uomo che l’aveva rapita. Celebre è il rifiuto di Franca Viola, recentemente insignita dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, al matrimonio riparatore dopo il rapimento e lo stupro. Anche in questa storia sono in gioco i principi di giustizia e lealtà. Franca Viola, appena quindicenne, si fidanzò con il consenso dei genitori con Filippo Melodia, nipote di un boss mafioso. Subito dopo il fidanzamento, il Melodia fu arrestato per furto e il padre della ragazza decise di interrompere il fidanzamento. A seguito di questa decisione la famiglia Viola venne più volte minacciata, anche attraverso intimidazioni mafiose. Malgrado le minacce, la ragazza non riprese la relazione con Filippo Melodia. Non contemplando gli usi e le consuetudini mafiose, Franca, all’età di diciassette anni, venne rapita e portata in un casolare nelle campagne di Alcamo dove fu stuprata dal precedente fidanzato cercando di metterla di fronte al fatto compiuto. Dopo pochi giorni venne contattata la famiglia Viola per la ‘paciata’, la famiglia avvertì immediatamente la polizia che in un blitz liberò Franca e arrestò i colpevoli. Franca non accetto mai di aderire al matrimonio riparatore anche se sapeva benissimo che questa sua scelta poteva significare restare zitella per sempre. In una Intervista a Riccardo Vescovo, Franca ha recentemente dichiarato:

Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori.

Io credo che Franca lo abbia fatto sicuramente per i suoi sentimenti, ma è anche riuscita a resistere alla tentazione comunitaria che la spingeva verso il matrimonio riparatore, per la forte adesione ai principi etici della sua famiglia di origine. Sarebbe stata una grossa ingiustizia nei confronti del padre che aveva resistito alle tante minacce e intimidazioni mafiose.

Una mia cliente, al contrario, sempre per aderire ai principi etici della famiglia di origine, ha accettato le nozze riparatorie. Viene in terapia perché da circa due anni soffre di attacchi di panico che si manifestano con maggiore intensità all’interno della casa dei genitori e fuori di casa. Sposata, madre di tre figli, con un apparente buon rapporto con i genitori. Quando parliamo del suo matrimonio emerge che era stata rapita dal marito che l’aveva portata nella casa di campagna della sorella dove, dopo essere stata stordita con l’alcool o qualche altra sostanza, era stata violentata. Era rimasta in quella casa per una settimana dove alla fine, dopo molte insistenze, la mamma era andata a trovarla. Aveva aspettato quella visita con molte speranze ed invece la mamma le aveva comunicato che a quel punto era costretta a sposare il suo rapitore. Il marito lavorava ed ancora lavora con il suocero con il quale ha un ottimo rapporto come se fosse suo figlio. Dopo un periodo di tempo, il marito le aveva confessato che ad organizzare e a spingerlo verso il rapimento era stato proprio il padre visto che lei, a quel tempo fidanzata con un altro ragazzo, lo respingeva. La signora in terapia ammette che al marito vuole bene perché lo considera una vittima del padre, ma non sa se lo ama o meno. Esattamente due anni e mezzo prima aveva incontrato casualmente, mentre era a fare la spesa, il suo ex fidanzato che non vedeva dall’epoca del rapimento. A seguito di questo incontro si sono sentiti qualche volta per telefono nei successivi quattro mesi fino a quando l’ex non le ha chiesto un appuntamento. La Signora ha rifiutato l’appuntamento e non l’ha più sentito per telefono. Dopo un paio di mesi, ha iniziato a soffrire di attacchi di panico.

Essendo i sintomi espressione del nostro sistema emotivo non vi è dubbio che la loro comparsa sia da far risalire alla scelta in cui la mette di fronte l’incontro con l’ex fidanzato. Da un lato l’adesione all’etica familiare e ai compiti generazionali, dall’altro l’accesso al mondo dei sentimenti. Gli attacchi di panico che non le permettono di uscire di casa risolvono l’apparente conflitto tra il tradire e/o il non tradire. Nel contempo, però, essi servono ad allontanarsi dalla propria famiglia di origine e, in particolare, ad allontanare il marito dalle continue ingerenze del padre. Ella considera il marito un bravo ragazzo sotto la totale influenza del padre.

Ritornando al Castello di Donnafugata, esso è teatro di un’altra celebre ‘fuitina’ che contribuisce alla fama della sua intitolazione. Il castello fu comprato nel 1600 dalla famiglia Arezzo e nel 1800, per successione testamentaria, passò al barone Corrado Arezzo sposato con Concettina Arezzo di Trefiletti dal quale ebbe un’unica figlia, Vincenzina Arezzo. Quest’ultima si sposò con un Castello Paternò dal quale fu lasciata insieme alle due figlie Clementina e Maria. Per l’enorme dispiacere Vincenzina Arezzo cadde in depressione e da lì a poco morì a Parigi, dove si era recata per curarsi, lasciando le due figlie in custodia al padre. Maria si sposò con un nobile di Messina e morì durante il terribile terremoto del 1908. Clementina, s’invaghì di un ospite del nonno, il Visconte Combes de le Strade, con il quale tentò la fuga su un veliero dirigendosi verso l’isola dell’amore vicino Malta. Il barone Corrado Arezzo resosi conto della ‘fuitina’ della nipote, mandò il suo campiere a riprenderla. Ritornata al castello Clementina sposò il visconte, si trasferì a Parigi ed ebbe una figlia, Clara de le Strade.

Oltre alla ‘fuitina’, dalla storia della famiglia di Corrado Arezzo emerge come un regolare matrimonio approvato dalla famiglia di origine comportava terribili disgrazie. Succede alla figlia Vincenzina, lasciata dal marito e morta per la conseguente depressione, alla nipote Maria, morta insieme al marito nel terremoto di Messina. Per rompere questa terribile eredità generazionale, bisognava salvarsi attraverso un forte segnale di trasgressione come la ‘fuitina’.

Se la ‘fuitina’ serve a rompere un contesto d’imposizione, a volte ciò non è possibile per le forti pressioni delle famiglie di origine. L’amore contrastato tra Margherita e Armando Duval, in La signora delle Camelie di A. Dumas (1848), ne è un esempio. Armando si innamora della più bella cortigiana di Parigi che era la mantenuta di un duca. Con insistenza e per amore riesce a far abbandonare la sua vecchia vita a Margherita che accetta di andare a vivere con lui in campagna. La sua scelta viene fortemente contrastata dalla sua famiglia di origine che non può accettare che il figlio viva con una ex prostituta anche perché la sua scelta mette in pericolo il matrimonio della sorella, poiché la famiglia del futuro marito non avrebbe accettato il matrimonio, se lui non avesse troncato la relazione con Margherita. Armando resiste alle pressioni della famiglia di origine andando via da casa. All’improvviso viene lasciato da Margherita che riprende a fare la vecchia vita. Solo dopo la morte della cortigiana, tramite una lettera, scopre che era stato suo padre a riuscire a convincere Margherita a lasciarlo. Se ‘trasmettere discendenza’, come abbiamo detto sopra, è la resurrezione del legame, anche ‘la trasmissione dei beni e dello status è un caposaldo del familiare. Trasmettere discendenza e trasmettere eredità di beni e di status viaggiano accomunati, è questa la passione che coinvolge le famiglie’ (Cigoli, 2008).

Allo stesso modo Ourika, nell’omonimo romanzo di Claire De Duras (1823), non riesce a coronare il suo sogno d’amore per il colore della sua pelle. Il ‘frequentare il mondo dei sentimenti’ è fortemente influenzato dal contesto. Per ritornare alla libertà di scelta, dobbiamo chiederci se essa esista realmente o non sia fortemente influenzata dal contesto di riferimento. Esiste, per dirla con Botturi, un contesto che facilita la libertà?

Cigoli risponde a queste due domande con l’emergere, rispetto al pathos della relazione, di nuove forme di soggettività e cioè ‘sia l’essere soggetto alla storia, sia l’essere soggetto di storia’. Al fine di diventare protagonista della storia bisogna trasgredire e attraverso l’atto trasgressivo si costringe il contesto a cambiare.

Equilibrio Emotivo. Conoscere i messaggi delle emozioni per viverle con consapevolezza (2019) di P. Romeo – Recensione del libro

In Equilibrio Emotivo l’autore si rivolge alle persone comuni al fine di offrire loro uno sguardo altro sulle emozioni, su ciò che provano quotidianamente e su come possano sfruttarlo al meglio, nell’ottica di attuare una vera e propria crescita personale.

 

Piercarlo Romei, nel suo libro Equilibrio Emotivo. Conoscere i messaggi delle emozioni per viverle con consapevolezza, affronta uno dei temi che da sempre appassiona gli studiosi e accomuna gli esseri umani: le emozioni. Coach, formatore e imprenditore, Romei sa benissimo che la sua opera si colloca in un orizzonte di studi e teorie sulle emozioni molto vasto, difatti il suo intento non è quello di spiegare cosa siano le emozioni – seppur nel corso del suo libro ci saranno accenni a teorie scientifiche al riguardo – ma come possiamo raggiungere un equilibrio emotivo e utilizzare al meglio questo grande strumento adattativo in modo a noi funzionale.

Piercarlo Romei si rivolge dunque alle persone comuni al fine di offrire loro uno sguardo altro su ciò che provano quotidianamente e su come possano sfruttarlo al meglio.

Non solo cosa sono, ma come sono le emozioni

Conoscere qualcosa ci permette di poterne parlare, di poter avere uno sguardo obiettivo quando dobbiamo giudicare qualcosa. Ciò vale davvero anche quando proviamo un’emozione? Sapere cosa sia un’emozione, come funzioni, o quale determinata area del cervello si attiva durante la paura, non ci prepara funzionalmente a come dovremmo vivere le emozioni. Ciò a cui auspica l’autore del libro Equilibrio Emotivo è la cosiddetta “consapevolezza operativa”, un sapere che si rivela essere funzionale ai fini di un utilizzo delle nostre emozioni mirato al proprio equilibrio. Un primo importante “sapere funzionale” è che le emozioni non sono qualcosa di esterno, qualcosa che capita e ci travolge, ma esistono nella misura in cui esistiamo noi. Il lavoro che dobbiamo fare per raggiungere quindi un equilibrio emotivo è su noi stessi. La modalità con cui l’autore ci invita a lavorarci è sul prima e sul dopo un’emozione, così che poi si arriverà a saperci lavorare mentre la si sta provando. Sono lezioni queste che valgono per tutti, perché le emozioni sono un tratto evolutivo universale, come un vero e proprio linguaggio che fa parte della nostra biologia. Attraverso una semplificazione – mai banale – questo libro ha l’obiettivo di spiegarci come approcciarsi alle emozioni per arrivare ad attuare una vera e propria crescita personale.

Sento, provo… agisco

Le emozioni non si possono descrivere facilmente, sono qualcosa che si prova, soggettivo e intimo, che raramente si riesce a descrivere. Le emozioni vanno sentite, provate e con questo libro ci si pone l’intento di arrivare – dopo averle provate – a decidere come porci di fronte questo sentire in modo funzionale. Nelle emozioni, sottolinea Piercarlo Romei, i protagonisti sono corpo e mente: a cambiare, di fronte una qualsiasi emozione, è sia il nostro equilibrio corporeo che quello psichico. Legata alla variazione fisiologica c’è anche quella espressiva: il nostro volto, a contatto di un’emozione, assume una determinata espressione, anch’essa generalmente riconosciuta.

Come detto in precedenza, le emozioni da sempre sono uno strumento adattativo, ma come tale deve essere equilibrato per evitare che si inneschi in modo inopportuno. Emblematico è il paragone che il coach Romei fa tra le emozioni e il dispositivo salvavita che ognuno di noi ha in casa. Quest’ultimo è funzionale solo quando scatta nel momento di reale pericolo, altrimenti rappresenterebbe solo un ostacolo alla routine. Scopo del libro è quindi costruirsi un faro delle emozioni grazie al quale ci sia possibile tarare le reazioni che abbiamo di fronte una situazione inaspettata così da avere risposte sempre più efficaci.

Prima di arrivare a descrivere come poter costruire un nostro equilibrio emotivo, l’autore del libro fa riferimento alla teoria del cervello trino teorizzata da Paul D. McLean, secondo cui il nostro cervello è composto da tre parti. La prima parte è il cervello rettiliano che rappresenta quello istintivo che gestisce quindi i comportamenti stereotipati. Il secondo è il cervello limbico, quello intermedio che si occupa più dell’emotività dell’essere umano consentendogli di modificare il comportamento sulla base della propria esperienza. Il terzo e ultimo cervello è la neocorteccia che è quello responsabile delle funzioni cognitive dell’uomo. Questi ‘tre’ cervelli non sono separati tra loro, ma fanno parte di un’unica struttura che si influenza a vicenda manifestando così il comportamento umano. Del secondo cervello, quello limbico, fa parte l’amigdala, considerata da tutti gli studiosi il centro delle emozioni e ciò che rappresenta la memoria emozionale. Continuando a considerare il cervello suddiviso in tre parti, l’amigdala si trova ad essere scollegata dalla neocorteccia, infatti, in situazioni emotivamente molto forti, è l’amigdala a prendere il controllo al posto della neocorteccia.

Come educare il nostro «dittatore emotivo»

È nella spiegazione del modo di operare dell’amigdala che Piercarlo Romei inizia a dare consigli su come iniziare ad intraprendere un percorso teso al raggiungimento dell’equilibrio emozionale. L’amigdala viene definita dall’autore un dittatore emotivo proprio per questa caratteristica di prendere il sopravvento quando la situazione diventa insostenibile per il nostro cervello moderno. Il problema è che nell’epoca contemporanea, molte reazioni dell’amigdala non si trovano ad essere funzionali, ma esagerate e inappropriate. C’è però un aspetto positivo: l’amigdala apprende per esperienza. Che significa? Che a partire dall’esperienza possiamo educarla ad adottare il giusto comportamento a seguito di una determinata azione. Come? Imparando inizialmente a modificare il contenuto delle nostre reazioni e successivamente saremo in grado di modificare anche la nostra reazione. Per fare un esempio pratico, Romei descrive come reagire di fronte alla paura di parlare in pubblico. Il giusto equilibrio emotivo di fronte questa situazione si può raggiungere imparando a respirare lentamente prima di affrontare la platea, imparare quindi a “controllare” le nostre reazioni fisiologiche, a cui con il tempo seguirà un controllo delle nostre reazioni psicologiche. Impareremo così sempre di più a gestire situazioni di questo genere grazie anche all’esperienza e all’educazione dell’amigdala.

Imparare a leggere i messaggi delle emozioni

Le emozioni, nel corso del libro Equilibrio Emotivo, vengono definite e paragonate in molti modi, uno molto emblematico è il paragone con i postini. Le emozioni sono come dei postini che recapitano a noi destinatari determinati messaggi. Così come non possiamo scappare da una raccomandata, così non possiamo scappare da un’emozione. Più si prova ad allontanarci da un’emozione, più loro faranno chiasso per essere ascoltate. Allo stesso modo, se non comprenderemo il messaggio che ci stanno mandando, loro torneranno a presentarsi con il medesimo messaggio fino a che non lo accogliamo completamente in noi. In questa analogia, è importante sottolineare che, così come il postino non rappresenta la posta che ci consegna, allo stesso modo le nostre emozioni non rappresentano il messaggio che consegnano. È importante tenere a mente questa differenza perché rischieremo di detestare le nostre emozioni solo perché il messaggio che portano non è dei migliori. Per raggiungere un giusto equilibrio emotivo è importante che noi ci alleiamo con le emozioni, così da imparare a comprendere il loro messaggio, riuscendo a farcelo recapitare con delicatezza.

Nella seconda parte del libro Piercarlo Romei fa una carrellata delle emozioni principali descrivendone le caratteristiche e soprattutto come poter approcciarsi ad esse raggiungendo il giusto equilibrio emotivo e conseguentemente sfruttarne le caratteristiche. Tra queste emozioni c’è la paura che tra tutte si potrebbe dire quella più importante a livello di sopravvivenza, dal momento che – sottolinea Romei – ci permette di individuare fonti di pericolo e quindi salvarci. Dopo aver descritto dettagliatamente la teoria secondo cui di fronte la paura le modalità di approccio sono le 3F (flight, freeze, fight), l’autore ci indica alcuni comportamenti che possiamo adottare quando ci troviamo a vivere questa emozione. Importante è saper discriminare ciò di cui abbiamo paura, perché, come nel caso della paura di parlare in pubblico, è bene che questa venga affrontata e che non prenda il sopravvento. Sembra impossibile riuscirci, in realtà, attraverso un percorso difficile fatto di conoscenza personale, è possibile arrivare a conoscere le reazioni fisiologiche di fronte qualcosa di cui abbiamo paura e con il tempo imparare a tararle. Un esercizio di natura pratica indicato nel libro è quello di immaginare per circa mezz’ora al giorno ciò che ci fa più paura, sforzandoci di evocarne le reali sensazioni e imparare in questo modo a governarle. Importante però saper distinguere quando la paura è patologica: in quel caso è bene rivolgersi a uno psicoterapeuta specializzato.

Consigli pratici su come affrontare la tristezza e la rabbia

La tristezza è un’altra grande emozione, tra le più difficili da comprendere e con cui convivere. Così come tutte le altre emozioni, anche la tristezza ha dei messaggi da portare e dei cambiamenti fisiologici con cui dobbiamo avere a che fare. Tra tutte le emozioni questa è quella che ci lega più gli uni dagli altri. Siamo infatti sempre spinti ad avvicinarsi verso qualcuno che sta soffrendo, provando ad offrire il nostro aiuto. Tra vari consigli teorici ci sono anche dei consigli pratici, come quello di dedicarsi ad attività quali il giardinaggio che non dipende da noi e questo ci permette di comprendere come ci siano cose che prescindono dalla nostra volontà. Altro consiglio pratico, forse scontato, ma nemmeno troppo per l’epoca contemporanea, gioire delle piccole cose e circondarsi delle persone che si amano e ci amano.

Se la tristezza ci spinge ad accettare qualcosa così come è, la rabbia indica invece qualcosa che deve cambiare. Anche la rabbia ha una valenza funzionale: arrabbiati, abbiamo molta più forza mentale di quando siamo tristi. È bene dunque saper sfruttare quest’emozione a nostro vantaggio. Come? Cambiando punto di vista e modi di reagire di fronte situazioni che spesso ci attivano quest’emozione che se non controllata gioca a nostro svantaggio. Consiglio pratico per raggiungere un equilibrio emotivo con la rabbia, così come per la paura, è immaginare situazioni che sappiamo provocarci quest’emozione. L’obiettivo di questo esercizio è diventare inoffendibili, imparare quindi a non reagire esageratamente di fronte a situazioni in cui ad esempio veniamo accusati. Tutto questo non deve confondersi però nell’accettazione acritica di tutto quello che ci viene detto, ma aprirsi al dialogo e al confronto.

Emozioni ‘positive’ e come valorizzarle

Premettendo che non esistono emozioni positive e negative in sé, ma esiste la positività o negatività delle nostre azioni di fronte ad esse, nella carrellata delle emozioni principali, non si può non parlare di quelle emozioni che, per il tipo di messaggio che portano, ci lasciano una sensazione di positività: sorpresa, gioia e piacere. Importante è sorprenderci, ma saper anche sorprendere l’altro, così come è importante chiederci se un piacere per noi è davvero tale. Emblematico è l’esempio del fumo: se fumare una sigaretta ci provoca piacere, non è vero che l’atto è davvero benefico per noi. Bisogna dunque saper discriminare quello che rappresenta un vero bene per noi e ciò che non lo è. Il consiglio pratico è quindi quello di stilare una lista di ciò che ci piace e chiederci se ci procura davvero del bene. Allo stesso tempo è utile scrivere tutte quelle attività che ci provocherebbero del bene, ma che ancora non facciamo così da chiederci come poterle iniziare e trarne dunque beneficio.

L’importanza delle emozioni secondarie

Una parte del libro Equilibrio Emotivo è dedicato poi alle emozioni secondarie, altrettanto importanti nella vita quotidiana di tutti noi. Tra queste c’è ad esempio la frustrazione che nasce quando non raggiungiamo gli obiettivi prefissati. In questo caso allora dobbiamo fermarci e chiederci se l’intensità con cui ci stiamo impegnando è quella necessaria. Nel caso lo sia, è bene allora valutare un altro modo di approcciarsi per raggiungere l’obiettivo. Un’altra importante emozione secondaria è l’imbarazzo il cui messaggio è quello di sviluppare competenze che non abbiamo. Riconoscere negli altri questa emozione permette di essere più comprensivi nei riguardi di chi la prova e viceversa. Le emozioni secondarie ci spingono dunque a pretendere di più da noi e questo, nella giusta dose, rappresenta un bene per noi.

Alla ricerca dell’equilibrio emotivo: non siamo le nostre emozioni

In bilico tra il lasciar andare e il vivere intensamente un’emozione, Romei si è messo alla ricerca di un equilibrio emotivo, intendendo in questo modo la capacità di riconoscere ogni emozione e poi comprendere il messaggio che nasconde. Per raggiungere un vero equilibrio emotivo è importante crederci, perché come una profezia che si autoavvera, non riusciamo a lavorare su noi stessi se crediamo che questo sia impossibile. Se è vero infatti che non possiamo far sì che un’emozione si manifesti, allo stesso tempo è vero anche che possiamo agire anziché reagire di fronte un’emozione. Romei sottolinea che raggiungere un equilibrio non è affatto semplice, ma questo non vuol dire che sia impossibile. Ci suggerisce che è bene iniziare a lavorare sul suo raggiungimento quando non si è dentro una tempesta emotiva, altrimenti la nostra lucidità sarebbe sicuramente influenzata dalle variazioni psicologiche vissute durante l’emozione.

A questo proposito è importante sottolineare un altro concetto espresso da Romei: dobbiamo imparare a parlare delle emozioni con il giusto linguaggio per arrivare al raggiungimento di un equilibrio emotivo. In questo senso, noi non siamo le nostre emozioni, noi le proviamo. Le emozioni passano attraverso di noi e questo in qualche modo ci rende liberi.

Piercarlo Romei infine ci ricorda che noi siamo responsabili nei confronti delle emozioni e che quando questa passa è bene apprendere quanto vissuto così da velocizzarne il nostro cosiddetto apprendimento emotivo.

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