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Gli atteggiamenti verso l’eutanasia

L’eutanasia è sempre stata una questione molto dibattuta, oggetto di discussioni e riflessioni. Questo tema ha una grande importanza morale, sociale e giuridica. Quali sono i fattori che concorrono nell’orientare l’atteggiamento verso questa pratica?

 

Introduzione

Per eutanasia si intende qualsiasi pratica volta a porre fine alla vita di un individuo, la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Il termine viene dal greco “buona morte” e, nella pratica, indica semplicemente un modo per aiutare a morire in modo indolore persone che ritengono che la qualità della loro vita sia inaccettabile a causa di un malessere fisico o psicologico di grave entità.

Si tratta di un argomento molto discusso e combattuto, c’è chi è favorevole e chi è contrario. La diversità di opinioni ha reso rilevante l’analisi degli atteggiamenti collegati a questo tema. Infatti, gli atteggiamenti nei confronti dell’eutanasia sono importanti dal punto di vista sociale, in quanto si presentano in stretta relazione con il tipo di società e cultura proprie dell’epoca. L’eutanasia è un argomento molto discusso a livello sociale, anche perché riflette un conflitto giuridico: in molti Paesi i cittadini fanno domanda di legalizzazione e in altrettanti viene rigettata questa possibilità. Ricordiamo quindi che, per quanto riguarda l’Europa, l’eutanasia è legale solo in Olanda, Lussemburgo e Belgio.

Analizzando gli atteggiamenti verso l’eutanasia, bisogna anche considerare l’individuo che detiene questi atteggiamenti. Sono state riscontrate, infatti, differenze tra atteggiamenti di medici, infermieri e familiari, vale a dire le persone più coinvolte nella decisione e nella pratica dell’eutanasia o, comunque, quelle più a stretto contatto con essa e con i pazienti che la richiedono (Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout, & Heintz, 2003; Vézina-Im, Lavoie, Krol & Olivier-D’Avignon, 2014). E’ necessario anche valutare i fattori che influenzano la formazione di un atteggiamento positivo o negativo verso questo delicato tema, tra cui troviamo le caratteristiche socio-demografiche, il paese di appartenenza e la religione (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019; Swarte, Van Der Lee, van der Bom, Van Den Bout & Heintz, 2003).

Oltre a questi fattori si considera, nell’analisi della formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia, il ruolo della persuasione, attuata attraverso i mass media, che fa leva sulle credenze etiche e morali dell’individuo. Infatti, come sostiene il modello di probabilità dell’elaborazione di Petty e Cacioppo (1983), un individuo è motivato ad elaborare il messaggio persuasivo quando esso porta ad un cambiamento di atteggiamento corretto (Maio, Haddock & Verplanken, 2018).

Discussione

Per quanto riguarda gli atteggiamenti verso l’eutanasia delle persone coinvolte in questa pratica, bisogna considerare le figure dei medici e delle infermiere, che sono coloro a cui viene spesso fatta la richiesta diretta di morte da parte dei pazienti. Queste figure non sono particolarmente influenzate da fattori come la religione, le credenze sulle conseguenze, il ruolo o le norme morali, ma risultano avere un atteggiamento più favorevole alla pratica dell’eutanasia quando si tratta di pazienti con breve aspettativa di vita, senza sintomi depressivi e che hanno posto una richiesta esplicita di morte (Vézina-Im et al., 2014). Inoltre, risulta che i medici sono influenzati anche da ulteriori fattori individuali, come il settore medico in cui praticano, il numero di pazienti terminale che si sono trovati a curare negli ultimi 12 mesi e gli anni di esperienza; per cui, chi si trova in un reparto con più di 12 pazienti terminali all’anno ed ha più di 6 anni di esperienza lavorativa ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia (Miccinesi et al., 2005; Vézina-Im et al., 2014). Al contrario, per quanto riguarda gli infermieri, gli anni di esperienza hanno un’influenza nella direzione inversa del continuum valutativo dell’atteggiamento, infatti, infermieri con più di 6 anni di esperienza mostrano atteggiamenti più favorevoli verso l’eutanasia (Vézina-Im et al., 2014).

Per quanto riguarda i familiari, è stato svolto uno studio in cui risulta che i familiari di pazienti affetti da cancro morti attraverso l’eutanasia mostrano in modo significativo meno sintomi traumatici, sentimenti di dolore e reazioni da stress post-traumatico rispetto ai familiari di pazienti morti per cause naturali. Questo effetto viene attribuito al fatto di avere la possibilità di salutare il proprio caro, così da poter accettare la situazione in modo più sereno (Swarte et al., 2003).

Trattando gli atteggiamenti è importante analizzare quali sono i fattori che ne influenzano la direzione e la forza; per quanto riguarda la formazione degli atteggiamenti verso l’eutanasia essa risulta influenzata dalla religione, dalle caratteristiche socio-demografiche e dal paese di appartenenza.

Infatti, una delle ragioni di tensioni e conflitti tra credenti, atei e gruppi religiosi riguarda la questione di chi abbia la legittimità di stabilire la fine dell’esistenza; in quest’ambito si possono differenziare i vari tipi di religioni e le varie credenze individuali rispetto ai dogmi della propria religione. All’interno del cristianesimo la chiesa cattolica e ortodossa si pongono nettamente contro l’eutanasia, mentre i protestanti sono più favorevoli; per quanto riguarda il buddismo, esso accetta l’eutanasia in casi particolati (Shin, Lee, Kim, Nam & Seh, 1995). Anche la frequenza con cui ci si reca in chiesa e l’interpretazione della Bibbia influenzano la formazione degli atteggiamenti; infatti, da uno studio di Sharp (2019) risulta che chi pratica con frequenza e ritiene che la Bibbia sia la reale parola di Dio, e non solo un’ispirazione ad essa, ha un atteggiamento più negativo verso l’eutanasia.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche socio-demografiche, si analizza l’età, il genere, l’etnia e il livello di scolarizzazione. Risulta che l’età ha una correlazione inversa con la positività dell’atteggiamento verso l’eutanasia, che le donne sono meno favorevoli degli uomini, che le persone di colore hanno un atteggiamento più negativo rispetto ai caucasici e che il livello di scolarizzazione è direttamente proporzionale alla positività dell’atteggiamento (Miccinesi et al., 2005; Sharp, 2019).

L’influenza del paese di appartenenza nella formazione dell’atteggiamento è importante sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista culturale. In un progetto collaborativo europeo, EURELD, vengono misurati gli atteggiamenti verso l’eutanasia di medici del Belgio, Danimarca, Italia, Olanda, Svizzera e Svezia. Risulta che l’Italia è il paese più conservativo, seguito dalla Svezia; l’Olanda è il paese che più supporta l’eutanasia, seguito dal Belgio; la Danimarca e la Svizzera si trovano ad avere un atteggiamento tra i due estremi (Miccinesi et al., 2005). Tenendo conto che lo studio è stato fatto nel 2005 (quando ancora l’eutanasia non era legale in nessun paese europeo, ma si erano solo presentate delle proposte riguardo la legalizzazione in Olanda e Belgio), i risultati dello studio portano a concludere che il paese di appartenenza sia un forte predittore dell’atteggiamento per quanto riguarda i suoi aspetti culturali e sociali al di là della situazione legislativa.

Infine, è stato analizzato il ruolo della persuasione, date le varie campagne promozionali a favore o contro la legalizzazione dell’eutanasia. Essendo l’eutanasia una questione morale risulta importante che nel messaggio persuasivo sia sottolineata la correttezza dell’atteggiamento, che risulta essere basilare per la motivazione all’elaborazione del messaggio (Petty e Cacioppo, 1983).

D’Aprile e Pensieri (2018) hanno voluto analizzare come sono stati riportati i dati relativi alla vicenda di Dj Fabo, andato in Svizzera per ottenere un suicidio assistito, concludendo che:

In molte testate giornalistiche si è creato un forte impatto emotivo attraverso l’uso prevalente di alcune parole, passando dall’analisi oggettiva della morte realizzata con un suicidio assistito al vissuto di un sentimento di pietà e di solidarietà, in questo modo è venuta meno la possibilità di una valutazione etica di ciò che si definisce eutanasia.

Si può quindi notare come la trasmissione delle notizie possa influenzare gli atteggiamenti, quando vengono usate tecniche persuasive; in questo caso riferito da D’Aprile e Pensieri viene usato il principio secondo cui appelli persuasivi che si focalizzano sulla componente (cognitiva, emotiva o comportamentale) dominante del contenuto dell’atteggiamento hanno un’influenza maggiore nel cambiamento dell’atteggiamento (Maio, Haddock & Verplanken, 2018), infatti essendo l’atteggiamento verso l’eutanasia di base emotiva sono state usate parole nei titoli di giornale, riguardanti la questione, che provocassero un forte impatto emotivo.

Conclusione

L’eutanasia risulta quindi essere una questione molto dibattuta e di importanza morale e giuridica, su cui le persone si formano atteggiamenti molto diversi. Questa diversità degli atteggiamenti è data, a livello individuale, sia dalla rilevanza personale che assume questo argomento, sia da fattori socio-demografici come l’etnia, l’età, il genere e la scolarizzazione; risulta esserci una diversità di atteggiamento anche in base alla cultura e alla società di appartenenza. Infine, è risultato che si ha un forte impatto dei mass media sulla formazione e cambiamento degli atteggiamenti verso l’eutanasia.

 

La violenza spettacolarizzata. Il crimine e l’impatto psicologico della comunicazione (2019) di C. Dambone – Recensione

La violenza spettacolarizzata offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo dal significato di comunicazione e persuasione e proseguendo con la descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

 

Zac Efron era l’idolo delle mie sorelle quando era il bel Troy in High School Musical. Era un divo, una star. Uno di quegli amori adolescenziali che ti porti dietro per anni. Per il film del 2019 sul criminale Ted Bundy, che uccise circa 30 donne, scelsero lui per interpretarlo. Critiche e polemiche sul web: è troppo bello, troppo affascinante, era il ragazzo che ogni bambina desiderava. La sua bellezza poteva offuscare le atrocità avvenute. Si potevano confondere le menti degli spettatori. Effettivamente Bundy incantò il pubblico e, non a caso, in Italia il film è stato intitolato Ted Bundy fascino criminale. Ma oggi, secondo le opinioni di molti, quel criminale non doveva affascinare. Bundy doveva essere riconosciuto come mostro. E i mostri si sa, non possono essere belli. Il pubblico non deve essere attratto dal male, deve averne paura.

I mezzi di comunicazione possono incentivare o meno un pensiero, direzionare opinioni e azioni, creare false aspettative e, non ultimo, instillare o meno paure. Dietro questi strumenti ci sono persone esperte del settore nel creare ciò che la committenza richiede: “il pubblico deve temere questo personaggio”, “le persone devono credere a questa determinata cosa” e così via.

Il testo di Dambone, La violenza spettacolarizzata, ci offre un’analisi dei processi comunicativi utilizzati per eventi riguardanti la criminalità. L’autore introduce le sue riflessioni partendo da un’analisi sul significato di comunicazione e persuasione, proseguendo poi alla descrizione dettagliata di diverse problematiche legate alla violenza agita e subita.

Il libro vuole restituire una spiegazione documentata di come stanno “realmente” le cose, scardinando pregiudizi e false informazioni su tematiche quali lo stalking, il femminicidio, la devianza minorile.

Lo stalking è quello rappresentato dalla serie You?  Il bullismo o cyberbullismo è ben descritto in Tredici? Il lavoro sulle prove scientifiche è simile a ciò che fanno gli agenti di CSI – scena del crimine? Gli immigrati nei centri di accoglienza quanto denaro prendono effettivamente al giorno?

Leggendo il capitolo sull’immigrazione mi sono ricordata di una serata a cena con conoscenti. Avevamo preso il discorso (delicato) sugli immigrati in Italia e sul loro “costo”. Si parlava dei famosi 35 euro giornalieri, cifra che ogni tanto gira sui social e simili. Ho cercato invano di smontare le informazioni errate su cui un commensale si era accanito, ma non c’è stato nulla da fare. Eppure ho lavorato in una casa famiglia per anni. A quanto pare in quella occasione non ricoprivo il ruolo di opinion leader. In effetti non ero portatrice di un messaggio dei media, ma testimone reale di un fatto. Il mio interlocutore parlava di una realtà non vissuta in prima persona, ma le sue convinzioni erano così radicate da non essere scalfite da un’informazione veritiera e non mediata. È proprio vero: tv “cattiva maestra”.

Il testo di Dambone ci aiuta a riflettere ampliando la nostra capacità di discernimento. Ci spiega come vengono ripartiti questi 35 euro, si sofferma a raccontare la storia della criminalità mafiosa e poi, nello stesso modo puntuale, ci spiega cosa sentono gli adolescenti e a quali pericoli sono esposti.

Capitolo interessantissimo è quello sulla vendetta e il perdono. Per-donare significa offrire un dono enorme: restituire la vita. Il perdono può ricreare relazioni, può placare i tormenti di entrambe le parti, vittima e carnefice, restituisce la pace necessaria ad andare avanti. Perdonare non significa dimenticare o giustificare, ma essere liberi.

E la libertà ci è offerta anche dalla conoscenza. L’ignoranza e la mancanza di interesse nello studiare e comprendere determinate dinamiche e persone fa sì che i media abbiano più presa sulle nostre menti. Le cose non sono sempre così lineari come spesso vogliono farci credere.

Davanti ad un piatto di paccheri al ragù bianco e carciofi i miei amici, all’unisono, mi dicono: “ma dai Ele c’è la carne, che vuoi metterci? Vino rosso, ovvio!”. E invece, quelle che sembravano certezze, possono vacillare. Capisci che dietro ad un semplice abbinamento cibo-vino c’è un mondo di riflessioni e studio analitico. La tendenza dolce del carciofo e la grassezza della carne vogliono un vino fresco (in termini di acidi percepiti) ma anche sapido; inoltre è necessario un vino con una buona persistenza gusto-olfattiva per l’aromaticità e la speziatura del cibo, ma anche con una buona alcolicità per smorzare l’eventuale untuosità del piatto. E viene fuori un Frascati Superiore Riserva DOCG. Un bianco. Che scoperta magnifica. I tannini del vino rosso avrebbero aumentato la sensazione amaricante del carciofo, spesso spiacevole in bocca. Il sapere ha “salvato” la serata.

Quante cose su cui riflettere per un pranzo, no? Immaginate per tematiche più serie. Immaginate per un caso di femminicidio, per abusi sui minori, per la violenza nelle scuole. Immaginate di voler comprendere cosa sia successo, immaginate di dover capire come prevenire eventuali problemi o come gestirli quando presenti. È sufficiente vedere qualche programma TV? Leggere un unico punto di vista? Sentire l’opinione del primo politico di turno?

Il testo di Dambone può essere un buon punto di partenza per informarci e mettere in discussione il nostro sapere. Regalandoci un quadro generale, chiaro e semplice, ci aiuta a non farci più confondere da quelle che sembrano verità assolute sul tema della violenza e ci permette di riflettere per filtrare in modo adeguato ciò che ascoltiamo e vediamo. Ponderiamo e mettiamo in dubbio per non farci più ingannare dalle “faccia da bravo ragazzo” e dal fascino intramontabile dei divi di Hollywood.

 

Il pregiudizio in Italia sulle coppie genitoriali dello stesso sesso: uno studio esplorativo

Il ‘same-sex parenting’ si riferisce sia a quelle situazioni familiari nelle quali è presente un solo genitore omosessuale sia a quelle in cui vi siano due genitori dello stesso sesso all’interno dell’unità familiare (Eleutereri et al. 2012).

 

Recentemente, diversi studi sull’omogenitorialità hanno dimostrato che non ci sono differenze rilevanti nello sviluppo e nella crescita dei figli di coppie omosessuali rispetto ai bambini allevati da coppie eterosessuali (Qu et al. 2016) e che l’identità sessuale di questi ultimi non è condizionata dall’orientamento genitoriale (Knight et al. 2017). Anche gli studi effettuati per valutare il benessere psicologico dei figli di coppie omosessuali hanno evidenziato che non sussistono sostanziali differenze rispetto alle famiglie con genitori eterosessuali (Gartell et al., 2005; Patterson, 2006) e che l’orientamento sessuale non influenza le capacità genitoriali (Pacilli & Taurino 2009).

Nel panorama italiano stiamo vivendo una fase di cambiamento sulla regolamentazione legale delle coppie genitoriali dello stesso sesso. Seppur attualmente vi siano sentenze che non riconoscono un bambino con due padri (sentenza della Corte di cassazione 12193), altre sentenze giudicano ‘mero pregiudizio’ affermare che un figlio non possa essere cresciuto da genitori omosessuali (sentenza della Corte numero 601). Nonostante l’aria del cambiamento, l’Italia è tutt’ora ancorata a una visione più tradizionale della famiglia, visione dovuta anche all’influenza del pensiero cattolico nel nostro paese: la visione della famiglia e la visione della coppia omosessuale sono ancora due concetti ben distinti nella mentalità italiana (Iudici et al., 2020).

Lo scopo del presente studio era quello di esplorare, in questo periodo di cambiamenti, quali fossero i principali pregiudizi degli italiani sulle famiglie composte da genitori dello stesso sesso e sulle difficoltà affrontate da questi ultimi.

La ricerca è stata condotta tramite l’analisi qualitativa, precisamente utilizzando la tecnica dell’analisi del discorso che si concentra sia su come viene prodotto un testo sia sul punto di vista di colui che lo produce (Bolasco, 1999). Il focus di questo tipo di analisi, nel caso della ricerca in questione, è stato posto sull’interazione tra coloro che avanzano pregiudizi e coloro ne erano ‘vittima’, e sul tentativo di inquadrarle all’interno della cornice storico-culturale italiana.

Sono stati presi in considerazione 88 soggetti omosessuali (51 donne e 37 uomini) tutti facenti parte di una famiglia con almeno un figlio; quattro di loro avevano figli da precedenti relazioni, cresciuti però all’interno della coppia omosessuale, gli altri erano ricorsi alla fecondazione assistita. A tutti loro sono state poste 11 domande incentrate sulla loro vita familiare, sulle difficoltà che avevano incontrato e sui pregiudizi dei quali erano stati vittime. Alcuni esempi di domande erano: ‘Come genitore omosessuale, ci sono delle difficoltà specifiche che hai dovuto affrontare? Se è così, puoi descrivile?’, ‘Come genitore omosessuale, ci sono pregiudizi con cui sei stato confrontato o che pensi possano verificarsi? In tal caso, puoi descriverli?’, ‘Come hai comunicato o come comunicheresti a tuo figlio le differenze di orientamento sessuale?’ (Iudici et al., 2020).

Partendo dalle precedenti domande e analizzando i testi prodotti dalle trascrizioni delle risposte, i ricercatori hanno individuato i principali pregiudizi e le difficoltà riscontrate.

Per quanto riguarda le frasi pregiudizievoli, esse erano rivolte in particolar modo alle differenze con le famiglie più normative (‘Chi si occupa delle faccende da uomo o da donna?’ ‘Se non sei la madre/il padre biologico non sei un vero genitore’) provenienti soprattutto dagli ambienti ecclesiastici e scolastici. Prendendo in considerazione le difficoltà di essere genitori omosessuali, le due aree maggiormente evidenziate erano la difficoltà della mancata accettazione da parte della famiglia di origine e l’impossibilità di essere riconosciuti legalmente come una famiglia (in quanto uno dei due genitori non può essere considerato tale).

Per il rapporto con i figli, ovvero spiegar loro la natura del rapporto genitoriale e come sono venuti al mondo, la maggior parte dei genitori usava libri illustrati o storie personalizzate per bambini dove i protagonisti erano anch’essi facenti parte di una famiglia con genitori dello stesso sesso (Iudici et al., 2020).

I genitori intervistati, hanno più volte interagito con famiglie ‘tradizionali’ scettiche, con maestri e professori poco preparati ad avere nelle loro classi bambini con genitori omosessuali e, talvolta, anche con datori di lavoro giudicanti. Molti di loro hanno riportato che il miglior modo di combattere questi pregiudizi è essere aperti al dialogo e sforzarsi di spostare l’attenzione delle persone, più che sull’orientamento sessuale, sulle capacità genitoriali degli adulti di famiglia.

In conclusione, il nostro paese è ancora ben lontano dal considerare le coppie di genitori omosessuali tanto famiglia quanto quelle con genitori eterosessuali. Tuttavia, gli autori sottolineano come, tramite il dialogo e la progressiva confutazione di pregiudizi e luoghi comuni riguardanti l’omogenitorialità, si possa procedere verso una più moderna e aperta visione della famiglia (Iudici et al., 2020).

 

Care colleghe e colleghi, care allieve e allievi

Questa è una bizzarra newsletter che vi scrivo chiusa in casa. L’impensabile solo due mesi fa è arrivato e occorre affrontarlo con rigore e serietà.  Mi sembra che la società e le persone stiano reagendo nel modo giusto (passeggio sola la sera con i cani e non si vedono più persone intorno a parte i ragazzi di Deliveroo in bicicletta con le lucine che viaggiano solitarie nelle strade, gli unici testimoni di una città deserta).

Noi stiamo facendo sforzi tremendi per trasportare la maggior parte delle lezioni a distanza. Questo ha comportato un grande lavoro del coordinamento, della organizzazione e delle segreterie delle scuole, dell’informatico consulente, ma anche di tutti, didatti e codidatti che si sono visti catapultare in un mondo zoom non del tutto naturale da affrontare. Per alcuni, i più informatizzati, il salto è stato impegnativo ma piccolo, per altri è stato un salto grande e ignoto, e di questo con grande gratitudine e affetto li ringrazio.

E voi state affrontando questa modalità di fare lezione con coraggio e fiducia, i giudizi della lezione sperimentale di Giovanni Maria Ruggiero sono stati rassicuranti. Anche questo è motivo per me di gratitudine e stima verso tutti voi.

Alcune lezioni che non possiamo fare in questa modalità a distanza verranno certamente recuperate tra la prima metà di luglio e la prima metà settembre. Quando il mondo sarà andato avanti e avremo, spero, lasciato il coronavirus indietro.

Il futuro, come sempre quando incontriamo grandi intoppi, sarà un po’ diverso, avremo, alcuni di voi, affrontato nella famiglia timori o malattia, avremo imparato cose nuove, sperimentato programmi nuovi e modi di comunicare imprevedibili, certamente ci saremo arricchiti di informazioni, tenuta emotiva nelle nostre case, fiducia in noi stessi e capacità di affrontare l’ignoto. Esperienze nuove e timori affrontati con coraggio.

Ma soprattutto ci verranno nuove idee sul futuro perché un presente difficile, per mia esperienza, porta sempre nuove idee e nuove sperimentazioni per il futuro.

Vi saluto e vi auguro il primo di una breve ma intensa quantità di weekend con lezioni a distanza, ma non distanti dal progetto formativo che si sta costruendo insieme.

Un saluto a tutti

Sandra Sassaroli

Direttore di Studi Cogniivi

Il corpo in psicologia: riflessioni sull’unità corpo-mente-relazione

Il corpo oggi è al centro della scena del mondo che abitiamo costituendo la base materiale e sociale della nostra esistenza, in quanto luogo dove emerge la nostra soggettività e dove si vanno tessendo le trame della nostra esperienza.

 

Paradossalmente più l’attuale realtà ci offre mezzi per ‘dissociarci’ in qualche modo dal nostro corpo, vedi le dinamiche relative alla vita in rete, specie quella dei social network, più si producono discorsi sull’importanza dello stesso e della comunicazione face to face o, meglio, ‘corpo a corpo’. I social network sono un attuale mezzo di comunicazione che certo offre molti vantaggi, ma tra gli svantaggi che presenta vi è la perdita della relazione e comunicazione ‘vis  vis’.

Questa riflessione è protesa alla caratterizzazione dei significati del corpo, inteso come oggetto complesso ed eterogeneo che articola diversi regimi di senso. Mi riferirò al corpo vivo, organico e attivo per mezzo dell’azione e del movimento: un corpo che agisce, pensa e sente entrando in relazione con altri corpi. Un corpo quindi in perenne trasformazione, per mezzo della relazione con l’ambiente, fisico e sociale. Il mio sguardo sul corpo farà rifermento a tale entità concepita come generatore, interprete e mezzo attraverso cui circola il significato dell’esperienza, la quale, come è ormai risaputo, non sempre è traducibile in termini verbali. Infatti buona parte del ‘saper fare’ si configura come una sorta di conoscenza implicita, un saper fare del corpo che difficilmente si può tradurre verbalmente. Allo stesso modo il resoconto verbale dell’esperienza necessita del non verbale, quindi corporeo, affinché se ne comprenda il senso reale. E’ assodato infatti che la comunicazione non verbale costituisca la sostanza dell’atto comunicativo. Ma per analizzare i significati del corpo bisogna fare i conti con la sua particolare condizione di ‘terra di confine’, che divide e congiunge il mondo interno dal mondo esterno. Questa dimensione del corpo non si riferisce soltanto all’entità corporea in senso stretto in quanto ‘limen’ (in Fisiologia, Psicologia e Psicofisica indica una soglia di risposta entro cui uno stimolo è percettibile; in questo caso è inteso come ‘linea di confine’), ma sopratutto all’ambivalenza, che necessita di una visione dialettica, tra gli stessi significati cui il corpo rimanda. Per spiegare quest’ultimo concetto, mi rifaccio all’Unheimlich Freudiano (1919). Nel saggio Il Perturbante infatti Freud (1919) utilizza questo termine per descrivere qualcosa che ci riguarda da vicino ma che al contempo turba, negandosi ad ogni possibilità di essere definito e compreso. Da una parte, Heim si riferisce a qualcosa di familiare, intimo e confortevole, dall’altra però indica qualcosa di inatteso e nascosto (Freud, 1919). La cosa interessante è che la seconda accezione di Heimlich combacia con il significato del suo negativo, cioè dell’Unheimlich. Heimlich è quindi un termine tanto ambivalente che finisce col coincidere col suo contrario: Unheimlich, con il quale si intende il vissuto di inquietudine dovuta all’incontro con ciò che è estraneo, che diventa turbamento ed angoscia in quanto appartiene al contempo alla sfera intima.

A partire da quest’ultima analisi dunque Freud (1919) osservava che perturbante appariva ciò che costituiva un ritorno del rimosso, e cioè di qualcosa di dimenticato che riaffiora, e dunque di un inconsueto che riappare dopo la cancellazione di qualcosa che era noto, che aveva turbato nell’infanzia. Coerentemente coi suoi principi teorici, Freud (1919) faceva risalire il rimosso individuale a timori riguardanti la sfera sessuale e in particolare il timore dell’evirazione, e non a caso citava come eventi perturbanti situazioni come membra staccate dal corpo, teste mozze o piedi che danzano da soli. E’ interessante notare come Freud (1919) concepisca questo termine e a cosa lo accosti. Tuttavia vedremo in seguito che in realtà lo stesso Unheimlich freudiano viene utilizzato in questo lavoro come espressione di manifestazioni inconsce, ma appartenenti all’Inconscio non rimosso.

Trovo questo concetto calzante in riferimento al corpo ed alla sua natura complessa che lo vede in stretta interdipendenza con la psiche. E’ interessante notare come concependo il corpo a partire da questa visione, si sgretolino in principio i presupposti di una logica dicotomica riduzionista e meccanicista nel tentativo di comprenderlo. Esplorare i significati del corpo infatti esige un pensiero complesso e dinamico. Entrando nel vivo di questa complessità possiamo notare come il corpo non possa essere concepito né in senso assoluto quale ‘cosa naturale’ né solamente come costruito ed investito di senso in relazione al contesto in cui è inserito. Certamente, come premesso, sarà fondamentale in questa riflessione l’aspetto relazionale, che credo funga da link tra una visione più ‘ontologizzante’ del corpo e una costruttivista. Ontologia vuol dire scienza dell’ente, scienza dell’esistente; il termine deriva dal greco οντος, òntos e da λόγος, lògos (discorso), quindi letteralmente significa ‘discorso sull’essere’.

Ontologizzare il corpo vuol dire affermare che esso esiste in modo oggettivo, cioè indipendentemente dal fatto che qualcuno ne costruisca il significato a partire da uno specifico sguardo o per mezzo dell’esperienza nel mondo; quindi il rischio di tale approccio è proprio quello di cercare di definire il corpo in quanto unità avulsa dal contesto e dalle relazioni che intrattiene necessariamente con gli altri corpi. D’altro canto avere una visione strettamente costruttivista, potrebbe indurci a dimenticare che esso è anche materia, dunque che è massa, che occupa uno spazio, ha un tempo, e delle caratteristiche specifiche che sarebbe surreale non considerare per certi aspetti oggettive.

Con visione costruttivista si fa riferimento a una posizione filosofica e epistemologica che considera la nostra rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo. Foucault è uno dei maggiori esponenti della visione costruttivista del corpo; Le opere dove questo tema assume maggiore centralità sono: Naissance de la Clinique (1963), Surveiller et punir (1975) e Histoire de la sexualité (1976).

Il corpo è senza dubbio generatore di senso, ma non bisogna mai dimenticare che possiede una certa fisicità, che ne determina la materia. Come premesso è attraverso uno sguardo relazionale che queste due visioni si incontrano senza scontrarsi, contribuendo ad una comprensione che rende giustizia alla complessa realtà che ci accingiamo a spiegare. Ed è partendo da tale presupposto che il corpo deve essere oggetto di studi psicologici tanto quanto la mente. L’individuo deve essere concepito come Unicum, cioè unità indissolubile mente-corpo-relazione, che peraltro sono in rapporto di interdipendenza.

La gravidanza è l’esempio più immediato e vivido di questo importante concetto: il corpo della donna diventa contenitore di un altro corpo (contenuto), che può crescere e svilupparsi solo per mezzo di una relazione psicobiologica. Certo la gravidanza è l’esempio più vivido dell’unicum corpo-mente-relazione, ma la stretta interdipendenza tra questi tre elementi resta indiscussa per tutto l’arco della vita. Sulla scia di questa immagine e sulla base della consapevolezza che la psiche nasce dal corpo per mezzo di una relazione primaria sana e funzionale a dar senso all’esperienza, è possibile affermare che il corpo sia il luogo dove si sovrappongono le determinanti biologiche, psicologiche e relazionali dell’individuo. Tali determinanti nella loro costante interazione partecipano alla strutturazione della soggettività. Il corpo non cela nulla, ci permette di esprimere l’inesprimibile e dice di noi ciò che vorremmo nascondere. Attraverso un rossore improvviso, lo stress, i sintomi che produce come campanello di allarme e tanti altri segnali, ci costringe a comunicare, ricordandoci che ‘Non si può non comunicare’ – I Assioma della comunicazione (Watzlawick et al., 1972).

Il corpo pertanto si configura così come veicolo principe della comunicazione. Corpo dunque non solo come laboratorio di significati, ma anche come conduttore degli stessi al di là del verbale. In definitiva corpo, come afferma Marsciani (2008), quale ‘luogo delle trasformazioni’.

Questo l’aspetto più teorico di un corpo che concretamente vive e attua le sue funzioni attraverso un corrispettivo neurobiologico dato dall’ormai assodata scoperta che il Sistema Nervoso, il Sistema Endocrino e il Sistema Immunitario siano in rapporto di stretta interdipendenza e in perenne comunicazione. La regia di questa comunicazione è condotta dalle emozioni, presenti e agenti tanto nella mente quanto nel corpo appunto. Alla luce di ciò, considerando che dal cervello dipendono tutte le operazioni mentali, normali e patologiche (Kandel, 2006), pochi restano i dubbi sull’unità bio-psichica dell’individuo, e sulla sua matrice squisitamente relazionale dello stesso.

Per questo motivo non possiamo indagare il corpo a prescindere da noi stessi, perché lo abitiamo e, al tempo stesso, abitano in lui moti fisici di sangue, ossa, organi, che non si esauriscono nella loro descrizione fisiologica ma che creano rimandi e intrecci con la nostra esperienza emozionale e psichica. Quindi la vera differenza non è, come aveva detto Platone, tra anima e corpo, ma, come aveva sostenuto Husserl (1931), tra corpo vivente impegnato in un mondo ed il cadavere ridotto a cosa del mondo (Nannini, 2005).

 

Piccole donne: ritratto della condizione femminile e delle sue sfide sempre attuali nella società odierna

Piccole donne è il nuovo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato per la prima volta nel 1868.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Diretto da Greta Gerwig, narra la storia delle sorelle March sullo sfondo della Guerra Civile Americana. Protagoniste sono Meg (Emma Watson), Jo (Saoirse Ronan), Amy (Florence Pugh) e Beth (Eliza Scanlen) alle prese con il passaggio tra adolescenza e vita adulta, con i relativi compromessi che quest’ultima impone (Fig. 1).

A differenza del romanzo, il film parte dalla vita adulta delle sorelle March, sviluppando la storia delle sorelle bambine con continui flashback.

Piccole donne 2019 Recensione e riflessioni sulla condizione femminile Fig 1

Fig. 1: Le sorelle March, protagoniste di Piccole donne

Se la guerra ha sottratto alle sorelle March la precedente agiatezza e la presenza della figura paterna, chiamata sul fronte, essa non scalfisce le loro passioni e il loro temperamento. Linfa che ognuna di loro quattro alimenta con propensioni e convinzioni diverse, ma sempre in condivisione. Meg è infatti appassionata di recitazione e coltiva la sua passione nella soffitta di casa inscenando con le altre divertenti atti teatrali; ella incarna il modello più consono alla visione femminile del tempo, sognando il matrimonio e la famiglia come realizzazione massima e primaria. Jo è la più ribelle e anticonformista, ostinata nel voler far valere il suo talento, la scrittura, in un mondo e tempo che è ancora molto lontano dall’aprire le porte ad una autrice donna. Amy, la più vanitosa di tutte, ama dipingere ed è segretamente innamorata di Laurie, che però non ha occhi che per Jo; e allora si impegna nella ricerca del rampollo più promettente da sposare e che possa salvare lei e la sua famiglia dalla povertà, come suggerisce Zia March (Meryl Streep). E infine la dolce Beth, una talentuosa pianista che non fa in tempo a veder sbocciare la sua passione perché stroncata dalla scarlattina.

La portata rivoluzionaria di questa narrazione sta nell’essere sempre attuale e vivida nelle sue dinamiche relazionali e sociali. È possibile rivivere quelle dinamiche tipiche dei rapporti famigliari, ma anche i dogmi che la società, seppur in maniera attenuata rispetto al passato, ancora impone alle donne. Ci sono i naturali vissuti di gelosia, competizione e frustrazione che si instaurano tra fratelli e sorelle. Come accade tra Jo e Amy: Amy che per tutta la sua adolescenza si sente seconda, all’ombra della tenace e predominante Jo, tanto in amore quanto in talento. Vi è il profondo dolore di vivere il lutto della sorella minore Beth, a causa della malattia. E il dover affrontare ogni difficoltà senza la presenza del padre, con una madre impegnata a provvedere al sostentamento di tutta la famiglia. Ma vi è anche il tema del matrimonio, che suona quasi come un destino scritto e immutabile per una donna; l’unica opzione possibile per garantirsi la sopravvivenza, l’unica accezione di realizzazione personale prospettata. Allora meglio trovarsi il più benestante dei consorti, perché non c’è altra via per sopravvivere che non sia sposarsi; a meno che non si sia ricchi, come la zia March che ha infatti potuto scegliere di non farlo. Colei che più contesta questa visione ingiusta e patriarcale è Jo, che si scaglia contro tutto e tutti pur di rovesciare questo dogma: implora la sorella maggiore Meg di non sposarsi, di non demordere e continuare a investire nella sua passione, la recitazione; rifiuta l’amore incondizionato di Laurie perché è stufa di affidare il suo destino all’amore di default, essendo per lei fondamentale essere prima realizzata come donna e come scrittrice, e solo dopo come moglie. Questo non implica, tuttavia, che la sua caparbia ostinazione non le causi sofferenza. Significativa ed intensa è la scena sul finale in cui Jo confessa alla madre tutta la sua rabbia ma anche il suo strazio:

Le donne hanno una mente e un’anima, oltre che un cuore. Hanno ambizioni e talento, oltre alla bellezza, e sono così stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto ciò per cui una donna è adatta. Ma sono così sola.

Si evince in questa ammissione tutta la complessità che le donne, ieri come allora, si trovano a vivere: lo scagliarsi contro i dettami della società che le vuole relegate prioritariamente al ruolo di mogli e madri ma al tempo stesso il costo emotivo e le rinunce che combattere tali visioni comporta. Potrebbe all’inizio sembrare che tutta la narrazione veicoli il messaggio che ‘essere Jo è la via per essere felici’, la versione giusta dell’essere donna, eppure a un certo punto è proprio Jo che rischia di essere la più infelice per aver represso il cuore dietro le sue auto imposizioni.

In realtà Jo March, alterego letterario della scrittrice Alcott a cui si sovrappone anche la regista, ci trasmette, proprio con quella confessione di rabbia e solitudine, un insegnamento fondamentale: non esiste un modello femminile migliore dell’altro, un modo più giusto di essere donna. Ognuna delle sorelle March rappresenta una sfumatura diversa della persona. Ciò che conta è restare fedeli a sé stesse, perseguire le proprie aspirazioni e seguire sì anche il proprio cuore e l’amore. Accettare il matrimonio, ma come scelta libera e non per costrizione sociale o in mancanza d’altro. Tutte le sorelle March arriveranno a sposarsi ma nel modo e per la ragione che riterranno più opportuna. Meg, la maggiore, lo fa perché lo vuole, perché è ciò che sogna da sempre. E pur avendo investito tempo ed energie nella ricerca del compagno migliore, alla fine cede all’amore di un umile istitutore che le ha rubato il cuore. Amy opta per il matrimonio nel momento in cui realizza di non avere molto talento come pittrice e che nonostante gli sforzi esso non la porterà mai da nessuna parte. Si sposa, ma lo fa con il suo grande amore sin dall’infanzia, Laurie. E infine, persino la restia Jo cederà all’idea dell’amore e del matrimonio, ma solo dopo aver fatto valere il suo talento di scrittrice e aver trovato la persona giusta.

Piccole donne è considerato sin dagli albori un vademecum per l’emancipazione personale di donne e scrittrici, tante sono state le autrici che ne hanno rivendicato l’ispirazione, da Margaret Atwood e Simone de Beauvoir fino a giungere ai giorni nostri con Elena Ferrante. Tuttavia è errato e riduttivo considerare questo capolavoro come un romanzo al femminile: si tratta di un classico universale che, come tale, dovrebbe essere indistintamente fruito da tutti, senza distinzione di genere. Ancora una volta la narrativa e il cinema si ergono ad obiettori degli stigmi sociali più perpetrati e sofferti, a promotori ante tempore di fiducia e innovazione, promulgando l’invito a credere e affermare chi si vuole essere e cosa si vuole fare nella propria vita, anche e soprattutto per una donna.

Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni (2018) – Recensione del libro

Essere genitori, si dice non a torto, è il mestiere più difficile al mondo. Nel testo Siamo qui per te le autrici, due psicoterapeute e una pediatra, mettono la propria esperienza in materia al servizio dei lettori per offrire suggerimenti e spunti di riflessione alle mamme e ai papà che desiderano costruire, con i propri figli, un rapporto all’insegna della presenza affettuosa e della sicurezza.

 

La costruzione di una relazione sicura, in cui il bambino si possa sentire protetto e riconosciuto nei suoi bisogni e nella propria singolarissima identità, rappresenta, in effetti, il tema unificante del libro Siamo qui per te. Come costruire un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni; il costrutto dell’attaccamento viene spiegato, facendo riferimento agli studi e alle ricerche di Bowlby e della Ainsworth, mostrando con esempi concreti come l’attaccamento sicuro si traduca a livello di pensieri, emozioni e comportamenti nel bambino e nei genitori.

I concetti teorici vengono resi fruibili ai non addetti ai lavori in modo da illustrare come sia possibile promuovere il benessere del bambino, favorendone una crescita armonica, attraverso comportamenti genitoriali che trasmettono presenza sollecita cui fa da contraltare la capacità di permettere al bimbo, giorno dopo giorno, di sperimentarsi e di esplorare il mondo, animato dalla convinzione che la mamma e il papà sono lì per sostenerlo quando ne ha bisogno, permettendogli, nello stesso tempo, di fare le sue esperienze fiducioso nelle proprie forze e consapevole delle sue risorse.

Il libro prende in esame non solo i primi mesi e anni di vita del bambino, ma anche il periodo prenatale mostrando come già durante la gravidanza sia possibile gettare le fondamenta di un sano legame di attaccamento.

Vengono analizzate le caratteristiche delle fasi di crescita che il bimbo attraversa, ognuna contraddistinta da specifici compiti evolutivi; ogni capitolo cerca di dare risposte concrete alle domande e ai dubbi più comuni, spaziando da cosa fare quando il bimbo segnala, con il pianto, i suoi bisogni e comunica all’adulto le sue emozioni, a come aiutare il bimbo ad addormentarsi, a imparare a mangiare da solo e così via.

Le autrici offrono suggerimenti utili per sostenere il bimbo nella crescita fino ai quattro anni d’età, offrendo spunti anche per temi attuali come i pro e i contro dell’utilizzo della tecnologia; al di là degli specifici temi presi in esame, l’essenziale risulta essere entrare in relazione con il bambino nel rispetto nella sua indole e dei suoi bisogni, costruendo una relazione serena basata sulla presenza di regole, fondamentali per dare al bambino il senso del confine che è necessario per la sicurezza, come anche sulla protezione.

Ogni capitolo è corredato da schede pratiche che la mamma e il papà possono, se vogliono, compilare insieme per approfondire le tematiche esposte e per promuovere la creazione di un positivo processo di attaccamento con il proprio bambino.

In ultima analisi la relazione che lega i genitori al bambino rappresenta il ‘prototipo’ e un punto di riferimento per le tutte le relazioni future; per questa ragione è tanto più importante e significativo che gli elementi presenti in ogni relazione sana – il bisogno di vicinanza e, al tempo stesso, il rispetto dei propri spazi, la libertà e l’indipendenza- si giochino in modo equilibrato proprio nei legami familiari, che rappresentano, per il bambino, un modello, una palestra delle relazioni e un apprendistato sociale’.

 

Ma quanto manca ancora? Un feedback circa il progresso in un compito cognitivo sembra migliorare la performance

È stato riscontrato come la consapevolezza dell’avvicinarsi del termine di un compito faccia sì che gli sforzi messi in atto per concluderlo vengano aumentati (Bonezzi et al., 2011).

 

Tale fenomeno, che prende il nome di goal gradient (Hull, 1932), viene attribuito all’aumentare della motivazione in prossimità della fine di un compito: ogni “unità di fatica” impiegata dall’individuo contribuirebbe visibilmente ad accorciare il gap verso l’obiettivo, venendo percepito come più efficiente (Cryder et al., 2013). Nel contesto della Prospect Theory (Kahneman & Tversky, 1979), Heath e colleghi (1999) sottolineano come, in prossimità del raggiungimento di un obiettivo, i soggetti risultino essere più sensibili ai progressi in quanto eliminerebbero il valore negativo risultante dal non aver ancora portato a termine il compito. O ancora, l’approcciarsi della fine di un task potrebbe ridurre l’opportunity cost, ovvero il costo della scelta di dedicarsi a quella specifica attività rispetto ad una alternativa, potenzialmente più piacevole (Emanuel et al., 2020), proprio perché detta alternativa risulterebbe più vicina nel tempo, aumentando la motivazione verso l’ultimo sforzo richiesto per portare a termine il compito.

Se quindi innumerevoli variabili, una fra tutte la distanza dalla fine del task, influenzano la disposizione dell’individuo nell’affrontarlo, è lecito immaginare che anche la performance rifletta tali variazioni: generalmente i compiti cognitivi sono contraddistinti da una curva di apprendimento, caratterizzata dall’apice di tale curva, detta asintoto, che rappresenterà nominalmente l’abilità massima dell’individuo in quel compito e la velocità con cui tale asintoto viene raggiunto, che riflette la velocità di apprendimento nel compito stesso.

Alla luce di queste premesse, Katzir e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca per determinare come gli effetti dell’introduzione di un punto di riferimento saliente (fine del compito) e la conseguente allocazione di maggiori risorse nel completamento del compito stesso, impattassero sulla performance degli individui in compiti cognitivi complessi: un asintoto maggiore nella condizione in cui venisse rimarcata la porzione di compito rimanente, rispetto alla condizione in cui questo riferimento non veniva introdotto, avrebbe messo in dubbio la nozione che tale risultato rifletta la massima abilità dell’individuo in quel compito, suggerendo invece l’impatto della motivazione sulla performance stessa. Allo stesso modo anche una maggior ripidità nella curva di apprendimento, ovvero un minor tempo impiegato per raggiungere l’asintoto, rifletterebbe il peso della motivazione sulla velocità di apprendimento. Inoltre, gli autori hanno indagato la percezione soggettiva di fatica del soggetto in presenza di un riferimento circa la porzione rimanente di compito: se la fatica percepita dipendesse esclusivamente dai reali sforzi del soggetto, ci si aspetterebbe che l’introduzione del punto di riferimento saliente non alteri tale percezione; al contrario, una diminuzione della fatica percepita in prossimità della fine del compito potrebbe riflettere la diminuzione dell’opportunity cost (Kruzban et al., 2013), supponendo che l’avvicinarsi di un’alternativa più piacevole possa rendere meno gravoso lo sforzo di portare a termine il compito.

Gli autori hanno sottoposto i partecipanti a due esperimenti che differivano solo nel numero di “blocchi” da completare: il primo, composto da 10 blocchi, era suddiviso in 240 trial, mentre il secondo era composto da 12 blocchi. I compiti proposti consistevano in due differenti versioni dello Stroop task e due versioni di un compito di orientamento spaziale. Metà dei partecipanti sono poi stati assegnati alla condizione Feedback, nella quale essi venivano informati ogni 30 trial sul loro progresso nella risoluzione del singolo blocco, oppure il progresso relativo all’intero compito; la seconda metà dei soggetti non riceveva invece alcun tipo di feedback sulla durata del task e sul loro livello di completamento dello stesso. Alla fine di ogni blocco, ai partecipanti era richiesto di ricopiare una combinazione alfanumerica su di un foglio, consentendo loro di distogliere l’attenzione dal computer e garantendo una pausa prima della ripresa del compito, che avveniva solo quando il soggetto stesso avesse premuto un comando sulla tastiera: la lunghezza della pausa è stata registrata come misura della motivazione, prevedendo che pause più brevi riflettessero una maggiore motivazione nel riprendere il compito e giungere alla risoluzione.

L’analisi statistica dei dati ottenuti ha confermato come i soggetti che ricevevano un feedback circa la porzione rimanente di compito (ma non del singolo blocco) avevano performance migliori e ricorrevano a pause più brevi, riportando inoltre una minor fatica percepita rispetto al gruppo di controllo specialmente verso la fase finale dell’esperimento. Ciò supporterebbe l’ipotesi dell’impatto della motivazione verso una rapida risoluzione del compito. Da ultimo, un dispiego di sforzi maggiori verso la fine di un compito a fronte (e nonostante) una maggior fatica riferita, risulta compatibile con l’ipotesi di un minor opportunity cost, ma non con spiegazioni alternative che fanno riferimento all’esaurimento delle energie cognitive, come ad esempio l’Ego Depletion Theory (Baumeister et al., 2007).

Resta da verificarsi la replicabilità dei risultati ottenuti in contesti scolastici o con compiti più stimolanti che risentano meno del calo della motivazione, tuttavia essi suggeriscono in via preliminare come l’inserimento di un feedback semplice ed economico, circa il progresso nello svolgimento di un compito, possa da ultimo risultare in performance migliori, minore percezione di fatica e allo sviluppo di differenti strategie di allocazione delle risorse individuali nella risoluzione di un compito.

 

La disponibilità emotiva e le Emotional Availability Scales

La disponibilità emotiva è un’integrazione tra la teoria dell’attaccamento e il concetto della sensibilità materna. I primi ad usare questo termine furono Mahler, Pine e Bergman nel 1975, per descrivere l’atteggiamento supportivo e presente della madre nella relazione diadica tra madre e figlio.

 

Una relazione sana, infatti, permette al bambino di esplorare l’ambiente circostante e allo stesso tempo di avere quel contatto fisico, che trasmette emozione e affetto. Altri scritti successivi di Edme nel 1980 descrivono la disponibilità emotiva come una presenza supportiva durante l’esplorazione del bambino e come un’accettazione delle espressioni emotive del figlio, sia negative che positive, permettendo così al bambino di potersi esprimere in maniera diversificata anche in base alla situazione (Biringen e Robinson, 1991). Successivamente Sorce e Edme nel 1981 indicano come la disponibilità emotiva si riferisca, oltre che alla presenza fisica, anche alla presenza emotiva, vale a dire un caregiver ricettivo alle segnalazioni del proprio figlio, capace di percepire e comprendere i segnali che provengono dagli altri. La disponibilità emotiva rappresenta, quindi, un barometro della relazione tra il caregiver e il figlio, come hanno definito Edme e Easterbrooks nel 1985 (Biringen, Derscheid, Vligen, Closson e Easterbrooks, 2014).

Questo costrutto, dunque, consiste nella condivisione tra due persone di una sana connessione emotiva e comprende il clima emotivo della relazione. Inoltre considera l’abilità del caregiver di strutturare l’attività del bambino, guidandolo e supportando la sua autonomia. Un grande cambiamento introdotto da Biringen è stato quello di dare importanza anche al bambino, che viene visto come agente attivo nella costruzione del rapporto, in quanto le sue qualità e caratteristiche vanno ad influenzare i comportamenti e le risposte del caregiver (Saunders, Kraus, Barone e Biringen, 2015).

Biringen e Robinson (1991) offrirono una concettualizzazione teorica della disponibilità emotiva e crearono le EAS (Emotional Availability Scale), uno strumento specificatamente usato per comprendere la disponibilità emotiva all’interno di una relazione. Le EAS sono delle griglie osservative che vengono applicate su materiale videoregistrato o durante un’osservazione; devono essere sempre presenti due giudici per assicurare l’affidabilità e la inter-rater reliability dello strumento. Le EAS, inoltre, possono essere utilizzate in seguito ad un training adeguato, che permette di ottenere un patentino per poterle utilizzare. Lo strumento è suddiviso in sei parti, quattro relative al genitore e due relative al bambino. Ognuna di queste parti è caratterizzata da sette indici a cui viene dato un punteggio su scala Likert; i primi due indici di ogni sottoscala vanno da 1 ad un massimo di 7, in cui il punteggio da 1 a 3 indica necessità d’intervento, 4 rappresenta un livello critico, mentre i restanti valori costituiscono un livello buono o ottimale. I restanti cinque indici di ogni sottoscala vengono valutati con una scala Likert da 1 ad un massimo di 3; in questo caso l’1 indica necessità d’intervento, il 2 indica un livello critico, mentre il 3 un livello buono o ottimale. Il totale di ogni sottoscala è di 29, mentre il totale generale dello strumento è di 174. Le sottoscale sono le seguenti (Villotti, Bentenuto e Venuti, 2014):

  • Sensibilità: la dimensione della sensitiviy corrisponde essenzialmente alla capacità del genitore di comprendere e rispondere in maniera adeguata ai segnali del bambino (Villotti et al., 2014). È opportuno sottolineare come la sensibilità risulti un concetto diadico, in quanto il genitore sensibile lo è anche grazie al bambino responsivo e coinvolto. Un caregiver sensibile sarà in grado di creare un clima positivo, genuino e soprattutto affettuoso, in cui segnali verbali e non verbali risultano congruenti tra di loro (Birigen et al, 2014). Questa scala considera anche la capacità di essere flessibile nel modo di porsi al bambino, in termini di comportamento e di attenzione. Un genitore flessibile è in grado di svolgere più attività rimanendo comunque responsivo nei confronti del figlio (Villotti et al., 2014). Dunque, questa prima scala valuta la capacità del caregiver di sintonizzarsi emotivamente con l’infante, di comprendere e rispondere ai suoi bisogni, di essere flessibile nel modo di porsi al bambino e di vedere in lui una persona distinta e indipendente.
  • Strutturazione: la scala dello structuring indica la capacità del genitore di offrire supporto, sostegno e stimoli nell’esplorazione e nelle attività del bambino, pur rispettandone l’autonomia e le sue indicazioni. Nella strutturazione il genitore fornisce, dunque, le giuste indicazioni per aiutare il bambino nello svolgimento delle sue attività, vengono forniti limiti e regole, viene seguita l’autonomia del bambino, in modo tale da facilitare la sua crescita e il suo sviluppo, fornendogli quei limiti interni e quegli standard necessari per la sua futura autonomia e capacità decisionale. Il genitore crea una cornice in cui il bambino ha la possibilità di crescere e svilupparsi (Birigen et al., 2014).
  • Non-intrusività: la dimensione della non-intrusiveness è legata alla capacità del caregiver di essere disponibile senza invadere l’autonomia del bambino. Le intrusioni rappresentano tutti quei comportamenti che, in un modo o nell’altro, limitano l’autonomia del bambino, sia durante l’esplorazione che durante le attività di gioco. I comportamenti intrusivi sono sia quei comportamenti in cui il caregiver interferisce troppo e va contro l’attività del bambino, ma anche quelli in cui il genitore è fin troppo presente e aiuta eccessivamente il bambino in attività che egli sarebbe in grado di fare da solo (Villotti et al., 2014). Mentre la strutturazione è legata alla guida, all’insegnamento e all’empowerment del bambino, la non-intrusività è collegata alle interferenze vere e proprie (Birigen et al., 2014).
  • Non-ostilità: la scala della non-hostility, coperta o aperta, indica la capacità di porsi al bambino con modalità affettuose, calde, piacevoli e sensibili. Sta ad indicare tutti quei comportamenti e modi di parlare al bambino che non risultino lesivi, antagonistici, impazienti ed aggressivi. L’ostilità coperta si trova, ad esempio, negli scherzi o nelle prese in giro, ma anche nei silenzi e nel tono di voce irritato e aggressivo (Villotti et al., 2014); segni subdoli di noia, rabbia, aggressività e impazienza vengono comunque percepiti dal bambino. L’ostilità più diretta è quando il genitore risulta apertamente ostile, aggressivo, impaziente e rabbioso, sia con le parole (insultano o urlando, ad esempio) che con i gesti (diventando fisicamente aggressivo) (Birigen et al., 2014).
  • Responsività: questa scala indica la capacità, il desiderio e la propensione emotiva del bambino ad interagire con il proprio caregiver, in seguito ad un invito esplicito da parte del genitore. Inoltre è legata al livello affettivo generale del bambino ma anche alla sua capacità di esplorare l’ambiente, considerando ovviamente età e contesto (Villotti et al., 2014).
  • Coinvolgimento dell’adulto: l’ultima dimensione che ritroviamo è quella dell’involvement, che riguarda la capacità del bambino di coinvolgere e ricercare il genitore nel gioco e nell’attività. Anche in questo caso le iniziative del piccolo devono essere in linea con la sua necessità di autonomia, da un lato, e di supporto, dall’altro (Villotti et al., 2014). I bambini coinvolgono, ovviamente, gli adulti in maniera differente in base all’età; solitamente il coinvolgimento si ottiene attraverso sguardi, domande, il portare i giochi per mostrarli al genitore e richieste esplicite al caregiver di giocare con lui e così via (Birigen et al, 2014).

Le EAS sono state validate da diverse ricerche, che hanno dimostrato come la disponibilità emotiva possa essere usata come un parametro globale per valutare la qualità generale della relazione affettiva tra il genitore e il figlio (Villotti et al., 2014).

 

“Ah, ma è Lercio!” – Un esempio di news organization

A sentire le parole di giornalisti, massmediologi, esperti a vario titolo e accademici non sembra esserci alcun dubbio: viviamo nell’epoca della “post-verità”, caratterizzata cioè da “verità alternative”, fake news, che scheggiano le identità sociali in frammenti.

 

Nel tentativo degli esseri umani di adattare in maniera camaleontica (Mantovani, 1995) le schegge identitarie alle diverse verità, si nota come i Mass Media diventino opportuità per gli internauti per evolversi da semplici fruitori di contenuti multimediali ad attivi creatori. Non esenti, da queste creazioni, le notizie (news).

Che ci si ponga tra gli Apocalittici o gli Integrati (Eco, 1984), non si può evitare il fenomeno virale della creazione di “bufale”, o meglio conosciute come “fake news”. Le fake news sono notizie intenzionalmente false che servono per disorientare i lettori. E quindi, chi crea queste false notizie? Perché lo fa? Qual è il target di popolazione o di internauti più colpiti da questo fenomeno?

Rispondendo alla prima domanda “chi crea le fake news?”, bisogna sapere che ci sono tante e reali agenzie che producono notizie false. Queste “industrie” di bufale, solitamente, hanno nomi che richiamano le reali agenzie di diffusione di notizie, al fine di confondere maggiormente i fruitori di informazioni.

La società dell’informazione ha prodotto interi segmenti industriali dediti alla rappresentazione del mondo, tali da trasformare questa normale costruzione della realtà in fabbrica automatizzata, da deformazione inconsapevole alla sua riproduzione automatizzata, dando origine all’Iperrealtà, appunto. (Binotto, 2017, 14)

Ma è anche vero che dietro le fake news possono celarsi persone normali, in quanto, con la diffusione dei social network, la creazione di contenuti non richiede più specifiche competenze, bensì qualsiasi utente può generare contenuti multimediali relativamente controllati.

Questi strumenti di creazione di contenuti multimediali, in cui rientrano le fake news, sono definiti User Generated Content (UGC). Grazie a questi strumenti, ad esempio, sono emerse nuove figure che diffondono notizie, come i giornalisti amatoriali, i quali nel riportare una notizia, non sono sottoposti al controllo della veridicità di ciò che divulgano. Per questo motivo è facile cadere nelle trappole delle fake news (Rubin, Conroy, & Chen, 2015).

Ma chi sono le persone più colpite? Bisogna considerare che ogni utente è persuaso in maniera diversa in base a variabili individuali, primo fra tutti il livello educativo, poi l’età, il genere, ma anche la fiducia. Il legame di fiducia nell’era della post-verità è molto complesso da instaurare perché è presente un generale clima di diffidenza, che presenta una risonanza nelle comunicazioni mediate. A questo legame, però, si oppongono fenomeni individuali, come la disinformazione, perché le persone che si informano meno tenderanno a credere vere le notizie potenzialmente false. Un altro fenomeno fondamentale che spinge a cadere nelle trappole delle fake news è quello delle camere dell’eco (eco-chamber), dei veri e propri spazi virtuali che raccolgono persone che hanno le stesse opinioni. Avere conferme da altre persone circa il proprio pensiero aumenta la convinzione che quelle credenze siano vere.

La difficoltà nel riconoscimento di false notizie dipende dal fatto che, soprattutto nelle news in forma scritta, mancano indici di comunicazione non verbale, per questo le persone si focalizzano non sul contenuto, ma su come la notizia è presentata (Allcott & Gentzkow, 2017). Non si tratta di un fenomeno recente, anzi hanno una storia molto lunga: infatti è possibile trovare delle prime forme di fake news negli errori non intenzionali, ovvero delle notizie riportate in maniera non corretta; nei pettegolezzi, che però non hanno origine da una notizia di giornale; nelle teorie complottiste, che, per definizione, sono difficili da distinguere come vere o false e sono sostenute da chi crede realmente in esse, ad esempio, nell’affermare l’esistenza di altre forme di vita sui pianeti; nelle false dichiarazioni dei politici; nella satira non riconosciuta come tale (Hyman & Sheatsley, 1947).

Un esempio è LERCIO: in molti tenderebbero a prendere per veritiere le loro notizie, non conoscendo l’obiettivo. Lercio è un sito satirico italiano di fake news con taglio volutamente ironico, creato su modello di articoli tipici della stampa sensazionalistica. La stampa sensazionalistica, infatti, mira a creare l’evento di cui tratta il testo di notizia dividendo i fruitori in due gruppi: chi giustifica quel testo oppure chi lo rifiuta e contesta (Mininni, 2004). In più, LERCIO, praticando la parodia del giornalismo tradizionale, si inserisce nel filone internazionale della cosiddetta News satire (Incollu, 2014). Il sito, ideato da Michele Incollu come parodia della free press Leggo, dal quale riprende il font del logo, pubblica la sua prima notizia il 28 ottobre 2012 (Incollu, 2017; 2018). L’attrattività, però, non dipende solo dalla soggettività dei fruitori della notizia, ma anche dal modo in cui la notizia, seppure falsa, viene presentata. Le fake news di LERCIO si presentano con titoli altisonanti, con URL simili a quelle delle fonti attendibili, l’impaginazione è approssimativa, le immagini ritoccate o replicate, il tono ironico o satirico nel caso in cui l’obiettivo è quello di denunciare.

In questo panorama, perciò, Lercio diventa un esempio tutto italiano di news organization che nella “trasformazione di un fatto in notizia opera riducendone la complessità” (Sorrentino, 1995, p. 5) attraverso l’ironia.

 

Il giardino delle vergini suicide: un esempio di suicidio in adolescenza

Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999), tratto dall’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides ripercorre la catena di suicidi delle sorelle Lisbon, cinque adolescenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni, costrette a restare in casa per volontà della madre iperprotettiva.

 

Attenzione – L’articolo può contenere spoiler

Di fronte a questa desolante esistenza si intravede un padre periferico, laconico, che asseconda la moglie senza discutere, in evidente difficoltà e confusione. Il film inizia con il tentativo di suicidio di Cecilia che, una volta rinsavita, manda chiari segnali del suo disagio, quello di una ragazza di 13 anni intrappolata in una realtà familiare glaciale, senza possibilità di approfondire altri legami. Di fronte a questo evento tragico subentra lo psicologo che suggerisce con pacata franchezza di permettere alla figlia di avvicinarsi ai coetanei, ma i genitori non consentono uscite, solo feste in casa e in loro presenza, così Cecilia muore davanti ai loro occhi.

Nella famiglia Lisbon non c’è spazio per elaborare un lutto significativo: le emozioni, i ricordi, il confronto sul motivo che ha condotto la giovane al gesto sono abilmente accantonati e presto la vita prosegue come se la figlia deceduta non fosse mai esistita, come se il problema non si estendesse alla famiglia. Con il passare del tempo i genitori provano ad esaudire il desiderio di libertà delle figlie, ma la trasgressione peggiora la situazione e le imposizioni invece di allentarsi si rafforzano fino a soffocare ogni possibilità di espressione di sé, di sperimentazione nel rapporto con i coetanei. Nessuna combatte contro la madre, solo Lux trasgredisce di nascosto, ma scivola nell’autodistruzione, affamata di fugaci avventure; dopo aver giocato a sedurre Trip con l’incoerenza, si lascia andare per poi ritrovarsi a fare i conti con la prima delusione, l’abbandono inaspettato senza il sostegno della famiglia che la punisce e la isola. Anche qui non c’è spazio per dare un nome al dolore mascherato dalla finta allegria, i sorrisi, arrovellandosi successivamente nella constatazione di essere sola, di non poter contare su nessuno, nemmeno su di sé.

La reciprocità manca anche tra le sorelle, resta solo una macabra complicità nell’organizzazione del grottesco suicidio di massa che lascia una confusione dilagante. Nessuno riesce a ricostruire le ragioni di un gesto simile, ma i segnali del disagio, come l’isolamento nel contesto scolastico, il silenzio, la rigida disciplina materna e la passività del padre e soprattutto il sottovalutato suicidio della sorella erano presenti. Entrambi i genitori fanno un tentativo per agevolarle, ma restano inconsapevoli dei propri limiti, non possiedono le risorse adeguate per riconoscere e capire i bisogni delle ragazze in quanto adolescenti. Immaginando la crescita delle sorelle si deduce una relazione improntata sull’evitamento della rabbia, della tristezza, ad esempio, tale da accantonare i conflitti e risultare figlie eccezionali che non danno problemi, ma che covano un malessere dilagante e sconosciuto a sé. Le protagoniste comprendono al volo di essere il sogno adolescenziale di tutti i ragazzi del liceo, gli angeli biondi che incantano non solo per la bellezza, ma anche per la ritrosia che alimenta l’idealizzazione. Gli ‘amici’ che vogliono aiutarle, che si porteranno con sé il senso di colpa per tutta la vita, che non dimenticheranno mai i lunghi capelli biondi, i pizzi e il sorriso che li hanno stregati, sono gli stessi che di fronte al suicidio di Cecilia sono fuggiti via nel silenzio assordante. Non serve altro per confermare la percezione di solitudine, estraneità e inaiutabilità con cui si affacciano al suicidio.

 

Istrionici e schizoidi: l’effetto delle emozioni su parametri neurofisiologici

Tra i disturbi di personalità, il disturbo istrionico e il disturbo schizoide possono essere considerati ai due estremi di un continuum che prende in considerazione l’espressività e l’inibizione.

 

Nello specifico, secondo il DSM-5 (APA, 2013), il disturbo schizoide di personalità è caratterizzato da una mancanza di interesse per le relazioni sociali e affettive, freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita, mancanza di piacere nell’esperienza sessuale e per le attività sociali di gruppo. Il disturbo istrionico, al contrario, è caratterizzato da manifestazioni esagerate di emotività, eccessiva ricerca di attenzione, egocentricità, ricerca di attenzione, mancanza di considerazione per gli altri, auto-drammatizzazione e comportamento eccessivamente seduttivo e provocante.

Il presente studio (Wang et al., 2020), si pone l’obiettivo di indagare in che modo le diverse emozioni influenzano l’attività cerebrale nei pazienti con disturbo di personalità istrionico e schizoide. L’evidenza neuropsicologica di base è che le strutture cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva comprendono sia il tronco encefalico che le aree corticali e subcorticali coinvolte nell’attività somatica e visceromotoria complessa (Dolan, 2002). Il metodo utilizzato è la soppressione esterocettiva (exteroceptive suppressions – ES) dell’attività muscolare temporale, in cui vengono stimolate le afferenze sensoriali del tronco encefalico portando ad un’interruzione temporanea dell’attività muscolare volontaria; la soppressione avviene in due fasi, una precoce (ES1) e una tardiva (ES2). Le aree cerebrali vengono sollecitate con stimoli emotivi esterni sia positivi (es. felicità, eccitazione) che negativi (es. disgusto, tristezza, paura). Gli stimoli usati nello studio consistevano nella presentazione di immagini e suoni; sono stati utilizzati elettrodi per la registrazione di superficie.

Il campione comprendeva 37 volontari sani che costituivano il gruppo di controllo, 18 pazienti con disturbo schizoide di personalità e 17 pazienti con disturbo istrionico di personalità facenti parte del gruppo sperimentale; i soggetti erano equilibrati per genere e avevano un’età media compresa tra i 18 e i 25 anni.

I partecipanti erano invitati a completare tre questionari:

  • The Mood Disorder Questionnaire (MDQ, Hirschfeld et al., 2000): composto da 13 items a risposta dicotomica (si/no) indaga la presenza di sintomi e comportamenti correlati alla mania e all’ipomania.
  • The Hypomania Checklist-32 (HCL-32, Angst et al., 2005): composto da 32 items a risposta dicotomica (si/no) che valutano la presenza di sintomi ipomaniacali. In particolare, ai soggetti è chiesto di rispondere a quesiti relativi alle loro emozioni, pensieri, comportamenti, ma anche riguardo alla durata dei sintomi e all’impatto che essi hanno avuto nella famiglia e nella vita lavorativa e sociale.
  • The Plutchik – van Praag Depression Inventory (PVP, Plutchik& van Praag, 1987): consiste in 34 items che indagano la presenza di sintomi depressivi.

Dai risultati emerge che i punteggi medi dei test erano significativamente differenti tra il gruppo di controllo e i due gruppi sperimentali. Nello specifico, il PVP presentava punteggi più alti nei pazienti schizoidi, mentre l’MDQ e l’HCL-32 erano più alti nei pazienti con disturbo istrionico di personalità, rispetto al gruppo di controllo. In accordo con la letteratura, gli schizoidi si situano su un versante più introverso, depresso e ritirato; mentre gli istrionici si collocano sul versante dell’eccitazione e l’espressività. Infatti, l’attività cerebrale degli schizoidi era maggiore, rispetto al gruppo di controllo, se l’immagine o il suono presentato richiamava l’emozione di tristezza o paura; al contrario, i pazienti istrionici erano maggiormente sollecitati dagli stimoli erotici. In altre parole, la durata di ES2 era maggiore negli schizoidi alla presentazione di stimoli negativi e nei soggetti istrionici alla presentazione di stimoli postivi, rispetto ai soggetti sani. A livello neuropsicologico, si è evidenziata una disfunzione del sistema cortico-cerebrale associata ai diversi stimoli emotivi esterni nei differenti gruppi.

Lo studio presenta diversi limiti. In primo luogo, sono stati coinvolti solo pazienti schizoidi e con disturbo istrionico di personalità; il reclutamento di soggetti con altri tipi di disturbi della personalità aiuterebbe a confermare i presenti risultati. In secondo luogo, sono state utilizzate solo cinque emozioni come stimoli esterni, altre come sorpresa, rabbia o disprezzo potrebbero mostrare effetti interessanti sui parametri neurofisiologici di questi pazienti. In terzo luogo, la dimensione del campione in ciascun gruppo era piccola; sarebbero necessari ulteriori studi che confermassero le attuali scoperte.

 

Sorry we missed you (2019) – Recensione del film

Sorry we missed you mostra un meccanismo perverso, dove la trappola si nasconde proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente, spacciato appunto per autonomo, dove si viene illusi di essere padroni del proprio destino, ma in realtà non si è padroni di nulla, solo inghiottiti da una spirale senza fine e da una fagocitante solitudine.

 

Ricky e Abby sono una coppia di Newcastle e hanno due figli: Sebastian, di sedici anni e Liza di undici. Sono una famiglia unita. A un certo punto della loro vita, Ricky perde la sua occupazione e decide di ricominciare con un lavoro autonomo, come corriere in una grande azienda di consegne. Questo rappresenterà l’inizio di una pericolosa spirale.

Sorry We Missed You è un film tremendamente attuale. Il regista è riuscito a rappresentare, in modo magistrale, la precarietà del nostro tempo attraverso il racconto della disperazione di un uomo che viene spogliato di tutto, perché il lavoro gli ruba la vita. Uno sfruttamento ‘legalizzato’, ipocritamente camuffato da lavoro autonomo, contraddistinto da condizioni disumane e inaccettabili, che però sembra rappresentare – agli occhi di Ricky – l’ultimo spiraglio per poter arrivare ad accendere un mutuo e acquistare una casa.

La tragedia descritta in questa pellicola non è la disoccupazione, bensì il lavoro incessante, pressante, non tutelato.

Nell’illusione che qualcosa prima o poi cambierà, Ricky viene schiacciato da una macchina che lo annienta e lo mortifica a tal punto da arrivare a non riconoscersi nemmeno più il diritto di andare in bagno o di essere malato; trattato come carne da macello, tessera di un sistema sempre in movimento in cui nessuno è davvero indispensabile e chiunque è immediatamente sostituibile. Un meccanismo perverso dove la trappola si nasconde proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente – spacciato appunto per autonomo – dove si viene illusi di essere padroni del proprio destino, ma dove in realtà non si è padroni di nulla, inghiottiti a mano a mano da una spirale senza fine e da una fagocitante solitudine.

Non è più la forza lavoro a essere messa in vendita, ma il tempo e – con esso – la  vita.

Così, il tempo utilizzato a lavorare per la famiglia, diventa per Ricky sempre più importante e necessario del tempo passato con la famiglia, con conseguenze devastanti per tutti: una moglie che fa la badante, con un contratto a zero ore che viene pagata “a visita” e che trascorre – a sua volta – tutto il giorno fuori casa ad alternarsi tra un paziente e l’altro, e due figli che tentano di autogestirsi con risultati piuttosto disastrosi. Nonostante il profondo amore che li lega, Ricky, Abby, Sebastian e Liza non si riconoscono né si ritrovano più e tra loro si origina una distruttiva incomunicabilità.

Sorry We Missed You è un lungo, interminabile pugno allo stomaco che toglie il respiro e non lo restituisce fino alla fine e persino nei giorni successivi. E’ un film che non lascia scampo, in cui lo spettatore viene trascinato dentro un susseguirsi di crescenti emozioni ed eventi che risulta contemporaneamente assurdo e realistico.

E’ un’opera che costringe a riflettere su come si sia potuti arrivare a tutto questo. Su come un essere umano possa spingersi così in fondo. Su come un altro uomo possa trattare un suo prossimo come un numero o come una bestia per poi dichiarare che non c’è nulla di personale.

Dopo aver visto questo film tutto è possibile, fuorché rimanere indifferenti.

Non c’è dignità in tutto questo, anche perché non c’è mai stata alcuna dignità nell’essere schiavi. (Ken Loach)

 Sorry we missed you  parla di disperazione. La disperazione di un uomo che è talmente ossessionato dallo scopo di mantenere la propria famiglia e di accendere un mutuo, che perde di vista proprio se stesso, la sua libertà e il benessere della famiglia.  Si assiste alla sua spersonalizzazione, vittima di un ingranaggio al quale sente di non potere che aderire. Un sistema che non ha regole, se non l’obbligo di dover dare tutto e dove quel tutto non basterà mai, perché nulla potrà essere sufficiente. Un apparato che si nutre di precarietà e sfruttamento.

Ricky non si riconosce più, ma ciononostante avverte di non avere altra scelta. Così viene trascinato, giorno dopo giorno, in un vortice da cui viene completamente assorbito, in balìa di sbalzi di umore altalenanti e di scatti di ira incontrollati nei confronti di chi tenta di metterlo di fronte alla realtà. Ricordiamolo:

Non c’è dignità in tutto questo, anche perché non c’è mai stata alcuna dignità nell’essere schiavi.

In questo film si assiste alla perdita dell’individuo, in tutto e per tutto: la perdita dei propri diritti, partendo dalle più comuni funzioni fisiologiche, la perdita di lucidità, la perdita di libertà, la perdita di controllo, la perdita di dignità e la perdita dei rapporti interpersonali, con risvolti catastrofici sulla vita privata.

C’è Abby che, nonostante la stanchezza, il lavoro precario e l’intera giornata fuori casa, riesce a mantenere uno sguardo lucido su ciò che sta avvenendo al marito e alla sua famiglia. Ci sono i due figli, Sebastian e Liza. Sebastian è quello che sembra risentire maggiormente dell’assenza dei genitori e che traduce questo malessere in comportamenti ribelli e trasgressivi, che sembrano sfuggire al controllo di una madre e di un padre troppo impegnati e stanchi per poterli gestire o affrontare. E Liza, ragazzina fin troppo sveglia, che si accorge di ciò che le sta avvenendo intorno e tenta delle goffe operazioni di salvataggio, avvertendo un carico emotivo sulle spalle decisamente più grosso di quello che può portare. E c’è, appunto, Ricky, ormai totalmente assente, spento, che non nutre più alcuna speranza, ma continua ad accanirsi nell’unica direzione che si sente obbligato a percorrere.

In fin dei conti, la frase che dà il titolo al film, quel messaggio che i corrieri lasciano al destinatario che non trovano in casa  – “ci dispiace di non averti trovato” – è probabilmente quella che la moglie e i figli di Ricky potrebbero rivolgere quotidianamente a lui.

In effetti questo film parla di perdersi, ma anche del desiderio e della speranza di ritrovarsi.

Sorry We Missed You può parlare di ognuno di noi. Sorry we missed you parla a ognuno di noi. E per questo è un film necessario.

 

Legami di coppia e storia familiare

La storia familiare si svolge su una trama che ognuno dei partecipanti si impegna a narrare, alla quale ogni membro tende ad uniformarsi o a trasgredire ed è anche su questo che si basa lo sviluppo delle relazioni sentimentali.

 

Tradire la propria stirpe, scappare dalle proprie origini non porta al rinnovamento ma alla distruzione. Se agli alberi tagliassimo tutte le radici, morirebbero perché impossibilitati ad estrarre gli elementi nutritivi vitali dalla terra. Eliminare le radici ci espone al rischio di far seccare gli alberi o non farne nascere affatto. Cigoli (2008) individua nella vite e nella palma l’albero della conoscenza; nel melo secco e nel fico l’albero infruttifero; nell’ulivo l’albero della discendenza. ‘Ma non è forse l’ulivo l’albero contorto per eccellenza?’ si chiede Cigoli e risponde affermando che ‘il suo essere contorto comporta la presenza sia del secco, sia del frutto’. Ciò significa che affinché l’albero non muoia bisogna contrastare lo scisma ovvero la rottura del legame generazionale.

T. Marchetti (2000) sostiene che:

Una conoscenza parziale delle proprie origini e quindi di se stessi, si definisce in una mancanza di appartenenza ad un sistema affettivo e relazionale più ampio quale quello familiare, dove il vago lascia spazio a molte supposizioni, domande e al bisogno quindi di trovare risposte certe che pagano fino alla sofferenza generata.

In Il rosso e il nero di Stendhal anche il rigetto delle proprie origini, il voler appartenere ad un’altra stirpe comporta un senso di vuoto affettivo e relazionale che Julien tenta di riempire attraverso varie storie e relazioni amorose.

Al contrario, Mathilde de la Mole, ottenendo dal padre di dare un titolo e una rendita a Julien, tenta di portare l’amato all’interno della propria stirpe. Ella è fortemente ancorata alla propria storia generazionale tant’è che, prima di accettare l’amore di Julien tergiversa molto al fine di poter trovare il modo per risolvere il contrasto tra le ragioni del cuore e le prescrizioni provenienti dalle generazioni precedenti. L’ancoraggio alla storia generazionale della propria famiglia viene descritta abilmente da Stendhal nel momento in cui Mathilde si fa consegnare la testa mozzata del fidanzato, dopo l’esecuzione della sentenza di morte, portandola sulle sue gambe al corteo funebre. Ella la bacia più volte emulando la storia di un suo antenato, Boniface de la Mole, anch’esso impiccato nel 1574, del quale la sua amante, Margherita de Valois, si fece consegnare la testa baciandola pubblicamente come suggello del loro amore.

Stendhal ci informa che la storia di Boniface aveva sempre attratto Mathilde la quale lo considerava un eroe.

Sempre T. Marchetti nota che

la metafora storica colloca il divenire della storia in una dimensione ciclica, ovvero in una sorta di continuo ritorno che non ha la forma di una linea, ma di una spirale. In questa dimensione circolare che scandisce attraverso le fasi evolutive lo sviluppo dell’esistenza, ogni essere umano, attribuisce un senso epico alla propria vita, dando una forma narrativa e romanzesca all’intreccio complessivo delle singole vicende, caricandole di significati simbolici, affettivi e relazionali, che secondo l’angolazione teorica sistemico-relazionale, prendono il nome di mito.

La storia familiare si svolge su una trama che ognuno dei partecipanti si impegna a narrare, alla quale ogni membro tende ad uniformarsi o a trasgredire. Come in ogni romanzo convivono realtà e fantasia. Il mito, nell’accezione di M. Andolfi e C. Angelo (1987), tende a mischiare gli elementi di cronaca con elementi fantastici per soddisfare i bisogni emotivi dell’intero sistema familiare in funzione del mantenimento del legame generazionale. Esso serve ad attenuare le responsabilità individuali nella costruzione della storia in quanto rimanda ad eventi, spesso sovranaturali, che sfuggono al controllo e alle intenzionalità dei singoli. Se un determinato evento è scritto nella storia mitologica i comportamenti individuali che potrebbero diventare inaccettabili o pericolosi alla storia generazionale trovano una giustificazione sovrastrutturale. Per Andolfi ed Angelo, il terreno di sviluppo dei miti familiari si colloca nei problemi non risolti di perdita, separazione, abbandono, individuazione, nutrimento e deprivazione. In sostanza i miti sono da scrivere nel ‘libro dei debiti e dei crediti’ intra- e intergenerazionale e sembrano stabilire i ruoli che ogni membro deve coprire nella storia familiare. Mathilde, dopo una lunga riflessione, decide di trasgredire le norme familiari accettando l’amore di Julien. Qui inizia il suo dramma che però trova ampia giustificazione nei miti familiari: il trasgredire, il tradire le norme generazionali, il darsi ai sentimenti comporta la tragedia. L’antenato Boniface muore ghigliottinato anche se per motivi politici, allo stesso modo muore l’amato Julien. Boniface si era dato ai sentimenti amando al di fuori del matrimonio Margherita del Valois, Mathilde, contro il parere del padre, si innamora di Julien. Attraverso il gesto di portare la testa mozzata dell’amato sulle sue gambe e di baciarla pubblicamente, tende a riportare i suoi comportamenti trasgressivi ai miti familiari.

Il mito, infatti, costituisce un modello di valore ed ha una funzione prescrittiva poiché è attraverso di esso che si avviano i meccanismi di lettura, di classificazione, di interpretazione della realtà. In questo modo esso diventa una matrice di conoscenza e rappresenta un elemento di unione e un fattore di coesione per quanti credono nella sua verità (Andolfi & Angelo, 1987).

Il dramma di Madame de Renal, invece, è quello di scappare, attraverso la relazione con il brillante precettore dei figli, da una monotona realtà matrimoniale: ‘Io donna sposata sarei innamorata! No. Questa follia sarà passeggera….. Però a mio marito, non gli tolgo nulla. Pensa solo ai suoi affari lui’.

Ritorna ancora una volta la lotta tra l’ethos e il pathos. Da un lato, i principi etici che vengono salvaguardati, non accettando che una donna sposata possa innamorarsi. In effetti, Louise de Renal ha una certa empatia per il giovane precettore, ma avendo a lungo frequentato i salotti francesi non pensava che potesse essere amore poiché ella considerava quest’ultimo come una disgustosa libidine. Solo nel momento in cui la cameriera Elisa gli confida di essere stata rifiutata da Julien riconosce i suoi sentimenti. Dall’altro il pathos ovvero ciò che Cigoli definisce accessibilità ai sentimenti. Durante il processo e subito dopo la morte di Julien, questi emergono in tutta la loro intensità. Muore dopo tre giorni dall’esecuzione del suo amante.

La lotta tra i principi etici e il pathos rimanda alla scelta dell’altro/a. Bowen introduce il concetto di ‘contratto fraudolento’ in cui ognuno dei partner coglie l’immagine dei bisogni profondi dell’altro e agisce come se proprio lui li soddisferà, pur essendo questa una cosa impossibile per entrambi. E’ il primo momento dell’incontro, dell’illusione, dell’innamoramento. Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera (2002) affermano che la fase dell’innamoramento è fondamentale nella costruzione dell’identità di coppia in cui avviene l’idealizzazione reciproca in base alla quale ogni membro della coppia propone inconsapevolmente all’altro e a se stesso, un’immagine ideale di Sé, che attrae l’altro in base a quanto questa corrisponde alla soluzione di antichi bisogni profondi. Cancrini ed Harrison (1991) sostengono che: ‘ci innamoriamo sempre dell’immagine che l’altro ci rimanda di noi, e dell’immagine che a lui rimandiamo. Da questo incrocio e scambio reciproco di immagini scaturisce quella che chiamiamo relazione’. Norsa e Zavattini (1997) fanno notare che ‘l’innamoramento ha a che fare con uno stato del Sé alla ricerca di qualcosa fuori da Sé‘. E’ la fase in cui i principi etici si sottomettono totalmente al pathos. Dopo la fase dell’illusione tipica dell’innamoramento inizia quella dell’individuazione in cui si dovrebbe accettare l’altro per quello che è piuttosto per come si vorrebbe o ci si è illusi che esso fosse. Zavattini e Santona (2007) a tal proposito fanno rilevare che ‘se le persone sono giunte con esito positivo al proprio sviluppo individuale, sono in grado di passare da una relazione basata sulla soddisfazione dei propri bisogni narcisistici ad un rapporto fondato sulla condivisione e l’empatia, sulla cooperazione e sulla comprensione, nonché sulla libera espressione della propria personalità’.

E’ la fase del matrimonio in cui si ricongiungono i principi etici con quelli del pathos, dove le promesse esplicite diventano cornice dell’incontro profondo. L’ethos, come abbiamo visto in precedenza, si basa sulla giustizia e la lealtà. Se la giustizia viene meno come all’interno di un matrimonio imposto, può anche venire meno la lealtà così come accade a Louise del Renal.

Per l’esplicarsi del pathos sono necessarie scelte libere, non imposte dalle famiglie. F. Botturi sostiene che:

se nella scelta c’è una risposta, e se nella risposta c’è una scelta, allora la libertà sorge e cresce con l’altra libertà. La compagnia quotidiana delle libertà rimanda per un verso… alla non assolutezza della libertà, ma per un altro verso impone anche di riflettere sul fatto che il contesto di libertà facilita la libertà stessa, così come un contesto d’imposizione impedisce e blocca la libertà.

In Sicilia per sfuggire alle imposizioni delle famiglie di origine, per conquistare l’accesso al mondo dei sentimenti al di là delle appartenenze di casta, per poter scegliere ed essere scelti si è sviluppato un fenomeno chiamato ‘fuitina’. Attraverso l’atto del fuggire i giovani amanti mettevano le famiglie di origine, che si opponevano alla loro unione, di fronte al ‘fatto compiuto’. Quest’ultimo consisteva nell’aver avuto un rapporto sessuale e la perdita della verginità da parte della ragazza. A quel punto le rispettive famiglie di origine erano costrette ad accettare la loro unione. Il matrimonio riparatore veniva celebrato subito dopo la fuga senza lo sfarzo tipico delle nozze regolari. Addirittura il matrimonio veniva celebrato all’alba alla sola presenza dei familiari e dei testimoni. Alla sposa era assolutamente vietato indossare l’abito bianco poiché quest’ultimo è simbolo di purezza e verginità che la ragazza fuggita aveva perso. Significativi i riti che seguivano la scoperta della ‘fuitina’. La famiglia, soprattutto quella della ragazza, riceveva parenti ed amici i quali portavano vivande (pasta, carne o altro) per un pasto consolatorio. I genitori nei giorni a seguire non venivano mai lasciati da soli. Singolare che questo rito è identico a quello che segue la morte di una persona cara in cui ai parenti viene portato dagli amici intimi ‘u cunsulo’ (pasto consolatorio). Veniva celebrata la morte del vecchio legame familiare. Seguiva il rito della ‘paciata’ in cui i genitori delle due famiglie si incontravano per organizzare il matrimonio riparatore e dare la dote necessaria ai futuri sposi. Ricordo che l’organizzazione del matrimonio prevedeva la dotazione della dote ai futuri sposi. Una volta che il giovane chiedeva la mano della figlia al padre della ragazza, prima che quest’ultimo acconsentisse al fidanzamento, si incontravano le due famiglie e si mettevano d’accordo sulla dote. Ognuna delle famiglie di origine dichiarava che cosa era disposta a dare ai futuri sposi. Si trattava come di un vero e proprio affare con tanto d’intermediari che cercavano di mettere d’accordo i contendenti. A volte si arrivava a sottoscrivere un atto davanti al notaio: i capitoli matrimoniali. Una volta trovato l’accordo poteva essere annunciato il fidanzamento ufficiale. Particolare attenzione in questo accordo veniva posta al corredo della ragazza. Era tradizione che le mamme si occupassero fin da quando le figlie erano piccole di fare il corredo. Il ricamo era un’arte in cui erano impegnate tutte le donne della famiglia indipendentemente dalla loro estrazione sociale. Il corredo minimo era costituito con multipli di dodici: poteva essere da 12, 24, 36 secondo le possibilità economiche. Un corredo da 24 era costituito da: 24 lenzuoli doppi di puro lino ricamati a mano, 24 semplici, 36 coppie di federe, 12 asciugamani di tela d’Olanda più 6 per gli ospiti, 12 tovaglie d’organza più 6 per tutti i giorni e così via. Alla mamma dello sposo veniva dato il compito di controllare, prima della celebrazione del matrimonio, che quanto dichiarato corrispondesse al vero. A volte svolgeva il compito direttamente presentandosi a casa della sposa il giorno del matrimonio ed aprendo la cassapanca che conteneva il corredo, a volte demandava questo compito ad una persona di sua fiducia. Nelle ricerche della banca della memoria, a cui accennavo in precedenza, abbiamo trovato un caso singolare in cui gli invitati aspettavano in chiesa il via libera alla celebrazione del matrimonio perché nella conta del corredo mancavano due paia di lenzuoli. La signora a cui era stato demandato il compito di controllare dalla mamma dello sposo, di fronte alla fermezza di quest’ultima a non acconsentire alla celebrazione del matrimonio, per risolvere la contesa andrò a casa sua ed integrò il corredo.

La ‘fuitina’ serviva a trasgredire, in nome del pathos, a superare tutte quelle prescrizioni che avvolgevano lo scegliersi e il conseguente matrimonio. Attraverso di essa si proclamava la libertà della scelta d’amore da parte dei futuri sposi. Era però una trasgressione che andava punita. Vista da parte dei genitori e della comunità era una sconfitta delle convenzioni sociali. Proprio per questo motivo rivivevano l’esperienza del lutto e praticavano i relativi riti. P. Donati (1986) sostiene che

nel matrimonio l’individuo trova occasione d’incontro e di scontro, di espressione e di alienazione nella società. Capire perché ci si debba sposare, e riuscire a sposarsi in modo soddisfacente, tanto per i subendi che per la comunità sociale che sta loro attorno, sono sempre state faccende molto serie, delle vie seriuse, oltrecché di calcoli, di scambi e di giochi di interesse.

Nel matrimonio viene coinvolta l’intera comunità essendo una istituzione sociale e religiosa.

Il matrimonio è una solida istituzione sociale, generalmente consacrata dalla religione, che si impone ai singoli in modo indiscusso. La coscienza collettiva non ammette che la soggettività individuale … entri a relativizzare una regola su cui è costruita tutta l’integrazione sociale, cioè l’identità e l’ordine di una intera comunità (Donati, 1986).

 

L’inibizione del sistema immunitario, dopo un danno cerebrale, porta ad un miglior recupero dal trauma cerebrale

I traumi cranici possono causare danni biologici al cervello irreversibili, portando il soggetto ad avere complicanze in ambito cognitivo, comportamentale o emotivo. La principale difesa immunitaria del cervello è data dalle cellule microgliali. Quali influenze possono avere queste cellule sul recupero dopo un danno cerebrale?

 

Dopo un trauma cerebrale si verifica un’attivazione del sistema immunitario, che si manifesta tramite un’infiammazione della zona danneggiata, agendo cosi come fattore protettivo per il cervello. Tuttavia, se l’infiammazione si protrae per troppo tempo può portare alla degenerazione neurologica con conseguente declino cognitivo (Henry et al., 2019).

I traumi cranici possono causare danni biologici al cervello irreversibili, portando il soggetto ad avere complicanze in ambito cognitivo, comportamentale o emotivo; la prognosi dipende dall’entità del danno e colloca lungo un continuum che va dal recupero completo al decesso nei casi più gravi. Il trauma cranico rappresenta una delle principali cause di morte (Alves& Bullock, 2001).

La principale difesa immunitaria del cervello è data dalle cellule microgliali: queste sono un tipo di cellule della glia che vanno a costituire la principale difesa immunitaria del nostro sistema nervoso centrale.

Le cellule della microglia costituiscono circa il 20% della popolazione totale di cellule all’interno del cervello, le quali si muovono costantemente alla ricerca di neuroni danneggiati, placche e agenti infettivi (Aloisi, 2001).

Una ricerca pubblicata nel 2019 su Journal of Neuroscience, ha condotto uno studio sperimentale sui topi, arrivando alla conclusione che agire sull’infiammazione che si protrae nel tempo, annullandola, porta a buoni risultati terapeutici nel trattamento dei traumi cerebrali (Lull&Block, 2010).

Lo studio condotto su due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo, prevedeva il creare un danno cerebrale ai topi appartenenti ad entrambi i gruppi, tuttavia, solo al gruppo sperimentale (dopo un mese dal trauma cerebrale) è stato inibito un particolare recettore imperativo per la sopravvivenza delle cellule microgliali. Conseguentemente a questa azione, sono state uccise il 95% delle cellule microgliali, questo processo è stato effettuato per una settimana, successivamente i ricercatori hanno smesso di inibire il recettore che causava la morte delle cellule. Ciò che è stato osservato è che, dopo il periodo di inibizione, le nuove cellule microgliali che si formavano risultavano essere in uno stato normale e non in uno stato infiammatorio, ciò ha portato a un miglioramento nel recupero dal danno cerebrale.

Quindi, i risultati mostrano che i topi appartenenti al gruppo sperimentale, che quindi avevano subito la distruzione delle cellule microgliali, dopo un mese dal trauma encefalico, mostravano un miglior recupero cerebrale rispetto ai topi appartenenti al gruppo di controllo, i quali non avevano ricevuto alcuna inibizione delle cellule microgliali; in particolare, i benefici tratti dal gruppo sperimentale sono riscontrabili in termini di: minor danno al cervello, meno neuroni morti e una miglior performance cognitiva e motoria (Henry et al., 2019).

I risultati di questo studio mostrano che la riduzione dello stato infiammatorio dopo un mese dal danno cerebrale, porta a dei benefici significativi nella prognosi dei traumi cerebrali. Tuttavia, trattandosi di uno studio preliminare condotto su topi, i ricercatori sottolineano l’importanza di svolgere ulteriori studi sperimentali prima di affermare con un certo grado di certezza che inibire le cellule microgliali possa essere un nuovo trattamento per i traumi cerebrali.

In particolare, si demarca la necessità di condurre uno studio analogo sugli esseri umani (Henry et al., 2019).

 

Mai più indifesa (2019) di C. Gambino e G. Salvatore – Recensione del libro

Mai più indifesa è un libro forte e d’impatto che cerca di spiegare le dinamiche psicologiche alla base di incastri relazionali perversi o malati, gli stili di personalità, gli schemi interpersonali maladattivi, i cicli interpersonali ed il ruolo che giocano le immagini e le cognizioni negative di sé.

 

Essere donna significa incarnare molti aspetti. Essere donne in carriera vuol dire dimenarsi tra gli impegni personali e professionali sentendo la pressione di dover fare tutto e bene. Essere donne potenti vuol dire gestire il frequente senso di inferiorità di alcuni partner e il rapporto con colleghi, non sempre basati sulla cooperazione. Essere donne di casa vuol dire equilibrare il senso di sacrificio che media tra i sogni di una vita e quello a cui si è voluto o dovuto rinunciare. Essere belle e affascinanti vuol dire doversi costruire dei confini che l’altro non può e non deve travalicare. Se a tutto questo si associano storie di vita particolarmente problematiche o eventi traumatici, gestire le emozioni ed i rapporti con gli altri può non essere semplice e si incorre frequentemente in dinamiche interpersonali basate sull’umiliazione, sulla derisione, sulla manipolazione e sottomissione. Insomma, abusi di vario titolo e grado, in varie fasi e contesti di vita.

Mai più indifesa è un libro forte e d’impatto. In quanto donna ho sentito sulla pelle e nello stomaco le dinamiche scritte dagli autori, catapultandomi in varie scene della mia vita, in età diverse e con più soggetti. Libri scritti in questo modo, con cuore e delicatezza, non possono non avere questo effetto: le storie delle protagoniste e dei protagonisti, infatti, sono narrate in modo vivido e crudo e permettono al lettore di entrare nel vivo delle scene. Per chi li conosce, questo stile è il chiaro timbro personale dei due autori. Bello il ‘tu’ che crea intimità e calore assieme ad una struttura semplice e chiara che unisce casi clinici a spiegazioni teoriche in una modalità facilmente accessibile a tutti. Vengono spiegate le dinamiche psicologiche alla base di incastri relazionali perversi o malati, gli stili di personalità, gli schemi interpersonali maladattivi, i cicli interpersonali ed il ruolo che giocano le immagini e le cognizioni negative di sé. Si può considerare un libro di auto-aiuto? Direi di sì. Ritrovarsi in queste righe è già una fase di consapevolezza che prepara e determina il cambiamento. E le storie raccontate sono la testimonianza di come sia possibile arrivarci.

Lo dimostrano le vicende di Laura e la sua paura di commettere errori, gestita mediante un perfezionismo clinico e standard elevati da dover necessariamente raggiungere anche all’interno delle relazioni.

Lo dimostra la storia di Federica, la cui dipendenza affettiva disfunzionale la costringeva ad instaurare storie con uomini che la frequentavano solo per scopi sessuali, rinforzando l’idea nucleare di non essere degna d’amore.

Lo dimostra Eleonora con la sua necessità di trovare continue conferme all’immagine di sé speciale, ricercando ammirazione e rinunciando agli aspetti di calore e di affetto interpersonale.

Poi abbiamo Giuseppina che ha superato il dolore derivante da un senso di sé frammentato e caotico, un dolore spesso agito attraverso comportamenti disregolati che mettevano a dura prova i suoi rapporti.

E infine ecco Ginevra, legata ad un uomo violento ed aggressivo e verso il quale si sentiva impotente e sottomessa, che adottava strategie utili per frenare i suoi scoppi d’ira nel vano tentativo di preservare l’equilibrio familiare e proteggere i figli.

Tutte queste storie di donne sono la prova tangibile che è possibile liberarsi da relazioni dannose e dal ruolo di vittima, attraverso un’adeguata psicoterapia. Nel libro viene descritta la terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) che ha come scopo principale quello di riconoscere gli schemi maladattivi disfunzionali e le strategie con cui si cerca di gestirli favorendo la comprensione del proprio mondo interno fatto di pensieri, immagini mentali, emozioni, stati corporei, comportamenti e di come essi si fanno largo nella vita quotidiana ed interpersonale. Per ogni storia è descritto l’incastro perverso creatosi con uomini abusanti, umilianti, maltrattanti e viene sottolineato il ruolo giocato dalla mancanza di agency personale. Con questo termine ci si riferisce alla capacità di mettere a fuoco i propri desideri e di considerare sé stessi in diritto di perseguirli. L’agency include anche la dimensione del confine. Il confine è la capacità di mantenere costantemente il senso di un proprio centro come individuo, il senso di sé come un soggetto distinto dagli altri….a cui si associa il senso di uno spazio personale che non può essere invaso (Gambino & Salvatore, 2019). Infatti la terapia prevede di incrementare la possibilità di agire sui propri stati interni in modo funzionale, dopo aver imparato a riconoscere i propri desideri e bisogni legittimi.

I terapeuti, in maniera estremamente normalizzante e validante, hanno aiutato tutte queste donne a riconoscere la lettura degli eventi schema-guidata, nonché le previsioni, createsi nella mente nel corso del tempo, di come gli altri risponderanno ai bisogni, e infine come riappropriarsi del proprio senso di autodeterminazione. La terapia viene descritta nelle sue macro componenti principali con particolare attenzione agli stati corporei, fisiologici. Infatti gli schemi maladattivi interpersonali, oltre a contenere immagini nucleari del sé, pensieri, ed emozioni, rappresentano anche un assetto fisiologico e viscerale, cioè corporeo, attraverso cui esso viene sperimentato. Un senso di sé come priva di valore, piuttosto che un senso di inadeguatezza o di solitudine, viene percepito in modi specifici e soggettivi nel corpo e questo peculiare senso di sé predisporrà le azioni. Molto spesso le non-azioni. Ad esempio sentirsi impotenti, incapaci di difendersi, con un corpo debole o rigido, predispone verso la passività, la remissività o il ritiro. Così la distanza dall’altro aggressivo viene percepita come unica possibilità, senza però risolvere definitivamente il rapporto.

Nel libro vengono descritte varie tipologie di abuso, dalla manipolazione psicologica (es. minaccia di abbandono) alla violenza fisica. Viene descritto il modello interpretativo del fenomeno in questione e la successiva terapia. Gli autori si focalizzano in particolare sulla necessità del lavoro sul corpo per favorire maggior senso di padronanza di sé, maggiore capacità di gestire emozioni discrepanti e situazioni problematiche, oltre a ritrovare parti di sé nuove, vitali, spesso dimenticate o costruirle da zero. Si riscoprono così potenzialità personali e nuove possibilità relazionali. Ritroviamo la descrizione del laboratorio esperienziale di gruppo Mai più indifesa, da cui il nome del libro, condotto personalmente da Chiara Gambino e Giampaolo Salvatore. Questo percorso consta di 5 incontri, fasi psicoeducative, condivisioni di esperienze in gruppo e fasi esperienziali, comprendenti un lavoro sul corpo e sulla mente attraverso tecniche immaginative, meditative, tecniche marziali e simulazioni situazionali. L’obiettivo finale? Divenire consapevoli del radicamento della propria immagine di sé all’interno di schemi maladattivi interpersonali. La differenziazione tra queste rappresentazioni e la realtà è la fase che predispone al cambiamento. Esso è possibile agendo attivamente sul corpo per ottenere un effetto anche sulle emozioni che smettono di essere predominanti diventando tollerabili e gestibili.

Leggere questo libro infonde speranza. Per certi versi, aiuta a sviluppare un senso di forza e trasmette l’importanza di fidarsi e affidarsi, accedendo a professioni d’aiuto. Essere donna nel 2020 vuol dire anche questo. Fortunatamente.

 

28 Days: i temi dolorosi e la dipendenza patologica – La LIBET nelle narrazioni

28 Giorni è una commedia drammatica degli anni 2000 che tratta principalmente il tema della dipendenza (alcolismo e tossicodipendenza) La protagonista è l’attrice Sandra Bullock nella veste di Gwen, scrittrice di successo che ama vivere la vita superando i limiti, perdendosi nella città di Newyork per locali, tra una festa e l’altra.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 09) 28 Days

 

Accompagnata dal suo compagno Jasper, ragazzo ribelle, amante del rischio e dell’adrenalina, amante insieme a lei di una vita apparentemente appagante ma piena di eccessi non privi di conseguenze, che questo film ben esemplifica.

Assistiamo infatti a una scena del film in cui Gwen arriva ubriaca e in ritardo al matrimonio della sorella. Dopo la cerimonia balla insieme al suo fidanzato, i due sono così ubriachi da mettere in circostanze imbarazzanti gli invitati fino al punto in cui lei cade sulla torta nuziale. Poi, lasciando la festa ruba una limousine e fa un incidente.

Possiamo leggere il personaggio di Gwen in chiave LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero 2016), un modello transdiagnostico cognitivo comportamentale di concettualizzazione della sofferenza psicologica sintomatica e della vulnerabilità della persona.

Nella LIBET per tema doloroso si intende uno stato mentale appreso nella storia di vita percepito come doloroso, pericoloso, insopportabile. Per piano si intende invece la strategia mentale o comportamentale che adotta la persona nel corso della sua vita per tenersi “lontano” dal tema doloroso.

Questo episodio, accompagnato dalla seguente pena del giudice che la condanna a 28 giorni di comunità terapeutica riabilitativa in alternativa al carcere, costituisce l’invalidazione del piano. Cioè l’evento che espone Gwen al tema doloroso che ha fino a quel momento cercato di tenere a distanza.

L’inizio del percorso comunitario, la costrizione e le regole, gli altri utenti con differenti problematiche, l’assenza di alcol e sostanze, la perenne fallimentare ricerca di farmaci calmanti, nell’insieme, portano Gwen ad attraversare un momento difficile e di grande cambiamento.

Proprio in un contesto diverso dal suo, in cui il piano semiadattivo immunizzante sembrava funzionare alla perfezione, emerge il suo tema doloroso (disamore e inadeguatezza- indegnità- sono inutile, sono sbagliata) con il quale spesso è costretta a confrontarsi … “mi vergogno per quello che sono, faccio solo dei guai“.

Lo si nota in un particolare momento.. quando i sintomi di astinenza iniziano a farsi sentire, la mente le si riempe di flashback, di ricordi sfocati.

Rivive scene in cui era davvero ubriaca, inizia così ad emergere un gran senso di colpa e di vergogna. L’astinenza le permette di fare un tuffo tra vecchi ricordi che tornano a galla in una lucidità forse troppo scomoda da tollerare. In comunità rivede e rivive scene dell’infanzia: ricorda la madre perennemente ubriaca, la sorella Lily molto critica nei suoi confronti, capisce di non avere mai ricevuto supporto e di aver dovuto sempre arrangiarsi da sola; a furia di sentirlo ripetere dalla sorella ha creduto inoltre di essere inutile, sbagliata, stupida, e che combinava solo dei guai. Sentirsi così è intollerabile per lei: bere e drogarsi, annebbiare la mente le serve per poter tollerare quella frustrazione. Cerca così di ridurre al minimo il dolore che la vita le provoca.

In comunità le cose iniziano con difficoltà a cambiare, il fidanzato però non l’aiuta nel cambiamento e tenta fino alla fine di riportarla alla vita precedente, unica ancora del loro legame, ma Gwen è determinata a cambiare.

Un colloquio immaginario con Gwen

T: Cerchiamo insieme di ricostruire sinteticamente quello che ci siamo dette. Vorrei aver capito bene. Da piccolina ha imparato che non bisogna mai chiedere aiuto, soprattutto ha imparato che le emozioni giuste, che vanno bene sono quelle “positive”, bisognava ridere sempre diceva mamma giusto?

P:Sì questi ricordi mi fanno male..

T: E’ normale che facciano male.. è naturale essere vulnerabili su questo punto con la sua storia.. Mi ha anche raccontato che ha osservato ed assistito spesso a comportamenti di mamma ubriaca che l’ha messa in pericolo diverse volte, sia a Lei che a Sua sorella Lily.. E diciamo anche che ha spesso usato l’alcol e lo stordimento per affrontare le situazioni della vita in modo più divertente e semplice. Ci si ritrova?

P: Sì solo che ora ho fatto un grosso incidente per colpa dell’alcol

T: Lei ha fatto quello che poteva da piccola ma anche ora. Cerchiamo di capire insieme.. tutto quello che mi ha raccontato è assolutamente normale, doloroso, difficile da accettare ma non impossibile. Bere l’ha aiutata a vedere le cose diversamente e non fare i conti con i propri pensieri, stati ed emozioni dolorose.. Questo tipo di strategia però ha anche dei costi …come le conseguenze sulla salute e i danni che può provocare a sé e altri altri. Che ne pensa?

P: Sì mi è molto difficile capirlo ma ora in comunità sto provando.. solo che qui non c’è alcol, droghe.. non mi danno i farmaci per il dolore vorrei andarmene ma comunque non posso perchè l’alternativa è il carcere..

T: Certo la prima cosa che ci verrebbe da fare è andare via e tornare alla vita di prima..l’alcol ha un effetto inibitorio.. un pò come se fosse un anestetico.. non ci fa sentire alcune emozioni che senza alcol vivremmo forse più intensamente e le sentiremmo più dolorose. Però Lei è arrivata qui dopo quell’incidente in cui ha rischiato la vita e sta comunque riuscendo a non bere, credo che ce la possa fare perchè lo sta già facendo.

P: Sì questo è vero. Ora mi vengono in mente tanti ricordi.. ma forse sono io che non ce la posso fare a stare qui.. è un problema mio.. sarò stupida io che non riesco a starmene ferma in una stanza con i miei pensieri e ricordi

T: Lei non è stupida. da quello che mi ha raccontato se lo è sempre sentita dire da piccolina.. quindi è normale se ci sentiamo stupidi a non riuscire a stare in una situazione scomoda e difficile.. Ed è anche vero che a tutti non fa piacere stare in un posto chiuso, con tutte le regole e le costrizioni che fuori, nella vita normale non ci sono. E’ tutto difficile e lo sarebbe per chiunque. Ma penso che lei ce la possa fare. Ha affrontato tante difficoltà nella sua vita e spesso da sola. Credo quindi che ci possa riuscire.

P: Sì so di essere comunque in un contesto dove posso provare a cambiare.. vorrei però che il mio fidanzato mi capisse. Pensi, l’altro giorno si è presentato con la proposta di  matrimonio, un anello e una bottiglia di champagne! Lui non capisce che io sto cercando di cambiare davvero e che è difficile stare qui senza l’alcol e le droghe e la vita che facevamo prima. Lui non è cambiato…e non m’aiuta questo, gliel’ho spiegato mille volte da quando viene a trovarmi ma non capisce…lui non se ne rende neanche conto della vita che fa che facevamo….

T: Certo deve essere molto molto sgradevole non sentirsi capiti. Tutti quando non ci siamo sentiamo capiti proviamo tristezza o rabbia. E’ normale. Gli altri però non li possiamo cambiare. Ciò che possiamo fare è lavorare su di noi, qui, ora. Possiamo cercare di capire insieme come comunicare a Jasper che per il nostro bene ora è importante avere un supporto vicino e non alcol o sostanze. La sua vita fuori è rimasta la stessa probabilmente. Lei ha fatto quello che poteva per farglielo capire. Ed è arrivata con le sue forze fino a qui

P:Sì ma infatti io sto capendo qui, grazie a tutti gli utenti che vorrei staccarmi definitivamente dalla vita che facevo prima, non è stato sano per me. Forse anche lui non è sano per me.

T: Come pensa che la terapia possa aiutarla in questo? Cosa dovrebbe cambiare secondo lei per andare in quella direzione?

P: Continuare il mio percorso qui e lui la sua vita fuori. Sarà difficile ma non posso tornare alla vita di prima.

T: OK. Possiamo darci altri obiettivi realistici oltre a quello di portare a termine il percorso con tutte le sue difficoltà e ostacoli su cui lavorare assieme?

P: Imparare a tollerare la frustrazione di momenti difficili, saper chiedere aiuto e ascoltare gli altri e non usare sostanze come strategie per affrontare la vita.

T: Bene. quindi potremmo dire che lavoreremo per tollerare meglio stati emotivi difficili da sopportare e negativi, e saper chiedere aiuto. Le ricordo che il lavoro che faremo insieme oltre al lavoro di gruppo che le consiglio di continuare a seguire con gli altri utenti non è mirato all’eliminazione delle emozioni negative ma ad una loro migliore gestione. Posso aiutarla sulla consapevolezza: Conoscere meglio le regole o le idee che la condizionano e la fanno soffrire e riconoscerle quando si attivano.

P: Sarà difficile ma non ho alternativa

T: Le ricordo che Lei è sempre libera di scegliere quanto impegnarsi o meno. Quanto è importante per lei cambiare questi aspetti da 0 a 10?

P: all’inizio quando sono entrata 4…o meno.. ora tanto

T: Tanto come lo potremmo definire da 0 a 10? P:8 T: e quanto pensa Lei di poter cambiare?

P: penso insieme a voi di poterlo fare

T: E quanto è prioritario farlo?

P: sempre 8

T:Partiremo gradualmente insieme al lavoro che già sta facendo. Cosa ne pensa?

P: Sì tanto sono sempre qua dentro non scappo stavolta e voglio provare davvero a cambiare.

T: Le chiedo.. cosa guadagnerebbe se cambiasse e affrontasse queste fatiche? Prevede degli ostacoli?

P: Starei meglio di salute, riallaccerei i rapporti con mia sorella..potrei chiederle un confronto e scusa..come ho fatto l’altro giorno quando abbiamo parlato tanto.. Ritroverei me stessa senza alcol e droghe.. potrei chiedere aiuto nelle situazioni di difficoltà, e crederei forse  di più in me stessa che posso riuscirci.. con la calma e concentrazione come ho fatto l’altro giorno con lo zoccolo del cavallo nelle attività di ippoterapia. Alla fine ce l ‘ho fatta, mi sono fidata e ho chiesto aiuto.

T: Bene cercheremo di continuare su questa strada, insieme.

Storia critica della psicoterapia (2020) di Foschi R. & Innamorati M. – Recensione del libro

Storia critica della psicoterapia è un volume che si propone di raccontare l’evoluzione delle forme e dei modi nei quali l’uomo si è via via avvicinato alla comprensione e alla cura della sofferenza psichica, in un percorso che intreccia diversi saperi e diverse prassi, dalla filosofia al teatro alla religione per arrivare infine alla medicina e alla psicologia sperimentale.

 

Nell’ultimo secolo, il campo delle psicoterapie ha conosciuto una vera e propria fioritura di libri, che è andata di pari passo con l’incremento del numero di modelli terapeutici ed ha permesso sia a chi si è accostato a questo mondo per ragioni di studio o formazione sia al lettore semplicemente curioso, di venire a contatto con molteplici teorie, tecniche, autori in un corpus di conoscenze considerevole e al contempo variegato e caotico.

Un dato che a prima vista può sembrare sorprendente è che i tentativi di mettere ordine in questo campo siano stati assai limitati, e i lavori che ci hanno provato si possono suddividere in tre categorie: alcuni autori hanno cercato di proporre una ricostruzione storica limitata però solo ad alcune teorie – tra questi, imprescindibile è il lavoro di Ellenberger (1980) ma ricordo tra gli altri Bateman (1998), Ruggiero (2010), Andolfi (2017);  altri hanno semplicemente proposto all’interno di un libro delle sintesi di alcuni modelli scelti in modo deliberato dagli autori tra tutti quelli disponibili (tra questi ricordo la fortunata serie di volumi curata da R. Corsini dal 1973 ad oggi, nel corso della quale gli autori hanno variato di volta in volta i modelli terapeutici considerati a seconda della loro popolarità; altri ancora hanno provato, seguendo una feconda intuizione di Jung, a presentare i modelli terapeutici a partire dalla biografia dei vari ‘creatori’, partendo dal presupposto che i vari modelli siano stati tentativi di venire a patti con la propria sofferenza e correndo quindi il rischio di scivolare nell’agiografia (G. E. Atwood e R. D. Storolow (2001), A. Carotenuto (1992).

Quello che è mancato fino ad oggi è un tentativo di costruire una storia della psicoterapia che sia al contempo sia una storia in senso stretto che una storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici, riconoscendo alla psicoterapia una delicata ma indispensabile posizione altra sia rispetto alla psicologia che rispetto alla psichiatria, seppur in costante dialogo con entrambe.

A questa mancanza rispondono in modo assai efficace R. Foschi e M. Innamorati nella loro Storia critica della Psicoterapia, che già nelle primissime pagine si propone di

…mostrare come la psicoterapia, soprattutto nel XX secolo, sia stata un terreno di sviluppo di tecniche più o meno formalizzate, quasi sempre filiate dalla psicoanalisi, la cui storia è intrecciata, su vari piani, con quella di filosofia e medicina e poi psicologia, nel contesto degli incontri e scontri fra queste discipline (pag 4)

Il volume si propone di raccontare l’evoluzione delle forme e dei modi nei quali l’uomo si è via via avvicinato alla comprensione e alla cura della sofferenza psichica, in un percorso che intreccia diversi saperi e diverse prassi, dalla filosofia al teatro alla religione per arrivare infine alla medicina e alla psicologia sperimentale. Nel corso di questo viaggio si ha ad esempio l’occasione di rivisitare alcuni filosofi greci e di rileggere il loro pensiero come un percorso di cura dell’anima, di scoprire che la ‘cura attraverso le parole’ attraversa la storia dell’uomo da diversi millenni e che la contrapposizione tra questa e i trattamenti ‘fisici’ è presente sin dalle più antiche origini della civiltà.

Il volume ripercorre l’origine della psicoanalisi a partire dall’ipnosi sul solco del lavoro di Ellenberger ma con un taglio originale, più attento al contesto filosofico e sociale nel quale le varie teorie venivano a costruirsi, ne declina lo sviluppo in modo accurato e dettagliato, dando spazio al pensiero di Freud ma anche a quello di tutti gli uomini e le donne che hanno contribuito a rendere la psicoanalisi il principale modello teorico tra le psicoterapie: si descrive il pensiero di Freud dando conto delle sue evoluzioni, le contestazioni di Adler e Jung, le trasgressioni di Ferenczi, Rank e Reich, la nascita dell’analisi infantile, lo sviluppo dei diversi modelli alternativi a quello pulsionale classico (dalle relazioni oggettuali alla psicologia del sé, il modello culturale di Horney e Fromm, la Psicologia dell’Io, l’Intersoggettivismo, l’Ermeneutica, il Lacanismo, l’Analisi Relazionale), si dà conto del percorso di gemmazione dalla psicoanalisi di larga parte dei modelli psicoterapeutici oggi esistenti, dal Cognitivismo alla Terapia Familiare alla Bioenergretica, l’Analisi Transazionale e la Terapia della Gestalt. In parallelo, presenta anche l’origine autonoma del Comportamentismo e il suo successivo incontro col Cognitivismo, descrivendo le diverse evoluzioni che da questo incontro si sono generate. Ancora, accanto al grande albero della psicoanalisi e al robusto albero della Terapia Cognitivo – Comportamentale, il libro dà conto anche della genesi della Psicologia Umanistica e dei suoi sviluppi e anche del modello Strategico e Sistemico.

Il pregio principale del libro è che il tutto è scritto in modo avvincente ed armonico, restituendo ai singoli le proprie specificità e al contempo inserendoli in una storia condivisa. E’ un lavoro, come ho detto, importante e innovativo, che ovviamente si presta a dei rischi: ogni lettore potrà pensare che di questo o di quel modello si sarebbero potute dire altre cose, e questo non è necessariamente un limite, in quanto può diventare uno stimolo a ripensare ai fondamenti del percorso che si è scelto. Per conto mio, l’unico rilievo che mi sento di fare (e che mi auguro possa essere evaso in una prossima edizione) è il poco spazio riservato a Milton Erickson e al gruppo di Palo Alto (che deve molto anche alla Semantica Generale di Korzybski), che rappresentano uno dei pochi modelli teorici e terapeutici non direttamente derivanti dalla psicoanalisi.

Concludendo, Storia critica della psicoterapia è un libro importante, di cui si sentiva il bisogno perché copre un vuoto che accompagna la psicoterapia sin dalle sue origini. Il mio augurio è che venga letto da colleghi, da studenti (che potranno beneficiare anche dell’imponente bibliografia) e da tutti coloro a cui il tema interessa.

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