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Lila e Lenù: l’ambivalenza femminile in età adolescenziale – Analisi attraverso una riflessione psicologica dell’opera televisiva “L’amica geniale”

La serie tv che prende il nome di L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, al di là dell’intenzione di volerne analizzare l’ambientazione storica, che potrebbe trarre in inganno e congelarne i contenuti trattandosi di un’epoca molto distante dalla nostra (anni 50/60), ci conduce per mano negli abissi più profondi dell’età adolescenziale, dove il possibile e l’impossibile viaggiano sullo stesso binario.

 

Lo fa in maniera dolce e crudele, come solo sa essere quest’età dalle mille sfaccettature, accompagnandoci attraverso lo snodo delle caratteristiche di personalità delle due protagoniste e del gruppo dei pari a cui appartengono.

Lila e Lenù: il gruppo dei pari crudele e complice

Ci sono tutti i tipi caratteristici adolescenziali. C’è il bullo e il bullizzato, il facinoroso e il debole, la vanesia e la studiosa, la ribelle e l’ubbidiente, il delinquente e il virtuoso. Ma su tutti troneggia il ‘gruppo’, che sembra avere un’anima tutta sua, separata e sincrona allo stesso tempo. Anima di Gruppo che conoscono molto bene solo coloro che ci sono dentro, che vi prendono parte. Nel gruppo omertà e tradimenti animano le loro menti inquiete e fragili di chi ne fa parte, intervallate da invidie, possesso e complicità, in un’altalena di sentimenti, di legami forti ed avversioni altrettanto profonde che si manifestano non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi ed il mondo circostante.

Un mondo che non riconoscono, ma con cui si sentono di condividere i sapori acri e amari di un tempo dal futuro incerto, poiché tutto si snoda nel qui ed ora. Nel tempo indeterminato dell’attesa senza prospettiva, da cui emerge il tratto caratteristico del tempo tipico adolescenziale, che non si differenzia per epoche né per culture.

Le figure femminili mature, che fanno da contorno alle vite delle protagoniste, sono relegate in un ambito domestico, prive di voce e di storia personale. Mortificate nel loro spazio mortifero tra cucina e fornelli.

Lila e Lenù : una donna allo specchio

Su tutti si levano le due protagoniste femminili, adolescenti, che, ad un occhio attento paiono rappresentare un unico corpo, una sola donna, un’unica immagine di donna vista attraverso lo specchio deforme di quella ‘condizione femminile’, ancora molto lontana dal profilarsi pubblicamente, per essere riconosciuta.

Un corpo con due anime contrapposte, due volti speculari, con due voci dai toni differenti, rabbia e violenza, rassegnazione e rivincita.

Un corpo attraversato dal silenzio e dal rumore, per nascondere le proprie fragilità e le proprie insicurezze. Un corpo in cui la femminilità ora esplode come un uragano, ora si nasconde per paura di mostrarsi, ma è un corpo attraversato da una sottile, quanto pervasiva, similitudine culturale, in cui mancanza e cupidità si mescolano, per dar vita alla loro piccola storia, fatta di pezzi di niente.

Perché ‘mancanza’ non è solo povertà di mezzi, ma di affetto, accoglienza, amorevolezza, riconoscimento. Un’adolescenza dove la delusione e il rifiuto hanno preso il posto dell’abbraccio e dell’accoglienza produce cicatrici.

Piccole ma profonde ferite dell’anima, che strutturano un modo di essere sempre più svincolato dalle richieste, guidato verso una fredda e staccata autonomia emotiva, indotta da situazioni e circostanze negative, non scandite da situazioni piacevoli, ma da abbandoni e disconoscimenti emotivi.

Una mancanza dunque profonda che non permette alcuna stabilità emotiva, né la costruzione di quei modelli affettivi di attaccamento, utili per la realizzazione del proprio mondo emotivo.

Lila e Lenù: pezzi di niente

Pezzi di niente senza fili conduttori, senza legami, senza confini, così sembrano delinearsi le loro vite. In una precarietà quotidiana di un divenire fatiscente, dove non c’è posto per alcun sentimento certo, se non la voglia di ritrovarsi per riconoscere a se stesse una benché minima umanità, che a tratti sentono sgretolarsi e farsi distante.

Due ritratti di donne apparentemente in antitesi, da una parte c’è la buona e cortese fanciulla, remissiva e obbediente ai dettami della scuola, della famiglia e del gruppo dei pari, dall’altra la travolgente e ribelle fanciulla, amazzone in un mondo di maschi violenti e prevaricatori, di cui non accetta la seduttività, se non nell’accezione di servirsene, per sopravvivere alla loro vacuità.

Il sentimento amoroso a tratti veleggia, travolgendo come un turbine le loro vite, senza tra l’altro consentire alcuna costruzione emotivamente importante per nessuna delle due fanciulle. Non è un caso che si infatuino dello stesso uomo, per il quale vivranno la sofferenza della perdita.

L’elemento sempre presente è la mancanza, che si dipana come un filo conduttore sulle loro vite, che anche quando sembra aver soddisfatto e colmato un bisogno, avanza crediti, inesorabili e taglienti, con la vita.

Due figure di donna, che ritraggono l’ambivalenza femminile, quella stessa che ha caratterizzato la vita delle donne per millenni.

La donna ‘strega’ e ‘santa’, ovvero quella peccaminosa e quella senza macchia.

Due aspetti della femminilità che si delineano al di là degli stereotipi, che ancora oggi si fa fatica ad eliminare, perché anche quando il riscatto sociale e il raggiungimento di stati di soddisfazione personale sembrano avanzare, riemerge da lontano una condizione di debolezza emotiva, come un fantasma che raccoglie le loro anime prigioniere di un’infanzia priva di una propria memoria.

Perché le femmine vivono più a lungo dei maschi?

Un team internazionale di scienziati, studiando la durata media di vita dei mammiferi selvaggi femmine, ha scoperto che anche nel loro caso (come negli esseri umani) la durata di vita delle femmine è significativamente più lunga rispetto a quella dei maschi.

 

La ricerca ha preso in analisi 101 specie differenti, dalla pecora all’elefante, i risultati mostrano che le femmine del 60% delle specie prese in analisi, vivono il 18% in più di tempo, rispetto ai maschi delle medesime specie (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Lo studio, pubblicato sul giornale Proceedings of the National Academy of Sciences, riporta come la morte più precoce dei maschi non sia dovuta a problemi fisiologici correlati all’invecchiamento, ma piuttosto si tratti di una questione ambientale: i maschi adulti hanno infatti più probabilità di morire rispetto alle femmine adulte (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Ad esempio, il leone femmina vive il 50% del tempo in più rispetto al leone maschio; questo è dovuto al fatto che il leone maschio va a caccia e durante la sua quotidianità è più a rischio di morte rispetto alla leonessa che rimane nella tana a curare i cuccioli (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Si tratta tuttavia di ipotesi. Infatti, secondo altri autori la maggior longevità del sesso femminile è data dal fatto che il maschio spende tutte le sue energie nel cercare di dare tutte le cure di cui hanno bisogno la femmina e i cuccioli, trascurando più se stesso per aiutare i membri familiari (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per escludere o confermare l’ipotesi ambientale, gli scienziati hanno intenzione di condurre uno studio analogo su una popolazione di mammiferi che vivono nello zoo, cosi, se l’ipotesi ambientale fosse corretta, in questo caso specifico non si dovrebbero verificare differenze di longevità tra i sessi, dato che la variabile ‘’ambiente pericoloso’’ è tenuta sotto controllo (negli zoo il leone non ha bisogno di andare a caccia e mettere cosi a repentaglio la propria incolumità) (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per quel che riguarda gli esseri umani, gli uomini hanno una vita media di 76 anni, mentre le donne di 84. Il motivo di questa differenza non è ancora chiaro. Si verifica inoltre un paradosso, infatti le donne invecchiando tendono ad avere una morbilità più alta rispetto agli uomini, questo dato, per deduzione, farebbe quindi pensare che sono gli uomini ad essere più longevi. Tuttavia, non è cosi: secondo l’ipotesi più accreditata, ma non ancora confermata, la maggior morbilità nelle donne è data da una più pronta risposta del tessuto connettivo agli ormoni sessuali. Questo meccanismo porterebbe ad influenzare il sistema immunitario rendendo più pronta la risposta ad eventuali patologie. Pur essendo l’ipotesi più accreditata, gli studi a supporto di questa teoria sono pochi e deboli (Austad & Fischer., 2016).

 

Fattori predisponenti della ruminazione depressiva

Perché alcune persone tendono a ruminare maggiormente rispetto ad altre? Da cosa dipende? Le ricerche sottolineano il ruolo di tre principali fattori evolutivi implicati nello sviluppo dello stile ruminativo: l’abuso infantile, lo stile genitoriale e la differenza di genere.

 

Sebbene la ruminazione sia una risposta generalmente comune, che può risultare utile al fine di sviluppare un piano d’azione per la soluzione di un problema, se utilizzata in maniera pervasiva, come strategia abituale di regolazione emotiva, può divenire disfunzionale favorendo il mantenimento di un circolo vizioso depressivo in cui l’attenzione dell’individuo viene focalizzata in maniera ripetitiva sugli stati emotivi interni che a loro volta, interferendo nei comportamenti funzionali di soluzione attiva dei problemi, esacerbano gli effetti dell’umore depresso (Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema et al., 2008; Smith e Alloy, 2009).

Ma come può la ruminazione divenire uno stile di risposta abituale? Le ricerche hanno evidenziato che tale modalità può essere appresa dall’individuo, a partire dall’infanzia, come strategia di regolazione emotiva in seguito al vissuto di particolari situazioni. (Palmieri, 2014).

L’abuso infantile

Un primo fattore che favorirebbe la tendenza alla ruminazione riguarda il vissuto di eventi traumatici, primo tra tutti l’abuso sia a livello psicologico sia a livello fisico e/o sessuale (Sarin e Nolen-Hoeksema, 2010). In questo caso, il bambino, non avendo a disposizione altre abilità di regolazione, utilizzerebbe la ruminazione come strategia di coping al fine di dare un senso all’esperienza vissuta, spesso di difficile comprensione e di cui viene vietato di parlare (Conway et al., 2004). Tale modalità quindi, partendo dal rappresentare una strategia adattiva di riduzione della sofferenza, attraverso il rinforzo e l’applicazione indiscriminata ad altri contesti, arriverebbe ad essere disfunzionale contribuendo al mantenimento e all’esacerbazione dei sintomi depressivi (Watkins, 2016). A questo proposito Rooosa et al. (1999) hanno rilevato l’esistenza di un’associazione tra abuso subito in età infantile e sviluppo della depressione in età adulta, dato confermato anche dagli studi di Spasojevic e Alloy (2002). Sempre a questo proposito Conway (2004) ha esaminato la relazione tra abuso, ruminazione e disforia notando come coloro che riportano di aver subito maggiori esperienze di abuso, presentano livelli più elevati di ruminazione e di disforia.

Lo stile genitoriale

Un altro elemento che faciliterebbe lo sviluppo della ruminazione è lo stile genitoriale ipercritico, passivo e/o ipercontrollante. Nel caso di genitori iper-critici, incapaci di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino, questo si troverebbe a trascorrere molto tempo analizzando e valutando le motivazioni ed i segnali dell’altro al fine di predirne i comportamenti ed evitare rimproveri e punizioni. Ciò lo porterebbe però a ritirarsi sempre più nell’interiorità, evitando di esprimere i propri pensieri ed emozioni (Conway et al., 2004; Spasojevic e Alloy, 2002). Nel caso di genitori iper-controllanti, il piccolo mancando della possibilità di sperimentarsi nelle varie attività, potrebbe sviluppare la percezione di avere scarso controllo sull’ambiente e potrebbe essere indotto ad una maggior tendenza alla passività ed al ritenersi senza speranza di fronte alle delusioni (Nolen-Hoeksema, 1998). Infine nel caso di genitori con stile di coping passivo o ruminativo, il bambino trovandosi senza modelli di riferimento da seguire, riguardo l’apprendimento di strategie di problem solving e di coping attive, sarebbe portato a sviluppare uno stile di risposta ruminativo (Nolen-Hoeksema, 2004).

Le differenze di genere

Un ultimo fattore che potrebbe fungere da antecedente evolutivo della ruminazione è quello delle differenze di genere legate a diversità biologiche ed ambientali (Palmieri, 2014). Riguardo i fattori biologici, Nolen-Hoeksema (2004) ha osservato che i bambini fisiologicamente più reattivi allo stress, tendendo a riscontrare maggiori difficoltà nella gestione di stati emozionali negativi, sarebbero spinti a focalizzarsi maggiormente su tali vissuti sviluppando un pattern di risposta di tipo ruminativo. Riguardo i fattori ambientali invece, per cultura maschi e femmine tendono a ricevere insegnamenti differenti dai genitori riguardo le modalità di gestione delle emozioni negative. Mentre i maschi sono da una parte scoraggiati ad esprimere emozioni di paura o tristezza e dall’altra sono sollecitati a mostrarsi forti di fronte alla difficoltà, ciò non accade per le femmine. Questo atteggiamento porta così a favorire nei maschi l’assunzione di stili di risposta attivi come la “distrazione” o il “problem solving costruttivo” per regolare l’umore depresso, mentre nelle femmine è favorito un comportamento più passivo che incentiva ad utilizzare maggiormente la ruminazione come strategia di comprensione delle possibili cause ed implicazioni del loro stato d’animo. A sostegno di tale ipotesi, vi è il dato che il numero di donne che soffre di depressione è doppio rispetto a quello degli uomini.

Concludendo, dato l’importante ruolo svolto dalla ruminazione come fattore di vulnerabilità per lo sviluppo della depressione, risulterebbe auspicabile incrementare la ricerca, ad oggi piuttosto limitata, sulle basi evolutive dei fattori che fungono da antecedenti dello stile di risposta ruminativo. In particolare, i dati attuali, da cui partire per successive indagini, suggeriscono come il vissuto di particolari situazioni, fin dall’infanzia, porti l’individuo a sviluppare strategie di regolazione emotiva come la ruminazione (Palmieri, 2014).

 

Diario di bordo ai tempi del Coronavirus: vademecum psicologico anti-panico e consigli sul benessere psicologico

In termini di utilità emotiva è più efficace pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che è in atto l’emergenza coronavirus e a calmare le ansie.

 

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il Coronavirus (Covid-19) proviene da una famiglia di virus respiratori (CoV) che possono causare malattie con sintomi da lievi a moderati, dal semplice raffreddore a sindromi respiratorie gravi come quelle che si osservano negli Ospedali, nei Pronto Soccorso e nei reparti riservati ad accogliere i pazienti colpiti da questa emergenza.

E’ intuitivo associare la parola tanto pronunciata e ascoltata negli ultimi mesi – Coronavirus –  alla corona di un re o alla corona di alloro che indossano i neolaureati. Infatti, è curioso sapere che il Coronavirus viene chiamato così perché presenta sulla sua superficie delle punte, simili a quelle di una corona. Già osservato in alcune specie animali, non era mai stato rilevato nel genere umano.

Febbre, tosse e difficoltà respiratorie sono i sintomi più comuni del quadro clinico del Coronavirus; non mancano le sindromi respiratorie acute, le polmoniti, con una prognosi che porta spesso al decesso. Non mancano neanche i casi asintomatici: sono proprio loro, e le risorse limitate del Sistema Sanitario Nazionale di fronte a una pandemia, che hanno portato il Governo Italiano a prendere provvedimenti attenti, urgenti e semi-drastici.

Le misure di sicurezza con cui nelle ultime settimane le persone si confrontano riguardano proprio il contagio di questa malattia. Le raccomandazioni e i comportamenti di sicurezza sanitari sono entrati a far parte delle abitudini di grandi e piccoli: non mancano i dubbi su come poter reperire mascherine che sembrano introvabili, il gel igienizzante che tanti prima ignoravano sembra ora il nostro pane quotidiano, si cerca di uscire il meno possibile e ci si domanda come trascorrere le 24 ore quotidiane, moltiplicate per un numero di settimane di cui ancora non siamo certi, nella propria casa, che sappiamo di amare ma che in queste settimane ci coglie impreparati. Non ce lo aspettavamo e probabilmente mai avremmo pensato potesse accadere.

La creatività e la flessibilità dell’uomo in termini di adattabilità sono risorse che possiamo sfruttare in questa situazione e probabilmente abbiamo già cominciato a farlo senza del tutto accorgercene.

Conviene, in termini di utilità emotiva, pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che là fuori c’è un’emergenza in atto, a calmare le ansie e a darci legittimità in termini di riorganizzazione puntuale della giornata e del nostro vivere quotidiano: la mente si rilassa e può pensare in maniera creativa a come trascorrere il tempo. Rimuginare su come andrà a finire – si spera che #andràtuttobene – oppure sul weekend in giro per l’Italia saltato a causa delle restrizioni, sulla mole di lavoro perso e sulle conseguenze tragiche di questa pandemia, non aiuta a migliorare la situazione o a prevenire il contagio del Coronavirus, ma ci pone in uno stato emotivo di allerta e apprensione che, di fatto, nel momento in cui siamo a casa e non stiamo contravvenendo alle norme proposte dal Governo, non ha senso continuare ad alimentare. In tal senso, è utile trascorrere il tempo a casa nella maniera più serena possibile, dedicandoci a noi e a mantenere i contatti con il mondo esterno grazie ai mezzi di comunicazione e ai mass media.

A tal proposito, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha divulgato un Vademecum Psicologico Anti-Panico per i cittadini che consiglia di:

  • Attenersi ai fatti in maniera oggettiva – L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che l’80% dei contagiati guarisce spontaneamente, il 15% presenta problematiche mediche gestibili, il 5% manifesta un quadro sintomatico grave e la metà di essi va incontro al decesso. Parallelamente a ciò, la misurazione del Ministero della Sanità alle h 18.00 del 20 marzo 2020 ci dice che, su 47.021 casi positivi in Italia, l’8,5% abbia perso la vita mentre il 10,9% sia riuscito a guarire.
  • Riflettere sul rapporto tra paura ed efficienza in emergenza: quando la paura è nulla o moltissima, l’efficienza nel fronteggiare la situazione viene meno. L’ideale sarebbe vivere l’attuale scenario con consapevolezza e percezione equilibrata dei pericoli portati dal contagio del Coronavirus.
  • Non mettere in atto strategie sull’onda emotiva dell’allarme e del panico: la messa in atto delle semplici misure di sicurezza proposte è un buon modo per vivere con serenità la situazione. Invece, un’ansia elevata inibisce la capacità di ragionamento senza cui non possiamo garantire a noi stessi e agli altri una gestione ottimale della prevenzione al contagio.

Inoltre, il CNOP raccomanda di:

  • Non ricercare compulsivamente le notizie ma aggiornarsi una volta al giorno e solo da fonti affidabili come il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore della Sanità
  • Entrare nell’ottica che le misure di sicurezza prese servono a proteggere le altre persone e non a proteggere solamente noi stessi. Per questo motivo è importante che tutti le adottino per il bene della collettività: non ignorare la disattenzione altrui, può essere utile spiegare l’importanza dei comportamenti di sicurezza agli altri con pazienza e calma. Reazioni di rabbia o disprezzo non aiuterebbero la persona a comprendere il momento che stiamo vivendo.

Invece, l’Istituto Superiore di Sanità sottolinea l’importanza di preservare il benessere fisico, psicologico e relazionale in queste settimane attingendo alle proprie risorse e conducendo la giornata secondo uno stile di vita il più sano possibile, non semplice in situazione di costrizione a casa, ma usando qualche escamotage. Nel seguire questo consiglio, possiamo accedere alle risorse personali, promuovendo una mentalità costruttiva, più che distruttiva, su ciò che sta accadendo.

Puntare al benessere personale e familiare, organizzando attività durante la giornata e promuovendo la comunicazione, può essere un modo valido per affrontare questo periodo di stand-by e attesa.

Come spunti, l’ISS propone l’attività fisica – ottimo modo per “tenere a bada” frustrazione e stress, per prenderci cura dell’autostima, del rilassamento psicofisico e dell’energia – un sonno regolare, un’alimentazione sana, limitare alcoolici e fumo, organizzare attività piacevoli da fare in famiglia, il mantenimento dei contatti con parenti ed amici. L’obiettivo? Mantenere un buon senso di autoefficacia, oltre a stare meglio come singoli e come coppie o famiglie.

Nella speranza che l’emergenza venga gestita nel migliore dei modi e che questo periodo termini presto, possiamo dare a queste settimane un significato personale e in termini di utilità. Se la resilienza è la capacità di fronteggiare le difficoltà e uscirne più forti di prima, possiamo cogliere i lati positivi di quello che sta succedendo e trarne qualche insegnamento da “rispolverare” in futuro.

 

Coronavirus: gli effetti secondari della paura del contagio

Nel tempo del contagio pandemico, come viene definito il momento che stiamo vivendo, da più parti si sollevano voci per evidenziare gli effetti sulla salute dell’uomo determinati dal cosiddetto Coronavirus.

 

La denominazione coronavirus è dovuta alla particolare forma a corona di questo virus, quasi come uno scherzo della natura, quella di avere una struttura a mo’ di principio regio e assolutistico naturale.

Al di là degli esiti che produce, connessi ad una sindrome respiratoria acuta grave, ci sono effetti derivanti dalle restrizioni adottate per impedirne la diffusione ed il contagio, che assumono particolare rilievo dal punto di vista della sofferenza psicologica che possono determinare.

I numerosi DPCM che si sono susseguiti hanno, di volta in volta, aumentato le limitazioni alle libertà individuali, fino ad arrivare al punto di impedire alle persone di uscire di casa, se non per gravi e comprovati motivi.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie disfunzionali

Il ritiro sociale e la convivenza forzata a cui è stata costretta la popolazione inevitabilmente hanno determinato cambiamenti nella vita degli individui. Cambiamenti che non sempre sortiscono effetti positivi per le persone.

Per un verso molte famiglie si sono viste ricongiunte, come forse non avveniva da anni o non era mai accaduto. In molti casi si è ricostruita una nuova conformazione familiare, che per molti aspetti non ha dato ai suoi componenti il tempo di adattarvisi.

Ma a mano a mano che i giorni passano, stare insieme diventa un modo per riappropriarsi di tempi e di spazi che magari erano stati fino ad allora solo desiderati. Ecco allora che si scoprono linguaggi nuovi e modi di comunicare differenti, in cui non c’è posto per i monosillabi pronunciati frettolosamente, ma è richiesto un verbale più ricco nelle parole e nei toni. I gruppi familiari su whatsapp non hanno più regione di esistere, ma a questi se ne vanno a creare altri, fino a qualche tempo fa impensabili.

La tavola riprende il posto centrale di aggregazione familiare

La famiglia in molti casi riprende un funzionamento equilibrato, che significa promuovere uno sviluppo psicologico appropriato dei suoi componenti.

Ma la convivenza “forzata” dei nuclei familiari, non sempre può essere foriera di effetti positivi. Del resto tutto ciò che è imposto, a lungo andare può generare forme di insofferenza. Questo succede maggiormente nel caso delle famiglie disfunzionali, ovvero quelle famiglie che hanno modalità comportamentali di tipo “invischiato o disimpegnato”, in cui i membri cercano rispettivamente una forma di aggregazione patologica e invadente o di sfuggire alle relazioni ed ai meccanismi di comunicazione tra i presenti.

Nelle tipologie di famiglie invischiate, i confini individuali sono fortemente travalicati dall’altro o dagli altri. Non c’è l’individuo svincolato e autonomo nelle scelte, bensì il soggetto aggregato che si muove sotto la costante regia della identità familiare, che sovrasta su tutti. Permane un “basso livello di differenziazione”, che non promuove la crescita psichica ed emotiva del soggetto. Coloro che si trovano a soccombere sono caratterizzati da un basso livello di autostima, che li limita nei comportamenti e ne favorisce il senso di insicurezza e di inadeguatezza. In questi soggetti una convivenza forzata, determinata dagli eventi connessi al coronavirus, può determinare una crescita esponenziale di comportamenti connaturati da dipendenza e sottomissione, con manifestazioni di ansia anche ingestibile.

Dall’altra parte, nelle famiglie disimpegnate, ognuno è parte a sé stante, il tetto familiare è solo un mezzo per garantire la sopravvivenza dei suoi membri. I soggetti non comunicano tra di loro, se lo fanno è solo per lo stretto necessario alle incombenze quotidiane. Non c’è relazione tra i membri. Lo scambio affettivo è assente o quasi. Ogni membro della famiglia non ha tempo da dedicare all’altro. Vi è un distanziamento emotivo notevole. Nelle famiglie disimpegnate, il dato più significativo è che manca nei componenti la capacità di chiedere aiuto e di sostenersi.

Appare evidente come una situazione di permanenza forzata sotto lo stesso tetto, possa favorire, in questo caso, piuttosto che un ritrovarsi e stare insieme, riscoprendo anche un senso di appartenenza familiare, atteggiamenti di rabbia, sia per l’incapacità di chiedere aiuto, sia per impossibilità di approcciarsi all’altro. Rabbia e insofferenza che possono sfociare in comportamenti violenti tra gli stessi componenti della famiglia.

Gli adolescenti, in special modo, possono mettere in atto modi di fare aggressivi, poiché sono maggiormente insofferenti a sostenere una situazione di permanenza forzata nello stesso luogo; la condizione di vita familiare, che li vede senza la possibilità di uscire di casa e quindi di aggregazione col gruppo dei pari, può accrescere poi negli adolescenti la distanza emotiva e l’intolleranza reciproca.

Inoltre, non è da sottovalutare che l’impossibilità di frequentare coetanei può anche determinare l’evolversi delle condotte di dipendenza da videogiochi e dalla rete internet, più in generale da tutte quelle forme di dipendenze favorite dall’uso e abuso indiscriminato di Internet, dalla dipendenza da smartphone alla navigazione sui social, alla visualizzazione di filmati, al gioco d’azzardo online patologico (GAP) e ad altre forme di dipendenza come quella di filmati porno (sex-addiction ) o lo shopping compulsivo online.

Essendo Internet l’unica risorsa per comunicare, l’uso del mezzo tecnologico diventa lo strumento di elezione per entrare in contatto col resto del mondo. In questi casi la dipendenza costituisce un comportamento di evitamento attraverso cui il soggetto si rifugia nella rete per sfuggire alle sue problematiche esistenziali.

Senza contare la condizione già di per sé deleteria dei cosiddetti Hikikomori, che per definizione sono giovani che soffrono di un “acuto isolamento sociale non derivato da altre malattie psichiatriche”. Giovani che hanno difficoltà comunicative e relazionali, tali da evitare i contatti persino con i propri congiunti. E’ evidente come questi soggetti, venendosi a trovare nella condizione di isolamento, aumentano l’incapacità di superare la difficoltà a relazionarsi ma anche a contrastare la paura degli altri, un altro elemento che caratterizza questo tipo di condizione. Pertanto, la loro asocialità, in questo momento è, paradossalmente, ancora più normalizzata, questo a discapito di un recupero futuro di comportamenti aggreganti.

Nelle famiglie disfunzionali violente, dove i comportamenti aggressivi, il più delle volte, vengono messi in atto senza preavviso determinando in chi li subisce un forte senso di costante allerta e ansia, accade che la convivenza ristretta senza possibilità di “fuga”, possa determinare l’aggravarsi di situazioni al limite della tolleranza, con ripercussioni notevoli sull’equilibrio psicofisico di coloro che subiscono le violenze, ma anche su coloro che vi assistono e che sono ugualmente vittime. Molto spesso bambini e adolescenti, che, in una condizione di convivenza forzata, non hanno alcuna possibilità di sfuggire alla violenza.

Le violenze, lo ricordiamo, non sono solo di tipo fisico, ma anche di tipo psicologico. Sappiamo bene che la violenza psicologica è un potente precursore dei disturbi mentali, che vanno dalle nevrosi alle psicosi, anche di tipo superiore.

I bambini e gli adolescenti vittime di violenza assistita vengono a trovarsi in una condizione di prigionia, pertanto non vengono risparmiati dall’esposizione alla violenza che si genera in famiglia.

Coloro che soffrono di disregolazione emotiva, ovvero che hanno difficoltà a gestire in maniera equilibrata i loro pensieri e le loro azioni, possono attuare una marcata impulsività e trasferire, in modo irruente, la turbolenza mentale che avvertono ingestibile su chiunque, ovvero su tutti coloro che non sono rispondenti al loro ideale parossistico.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie con disabili

Le famiglie in cui sono presenti uno o più disabili, in genere figli, vengono a trovarsi in una condizione di forte stress per la mancanza di aiuti esterni che generalmente favoriscono la gestione quotidiana del disabile.

Questo stato di cose e la condizione emotiva stressogena talvolta portano a crolli fisici e psicologici, di coloro che assistono al familiare infermo, determinando un forte calo delle risorse individuali ed un senso di resa incondizionata di fronte alle difficoltà del momento.

Effetti secondari dell’isolamento per i disturbi psichici

La costrizione domestica, che non consente uscite se non per motivi ben definiti dalla normativa in vigore, agisce sul versante dell’inedia, fattore favorente il consumo di droghe e alcool, in coloro che già sono consumatori abituali. Così come le cattive abitudini alimentari.

I disturbi alimentari potrebbero aumentare in chi già ne è affetto o insorgere in chi inizia a consumare cibo senza regole con abbuffate.

La noia, condizione mentale in cui tanti potrebbero trovarsi, è un fattore altamente favorente l’uso e l’abuso di sostanze, alcool e cibo.

Pertanto, una convivenza forzata o uno stato di isolamento, possono costituire fattori predisponenti a condizioni dannose per l’organismo.

Come le condotte disfunzionali di famiglie e individui, anche i disturbi mentali possono avere un curva di crescita nel periodo di chiusura domestica forzato.

Mentre l’ansia attiva risorse e quindi può essere una buona fonte da cui attingere per fronteggiare situazioni difficili, l’angoscia associata alla paura non alimenta emozioni positive.

L’angoscia, ovvero la sensazione di impotenza e di fragilità, di fronte al nemico in questo caso anche invisibile e non connaturato alla biologia umana, aumenta e favorisce la consapevolezza della costante vulnerabilità di specie.

La paura di soccombere senza potersi difendere è un elemento fortemente destabilizzante di per sé, ma accresce in coloro che già vivono situazioni di fragilità emotiva e sono destrutturati mentalmente.

Avviene che i disturbi della personalità possono acuirsi e rendere la vita di coloro che ne soffrono, e di coloro che sono loro accanto, ingestibile.

Disturbi quali il DOC (disturbo ossessivo compulsivo) o il Disturbo Borderline con la sua vasta gamma di condotte nocive, possono vedere un aumento dei singoli aspetti che li caratterizzano o più di uno.

Nel DOC potrebbero aumentare le preoccupazioni per l’ordine, la pulizia maniacale, il perfezionismo, il controllo, al punto da rendere la vita invalidante sotto vari aspetti, non solo personali ma anche relazionali, considerata la costrizione di condivisione degli spazi comuni.

Così come il Disturbo Borderline di Personalità potrebbe vedere un incremento per quanto riguarda gli aspetti paranoici o autolesivi.

Il soggetto borderline, in considerazione del binario unidirezionale su cui si snoda la convivenza forzata, potrebbe diventare ulteriormente insofferente a coloro che gli sono accanto e che spesso vede come una minaccia alla propria integrità soggettiva.

In coloro che soffrono di disturbi dell’umore, come il disturbo Depressivo, possono aumentare i sintomi di inadeguatezza, il timore degli eventi negativi e il sentimento di insufficienza personale.

Anche chi soffre di disturbo schizoide potrebbe veder aumentare le difficoltà a socializzare e il rifiuto sociale, elementi caratterizzanti un quadro clinico già fortemente disturbante per il soggetto, dove l’isolamento e la solitudine rappresentano le caratteristiche salienti.

Ma coloro che in questo momento sono maggiormente chiamati in causa, portando all’eccesso le loro fobie, sono gli ipocondriaci o patofobici, ovvero coloro che soffrono per la paura di ammalarsi di una determinata malattia.

Per queste persone la paura delle malattie è la fonte di nutrimento della loro ansia. Paura che si trasforma spesso in panico e diventa un greve fardello da sopportare.

Anche per questi soggetti, il periodo che stiamo vivendo può rappresentare una condizione difficilmente gestibile.

L’analisi riportata ha l’intento di fare una panoramica sulle ripercussioni psicologiche di un momento tanto delicato per l’umanità, che vede tutti interessati. La comunanza del rischio, a cui tutto il genere umano è esposto, rappresenta, per molti aspetti, quel senso di appartenenza alla civiltà, di valori condivisi, che spesso viene trascurato. I divieti che tutti siamo chiamati a sostenere sono tanti ed anche pesanti, ma il fatto che siano stati imposti per una causa tanto importante, come quella di salvaguardare la propria vita e quella di tutti gli altri, dispone ad una condizione di accettazione inevitabile degli obblighi.

Del resto, è sempre la paura più grande che vince la paura più piccola.

 

Mente e corpo in camera da letto: il rapporto tra metacognizione e dolore genito-pelvico femminile

Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale.

 

La dispareunia e il vaginismo sono classificati all’interno del DSM-5 tra le Disfunzioni Sessuali, più precisamente con il nome di Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD; APA, 2013). Si tratta della sensazione di acuto dolore che alcune donne provano nel momento della penetrazione, che nella maggior parte dei casi rendono impossibile avere un rapporto sessuale completo con il partner (Pacik & Geletta, 2017).

Alcune tra le cause del GPPPD attualmente dimostrate sono l’ansia, la qualità della relazione con il partner, alcune cause organiche e la mancata conoscenza di base dell’anatomia sessuale umana. Tuttavia, rimane ancora incerta l’eziologia del disturbo (Kabakçi & Batur, 2003). Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con vaginismo riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale (Klaassen & Ter Kuile, 2009).

La metacognizione, che rappresenta la capacità di ragionare sui propri pensieri, sulle proprie credenze e sulla propria cognizione, viene spesso descritta come il “pensiero riguardo al proprio pensiero” (“thinking about thinking”; Wells & Matthews, 1996). Gli approcci metacognitivi suggeriscono che le manifestazioni psicopatologiche siano causate da uno stile di pensiero ripetitivo e rimuginativo, la cognitive attentional syndrome (CAS), che mantiene l’individuo continuamente focalizzato sui propri pensieri. Le credenze metacognitive possono essere positive (es. “preoccuparmi mi aiuta”) o negative (es. “non posso controllare i miei pensieri”; Wells & Matthews, 1996).

Per quanto riguarda le disfunzioni sessuali maschili, uno studio ha trovato una correlazione tra l’esordio e il mantenimento del disturbo e le credenze metacognitive (Giuri et al., 2017); tuttavia, il rapporto tra il GPPPD e le credenze metacognitive non è ancora stato adeguatamente indagato.

Lo scopo degli autori del presente studio (Ünal et al., 2020), infatti, era proprio quello di indagare la correlazione tra metacredenze e il GPPPD in un campione di 135 donne affette dal disturbo, mettendole a paragone con un gruppo di controllo (136 donne).

Tutte le partecipanti hanno completato la SCID-I, la Vaginal Penetration Cognition Questionnaire (VPCQ) – che evidenzia la cognizione di donne che soffrono di vaginismo rispetto alla penetrazione – il Metacognition Questionnaire (MQ), la Hamilton Anxiety Rating Scale (HAM-A) e la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D; Ünal et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che il punteggio del MQ era significativamente maggiore nella sottoscala delle metacredenze positive nelle partecipanti con GPPPD rispetto ai controlli. Tutti i punteggi del VPCQ nelle pazienti con GPPPD sottolineavano un numero maggiore di cognizioni negative sulla penetrazione rispetto ai controlli; anche la frequenza dei rapporti e l’evitamento della sessualità erano significativamente maggiori nel gruppo sperimentale, mentre la sexual communication tra i partner era minore.

In conclusione, lo studio dimostra che oltre alle variabili cognitive già precedentemente indagate, vi è una correlazione anche tra metacognizione e GPPPD, sottolineando un possibile risvolto positivo nel trattamento delle pazienti con Terapia Metacognitiva (Ünal et al., 2020).

 

Disturbo narcisistico e rapporto di coppia

Il disturbo narcisistico di personalità rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. I narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche, ma queste sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

Nelle sue Metamorfosi, Ovidio scrisse di un bel giovane di nome Narciso che rifiutò l’amore di una ninfa di nome Eco e successivamente si innamorò del suo riflesso nell’acqua immobile. Nel poema, Narciso ed Eco si strussero a causa dei loro amori non corrisposti. Tuttavia, come in un curioso colpo di scena di un destino romantico, i loro tipi di carattere si sono mescolati in quello che oggi definiamo come la “Personalità narcisistica”.

Il Disturbo narcisistico di personalità (NPD, American Psychiatric Association, 1994) è caratterizzato da un pervasivo senso di grandiosità e auto importanza (molto simile a Narciso) e da un forte bisogno di essere validato e ottenere ammirazione e attenzione dagli altri (molto simile a Eco) ed è indicato nel DSM IV da 5 o più dei seguenti criteri nel:

  1. Un grandioso senso di importanza personale;
  2. Preoccupazione con fantasie di illimitato successo, potere, genialità, bellezza o amore ideale;
  3. Credenze di essere speciale e unico;
  4. Bisogni di eccessiva ammirazione;
  5. Un senso di pensare che tutto sia dovuto;
  6. Sfruttamento interpersonale;
  7. Mancanza di empatia;
  8. Invidia per gli altri;
  9. Atteggiamenti o comportamenti arroganti o altezzosi.

Si stima che questo disturbo colpisca il 7,7% dei maschi e il 4,8% delle donne nella popolazione generale (Stinson e colleghi, 2008). Pochi studi hanno esaminato se l’espressione dei sintomi del Disturbo Narcisistico di Personalità differisca tra maschi e femmine. Le ricerche precedenti suggeriscono sostanziali differenze sessuali, con i maschi che hanno maggiori probabilità di avere un senso del diritto, una mancanza di empatia (Karterud e colleghi, 2011; Richman e Flaherty, 1990), fantasie di potere e successo e un grandioso senso di importanza personale (Bylsma e Major, 1992; Grijalva e colleghi., 2015; Karterud e colleghi, 2011; Luo e colleghi, 2014; Major, 1994; Major e colleghi., 1984), sfruttare gli altri e credere di essere speciali e meritarsi privilegi unici (Grijalva e colleghi, 2015; O’Brien e colleghi, 2012; Richman e Flaherty, 1990; Tschanz e colleghi, 1998). Le femmine tendono a mostrare maggiore preoccupazione per l’aspetto fisico (Buss e Chiodo, 1991) e hanno una maggiore reattività nei confronti degli altri (Richman e Flaherty, 1990). Sia maschi che femmine sembrano presentare una prevalenza simile di sintomi come vanità, auto assorbimento e invidia (Karterud e colleghi, 2011; Foster e colleghi, 2003).

Il paradosso delle relazioni narcisistiche

Il disturbo narcisistico rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. Da un lato, i narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche. Dall’altro lato, queste relazioni sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Secondo il Modello d’Azione (Agency Model) le relazioni romantiche narcisistiche fanno parte di un sistema globale autoregolamentato. Cioè, le relazioni romantiche hanno un ruolo funzionale nella vita del narcisista che è simile a molti altri processi relazionali e comportamentali. In accordo con il Modello, ci sono almeno 5 qualità fondamentali che sono centrali nel narcisismo:

  1. Focalizzarsi sull’operato piuttosto che sulla condivisione (e.g., Campbell, 1999; Campbell e colleghi, 2006; Campbell e Foster, 2007; Campbell, Foster e Finkel, 2002; Campbell e Green, 2008);
  2. Visione di sé esagerata (John e Robins, 1994);
  3. Processi di auto regolazione che sono incentrati sull’ottenimento e il mantenimento dell’autostima (Campbell, 1999; Raskin, Novacek e Hogan, 1991);
  4. Pensare che tutto sia dovuto (Campbell, Bonacci, Shelton, Exline e Bushman, 2004);
  5. Un approccio mirato all’orientamento (Foster e Trimm, 2008).

Queste qualità fondamentali sono correlate a tre processi interconnessi: strategie intrapsichiche (es. fantasticare sul potere, credere di essere più attraente degli altri), capacità interpersonali (es. sicurezza, carisma, estroversione sociale) e strategie interpersonali (es. conquistare partner come fossero trofei, auto promozione). Coerente con il concetto di un sistema, questi processi si rafforzano a vicenda. Per esempio, la percezione dei narcisisti di essere altamente attraenti, in combinazione con l’estroversione sociale e il fascino, porta il narcisista nell’aggiudicarsi il partner come trofeo di alto rango. Questo, a sua volta, rinforza la sicurezza del narcisista e la visione di sé spropositata. Quando questo sistema funziona correttamente per il narcisista, il risultato è l’esperienza di “stima narcisistica”, per cui sperimenta un senso di autostima simile all’esperienza di un sorpasso (Baumeister e Vohs, 2001) ed è connesso alla dominanza sociale (Brown e Zeigler-Hill, 2004) e ai sentimenti di orgoglio (Tracy e Robins, 2004).

Il disturbo narcisistico di personalità svolge altresì un ruolo paradossale nelle relazioni. Il narcisismo è una forza potente per avviare relazioni positive a breve termine, ma anche la causa di un significativo ritorno di problemi a lungo termine. L’apparente paradosso è il risultato dei tratti dei narcisisti e dell’approccio alle relazioni. I narcisisti hanno una serie di qualità, la fiducia sociale, la piacevolezza e il fascino, che sono ottimali per l’inizio della relazione, ma se combinati con un altro insieme di qualità, come la bassa empatia, la centralità del sé e l’uso degli altri per il  mantenimento dell’autostima, sono distruttivi al funzionamento delle relazioni. Come conseguenza i narcisisti avviano ripetutamente nuovi rapporti, danneggiano la relazione e feriscono i loro partner, per poi passare ad un’altra relazione. Purtroppo, questo è il percorso ottimale per i narcisisti data la loro costituzione d’essere, ma non ottimale per i loro partner o la struttura sociale.

Narcisismo, sessualità e impegno nel rapporto di coppia

Il narcisismo e la sessualità sono stati messi in relazione l’uno all’altra, almeno dalle scritture di Freud (1914) e Ellis (1898). Tuttavia, al di fuori della letteratura psicodinamica, poca ricerca empirica ha affrontato il motivo per cui narcisismo e sessualità sono associati e quali conseguenze potrebbe avere questa associazione.

In uno studio, Foster e colleghi (2006) suggeriscono che per capire la relazione tra disturbo narcisistico di personalitàe la sessualità sia necessario, in primis, considerare l’orientamento interpersonale del narcisismo, il quale è decisamente aggressivo. Le persone narcisistiche si prendono cura delle loro qualità aggressive, come il potere, la dominanza e l’estroversione, e non mostrano la stessa considerazione per le qualità condivise, come l’intimità emotiva e la calorosità (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Brunell, e Finkel, 2006). Gli autori propongono che questo orientamento si rifletta negli atteggiamenti e comportamenti sessuali di persone con personalità narcisistiche. Inoltre, essi aggiungono che l’approccio narcisistico alla sessualità abbia implicazioni nel funzionamento delle loro relazioni.

Il termine “narcisismo” è stato applicato tradizionalmente a un disturbo specifico della personalità: Narcisistic Personality Disorder o NPD (American Psychiatric Association, 1994). Durante gli ultimi 25 anni, tuttavia, i ricercatori nel campo della personalità e della psicologia sociale hanno studiato una dimensione della personalità etichettata come narcisismo “normale”. Una persona con narcisismo normale può possedere alcune delle caratteristiche del NPD; tuttavia, la maggior parte degli individui con alti livelli di narcisismo normale non soddisfa la diagnosi criteri per NPD. Il narcisismo normale elevato è tipicamente definito come punteggio sopra la media sul Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin e Terry, 1988). Nel presente articolo quando ci riferiamo al narcisismo, ci riferiamo al narcisismo normale – o narcisismo così come viene misurato con l’NPI o altri strumenti simili.

C’è un corpus vasto e crescente di letteratura sul tema del narcisismo normale (vedi Campbell & Foster, in stampa, per la revisione). Come ci si potrebbe attendere, il narcisismo è associato ad atteggiamenti positivi verso se stessi (ad esempio, alta autostima, Brown e Zeigler-Hill, 2004). Coerentemente con il loro orientamento aggressivo, tuttavia, gli individui narcisisti adottano atteggiamenti più fortemente positivi nei confronti di sé stessi per quanto riguarda i tratti agentici (ad es., l’intelligenza, l’attrattività). Sono meno positivi (e si preoccupano meno) riguardo i tratti comuni (ad esempio, l’intimità, la cura) (Campbell, Rudich e Sedikides, 2002).

Campbell e colleghi (2006) suggeriscono che l’orientamento agentico del narcisismo sia legato al cattivo funzionamento delle relazioni, come il basso livello di impegno nei rapporti (Campbell e Foster, 2002), alti livelli di infedeltà (Campbell, Foster e Finkel, 2002) e bassa intimità emotiva (Foster, Shrira, Campbell e Loggins, 2003). Poiché il narcisismo è associato a un cattivo funzionamento delle relazioni in una varietà di modi, è importante scoprire le radici di queste associazioni. Cioè, perché i partner romantici narcisistici sono meno impegnati, meno fedeli, e meno emotivamente intimi?

Una prerogativa importante delle relazioni che può influenzare tutti questi problemi, ma che ha ricevuto pochissima attenzione da parte dei ricercatori sul narcisismo, è quella sulla sessualità. La sessualità è una componente chiave di molte relazioni romantiche. Se il narcisismo influenza la sessualità, il collegamento può avere una serie di importanti implicazioni per le relazioni che coinvolgono partner romantici narcisistici. Pertanto, è fondamentale comprendere (a) in che modo il narcisismo e la sessualità sono collegati e (b) se questo collegamento è chiarificatore del funzionamento delle relazioni (ad es. Livelli di impegno) che coinvolgono partner narcisistici.

Lo scopo di diversi studi è stato quello di esaminare gli antecedenti e le conseguenze della sessualità in relazione al narcisismo. A questo riguardo, modelli teorici di narcisismo, come la sociosessualità (il costrutto della sociosessualità, o dell’orientamento sociosessuale, coglie le differenze individuali nella tendenza ad avere relazioni sessuali casuali e senza impegno) e l’impegno relazionale, sono stati testati attraverso due studi. Attraverso gli studi, gli autori hanno esaminato le radici della sociosessualità senza restrizioni (impegnarsi nel sesso in una fase precedente delle loro relazioni, fare sesso con più di un partner alla volta, essere coinvolti in relazioni sessuali caratterizzate da minori investimenti, impegno, amore e dipendenza) e poi hanno utilizzato la sociosessualità per spiegare la mancanza di impegno relazionale segnalata dai partner narcisistici romantici. Coerentemente con i loro modelli, un maggiore narcisismo è associato a una sociosessualità con meno restrizioni. Inoltre la sociosessualità senza restrizioni ha rappresentato l’associazione negativa tra narcisismo e impegno relazionale. Poiché questi modelli si focalizzano su diversi aspetti del narcisismo e della sessualità (cioè, antecedenti e conseguenze), sono stati testati in due studi separati. È importante, tuttavia, vedere i risultati degli studi presenti nel loro insieme per apprezzare appieno le implicazioni di questa ricerca.

Gli individui con personalità narcisistiche inoltre tenderebbero ad avere punti di vista un po’ diversi sulla sessualità. Coerente con l’orientamento agentico (lo stato agentico è una spiegazione dell’obbedienza offerta da Milgram per cui un individuo esegue gli ordini di una figura di autorità, agendo come suo agente) del narcisismo (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Rudich e Sedikides, 2002) e più specificamente con il modello narcisistico dell’Azione (Campbell e colleghi., 2006), il narcisismo è collegato a un bias egoistico nella sfera sessuale: il sesso con un partner avente alti livelli di narcisismo sembra essere caratterizzato da alti punteggi di individualità piuttosto che da intimità condivisa. Come è stato proposto, la natura agentica della sessualità, caratteristica degli individui con elevati tratti di narcisismo, è associata alla sottostima di gratificazioni condivise dei rapporti sessuali (ad esempio, l’intimità emotiva) e a una maggiore importanza data alle gratificazioni agentiche (ad es. piacere fisico).

La presente panoramica offre modelli teorici empiricamente testati che forniscono un primo passo verso la comprensione di una relazione potenzialmente complessa. Sebbene i ricercatori siano consapevoli che le persone con livelli di narcisismo più elevati riportano un bias agentico generalizzato (Bradlee e Emmons, 1992) che si estende anche alle loro relazioni sentimentali (Campbell, 1999; Campbell e colleghi., 2006), non è mai stato dimostrato empiricamente che il narcisismo sia associato a un bias simile per quanto riguarda la sessualità. Il modello narcisistico d’Azione di Campbell (2006) dipinge un ritratto molto simile di narcisismo e relazioni. Campbell (1999) trovò che gli individui narcisistici sono più attratti da altri che possiedono tratti che possono avvantaggiarli personalmente (ad esempio l’attrattività fisica) piuttosto che quelli che possono giovare alla relazione (ad esempio essere emotivamente intimi).

 

La trasformazione di Sansa Stark – La LIBET nelle narrazioni

Nel momento in cui Sansa Stark ottiene potere e riconoscimento tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste alla sua evoluzione finale: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 13) Sansa Stark

 

Attenzione: l’articolo può contenere spoiler!

Il personaggio di Sansa Stark è, probabilmente, uno dei personaggi che ha mostrato un percorso di cambiamento più forte all’interno delle 8 stagioni di Game of Thrones. Dapprima, infatti, Sansa appare come una giovane ragazza che sogna di essere data in sposa al principe Joffrey, così come nelle favole che la madre le raccontava quando era piccola. Per poter diventare una lady, a Sansa viene chiesto di essere sempre bella e posata, senza immischiarsi nelle vicende considerate da uomini: il suo aspetto è sempre curato, i suoi modi sempre educati e si dedica al cucito.

La realizzazione e la validazione da parte dei genitori sembrerebbero secondarie ad una condizione: “Sarai riconosciuta solo se sarai una regina”.

Per poter rispondere a questa condizione, Sansa adotta una strategia di Metacontrollo molto strutturata per la protezione dal tema, che potrebbe essere quello di indegnità. Il piano, prescrittivo, per riuscire a ottenere considerazione pare quello di conformarsi allo stereotipo della Lady nobildonna, controllandosi nei comportamenti e negli atteggiamenti, senza mai contraddire il principe.

Quello che la attende nel corso delle successive stagioni, tuttavia, invaliderà più volte il suo piano.

Quando Joffrey, suo promesso sposo ed erede al trono, arriva a Winterfell, Sansa è subito preoccupata di non essere abbastanza bella per lui. Durante uno scambio con sua madre, dimostra quanto sia importante per lei diventare sposa di Joffrey, tanto da non considerare il lasciare la sua famiglia e la sua terra di origine, un deterrente per la realizzazione del suo sogno. Ma è in un evento chiave successivo che Sansa dimostra quanto il bisogno di sposare il principe e diventare regina sia per lei importante. Joffrey, infatti, dimostra subito il suo lato violento intimidendo con la sua spada il figlio di un macellaio e quando Arya, la sorella di Sansa, interviene per difenderlo, il principe le punta la spada al collo. È solo grazie all’intervento del metalupo Nimeria, che azzanna il principe al braccio, se Arya rimane illesa. Arya viene accusata da Joffrey di averlo attaccato senza motivo ed è qui che Sansa prende le parti del principe e non della sorella, arrivando a sacrificare come gesto di scuse il suo metalupo.

Da questo momento, tuttavia, si susseguono alcune invalidazioni al piano. Joffrey si rivela, infatti, sempre più violento, manipolativo e sempre meno interessato a Sansa, tanto che prenderà in sposa l’erede di una diversa casata. A Sansa toccherà in sposo lo zio di Joffrey, Tyrion Lannister, detto “il folletto” in quanto affetto da nanismo. Tyrion continua a sua volta a fornire una immagine diversa dal principe idealizzato di Sansa: nonostante non abbia le caratteristiche canoniche del principe (bell’aspetto, cura di sé, rispetto, potere ecc.) si rivela essere gentile con lei, tanto da non consumare il matrimonio. Stesso ruolo ha nello stesso periodo anche il Mastino, il quale la difende prima da Joffrey e poi la salva da un possibile stupro durante alcune sommosse. Questi incontri costituiscono delle prime invalidazioni del piano prescrittivo, ma non sembrano sufficienti ad una sua modifica.

La successiva e probabilmente invalidazione chiave per Sansa è il matrimonio con Ramsay Bolton, figlio illegittimo di Roose Bolton, il quale riconquista Grande Inverno, terra natia di Sansa. Questi si dimostra addirittura più feroce di Joffrey, dando spesso in pasto ai propri cani i suoi nemici e stuprando Sansa la prima notte di nozze. Tuttavia in questo momento sembra esserci una trasformazione. Sansa, infatti, convince Ramsay della pericolosità del nuovo nascituro di suo padre, inducendolo a pugnalare il padre e dare in pasto ai cani la matrigna e il nuovo genito. In seguito, riesce a fuggire e a ricongiungersi con il fratello Jon Snow, con il quale riconquisterà Grande Inverno spodestando i Bolton. Sarà lei stessa, poi, a dare Ramsay in pasto ai suoi cani.

Sembra, dunque, che sebbene il piano resti prescrittivo, il rispetto e il prestigio non siano più ottenibili per Sansa solo tramite il matrimonio ma tramite l’ottenimento di potere esercitando un controllo estremo, un “pugno di ferro”. Nei successivi avvenimenti, infatti, Sansa viene eletta Lady di Grande Inverno, meritandosi la stima di tutti gli alleati della casata Stark.

Continuando a ottenere potere e riconoscimento, non per quei comportamenti definiti in ambito familiare come importanti per essere date in mogli ad un principe, ma tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste all’evoluzione finale di Sansa: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

Colloquio immaginario

Sansa arriva al castello dei Lannister convinta di essere data in sposa al suo principe azzurro Joffrey.

Accede in terapia per umore depresso. Si è nel momento di invalidazione del piano prescrittivo alla cui base sta: “Se sarò una lady, allora avrò il mio principe azzurro”. Fino ad ora Sansa si è infatti comportata secondo gli insegnamenti della madre, è sempre curata nel suo aspetto e nei suoi modi, come si addice ad una nobildonna. Comportamenti come quello della sorella Arya, la quale preferisce alla mondanità lezioni di duello, vengono scoraggiati indicandola spesso come un maschiaccio.

Quando Sansa viene finalmente promessa in sposa al primogenito della casata reale Lannister, il suo sogno sembra avverarsi. Il piano è talmente forte e il bisogno di difendersi dal tema di indegnità è così prevalente da farle sacrificare il suo metalupo a seguito di un litigio tra Arya e Joffrey, durante il quale Sansa si schiera dalla parte di quest’ultimo. Sacrificherà nuovamente una parte della sua famiglia, quando re Joffrey farà decapitare il padre.

Nonostante questi avvenimenti, tuttavia, Sansa resta al palazzo reale nella speranza di vivere la sua favola con il principe Joffrey. A questo punto, però, la natura violenta dell’erede al trono della casata Lannister si riversa su Sansa stessa: dapprima la umilia di fronte a tutta la corte e, in seguito, passa alla violenza fisica facendola picchiare dalle guardie e minacciando ripetutamente di ferirla con una balestra.

T: Signorina Sansa lei mi ha detto che ultimamente sta provando una forte tristezza e un senso di impotenza, soprattutto legate alle sue aspettative nei confronti del principe Joffrey. È corretto?

S: Sì, è così. Mi aspettavo che una volta giunta ad Approdo del Re, sarei finalmente stata amata come le principesse dei racconti che mi faceva mia madre quando ero piccola. Avrei voluto vivere la mia favola. E invece mi ritrovo ad essere umiliata in pubblico e a subire le sue torture.

T: E’ comprensibile provare tristezza e frustrazione in una situazione di forte stress come quella che sta vivendo in questo momento. Specialmente visto che le sue figure più importanti e che potrebbero aiutarla in questo momento sono distanti. Tuttavia è positivo che lei abbia deciso di intraprendere un percorso di terapia; questo indica una forte volontà di cambiare le cose e di reagire a questa situazione, non crede?

S: Sì penso di sì…non so. Forse è come dicevamo l’altra volta: sono stanca di dover sempre dire di sì e di stare zitta. Devo essere sempre controllata in tutto. Ma mi sento come se non fossi libera di fare quello che voglio…di modificare le cose.

T: cambiare non è un processo semplice, occorrono tante energie e tanta forza per rimettere in gioco ciò che ci è stato insegnato quando eravamo piccoli e il nostro modo di comportarci. Si ricorda quando abbiamo parlato della Sansa “bambina” e di cosa le fosse stato insegnato?

S: Sì ricordo, che si è amati solo se ci si comporta come una principessa…

T: Esattamente. Comportarsi in questo modo, tuttavia, è stato utile e funzionale all’interno del suo contesto familiare. Ora però, mi corregga se sbaglio, mi sembra che le stia un po’ stretto.

S: Decisamente stretto. Ma non so cosa fare, ho sempre fatto così e mi aspettavo che sarei stata regina. Forse aveva ragione Cersei quando mi ha detto “Non amerai mai il re”… Forse dovrei fare come fa Arya.

T: Mi spieghi meglio.

S: E’ sempre stata la ribelle. Invece che farsi fare i capelli o di scegliere il vestito da indossare passava il tempo ad addestrarsi nella lotta o nel tiro con l’arco. Ormai è anche più brava dei nostri fratelli. L’ho sempre guardata dall’alto verso il basso per questo, ma forse ha fatto bene lei.

T: Mi faccia capire: in che senso ha fatto bene?

S: A fregarsene di cosa dicevano i miei genitori. Sono sempre stati troppo legati alle tradizioni, sempre a criticarci e pronti a puntare il dito quando sbagliavamo. Con me di meno, ma perché io sono sempre stata quella che faceva quello che dicevano. Arya invece ha avuto la forza di fare quello che le pareva. Forse a me manca questo, forse non sono abbastanza forte.

T: Mi pare che lei stia vivendo una situazione molto difficile tra la recente perdita di suo padre e del suo metalupo e ciò che sta affrontando con Joffrey. Ci sono momenti nella vita che ci mettono di fronte ad una sofferenza che è difficile da sopportare e da affrontare. Ma questo non ci rende persone deboli, anzi.

S: […]

T: Non è d’accordo?

S: Sì è solo che, non so… Vorrei che tutto si risolvesse da solo. Vorrei svegliarmi domani mattina ed essere la principessa che ho sempre desiderato essere.

T: Vede Sansa, questa è la strategia di comportamento che avevamo identificato le scorse volte: cerchiamo di controllarci aspettandoci che la situazione si risolva. Secondo lei in questo momento questa strategia sta funzionando?

S: Direi di no. È quello che mi sono ripetuta quando ho sacrificato Lady, il mio metalupo. E alla fine non è servito a nulla. Alla fine comunque sono finta qui, ad essere picchiata e umiliata da Joffrey.

T: Ecco vede: se questa strategia, come dicevamo prima, è servita alla Sansa bambina con la sua famiglia, è anche vero che al momento sembra avere dei costi troppo alti. E forse, mi corregga se sbaglio, questo suo senso di impotenza potrebbe derivare da qui. Ha imparato un modo di comportarsi che fino ad ora ha sempre funzionato ma adesso sta un po’ scricchiolando e lei si sta chiedendo, anche iniziando un percorso di terapia, come mai non funziona più.

S: Forse ho capito che l’idea che avevo di principessa non è poi quella reale. Voglio dire, di facciata ho ottenuto quello che volevo. Ma non mi sento felice. Ho sacrificato tutto per arrivare qui e ora non mi piace.

T: Ho capito. Allora le chiedo: secondo lei esiste un modo per cambiare la sua situazione attuale?

S: […] Non so, forse dovrei impormi. Ma non ci riesco. Alla fine sono venuta qui per questo no? Perché vorrei che lei mi dicesse cosa devo fare.

T: Sansa, io non posso dirle che cosa deve o non deve fare. Posso però aiutarla a capire se esiste una strategia o una modalità di comportamento differenti da quelle che abbiamo usato fino ad ora e vedere se questo può aiutarla a stare meglio. E’ d’accordo con me?

S: ok…

T: Molto bene. Proviamo allora a pensare ad una situazione in cui ha provato i sentimenti di tristezza e di impotenza di cui mi parla e proviamo a immaginare di imporci, come lo definisce lei.

S: Mi viene in mente subito quando ho preso le parti di Joffrey nel suo litigio con Arya. Avrei dovuto difenderla…del resto aveva ragione lei.

T: Ottimo, proviamo a pensare nello specifico come avrebbe voluto reagire.

S: Gli avrei detto che è un viziato, un idiota e lo avrei fatto sbranare dalla mia metalupa.

T: Certo, sono emozioni e parole forti, ma che sono comprensibili visto quello che le sta capitando. Proviamo però a ridimensionare e a cercare un altro modo che possa comunicare quello che proviamo senza però usare la violenza e passare così dalla parte del torto.

S: Beh, allora avrei potuto dire che Arya non aveva fatto nulla. Che era stato Joffrey a minacciare il figlio del macellaio e poi ad atterrare Arya. Nimeria l’ha solo difesa.

T: Proviamo a immedesimarci nel momento, cosa pensa proverebbe?

S: […]

T: Proviamo come l’altra volta a pensare a che informazioni ci trasmette il corpo. Chiudiamo gli occhi e focalizziamoci sulle sensazioni corporee. Cosa pensa proverebbe in quel momento a livello fisico?

S: Mi tremano le mani…Mi sento il cuore in gola…Avrei voglia di urlare penso

T: Molto bene Sansa, molto bene. Possiamo dare un’emozione a queste sensazioni?

S: Non so… In questo momento mi sembra così distante da cosa provo ora… Forse, felicità?

T: Ottimo, rimaniamo un attimo in quel momento e sentiamo quella emozione.

[…]

Quanto è forte da 1 a 10?

S: direi 6 o 7

T: Molto bene, signorina Sansa. Quindi abbiamo visto come da un lato le strategie che abbiamo utilizzato fino ad ora ci risultino poco efficienti in questo momento e ci diano emozioni negative, mentre dall’altro, immaginando di comportarci in maniera differente, abbiamo provato delle emozioni positive e forti. Lei stessa mi ha detto 6-7 su 10. Giusto?

S: Sì.

T: Mh. Allora direi che potremmo vedere qui insieme come riuscire ad utilizzare comportamenti e strategie nuove. Sarà un percorso che richiederà tempo ed energie, ma sono convinto che abbia le risorse per poterlo affrontare. Che ne dice, è d’accordo?

 

Effetti della “pillow talk” sulla soddisfazione relazionale e sulle risposte fisiologiche allo stress nelle coppie

Con pillow talk si definisce una comunicazione intima tra partner dopo l’attività sessuale. Che benefici può portare questa pratica a uomini e donne?

 

Con l’espressione “pillow talk” (letteralmente, “conversazione con il cuscino”) si intende la conversazione che avviene tra i partner in seguito all’attività sessuale (PSTI). Molte ricerche in letteratura dimostrano un’associazione positiva tra l’impegnarsi in una comunicazione verbale e non verbale (coccole, baci, discorsi intimi) dopo l’attività sessuale e il benessere relazionale e sessuale degli individui e della coppia.

Il riferimento in letteratura, utilizzato per estendere questa linea di ricerca, è l’AET. L’AET è una teoria neo-darwiniana che dimostra come l’”affectionate behavior” (letteralmente, comunicazione affettuosa), è essenziale per aiutare gli individui a sviluppare e mantenere legami di coppia e rafforzare la resilienza. Nello specifico, la comunicazione affettuosa è definita come la messa in atto o l’espressione di sentimenti di vicinanza, cura e affetto per un altro significativo (abbracciare, baciare, dire “ti amo”). Ricerche precedenti indicano che le persone si impegnano in discorsi intimi post-sesso in media per 12 minuti.

Il presente studio si propone di testare sperimentalmente se l’aumento della comunicazione post-sessuale tra partner influisce sulla soddisfazione relazionale delle coppie e sulle risposte fisiologiche allo stress, in particolare nel momento in cui si discute di un problema relazionale che induce al conflitto.

Nello specifico, le ipotesi testate sono:

  • I partner che raddoppiano la “pillow talk” durante un arco di tre settimane (condizione sperimentale) mostreranno una maggior soddisfazione della relazione;
  • La soddisfazione della relazione predice la reattività del cortisolo e le risposte fisiologiche allo stress, ossia i partner sessuali più soddisfatti della loro relazione sperimentano meno stress quando discutono di un problema relazionale difficile;
  • Le coppie assegnate al gruppo sperimentale sono meno stressate rispetto a quelle appartenenti al gruppo di controllo, che non hanno raddoppiato la loro “pillow talk”.

Il campione finale comprendeva 50 coppie eterosessuali, mediamente dell’età di 20 anni, impegnati in una relazione monogama di almeno tre mesi e un’attività sessuale settimanale. I partecipanti erano invitati a compilare un questionario relativo ad informazioni demografiche, funzionamento relazionale, attività sessuale, situazioni stressanti e conflittuali vissute nel mese precedente. Dopo tre settimane, i soggetti erano invitati ad una visita di laboratorio per la misura della reattività del cortisolo responsabile dello stress tramite un tampone orale, prima e dopo aver discusso con il proprio partner per un tempo di 5, 20 e 40 minuti su una problematica relazionale conflittuale. Infine, è stato utilizzata la scala di Hendrick (1988) per la misura della soddisfazione della relazione, prima e dopo l’intervento sperimentale.

I risultati indicano che un aumento di “pillow talk” produce inaspettatamente una maggior soddisfazione relazionale solo per gli uomini e non per le donne, ma non predice le risposte allo stress fisiologico in entrambi i gruppi. Pertanto, la prima ipotesi è verificata soltanto per il genere maschile, mentre la seconda ipotesi non è stata supportata. Infine, anche la terza ipotesi è verificata soltanto per gli uomini, i quali giungevano in laboratorio con livelli di stress decisamente più alti rispetto alle donne, che diminuivano in seguito al confronto con la propria partner sulle problematiche relazionali. Di conseguenza, l’intervento non ha avuto un effetto significativo sulla reattività del cortisolo nelle donne, sia nel gruppo di controllo che in quello sperimentale; mentre gli uomini nella condizione di “pillow talk” hanno riportato un aumento nella soddisfazione relazionale e una diminuzione dei livelli di stress, rispetto agli uomini a cui era stata assegnata la condizione di controllo.

Una spiegazione sul perché gli uomini arrivassero in laboratorio con livelli di stress più elevati, rispetto al gruppo di controllo, potrebbe derivare dall’eccessiva preoccupazione per il compito di comunicazione che dovevano svolgere; ciò significa che essi sperimentavano una pressione maggior su sé stessi per aumentare la comunicazione intima positiva con la partner e, quindi, erano più stressati avvicinandosi alla discussione. Tuttavia, una volta che si sono effettivamente impegnati nel confronto, potrebbero essersi sentiti meglio attrezzati per gestire lo stress e, dunque, i loro livelli di cortisolo si abbassano notevolmente. Ciò non avviene per le donne.

Secondo la concezione AET, le norme di genere definiscono le donne come coloro che vogliono investire di più nelle loro relazioni rispetto agli uomini, perché sono state socializzate per farlo attraverso ruoli di genere prescritti. Pertanto, è stato chiesto loro di aumentare un comportamento che è già comune all’interno del loro ruolo di genere. Inoltre, è anche possibile che alcune donne abbiano inquadrato negativamente questo comportamento come lavoro emotivo all’interno della loro relazione romantica; in effetti, le donne possono già affrontare un aumento dello stress a causa delle aspettative di essere gestori familiari e relazionali, a volte riferite al colloquio come carico mentale. Di conseguenza, l’intervento potrebbe essere stato visto da alcune donne come uno dei tanti modi in cui ci si aspettava che gestissero la loro relazione e quindi non essere stato particolarmente gratificante, razionalmente benefico o positivo per lo stress.

Le norme di genere potrebbero anche spiegare l’efficacia dell’intervento sugli uomini. Infatti, la letteratura dimostra che le norme di genere sono più proibitive per l’espressione emotiva degli uomini. Pertanto, per gli uomini che partecipavano alla condizione sperimentale, avere il “permesso” di esprimere le proprie emozioni, impegnandosi in un comportamento che promuova l’attenzione, la consapevolezza e l’impegno nei confronti della propria partner dopo l’attività sessuale, può aver portato a benefici più pronunciati.

Alcuni limiti rappresentati dal presente studio sono l’età relativamente giovane del campione e la limitata generalizzabilità dei risultati. La ricerca futura può ora espandersi per verificare se forme e caratteristiche specifiche della comunicazione sono più o meno utili durante il PSTI.

 

Le emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

L’indagine SEG-Covid19, avviata il 14 Marzo dall’Associazione di Volontariato “Mammachemamme” e patrocinata dal MIPPE (Movimento Italiano Psicologia Perinatale), ha l’obiettivo di valutare lo stato di salute psicologica delle donne in gravidanza durante la diffusione del Coronavirus.

 

Lo studio è coordinato dalle dottoresse Maria Cecilia Gioia (psicologa e psicoterapeuta presso l’U.O. Ostetricia e Ginecologia – iGreco Ospedali Riuniti di Cosenza) e Alessia Aloi (psicologa psicoterapeuta), entrambe socie di “Mammachemamme”, associazione che da 8 anni si occupa della promozione del benessere psicologico per le mamme, i bambini e le bambine e le famiglie.

La gravidanza – racconta la dott.ssa Gioia – rappresenta per ogni donna un periodo di importanti trasformazioni fisiche ed emotive, di adattamento e continue scoperte. Durante la gestazione, sperimentare una condizione cronica di stress rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio, sia a livello fisico, che psicologico e sociale.

L’attuale emergenza sanitaria, rappresentata dalla circolazione del virus responsabile della COVID-19, sta avendo un notevole impatto sullo stile di vita della gestante e sulla gestione della gravidanza. Le poche informazioni al momento disponibili sull’impatto della COVID-19 in gravidanza appaiono tendenzialmente confortanti ma, visto l’esiguo numero di studi, è comprensibile registrare una forte risposta di ansia nelle donne in attesa.

L’indagine SEG-Covid19 (Fig. 1) mira appunto a conoscere le emozioni, i pensieri e i comportamenti che accompagnano la gravidanza in questo particolare momento storico. I questionari sono anonimi, la compilazione è semplice e richiede circa 20 minuti di tempo. I dati verranno analizzati solo in forma aggregata e i risultati saranno pubblicati in forma riassuntiva.

Possono partecipare allo studio tutte le donne in gravidanza. E’ importante la partecipazione del più alto numero possibile di gestanti, pertanto si ringraziano tutte le future mamme che vorranno supportare la ricerca, partecipando e condividendo l’iniziativa. Circa mille le gestanti che attualmente hanno aderito a questo studio con una distribuzione sul territorio nazionale maggiore nelle regioni del nord.

Stiamo già analizzando i primi dati – riporta la dott.ssa Aloi – e a breve pubblicheremo il nostro studio.

 

Covid-19 e gravidanza uno studio sulle emozioni delle future mamme Fig 1

Fig. 1. SEG-COVID-19. Studio sulle emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

 

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La Stimolazione Magnetica Transcranica nel trattamento delle dipendenze

Il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, residenziale o semi residenziale, ma sempre maggior rilevanza sta assumendo la possibilità di integrare il trattamento con l’utilizzo della deep TMS (dTMS).

Sara Angelicchio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il disturbo da uso di sostanze viene definito dal DSM 5 (2014) ‘Un cluster di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che indicano come l’individuo continui a fare uso della sostanza nonostante i significativi problemi correlati alla sostanza’. Una persona con questo disturbo quindi continua a fare un uso disfunzionale della sostanza, nonostante tutte le conseguenze negative che comporta, come il fallimento o l’abbandono delle attività lavorative, sociali e ricreative dell’individuo e l’eventualità di mettere in pericolo la propria vita. Tale disturbo si manifesta con i seguenti raggruppamenti di sintomi:

  • Incapacità di controllare l’uso della sostanza
  • Compromissione sociale derivante dall’uso della sostanza
  • Situazioni a rischio derivate dall’uso della sostanza
  • Tolleranza: necessità di una dose maggiore della sostanza per generare l’effetto desiderato
  • Astinenza: sindrome generata dalla diminuzione della concentrazione della sostanza nel sangue o nei tessuti, a seguito di un uso pesante e prolungato della stessa.

Le sostanze psicotrope sono un gruppo di sostanze eterogenee che agiscono sui processi psichici, alterando l’attività mentale di chi le assume. Nello specifico attivano determinate aree cerebrali deputate al sistema di gratificazione, di motivazione e di ricompensa e nella produzione di ricordi. (Hyman, 2007). Il sistema di gratificazione e ricompensa è un circuito neuronale, cioè un insieme di neuroni, che parte dall’area tegmentale ventrale ed è collegato ad aree subcorticali come il nucleo accumbens, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula ed ad aree corticali, come la corteccia prefrontale ed il giro cingolato anteriore. L’area tegmentale ventrale è responsabile della sensazione di piacere che proviamo in associazione ad alcune attività per noi adattive (come mangiare, stare in compagnia di amici, avere un rapporto sessuale, etc.). Il sistema di gratificazione si attiva con la produzione di un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Le sostanze psicotrope agiscono direttamente su questo sistema e causano un enorme rilascio di dopamina, responsabile dell’intenso piacere che si prova consumandole. Dopo un consumo continuativo il cervello, a seguito di tale iperproduzione di dopamina causata da agenti esterni, ne produce di meno o riduce il numero di recettori dopaminergici in grado di riceverne il segnale. Di conseguenza la capacità di provare piacere è drasticamente ridotta e si prova piacere soltanto aumentando progressivamente la dose di sostanza consumata, che diventa progressivamente l’unica fonte di piacere. Compare quindi il craving, ossia il forte ed incontrollabile desiderio di usare la sostanza. La diminuzione della produzione di dopamina, a sua volta, causa un’ipoattività della corteccia prefrontale, l’area cerebrale deputata all’attenzione, alla pianificazione ed al controllo degli impulsi. Il malfunzionamento della corteccia prefrontale causa la diminuzione della capacità di controllo, che a sua volta genera l’uso compulsivo e rischioso della sostanza (Everitt, Belin, Economidou, Pelloux, Dalley & Robbins, 2005). Un uso prolungato della sostanza causa quindi cambiamenti morfologici e funzionali dei circuiti cerebrali implicati. Queste modificazioni cerebrali sono state osservate anche nella comparsa di altri comportamenti compulsivi nei quali il craving non riguarda sostanze, come nel disturbo da gioco d’azzardo.

Secondo il modello bio-psico-sociale l’insorgenza di un disturbo o di una patologia è il risultato dell’interazione di più variabili, dette fattori di rischio, che aumentano la probabilità dell’insorgenza, e fattori di protezione, che la diminuiscono. Queste variabili sono di natura biologica/genetica, psicologica e sociale. In linea con tale modello, i fattori di rischio per l’insorgenza ed il mantenimento di una dipendenza sono:

  • biologici: la predisposizione biologica al disturbo da uso di sostanze è caratterizzata da un’alterazione nella produzione di alcuni neurotrasmettitori endogeni (soprattutto la dopamina), responsabili del sistema di gratificazione e ricompensa sopracitato.
  • ambientali: situazione socio-economica, esposizione ad eventi stressanti e traumatici, familiarità per dipendenze o altri disturbi psichiatrici.

Attualmente il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, ai quali può essere utile aggiungere un intervento di tipo residenziale o semi residenziale.

La Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso  (Fiore, 2017). La TMS dispone di una serie di coil, o elettrodi, che si posizionano sulla testa, in corrispondenza della regione cerebrale di interesse. I coil rilasciano una corrente elettrica che genera un campo magnetico. Il campo magnetico raggiunge le aree cerebrali desiderate e inibisce il loro funzionamento.

La TMS è utilizzata a scopo di ricerca per indagare le funzioni dell’area cerebrale stimolata, ed a scopo clinico per trattare disturbi quali la depressione, il morbo di Parkinson, etc. A scopo clinico è utilizzata la TMS ripetuta (rTMS), ossia più sessioni di TMS ad alta o bassa frequenza. Tale trattamento consente di modulare la riorganizzazione neuronale, facilitando o inibendo circuiti neuronali responsabili di una funzione cognitiva o di un sintomo.

Utilizzando i coil della rTMS il campo magnetico generato raggiunge la corteccia cerebrale, ma non le aree sottostanti, coinvolte nelle dipendenze patologiche. La deep TMS (dTMS) consente la stimolazione di aree cerebrali profonde, mediante l’utilizzo di un tipo particolare di coil, chiamato Hesed-coil (H-coil), che genera campi magnetici in grado di raggiungere la profondità di 6 cm sotto lo scalpo: 4/4,5 cm più in profondità rispetto alla TMS (Roth,  Zangen & Hallett, 2002). Negli ultimi anni è stata dimostrata l’efficacia del trattamento con dTMS per diversi disturbi, incluse le dipendenze.

Molti studi hanno indagato l’efficacia del trattamento con dTMS in pazienti con disturbi da uso di sostanze quali alcol, nicotina, cocaina, resistenti al trattamento farmacologico e psicoterapeutico (Fiocchi et al., 2018; Kedzior, Gerkensmeier & Schuchinsky, 2018; Tendler, Barnea Ygael, Roth & Zangen, 2016). In questi studi vengono stimolate le aree subcorticali e corticali protagoniste del circuito dopaminergico della ricompensa: area tegmentale ventrale, nucleo accumbens, amigdala, insula, corteccia prefrontale, corteccia cingolata anteriore. I risultati mostrano che generalmente i protocolli di dTMS ad alta frequenza riducono il craving di sostanze, i sintomi depressivi comorbidi, sia a breve che a lungo termine (dopo 6-12 mesi), mentre i protocolli ad alta frequenza riducono il craving esclusivamente a breve termine. Poiché diversi tipi di sostanze alterano il circuito dopaminergico in modalità differenti, i protocolli di trattamento con dTMS devono essere adattati alla specificità di ogni sostanza. Le modifiche strutturali più durature nel tempo sono state ottenute con protocolli di somministrazione di dTMS ripetuta nel tempo per almeno 20 sessioni ed ad ampio raggio. Questo trattamento, oltre a ridurre il craving, riabilita e stimola la funzione cognitiva deputata al controllo del proprio comportamento, fondamentale per ridurre i comportamenti compulsivi dell’uso della sostanza.

Benché la letteratura sull’argomento al momento presenti dei limiti (studi con campioni poco ampi, senza gruppo di controllo, etc.) e siano necessari ulteriori studi di approfondimento, i dati ad oggi disponibili mostrano come il trattamento con dTMS per le dipendenze sia efficace nel diminuire il craving e riacquisire il controllo sui propri comportamenti. Tale tecnica, in associazione a trattamento farmacologico e psicoterapeutico, nell’ottica di un trattamento multidisciplinare, contribuirebbe ad alleviare i sintomi dei disturbi da uso di sostanze.

 

Per saperne di più su TMS e trattamento delle dipendenze, visita il Centro TMS

 

 

Gestire il virus con una corretta Prospettiva Temporale – Come la comprensione della Psicologia Temporale individuale può aiutare ad affrontare la pandemia

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del coronavirus.

 

Non c’è dubbio che il complesso fenomeno sociale causato dalla pandemia del Coronavirus determinerà in modo drammatico un “prima” ed un “dopo” nella storia delle nostre vite.

La parola quarantena, che deriva dalla parola latina che indica la durata di quaranta giorni, fu usata per la prima volta nel XIV secolo a Venezia. La Repubblica Serenissima, per contenere la diffusione della peste bubbonica, la “morte nera” che stava devastando l’Europa, obbligò a quaranta giorni di isolamento (dalla parola latina “insula”, che significa “isola”) le numerose navi commerciali straniere che arrivavano nella città lagunare. Durante questo periodo, le persone e le merci venivano monitorate su alcune isole della laguna veneta.

I veneziani furono saggi nell’adottare questa strategia a lungo termine rinunciando ai benefici economici e commerciali immediati. Anche senza le moderne conoscenze scientifiche, decisioni governative lungimiranti possono effettivamente contenere la diffusione di un’infezione al punto di sradicarla (Konstantinidou et al., 2009). Ciò fu ottenuto, nella città lagunare, limitando almeno parzialmente le interazioni sociali umane, consentendo così alle istituzioni veneziane di riguadagnare il controllo sociale e ristabilendo buone condizioni di salute.

Il coronavirus è un fenomeno bio-psico-sociale perché è un agente biologico che ha bisogno di un ospite umano per prosperare. Gli esseri umani hanno motivazioni psicologiche integrate in contesti sociali. Una persona è definita dalle complesse interazioni esistenti tra le varie motivazioni per perseguire obiettivi biologici, psicologici e socioculturali, ciascuna dotata di scopi propri (Agnoletti, 2019).

Il comportamento umano è il risultato di queste interazioni finalizzate, che globalmente, chiamiamo “fitness” in termini di salute fisica e psicofisica.

In questa prospettiva, l’isolamento sociale e fisico che limita collettivamente l’esposizione al virus, gli stati emotivi che sperimentiamo (più emozioni negative vivremo, meno efficace sarà il nostro sistema immunitario; più emozioni positive sperimenteremo, più forte sarà il nostro sistema immunitario), le scelte che faremo nel nostro comportamento quotidiano (lavarsi spesso le mani, etc.), determineranno sia la nostra fitness ed il benessere personale sia, indirettamente, la fitness della comunità in cui viviamo.

La ricerca scientifica sulla prospettiva temporale individuale, concettualizzata da Philip Zimbardo (Zimbardo & Boyd, 2008) e dai suoi gruppi di ricerca (Stolarski, Fieulaine e Van Beek, 2015), ci dimostra che il personale atteggiamento nei confronti del tempo è assolutamente cruciale sia a livello individuale sia a livello di decisioni sociopolitiche che devono essere prese dagli organi governativi per decidere e gestire i comportamenti efficaci per contenere la diffusione del virus.

In questo periodo di incertezza e stress, è importante sapere che individui, culture e istituzioni che sono più fatalisti sottovalutano i possibili fattori di rischio, poiché sono più focalizzati sul presente e molto meno consapevoli delle conseguenze delle loro azioni individuali e collettive (si pensi agli assembramenti che sono sorti e che sono stati contrastati dalla polizia). Per tali soggetti, politiche altamente restrittive possono contenere in modo più efficace il virus rispetto a individui che sono molto più orientati al futuro e che quindi hanno maggiori probabilità di comportarsi in modo più prudente.

Questa conoscenza psicosociale relativa alla Prospettiva Temporale può essere utile per comprendere, ad esempio, la differenza nei risultati epidemiologici tra due nazioni, come l’Italia e la Corea del Sud. Questi paesi sono comparabili per dimensioni delle loro popolazioni ed efficienza dei loro sistemi sanitari. Le loro culture, tuttavia, differiscono notevolmente per quanto riguarda il rispetto delle istituzioni e delle autorità. Le persone in questi due paesi differiscono anche nei loro orientamenti individualistici e legati al presente edonistico.

Il fatto che la Corea del Sud abbia prontamente applicato misure altamente restrittive (derivanti dal loro più forte orientamento futuro) ampiamente rispettate dalla popolazione ha limitato fortemente la diffusione del virus. Nel momento in cui sto scrivendo questo testo, il numero di morti era cinque volte inferiore a quello italiano.

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del virus.

Il coronavirus ci obbliga ad essere più consapevoli del nostro bisogno di interazione sociale. Le restrizioni sulle interazioni sociali sfidano drammaticamente le nostre consuete abitudini. Qual è la nostra percezione del rischio e del controllo personale delle nostre vite? Come possiamo esprimere il nostro bisogno sociale in modo non fisico?

Prima accettiamo psicologicamente e culturalmente di far parte di una comunità umana globale con una forte coesione, prima saremo in grado di contrastare i danni socioeconomici e personali causati dal virus.

In breve, dobbiamo affrontare individualmente e socialmente questo momento storico caratterizzato dalla diffusione del coronavirus. È necessario essere più consapevoli della necessità di agire collettivamente in modo compatto, deciso e positivo prendendo decisioni orientate ai futuri benefici nel medio e lungo termine. Dobbiamo riconoscere ed accettare che alcuni aspetti relativi agli obiettivi immediati e a breve termine devono essere significativamente modificati.

Infine dobbiamo dare priorità al nostro futuro benessere comune rispetto gli interessi immediati individuali.

 

La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower – Psicologia Digitale

Outfit all’ultima moda, pose da consumati professionisti del fashion, sguardo serio: sono piccoli protagonisti, baby influencers popolari sui social media.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 8) La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower 

 

Baby influencers: chi sono e che cosa fanno sui social

Li chiamano micro-microcelebrities, mini influencers, kid influencers o più spesso baby influencers. Non si tratta solo di figli di persone famose: i baby influencers più famosi infatti sono sconosciuti, come ad esempio in Italia la piccola Ameli, 6 anni, con più di 2 milioni di iscritti al suo canale YouTube, oppure su Instagram la piccolissima Gaiaburuburu, classe 2016, gaiamasseroni e lauramasseroni, sorelle anche su Instagram, o ancora gennarodesimone.

Oltre oceano è un fenomeno consolidato e frutto di scelte mirate per ottenere un ritorno economico dall’attività sui social, quasi sempre gestiti da genitori-manager (si parla di “sharenting”: la condivisione di post con i propri figli), come faroukjames, clementstwins, coco_pinkprincess tra i più popolari. Che si tratti di vlog su Youtube o di immagini su Instagram, i contenuti variano da foto con capi e accessori alla moda o, invece, semplici episodi di vita quotidiana. Viene chiamata automedia (Pedersen e Aspevig, 2018) questa nuova forma di autobiografia attraverso i media; come un nuovo genere letterario, fa riferimento alla creazione e condivisione della narrazione della vita online.

Come mai sono così popolari: cosa significa comunicare la vita reale attraverso i media

Perché i baby influencers hanno successo? Una spiegazione potrebbe risiedere nella spontaneità, nella messa in scena di pezzi di vita di persone comuni, autentiche, che si mostrano così come sono, “celebrità ordinarie”, come le definisce Abidin (2015; 2017), perché danno l’impressione che non ci sia nulla o quasi di artefatto in ciò che condividono. E’ questa autenticità che comunica un senso di connessione e somiglianza. L’Autrice parla però di “calibrated amateurism”: questo stile amatoriale sarebbe “calibrato”, cioè creato ad hoc in maniera intenzionale e deliberata appunto per creare questo legame con i followers. Anche se le produzioni sembrano amatoriali (gli sfondi, le pose) si ha invece un livello di competenza digitale e tecnologica molto alto. Per trasmettere un senso di continuità, vicinanza e fidelizzare i followers, i post vengono pubblicati a cadenza quasi giornaliera, con contenuti semplici e tratti dalla vita quotidiana. I contenuti sono adattati per essere ben fruibili su tutte le piattaforme e i device in diversi formati, dal video di Youtube alle immagini di Instagram, con l’uso abile delle affordance dei diversi social media.

Privacy e uso dei social media

Secondo le recenti leggi sulla privacy per i minori (come la GDPR-Kids), nessuna informazione personale può essere acquisita a meno che un genitore non abbia dato espressamente l’autorizzazione. La socializzazione digitale dei più piccoli avviene molto presto: secondo i dati del PWC Kids Digital Media Report 2019, ogni secondo nel mondo 2 bambini si connettono per la prima volta; un terzo degli utenti attivi online è minorenne; un bambino di 4 anni spende in media 4 ore a settimana online che salgono a più di 20 per i ragazzi di 15 anni. Anche se il loro primo contatto avviene quasi sempre in presenza e con i genitori, risulta difficile credere che l’utilizzo sia sempre mediato da figure adulte. Se da un lato ciò favorisce un processo di rispecchiamento dei comportamenti dei genitori, dei quali imitano l’utilizzo di tecnologie e app per trasmettere storie di vita e “condividerle live”, dall’altro siamo di fronte a una contraddizione. Minori visti come analfabeti digitali che necessitano della guida di un adulto, ma poi soggetti in grado di costruire intorno a sé una identità online e farla fruttare, anche economicamente.

La vita in un post: pubblicità e futuro

Un ampio numero di followers vuol dire anche arrivare all’attenzione dei brand. La monetizzazione dei post – o per meglio dire degli advertorial (l’unione di advertising ed editorial, poiché sui social la pubblicità è integrata in un contenuto editoriale, post o video) – è un mercato in crescita che sfrutta proprio quel senso di fiducia e di appartenenza. Gli influencers provano personalmente dei prodotti e pubblicano post in cui li descrivono accuratamente, ne descrivono l’uso che ne hanno fatto e le caratteristiche. Per essere trasparenti con i propri followers, il post dovrebbe essere accompagnato da un “#ad” o “#advertising” per segnalare agli utenti che si tratta di un post sponsorizzato, tuttavia non tutti gli influencers adottano questa misura in quanto non obbligatoria. I prodotti più sponsorizzati sono principalmente di moda, bellezza, alimentari, viaggi, elettronica. Anche per i baby influencers con un buon numero di followers (in media a partire da 40.000) si aprono le porte della commercializzazione dei post con ottimi riscontri e potenzialità: l’importante nicchia di mercato dei prodotti per bambini e per famiglie. A volte assistiti da agenzie, più spesso da genitori-manager, questi bimbi vengono ritratti mentre mangiano un certo snack, mentre scartano un determinato gioco, fruttando consistenti compensi per i genitori.

Al di là dell’aspetto economico, cosa comporta questa continua esposizione mediatica per i piccoli? Essendo un fenomeno recente, lo scopriremo tra un po’, quando sapremo che fine hanno fatto queste piccole star del web. Ci sarà anche da capire come reagiranno a tutto quel materiale pubblicato senza il loro consenso. Le tracce che lasciamo online rimangono e non sappiamo per quanto e a chi rimangono disponibili. Per il momento questo sembra un prezzo da pagare non troppo alto; probabilmente questa diventerà una tematica oggetto di discussioni più approfondite in futuro, quando quelli che oggi sono bambini diventeranno adulti consapevoli.

 


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Covid-19: vivere la quarantena tra relazioni sociali virtuali, parasociali e flashmob dai balconi

L’emergenza covid-19 ha comportato una netta restrizione in termini di libertà e relazioni sociali, imponendo una quarantena sempre più restrittiva per limitare e fermare il contagio.

 

Pur essendo innegabile il costo emotivo e psicologico che una restrizione del genere comporta sul benessere psicofisico, emerge ora più che mai il valore positivo dello sviluppo tecnologico nell’attenuare gli effetti collaterali dell’isolamento.

Al di là del restare in contatto con i nostri cari, vicini e lontani, o continuare a lavorare da casa in smart working (ove possibile), innumerevoli sono le iniziative e gli enti che si sono prodigati per offrire, spesso gratuitamente, intrattenimento digitale, per ogni età e interesse. Dalle visite a musei internazionali, ad allenamenti sportivi, canali di streaming illimitati e attività per bambini, la rete offre a tutti la possibilità di mantenersi attivi e social, seppur virtualmente.

Tra questi c’è chi più di altri, e non solo in quarantena, trova rifugio e consolazione anche in un altro tipo di relazione virtuale, interagendo e coltivando un legame affettivo con persone sconosciute, con cui riesce a ricreare una sorta di intimità. Si tratta di ciò che gli psichiatri Donald Horton e Richard Wohl (1956) hanno definito interazione parasociale, ovvero quel tipo di relazione che si può creare tra persone che non sono mai entrate in contatto diretto tra loro, ma che cinema, televisione e ora anche Internet danno l’impressione di conoscere di persona. La relazione parasociale è un rapporto in cui la reciprocità non si basa sulla realtà, bensì è simulata, nella misura in cui lo spettatore vedendo l’altro (attore o personaggio famoso che sia) sente di essere in comunicazione diretta con lui/lei. È da questa impressione che nasce quella illusione di intimità che fa sì che noi percepiamo il nostro idolo come un nostro amico o conoscente. È opportuno precisare che quello delle relazioni parasociali non è legato ad una particolare personalità o disturbo. L’uomo è una macchina da socialità e come tale necessita di relazioni per soddisfare i propri bisogni psicologi; tali bisogni possono essere soddisfatti anche da quell’ideale di persona irraggiungibile di cui tutti siamo o siamo stati fan per un periodo nella vita. Pur trattandosi di un rapporto asimmetrico, la relazione parasociale non è scevra di forti emozioni e spinte identitarie che giocano un ruolo importante in gusti e scelte delle persone.

Quella ‘intimità̀ non reciproca a distanza’ che viene a crearsi non impedisce infatti che ‘amici’ mai incontrati fisicamente, siano presenti nella vita psichica delle persone tanto da poter comparire anche nei loro sogni (Thompson, 2000).

Lo psicologo americano George Stever ha elencato le diverse fonti di attrazione per comprendere quali sono i bisogni psicologi che la relazione parasociale soddisfa:

  • Abilità e performance del vip, il quale può fungere da fonte di ispirazione e motivazione nel coltivare un talento o desiderio
  • Attrazione romantica, che suscita e alimenta fantasie. Questo genere di attaccamento permette di provare e sperimentare emozioni in un contesto sicuro.
  • Idealizzazione, che porta ad una sovrastima delle qualità del personaggio, con conseguente eliminazione dei difetti e giustificazione degli atti. Spesso si tratta di uno strascico dell’idealizzazione dei genitori tipica dell’infanzia.
  • Identificazione, utilizzata per costruire una immagine di sé ricercando elementi comuni, veri o presunti.
  • Attaccamento, nella misura in cui, sin da bambini, ricerchiamo dall’altro non solo sostentamento materiale ma soprattutto contatto e nutrimento emotivo. Diventa allora evidente come ci si possa sentire legati a personaggi che fanno provare emozioni, seppur non vi è reciprocità. Questo tipo di rapporto è tipicamente femminile e si caratterizza per il desiderio di proteggere ed accudire l’oggetto del proprio attaccamento.

Ma tornando alla situazione attuale e all’emergenza in corso degli ultimi mesi, se è vero che grazie ad internet il mondo si è arricchito di una realtà virtuale parallela che regala quella libertà illusoria ed effimera di essere chiunque e ovunque, si è sempre dietro uno schermo tra le proprie mura. Che si tratti di un rapporto reale o simulato come quello appena descritto, l’estensione del dialogo a distanza genera solitudine. I social network possono sicuramente sopperire laddove non possono i confini geografici nel restare in contatto con la propria rete o addirittura ampliarla, ma non sono in grado di offrire quegli elementi necessari della comunicazione umana che veicolano il vero calore umano (linguaggio verbale, non verbale e para-verbale). In rete si può provare solidarietà, grazie alla condivisione di un messaggio, uno stato emotivo o partecipando a una raccolta fondi per una buona causa (si pensi alle tante campagne di crowd-funding lanciate con successo dall’inizio dell’emergenza covid-19). Ma nell’impossibilità di esperire in toto la relazione nei suoi aspetti comunicativi, è più difficile provare empatia e attingere a quel calore umano. Ed è proprio per questo motivo che a un certo punto, l’Italia tutta, da Nord a Sud, ha sentito il bisogno di scendere di nuovo in piazza per sentirsi meno sola e darsi forza; non potendolo fare si è ritrovata sul balcone, a cantare contro la paura. Ognuno da casa propria ma insieme, alla stessa ora; guardandosi negli occhi, lontani ma vicini, e abbracciandosi virtualmente.

La musica e la vicinanza emotiva e fisica di dirimpettai e condomini più o meno sconosciuti, hanno unito e lenito più di ogni altro mezzo di telecomunicazione, conferendo in qualche modo il calore di un abbraccio e la forza per non arrendersi. Un orgoglio patriottico che non si provava dai mondiali del 2006 e un senso di comunità che ha valicato i confini nazionali, commuovendo e ispirando il resto del mondo (e da italiana all’estero posso confermare che quel pianto sommesso da un canto, misto a tanta speranza, sia arrivato diretto in tutta la sua forza e bellezza, trapassando lo schermo di un cellulare).

Due elementi indispensabili, nonché conclamati, hanno permesso che ciò avvenisse. La musica, denominatore comune di unione senza distinzione, cura per l’anima e antidoto capace di abbattere le barriere della paura, dell’odio e dell’indifferenza. E più di questo il contatto visivo che, al di là di ogni sviluppo tecnologico possibile, resta il mezzo di comunicazione più potente ed ineguagliabile.

E mi vengono in mente le parole di Brunori Sas in Canzone Contro la Paura:

Ma non ti sembra un miracolo
Che in mezzo a questo dolore
E in tutto questo rumore
A volte basta una canzone
Solo una stupida canzone
A ricordarti chi sei

Lontani ma vicini.

Adolescenza e sexting: informare i ragazzi e supportare i genitori

Negli ultimi anni, il numero di giovani che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente. Appare importante studiare questo fenomeno per una maggior comprensione degli adolescenti alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna.

 

La parola sexting è stata utilizzata per la prima volta nel 2005 dal Daily Telegraph, per unire i termini “sesso” e “sms”, diventando parola certificata nel 2009, sebbene non vi sia nessun consenso sulla definizione del termine nella comunità scientifica. Il sexting è generalmente definito come la ricezione e l’invio di messaggi sessualmente categorici e immagini digitali nude, parzialmente nude o sessualmente suggestive di se stessi o di altri, tramite un telefono cellulare, e-mail, internet, o social network. Negli ultimi anni, il numero di giovani (e non) che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente.

In uno studio condotto su 1.289 adolescenti, Dake et al. (2012) hanno scoperto che tra i partecipanti che avevano tentato il suicidio nell’anno precedente, il 50% usava il sexting in modo compulsivo, sfociando quasi in comportamenti psicopatologici. Pertanto, indagare i rischi tra la popolazione giovanile può identificare i fattori che influenzano la progressione della pratica del sexting. Il suicidio, infatti, è la terza causa di morte tra le persone dai 15 ai 24 anni e la seconda causa di morte tra i 25 e 34 anni (Centers for Disease Control and Prevention, 2010); è stato dimostrato che la pratica apparentemente innocente del sexting comporta gravi rischi per il benessere degli studenti universitari e non, se effettuata in modo compulsivo.

L’attuale ricerca ha indagato la pratica del sexting tra i giovani adulti ed esplorato i comportamenti, le esperienze e le percezioni associate a questa pratica. Nello specifico, gli obiettivi del presente studio erano esaminare le differenze nei comportamenti di sexting in base alle variabili demografiche di età, sesso, status sociale e relazioni intime; i dati raccolti riguardavano i comportamenti, le esperienze e le percezioni sia di studenti impegnati nel sexting, sia di coloro che non lo praticano.

Il campione finale era composto da 41 studenti universitari tra i 18 e i 25 anni. Come metodo di indagine è stato creato dai ricercatori un sondaggio con domande esplorative nell’ambito del sexting che hanno guidato la ricerca.

I risultati dell’analisi dimostrano che la frequenza del sexting era significativamente associata al genere, alla posizione sociale e alla tipologia di relazione instaurata; ma non era associata in modo significativo con l’età dei partecipanti. In particolare, l’invio delle immagini sessuali riguardava nella maggioranza dei casi soggetti di sesso maschile non impegnati in relazioni stabili. Per quanto riguarda i comportamenti, le esperienze e le percezioni sul sexting, relativamente pochi soggetti hanno pensato che la possibilità di inviare e/o ricevere immagini a sfondo sessuale aumentasse il rischio di abuso di sostanze o alcol; mentre la metà dei partecipanti ha ritenuto che il sexting porti ad avere un rapporto sessuale completo.

Questo studio è importante per le figure professionali in ambito sanitario, scolastico e medico che guidano le famiglie verso una miglior comprensione e comunicazione con i propri figli; alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna. Alcune modalità specifiche attraverso cui l’educatore e lo psicologo potrebbero aiutare i genitori includono:

  1. consigliare ai genitori di parlare con i propri figli adolescenti del loro utilizzo di internet e della tecnologia, analizzando problemi specifici che i giovani d’oggi devono affrontare;
  2. discutere con i genitori l’importanza di supervisionare le attività online attraverso la partecipazione attiva e la comunicazione;
  3. consigliare agli insegnanti di colmare il divario esistente nelle proprie classi, diventando più istruiti sulle tecnologie che usano gli studenti e integrando con programmi di educazione sessuale.

Il sexting può avere gravi conseguenze sui giovani, sia autori che vittime, soprattutto in relazione al tema della privacy e le problematiche legate alla possibilità che foto private diventino “pubbliche”, sfociando in fenomeni di bullismo e cyberbullismo. Pertanto, i giovani devono essere educati sulle violazioni della sicurezza e sulla responsabilità riguardo alla condivisione e alla realizzazione di foto e video a sfondo sessuale.

Sarebbero necessarie ulteriori ricerche sul sexting al fine di esaminare l’incidenza e la pervasività di questo comportamento anche in altri contesti, l’effetto che può avere su studenti e genitori e le credenze, gli atteggiamenti e i sentimenti che gli studenti nutrono nei confronti di questa pratica, le politiche e le procedure scolastiche che potrebbero essere messe in atto per prevenire e reagire ad incidenti dovuti al sexting.

 

Coronavirus: come gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva – Il Centro Disturbi della Personalità di Modena offre uno sportello di ascolto psicologico gratuito

Sportello di ascolto psicologico: gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva al tempo del Coronavirus. Servizio gratuito telematico e telefonico.

 

L’importante emergenza per il Coronavirus richiede l’impegno personale a rimanere a casa, tale necessità crea un notevole stress per tutti, maggiormente per le persone che hanno difficoltà a gestire i propri stati emotivi.

Interrompere le nostre routine destabilizza, la percezione di perdere il controllo sulla propria vita aumenta il nostro costante preoccuparci, facendoci sperimentare emozioni molto intense.

L’impossibilità nel muoversi limita l’uso di strategie per scaricare la carica emotiva causando un sovraccarico. Lo sportello di ascolto psicologico ha l’obiettivo di fornire: informazioni sui disturbi legati alla regolazione emotiva presente in molti disturbi della personalità e supporto per la gestione delle emozioni difficili da sopportare.

I professionisti del Centro Disturbi di Personalità ti assisteranno con appuntamenti in:
• videoconsulenza (Skype, WhatsApp)
• consulenza telefonica.

Lo sportello è rivolto a tutte le persone interessate al tema dei Disturbi della Regolazione Emotiva.

Per accedere allo sportello di ascolto telematico, compilare il modulo online su: modena.clinichepsicoterapia.it/sportello-di-ascolto/

 

SCARICA LA LOCANDINA 9733

 

 

Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/san-benedetto/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi Modena offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi Modena offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi Modena ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/modena/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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