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Partecipa alla ricerca: isolamento e quarantena ai tempi del covid-19 – SURVEY

La dichiarazione dell’OMS sullo stato pandemico ha portato molti Stati ad imporre un regime di quarantena il cui rispetto è essenziale per contenere le infezioni. Questa restrizione impedisce il soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali. 

 

Il rapporto tra il tasso soggettivo di sconto del ritardo (DD), la tendenza a preferire premi immediati, ma più piccoli rispetto a quelli più grandi in futuro, e il rischio percepito (PR) di contagio, sono variabili capaci di influenzare il rispetto della quarantena. Inoltre, alcune variabili cognitive ed emotive, come l’ansia, la preoccupazione e l’intolleranza all’incertezza, possono influenzare i comportamenti dei cittadini.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti.  

 


Un nemico invisibile, un pensiero possibile

L’emergenza COVID-19 oltre allo spazio, ha modificato anche il tempo, che si allunga e rischia di diventare inutile ed infinito. Ci siamo abituati a viverlo in modo troppo veloce, nella nostra ansia di correre e di riempirlo di quanti più eventi possibili. Abbiamo usato il nostro tempo proiettandoci sempre in avanti, il tempo ci sfuggiva tra le dita e non siamo stati capaci di vivere sufficientemente il ‘qui ed ora’.

 

Un nemico invisibile stravolge la vita di tutti gli esseri umani del pianeta e tiene in ‘… ostaggio la nostra libertà e ci costringe a fare il vuoto attorno a noi perché siamo noi i veicoli del virus’ (Mauro E., La Repubblica.it, 4 marzo, 2020). Non solo siamo in pericolo, ma siamo noi stessi il pericolo. Nessuna catastrofe precedente a quella del virus COVID-19 è stata così globale e trasversale, paradossalmente, neanche le guerre mondiali. All’inizio del contagio, in Europa pensavamo che fosse un problema transitorio e localizzato in Cina; un mese dopo, in Europa pensavano che fosse un problema italiano. Dopo due mesi, è diventato un problema sanitario, sociale ed economico globale che mette a dura prova una sanità pubblica ormai agonizzante, mietendo inesorabilmente molte vite umane, stravolgendo la vita sociale e imponendo distanze di sicurezza –il cosiddetto distanziamento sociale- perché l’altro è diventato un pericolo, un untore da evitare.

Il COVID-19 – che si propaga per contatto diretto tra esseri umani – genera sgomento e morte, produce un ribaltamento totale dei principi che governano la dimensione intersoggettiva (i modi di stare con l’altro),  riduce la libertà di movimento e ridimensiona la vita frenetica e lo spazio del fare. Ci costringe ad ‘uscire dentro, ad entrare fuori’ (Rizzo, 2014), ad abitare spazi fisici compressi e a vivere come reclusi in una casa ormai diventata una prigione, nell’attesa spasmodica che il suo potere di morte si neutralizzi. ‘Spazi nei quali, novelli cacciatori-raccoglitori post-moderni e globali, non siamo più capaci di abitare (da habere) – e quindi essere abitati in reciprocità – ma riusciamo soltanto a vivere. Spazi nei quali non siamo più capaci di stare e ri-trovarci ma nei quali solo possiamo permanere con scarsa autonomia rispetto a un perderci che ci impone di ricorrere tosto a riempitivi di vario genere per non sentirci senza pubblico, soli come un’unica incandescente scintilla nel buio dello spazio infinito‘ (Caroppo, 2020).

Queste costrizioni possono generare euforia, depressione e paura; quest’ultima può diventare uno stato di angoscia generalizzato, che è in grado sfociare in gesti e comportamenti irrazionali generati dalla sola spinta a risolverla. Ci sono anche persone che sminuiscono o negano la portata di questo evento, forse perché, come sostiene Semi, ‘… non c’è stata né la costruzione interiore dell’idea di morte né quella di sofferenza. Da qui comportamenti inadeguati – e pericolosi per il prossimo oltre che per sé‘ (Semi, 13 marzo 2020). Prima ancora che il governo italiano emanasse il decreto legge per istituire la zona rossa (isolamento totale) della Lombardia, la sera dell’8 marzo, centinaia di persone, devastate dal panico ed incapaci di pensare in modo critico, hanno preso d’assalto i treni per scappare in altre regioni, contribuendo a diffondere il contagio altrove.

Di fronte a qualcosa di eccezionale ed inatteso, una delle prime reazioni psicologiche è la negazione e, da un punto di vista clinico, è plausibile ipotizzare la comparsa di sintomi sovrapponibili a quelli scatenati da un trauma psicologico. Il trauma psicologico viene differenziato dal trauma complesso che fa riferimento ad esperienze traumatiche cumulative (Liotti e Farina, 2011) e si riferisce ad una minaccia alla vita o all’incolumità propria o altrui, anche nella forma indiretta della trascuratezza subita durante l’infanzia e delle forme più gravi di misattunement (mancata sincronizzazione dell’interazione comunicativa).

Emozioni veementi, perdita di controllo e sensazione di impotenza rientrano pienamente nella definizione di trauma psicologico (Liotti e Farina, 2011). Come risposta al trauma, la persona attiva in modo automatico meccanismi arcaici di difesa dalle minacce ambientali e sperimenta distacco dalla consueta esperienza di sé e del mondo esterno. Quando queste difese -fuga o attacco- falliscono, si può verificare un effetto sull’integrità della coscienza. Da una parte si avvera una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive e dall’altra l’evento traumatico non viene integrato nella memoria e si perde la continuità del flusso di coscienza e della costruzione dei significati. Gli effetti costituiscono quelli che sono stati definiti sintomi dissociativi di distacco che ‘… rimandano tutti, direttamente, all’esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni, dal proprio corpo, dal senso usuale della propria stessa identità, dal senso usuale di familiarità di realtà ambientali note‘ (Liotti e Farina, op. cit., pag. 44).

Il fare incessante, competitivo e faticoso che da molto tempo scandisce la vita quotidiana di ognuno, oggi si volatilizza e il sovrainvestimento narcisistico sugli oggetti precipita drasticamente con conseguente disorientamento e con un angosciante senso di vuoto. Fino a ieri anche il tempo libero veniva messo in agenda e persino la vacanza poteva diventare un calendario intenso, con l’imperativo inconsapevole di divertirsi o di conoscere e di vedere il più possibile. Quel fare senza limiti (a lavoro, nella vita privata, nelle relazioni) che ci ha fatto sentire onnipotenti nell’era della distrazione a tutti i costi, oggi è aggredito da un nemico invisibile che può essere dovunque e portato da chiunque. Si riducono tutti gli spazi fisici e sociali, quelli immaginati e desiderati (le vacanze, il cinema, il teatro, etc.) e quelli privati (le case), mentre si dilatano a dismisura quelli virtuali. In realtà, gli spazi intimi acquistano un valore insolito perché abitati obbligatoriamente e contemporaneamente da più persone che possono andare incontro a desideri e vissuti anche di segno opposto, come ad esempio, la fusionalità, l’euforia, le fobie, la rabbia persecutoria, l’isolamento, l’evitamento.

La reale possibilità di contagiare o di essere contagiati induce, potenzia e giustifica comportamenti di evitamento e rituali di tipo ossessivo – siamo diventati tutti fobici e washers (variante del Disturbo ossessivo compulsivo caratterizzata dalla paura del contagio che comporta rituali di lavaggio finalizzati a neutralizzare la minaccia di contaminazione, ad esempio lavaggio ripetuto delle mani, degli abiti o di oggetti; le persone che ne soffrono hanno una preoccupazione intensa ed eccessiva circa la possibilità che loro stesse o un familiare possa ammalarsi entrando in contatto con qualche germe o sostanza tossica). Questa possibilità inoltre fa saltare la cosiddetta ‘distanza personale’ (45-120 cm). Nel mondo occidentale, quest’ultima rappresenta la distanza ideale per buona parte delle interazioni e coincide con lo spazio necessario per una stretta di mano. Di contro prevale la cosiddetta ‘distanza pubblica’ (oltre i 3 metri) in cui è praticamente impossibile interagire singolarmente.

In questi giorni di quarantena siamo costretti a stare ‘troppo vicino e per troppo tempo’ con il partner, i figli, i familiari, senza grosse alternative di fuga o di svago fuori dalle mura domestiche. Certo, i social, il telefono e persino i balconi e i terrazzi condominiali vengono in soccorso, illudendoci che ‘finirà presto e saremo ancora più forti di prima’. Ma basta tutto ciò per ‘evitare’ depressione, paura ed angoscia? Il restringimento dello spazio sociale e la coabitazione forzata richiedono necessariamente una ridefinizione dei comportamenti quotidiani, delle relazioni e del concetto di intimità. Si rischia di sentirsi in gabbia ed è necessario imparare a conoscere meglio chi ci sta accanto: è vitale esplorare diversamente tutte le nostre relazioni. Anche chi non è in quarantena medica è obbligato, da giuste e sacrosante misure di contenimento del contagio, ad uscire dalle mura domestiche il meno possibile. Nelle case ognuno cerca un proprio sottospazio, una propria agibilità, per non sovrapporsi o scontrarsi con analoghi bisogni del suo o dei suoi compagni di sventura. Tuttavia, nonostante tutte le misure di cautela adottate per non sovrapporsi all’altro nel medesimo spazio, possono affiorare con prepotenza conflitti intrapsichici e relazionali ‘rimossi’ e lo ‘scontro’ rischia di diventare altamente probabile. Da giorni sui social circolano senza sosta vignette e video umoristici di persone che parlano o ballano da sole, o tentano di animare gli oggetti di casa, che si nascondono alla vista dei figli, che si chiamano al telefono per darsi appuntamento in corridoio o in sala. La prima risposta alle limitazioni imposte dal virus è stata di tipo ‘euforico’ e rappresenta un inconsapevole desiderio di riprodurre virtualmente quello che non è più possibile nella realtà. (Quali saranno gli effetti dell’inevitabile e conseguente fase ‘depressiva’?). Ci si incontra, ancora più di prima, in quello spazio virtuale che già da tempo ‘… ha eclissato i vecchi [spazi] guadagnandosi nuova fiducia nel futuro ed ha escogitato una cura quasi gratuita e domiciliare. In questo spazio però è difficile poter trovare quell’accoglimento capace di produrre nuovi processi di pensiero realmente trasformativi‘ (Marinelli, 2019, pag. 18). L’umorismo, ritenuto in psicologia un meccanismo di difesa evoluto, è oggi ancor più presente sui social e di fatto ‘… permette una certa espressione di affetti o desideri che sono coinvolti in un conflitto o in un fattore di stress. Ogni volta che un conflitto o tensioni esterne bloccano la piena espressione degli affetti o la soddisfazione di desideri, l’umorismo permette una certa espressione simbolica di essi e dell’origine del conflitto. La frustrazione dovuta al conflitto è temporaneamente mitigata, in modo tale che sia il soggetto sia gli altri possano sorridere o ridere‘ (Lingiardi, 1994, pag. 191).

A tale proposito, in un bellissimo articolo dal titolo Dopo la peste torneremo a essere umani, pubblicato sul quotidiano La Repubblica, David Grossman, afferma: ‘E sia benedetto l’umorismo, il miglior modo di affrontare tutto questo. Quando riusciamo a ridere del COVID-19 proclamiamo, di fatto, che non siamo completamente paralizzati’. Non si possono però affrontare il disorientamento, il vuoto, l’impotenza e la disperazione di questi giorni solo con umorismo e sarcasmo né tantomeno basta affacciarsi alla finestra per cantare l’inno d’Italia, soprattutto quando il numero dei morti aumenta vertiginosamente di giorno in giorno. Forse è necessario rallentare, attraversare ed ascoltare il silenzio, il dolore, il lutto e quelle emozioni che abbiamo sfuggito o evitato per molto tempo. Fino a questo momento, abbiamo avuto l’impressione che le tragedie, la morte, le carestie, le migrazioni di massa appartenessero ad altri, così le abbiamo sistematicamente rimosse e collocate in luoghi lontani perché noi europei ci sentivamo invincibili e protetti dal nostro benessere. Forse è arrivato il momento della ferma, del maggese, del guardarci dentro per provare a riflettere in modo critico sulla nostra esistenza e sui valori consumistici che hanno finora orientato il nostro stile di vita. Certamente è necessario imparare a convivere con chi abita con noi il piccolo spazio casalingo, ma forse dobbiamo accettare e vivere le nostre paure, la nostra angoscia di morte e ridimensionare l’onnipotenza che ci ha allontanato dal piacere delle piccole cose. Chi pratica la mindfulness sa quanto sia importante coltivare la capacità di guardare con rinnovata attenzione al momento presente in modo non giudicante e con spirito di accettazione (Hanh, 1989).

Lo scopo principale della paura (nel nostro caso di un nemico invisibile) è, come già detto, quello di allertare l’organismo affinché possa prepararsi all’attacco o alla fuga, nelle situazioni in cui sembra non esserci possibilità di salvezza, il nostro organismo va oltre generando una risposta di parziale o totale immobilizzazione detta freezing (Liotti, 2005 ). L’angoscia della morte, se non è vissuta pienamente, ci porta ad essere eccitati, compulsivi, fobici e scontrosi. In questa emergenza globale, il corpo è obbligato a fermarsi, a rallentare la sua corsa, quindi perché non provare a rallentare anche la mente? Fermiamoci, proviamo ad esercitare la pazienza e ad abitare pienamente l’angoscia, la solitudine, il vuoto e l’impotenza. Riprendiamo a vivere con meno sovrastrutture e bisogni indotti, proviamo a fare una cosa alla volta e soprattutto ad ascoltare noi stessi e gli altri.

L’emergenza di questi ultimi mesi e forse dei prossimi anni, oltre allo spazio, ha modificato anche il tempo, che si allunga e rischia di diventare inutile ed infinito. Ci siamo abituati a viverlo in modo troppo veloce, nella nostra ansia di correre e di riempirlo di quanti più eventi possibili. Quante volte abbiamo detto o ascoltato la frase ‘oggi proprio non ho tempo’? Quante volte ci siamo trovati contemporaneamente a scrivere al computer, a rispondere al telefono e a parlare con qualcuno che stava di fronte a noi? Abbiamo usato il nostro tempo proiettandoci sempre in avanti, mentre facevamo una cosa ne pensavamo una successiva. Il tempo ci sfuggiva tra le dita e non siamo stati capaci di vivere sufficientemente il ‘qui ed ora’ (questo concetto deriva dalla locuzione latina hic et nunc, un motto che riprende il principio del carpe diem di Orazio; vivere nel qui ed ora, significa vivere nel momento presente, non intrappolati nel passato e nel futuro. Sono però le culture orientali ad aver esplorato ed ampliato questo concetto).

Tra i quattro termini che gli antichi greci utilizzavano per indicare il tempo, due sono per noi molto significativi: Chronos e Kairos. Il primo indica il tempo in senso cronologico e sequenziale (minuti, ore, giorni, etc.), che può diventare quello che ci travolge, quello ripetitivo che non basta mai. Il secondo rappresenta il momento giusto per l’accadere di qualcosa, anche di speciale, per chi la sta sperimentando in quel preciso momento. Come mai ci siamo persi la capacità di vivere il momento in cui sta accadendo qualcosa? Se vivevamo qualcosa di bello, pensavamo che non lo fosse abbastanza o che ci sarebbe stato qualcosa di ancora più bello il giorno dopo e così via. Se vivevamo qualcosa di triste, pensavamo o cercavamo qualcosa che scacciasse questa emozione. E così facendo, prima di viverlo, il presente era già passato, anche se il futuro non era ancora arrivato e, quando sopraggiungeva diventando il nostro presente, ancora una volta, non esisteva perché la nostra mente era rivolta ad un nuovo ed illusorio futuro. Ci siamo impantanati, complice anche il potere dei media e del consumismo imperante, in un circolo vizioso senza fine, che solo una grande presa di coscienza collettiva o una catastrofe inattesa ed improvvisa possono interrompere. Oggi siamo obbligati a fermarci in questo presente, per quanto tragico e mostruoso possa essere ed abbiamo bisogno di pensare. Se ci fermiamo realmente, riusciremo a pensare e, se riusciremo a pensare, guadagneremo la capacità di sentire meglio quello che proviamo, anche se ci spaventa, ci annichilisce e ci sconcerta. Grossman (op. cit.) aggiunge: ‘La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo – e non il denaro- è la risorsa più preziosa. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere‘.  Non possiamo più scappare e non solo perché non ci sono luoghi alternativi; e allora se ci fermiamo, forse riusciremo a dare un senso a quello che stiamo vivendo adesso e a capire come (ri)costruire un nuovo futuro per noi e per i nostri figli. Non possiamo più rimandare e attendere che le cose cambino da sole, non possiamo aspettare che qualcun’altro pensi, parli o agisca per noi. E’ indispensabile per ognuno ri-pensare completamente il proprio essere nel mondo.

 

Una breve rassegna degli effetti psicologici conseguenti all’epidemia di Covid-19

L’epidemia di COVID-19 ha causato gravi minacce alla salute fisica e alla vita delle persone. Ha anche innescato una vasta gamma di problemi psicologici, come disturbo da panico, ansia e depressione.

 

Alcuni studi hanno indagato il disagio psicologico nella popolazione generale della Cina durante l’epidemia di COVID-19. Al centro di tali disagi c’è la minaccia dell’integrità della società e del senso di sicurezza percepita. Emergenze come queste ci hanno fatto comprendere che la nostra società necessità di una riconfigurazione al termine di questa epidemia.

I punti focali riguardano:

  1. l’attenzione volta a gruppi vulnerabili come i giovani, anziani, donne e lavoratori migranti;
  2. potenziamento dell’accessibilità alle risorse mediche e al sistema di servizio sanitario pubblico;
  3. pianificazione strategica a livello nazionale e coordinamento per il primo soccorso psicologico;
  4. potenziamento del sistema di telemedicina e supporto psicologico on-line;
  5. miglioramento del sistema di prevenzione e intervento, compreso il monitoraggio epidemiologico, lo screening e un intervento mirato finalizzato a prevenire il disagio psicologico prevenendo ulteriori problemi di salute mentale.

L’insorgenza di malesseri, difficoltà e sofferenze (letteratura scientifica “in calce”) si riferiscono alle sensazioni di solitudine, negazione, ansia, depressione, insonnia e disperazione, che possono ridurre l’aderenza al trattamento. Possiamo distinguerli in base alle condizioni o alla circostanza vissuta, essenzialmente:

  1. infetti;
  2. possibili infetti (con alta probabilità di essere stati contagiati);
  3. individui sani che temono l’infezione;
  4. soggetti in quarantena;
  5. giovani;
  6. anziani o soggetti con salute precaria.

 Dato che l’approfondimento dei singoli punti precitati richiede una lunga dissertazione, in linea generale, i vissuti psicologici più frequenti, riferiti soprattutto ai casi 2 e 3, riguardavano sintomi ossessivo-compulsivi, come controllo ripetuto della temperatura e la sterilizzazione compulsiva di ogni cosa con cui si è venuto a contatto. Nei casi 4, la rigorosa quarantena e il non-contatto obbligatorio hanno causato più frequentemente, nei confronti di questi soggetti, rifiuto sociale, perdite finanziarie, discriminazione e stigmatizzazione. Altri sintomi notati sono stati l’aumento dell’aggressività (anche nei casi 3), ansia e tendenze suicide. L’incertezza circa il proprio stato di salute è una variabile che, in questi periodi, innesca profondi sensi di insicurezza. Paradossalmente, nei giovani (casi 5), che tendono ad ottenere una grande quantità di informazioni dai social media, può facilmente innescarsi uno stato psicologicamente stressante. Dal momento che la mortalità più alta si è verificata nei casi 6 durante l’epidemia, non è inatteso che gli anziani hanno avuto maggiori probabilità di essere colpiti psicologicamente. Allo stesso modo, le persone con l’istruzione più elevata tendevano ad avere una maggiore angoscia, probabilmente associata all’alta autoconsapevolezza della loro salute.

 

Relazioni e giochi di potere: come il narcisismo influenza la percezione del potere all’interno delle coppie

Il potere si riferisce alla capacità di un individuo di influenzare un’altra persona nei suoi pensieri, nei suoi comportamenti o, addirittura, nelle sue sensazioni (es. Simpson, Farrell, Orina & Rothman, 2015).

 

Diversi studi hanno sottolineato il ruolo di rilievo che gioca il potere all’interno delle relazioni romantiche, per esempio, per quanto riguarda le decisioni domestiche e i turni di parola nelle conversazioni (es. Neff & Suizzo, 2006). Coloro che si sentono meno potenti all’interno della coppia, possono correre il rischio di subire violenza fisica o psicologica, di adottare comportamenti sessuali a rischio o di soffrire di disturbi mentali (Bentley et al., 2007; Filson et al., 2010; Woolf & Maisto, 2008).

Nonostante vi sia una cospicua mole di ricerche sull’importanza del potere all’interno delle relazioni romantiche, non sono altrettante quelle che sottolineano la connessione tra il narcisismo e il potere nelle coppie. Dal momento che il narcisismo è caratterizzato da sentimenti grandiosità e di diritto percepito, dalla mancanza di empatia e dalla tendenza ad approfittarsi degli altri, individui con alti livelli di narcisismo dovrebbero avere un rapporto stretto e problematico con il potere all’interno delle relazioni (Campbell & Foster, 2007).

È dimostrato che individui con forti tendenze narcisistiche necessitino di un maggior grado di potere e si rapportino alla vita di coppia con alcune modalità: tenere l’altro sulle spine, non rispondere alle telefonate, dare messaggi contraddittori (Campbell & Foster, 2007).

Gli autori del presente studio (Vrabel et al., 2020) si sono posti l’obiettivo di indagare il rapporto che intercorre tra ammirazione narcisistica (narcissism adimration: auto-glorificazione di sé e considerazione esagerata del proprio Io), rivalità narcisistica (antagonist rivalry: che consiste nella tendenza a proteggere se stessi e a difendersi da torti immaginari) e potere all’interno delle coppie. Sono stati condotti due diversi studi: il primo, di cui hanno fatto parte 375 soggetti con una relazione romantica da almeno 3 mesi, andava ad indagare la correlazione tra potere percepito e ammirazione e rivalità narcisistica; con il secondo, composto da un campione di 352 partecipanti anch’essi in coppia da almeno 3 mesi, gli autori si domandavano se il potere percepito moderasse in qualche modo l’associazione che ammirazione e rivalità narcisistica avevano con il funzionamento nelle relazioni romantiche (Vrabel et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che l’ammirazione narcisistica, ma non la rivalità narcisistica, correlava significativamente con la sensazione di potere esperita all’interno della coppia (studio 1) e il potere percepito moderava l’associazione che la rivalità narcisistica aveva con il funzionamento delle relazioni romantiche (studio 2; Vrabel et al., 2020).

In conclusione, le ricerche menzionate nello studio dimostrano ciò gli autori avevano in qualche modo predetto nelle loro ipotesi, ovvero che vi è una stretta relazione tra il comportamento narcisista e la percezione di potere (Vrabel et al., 2020).

 

AperiZoom e AperiSkype al tempo del COVID-19

Ahi, che terribile difficoltà affrontare questi aperitivi, queste cene, tra vecchi amici che si vogliono bene e che improvvisamente chiusi in casa tentano di far vivere vecchi riti, vecchie chiacchiere. Ma la tecnologia non lo consente.

 

Zoom non ha ancora la capacità di simulare, neanche lontanamente, quel chiacchiericcio e quel sovrapporsi uno all’altro che segna e delinea il normale svolgersi di una cena tra vecchi amici. Quella fluidità, quella svagatezza, quegli accordi e disaccordi che durano il tempo di un minuto e che poi si lasciano scorrere via.

Con Zoom ci si interrompe ma non si sente bene cosa dice quello che sta interrompendo, quando ci si sovrappone non si comprende nulla, e ci si blocca tutti insieme, se si parla a turno non si sa cosa dire perché manca quel naturale evolversi dei discorsi, presente nelle conversazioni tra persone non virtuali.

Alla fine si è straniti con il senso che manchi qualcosa e che quella allegria forzata non sia altro che una richiesta di aiuto perché la tristezza fa paura. E la solitudine anche.

Ora (ma presto cambierà) Zoom è giusto e utile per le riunioni di lavoro, per le aule universitarie, per le piccole classi o le riunioni tra colleghi di lavoro concentrati a risolvere un problema. Quando si è in modalità problem solving.

Noi non abbiamo ad oggi alcun mezzo per trovarci veramente tra amici, quegli incontri sono insostituibili. Diciamocelo per favore!

Allora meglio non mimare allegria o bicchieri di vino alzati in virtuale e fare i conti con le reazioni di ciascuno di noi alla tristezza, al senso di isolamento, a vecchi ricordi che emergono in questo strano vuoto sociale, la compassione, il senso che forse ce la sfanghiamo, i pensieri catastrofici, l’ansia, la pena.

Questa è una prova dura veramente, non è uno scherzo e tanto vale affrontarla con l’elmo in testa con la consapevolezza che il dolore personale che comporta per ciascuno di noi è ineluttabile, e tanto vale farci i conti.

Non siamo isolati è vero, ma siamo sì un poco più soli, e soprattutto stiamo ubbidendo a un dovere che non era mai stato nei nostri progetti. Si fa, ma spesso fa male.

Quindi da vecchio clinico:

accettiamo pensieri ed emozioni negative, attraversiamole indomiti e sicuramente alla fine finiranno come tutto finisce e saremo cambiati e probabilmente, se saremo stati abbastanza coraggiosi, in meglio. Perché avere attraversato qualcosa in modo consapevole e affrontato la paura del periodo ci rende più competenti e consapevoli dei nostri mezzi, emotivi e mentali.

E ricorriamo di più alle vecchie telefonate, così normali, così vicine, così personali e consolatorie. Così comode e intime, che non ci illudevano di una presenza corporale ma ci davano il senso di una comunicazione vera.

Alla fine di tutto questo finalmente potremo rivederci con gli amici, con i loro difetti, i loro corpi e i loro vezzi, e insieme andare a cena, con il nostro passato di isolamento indimenticato e la nostra voglia di stare insieme intatta.

 

Mindful Compassion. Come la scienza della compassione può aiutarti a comprendere le emozioni, vivere nel presente e sentirsi connesso agli altri. (2019) di Paul Gilbert e Choden – Recensione del libro

Dai lavori trentennali di Paul Gilbert, psicologo e psicoterapeuta, e Choden, monaco buddhista, nasce il presente lavoro dal titolo Mindful Compassion dove vengono approfonditi lo sviluppo ed i punti di forza dell’approccio della Compassion Focused Therapy (CFT), uniti agli interessanti punti di ispirazione frutto della tradizione buddhista.

 

Aspetti essenziali diventano il comprendere la necessità di sviluppare una mentalità aperta, flessibile, compassionevole, in grado di comprendere le emozioni, vivere nel presente e sentirsi connesso agli altri, come recita per l’appunto il titolo del testo.

Il testo si snoda nell’approfondire gli aspetti teorici a cui la CFT si ispira, analizzando i punti di unione con la filosofia buddhista. Dalle intuizioni del Buddha di più di 2500 anni fa che hanno portato allo sviluppo delle Quattro Nobili Verità relative all’esistenza della sofferenza, le cause di tale sofferenza e del dolore ma anche la cura o sentiero per liberarsi da tale sofferenza, gli autori analizzano e sottolineano aspetti essenziali per il benessere della persona ed il buon esito di una psicoterapia, quali accettazione, anche delle emozioni più dolorose, saggezza, gentilezza e non giudizio, connessione con il mondo esterno. Infatti, quando parliamo di compassione intendiamo la capacità di sentire la sofferenza in noi stessi e negli altri ed al contempo l’essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza. In tale definizione si sottolineano i due aspetti essenziali della compassione quali la comprensione della sofferenza e l’impegno e lo sforzo per alleviarla.

La mindfulness, sottolineano gli autori del testo, in tale percorso può rivelarsi un valido ausilio nello sviluppo di tali abilità. Questa però va affrontata con impegno e costanza. Gli autori infatti recitano:

Proprio come un maratoneta si impegna ad allenarsi ogni mattina anche quando fa freddo perché è impegnato a partecipare a una maratona, così anche noi abbiamo bisogno di coltivare attivamente le abilità della mente compassionevole, soprattutto quando il percorso si fa duro e siamo di fronte ad una sfida.

Vecchio e nuovo cervello

P. Gilbert, all’interno delle vari pagine del testo, grazie ai contributi delle neuroscienze e delle teorie evoluzionistiche, fornisce una chiara spiegazione di cervello antico, sede delle emozioni primarie, spinto da motivazioni basiche (protezione, nutrizione, accoppiamento, appartenenza al rango) e cervello nuovo, sede di tutti quei processi cognitivi superiori che ci consentono di pianificare, immaginare eventi futuri, concentrarci, ruminare, tutti aspetti che ci distinguono dai mammiferi. Ma questi ultimi aspetti, spiegano gli autori, se non si imparano a ‘domare’ possono creare sofferenza nell’uomo. Ancora una volta, grazie alla mindfulness la persona può imparare a prendere consapevolezza della complessità della nostra mente, prestare attenzione al presente, in modo distaccato e non giudicante.

Il testo infatti prosegue nella seconda parte, su una serie di aspetti pratici volti a sviluppare quella ‘mentalità sociale accudente’ e dunque compassionevole.

Parte seconda – La pratica

La seconda parte del testo approfondisce ed entra nel vivo di tutte quelle tecniche ed esercizi che vengono sviluppati all’interno dei protocolli di intervento di CFT, come la pratica della mindfulness, l’importanza del respiro, il lavoro con l’accettazione, le tecniche di imagery per costruire le capacità compassionevoli per poi approfondire lo sviluppo di un sé compassionevole, in grado di interfacciarsi con quei sé (arrabbiato, impaurito, ansioso, critico) che in un particolare momento della nostra vita possono rivelarsi particolarmente disfunzionali.

Lavorare con l’imagery

Le tecniche di immaginazione possono essere molto utili nello sviluppare quelle abilità compassionevoli.

Gli autori sottolineano che non serve riuscire ad immaginare delle immagini nitide, ma invitano a lasciare accadere ciò che accade, anche immagini frammentate, poco chiare e a focalizzarsi sulle sensazioni o sui pensieri che nascono da ciò.

Tra gli esercizi gli autori citano quello di ‘creare un luogo sicuro’, focalizzando l’attenzione sulle sensazioni, cosa si vede, cosa si sente, come ci si sente…, ‘creare un colore’ che sia associato a forza, saggezza, calore e gentilezza, fino allo sviluppo dell’immagine compassionevole che ha come primo obiettivo la nostra felicità.

Sviluppando un sé compassionevole, la persona poi potrà continuare a lavorare sulle proprie emozioni dolorose (paura, ansia, rabbia, vergogna, autocrica) e sul recuperare la propria natura sociale dell’essere connessi agli altri riuscendo gradualmente ad ‘allargare il cerchio’.

Tutto ciò all’interno del testo, oltre ad essere approfondito in modo chiaro, si accompagna a spiegazioni di ordine pratico.

Potrei definire il libro in questione, un validissimo testo di riferimento ed approfondimento  per gli interessati all’approccio della CFT, dove il parallelismo con le filosofie buddhiste lo arricchisce ulteriormente, facendo dello stesso un testo sul quale ‘meditare’.

Non un testo dunque che offre consigli su come eliminare il dolore, la sofferenza, ma che ci guida a diventare più ‘fiori di loto’ che riescono a sbocciare dal fango e che forse necessitano proprio di quel fango per essere come a noi ci appaiono.

Lo svincolo dalla famiglia di origine – Personaggi e tappe del viaggio

Il trasloco assume il significato e le caratteristiche del viaggio iniziatico. Nelle culture arcaiche per essere riconosciuti come adulti si devono superare delle prove. Anche in questo viaggio bisogna superare molti ostacoli per raggiungere il nuovo nido.

 

Se prendiamo, ad esempio, le fasi, le tappe e i passaggi che C. Vogler (2007), sceneggiatore statunitense di Hollywood, individua, analizzando i film e i romanzi che hanno per tema l’eroe, possiamo comprendere il grande lavoro da fare durante le varie fasi di ciclo vitale. In ogni fase bisogna entrare in un mondo nuovo dalle quali si esce con un nuovo sé. In questo lavoro voglio trasportare questo modello dal mondo cinematografico al modello relazionale simbolico nella fase di svincolo dalla famiglia di origine.

Vogler nel viaggio dell’eroe distingue:

  1. Gli archetipi o personaggi principali;
  2. Le tappe del viaggio.

1. Gli archetipi o personaggi principali sono:

  • a. L’eroe che è colui che muove la storia ed ha un punto debole in cui può essere colpito.
  • b. Il mentore è colui che guida, allena e supporta l’eroe offrendogli spesso doni per incoraggiarlo a continuare il viaggio.

Se l’eroe è l’io della storia, il mentore è il suo sé che sono i genitori e il sistema generazionale. Essi dovrebbero supportare e allenare il proprio figlio ad affrontare le prove, ben sapendo che deve svolgere il viaggio da solo. Essere guida non vuol dire pianificare il futuro dei figli, ma semplicemente donargli gli strumenti necessari per poter affrontare le prove. Ritorna il tema sul valore del dono e del debito positivo. Solo se si crea un debito positivo si danno ai figli gli strumenti per poter affrontare le prove.

Le qualità simboliche (del dono) sono quelle della speranza fiducia nel legame e della giustizia nello scambio con l’altro. (Cigoli)

La mamma aquila, nel momento in cui si rende conto che il suo piccolo è pronto a volare, lo artiglia, lo porta in alto cielo e lo lascia andare. In sostanza “tocca alle generazioni precedenti garantire uno spazio fluido e di rinnovamento delle origini a quelle successive”. Andolfi individua nel padre una delle figure preminente nello svincolo dei figli:

Egli è il regista invisibile, meno coinvolto rispetto alla madre, più capace d’intervenire e di opporre la barriera del rifiuto, coltivando al tempo stesso il legame d’amore, indispensabile nel consentire lo svincolo adolescenziale attraverso il porre e garantire le regole.

Kohut (1982), come riportato da Andolfi, sostiene che

la funzione paterna esercita un compito vivificante in  grado di favorire la nascita sociale dei figli non solo offrendo un’alternativa al rispecchiamento materno ma sostenendo, anche attraverso la frustrazione, un’organizzazione del pensiero e delle prove di realtà in quanto strumenti di separazione, distacco e autonomia.

  • c. Il guardiano della soglia è colui che mette alla prova ed in qualche modo sonda la determinazione dell’eroe a portare a conclusione il viaggio.

Nel viaggio interiore rappresenta la parte nevrotica costituita da paure, ansie e demoni che dobbiamo sconfiggere ed uccidere durante il viaggio. Sono le paure che ci portiamo dietro dall’infanzia e dai rapporti con il mondo esterno ivi compresi quelli con le famiglie di origine. Come ci informa Cigoli è il luogo della lotta tra spinte generative e antigenerative. Se da un alto, come abbiamo visto in precedenza, tocca alle generazioni precedenti favorire il rinnovamento delle origini, alle generazioni successive, dall’altro, tocca

accettare e riconoscere ciò che padri e madri hanno lasciato in eredità e passare aldilà rilanciando l’azione generativa. (Cigoli)

  • d. Il messaggero è colui che comunica l’inizio del viaggio.

L’inizio può essere un avvenimento straordinario o ordinario come una fase di ciclo vitale da affrontare. L’inizio della fase di svincolo dalla famiglia di origine si pone al momento della scelta del lavoro da fare. Quasi alla fine della scuola media superiore si pone il problema del percorso di studi o meno da intraprendere in funzione del tipo di lavoro futuro che si intende svolgere. E’ la prima delle tappe da affrontare a cui seguiranno la scelta della/del compagna/o di vita, la scelta del luogo in cui vivere, la scelta del nuovo nido, etc. In passato il messaggero era l’ufficiale notificatore del comune che consegnava la cartolina rossa con la quale si veniva chiamati a svolgere il servizio di leva. Iniziava proprio in quel momento la fase di svincolo dalla famiglia di origine. Oggi potrebbe essere rappresentata dall’iscrizione e dalla scelta della sede universitaria o l’andare a lavorare fuori dal proprio contesto di vita.

  • e. Il mutaforme è l’amico che diventa nemico.

Rappresenta il combattimento che avviene durante il viaggio con le istanze non conosciute del nostro mondo interiore. Nello specifico nello svincolo dalla famiglia di origine ci si aspetta che i fratelli, ad esempio, siano insieme ad affrontare il viaggio ed, invece, si scopre che essi si trovano all’improvviso in contrasto poiché, a volte, per potersi svincolare è necessario lasciare l’altro vincolato.

  • f. L’ombra è l’antagonista dell’eroe.

Nel viaggio nel mondo interiore rappresenta la parte psicotica dell’eroe, ovvero la parte irrazionale, quella che ci invita a scappare, a cercare di sfuggire al compito. E’ la parte negativa del nostro sé, ma che, comunque, è indispensabile perché la conoscenza avviene sempre per differenza. Se non ci fossero i cattivi non avrebbero senso neanche i buoni. Essa è la sede dell’odio generazionale

di cui occorre cogliere le forme e, al contempo, le strategie per affrontarlo .. l’odio si presenta con il volto della menzogna, dell’iniquità, dell’invidia e della crudele indifferenza. (Cigoli)

Esiodo, nel narrare il mito delle età dell’uomo, colloca l’odio generazionale nell’età del ferro, caratterizzata dalla rottura dei legami tra padri e figli:

Figli diversi dai padri e padri diversi dai figli………maltratteranno i parenti appena attempati li copriranno di male parole e d’insulti, gli infami senza rispetto divino. Costoro neppure daranno il necessario per dare da vivere ai vecchi che li hanno allevati…sarà abbandonata la terra con le sue strade spaziose, agli uomini il pianto e il dolore. Contro il disastro per gli uomini non ci sarà riparo.

Svincolarsi dalla famiglia d’origine non vuol dire recidere i legami, ma, semmai, valorizzarli all’interno di una nuova storia generazionale. Le tendenze distruttive non portano verso lo svincolo, ma ad errare all’interno di tendenze malefiche e distruttive. L’ombra rappresenta le tendenze demoniache che si contrappongono al bene. Cigoli analizzando il pensiero psicoanalitico sul passaggio dannoso fa notare che essi parlano

di lutti incistati (cripta), di traumi non elaborati, di telescopage con membri di generazioni lontane, di segreti violenti, di incestuale e cosi via.

L’eroe se vuol veramente svincolarsi deve sconfiggere il male rappresentato da tutte quelle forze che si contrappongono al riconoscimento e all’accettazione della propria storia generazionale. Lo svincolo è un andare avanti non la distruzione del passato.

  • g. L’imbroglione è la spalla dell’eroe.

Rappresenta la parte goliardica, egocentrica ed infantile che spesso è necessaria e utile a rendere l’aria meno pesante, a far diventare gioco anche le prove più difficili.

2. Le tappe del viaggio vengono identificate:

Nella partenza, contraddistinta dalle seguenti fasi:

  1. Mondo ordinario: è il luogo, l’ambiente, il contesto che l’eroe lascia per avventurarsi in un nuovo mondo che una volta conosciuto non fa altro che diventare ordinario.
  2. Richiamo all’avventura: è il punto di partenza, il momento di inizio del viaggio, ma anche la fase che prestabilisce il punto di arrivo e tutte le tappe intermedie.
  3. Rifiuto del richiamo: a volte vi è molta ritrosia ad iniziare il viaggio per paura di ciò che non si conosce o per la paura di non avere gli strumenti necessari per affrontarlo.
  4. Incontro con il mentore: in cui ci si confronta con chi ha già affrontato il viaggio ed è lì per aiutarci, consigliarci, allenarci e fornirci gli strumenti necessari.
  5. Varco della prima soglia: è il momento del passaggio dal mondo ordinario al mondo speciale. Varcare la soglia vuol dire confrontarsi con i guardiani, ovvero con tutte le ansie e le paure tipiche dell’incontro con il nuovo. Varcare la soglia costituisce anche il punto di non ritorno. Una volta varcata la porta si è costretti ad andare avanti fino alle fine del percorso.

Nell’iniziazione, costituita dai seguenti passaggi:

  • Prove, nemici, alleati, in cui l’eroe sceglie gli alleati e riconosce i nemici per le prove che si troverà ad affrontare. Nel viaggio interiore valuterà le risorse di cui ha bisogno e si confronterà con i mostri interni, ovvero con le paure. In sostanza si dovrà confrontare con i debiti positivi e negativi che vengono dall’eredità generazionale. Spesso nella terapia e nella clinica si analizzano e si valutano i saldi negativi senza considerare le risorse che provengono dalla storia della nostra famiglia. E’ in essa che possiamo trovare gli strumenti, le armi per poter portare a termine il compito. In un progetto di cui sono coordinatore denominato Banca della Memoria stiamo raccogliendo e analizzando le storie di vita degli anziani. Dalle storie che riguardano la vita familiare emerge che fino a metà del secolo scorso le famiglie si riunivano quasi ogni sera a tavola o davanti al focolare domestico in cui, spesso, si raccontavano le storie della famiglia. Nella fase di fidanzamento delle figlie era questo il momento in cui il fidanzato poteva fare visita all’amorosa. Addirittura in una di queste storie emerge che la riunione di famiglia avveniva attorno alla recita del Rosario che era demandata al papà. Il fidanzato era costretto a partecipare alla recita tant’è che il capofamiglia aspettava il suo arrivo prima di iniziare. Finita la preghiera doveva lasciare la casa. Ciò che emerge dalla lettura e dalle visioni di queste storie di vita è l’estrema serenità e felicità con cui i giovani vivevano questi momenti. Eppure vivevano in contesti spesso drammatici come le due guerre mondiali o i successivi dopoguerra. La serenità, a mio modo di vedere, era dovuta alla perfetta conoscenza della storia familiare e alla certezza di trovare all’interno di essa tutte le certezze per poter affrontare i vari compiti evolutivi. Il fidanzamento e il successivo matrimonio venivano inseriti all’interno di un contesto di sacralità. D’altronde per la religione cattolica il matrimonio è un sacramento così come il battesimo, la cresima, etc. E’ una tappa da cui si deve passare per rinnovare il rapporto con Dio. Siamo chiamati a sposarci in modo da poter continuare a generare e, quindi, continuare la storia delle generazioni e delle stirpi. Solo immergendoci nella storia familiare possiamo trovare le certezze per poter affrontare il viaggio dello svincolo. Il Film l’Albero degli Zoccoli di Ermanno Olmi ci fa vedere le modalità di passaggio generazionale in 4 famiglie della bassa bergamasca alla fine del 1800. L’amore per il figlio e il tentativo di dargli un futuro diverso portano il padre Battistì a tagliare un albero per poter costruire un paio di zoccoli nuovi. Dalla visione del film emerge come le famiglie si riunivano davanti al focolare domestico a raccontarsi la loro storia. All’interno di questa storia nasce il matrimonio tra Stefano e Maddalena e la solidarietà generazionale.
  • Avvicinare la caverna più recondita, ovvero l’avvicinamento al posto pericoloso. E’ il momento in cui si deve trovare il modo per superare le proprie paure e magari scoprire che si hanno più risorse di quante si pensa di averne. Si scelgono gli alleati e si fa ricorso alle proprie risorse.
  • Prova centrale è il momento della verità in cui l’eroe si trova a combattere sapendo che il dopo non sarà mai più come prima. Si tratta di lasciare il nido che ci ha accolti, custoditi, salvati. Noi a casa nostra siamo in grado di camminare anche al buio cosa che non riusciamo a fare in un altro ambiente. Canevaro afferma che “una delle fasi più difficili nella crescita di un essere umano è il processo di autonomizzazione, elaborazione di un progetto esistenziale e inserimento creativo nella società. Distaccarci dalla organizzazione familiare che ci ha dato il nome e dalle persone con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia di interazioni lungo il tempo è un processo graduale che non finisce mai e che si interseca con la nostra discendenza in un movimento ciclico, auto perpetuante”. Bowen (1979), a proposito dello svincolo dalla famiglia di origine, sostiene che esso “riguarda il grado di ‘differenziazione del sé’ di una persona. Il contrario della differenziazione è dato dal livello di ‘non differenziazione’ cioè di ‘fusione dell’io”. Affinché possa avvenire il trasloco da un nido all’altro bisogna differenziare il proprio sé al fine di poter costruire un nuovo noi. Il nuovo nido ha bisogno di ancorarsi saldamente sul vecchio. Il passaggio da un nido all’altro fino a pochi anni fa avveniva con il matrimonio, oggi si va a convivere o a vivere da soli. Sono aumentate le possibilità di sperimentarsi senza l’ausilio dei genitori. Nell’attuare lo svincolo dalla famiglia di origine bisogna stabilire i confini tra il nuovo e il vecchio nido. A volte questi confini sono rigidi, soprattutto quando le famiglie di origini hanno difficoltà ad accettare l’uscita dei propri figli. Altre volte sono inesistenti ovvero vi è un passaggio continuo da un nido all’altro tanto da non riuscire a capire se il figlio sia veramente uscito di casa. Ciò avviene quando i figli hanno eccessivi sensi di colpa e, quindi, cercano di attenuare le conseguenze emotive legate allo svincolo. Le famiglie sono più propense ad accettare lo svincolo per il matrimonio: la formazione di una nuova coppia rientra nell’ordine delle cose, mentre quello per rendersi autonomo dipende dal contesto culturale. Le culture “nordiche” sono più propense non solo ad accettare, ma anzi favoriscono ed auspicano l’uscita del figlio da casa. Le culture del sud tendono a tenere il figlio per molto più tempo dentro casa. Da una ricerca condotta dal CNR nel 1999 su Giovani che non Lasciano il Nido: Atteggiamenti, speranze, condizioni all’uscita da casa risulta che il 58% dei genitori vorrebbe che il loro figlio uscisse da casa solo per sposarsi. Dell’uscita da casa si parla anche troppo poco all’interno delle famiglie: il 49% degli intervistati, infatti, afferma che non se ne mai parlato, il 29% che se ne parlato raramente, il 22% che se ne parlato qualche volta. Sempre da questa ricerca risulta che i parametri che vengono ritenuti importanti per l’autonomia sono altri come avere un reddito di un certo tipo, avere una casa, riuscire a mantenere il livello di vita attuale, etc. Nella fase di svincolo sono comprese due entità generazionali: i genitori e i figli. I genitori dovrebbero comportarsi come la mamma aquila che costringe i propri figli a volare artigliandoli e lasciandoli andare in alto nel cielo. Dovrebbero anzi prepararli a lasciare la casa dandogli tutte quelle certezze e sicurezze di cui avranno bisogno nella vita futura. Oltre alle certezze di ordine emotivo, dovrebbero anche dargli tutti gli insegnamenti di ordine pratico come imparare a cucinare, a lavare i vestiti, a pagare le bollette, ad aprirsi un conto in banca, a sbrigare le faccende domestiche etc.. Essi dovrebbero, facendo leva sulle loro risorse di coppia, superare quella che è stata definita la sindrome del nido vuoto. I figli dovrebbero imparare, come abbiamo sostenuto precedentemente, a “trasgredire” a scommettersi rinunciando, a favore della loro autonomia, a tutte le comodità della casa genitoriale. Marius, nei Miserabili, rinuncia, per la propria indipendenza, all’eredità del nonno. La differenziazione del sé non può non passare attraverso delle vere e proprie trasgressioni. Quest’ultime possono risultare funzionali come ne caso di Marius, o disfunzionali come nel caso di Adèle, la figlia di Hugo. Cancrini  scrive che “Il ciclo vitale della famiglia deve essere integrato per completezza, tenendo conto di situazioni psicopatologiche che sviluppano all’interno di altri sistemi interpersonali”. Partendo da queste considerazione egli individua quattro tipi di svincolo disfunzionale:
  1. Svincolo impossibile: che corrisponde alle situazioni di una famiglia nella quale si verifica la presenza di una forma schizofrenia di tipo ebefrenico; a livello familiare corrisponde, secondo Bowen, un tipo di famiglia secondo la capacità di differenziazione: esso riguarda la “massa indifferenziata dell’io”.
  2. Svincolo inaccettabile: con un membro appartenente alla classificazione di schizofrenia di tipo catatonica. Lo svincolo “non avviene o avviene per brevi periodi e in settori limitati”.
  3. Svincolo apparente: avviene in modo incompleto o parziale. A livello del soggetto troviamo le crisi di tipo schizoaffettivo: crisi maniacali e depressive; forme gravi di anoressia e di tossicomanie di tipo C.
  4. Svincolo del compromesso: essa si determina attraverso un progetto che appartiene alla famiglia. A livello del soggetto troviamo un disturbo psicotico di personalità: schizoide o borderline; si possono presentare con forme meno gravi di tossicomanie di tipo C o anoressia vera.
  • Adèle Hugo nel tentativo di scappare del padre pensa di trovare nelle promesse del tenente Pinson un alleato  per iniziare la sua prova cruciale. L’abbandono subito da quest’ultimo le comporta una forte angoscia con il conseguente rischio di un dissolvimento psichico a cui reagisce con veri e propri “rifugi della mente” (Cancrini, 1999). Quest’ultimi, nell’accezione di Cancrini, sono una sorta di organizzazioni mentali, veri e propri mondi immaginari, che rendono il soggetto in questione inaccessibile e lo proteggono dal confronto insostenibile con la realtà.
  • Ricompensa è il momento in cui si festeggia la vittoria. Si riconosce il nuovo sé e all’interno di esso le potenzialità che si sono scoperte. La ricompensa può essere costituita da: l’elisir, l’iniziazione, il nuovo nome, il nuovo punto di vista sulle cose, la conoscenza, la chiaroveggenza, la realizzazione di sé, la sposa. Può anche essere, come nel caso di Adèle, la follia che comunque serve a superare l’angoscia legata all’abbandono.

Nel ritorno, costituito dai seguenti passaggi:

  • La via del ritorno in cui si attraversa nuovamente la soglia per ritornare nel mondo ordinario o, meglio, per riportare all’interno di quest’ultimo ciò che si è conquistato nel mondo speciale;
  • La resurrezione in cui ci si ripresenta al mondo ordinario cambiati. E’ il momento in cui si deve dimostrare che si è in grado di mettere in pratica ciò che si è appreso.
  • Ritorno con l’elisir in cui si ritorna con nuovo sé. La storia, afferma Vogler, può avere un finale chiuso con il ritorno al punto di partenza o uno con un finale aperto. Non vi è dubbio che nel caso dei vari passaggi delle fasi di ciclo vitale rimane aperta alle nuove generazioni che faranno tesoro delle battaglie di coloro che li hanno preceduti.

 

La correlazione che non ci si aspetta: come gli stili di attaccamento influenzano le decisioni finanziarie

Un recente studio si propone di comprendere se e come l’attaccamento romantico e la soddisfazione finanziaria siano in relazione tra loro. Esiste una correlazione?

 

È ormai risaputo quanto gli stili di attaccamento (Bowlby, 1973) che si sviluppano nei primi anni di vita siano decisivi per ogni aspetto della personalità e del comportamento degli individui. Tuttavia, nel presente studio viene presa in considerazione un’associazione di cui non si sente spesso parlare: il rapporto che esiste tra le scelte finanziare di tutti i giorni e l’influenza che gli stili di attaccamento individuali hanno su queste (Li et al., 2020).

Durante l’infanzia, le figure di attaccamento principali sono tendenzialmente i genitori (in particolare la madre; Bowlby, 1973) mentre, andando avanti con l’età, gradualmente aumentano di importanza le relazioni romantiche, che in età adulta diventano i rapporti d’attaccamento d’elezione (Shaver and Mikulincer, 2006): uno stile di attaccamento sicuro durante la giovane età porta, come dimostrato da diversi studi, a una soddisfazione di vita maggiore (es. Cook et al., 2017; Moore and Leung, 2002).

Gli stili di attaccamento possono essere di diversi tipi, ma nel presente articolo gli autori si sono concentrati sull’attachment anxiety (quello che in Italiano definiamo attaccamento ansioso/ambivalente), ovvero uno stile caratterizzato da una bassa stima di sé stessi e un’alta considerazione dell’altro, che porta la persona a temere costantemente un abbandono, e sull’attachment avoidance (ovvero lo stile di attaccamento insicuro/evitante), caratterizzato da un’alta considerazione di sé e una bassa stima dell’altro dal quale deriva l’evitamento delle relazioni affettive (Bowlby, 1973).

A questo punto, come si possono mettere in relazione gli stili di attaccamento con i comportamenti finanziari? La soddisfazione economica (intesa qui come la soddisfazione per le proprie finanze), così come una buona relazione di attaccamento, è uno dei più potenti indicatori di benessere per gli individui (Joo and Grable, 2004) e molto spesso i ricercatori hanno espresso la necessità di correlare questa variabile con i tratti psicologici (Ng and Diener, 2014). Lo scopo principale di questo studio è proprio comprendere come l’attaccamento romantico e la soddisfazione finanziaria siano in relazione tra loro (Li et al., 2020).

Gli autori hanno reclutato 635 soggetti, tutti impegnati in una relazione romantica, che avevano frequentato 5 anni di college. A ognuno di loro sono stati forniti strumenti self-report per valutare i comportamenti finanziari (es. spendaccione o tendente al risparmio), la soddisfazione finanziaria e lo stile di attaccamento (Li et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che sia l’attaccamento ansioso/ambivalente sia l’insicuro/evitante erano correlati a una scarsa soddisfazione generale di vita e una scarsa soddisfazione relazionale. L’attaccamento ansioso/ambivalente era correlato a una bassa soddisfazione finanziaria e comportamenti finanziari più irresponsabili. Inoltre, sia l’attaccamento ansioso/ambivalente sia l’insicuro/evitante sono stati correlati a una minor soddisfazione relazionale dovuta ai comportamenti finanziari del partner (Li et al., 2020).

In conclusione, il presente studio ha dimostrato una correlazione tra comportamenti finanziari e stili di attaccamento, aprendo la strada a una serie di possibili risvolti in campo sia terapeutico che di ricerca.

 

Il mondo interno del terapeuta in quarantena

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana, riorganizzare la nostra vita privata e lavorativa e spesso fare delle scelte terapeutiche diverse con i nostri pazienti. Quale impatto può avere l’emergenza Coronavirus sul lavoro del terapeuta?

 

In alcuni articoli precedenti abbiamo ricordato quanto il terapeuta sia un essere umano al pari dei pazienti che cura, con proprie vulnerabilità, con possibili schemi interpersonali problematici, con emozioni intense.

Lo sto scoprendo ancor di più in questi giorni. Per sentirci meno soli, con i miei amici e colleghi abbiamo creato chat di gruppo e abbiamo regolarmente stabilito di vederci su Skype. Confrontandoci, emergono vissuti simili e la necessità di dover mediare tra il modo in cui noi stessi stiamo affrontando la quarantena e le esigenze dei nostri pazienti. Noi continuiamo a svolgere il nostro lavoro tramite sedute online. Alcuni pazienti, nonostante tutto, sembrano tollerare la clausura forzata e gli impedimenti che ci sono stati obbligati, altri lo fanno con più fatica. Una fetta, sta male. Una fetta di pazienti continua a fare il suo giusto lavoro: il paziente fa il paziente. Però, almeno a me, al 16esimo giorno, diventa tutto più difficile ed è più faticoso essere la stessa terapeuta di un mese fa. Mi sono accorta del mio sovraccarico quando una paziente mi ha cercato per qualche minuto di telefonata ed io le ho chiesto di scusarmi e capirmi, ma che ci saremmo dovute sentire l’indomani perché in quel momento non le sarei stata d’aiuto.

Cosa mi stava accadendo?

Da terapeuta, avevo appena concluso la mia ultima seduta Skype della settimana ed ero sinceramente stanca. Da essere umana in quarantena forzata avevo appena finito di disperarmi per una serie di cose. In quel momento, ero affranta. Triste. Volevo solo leggere. Dedicarmi al mio workout. Volevo scrivere. Forse volevo impastare le zeppole. Accarezzare il mio gatto. O semplicemente fissare il soffitto. Insomma, volevo fermarmi. Si perché, un terapeuta non è risparmiato da quello che stare in casa comporta. La prima settimana ci dicevamo “vabbè, che sarà mai un po’ di reclusione!”. La seconda “vabbè, ne approfitto per riposarmi…”. La terza “forse inizio a non tollerare più niente”. Credo, che, la chiave di tutto stia nell’esserne finemente consapevole e gestirlo alla meno peggio.

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana. Ci troviamo costretti con i nostri familiari e con le dinamiche complesse che ne derivano. Ho colleghe che, con i figli in casa, hanno dovuto ridimensionare di molto le ore dedicate al lavoro. Ho colleghe che, lavorando principalmente con i bimbi, magari con disabilità importanti, hanno dovuto mettere in stand by il loro percorso. Alcune colleghe che lavorano in territori devastati dal Covid-19 cercano a tutti i costi di non crollare nonostante siano in piena emergenza. Altri continuano a lavorare in ospedali e servizi pubblici, dovendo quindi essere continuamente prudenti e dovendo gestire comprensibili paure.

Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte che hanno riguardato la vita privata e lavorativa. Ad esempio io ho dovuto rinunciare alla mia indipendenza in casa perché, al settimo giorno, completamente sola, in 50 mq, mi sentivo di impazzire. Dopo due ore, me ne ero già pentita. Ho dovuto riorganizzare il mio lavoro. Assieme ai miei colleghi abbiamo dovuto chiudere lo studio in cui lavoravamo quotidianamente. Ho dovuto mettere in pausa dei progetti lavorativi e di vita, che avevo finalmente realizzato dopo tanta fatica. Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte e dei nuovi piani. Anche con i pazienti. Ad esempio, con coloro su cui stavamo lavorando su aspetti interpersonali, e magari avevano appena iniziato ad uscire, a confrontarsi con l’altro, abbiamo dovuto reinventarci. All’inizio, quando mi sono resa conto che stava accadendo questo, ho anche provato frustrazione e rabbia perché certe cose funzionano bene e altre meno. Ma anche in questo caso, accettiamo consapevolmente i compromessi.

In tutto ciò dobbiamo pur far fronte alle richieste dei pazienti. Ma mentre chiediamo loro di differenziare (Dimaggio et al., 2013) e di accogliere e tollerare le emozioni negative, collegate allo schema patogeno, magari vissute intensamente anche a livello corporeo (Dimaggio et al., 2019), mi ricordo che proprio qualche sera fa ho cominciato a lamentarmi di quanto mi sentissi costretta ed impotente. Ruminavo, dimenticandomi io stessa di differenziare. Sappiamo quanto sia tremendamente difficile fare questa operazione nei casi in cui, aspetti reali colludono e aderiscono alle previsioni dello schema. E’ un po’ come quando diciamo ai nostri pazienti: “Prova a non sentirti totalmente incapace neppure quando il capo ti riprende” oppure “Prova a non sentirti abbandonata se il tuo compagno ti molla improvvisamente”. Su di me, dovrebbe suonare così “Prova a non sentirti impotente o incapace anche se devi restare a casa e non puoi uscire. Insomma prova a sentirti libera ed esplorativa anche se tutto, intorno a te, ti dice il contrario”.

E qui viene il bello. Consapevolezza dello schema, coping funzionali e mastery (Dimaggio et al., 2013) sono la combo perfetta per superare questo periodo. L’insieme di queste strategie, dalle più semplici a quelle più raffinate, da quelle automatiche a quelle apprese, configurano quella che si può chiamare “autoregolazione emotiva” (Dimaggio et al., 2019). Ci riferiamo ad una serie di strategie attentive, di mindfulness, di attivazione corporea che fanno da contraltare ad altre modalità ad esempio ruminative o di evitamento emotivo poco funzionali, che possono addirittura intensificare lo stato doloroso. Eppure, in momenti come questo, in cui le condizioni contingenti mettono a dura prova le nostre competenze, tutte le abilità sembrano dimenticate e lontane pur avendole, invece, a portata di mano. Le strategie più complesse chiamano in causa metacognizione, riconoscimento del proprio funzionamento e capacità di elaborare e modificare lì dove possibile, oppure, semplicemente, accettare e tollerare. In momenti di stress generale, facciamo più fatica a mantenere tutto questo a galla.

E quindi, ogni tanto mi ricordo di respirare, di centrarmi e di andare avanti. So che schiacciare nuovamente il play avrà il suo perché. So che avrà un bel gusto poter organizzare il mio prossimo viaggio. Ritornare a vedere i miei colleghi. Riabbracciare delle persone. Non sappiamo, sinceramente, quando accadrà. Ma sarà bello. E ci sentiremo di nuovo tutti vitalizzati ed esplorativi.

 

La Sindrome di Smith Magenis: difficoltà genitoriali e strategie psicoeducative

La sindrome di Smith Magenis (SMS), di recente scoperta, è una malattia genetica ancora poco conosciuta: è una condizione genetica autosomica dominante, caratterizzata da un pattern di caratteristiche fisiche, ritardo nello sviluppo, disturbi del comportamento e del sonno (Shayota & Helsea, 2018). 

Sara Angelicchio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Ad oggi, la prevalenza mondiale è di 1 su 25.000 su tutti i gruppi etnici, anche se tali dati possono essere soggetti ad una sottostima, dovuta ad una sottodiagnosi. A causa della rarità della sindrome, finora la poca letteratura a riguardo si è incentrata su aspetti medici, permettendo di scoprirne gli aspetti eziologici e genetici alla base. Questi aspetti hanno permesso di consolidare sempre più i principi diagnostici e riabilitativi e, negli ultimi anni, di fornire linee guida psico-educative e sostegno psicologico ai soggetti affetti, alle famiglie ed agli operatori scolastici che li hanno in carico.

Tale sindrome è stata scoperta nel 1986, da Ann C. M. Smith, consulente genetica presso il National Institute of Health degli Stati Uniti e R. Ellen Magenis, pediatra presso l’Oregon Health Sciences University (Smith et al., 1986). La sindrome è causata nel 90% dei casi da una microdelezione del cromosoma 71, p11.2., contenente il gene RAI1 (retinoic acid-induced 1) e nel 10% dei casi da una mutazione del gene stesso. Oggigiorno la maggior parte dei casi viene diagnosticata entro la prima infanzia, sebbene i sintomi possono manifestarsi sin dalla nascita (Shayota & Helsea, 2018). Questa diagnosi precoce è resa possibile dai continui progressi nella testistica genetica, nonché dalla maggiore accessibilità a tali valutazioni.

Caratteristiche fisiche

Le caratteristiche fisiche riscontrate in individui con sindrome di Smith Magenis sono:

  • segni craniofacciali, tra cui brachicefalia, fronte bombata, ipertelorismo, sinofria, rime palpebrali oblique verso l’alto, ipoplasia mediofacciale, faccia quadrata larga con sella nasale depressa, labbro superiore rovesciato a “tenda”, micrognatia neonatale;
  • altre anomalie scheletriche, tra cui brachidattilia, scoliosi, clinodattilia del quinto dito delle mani, sindattilia delle dita dei piedi 2-3, movimenti limitati dell’avambraccio e del gomito, anomalie vertebrali, persistenza dei rigonfiamenti fetali sui polpastrelli delle dita delle mani, polidattilia;
  • frequenti disturbi otorinolaringoiatrici, tra cui insufficienza velofaringea, voce profonda e rauca, noduli/polipi sulle corde vocali;
  • segni oftalmologici, tra cui miopia, anomalie iridee, di rado distacco della retina spesso in seguito a comportamenti violenti. La perdita dell’udito, nel 60% dei pazienti circa, è variabile e può essere lieve-moderata;
  • le malformazioni a livello degli organi, riscontrate nel 30-40% dei casi,  includono cardiopatie, le anomalie renali, urinarie e del Sistema Nervoso Centrale;
  • ridotta sensibilità al dolore.

Ritardo nello sviluppo

Gli individui con sindrome di Smith Magenis nell’infanzia manifestano ritardo in diversi ambiti dello sviluppo:

  • Ritardo nella crescita.
  • Ritardo nello sviluppo motorio: i soggetti affetti dalla sindrome appaiono come “goffi” nei movimenti, impressione dovuta all’ipotonia muscolare. Hanno anche difficoltà a percepire il proprio schema corporeo e difficoltà di coordinazione, che, unite all’analgesia citata sopra, incrementano la difficoltà di relazione tra il proprio corpo e l’ambiente circostante.
  • Ritardo nello sviluppo del linguaggio, rilevato nel 90% dei casi, con o senza perdita dell’udito (Gropman, Duncan & Smith, 2006). Solitamente il linguaggio espressivo è più compromesso di quello ricettivo: all’età di 2 o 3 anni i bambini affetti da tale sindrome faticano ad usare parole strutturate e si esprimono verbalmente con grugniti, gorgoglii, strilli e suoni non articolati. Spesso arricchiscono il loro linguaggio con la comunicazione non verbale, come gesti.
  • Ritardo nello sviluppo cognitivo, presente nella grande maggioranza dei pazienti con sindrome di Smith Magenis. Il ritardo cognitivo causa spesso difficoltà di apprendimento della letto-scrittura: i soggetti analizzati spesso hanno una capacità, variabile secondo i casi, di lettura globale, dovuta ad un funzionamento di tipo gestaltico più che una vera e propria capacità di lettura. Inoltre appaiono intatte le capacità di riconoscimento di singole lettere e sillabe, sebbene sia compromessa la capacità di leggere parole intere o frasi. La scrittura è caratterizzata da difficoltà ancora maggiori, influenzate anche da alcune caratteristiche fisiche della sindrome, come la brachidattilia e gli aspetti relativi alla motricità fine.

Disturbi del comportamento

Solitamente i bambini al di sotto dei 18 mesi non manifestano disturbi comportamentali (Shayota & Elsea, 2018); la loro insorgenza è circa dai 18-24 mesi, con un incremento progressivo coincidente con le tappe di sviluppo. Spesso la comparsa dei comportamenti disfunzionali è influenzata da fattori ambientali. Possono infatti comparire in relazione alla ricerca di attenzione dell’adulto. I disturbi del comportamento associati alla sindrome di Smith Magenis si possono dividere nelle seguenti categorie: autolesionismo, eteroaggressività, iperattività, comportamenti alimentari disfunzionali e stereotipie:

  • Comportamenti autolesivi, quali onicotillomania  (strapparsi le pellicine), tricotillomania (strapparsi i capelli), colpirsi la testa con le mani o con oggetti, mordere o colpire il corpo con le mani e con oggetti.
  • Comportamenti aggressivi e distruzione di proprietà di altri, specialmente verso genitori e parenti, può essere verbale o fisica e impulsiva o programmata. Tali comportamenti sono riscontrabili maggiormente in individui con sindrome di Smith Magenis e concomitante perdita della vista o dell’udito (Bissels, Wilde, Richards, Moss, & Oliver, 2018). I comportamenti aggressivi, che compaiono dai 2 anni di età circa, sotto forma di disobbedienza e scatti d’ira, tendono ad aumentare con l’età, a causa del crescente divario tra sviluppo intellettivo e sviluppo emotivo.
  • Iperattività e comportamenti stereotipati, come “upper body squeezing” ( cingersi la parte superiore del corpo con le braccia, come in un abbraccio a se stessi), urlare, battere le mani, digrignare i denti, camminare avanti e indietro, dondolare con il corpo, ruotare e lanciare oggetti, fare smorfie. Questi comportamenti spesso guidano il medico nella valutazione e nella diagnosi della sindrome.
  • Comportamenti alimentari disfunzionali, che portano gli individui con sindrome ad avere un alto rischio di obesità, spesso notato da età 6-9 anni. Questo è ulteriormente influenzato da preferenze alimentari, iperfagia, abbuffate notturne.

La manifestazione e la frequenza dei comportamenti disfunzionali sopra descritti è influenzata anche e soprattutto dai disturbi del sonno.

Disturbi del sonno

I disturbi del sonno caratterizzano la totalità degli individui con sindrome di Smith Magenis e impattano significativamente sulla loro vita e su quella dei familiari; questi disturbi includono eccessi di sonnolenza, disturbi respiratori associati al sonno, parasonnie, sonnolenza diurna eccessiva, risvegli notturni frequenti e prolungati. Di norma l’addormentamento la sera avviene molto presto, così come il risveglio definitivo la mattina (Boudreau et al, 2009). Da un lato l’addormentamento anticipato esclude il soggetto da una parte della vita relazionale della famiglia e dall’altra i risvegli notturni condizionano pesantemente i cicli di riposo di tutti i membri. Tali vicissitudini comportano un incremento significativo del livello di fatica e frustrazione, che contribuisce ad aggravare i comportamenti disfunzionali descritti in precedenza. Tale peggioramento dei comportamenti causa un ulteriore aumento di stress nel nucleo familiare, alimentando un circolo vizioso di difficile rottura. Inoltre le fasi di sonnolenza diurna si manifestano con maggiore frequenza a metà giornata, cioè nella fase di maggiore e più intensa attività giornaliera; questo incrementa il senso di inadeguatezza e di differenza dagli altri, percepite da coloro che sono affetti dalla sindrome di Smith Magenis.

Stress genitoriale

Come si evince dai paragrafi precedenti, l’intreccio dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e i disturbi del sonno degli individui con sindrome di Smith Magenis coinvolge e “stravolge” la vita dei familiari e caregivers. Oltre all’aspetto traumatico della diagnosi, difficoltà comune ai genitori di bambini con altre disabilità, i genitori di bambini con questa sindrome sperimentano spesso un senso di impotenza percepita di fronte ai comportamenti aggressivi e distruttivi dei propri figli, che li mettono a dura prova. Inoltre i disturbi del sonno, che sovente richiedono vigilanza, portano i genitori a sconvolgere il proprio ciclo sonno-veglia, poiché spesso i comportamenti-problema si manifestano in associazione a questi. L’alterazione del ciclo sonno-veglia, che normalmente è sincronizzato con il ciclo luce-buio,  può portare a compromissione significativa del funzionamento lavorativo o sociale durante la giornata. Questi aspetti, sommati ad eventuali difficoltà o addirittura rifiuti da parte di ambienti sociali o ambienti scolastici  che non dispongono di personale educativo adeguatamente formato per interfacciarsi con questa realtà, alimentano notevolmente il livello di stress genitoriale, portando i genitori a esperire sentimenti di solitudine e sconforto. Per questi motivi, è fondamentale a seguito della diagnosi la formazione di un intervento multidisciplinare e di rete, che preveda, oltre alle terapie mediche, riabilitative ed educative destinate al bambino,  anche un sostegno psicologico familiare ed alla genitorialità per la coppia genitoriale. Questo intervento ha l’obiettivo di attivare le risorse genitoriali all’interno del sistema, fornire informazioni e strategie psico educative per la gestione dei comportamenti-problema e dei disturbi del sonno, così da migliorare significativamente la qualità di vita di tutta la famiglia.

Strategie psico-educative

Con individui affetti da sindrome di Smith Magenis sono raccomandate tecniche comportamentali per diminuire la frequenza e, progressivamente, estinguere i comportamenti-problema, sostituendoli a comportamenti maggiormente adattivi. Tali tecniche risultano efficaci se vengono utilizzate in tutti gli ambienti vissuti dal bambino e da tutti gli adulti che se ne prendono cura (genitori, educatori, insegnanti, etc.), in modo da dare la possibilità al bambino di costruire aspettative coerenti sulle conseguenze dei suoi comportamenti.

Con l’aiuto di un esperto (psicoterapeuta cognitivo comportamentale o tecnico ABA), identificare gli obiettivi, cioè i comportamenti del figlio che si desiderano aumentare di frequenza ed i comportamenti problema che si desiderano estinguere. Identificare poi i rinforzi positivi, cioè gli eventi che, messi in atto subito dopo un comportamento, aumentano la frequenza di tale comportamento. In seguito, è opportuno predisporre un programma di intervento in cui, ad ogni comportamento adattivo che si vuole rinforzare, è associato un rinforzo. Nel programma viene inserita anche la tecnica della Token Economy, che prevede che il bambino, a seguito dell’emissione di un numero preciso e definito di comportamenti adattivi specifici, guadagni un premio, cioè un rinforzo positivo. Ad esempio, si può pattuire con il proprio figlio che, ogni volta che comunica alla madre di voler andare via da un posto senza scappare e che si lava i denti da solo, guadagni un gettone, che può essere una croce o un adesivo applicato su un tabellone. Una volta arrivato a 10 gettoni, il bambino e la mamma possono organizzare una gita al lunapark insieme. Inoltre, spesso è opportuno ignorare i comportamenti che hanno la funzione di richiesta dell’attenzione dell’adulto, se tali comportamenti non sono aggressivi e/o pericolosi per il bambino o per gli altri. Tali tecniche, se applicate con il supervisore di un professionista, riducono in modo significativo la frequenza dei comportamenti oppositivi, provocatori e aggressivi ed incrementano l’autonomia del bambino.

Per quanto riguarda i disturbi del sonno, è opportuno costruire una routine del sonno stabile e regolare, in modo tale da poter essere prevedibile anche per il bambino. Tale routine include un sonnellino a metà mattina, la predisposizione di un ambiente con pochi stimoli eccitatori e con temperatura né troppo calda, né troppo fredda, e l’utilizzo di rumore bianco o suono ritmico per favorire l’addormentamento.

A volte è necessario avvalersi di un letto provvisto di barre di protezione, al fine di diminuire la frequenza di comportamenti autolesivi e camminate notturne.

 

Coronavirus: il rispetto delle regole dal punto di vista dello psicologo

Dopo l’effetto della paura sui nostri comportamenti, oggi parliamo di quali sono le basi psicologiche correlate al rispetto delle regole. Argomento importante in generale ma, soprattutto, in una condizione particolare come quella che stiamo vivendo.

Articolo originariamente pubblicato su Medical Facts il 26 marzo 2020

 

Molte cose sono incerte in questo momento, ma una è certa: l’azione di contenimento dell’epidemia richiede interventi specifici sul comportamento delle persone. Mentre gli epidemiologi cercano di capire l’andamento dell’epidemia, i virologi in laboratorio studiano e fanno ricerca per sviluppare un vaccino o una terapia specifica, medici e infermieri in ospedale cercano di salvare più vite umane possibile, mentre economisti cercano di ipotizzare scenari sostenibili futuri, l’azione di contenimento è basata sul controllo del comportamento delle persone in base alla regola: dobbiamo distanziarci socialmente, dobbiamo stare a casa.

Il comportamento è influenzato da due fattori principali: l’esperienza diretta, afferro il manico bollente della caffettiera e mi scotto, (e la prossima volta sto ben attento a usare una presina), o l’esperienza trasmessa a parole , “non andare dove non tocchi che affoghi”. La prima è più efficace, la seconda previene da esperienze pericolose o letali.

L’esperienza diretta funziona nel far percepire alle persone il pericolo della vicinanza e nel mantenere la gente a casa, principalmente per le persone che hanno un parente ricoverato in ospedale o un parente che lavora come medico o infermiere in ospedale; in altre parole per chi ha avuto esperienza personale della sofferenza e della preoccupazione. Per gli altri dovrebbe essere sufficiente la proposizione di una regola che descrive le conseguenze di un comportamento: dobbiamo stare a casa per limitare le occasioni di contagio tra persone. Abbiamo visto come la percezione del rischio, per diversi motivi, sia ancora bassa, e troppa gente continui a essere per strada (ogni giorno sempre meno, fortunatamente).

Le regole

Perché una regola funzioni, con un gioco di parole direi che bisogna rispettare alcune regole, principi che derivano dai dati sperimentali. Il comportamento da mantenere/modificare deve essere espresso in modo chiaro, limitando il più possibile le ambiguità, le contraddizioni e le eccezioni. Mantenere una distanza di 1,5 metri da un’altra persona è chiaro, comprensibile, misurabile, basato su dati certi (la distanza che il virus non può superare con il suo vettore, le goccioline di saliva). Infatti, stando almeno alle immagini delle persone in fila ai supermercati, funziona.

La regola “state a casa”, e il suo reciproco, “non uscite di casa”, presentano vari problemi. Impossibile rispettarla letteralmente: troppe le eccezioni, troppe le interpretazioni. Quali comportamenti “uscire di casa per” sono consentiti? Acquistare beni necessari (cibo, medicine), andare in posta, andare in banca, andare al lavoro, passeggiare/correre, aiutare un parente, “scendere” (sic!) il cane, gettare la spazzatura, e potrei continuare ancora per molto. Con quale frequenza queste uscite sono consentite? L’uscita del cane 2/3 volte al giorno va bene, ma la spesa ogni giorno non va bene. Non va bene neanche che la spesa si faccia nel centro commerciale o nell’iper dei paesi limitrofi invece che nel supermercato o nel negozio sotto casa, e non va bene neanche che il povero cane venga portato a fare i suoi bisogni lontano kilometri da casa.

Mi fermo per non diventare stucchevole e petulante. Il senso è questo: se bisogna stabilire regole di comportamento ci si deve affidare a esperti di comportamento umano, appartenenti a diverse discipline, i quali possono affrontare in primis un aspetto fondamentale delle regole: la descrizione delle conseguenze della violazione della regola. “Attento, che se vai in acqua dove non tocchi bevi e affoghi”: quante volte abbiamo visto la scena, con un bambino che comincia ad annaspare e un adulto che prontamente interviene per afferrarlo e portarlo in sicurezza? In questo caso la conseguenza della violazione della regola è certa, immediata e naturale.

Se si viola la regola “Non uscite di casa” la conseguenza non è invece così immediata, diretta e naturale, non è come “se tocchi l’asciugacapelli con mani e piedi bagnati ti prendi una bella scossa”. L’effetto del contagio non è lineare e immediato, c’è il periodo di incubazione, la probabilità (o quanto meno il pensiero) di sfangarla, l’”overconfidence bias” “ma io sto attento”, la giustificazione “ma io ho bisogno di…”. La catastrofe è in arrivo, ma non è ancora visibilmente arrivata pertanto è facile atteggiarsi in modo supponente all’invito a restare a casa.

Poi c’è un altro fattore per cui gli individui hanno un atteggiamento sprezzante nei confronti dei consigli di scienziati ed esperti di salute pubblica. La scienza del comportamento si è occupata della reattività psicologica, un concetto introdotto già nel 1966 dallo psicologo sociale americano Jack Brehm, che usa il termine reattanza (reactance) per descrivere una particolare forma di reazione a regole che minacciano o limitano alcune libertà di azione. Nelle sue parole, la reattanza psicologica si riferisce all’idea che nelle situazioni in cui le libertà individuali sono ridotte o a rischio di riduzione, le persone sembrano motivate a riconquistare tali libertà. Cioè, quando ci viene detto che cosa fare o non fare, una parte di noi è spinta a fare il contrario: popolarmente questo atteggiamento viene riassunto dalla frase “tutto ciò che è proibito è desiderabile” (antico proverbio arabo).

La reattanza è l’altra faccia della medaglia della compliance e dell’aderenza, termine con cui si indica il comportamento di seguire le prescrizioni e le indicazioni terapeutiche (anche i medici conoscono bene questo problema, dato si stima che il 50 % dei pazienti non segua correttamente le indicazioni terapeutiche). Ci sono sicuramente fattori socio-culturali, oltre che individuali, che influenzano questa reattività, ad esempio la concezione di Stato come bene comune frutto di un contratto sociale da rispettare (paesi nordici) o il concetto di libertà individuale che prevale su ogni cosa (Stati Uniti).

Gli esperti

Un altro elemento patogeno, che proviene dagli Stati Uniti e ha attecchito subito anche in Italia, è il fastidio per la competenza e verso gli esperti percepiti e etichettati come élite culturali (“professoroni”) con atteggiamento snob. Inoltre il coronavirus trova alimento in un virus sociale che è diventato endemico nella nostra società negli ultimi anni: disinformazione e ignoranza. Tuttavia, chi si occupa di scienza deve possedere l’umiltà di ricordarsi socraticamente che, a volte, e in contesti diversi, siamo tutti ignoranti. Dobbiamo tutti trattarla come una variabile conosciuta, di cui tener conto come condizione di partenza nell’elaborazione di una strategia comportamentale di intervento: prima cosa, ricordare che messaggi contrastanti generano confusione, e sono da evitare come la peste (per restare in tema).

Di tutti questi fattori i governanti dovrebbero essere consapevoli. Il momento di dar retta agli esperti (quelli veri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, non i ciarlatani) non è più procrastinabile, perché è grazie a loro che il mondo ha sconfitto malattie terribili come la poliomielite e resistito a epidemie recenti come l’Ebola. La Scienza si basa sulla realtà dei fatti, e richiede che i governanti dicano la verità: minimizzare la gravità della situazione, o cercare scuse e/o colpevoli (immaginari) per quanto sta accadendo è una pessima scelta, che oltretutto dà voce e potenzia la reattività: se penso che tutti ci mentano sono autorizzato a disobbedire alle “loro” regole.

Le opzioni da scegliere

L’esempio italiano dimostra che le misure devono essere messe in atto immediatamente, messe in atto con assoluta chiarezza e fatte rispettare rigorosamente. (Jason Horowitz)

Queste parole sono di Jason Horowitz, sul New York Times del 22 marzo. In effetti, seppur tardivamente, qualche paese che aveva atteggiamenti supponenti come quelli descritti nei paragrafi precedenti, ha poi seguito il suo consiglio.

Sulla chiarezza dal punto di vista comportamentale ho già detto, dal punto di vista del diritto lascio la parola a chi ne sa (Sabino Cassese sul Corriere del 24 marzo).

Circa il mettere in atto c’è un punto importante da chiarire: uso una metafora medica, in modo generico, sperando che il prof. Burioni non me ne voglia: la somministrazione sottodosaggio di un farmaco, sia un antibiotico per combattere un’infezione, o un antidolorifico per attenuare la sofferenza, è una delle scelte peggiori, non ottiene gli effetti dovuti e presenta comunque la tossicità di ogni farmaco. Il dosaggio va fatto conoscendo le caratteristiche del soggetto e della malattia da curare (per questo si consiglia di rivolgersi al proprio medico curante e di non seguire i consigli del vicino di casa).

Fuori di metafora il consiglio che l’esempio italiano può dare agli altri paesi (e che i loro governanti non seguiranno) è di partire subito con il dosaggio giusto, evitando interventi blandi a intensità progressiva. Il nostro paese sta ancora inseguendo il virus per questo motivo. Gli esperti sanitari (con qualche eccezione purtroppo) si erano espressi dall’inizio per una soluzione ad alto (giusto) dosaggio.

Spero sia chiaro a tutti che la soluzione lockdown, cioè chiusura totale delle attività-rimanere a casa, è necessaria ma non è sostenibile a lungo. Bisogna pensare ora anche al dopo, e bisogna pensare in termini strategici, sulla base di dati e di modelli. Tomas Pueyo, su Medium del 19 marzo, affronta sulla base dei dati il problema della scelta fra varie opzioni di intervento (mitigare vs sopprimere), usando la metafora the Hammer and the Dance, il martello e la danza. L’opzione martello significa agire subito in modo forte, chiusura e distanziamento totali. Se si adottano strategie di tracciamento dei contatti come quelle adottate in Cina, Korea, Singapore, questa fase può essere limitata nel tempo: dipende dalla capacità della popolazione di seguire disciplinatamente le regole (vedere sopra), in ogni caso possiamo ragionare in termini di settimane invece che di mesi di blocco e di isolamento totali.

La fase successiva è quella chiamata la danza. La metafora della danza viene usata nella psicologia del comportamento anche per descrivere le interazioni psicologiche genitori-figli, che si caratterizzano (dovrebbero) come un movimento armonico, sintonizzato, sincronizzato, agile. Nel caso dell’epidemia COVID-19 significa che dopo la fase Martello il virus non è stato debellato, però dovrebbe essere stato messo sotto controllo, per portare la mortalità a un livello accettabile e per guadagnare tempo in attesa dello sviluppo di un vaccino. Nella fase Danza continuano attività di quarantena, di test, di distanziamento sociale e di igiene, ma si eliminano le forme più severe di restrizione. Si modulano gli interventi in modo mirato a seconda delle zone e dei contesti, ma si fa riprendere la vita e l’attività di molte persone.

Ci serve tempo, dobbiamo prendere tempo, dice Pueio. Tempo da usare per sviluppare e applicare una strategia meditata, basata su dati attendibili, con il contributo degli esperti di molte discipline, che in questi giorni si sono espressi pubblicamente sui principali social media. E abbiamo bisogno anche del “coraggio della speranza”.

 

Io sono Iron Man, l’uomo di ferro con il cuore fragile – La LIBET nelle narrazioni

Tony Stark era un bambino pervaso da sensazioni di non amabilità e di non essere mai abbastanza che crescendo ha sviluppato delle strategie volte alla continua ricerca di gratificazione e di successo e all’evitamento di relazioni profonde e stabili, con lo scopo di stare lontano da questa sofferenza.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 12) Iron Man

 

Iron Man, come molti ben sanno, è il primo capitolo di una trilogia che va ad inserirsi nel più ampio universo Marvel (MCU- Marvel Cinematic Universe), dove eroi ed antieroi danno vita ad una continua lotta tra bene e male, fino a mettere in discussione cosa possa essere buono e cosa malvagio.

Iron Man, all’anagrafe Tony Stark, è un “genio miliardario, play boy, filantropo”, per citare le sue stesse parole, un uomo brillante, famoso per il suo successo con le donne e amante delle belle cose. Una vita apparentemente perfetta, peccato che sarà proprio questa la sua fonte più grande di sofferenza, le cui origini non sono da cercare molto lontano.

Quello che infatti scopriamo, anche grazie al film Iron Man 3 e alla tecnologia RIMBA, è un adolescente con un padre estremamente critico e severo nei suoi confronti (“Puoi non incendiare la casa prima di lunedì?”, “Dicono che il sarcasmo sia un mezzo per misurare il potenziale, fosse vero un giorno diventerai un grande uomo”) da un lato, e con una madre che cerca di smorzare i toni e spiegare al figlio come il padre gli voglia bene. Ma purtroppo non basterà tale premura ad evitare quella sensazione di non amabilità e di non essere mai abbastanza agli occhi di suo padre, distante non solo sul piano fisico, ma anche e soprattutto emotivo, creando un vuoto che una volta adulto cercherà di colmare con le cose materiali. A tutto ciò si aggiunge anche il senso del dover essere a tutti i costi all’altezza di Stark padre, che ha collaborato a sconfiggere i nazisti e lavorato al progetto Manhattan, motivi per cui molta gente lo considera un eroe, senza minimamente considerare gli sforzi che un tale compito richieda, fonte di ulteriore stress e frustrazione.

Ne deriva che, per evitare di entrare in contatto con questa sofferenza, Tony, una volta adulto, evita qualsiasi coinvolgimento di tipo emotivo, che lo porta a sedurre ogni sera una donna diversa, una strategia che potremmo definire prudenziale e che mette sistematicamente in atto con l’obiettivo di non amare nessuno, creando uno stato interno di sicurezza che lo rende immune dal contatto con il suo senso di inferiorità. Tony è alla continua ricerca di autogratificazione e successo, si circonda di donne che dimenticherà appena usciranno dal suo letto, non vuole relazioni serie e stabili. Tutto ciò lo porterà a costruirsi l’immagine sociale del play boy, così da essere riconosciuto dagli altri in questo status di successo dove è indiscusso il suo talento. Come non citare il famoso aneddoto del suo “dodici su dodici” con le modelle di copertina di Maxim, anche se lui ci tiene a precisare che ha avuto un conflitto di agenda con Miss Marzo, ma sulla copertina di Natale c’erano due gemelle.

Si può dire che utilizza la seduzione in modo narcisistico, cioè per compensare il senso di non valere abbastanza e poter essere ammirato e riconosciuto dagli altri e forse per essere considerato degno di stima e amore dallo stesso padre.

Sebbene Tony sembra essere riuscito a proteggersi dalla sua emotività tirando su un muro tra sé e gli altri, anche i muri più solidi sono destinati a crollare. Basterà infatti una serata di beneficenza a renderlo consapevole del complotto responsabile non solo del suo rapimento avvenuto mesi prima, ma anche della vendita illegale di armi ai terroristi da parte della sua azienda precedentemente chiusa da lui. Il culmine di insight tuttavia si avrà solamente quando scoprirà che Obediah Stane, che dopo la morte di suo padre era stato per Tony collega e mentore, ha presentato l’ingiunzione contro di lui per allontanarlo dall’azienda per prenderne il controllo e sarà proprio questa amara scoperta a determinare la trasformazione di Tony Stark in Iron Man, non più “un genio miliardario, playboy e filantropo”, ma colui che vuole giustizia e liberare il mondo dal male.

Tuttavia, possiamo notare come anche questa trasformazione, apparentemente benigna, sia ancora caratterizzata dal senso del dover essere a tutti i costi il migliore, alimentando in sé ancora di più rabbia verso un mondo che gli ha voltato le spalle troppo spesso e ansia per cercare di essere all’altezza di qualsiasi situazione.

Per concludere, possiamo notare come l’aver sperimentato emozioni negative in un’età critica come l’infanzia porti da adulti a distanziarsene il più possibile e di conseguenza al desiderio di non provarne più pur di non stare male. Ma tutta questa eccessiva prudenza ha a lungo termine dei costi elevatissimi, perché porta, non solo Tony ma chiunque si rispecchi in lui, a chiudersi sempre più in se stesso e a costruirsi un’immagine di sé che non è altro che il risultato della paura così grande di soffrire.

 

Può la mindfulness ridurre i livelli di paranoia?

La mindfulness è un’attitudine esercitata e sviluppata attraverso la pratica di una forma simil meditativa, sviluppata dai precetti del buddhismo, volta a portare l’attenzione del soggetto in maniera non giudicante verso il momento presente (Hölzel et al., 2011).

 

In ambito psicologico sono stati sviluppati svariati protocolli mindfulness validati in ambito clinico, che hanno mostrato diversi benefici significativi per il trattamento di alcuni disturbi mentali tra cui ansia e depressione; si evidenziano inoltre effetti più di stampo fisiologico, tra cui: miglioramento dei parametri ematici e del benessere fisico percepito. In aggiunta, è anche dimostrato come la pratica di questa disciplina porti allo sviluppo del corpo calloso, componente cerebrale presente nei mammiferi, composto da un fascio di assoni che interconnette i due emisferi cerebrali e che quindi favorisce e permette il trasferimento di informazioni tra i due emisferi e la loro coordinazione (Hölzel et al., 2011).

Altri effetti che possiamo osservare a livello cerebrale sono: l’incremento dell’attività del lobo prefrontale sinistro, la rimodulazione dell’attività dell’amigdala e la modulazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.

La mindfulness è una modalità di prestare attenzione, in particolare ci si concentra sul qui ed ora detto anche hic et nunc. Lo spostamento dell’attenzione sul momento presente deve essere non giudicante, al fine di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento di accettazione di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni (Hölzel et al., 2011).

Gli interventi terapeutici mindfulness-based hanno trovato espressione in diversi approcci metodologici in psicoterapia validati in ambito clinico, tra cui troviamo:

Un recente studio pubblicato a maggio 2019, si è proposto di esaminare il ruolo della mindfulness nell’attenuare i sintomi di paranoia negli studenti (Kingstone et al., 2019).

Il campione era composta da 68 soggetti, il disegno sperimentale utilizzato è quello longitudinale a singolo cieco, infatti gli studenti sono stati seguiti per una settimana.

A metà campione (34 soggetti) è stato fatto un training sulla mindfulness, mentre agli altri 34 soggetti è stato fatto un training sull’immaginazione visiva guidata; si tratta di una tecnica caratterizzata dal dirigere l’attenzione fuori dal momento presente (praticamente l’opposto della mindfulness) (Kingstone et al., 2019).

I livelli di paranoia sono stati misurati con la Paranoia and Depression Scale (PDS; Bodner & Mikulincer, 1998)

Da un punto di vista statistico, per verificare le differenze dei livelli di paranoia prima e dopo nei due gruppi, è stata eseguita una ANOVA a misure ripetute.

I risultati di questo studio mostrano che entrambi gli approcci hanno ridotto in maniera significativa i livelli di paranoia dei soggetti, tuttavia non si denota una differenza statisticamente significativa tra i due approcci terapeutici.

Per futuri studi i ricercatori si propongo di ripetere lo studio, questa volta confrontando mindfulness e psicoterapia placebo, cosi da verificare se ci sono risultati statisticamente significativi a favore dell’approccio mindfulness nel trattare i livelli di paranoia (Kingstone et al., 2019).

 

L’ABC del coronavirus in dialetto napoletano

Tradurre in dialetto napoletano l’ABC -come ha fatto il collega Diego Sarracino- ha le sue difficoltà ma anche i suoi vantaggi. L’ABC, come alcuni sanno, è uno strumento di valutazione dei pensieri disfunzionali, quelli che non ci aiutano ad affrontare le situazioni e che ci fanno stare male.

Lo svantaggio e il vantaggio di usare il napoletano è la sua natura di dialetto ricco di termini concreti e povero di parole astratte. Ad esempio, “pensieri disfunzionali” non c’è, ma c’è “pensà malamente” (pensar male) più vicino al concreto “pensieri che non ci aiutano” italiano. I pensieri che non ci aiutano sono quelli che trasformano le emozioni in ostacoli, invece di trattarle come segnali utili. Ad esempio, l’ansia è un segnale che ci avverte che c’è una prova da affrontare o un rischio da valutare. Diventa un ostacolo se la interpretiamo come un segnale di una nostra supposta inadeguatezza. Il pensiero che ci aiuta davanti a un esame o di fronte al coronavirus è: “c’è un problema”. Quello che non ci aiuta (in napoletano: “o’ pensà malamente”) può essere “non ce la farò” o peggio “non sono all’altezza”. Così le emozioni, ci insegnava Ellis in slang nuovaiorchese, diventano auto-svalutazioni invece che pungoli all’azione.

Il dialetto napoletano popolare, che per sua fortuna non è mai stato una lingua (la “lingua napoletana” classificata dall’Unesco è in realtà il volgare pugliese parlato alla corte dei re di Napoli con cui si componevano poesie e si redigevano i documenti della cancelleria e poco ha a che fare con il dialetto napoletano) ci aiuta a pensare concretamente e ad avere pensieri che ci aiutano.


Una traduzione per i non napoletani:

‘O fatto ca me scuncerta (l’evento disturbante)

Leggo c’a ggente s’ammisca sempr’e cchiù cu stu cazz e virùs (leggo che la gente si infetta sempre di più con questo “maledetto” virus”)

BC

Penzà malamente: (pensiero disfunzionale)
Add’a essere per forza accussì (doverizzazione o pretesa)
«Aggia essere sicuro o cient pe cient ca nun succede» (devo essere sicuro al cento per cento che non accade)

D – Mo te faccio arragiunà (disputing) Dint’a vita te pare normale essere sicuro o cient pe cient? (Nella vita ti sembra possibile essere sicuri al cento per cento?)

Chello ca sento (emozione)

F
Chello ca sento
(emozione)

SO NERVUSO MA CE A’ POZZ FA’ (sono in ansia ma posso tollerarlo)

C
Cello ca faccio (comportamento)
Me lave e mman cient vote o juorno Guardo chello ca succede cient vote o journo (mi lavo le mani cento volte al giorno; sto attento a quel che accade cento volte al giorno)
Penzo tutto journ a comme me ne pozz ascì (rimuginio tutto il giorno come posso cavarmela)

F
Cello ca faccio
(comportamento)
Me lavo senza i’ o’ manicomio (mi lavo senza esagerare come un matto)
Cerco è capì chello ca sta succedendo ma senza i’ o’ manicomio (cerco di capire cosa sta accadendo senza esagerare come un matto) Cerco e sta quieto e fa quaccosa ca me po’ servì (mi tranquillizzo e faccio qualcosa di utile)

Prevenzione del suicidio e valutazione del rischio: l’importanza della formazione

Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni.

 

Ogni 40 secondi qualcuno muore per suicidio, circa 800.000 persone ogni anno.

Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni. La riduzione di un terzo della mortalità globale per suicidio entro il 2030 è l’obiettivo di salute pubblica che si è data l’OMS.

È necessario prima sfatare alcuni miti. Prima di tutto, come persone e come clinici, non dobbiamo avere paura di fare domande esplicite su ideazione ed intenzionalità suicidaria; in nessun modo saremo coloro che insinuano l’idea al soggetto. Inoltre, nessun farmaco può causare il suicidio, come erroneamente a volte sostenuto da più parti. Come sottolinea Kelly Posner (Columbia University), quando si sensibilizza la comunità su questo tema facendo errata informazione, i dati riportano un calo delle prescrizioni di antidepressivi ed un aumento dei suicidi e dei tentati suicidi.

Porre le domande giuste ed avere una lingua comune costituisce una connessione, elemento fondamentale fra paesi ed individui. Va da sé che al polo opposto, rispetto alla connessione, vi è la solitudine, e le sue conseguenze sono spesso letali, più di cardiopatia ed obesità. Parlarne apertamente e formarsi adeguatamente può aiutare a ridurre lo stigma ed a rompere il silenzio.

Altro mito stigmatico da sfatare è che il suicidio sia una scelta, non lo è nella stragrande maggioranza dei casi. Come clinici siamo tenuti, quindi, ad analizzare profondamente il processo decisionale sotteso a questo comportamento, a questa apparente scelta. Quando si parla di cancro, ad esempio, la malattia, la cura ed il suo percorso, non vengono mai avvicinati al costrutto del processo di scelta, mentre quando si parla di disturbi dell’umore, spesso, involontariamente, si trasmettere il messaggio percettivo che il mantenimento del disturbo avvenga per volontà, o scarsa volontà, della persona. E’ facilmente intuibile come, essendo un’esperienza soggettiva di difficile comprensione, le persone vicine ai nostri pazienti non possano comprendere, se non adeguatamente psicoeducate, e questo è compito nostro di clinici. Sempre compito nostro è individuare tempestivamente le persone a rischio, saper monitorare le situazioni a rischio, saper fare prevenzione sia nello specifico dei casi sia di massa attraverso una comunicazione diffusa e competente sul problema.

Come dimostrano la letteratura e le testimonianze di chi è sopravvissuto ad un mancato suicidio è fondamentale considerare il fatto che solitamente si tratta di una scelta fatta nell’impossibilità di far fronte ad un dolore mentale, divenuto ormai insopportabile. Il Prof. Shneidman, padre della suicidologia, ha definito tale forma di dolore con il termine psychache, cioè “tormento della psiche”. Il suicidio non può essere quindi considerato come un movimento verso la morte, ma come un movimento di allontanamento da qualcosa: emozioni intollerabili, dolore insopportabile, angoscia inaccettabile. Questo insieme di variabili definisce il concetto di psychache (Pompili, 2019, Congr.Int.Suicid.e Salute Pubb; Shneidman, 2006).

Un altro fattore culturale stigmatico riguarda, secondo la letteratura, il genere maschile, il quale conta un maggior numero di deceduti per mezzo di suicidio, rispetto alle donne, le quali invece mettono in atto un maggior numero di tentativi. Si era sempre presupposto che questa fosse la conseguenza della scelta di metodi maggiormente letali, effettuata dagli uomini, ma Gibbons (2005), evidenzia che solo l’11% degli uomini deceduti per suicidio stava assumendo farmaci antidepressivi, rispetto al 41% delle donne, ipotizzando un’influenza del contesto culturale e di desiderabilità sociale per cui, in particolare per quanto riguarda il genere maschile, “sono debole se chiedo aiuto”.

Come già detto dal Prof. Pompili, importante suicidologo italiano, il disturbo psichiatrico riguarda una disfunzione fra aree che dialogano fra loro, non riguarda una sola area, è quindi fondamentale porre attenzione anche a come l’esperienza di crisi, nella storia dell’individuo, viene gestita. Sintonizzandoci sulla sofferenza del nostro paziente, anche attraverso l’analisi della sua storia di vita, possiamo riuscire ad adeguare la nostra comunicazione in modo da modulare l’esperienza del paziente, la quale sarà probabilmente collegata ad esperienze passate. La comprensione del vissuto dei nostri pazienti risulta di fondamentale importanza poiché comportamenti che si sono già manifestati (ad es. un pregresso tentativo di suicidio) sono neuro-biologicamente facilitati ad una nuova più rapida riattivazione (Hebb, 1949; Edelman, 2018).

I nostri pazienti devono quindi avere la possibilità di ricostruire e condividere con noi queste esperienze, allo scopo terapeutico di riuscire a rimodulare sia la componente emotiva che quella cognitiva, e creare, insieme al terapeuta, una nuova e più adattiva modalità di gestione personale e di progetto di vita orientato verso scopi e desideri.

Si tratta di un tema molto complesso e sicuramente meritevole di molti altri contributi da considerare, approfondimenti e percorsi formativi, è anche un aspetto di grande difficoltà del lavoro del clinico che necessiterebbe di essere affrontato tramite un lavoro di squadra. La priorità è, senza dubbio, un’adeguata formazione, specifica, basata quanto meno sulle evidenze che esistono, per poter adeguatamente valutare il rischio. La Prof. Posner, dal suo osservatorio scientifico della Columbia University, guida scientifica in materia di suicidologia, sottolinea che il 50% dei casi di suicidio vede il medico di base o afferisce al pronto soccorso nel mese che ha preceduto il tentativo, ma per motivi che non riguardano la salute mentale. Occorre quindi chiedere e, se possibile, utilizzare in larga scala uno strumento di screening in grado di discriminare coloro che devono essere indirizzati ad uno specialista della salute mentale, adeguatamente e specificatamente formato.

A questo proposito, la Columbia University mette gratuitamente a disposizione di tutti noi uno strumento semplice ed efficace per poter effettuare un pre-screening, la cui portata di prevenzione può essere tranquillamente definita epidemiologica. Si tratta della Columbia Suicide Severity Rating Scale, parte del loro Protocollo di prevenzione (C-SSRS), una brevissima scala formata da soli 6 items, tradotta in 140 lingue. Il questionario prende in considerazione i comportamenti suicidari, nonché quelli preparatori (come per es. lasciare uno scritto), è uno strumento molto semplice e non è necessario essere professionisti della salute per poterlo somministrare. È in grado di effettuare uno screening assolutamente preventivo rispetto all’opportunità, e quindi temporalmente ancora prima che intervenga la necessità, di indirizzare ad uno specialista, questa volta sì, necessariamente, della salute mentale.

La valutazione del rischio suicidario è la fotografia di quel momento di vita, può essere una finestra temporale più o meno ampia e molti dei sopravvissuti hanno, dopo, una vita piena. Il Prof. Pompili evidenzia spesso, nei suoi interventi congressuali, come tale valutazione, effettuata a scopo di prevenzione, sia di fatto una previsione scientifica: “se prevedo che piova è il caso che mi porti l’ombrello”. In quanto tale, per poterla davvero attuare, da un punto di vista terapeutico, la sensibilità clinica ed umana dello psichiatra e della psicoterapeuta, sono necessarie ma non sufficienti. E’ indispensabile una specifica formazione, effettuata con lo scopo di acquisire le competenze necessarie alla valutazione del rischio, prima di tutto, poiché moltissimi fattori, nell’interagire fra di loro, possono avere un’influenza e costituire dei segnali di allarme (Pompili e Girardi, 2015). Per valutare se è il caso di portare l’ombrello occorre avere nella nostra cassetta degli attrezzi gli strumenti necessari per la valutazione del rischio perché solo così possiamo tentare di essere efficaci senza allarmarci a nostra volta.

Fra i fattori che dobbiamo valutare, nell’assessment del rischio suicidario, vi sono quelli demografici (ad esempio, sesso, età, stato civile), quelli distali, psichiatrici (ad esempio storia di familiarità al suicidio, abuso di sostanze, abusi fisici o sessuali), la storia personale, fattori di rischio prossimali (ad esempio eventi di vita stressanti, ricadute di malattia), la facilità con cui si può entrare in contatto con mezzi potenzialmente letali, nonché fattori di vulnerabilità cognitiva (Wenzel, Brown & Beck, 2009).

Siamo di fronte ad un livello di complessità piuttosto importante ed ognuno di questi fattori interagisce con l’altro nel determinare i vissuti dei nostri pazienti. Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, il gruppo di A.T. Beck si sofferma in particolar modo sulla valutazione dei costrutti di mancanza di speranza (hopelessness), tolleranza alla frustrazione, focalizzazione della funzione attentiva, impulsività e perfezionismo. In particolare, il ruolo dell’hopelessness in relazione al rischio suicidario è stato oggetto di approfondimento ed il gruppo di studio di A. Beck ha validato una scala di misurazione, la Beck Hopelessness Scale (BHS) (Beck, 1988; Beck & Steer 1993; Beck, Weissman, Lester  & Trexler; 1974). L’hopelessness, in questo senso, si riferisce a schemi cognitivi caratterizzati da aspettative negative nei confronti del futuro, terza componente della triade cognitiva di Beck (1967), concettualizzata nel modello cognitivo della depressione.

Nello specifico, la terapia cognitiva per la prevenzione del suicidio (Wenzel, Brown & Beck, 2009) prevede tre fasi sequenziali. La prima fase riguarda la valutazione del rischio, la gerarchizzazione del progetto terapeutico e la condivisione di un piano di sicurezza per fronteggiare la crisi e regolare il piano emotivo. La seconda fase riguarda l’identificazione dei pensieri disfunzionali e le valutazioni autoriferite dal paziente, i quali sottendono allo stato emotivo e, di conseguenza, all’ideazione suicidaria, mentre la terza ed ultima fase di psicoterapia si occupa di prevenire le ricadute consolidando le competenze acquisite e costruendone di nuove per poter poi fronteggiare in futuro situazioni stressanti con modalità maggiormente adattive.

Raccogliendo il testimone nel sensibilizzare e, soprattutto, nel tentare di iniziare un dialogo ed una formazione di base sull’argomento, la Scuola Cognitiva di Firenze ha organizzato un Convegno, in materia di prevenzione del suicidio, per il prossimo mese di Aprile, il quale, per i motivi che accomunano in questo momento la vita di ciascuno di noi, è rinviato in data da destinarsi. Potrebbe essere però questa l’occasione, anche partendo dalla bibliografia di riferimento, per iniziare ad approfondire questo delicatissimo argomento nonché aspetto essenziale del nostro lavoro di clinici.

 

Aspetti psicologici e esperienze di cura nella maternità omogenitoriale delle donne lesbiche con l’utilizzo delle nuove tecnologie riproduttive

Gli studi condotti sulla omogenitorialità si sono focalizzati principalmente sulle abilità genitoriali e il benessere psicologico dei bambini (APA, 2005; Short et al., 2007). Ciò su cui invece si è poco discusso, sebbene ci sia stato un aumento degli studi che si concentrano sulla popolazione LGBTQ, è la comunità lesbica, che rimane abbastanza invisibile nella ricerca, soprattutto rispetto alla popolazione maschile gay (Marques et al., 2015) e del processo per diventare madri per le donne omosessuali (Chapman et al., 2012).

Jessica Anselmi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi,San Benedetto del Tronto

 

Per quanto riguarda le donne lesbiche e i loro partner, il processo per diventare ‘madri’ è un viaggio complesso che evidenzia anche idee che sarebbero da mettere in pratica per effettuare delle modifiche al sistema sanitario, necessarie per sostenere e curare al meglio le donne lesbiche mentre pianificano la maternità, sperimentano la gravidanza e diventano genitori (Gregg, 2018).

La messa al mondo di un figlio è sempre stata considerata l’esito di un rapporto sessuale, considerato unica condizione necessaria per la procreazione e le categorie di omosessualità e di famiglia sono sempre state considerate come incompatibili fra loro. Fino a poco tempo fa le persone omosessuali che volevano diventare genitori si sposavano, ma attraverso un matrimonio eterosessuale, in quanto era l’unica strada possibile. Il progresso scientifico, ma anche politico e sociale, ha aperto nuove strade, alle persone lesbiche e gay per diventare genitori. Vi sono però alcuni fattori che possono influire sulle decisioni delle minoranze, sul se e come diventare genitori; ma ci sono anche alcune caratteristiche e difficoltà associate alle principali vie da seguire per diventare genitori come la fecondazione alternativa e l’inseminazione artificiale, l’adozione e la maternità surrogata (Goldberg, 2015). In questo articolo ci occuperemo principalmente delle prime alternative sopra citate.

Uno degli ostacoli più importanti che devono affrontare le persone omosessuali quando considerano di diventare genitori è l’omofobia interiorizzata (Gianino, 2008).

Vivendo e crescendo in una società eterosessista, le minoranze sessuali spesso interiorizzano una serie di idee, quali ad esempio l’idea che l’omosessualità sia contro natura o che lesbiche e gay non siano adatti a fare i genitori, differentemente dalle persone eterosessuali, o ancora che ogni bambino necessiti di una madre e di un padre (idee disconfermate da diversi studi e ricerche).

Un altro ostacolo è sicuramente la collocazione geografica e la mancanza di risorse: coloro i quali hanno residenza in zone rurali, distanti dalle grandi aeree metropolitane, o particolarmente conservatrici, non godono di un rapido accesso a una comunità gay visibile e affermata (Osward e Culton, 2003) e possono incontrare difficoltà a trovare risorse rivolte in modo specifico ai genitori omosessuali. Inoltre, la posizione geografica in cui vivono può essere un ostacolo alla genitorialità condivisa, a cause delle leggi sulle adozioni.

Bisogna anche ricordare che sono persone che lottano spesso con la mancanza di supporto dalle loro famiglie e che vengono maggiormente riconosciute dai propri familiari se la scelta di diventare genitore avviene attraverso la fecondazione assistita piuttosto che attraverso l’adozione, in quanto viene riconosciuto un legame biogenetico.

Le persone omosessuali hanno per fortuna la possibilità di incontrare quelli che Goldberg (2010) definisce punti di svolta, ovvero persone omosessuali che hanno sperimentato la genitorialità, entrare in contatto con i figli di altre persone, un aumento di consapevolezza del desiderio di diventare genitori, e l’incontro con il partner giusto.

Una volta deciso che il viaggio verso la genitorialità può essere intrapreso e la scelta si orienta verso la fecondazione assistita e l’inseminazione artificiale, gli aspetti da considerare sono diversi. Innanzitutto nella coppia inizia il negoziato su chi avrà il ruolo di genitore biologico, quindi chi verrà fecondato. Questa decisione di solito è influenzata dall’età, dal desiderio di provare la gravidanza, dalla posizione e sicurezza lavorativa e dalla salute riproduttiva (Bos et al., 2003, 2004; Renaud, 2007). Molte donne esprimono il desiderio di un legame genetico con i loro figli ed è questa la ragione principale che le porta a perseguire la maternità biologica invece di considerare l’adozione (Goldberg & Scheib, 2015). Quando entrambe le donne della coppia sono le giuste candidate per la fecondazione, il processo decisionale risulta più difficile e le coppie tendono a discutere e a negoziare più a lungo sulla scelta. Da uno studio su 95 coppie lesbiche belghe che si erano rivolte ai servizi, nel 14% dei casi quest’ultime volevano restare incinta entrambe mentre nel 86% soltanto una (Baetens, Camus e Devroey, 2002). Nei casi in cui entrambe le partner della coppia vogliano provare la maternità, di solito si decide che la prima a provare sia la più anziana.

La coppia è anche implicata nel processo di scelta dello sperma del donatore. La decisione innanzitutto è legata alla questione del donatore: se debba essere conosciuto o sconosciuto. Goldberg (2006) ha condotto uno studio su un gruppo di donne lesbiche incinte, riscontrando che nel 59% dei casi la loro scelta era ricaduta su un donatore sconosciuto, per il 31% su un donatore conosciuto e per il restante 10% su un donatore detto ‘ID realease o yes’, ovvero una persona che poteva essere contattata al raggiungimento dei 18 anni da parte del bambino. Emerge come di solito la scelta di un donatore sconosciuto veniva fatta per evitare problemi legali, per far sì che il donatore non esercitasse il suo diritto alla paternità. Questa scelta è spesso voluta dalle madri non biologiche per evitare di sentire minacciato il proprio ruolo di cogenitore mentre altre volte avviene perché non si hanno amici o confidenti che possano rivestire il ruolo di donatore. La scelta invece ricade su un donatore conosciuto quando si vuole che il figlio sappia chi è il padre biologico e possa anche avere contatti con lui; altre volte per avere maggiore controllo sul processo di fecondazione o per evitare di interagire con istituzioni eterosessite; altre per ragioni di salute, qualora ne avessero bisogno, soprattutto nei casi di fattori di rischio genetico. Altre volte la scelta ricade su un donatore conosciuto ma gay perché si pensa che possa essere un modello maschile migliore di uno eterosessuale, per una funzione di ‘liberazione dai ruoli’, altre perché si pensa che altrimenti i propri amici gay non avrebbero la possibilità di sperimentarsi come genitori (Goldberg, 2015).

Le coppie lesbiche devono anche decidere quali devono essere le caratteristiche del donatore, così come avviene per le coppie eterosessuali. La scelta in questo caso ricade su una somiglianza fisica tra il donatore e la madre non biologica, per facilitare la riproduzione ‘della loro immagine’. Si cercano donatori con il colore dei capelli e degli occhi simili alla madre non biologica, ma anche per etnia e talvolta per orientamento religioso; vengono considerate anche la storia clinica, l’istruzione, l’intelligenza, il talento e gli interessi del donatore (Goldberg, 2015). Inoltre, la maggior parte delle coppie lesbiche, come si accennava sopra, sperimenta oneri finanziari associati al processo di inseminazione e alcune, anche se meno negli ultimi tempi, difficoltà nell’accesso ai servizi di inseminazione (McManus et al., 2005; Renaud, 2007).

I costi della fecondazione assistita sono notevoli e possono variare da centinaia a molte migliaia di dollari o euro e dipende dagli interventi necessari affinché la gravidanza si verifichi. La copertura assicurativa per i trattamenti di fertilità varia ampiamente, anche per le coppie eterosessuali. Quindi, per affrontare questa scelta, le madri devono essere economicamente stabili (anche prospere) in modo da finanziare il costoso processo per mettere al mondo una nuova vita e costruire una famiglia (Goldberg e Scheib, 2015, p. 726).

Un altro punto da affrontare sono sicuramente gli stigmi all’interno del sistema sanitario. In tutti gli studi esaminati, i ricercatori hanno riferito che le donne lesbiche in cerca di assistenza per la fecondazione assistita hanno sperimentato una certa dose di eteronormatività o omofobia durante gli incontri con il personale sanitario. Hayman et al. (2013) hanno riconosciuto quattro tipi di omofobia overt e covert sperimentati dai loro partecipanti, tra cui esclusione, assunzione eterosessista, domande inappropriate e rifiuto da parte dei servizi. Una forma di esclusione viene vista nell’incidenza di esclusione eteronormativa, in cui vengono escluse le madri non biologiche dalle cure a causa del loro genere (Malmquist & Nelson, 2014). Esempi di ciò sono dati dal fatto che il personale sanitario spesso chiede informazioni sul padre e nel mentre si riferisce alla partner della madre biologica come a sua sorella o un’amica e viene vietato alla madre non biologica l’accesso alla stanza di ricovero (nonostante ai partner maschi sia permesso in quanto visti come persone di sostegno per le neo mamme). Queste situazioni hanno portato a sentimenti di delegittimazione come genitore per le madri non biologiche (Chapman et al., 2012; Hayman et al., 2013). Le partecipanti agli studi hanno riferito che questa mancanza di competenza culturale e sociale da parte del professionista le faceva sentire imbarazzate o ‘scomode’; ciò provocava un particolare vissuto emotivo per le madri non biologiche, che spesso si sentivano come se dovessero combattere per essere viste come i reali genitori (Wojnar e Katzenmeyer, 2014). Tuttavia, in molti casi, le persone che hanno prestato assistenza sono state rispettose e comprensive, nonostante i sistemi eteronormativi (Malmquist e Nelson, 2014). Diversi studi fanno riferimento a come il personale sanitario faccia delle domande che vengono percepite come eccessivamente inquisitrici sull’orientamento sessuale e non collegate alla cura. Sebbene queste domande siano giudicate come non intenzionalmente dannose e dettate dalla sincera curiosità piuttosto che dalla malizia, le partecipanti hanno riferito di sentirsi a disagio a causa delle stesse. Röndahl et al. (2009) affermano che il personale sanitario che aveva prestato assistenza alla maternità delle madri lesbiche e che era stato ben informato sui problemi LGBTQ, trattava tali madri in modo più neutrale e forniva un senso di sicurezza alle stesse. Tuttavia, gli autori affermano che anche quando le partecipanti hanno esperienze positive delle cure, loro credono che ci sia lo stesso un ‘eccesso di attenzione al loro orientamento sessuale’ (Röndahl et al., 2009).

Infine, alcune donne hanno sperimentato l’omofobia venendo rifiutate dai servizi. Una coppia ha denunciato il rifiuto da parte di due ospedali che avevano affermato che per loro ‘non era etico assistere una donna single in quanto le coppie dello stesso sesso non vengono riconosciute come una coppia’ (Hayman et al., 2013). Un’altra partecipante ha riferito che le sue ostetriche non erano d’aiuto nell’educazione all’allattamento al seno o all’assistenza postpartum (ad esempio nella pulizia del perineo), perché le ostetriche erano ‘riluttanti a impegnarsi in aree intime del corpo [della partecipante] a causa del suo orientamento sessuale’ (Lee, Taylor, & Raitt, 2011). Più autori hanno notato la necessità di migliorare l’assistenza sanitaria affinché sia più competente, sensibile e priva di discriminazioni. Lee et al. (2011) hanno riconosciuto che la gravidanza è un periodo in cui si ricerca fiducia nella relazione con il personale sanitario in quanto fondamentale. Molte partecipanti hanno espresso il desiderio che la maternità sia vissuta in egual maniera alle coppie eterosessuali, ma anche su misura per le loro esigenze specifiche (Malmquist & Nelson, 2014). In definitiva, la cura fornita deve essere centrata sulla donna, indipendentemente dalla donna coinvolta (Lee et al., 2011)

In Italia la situazione è ben diversa: possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali) e possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali, nonostante esistano le unioni civili). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino.

Le ricerche condotte sull’esperienza delle donne lesbiche che diventano madri, sono state effettuate solo in alcuni paesi selezionati (tra cui Norvegia, Svezia, Regno Unito, Australia, Portogallo e Stati Uniti). I risultati potrebbero quindi non essere generalizzabili ad altre aree del mondo, come in altri paesi che sono simili in termini di politiche liberali, giustizia sociale e status di sviluppo economico. Inoltre, a causa della natura invisibile della popolazione, i campioni di studio utilizzati sono stati trovati principalmente utilizzando metodi a palla di neve o passaparola. Di conseguenza, i campioni non sono casuali e non sono generalizzabili.

A causa dei limiti e delle difficoltà sopra descritte, le ricerche che hanno esaminato la transizione all’esperienza della genitorialità nelle coppie di lesbiche e gay sono pochissime e quelle che vi sono risentono di molti limiti. Ad esempio non vi sono ricerche sulla transizione alla genitorialità nelle persone bisessuali o transgender e le ricerche si sono focalizzate in gran parte sulle esperienze di coppie bianche lesbiche, relativamente benestanti, che hanno fatto ricorso all’inseminazione. Quindi non vi sono dati esaustivi sul vissuto psicologico nel passaggio alla genitorialità per le coppie lesbiche.

Gartrell e colleghi (1996) sono fra i pochi ad aver condotto uno studio longitudinale sulla transizione alla genitorialità nelle coppie lesbiche. Le madri, prevalentemente donne bianche e di ceto medio, sono state dapprima intervistate nella fase dell’inseminazione o della gravidanza (per la maggior parte era la prima gravidanza) e in questa fase circa il 78% delle donne si aspettava che almeno alcuni parenti avrebbero accettato il bambino. Questo dato è stato confermato dopo la nascita dei figli, in quanto la maggior parte delle stesse si sentiva sostenuta e anzi la nascita del figlio aveva anche portato ad una maggiore vicinanza familiare, dato quest’ultimo riscontrato soprattutto dalle madri biologiche, rispetto alle madri non biologiche.

È stato notato anche come la transizione alla genitorialità mettesse in moto dei cambiamenti anche nella struttura amicale. Sempre Gartrell e colleghi (1996), intervistando le stesse madri, affermarono che il 38% delle stesse considerava i propri amici come una famiglia allargata, ma il 25% riteneva invece di aver perso alcuni amici intimi, soprattutto donne senza figli. È pur vero che tendenzialmente sono gli stessi genitori omosessuali a dichiarare di avere più affinità con gli altri genitori eterosessuali che non con molti dei loro amici gay senza figli. Un altro aspetto che può mutare con la transizione alla genitorialità è la suddivisione del lavoro. Nelle coppie eterosessuali ciò viene tendenzialmente determinato dal genere e quindi dalla classica suddivisione dei ruoli, nelle coppie di donne lesbiche può avvenire la stessa cosa, non sulla base del genere, ma sulla base di chi porta avanti la gravidanza: quest’ultima si dedica al lavoro non retribuito in famiglia, mentre la seconda al lavoro retribuito. Questa differenziazione può però essere vissuta difficilmente da quelle coppie che danno molta importanza all’uguaglianza e alla parità di potere nelle loro relazioni. In generale, le madri non biologiche cercano di dedicare lo stesso buona parte del loro tempo alla cura del figlio (riservandosi il momento della nutrizione e del bagnetto), anche per rimediare alla differenza biologica e alla mancanza di quel legame che si viene ad instaurare durante l’allattamento al seno, proprio perché alcune di loro riferiscono di provare sentimenti di gelosia e di esclusione (Gartrell et al.,1999).

Goldberg e Sayer (2006), nel loro studio sulla transizione alla genitorialità nel quale veniva esaminata la relazione delle coppie lesbiche ricorse all’inseminazione, hanno scoperto che, un po’ come avviene per le coppie eterosessuali, emergono difficoltà e aumenta la frequenza dei conflitti (Goldberg, 2015). In particolare le donne che avevano una personalità nevrotica, tendevano ad avere un peggioramento, deteriorando la qualità della relazione. Le madri non biologiche, invece, sentivano di avere poco sostegno da parte della famiglia della partner, quindi della madre biologica, e a volte anche una certa invadenza, quasi come a volerle escludere dal ruolo genitoriale.

In un altro studio (Goldberg e Smith, 2008), avvenuto in tre rilevazioni temporali (nell’ultimo trimestre della gravidanza, tre mesi dopo la nascita del bambino e tre anni dopo), gli autori hanno cercato di stabilire se il temperamento del bambino, la qualità della relazione, la suddivisione del lavoro e il sostegno extra-familiare fossero correlati all’andamento dell’ansia sia nelle madri biologiche che in quelle non biologiche. Ciò che si è scoperto è che mediamente l’ansia tendeva ad aumentare in tutte le madri, ma specialmente in quelle biologiche, durante il periodo di transizione, e si avvicinava al livello clinico ai tre anni dalla nascita. Questo dato non era però associabile a nessuno dei fattori presi in considerazione. Invece, per quanto riguarda le madri non biologiche, quelle che sperimentavano un maggior incremento di ansia erano coloro che, prima della nascita, percepivano livelli elevati di supporto sociale esterno di tipo strumentale (persone che potevano accudire il bambino) e quelle che, dopo la nascita del bambino, giudicavano difficile il temperamento dello stesso. Probabilmente questo è dovuto al fatto che sono coloro che passano più tempo fuori casa per lavoro e quindi percepiscono più forte il bisogno di persone che possano aiutarle o che possano avere un’influenza in un loro minore coinvolgimento nella cura dei figli. Inoltre, partecipando meno alla cura dei figli, è possibile che siano più sensibili ai loro comportamenti negativi e ne risentano maggiormente.

 

Whatsapp e benessere organizzativo

La rivoluzione digitale ha prodotto strumenti di comunicazione sempre più sofisticati che hanno portato alla transizione dai media tradizionali ai nuovi media, come Whatsapp. Quali sono le implicazioni di questo passaggio? Com’è cambiato il modo di comunicare?

 

La Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2014) ha rivoluzionato il nostro modo di “guardare” all’esperienza umana, puntando al benessere individuale e collettivo. Una delle aree che, dopo la Rivoluzione Digitale, ha diviso le opinioni degli studiosi in Apocalittici e Integrati (Eco, 2011), è la comunicazione di massa.

In effetti, l’evoluzione di queste tecnologie ha prodotto strumenti di comunicazione sempre più sofisticati che hanno permesso la transizione dai media tradizionali, come la radio e la televisione, ai nuovi media, che includono la messaggistica. Ma anche la messaggistica ha subito grandi trasformazioni perché, da modalità asincrona, dove non c’è la stessa disponibilità spazio-temporale degli interlocutori, è approdata alla modalità sincrona, dove è possibile, non solo, conoscere la disponibilità del destinatario (online / offline), ma anche sapere se l’interlocutore ha ricevuto e letto il messaggio. Ciò che cambia è anche il modo di comunicare. Nel sistema dei messaggi brevi (SMS), una modalità di comunicazione asincrona, l’attenzione è sempre stata posta sulla brevità, grazie all’uso di acronimi, soprattutto perché si trattava di servizi a pagamento. Il fatto di rendere sempre più “mobile” i servizi Internet, ha permesso il libero accesso e il superamento delle barriere spazio-temporali, favorendo il passaggio alla messaggistica sincrona, che ha radicalmente trasformato le pratiche di comunicazione in diversi contesti, imitando sempre più la comunicazione faccia a faccia, soprattutto per la sua caratteristica di “istantaneità”.

Ovviamente, questi nuovi mezzi basati sull’istantaneità hanno creato nuove pratiche di significazione per rendere l’individuo capace di migliorare il benessere individuale e sociale. Inoltre, questi nuovi modi di interagire hanno avuto un impatto sulla società soprattutto con l’emergere di generazioni di “Nativi Digitali” (Prensky, 2001), ovvero coloro che sono in grado di utilizzare intuitivamente la tecnologia e, quindi, di usufruire dei dispositivi tecnologici per creare nuovi significati all’interno di diversi settori, compreso quello di lavoro. Il contesto professionale sfrutta sempre più le nuove tecnologie, che accrescono o velocizzano la messa in atto di competenze tecniche e trasversali. In particolare, nelle situazioni lavorative in cui è necessario prendersi cura degli altri, come avviene nelle professioni sanitarie e nelle relazioni d’aiuto, i nuovi media fungono da facilitatori di processi che portano ad una condivisione delle responsabilità legate alle competenze specifiche che, dal singolo lavoratore, sono co-gestite e organizzate all’interno di tutto il team. Uno dei più famosi strumenti di messaggistica istantanea (IM) e che ha anche pervaso la sfera di lavoro è Whatsapp. Ma cosa è cambiato da quando Whatsapp è entrato a far parte delle vite professionali?

Innanzitutto, Whatsapp è un’applicazione di messaggistica istantanea gratuita, creata nel 2009 da due informatici americani, Jan Koum e Brian Acton, ex dipendenti di Yahoo!, successivamente acquistata da Zuckerberg, creatore di Facebook. Il nome deriva dalla fusione dell’espressione inglese “What’s up?” (‘Cosa succede?’), e del termine “App” (‘Applicazione’). Il suo utilizzo consente di scambiare con contatti nell’elenco telefonico, oltre ai messaggi testuali ed emoticon, anche immagini, video e file audio e di condividere la posizione geografica tra chiunque lo abbia installato e su qualsiasi dispositivo (computer, smartphone, tablet…) che sia collegato a Internet (Acton & Koum, 2014). Whatsapp segna, infatti, un importante punto di svolta nella messaggistica perché ha permesso la transizione da una modalità asincrona di comunicazione, come nel caso di SMS o e-mail, ad una modalità sincrona dove è possibile prendere atto del fatto che il messaggio è stato ricevuto e letto dall’interlocutore, attraverso i cosiddetti “segni di spunta blu”. È anche possibile capire la disponibilità del destinatario, cioè il suo essere collegato o aver effettuato l’ultimo accesso in un certo periodo di tempo. Ma soprattutto, sulla base di questi criteri, è possibile creare gruppi di persone che comunicano contemporaneamente, come avviene in un gruppo di lavoro. I gruppi di lavoro online tramite chat Whatsapp hanno aspetti positivi e negativi. In effetti, è necessario considerare l’emergere di fenomeni sociali, come l’istituzione di sottogruppi che sviluppano modalità di comunicazione suburbane. La creazione di un ingroup e di un outgroup online, cioè questo contrasto tra “noi” e “loro”, emerge nel caso di gruppi che presentano elementi che sono, potenzialmente, una fonte di divisione. Anche le regole implicite non scritte possono essere fonte di difficoltà (Wallace, 2015). L’emergere di malintesi può anche dipendere dalla sovrapposizione di turni di parola, che potrebbe ostacolare il raggiungimento di un obiettivo. Per evitare la sovrapposizione di questa polifonia di voci, infatti, è stata aggiunta una funzione con la quale, nel gruppo, è possibile scegliere il singolo messaggio a cui rispondere.

Dai risultati emersi da uno studio sull’importanza dei gruppi Whatsapp nelle professioni sanitarie (Papapicco, 2019), risulta che il gruppo di lavoro online estingue il rapporto gerarchico, tipico delle realtà organizzative faccia a faccia molto strutturate e facilita la gestione delle emergenze organizzative, distribuendo il carico su tutti i membri del team e non solo sulla persona in turno. Si accelera, così, il processo decisionale, ma adottando modelli di comunicazione centralizzata anche nell’ambiente online. In ogni caso, Whatsapp risulta essere uno strumento “positiva-mente” utile per migliorare il benessere organizzativo, soprattutto nelle professioni sanitarie, maggiormente esposte a problemitiche lavorative, come il burnout.

 

Orgasmo femminile: tempo medio per raggiungerlo e variabili di influenza

L’orgasmo femminile è un fenomeno complesso, sopratutto quando si cercano di analizzare le variabili connesse al tempo per raggiungerlo. Quanto aspetti come l’età, la durata della relazione e la posizione durante il rapporto possono influenzare la latenza orgasmica?

 

L’orgasmo femminile è uno degli argomenti meno compresi e più controversi fino ad oggi; infatti, nonostante la presenza di diversi studi in letteratura, il problema non è mai stato affrontato in modo completo a causa della sua complessità. Nel 2003 un gruppo di esperti ha definito l’orgasmo nelle donne come: una sensazione variabile e transitoria di intenso piacere che crea uno stato di coscienza alterato, accompagnato da contrazioni involontarie e ritmiche della muscolatura pelvica, con induzione di benessere e appagamento. Altre definizioni usate in questo studio sono quella di eccitazione sessuale e TitOr. L’eccitazione sessuale è un intenso desiderio di attività sessuale in presenza di stimoli erotici, forniti dal partner, audiovisivi o entrambi; il TitOr è il tempo impiegato, in secondi o minuti, per raggiungere l’orgasmo (misurato con il cronometro) dopo un’eccitazione sessuale adeguata. Infine, è bene sottolineare che nell’uomo l’orgasmo coincide con l’eiaculazione che è clinicamente evidente; nelle donne, invece, l’orgasmo non sempre è clinicamente evidente.

L’obiettivo del presente studio era misurare il tempo medio per raggiungere l’orgasmo (TitOr) durante un rapporto sessuale, in un campione costituito da donne eterosessuali di almeno 18 anni e coinvolte in una relazione monogama stabile. Inoltre, sono stati valutati anche l’effetto dell’età, della durata della relazione, della posizione durante il rapporto sessuale e ulteriori attività non penetrative sul TitOr. I partecipanti furono reclutati compilando un questionario online e il campione finale era costituito da 645 donne; le interviste ai soggetti avvenivano sia face-to-face che tramite piattaforme e interviste online.

Ai partecipanti è stato chiesto di mantenere un diario sulla propria attività sessuale, inserendo i dettagli sulla presenza/assenza dell’orgasmo e di misurarne il tempo, per un periodo di 8 settimane. In generale, il cronometro è stato attivato nello smartphone del soggetto nel momento in cui ritiene di essere sufficientemente eccitato per il rapporto sessuale e viene fermato al raggiungimento dell’orgasmo e registrato con uno screenshot. I dettagli venivano riferiti nel colloquio personale.

Dai risultati si evince che il 17% dei partecipanti non ha mai sperimentato un orgasmo, il 31% ha riferito di aver raggiunto l’orgasmo con la penetrazione, mentre il 68% ha riferito di aver bisogno di ulteriori attività per raggiungere l’orgasmo. La posizione durante l’attività sessuale sembra influire sul raggiungimento dell’orgasmo. Il tempo medio per raggiungere l’orgasmo era di 13 minuti e mezzo.

I fattori mentali e relazionali, come la stabilità e la durata della relazione, nonché la comunicazione interpersonale, sembrano influenzare notevolmente la latenza orgasmica. Inoltre, è stato dimostrato che il tempo impiegato da una donna per raggiungere l’orgasmo nell’attività masturbatoria è minore, comparato a quello impiegato per raggiungere l’orgasmo nel rapporto sessuale; e anche il raggiungimento dell’orgasmo in sé sembra essere più frequente. Altri fattori che influenzano la latenza orgasmica sono l’immagine di sé e del proprio corpo, esperienze passate, l’attrazione fisica nei confronti del proprio partner e atteggiamento nei confronti del sesso. Anche l’anatomia degli organi genitali femminili influenza il TitOr in una donna.

La latenza dell’orgasmo in entrambi i sessi è una questione di dibattito e costituisce un punto importante da considerare quando il medico affronta la disfunzione sessuale in entrambi i sessi. Pertanto, le implicazioni cliniche del presente studio riguardano un supporto nella definizione, nella comprensione e nel trattamento della funzione e disfunzione sessuale nelle donne, ma anche la pianificazione di un possibile intervento per la disfunzione eiaculatoria maschile che si può manifestare nelle coppie in cui le donne non sono riuscite a raggiungere l’orgasmo durante il rapporto sessuale.

Un limite importante di questo studio è rappresentato dalla possibilità di verificare la veridicità delle informazioni, al di fuori dello screenshot; al contrario, un fondamentale punto di forza è la possibilità di cronometrare il TitOr in un contesto di vita reale e la multiculturalità del campione; infine, i risultati di questo studio potrebbero costituire la base per ricerche future sulle funzioni e disfunzioni sessuali.

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