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La trasformazione di Sansa Stark – La LIBET nelle narrazioni

Nel momento in cui Sansa Stark ottiene potere e riconoscimento tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste alla sua evoluzione finale: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 13) Sansa Stark

 

Attenzione: l’articolo può contenere spoiler!

Il personaggio di Sansa Stark è, probabilmente, uno dei personaggi che ha mostrato un percorso di cambiamento più forte all’interno delle 8 stagioni di Game of Thrones. Dapprima, infatti, Sansa appare come una giovane ragazza che sogna di essere data in sposa al principe Joffrey, così come nelle favole che la madre le raccontava quando era piccola. Per poter diventare una lady, a Sansa viene chiesto di essere sempre bella e posata, senza immischiarsi nelle vicende considerate da uomini: il suo aspetto è sempre curato, i suoi modi sempre educati e si dedica al cucito.

La realizzazione e la validazione da parte dei genitori sembrerebbero secondarie ad una condizione: “Sarai riconosciuta solo se sarai una regina”.

Per poter rispondere a questa condizione, Sansa adotta una strategia di Metacontrollo molto strutturata per la protezione dal tema, che potrebbe essere quello di indegnità. Il piano, prescrittivo, per riuscire a ottenere considerazione pare quello di conformarsi allo stereotipo della Lady nobildonna, controllandosi nei comportamenti e negli atteggiamenti, senza mai contraddire il principe.

Quello che la attende nel corso delle successive stagioni, tuttavia, invaliderà più volte il suo piano.

Quando Joffrey, suo promesso sposo ed erede al trono, arriva a Winterfell, Sansa è subito preoccupata di non essere abbastanza bella per lui. Durante uno scambio con sua madre, dimostra quanto sia importante per lei diventare sposa di Joffrey, tanto da non considerare il lasciare la sua famiglia e la sua terra di origine, un deterrente per la realizzazione del suo sogno. Ma è in un evento chiave successivo che Sansa dimostra quanto il bisogno di sposare il principe e diventare regina sia per lei importante. Joffrey, infatti, dimostra subito il suo lato violento intimidendo con la sua spada il figlio di un macellaio e quando Arya, la sorella di Sansa, interviene per difenderlo, il principe le punta la spada al collo. È solo grazie all’intervento del metalupo Nimeria, che azzanna il principe al braccio, se Arya rimane illesa. Arya viene accusata da Joffrey di averlo attaccato senza motivo ed è qui che Sansa prende le parti del principe e non della sorella, arrivando a sacrificare come gesto di scuse il suo metalupo.

Da questo momento, tuttavia, si susseguono alcune invalidazioni al piano. Joffrey si rivela, infatti, sempre più violento, manipolativo e sempre meno interessato a Sansa, tanto che prenderà in sposa l’erede di una diversa casata. A Sansa toccherà in sposo lo zio di Joffrey, Tyrion Lannister, detto “il folletto” in quanto affetto da nanismo. Tyrion continua a sua volta a fornire una immagine diversa dal principe idealizzato di Sansa: nonostante non abbia le caratteristiche canoniche del principe (bell’aspetto, cura di sé, rispetto, potere ecc.) si rivela essere gentile con lei, tanto da non consumare il matrimonio. Stesso ruolo ha nello stesso periodo anche il Mastino, il quale la difende prima da Joffrey e poi la salva da un possibile stupro durante alcune sommosse. Questi incontri costituiscono delle prime invalidazioni del piano prescrittivo, ma non sembrano sufficienti ad una sua modifica.

La successiva e probabilmente invalidazione chiave per Sansa è il matrimonio con Ramsay Bolton, figlio illegittimo di Roose Bolton, il quale riconquista Grande Inverno, terra natia di Sansa. Questi si dimostra addirittura più feroce di Joffrey, dando spesso in pasto ai propri cani i suoi nemici e stuprando Sansa la prima notte di nozze. Tuttavia in questo momento sembra esserci una trasformazione. Sansa, infatti, convince Ramsay della pericolosità del nuovo nascituro di suo padre, inducendolo a pugnalare il padre e dare in pasto ai cani la matrigna e il nuovo genito. In seguito, riesce a fuggire e a ricongiungersi con il fratello Jon Snow, con il quale riconquisterà Grande Inverno spodestando i Bolton. Sarà lei stessa, poi, a dare Ramsay in pasto ai suoi cani.

Sembra, dunque, che sebbene il piano resti prescrittivo, il rispetto e il prestigio non siano più ottenibili per Sansa solo tramite il matrimonio ma tramite l’ottenimento di potere esercitando un controllo estremo, un “pugno di ferro”. Nei successivi avvenimenti, infatti, Sansa viene eletta Lady di Grande Inverno, meritandosi la stima di tutti gli alleati della casata Stark.

Continuando a ottenere potere e riconoscimento, non per quei comportamenti definiti in ambito familiare come importanti per essere date in mogli ad un principe, ma tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste all’evoluzione finale di Sansa: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

Colloquio immaginario

Sansa arriva al castello dei Lannister convinta di essere data in sposa al suo principe azzurro Joffrey.

Accede in terapia per umore depresso. Si è nel momento di invalidazione del piano prescrittivo alla cui base sta: “Se sarò una lady, allora avrò il mio principe azzurro”. Fino ad ora Sansa si è infatti comportata secondo gli insegnamenti della madre, è sempre curata nel suo aspetto e nei suoi modi, come si addice ad una nobildonna. Comportamenti come quello della sorella Arya, la quale preferisce alla mondanità lezioni di duello, vengono scoraggiati indicandola spesso come un maschiaccio.

Quando Sansa viene finalmente promessa in sposa al primogenito della casata reale Lannister, il suo sogno sembra avverarsi. Il piano è talmente forte e il bisogno di difendersi dal tema di indegnità è così prevalente da farle sacrificare il suo metalupo a seguito di un litigio tra Arya e Joffrey, durante il quale Sansa si schiera dalla parte di quest’ultimo. Sacrificherà nuovamente una parte della sua famiglia, quando re Joffrey farà decapitare il padre.

Nonostante questi avvenimenti, tuttavia, Sansa resta al palazzo reale nella speranza di vivere la sua favola con il principe Joffrey. A questo punto, però, la natura violenta dell’erede al trono della casata Lannister si riversa su Sansa stessa: dapprima la umilia di fronte a tutta la corte e, in seguito, passa alla violenza fisica facendola picchiare dalle guardie e minacciando ripetutamente di ferirla con una balestra.

T: Signorina Sansa lei mi ha detto che ultimamente sta provando una forte tristezza e un senso di impotenza, soprattutto legate alle sue aspettative nei confronti del principe Joffrey. È corretto?

S: Sì, è così. Mi aspettavo che una volta giunta ad Approdo del Re, sarei finalmente stata amata come le principesse dei racconti che mi faceva mia madre quando ero piccola. Avrei voluto vivere la mia favola. E invece mi ritrovo ad essere umiliata in pubblico e a subire le sue torture.

T: E’ comprensibile provare tristezza e frustrazione in una situazione di forte stress come quella che sta vivendo in questo momento. Specialmente visto che le sue figure più importanti e che potrebbero aiutarla in questo momento sono distanti. Tuttavia è positivo che lei abbia deciso di intraprendere un percorso di terapia; questo indica una forte volontà di cambiare le cose e di reagire a questa situazione, non crede?

S: Sì penso di sì…non so. Forse è come dicevamo l’altra volta: sono stanca di dover sempre dire di sì e di stare zitta. Devo essere sempre controllata in tutto. Ma mi sento come se non fossi libera di fare quello che voglio…di modificare le cose.

T: cambiare non è un processo semplice, occorrono tante energie e tanta forza per rimettere in gioco ciò che ci è stato insegnato quando eravamo piccoli e il nostro modo di comportarci. Si ricorda quando abbiamo parlato della Sansa “bambina” e di cosa le fosse stato insegnato?

S: Sì ricordo, che si è amati solo se ci si comporta come una principessa…

T: Esattamente. Comportarsi in questo modo, tuttavia, è stato utile e funzionale all’interno del suo contesto familiare. Ora però, mi corregga se sbaglio, mi sembra che le stia un po’ stretto.

S: Decisamente stretto. Ma non so cosa fare, ho sempre fatto così e mi aspettavo che sarei stata regina. Forse aveva ragione Cersei quando mi ha detto “Non amerai mai il re”… Forse dovrei fare come fa Arya.

T: Mi spieghi meglio.

S: E’ sempre stata la ribelle. Invece che farsi fare i capelli o di scegliere il vestito da indossare passava il tempo ad addestrarsi nella lotta o nel tiro con l’arco. Ormai è anche più brava dei nostri fratelli. L’ho sempre guardata dall’alto verso il basso per questo, ma forse ha fatto bene lei.

T: Mi faccia capire: in che senso ha fatto bene?

S: A fregarsene di cosa dicevano i miei genitori. Sono sempre stati troppo legati alle tradizioni, sempre a criticarci e pronti a puntare il dito quando sbagliavamo. Con me di meno, ma perché io sono sempre stata quella che faceva quello che dicevano. Arya invece ha avuto la forza di fare quello che le pareva. Forse a me manca questo, forse non sono abbastanza forte.

T: Mi pare che lei stia vivendo una situazione molto difficile tra la recente perdita di suo padre e del suo metalupo e ciò che sta affrontando con Joffrey. Ci sono momenti nella vita che ci mettono di fronte ad una sofferenza che è difficile da sopportare e da affrontare. Ma questo non ci rende persone deboli, anzi.

S: […]

T: Non è d’accordo?

S: Sì è solo che, non so… Vorrei che tutto si risolvesse da solo. Vorrei svegliarmi domani mattina ed essere la principessa che ho sempre desiderato essere.

T: Vede Sansa, questa è la strategia di comportamento che avevamo identificato le scorse volte: cerchiamo di controllarci aspettandoci che la situazione si risolva. Secondo lei in questo momento questa strategia sta funzionando?

S: Direi di no. È quello che mi sono ripetuta quando ho sacrificato Lady, il mio metalupo. E alla fine non è servito a nulla. Alla fine comunque sono finta qui, ad essere picchiata e umiliata da Joffrey.

T: Ecco vede: se questa strategia, come dicevamo prima, è servita alla Sansa bambina con la sua famiglia, è anche vero che al momento sembra avere dei costi troppo alti. E forse, mi corregga se sbaglio, questo suo senso di impotenza potrebbe derivare da qui. Ha imparato un modo di comportarsi che fino ad ora ha sempre funzionato ma adesso sta un po’ scricchiolando e lei si sta chiedendo, anche iniziando un percorso di terapia, come mai non funziona più.

S: Forse ho capito che l’idea che avevo di principessa non è poi quella reale. Voglio dire, di facciata ho ottenuto quello che volevo. Ma non mi sento felice. Ho sacrificato tutto per arrivare qui e ora non mi piace.

T: Ho capito. Allora le chiedo: secondo lei esiste un modo per cambiare la sua situazione attuale?

S: […] Non so, forse dovrei impormi. Ma non ci riesco. Alla fine sono venuta qui per questo no? Perché vorrei che lei mi dicesse cosa devo fare.

T: Sansa, io non posso dirle che cosa deve o non deve fare. Posso però aiutarla a capire se esiste una strategia o una modalità di comportamento differenti da quelle che abbiamo usato fino ad ora e vedere se questo può aiutarla a stare meglio. E’ d’accordo con me?

S: ok…

T: Molto bene. Proviamo allora a pensare ad una situazione in cui ha provato i sentimenti di tristezza e di impotenza di cui mi parla e proviamo a immaginare di imporci, come lo definisce lei.

S: Mi viene in mente subito quando ho preso le parti di Joffrey nel suo litigio con Arya. Avrei dovuto difenderla…del resto aveva ragione lei.

T: Ottimo, proviamo a pensare nello specifico come avrebbe voluto reagire.

S: Gli avrei detto che è un viziato, un idiota e lo avrei fatto sbranare dalla mia metalupa.

T: Certo, sono emozioni e parole forti, ma che sono comprensibili visto quello che le sta capitando. Proviamo però a ridimensionare e a cercare un altro modo che possa comunicare quello che proviamo senza però usare la violenza e passare così dalla parte del torto.

S: Beh, allora avrei potuto dire che Arya non aveva fatto nulla. Che era stato Joffrey a minacciare il figlio del macellaio e poi ad atterrare Arya. Nimeria l’ha solo difesa.

T: Proviamo a immedesimarci nel momento, cosa pensa proverebbe?

S: […]

T: Proviamo come l’altra volta a pensare a che informazioni ci trasmette il corpo. Chiudiamo gli occhi e focalizziamoci sulle sensazioni corporee. Cosa pensa proverebbe in quel momento a livello fisico?

S: Mi tremano le mani…Mi sento il cuore in gola…Avrei voglia di urlare penso

T: Molto bene Sansa, molto bene. Possiamo dare un’emozione a queste sensazioni?

S: Non so… In questo momento mi sembra così distante da cosa provo ora… Forse, felicità?

T: Ottimo, rimaniamo un attimo in quel momento e sentiamo quella emozione.

[…]

Quanto è forte da 1 a 10?

S: direi 6 o 7

T: Molto bene, signorina Sansa. Quindi abbiamo visto come da un lato le strategie che abbiamo utilizzato fino ad ora ci risultino poco efficienti in questo momento e ci diano emozioni negative, mentre dall’altro, immaginando di comportarci in maniera differente, abbiamo provato delle emozioni positive e forti. Lei stessa mi ha detto 6-7 su 10. Giusto?

S: Sì.

T: Mh. Allora direi che potremmo vedere qui insieme come riuscire ad utilizzare comportamenti e strategie nuove. Sarà un percorso che richiederà tempo ed energie, ma sono convinto che abbia le risorse per poterlo affrontare. Che ne dice, è d’accordo?

 

Effetti della “pillow talk” sulla soddisfazione relazionale e sulle risposte fisiologiche allo stress nelle coppie

Con pillow talk si definisce una comunicazione intima tra partner dopo l’attività sessuale. Che benefici può portare questa pratica a uomini e donne?

 

Con l’espressione “pillow talk” (letteralmente, “conversazione con il cuscino”) si intende la conversazione che avviene tra i partner in seguito all’attività sessuale (PSTI). Molte ricerche in letteratura dimostrano un’associazione positiva tra l’impegnarsi in una comunicazione verbale e non verbale (coccole, baci, discorsi intimi) dopo l’attività sessuale e il benessere relazionale e sessuale degli individui e della coppia.

Il riferimento in letteratura, utilizzato per estendere questa linea di ricerca, è l’AET. L’AET è una teoria neo-darwiniana che dimostra come l’”affectionate behavior” (letteralmente, comunicazione affettuosa), è essenziale per aiutare gli individui a sviluppare e mantenere legami di coppia e rafforzare la resilienza. Nello specifico, la comunicazione affettuosa è definita come la messa in atto o l’espressione di sentimenti di vicinanza, cura e affetto per un altro significativo (abbracciare, baciare, dire “ti amo”). Ricerche precedenti indicano che le persone si impegnano in discorsi intimi post-sesso in media per 12 minuti.

Il presente studio si propone di testare sperimentalmente se l’aumento della comunicazione post-sessuale tra partner influisce sulla soddisfazione relazionale delle coppie e sulle risposte fisiologiche allo stress, in particolare nel momento in cui si discute di un problema relazionale che induce al conflitto.

Nello specifico, le ipotesi testate sono:

  • I partner che raddoppiano la “pillow talk” durante un arco di tre settimane (condizione sperimentale) mostreranno una maggior soddisfazione della relazione;
  • La soddisfazione della relazione predice la reattività del cortisolo e le risposte fisiologiche allo stress, ossia i partner sessuali più soddisfatti della loro relazione sperimentano meno stress quando discutono di un problema relazionale difficile;
  • Le coppie assegnate al gruppo sperimentale sono meno stressate rispetto a quelle appartenenti al gruppo di controllo, che non hanno raddoppiato la loro “pillow talk”.

Il campione finale comprendeva 50 coppie eterosessuali, mediamente dell’età di 20 anni, impegnati in una relazione monogama di almeno tre mesi e un’attività sessuale settimanale. I partecipanti erano invitati a compilare un questionario relativo ad informazioni demografiche, funzionamento relazionale, attività sessuale, situazioni stressanti e conflittuali vissute nel mese precedente. Dopo tre settimane, i soggetti erano invitati ad una visita di laboratorio per la misura della reattività del cortisolo responsabile dello stress tramite un tampone orale, prima e dopo aver discusso con il proprio partner per un tempo di 5, 20 e 40 minuti su una problematica relazionale conflittuale. Infine, è stato utilizzata la scala di Hendrick (1988) per la misura della soddisfazione della relazione, prima e dopo l’intervento sperimentale.

I risultati indicano che un aumento di “pillow talk” produce inaspettatamente una maggior soddisfazione relazionale solo per gli uomini e non per le donne, ma non predice le risposte allo stress fisiologico in entrambi i gruppi. Pertanto, la prima ipotesi è verificata soltanto per il genere maschile, mentre la seconda ipotesi non è stata supportata. Infine, anche la terza ipotesi è verificata soltanto per gli uomini, i quali giungevano in laboratorio con livelli di stress decisamente più alti rispetto alle donne, che diminuivano in seguito al confronto con la propria partner sulle problematiche relazionali. Di conseguenza, l’intervento non ha avuto un effetto significativo sulla reattività del cortisolo nelle donne, sia nel gruppo di controllo che in quello sperimentale; mentre gli uomini nella condizione di “pillow talk” hanno riportato un aumento nella soddisfazione relazionale e una diminuzione dei livelli di stress, rispetto agli uomini a cui era stata assegnata la condizione di controllo.

Una spiegazione sul perché gli uomini arrivassero in laboratorio con livelli di stress più elevati, rispetto al gruppo di controllo, potrebbe derivare dall’eccessiva preoccupazione per il compito di comunicazione che dovevano svolgere; ciò significa che essi sperimentavano una pressione maggior su sé stessi per aumentare la comunicazione intima positiva con la partner e, quindi, erano più stressati avvicinandosi alla discussione. Tuttavia, una volta che si sono effettivamente impegnati nel confronto, potrebbero essersi sentiti meglio attrezzati per gestire lo stress e, dunque, i loro livelli di cortisolo si abbassano notevolmente. Ciò non avviene per le donne.

Secondo la concezione AET, le norme di genere definiscono le donne come coloro che vogliono investire di più nelle loro relazioni rispetto agli uomini, perché sono state socializzate per farlo attraverso ruoli di genere prescritti. Pertanto, è stato chiesto loro di aumentare un comportamento che è già comune all’interno del loro ruolo di genere. Inoltre, è anche possibile che alcune donne abbiano inquadrato negativamente questo comportamento come lavoro emotivo all’interno della loro relazione romantica; in effetti, le donne possono già affrontare un aumento dello stress a causa delle aspettative di essere gestori familiari e relazionali, a volte riferite al colloquio come carico mentale. Di conseguenza, l’intervento potrebbe essere stato visto da alcune donne come uno dei tanti modi in cui ci si aspettava che gestissero la loro relazione e quindi non essere stato particolarmente gratificante, razionalmente benefico o positivo per lo stress.

Le norme di genere potrebbero anche spiegare l’efficacia dell’intervento sugli uomini. Infatti, la letteratura dimostra che le norme di genere sono più proibitive per l’espressione emotiva degli uomini. Pertanto, per gli uomini che partecipavano alla condizione sperimentale, avere il “permesso” di esprimere le proprie emozioni, impegnandosi in un comportamento che promuova l’attenzione, la consapevolezza e l’impegno nei confronti della propria partner dopo l’attività sessuale, può aver portato a benefici più pronunciati.

Alcuni limiti rappresentati dal presente studio sono l’età relativamente giovane del campione e la limitata generalizzabilità dei risultati. La ricerca futura può ora espandersi per verificare se forme e caratteristiche specifiche della comunicazione sono più o meno utili durante il PSTI.

 

Le emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

L’indagine SEG-Covid19, avviata il 14 Marzo dall’Associazione di Volontariato “Mammachemamme” e patrocinata dal MIPPE (Movimento Italiano Psicologia Perinatale), ha l’obiettivo di valutare lo stato di salute psicologica delle donne in gravidanza durante la diffusione del Coronavirus.

 

Lo studio è coordinato dalle dottoresse Maria Cecilia Gioia (psicologa e psicoterapeuta presso l’U.O. Ostetricia e Ginecologia – iGreco Ospedali Riuniti di Cosenza) e Alessia Aloi (psicologa psicoterapeuta), entrambe socie di “Mammachemamme”, associazione che da 8 anni si occupa della promozione del benessere psicologico per le mamme, i bambini e le bambine e le famiglie.

La gravidanza – racconta la dott.ssa Gioia – rappresenta per ogni donna un periodo di importanti trasformazioni fisiche ed emotive, di adattamento e continue scoperte. Durante la gestazione, sperimentare una condizione cronica di stress rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio, sia a livello fisico, che psicologico e sociale.

L’attuale emergenza sanitaria, rappresentata dalla circolazione del virus responsabile della COVID-19, sta avendo un notevole impatto sullo stile di vita della gestante e sulla gestione della gravidanza. Le poche informazioni al momento disponibili sull’impatto della COVID-19 in gravidanza appaiono tendenzialmente confortanti ma, visto l’esiguo numero di studi, è comprensibile registrare una forte risposta di ansia nelle donne in attesa.

L’indagine SEG-Covid19 (Fig. 1) mira appunto a conoscere le emozioni, i pensieri e i comportamenti che accompagnano la gravidanza in questo particolare momento storico. I questionari sono anonimi, la compilazione è semplice e richiede circa 20 minuti di tempo. I dati verranno analizzati solo in forma aggregata e i risultati saranno pubblicati in forma riassuntiva.

Possono partecipare allo studio tutte le donne in gravidanza. E’ importante la partecipazione del più alto numero possibile di gestanti, pertanto si ringraziano tutte le future mamme che vorranno supportare la ricerca, partecipando e condividendo l’iniziativa. Circa mille le gestanti che attualmente hanno aderito a questo studio con una distribuzione sul territorio nazionale maggiore nelle regioni del nord.

Stiamo già analizzando i primi dati – riporta la dott.ssa Aloi – e a breve pubblicheremo il nostro studio.

 

Covid-19 e gravidanza uno studio sulle emozioni delle future mamme Fig 1

Fig. 1. SEG-COVID-19. Studio sulle emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

 

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La Stimolazione Magnetica Transcranica nel trattamento delle dipendenze

Il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, residenziale o semi residenziale, ma sempre maggior rilevanza sta assumendo la possibilità di integrare il trattamento con l’utilizzo della deep TMS (dTMS).

Sara Angelicchio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il disturbo da uso di sostanze viene definito dal DSM 5 (2014) ‘Un cluster di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che indicano come l’individuo continui a fare uso della sostanza nonostante i significativi problemi correlati alla sostanza’. Una persona con questo disturbo quindi continua a fare un uso disfunzionale della sostanza, nonostante tutte le conseguenze negative che comporta, come il fallimento o l’abbandono delle attività lavorative, sociali e ricreative dell’individuo e l’eventualità di mettere in pericolo la propria vita. Tale disturbo si manifesta con i seguenti raggruppamenti di sintomi:

  • Incapacità di controllare l’uso della sostanza
  • Compromissione sociale derivante dall’uso della sostanza
  • Situazioni a rischio derivate dall’uso della sostanza
  • Tolleranza: necessità di una dose maggiore della sostanza per generare l’effetto desiderato
  • Astinenza: sindrome generata dalla diminuzione della concentrazione della sostanza nel sangue o nei tessuti, a seguito di un uso pesante e prolungato della stessa.

Le sostanze psicotrope sono un gruppo di sostanze eterogenee che agiscono sui processi psichici, alterando l’attività mentale di chi le assume. Nello specifico attivano determinate aree cerebrali deputate al sistema di gratificazione, di motivazione e di ricompensa e nella produzione di ricordi. (Hyman, 2007). Il sistema di gratificazione e ricompensa è un circuito neuronale, cioè un insieme di neuroni, che parte dall’area tegmentale ventrale ed è collegato ad aree subcorticali come il nucleo accumbens, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula ed ad aree corticali, come la corteccia prefrontale ed il giro cingolato anteriore. L’area tegmentale ventrale è responsabile della sensazione di piacere che proviamo in associazione ad alcune attività per noi adattive (come mangiare, stare in compagnia di amici, avere un rapporto sessuale, etc.). Il sistema di gratificazione si attiva con la produzione di un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Le sostanze psicotrope agiscono direttamente su questo sistema e causano un enorme rilascio di dopamina, responsabile dell’intenso piacere che si prova consumandole. Dopo un consumo continuativo il cervello, a seguito di tale iperproduzione di dopamina causata da agenti esterni, ne produce di meno o riduce il numero di recettori dopaminergici in grado di riceverne il segnale. Di conseguenza la capacità di provare piacere è drasticamente ridotta e si prova piacere soltanto aumentando progressivamente la dose di sostanza consumata, che diventa progressivamente l’unica fonte di piacere. Compare quindi il craving, ossia il forte ed incontrollabile desiderio di usare la sostanza. La diminuzione della produzione di dopamina, a sua volta, causa un’ipoattività della corteccia prefrontale, l’area cerebrale deputata all’attenzione, alla pianificazione ed al controllo degli impulsi. Il malfunzionamento della corteccia prefrontale causa la diminuzione della capacità di controllo, che a sua volta genera l’uso compulsivo e rischioso della sostanza (Everitt, Belin, Economidou, Pelloux, Dalley & Robbins, 2005). Un uso prolungato della sostanza causa quindi cambiamenti morfologici e funzionali dei circuiti cerebrali implicati. Queste modificazioni cerebrali sono state osservate anche nella comparsa di altri comportamenti compulsivi nei quali il craving non riguarda sostanze, come nel disturbo da gioco d’azzardo.

Secondo il modello bio-psico-sociale l’insorgenza di un disturbo o di una patologia è il risultato dell’interazione di più variabili, dette fattori di rischio, che aumentano la probabilità dell’insorgenza, e fattori di protezione, che la diminuiscono. Queste variabili sono di natura biologica/genetica, psicologica e sociale. In linea con tale modello, i fattori di rischio per l’insorgenza ed il mantenimento di una dipendenza sono:

  • biologici: la predisposizione biologica al disturbo da uso di sostanze è caratterizzata da un’alterazione nella produzione di alcuni neurotrasmettitori endogeni (soprattutto la dopamina), responsabili del sistema di gratificazione e ricompensa sopracitato.
  • ambientali: situazione socio-economica, esposizione ad eventi stressanti e traumatici, familiarità per dipendenze o altri disturbi psichiatrici.

Attualmente il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, ai quali può essere utile aggiungere un intervento di tipo residenziale o semi residenziale.

La Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso  (Fiore, 2017). La TMS dispone di una serie di coil, o elettrodi, che si posizionano sulla testa, in corrispondenza della regione cerebrale di interesse. I coil rilasciano una corrente elettrica che genera un campo magnetico. Il campo magnetico raggiunge le aree cerebrali desiderate e inibisce il loro funzionamento.

La TMS è utilizzata a scopo di ricerca per indagare le funzioni dell’area cerebrale stimolata, ed a scopo clinico per trattare disturbi quali la depressione, il morbo di Parkinson, etc. A scopo clinico è utilizzata la TMS ripetuta (rTMS), ossia più sessioni di TMS ad alta o bassa frequenza. Tale trattamento consente di modulare la riorganizzazione neuronale, facilitando o inibendo circuiti neuronali responsabili di una funzione cognitiva o di un sintomo.

Utilizzando i coil della rTMS il campo magnetico generato raggiunge la corteccia cerebrale, ma non le aree sottostanti, coinvolte nelle dipendenze patologiche. La deep TMS (dTMS) consente la stimolazione di aree cerebrali profonde, mediante l’utilizzo di un tipo particolare di coil, chiamato Hesed-coil (H-coil), che genera campi magnetici in grado di raggiungere la profondità di 6 cm sotto lo scalpo: 4/4,5 cm più in profondità rispetto alla TMS (Roth,  Zangen & Hallett, 2002). Negli ultimi anni è stata dimostrata l’efficacia del trattamento con dTMS per diversi disturbi, incluse le dipendenze.

Molti studi hanno indagato l’efficacia del trattamento con dTMS in pazienti con disturbi da uso di sostanze quali alcol, nicotina, cocaina, resistenti al trattamento farmacologico e psicoterapeutico (Fiocchi et al., 2018; Kedzior, Gerkensmeier & Schuchinsky, 2018; Tendler, Barnea Ygael, Roth & Zangen, 2016). In questi studi vengono stimolate le aree subcorticali e corticali protagoniste del circuito dopaminergico della ricompensa: area tegmentale ventrale, nucleo accumbens, amigdala, insula, corteccia prefrontale, corteccia cingolata anteriore. I risultati mostrano che generalmente i protocolli di dTMS ad alta frequenza riducono il craving di sostanze, i sintomi depressivi comorbidi, sia a breve che a lungo termine (dopo 6-12 mesi), mentre i protocolli ad alta frequenza riducono il craving esclusivamente a breve termine. Poiché diversi tipi di sostanze alterano il circuito dopaminergico in modalità differenti, i protocolli di trattamento con dTMS devono essere adattati alla specificità di ogni sostanza. Le modifiche strutturali più durature nel tempo sono state ottenute con protocolli di somministrazione di dTMS ripetuta nel tempo per almeno 20 sessioni ed ad ampio raggio. Questo trattamento, oltre a ridurre il craving, riabilita e stimola la funzione cognitiva deputata al controllo del proprio comportamento, fondamentale per ridurre i comportamenti compulsivi dell’uso della sostanza.

Benché la letteratura sull’argomento al momento presenti dei limiti (studi con campioni poco ampi, senza gruppo di controllo, etc.) e siano necessari ulteriori studi di approfondimento, i dati ad oggi disponibili mostrano come il trattamento con dTMS per le dipendenze sia efficace nel diminuire il craving e riacquisire il controllo sui propri comportamenti. Tale tecnica, in associazione a trattamento farmacologico e psicoterapeutico, nell’ottica di un trattamento multidisciplinare, contribuirebbe ad alleviare i sintomi dei disturbi da uso di sostanze.

 

Per saperne di più su TMS e trattamento delle dipendenze, visita il Centro TMS

 

 

Gestire il virus con una corretta Prospettiva Temporale – Come la comprensione della Psicologia Temporale individuale può aiutare ad affrontare la pandemia

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del coronavirus.

 

Non c’è dubbio che il complesso fenomeno sociale causato dalla pandemia del Coronavirus determinerà in modo drammatico un “prima” ed un “dopo” nella storia delle nostre vite.

La parola quarantena, che deriva dalla parola latina che indica la durata di quaranta giorni, fu usata per la prima volta nel XIV secolo a Venezia. La Repubblica Serenissima, per contenere la diffusione della peste bubbonica, la “morte nera” che stava devastando l’Europa, obbligò a quaranta giorni di isolamento (dalla parola latina “insula”, che significa “isola”) le numerose navi commerciali straniere che arrivavano nella città lagunare. Durante questo periodo, le persone e le merci venivano monitorate su alcune isole della laguna veneta.

I veneziani furono saggi nell’adottare questa strategia a lungo termine rinunciando ai benefici economici e commerciali immediati. Anche senza le moderne conoscenze scientifiche, decisioni governative lungimiranti possono effettivamente contenere la diffusione di un’infezione al punto di sradicarla (Konstantinidou et al., 2009). Ciò fu ottenuto, nella città lagunare, limitando almeno parzialmente le interazioni sociali umane, consentendo così alle istituzioni veneziane di riguadagnare il controllo sociale e ristabilendo buone condizioni di salute.

Il coronavirus è un fenomeno bio-psico-sociale perché è un agente biologico che ha bisogno di un ospite umano per prosperare. Gli esseri umani hanno motivazioni psicologiche integrate in contesti sociali. Una persona è definita dalle complesse interazioni esistenti tra le varie motivazioni per perseguire obiettivi biologici, psicologici e socioculturali, ciascuna dotata di scopi propri (Agnoletti, 2019).

Il comportamento umano è il risultato di queste interazioni finalizzate, che globalmente, chiamiamo “fitness” in termini di salute fisica e psicofisica.

In questa prospettiva, l’isolamento sociale e fisico che limita collettivamente l’esposizione al virus, gli stati emotivi che sperimentiamo (più emozioni negative vivremo, meno efficace sarà il nostro sistema immunitario; più emozioni positive sperimenteremo, più forte sarà il nostro sistema immunitario), le scelte che faremo nel nostro comportamento quotidiano (lavarsi spesso le mani, etc.), determineranno sia la nostra fitness ed il benessere personale sia, indirettamente, la fitness della comunità in cui viviamo.

La ricerca scientifica sulla prospettiva temporale individuale, concettualizzata da Philip Zimbardo (Zimbardo & Boyd, 2008) e dai suoi gruppi di ricerca (Stolarski, Fieulaine e Van Beek, 2015), ci dimostra che il personale atteggiamento nei confronti del tempo è assolutamente cruciale sia a livello individuale sia a livello di decisioni sociopolitiche che devono essere prese dagli organi governativi per decidere e gestire i comportamenti efficaci per contenere la diffusione del virus.

In questo periodo di incertezza e stress, è importante sapere che individui, culture e istituzioni che sono più fatalisti sottovalutano i possibili fattori di rischio, poiché sono più focalizzati sul presente e molto meno consapevoli delle conseguenze delle loro azioni individuali e collettive (si pensi agli assembramenti che sono sorti e che sono stati contrastati dalla polizia). Per tali soggetti, politiche altamente restrittive possono contenere in modo più efficace il virus rispetto a individui che sono molto più orientati al futuro e che quindi hanno maggiori probabilità di comportarsi in modo più prudente.

Questa conoscenza psicosociale relativa alla Prospettiva Temporale può essere utile per comprendere, ad esempio, la differenza nei risultati epidemiologici tra due nazioni, come l’Italia e la Corea del Sud. Questi paesi sono comparabili per dimensioni delle loro popolazioni ed efficienza dei loro sistemi sanitari. Le loro culture, tuttavia, differiscono notevolmente per quanto riguarda il rispetto delle istituzioni e delle autorità. Le persone in questi due paesi differiscono anche nei loro orientamenti individualistici e legati al presente edonistico.

Il fatto che la Corea del Sud abbia prontamente applicato misure altamente restrittive (derivanti dal loro più forte orientamento futuro) ampiamente rispettate dalla popolazione ha limitato fortemente la diffusione del virus. Nel momento in cui sto scrivendo questo testo, il numero di morti era cinque volte inferiore a quello italiano.

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del virus.

Il coronavirus ci obbliga ad essere più consapevoli del nostro bisogno di interazione sociale. Le restrizioni sulle interazioni sociali sfidano drammaticamente le nostre consuete abitudini. Qual è la nostra percezione del rischio e del controllo personale delle nostre vite? Come possiamo esprimere il nostro bisogno sociale in modo non fisico?

Prima accettiamo psicologicamente e culturalmente di far parte di una comunità umana globale con una forte coesione, prima saremo in grado di contrastare i danni socioeconomici e personali causati dal virus.

In breve, dobbiamo affrontare individualmente e socialmente questo momento storico caratterizzato dalla diffusione del coronavirus. È necessario essere più consapevoli della necessità di agire collettivamente in modo compatto, deciso e positivo prendendo decisioni orientate ai futuri benefici nel medio e lungo termine. Dobbiamo riconoscere ed accettare che alcuni aspetti relativi agli obiettivi immediati e a breve termine devono essere significativamente modificati.

Infine dobbiamo dare priorità al nostro futuro benessere comune rispetto gli interessi immediati individuali.

 

La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower – Psicologia Digitale

Outfit all’ultima moda, pose da consumati professionisti del fashion, sguardo serio: sono piccoli protagonisti, baby influencers popolari sui social media.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 8) La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower 

 

Baby influencers: chi sono e che cosa fanno sui social

Li chiamano micro-microcelebrities, mini influencers, kid influencers o più spesso baby influencers. Non si tratta solo di figli di persone famose: i baby influencers più famosi infatti sono sconosciuti, come ad esempio in Italia la piccola Ameli, 6 anni, con più di 2 milioni di iscritti al suo canale YouTube, oppure su Instagram la piccolissima Gaiaburuburu, classe 2016, gaiamasseroni e lauramasseroni, sorelle anche su Instagram, o ancora gennarodesimone.

Oltre oceano è un fenomeno consolidato e frutto di scelte mirate per ottenere un ritorno economico dall’attività sui social, quasi sempre gestiti da genitori-manager (si parla di “sharenting”: la condivisione di post con i propri figli), come faroukjames, clementstwins, coco_pinkprincess tra i più popolari. Che si tratti di vlog su Youtube o di immagini su Instagram, i contenuti variano da foto con capi e accessori alla moda o, invece, semplici episodi di vita quotidiana. Viene chiamata automedia (Pedersen e Aspevig, 2018) questa nuova forma di autobiografia attraverso i media; come un nuovo genere letterario, fa riferimento alla creazione e condivisione della narrazione della vita online.

Come mai sono così popolari: cosa significa comunicare la vita reale attraverso i media

Perché i baby influencers hanno successo? Una spiegazione potrebbe risiedere nella spontaneità, nella messa in scena di pezzi di vita di persone comuni, autentiche, che si mostrano così come sono, “celebrità ordinarie”, come le definisce Abidin (2015; 2017), perché danno l’impressione che non ci sia nulla o quasi di artefatto in ciò che condividono. E’ questa autenticità che comunica un senso di connessione e somiglianza. L’Autrice parla però di “calibrated amateurism”: questo stile amatoriale sarebbe “calibrato”, cioè creato ad hoc in maniera intenzionale e deliberata appunto per creare questo legame con i followers. Anche se le produzioni sembrano amatoriali (gli sfondi, le pose) si ha invece un livello di competenza digitale e tecnologica molto alto. Per trasmettere un senso di continuità, vicinanza e fidelizzare i followers, i post vengono pubblicati a cadenza quasi giornaliera, con contenuti semplici e tratti dalla vita quotidiana. I contenuti sono adattati per essere ben fruibili su tutte le piattaforme e i device in diversi formati, dal video di Youtube alle immagini di Instagram, con l’uso abile delle affordance dei diversi social media.

Privacy e uso dei social media

Secondo le recenti leggi sulla privacy per i minori (come la GDPR-Kids), nessuna informazione personale può essere acquisita a meno che un genitore non abbia dato espressamente l’autorizzazione. La socializzazione digitale dei più piccoli avviene molto presto: secondo i dati del PWC Kids Digital Media Report 2019, ogni secondo nel mondo 2 bambini si connettono per la prima volta; un terzo degli utenti attivi online è minorenne; un bambino di 4 anni spende in media 4 ore a settimana online che salgono a più di 20 per i ragazzi di 15 anni. Anche se il loro primo contatto avviene quasi sempre in presenza e con i genitori, risulta difficile credere che l’utilizzo sia sempre mediato da figure adulte. Se da un lato ciò favorisce un processo di rispecchiamento dei comportamenti dei genitori, dei quali imitano l’utilizzo di tecnologie e app per trasmettere storie di vita e “condividerle live”, dall’altro siamo di fronte a una contraddizione. Minori visti come analfabeti digitali che necessitano della guida di un adulto, ma poi soggetti in grado di costruire intorno a sé una identità online e farla fruttare, anche economicamente.

La vita in un post: pubblicità e futuro

Un ampio numero di followers vuol dire anche arrivare all’attenzione dei brand. La monetizzazione dei post – o per meglio dire degli advertorial (l’unione di advertising ed editorial, poiché sui social la pubblicità è integrata in un contenuto editoriale, post o video) – è un mercato in crescita che sfrutta proprio quel senso di fiducia e di appartenenza. Gli influencers provano personalmente dei prodotti e pubblicano post in cui li descrivono accuratamente, ne descrivono l’uso che ne hanno fatto e le caratteristiche. Per essere trasparenti con i propri followers, il post dovrebbe essere accompagnato da un “#ad” o “#advertising” per segnalare agli utenti che si tratta di un post sponsorizzato, tuttavia non tutti gli influencers adottano questa misura in quanto non obbligatoria. I prodotti più sponsorizzati sono principalmente di moda, bellezza, alimentari, viaggi, elettronica. Anche per i baby influencers con un buon numero di followers (in media a partire da 40.000) si aprono le porte della commercializzazione dei post con ottimi riscontri e potenzialità: l’importante nicchia di mercato dei prodotti per bambini e per famiglie. A volte assistiti da agenzie, più spesso da genitori-manager, questi bimbi vengono ritratti mentre mangiano un certo snack, mentre scartano un determinato gioco, fruttando consistenti compensi per i genitori.

Al di là dell’aspetto economico, cosa comporta questa continua esposizione mediatica per i piccoli? Essendo un fenomeno recente, lo scopriremo tra un po’, quando sapremo che fine hanno fatto queste piccole star del web. Ci sarà anche da capire come reagiranno a tutto quel materiale pubblicato senza il loro consenso. Le tracce che lasciamo online rimangono e non sappiamo per quanto e a chi rimangono disponibili. Per il momento questo sembra un prezzo da pagare non troppo alto; probabilmente questa diventerà una tematica oggetto di discussioni più approfondite in futuro, quando quelli che oggi sono bambini diventeranno adulti consapevoli.

 


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Covid-19: vivere la quarantena tra relazioni sociali virtuali, parasociali e flashmob dai balconi

L’emergenza covid-19 ha comportato una netta restrizione in termini di libertà e relazioni sociali, imponendo una quarantena sempre più restrittiva per limitare e fermare il contagio.

 

Pur essendo innegabile il costo emotivo e psicologico che una restrizione del genere comporta sul benessere psicofisico, emerge ora più che mai il valore positivo dello sviluppo tecnologico nell’attenuare gli effetti collaterali dell’isolamento.

Al di là del restare in contatto con i nostri cari, vicini e lontani, o continuare a lavorare da casa in smart working (ove possibile), innumerevoli sono le iniziative e gli enti che si sono prodigati per offrire, spesso gratuitamente, intrattenimento digitale, per ogni età e interesse. Dalle visite a musei internazionali, ad allenamenti sportivi, canali di streaming illimitati e attività per bambini, la rete offre a tutti la possibilità di mantenersi attivi e social, seppur virtualmente.

Tra questi c’è chi più di altri, e non solo in quarantena, trova rifugio e consolazione anche in un altro tipo di relazione virtuale, interagendo e coltivando un legame affettivo con persone sconosciute, con cui riesce a ricreare una sorta di intimità. Si tratta di ciò che gli psichiatri Donald Horton e Richard Wohl (1956) hanno definito interazione parasociale, ovvero quel tipo di relazione che si può creare tra persone che non sono mai entrate in contatto diretto tra loro, ma che cinema, televisione e ora anche Internet danno l’impressione di conoscere di persona. La relazione parasociale è un rapporto in cui la reciprocità non si basa sulla realtà, bensì è simulata, nella misura in cui lo spettatore vedendo l’altro (attore o personaggio famoso che sia) sente di essere in comunicazione diretta con lui/lei. È da questa impressione che nasce quella illusione di intimità che fa sì che noi percepiamo il nostro idolo come un nostro amico o conoscente. È opportuno precisare che quello delle relazioni parasociali non è legato ad una particolare personalità o disturbo. L’uomo è una macchina da socialità e come tale necessita di relazioni per soddisfare i propri bisogni psicologi; tali bisogni possono essere soddisfatti anche da quell’ideale di persona irraggiungibile di cui tutti siamo o siamo stati fan per un periodo nella vita. Pur trattandosi di un rapporto asimmetrico, la relazione parasociale non è scevra di forti emozioni e spinte identitarie che giocano un ruolo importante in gusti e scelte delle persone.

Quella ‘intimità̀ non reciproca a distanza’ che viene a crearsi non impedisce infatti che ‘amici’ mai incontrati fisicamente, siano presenti nella vita psichica delle persone tanto da poter comparire anche nei loro sogni (Thompson, 2000).

Lo psicologo americano George Stever ha elencato le diverse fonti di attrazione per comprendere quali sono i bisogni psicologi che la relazione parasociale soddisfa:

  • Abilità e performance del vip, il quale può fungere da fonte di ispirazione e motivazione nel coltivare un talento o desiderio
  • Attrazione romantica, che suscita e alimenta fantasie. Questo genere di attaccamento permette di provare e sperimentare emozioni in un contesto sicuro.
  • Idealizzazione, che porta ad una sovrastima delle qualità del personaggio, con conseguente eliminazione dei difetti e giustificazione degli atti. Spesso si tratta di uno strascico dell’idealizzazione dei genitori tipica dell’infanzia.
  • Identificazione, utilizzata per costruire una immagine di sé ricercando elementi comuni, veri o presunti.
  • Attaccamento, nella misura in cui, sin da bambini, ricerchiamo dall’altro non solo sostentamento materiale ma soprattutto contatto e nutrimento emotivo. Diventa allora evidente come ci si possa sentire legati a personaggi che fanno provare emozioni, seppur non vi è reciprocità. Questo tipo di rapporto è tipicamente femminile e si caratterizza per il desiderio di proteggere ed accudire l’oggetto del proprio attaccamento.

Ma tornando alla situazione attuale e all’emergenza in corso degli ultimi mesi, se è vero che grazie ad internet il mondo si è arricchito di una realtà virtuale parallela che regala quella libertà illusoria ed effimera di essere chiunque e ovunque, si è sempre dietro uno schermo tra le proprie mura. Che si tratti di un rapporto reale o simulato come quello appena descritto, l’estensione del dialogo a distanza genera solitudine. I social network possono sicuramente sopperire laddove non possono i confini geografici nel restare in contatto con la propria rete o addirittura ampliarla, ma non sono in grado di offrire quegli elementi necessari della comunicazione umana che veicolano il vero calore umano (linguaggio verbale, non verbale e para-verbale). In rete si può provare solidarietà, grazie alla condivisione di un messaggio, uno stato emotivo o partecipando a una raccolta fondi per una buona causa (si pensi alle tante campagne di crowd-funding lanciate con successo dall’inizio dell’emergenza covid-19). Ma nell’impossibilità di esperire in toto la relazione nei suoi aspetti comunicativi, è più difficile provare empatia e attingere a quel calore umano. Ed è proprio per questo motivo che a un certo punto, l’Italia tutta, da Nord a Sud, ha sentito il bisogno di scendere di nuovo in piazza per sentirsi meno sola e darsi forza; non potendolo fare si è ritrovata sul balcone, a cantare contro la paura. Ognuno da casa propria ma insieme, alla stessa ora; guardandosi negli occhi, lontani ma vicini, e abbracciandosi virtualmente.

La musica e la vicinanza emotiva e fisica di dirimpettai e condomini più o meno sconosciuti, hanno unito e lenito più di ogni altro mezzo di telecomunicazione, conferendo in qualche modo il calore di un abbraccio e la forza per non arrendersi. Un orgoglio patriottico che non si provava dai mondiali del 2006 e un senso di comunità che ha valicato i confini nazionali, commuovendo e ispirando il resto del mondo (e da italiana all’estero posso confermare che quel pianto sommesso da un canto, misto a tanta speranza, sia arrivato diretto in tutta la sua forza e bellezza, trapassando lo schermo di un cellulare).

Due elementi indispensabili, nonché conclamati, hanno permesso che ciò avvenisse. La musica, denominatore comune di unione senza distinzione, cura per l’anima e antidoto capace di abbattere le barriere della paura, dell’odio e dell’indifferenza. E più di questo il contatto visivo che, al di là di ogni sviluppo tecnologico possibile, resta il mezzo di comunicazione più potente ed ineguagliabile.

E mi vengono in mente le parole di Brunori Sas in Canzone Contro la Paura:

Ma non ti sembra un miracolo
Che in mezzo a questo dolore
E in tutto questo rumore
A volte basta una canzone
Solo una stupida canzone
A ricordarti chi sei

Lontani ma vicini.

Adolescenza e sexting: informare i ragazzi e supportare i genitori

Negli ultimi anni, il numero di giovani che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente. Appare importante studiare questo fenomeno per una maggior comprensione degli adolescenti alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna.

 

La parola sexting è stata utilizzata per la prima volta nel 2005 dal Daily Telegraph, per unire i termini “sesso” e “sms”, diventando parola certificata nel 2009, sebbene non vi sia nessun consenso sulla definizione del termine nella comunità scientifica. Il sexting è generalmente definito come la ricezione e l’invio di messaggi sessualmente categorici e immagini digitali nude, parzialmente nude o sessualmente suggestive di se stessi o di altri, tramite un telefono cellulare, e-mail, internet, o social network. Negli ultimi anni, il numero di giovani (e non) che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente.

In uno studio condotto su 1.289 adolescenti, Dake et al. (2012) hanno scoperto che tra i partecipanti che avevano tentato il suicidio nell’anno precedente, il 50% usava il sexting in modo compulsivo, sfociando quasi in comportamenti psicopatologici. Pertanto, indagare i rischi tra la popolazione giovanile può identificare i fattori che influenzano la progressione della pratica del sexting. Il suicidio, infatti, è la terza causa di morte tra le persone dai 15 ai 24 anni e la seconda causa di morte tra i 25 e 34 anni (Centers for Disease Control and Prevention, 2010); è stato dimostrato che la pratica apparentemente innocente del sexting comporta gravi rischi per il benessere degli studenti universitari e non, se effettuata in modo compulsivo.

L’attuale ricerca ha indagato la pratica del sexting tra i giovani adulti ed esplorato i comportamenti, le esperienze e le percezioni associate a questa pratica. Nello specifico, gli obiettivi del presente studio erano esaminare le differenze nei comportamenti di sexting in base alle variabili demografiche di età, sesso, status sociale e relazioni intime; i dati raccolti riguardavano i comportamenti, le esperienze e le percezioni sia di studenti impegnati nel sexting, sia di coloro che non lo praticano.

Il campione finale era composto da 41 studenti universitari tra i 18 e i 25 anni. Come metodo di indagine è stato creato dai ricercatori un sondaggio con domande esplorative nell’ambito del sexting che hanno guidato la ricerca.

I risultati dell’analisi dimostrano che la frequenza del sexting era significativamente associata al genere, alla posizione sociale e alla tipologia di relazione instaurata; ma non era associata in modo significativo con l’età dei partecipanti. In particolare, l’invio delle immagini sessuali riguardava nella maggioranza dei casi soggetti di sesso maschile non impegnati in relazioni stabili. Per quanto riguarda i comportamenti, le esperienze e le percezioni sul sexting, relativamente pochi soggetti hanno pensato che la possibilità di inviare e/o ricevere immagini a sfondo sessuale aumentasse il rischio di abuso di sostanze o alcol; mentre la metà dei partecipanti ha ritenuto che il sexting porti ad avere un rapporto sessuale completo.

Questo studio è importante per le figure professionali in ambito sanitario, scolastico e medico che guidano le famiglie verso una miglior comprensione e comunicazione con i propri figli; alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna. Alcune modalità specifiche attraverso cui l’educatore e lo psicologo potrebbero aiutare i genitori includono:

  1. consigliare ai genitori di parlare con i propri figli adolescenti del loro utilizzo di internet e della tecnologia, analizzando problemi specifici che i giovani d’oggi devono affrontare;
  2. discutere con i genitori l’importanza di supervisionare le attività online attraverso la partecipazione attiva e la comunicazione;
  3. consigliare agli insegnanti di colmare il divario esistente nelle proprie classi, diventando più istruiti sulle tecnologie che usano gli studenti e integrando con programmi di educazione sessuale.

Il sexting può avere gravi conseguenze sui giovani, sia autori che vittime, soprattutto in relazione al tema della privacy e le problematiche legate alla possibilità che foto private diventino “pubbliche”, sfociando in fenomeni di bullismo e cyberbullismo. Pertanto, i giovani devono essere educati sulle violazioni della sicurezza e sulla responsabilità riguardo alla condivisione e alla realizzazione di foto e video a sfondo sessuale.

Sarebbero necessarie ulteriori ricerche sul sexting al fine di esaminare l’incidenza e la pervasività di questo comportamento anche in altri contesti, l’effetto che può avere su studenti e genitori e le credenze, gli atteggiamenti e i sentimenti che gli studenti nutrono nei confronti di questa pratica, le politiche e le procedure scolastiche che potrebbero essere messe in atto per prevenire e reagire ad incidenti dovuti al sexting.

 

Coronavirus: come gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva – Il Centro Disturbi della Personalità di Modena offre uno sportello di ascolto psicologico gratuito

Sportello di ascolto psicologico: gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva al tempo del Coronavirus. Servizio gratuito telematico e telefonico.

 

L’importante emergenza per il Coronavirus richiede l’impegno personale a rimanere a casa, tale necessità crea un notevole stress per tutti, maggiormente per le persone che hanno difficoltà a gestire i propri stati emotivi.

Interrompere le nostre routine destabilizza, la percezione di perdere il controllo sulla propria vita aumenta il nostro costante preoccuparci, facendoci sperimentare emozioni molto intense.

L’impossibilità nel muoversi limita l’uso di strategie per scaricare la carica emotiva causando un sovraccarico. Lo sportello di ascolto psicologico ha l’obiettivo di fornire: informazioni sui disturbi legati alla regolazione emotiva presente in molti disturbi della personalità e supporto per la gestione delle emozioni difficili da sopportare.

I professionisti del Centro Disturbi di Personalità ti assisteranno con appuntamenti in:
• videoconsulenza (Skype, WhatsApp)
• consulenza telefonica.

Lo sportello è rivolto a tutte le persone interessate al tema dei Disturbi della Regolazione Emotiva.

Per accedere allo sportello di ascolto telematico, compilare il modulo online su: modena.clinichepsicoterapia.it/sportello-di-ascolto/

 

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Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/san-benedetto/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi Modena offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi Modena offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi Modena ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/modena/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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Fobia del contagio: il coronavirus e la rupofobia

Nel periodo attuale prendere precauzioni rispetto ad eventuali contagi di coronavirus è necessario, ma potrebbe anche slatentizzare delle forme di psicopatologia. Ad oggi, non è facile distinguere una persona con rupofobia da chi si attiene scrupolosamente alle direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita del rupofobico è insoddisfacente e particolarmente complessa, specialmente in questo periodo storico.

 

La profonda rivoluzione che le nostre vite stanno subendo in questi giorni ci spinge a chiederci se e in che modalità, terminata la pandemia, modificheremo i nostri stili di comportamento. Quando saremo liberi dall’ipotesi di contagio, torneremo ad agire come in passato? I nostri atteggiamenti nei confronti del mondo esterno e degli altri resteranno i medesimi di sempre? È possibile ipotizzare una risposta negativa a queste domande. È probabile, infatti, che il timore del contatto, ormai così profondamente radicato nella nostra mente e nelle nostre azioni quotidiane, resti impresso dentro di noi, con notevoli conseguenze comportamentali ed emotive. Tale cambiamento sarà probabilmente amplificato in coloro che già in precedenza mostravano alcune specifiche vulnerabilità.

Il Covid-19 è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto con una persona contagiata. La via primaria di contagio sono le goccioline del respiro emesse tramite saliva, tosse, starnuti ed i contatti diretti personali, toccando nello specifico le mani, la bocca, il naso o gli occhi. Il collegamento epidemiologico può avvenire entro un periodo di quattordici giorni prima della manifestazione di malattia. Il Coronavirus ha avuto origine a Wuhan, in Cina, alla fine del 2019. Una serie di misure è stata urgentemente adottata, quale l’identificazione e l’isolamento di casi sia diagnosticati che sospetti, la diffusione dei criteri diagnostici nazionali da seguire e la messa a disposizione di forniture mediche e team di esperti. Il nuovo focolaio di Coronavirus ha reso necessarie cure tempestive anche per quanto riguarda la salute mentale di tutti i cittadini cinesi: il 26 gennaio 2020 la National Health Commission of China ha notificato i principi base per pianificare alcuni interventi di psicologia dell’emergenza: fornire assistenza sanitaria psicologica per tutti i pazienti affetti da Coronavirus, ma anche per coloro che hanno avuto contatto con essi, per chi si trova in regime di isolamento o di ricovero, per tutti i familiari e gli amici delle persone colpite e per gli operatori sanitari. L’assistenza psicologica fornita finora riguarda principalmente la gestione di emozioni quali solitudine, rabbia ed ansia, in particolare relativa al terrore del contagio o di poter infettare i propri familiari, amici o colleghi (Xiang, Y.T., et al., 2020).

Il Coronavirus sta cambiando in ognuno di noi la percezione del pericolo, aumenta l’intolleranza all’incertezza e al rischio. Gli esperti ipotizzano un rapido incremento di casi di Disturbo da Stress Post-Traumatico al termine della pandemia, così come è stato indagato nella popolazione cinese (Sun, L. et al., 2020). Aiuto psicologico e psichiatrico specialistico si renderà necessario anche in Italia, soprattutto rivolto a pazienti con disagi psichici in comorbidità. L’avvento del Coronavirus ha infatti slatentizzato numerose patologie psicologiche, precedentemente gestite oppure già fonti di malessere pervasivo. Una tipologia di disturbo che tale virus ha accentuato è la fobia dello sporco: la paura irrazionale di entrare in contatto con superfici potenzialmente contagianti e la conseguente necessità implacabile di disinfettarsi. Il timore del contagio batterico e virologico è ad oggi chiaramente giustificato e comprensibile: tutti sperimentiamo ansia per la nostra salute e pensieri relativi alle catastrofiche conseguenze di entrare in contatto con il virus. L’emozione di ansia normale e flessibile si differenzia però dal terrore patologico, rigido ed incontrollato, che si sperimenta ad ogni possibilità di contagio. Pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi, quali ad esempio rituali di pulizia, possono infatti sfociare in una vera e propria forma di ansia patologica, derivante da precedenti vulnerabilità: la Rupofobia. Il termine Rupofobia deriva dal greco rupos: sporco. Le ossessioni rupofobiche riguardano la paura della contaminazione, della possibilità di contrarre una malattia ed il disgusto verso certi ambienti o situazioni potenzialmente contagianti. I pensieri ossessivi sono intrusivi, ripetitivi e persistenti e si legano a compulsioni, quali rituali messi in atto in maniera continuativa allo scopo di contrastare la paura del contagio. Tali agiti forniscono sollievo solo temporaneo, per poi rinforzare la credenza disfunzionale sottostante: l’intollerabile rischio di poter essere stati infettati. Il dubbio di non aver effettuato perfettamente i rituali di pulizia provoca ansia, fino ad arrivare anche a forme di panico. Le strategie di evitamento conseguenti possono essere pervasive, causando difficoltà relazionali e sociali profonde e disfunzionali. I rituali di pulizia rigidi ed inflessibili rappresentano il tentativo di rimuovere ogni minima possibilità di contaminazione, che può minacciare l’idea di salute fisica. La fobia del contagio è dunque una forma patologica di paura persistente che si differenzia dal naturale timore di contrarre una malattia (Rachman, 2004). Le credenze centrali sottostanti riguardano il desiderio di controllo assoluto sul proprio stato di salute, così come accade nell’Ipocondria: non si cerca di perseguire uno scopo in positivo, ma di evitare l’opposto, attraverso strategie di controllo percettivo, cognitivo e comportamentale. L’attenzione selettiva, i pensieri automatici negativi e le interpretazioni catastrofiche, le immagini terribili ed i comportamenti di evitamento caratterizzano tale patologia. Nella fobia del contagio manca quindi la ‘regola dell’interruzione’: non si è mai davvero convinti di essere al sicuro, quindi non si possono fermare i rituali. Nulla è mai abbastanza pulito ed igienizzato.

La fobia dello sporco, così come tutti i disturbi psicologici, può avere differenti cause. Similmente all’Ipocondria, la Rupofobia presenta derivati genetici, esperienziali – vissuti traumatici ed episodi drammatici durante l’infanzia – e sociali, con l’apprendimento di modelli di comportamento simili all’interno del nucleo familiare (Fallon et al., 2000). I genitori del fobico sono spesso criticisti, eccessivamente perfezionisti, con aspettative elevate ed alti standard; l’obbligo a regole rigide ed imprescindibili, soprattutto verso l’ordine e la pulizia, una moralità inflessibile ed imposta, amplificano sentimenti quali ansia e disgusto nei bambini. Il rupofobico sperimenta fin da piccolo insicurezza, timore delle scelte e delle responsabilità, ansia rispetto alle novità. L’idea che il rupofobico costruisce di sé è di una persona debole, insicura, particolarmente soggetta a patologie fisiche e psichiche. Inoltre, oggi vediamo come l’influenza dei mass media colpisca soprattutto chi è più vulnerabile e fragile, contribuendo ad alimentare la fobia.

Nel periodo attuale prendere precauzioni rispetto ad eventuali contagi è necessario, ma potrebbe anche slatentizzare delle forme di psicopatologia. Ad oggi, non è facile distinguere un rupofobico da chi si attiene scrupolosamente alle direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita del rupofobico è insoddisfacente e particolarmente complessa, specialmente in questo periodo storico. La caratteristica principale dello stato mentale che presenta l’individuo affetto da Rupofobia è legata all’estremo desiderio di controllo dello sporco, totale ed assoluto, impossibile da raggiungere, che intensifica le emozioni negative. Ognuno di noi è oggi chiamato a fare prevenzione e a comportarsi in maniera scrupolosa ed attenta, ma coloro che erano già particolarmente suscettibili alle varie forme di contaminazione – come i rupofobici – hanno trovato conferma delle loro credenze centrali: i pensieri relativi al timore di essere contagiati o di contagiare, oggi si mostrano maggiormente credibili, reali. E’ quindi necessario chiedersi in che modalità il loro stile di vita si modificherà a seguito della pandemia vissuta oggi. In futuro probabilmente per ciascuno di noi diventerà particolarmente difficoltoso mettere in atto atteggiamenti e comportamenti verso gli altri e verso il mondo esterno simili al passato: stringersi le mani, abbracciarsi, baciarsi o frequentare luoghi affollati saranno gesti legati al timore di non essere al sicuro. Individui affetti da Rupofobia troveranno probabilmente ancora più difficoltà nell’intraprendere una vita adattiva, equilibrata e serena, sia a livello personale che sociale. Le convinzioni relative alla pericolosità di certi agiti saranno rinforzate, con il conseguente aumento dell’intensità emotiva negativa.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata fino ad oggi estremamente efficace nel fornire aiuto per tale tipologia di disagio, così come per altre forme di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e di Fobie Specifiche (Sassaroli, S. et al. 2006). Le tecniche cognitive e comportamentali fornisco un aiuto fondamentale nella formulazione di risposte adattive verso lo stress e nello sviluppo di pensieri alternativi razionali, offrendo strumenti per diminuire i comportamenti protettivi. In termini LIBET, la TCC mirerà alla flessibilizzazione dei Piani Prescrittivo e Prudenziale, tipici degli individui rupofobici. Lo scopo sarà infatti quello di gestire le strategie rigide di evitamento, diminuire il rimuginio e contrastare i tentativi di ipermonitorare le possibili fonti di contagio, prevederle per mantenersi al polo opposto rispetto al disagio temuto, lo sporco. Il percorso psicoterapico aiuta a promuovere nel paziente il processo di accettazione del rischio di potersi ammalare, aumentando la consapevolezza dei propri meccanismi interni. La situazione di emergenza attuale rende necessaria una profonda validazione della sofferenza, che colpisce l’intera popolazione mondiale ma in particolar modo le persone che soffrono di Rupofobia.

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita

Stern distingue tra esperienza esplicita, che ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, di oggettivare se stessi in modo riflessivo e di usare le parole per eseguire resoconti della propria esperienza, ed esperienza implicita, un’esperienza prelinguistica, non verbale, non simbolica e che non presenta forme di coscienza riflessiva.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern. I successivi articoli verranno pubblicati nei prossimi giorni.

 

Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita

Nella stratificazione dell’esperienza, tra i diversi livelli, vi è un punto di frattura che separa due tipi di esperienza qualitativamente differenti. Il punto di discontinuità è collocato tra i primi tre sensi del Sé e l’ultimo, cioè in prossimità della comparsa del linguaggio. I primi tre sensi del Sé appartengono a quella che Stern chiama l’esperienza implicita e il senso del Sé verbale all’esperienza esplicita. Tali dimensioni dell’esperienza costituiscono due sistemi distinti e paralleli. Non vi è un’evoluzione che nel tempo trasforma l’esperienza implicita in quella esplicita, come due periodi dello sviluppo, ma vi è una convivenza tra due sfere dell’esperienza che operano simultaneamente.

Vediamo ora le caratteristiche dei due tipi di esperienza, l’implicita e l’esplicita, attraverso le parole di Stern (2004).

In estrema sintesi, la conoscenza implicita è non simbolica, non verbale, procedurale e inconscia (nel senso che non è riflessivamente conscia), mentre quella esplicita è simbolica, dichiarativa, cosciente (in senso riflessivo), verbalizzabile e narrabile (p. 93).

Analizzando le proprietà delle due forme di esperienza si può notare come ciò che fa da spartiacque sia proprio la comparsa del linguaggio. L’esperienza esplicita, infatti, ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, la capacità di oggettivare se stessi in modo riflessivo e l’uso delle parole per eseguire resoconti della propria esperienza. L’esperienza implicita è, invece, un’esperienza prelinguistica e ha caratteristiche opposte a quella esplicita, essa è non verbale, non simbolica e non presenta forme di coscienza riflessiva.

In estrema sintesi, quando la nostra esperienza è messa a tema e quindi ha la forma del resoconto verbale, o solo mentale, di ciò che stiamo esperendo, si tratta di una forma di esperienza esplicita. È da notare che tale resoconto non può essere simultaneo all’esperienza che ha come oggetto, vi è infatti sempre un pur piccolo scarto temporale tra le due esperienze e quella esplicita è sempre successiva. A conferma di ciò, ecco le parole di Stern (2004).

il momento presente viene esperito mentre è ancora in corso, dunque la sua conoscenza non può essere esplicita, simbolica o verbale. Queste proprietà, infatti, gli vengono attribuite solo a posteriori.

Se accettiamo la distinzione tra coscienza fenomenica (o semplice consapevolezza) e coscienza riflessiva, possiamo affermare che l’esperienza esplicita è accompagnata da una forma di coscienza riflessiva che ha come oggetto un’esperienza fenomenica. Se con ESP1(x) indichiamo la consapevolezza di x che abbiamo in un tempo t1, allora l’esperienza esplicita sarà del tipo ESP2(ESP1(x)) dove con tale espressione si vuole intendere la consapevolezza della consapevolezza di x.

Per maggior chiarezza riporto le parole di Gallagher e Zahavi (2008) attraverso le quali spiegano con una metafora tale struttura:

Un modo per illustrare l’idea guida di questo approccio è quella di paragonare la coscienza a un fascio di luce. Alcuni stati mentali sono illuminati, mentre altri espletano la loro funzione nell’oscurità. Ciò che rende cosciente (illuminato) uno stato mentale è il fatto di essere preso a oggetto da uno stato di ordine superiore (p. 80).

In un dato istante t1 l’individuo adulto può esperire il mondo anche solamente in modo implicito e cioè attraverso una semplice coscienza fenomenica, come quando siamo impegnati in un’operazione che richiede molta attenzione. Tale esperienza implicita – ESP1(x) – può in un momento t2 essere oggettivata da un’esperienza esplicita con la quale portiamo a tema ciò che abbiamo esperito nella forma ‘ho esperito x’ – ESP2(ESP1(x)) – o, impropriamente, ‘sto esperendo x’. Come detto sopra, il resoconto sarà sempre, per così dire, ‘in ritardo’ rispetto all’esperienza originaria.

Spesso capita di illuderci di essere coscienti riflessivamente, in un determinato momento, di ciò che stiamo facendo e ci esprimiamo per esempio nella forma ‘ora sto scrivendo’. In realtà ciò che accade è che nel momento in cui attiviamo una coscienza riflessiva che mette a tema ciò che stiamo facendo, dobbiamo sospendere la nostra coscienza su quell’attività e lasciare eventualmente che essa venga svolta in modo automatico e in assenza di consapevolezza (in un determinato istante o sono consapevole del contenuto della mia scrittura – ESP1(x) – prestando attenzione a ciò che scrivo, oppure sono consapevole di esserne consapevole – ESP2(ESP1(x)) – interrompendo la mia attività, ma non entrambe le cose contemporaneamente). Queste interruzioni possono essere frequenti e ravvicinate e ciò ci dà l’illusione di una simultaneità tra le due forme di coscienza. Ecco a tal proposito le parole di Gallagher e Zahavi (2008).

Al contrario, quando riflettiamo, facciamo un passo indietro rispetto all’attività mentale che è in corso e, come Richard Moran ha recentemente osservato, questo fare un passo indietro è una metafora di distanziamento e separazione, ma anche di osservazione e confronto (pp. 103-104).

Ancora una volta è possibile tracciare un parallelismo tra la teoria di Stern e la fenomenologia. Seguiamo ancora Gallagher e Zahavi in un passaggio estremamente chiaro col quale spiegano il pensiero di Husserl e Merleau-Ponty:

La temporalità contiene una frattura interna che ci permette di ritornare sulle nostre esperienze passate per indagarle riflessivamente; e tuttavia questa stessa frattura ci impedisce anche di coincidere pienamente con noi stessi. Rimarrà sempre una differenza tra il vissuto e il compreso (p. 101).

Ma come è possibile coniugare quest’idea di uno scarto temporale ineliminabile tra esperienza implicita ed esplicita con la tesi della stratificazione dell’esperienza? Secondo quest’ultima i livelli dell’esperienza dovrebbero essere attivi simultaneamente. In realtà le due tesi non sono affatto incompatibili, esperienza esplicita ed implicita possono tranquillamente convivere simultaneamente. Per esempio se sto guidando la mia auto posso contemporaneamente pensare al fatto che prima di partire ho parlato con una certa persona. Nel momento in cui un soggetto ha un’esperienza esplicita, infatti, essa è sempre accompagnata da tutta una serie di esperienze implicite che passano inosservate. Le esperienze implicite possono essere caratterizzate da un alto livello di attenzione e focalizzazione, oppure avvenire in modo automatico e inconsapevole, andando così a costituire quelli che Stern chiama i buchi di coscienza. Da un lato, dunque, vi sono quelli che Stern chiama i momenti presenti, brevi periodi temporali che formano unità percettive globali dotate di senso, in cui è possibile scomporre la nostra esperienza diretta del mondo e che, pur essendo impliciti, rimangono impressi nella memoria e recuperabili come oggetto di una successiva riflessione. Dall’altro lato vi sono i buchi di coscienza, ossia esperienze vissute che non si fissano nella memoria a lungo termine e non possono più essere recuperate. Alla descrizione del momento presente Stern dedica un’importante opera (Stern, 2004) nella quale compie un’analisi fenomenologica dell’esperienza implicita e del suo aspetto temporale.

Stern si oppone ancora una volta al modello classico e in particolar modo alla tesi dello sviluppo lineare dell’esperienza, che vorrebbe vedere una sostituzione dell’esperienza prelinguistica con quella linguistica. Ciò che critica fortemente è la possibilità di una traduzione dell’esperienza implicita in esperienza esplicita. Nella traduzione infatti molte caratteristiche dell’esperienza implicita vengono perdute. Per esempio quando si traduce una percezione amodale attraverso un resoconto verbale, che ne specifica il canale sensoriale coinvolto, si perde la sua amodalità; ecco un celebre esempio che Stern (1985) usa per spiegare questa perdita.

Consideriamo ad esempio un bambino che osserva una macchia gialla di sole sulla parete. Il bambino sperimenterà l’intensità, il calore, la forma, la brillantezza, il piacere e altri aspetti amodali della macchia. Il fatto che la macchia sia gialla non è molto importante, anzi non lo è per niente. Mentre guarda la macchia e la sente-percepisce (secondo Werner), il bambino vive un’esperienza globale che è la risultante di una serie di esperienze amodali, o qualità percettuali primarie, inerenti alla macchia di luce: intensità, calore, etc. Per poter mantenere questa prospettiva altamente flessibile e onnidimensionale sulla macchia, il bambino deve restare cieco a quelle particolari proprietà (qualità percettuali secondarie e terziarie come ad esempio il colore) che specificano il canale sensoriale attraverso il quale la macchia viene sperimentata. Non deve notare né essere consapevole del fatto che si tratta di un’esperienza visiva. Ma il linguaggio costringerà il bambino a fare proprio questo. Qualcuno entrerà nella stanza ed esclamerà: ‘Oh! Guarda che bella macchia gialla di luce!’ (p. 182).

Un altro motivo di perdita delle caratteristiche dell’esperienza implicita è costituito dall’applicazione dei concetti nella descrizione di determinate esperienze. Questo fa sì che venga persa la singolarità dell’episodio per via della generalizzazione che il resoconto concettuale comporta. Ecco le parole di Stern (1985).

Nessun episodio specifico ha un suo proprio nome. Le parole si applicano a classi di cose […] Gli episodi specifici passano attraverso il setaccio linguistico e non possono essere riferiti verbalmente se non quando il bambino è molto avanti nell’uso del linguaggio, a volte mai (p. 183).

Ma non vi sono solo problemi legati alla perdita di alcune caratteristiche, vi sono, come abbiamo detto, intere esperienze implicite che non possono essere catturate dal nostro linguaggio. Ancora Stern (1985).

Infine, esistono esperienze globali al livello della relazione nucleare e intersoggettiva (quale ad esempio il senso del Sé nucleare) che non si aprono al linguaggio in misura sufficiente da consentire un’operazione di trasformazione linguistica. Esperienze del genere, dunque, sono condannate a condurre una vita clandestina, non verbalizzata, e in una certa misura sconosciuta, ma tuttavia assolutamente reale (p. 181).

Non è dunque possibile pensare di trasformare l’intera esperienza implicita in esperienza esplicita effettuando un resoconto linguistico. La nostra cultura tuttavia, influenzata dal modello classico, ha sempre privilegiato l’esperienza esplicita considerandola come la versione ufficiale della nostra esperienza. È proprio contro questa convinzione che si scaglia fortemente Stern (1985) mostrando, senza troppi giri di parole, di ritenere che la comparsa del linguaggio non sia solo una conquista positiva dello sviluppo ma comporti molti aspetti negativi.

E tuttavia in realtà il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Esso fa sì che parti della nostra esperienza divengano più difficilmente comunicabili a noi stessi e agli altri. Inserisce un cuneo fra due forme simultanee di esperienza interpersonale: quella vissuta e quella verbalmente rappresentata (p. 169).

E, nella misura in cui agli eventi che hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di ‘realtà’, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno luogo negli altri campi. (Possono divenire i campi sommersi dell’esperienza.) Il linguaggio, dunque, produce una scissione nell’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale, astratto, intrinseco al linguaggio stesso.

Come è possibile capire da questi passaggi, Stern (2004) propone, in modo molto impopolare, di rivalutare il rapporto tra l’esplicito e l’implicito, cioè tra il linguaggio e l’esperienza prelinguistica, mettendo in discussione i valori che comunemente la nostra cultura attribuisce loro e l’attenzione ad essi dedicata.

Quando un’esperienza viene espressa a parole, si guadagna e si perde qualcosa. Si perde in integrità, autenticità e ricchezza (p. 120).

A proposito dell’apprendimento del linguaggio, è sottolineato come il mondo delle esperienze preverbali e implicite, ricco e confortevole, venga mandato in frantumi e si disperda in mille pezzi irriconoscibili.

In conclusione, la distinzione qualitativa tra esperienza implicita ed esplicita, la loro convivenza simultanea come due sistemi distinti, paralleli e relativamente indipendenti e l’inversione dei loro valori rispetto a quelli attribuitigli dalla nostra cultura costituiscono l’ossatura della seconda tesi sterniana che ho chiamato ‘Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita’.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

Seno prosperoso? No grazie! Studio sull’impatto della mastoplastica riduttiva sulla qualità della vita

Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno.

 

Ogni corpo è differente, ogni corpo è unico, ogni individuo odia certe parti del proprio corpo e ne apprezza altre, per questo motivo la moderna medicina ha sviluppato sofisticate tecniche correttive per modellare il fisico, divenuto tela per l’esperto artista del bisturi, pronto a donare ad ognuno il corpo che ha sempre sognato.

Per quanto alcuni esortino all’accettazione tollerante verso la propria immagine e le proprie eventuali imperfezioni fisiche (reali o percepite), è doveroso riconoscere come in alcuni casi un difetto estetico evidente possa costituire motivo di profonda vergogna, generare vissuti personali negativi, in taluni casi addirittura isolamento sociale e ritiro dall’intimità con gli altri. Per questo motivo, in alcuni paesi è data la possibilità di accedere ad interventi di chirurgia estetica godendo della copertura assicurativa o, come nel nostro caso, che se ne faccia carico il Sistema Sanitario Nazionale, previo l’accertamento di una compromissione della funzionalità o di forte disagio psicologico dovuti al difetto fisico che si intende correggere.

Le statistiche ci dicono che vi è una notevole disparità di genere nella richiesta di interventi estetici, tanto che secondo un recente report dell’ASAPS (America Society Aesthetic Plastic Surgery), nel 2018 negli Stati Uniti sono stati effettuati 1,533,639 trattamenti estetici chirurgici dei quali il 92,9% erano richiesti da donne e, di questi, circa il 40% era costituito da donne tra i 35 e i 50 anni (n.b: escluse quindi da questo conteggio pratiche come iniezioni di acido ialuronico, filler o il peeling chimico, che rientrano negli interventi non chirurgici).

Sembra che la parte del corpo che crei più disagio alle donne in maniera consistente nelle diverse fasce d’età siano i seni, sui quali vengono praticati aumenti di volume, lifting, rimodellamenti, sbiancamenti areolari, tutto per ottenere forme e dimensioni perfette. Accanto a queste procedure che mirano ad un miglioramento dell’estetica, ma generalmente non vengono riconosciute come interventi di miglioramento funzionale, altri, come ad esempio le ricostruzioni dopo interventi di rimozione delle ghiandole mammarie o la diminuzione del volume del seno possono rispondere a delle esigenze che vanno oltre la preferenza estetica.

Tuttavia, mentre la ricostruzione del seno a seguito dell’asportazione è garantita dal nostro Sistema Sanitario Nazionale, i criteri di eligibilità per l’intervento di riduzione del seno o Mastoplastica Riduttiva, sono spesso basati su valori come il BMI (Body Mass Index) o il peso minimo di resezione mammaria durante la chirurgia (ovvero la quantità di tessuto minima che si potrà recidere), indici medicali che non tengono conto del vissuto dell’individuo e dalla menomazione risultante dai sintomi dolorosi connessi con l’ipertrofia del seno: come risultato a molte donne viene negato l’accesso ad una misura considerata come ‘di minore impatto’ e in definitiva ritenuta poco necessaria (Frey et al., 2014), quando al contrario esiste un solido corpo di studi a sostegno dei benefici ottenuti ricorrendo alla riduzione del seno (Blomqvist et al., 2000; Freire et al., 2007; Mello et al, 2010).

Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno. Per valutare l’effettivo impatto benefico costituito dall’intervento, il gruppo sperimentale è stato confrontato con un gruppo di controllo che rispondesse agli stessi criteri di eligibilità ma che non si fosse ancora sottoposto all’operazione e ad un secondo gruppo, costituito da donne il cui seno non fosse ipertrofico e la cui qualità della vita non risentisse dunque di questa problematica. Il 97,6% delle partecipanti ha dichiarato nel questionario post-operatorio che avrebbero rifatto l’intervento, 4 pazienti risultavano indecise e una soltanto non avrebbe ripetuto l’esperienza. A seguito dell’operazione inoltre le pazienti spendevano meno denaro per l’acquisto di medicinali o trattamenti (5.73$ al mese contro i 36,4$ dichiarati nel pre-operatorio) e richiedevano meno giorni di assenza dal lavoro (0,1 giorni nell’arco di sei mesi contro 4,5 giorni). A 3 mesi dall’intervento i punteggi al questionario usato per valutare la qualità della vita in relazione alla salute (SF-36) hanno mostrato un miglioramento significativo su tutte le 8 scale considerate, tali da essere equiparabili ai punteggi appartenenti al gruppo delle donne con seni di dimensioni regolari, rimanendo poi stabile a 6 e 12 mesi successivi all’operazione; il gruppo di controllo, non sottoposto ad intervento, riportava inizialmente una media inferiore di quella della popolazione normativa per poi rimanere prevedibilmente costante nei successivi assessment; nel confronto con le pazienti post-operatorie, il gruppo di controllo riferiva una condizione di salute peggiore, confermando l’effettiva efficacia dell’operazione nel migliorare la salute psicofisica delle donne.

I risultati ottenuti da Crittenden e colleghi (2020) riflettono un miglioramento sulla qualità della vita che eccede quelli ottenuti mediante l’innesto di un bypass coronarico o di riparazione di un’ernia, ed è equiparabile a quello ottenuto con l’impianto di una protesi totale del ginocchio, avvallando il ruolo dell’intervento di riduzione del seno nel migliorare in maniera clinicamente rilevante la qualità della vita delle donne che vi fanno ricorso.

Storia critica della psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati – Recensione del libro

Storia critica della psicoterapia è un testo che prepara e spinge a non aderire ai protocolli in modo rigido, a non dimenticare che anche se si chiamano psicoterapie in realtà la prassi terapeutica è una ed ha l’obiettivo di curare la sofferenza umana.

 

Ci siamo passati tutti. L’esame di storia della psicologia.

Si studiava Piaget. Bowlby. Freud. Winnicott. Fairbain. Pavlov. E via dicendo. Quindi il cognitivismo. Il costruttivismo. La psicoanalisi. La fenomenologia. L’attaccamentismo. Insomma. Grandi nomi. Grandi correnti.

Poi nel 2020 pubblicano Storia critica della psicoterapia, pensi a quell’esame e ti ritrovi a pensare che forse è l’ennesima carrellata di nomi, autori, teorie.

Invece, sorprendentemente, quello che emerge fin dalle prime pagine è che il punto di vista è completamente diverso. E il fulcro di tutto è la parola ‘critica’. La psicoterapia è raccontata a partire dai contesti storico-culturali in una operazione di ‘relativizzazione transdisciplinare’ in cui vengono analizzate le condizioni che hanno determinato la nascita, lo sviluppo, la modificazione e il superamento di una psicoterapia e dell’altra. Culture diverse, epoche storiche, prospettive epistemologiche che si sono susseguite nel tempo. Ma non solo. La psicoterapia si è evoluta anche grazie all’intreccio di differenti correnti come la medicina, la psichiatria, l’antropologia, ma ugualmente la filosofia, l’arte, la storia delle religioni, le neuroscienze e via dicendo.

Per anticipare questo progetto, cioè per offrire un background completo della psicoterapia, Lingiardi nella prefazione parla di ‘visione della psicoterapia con le radici all’insù, non dettata dall’innamoramento (o peggio dal pregiudizio) per questa o quella teoria, ma da uno spirito appunto critico, che non può separare la figura dallo sfondo…’. Tale affermazione risuona potentemente in un momento storico in cui di psicoterapie ne esistono a iosa, modelli e trattamenti, alcuni integrati (alcuni bene altri meno bene) che spesso confondono i terapeuti già formati e, ancor di più, quelli in formazione che si contendono prove di efficacia trovando pace nel così detto ‘verdetto del Dodo’. Ci ritroviamo terapie, protocolli, manuali che si abbattono di fronte alla necessità di cucire l’intervento sulla singola persona, costringendoci a mettere da parte le prescrizioni. Questa consapevolezza dovrebbe essere rafforzata e testi come questo insegnano a farlo. Preparano e spingono a non aderire ai protocolli in modo rigido, a non dimenticare che anche se si chiamano psicoterapie in realtà la prassi terapeutica è una ed ha l’obiettivo di curare la sofferenza umana. Ricordano come ogni terapeuta dovrebbe avere la responsabilità di conoscere da dove deriva il proprio orientamento teorico, dove esso è nato e maturato, in quali contesti, senza perdere di vista i restanti. Ed ogni terapeuta dovrebbe avere il dovere di conoscere la storia della propria professione e di come essa si sia costruita. Una storia che comprende intrecci socio-culturali e politici complessi.

Ad esempio, si conosce molto poco della ‘preistoria’ della psicoterapia scientifica (ma per chi volesse colmare questa lacuna in questo testo viene descritto il percorso che si origina dalle primissime concezioni di malattia e sofferenza e dalle prime pratiche di cura già nella Mesopotamia del 2100 a.C., passando per la filosofia greca, per il medioevo, il rinascimento e l’influsso del cristianesimo) oppure poco altro oltre la psicoterapia occidentale (come la tradizione francese rintracciabile in Charcot, Ribot, Janet o tedesca) e quella anglosassone.

Ci siamo mai chiesi, però, in che modo la filosofia dell’Ottocento faceva da sfondo alle prime riflessioni sull’inconscio? Chi sono i freudomarxisti? La loro idea di cura della nevrosi partiva dalla considerazione che curare il singolo significava interessarsi anche e soprattutto alla società. Come quest’attenzione ha portato alla nascita della Scuola di Francoforte che utilizzava la psicoanalisi come indagine della società contemporanea? In che modo Marx o Nietzsche piuttosto che Schopenhauer hanno influenzato la psicologia dinamica rappresentata in Freud, Jung, Adler? Tutti noi conosciamo Freud, certamente. Le sue teorie, la sua psicoanalisi. Pochi sanno che mentre nel 1900 vedeva la luce L’interpretazione dei sogni, a Berna, Dubois gettava le basi della psicosomatica e perfino del cognitivismo rappresentato da Ellis (che esplode poi con Beck), applicando per la prima volta una forma di psicoterapia basata sulla decostruzione delle credenze dei pazienti. Ed era solo la fine Ottocento e l’inizio del Novecento. Anni in cui Watson, sulla base del pensiero di Pavlov in Russia, ha dato vita negli Stati Uniti alle prime applicazioni del comportamentismo, esploso poi dagli anni Sessanta. E ancora, cosa accadeva alla psicoterapia rappresentata dai terapeuti che si trovavano a vivere gli anni della seconda guerra mondiale in rapporto, ad esempio, al trauma nei veterani di guerra?

Inoltre, sempre poco si sa di come le pratiche di cura mentale si siano sviluppate a partire dai primi esorcismi, magnetismi, il ruolo del sonnambulismo e dell’ipnotismo e di come esse si siano letteralmente trasformate le une nelle altre. Interessante la duplice versione di queste prassi: sia per esplorare e sperimentare che per trattare, non molto lontane dall’utilizzo di alcune tecniche terapeutiche moderne che, difatti, possono essere utilizzate con scopi e obiettivi diversi, in tempi diversi. Infine, in che modo è nata l’attenzione alla ‘relazione’ durante l’utilizzo di questi primi interventi di cura che sembravano essere eseguiti come un compito e subiti passivamente dal paziente?

Trasversalmente a tutto lo sviluppo della psicoterapia individuale, scopriamo la nascita delle terapie di gruppo, infantile, di coppia o familiare. Quando? E ad opera di chi? E perché? A quale necessità rispondevano? Com’è nata la crisi della psicoanalisi che ha spianato la strada alle altre forme di psicoterapia fino a giungere dalla terza ondata della psicoterapia cognitiva e alle terapie integrative che puntano ad un lavoro aperto e transdisciplinare, ad hoc per il singolo paziente e basate sulla relazione?

Viviamo in un mondo che evolve a rapidità estreme, le strutture mentali e neuronali vanno di pari passo ad esse e questo vale per le menti dei terapeuti quanto per quelle dei pazienti. Viviamo in un mondo globale, internazionale, in cui culture e abitudini si fondono; curiamo pazienti che si trovano al buio mentre noi siamo in piena luce, collegati via Skype e questo è contesto, è cultura, è società. È alla base della nostra esistenza. Non può essere dimenticato mentre si fa terapia. La transdisciplinarietà fa evolvere il modo di fare terapia. E noi evolviamo con essa. L’ultimo capitolo dal titolo Dal passato al futuro, infatti, si focalizza sulla modernità liquida, sull’avvento di internet e dei social, sui processi di globalizzazione che hanno assorbito anche la psicoterapia, sulla moltiplicazione dei modelli di intervento che abbiamo a disposizione oggi, molti di essi focalizzati sul principio della evidence based. Inoltre, le discipline si sono fuse sempre di più tra di esse, come l’affascinante unione delle neuroscienze alla psicoterapia, e aderiscono alle esigenze della modernità. Basti pensare a come oggi i pazienti cerchino terapie brevi ed efficaci per rispondere alle risorse economiche limitate.

Non dimentichiamo quindi di avere sempre una visione ‘critica’ non nel senso comune del termine, non per indicare cosa non va, ma nel senso di ‘relatività’.

Questo viaggio della psicoterapia nel tempo e nello spazio, in modo strutturato ed ordinato, possibile grazie alla lettura di questo testo, è affascinante. Certo, è un libro che non prende posizione, come chiarito fin dalle prime pagine. Come d’altronde è giusto che sia per una rassegna storico-critica. Non è uno di quei libri da leggere nelle pause tra un paziente e l’altro né in metro. Richiede tempo. È una lettura che deve maturare. Ed il lettore deve pensare, collegare, ricordare. Accedere alla memoria di eventi storici. Però l’impegno vale tutto. Mi sembra quasi di essere più consapevole di cosa vuol dire essere una terapeuta nel 2020 dopo aver saputo cosa è accaduto alla prassi psicoterapica fin dal tempo 0.

COVID-19: aver paura di avere paura

Non permettere a noi stessi di provare paura ci pone in una condizione di estrema fragilità emotiva, perché da un lato ci fa recitare la parte di coloro che non cadono vittime delle angosce e ci fa sentire apparentemente invincibili, ma dall’altra parte ci preclude la possibilità di un confronto con noi stessi, con i nostri limiti e, reciprocamente, con le nostre risorse.

 

 Ad oggi, relativamente alla pandemia di Covid-19 (SARS-CoV-2) si sono registrati a livello globale 294.110 casi confermati e 12.944 persone decedute (Fonte: Dati OMS – Health Emergency Dashboard, del 22 Marzo, ore 18.00 CET).

Fa paura? Si.

Apriamo una parentesi teorica, rivolta a tutti. La paura in psicologia viene compresa tra le sei emozioni di base identificate dallo psicologo statunitense Paul Ekman (1972, 1987). Per emozioni di base si intendono quelle emozioni che vengono provate da tutti gli essere umani, prescindendo da caratteristiche quali cultura di appartenenza, sesso, età, etnia, ecc.

Possiamo definire la paura come uno stato emotivo connotato da una sensazione di pericolo, per sé o per altri, legato ad una particolare situazione o stimolo. La paura viene alimentata da tensione e incertezza, che ci impediscono di poter dedurre in modo chiaro ed inequivocabile quali saranno le conseguenze con cui dovremo relazionarci. La paura può scaturire da uno stimolo definito e circoscritto oppure avere ad oggetto qualcosa di indefinito, che non riusciamo a identificare. È bene tenere in considerazione che la paura, come tutte le emozioni che possiamo provare, se espressa in modo proporzionato al pericolo, ha una funzione adattiva, ovvero ci consente di relazionarci con una situazione data dall’ambiente che ci circonda, in modo utile e funzionale per la nostra sopravvivenza. Tradotto in termini più pratici, possiamo dire che la paura ci tutela poiché ci consente di riconoscere una situazione di pericolo e di prepararci ad affrontarla. Le reazioni che mettiamo in atto di fronte alla paura possono essere di attacco o di fuga, a seconda che decidiamo di fronteggiare e opporci allo stimolo che ci fa paura, oppure che optiamo per evitarlo. Risulta intuitivo comprendere come la decisione di fuggire o attaccare dipenderà in larghissima parte, oltre che dalle predisposizioni personali di ognuno di noi, da una serie di elementi che caratterizzano l’oggetto della nostra paura e da quanto la paura stessa dell’oggetto impatti su di noi in termini di benessere psico-fisico.

Cosa vuol dire allora affermare che la pandemia di Covid-19 ci fa paura? Significa poter conoscere che ci sentiamo in una situazione di pericolo sia per noi stessi che per le persone a noi vicine e per gli altri in generale, e che questo pericolo è legato al rischio biologico di infettarci e di contrarre il Covid-19. Significa chiederci se la paura che proviamo in questa situazione è proporzionata al reale pericolo che stiamo vivendo e, se sì, se risulta essere utile e funzionale per poterci proteggere e salvare dal pericolo stesso. Significa riconoscere che è una situazione alimentata da tensione e incertezza, e della quale non possiamo dedurre in modo chiaro ed inequivocabile le conseguenze sul piano sanitario, economico, sociale e psicologico.

Relativamente agli stimoli che elicitano la paura possiamo sicuramente affermare che il principale di questi sia rappresentato dal virus, a cui si somma la preoccupazione legata alla morte, alla sofferenza, al contagio. Possiamo tuttavia aggiungere anche una serie di stimoli indefiniti e poco delineati, legati per esempio alle preoccupazioni derivanti dalla situazione economica e lavorativa che conseguirà, alla incertezza legata alla durata della situazione di emergenza e al tempo post-emergenza. In quale misura questi stimoli, o altri, alimentino la nostra paura è ovviamente un dato soggettivo, che dipende in larga parte dalla capacità del singolo individuo di razionalizzare e incasellare in modo funzionale le informazioni che riceve circa la situazione in corso, nonché dalla capacità di comprendere a fondo e informarsi tramite fonti certe, per evitare di alimentare l’incertezza. L’intensità con cui questa situazione ci spaventa dipende inoltre molto dalle risorse personali che possiamo mettere in campo sul piano emotivo e psicologico per fronteggiare la paura, cioè quelle strategie che ci permettono di mantenerci lucidi e quanto più possibile calmi riguardo alla situazione che stiamo vivendo. Situazione dinnanzi alla quale, come da teoria, possiamo rispondere con due tipologie di comportamenti a seconda che decidiamo di combattere la paura o di fuggirla.

Combattere la paura significa combattere tutti i suoi stimoli, significa mettere in campo le proprie energie cognitive ed emotive per far fronte ad una situazione totalmente nuova, ricolma di incertezze e di domande prive di risposta, di dubbi irrisolvibili, di attese e di vite attaccate a respiratori. Combattere la paura cioè significa ammettere di avere paura. Avere paura di essere stati contagiati, avere paura che i più fragili, perché di età avanzata o perché presentano quadri clinici compromessi possano non sopravvivere, avere paura che lo stress legato a questa situazione prenda il sopravvento sulla nostra emotività e ci crei problemi psicologici che a loro volta ci spaventano. Significa anche cedere alla paura di restare senza alimenti e beni di prima necessità, così come a quella di essere costretti in casa senza riuscire a vedere la fine, in termini temporali, di questa situazione e temere per gli aspetti economici dovuti all’impossibilità di svolgere il proprio lavoro. Significa, non da ultimo, riuscire ad adattarsi in modo funzionale e positivo ad una situazione di isolamento sociale forzato e reinventare il tempo in esso, così da dotarlo di senso. Sfide queste che si configurano come vere e proprie battaglie quotidiane con e contro noi stessi, nell’ottica di riadattarci ad una dimensione di vita fino ad oggi mai immaginata.

Fuggire la paura, di contro, significa sottrarsi al presente, negare le peculiarità della situazione che stiamo vivendo fino a giungere al punto di negare a noi stessi di avere il diritto di avere paura, cioè negarci la possibilità di dirci chiaramente e senza equivoci “io ho paura di quello che succede intorno a me”. Non permettere a noi stessi di provare paura, aver paura di avere paura, ci pone in una condizione di estrema fragilità emotiva, perché da un lato ci fa recitare la parte di coloro che non cadono vittime delle angosce che attanagliano la società e ci fa sentire apparentemente invincibili, ma dall’altra parte ci preclude la possibilità di un confronto con noi stessi, con i nostri limiti e, reciprocamente, con le nostre risorse. Se non ci poniamo nella condizione di provare paura, ci risulta molto difficile riuscire ad identificare in modo nitido quali siano gli stimoli che ci scatenano questa emozione; conoscere l’origine della nostra paura ci consente di delineare quali siano i confini oltre i quali non siamo in grado di addentrarci e di conseguenza quali siano le risorse personali che possiamo mettere in campo per provare a spingere un po’ oltre queste linee di confine. Negarci di avere paura può sembrare apparentemente una misura adattiva, che ci protegge dal dolore che la presa di coscienza porta con sé: non serve certo lo psicologo per capire che negare che un problema esista ci toglie dalla condizione di subirne gli effetti collaterali, se non altro a livello emotivo.

La necessità di rispondere ad una richiesta sociale precisa, che ci impone di mostrarci sempre funzionanti al massimo delle nostre potenzialità, ci pone nella condizione di dover rispondere ad un alto standard di performance, quello di coloro che sono forti. Essere forti è comunque un livello emotivo tutt’altro che rigido e prestabilito, ma anzi altamente modellabile e adattabile. Porsi interrogativi circa la necessità stessa di dover essere forti risulta quantomeno inutile in un mondo dove il progresso della specie di basa sulla sopravvivenza dell’individuo più forte biologicamente e – in tempi moderni – emotivamente. Di contro si rivela più che mai necessario interrogarsi circa il significato di essere forti. Non è più quindi un “chi” è forte, ma diviene inevitabilmente un “come” si è forti. Ragionevolmente si può concludere che forte possa essere colui che si concede la possibilità di esperire tutte le emozioni che prova, senza necessità di reprimere quelle più spiacevoli e di più difficile gestione, ma anzi permettendo a sé stesso di lasciare che queste emozioni si manifestino nella loro integrità in modo tale da poterle conoscere e gestire in modo adattivo e funzionale. Forte è colui che non ha paura di avere paura, e che dalla paura stessa ricava le risorse per fronteggiarla.

Inevitabilmente la paura che sta accompagnando questo periodo storico e sociale non è una paura che possiamo governare e gestire interamente da soli, perché si tratta di una paura di dimensioni molto vaste, sia in termini di intensità che di durata. È una paura che coinvolge tutti noi, che si insidia ovunque, senza lasciarci la possibilità di sfuggirla, neanche per un attimo. Possiamo concederci di avere paura, dunque, e possiamo farlo senza paura di avere paura. Quali saranno poi i risvolti psicologici del Covid-19, i mostri che lo accompagnano, non possiamo far altro che aspettare di vederlo.

Emergenza coronavirus e smartworking – Erickson lancia eLab-PRO per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali

Emergenza coronavirus e smartworking: Erickson lancia eLab-PRO per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali. Un ambiente online gratuito con oltre 200 risorse e strumenti digitali.

 

Anche in questo momento Erickson è vicina alle esigenze dei professionisti proponendo una serie di materiali che permettono di attivare nuove modalità di lavoro anche a distanza. eLab-PRO è un ambiente online che rende disponibili oltre 200 materiali tra test, griglie di valutazione, attività, esercizi facilmente consultabili in base al proprio ambito di riferimento e scaricabili gratuitamente. Tutte le proposte, pensate per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali, sono basate su evidenze scientifiche e su una visione dell’aiuto professionale che mette al centro le persone, e la fiducia verso un cambiamento possibile.

Ogni professionista è libero di consultare tutti i materiali e scegliere quelli più utili per le proprie attività cliniche, riabilitative, assistenziali. Ogni file (in formato PDF) si può consultare, scaricare sul proprio device (PC, tablet, smartphone…) e stampare. Sono inoltre riportate le fonti dei materiali per ulteriori necessità di approfondimento.

I materiali affrontano 6 ambiti di attività: psicologia clinica, logopedia e linguaggio, autismi, disabilità, anziani fragili, tutela dei minori.

L’ambito psicologia cognitiva affronta le seguenti tematiche: ansia sociale, disturbi dell’alimentazione, strategie di coping, regolazione delle emozioni, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo da accumulo, insonnia, ansia per le malattie, perfezionismo, criticismo genitoriale.

L’ambito logopedia e linguaggio affronta i seguenti temi: abilità socio-pragmatiche, riconoscimento delle categorie di parole, comprensione del testo, digrammi e trigrammi, gruppi consonantici, recupero ortografico, strategie di lettura visiva, suoni difficili, abilità fonologiche e metafonologiche, allenamento percettivo-articolatorio, educazione vocale infantile.

L’ambito autismi affronta i seguenti temi: storie sociali, teoria della mente, autonomie personali e sociali, abilità socio-pragmatiche, concetti matematici, creatività, attenzione visiva, comunicazione, comprensione dei testi, parent training.

L’ambito disabilità affronta i seguenti temi: storie con la Comunicazione Aumentativa Alternativa, strumenti per potenziare le autonomie (fare la spesa, cucinare), facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, attività per affrontare amicizia e amore, suggerimenti per aiutare le persone con disabilità in ospedale, interventi psicoeducativi nella disabilità grave, percorsi educativi e disabilità visiva, training metacognitivo, stimoli per garantire l’autodeterminazione.

L’ambito anziani fragili affronta i seguenti temi: idee per laboratori, strumenti per lavorare sulla storia di vita, esercizi di stimolazione cognitiva, consigli per ridurre i comportamenti problematici, indicazioni per la comunicazione con i familiari, linee guida per il superamento del lutto.

L’ambito tutela minori affronta i seguenti temi: colloquio di aiuto, stress sul lavoro, accoglienza in comunità, valutazione/assessment, relazione con il bambino, visita domiciliare, sostegno alla genitorialità, violenza domestica.

 

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Partecipa alla ricerca: isolamento e quarantena ai tempi del covid-19 – SURVEY

La dichiarazione dell’OMS sullo stato pandemico ha portato molti Stati ad imporre un regime di quarantena il cui rispetto è essenziale per contenere le infezioni. Questa restrizione impedisce il soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali. 

 

Il rapporto tra il tasso soggettivo di sconto del ritardo (DD), la tendenza a preferire premi immediati, ma più piccoli rispetto a quelli più grandi in futuro, e il rischio percepito (PR) di contagio, sono variabili capaci di influenzare il rispetto della quarantena. Inoltre, alcune variabili cognitive ed emotive, come l’ansia, la preoccupazione e l’intolleranza all’incertezza, possono influenzare i comportamenti dei cittadini.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti.  

 


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