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Discriminazione sessuale e abuso di sostanze

Sembra che chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali. A cosa è dovuto? La teoria del minority stress.

 

I Disturbi da Uso di Sostanze interessano circa 20 milioni di adulti negli Stati Uniti (Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2018) e includono i disturbi da uso di alcol (AUD), da uso di sostanze (DUD) e da uso di tabacco (TUD; APA, 2013). Questo genere di disturbi ha un impatto significativo sulla mortalità negli Stati Uniti, nonché dei costi elevati per i familiari, costretti il più delle volte a pagare cure dispendiose, centri di recupero ed essere soggetti a furti da parte del parente con una dipendenza (Whiteford et al., 2015).

Chi ha un orientamento sessuale o un’identità di genere non maggioritario, ovvero le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender – o transessuali –, queer, intersessuali e asessuali) ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali, anche nel caso in cui le caratteristiche socioculturali e demografiche siano le medesime (Kerridge et al., 2017). In particolare, chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha maggiori probabilità di avere una diagnosi di AUD (Allen & Mowbray, 2016), una di TUD (McCabe et al., 2018) e una di disturbo da uso di marijuana (McCabe et al., 2009).

Il minority stress è la motivazione più scientificamente fondata a sostegno di questa differenza nell’abuso di sostanze tra le minoranze sessuali; questo è dovuto principalmente al fatto che le minoranze sessuali sono sottoposte a un numero significativamente maggiore di fattori di stress cronici nel corso della vita. I fattori di stress cronici comprendono pregiudizio, discriminazione, stigma relativo all’orientamento e/o all’identità di genere o la paura di subire discriminazioni dalla società (Meyer, 2003).

Alcune ricerche condotte di recente, hanno evidenziato che l’abuso di sostanze, correlato a un orientamento sessuale e/o un’identità sessuale non maggioritaria, varia anche in base all’età anagrafica: le esperienze di discriminazione di individui appartenenti a minoranze sessuali giovani possono infatti essere differenti da quelle dei soggetti più anziani (Hammack et al., 2018).

A questo proposito, il presente studio (Evan-Polce et al., 2020), si è posto l’obiettivo di indagare la correlazione esistente tra età anagrafica, orientamento e/o identità sessuale e AUD, TUD e DUD. Il campione, composto da 2375 soggetti, includeva individui eterosessuali, omosessuali e bisessuali.

I risultati hanno mostrato che la discriminazione sessuale era più evidente durante la prima infanzia, ma riportava un’associazione statisticamente significativamente con AUD, TUD e DUD solamente in età più avanzata. Le correlazioni più significative tra abuso di sostanze e orientamento sessuale sono state riscontrate tra i 24 e i 40 anni per l’AUD, tra i 32,5 e i 42,9 anni per il DUD e tra i 39,3 e i 43,2 anni per il TUD. Coloro che venivano discriminati per il loro orientamento sessuale intorno ai 30 anni di età avevano una possibilità 2,1 volte superiore di abusare di alcolici rispetto a coloro che non venivano discriminati e agli eterosessuali (Evan-Polce et al., 2020).

In conclusione, lo studio condotto dimostra che è tuttora presente una forte correlazione tra discriminazione sessuale e abuso di sostanze e di alcolici, in particolare per i giovani adulti, sottolineando il rischio psicologico dello stigma sociale, purtroppo ancora duro a morire.

 

Gli effetti della ruminazione depressiva

Quali sono gli effetti che la continua ruminazione produce sull’individuo? L’attenzione tende a focalizzarsi sulle perdite passate e sugli errori commessi portando a fare paragoni e confronti negativi tra sé e gli altri e ad emettere giudizi svalutativi nei propri riguardi. Si verificano difficoltà nella presa di decisioni e nel problem solving, domina il pessimismo, si riscontrano scarsa flessibilità cognitiva e difficoltà interpersonali e tutto ciò concorre a mantenere ed incrementare l’umore negativo.  

 

Una volta attivata, la ruminazione depressiva produce conseguenze sia a livello cognitivo che emotivo e comportamentale. L’individuo è indotto in uno stato emotivo negativo caratterizzato da senso di scoraggiamento, persistente evitamento delle situazioni ed utilizzo di domande afinalistiche come “perché mi accadono solo cose negative? Perché mi sento sempre così triste? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” (Watkins, 2016).

Livello cognitivo

A livello cognitivo la ruminazione comporta: scarse capacità di problem solving, riduzione della concentrazione, distorsione degli schemi di giudizio, indebolimento della performance cognitiva ed aumento dello stress (Lyubomirsky e Tkach, 2004).

Riguardo la capacità di problem solving, nella ruminazione si è indotti a porsi domande generali ed astratte piuttosto che quesiti specifici e concreti e ciò, oltre a ridurre la facoltà di trovare soluzioni pratiche, aumenta la percezione di senso di impotenza e la sensazione di essere “senza speranza” (Watkins e Barcaia, 2001).

Rispetto all’abbassamento della performance cognitiva, collegata alla ridotta capacità di concentrazione, questa può interferire con lo svolgimento di prestazioni lavorative e più in generale con lo svolgimento di attività quotidiane. Ciò avviene in quanto i pensieri ruminativi tendono ad intrudere nelle occupazioni che si stanno svolgendo, comportando sia una riduzione della quantità di informazioni che possono essere elaborate in parallelo sia una riduzione nella velocità del compito che ha, come conseguenza, il depauperamento delle risorse attenzionali dirette verso il compito specifico e la diminuzione delle prestazioni cognitive (Baddley e Hitch, 1994).

Passiamo ora alla distorsione degli schemi di giudizio cognitivi (Lyubomirsky e Tkach, 2004) caratterizzati da aumento del ricordo di episodi autobiografici negativi (Lyubomirsky, Caldwell e Nolen-Hoeksema, 1998), intensificazione del pensiero negativo riguardo al futuro (Lavender e Watkins, 2004) e accrescimento delle interpretazioni negative in termini di valutazione globale di sé (Rimes e Watkins, 2005). Il soggetto è portato ad incolparsi per i problemi, si considera incapace, sfortunato e/o mancante di alcune abilità normali. Tali schemi di giudizio, agendo come chiavi di lettura della realtà, hanno l’effetto di produrre costanti esperienze di deflessione del tono dell’umore che riattivano la ruminazione in un ciclo auto-perpetrantesi.

Infine un ultimo effetto del pensiero ripetitivo a livello cognitivo è l’aumento dello stress, a sua volta correlato a problemi di salute fisica. Prolungando infatti l’arousal psicologico e fisiologico che accompagna lo stress si produce un’elevata attivazione del sistema autonomo, in particolare della pressione arteriosa, che, prolungando le emozioni negative, incide sul livello di stress (Gerin et al., 2006).

Livello emotivo

A livello emotivo la ruminazione depressiva comporta un peggioramento dell’umore, della tristezza, del senso di disperazione ed anche di altre emozioni, come vergogna, colpa e rabbia, soprattutto indirizzate verso sé stessi. La persona tende a sentirsi maggiormente impotente, incompresa e sola ed a questo si associa un peggioramento delle convinzioni negative di sé, del mondo e del futuro, la cosiddetta “triade cognitiva” di Beck.

Piano comportamentale

Sul piano comportamentale l’individuo tende maggiormente ad isolarsi, a procrastinare e ad essere inattivo (Rainone e Mancini, 2018).

L’evitamento nasce dalla volontà di voler meditare sui propri problemi al fine di trovarvi soluzione. In realtà ciò che accade è che, oltre a non intraprendere azioni concrete per la risoluzione di problemi, la ruminazione riduce al minimo gli stimoli distrattori che potrebbero portare ad interrompere tale processo. Ciò ha l’effetto paradossale di portare la persona a concentrare l’attenzione su di sé, mantenendo l’umore depresso ed incrementando la ruminazione che diviene una potenziale causa e conseguenza dell’evitamento (Carver e Scheier, 1981).

Riguardo la riduzione della motivazione e l’inibizione del comportamento strumentale, l’individuo a seguito della focalizzazione sui sintomi depressivi è portato a pensare di non disporre di strategie utili alla risoluzione dei problemi o di non riuscire più a provare piacere nello svolgimento delle attività quotidiane e ciò, di conseguenza, lo spinge a non impegnarsi in attività costruttive ed adattive (Lyubomirski e Tkach, 2004).

Rispetto alle relazioni sociali, la ruminazione può associarsi sia alla tendenza a dimenticare impegni amicali e professionali sia alla difficoltà a prendersi adeguatamente cura della propria persona, con il risultato, in entrambi i casi, di un peggioramento delle abilità di coping e di un aumento del rischio di fallimento che mantiene e peggiora lo stato depressivo (Seligman, 1975). Chi rumina infatti può faticare a rimanere attento in uno scambio relazionale a causa della costante interferenza prodotta dalla ruminazione stessa o può, tramite il suo stile pessimista e lamentoso, generare risposte negative di allontanamento e rifiuto da parte delle altre persone (Papageorgiou e Wells, 2008). Inoltre il timore di essere abbandonati porta a cercare di evitare situazioni sociali, creando un effetto paradosso, per cui si avvera proprio ciò che si teme. Infine la persona, tendendo a sentirsi più responsabile del tono emotivo delle sue reazioni (Nolen-Hoeksema e Jackson, 2001) e prestando molta attenzione ad ogni sfumatura del suo rapporto interpersonale rispetto a possibili pericoli, alimenta la ruminazione stessa.

L’insieme di questi risultati sembra quindi confermare come la ruminazione depressiva sia una strategia disfunzionale di regolazione delle emozioni associata a disfunzioni cognitive, emotive e comportamentali che contribuiscono al mantenimento e all’inasprimento di sentimenti negativi (Daches et al., 2010).

 

Il disturbo dissociativo e l’attaccamento disorganizzato: una possibile relazione

Recenti studi hanno identificato l’esistenza di una possibile relazione tra attaccamento disorganizzato infantile e sintomi dissociativi in età adulta, fondando questa ipotesi a partire dalle analogie riscontrabili tra i due aspetti patologici.

 

Per comprendere la natura di questo legame è necessario definire il concetto di dissociazione come uno stato psichico la cui presenza causa una totale disconnessione tra memoria, attenzione, identità, aspetti che in condizioni non patologiche funzionano a livello sintetico e collaborativo. Freud (1920; 1925)  definiva l’episodio di dissociazione come un meccanismo di difesa che intercorre dopo un evento di particolare impatto emotivo, identificabile, nella maggioranza dei casi, con un trauma che spinge l’Io a distanziarsi dall’evento disgregante per non doverlo affrontare né rielaborare, fin tanto da non riconoscerlo come proprio (negazione) o da ritenere che lo stesso sia mai accaduto (diniego).

Janet dà invece una definizione diversa di trauma, che ben poco ha a che vedere col meccanismo di difesa ipotizzato da Freud. La dissociazione che consegue al trauma viene in questo caso definita come un fallimento della sintesi personale, intesa come adattamento funzionale all’ambiente, che costituisce l’obiettivo principale dell’attività mentale (1889; 1907). Questo fallimento non può venir causato solo dal trauma, ma da qualunque altra situazione ad impatto emotivo particolarmente disgregante, come emozioni violente, malattie, lutti: in ogni caso in cui il meccanismo dissociativo viene messo in azione, ad ogni modo, non si tratta di un meccanismo di difesa dell’Io, quanto di una conseguenza del trauma stesso, quel trauma che provoca il crollo della coerenza dei processi mentali adattivi in grado di garantire il mantenimento di un Sé integrato. La memoria dell’evento traumatico assume in questo frangente uno stato subconscio, e non perché la mente la rimuove in un tentativo di autoconservazione, come sostenuto dalla teoria freudiana, bensì perché la memoria stessa non riesce mai a raggiungere una rappresentazione pienamente conscia, verbalizzata, traducibile in elemento narrativo, rimanendo al contrario imprigionata in una serie di memorie implicite non accessibili alla coscienza (1889; 1907). D’altro canto la possibilità di narrare un episodio occorso in un determinato luogo e momento esplicita il maggior successo della sintesi personale teorizzata da Janet, funzione che proprio dal trauma viene impedita. La mente deve creare ordine e coerenza tra i suoi contenuti: ove fallisca in quest’impresa a causa del trauma anche la sintesi personale vedrà il proprio fallimento, e l’elaborazione mentale resterà allo stato confusionale della dimensione subconscia.

Analogie tra disturbo dissociativo e attaccamento disorganizzato

Le caratteristiche del disturbo dissociativo sono afferenti ad esperienze incongruenti, disorganizzate, spesso instabili, confabulatorie a livello cognitivo, anamnestico. Le medesime caratteristiche si riscontrano nei soggetti con attaccamento disorganizzato, tanto che tra i disturbi è stato possibile parlare di una somiglianza fenotipica. Ciò non significa che alla base dei due disturbi ci siano i medesimi processi eziologici, ma la somiglianza tra attaccamento disorganizzato e disturbo dissociativo rende plausibile l’ipotesi che il concetto di Janet, relativo all’esperienza dissociativa come ad un fallimento della sintesi personale, possa risultare applicabile a processi mentali dissociati osservati nei soggetti adulti sottoposti all’AAI e nei bambini considerati disorganizzati nella Strange Situation (Main e Morgan, 1996). In entrambi i casi si sono infatti rilevati aggressività agita e comportamenti incoerenti con il contesto, e per quanto riguarda gli adulti anche deficit metacognitivi nel monitoraggio del ragionamento e del discorso.

Questo aspetto di mancata integrazione, incoerenza e imprevedibilità potrebbe essere dovuto alla mancata verbalizzazione dell’esperienza traumatica che ne impedisce anche la riorganizzazione e la rievocazione mnestica, la cui origine può venir identificata, sia per la dissociazione sia per l’attaccamento disorganizzato, in un mancato coordinamento integrativo tra memoria implicita e memoria esplicita, relativo a ricordi semantici ed episodi (Liotti, 1999). I bambini con attaccamento disorganizzato, esattamente come i soggetti dissociati di fronte al ricordo dell’esperienza traumatica, sono incapaci di sintetizzare in una struttura mnestica coesa la loro esperienza complessiva con la figura di accudimento, e formano al contrario una serie di ricordi composti da significati separati e inconciliabili (Putnam, 1995). Tale incongruenza mnestica a livello verbale e cognitivo non rappresenta un vero e proprio meccanismo di difesa, quanto un meccanismo di sopravvivenza cui il bambino ricorre per evitare la realtà traumatica, e che si traduce immancabilmente in una rottura primaria dei processi intersoggettivi da cui deriverebbe una vera e propria assenza mentale, una dissociazione dal Sé (Stolorow et al., 1992).

Nel caso dei soggetti con attaccamento disorganizzato vediamo come questo possa essere causato altresì dall’incongruenza dei MOI che il bambino sperimenta attraverso un’interazione genitoriale connotata da aspetti incoerenti e contraddittori: così, se il bambino con attaccamento evitante riesce a predire il rifiuto del genitore e quello con attaccamento ansioso riesce a predirne l’ambivalenza e l’insicurezza, al bambino con attaccamento disorganizzato tale possibilità di previsione è negata dalla presenza di una figura genitoriale disconnessa e instabile. È infatti probabile che in un’occasione il comportamento del caregiver risulti eccessivamente intrusivo o controllante, e in una situazione completamente analoga esso mostri aspetti comportamentali totalmente antitetici. Il bambino, disorientato e confuso da tali cambiamenti, impara così a non fare affidamento sul comportamento del genitore, del quale riflette l’instabilità in una serie di comportamenti contraddittori, scissi e inconciliabili che lo rendono talvolta controllante e iperprotettivo verso il caregiver, e altre volte ostile, scontroso, evitante. Nei casi di maltrattamento la situazione appare ancora più disastrosa: i bambini che ne risultano oggetto non possono esplicitare ricordi in cui stati d’animo come la paura, l’angoscia, la rabbia e il sollievo si succedono drammaticamente sia nel Sé che nella percezione della figura di attaccamento, e le strutture di significato che derivano da queste esperienze sono ancora più incomprensibili e polisemiche (Liotti, 1992; Main e Morgan 1996).

Nello specifico i bambini che non riescono a spiegarsi il comportamento abusante del genitore, si risolvono ad una serie di interpretazioni patologiche che condizionano il loro sviluppo emotivo e cognitivo: così possono, simultaneamente e con la stessa probabilità, ritenersi colpevoli di certi atteggiamenti del genitore, e dunque di meritarli, oppure possono considerare la figura di attaccamento come causa diretta della loro paura, o al contrario possono ritenere se stessi in grado di salvare la figura genitoriale da un pericolo esterno. I MOI tipici di tali contesti evolutivi, anziché apparire coesi ed integrati, sono dunque frammentati in una serie di interpretazioni polisemiche e sconnesse che rendono il bambino vittima, salvatore o aggressore, nel c.d. triangolo drammatico, in grado di ostacolare gravemente la sintesi mentale di un Sé unitario (Liotti, 1999). Questo aspetto della disorganizzazione infantile ha corroborato l’ipotesi che considera l’attaccamento disorganizzato nella prima infanzia come predittore dello sviluppo dissociativo in adolescenza e nell’età adulta. Così il bambino che si sente contemporaneamente vittima e carnefice del genitore potrebbe risultare un adulto il cui Sé appare inconsapevolmente collegato ad aspetti altalenanti tra punizione e accudimento, tra persecuzione e cura: da qui l’origine di microdissociazioni incontrollabili, di esperienze del Sé e del Sé con l’altro non integrate che si sublimano nel disturbo dissociativo (Main e Cassidy, 1988).

Tanto premesso è tuttavia doveroso precisare come il legame tra attaccamento disorganizzato in età infantile e disturbo dissociativo in età adulta non costituisce un automatismo: molti fattori protettivi sono infatti in grado di escludere questa infausta relazione, quali la presenza di una figura familiare di attaccamento diversa e più sicura di quella genitoriale, rapporti extra-familiari funzionali, una comunicazione relativamente libera e sincera con una figura disponibile, la tempestiva presa in cura del caregiver che consenta un recupero dalla disfunzionalità del trauma e della sua sofferenza irrisolta. Questo e altri fattori protettivi sarebbero dunque in grado di consentire, anche in situazioni disorganizzate, un livello di sintesi personale capace di impedire a sua volta la formazione di significati del Sé contraddittori, e dunque dissociati, nell’adulto (Gilbert, 1989; Liotti, 1999).

Conclusioni

Effettuate le dovute precisazioni, sembra che l’attaccamento disorganizzato sia la via prototipica, sebbene non la sola, per la costruzione di ricordi incongruenti che impediscono la sintesi personale del Sé come intesa da Janet, e quindi il legame tra emozioni dolorose e trauma non deve essere considerato necessariamente come una difesa da emozioni dolorose, ma anche e soprattutto come la riaffermazione di significati polisemici e incongruenti concernenti la separazione del Sé con l’altro. Proprio le rappresentazioni del Sé con l’altro che derivano da questo processo si mostrano precoci, instabili, incongruenti, congelate, inflessibili o sin troppo mutevoli, e non alternativamente, bensì contemporaneamente, dando vita a quell’instabilità e a quella mutevolezza patologica tipica dello stato dissociativo.

Secondo questa teoria, le esperienze dissociative quali flashback, depersonalizzazione, amnesia, esperienze extracorporali e vissuti di trance, potrebbero venir intese sia come il risultato di emozioni dolorose e non rielaborate, sia come il fallimento di una sintesi mnestica e cognitiva, quindi della coscienza personale stessa, derivante dalla disfunzione dei processi impliciti nella costruzione dei modelli operativi di attaccamento (Liotti, 1999).

 

Cognitivismo Clinico: proposte di intervento clinico e nuove prospettive in terapia cognitiva- Editoriale

Il 2019 di Cognitivismo Clinico si chiude con un numero che comprende interessanti rassegne, proproste di intervento clinico e nuove prospettive.

 

Il numero si apre con due lavori che si focalizzano sull’efficacia di due noti approcci terapeutici su specifiche patologie. Il primo lavoro di Somma e colleghi, del gruppo del San Raffaele di Milano coordinato dal Prof. Fossati, è una approfondita e accurata metanalisi sull’efficacia della Schema Focused Therapy (SFT) nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). L’articolo utilizza le caratteristiche del DBP come indicatore di outcome primario e la sintomatologia acuta come indicatore di outcome secondario. Nonostante una significativa eterogeneità dei dati viene rilevata un’efficacia elevata della SFT su entrambi gli outcome, supportandone l’utilità clinica per il trattamento del DBP.

Cosentino e Mancini prendono invece in esame l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) come protocollo da utilizzare nel trattamento del disturbo ossessivo- compulsivo (DOC). Gli autori dopo una rassegna della letteratura evidenziano che i dati ad oggi disponibili non sono sufficienti per considerare l’EMDR, utilizzato come intervento unico, un protocollo efficace nel trattamento di tale disturbo. Pertanto essi propongono come integrare l’EMDR nel protocollo di trattamento per il DOC descritto da Mancini (2016) per il quale sono già disponibili dati di efficacia. In particolare gli autori ritengono che l’EMDR può essere utile per desensibilizzare e rielaborare i ricordi delle esperienze legate alla sensibilità alla colpa caratteristica di questi pazienti. L’articolo è supportato da due chiare e interessanti esemplificazioni cliniche.

Perdighe et al. presentano un intervento di dodici sedute basato sulla terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), rivolto a caregiver di pazienti con malattia di Alzheimer, allo scopo di supportare e ridurre il loro disagio emotivo legato allo svolgimento di questo specifico ruolo. Il lavoro nasce da una collaborazione tra la Scuola di Psicoterapia Cognitiva e l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e cerca di favorire l’accettazione della malattia e l’investimento su valori e scopi personali per migliorare la qualità della vita dei caregiver.

Nel lavoro successivo Toso illustra con chiarezza espositiva i recenti progressi raggiunti nelle aree di apprendimento ed estinzione della paura che hanno portato alla formulazione di un nuovo modello concettuale della terapia di esposizione. Tale modello si basa su due punti chiave: 1) l’efficacia è legata alla creazione di nuove memorie antagoniste e inibitorie, piuttosto che, come riportato da vecchi modelli, dalla cancellazione dei ricordi eccitatori di paura. Di conseguenza, 2) la riduzione della paura, all’interno di ogni singola seduta di esposizione, non è di per sé un indice di successo terapeutico, se non associata alla forza e alla recuperabilità delle nuove associazioni inibitorie che si formano e all’efficacia della regolazione neurale sottostante. L’autore illustra, quindi, le caratteristiche del nuovo modello concettuale e come mettere a punto strategie finalizzate a consolidare l’apprendimento inibitorio mediante interventi di tipo comportamentale, farmacologico e di neuromodulazione.

Bisogno et al. dedicano il loro lavoro a sottolineare l’importanza di attuare interventi precoci per il trattamento delle psicosi. È noto, infatti, come la durata di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis, DUP) influenza l’esito del trattamento e quindi, eventualmente, si lega alla cronicizzazione del disturbo. Gli autori descrivono la necessità di un intervento multidimensionale specifico e immediato, illustrando i punti chiave della procedura di ingaggio e assessment rivolta ai pazienti all’esordio, basandosi sull’esperienza italiana di progetti capostipite che mettono in evidenza quanto sia essenziale dotare i servizi di salute mentale di un’équipe multidisciplinare dedicata agli esordi.

Il numero si chiude con un articolo di Mancuso che affronta un argomento attuale, spesso oggetto di dibattiti, legato all’uso della tecnologia nel contesto di cura. In particolare l’articolo affronta il tema della terapia online, come modalità di assistenza psicologica remota che sempre di più si sta diffondendo anche in Italia. L’uso di tecnologie di comunicazione virtuale può essere particolarmente utile per il trattamento di pazienti ritirati o che vivono in situazioni geografiche disagiate, ma presenta evidentemente nette differenze con la terapia tradizionale. L’autore illustra la recente letteratura che descrive i campi di efficacia di tale modalità di intervento, analizza limiti e benefici di esso ed espone anche le problematiche di tipo legislativo che possono ostacolare la fruizione del servizio di terapia a distanza.

 

Il Social Skill Training nel trattamento della schizofrenia: l’esperienza di un servizio pubblico di Reggio Emilia

Il Social Skill Traning lavora sulle abilità sociali, ossia sui comportamenti interpersonali che sono regolati socialmente. La maggior parte degli utenti schizofrenici presentano marcati deficit a questo livello.

 

 Il Social Skill Training è un trattamento di matrice comportamentale, utilissimo per gli utenti psichiatrici che sono trattati in regime ambulatoriale o residenziale. In questo approccio gli utenti svolgono un ruolo attivo e, dopo aver appreso le tecniche, possono essi stessi condurre un gruppo, rinforzando e incoraggiando gli altri utenti che si approcciano per le prime volte a questo metodo. Questo è quanto successo nella Residenza Terapeutica Riabilitativa “Il Borgo” di Reggio Emilia. Dopo un percorso di Social Skill Training durato due anni, un utente  è passato dal ruolo di  partecipante al ruolo di co-conduttore insieme al Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica, che aveva invece il ruolo di conduttore.

Il Social Skill Traning lavora sulle abilità sociali, ossia sui comportamenti interpersonali che sono regolati socialmente. La maggior parte degli utenti schizofrenici presentano marcati deficit a questo livello. Gli studi di questi anni hanno rilevato come la terapia psicofarmacologica da sola non basta per far fronte al deficit di funzionamento sociale, sottolineando l’importanza di sottoporre gli utenti ad un’esperienza di apprendimento o riapprendimento delle abilità sociali. Molte persone che soffrono di disturbi mentali gravi, sono cresciute in ambienti poco supportivi a questo livello, nei quali non hanno avuto la possibilità di apprendere come fare ad esprimere le emozioni, come fare a mantenere la giusta distanza interpersonale, cosa dire e non dire nei vari contesti sociali in cui ci si trova, etc. Altri hanno avuto la possibilità di apprendere quanto elencato, ma il disturbo ha agito a livello cognitivo logorando le abilità apprese. Alla luce di quanto detto risulta semplice immaginare quali possano essere le conseguenze a livello sociale: sperimentazione del fallimento, del rifiuto e della critica. Il circuito delle conseguenze continua, concretizzandosi in un ritiro attivo da ogni forma di interazione sociale e dallo sviluppo di rapporti sociali da parte degli utenti. Il lavoro svolto nella RTR Il Borgo di Reggio Emilia ha coinvolto un gruppo di otto utenti  adulti che sono stati sottoposti all’inizio e alla fine del percorso ad un attento intervento di assessment attraverso l’utilizzo  delle scale Camberwell Assessment of Needs (CAN) ed Healt of the Nation Outcomes Scales (HoNOS). La CAN ha permesso di valutare il livello di consapevolezza da parte degli utenti dei bisogni di salute percepiti in 22 aree di vita, mentre la HoNOS ha permesso di valutare la gravità clinica e il funzionamento sociale attraverso l’esplorazione di 12  aree di vita. Gli outcomes iniziali e finali hanno subito un’evoluzione in positivo, dando una prova in più della potenzialità protettiva dell’intervento in oggetto.

Come si svolge una seduta di Social Skill Training e quali sono le tecniche utilizzate?

Le tecniche utilizzate nel training di abilità sociali sono diverse:

  • il modeling;
  • il rinforzo;
  • lo shaping;
  • l’automatizzazione;
  • la generalizzazione.

Il modeling si riferisce al processo di apprendimento per osservazione; il rinforzo all’approvazione verbale da parte del conduttore e degli altri partecipanti al gruppo, che aumenta la probabilità che quel comportamento venga nuovamente emesso; lo shaping si riferisce al rinforzo di risposte progressivamente più simili al comportamento funzionale desiderato; l’automatizzazione al processo di pratica ripetuta fino a quando diventa automatica; e la generalizzazione alla possibilità di trasferire le abilità apprese nel gruppo di Social Skill Training al contesto di vita reale e quotidiano.

Dopo una fase iniziale di riflessione condivisa sull’utilità di apprendere l’abilità sociale da trattare si prosegue con il gioco di ruolo, ossia nella messa in scena di una situazione sociale inventata che prende spunto da situazioni di vita vera. L’utilizzo di situazioni inventate serve ad evitare l’amplificazione emotiva che potrebbe scaturire dalla messa in gioco di una situazione di vita reale,  ma rimane comunque utile in quanto prende spunto da essa. Gli utenti vengono coinvolti attivamente nei giochi di ruolo dopo aver osservato il conduttore e il co-conduttore in azione; inoltre, tutti i partecipanti sono invitati ad osservare le scene giocate e a dare un feedback positivo o correttivo, ma mai negativo. L’atmosfera che si crea infatti risulta molto fluida ed accogliente, in quanto non sono ammessi atteggiamenti di critica o giudizio.

Quali sono nello specifico le abilità trattate ?

Le abilità sociali trattate sono suddivise in macrocategorie che contengono abilità specifiche. Le macrocategorie sono: abilità di conversazione, abilità di gestione dei conflitti, abilità di assertività, abilità di gestione della vita quotidiana, abilità di amicizia e corteggiamento, abilità di gestione dei farmaci, abilità lavorative e di qualificazione professionale. Ognuna di queste macrocategorie comprende differenti abilità specifiche che vengono trattate di volta in volta nelle singole sedute.

È sempre utile ricordare che l’integrazione dei trattamenti farmacologici e psicosociali è risultata essere la chiave per un maggiore successo terapeutico, ma l’ingrediente segreto che fa funzionare il tutto è l’empatia: dove c’è empatia c’è la competenza relazionale del professionista.

 

Il ruolo del cervelletto nella sindrome depressiva

Diversi studi con utilizzo di neuroimaging stanno rilevando un ruolo del cervelletto e delle sue alterazioni nei processi cognitivi e affettivi, con particolari implicazioni per quanto riguarda i disturbi del tono dell’umore, come la depressione.

 

Il cervelletto è sempre stato studiato per il ruolo che esso ha nei processi motori. Ultimamente la ricerca si sta orientando a capire la funzione che questa struttura del Sistema Nervoso Centrale ha nei processi cognitivi e affettivi, grazie all’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging. In particolare, si stanno sondando le implicazioni che il cervelletto ha nei disturbi del tono dell’umore. Nei pazienti depressi si rileva una ridotta connettività nei circuiti nervosi cerebellari. Tali alterazioni funzionali provocherebbero alcuni sintomi che si manifestano nel corso delle sindromi depressive, quali, ad esempio, l’impoverimento della memoria di lavoro e il rallentamento psicomotorio.

Keywords: cervelletto, sindrome depressiva, impoverimento memoria di lavoro, rallentamento psicomotorio.

 

Il cervelletto è sempre stato studiato per il ruolo che esso ha nei processi motori. Ultimamente la ricerca si sta orientando a capire la funzione che questa struttura del Sistema Nervoso Centrale ha nei processi cognitivi e affettivi, grazie all’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging. In particolare, si stanno sondando le implicazioni che il cervelletto ha nei disturbi del tono dell’umore.

A tal proposito, lesioni a carico dell’emisfero cerebellare posteriore e del verme cerebellare sono frequentemente associate a disturbi cognitivi ed affettivi (Depping e al., 2018). Dal punto di vista cognitivo, si hanno alterazioni nell’ambito delle funzioni esecutive e linguistiche e, nell’ambito affettivo, si ha un processo di disregolazione emotiva, caratterizzato da labilità emotiva, alterazione delle abilità emotive sociali e umore depresso (Hoche e al., 2018).

La stimolazione elettrica dei circuiti neuronali cerebellari produce negli animali da esperimento un incremento dei comportamenti ansiosi e impulsivi (Huguet e al., 2017).

Buckner e al. (2011), attraverso indagini compiute con la risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato che buona parte dei circuiti neurali, che appartengono alla corteccia cerebellare, sono implicati nella psicofisiologia cognitiva ed emozionale.

Altre ricerche (Alalade e al., 2011; Liu e al., 2012; Guo e al., 2013) hanno evidenziato che in pazienti affetti da depressione si riscontra un rallentamento delle connessioni funzionali fra alcune zone della corteccia cerebellare e in alcune vie nervose che collegano il cervelletto alla corteccia cerebrale. Tali alterazioni funzionali sarebbero responsabili di un impoverimento della memoria verbale di lavoro, sintomo che si nota in molti pazienti depressi. In aggiunta, esse sarebbero alla base del rallentamento psicomotorio, che si osserva in molti soggetti nel corso dei disturbi del tono dell’umore (Buyukdura e al., 2011; Bracht e al., 2012; Hyett e al., 2018).

In conclusione, nei pazienti depressi si rileva una ridotta connettività nei circuiti nervosi cerebellari. Tali alterazioni funzionali provocherebbero alcuni sintomi che si manifestano nel corso delle sindromi depressive, quali, ad esempio, l’impoverimento della memoria di lavoro e il rallentamento psicomotorio.

 

Basta un abbraccio! Ma davvero tutti gli abbracci sono uguali? Non per i neonati

Nella nostra cultura gli abbracci, e il contatto fisico più in generale, non sono qualcosa a cui ci apriamo indiscriminatamente, ma veicola l’idea di un legame di conoscenza (e presumibilmente di fiducia) con l’altra persona coinvolta. Come vivono gli abbracci i neonati?

 

A seguito del tragico attentato avvenuto nel 2013 durante la maratona di Boston, Ken E. Nwadike Jr., documentarista americano e attivista per la Pace, ha fondato il movimento Free Hugs Project (n.d.t. progetto abbracci gratuiti), nel tentativo di ridurre gli episodi di violenza durante le proteste e le manifestazioni politiche. L’iniziativa ha presto guadagnato moltissima popolarità. Un abbraccio, seppure offerto da uno sconosciuto, comunica “Tu non sei una minaccia, non ho paura di starti vicino. Posso rilassarmi, sentirmi a casa. Sono protetto, e qualcuno mi comprende”.

Tuttavia, non tutti sono disposti a farsi abbracciare da uno sconosciuto: le motivazioni possono spaziare da una semplice disposizione individuale verso il contatto fisico ad usanze culturali, dal pregiudizio verso l’altro individuo al ragionevole istinto di autoconservazione che ci mette in guardia verso ciò che non conosciamo. Di fatto, nella nostra cultura gli abbracci, così come il contatto fisico più in generale, non sono qualcosa a cui ci apriamo indiscriminatamente, ma veicola l’idea di un legame di conoscenza (e presumibilmente di fiducia) con l’altra persona coinvolta.

La vita dei bambini, specialmente se molto piccoli, rappresenta però una violazione di questo assunto di base; spesso infatti, le neomamme si trovano a dover fronteggiare la miriade di richieste di conoscenti, parenti più o meno alla lontana, se non addirittura perfetti sconosciuti che avanzano la pretesa di toccare, stringere, cullare o baciare il loro bambino, noncuranti dell’effetto che l’incontro con un Altro, estraneo, possa avere sul piccolo. Di fatto, anche la letteratura scientifica presenta delle lacune considerevoli in questo senso e solo di rado ci si è discostati dalla ricerca confermativa circa l’importanza della relazione con il caregiver (Bowlby, 1969, 1977; Sullivan et al., 2011), per mettere invece in luce le potenziali “controindicazioni” rappresentate dal contatto non sollecitato con altre figure che gravitano nella vita del bambino nei suoi primi mesi di vita.

Dal momento che i neonati dipendono quasi interamente dagli adulti per la propria sopravvivenza, le occasioni di contatto fisico, siano esse durante l’allattamento al seno o artificiale, in occasione degli spostamenti o delle interazioni quotidiane sono estremamente frequenti: è stato documentato inoltre come l’essere presi in braccio mentre il genitore cammina abbia un effetto calmante generalizzato sui neonati nei primi mesi, che interrompono quasi subitaneamente il pianto e i movimenti volontari (Esposito et al., 2013). L’abbraccio tuttavia, esula dalle pratiche di accudimento legate ai bisogni fisiologici del bambino, ma si configura come un’espressione di affetto, vicinanza e amore esclusivamente finalizzato alla formazione di un legame emotivo bidirezionale tra il genitore e la propria prole.

Un recente studio condotto da Yoshida e colleghi (2020) ha cercato di verificare empiricamente se l’abbraccio di un genitore fosse distinguibile da quello di un altro adulto, valutandone i diversi effetti, in particolare scegliendo di analizzarne i battiti cardiaci, intesi come riflesso dell’attivazione fisiologica del neonato, così come i movimenti corporei del bambino in risposta alle diverse stimolazioni ricevute.

I recettori cutanei vanno formandosi già tra la 4 e la 7 settimana di gestazione, seguiti dallo sviluppo delle funzioni somatosensoriali (Bremner & Spence, 2017), pertanto i bambini sono naturalmente in grado di apprezzare la differenza tra l’essere semplicemente presi in braccio, l’essere abbracciati o l’essere stretti forte al petto, tre condizioni che i ricercatori hanno scelto di valutare.

Inoltre, si è scelto di condurre l’esperimento coinvolgendo entrambi i genitori, per valutare l’eventuale differenza di genere e verosimilmente delle cure genitoriali, che prevedono primato quasi inconfutabile della madre rispetto al padre, specialmente laddove sia presente l’allattamento al seno nonché della presenza garantita dal congedo di maternità che raramente incontra un corrispettivo paterno che consenta una distribuzione più egualitaria delle cure nei primi mesi. Come ulteriore condizione sperimentale sono state coinvolte delle donne con esperienze pregresse di genitorialità che però non fossero familiari ai bambini, per verificare se il supposto effetto calmante di un abbraccio, permanesse anche in questo caso.

I risultati hanno dimostrato come non vi fossero differenze apprezzabili nelle reazioni dei bambini dai quattro mesi in su quando venivano abbracciati dal padre o dalla madre, registrando una diminuzione nella frequenza dei battiti e un effetto calmante equiparabile; al contrario invece di quanto avveniva nei primi quattro mesi di vita, periodo in cui non vi erano differenze apprezzabili tra il tocco di un genitore o quello di un’estranea e l’unica discriminante nel determinare l’effetto calmante era rappresentato dall’aumento della pressione esercitata sul corpo del bambino (essere semplicemente tenuti in braccio vs. essere abbracciati). Questo risultato è in linea con la maturazione tardiva dell’attività parasimpatica (Eyre et al. 2014; Massin et al., 1997) che spiegherebbe come l’effetto calmante garantito dall’abbraccio di un genitore diventi apprezzabile verso l’età di quattro mesi, mentre fino a quel momento si possa rilevare con chiarezza solo l’effetto dell’attivazione del sistema simpatico ovvero quando la stretta da parte dell’adulto, fosse esso familiare o sconosciuto, superava i livelli di gradevolezza, come nella condizione dell’”venire stretto forte” al petto. Inoltre, l’effetto calmante dell’abbraccio sembra essere bidirezionale, in quanto anche nei genitori è stata riscontrata una diminuzione dell’attività cardiaca quando stringevano il proprio bambino.

Le analisi statistiche condotte sulla qualità dei movimenti dei neonati hanno rivelato come a partire dai quattro mesi, momento in cui l’attività motoria diventa maggiormente autonoma e volontaria, un maggior rilevamento di movimenti della testa, indice dell’attività esploratoria nei bambini, correlasse con una minore diminuzione dei battiti cardiaci e di fatto un minor effetto calmante: i bambini si dimostravano quindi più attivi quando venivano interrotti dall’abbraccio, seppure questi movimenti esploratori presumano, anche secondo la letteratura, la presenza di una “base sicura” costituita appunto dalla madre che li rassicuri abbastanza da consentirla (Ainsworth & Bell, 1970); consistentemente, la presenza della donna estranea inibiva tali movimenti ed i bambini risultavano più concentrati nel guardare la donna sconosciuta oppure nel fissare il punto dove si trovavano i genitori.

Studi futuri potrebbero ampliare i risultati ottenuti valutando altri profili neuropsicologici, come nello spettro Autistico, dove proprio nell’interazione con le figure di accudimento primarie si potrebbero precocemente rintracciare indizi di uno sviluppo atipico (Wan et al. 2019).

 

Al via il “Barometro della Salute Mentale”

 

Roma, 23 aprile 2020. Quale impatto ha avuto il “lockdown” sul benessere psicologico e mentale degli italiani? A oltre quaranta giorni dall’inizio dell’isolamento, comportamenti, consuetudini lavorative, relazioni sociali e legami affettivi hanno subito condizionamenti profondi e mai sperimentati prima, tali da privare ciascuno di noi dei più essenziali e immediati punti di riferimento.

In questo contesto, l’Ordine degli Psicologi del Lazio, in collaborazione con la Facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma e l’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP), lancia Il “Barometro Salute Mentale” (https://salutementaleitalia.it/): un progetto di monitoraggio rivolto all’intero territorio nazionale, basato sul contributo di oltre 1000 professionisti della salute mentale di tutte le regioni d’Italia e finalizzato a fotografare il grado di benessere psicologico della popolazione, durante e dopo l’emergenza legata all’epidemia. Basandosi sugli elementi emersi dalle relazioni di sostegno psicologico e psicoterapeutico, lo strumento restituirà a cadenze regolari un resoconto dell’impatto della crisi sulle persone, con riferimento alle dimensioni affettive, all’atteggiamento nei confronti dell’esperienza in corso e alla visione del prossimo futuro.

Entrando più nel dettaglio, il “Barometro” fornirà tre tipologie di riscontro: un’analisi dati quantitativa, aggiornata settimanalmente, in grado di mostrare “visivamente” e in modo dinamico  lo stato emotivo degli individui: le emozioni negative, le emozioni positive, la fiducia verso il prossimo futuro; Una “Tags Cloud”, aggiornata settimanalmente, contenente i termini più utilizzati per descrivere la situazione affettiva, cognitiva ed esperienziale delle persone; un report qualitativo, strutturato in forma narrativa e a cadenza mensile, descrittivo degli elementi emergenti nell’esperienza che le persone stanno avendo dell’epidemia. Tali analisi, prodotte sia a livello trasversale (lo stato mentale generale), sia a livello verticale su specifici contesti e/o territori, verranno poi messi a disposizione dei decisori pubblici e degli stakeholder del progetto, per l’elaborazione di strategie di risposta ai bisogni emergenti della cittadinanza e per indirizzare le politiche di rilancio post-crisi.

Come spiega Federico Conte, Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, «Lo strumento nasce dalla necessità di avere dati strutturati con l’obiettivo di fornire indicazioni da un lato agli stessi professionisti, per sviluppare modelli di intervento sempre più efficaci e attività formative mirate, e dall’altro alle Istituzioni e alla Politica, per orientare i processi di costruzione di quei contesti che siano sempre più adattati alle persone che li abitano. D’altra parte il benessere psicologico è quello stato nel quale l’individuo riesce a sfruttare al meglio le sue capacità cognitive o emozionali per rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno e stabilire relazioni soddisfacenti essendo integrato nella sua rete sociale».

Il tentativo di pervenire a un monitoraggio sistematico del benessere psicologico comporta la necessità di affrontare sfide anche su un piano metodologico, psicometrico e data-analitico” dice Fabio Lucidi, Preside della Facoltà di Medicina e Psicologia. «È necessaria una operazione complessa sul piano dello sviluppo e selezione di strumenti psicometrici validi e attendibili, di prassi metodologicamente adeguate per proporli ai professionisti, di competenze data–analitiche molto avanzate, della capacità di combinare dati qualitativi con dati quantitativi in modo efficace. La psicologia è una disciplina basata su evidenze scientifiche e analisi articolate a vari livelli. La Facoltà metterà a disposizione di questo progetto le risorse e competenze psicometriche e metodologiche necessarie per procedere a analisi accurate, affidabili e precise e per fornire risposte valide alle domande sfidanti che il barometro vuole affrontare».

Lo stravolgimento delle nostre vite, a cui questi giorni terribili ci hanno condotto, tocca corde sensibili nella nostra organizzazione psichica, corde che risuoneranno a lungo riverberando sul nostro benessere personale. Secondo Felice Damiano Torricelli, Presidente dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi, «La situazione sta già cambiando la cifra del nostro malessere e di conseguenza il modo in cui, da Psicologi, siamo chiamati ad aiutare le persone nel fronteggiarlo. Per questo è importante monitorare i bisogni di Salute Mentale che vanno emergendo e registrare le modalità per rispondergli in maniera adeguata. Il Barometro sarà uno strumento cruciale di osservazione di questi cambiamenti, che ci consentirà di trarre informazioni utilissime per meglio intercettare le necessità dei cittadini e indirizzare il riposizionamento della Psicologia professionale, ora e soprattutto nelle prossime fasi di ripartenza del Paese dopo lo shock di queste settimane. Per ENPAP, che si occupa del futuro della professione, sarà così possibile attivare interventi di supporto alle trasformazioni in divenire, in modo da rendere sempre più adeguate le competenze e le soluzioni messe in campo dagli Psicologi».

 

 

 

 

Giuliano Lesca
Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
Cell: 327 3290946
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Il pendolo di Newton: in psicoterapia si gioca con la legge di conservazione della quantità di moto

Capita spesso anche a tutti noi di mettere in atto dei comportamenti, di sperimentare delle emozioni, di produrre dei pensieri senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tali meccanismi. Il pendolo di Newton con le sue 5 sfere ci aiuta ad analizzare meglio questo aspetto del funzionamento umano.

 

 Uno dei motivi per cui le persone si rivolgono spontaneamente ad un professionista della salute mentale è perché si trovano a sperimentare delle emozioni, avere dei pensieri e agire dei comportamenti che non riconoscono appieno come frutto della loro volontà o perlomeno considerano spiacevoli, incontrollabili e non in linea con l’immagine che hanno di sé stessi.

Molte persone, ad esempio, si rivolgono allo psicologo perché sovente mettono in atto dei comportamenti distruttivi e aggressivi sia auto che etero diretti. Questi pazienti riferiscono delle perdite di controllo dei propri impulsi eccessive e spesso immotivate. Successivamente a tale discontrollo il paziente riporta emozioni di delusione, sconforto e confusione del pensiero a causa appunto della discordanza tra il proprio modo di intendersi come persona e il comportamento appena posto in essere. Questa dissonanza cognitiva e le emozioni che ne derivano portano anche ad una notevole riduzione dell’autostima e soprattutto ad un abbassamento della self-efficacy (credenza in merito alla propria capacità di produrre specifici comportamenti utili al raggiungimento di un obiettivo desiderato)  poiché non si è stati in grado, ancora una volta, di non perdere il controllo nonostante i buoni propositi.

Questi pazienti hanno come l’impressione che in quel particolare momento in cui si perde il controllo si sia spinti da una forza ingovernabile e da uno stato di attivazione emotiva completamente disregolato. Sia il paziente che lo psicologo si trovano impegnati dunque a cooperare per scoprire la vera natura di questa “forza”.

Un giorno, al termine di una seduta con un paziente con problematiche simili a quelle descritte poco sopra, riflettendo mi riecheggiavano ancora le domande che il paziente si era posto e mi aveva posto durante la seduta appena conclusasi, domande del tipo: “com’è possibile che io abbia perso il controllo per una sciocchezza del genere? È normale che in alcuni momenti mi si annebbi la vista dalla rabbia e poi dopo neanche cinque minuti già quasi non mi ricordo più il motivo per cui mi ero arrabbiato così tanto?”

Mentre ripensavo a queste domande ipotizzavo che al paziente a volte capitava di dimenticare così facilmente il “motivo” della sua arrabbiatura semplicemente perché quello a cui lui faceva riferimento non era il vero motivo, ma probabilmente solo l’ultimo anello di una lunga catena di fenomeni interni. Mentre riflettevo su tutto ciò, giochicchiavo, come spesso mi capita, con un oggetto poggiato sulla mia scrivania, il cosiddetto “Pendolo di Newton”. Mentre osservavo le sfere oscillare e ascoltavo il tipico ticchettio provocato dalla loro collisione mi sono sorpreso a pensare ad una strana ma simpatica analogia tra il funzionamento di quello strumento e il “funzionamento” del paziente che mi aveva da poco salutato.

Prima di chiarire e, mi viene da dire, giustificare una simile analogia voglio però assicurarmi che il lettore abbia ben presente lo strumento di cui parlo (pendolo di Newton o biglie di Newton) e soprattutto cercare di fornirgli dei superficiali ma fondamentali concetti psicologici.

Che cos’è il pendolo di Newton?

Credo che la maggior parte di noi abbia visto almeno una volta tale oggetto. Stiamo parlando di un dispositivo composto da varie sfere metalliche (di solito 5) tutte aventi la stessa massa e ciascuna sospesa mediante due fili. Le sfere stanno a contatto sulla stessa linea orizzontale e si possono muovere sul piano verticale.

Viene usato per illustrare le leggi di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica.

Come funziona?

A sfere ferme, si solleva la prima sfera, mantenendo tesi i fili con cui è sospesa, e la si lascia cadere. Essa urterà contro la fila delle altre e si osserverà che la prima si ferma, le intermedie non si muovono, e l’ultima sfera invece parte verso l’alto, raggiungendo la stessa altezza da cui era partita la prima, e così di seguito. Questa “botta e risposta” potrebbe potenzialmente andare avanti all’infinito se solo non intervenissero fattori esterni come ad esempio l’attrito dell’aria che rallenta progressivamente il movimento delle sfere fino al loro arresto.

Infatti ricordiamo che il principio della conservazione della quantità di moto stabilisce che:

“In un qualunque sistema di corpi interagenti tra loro e in assenza di forze esterne la quantità di moto totale del sistema si conserva”.

Due osservazioni mi risultano particolarmente interessanti del funzionamento del pendolo di Newton ed entrambe saranno riprese più avanti come elementi che giustificano la mia bizzarra analogia:

  1. se solleviamo e poi lasciamo cadere solo la prima sfera si otterrà il movimento uguale e contrario solo dell’ultima sfera. Dunque la prima e l’ultima sfera saranno le uniche a produrre movimento e apparirà chiaro che il movimento dell’ultima sfera è determinato dal precedente movimento della prima nonostante queste due sfere non entrino mai in diretto contatto. L’energia pertanto verrà trasmessa sempre e solo attraverso gli elementi intermedi;
  2. se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Ma cosa hanno a che fare il pendolo di Newton e i principi che ne determinano il funzionamento con l’essere umano e la sua psicologia?

L’essere umano è un sistema certamente non isolato e dunque mai indipendente dal contesto in cui si trova. I fattori esterni ambientali e sociali hanno una determinante influenza sui nostri pensieri e sul nostro comportamento.

La neo-corteccia ha dotato noi esseri umani di finissimi ed evolutissimi strumenti che consentono di leggere in diretta i segnali ambientali e sociali presenti nel contesto ambientale e “matcharli” con le informazioni personali, culturali e morali archiviate in memoria.

Questa capacità è evidente in quelli che vengono definiti script cognitivi ovvero degli schemi comportamentali più o meno complessi che, il più delle volte in modo implicito, mettiamo in atto in uno specifico e determinato ordine al fine di adattarci ad uno dato contesto. Un esempio banale è quando andiamo al ristorante e ci avviciniamo al tavolo, come prima cosa non chiediamo il conto al cameriere, ma probabilmente ci togliamo la giacca e ci accomodiamo. Questo comportamento, insieme magari al fatto che (se il ristorante è un raffinatissimo locale 3 Stelle Michelin) rispettiamo un particolare dress code, non dipende soltanto dal buon funzionamento della memoria procedurale, ma ci informa anche circa la nostra capacità di riconoscere, accettare ed adattarci alle norme culturali e alle convenzioni sociali dell’ambiente in cui viviamo e tale capacità ricordiamo è fortemente mediata dalle strutture corticali superiori che svolgono una continua funzione di monitoraggio online del nostro comportamento.

Ma la neo corteccia non è l’unico apparato cerebrale di cui l’evoluzione ci ha fornito. Con MacLean ( MacLean, P. 1973) potremmo simbolicamente dividere il nostro sistema cerebrale in 3 parti:

  • la neo-corteccia;
  • il sistema limbico;
  • Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e cervello rettiliano.

Della neo-corteccia si è già accennato.

Per quanto riguarda il sistema limbico, possiamo sinteticamente dire che è costituito da alcune strutture sotto corticali: i bulbi olfattivi, l’ippocampo, l’amigdala, il giro del cingolo, i nuclei talamici anteriori e la corteccia limbica. Supporta svariate funzioni psichiche come l’elaborazione delle emozioni, motivazione, apprendimento, memoria e attaccamento.

Il cervello rettiliano risiede nel diencefalo, nel mesencefalo e nella parte iniziale del telencefalo e si occupa dei bisogni e degli istinti innati: territorialità, predazione, esplorazione del territorio e procreazione. Il Sistema Nervoso Autonomo è costituito da porzioni anatomicamente e funzionalmente distinte ma sinergiche: il sistema nervoso simpatico, il sistema nervoso parasimpatico e il sistema nervoso enterico.

Ha la funzione di regolare l’omeostasi dell’organismo ed è un sistema neuro-motorio non influenzabile dalla volontà che opera con meccanismi appunto autonomi, relativi a riflessi periferici sottoposti al controllo centrale. Per quanto riguarda il SNA è degna di essere citata la differenziazione tra due tipologie di nervo vago, quello mielinizzato e quello non mielinizzato, proposta da Stephen W. Porges (Porges, S. W.. 2014) nella sua teoria polivagale.

Perché è utile sapere che “il cervello” come comunemente inteso è in realtà frutto di diverse strutture e funzionalità?

Perché in questo modo è più facile comprendere quale struttura o funzione è inibita, iperattivata, alterata, compromessa o più semplicemente comprendere qual è, se c’è, la gerarchia di funzionamento interno tra queste strutture.

Ad esempio:

..nelle strutture limbiche i neuroni non sono organizzati in strutture regolari, ma piuttosto in un’amalgama più rudimentale, ecco che ne deriva che l’elaborazione di uno stimolo risulta più primitiva che nella corteccia e al tempo stesso più veloce, adatta cioè a reazioni essenziali per la nostra sopravvivenza. Questa è dunque la ragione per cui ci capita di reagire in modo improvviso e spropositato a uno stimolo, anche se sappiamo che non dovremmo farlo o non serve.

Il dato neurofisiologico interessante è proprio che in questa situazione si assiste a quello che è stato definito “shutdown corticale” (Arnsten et al. 2014.): ovvero la corteccia è stata messa offline, fuori uso, e il sistema sottocorticale antico ha preso il sopravvento, più veloce nella sua risposta cosiddetta di “attacco o fuga”.

Lo shutdown corticale conduce a una perdita temporanea delle funzioni di mentalizzazione, causando una perdita di visione simbolica, integrazione degli stimoli e capacità di interpretarli. A questo punto tutto accade nel sistema limbico: il talamo, stazione d’ingresso, filtro degli stimoli, invia il proprio segnale all’amigdala, primo centro di reazione emozionale, che risponde con una cascata di reazioni neurovegetative, con rilascio di cortisolo nel sangue dai surreni, analgesia temporanea, attivazione del sistema nervoso autonomo. In altri termini, dopo la primissima reazione di freezing, cui corrisponde soggettivamente quel primo istante di blocco o sorpresa, l’amigdala ci dispone ad attaccare lo stimolo o a fuggirlo, mentre proviamo alternativamente rabbia o paura.

Tutto questo accade in soli 12 millisecondi ed è al di fuori della nostra consapevolezza, senza che la corteccia abbia ricevuto alcun messaggio.

Esiste anche una via di collegamento tra il sistema limbico e la corteccia, chiamato anche “via alta” che decorre dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’amigdala, ma impiega ben 25 millisecondi: questo significa che la risposta somatica accade sempre prima di ogni altra fantasia o riformulazione verbale, che è dunque soltanto un tentativo retrospettivo di spiegare una condizione inconscia, sottocorticale. (Poli, E. F. 2014).

Tale suddivisione ovviamente asserve ad un puro scopo esplicativo, ma in realtà tutte le strutture anatomo-funzionali che costituiscono il nostro sistema nervoso centrale sono strettamente collegate e funzionano sinergicamente.

Questa suddivisione mi è inoltre molto utile per riprendere il filo del discorso.

Si parlava del nesso che c’è tra psicologia e il pendolo di Newton, vero?

Ecco, adesso facciamo un esercizio immaginativo. Immaginiamo che ognuna delle 5 sfere del pendolo rappresenti qualcosa:

  • la prima sfera rappresenta uno stimolo esterno o interno. Stimolo è qui inteso come fenomeno, evento che viene percepito ed elaborato dal nostro organismo, quindi uno stimolo esterno potrebbe essere, ad esempio, un rumore metallico che noi solo successivamente comprendiamo essere il rumore delle chiavi di un nostro familiare che sta per aprire la porta di casa, oppure potrebbe essere un aumento del battito cardiaco che noi potremmo interpretare come il segno di un’emozione di paura;
  •  la seconda sfera rappresenta il nostro SNA e il cervello rettiliano;
  • la terza sfera rappresenta il nostro cervello limbico;
  • la quarta sfera rappresenta la nostra neocorteccia;
  • la quinta sfera rappresenta la risposta. Risposta intesa come attività mentale e/o comportamentale posta in essere come conseguenza ad uno stimolo.

Le sfere sono state così ordinate in base alla velocità con cui i diversi sistemi cerebrali tendono ad attivarsi in situazioni percepite come pericolose e/o minacciose.

Ora sappiamo dunque che uno stimolo, esterno o interno, oggettivamente pericoloso o interpretato soggettivamente come tale può dare il via ad una reazione immediata e complessa che solo in ultima analisi (e neanche tutte le volte) potrebbe arrivare alla nostra consapevolezza come nel caso dello shutdown corticale. Potremmo in queste situazioni sperimentare delle emozioni, produrre dei pensieri e mettere in atto dei comportamenti anche molto complessi che quindi a posteriori ci sembrano a tutti gli effetti privi di una valida motivazione oppure spropositati rispetto a quanto da noi esplicitamente vissuto (Imm.1)

Pendolo di Newton l'analogia con il funzionamento della mente umana

Imm.1 – Il pendolo di Newton come metafora del funzionamento psichico

Questa mancanza di consapevolezza in merito alla stretta interdipendenza tra stimolo e risposta comportamentale è ben rappresentata dall’esempio del pendolo di Newton e in particolare dalla prima delle due osservazioni che ho proposto sopra, ovvero al fatto che la prima e l’ultima sfera non si toccano anche se è l’energia dell’una a produrre il movimento dell’altra.

Il punto è questo, così come accade nel pendolo di Newton dove la quinta sfera effettua un movimento senza “sapere” che esso avviene grazie all’energia prodotta dal movimento della prima, allo stesso modo capita spesso anche a noi di mettere in atto dei comportamenti senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tale comportamento. Le due sfere non si toccano eppure vediamo che si influenzano grandemente. In terapia l’obbiettivo è proprio quello di comprendere come le nostre reazioni sono il frutto di un complesso processo di elaborazione che parte tuttavia sempre da uno stimolo.

La seconda osservazione a cui il Pendolo di Newton ha dato spunto era la seguente:

se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Abbiamo già detto che l’essere umano non è un sistema isolato così come non è isolato il pendolo di Newton, a meno che quest’ultimo non venga messo all’interno di una campana sotto vuoto senza mandargli alcun tipo di vibrazione. Eppure abbiamo visto che nella psiche dell’essere umano si presenta un principio sovrapponibile a quello di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica. Lo osserviamo tutte le volte che una persona è consapevole, decisa e determinata a voler modificare un determinato comportamento o pensiero e poi puntualmente finisce per fallire nonostante il suo impegno cosciente e sincero.

Alcuni in passato lo chiamavano “eterno ritorno”, “coazione a ripetere”, più recentemente “cicli interpersonali”, “copioni di vita”, “schemi maladattivi precoci”, ecc. Oggi, soprattutto grazie alle neuroscienze, sappiamo che alla base di questo principio c’è sempre

l’attivazione della nostra memoria emotiva, la libreria esperenziale nell’archivio limbico. Essa fa sì che ciò che ci può in qualche modo collegare a un “pericolo” inneschi una reazione. (ibidem)

Il termine pericolo è virgolettato per sottolineare ancora una volta il fatto che il pericolo non necessariamente deve essere reale ovvero attuale, ma è sufficiente che sia in grado di attivare tracce mnestiche associate a situazioni vissute o immaginate ove si abbia soggettivamente sperimentato sentimenti di minaccia e/o pericolo. Qui è fondamentale specificare che per sensazione soggettiva di minaccia/pericolo non si intende soltanto quella fisica ma, anzi quasi sempre, una minaccia/pericolo alla propria immagine identitaria, le proprie credenze e i propri valori e principi. In quella o, più spesso, quelle occasioni passate la persona avrà sicuramente agito delle risposte mentali e comportamentali che hanno contribuito alla sua sopravvivenza fisica e identitaria. Da allora in poi il sistema limbico tutte le volte che incontrerà sulla sua strada uno stimolo in grado di evocare in qualche modo quelle esperienze di pericolo passate cercherà di bypassare la neo corteccia (convinto di evitarci inutili perdite di tempo) e in circa 12 millisecondi farà sì che noi produciamo un’adeguata risposta mentale e/o comportamentale che è simile per qualità e quantità alle prime risposte che tanto tempo fa abbiamo imparato inconsapevolmente ad usare.

L’obiettivo della terapia è dunque fare quello che fa l’aria con le sfere del pendolo di Newton ossia interferire sulla perpetua propagazione dell’energia e del moto rendendo il sistema non più isolato. L’attrito dell’aria contro le sfere va sostituito in terapia con l’auto-osservazione continua e sistematica grazie all’aiuto dello psicologo e alle tecniche che consiglierà.

Osservarsi in maniera quanto più “oggettiva” possibile consente di sistematizzare gli eventi interni ed esterni, ad archiviarli, a riconoscerne la ripetitività, a produrre eventuali nessi di causa effetto e dunque a prevenirne le manifestazioni o di ridurre la portata di quelli considerati più problematici.

Per un bel po’ di tempo, o forse per sempre, lo stimolo esterno soggettivamente considerato minacciante continuerà ad elicitare un’ iperattivazione/ipoattivazione del SNA e anche quella del circuito limbico-sottocorticale causando di conseguenza un’attivazione o un’ipoattivazione emotiva che però, se ben riconosciuta e accettata, potrà essere regolata per mezzo di una concomitante retro-azione cognitiva (reappraisal cognitivo) che, insieme a possibili varie tecniche di regolazione dello stato di attivazione fisiologica (arousal) produrrà un aumento della mastery intesa come percezione di padronanza ossia sentire di avere il controllo sul proprio stato mentale.

 

Rimuginare ai tempi del coronavirus – Il video di Psychoarea

In questo video, registrato dalla diretta streaming del 09 Aprile 2020, il Dott. Andrea Dalboni discute, insieme alla d.ssa Dal Ben, alla dr.ssa Greco e alla d.ssa Meneghello di Psycho Area di Verona, di un argomento trasversale a molti disturbi sintomatici: il rimuginio.

 

È proprio in questi mesi di quarantena infatti che molte persone possono sviluppare ansia, mancanza di motivazione depressiva e pensieri intrusivi mai sperimentati in precedenza: alla base di questi vissuti c’è una grande attività di pensiero cosciente, il rimuginio appunto, che li alimenta e li trasforma da sensazioni normali e transitorie a problemi psicologici più strutturati. Ma che cos’è il rimuginio di preciso? C’è differenza tra una normale preoccupazione e il rimuginare? È possibile applicare tecniche specifiche per fermarlo? Da dove origina? A queste e a molte altre domande poste direttamente dagli spettatori della diretta è stata data risposta, fornendo oltre ad un’ampia discussione sul tema, anche consigli e strategie tecniche molto concrete, elaborate dalle moderne terapie cognitive, da applicare in questi giorni proprio per fronteggiare lo stato di emergenza e la quarantena.

 

I meccanismi biologici dell’infedeltà

E’ possibile che esista una predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

 

Si è soliti indicare il concetto di fedeltà coniugale come un valore, ovvero una dote morale e intellettuale che costituisce espressione della personalità e del contesto evolutivo di un individuo. Essere fedeli è dunque un attributo, un modus vivendi che può derivare non solo dalle abitudini di pensiero e di comportamento della singola persona, ma anche dalle condizioni culturali, religiose e sociali dell’ambiente in cui la persona si evolve e vive, interagendo con i propri simili. Che i valori morali abbiano una stretta correlazione con la cultura non costituisce certo un elemento di novità: è chiaro come in una società possa venir definito infedele un comportamento che in un diverso assetto culturale viene connotato di assoluta normalità, e nulla affatto stigmatizzato (si veda ad esempio il caso della monogamia nelle società orientali ed occidentali, o ancora il caso di adulterio previsto come reato in alcuni paesi del mondo, mentre in altri stigmatizzato solo come condotta amorale ma senza nessuna conseguenza giuridica). Ciò che costituisce una novità, al contrario, è affermare che la fedeltà coniugale, intesa come capacità di creare e mantenere un legame stabile e duraturo nel tempo con un solo partner, possa derivare, tanto nelle specie animali quanto in quella umana, altresì da fattori biologici, ereditari e, dunque, innati. Sostenere una tesi del genere significa anche accettare che certi individui, in virtù di certe caratteristiche neurobiologiche, possono essere naturalmente predisposti alla fedeltà rispetto ad altri che non manifestano le medesime caratteristiche. Alcuni studi scientifici svolti di recente hanno dimostrato come in realtà, in questa affermazione all’apparenza improbabile, ci sia del vero. Se ne citano alcuni tra i più significativi condotti in questo campo.

Anticipiamo in primo luogo che l’ormone vasopressina, di origine neuronale, gioca un ruolo fondamentale in alcuni processi umani volti alla cooperazione e alla collaborazione nella coppia; nello specifico la sua presenza, assieme a quella dell’ossitocina, si mostra notevolmente aumentata nello stabilimento della fase di attaccamento, che segue immediatamente il periodo dell’innamoramento, in cui a far da padroni sono peptidi quali serotonina, adrenalina e dopamina. L’ossitocina è un ormone che viene rilasciato da uomini e donne durante l’orgasmo, e dalle donne durante il parto e l’allattamento; si tratta inoltre un ormone che gioca un ruolo fondamentale nell’instaurazione dell’attaccamento tra madre e bambino.

Mentre l’ossitocina agisce principalmente sulla diade materna, sembra che la vasopressina rivesta una funzione importante nella fase di attaccamento di coppia. Oltre a regolarizzare la pressione, questo ormone è responsabile della soddisfazione post-orgasmica, determinando il grado di fedeltà al partner. La quantità di questo ormone all’interno di un soggetto, sia umano sia animale, è determinata dalla tipologia di alleli relativi al sistema della vasopressina che, ove affetti da polimorfismo, si mostrano più corti e meno in grado di rispondere attivamente alla sostanza. Questo provoca una minor produzione e una minor sensibilità dei recettori alla stessa, effetti che si traducono in comportamenti meno propensi alla fedeltà e all’attaccamento al partner.

Si tratta di un’evidenza riscontrabile in primo luogo negli animali, dato come in alcune particolari specie di roditori, ad esempio le arvicole, si è visto come una più massiccia presenza dell’ormone vasopressina sia positivamente relazionata alla fedeltà alla partner, e pertanto alla monogamia; si tratta oltretutto di specie dove è stato riscontrato un polimorfismo degli alleli relativi al sistema vasopressina (Hammock e Young, 2002).

Uomini portatori di un allele specifico del gene della vasopressina sono stati sottoposti ad uno studio di valutazione da Walum e colleghi (2008): si trattava di soggetti sposati o conviventi da cinque anni o più – 552 coppie complessivamente- ai quali è stato somministrato la Parent Bonding Scale, finalizzata a valutare l’attaccamento al proprio partner. I risultati sono stati espliciti: soggetti portatori di tale allele specifico hanno mostrato un attaccamento inferiore alla compagna, e i loro punteggi sono risultati inoltre dose-dipendenti: quanti possedevano due di questi alleli hanno mostrato un attaccamento minore rispetto a quelli che ne possedevano soltanto uno, a loro volta seguiti da quanti non lo presentavano affatto. Gli uomini portatori di questo allele hanno inoltre avuto maggiori crisi di coppia nell’anno precedente, ivi comprese minacce di divorzio e allontanamento dalla casa coniugale, e anche in questo caso i punteggi si sono rivelati dose-dipendenti, perché gli uomini con due copie dell’allele hanno mostrato il doppio di probabilità di aver avuto una crisi di coppia nei 12 mesi precedenti rispetto a quelli con una sola copia o con nessuna copia dell’allele, e un maggior numero di rapporti extraconiugali rispetto ai gruppi di confronto. Le mogli degli uomini portatori di uno o due alleli hanno infine mostrato punteggi notevolmente più bassi ai questionari volti a rilevare il grado di soddisfazione matrimoniale

Ma qual è l’allele identificato da Walum? Esiste davvero una genetica della fedeltà, dunque? Si tratterebbe nello specifico del gene AVPR1A, situato nel cromosoma 12q14-15, le cui sequenze in caso di polimorfismo non sarebbero corrette e continue. Il polimorfismo di questo gene è stato correlato con autismo, con comportamenti sessuali precoci e multipli, e infine con minore altruismo e prosocialità, a testimonianza di come lo stesso abbia un impatto rilevante nel comportamento umano.

Un altro studio recentemente condotto da Garcia e colleghi (2010) su 181 uomini adulti, ha dimostrato che esiste un collegamento diretto tra alleli specifici del sistema della dopamina e maggiore frequenza di rapporti sessuali occasionali, e dunque fuori da una relazione, nonché maggiore frequenza di infedeltà sessuale. Si ricordi infatti come il sistema della dopamina è fortemente connesso col sistema della ricompensa e della ricerca della novità, aspetti che possono risultare fortemente coinvolti nel comportamento di promiscuità e infedeltà sessuale. Nello specifico, si ritiene che i geni che mediano la trasmissione dopaminergica, specie il gene per il recettore D4DR, siano associati con la ricerca di nuovi stimoli, anche sessuali, soprattutto quando presentano sette o più sequenze dell’allele. Un maggiore allungamento di questi alleli potrebbe infatti predisporre a comportamenti impulsivi, ricerca di nuovi stimoli, e, nello specifico comportamento sessuale; è stato dimostrato che i soggetti che presentano 7 o più ripetizioni dell’allele del gene D4DR hanno più probabilità di intrattenere rapporti occasionali, anche in assenza di differenze significative nella fedeltà complessiva (Garcia et al., 2010)

Un ulteriore sistema biologico coinvolto nella fedeltà sembra essere il sistema immunitario. In particolare il riferimento va al complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), un gruppo di geni polimorfici costituiti da 30 unità che si trovano sul braccio corto del cromosoma umano 6. Il sistema di istocompatibilità tipico di queste cellule si basa sulle molecole presenti nella membrana delle stesse le quali, a contatto con il sistema immunitario di un soggetto, lo riconoscono come estraneo e, adottando una risposta immunitaria, agiscono come antigeni: in poche parole si legano alla molecola estranea e cercano di contrastarla.

Si tratta di un procedimento che si trova alla base della verifica della compatibilità per il trapianto di organi che, in caso di rifiuto immunitario, meglio noto come rigetto, non può essere attuato. Si richiede invece, in tal caso, che i sistemi immunitari del donante e del donatario siano afferenti e simili, magari perché legati da vincolo di parentela o da affinità genetiche intrinseche: persone con un MHC simile sono infatti probabilmente parenti.

Questo meccanismo di riconoscimento, nell’essere umano, viene attivato con il semplice utilizzo dell’olfatto: grazie all’emissione dei feromoni, che portano in sé tracce delle molecole del sistema MHC appena descritto, è possibile riconoscere un soggetto geneticamente somigliante a se stessi da uno che non lo è. Si tratta di un sistema biologicamente innato, molto probabilmente sviluppato nel tempo dagli umani per evitare l’incesto, secondo l’ipotesi di Wedekind (1995). Soggetti che “fiutano” le medesime molecole del proprio MHC in un altro, tendono ad evitarlo come partner perché inconsciamente lo riconoscono come parente; comportamento opposto si verifica al contrario identificando soggetti con patrimonio genetico diverso dal proprio, che vengono scelti in misura massicciamente maggiore come partner sessuali, in quanto estranei.

Wedekind ha confermato, con il famoso esperimento delle magliette sudate, come le donne siano propense a scegliere partners con patrimonio genetico diverso dal loro, e come il riconoscimento degli stessi sia possibile semplicemente annusando le magliette sudate dei suddetti maschi. Il sudore, intriso di feromoni, è sufficiente ad identificare un soggetto estraneo, rassicurando la donna sul rischio di tenere relazioni sessuali con potenziali parenti.

Gli studi di Wedekind sono stati replicati in tutto il mondo più volte, ed hanno condotto sempre ai medesimi risultati, dimostrando pertanto la fondatezza dell’ipotesi di partenza. In particolare, uno di questi studi ha dimostrato come donne sposate con uomini che avevano geni simili ai loro nella componente MHC del sistema immunitario, apparivano anche più portate all’adulterio; inoltre, più questi geni erano condivisi tra una donna e il proprio coniuge, più la partner si mostrava incline a tenere relazioni sessuali extraconiugali (Garver-Apgar et al., 2006).

Si è rilevato come anche la struttura del cervello possa contribuire all’infedeltà; in particolare si fa riferimento ai tre sistemi cerebrali che, secondo ipotesi di Fisher (1998), sono stati sviluppati dall’uomo per lo svolgimento di compiti e funzioni specifiche: quello dell’attrazione sessuale, legata al sistema ipotalamico, come le sensazioni fisiologiche di fame e sete, quello dell’amore romantico, riferita al sistema rettiliano, una zona cerebrale arcaica alla quale è legata la soddisfazione di istinti connessi alla sopravvivenza, e quello dell’attaccamento romantico, dipendente dalla zona del pallido ventrale, legato a sua volta a sensazioni di gusto e piacere. Questi tre sistemi neuronali presentano numerose interazioni tra di loro ed anche con molti altri sistemi cerebrali, e sono in grado di generare un’ampia gamma di pensieri, emozioni e comportamenti necessari all’organizzazione della strategia riproduttiva (Fisher, 2004; Fisher et al., 2002; Fisher, 2015).

Malgrado ciò essi possono agire anche in maniera separata, provocando in questo caso una sorta di divisione tra le funzioni alle quali ciascuno di essi è collegato, funzioni che vengono così a manifestarsi e ad esplicitarsi in maniera indipendente l’una dall’altra: in poche parole si può provare attrazione fisica per una persona al di fuori della coppia, provando al contempo attaccamento per una certa persona, magari il partner fisso, e amore romantico per un’altra persona ancora (Fisher, 2004). Questa spiegazione profondamente scientifica e dalle basi biologiche potrebbe costituire una valida risposta al comportamento umano, specie maschile, che molto spesso si trova a manifestare in maniera scissa e contemporanea i tre bisogni sopra identificati.

L’indipendenza biologica di questi tre sistemi neuronali avrebbe inoltre consentito, sin dai tempi dell’Homo sapiens, di avere un rapporto monogamo ufficiale e di condurre al contempo relazioni sessuali clandestine (Fisher, 2004). Da qui una possibile predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

Ecco che nell’infedeltà potrebbe nascondersi un innato intento di contribuzione alla propria fitness, finalizzata ad apportare i benefici riproduttivi di una prole geneticamente più varia (Fisher, 1992). I maschi infedeli potrebbero infatti aver avuto maggiori possibilità di riproduzione proprio grazie ad un maggior numero di rapporti sessuali condotti al di fuori della coppia, e le femmine, dal canto loro, potrebbero aver ottenuto da rapporti sessuali clandestini, un maggior numero di disponibilità di risorse e di supporto genitoriale per la prole dopo il decesso del primo partner o dell’abbandono da parte di quest’ultimo (Fisher, 1992). Pertanto, l’infedeltà clandestina può aver avuto il merito di apportare vantaggi riproduttivi per le femmine e i maschi ancestrali non meno della monogamia stessa, e questo atteggiamento potrebbe aver determinato la selezione delle basi biologiche dell’infedeltà giunte fino ai giorni nostri in entrambi i sessi.

Non solo un comportamento eticamente scorretto, dunque, si nasconderebbe al di là del rapporto infedele clandestino: la scienza suggerisce come la predisposizione all’infedeltà, tanto nei maschi quanto nelle femmine, possa non solo vantare origini biologiche e pertanto innate, non apprese e geneticamente ereditabili, ma potrebbe addirittura mostrarsi utile, ove non preziosa, per la riproduzione e il mantenimento della specie.

 

Il sonno dei soggetti insonni è davvero di “cattiva qualità”?

Ricerche cliniche hanno dimostrato l’esistenza di due principali fattori in grado di influenzare la percezione di “cattivo sonno” in soggetti che soffrono di insonnia. Da una parte la difficoltà di saper riconoscere i segnali che precedono il sonno e che spingono a prepararsi a dormire e dall’altra la presenza di credenze erronee sull’idea di “buon sonno”.

 

Per “percezione del sonno” si intende la capacità dell’individuo sia di saper identificare il proprio sonno, distinguendolo da uno stato di veglia sia di essere in grado di valutarne soggettivamente la qualità. Tale percezione risulta essere alterata nei soggetti insonni ed è questo che fa sì che tali fattori rivestano un importante ruolo nel mantenimento e nella genesi dell’insonnia (Giganti et al., 2016). Esaminiamoli più da vicino.

Segnali che precedono il sonno

Un primo fattore che influenza la percezione che un individuo ha della propria qualità di sonno è la capacità di saper riconoscere il sopraggiungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici come la riduzione dell’attività motoria, la chiusura delle palpebre, il bruciore agli occhi, la sonnolenza, la difficoltà a mantenere la concentrazione e la graduale modificazione dell’attività celebrale che assume via via le caratteristiche del sonno REM (Salzarulo, 2003).

Nei soggetti insonni, tali segnali non sono però tenuti in considerazione al momento della decisione di coricarsi mentre risultano privilegiati segnali esterni, come ad esempio l’orario (Giganti et al., 2014). La conseguenza del basarsi esclusivamente sull’orario per capire se è ora di andare a letto, senza tener conto della propria tipologia circadiana (cioè della naturale propensione a dormire che differisce da persona a persona), è che l’individuo potrebbe mettersi a letto ad un orario anticipato senza per questo riuscire a dormire. Il non sopraggiungere del sonno in poco tempo, potrebbe poi portare l’individuo a ruminare sulle preoccupazioni quotidiane e sulle possibili conseguenze negative prodotte dal “cattivo sonno” (Van Egeren et al., 1983) creando un circolo vizioso che mantiene svegli. La ruminazione, favorendo l’attivazione cognitiva che a sua volta correla con l’attivazione fisiologica sia a livello corticale (Kertesez e Cote, 2011) che neurovegetativo (Bonnet e Arand, 2010) impedirà al corpo e alla mente di rilassarsi e di far sopraggiungere il sonno (Morin et al., 2002).

Credenze erronee sul sonno

Altro fattore che influenza la percezione della qualità del proprio sonno è quello psicologico legato a idee e credenze, a loro volta modulate da fattori culturali, sociali e da esperienze personali (Giganti et al., 2016).

Una prima credenza ritiene che la durata ottimale del sonno, necessaria a sostenere un buon funzionamento durante il giorno, sia di otto ore a notte (Morini et al., 2002). Tale visione non tiene conto però di numerosi fattori tra cui le differenze inter-individuali relative alla tipologia del dormitore e le modificazioni fisiologiche dovute all’età. Con l’invecchiamento per esempio, tendono a venir anticipati gli orari di addormentamento e di risveglio ed aumenta il numero di coloro che dormono per periodi più brevi.

Altra falsa credenza è quella per cui basta una sola notte di sonno disturbato per produrre delle conseguenze negative diurne. In realtà le ricerche dimostrano che i meccanismi fisiologici consentono normalmente di far fronte ad episodiche perdite di sonno senza conseguenze obiettive (Harvey e Greenall, 2003).

Ulteriore idea comune è che una buona qualità di sonno non debba presentare risvegli notturni (Bruck et al., 2015). In realtà, i risvegli notturni possono essere presenti ma mentre in individui normo-dormitori, bastando 2-4 minuti effettivi di sonno per avere la percezione di aver dormito, la presenza di risvegli notturni non comporta una percezione di “cattiva qualità del sonno”, diversa è la situazione dei soggetti insonni, a cui servono circa 15 minuti di sonno per avere la percezione di aver dormito. La conseguenza, per questi ultimi, è quindi di avere maggiori possibilità di provare la sensazione di non aver affatto riposato se vi saranno più risvegli consecutivi separati da brevi episodi di sonno (Knab e Engel, 1988).

Infine è utile ricordare che tali pensieri disfunzionali tendono ad associarsi ad atteggiamenti controproducenti come ad esempio il restare a letto sforzandosi di dormire che, se favoriti nel tempo, inducono l’associazione tra lo stare a letto e uno stato di iperattivazione che rende ancor più difficile l’addormentamento (Perlis et al, 1997).

In conclusione, tali evidenze dimostrano come i soggetti insonni siano meno capaci, rispetto agli individui normo-dormienti, di discriminare il sonno dalla veglia; mostrano anche come gli insonni tendano a percepire la durata del sonno inferiore rispetto a quella reale e come sovrastimino il tempo di addormentamento arrivando a valutare il proprio sonno di “cattiva qualità” (Ohayon e Reynolds, 2009). Ad influire su tali percezioni intervengono inoltre fattori psicologici e cognitivi come le caratteristiche di personalità (Edinger et al., 2000), il tono dell’umore (Edinger et al., 2000) e la memoria (Perlis et al., 1997).

Interventi comportamentali

Sulla base di quanto analizzato, il trattamento dell’insonnia non dovrebbe avere come focus l’aumento del tempo totale di sonno o la riduzione della latenza di addormentamento quanto piuttosto l’obiettivo di modificare le credenze erronee sul sonno ed i comportamenti disfunzionali ad esse associati (Harvey, 2002).

A questo proposito, gli interventi di tipo comportamentale che utilizzano tecniche quali “la restrizione del sonno” ed “il controllo degli stimoli” si sono rivelati utili sia al fine di rendere maggiormente consapevole il soggetto insonne dell’aver dormito, riducendo le preoccupazioni associate al sonno, sia migliorando l’abilità di individuazione dei segnali corporei che indicano il sopraggiungere del sonno (Giganti et al., 2014).

Rough sex: il piacere della violenza

Uno studio pubblicato di recente su Evolutionary Psychological Science (Burch & Salmon, 2019) si è focalizzato sulla natura del rough sex (tradotto prevalentemente in italiano con “sesso spinto” o “sesso violento”) consensuale e, in particolar modo, sul motivo per cui viene preferito al sesso più tipico. 

 

Nel corso degli anni, sono stati numerosi gli studi che si sono focalizzati sui dati derivanti dal rough sex inteso come aggressività e abuso sessuale, in particolare sullo stupro (Messing, Thaller e Bagwell 2014; Camilleri and Stiver 2014). Tuttavia, la mole di ricerche si restringe nel momento in cui il rough sex viene considerato come una pratica consensuale e preferito al sesso tipico da uno dei due partner o da entrambi. Ryan e Mohr, in una ricerca portata avanti nel 2005 hanno evidenziato come alcuni comportamenti aggressivi siano interpretati come giocosi dai partecipanti se essi si manifestano senza essere accompagnati da emozioni negative o ingiurie fisiche.

Alcuni dei comportamenti che rientrano nelle pratiche del rough sex sono tirare i capelli, mordere e stringere la gola; questi possono lasciare leggeri segni sul corpo, come rossori o lividi ma, in ogni caso, devono sempre essere condivisi e accettati da entrambi i partner (Burch & Salmon, 2019).

Al fine di determinare cosa comporta il rough sex e quali comportamenti lo innescano, ai partecipanti del presente studio è stata richiesta una loro personale definizione della pratica, con quale frequenza la mettono in atto e quali fattori e sensazioni sono stati associati al rough sex (Burch & Salmon, 2019).

Il campione era costituito da 734 studenti universitari, sia maschi che femmine. A ognuno è stato chiesto di rispondere a un breve questionario demografico e, in seguito, di descrivere le loro esperienze di rough sex. In particolare il focus degli autori era su domande relative alle diverse sensazioni tra sesso tipico e rough sex, quanto spesso adottavano questa pratica e sui principali comportamenti che mettevano in atto.

I risultati hanno mostrato che la maggior parte dei partecipanti riferiva solo comportamenti leggermente aggressivi riguardo al rough sex (es. schiaffi, tirarsi i capelli, ed essere tenuti fermi/legati) e con una penetrazione rapida e violenta.

Nonostante sia gli uomini che le donne fossero principalmente d’accordo sui fattori che scatenavano il rough sex, vi era una differenza riguardo al fattore “gelosia sessuale”: gli uomini riferivano che gli elementi che rendevano loro gelosi (es. essere separati, essere traditi, attenzione della partner rivolta ad altri) aumentavano la probabilità che assumessero comportamenti sessuali violenti. Infine, le donne hanno riportato una tendenza leggermente superiore degli uomini a incominciare il rough sex e una minor latenza dell’orgasmo. Inoltre, esse riportavano anche una soddisfazione maggiore in questo tipo di pratica rispetto al sesso più tipico (Burch & Salmon, 2019).

In conclusione, il rough sex sembra essere un comportamento ampiamente ricreativo, innescato sia dal desiderio di novità sia dalla gelosia, che in molti casi può risultare addirittura più soddisfacente dei rapporti sessuali tipici.

COVID-19 e salute mentale – Partecipa alla ricerca

Il Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” sta conducendo, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e le Università Statale di Milano, “Milano Bicocca”, Perugia, Pisa, La Sapienza di Roma, la Cattolica di Roma, Ferrara, Trieste e Ancona uno studio per valutare l’impatto della pandemia da Covid-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

 

Carissimi,

vorremmo chiedere la Vostra collaborazione per un progetto importante che stiamo conducendo in collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria dell’Università della Campania “L. Vanvitelli”, il Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Superioredi Sanità, e altre 8 Università Italiane (tra cui Trieste).

Si tratta di valutare gli effetti della pandemia da COVID-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per poter mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

L’isolamento sociale, la solitudine, la paura dell’infezione e di non riuscire a provvedere ai beni primari rappresentano importanti fattori di rischio per lo sviluppo di problemi di salute mentale. Riuscire a trovare delle strategie per proteggere la nostra salute mentale è davvero importante. Troverete il questionario completamente anonimo al seguente link:

https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

Vi chiediamo solo un po’ del Vostro tempo. La nostra salute dipende da noi.

Grazie a tutti,

 

Andrea Fiorillo
Professore Ordinario di Psichiatria
Dipartimento di Psichiatria Università della Campania Luigi Vanvitelli

Umberto Albert
Professore Associato di Psichiatria Dipartimento Universitario Clinico di Scienze Mediche, Chirurgiche e della Salute
Università degli Studi di Trieste

 


Qual è lo scopo dello studio?

L’11 Marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito lo stato di “pandemia” causato dall’infezione da coronavirus COVID-19, sottolineandone la gravità della diffusione a livello mondiale. Con lo scopo di preservare la salute pubblica e di contenere la diffusione del contagio, numerose nazioni, inclusa l’Italia, hanno adottato misure contenitive quali distanziamento sociale e quarantena, fino all’isolamento delle persone infette. La quarantena è un’esperienza stressante e spiacevole che si associa ad una riduzione della libertà personale, dei contatti sociali, ad una percezione di insicurezza rispetto all’esito del contagio e ad un significativo cambiamento della routine quotidiana. La quarantena può avere un impatto importante sulla salute mentale delle persone, attraverso complessi meccanismi che interagiscono tra loro. In particolare, l’isolamento sociale, il senso di solitudine, la paura dell’infezione e del contagio, il timore di non avere beni di prima necessità a sufficienza, la scarsità delle informazioni condivise dalle principali agenzie sanitarie nazionali e internazionali, rappresentano fattori di rischio in grado di causare un aumento di sintomi ansioso-depressivi, insonnia, irritabilità e sintomi ossessivo-compulsivi, oltre che un maggiore utilizzo di sostanze stupefacenti e, infine, la comparsa di ideazione suicidaria nella popolazione generale.
Sulla base di tali premesse, abbiamo sviluppato uno studio che ha avuto l’obiettivo di valutare: 1) l’impatto della pandemia e delle misure di quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana in termini di sintomi ansioso-depressivi; 2) la percezione della solitudine e di isolamento sociale percepito; 3) l’insorgenza di pensieri di morte, le strategie di adattamento alla quarantena e alla pandemia; 4) il ruolo di Internet e della rete sociale in questo delicato momento. Questo ci darà la possibilità di favorire l’organizzazione e l’implementazione di adeguati interventi e strategie di cura.
PER PARTECIPARE: https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

 


Per professionisti e ricercatori: SCARICA IL PROTOCOLLO DELLA RICERCA (file PDF)

Perché si rumina nonostante le conseguenze negative?

Data la mole di dati che mostra le conseguenze negative della ruminazione, ha senso domandarsi come mai le persone continuino a mettere in atto tale processo. Alcuni autori hanno risposto sottolineando l’esistenza di una “ruminazione positiva” che, nella sua forma adattiva di riflessione costruttiva, è associata ad effetti positivi sul benessere psicologico.

 

Diversi studi sottolineano il ruolo giocato dalla ruminazione nella genesi e nel mantenimento della depressione in quanto processo di pensiero ripetitivo, persistente e ricorrente che porta l’individuo a concentrarsi sui sintomi della propria sofferenza ed a focalizzare l’attenzione su di sé, amplificando gli stati emotivi negativi interni con la conseguenza di produrre numerosi effetti quali: esacerbazione del tono dell’umore negativo, irritabilità, ansia, sfiducia, insonnia, amplificazione del pensiero negativo e tendenza a rimuginare sulle proprie difficoltà (Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema, 1995; Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema, 2000; Nolen-Hoeksema e Morrow, 1993; Watkins, 2008).

Viene allora da chiedersi, date le conseguenze negative, come mai le persone continuino ad utilizzare la ruminazione come strategia di regolazione emozionale.

Ruminazione come problem solving

Daches e colleghi (2010) hanno messo in luce come la ruminazione sia uno stile di elaborazione di pensiero utilizzato dalle persone allo scopo di trovare rimedio ad un problema e di meditare sui propri errori dopo un fallimento, al fine di imparare dall’esperienza e di migliorare le prestazioni future.

Per Watkins (2016), le funzioni positive che gli individui rintracciano nella ruminazione sono:

  • Aumento della comprensione e dell’insight di eventi, significati personali, emozioni e comportamenti al fine di prevenire futuri problemi ed aumentare una sensazione di controllo.
  • Evitamento di attributi indesiderati attraverso l’auto-motivazione e la riflessione sulle proprie caratteristiche negative al fine di spronarsi, migliorare la performance ed evitare di ricadere in comportamenti indesiderati.
  • Pianificazione e preparazione ad eventi futuri, immaginando ad esempio ciò che potrebbe accadere o quali potrebbero essere eventuali reazioni altrui.
  • Evitamento di un sé indesiderato, di un tipo di persona che si teme di essere rimarcando gli aspetti “sgraditi di sé” al fine di avere un promemoria che ricordi di agire diversamente.
  • Evitamento di un cambiamento o gestione della noia del quotidiano focalizzandosi su ricordi, immagini e pensieri.
  • Evitamento del rischio di fallimento ed umiliazione riguardo situazioni difficili, complicate e rischiose attraverso la riflessione che permette di considerare cosa potrebbe andare storto.
  • Prevenzione di critiche da parte degli altri anticipando potenziali risposte negative al fine di prepararsi all’eventualità e minimizzando l’impatto negativo del possibile rifiuto.
  • Controllo delle emozioni e delle sensazioni spiacevoli ed indesiderate.
  • Ricerca di scuse e razionalizzazioni, ad esempio per non aver intrapreso un’attività o cambiato idea.
  • Ricerca di prove sul perché le cose dovrebbero andare in un certo modo o giustificazioni per il proprio comportamento.

Esperimenti che confermano le credenze positive delle persone sulla ruminazione

Varie ricerche hanno dimostrato gli effetti positivi che gli individui nutrono sul ruolo svolto dalla ruminazione. Esaminiamone alcune.

In uno studio sperimentale, Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema (1993) hanno osservato che dopo aver indotto la ruminazione, i partecipanti disforici tendevano a credere di ottenere un maggior guadagno in termini di comprensione di sé stessi e dei loro problemi, anche se le soluzioni individuate erano giudicate insoddisfacenti.

Papageorgiou e Wells (2001) hanno effettuato delle ricerche cliniche, in cui hanno constatato che le persone con episodi depressivi ricorrenti, presentano sia credenze positive che negative sulla ruminazione. Le credenze favorevoli riguardano l’idea che la ruminazione sia un’utile strategia di coping ed un metodo grazie al quale è possibile ottenere maggior insight, efficace per identificare le cause della depressione, risolvere i problemi e prevenire gli errori e i fallimenti futuri. Le credenze metacognitive negative riguardano invece l’incontrollabilità dei pensieri ruminativi e i danni prodotti da questa a livello sociale ed interpersonale, come ad esempio l’idea che “la gente non mi accetterebbe se sapesse davvero quanto rumino”.

Watkins e Moulds (2005) hanno invece esaminato le differenze riguardo le credenze positive sulla ruminazione in pazienti depressi in fase di remissione e in persone che non avevano mai sofferto di depressione. I risultati dello studio hanno evidenziato da una parte come i pazienti depressi presentino maggiori credenze favorevoli sulla ruminazione rispetto ai soggetti del gruppo di controllo e dall’altra parte hanno mostrato come sia i pazienti attualmente depressi sia coloro che si sono ripresi dalla depressione nutrono maggiori credenze positive circa l’utilità dei pensieri ripetitivi sugli stati d’animo e sugli eventi del passato, rispetto ai soggetti che non sono mai stati depressi.

Infine, ulteriori analisi hanno evidenziato che coloro che ruminano spesso, sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti ed è proprio questo che li spingerebbe ad utilizzare tale strategia come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di accadimenti futuri temuti (Harvey, Watkins, Mansell e Shafran, 2004).

Il rovescio della medaglia

Nonostante le persone nutrano tali credenze positive sulla ruminazione, non va però dimenticato l’effetto negativo di incremento dell’umore depresso che questa può produrre, se utilizzata come strategia pervasiva. La ruminazione, essendo caratterizzata da una modalità astratta di pensiero che si focalizza su rappresentazioni mentali generali, sovraordinate e decontestualizzate, avrebbe minor capacità di generare problem solving rispetto a forme di elaborazione più concrete che partendo da un’esperienza diretta e specifica, e valutando i mezzi a disposizione, portano l’individuo a raggiunge gli obiettivi prefissati e a mettere in atto azioni fattibili, utili al raggiungimento dello scopo (Watkins, 2016). La conseguenza è che l’individuo focalizza l’attenzione sulla valutazione dei significati personali del problema stesso e sulle implicazione prodotte arrivando a generare un pensiero disfunzionale e ripetitivo rivolto ai sintomi, alle emozioni, ai problemi e agli aspetti negativi del sé che incrementa l’umore negativo (Ciarocco et al,. 2010; Watkins, 2016).

In conclusione, una possibile spiegazione sul perché le persone tendano a ruminare nonostante gli effetti negativi, si basa sul presupposto che i ruminatori nutrano delle credenze metacognitive positive circa la ruminazione stessa, relative alla sua utilità come strategia di regolazione emotiva, di pianificazione di azioni volte alla soluzione di un problema e di riflessione sulle cause di un evento o sul proprio stato d’animo che non tiene conto (Palmieri, 2014).

 

Alla scoperta del neurone: dalla “reazione nera” di Golgi alla sinapsi di Sherrington

La scoperta della ‘reazione nera’ di Golgi e le sue implicazioni sull’osservazione del tessuto nervoso ebbero una portata scientifica enorme. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Che spettacolo inaspettato! Filamenti neri sparsi, lisci e sottili, oppure cellule nere spinose, spesse, triangolari, stellate o fusiformi si possono vedere su uno sfondo giallo perfettamente traslucido! Si potrebbe quasi paragonare le immagini a disegni di inchiostro cinesi su carta giapponese trasparente […] questo è il metodo di Golgi. (Cajal)

Così ricordava nei suoi scritti un medico spagnolo rievocando la sua prima osservazione, avvenuta nel laboratorio rudimentale allestito a casa di un collega, del tessuto nervoso trattato con la “reazione nera” ideata qualche anno prima dall’italiano Camillo Golgi.

Il medico spagnolo era Santaigo Ramon y Cajal. Colui che avrebbe condiviso, proprio con Camillo Golgi, il premio Nobel per la medicina del 1906. Colui che avrebbe individuato nel neurone l’elemento costitutivo essenziale del tessuto nervoso, portando alla ribalta la teoria cellulare del sistema nervoso.

La “teoria cellulare”, secondo cui le cellule sono i componenti elementari degli organismi viventi, era stata proposta nel 1600, ma venne formalizzata solo nel 1800 dal botanico Matthias Schleiden e dallo zoologo Theodor Schwann e ulteriormente validata, per ciò che riguarda gli organi che compongono il corpo umano, dal patologo tedesco Rudolph Virchov. Sino all’inizio del ‘900,  fu dibattuto tuttavia se tale teoria fosse applicabile anche al sistema nervoso; infatti, il tessuto nervoso appariva strutturalmente più complesso rispetto a quello di altri organi e i metodi di indagine dell’epoca non consentivano di distinguere le cellule rispetto alle fibre nervose. A prevalere era la teoria secondo cui il sistema nervoso fosse l’insieme di una fitta rete di sottili filamenti che si univano per formare le fibre nervose, collegate le une alle altre. Tale teoria, descritta dal tedesco Josef von Gerlach nel 1871, prendeva il nome di “teoria reticolare” ed era abbracciata dalla maggior parte degli studiosi dell’epoca. Tra questi, vi era Camillo Golgi.

Camillo Golgi si laureò in medicina nel 1865 all’università di Pavia sotto la guida di un professore la cui fama è tuttora nota: Cesare Lombroso. Tuttavia, gli studi di carattere istologico sul tessuto nervoso ebbero inizio per il neolaureato Golgi, quando entrò a far parte del laboratorio di Pavia diretto da Giulio Bizzozero, e si sarebbero interrotti da lì a qualche anno se la sua determinazione non avesse prevalso e aggirato le difficoltà che si trovò ad affrontare. Fu infatti nominato primario presso un ospedale di provincia, le Pie Case degli Incurabili di Abbiategrasso, ove non era previsto che venisse effettuata attività di ricerca, non vi era alcun laboratorio e i mezzi a disposizione erano rudimentali. Particolari trascurabili per lo studioso che trasformò la cucina dell’ospedale in laboratorio e proseguì i suoi studi con l’appoggio dei colleghi di Pavia.

Golgi desiderava studiare il tessuto nervoso e per farlo voleva osservare il tessuto cerebrale come sino ad allora non era stato possibile. I microscopi ottici, utilizzati per la ricerca scientifica sin dal 1600, avevano avuto un ulteriore sviluppo nell’800, ma erano ancora viziati da alcuni artefatti ottici e cromatici. Inoltre, per poter osservare al microscopio i tessuti nervosi, essi dovevano essere sezionati in “fette” sottilissime e trattati con fissanti, che all’epoca erano principalmente alcol e acido cromico, e coloranti, come il carminio. Tali tecniche, tuttavia, non permettevano risultati ottimali. A rivoluzionare l’osservazione del tessuto nervoso sarebbe stata proprio la “reazione nera” di Golgi, “ricetta” elaborata in seguito ai numerosi tentativi condotti nella cucina/laboratorio di Abbiategrasso.

Mi valsi ancora dell’acido osmico, che è, massime pel sistema nervoso, uno dei reagenti più preziosi, perché senza indurre alterazioni di forma e di rapporto degli elementi, indura in poche ore i tessuti, colorando altresì in nero intenso il grasso e le fibre nervose, ed in bruno più o meno carico, gli altri elementi, ed esclusi l’alcol, il quale per lunga esperienza si è dimostrato affatto inopportuno per lo studio dei tessuti nervosi.

ricorda il ricercatore pavese nei suoi scritti. Non fu sufficiente. Solo dopo numerose prove, Golgi capì che poteva ottenere l’agognato risultato immergendo il tessuto nervoso in una soluzione di bicromato di potassio e, in successione, di nitrato d’argento. Al microscopio, era finalmente possibile osservare le cellule e le fibre nervose, che si stagliavano con il loro profilo nero su fondo chiaro.

Su tale scoperta si sono diffuse svariate leggende, secondo le quali la “reazione nera” sarebbe stata frutto di uno straordinario colpo di fortuna. Alcune fonti raccontano che il ricercatore, con una gomitata, rovesciò per errore la soluzione d’argento sui campioni di tessuto cerebrale; altre, che un inserviente buttò per sbaglio un campione di tessuto cerebrale nella spazzatura dove qualche ora prima era stato gettato un campione di nitrato d’argento. In entrambi i casi, Golgi avrebbe deciso di riutilizzare ugualmente i campioni, osservando con grande stupore lo spettacolo che si palesava alla sua osservazione al microscopio. Non è possibile essere certi della veridicità di tali episodi che, per quanto suggestivi, sono abbastanza improbabili. Ciò che è certo è che, indipendentemente da come tale scoperta sia realmente avvenuta, la sua portata scientifica era enorme: nessun’altra metodica dell’epoca consentiva una tale osservazione del tessuto nervoso. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Annunciata per la prima volta nel 1873, la scoperta della “reazione nera” venne descritta più dettagliatamente l’anno successivo sulla Gazzetta Medica Italiana.

Benché Golgi fu il primo ad avere l’occasione di osservare distintamente le cellule nervose, tinte di nero, e le loro ramificazioni, che solo decenni più tardi sarebbero stati battezzate con il nome di assoni e dendriti, ne trasse alcune conclusioni errate. Con i limiti della metodica, i dendriti e gli assoni erano ben visibili, ma sembravano formare intrecci ininterrotti, senza alcuna soluzione di contiguità l’uno con l’altro. Era, per il ricercatore pavese, una conferma alla teoria reticolare del sistema nervoso.

A dare una svolta, affermando l’individualità delle cellule nervose come elementi costitutivi del tessuto cerebrale sarà proprio il ricercatore spagnolo Cajal, che per molti anni diventerà per Golgi un avversario, seppur stimato, nel panorama scientifico europeo.

Cajal, medico reduce da un’esperienza militare nella guerra di Cuba, rientrò nel 1875 in Spagna e proprio allora iniziò a dedicarsi alla ricerca scientifica. Caratterizzato sin da giovanissimo da un’indole creativa, impulsiva e appassionata, decise di comprare l’attrezzatura necessaria per l’attività di laboratorio con la paga da militare, dividendosi negli anni successivi tra le università di Madrid e Barcellona.

Non facevo altro che curiosare senza metodo. Mi si offriva un campo meravigliosamente ricco di scoperte ed esplorazioni, pieno di grandi sorprese. Con questo spirito ho esaminato i globuli del sangue, le cellule epiteliali, i corpuscoli muscolari e i nervosi, fermandomi qui o là per disegnare o fotografare le scene più accattivanti della vita degli infinitamente piccoli.

ricorda Cajal nei suoi scritti. Fu nel 1887 che, per la prima volta, nel rudimentale laboratorio allestito nella casa di un collega e amico, lo psichiatra Dott. Simarro, osservò alcuni campioni di tessuto nervoso trattati con la reazione nera di Golgi.

A partire da quell’osservazione, Cajal iniziò a usare il metodo di Golgi nel suo laboratorio, effettuando via via delle modifiche. Variò la durata di immersione del tessuto nella soluzione a seconda della struttura nervosa che desiderava studiare e delle caratteristiche dell’animale a cui apparteneva il tessuto.

Fu grazie a tali modifiche che poté osservare il tessuto nervoso con una definizione ancora maggiore. Grazie al suo talento artistico, ostacolato in giovinezza dalla famiglia che nutriva per lui l’aspirazione di una carriera medica, poté riprodurre fedelmente ciò che osservava al microscopio in centinaia di splendidi disegni effettuati a mano. Con il perfezionamento della ”reazione nera” di Golgi, Cajal osservò che alcuni assoni, benché molto vicini a quelli contigui, terminavano liberamente, senza connessione diretta con altre fibre nervose. Nel 1889, il ricercatore concluse che le cellule nervose, cosi come quelle di altri tessuti, erano unità indipendenti tra loro. Era la conferma della teoria cellulare del sistema nervoso.

I risultati dei suoi studi, tuttavia, faticavano a espandersi oltre i confini spagnoli. Pertanto, nel 1889, Cajal decise di partecipare ad un prestigioso congresso a Berlino, pagando di propria tasca le spese poiché l’università rifiutò di finanziarlo. Tra gli organizzatori dell’evento, vi era un autorevole studioso dell’epoca: Wilhelm von Waldeyer, direttore dell’istituto di anatomia dell’Università di Berlino. Impressionato dagli studi di Cajal, Waldeyer si dedicò a condurre una rassegna della ricerche sino ad allora effettuate sulle cellule nervose. Ne scaturì, nel 1891, la pubblicazione di una lunga opera in sei parti, in cui, per la prima volta, le più importanti cellule del sistema nervoso venivano battezzate con il nome con cui le conosciamo: neuroni. Essi venivano definiti come unità elementari e indipendenti le une dalle altre. La teoria cellulare, grazie agli studi di Cajal e all’opera di Waldeyer, diventava la “teoria del neurone”. Ben presto, anche le ramificazioni di fibre nervose che originavano dal corpo del neurone ebbero un nome: Wilhelm His denominò nel 1890 col nome di “dendriti” le fibre che conducono l’impulso nervoso dalla periferia verso il corpo cellulare; nel 1896 Albrecth von Kolliker denominò “assoni” quelle che lo conducono dal soma cellulare alla periferia. Nonostante le evidenze a supporto della teoria del neurone e l’ampia adesione da parte della comunità scientifica, alcun fieri oppositori continuavano ad osteggiarla. Golgi, che nel frattempo aveva fornito altri autorevoli e poliedrici contributi alla ricerca scientifica, descrivendo cellule gliali come gli astrociti, identificando il “reticolo di Golgi” all’interno della cellula, i recettori muscolo-tendinei denominati “organi di Golgi” e quelli cutanei denominati “corpuscoli Golgi–Mazzoni”, chiarendo alcuni aspetti della struttura anatomica del rene e del ciclo di replicazione del Plasmodium responsabile della malaria, su una questione non transigeva: a suo parere, gli assoni erano uniti gli uni agli altri e per anni continuò a battersi per far valere la teoria reticolare.

La diatriba non si placò neppure quando venne annunciato che i due studiosi antagonisti, Golgi e Cajal, avrebbero condiviso il premio Nobel per la medicina, l’uno per l’invenzione del metodo della “reazione nera”, l’altro per averla sfruttata stabilendo la struttura e funzione del neurone.

Che crudele ironia del destino da accoppiare, come gemelli siamesi uniti alle spalle, avversari scientifici dai caratteri così contrastanti.

commenterà Cajal nei suoi scritti. La cerimonia si svolse nel 1906, lo stesso anno in cui anche l’italiano Giosuè Carducci ritirò il premio Nobel per la letteratura. Persino tale occasione diventò  pretesto per i due studiosi per difendere le rispettive teorie, sferrando attacchi a quella antagonista nei rispettivi discorsi di ringraziamento.

Se la teoria cellulare del neurone era ormai predominante, vi era un grosso interrogativo a cui doveva ancora rispondere. Se l’informazione nervosa viaggia lungo dendriti e assoni e questi non sono uniti tra loro, come può il segnale passare da un neurone all’altro in breve tempo, trasferendo l’informazione anche su lunghe distanze? La teoria reticolare, proclamando la continuità delle fibre nervose l’una con l’altra, su questo aspetto era in vantaggio. Entrambe, tuttavia, non rispondevano a un’altra spinosa questione: come nasce e si propaga il segnale nervoso?

A dare una risposta a entrambe le domande, sarebbe stata un’altra coppia di studiosi che, ironia della sorte, condivisero a loro volta il premio Nobel per la medicina nel 1932: si trattava dei britannici Edgar Douglas Adrian e Charles Scott Sherrington. Il primo identificò nell’attività elettrica il meccanismo alla base della trasmissione dell’impulso nervoso del neurone, il secondo chiarì come tale impulso venisse trasmesso tra due o più neuroni.

L’idea che l’attività elettrica rappresenti la modalità di trasmissione dei segnali nervosi era già presente dal 1700 e seguiva la lunga tradizione scientifica italiana di studiosi come GianBattista Beccaria, Luigi Galvani, Leopoldo Nobili. Le loro teorie, tuttavia, furono in gran parte criticate e ignorate dagli altri autorevoli ricercatori europei per oltre due secoli. Fu necessario attendere sino al 1928 affinché, grazie ad Adrian, l’attività elettrica potesse essere legittimamente riconosciuta alla base dell’impulso nervoso.  Nel suo celebre esperimento, il medico inglese isolò pochi assoni da un nervo del collo di un coniglio e pose un elettrodo a contatto con essi. L’elettrodo, ogni volta che il coniglio emetteva un respiro, registrava attività elettrica, che veniva convertita in un segnale sonoro simile a un crepitio mediante un amplificatore. Ogni crepitio corrispondeva all’ impulso elettrico utilizzato dal neurone per trasmettere il segnale e “dialogare” con i neuroni vicini: il potenziale d’azione. Oggi sappiamo che il potenziale d’azione si crea poiché ciascun neurone ha una carica elettrica sempre presente, il “potenziale a riposo”. Il potenziale a riposo è garantito dalla struttura del neurone che, come una batteria, presenta da un lato una carica elettrica positiva fuori dalla membrana che lo riveste, e dall’altro una carica negativa, all’interno della cellula. La carica positiva o negativa è data dal prevalere di atomi dotati di carica elettrica, gli ioni, tra i due lati della membrana. Quando arriva uno stimolo al neurone, si verifica un cambiamento della concentrazione degli ioni dai due lati della membrana e, di conseguenza, della carica elettrica. In particolare, se lo stimolo è eccitatorio, la differenza di carica elettrica si riduce: si ha così il fenomeno chiamato “depolarizzazione”. Superato un determinato valore “soglia” di depolarizzazione, si ha il “potenziale d’azione”: manifestazione elettrica dell’impulso nervoso, rappresenta la modalità con cui i neuroni diffondono i loro messaggi.

In uno studio successivo sul rospo, Adrian registrò gli impulsi elettrici, li amplificò e li convertì graficamente, visualizzandoli come  “picchi” appuntiti.  Osservando i picchi, scoprì i potenziali d’azione di un dato neurone erano tutti uguali per ampiezza e durata, indipendentemente dall’intensità dello stimolo: ciò che variava era la loro frequenza.

Adrian descrisse pertanto come gli impulsi nervosi, così generati ad alta o bassa frequenza, si propagano lungo l’assone, a partire dal corpo cellulare del neurone sino alla sua estremità, “come una fiamma lungo una miccia accesa”. La “miccia” percorre l’assone per tutta la sua lunghezza e può viaggiare anche per percorsi piuttosto lunghi. Tuttavia, se come sostenuto dalla teoria del neurone, gli assoni non sono uniti l’uno all’altro, com’è possibile la loro propagazione tra diversi neuroni?

La risposta verrà fornita da quello che per molti viene riconosciuto come il “filosofo del sistema nervoso”, Charles Scott Sherrington, ed ha un nome preciso: sinapsi.

Sinapsi, termine utilizzato per la prima volta proprio dal medico inglese, significa “giunzione”, “unione”, e rappresenta la connessione funzionale tra due neuroni attraverso la quale viene trasmesso il segnale nervoso. All’epoca di Sherrington, si parlava di struttura “funzionale” poiché l’esistenza dello spazio sinaptico fu confermata e osservabile strutturalmente solo nei decenni successivi, in seguito all’avvento del microscopio elettronico.

A livello della sinapsi, i neuroni dialogano tra loro mediante una stupefacente trasformazione del messaggio, che da impulso elettrico diventa segnale chimico.

Come era accaduto per la teoria cellulare e la teoria reticolare, anche la teoria elettrica e chimica del segnale nervoso furono per lungo tempo dibattute e apparivano inconciliabili alla maggior parte degli studiosi.

A conciliare tali teorie sarebbe stato il contributo scientifico di una terza coppia di scienziati e premi Nobel per la medicina nel 1936: Otto Loewi e Henry Dale. Gli esperimenti di Loewi sul cuore di rana evidenziarono come ad uno stimolo elettrico, veicolato lungo l’assone, seguiva il rilascio di una sostanza chimica in grado di trasmettere il “messaggio” tra due neuroni e tra neurone e muscolo con conseguenze tangibili: il cuore di rana, a seconda dello stimolo elettrico e della sostanza chimica rilasciata di conseguenza, accelerava o rallentava il suo battito. Henry Dale, identificò due sostanze coinvolte nella comunicazione a livello sinaptico: la noradrenalina e l’acetilcolina. Essi vennero definiti neurotrasmettitori, per il loro ruolo nella trasmissione dell’informazione nei tessuti nervosi. A seguire, tra gli anni ’30 e gli anni ’50, furono identificati altri neurotrasmettitori e chiarite le loro funzioni: il glutammato e la glicina, ad effetto eccitatorio; la serotonina, coinvolta nel tono dell’umore; l’acido gamma-amino butirrico (GABA), inibitorio; la dopamina, coinvolta nel circuito del piacere e del movimento. I segnali, che viaggiano attraverso differenti circuiti cerebrali coinvolgendo numerosi neuroni e differenti sinapsi, vengono veicolati mediante una sequenza di impulsi elettrici e di neurotrasmettitori, che, come in una somma algebrica a cascata, vanno a sommarsi o a sottrarsi tra loro, in una miriade di configurazioni differenti.

Nei decenni che seguirono tali scoperte, nuovi studi hanno ulteriormente chiarito i meccanismi che regolano la comunicazione tra neuroni e i loro circuiti a livello del sistema nervoso, mettendo in luce, d’altro canto, una inaspettata complessità, che ancor oggi non è stata completamente decifrata.

Intuendo il fascino e la grandiosità di tale complessità, lo stesso Sherrington scrisse poeticamente:

Come una Via Lattea che entri in una specie di danza cosmica, il cervello è come un telaio incantato, in cui milioni di spolette lampeggianti intessono una configurazione che si dissolve, sempre significativa, ma mutevole, una mobile armonia di subconfigurazioni.

 

Il Mobbing: in cosa consiste e come riconoscerlo. Dalle conseguenze psicologiche e fisiche del Mobbing, alle forme di prevenzione e formazione per contrastare questo fenomeno.

Negli ultimi anni si sta registrando un aumento dei casi di Mobbing in molteplici contesti lavorativi. Si tratta di un complesso fenomeno che è stato sistematizzato solo di recente, ma la cui origine è in realtà molto antica.

 

Gli atti vessatori, ostili ed aggressivi esercitati sul luogo di lavoro sono sempre esistiti, ma soltanto negli ultimi decenni si è cercato incrementare la consapevolezza sulle dinamiche subdole e manipolatorie che si celano dietro questo fenomeno. Il Mobbing può essere causa di molteplici disturbi che interessano sia la sfera relazionale e mentale, sia quella fisica e neurovegetativa. Le azioni mobbizzanti sono in grado di condizionare ogni aspetto della vita dell’individuo, compromettendone non solo la salute psicofisica, ma anche i principali rapporti umani, come quelli familiari. Pertanto, risulta di primaria importanza intervenire attraverso specifici percorsi di prevenzione, formazione ed informazione, senza perdere di vista il contributo che ognuno di noi può offrire quotidianamente per contenere questo fenomeno, impendendone la sua ulteriore diffusione.

Il Mobbing può essere definito come un complesso e problematico fenomeno di terrorismo psicologico perpetrato nell’ambiente di lavoro (H. Ege, 1996). Dal punto di vista etimologico, il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, assalire e affollarsi intorno a qualcuno.

Il Mobbing, inizialmente nato ed approfondito nel campo dell’etologia, è stato oggetto di studio nel contesto lavorativo a partire dagli anni ’90, grazie al contributo dello psicologo svedese di origini tedesche Heinz Leymann. Il Mobbing viene considerato da H. Leymann come un insieme di vessazioni di natura psicologica, esercitate sul posto di lavoro, da parte di un collega o di un superiore, con episodi ricorrenti e protratti nel tempo (H. Leymann, 1996). Più nello specifico, H. Leymann definisce il Mobbing come un insieme di condotte ostili che riguardano tre ambiti principali: la comunicazione, la reputazione e la prestazione. Per quanto riguarda il primo punto, il Mobbing si esplica attraverso una comunicazione disfunzionale, ostile, carica di presunzione, perpetrata in maniera sistematica da uno o più individui e rivolta contro uno o più lavoratori, i quali vengono spinti in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa. Ci sono poi i comportamenti che mirano a distruggere la reputazione del lavoratore, attraverso strategie subdole come pettegolezzi, offese, derisioni sull’aspetto fisico e umiliazioni pubbliche. Infine, il mobbing può puntare anche alla prestazione della vittima, la quale può essere dequalificata professionalmente, oppure obbligata a svolgere delle mansioni pericolose per la propria incolumità psicofisica (H. Leymann, 1993). L’effetto di tali condotte agite dal mobber è quello di annientare nel corso del tempo la vittima del Mobbing, portandola a sentirsi incapace, inutile e privata di ogni forma di valore e di autostima. Le motivazioni possono essere molteplici, molte volte può trattarsi di una strategia mirata ad allontanare lavoratori diventati “scomodi”, portandoli a dare volontariamente le dimissioni oppure arrivando ad un procedimento di licenziamento (H. Ege, 2002). Dunque, affinché si possa parlare di Mobbing, è necessario che le azioni mobbizzanti siano agite dal mobber nel corso del tempo (un periodo maggiore di sei mesi), con una frequenza di almeno un episodio a settimana (H. Leymann, 1990). È importante sottolineare che si tratta di un fenomeno non circoscritto all’ambiente di lavoro, ma ben più esteso. Le difficoltà psicologiche, fisiche e psicosomatiche che la vittima di Mobbing può sviluppare, mettono in subbuglio ogni ambito della vita dell’individuo, sfociando spesso in disordini mentali come episodi depressivi, insonnia, attacchi di panico e disturbi alimentari. Uno dei contesti che risente maggiormente delle conseguenze negative del Mobbing è sicuramente la famiglia del lavoratore mobbizzato. La famiglia, rappresenta il principale luogo in cui vengono riversati tutti i sentimenti di frustrazione e di impotenza scaturiti dal malsano e patologico ambiente di lavoro. Tuttavia, la dose quotidiana di negatività che la vittima del Mobbing porta nel suo nucleo familiare, può condurre ad una vera e propria crisi del rapporto con i familiari, i quali, dopo vari tentativi volti ad incoraggiare e sostenere il parente in difficoltà, finiscono con l’esaurire le risorse a disposizione per far fronte alla problematica lavorativa, e pertanto si verifica quel fenomeno che H. Ege definisce come “Doppio Mobbing” (H. Ege, 2002). La vittima finisce col ritrovarsi completamente sola e incompresa, privata persino della possibilità di trovare sostegno e comprensione nella sua famiglia, ed è proprio in questa fase che possono prospettarsi gli scenari più tragici. Negli ultimi anni, purtroppo, si è registrato un incremento di suicidi Mobbing-correlati. Si tratta di suicidi che molte volte possono essere definiti tali soltanto sulla carta, in quanto rappresentano l’ultima scelta disperata messa in atto da chi ha subito per troppo tempo gli effetti deleteri delle condotte riprovevoli e disumane agite nel mondo del lavoro. Pertanto più che di suicidi, si potrebbe parlare di omicidi mascherati. Questi gesti estremi, possono essere considerati come l’ultimo passo che la vittima del Mobbing vuole compiere, pur di liberarsi una volta per tutte da un tormento terrificante il cui peso è diventato insostenibile nel corso del tempo. Sono decisioni drastiche, non facili da accettare e da comprendere per chi non si è mai ritrovato nel ruolo della vittima del Mobbing. Per tali motivi, risulta essere di fondamentale importanza riflettere sulla criticità di questo grave fenomeno, perché si tratta di una realtà che racchiude in sé molteplici valenze e significati. Basti pensare al valore che il lavoro ha sempre avuto nella storia dell’essere umano. Il lavoro è qualcosa che definisce e struttura l’identità dell’uomo. La possibilità di svolgere un lavoro, offre all’individuo l’opportunità di sentirsi produttivo e capace di sostentarsi in maniera autonoma. Ne deriva da ciò un senso di gratificazione e di soddisfazione personale che è indispensabile per una sana autostima ed una positiva percezione della propria immagine sociale. Pertanto, qualora dovessero intervenire delle problematiche che interessano la funzione produttiva dell’individuo, come critiche al suo operato, umiliazioni, vessazioni e atti denigratori, viene da sé che l’accezione emotiva di questi eventi possa essere distruttiva per il lavoratore. Sentirsi continuamente svalutati nelle proprie competenze operative, è qualcosa che logora e che scava una ferita profonda nel mondo interiore dell’individuo. Una delle più preoccupanti conseguenze può essere proprio la destrutturazione dell’identità della persona, che non riesce più a riconoscere sé stessa, le sue qualità ed il suo valore, fino ad arrivare ad una condizione di annientamento.

Porre attenzione su questo fenomeno è sicuramente il primo passo da compiere per cercare di contrastare un disagio di così grande portata. È bene precisare che intervenire sul mobbing, non significa limitarsi a trattare esclusivamente i sintomi psicofisici manifestati dalla vittima, ma bisogna agire in maniera più ampia. Il Mobbing costituisce un fenomeno di interesse socioculturale, che nella maggior parte dei casi affonda le sue radici in una organizzazione malsana e disfunzionale del contesto lavorativo, pertanto vanno coinvolti tutti gli attori facenti parte di tale ambiente, poiché ognuno di loro contribuisce inconsciamente o consapevolmente al mantenimento di quelle dinamiche relazionali che portano all’attuazione delle condotte ostili e mobbizzanti. Dunque, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, con il suo patrimonio di strumenti conoscitivi e d’intervento specifici per i contesti produttivi, rappresenta senza dubbio una preziosa risorsa per far fronte a questa forma di disagio. Ancora più utile, può essere l’impegno dedicato alle attività di prevenzione. Quindi, oltre ad intervenire sulle situazioni conclamate di Mobbing (cioè laddove il Mobbing si sia già manifestato producendo le sue nefaste conseguenze), è importante soprattutto prevenirlo attraverso iniziative mirate come corsi di formazione e di informazione. Si può agire anche con largo anticipo, a partire dall’istruzione e dall’educazione, in quanto la trasmissione dei principali valori etici e di convivenza sociale e civile, può rappresentare un passo importante per la formazione di una sana coscienza collettiva, capace di contrastare ogni forma di violenza e/o di discriminazione nei confronti degli esseri umani. È fondamentale educare le nuove generazioni al rispetto dell’essere umano, la cui tutela non deve essere affidata solo ed esclusivamente alle istituzioni (delegando a quest’ultime la risoluzione di ogni difficoltà), ma anche al nostro senso di responsabilità sociale, nell’ottica di una cittadinanza attiva e partecipe.

La prevenzione può essere pianificata anche a livello aziendale, ad esempio attraverso corsi di formazione incentrati sulla gestione del conflitto e del Mobbing, oppure a livello professionale, entrando in contatto con la rete dei principali professionisti che operano nel campo del Mobbing, come medici, psicologi ed avvocati. Difatti, il Mobbing è un fenomeno che va contrastato su molteplici livelli: etico, istituzionale e legislativo.

Infine, per contribuire alla prevenzione ed al contrasto del Mobbing, ognuno di noi può iniziare col prestare attenzione alle dinamiche relazionali che si vengono a creare nel proprio ambiente di lavoro, denunciando le condotte moralmente scorrette, violente ed aggressive, e, soprattutto, rinunciando a quell’atteggiamento passivo ed omertoso che troppe volte ha prodotto vittime innocenti.

 

Il potere del presente: l’effetto della mindfulness sulla risposta sessuale delle donne

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne dal momento che la mindfulness è risultata associata ad un miglioramento nel trattamento delle disfunzioni sessuali ma non sono ancora del tutto chiari i meccanismi sottostanti.

 

Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare: con intenzione, al momento presente e in modo non giudicante. La mindfulness è un’antica pratica orientale, con radici nella meditazione buddhista, definita anche come presenza e attenzione al momento presente, al qui ed ora (Hanh, 1976). La letteratura fino ad ora si è concentrata sullo studio di come uno stato consapevole, o la capacità di una persona di raggiungere tale stato, sia correlato ad un sano funzionamento sessuale e come, al contrario, una mancanza di consapevolezza possa minacciare l’abilità di una persona di provare piacere sessuale e di avere una risposta sessuale positiva (Arora & Brotto, 2017).

È stato dimostrato che le donne rispondono regolarmente con un certo grado di eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale quando si interfacciano con stimoli sessuali rivelanti (ad esempio, guardare un video erotico); tuttavia, una risposta sessuale è attivata solo quando le donne prestano attenzione allo stimolo erotico e non sono distratte da pensieri non sessuali o da altre diversioni. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, nella sua attuale quinta edizione (DSM-5; APA, 2013), definisce la mancanza di eccitazione o di piacere sessuale e una risposta assente o ridotta all’eccitazione genitale durante il sesso, come criteri per una disfunzione sessuale femminile, ossia il disturbo da eccitazione. Ulteriori studi hanno approfondito la relazione tra eccitazione sessuale soggettiva e genitale, dimostrando come esse non sempre siano correlate, ma alcune donne potrebbero sentirsi sessualmente eccitate a livello soggettivo ed emotivo, senza la corrispondente risposta genitale, e viceversa.

È fondamentale che le donne siano in grado di concentrarsi sulle sensazioni del momento presente durante il sesso; pertanto, gli interventi psicosociali che mirano a migliorare il funzionamento sessuale delle donne, insegnando loro la mindfulness, sono stati trovati efficaci per il trattamento delle disfunzioni sessuali, incluso il disturbo dell’eccitazione sessuale.

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne. Il campione era costituito da 49 donne, le quali hanno partecipato a una sessione di laboratorio basata su tre esercizi mindfulness di 5 minuti ciascuno, un compito di immaginazione mentale (attività di controllo) e visione di filmati erotici. In questi esercizi, le partecipanti sono state incoraggiate a concentrarsi sulle sensazioni nei loro genitali, sulle sensazioni del corpo in generale e sul flusso dei pensieri. Nella condizione di controllo, invece, l’attenzione era focalizzata sull’immaginazione di una passeggiata attraverso una foresta lussureggiante.

Le ipotesi erano:

  1. L’eccitazione sessuale genitale delle donne del gruppo sperimentale è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri. Inoltre, è stato esplorato il livello di eccitazione sessuale genitale durante la visione di film erotici a seguito degli esercizi.
  2. Gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee (cioè sui genitali o sul corpo in generale) portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale.
  3. Esplorare come le stesse tipologie di esercizi mindfulness aumentino o diminuiscano la relazione tra arousal soggettivo e genitale.

L’eccitazione sessuale soggettiva è stata misurata continuamente durante la presentazione di video neutrali ed erotici. Il dispositivo, chiamato arousometro, consisteva in un mouse del computer e alle donne veniva chiesto di spostare il mouse su e giù ogni volta che notavano un cambiamento di eccitazione durante la presentazione dello stimolo. Il feedback visivo sul loro attuale livello di eccitazione veniva presentato ai soggetti sullo schermo di un computer, attraverso un grafico a barre che indicava i livelli di eccitazione su una scala da zero a 100 (livello più alto di eccitazione). L’eccitazione sessuale genitale, invece, è stata costantemente misurata tramite l’ampiezza dell’impulso vaginale (VPA) usando un fotopletismografo vaginale.

Per valutare in che modo gli esercizi in laboratorio sono stati considerati dai partecipanti, è stato chiesto loro di indicare su una scala di tipo Likert, quanto hanno trovato difficili, rilassanti e piacevoli gli esercizi. Inoltre, i soggetti hanno indicato la misura in cui pensavano che gli esercizi avessero influenzato la loro risposta al filmato erotico direttamente dopo il compito, tramite la Toronto Mindfulness Scale (Lau et al., 2006).  È una scala composta da 13 item, somministrata ripetutamente durante la sessione di laboratorio per valutare se i diversi esercizi hanno portato a cambiamenti nella consapevolezza dello stato. Questa scala è composta da due fattori: la curiosità, che riflette la consapevolezza dell’esperienza del momento, e il decentramento, che riflette la capacità di osservare pensieri e sentimenti solo come eventi mentali lontani, da accettare senza esserne eccessivamente coinvolti nel contenuto. In relazione a ciò, non sono state evidenziate differenze significative rispetto alla situazione di controllo, ad eccezione di alcuni item sulla curiosità che sembrano mostrare punteggi più elevati.

I risultati forniscono la prova del fatto che una singola esposizione ad un esercizio di consapevolezza in un ambiente di laboratorio può influenzare entrambi i tipi di risposta sessuale delle donne, sia durante l’esercizio sia durante l’attività che segue, la visione del filmato erotico. Nello specifico, per quanto riguarda la difficoltà di seguire le istruzioni, solo l’esercizio di focalizzazione dell’attenzione sul proprio corpo differiva dall’esercizio di controllo, in quanto le donne percepivano l’esercizio significativamente più difficile. Non sono emerse differenze riguardo alla piacevolezza derivata dai diversi esercizi e la mindfulness rivolta al corpo è stato l’unico esercizio ad essere percepito come più rilassante rispetto al compito della situazione di controllo. La prima ipotesi e la seconda ipotesi sono state confermate. I risultati dimostrano che l’eccitazione sessuale vaginale delle donne è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri e, quindi, potrebbe essere utile per le donne che sperimentano una mancanza di lubrificazione genitale durante l’attività sessuale. Tuttavia, questo effetto non si è tradotto in forti aumenti del VPA durante la successiva presentazione di filmati erotici; il VPA tende a rispondere molto rapidamente alla stimolazione sessuale e raggiunge un massimo dopo 21 secondi, questo probabilmente lascia poco spazio agli aumenti del VPA durante i successivi film erotici. L’aumento di VPA era più alto nella condizione di focalizzazione sulle sensazioni corporee in generale. Infatti, gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale. Infine, questo spiegherebbe anche perché la terza ipotesi è stata supportata solo parzialmente: sembra che la relazione tra arousal soggettivo e genitale aumenti solo dopo gli esercizi di attenzione alle sensazioni corporee. Dunque, i risultati non supportano l’idea che concentrarsi sulle sensazioni specificamente nei genitali potrebbe portare le donne ad essere più “in sintonia” con la loro risposta di eccitazione fisica.

In conclusione, si consiglia alle donne di praticare regolarmente la mindfulness verso le sensazioni corporee generali, il respiro o le sensazioni nei genitali, nel corso di diversi giorni o settimane, per il miglioramento a lungo termine della risposta sessuale e della sperimentazione del piacere. Inoltre, l’intervento risulta efficace per lavorare anche sul basso desiderio sessuale, sul disturbo da eccitazione e sul dolore genito-pelvico sperimentato durante l’attività sessuale.

 

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