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Il pendolo di Newton: in psicoterapia si gioca con la legge di conservazione della quantità di moto

Capita spesso anche a tutti noi di mettere in atto dei comportamenti, di sperimentare delle emozioni, di produrre dei pensieri senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tali meccanismi. Il pendolo di Newton con le sue 5 sfere ci aiuta ad analizzare meglio questo aspetto del funzionamento umano.

 

 Uno dei motivi per cui le persone si rivolgono spontaneamente ad un professionista della salute mentale è perché si trovano a sperimentare delle emozioni, avere dei pensieri e agire dei comportamenti che non riconoscono appieno come frutto della loro volontà o perlomeno considerano spiacevoli, incontrollabili e non in linea con l’immagine che hanno di sé stessi.

Molte persone, ad esempio, si rivolgono allo psicologo perché sovente mettono in atto dei comportamenti distruttivi e aggressivi sia auto che etero diretti. Questi pazienti riferiscono delle perdite di controllo dei propri impulsi eccessive e spesso immotivate. Successivamente a tale discontrollo il paziente riporta emozioni di delusione, sconforto e confusione del pensiero a causa appunto della discordanza tra il proprio modo di intendersi come persona e il comportamento appena posto in essere. Questa dissonanza cognitiva e le emozioni che ne derivano portano anche ad una notevole riduzione dell’autostima e soprattutto ad un abbassamento della self-efficacy (credenza in merito alla propria capacità di produrre specifici comportamenti utili al raggiungimento di un obiettivo desiderato)  poiché non si è stati in grado, ancora una volta, di non perdere il controllo nonostante i buoni propositi.

Questi pazienti hanno come l’impressione che in quel particolare momento in cui si perde il controllo si sia spinti da una forza ingovernabile e da uno stato di attivazione emotiva completamente disregolato. Sia il paziente che lo psicologo si trovano impegnati dunque a cooperare per scoprire la vera natura di questa “forza”.

Un giorno, al termine di una seduta con un paziente con problematiche simili a quelle descritte poco sopra, riflettendo mi riecheggiavano ancora le domande che il paziente si era posto e mi aveva posto durante la seduta appena conclusasi, domande del tipo: “com’è possibile che io abbia perso il controllo per una sciocchezza del genere? È normale che in alcuni momenti mi si annebbi la vista dalla rabbia e poi dopo neanche cinque minuti già quasi non mi ricordo più il motivo per cui mi ero arrabbiato così tanto?”

Mentre ripensavo a queste domande ipotizzavo che al paziente a volte capitava di dimenticare così facilmente il “motivo” della sua arrabbiatura semplicemente perché quello a cui lui faceva riferimento non era il vero motivo, ma probabilmente solo l’ultimo anello di una lunga catena di fenomeni interni. Mentre riflettevo su tutto ciò, giochicchiavo, come spesso mi capita, con un oggetto poggiato sulla mia scrivania, il cosiddetto “Pendolo di Newton”. Mentre osservavo le sfere oscillare e ascoltavo il tipico ticchettio provocato dalla loro collisione mi sono sorpreso a pensare ad una strana ma simpatica analogia tra il funzionamento di quello strumento e il “funzionamento” del paziente che mi aveva da poco salutato.

Prima di chiarire e, mi viene da dire, giustificare una simile analogia voglio però assicurarmi che il lettore abbia ben presente lo strumento di cui parlo (pendolo di Newton o biglie di Newton) e soprattutto cercare di fornirgli dei superficiali ma fondamentali concetti psicologici.

Che cos’è il pendolo di Newton?

Credo che la maggior parte di noi abbia visto almeno una volta tale oggetto. Stiamo parlando di un dispositivo composto da varie sfere metalliche (di solito 5) tutte aventi la stessa massa e ciascuna sospesa mediante due fili. Le sfere stanno a contatto sulla stessa linea orizzontale e si possono muovere sul piano verticale.

Viene usato per illustrare le leggi di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica.

Come funziona?

A sfere ferme, si solleva la prima sfera, mantenendo tesi i fili con cui è sospesa, e la si lascia cadere. Essa urterà contro la fila delle altre e si osserverà che la prima si ferma, le intermedie non si muovono, e l’ultima sfera invece parte verso l’alto, raggiungendo la stessa altezza da cui era partita la prima, e così di seguito. Questa “botta e risposta” potrebbe potenzialmente andare avanti all’infinito se solo non intervenissero fattori esterni come ad esempio l’attrito dell’aria che rallenta progressivamente il movimento delle sfere fino al loro arresto.

Infatti ricordiamo che il principio della conservazione della quantità di moto stabilisce che:

“In un qualunque sistema di corpi interagenti tra loro e in assenza di forze esterne la quantità di moto totale del sistema si conserva”.

Due osservazioni mi risultano particolarmente interessanti del funzionamento del pendolo di Newton ed entrambe saranno riprese più avanti come elementi che giustificano la mia bizzarra analogia:

  1. se solleviamo e poi lasciamo cadere solo la prima sfera si otterrà il movimento uguale e contrario solo dell’ultima sfera. Dunque la prima e l’ultima sfera saranno le uniche a produrre movimento e apparirà chiaro che il movimento dell’ultima sfera è determinato dal precedente movimento della prima nonostante queste due sfere non entrino mai in diretto contatto. L’energia pertanto verrà trasmessa sempre e solo attraverso gli elementi intermedi;
  2. se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Ma cosa hanno a che fare il pendolo di Newton e i principi che ne determinano il funzionamento con l’essere umano e la sua psicologia?

L’essere umano è un sistema certamente non isolato e dunque mai indipendente dal contesto in cui si trova. I fattori esterni ambientali e sociali hanno una determinante influenza sui nostri pensieri e sul nostro comportamento.

La neo-corteccia ha dotato noi esseri umani di finissimi ed evolutissimi strumenti che consentono di leggere in diretta i segnali ambientali e sociali presenti nel contesto ambientale e “matcharli” con le informazioni personali, culturali e morali archiviate in memoria.

Questa capacità è evidente in quelli che vengono definiti script cognitivi ovvero degli schemi comportamentali più o meno complessi che, il più delle volte in modo implicito, mettiamo in atto in uno specifico e determinato ordine al fine di adattarci ad uno dato contesto. Un esempio banale è quando andiamo al ristorante e ci avviciniamo al tavolo, come prima cosa non chiediamo il conto al cameriere, ma probabilmente ci togliamo la giacca e ci accomodiamo. Questo comportamento, insieme magari al fatto che (se il ristorante è un raffinatissimo locale 3 Stelle Michelin) rispettiamo un particolare dress code, non dipende soltanto dal buon funzionamento della memoria procedurale, ma ci informa anche circa la nostra capacità di riconoscere, accettare ed adattarci alle norme culturali e alle convenzioni sociali dell’ambiente in cui viviamo e tale capacità ricordiamo è fortemente mediata dalle strutture corticali superiori che svolgono una continua funzione di monitoraggio online del nostro comportamento.

Ma la neo corteccia non è l’unico apparato cerebrale di cui l’evoluzione ci ha fornito. Con MacLean ( MacLean, P. 1973) potremmo simbolicamente dividere il nostro sistema cerebrale in 3 parti:

  • la neo-corteccia;
  • il sistema limbico;
  • Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e cervello rettiliano.

Della neo-corteccia si è già accennato.

Per quanto riguarda il sistema limbico, possiamo sinteticamente dire che è costituito da alcune strutture sotto corticali: i bulbi olfattivi, l’ippocampo, l’amigdala, il giro del cingolo, i nuclei talamici anteriori e la corteccia limbica. Supporta svariate funzioni psichiche come l’elaborazione delle emozioni, motivazione, apprendimento, memoria e attaccamento.

Il cervello rettiliano risiede nel diencefalo, nel mesencefalo e nella parte iniziale del telencefalo e si occupa dei bisogni e degli istinti innati: territorialità, predazione, esplorazione del territorio e procreazione. Il Sistema Nervoso Autonomo è costituito da porzioni anatomicamente e funzionalmente distinte ma sinergiche: il sistema nervoso simpatico, il sistema nervoso parasimpatico e il sistema nervoso enterico.

Ha la funzione di regolare l’omeostasi dell’organismo ed è un sistema neuro-motorio non influenzabile dalla volontà che opera con meccanismi appunto autonomi, relativi a riflessi periferici sottoposti al controllo centrale. Per quanto riguarda il SNA è degna di essere citata la differenziazione tra due tipologie di nervo vago, quello mielinizzato e quello non mielinizzato, proposta da Stephen W. Porges (Porges, S. W.. 2014) nella sua teoria polivagale.

Perché è utile sapere che “il cervello” come comunemente inteso è in realtà frutto di diverse strutture e funzionalità?

Perché in questo modo è più facile comprendere quale struttura o funzione è inibita, iperattivata, alterata, compromessa o più semplicemente comprendere qual è, se c’è, la gerarchia di funzionamento interno tra queste strutture.

Ad esempio:

..nelle strutture limbiche i neuroni non sono organizzati in strutture regolari, ma piuttosto in un’amalgama più rudimentale, ecco che ne deriva che l’elaborazione di uno stimolo risulta più primitiva che nella corteccia e al tempo stesso più veloce, adatta cioè a reazioni essenziali per la nostra sopravvivenza. Questa è dunque la ragione per cui ci capita di reagire in modo improvviso e spropositato a uno stimolo, anche se sappiamo che non dovremmo farlo o non serve.

Il dato neurofisiologico interessante è proprio che in questa situazione si assiste a quello che è stato definito “shutdown corticale” (Arnsten et al. 2014.): ovvero la corteccia è stata messa offline, fuori uso, e il sistema sottocorticale antico ha preso il sopravvento, più veloce nella sua risposta cosiddetta di “attacco o fuga”.

Lo shutdown corticale conduce a una perdita temporanea delle funzioni di mentalizzazione, causando una perdita di visione simbolica, integrazione degli stimoli e capacità di interpretarli. A questo punto tutto accade nel sistema limbico: il talamo, stazione d’ingresso, filtro degli stimoli, invia il proprio segnale all’amigdala, primo centro di reazione emozionale, che risponde con una cascata di reazioni neurovegetative, con rilascio di cortisolo nel sangue dai surreni, analgesia temporanea, attivazione del sistema nervoso autonomo. In altri termini, dopo la primissima reazione di freezing, cui corrisponde soggettivamente quel primo istante di blocco o sorpresa, l’amigdala ci dispone ad attaccare lo stimolo o a fuggirlo, mentre proviamo alternativamente rabbia o paura.

Tutto questo accade in soli 12 millisecondi ed è al di fuori della nostra consapevolezza, senza che la corteccia abbia ricevuto alcun messaggio.

Esiste anche una via di collegamento tra il sistema limbico e la corteccia, chiamato anche “via alta” che decorre dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’amigdala, ma impiega ben 25 millisecondi: questo significa che la risposta somatica accade sempre prima di ogni altra fantasia o riformulazione verbale, che è dunque soltanto un tentativo retrospettivo di spiegare una condizione inconscia, sottocorticale. (Poli, E. F. 2014).

Tale suddivisione ovviamente asserve ad un puro scopo esplicativo, ma in realtà tutte le strutture anatomo-funzionali che costituiscono il nostro sistema nervoso centrale sono strettamente collegate e funzionano sinergicamente.

Questa suddivisione mi è inoltre molto utile per riprendere il filo del discorso.

Si parlava del nesso che c’è tra psicologia e il pendolo di Newton, vero?

Ecco, adesso facciamo un esercizio immaginativo. Immaginiamo che ognuna delle 5 sfere del pendolo rappresenti qualcosa:

  • la prima sfera rappresenta uno stimolo esterno o interno. Stimolo è qui inteso come fenomeno, evento che viene percepito ed elaborato dal nostro organismo, quindi uno stimolo esterno potrebbe essere, ad esempio, un rumore metallico che noi solo successivamente comprendiamo essere il rumore delle chiavi di un nostro familiare che sta per aprire la porta di casa, oppure potrebbe essere un aumento del battito cardiaco che noi potremmo interpretare come il segno di un’emozione di paura;
  •  la seconda sfera rappresenta il nostro SNA e il cervello rettiliano;
  • la terza sfera rappresenta il nostro cervello limbico;
  • la quarta sfera rappresenta la nostra neocorteccia;
  • la quinta sfera rappresenta la risposta. Risposta intesa come attività mentale e/o comportamentale posta in essere come conseguenza ad uno stimolo.

Le sfere sono state così ordinate in base alla velocità con cui i diversi sistemi cerebrali tendono ad attivarsi in situazioni percepite come pericolose e/o minacciose.

Ora sappiamo dunque che uno stimolo, esterno o interno, oggettivamente pericoloso o interpretato soggettivamente come tale può dare il via ad una reazione immediata e complessa che solo in ultima analisi (e neanche tutte le volte) potrebbe arrivare alla nostra consapevolezza come nel caso dello shutdown corticale. Potremmo in queste situazioni sperimentare delle emozioni, produrre dei pensieri e mettere in atto dei comportamenti anche molto complessi che quindi a posteriori ci sembrano a tutti gli effetti privi di una valida motivazione oppure spropositati rispetto a quanto da noi esplicitamente vissuto (Imm.1)

Pendolo di Newton l'analogia con il funzionamento della mente umana

Imm.1 – Il pendolo di Newton come metafora del funzionamento psichico

Questa mancanza di consapevolezza in merito alla stretta interdipendenza tra stimolo e risposta comportamentale è ben rappresentata dall’esempio del pendolo di Newton e in particolare dalla prima delle due osservazioni che ho proposto sopra, ovvero al fatto che la prima e l’ultima sfera non si toccano anche se è l’energia dell’una a produrre il movimento dell’altra.

Il punto è questo, così come accade nel pendolo di Newton dove la quinta sfera effettua un movimento senza “sapere” che esso avviene grazie all’energia prodotta dal movimento della prima, allo stesso modo capita spesso anche a noi di mettere in atto dei comportamenti senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tale comportamento. Le due sfere non si toccano eppure vediamo che si influenzano grandemente. In terapia l’obbiettivo è proprio quello di comprendere come le nostre reazioni sono il frutto di un complesso processo di elaborazione che parte tuttavia sempre da uno stimolo.

La seconda osservazione a cui il Pendolo di Newton ha dato spunto era la seguente:

se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Abbiamo già detto che l’essere umano non è un sistema isolato così come non è isolato il pendolo di Newton, a meno che quest’ultimo non venga messo all’interno di una campana sotto vuoto senza mandargli alcun tipo di vibrazione. Eppure abbiamo visto che nella psiche dell’essere umano si presenta un principio sovrapponibile a quello di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica. Lo osserviamo tutte le volte che una persona è consapevole, decisa e determinata a voler modificare un determinato comportamento o pensiero e poi puntualmente finisce per fallire nonostante il suo impegno cosciente e sincero.

Alcuni in passato lo chiamavano “eterno ritorno”, “coazione a ripetere”, più recentemente “cicli interpersonali”, “copioni di vita”, “schemi maladattivi precoci”, ecc. Oggi, soprattutto grazie alle neuroscienze, sappiamo che alla base di questo principio c’è sempre

l’attivazione della nostra memoria emotiva, la libreria esperenziale nell’archivio limbico. Essa fa sì che ciò che ci può in qualche modo collegare a un “pericolo” inneschi una reazione. (ibidem)

Il termine pericolo è virgolettato per sottolineare ancora una volta il fatto che il pericolo non necessariamente deve essere reale ovvero attuale, ma è sufficiente che sia in grado di attivare tracce mnestiche associate a situazioni vissute o immaginate ove si abbia soggettivamente sperimentato sentimenti di minaccia e/o pericolo. Qui è fondamentale specificare che per sensazione soggettiva di minaccia/pericolo non si intende soltanto quella fisica ma, anzi quasi sempre, una minaccia/pericolo alla propria immagine identitaria, le proprie credenze e i propri valori e principi. In quella o, più spesso, quelle occasioni passate la persona avrà sicuramente agito delle risposte mentali e comportamentali che hanno contribuito alla sua sopravvivenza fisica e identitaria. Da allora in poi il sistema limbico tutte le volte che incontrerà sulla sua strada uno stimolo in grado di evocare in qualche modo quelle esperienze di pericolo passate cercherà di bypassare la neo corteccia (convinto di evitarci inutili perdite di tempo) e in circa 12 millisecondi farà sì che noi produciamo un’adeguata risposta mentale e/o comportamentale che è simile per qualità e quantità alle prime risposte che tanto tempo fa abbiamo imparato inconsapevolmente ad usare.

L’obiettivo della terapia è dunque fare quello che fa l’aria con le sfere del pendolo di Newton ossia interferire sulla perpetua propagazione dell’energia e del moto rendendo il sistema non più isolato. L’attrito dell’aria contro le sfere va sostituito in terapia con l’auto-osservazione continua e sistematica grazie all’aiuto dello psicologo e alle tecniche che consiglierà.

Osservarsi in maniera quanto più “oggettiva” possibile consente di sistematizzare gli eventi interni ed esterni, ad archiviarli, a riconoscerne la ripetitività, a produrre eventuali nessi di causa effetto e dunque a prevenirne le manifestazioni o di ridurre la portata di quelli considerati più problematici.

Per un bel po’ di tempo, o forse per sempre, lo stimolo esterno soggettivamente considerato minacciante continuerà ad elicitare un’ iperattivazione/ipoattivazione del SNA e anche quella del circuito limbico-sottocorticale causando di conseguenza un’attivazione o un’ipoattivazione emotiva che però, se ben riconosciuta e accettata, potrà essere regolata per mezzo di una concomitante retro-azione cognitiva (reappraisal cognitivo) che, insieme a possibili varie tecniche di regolazione dello stato di attivazione fisiologica (arousal) produrrà un aumento della mastery intesa come percezione di padronanza ossia sentire di avere il controllo sul proprio stato mentale.

 

Rimuginare ai tempi del coronavirus – Il video di Psychoarea

In questo video, registrato dalla diretta streaming del 09 Aprile 2020, il Dott. Andrea Dalboni discute, insieme alla d.ssa Dal Ben, alla dr.ssa Greco e alla d.ssa Meneghello di Psycho Area di Verona, di un argomento trasversale a molti disturbi sintomatici: il rimuginio.

 

È proprio in questi mesi di quarantena infatti che molte persone possono sviluppare ansia, mancanza di motivazione depressiva e pensieri intrusivi mai sperimentati in precedenza: alla base di questi vissuti c’è una grande attività di pensiero cosciente, il rimuginio appunto, che li alimenta e li trasforma da sensazioni normali e transitorie a problemi psicologici più strutturati. Ma che cos’è il rimuginio di preciso? C’è differenza tra una normale preoccupazione e il rimuginare? È possibile applicare tecniche specifiche per fermarlo? Da dove origina? A queste e a molte altre domande poste direttamente dagli spettatori della diretta è stata data risposta, fornendo oltre ad un’ampia discussione sul tema, anche consigli e strategie tecniche molto concrete, elaborate dalle moderne terapie cognitive, da applicare in questi giorni proprio per fronteggiare lo stato di emergenza e la quarantena.

 

I meccanismi biologici dell’infedeltà

E’ possibile che esista una predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

 

Si è soliti indicare il concetto di fedeltà coniugale come un valore, ovvero una dote morale e intellettuale che costituisce espressione della personalità e del contesto evolutivo di un individuo. Essere fedeli è dunque un attributo, un modus vivendi che può derivare non solo dalle abitudini di pensiero e di comportamento della singola persona, ma anche dalle condizioni culturali, religiose e sociali dell’ambiente in cui la persona si evolve e vive, interagendo con i propri simili. Che i valori morali abbiano una stretta correlazione con la cultura non costituisce certo un elemento di novità: è chiaro come in una società possa venir definito infedele un comportamento che in un diverso assetto culturale viene connotato di assoluta normalità, e nulla affatto stigmatizzato (si veda ad esempio il caso della monogamia nelle società orientali ed occidentali, o ancora il caso di adulterio previsto come reato in alcuni paesi del mondo, mentre in altri stigmatizzato solo come condotta amorale ma senza nessuna conseguenza giuridica). Ciò che costituisce una novità, al contrario, è affermare che la fedeltà coniugale, intesa come capacità di creare e mantenere un legame stabile e duraturo nel tempo con un solo partner, possa derivare, tanto nelle specie animali quanto in quella umana, altresì da fattori biologici, ereditari e, dunque, innati. Sostenere una tesi del genere significa anche accettare che certi individui, in virtù di certe caratteristiche neurobiologiche, possono essere naturalmente predisposti alla fedeltà rispetto ad altri che non manifestano le medesime caratteristiche. Alcuni studi scientifici svolti di recente hanno dimostrato come in realtà, in questa affermazione all’apparenza improbabile, ci sia del vero. Se ne citano alcuni tra i più significativi condotti in questo campo.

Anticipiamo in primo luogo che l’ormone vasopressina, di origine neuronale, gioca un ruolo fondamentale in alcuni processi umani volti alla cooperazione e alla collaborazione nella coppia; nello specifico la sua presenza, assieme a quella dell’ossitocina, si mostra notevolmente aumentata nello stabilimento della fase di attaccamento, che segue immediatamente il periodo dell’innamoramento, in cui a far da padroni sono peptidi quali serotonina, adrenalina e dopamina. L’ossitocina è un ormone che viene rilasciato da uomini e donne durante l’orgasmo, e dalle donne durante il parto e l’allattamento; si tratta inoltre un ormone che gioca un ruolo fondamentale nell’instaurazione dell’attaccamento tra madre e bambino.

Mentre l’ossitocina agisce principalmente sulla diade materna, sembra che la vasopressina rivesta una funzione importante nella fase di attaccamento di coppia. Oltre a regolarizzare la pressione, questo ormone è responsabile della soddisfazione post-orgasmica, determinando il grado di fedeltà al partner. La quantità di questo ormone all’interno di un soggetto, sia umano sia animale, è determinata dalla tipologia di alleli relativi al sistema della vasopressina che, ove affetti da polimorfismo, si mostrano più corti e meno in grado di rispondere attivamente alla sostanza. Questo provoca una minor produzione e una minor sensibilità dei recettori alla stessa, effetti che si traducono in comportamenti meno propensi alla fedeltà e all’attaccamento al partner.

Si tratta di un’evidenza riscontrabile in primo luogo negli animali, dato come in alcune particolari specie di roditori, ad esempio le arvicole, si è visto come una più massiccia presenza dell’ormone vasopressina sia positivamente relazionata alla fedeltà alla partner, e pertanto alla monogamia; si tratta oltretutto di specie dove è stato riscontrato un polimorfismo degli alleli relativi al sistema vasopressina (Hammock e Young, 2002).

Uomini portatori di un allele specifico del gene della vasopressina sono stati sottoposti ad uno studio di valutazione da Walum e colleghi (2008): si trattava di soggetti sposati o conviventi da cinque anni o più – 552 coppie complessivamente- ai quali è stato somministrato la Parent Bonding Scale, finalizzata a valutare l’attaccamento al proprio partner. I risultati sono stati espliciti: soggetti portatori di tale allele specifico hanno mostrato un attaccamento inferiore alla compagna, e i loro punteggi sono risultati inoltre dose-dipendenti: quanti possedevano due di questi alleli hanno mostrato un attaccamento minore rispetto a quelli che ne possedevano soltanto uno, a loro volta seguiti da quanti non lo presentavano affatto. Gli uomini portatori di questo allele hanno inoltre avuto maggiori crisi di coppia nell’anno precedente, ivi comprese minacce di divorzio e allontanamento dalla casa coniugale, e anche in questo caso i punteggi si sono rivelati dose-dipendenti, perché gli uomini con due copie dell’allele hanno mostrato il doppio di probabilità di aver avuto una crisi di coppia nei 12 mesi precedenti rispetto a quelli con una sola copia o con nessuna copia dell’allele, e un maggior numero di rapporti extraconiugali rispetto ai gruppi di confronto. Le mogli degli uomini portatori di uno o due alleli hanno infine mostrato punteggi notevolmente più bassi ai questionari volti a rilevare il grado di soddisfazione matrimoniale

Ma qual è l’allele identificato da Walum? Esiste davvero una genetica della fedeltà, dunque? Si tratterebbe nello specifico del gene AVPR1A, situato nel cromosoma 12q14-15, le cui sequenze in caso di polimorfismo non sarebbero corrette e continue. Il polimorfismo di questo gene è stato correlato con autismo, con comportamenti sessuali precoci e multipli, e infine con minore altruismo e prosocialità, a testimonianza di come lo stesso abbia un impatto rilevante nel comportamento umano.

Un altro studio recentemente condotto da Garcia e colleghi (2010) su 181 uomini adulti, ha dimostrato che esiste un collegamento diretto tra alleli specifici del sistema della dopamina e maggiore frequenza di rapporti sessuali occasionali, e dunque fuori da una relazione, nonché maggiore frequenza di infedeltà sessuale. Si ricordi infatti come il sistema della dopamina è fortemente connesso col sistema della ricompensa e della ricerca della novità, aspetti che possono risultare fortemente coinvolti nel comportamento di promiscuità e infedeltà sessuale. Nello specifico, si ritiene che i geni che mediano la trasmissione dopaminergica, specie il gene per il recettore D4DR, siano associati con la ricerca di nuovi stimoli, anche sessuali, soprattutto quando presentano sette o più sequenze dell’allele. Un maggiore allungamento di questi alleli potrebbe infatti predisporre a comportamenti impulsivi, ricerca di nuovi stimoli, e, nello specifico comportamento sessuale; è stato dimostrato che i soggetti che presentano 7 o più ripetizioni dell’allele del gene D4DR hanno più probabilità di intrattenere rapporti occasionali, anche in assenza di differenze significative nella fedeltà complessiva (Garcia et al., 2010)

Un ulteriore sistema biologico coinvolto nella fedeltà sembra essere il sistema immunitario. In particolare il riferimento va al complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), un gruppo di geni polimorfici costituiti da 30 unità che si trovano sul braccio corto del cromosoma umano 6. Il sistema di istocompatibilità tipico di queste cellule si basa sulle molecole presenti nella membrana delle stesse le quali, a contatto con il sistema immunitario di un soggetto, lo riconoscono come estraneo e, adottando una risposta immunitaria, agiscono come antigeni: in poche parole si legano alla molecola estranea e cercano di contrastarla.

Si tratta di un procedimento che si trova alla base della verifica della compatibilità per il trapianto di organi che, in caso di rifiuto immunitario, meglio noto come rigetto, non può essere attuato. Si richiede invece, in tal caso, che i sistemi immunitari del donante e del donatario siano afferenti e simili, magari perché legati da vincolo di parentela o da affinità genetiche intrinseche: persone con un MHC simile sono infatti probabilmente parenti.

Questo meccanismo di riconoscimento, nell’essere umano, viene attivato con il semplice utilizzo dell’olfatto: grazie all’emissione dei feromoni, che portano in sé tracce delle molecole del sistema MHC appena descritto, è possibile riconoscere un soggetto geneticamente somigliante a se stessi da uno che non lo è. Si tratta di un sistema biologicamente innato, molto probabilmente sviluppato nel tempo dagli umani per evitare l’incesto, secondo l’ipotesi di Wedekind (1995). Soggetti che “fiutano” le medesime molecole del proprio MHC in un altro, tendono ad evitarlo come partner perché inconsciamente lo riconoscono come parente; comportamento opposto si verifica al contrario identificando soggetti con patrimonio genetico diverso dal proprio, che vengono scelti in misura massicciamente maggiore come partner sessuali, in quanto estranei.

Wedekind ha confermato, con il famoso esperimento delle magliette sudate, come le donne siano propense a scegliere partners con patrimonio genetico diverso dal loro, e come il riconoscimento degli stessi sia possibile semplicemente annusando le magliette sudate dei suddetti maschi. Il sudore, intriso di feromoni, è sufficiente ad identificare un soggetto estraneo, rassicurando la donna sul rischio di tenere relazioni sessuali con potenziali parenti.

Gli studi di Wedekind sono stati replicati in tutto il mondo più volte, ed hanno condotto sempre ai medesimi risultati, dimostrando pertanto la fondatezza dell’ipotesi di partenza. In particolare, uno di questi studi ha dimostrato come donne sposate con uomini che avevano geni simili ai loro nella componente MHC del sistema immunitario, apparivano anche più portate all’adulterio; inoltre, più questi geni erano condivisi tra una donna e il proprio coniuge, più la partner si mostrava incline a tenere relazioni sessuali extraconiugali (Garver-Apgar et al., 2006).

Si è rilevato come anche la struttura del cervello possa contribuire all’infedeltà; in particolare si fa riferimento ai tre sistemi cerebrali che, secondo ipotesi di Fisher (1998), sono stati sviluppati dall’uomo per lo svolgimento di compiti e funzioni specifiche: quello dell’attrazione sessuale, legata al sistema ipotalamico, come le sensazioni fisiologiche di fame e sete, quello dell’amore romantico, riferita al sistema rettiliano, una zona cerebrale arcaica alla quale è legata la soddisfazione di istinti connessi alla sopravvivenza, e quello dell’attaccamento romantico, dipendente dalla zona del pallido ventrale, legato a sua volta a sensazioni di gusto e piacere. Questi tre sistemi neuronali presentano numerose interazioni tra di loro ed anche con molti altri sistemi cerebrali, e sono in grado di generare un’ampia gamma di pensieri, emozioni e comportamenti necessari all’organizzazione della strategia riproduttiva (Fisher, 2004; Fisher et al., 2002; Fisher, 2015).

Malgrado ciò essi possono agire anche in maniera separata, provocando in questo caso una sorta di divisione tra le funzioni alle quali ciascuno di essi è collegato, funzioni che vengono così a manifestarsi e ad esplicitarsi in maniera indipendente l’una dall’altra: in poche parole si può provare attrazione fisica per una persona al di fuori della coppia, provando al contempo attaccamento per una certa persona, magari il partner fisso, e amore romantico per un’altra persona ancora (Fisher, 2004). Questa spiegazione profondamente scientifica e dalle basi biologiche potrebbe costituire una valida risposta al comportamento umano, specie maschile, che molto spesso si trova a manifestare in maniera scissa e contemporanea i tre bisogni sopra identificati.

L’indipendenza biologica di questi tre sistemi neuronali avrebbe inoltre consentito, sin dai tempi dell’Homo sapiens, di avere un rapporto monogamo ufficiale e di condurre al contempo relazioni sessuali clandestine (Fisher, 2004). Da qui una possibile predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

Ecco che nell’infedeltà potrebbe nascondersi un innato intento di contribuzione alla propria fitness, finalizzata ad apportare i benefici riproduttivi di una prole geneticamente più varia (Fisher, 1992). I maschi infedeli potrebbero infatti aver avuto maggiori possibilità di riproduzione proprio grazie ad un maggior numero di rapporti sessuali condotti al di fuori della coppia, e le femmine, dal canto loro, potrebbero aver ottenuto da rapporti sessuali clandestini, un maggior numero di disponibilità di risorse e di supporto genitoriale per la prole dopo il decesso del primo partner o dell’abbandono da parte di quest’ultimo (Fisher, 1992). Pertanto, l’infedeltà clandestina può aver avuto il merito di apportare vantaggi riproduttivi per le femmine e i maschi ancestrali non meno della monogamia stessa, e questo atteggiamento potrebbe aver determinato la selezione delle basi biologiche dell’infedeltà giunte fino ai giorni nostri in entrambi i sessi.

Non solo un comportamento eticamente scorretto, dunque, si nasconderebbe al di là del rapporto infedele clandestino: la scienza suggerisce come la predisposizione all’infedeltà, tanto nei maschi quanto nelle femmine, possa non solo vantare origini biologiche e pertanto innate, non apprese e geneticamente ereditabili, ma potrebbe addirittura mostrarsi utile, ove non preziosa, per la riproduzione e il mantenimento della specie.

 

Il sonno dei soggetti insonni è davvero di “cattiva qualità”?

Ricerche cliniche hanno dimostrato l’esistenza di due principali fattori in grado di influenzare la percezione di “cattivo sonno” in soggetti che soffrono di insonnia. Da una parte la difficoltà di saper riconoscere i segnali che precedono il sonno e che spingono a prepararsi a dormire e dall’altra la presenza di credenze erronee sull’idea di “buon sonno”.

 

Per “percezione del sonno” si intende la capacità dell’individuo sia di saper identificare il proprio sonno, distinguendolo da uno stato di veglia sia di essere in grado di valutarne soggettivamente la qualità. Tale percezione risulta essere alterata nei soggetti insonni ed è questo che fa sì che tali fattori rivestano un importante ruolo nel mantenimento e nella genesi dell’insonnia (Giganti et al., 2016). Esaminiamoli più da vicino.

Segnali che precedono il sonno

Un primo fattore che influenza la percezione che un individuo ha della propria qualità di sonno è la capacità di saper riconoscere il sopraggiungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici come la riduzione dell’attività motoria, la chiusura delle palpebre, il bruciore agli occhi, la sonnolenza, la difficoltà a mantenere la concentrazione e la graduale modificazione dell’attività celebrale che assume via via le caratteristiche del sonno REM (Salzarulo, 2003).

Nei soggetti insonni, tali segnali non sono però tenuti in considerazione al momento della decisione di coricarsi mentre risultano privilegiati segnali esterni, come ad esempio l’orario (Giganti et al., 2014). La conseguenza del basarsi esclusivamente sull’orario per capire se è ora di andare a letto, senza tener conto della propria tipologia circadiana (cioè della naturale propensione a dormire che differisce da persona a persona), è che l’individuo potrebbe mettersi a letto ad un orario anticipato senza per questo riuscire a dormire. Il non sopraggiungere del sonno in poco tempo, potrebbe poi portare l’individuo a ruminare sulle preoccupazioni quotidiane e sulle possibili conseguenze negative prodotte dal “cattivo sonno” (Van Egeren et al., 1983) creando un circolo vizioso che mantiene svegli. La ruminazione, favorendo l’attivazione cognitiva che a sua volta correla con l’attivazione fisiologica sia a livello corticale (Kertesez e Cote, 2011) che neurovegetativo (Bonnet e Arand, 2010) impedirà al corpo e alla mente di rilassarsi e di far sopraggiungere il sonno (Morin et al., 2002).

Credenze erronee sul sonno

Altro fattore che influenza la percezione della qualità del proprio sonno è quello psicologico legato a idee e credenze, a loro volta modulate da fattori culturali, sociali e da esperienze personali (Giganti et al., 2016).

Una prima credenza ritiene che la durata ottimale del sonno, necessaria a sostenere un buon funzionamento durante il giorno, sia di otto ore a notte (Morini et al., 2002). Tale visione non tiene conto però di numerosi fattori tra cui le differenze inter-individuali relative alla tipologia del dormitore e le modificazioni fisiologiche dovute all’età. Con l’invecchiamento per esempio, tendono a venir anticipati gli orari di addormentamento e di risveglio ed aumenta il numero di coloro che dormono per periodi più brevi.

Altra falsa credenza è quella per cui basta una sola notte di sonno disturbato per produrre delle conseguenze negative diurne. In realtà le ricerche dimostrano che i meccanismi fisiologici consentono normalmente di far fronte ad episodiche perdite di sonno senza conseguenze obiettive (Harvey e Greenall, 2003).

Ulteriore idea comune è che una buona qualità di sonno non debba presentare risvegli notturni (Bruck et al., 2015). In realtà, i risvegli notturni possono essere presenti ma mentre in individui normo-dormitori, bastando 2-4 minuti effettivi di sonno per avere la percezione di aver dormito, la presenza di risvegli notturni non comporta una percezione di “cattiva qualità del sonno”, diversa è la situazione dei soggetti insonni, a cui servono circa 15 minuti di sonno per avere la percezione di aver dormito. La conseguenza, per questi ultimi, è quindi di avere maggiori possibilità di provare la sensazione di non aver affatto riposato se vi saranno più risvegli consecutivi separati da brevi episodi di sonno (Knab e Engel, 1988).

Infine è utile ricordare che tali pensieri disfunzionali tendono ad associarsi ad atteggiamenti controproducenti come ad esempio il restare a letto sforzandosi di dormire che, se favoriti nel tempo, inducono l’associazione tra lo stare a letto e uno stato di iperattivazione che rende ancor più difficile l’addormentamento (Perlis et al, 1997).

In conclusione, tali evidenze dimostrano come i soggetti insonni siano meno capaci, rispetto agli individui normo-dormienti, di discriminare il sonno dalla veglia; mostrano anche come gli insonni tendano a percepire la durata del sonno inferiore rispetto a quella reale e come sovrastimino il tempo di addormentamento arrivando a valutare il proprio sonno di “cattiva qualità” (Ohayon e Reynolds, 2009). Ad influire su tali percezioni intervengono inoltre fattori psicologici e cognitivi come le caratteristiche di personalità (Edinger et al., 2000), il tono dell’umore (Edinger et al., 2000) e la memoria (Perlis et al., 1997).

Interventi comportamentali

Sulla base di quanto analizzato, il trattamento dell’insonnia non dovrebbe avere come focus l’aumento del tempo totale di sonno o la riduzione della latenza di addormentamento quanto piuttosto l’obiettivo di modificare le credenze erronee sul sonno ed i comportamenti disfunzionali ad esse associati (Harvey, 2002).

A questo proposito, gli interventi di tipo comportamentale che utilizzano tecniche quali “la restrizione del sonno” ed “il controllo degli stimoli” si sono rivelati utili sia al fine di rendere maggiormente consapevole il soggetto insonne dell’aver dormito, riducendo le preoccupazioni associate al sonno, sia migliorando l’abilità di individuazione dei segnali corporei che indicano il sopraggiungere del sonno (Giganti et al., 2014).

Rough sex: il piacere della violenza

Uno studio pubblicato di recente su Evolutionary Psychological Science (Burch & Salmon, 2019) si è focalizzato sulla natura del rough sex (tradotto prevalentemente in italiano con “sesso spinto” o “sesso violento”) consensuale e, in particolar modo, sul motivo per cui viene preferito al sesso più tipico. 

 

Nel corso degli anni, sono stati numerosi gli studi che si sono focalizzati sui dati derivanti dal rough sex inteso come aggressività e abuso sessuale, in particolare sullo stupro (Messing, Thaller e Bagwell 2014; Camilleri and Stiver 2014). Tuttavia, la mole di ricerche si restringe nel momento in cui il rough sex viene considerato come una pratica consensuale e preferito al sesso tipico da uno dei due partner o da entrambi. Ryan e Mohr, in una ricerca portata avanti nel 2005 hanno evidenziato come alcuni comportamenti aggressivi siano interpretati come giocosi dai partecipanti se essi si manifestano senza essere accompagnati da emozioni negative o ingiurie fisiche.

Alcuni dei comportamenti che rientrano nelle pratiche del rough sex sono tirare i capelli, mordere e stringere la gola; questi possono lasciare leggeri segni sul corpo, come rossori o lividi ma, in ogni caso, devono sempre essere condivisi e accettati da entrambi i partner (Burch & Salmon, 2019).

Al fine di determinare cosa comporta il rough sex e quali comportamenti lo innescano, ai partecipanti del presente studio è stata richiesta una loro personale definizione della pratica, con quale frequenza la mettono in atto e quali fattori e sensazioni sono stati associati al rough sex (Burch & Salmon, 2019).

Il campione era costituito da 734 studenti universitari, sia maschi che femmine. A ognuno è stato chiesto di rispondere a un breve questionario demografico e, in seguito, di descrivere le loro esperienze di rough sex. In particolare il focus degli autori era su domande relative alle diverse sensazioni tra sesso tipico e rough sex, quanto spesso adottavano questa pratica e sui principali comportamenti che mettevano in atto.

I risultati hanno mostrato che la maggior parte dei partecipanti riferiva solo comportamenti leggermente aggressivi riguardo al rough sex (es. schiaffi, tirarsi i capelli, ed essere tenuti fermi/legati) e con una penetrazione rapida e violenta.

Nonostante sia gli uomini che le donne fossero principalmente d’accordo sui fattori che scatenavano il rough sex, vi era una differenza riguardo al fattore “gelosia sessuale”: gli uomini riferivano che gli elementi che rendevano loro gelosi (es. essere separati, essere traditi, attenzione della partner rivolta ad altri) aumentavano la probabilità che assumessero comportamenti sessuali violenti. Infine, le donne hanno riportato una tendenza leggermente superiore degli uomini a incominciare il rough sex e una minor latenza dell’orgasmo. Inoltre, esse riportavano anche una soddisfazione maggiore in questo tipo di pratica rispetto al sesso più tipico (Burch & Salmon, 2019).

In conclusione, il rough sex sembra essere un comportamento ampiamente ricreativo, innescato sia dal desiderio di novità sia dalla gelosia, che in molti casi può risultare addirittura più soddisfacente dei rapporti sessuali tipici.

COVID-19 e salute mentale – Partecipa alla ricerca

Il Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” sta conducendo, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e le Università Statale di Milano, “Milano Bicocca”, Perugia, Pisa, La Sapienza di Roma, la Cattolica di Roma, Ferrara, Trieste e Ancona uno studio per valutare l’impatto della pandemia da Covid-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

 

Carissimi,

vorremmo chiedere la Vostra collaborazione per un progetto importante che stiamo conducendo in collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria dell’Università della Campania “L. Vanvitelli”, il Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Superioredi Sanità, e altre 8 Università Italiane (tra cui Trieste).

Si tratta di valutare gli effetti della pandemia da COVID-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per poter mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

L’isolamento sociale, la solitudine, la paura dell’infezione e di non riuscire a provvedere ai beni primari rappresentano importanti fattori di rischio per lo sviluppo di problemi di salute mentale. Riuscire a trovare delle strategie per proteggere la nostra salute mentale è davvero importante. Troverete il questionario completamente anonimo al seguente link:

https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

Vi chiediamo solo un po’ del Vostro tempo. La nostra salute dipende da noi.

Grazie a tutti,

 

Andrea Fiorillo
Professore Ordinario di Psichiatria
Dipartimento di Psichiatria Università della Campania Luigi Vanvitelli

Umberto Albert
Professore Associato di Psichiatria Dipartimento Universitario Clinico di Scienze Mediche, Chirurgiche e della Salute
Università degli Studi di Trieste

 


Qual è lo scopo dello studio?

L’11 Marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito lo stato di “pandemia” causato dall’infezione da coronavirus COVID-19, sottolineandone la gravità della diffusione a livello mondiale. Con lo scopo di preservare la salute pubblica e di contenere la diffusione del contagio, numerose nazioni, inclusa l’Italia, hanno adottato misure contenitive quali distanziamento sociale e quarantena, fino all’isolamento delle persone infette. La quarantena è un’esperienza stressante e spiacevole che si associa ad una riduzione della libertà personale, dei contatti sociali, ad una percezione di insicurezza rispetto all’esito del contagio e ad un significativo cambiamento della routine quotidiana. La quarantena può avere un impatto importante sulla salute mentale delle persone, attraverso complessi meccanismi che interagiscono tra loro. In particolare, l’isolamento sociale, il senso di solitudine, la paura dell’infezione e del contagio, il timore di non avere beni di prima necessità a sufficienza, la scarsità delle informazioni condivise dalle principali agenzie sanitarie nazionali e internazionali, rappresentano fattori di rischio in grado di causare un aumento di sintomi ansioso-depressivi, insonnia, irritabilità e sintomi ossessivo-compulsivi, oltre che un maggiore utilizzo di sostanze stupefacenti e, infine, la comparsa di ideazione suicidaria nella popolazione generale.
Sulla base di tali premesse, abbiamo sviluppato uno studio che ha avuto l’obiettivo di valutare: 1) l’impatto della pandemia e delle misure di quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana in termini di sintomi ansioso-depressivi; 2) la percezione della solitudine e di isolamento sociale percepito; 3) l’insorgenza di pensieri di morte, le strategie di adattamento alla quarantena e alla pandemia; 4) il ruolo di Internet e della rete sociale in questo delicato momento. Questo ci darà la possibilità di favorire l’organizzazione e l’implementazione di adeguati interventi e strategie di cura.
PER PARTECIPARE: https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

 


Per professionisti e ricercatori: SCARICA IL PROTOCOLLO DELLA RICERCA (file PDF)

Perché si rumina nonostante le conseguenze negative?

Data la mole di dati che mostra le conseguenze negative della ruminazione, ha senso domandarsi come mai le persone continuino a mettere in atto tale processo. Alcuni autori hanno risposto sottolineando l’esistenza di una “ruminazione positiva” che, nella sua forma adattiva di riflessione costruttiva, è associata ad effetti positivi sul benessere psicologico.

 

Diversi studi sottolineano il ruolo giocato dalla ruminazione nella genesi e nel mantenimento della depressione in quanto processo di pensiero ripetitivo, persistente e ricorrente che porta l’individuo a concentrarsi sui sintomi della propria sofferenza ed a focalizzare l’attenzione su di sé, amplificando gli stati emotivi negativi interni con la conseguenza di produrre numerosi effetti quali: esacerbazione del tono dell’umore negativo, irritabilità, ansia, sfiducia, insonnia, amplificazione del pensiero negativo e tendenza a rimuginare sulle proprie difficoltà (Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema, 1995; Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema, 2000; Nolen-Hoeksema e Morrow, 1993; Watkins, 2008).

Viene allora da chiedersi, date le conseguenze negative, come mai le persone continuino ad utilizzare la ruminazione come strategia di regolazione emozionale.

Ruminazione come problem solving

Daches e colleghi (2010) hanno messo in luce come la ruminazione sia uno stile di elaborazione di pensiero utilizzato dalle persone allo scopo di trovare rimedio ad un problema e di meditare sui propri errori dopo un fallimento, al fine di imparare dall’esperienza e di migliorare le prestazioni future.

Per Watkins (2016), le funzioni positive che gli individui rintracciano nella ruminazione sono:

  • Aumento della comprensione e dell’insight di eventi, significati personali, emozioni e comportamenti al fine di prevenire futuri problemi ed aumentare una sensazione di controllo.
  • Evitamento di attributi indesiderati attraverso l’auto-motivazione e la riflessione sulle proprie caratteristiche negative al fine di spronarsi, migliorare la performance ed evitare di ricadere in comportamenti indesiderati.
  • Pianificazione e preparazione ad eventi futuri, immaginando ad esempio ciò che potrebbe accadere o quali potrebbero essere eventuali reazioni altrui.
  • Evitamento di un sé indesiderato, di un tipo di persona che si teme di essere rimarcando gli aspetti “sgraditi di sé” al fine di avere un promemoria che ricordi di agire diversamente.
  • Evitamento di un cambiamento o gestione della noia del quotidiano focalizzandosi su ricordi, immagini e pensieri.
  • Evitamento del rischio di fallimento ed umiliazione riguardo situazioni difficili, complicate e rischiose attraverso la riflessione che permette di considerare cosa potrebbe andare storto.
  • Prevenzione di critiche da parte degli altri anticipando potenziali risposte negative al fine di prepararsi all’eventualità e minimizzando l’impatto negativo del possibile rifiuto.
  • Controllo delle emozioni e delle sensazioni spiacevoli ed indesiderate.
  • Ricerca di scuse e razionalizzazioni, ad esempio per non aver intrapreso un’attività o cambiato idea.
  • Ricerca di prove sul perché le cose dovrebbero andare in un certo modo o giustificazioni per il proprio comportamento.

Esperimenti che confermano le credenze positive delle persone sulla ruminazione

Varie ricerche hanno dimostrato gli effetti positivi che gli individui nutrono sul ruolo svolto dalla ruminazione. Esaminiamone alcune.

In uno studio sperimentale, Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema (1993) hanno osservato che dopo aver indotto la ruminazione, i partecipanti disforici tendevano a credere di ottenere un maggior guadagno in termini di comprensione di sé stessi e dei loro problemi, anche se le soluzioni individuate erano giudicate insoddisfacenti.

Papageorgiou e Wells (2001) hanno effettuato delle ricerche cliniche, in cui hanno constatato che le persone con episodi depressivi ricorrenti, presentano sia credenze positive che negative sulla ruminazione. Le credenze favorevoli riguardano l’idea che la ruminazione sia un’utile strategia di coping ed un metodo grazie al quale è possibile ottenere maggior insight, efficace per identificare le cause della depressione, risolvere i problemi e prevenire gli errori e i fallimenti futuri. Le credenze metacognitive negative riguardano invece l’incontrollabilità dei pensieri ruminativi e i danni prodotti da questa a livello sociale ed interpersonale, come ad esempio l’idea che “la gente non mi accetterebbe se sapesse davvero quanto rumino”.

Watkins e Moulds (2005) hanno invece esaminato le differenze riguardo le credenze positive sulla ruminazione in pazienti depressi in fase di remissione e in persone che non avevano mai sofferto di depressione. I risultati dello studio hanno evidenziato da una parte come i pazienti depressi presentino maggiori credenze favorevoli sulla ruminazione rispetto ai soggetti del gruppo di controllo e dall’altra parte hanno mostrato come sia i pazienti attualmente depressi sia coloro che si sono ripresi dalla depressione nutrono maggiori credenze positive circa l’utilità dei pensieri ripetitivi sugli stati d’animo e sugli eventi del passato, rispetto ai soggetti che non sono mai stati depressi.

Infine, ulteriori analisi hanno evidenziato che coloro che ruminano spesso, sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti ed è proprio questo che li spingerebbe ad utilizzare tale strategia come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di accadimenti futuri temuti (Harvey, Watkins, Mansell e Shafran, 2004).

Il rovescio della medaglia

Nonostante le persone nutrano tali credenze positive sulla ruminazione, non va però dimenticato l’effetto negativo di incremento dell’umore depresso che questa può produrre, se utilizzata come strategia pervasiva. La ruminazione, essendo caratterizzata da una modalità astratta di pensiero che si focalizza su rappresentazioni mentali generali, sovraordinate e decontestualizzate, avrebbe minor capacità di generare problem solving rispetto a forme di elaborazione più concrete che partendo da un’esperienza diretta e specifica, e valutando i mezzi a disposizione, portano l’individuo a raggiunge gli obiettivi prefissati e a mettere in atto azioni fattibili, utili al raggiungimento dello scopo (Watkins, 2016). La conseguenza è che l’individuo focalizza l’attenzione sulla valutazione dei significati personali del problema stesso e sulle implicazione prodotte arrivando a generare un pensiero disfunzionale e ripetitivo rivolto ai sintomi, alle emozioni, ai problemi e agli aspetti negativi del sé che incrementa l’umore negativo (Ciarocco et al,. 2010; Watkins, 2016).

In conclusione, una possibile spiegazione sul perché le persone tendano a ruminare nonostante gli effetti negativi, si basa sul presupposto che i ruminatori nutrano delle credenze metacognitive positive circa la ruminazione stessa, relative alla sua utilità come strategia di regolazione emotiva, di pianificazione di azioni volte alla soluzione di un problema e di riflessione sulle cause di un evento o sul proprio stato d’animo che non tiene conto (Palmieri, 2014).

 

Alla scoperta del neurone: dalla “reazione nera” di Golgi alla sinapsi di Sherrington

La scoperta della ‘reazione nera’ di Golgi e le sue implicazioni sull’osservazione del tessuto nervoso ebbero una portata scientifica enorme. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Che spettacolo inaspettato! Filamenti neri sparsi, lisci e sottili, oppure cellule nere spinose, spesse, triangolari, stellate o fusiformi si possono vedere su uno sfondo giallo perfettamente traslucido! Si potrebbe quasi paragonare le immagini a disegni di inchiostro cinesi su carta giapponese trasparente […] questo è il metodo di Golgi. (Cajal)

Così ricordava nei suoi scritti un medico spagnolo rievocando la sua prima osservazione, avvenuta nel laboratorio rudimentale allestito a casa di un collega, del tessuto nervoso trattato con la “reazione nera” ideata qualche anno prima dall’italiano Camillo Golgi.

Il medico spagnolo era Santaigo Ramon y Cajal. Colui che avrebbe condiviso, proprio con Camillo Golgi, il premio Nobel per la medicina del 1906. Colui che avrebbe individuato nel neurone l’elemento costitutivo essenziale del tessuto nervoso, portando alla ribalta la teoria cellulare del sistema nervoso.

La “teoria cellulare”, secondo cui le cellule sono i componenti elementari degli organismi viventi, era stata proposta nel 1600, ma venne formalizzata solo nel 1800 dal botanico Matthias Schleiden e dallo zoologo Theodor Schwann e ulteriormente validata, per ciò che riguarda gli organi che compongono il corpo umano, dal patologo tedesco Rudolph Virchov. Sino all’inizio del ‘900,  fu dibattuto tuttavia se tale teoria fosse applicabile anche al sistema nervoso; infatti, il tessuto nervoso appariva strutturalmente più complesso rispetto a quello di altri organi e i metodi di indagine dell’epoca non consentivano di distinguere le cellule rispetto alle fibre nervose. A prevalere era la teoria secondo cui il sistema nervoso fosse l’insieme di una fitta rete di sottili filamenti che si univano per formare le fibre nervose, collegate le une alle altre. Tale teoria, descritta dal tedesco Josef von Gerlach nel 1871, prendeva il nome di “teoria reticolare” ed era abbracciata dalla maggior parte degli studiosi dell’epoca. Tra questi, vi era Camillo Golgi.

Camillo Golgi si laureò in medicina nel 1865 all’università di Pavia sotto la guida di un professore la cui fama è tuttora nota: Cesare Lombroso. Tuttavia, gli studi di carattere istologico sul tessuto nervoso ebbero inizio per il neolaureato Golgi, quando entrò a far parte del laboratorio di Pavia diretto da Giulio Bizzozero, e si sarebbero interrotti da lì a qualche anno se la sua determinazione non avesse prevalso e aggirato le difficoltà che si trovò ad affrontare. Fu infatti nominato primario presso un ospedale di provincia, le Pie Case degli Incurabili di Abbiategrasso, ove non era previsto che venisse effettuata attività di ricerca, non vi era alcun laboratorio e i mezzi a disposizione erano rudimentali. Particolari trascurabili per lo studioso che trasformò la cucina dell’ospedale in laboratorio e proseguì i suoi studi con l’appoggio dei colleghi di Pavia.

Golgi desiderava studiare il tessuto nervoso e per farlo voleva osservare il tessuto cerebrale come sino ad allora non era stato possibile. I microscopi ottici, utilizzati per la ricerca scientifica sin dal 1600, avevano avuto un ulteriore sviluppo nell’800, ma erano ancora viziati da alcuni artefatti ottici e cromatici. Inoltre, per poter osservare al microscopio i tessuti nervosi, essi dovevano essere sezionati in “fette” sottilissime e trattati con fissanti, che all’epoca erano principalmente alcol e acido cromico, e coloranti, come il carminio. Tali tecniche, tuttavia, non permettevano risultati ottimali. A rivoluzionare l’osservazione del tessuto nervoso sarebbe stata proprio la “reazione nera” di Golgi, “ricetta” elaborata in seguito ai numerosi tentativi condotti nella cucina/laboratorio di Abbiategrasso.

Mi valsi ancora dell’acido osmico, che è, massime pel sistema nervoso, uno dei reagenti più preziosi, perché senza indurre alterazioni di forma e di rapporto degli elementi, indura in poche ore i tessuti, colorando altresì in nero intenso il grasso e le fibre nervose, ed in bruno più o meno carico, gli altri elementi, ed esclusi l’alcol, il quale per lunga esperienza si è dimostrato affatto inopportuno per lo studio dei tessuti nervosi.

ricorda il ricercatore pavese nei suoi scritti. Non fu sufficiente. Solo dopo numerose prove, Golgi capì che poteva ottenere l’agognato risultato immergendo il tessuto nervoso in una soluzione di bicromato di potassio e, in successione, di nitrato d’argento. Al microscopio, era finalmente possibile osservare le cellule e le fibre nervose, che si stagliavano con il loro profilo nero su fondo chiaro.

Su tale scoperta si sono diffuse svariate leggende, secondo le quali la “reazione nera” sarebbe stata frutto di uno straordinario colpo di fortuna. Alcune fonti raccontano che il ricercatore, con una gomitata, rovesciò per errore la soluzione d’argento sui campioni di tessuto cerebrale; altre, che un inserviente buttò per sbaglio un campione di tessuto cerebrale nella spazzatura dove qualche ora prima era stato gettato un campione di nitrato d’argento. In entrambi i casi, Golgi avrebbe deciso di riutilizzare ugualmente i campioni, osservando con grande stupore lo spettacolo che si palesava alla sua osservazione al microscopio. Non è possibile essere certi della veridicità di tali episodi che, per quanto suggestivi, sono abbastanza improbabili. Ciò che è certo è che, indipendentemente da come tale scoperta sia realmente avvenuta, la sua portata scientifica era enorme: nessun’altra metodica dell’epoca consentiva una tale osservazione del tessuto nervoso. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Annunciata per la prima volta nel 1873, la scoperta della “reazione nera” venne descritta più dettagliatamente l’anno successivo sulla Gazzetta Medica Italiana.

Benché Golgi fu il primo ad avere l’occasione di osservare distintamente le cellule nervose, tinte di nero, e le loro ramificazioni, che solo decenni più tardi sarebbero stati battezzate con il nome di assoni e dendriti, ne trasse alcune conclusioni errate. Con i limiti della metodica, i dendriti e gli assoni erano ben visibili, ma sembravano formare intrecci ininterrotti, senza alcuna soluzione di contiguità l’uno con l’altro. Era, per il ricercatore pavese, una conferma alla teoria reticolare del sistema nervoso.

A dare una svolta, affermando l’individualità delle cellule nervose come elementi costitutivi del tessuto cerebrale sarà proprio il ricercatore spagnolo Cajal, che per molti anni diventerà per Golgi un avversario, seppur stimato, nel panorama scientifico europeo.

Cajal, medico reduce da un’esperienza militare nella guerra di Cuba, rientrò nel 1875 in Spagna e proprio allora iniziò a dedicarsi alla ricerca scientifica. Caratterizzato sin da giovanissimo da un’indole creativa, impulsiva e appassionata, decise di comprare l’attrezzatura necessaria per l’attività di laboratorio con la paga da militare, dividendosi negli anni successivi tra le università di Madrid e Barcellona.

Non facevo altro che curiosare senza metodo. Mi si offriva un campo meravigliosamente ricco di scoperte ed esplorazioni, pieno di grandi sorprese. Con questo spirito ho esaminato i globuli del sangue, le cellule epiteliali, i corpuscoli muscolari e i nervosi, fermandomi qui o là per disegnare o fotografare le scene più accattivanti della vita degli infinitamente piccoli.

ricorda Cajal nei suoi scritti. Fu nel 1887 che, per la prima volta, nel rudimentale laboratorio allestito nella casa di un collega e amico, lo psichiatra Dott. Simarro, osservò alcuni campioni di tessuto nervoso trattati con la reazione nera di Golgi.

A partire da quell’osservazione, Cajal iniziò a usare il metodo di Golgi nel suo laboratorio, effettuando via via delle modifiche. Variò la durata di immersione del tessuto nella soluzione a seconda della struttura nervosa che desiderava studiare e delle caratteristiche dell’animale a cui apparteneva il tessuto.

Fu grazie a tali modifiche che poté osservare il tessuto nervoso con una definizione ancora maggiore. Grazie al suo talento artistico, ostacolato in giovinezza dalla famiglia che nutriva per lui l’aspirazione di una carriera medica, poté riprodurre fedelmente ciò che osservava al microscopio in centinaia di splendidi disegni effettuati a mano. Con il perfezionamento della ”reazione nera” di Golgi, Cajal osservò che alcuni assoni, benché molto vicini a quelli contigui, terminavano liberamente, senza connessione diretta con altre fibre nervose. Nel 1889, il ricercatore concluse che le cellule nervose, cosi come quelle di altri tessuti, erano unità indipendenti tra loro. Era la conferma della teoria cellulare del sistema nervoso.

I risultati dei suoi studi, tuttavia, faticavano a espandersi oltre i confini spagnoli. Pertanto, nel 1889, Cajal decise di partecipare ad un prestigioso congresso a Berlino, pagando di propria tasca le spese poiché l’università rifiutò di finanziarlo. Tra gli organizzatori dell’evento, vi era un autorevole studioso dell’epoca: Wilhelm von Waldeyer, direttore dell’istituto di anatomia dell’Università di Berlino. Impressionato dagli studi di Cajal, Waldeyer si dedicò a condurre una rassegna della ricerche sino ad allora effettuate sulle cellule nervose. Ne scaturì, nel 1891, la pubblicazione di una lunga opera in sei parti, in cui, per la prima volta, le più importanti cellule del sistema nervoso venivano battezzate con il nome con cui le conosciamo: neuroni. Essi venivano definiti come unità elementari e indipendenti le une dalle altre. La teoria cellulare, grazie agli studi di Cajal e all’opera di Waldeyer, diventava la “teoria del neurone”. Ben presto, anche le ramificazioni di fibre nervose che originavano dal corpo del neurone ebbero un nome: Wilhelm His denominò nel 1890 col nome di “dendriti” le fibre che conducono l’impulso nervoso dalla periferia verso il corpo cellulare; nel 1896 Albrecth von Kolliker denominò “assoni” quelle che lo conducono dal soma cellulare alla periferia. Nonostante le evidenze a supporto della teoria del neurone e l’ampia adesione da parte della comunità scientifica, alcun fieri oppositori continuavano ad osteggiarla. Golgi, che nel frattempo aveva fornito altri autorevoli e poliedrici contributi alla ricerca scientifica, descrivendo cellule gliali come gli astrociti, identificando il “reticolo di Golgi” all’interno della cellula, i recettori muscolo-tendinei denominati “organi di Golgi” e quelli cutanei denominati “corpuscoli Golgi–Mazzoni”, chiarendo alcuni aspetti della struttura anatomica del rene e del ciclo di replicazione del Plasmodium responsabile della malaria, su una questione non transigeva: a suo parere, gli assoni erano uniti gli uni agli altri e per anni continuò a battersi per far valere la teoria reticolare.

La diatriba non si placò neppure quando venne annunciato che i due studiosi antagonisti, Golgi e Cajal, avrebbero condiviso il premio Nobel per la medicina, l’uno per l’invenzione del metodo della “reazione nera”, l’altro per averla sfruttata stabilendo la struttura e funzione del neurone.

Che crudele ironia del destino da accoppiare, come gemelli siamesi uniti alle spalle, avversari scientifici dai caratteri così contrastanti.

commenterà Cajal nei suoi scritti. La cerimonia si svolse nel 1906, lo stesso anno in cui anche l’italiano Giosuè Carducci ritirò il premio Nobel per la letteratura. Persino tale occasione diventò  pretesto per i due studiosi per difendere le rispettive teorie, sferrando attacchi a quella antagonista nei rispettivi discorsi di ringraziamento.

Se la teoria cellulare del neurone era ormai predominante, vi era un grosso interrogativo a cui doveva ancora rispondere. Se l’informazione nervosa viaggia lungo dendriti e assoni e questi non sono uniti tra loro, come può il segnale passare da un neurone all’altro in breve tempo, trasferendo l’informazione anche su lunghe distanze? La teoria reticolare, proclamando la continuità delle fibre nervose l’una con l’altra, su questo aspetto era in vantaggio. Entrambe, tuttavia, non rispondevano a un’altra spinosa questione: come nasce e si propaga il segnale nervoso?

A dare una risposta a entrambe le domande, sarebbe stata un’altra coppia di studiosi che, ironia della sorte, condivisero a loro volta il premio Nobel per la medicina nel 1932: si trattava dei britannici Edgar Douglas Adrian e Charles Scott Sherrington. Il primo identificò nell’attività elettrica il meccanismo alla base della trasmissione dell’impulso nervoso del neurone, il secondo chiarì come tale impulso venisse trasmesso tra due o più neuroni.

L’idea che l’attività elettrica rappresenti la modalità di trasmissione dei segnali nervosi era già presente dal 1700 e seguiva la lunga tradizione scientifica italiana di studiosi come GianBattista Beccaria, Luigi Galvani, Leopoldo Nobili. Le loro teorie, tuttavia, furono in gran parte criticate e ignorate dagli altri autorevoli ricercatori europei per oltre due secoli. Fu necessario attendere sino al 1928 affinché, grazie ad Adrian, l’attività elettrica potesse essere legittimamente riconosciuta alla base dell’impulso nervoso.  Nel suo celebre esperimento, il medico inglese isolò pochi assoni da un nervo del collo di un coniglio e pose un elettrodo a contatto con essi. L’elettrodo, ogni volta che il coniglio emetteva un respiro, registrava attività elettrica, che veniva convertita in un segnale sonoro simile a un crepitio mediante un amplificatore. Ogni crepitio corrispondeva all’ impulso elettrico utilizzato dal neurone per trasmettere il segnale e “dialogare” con i neuroni vicini: il potenziale d’azione. Oggi sappiamo che il potenziale d’azione si crea poiché ciascun neurone ha una carica elettrica sempre presente, il “potenziale a riposo”. Il potenziale a riposo è garantito dalla struttura del neurone che, come una batteria, presenta da un lato una carica elettrica positiva fuori dalla membrana che lo riveste, e dall’altro una carica negativa, all’interno della cellula. La carica positiva o negativa è data dal prevalere di atomi dotati di carica elettrica, gli ioni, tra i due lati della membrana. Quando arriva uno stimolo al neurone, si verifica un cambiamento della concentrazione degli ioni dai due lati della membrana e, di conseguenza, della carica elettrica. In particolare, se lo stimolo è eccitatorio, la differenza di carica elettrica si riduce: si ha così il fenomeno chiamato “depolarizzazione”. Superato un determinato valore “soglia” di depolarizzazione, si ha il “potenziale d’azione”: manifestazione elettrica dell’impulso nervoso, rappresenta la modalità con cui i neuroni diffondono i loro messaggi.

In uno studio successivo sul rospo, Adrian registrò gli impulsi elettrici, li amplificò e li convertì graficamente, visualizzandoli come  “picchi” appuntiti.  Osservando i picchi, scoprì i potenziali d’azione di un dato neurone erano tutti uguali per ampiezza e durata, indipendentemente dall’intensità dello stimolo: ciò che variava era la loro frequenza.

Adrian descrisse pertanto come gli impulsi nervosi, così generati ad alta o bassa frequenza, si propagano lungo l’assone, a partire dal corpo cellulare del neurone sino alla sua estremità, “come una fiamma lungo una miccia accesa”. La “miccia” percorre l’assone per tutta la sua lunghezza e può viaggiare anche per percorsi piuttosto lunghi. Tuttavia, se come sostenuto dalla teoria del neurone, gli assoni non sono uniti l’uno all’altro, com’è possibile la loro propagazione tra diversi neuroni?

La risposta verrà fornita da quello che per molti viene riconosciuto come il “filosofo del sistema nervoso”, Charles Scott Sherrington, ed ha un nome preciso: sinapsi.

Sinapsi, termine utilizzato per la prima volta proprio dal medico inglese, significa “giunzione”, “unione”, e rappresenta la connessione funzionale tra due neuroni attraverso la quale viene trasmesso il segnale nervoso. All’epoca di Sherrington, si parlava di struttura “funzionale” poiché l’esistenza dello spazio sinaptico fu confermata e osservabile strutturalmente solo nei decenni successivi, in seguito all’avvento del microscopio elettronico.

A livello della sinapsi, i neuroni dialogano tra loro mediante una stupefacente trasformazione del messaggio, che da impulso elettrico diventa segnale chimico.

Come era accaduto per la teoria cellulare e la teoria reticolare, anche la teoria elettrica e chimica del segnale nervoso furono per lungo tempo dibattute e apparivano inconciliabili alla maggior parte degli studiosi.

A conciliare tali teorie sarebbe stato il contributo scientifico di una terza coppia di scienziati e premi Nobel per la medicina nel 1936: Otto Loewi e Henry Dale. Gli esperimenti di Loewi sul cuore di rana evidenziarono come ad uno stimolo elettrico, veicolato lungo l’assone, seguiva il rilascio di una sostanza chimica in grado di trasmettere il “messaggio” tra due neuroni e tra neurone e muscolo con conseguenze tangibili: il cuore di rana, a seconda dello stimolo elettrico e della sostanza chimica rilasciata di conseguenza, accelerava o rallentava il suo battito. Henry Dale, identificò due sostanze coinvolte nella comunicazione a livello sinaptico: la noradrenalina e l’acetilcolina. Essi vennero definiti neurotrasmettitori, per il loro ruolo nella trasmissione dell’informazione nei tessuti nervosi. A seguire, tra gli anni ’30 e gli anni ’50, furono identificati altri neurotrasmettitori e chiarite le loro funzioni: il glutammato e la glicina, ad effetto eccitatorio; la serotonina, coinvolta nel tono dell’umore; l’acido gamma-amino butirrico (GABA), inibitorio; la dopamina, coinvolta nel circuito del piacere e del movimento. I segnali, che viaggiano attraverso differenti circuiti cerebrali coinvolgendo numerosi neuroni e differenti sinapsi, vengono veicolati mediante una sequenza di impulsi elettrici e di neurotrasmettitori, che, come in una somma algebrica a cascata, vanno a sommarsi o a sottrarsi tra loro, in una miriade di configurazioni differenti.

Nei decenni che seguirono tali scoperte, nuovi studi hanno ulteriormente chiarito i meccanismi che regolano la comunicazione tra neuroni e i loro circuiti a livello del sistema nervoso, mettendo in luce, d’altro canto, una inaspettata complessità, che ancor oggi non è stata completamente decifrata.

Intuendo il fascino e la grandiosità di tale complessità, lo stesso Sherrington scrisse poeticamente:

Come una Via Lattea che entri in una specie di danza cosmica, il cervello è come un telaio incantato, in cui milioni di spolette lampeggianti intessono una configurazione che si dissolve, sempre significativa, ma mutevole, una mobile armonia di subconfigurazioni.

 

Il Mobbing: in cosa consiste e come riconoscerlo. Dalle conseguenze psicologiche e fisiche del Mobbing, alle forme di prevenzione e formazione per contrastare questo fenomeno.

Negli ultimi anni si sta registrando un aumento dei casi di Mobbing in molteplici contesti lavorativi. Si tratta di un complesso fenomeno che è stato sistematizzato solo di recente, ma la cui origine è in realtà molto antica.

 

Gli atti vessatori, ostili ed aggressivi esercitati sul luogo di lavoro sono sempre esistiti, ma soltanto negli ultimi decenni si è cercato incrementare la consapevolezza sulle dinamiche subdole e manipolatorie che si celano dietro questo fenomeno. Il Mobbing può essere causa di molteplici disturbi che interessano sia la sfera relazionale e mentale, sia quella fisica e neurovegetativa. Le azioni mobbizzanti sono in grado di condizionare ogni aspetto della vita dell’individuo, compromettendone non solo la salute psicofisica, ma anche i principali rapporti umani, come quelli familiari. Pertanto, risulta di primaria importanza intervenire attraverso specifici percorsi di prevenzione, formazione ed informazione, senza perdere di vista il contributo che ognuno di noi può offrire quotidianamente per contenere questo fenomeno, impendendone la sua ulteriore diffusione.

Il Mobbing può essere definito come un complesso e problematico fenomeno di terrorismo psicologico perpetrato nell’ambiente di lavoro (H. Ege, 1996). Dal punto di vista etimologico, il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, assalire e affollarsi intorno a qualcuno.

Il Mobbing, inizialmente nato ed approfondito nel campo dell’etologia, è stato oggetto di studio nel contesto lavorativo a partire dagli anni ’90, grazie al contributo dello psicologo svedese di origini tedesche Heinz Leymann. Il Mobbing viene considerato da H. Leymann come un insieme di vessazioni di natura psicologica, esercitate sul posto di lavoro, da parte di un collega o di un superiore, con episodi ricorrenti e protratti nel tempo (H. Leymann, 1996). Più nello specifico, H. Leymann definisce il Mobbing come un insieme di condotte ostili che riguardano tre ambiti principali: la comunicazione, la reputazione e la prestazione. Per quanto riguarda il primo punto, il Mobbing si esplica attraverso una comunicazione disfunzionale, ostile, carica di presunzione, perpetrata in maniera sistematica da uno o più individui e rivolta contro uno o più lavoratori, i quali vengono spinti in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa. Ci sono poi i comportamenti che mirano a distruggere la reputazione del lavoratore, attraverso strategie subdole come pettegolezzi, offese, derisioni sull’aspetto fisico e umiliazioni pubbliche. Infine, il mobbing può puntare anche alla prestazione della vittima, la quale può essere dequalificata professionalmente, oppure obbligata a svolgere delle mansioni pericolose per la propria incolumità psicofisica (H. Leymann, 1993). L’effetto di tali condotte agite dal mobber è quello di annientare nel corso del tempo la vittima del Mobbing, portandola a sentirsi incapace, inutile e privata di ogni forma di valore e di autostima. Le motivazioni possono essere molteplici, molte volte può trattarsi di una strategia mirata ad allontanare lavoratori diventati “scomodi”, portandoli a dare volontariamente le dimissioni oppure arrivando ad un procedimento di licenziamento (H. Ege, 2002). Dunque, affinché si possa parlare di Mobbing, è necessario che le azioni mobbizzanti siano agite dal mobber nel corso del tempo (un periodo maggiore di sei mesi), con una frequenza di almeno un episodio a settimana (H. Leymann, 1990). È importante sottolineare che si tratta di un fenomeno non circoscritto all’ambiente di lavoro, ma ben più esteso. Le difficoltà psicologiche, fisiche e psicosomatiche che la vittima di Mobbing può sviluppare, mettono in subbuglio ogni ambito della vita dell’individuo, sfociando spesso in disordini mentali come episodi depressivi, insonnia, attacchi di panico e disturbi alimentari. Uno dei contesti che risente maggiormente delle conseguenze negative del Mobbing è sicuramente la famiglia del lavoratore mobbizzato. La famiglia, rappresenta il principale luogo in cui vengono riversati tutti i sentimenti di frustrazione e di impotenza scaturiti dal malsano e patologico ambiente di lavoro. Tuttavia, la dose quotidiana di negatività che la vittima del Mobbing porta nel suo nucleo familiare, può condurre ad una vera e propria crisi del rapporto con i familiari, i quali, dopo vari tentativi volti ad incoraggiare e sostenere il parente in difficoltà, finiscono con l’esaurire le risorse a disposizione per far fronte alla problematica lavorativa, e pertanto si verifica quel fenomeno che H. Ege definisce come “Doppio Mobbing” (H. Ege, 2002). La vittima finisce col ritrovarsi completamente sola e incompresa, privata persino della possibilità di trovare sostegno e comprensione nella sua famiglia, ed è proprio in questa fase che possono prospettarsi gli scenari più tragici. Negli ultimi anni, purtroppo, si è registrato un incremento di suicidi Mobbing-correlati. Si tratta di suicidi che molte volte possono essere definiti tali soltanto sulla carta, in quanto rappresentano l’ultima scelta disperata messa in atto da chi ha subito per troppo tempo gli effetti deleteri delle condotte riprovevoli e disumane agite nel mondo del lavoro. Pertanto più che di suicidi, si potrebbe parlare di omicidi mascherati. Questi gesti estremi, possono essere considerati come l’ultimo passo che la vittima del Mobbing vuole compiere, pur di liberarsi una volta per tutte da un tormento terrificante il cui peso è diventato insostenibile nel corso del tempo. Sono decisioni drastiche, non facili da accettare e da comprendere per chi non si è mai ritrovato nel ruolo della vittima del Mobbing. Per tali motivi, risulta essere di fondamentale importanza riflettere sulla criticità di questo grave fenomeno, perché si tratta di una realtà che racchiude in sé molteplici valenze e significati. Basti pensare al valore che il lavoro ha sempre avuto nella storia dell’essere umano. Il lavoro è qualcosa che definisce e struttura l’identità dell’uomo. La possibilità di svolgere un lavoro, offre all’individuo l’opportunità di sentirsi produttivo e capace di sostentarsi in maniera autonoma. Ne deriva da ciò un senso di gratificazione e di soddisfazione personale che è indispensabile per una sana autostima ed una positiva percezione della propria immagine sociale. Pertanto, qualora dovessero intervenire delle problematiche che interessano la funzione produttiva dell’individuo, come critiche al suo operato, umiliazioni, vessazioni e atti denigratori, viene da sé che l’accezione emotiva di questi eventi possa essere distruttiva per il lavoratore. Sentirsi continuamente svalutati nelle proprie competenze operative, è qualcosa che logora e che scava una ferita profonda nel mondo interiore dell’individuo. Una delle più preoccupanti conseguenze può essere proprio la destrutturazione dell’identità della persona, che non riesce più a riconoscere sé stessa, le sue qualità ed il suo valore, fino ad arrivare ad una condizione di annientamento.

Porre attenzione su questo fenomeno è sicuramente il primo passo da compiere per cercare di contrastare un disagio di così grande portata. È bene precisare che intervenire sul mobbing, non significa limitarsi a trattare esclusivamente i sintomi psicofisici manifestati dalla vittima, ma bisogna agire in maniera più ampia. Il Mobbing costituisce un fenomeno di interesse socioculturale, che nella maggior parte dei casi affonda le sue radici in una organizzazione malsana e disfunzionale del contesto lavorativo, pertanto vanno coinvolti tutti gli attori facenti parte di tale ambiente, poiché ognuno di loro contribuisce inconsciamente o consapevolmente al mantenimento di quelle dinamiche relazionali che portano all’attuazione delle condotte ostili e mobbizzanti. Dunque, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, con il suo patrimonio di strumenti conoscitivi e d’intervento specifici per i contesti produttivi, rappresenta senza dubbio una preziosa risorsa per far fronte a questa forma di disagio. Ancora più utile, può essere l’impegno dedicato alle attività di prevenzione. Quindi, oltre ad intervenire sulle situazioni conclamate di Mobbing (cioè laddove il Mobbing si sia già manifestato producendo le sue nefaste conseguenze), è importante soprattutto prevenirlo attraverso iniziative mirate come corsi di formazione e di informazione. Si può agire anche con largo anticipo, a partire dall’istruzione e dall’educazione, in quanto la trasmissione dei principali valori etici e di convivenza sociale e civile, può rappresentare un passo importante per la formazione di una sana coscienza collettiva, capace di contrastare ogni forma di violenza e/o di discriminazione nei confronti degli esseri umani. È fondamentale educare le nuove generazioni al rispetto dell’essere umano, la cui tutela non deve essere affidata solo ed esclusivamente alle istituzioni (delegando a quest’ultime la risoluzione di ogni difficoltà), ma anche al nostro senso di responsabilità sociale, nell’ottica di una cittadinanza attiva e partecipe.

La prevenzione può essere pianificata anche a livello aziendale, ad esempio attraverso corsi di formazione incentrati sulla gestione del conflitto e del Mobbing, oppure a livello professionale, entrando in contatto con la rete dei principali professionisti che operano nel campo del Mobbing, come medici, psicologi ed avvocati. Difatti, il Mobbing è un fenomeno che va contrastato su molteplici livelli: etico, istituzionale e legislativo.

Infine, per contribuire alla prevenzione ed al contrasto del Mobbing, ognuno di noi può iniziare col prestare attenzione alle dinamiche relazionali che si vengono a creare nel proprio ambiente di lavoro, denunciando le condotte moralmente scorrette, violente ed aggressive, e, soprattutto, rinunciando a quell’atteggiamento passivo ed omertoso che troppe volte ha prodotto vittime innocenti.

 

Il potere del presente: l’effetto della mindfulness sulla risposta sessuale delle donne

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne dal momento che la mindfulness è risultata associata ad un miglioramento nel trattamento delle disfunzioni sessuali ma non sono ancora del tutto chiari i meccanismi sottostanti.

 

Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare: con intenzione, al momento presente e in modo non giudicante. La mindfulness è un’antica pratica orientale, con radici nella meditazione buddhista, definita anche come presenza e attenzione al momento presente, al qui ed ora (Hanh, 1976). La letteratura fino ad ora si è concentrata sullo studio di come uno stato consapevole, o la capacità di una persona di raggiungere tale stato, sia correlato ad un sano funzionamento sessuale e come, al contrario, una mancanza di consapevolezza possa minacciare l’abilità di una persona di provare piacere sessuale e di avere una risposta sessuale positiva (Arora & Brotto, 2017).

È stato dimostrato che le donne rispondono regolarmente con un certo grado di eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale quando si interfacciano con stimoli sessuali rivelanti (ad esempio, guardare un video erotico); tuttavia, una risposta sessuale è attivata solo quando le donne prestano attenzione allo stimolo erotico e non sono distratte da pensieri non sessuali o da altre diversioni. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, nella sua attuale quinta edizione (DSM-5; APA, 2013), definisce la mancanza di eccitazione o di piacere sessuale e una risposta assente o ridotta all’eccitazione genitale durante il sesso, come criteri per una disfunzione sessuale femminile, ossia il disturbo da eccitazione. Ulteriori studi hanno approfondito la relazione tra eccitazione sessuale soggettiva e genitale, dimostrando come esse non sempre siano correlate, ma alcune donne potrebbero sentirsi sessualmente eccitate a livello soggettivo ed emotivo, senza la corrispondente risposta genitale, e viceversa.

È fondamentale che le donne siano in grado di concentrarsi sulle sensazioni del momento presente durante il sesso; pertanto, gli interventi psicosociali che mirano a migliorare il funzionamento sessuale delle donne, insegnando loro la mindfulness, sono stati trovati efficaci per il trattamento delle disfunzioni sessuali, incluso il disturbo dell’eccitazione sessuale.

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne. Il campione era costituito da 49 donne, le quali hanno partecipato a una sessione di laboratorio basata su tre esercizi mindfulness di 5 minuti ciascuno, un compito di immaginazione mentale (attività di controllo) e visione di filmati erotici. In questi esercizi, le partecipanti sono state incoraggiate a concentrarsi sulle sensazioni nei loro genitali, sulle sensazioni del corpo in generale e sul flusso dei pensieri. Nella condizione di controllo, invece, l’attenzione era focalizzata sull’immaginazione di una passeggiata attraverso una foresta lussureggiante.

Le ipotesi erano:

  1. L’eccitazione sessuale genitale delle donne del gruppo sperimentale è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri. Inoltre, è stato esplorato il livello di eccitazione sessuale genitale durante la visione di film erotici a seguito degli esercizi.
  2. Gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee (cioè sui genitali o sul corpo in generale) portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale.
  3. Esplorare come le stesse tipologie di esercizi mindfulness aumentino o diminuiscano la relazione tra arousal soggettivo e genitale.

L’eccitazione sessuale soggettiva è stata misurata continuamente durante la presentazione di video neutrali ed erotici. Il dispositivo, chiamato arousometro, consisteva in un mouse del computer e alle donne veniva chiesto di spostare il mouse su e giù ogni volta che notavano un cambiamento di eccitazione durante la presentazione dello stimolo. Il feedback visivo sul loro attuale livello di eccitazione veniva presentato ai soggetti sullo schermo di un computer, attraverso un grafico a barre che indicava i livelli di eccitazione su una scala da zero a 100 (livello più alto di eccitazione). L’eccitazione sessuale genitale, invece, è stata costantemente misurata tramite l’ampiezza dell’impulso vaginale (VPA) usando un fotopletismografo vaginale.

Per valutare in che modo gli esercizi in laboratorio sono stati considerati dai partecipanti, è stato chiesto loro di indicare su una scala di tipo Likert, quanto hanno trovato difficili, rilassanti e piacevoli gli esercizi. Inoltre, i soggetti hanno indicato la misura in cui pensavano che gli esercizi avessero influenzato la loro risposta al filmato erotico direttamente dopo il compito, tramite la Toronto Mindfulness Scale (Lau et al., 2006).  È una scala composta da 13 item, somministrata ripetutamente durante la sessione di laboratorio per valutare se i diversi esercizi hanno portato a cambiamenti nella consapevolezza dello stato. Questa scala è composta da due fattori: la curiosità, che riflette la consapevolezza dell’esperienza del momento, e il decentramento, che riflette la capacità di osservare pensieri e sentimenti solo come eventi mentali lontani, da accettare senza esserne eccessivamente coinvolti nel contenuto. In relazione a ciò, non sono state evidenziate differenze significative rispetto alla situazione di controllo, ad eccezione di alcuni item sulla curiosità che sembrano mostrare punteggi più elevati.

I risultati forniscono la prova del fatto che una singola esposizione ad un esercizio di consapevolezza in un ambiente di laboratorio può influenzare entrambi i tipi di risposta sessuale delle donne, sia durante l’esercizio sia durante l’attività che segue, la visione del filmato erotico. Nello specifico, per quanto riguarda la difficoltà di seguire le istruzioni, solo l’esercizio di focalizzazione dell’attenzione sul proprio corpo differiva dall’esercizio di controllo, in quanto le donne percepivano l’esercizio significativamente più difficile. Non sono emerse differenze riguardo alla piacevolezza derivata dai diversi esercizi e la mindfulness rivolta al corpo è stato l’unico esercizio ad essere percepito come più rilassante rispetto al compito della situazione di controllo. La prima ipotesi e la seconda ipotesi sono state confermate. I risultati dimostrano che l’eccitazione sessuale vaginale delle donne è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri e, quindi, potrebbe essere utile per le donne che sperimentano una mancanza di lubrificazione genitale durante l’attività sessuale. Tuttavia, questo effetto non si è tradotto in forti aumenti del VPA durante la successiva presentazione di filmati erotici; il VPA tende a rispondere molto rapidamente alla stimolazione sessuale e raggiunge un massimo dopo 21 secondi, questo probabilmente lascia poco spazio agli aumenti del VPA durante i successivi film erotici. L’aumento di VPA era più alto nella condizione di focalizzazione sulle sensazioni corporee in generale. Infatti, gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale. Infine, questo spiegherebbe anche perché la terza ipotesi è stata supportata solo parzialmente: sembra che la relazione tra arousal soggettivo e genitale aumenti solo dopo gli esercizi di attenzione alle sensazioni corporee. Dunque, i risultati non supportano l’idea che concentrarsi sulle sensazioni specificamente nei genitali potrebbe portare le donne ad essere più “in sintonia” con la loro risposta di eccitazione fisica.

In conclusione, si consiglia alle donne di praticare regolarmente la mindfulness verso le sensazioni corporee generali, il respiro o le sensazioni nei genitali, nel corso di diversi giorni o settimane, per il miglioramento a lungo termine della risposta sessuale e della sperimentazione del piacere. Inoltre, l’intervento risulta efficace per lavorare anche sul basso desiderio sessuale, sul disturbo da eccitazione e sul dolore genito-pelvico sperimentato durante l’attività sessuale.

 

Vissuti ed emozioni di un umano qualsiasi: uno psicoterapeuta

Spesso il terapeuta viene visto come controllato, risoluto, imperturbabile, non dovrebbe commuoversi di fronte ai racconti dei pazienti, né avere insicurezze, paure o fobie, non dovrebbe provare rabbia, odio o tristezza, ma cavarsela sempre, in ogni situazione. Alla luce del fatto che ogni psicoterapeuta è prima di tutto un essere umano, come sarebbe possibile tutto questo? 

Si suggerisce l’ascolto del brano “Closer to the heart“  (Rush, 1977) durante la lettura.

 

Ecco un altro aspetto del nostro lavoro di cui forse non si parla abbastanza: il terapeuta può essere un umano, con una vita normale, noiosa e a volte perfino problematica. Una vita non perfetta. Con delle normali zone d’ombra o aspetti personali non risolti. Come chiunque, in pratica. Di solito, mentendo ed illudendoci, ci dicono e a volte ci insegnano che dovremmo essere controllati, risoluti, imperturbabili. Dei “mini Budda”. Nessuno dice che, in realtà, non solo questo non è possibile ma per le terapie non serve nemmeno. Non possiamo essere dei robot perché in effetti siamo fatti di carne ossa, con un cuore che batte e una mente che pensa, perfino con degli occhi che piangono. L’avreste mai detto? Se ci pensiamo, nella rappresentazione comune, ad esempio se il paziente parla di cose dure o crude, il terapeuta non dovrebbe mai commuoversi, figuriamoci piangere poi mentre guarda il finale di “Gran Torino” o il training montage di “Rocky II” (Quando Adriana dice: “Vinci, vinci”). Cavolo, e allora come la mettiamo con tutte quelle volte in cui ci commuoviamo nel sentire le storie struggenti dei pazienti? Ne parla approfonditamente Virginia Failoni in questo articolo Quando è il terapeuta a piangere.

Oppure si pensa comunemente che il terapeuta non debba avere insicurezze, paure o fobie, che non può provare rabbia, odio o tristezza e che deve sempre cavarsela in ogni situazione. Com’è possibile questo? Su dai, siamo terapeuti e sappiamo che le emozioni esistono! Quello che a volte manca è l’attrezzo per leggerle: l’autoriflessività. Ma se invece raggiriamo l’alessitimia capiamo bene che è proprio l’autenticità di un terapeuta sufficientemente “umano” e fisiologicamente a contatto con le proprie aree di vulnerabilità, che favorisce una maggiore vicinanza ed una buona riuscita della terapia, soprattutto con i pazienti cosiddetti “difficili” (ad esempio con nucleo borderline o dell’area psicotica). Infatti le emozioni dolorose non riconosciute ed eventualmente non espresse con chiarezza dal terapeuta, se attive in seduta, vengono comunque percepite grazie alla naturale trasmissione emotiva e somatica veicolata dai neuroni specchio, e attraverso una serie di segnali non verbali. Questo può, in alcuni casi, favorire l’attivazione di sottili cicli interpersonali disadattivi, inficiando il successo terapeutico (Liotti & Farina, 2011; Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Inoltre, in qualità di esseri umani, anche noi terapeuti abbiamo i nostri stati mentali interni e le nostre strategie di coping per fronteggiarli. Chi oscilla nella ruminazione, chi nel perfezionismo, chi nel ritiro. Se da un lato sappiamo (o almeno dovremmo sapere) che i coping ci fanno restare a lavoro fino alle 10.00 di sera, rischiando il burnout o di gestire male una relazione terapeutica, non sempre riusciamo a regolarli. Alcune strategie di coping, per loro natura, rafforzano le idee nucleari collegate allo schema disfunzionale maladattivo (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019), ma per altri versi ci aiutano a raggiungere grandi risultati, ad esempio in termini di performance. Infatti a partire da un wish di apprezzamento potremmo avere una rappresentazione di noi stessi di scarso valore a fronte di un altro umiliante/critico. Nel tentativo di gestire le emozioni che ne deriverebbero, come la vergogna, giusto per citarne una, le strategie di coping si attivano in modo automatico. Tra di esse il perfezionismo, il raggiungimento di standard elevati, il controllo relazionale, possono essere di aiuto, illudendoci che in questo modo l’altro non avrà modo di essere critico. Ma è davvero un modo funzionale per gestire la rappresentazione di sé schema correlata? (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). L’aspetto importante resta collegato alla consapevolezza e alla regolazione di essi. Come abbiamo accennato non è sempre semplice perché per loro natura schemi e coping si attivano in modo automatico e procedurale (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Eppure la riflessione su questi nostri aspetti ci permette di capire quanto è difficile raggirare l’evitamento per un paziente evitante oppure gestire i pensieri sospettosi per un paranoide. D’altronde, se è vero che ognuno di noi ha una sua organizzazione di personalità, dei tratti che rientrano nelle categorie diagnostiche dei disturbi di personalità del DSM-5, allora perché dovremmo noi terapeuti essere sovraumani? Perché reprimerli o inibirli? Faremmo fatica e sarebbe più patologico cercare di nasconderli che riconoscerli, integrarli e regolarli.

Infine, un altro aspetto critico: nell’era dei social i pazienti sanno chi siamo ancor prima di venire in studio. Conoscono il nostro viso, la nostra età e la nostra formazione. L’accesso ai numeri di telefono è così semplice che basta salvarlo in rubrica per poter sbirciare l’immagine WhatsApp. Quindi non dovrei sentirmi libera di utilizzare la foto buffa con mia nipote e il suo cerchietto con l’unicorno? Oppure quella con il mio partner? O ancor meno quella in cui mi scateno in discoteca? O davanti a una moltitudine di bottiglie di vino a cena con gli amici? Condividere su Facebook le mie idee politiche, religiose o musicali? E magari ho anche faticato tanto per scrollarmi da dosso quel perfezionismo e workaholism lavorativo per godermi il tempo libero, divertendomi. E anche lo sport, se mi piace fare danze caraibiche piuttosto che combattimento dovrei farmene un cruccio? Secondo l’immaginario comune andrebbe meglio lo yoga o il pilates per uno psicologo. Zumba, già siamo al limite, ma solo per le terapeute donne. Per i maschi è concesso il circolo degli scacchi e senza esagerare, quello del nuoto.

Se ci sentiamo liberi di essere quello che siamo non tremiamo più quando un paziente ci chiede: “Ma lei ha mai fumato uno spinello?” Oppure: “Dott. ma lei la terapia l’ha fatta?”. Ora come ora non mi faccio più problemi se vado a ballare e trovo il paziente del mercoledì delle 11.00 e non mi faccio più crucci se mi lascio andare ad un karaoke e guarda caso il proprietario del bar è un mio cliente. Quanta fatica mi è costata per arrivare a fare shopping nell’atelier della paziente del giovedì alle 20.00? Oppure se mi diverto e faccio casino a un concerto rock, ovvio, senza sforare gli articoli 28 e 38 del codice deontologico! Se c’è una cosa che abbiamo imparato, però, è che permettere agli altri di intravedere gli aspetti più umani di noi stessi a volte può essere una svolta perfino nella terapia. Ad esempio, recentemente, un paziente mi disse: “Dottore ha l’aria stanca tutto bene?”. Anni fa mi sarei irrigidito e avrei risposto frettolosamente che andava tutto bene cambiando subito discorso. Questa volta invece mi sono quasi rilassato, gli ho risposto che era vero, che ero stanco per via di un trasloco che pareva non finire più e che mi stava stressando tantissimo. Il paziente mi ha ascoltato con interesse dicendomi che mi capiva benissimo dato che lui nella sua vita aveva già fatto 4-5 traslochi. Ci siamo poi confrontati per qualche minuto su questo argomento condividendo aneddoti e impressioni. C’è stata intimità, empatia non eravamo più dottore e paziente, ma due persone in rispecchiamento reciproco di stati interni e mutue debolezze in cui il paziente può avventurarsi in un mondo relazionale inesplorato ma in un contesto sicuro (Hill, 2017).

Se, per certi versi siamo fortunati perché riusciamo a comprendere un minimo di più la mente umana e conosciamo alcuni meccanismi psicologici, nonostante questo restiamo esseri umani. E, come tali, abbiamo le nostre criticità. Ma se grazie al nostro lavoro personale (ne abbiamo parlato nell’articolo L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale), abbiamo faticosamente abbandonato i coping, abbiamo superato paura del giudizio o di critica, e abbiamo anche visto quanto è stata dura, allora sappiamo quello che stiamo chiedendo ai nostri pazienti. Potremmo perfino diventare dei modeling sufficientemente incoraggianti per l’altro. Sappiamo che è possibile lavorare sullo schema, sulle emozioni, gestire le normali ricadute, esplorare parti sane di sé o crearne di nuove se necessario. Senza saperlo il nostro modo di pensare, di stare in relazione, di lavorare con gli assetti interni viene implicitamente appreso dai pazienti e questo spesso è utile nella regolazione emotiva. Ad esempio, un paziente spaventato o disregolato può essere aiutato da un nostro stato interno regolato, ma non solo da esso. Quando i pazienti osservano i nostri comportamenti buffi, i nostri errori in diretta e “apprendono” come possono essere anche loro così, funzionare bene anche se non perfetti, ad esempio. Tale processo favorisce l’integrazione: parti di sé e dell’altro, che possono sembrare dissonanti, in realtà fanno parte dell’individuo nella sua totalità. Agli occhi dei pazienti restiamo terapeuti presenti, accoglienti e validanti anche se rovesciamo una tazza di thè mentre compiliamo la fattura, oppure diamo due appuntamenti alla stessa ora. Non siamo sempre noi? Oppure tutte le volte che una mia paziente cita luoghi, negozi famosi della mia città che io non conosco e mi prende in giro per questo, o quando la rinite cronica è in fase acuta e durante la seduta consumo 3 pacchi di fazzoletti cercandoli in giro come un tossicomane zombie, non siamo sempre quel terapeuta lì? Insomma il paradosso è che un terapeuta sanamente “scompensato” appare integro agli occhi del paziente. Il terapeuta è un essere umano con le sue parti sane e le sue fragilità, ma rimane comunque stabile nella mente del paziente, una persona che risponde in modo adeguato ai suoi bisogni (Meares, 2014). Rimaniamo integri anche se a volte ci capita di…….? E qui ognuno di noi può pensare a un proprio comportamento all’apparenza “scompensato”. Con sincerità! Ma se proprio questa proposta vi attanaglia e non vi sentite liberi vi ricordiamo che, almeno in questo momento mentre state leggendo, nessuno vi guarda nella mente!

 

“La Fotografia mi sta salvando la vita”: lo scatto fotografico come strumento di comunicazione

Negli anni Settanta del Novecento  è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza, aprendo così alla possibilità di utilizzarla anche con persone affette da malattie rare.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

 La fotografia, come la pittura e qualsiasi altra forma d’arte, può diventare uno strumento molto potente per far emergere un vissuto “invisibile”. La fotografia diventa terapeutica quando assume il delicato ruolo di facilitare e promuovere il riconoscimento di stati emotivi e la loro comunicazione.

Edith Kramer, pittrice e pioniera dell’arteterapia, sosteneva che l’opera d’arte fosse come un “contenitore di emozioni” e considerava l’atto stesso del creare come terapeutico di per sé. La fotografia cattura le emozioni attraverso l’obiettivo e l’atto stesso di fotografare può diventare, dunque, una forma terapeutica. La forza della fotografia in campo terapeutico non è dovuta tanto alla sua validità artistica che anzi risulta essere irrilevante, ma è data dalla sua efficacia nel rievocare il simbolico personale del paziente, nell’aiutarlo a far riemergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010).

Malattie non diagnosticate

Con il termine inglese “Malattie non diagnosticate” si intende un eterogeneo gruppo di patologie che restano senza nome a causa della mancanza di una diagnosi definitiva. Il ritardo o la completa assenza di diagnosi rappresenta uno dei principali ostacoli da superare per i pazienti affetti da malattie rare, condizioni che, essendo caratterizzate da un’estrema varietà e da una bassissima incidenza, è assai complicato identificare anche nel caso in cui siano effettivamente disponibili strumenti diagnostici adeguati. La diagnosi può essere definita come la conoscenza della patogenesi di una data malattia, basata su riscontri clinici e/o genetici e in grado di fornire una successiva prognosi e terapia. Il ritardo nella diagnosi, che può cambiare significativamente in base al tipo di patologia e al Paese d’origine del paziente, impedisce quindi, innanzitutto, l’inizio di un percorso di cura specifico, con conseguenze irreversibili e potenzialmente fatali per il malato. Inoltre, nel tentativo di ottenere una diagnosi corretta e definitiva, i pazienti e i loro familiari sono costretti ad affrontare un percorso spesso molto lungo, travagliato e dispendioso, nonché costellato di pareri medici errati e/o approssimativi ed esami clinici inconcludenti o non necessari. A tutto ciò occorre aggiungere il fatto che, in molti casi, è ancora oggi possibile che un malato resti senza diagnosi per tutta la vita. In base a quanto stabilito nelle “Raccomandazioni internazionali congiunte per affrontare le esigenze specifiche dei pazienti affetti da malattie rare non diagnosticate” (Ottobre 2016) è opportuno distinguere due distinti gruppi di pazienti senza diagnosi:

  • quelli ‘Non ancora diagnosticati’, che vivono con una patologia non diagnosticata nonostante una diagnosi sia disponibile, in quanto non sono stati riferiti a specialisti appropriati a causa di sintomi comuni e fuorvianti o di una presentazione clinica atipica di una malattia rara diagnosticabile;
  • quelli ‘Non diagnosticabili’ (SWAN), per cui non è disponibile un test per la diagnosi in quanto la malattia non è stata descritta o la causa non è stata ancora identificata. Questi ultimi possono ricevere una diagnosi erronea in quanto la malattia può essere facilmente confusa con altre. Le malattie di questo tipo, definite anche come “senza nome”, sono probabilmente malattie rare.

In entrambi i casi i malati, assieme alle loro famiglie, potrebbero non ricevere mai una diagnosi, e non è possibile comprendere a priori in quale dei due gruppi si trovi uno specifico paziente. Nonostante ciò, tale distinzione risulta essere fondamentale per la progettazione e l’adozione di strategie in grado di migliorare la diagnosi delle malattie rare.

Oltre il visibile: cosa sono le malattie rare?

Una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera una soglia stabilita. In UE la soglia è fissata allo 0,05 per cento della popolazione, ossia 5 casi su 10.000 persone. La metà delle malattie rare compaiono alla nascita o durante l’infanzia, l’altra metà si manifestano in età adulta. La gran parte delle malattie rare sono di origine genetica ma possono anche essere attribuite al risultato dell’esposizione ambientale durante la gravidanza o durante particolari fasi della vita, spesso in presenza di particolare suscettibilità genetica (Notizie acquisite dall’Istituto Superiore di Sanità). Ogni malattia può presentarsi in forme diverse e questo rende il suo riconoscimento ancora più difficile e complicato.

Esternamente la persona sembra star bene, non mostra i segni che ci si aspetterebbe di trovare in un soggetto “malato” proprio perché spesso le malattie rare sono malattie invisibili. Il corpo non platealizza, anzi spesso contiene, un profondo malessere prima fisico e poi psicologico. La persona vede se stessa trasformarsi, peggiorare. Quando le malattie rare colpiscono la popolazione giovane il rischio di un crollo psicologico è ancora più elevato. Il soggetto si trova a dover affrontare l’impossibilità di compiere alcune attività, effettuando spesso un paragone tra sé e gli altri, tra il prima e l’adesso. La malattia appare come aggressiva, spesso non c’è cura e si agisce solo per alleviare i sintomi usando farmaci, fisioterapia. Per la maggior parte di queste malattie, ancora oggi non è disponibile una cura efficace, ma numerosi trattamenti appropriati possono migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata. In alcuni casi sono stati ottenuti progressi sostanziali, dimostrando che non bisogna arrendersi ma, al contrario, perseguire e intensificare gli sforzi della ricerca e della solidarietà sociale. Tutte le persone affette da queste malattie incontrano simili difficoltà nel raggiungere la diagnosi, nell’ottenere informazioni, nel venire orientati verso professionisti competenti. Sono ugualmente problematici l’accesso a cure di qualità, la presa in carico sociale e medica della malattia, il coordinamento tra le cure ospedaliere e le cure di base, l’autonomia e l’inserimento sociale, professionale e civico. La solitudine è il pericolo maggiore che corre chi soffre di una delle tante malattie rare, la quale può sopraggiungere per la mancanza di informazione e conoscenza della patologia. La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento.

Guardandomi, nessuno sospetta che la mia vita possa essere fatta di intere giornate a letto con dolori profondi alle gambe, rinuncia ad una vita sociale normale, limitazioni, rallentamenti, infezioni, stanchezza cronica, ricoveri mensili…Tutto questo dall’esterno non si vede, sembro una normalissima ragazza sana e attiva. Ma se il dolore non è visibile, non vuol dire che non esista. E’ un combattimento corpo a corpo con qualcosa di ignoto, con la speranza, un giorno, di avere la mia vittoria definitiva (testimonianza di Claudia Amatruda, 23 anni).

I “costi” da subire

Indipendentemente dall’eterogeneità delle malattie rare, i pazienti colpiti e i loro familiari si confrontano con la stessa ampia gamma di difficoltà che deriva direttamente dalla rarità di queste patologie:

  • difficoltà nel giungere ad una diagnosi corretta
  • ritardo nella diagnosi e/o diagnosi errate
  • carenza di informazione
  • carenza di cure di qualità appropriate
  • alti costi delle cure

La prima sfida che devono affrontare i pazienti e le famiglie è giungere alla diagnosi: è questa spesso la battaglia più disarmante. Questa lotta si ripete ad ogni nuovo stadio di evoluzione della malattia. La carenza di conoscenza sulla malattia spesso mette in pericolo la vita dei pazienti e conduce ad enormi perdite: ritardi e ricoveri inutili, infinite consulenze specialistiche e prescrizione di farmaci e trattamenti inadeguati o persino inutili. Poiché si sa così poco sulla maggior parte delle malattie rare, una diagnosi accurata è solitamente tardiva, quando il paziente è già stato curato per molti mesi o perfino anni per un altro disturbo più comune. Spesso, solo alcuni sintomi sono riconosciuti e trattati.

In assenza di una diagnosi corretta, i dipartimenti di emergenza non sono in grado di fornire un trattamento adeguato. Incomprensione, depressione, isolamento e ansia sono parte integrante della vita di tutti i giorni della maggior parte dei genitori di bambini affetti da malattie rare, specialmente nel periodo che precede la diagnosi.

Tra i punti prima elencati vi è uno ancora più importante che spesso appesantisce il quadro clinico: la sfera sociale.

L’intera famiglia di un paziente affetto da malattie rare, sia adulto che bambino, è colpita dalla malattia del loro caro e diventa emarginata psicologicamente, socialmente, culturalmente ed è economicamente vulnerabile.

Dopo periodi molto lunghi si giunge alla fase 2: la diagnosi. Un altro momento cruciale per i pazienti affetti da malattie rare è la scoperta della diagnosi: a dispetto dei progressi fatti negli ultimi anni, la diagnosi di malattia rara è spesso comunicata in maniera inadeguata. Molti pazienti e le loro famiglie descrivono come insensibile e poco esaustivo il momento della comunicazione della diagnosi. Il problema è comune tra i medici, che troppo spesso non sono organizzati né addestrati nella buona pratica della comunicazione delle diagnosi.

Indipendentemente dalla modalità in cui la malattia rara viene scoperta, essa porterà ad un inevitabile cambiamento. Quando il soggetto riceve la diagnosi, benchè vi sia sollievo iniziale, successivamente egli entra in una fase della vita “nuova” e diversa dalla precedente. Il setting familiare si modifica, il suo ruolo familiare riceve bruschi cambiamenti e tutto viene riorganizzato e ripensato nel contesto “malato”. Il paziente assume così il ruolo di malato, dal quale difficilmente riesce ad evadere: la sfera personale, sociale e lavorativa viene riletta nell’ottica della malattia, fino a far emergere spesso nella mente di chi soffre “io sono la mia malattia.” Il soggetto non riesce ad andare oltre, crea un muro, nascondendosi in esso anche dai familiari stessi e da se stesso. Per aiutare i pazienti affetti da malattie rare e le loro famiglie a far fronte ai loro progetti per il futuro e al crollo delle loro aspettative è estremamente necessario un supporto psicologico. Ogni madre e padre sanno quante preoccupazioni e speranze per il futuro sono implicate quando si aspetta un figlio. Ma cosa significa avere una diagnosi – o avere un figlio con una diagnosi – di malattia rara non può essere spiegato. Spesso i sogni di carriera e benessere affettivi sono sostituiti da nuovi sogni come la speranza di riuscire a riportare il proprio familiare a casa dall’ospedale o che viva serenamente senza soffrire troppo.

La fotografia

Le reazioni di fronte ad una situazione di sofferenza sono ovviamente soggettive e sono collegate con l’immagine mentale interna che abbiamo di noi stessi: essa riguarda sia il modo in cui ci vediamo ma anche il modo in cui vogliamo essere visti dagli altri.

Oltre al riconoscimento della sua funzione documentaria e di valore estetico, la fotografia può essere un potente mediatore tra ricordo e memoria. Connessa da tempo, intimamente, alla nostra identità culturale, la fotografia è capace di sostituire la memoria con cui comunica e ne condivide il presente.

Le fotografie sono le orme della nostra mente, specchi delle nostre vite, riflessi del nostro cuore, memorie sospese che possiamo tenere in mano, immobili nel silenzio – se lo volessimo, per sempre. Non solo testimoniano dove siamo stati, ma indicano anche la strada che potremmo forse intraprendere, che ce ne rendiamo già conto oppure no…
(Judi Weiser)

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 1

La fotografia e le malattie rare

Quando la fotografia incontra una persona portatrice di una malattia rara può nascere un legame. Per alcune di esse, la fotografia può rappresentare l’unico modo per riuscire ad accettare l’etichetta “rara”, vivere la rassegnazione e cercare di accettarsi. Percorso questo non semplice, spesso la malattia cambia e modifica la percezione di sé, carica il corpo di una valenza negativa. Può accadere che chi soffre di malattie rare si isoli, disconosca il proprio corpo volgendosi più verso una negazione di sé, faticando nel guardarsi allo specchio perché quest’ultimo rimanda un’immagine di sé che non coincide. L’incertezza circa la natura del proprio malessere spesso conduce il malato, dopo una sequenza di visite mediche ed esami insoddisfacenti, ad isolarsi nel suo dolore e rifiutare qualsiasi proposta di indagine. La chiusura non riguarda solo la sfera amicale, la persona finisce con l’escludere anche la propria famiglia. Ci si sente soli anche se non lo si è. Esistono malattie rare cui si associa il fenomeno del farmaco ‘orfano’, che non si trova in commercio a causa dell’insufficienza di richiesta di mercato utile a ripagarne la produzione, a cui si combina la mancanza di esenzioni ed assistenza a livello pubblico e privato. Le caratteristiche proprie delle malattie rare (bassa frequenza nella popolazione, difficoltà diagnostica e conseguente peregrinazione fra diverse strutture sanitarie, scarsità di terapie risolutive, cronicità) sollecitano vissuti di disagio e solitudine nelle persone colpite da tali patologie e nei loro familiari più che in altre malattie. A questo punto entra in scena l’arte: la fotografia, la danza, la pittura sono solo alcune forme di arte capaci di far emergere i vissuti interni. E’ stato solamente negli anni Settanta del Novecento che è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza. La Foto-Terapia è una pratica terapeutica in cui vengono usate le foto personali, gli album di famiglia, le foto scattate da altri come elemento stimolante per approfondire la comprensione e migliorare le sedute terapeutiche condotte da professionisti specializzati (psicologi psicoterapeuti) e formati in tali tecniche, in un modo che non sarebbe possibile usando solamente le parole. Nella Foto-Terapia il terapeuta assegna dei compiti fotografici al paziente per poi aiutarlo nella lettura e nella comprensione dei suoi scatti all’interno del processo terapeutico. La fotografia però può essere adoperata anche in assenza di uno specialista, con lo scopo di aumentare il livello di auto-conoscenza, incrementare la propria consapevolezza, per risolvere piccoli conflitti non di tipo patologico, per attivare un cambiamento positivo o per migliorare le relazioni interpersonali. Essa può essere quindi usata anche in contesti didattici, formativi, educativi, ma sempre con finalità non cliniche e senza la presenza di uno psicoterapeuta. Ciò che si promuove in entrambi i casi, non è la tecnica o la bravura nel realizzare una foto, molto spazio viene lasciato al percorso simbolico in cui vengono attivate capacità e potenziale. È d’aiuto ed interessante scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni. Adrian Hill, insegnante d’arte, sottolinea l’importanza che riveste anche il solo fare fine a se stesso, in quanto esso sarebbe in grado di produrre quella scarica emozionale indispensabile per cercare di sfogare angoscia e dolore. Edith Kramer, precedentemente citata, sposta l’attenzione al processo creativo. Non è il prodotto finale a destare attenzione, ma lo è il processo creativo in quanto parte fondamentale per ottenere risultati: il lavoro non è visto solo in termini di espressione dei conflitti interni ma come risorsa per la loro risoluzione.

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 2

“Naiade”

Nelle situazioni più complesse e “rare” possono emergere risorse sconosciute e importanti. L’avvicinamento alla fotografia, come a qualsiasi forma d’arte, nasce il più delle volte spontaneamente. Si utilizzano perciò le immagini per esprimere la condizione di invisibilità del dolore, del buio di una diagnosi incompleta e non definitiva. Spesso la fotografia può essere usata come momento di condivisione, anche tramite i social network, per raccontare la malattia, la realtà degli ospedali, per raccontarsi. L’immagine fotografica si rivela essere uno strumento utile per guidare il paziente verso l’accettazione di situazioni difficili e sentimenti spesso insostenibili, laddove è necessario consolidare una comunicazione che va oltre il verbale. Prima di arrivare a questa fase, il percorso è lungo, spesso esso è preceduto da un periodo di non accettazione, di isolamento, di chiusura. Riprendere in mano la propria vita richiede una percentuale interna alta di resilienza. La capacità di reinventarsi, di “assorbire un urto senza rompersi”, porta, a piccoli passi, il paziente a guardarsi intorno e trovare strumenti personali e soggettivi utili per proseguire. Il confronto tra il prima, l’adesso e il dopo può far cadere vittima di depressione e tenta il soggetto in più occasioni. La famiglia e il soggetto sono in una posizione fragile e instabile, ma soprattutto nuova, ingestibile e intollerabile in alcuni casi. Alcuni trovano nella fotografia la propria via di uscita. Il semplice riuscire a concentrarsi sull’immagine, a cercare di catturare i dettagli, funge probabilmente da alternativa a rimuginio o ruminazione che possono incastrare il pensiero in un circolo vizioso. Di riflesso, il vedere la persona sofferente muoversi, uscire, impegnarsi in una attività, concentrarsi, è di aiuto anche ai familiari. Potremmo supporre a questo punto che la fotografia abbia quindi una molteplicità di funzioni che si ripercuotono positivamente su tutto il nucleo familiare. La fotografia acquista per la persona un potere curativo (da qui il richiamo alle naiadi). Alla fotografia dovrebbe però essere sempre accompagnato un percorso terapeutico e di sostegno familiare per rinforzare le risorse personali. È opportuno però ricordare che la riuscita non è dovuta ad un potere “magico” attribuibile ad un oggetto quale la fotocamera, essa scaturisce da un lungo lavoro, spesso scandito da cadute, fallimenti e successi attribuibili al soggetto. La persona si allontana dalla sua zona di comfort per ricominciare a “camminare”.

Per me la cosa più bella è svegliarmi, uscire e andare in giro a guardare. Guardare tutto. Senza che nessuno stia li a dirmi: devi guardare questo o quello (Josef Koudelka)

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 3

 

APA Style: arrivata la nuova edizione del manuale

Alla fine dello scorso anno, più precisamente ad ottobre 2019, l’American Psychological Association (APA) ha pubblicato la settima edizione dell’APA Publication Manual che sostituirà l’ultima edizione del 2009.

 

La versione aggiornata del manuale, composto da 12 capitoli, si propone di fornire linee guida più ampie e agevoli relativamente alla modalità di citazione di fonti bibliografiche e formattazione del testo.

In questo articolo verrà proposta una panoramica delle principali sezioni che sono state revisionate nel manuale.

Per quanto riguarda la bibliografia e le citazioni nel testo, il nuovo manuale propone una serie di esempi che facilitano la comprensione della modalità corretta di citazione delle fonti, anche di quelle online.

Tra i principali cambiamenti nella settima edizione troviamo:

  • la citazione nel testo per le opere con tre o più autori è ora accorciata sin dalla prima citazione; ovvero è necessario inserire solo il primo autore seguito da “et al.”;
  • il riferimento geografico dell’editore non è più incluso;
  • nella bibliografia finale devono essere inserite le iniziali di cognome e nome fino ad un numero massimo di 20 autori diversamente dai 7 indicati nella penultima edizione del manuale; sono presenti anche indicazioni su come citare lavori con più di 20 autori;
  • i DOI sono formattati come gli URL e l’etichetta “DOI:” non è più necessaria.

Altri cambiamenti proposti nel nuovo manuale riguardano una maggiore flessibilità del formato del testo con, ad esempio, l’indicazione di più opzioni tra cui scegliere relativamente al tipo di carattere e alla sua dimensione. Inoltre, la dicitura “Running head” è stata eliminata in favore solo del titolo abbreviato e del numero di pagina.

Sono presenti anche dei cambiamenti per quel che riguarda la formattazione di tabelle e figure sebbene essa non sia cambiata radicalmente rispetto alla sesta edizione del manuale.

Il nuovo manuale, infine, prevede anche un capitolo per supportare gli autori in uno stile di scrittura che sia inclusivo e che eviti pregiudizi su temi come il genere, l’età, la disabilità, l’identità razziale ed etnica e l’orientamento sessuale. Anche in questo caso sono fornite delle esemplificazioni.

Il manuale dovrebbe iniziare ad essere ufficialmente utilizzato a partire dalla primavera 2020; nel frattempo restano valide le indicazioni presenti nella sesta edizione pubblicata nel 2009.

 

Anakin Skywalker e il suo passaggio al lato oscuro – La LIBET nelle narrazioni

Quali sono i processi che porteranno Anakin Skywalker ad un punto di rottura? Cosa contribuisce alla manifestazione sintomatica di questo personaggio, caratterizzata dal passaggio al lato oscuro?

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 14) Anakin Skywalker

Introduzione

Verrà di seguito analizzato il personaggio di Anakin Skywalker da un punto di vista evolutivo in ottica LIBET. In particolare, facendo riferimento alla prima trilogia del film STAR WARS (episodio I: La minaccia fantasma; episodio II: L’attacco dei cloni; episodio III: La vendetta dei Sith), si approfondiranno: i processi di apprendimento, il tema doloroso, il piano semiadattivo, i processi di metacontrollo ed i processi di invalidazione, che portano il protagonista Anakin Skywalker ad un punto di rottura, ovvero alla manifestazione sintomatica caratterizzata dal passaggio al lato oscuro.

Processi di apprendimento

Nel primo film della trilogia (Episodio I) viene raccontata l’infanzia del protagonista.

Anakin è un bambino di nove anni che vive nel pianeta di Totooine in condizione di schiavitù, costantemente trattato come inferiore e indegno dal padrone Watto. Il film fornisce importanti informazioni circa la dimensione più intima ed emotiva del personaggio: Anakin è cresciuto senza un padre, solo con la madre, la quale “dipende” totalmente da lui (sia concretamente, attraverso il lavoro, sia emotivamente in quanto unico uomo di casa e fonte di affetto ed amore per la donna). È chiaro che il personaggio non può permettersi di pensare a sé, tantomeno di abbandonare la madre. Ad un certo punto Anakin viene “ceduto” al Jedi Qui-Gon Jinn, in seguito ad una scommessa persa tra il Jedi e Watto. Qui-Gon Jinn “libera” formalmente Anakin dalla schiavitù, conducendolo ad intraprendere una nuova strada, quella di Jedi, espressione di nuove e grandi possibilità; questa scelta viene validata ed avvallata anche dalla madre, tuttavia Anakin sperimenta un forte senso di colpa.

Tema

Appare piuttosto comprensibile come queste esperienze durante l’età evolutiva abbiano contribuito alla costruzione del tema doloroso di indegnità: io indegno, io sbagliato, ma soprattutto io colpevole.

Il nuovo mondo Jedi, per quanto diverso dalla schiavitù di Tatooine, non fa altro che confermare e rafforzare il tema doloroso: Anakin è dotato di grande forza, tuttavia in quanto apprendista deve sottostare agli insegnamenti e alla posizione del maestro (Qui-Gon Jinn muore e il maestro di Anakin diviene Obi One Kenobi). L’apprendista mostra evidenti segni di risentimento e frustrazione e si trova nuovamente in una condizione di inferiorità. Inoltre, nel mondo Jedi non è permesso provare sentimenti di attaccamento ed amore, poiché da questi scaturiscono emozioni quali paura, invidia e odio, che portano alla via del lato oscuro. Anakin ha sempre nutrito nostalgia e amore nei confronti della madre, queste emozioni hanno una duplice conseguenza: senso di colpa nei confronti dei Jedi, poiché gli hanno dato fiducia e lui sente di tradirli; senso di colpa nei confronti della madre che sogna più volte in pericolo.

Ancora una volta viene rafforzato il tema doloroso: io colpevole.

Processi di metacotrollo

Per il protagonista questo tema è insopportabile, dolorosissimo e intollerabile, fin da quando è bambino. Infatti da piccolo per non sentirsi indegno, sbagliato e colpevole ha cercato di “distrarsi” in diversi modi: idealizza il mondo Jedi e sogna ad occhi aperti di potervi entrare e farne parte, un giorno. Costruisce il droide C-3PO, droide dalle elevate potenzialità che diventerà il suo compagno di avventure. Infine, nonostante il divieto della madre, partecipa alle gare di sgusci, gare di velocità in cui Anakin sfida la vita, uscendone vincente.

Da giovane adulto, sempre per non sentirsi tale, si impegna nell’arte Jedi, promettendosi di divenire il Jedi più forte di tutti. L’obiettivo è quello di diventare il Jedi più potente, trovarsi “più in alto di tutti” in modo da poter essere superiore agli altri e alla morte; inoltre desidera diventare l’unico in grado di decidere della vita e della morte degli altri.

Tuttavia ad un certo punto nemmeno questo è sufficiente, anzi il mondo Jedi viene percepito come limitante e critico, quindi Anakin decide di passare al lato oscuro, considerato l’unica via per evitare la morte e quindi per non entrare in contatto con il tema doloroso.

Piano

Anakin per non entrare in contatto con il tema doloroso, per lui intollerabile, mette in atto strategie semiadattive riconducibili ad un piano di tipo immunizzante. Per non far emergere il tema “io indegno” si ripromette, come già detto, di divenire il Jedi più forte, ma nel raggiungere tale obiettivo mette in atto emozioni rabbiose nei confronti di chiunque si trovi in una posizione “sociale” superiore alla sua (il consiglio Jedi, il maestro Obi One Kenobi). Inoltre, per non entrare in contatto con il tema “io colpevole” riversa tutta la rabbia e la colpa sugli altri, incolpando il proprio maestro ed il consiglio dei Jedi della morte della madre e del fatto che non diano spazio allo sviluppo della sua forza, considerata un mezzo di salvezza.

Quindi, nel complesso Anakin manifesta un comportamento di tipo aggressivo e rabbioso, caratterizzato da attacco verso gli altri, tipico di un piano immunizzante. Questo  lo porta ad aggredire gli altri verbalmente e fisicamente, fino ad arrivare al passaggio sintomatologico al lato oscuro.

Processi di invalidazione

I processi di invalidazione sono molteplici.

Il primo episodio riguarda l’innamoramento per Padme, vietato dall’arte Jedi, come specificato precedentemente. Innamorandosi di Padme, Anakin entra in contatto con il senso di colpa e con la paura di perderla (io colpevole, non degno).

Il secondo e più importante episodio riguarda la morte della madre. Anakin sogna la madre in difficoltà e decide di andarla a cercare per poterla salvare. Tuttavia, quando la raggiunge, è troppo tardi e la donna muore fra le sue braccia. In questa circostanza Anakin entra pienamente in contatto con il senso di colpa, e quindi con il tema doloroso “io colpevole”,  ed in preda alla rabbia fa una strage di Tusken (popolazione che ha catturato e portato alla morte la madre).

Da qui si ha un vero e proprio esordio sintomatico, già evidente con sintomi prodromici, rappresentati nei film con l’avvicinamento al lato oscuro, per concludersi in una vera e propria sofferenza patologica che si rende palese con il passaggio definitivo al lato oscuro e la creazione del personaggio di Darth Vader.

 

Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (2020) di V. Adamo – Recensione del libro

Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie, offre un interessante approfondimento sull’ansia in generale e sulle zoofobie in particolare, descrivendone le caratteristiche e analizzando le tecniche di trattamento maggiormente efficaci.

 

Vincenzo Adamo (2020), psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, psicopatologo forense e formatore; nel suo saggio Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (edito da in.edit Psicologia), spiega, utilizzando un linguaggio semplice, da cosa si originano le zoofobie. Il libro inizia con la storia di Marco e Laura due ragazzi che hanno una cosa in comune: la Zoofobia, ovvero la fobia per gli animali. Entrambi riconoscono che il loro timore è eccessivo e ritengono necessario il suo superamento, in quanto si sentono ostacolati nella loro libertà personale.

I due protagonisti potrebbero sentirsi ostacolati perché nelle zoofobie, vengono messe in atto due risposte: evitamento delle situazioni in cui potevano trovarsi gli animali di cui manifestavano la fobia e fuga nel caso in cui si trovavano di fronte ad essi (Markus, 1987).

Prima di individuare il tipo di trattamento psicoterapeutico da applicare alle persone affette da zoofobie, un passo necessario è quello di comprenderne l’origine e la natura dell’ansia in generale. Pertanto, l’autore nel primo capitolo fornisce diverse definizioni di ansia, i corrispondenti sintomi fisici tra cui: aumento dell’attenzione, della pressione arteriosa, respiratoria e cardiaca, della sudorazione, aumento del sangue a livello muscolare, aumento della tensione muscolare, rallentamento della digestione, riduzione della secrezione della saliva, aumento degli zuccheri prodotti dal fegato per avere più energia (Zinbarg et al., 1992).

Oltre ai sintomi fisici appena citati, l’autore descrive le tipologie di ansia e quando essa è fisiologica o patologica, i sintomi, gli effetti che produce nell’individuo.

Nel secondo capitolo sono state analizzate le cause dell’ansia in particolare è stata analizzata la componente ereditaria dell’ansia, i processi biologici che avvengono a livello cerebrale ed i processi che avvengono a livello intrapsichico e si è posta enfasi al modello cognitivo dell’ansia di Clark e Beck (2010). Inoltre è stata analizzata l’ansia come risposta appresa, intesa come il risultato dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente (Bandura, 1969).

Ciò che rende interessante lo studio dei disturbi d’ansia, sono le diverse cose di cui gli esseri umani hanno paura; nel terzo capitolo sono state descritte le diverse tipologie di fobie, dalle più comuni alle meno frequenti, ponendo una particolare enfasi alle zoofobie (argomento che verrà descritto nel dettaglio nel capitolo successivo). Inoltre, sono stati descritti i sintomi, le loro cause e quando emergono.

Dopo aver compreso le origini dell’ansia in generale e delle zoofobie nel particolare, nell’ultimo capitolo sono stati descritti i trattamenti e le tecniche maggiormente efficaci per le zoofobie. In quest’ultimo capitolo sono stati esposti in rassegna le tecniche che possono essere utilizzate nel trattamento delle zoofobie. In particolare la Realtà Virtuale sembrerebbe elicitare le stesse reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale, incrementare il senso di autoefficacia nel paziente e ridurre significativamente le fobie anche nei soggetti con particolari condizioni (ad esempio soggetti che hanno delle lesioni cerebrali e disturbo dello spettro autistico). Infine, sono stati esposti i vantaggi, i limiti e le recenti ricerche inerenti l’esposizione; una tecnica che consiste nell’esposizione diretta agli animali che producono sintomi fobici nei soggetti affetti da zoofobia.

 

Egocentrismo emotivo: come l’esperienza emotiva influenza la percezione delle emozioni altrui

Per orientarci nelle interazioni sociali con gli altri individui, comprendere il loro stato d’animo, così come i loro comportamenti, è necessario basarsi su degli indizi indiretti, dal momento che ci è preclusa la possibilità di avere accesso alla fonte diretta: la loro mente.

 

Generalmente, è possibile contare su degli indizi contestuali, ovvero l’interpretazione della situazione in cui l’azione si svolge, per inferire con discreta verosimiglianza cosa l’altra persona possa provare e dedurre o predire il suo comportamento; un altro metodo di indagine che l’essere umano ha perfezionato nel corso dell’evoluzione, è la capacità di interpretare gli stati emotivi a partire dalle espressioni del volto della controparte, operazione facilitata dalla relativa regolarità inter individuale e cross-culturale delle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, sorpresa e disgusto), di intuibile valenza adattiva, e di alcune emozioni dette secondarie (divertimento, disprezzo, contentezza, imbarazzo, eccitazione, colpa, orgoglio, sollievo, soddisfazione, piacere sensoriale, vergogna), come formalizzato nella teoria Neuroculturale delle emozioni (Ekman, 1971).

Tuttavia, alcune ricerche nell’ambito della cognizione sociale, hanno evidenziato come non solo indizi esterni, come quelli contestuali o delle espressioni altrui, ma anche indizi interni, come lo stato emotivo della stessa persona che si trova a giudicare la situazione, vengono presi in considerazione in maniera più o meno esplicita nell’attribuzione di senso e nel guidare le predizioni degli individui (Silani et al., 2013; Steinbeis & Singer, 2014), fenomeno che è stato denominato Egocentrismo Emotivo.

Quando veniva chiesto di esprimere giudizi emotivi circa loro stessi ed un altro individuo, in situazioni congruenti o incongruenti, ad esempio subendo entrambi una stimolazione tattile piacevole o dove uno ricevesse una stimolazione piacevole e l’altro una stimolazione fastidiosa, gli individui dimostravano un bias costante verso il proprio stato emotivo, dimostrando un’inevitabile tendenza a proiettare la propria emozione sull’altro, rendendo meno accurati i loro giudizi.

I risultati di questi studi che, va sottolineato, precludevano la possibilità di vedere in prima persona la reazione dell’altro alla stimolazione subita e si basavano soltanto sulla descrizione contestuale, sono stati interpretati come una difficoltà nel discriminare l’articolazione sé/altro in termini di rappresentazione degli stati emotivi (Hoffman et al., 2016; Silani et al., 2013; Tomova et al., 2014).

Altri studi, che includevano invece la possibilità di assistere alle espressioni emotive della controparte per formulare il giudizio, hanno riscontrato come risultasse più facile riconoscere correttamente le emozioni altrui quando queste fossero congruenti con quella sperimentata contestualmente dal soggetto giudicante (Qiao-Tasserit et al., 2017; Schmid & Schmidmast, 2010): in questo caso, i risultati sono stati interpretati come evidenze del fatto che gli stati emotivi esperiti dal soggetto attivassero le rappresentazioni mnestiche corrispondenti, fungendo di fatto da facilitatori nel riconoscimento e nell’elaborazione cognitiva di informazioni congruenti con esse (Forgas, 2017). Tuttavia, una spiegazione alternativa potrebbe essere nuovamente quella di un bias di attribuzione dei propri stati mentali agli altri, ovvero come riflesso dell’Egocentrismo Emotivo: per verificare questa eventualità, Trilla e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca sperimentale su 50 soggetti, sottoponendoli ad un task di percezione emotiva dopo aver indotto differenti stati emozionali.

I soggetti sono stati esposti dapprima ad una combinazione di ricordi autobiografici rievocati da loro stessi e di clip audiovisive create dagli sperimentatori, con l’obiettivo di elicitare in loro una determinata emozione (felicità, tristezza o neutra). In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se le immagini che venivano loro mostrate raffigurassero espressioni di felicità o di tristezza: i volti presentati si configuravano in realtà come figure ambigue, create cioè ad hoc dagli sperimentatori mescolando i connotati di volti felici o tristi tratti dal Database FACES (Ebner et al., 2010). Ad ogni trial successivo il volto mostrato presentava il 5% in più dell’emozione contraria a quella appena identificata dal soggetto, decrescendo su di una scala immaginaria nel continuum tra felicità e tristezza: se ad esempio il volto veniva correttamente identificato come tristezza, quella successiva avrebbe mostrato il 5% in più di felicità, “diluendo” la tristezza ulteriormente fino ad un punto (reversal point) in cui il partecipante smetteva di percepire la tristezza iniziando a percepire felicità. Dopo aver raggiunto per otto volte il reversal point la scala terminava.

Da ultimo, i partecipanti hanno compilato dei questionari volti a raccogliere informazioni demografiche così come indici disposizionali di empatia, misurati attraverso due scale dell’Interpersonal Reactivity Index (empathic concern e prospective taking) ed eventuali tratti caratteristici dello spettro autistico, che sono stati associati nella letteratura scientifica ad una difettualità nel riconoscimento delle emozioni e caratterizzati da un maggiore egocentrismo nei compiti di mentalizzazione cognitiva.

I risultati hanno confermato l’esistenza del bias di Egocentrismo Emotivo, ovvero che la percezione delle emozioni venisse effettivamente influenzata dallo stato emotivo dei partecipanti e che l’emozione provata dai soggetti fosse un predittore significativo dell’emozione percepita nei volti che venivano loro mostrati. Inoltre, è stato riscontrato come una maggiore tendenza nel prospective taking, misurata con il questionario sull’empatia, correlasse con una minore influenza del bias di Egocentrismo Emotivo, limitando la misura in cui l’emozione provata dal soggetto influenzasse il suo giudizio circa gli stati emotivi altrui e di fatto rimarcando come esso sia legato alle abilità di cognizione sociale. Una recente metanalisi (Israelashvili et al., 2019) sembra supportare questi dati riscontrando un’associazione positiva tra la disposizione individuale al prospective taking e una maggiore accuratezza nel riconoscimento delle emozioni, interpretata come una maggiore attenzione focalizzata sull’”altro” durante il processo di inferenza circa gli stati mentali, che minimizza l’interferenza del proprio stato emotivo in questo processo. Da ultimo si è esclusa un’associazione tra l’Egocentrismo Emotivo e i tratti dello spettro autistico, che sembrano incapaci di contrastare il bias di egocentrismo, così come con l’indice di empathic concern, che sembra supportare studi precedenti che associano questo tratto a bias di attribuzione altercentrici, ovvero di natura speculare a quelli egocentrici (Hoffmann et al. 2016).

Studi futuri dovrebbero mirare ad estendere i risultati ottenuti, ad esempio adottando un paradigma più ecologico che non limiti a due sole emozioni le possibilità di scelta dei partecipanti, così come sarebbe auspicabile prevedere un gruppo di controllo che esprima giudizi di natura non emotiva pur essendo stato sottoposto all’induzione emotiva preliminare.

 

Stimolazione cerebrale non invasiva per potenziare gli effetti di interventi comportamentali e di psicoterapia

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva hanno guadagnato sempre maggiore popolarità e sono state affiancate ad altri interventi psicoterapeutici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali.

Alessia Gallucci e Alessandra Vergallito – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva sono sempre più spesso utilizzate non solo a scopo di ricerca, ma anche per potenziare gli effetti di trattamenti comportamentali con pazienti con disturbi neuropsicologici (Buch et al., 2017; Wessel et al., 2015) e psichiatrici (Brunelin et al. 2018; Palm et al., 2017; Jahshan et al., 2017).

I risultati tuttavia sono da considerarsi parziali e necessitano di maggiori evidenze sperimentali per giungere ad una raccomandazione clinica rispetto all’efficacia di tali trattamenti (Vicario et al., 2019).

Il presente articolo ha lo scopo di illustrare lo stato dell’arte rispetto all’utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale in ambito psichiatrico, affiancato ad interventi di tipo farmacologico e di psicoterapia.

1. NIBS cosa sono e come funzionano

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva (non-invasive brain stimulation, NIBS) hanno guadagnato sempre maggiore popolarità tra ricercatori e clinici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali dei partecipanti.

Le NIBS includono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione elettrica (tES), che è ulteriormente suddivisa a seconda della modalità con cui la corrente viene somministrata, ovvero continua (stimolazione transcranica a corrente continua, tDCS), alternata (stimolazione transcranica a corrente alternata, tACS) o random (stimolazione transcranicarandomnoise, tRNS). Per gli scopi del presente articolo saranno trattate solo TMS e tDCS, che hanno avuto maggiore applicazione in ambito sia clinico che di ricerca.

TMS e tDCS influenzano l’eccitabilità corticale utilizzando meccanismi differenti. La TMS è costituita da una bobina (coil) collegata ad un condensatore; lo strumento è in grado di rilasciare un campo magnetico di forte intensità (fino a 4T) e breve durata (280μs). L’impulso induce una depolarizzazione sopra-soglia nella membrana cellulare nei neuroni sottostanti, generando un potenziale d’azione (Barker et al., 1985, 1987), seguito da una depolarizzazione o iperpolarizzazione dei neuroni interconnessi. La risoluzione spaziale della TMS varia a seconda della forma del coil, ad esempio un coil a forma di 8 (o coil a farfalla) permette una stimolazione focale, consentendo di stimolare piccole porzioni di corteccia (0.5-2 cm2).

La TMS può essere somministrata in modalità impulso singolo, in cui gli impulsi vengono rilasciati con un intervallo temporale tale da non indurre modificazioni a lungo termine nella corteccia cerebrale sottostante, o ripetitiva (rTMS), che ha lo scopo di causare cambiamenti plastici nelle aree stimolate. In particolare, si parla di rTMS a bassa frequenza (low frequency, lf-rTMS) quando gli impulsi sono rilasciati con una frequenza inferiore ad 1 Hz per alcuni minuti (effetto riduzione dell’eccitabilità dell’area) vs rTMS ad alta frequenza (high-frequency, hf-rTMS), in cui gli impulsi sono rilasciati con una frequenza superiore a 3 HZ (aumento dell’eccitabilità dell’area stimolata).

La tDCS invece agisce attraverso l’applicazione di una corrente elettrica debole (~1-2 mA) per un tempo variabile (10-20 minuti, Nitsche et al., 2008), utilizzando una coppia di elettrodi posizionati sullo scalpo (Nitsche&Paulus, 2000; Priori et al., 1998). Uno degli elettrodi ha carica positiva (anodo), mentre l’altro ha carica negativa (catodo). I due poli influenzano in maniera differente la corteccia cerebrale sottostante, infatti il polo positivo depolarizza la membrana neuronale, mentre il polo negativo la iperpolarizza. A differenza della TMS, la polarizzazione indotta dalla tDCS è sottosoglia, ovvero troppo debole per generare un potenziale d’azione; tuttavia, essa è in grado di indurre cambiamenti nel potenziale di membrana a riposo, rendendo la risposta neuronale agli stimoli più o meno probabile (Bindman et al., 1964). La risoluzione spaziale della tecnica è meno focale rispetto alla TMS, gli elettrodi infatti hanno dimensioni variabili (ad esempio sono spesso utilizzati in letteratura elettrodi 5×5 cm, per un totale di 25 cm2 e.g. Nitsche et al., 2008).

Oltre alla differenza nel tipo di effetto indotto a livello cerebrale, le due tecniche hanno peculiarità e limiti che le rendono più o meno utilizzabili in determinati contesti. La TMS, a differenza della tDCS, è uno strumento costoso e difficilmente trasportabile. La somministrazione della TMS, inoltre, può essere distraente/fastidiosa in termini somato-sensoriali: gli impulsi infatti generano dei “click” sonori e contrazioni muscolari facciali, che possono renderla difficilmente utilizzabile mentre il partecipante sta svolgendo un compito.

La tDCS, d’altro canto, non genera particolari sensazioni sensoriali se non un leggero formicolio/prurito sotto agli elettrodi al momento dell’inizio della stimolazione (e.g. Poreisz et al., 2007), per questo è particolarmente adatta ad essere utilizzata durante lo svolgimento di compiti e nei casi in cui sia richiesta una condizione di controllo con stimolazione di tipo sham/placebo (Gandiga et al., 2006).

2. Ambiti di utilizzo delle NIBS: ricerca, diagnosi, trattamento

Le NIBS sono ampiamente utilizzate in ambito di ricerca, allo scopo di indagare lo stato funzionale dei sistemi cerebrali, tracciare una relazione causale tra una certa area/network neurale e l’esecuzione di un compito, approfondire la connettività funzionale tra aree cerebrali e indurre/mappare cambiamenti nella plasticità neurale.

A livello diagnostico, la TMS è utilizzata nel valutare la funzionalità del sistema motorio in diverse patologie, come sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, ictus, disturbi del movimento che riguardano la colonna vertebrale, i nervi cranici e facciali (Rossini and Rossi, 2007; Groppa et al., 2012; Rossini et al., 2015; Menon et al., 2015). Numerosi studi, tuttavia, suggeriscono che la tecnica possa essere utile nella diagnosi differenziale di diverse forme di demenza (e.g. Benussi et al., 2017; Pierantozzi et al., 2004), per individuare specifici marker di trattamento (Canali et al., 2014) e monitorare il trattamento riabilitativo (Cipollari et al., 2015).

Per quanto riguarda le indicazioni al trattamento, a parte poche eccezioni (es. depressione, vedi il paragrafo successivo), le NIBS sono attualmente utilizzate in ambito riabilitativo neuropsicologico e psichiatrico a livello solo sperimentale. Nonostante siano considerate come potenzialmente utili per il trattamento di svariati disturbi, i ricercatori concordano che siano necessarie più evidenze empiriche per stabilirne l’efficacia clinica e tracciare protocolli riabilitativi specifici. A questo scopo, panel di esperti mondiali si occupano periodicamente di valutare lo stato dell’arte sull’argomento e tracciare linee guida per l’utilizzo delle tecniche nella pratica clinica.

Per gli scopi del presente articolo descriveremo lo stato dell’arte dell’utilizzo delle NIBS come intervento nei disturbi psichiatrici.

3. Applicazione delle NIBS in ambito psichiatrico

Ad oggi, i disturbi psichiatrici sono tra le patologie più diffuse in tutto il mondo, con un impatto estremamente negativo sulla qualità di vita e il funzionamento socio-lavorativo, connesse ad alti tassi di mortalità ed elevati costi per i servizi sanitari (Wittchen et al., 2011). Nonostante la maggior parte dei pazienti acceda a trattamenti psicoterapici e farmacologici standard, i dati mostrano che il 20–30% dei pazienti con disturbo depressivo maggiore, il 40-60% dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo e fino al 50% dei pazienti con schizofrenia non rispondano ai trattamenti tradizionali (Bloch et al., 2006; Rush et., 2006; Scholten et al., 2013; Yamanaka et al., 2010).

Questi dati, insieme all’evidenza circa il coinvolgimento di specifici network neurali nei disturbi psichiatrici, hanno reso necessaria la ricerca su forme alternative di trattamento come le NIBS che, affiancando le terapie tradizionali, possono potenziarne gli effetti, consentendo di sviluppare interventi il più possibile specifici ed efficaci.

In particolare, rispetto alla possibilità di combinare la psicoterapia con l’uso delle NIBS i protocolli prevedono un trattamento intermittente, allo scopo di indurre cambiamenti nella funzionalità neurale e nell’outcome comportamentale. Inoltre, gli studi evidenziano che gli effetti neurobiologici della psicoterapia non dipendono solo dalle anomalie anotomo-funzionali che caratterizzano i diversi disturbi, ma anche dagli effetti specifici conseguenti all’applicazione delle NIBS sulla corteccia. Allo stesso modo, in linea con gli studi sull’efficacia dei trattamenti di riabilitazione motoria e cognitiva (Buch et al., 2017; Jahshan et al., 2017), gli effetti degli interventi psicoterapici sull’apprendimento e sui meccanismi di controllo top-down, possono favorire il mantenimento a lungo termine degli esiti delle NIBS (Bajbouj & Padberg, 2014). Da un punto di vista pratico, le NIBS sono economiche e generalmente ben tollerate dai pazienti, favorendo la loro applicazione anche in contesti di sanità pubblica. Confrontate con la farmacoterapia, le NIBS presentano meno effetti collaterali, aumentando la possibilità di compliance dei pazienti.

Nei paragrafi successivi sarà descritto lo stato dell’arte dell’applicazione delle NIBS nei disturbi psichiatrici.

3.1  Disturbo depressivo maggiore (DDM)

Il DDM è il disturbo rispetto al quale l’efficacia delle NIBS è stata maggiormente dimostrata. Il razionale che motiva lo sviluppo e l’applicazione di protocolli delle NIBS per il trattamento del DDM deriva dall’evidenza di anomalie strutturali e funzionali che coinvolgono la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e ventromediale (VMPFC), dell’amigdala e dell’ippocampo (Campbell et al., 2004; Grimm et al., 2009). In particolare, le ricerche evidenziano un’ipoeccitabilità della DLPFC sinistra e un’ipereccitabilità della DLPFC destra (Debener et al., 2000). I protocolli riabilitativi con NIBS hanno quindi l’obiettivo di ristabilire il disequilibrio interemisferico, utilizzando la hf-rTMS sulla DLPFC sinistra e lf-rTMS sulla DLPFC destra (Lefaucheur et al., 2014), oppure la tDCS con stimolazione anodica sulla DLPFC sinistra con catodo sopraorbitale controlaterale, anche se diversi autori stanno suggerendo l’utilizzo di un montaggio bi-emisferico con anodo sulla DLPFC sinistra e catodo sulla regione omologa destra (e.g. Brunoni et al., 2012). L’efficacia della rTMS nel DDM è confermata dalla sua approvazione nel trattamento della depressione farmaco resistente da parte della FDA (Food and Drug Administration, 2008). Per quanto riguarda la rTMS, diversi studi hanno mostrato miglioramenti significativi anche a distanza di tre mesi dalla fine del trattamento quando la stimolazione era associata a CBT (e.g. Donse et al., 2018). In modo cruciale, i miglioramenti osservati poco dopo l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo che sia possibile capire in fase molto precoce se una persona migliorerà oppure no.

Rispetto alla rTMS, uno studio su singolo caso (Vedeniapin et al., 2010) ha mostrato un miglioramento significativo della sintomatologia depressiva dopo 39 sessioni di rTMS ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra, 14 delle quali in combinazione con la terapia cognitivo comportamentale (CBT) standard. Gli effetti dell’intervento combinato sono stati osservati anche al follow-up a distanza di tre mesi. Uno studio più recente (Donse et al., 2018) ha sottoposto 196 pazienti a 10 sessioni CBT in cui la rTMS è stata applicata ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra o a bassa frequenza sulla DLPFC destra. In linea con lo studio precedente, i risultati hanno mostrato una remissione significativa dei sintomi anche dopo tre mesi dalla fine del trattamento, senza particolari differenze tra i due protocolli di stimolazione rTMS. Crucialmente, i miglioramenti osservati dopo poco l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo la possibilità di considerare le prime fasi di trattamento come riferimento per le successive.

L’efficacia della tDCS nel DDM è tuttora oggetto di dibattito, anche se le più recenti linee guida (Lefaucheur et al., 2017) suggeriscono un’indicazione al trattamento di livello B (efficacia probabile). Uno studio su un singolo caso ha mostrato la sua efficacia quando applicata insieme alla CBT (D’Urso et al., 2013), non replicato da Welch e collaboratori (2018), che registravano miglioramenti sia in caso di stimolazione reale che placebo. Anche la combinazione tra tDCS e Cognitive Control Therapy, che consiste in una serie di esercizi di potenziamento della memoria di lavoro da eseguire al computer, è stata oggetto di studio, mostrando effetti nel caso in cui le due fossero combinate. Gli effetti erano più forti a distanza di tempo rispetto a quelli rilevati subito al termine del trattamento (Segrave et al., 2014) ed erano influenzati dall’età del paziente e dalla loro performance durante gli esercizi cognitivi (Brunoni et al., 2014).

3.2  Fobie

Gli studi di neuroimmagine hanno riportato nel caso di pazienti fobici anomalie funzionali a carico delle strutture neurali quali l’amigdala, l’ippocampo, l’insula e la corteccia prefrontale, che costituiscono insieme alla corteccia cingolata anteriore e al corpo striato il circuito della paura (Davis, 2006), particolarmente coinvolto nei disturbi d’ansia in generale (Shin & Liberzon, 2010). In particolare, si è osservata nei pazienti una ridotta capacità delle strutture frontali di inibire le risposte alla paura di strutture sottocorticali, soprattutto dell’amigdala (Deppermann et al., 2016). La maggior parte degli studi hanno indagato gli effetti della CBT e della stimolazione.

Al momento non ci sono indicazioni sull’efficacia al trattamento delle fobie con NIBS, tuttavia alcuni studi hanno utilizzato protocolli di TMS (Intermittent Theta-burst o iTBS) combinati con CBT mostrando che, nonostante non ci siano dei miglioramenti clinici significativi, il protocollo di stimolazione reale rispetto a quello placebo è in grado di attivare la corteccia che risultava ipofunzionate alla baseline (Deppermann et al., 2016). Tuttavia questi  risultati non sono stati replicati da un altro studio dello stesso gruppo di ricerca in cui la iTBS è stata applicata insieme alla psicoeducazione (Deppermann et al., 2014).

Particolarmente utile nel trattamento delle fobie potrebbe essere la combinazione tra NIBS e realtà virtuale, allo scopo di associare la stimolazione con le tecniche di esposizione. Alcuni studi hanno mostrato effetti benefici positivi, in particolare della rTMS, soprattutto nell’accelerare la comparsa dei benefici della CBT (Guhn et al., 2014) . Uno studio di Notzon et al. (2015) ha invece mostrato che l’utilizzo della iTBS, seguita dall’esposizione tramite la realtà virtuale, non influenzava i parametri elettrofisiologici di pazienti con aracnofobia (conduttanza cutanea, battito cardiaco) durante la presentazione di stimoli fobici. Il protocollo, tuttavia, era costituito da una singola sessione di stimolazione, non sufficiente per misurare l’efficacia di trattamento. Inoltre, è possibile che attraverso la realtà virtuale l’attivazione fisiologica dei pazienti abbia raggiunto una sorta di effetto tetto, tanto da rendere nullo gli effetti della iTBS.

3.3  Disturbo ossessivo-compulsivo

Numerosi studi hanno evidenziato uno squilibrio funzionale tra le due vie neurali che uniscono la corteccia ai gangli della base e il talamo in pazienti con disturbo ossessivo-compusivo (DOC). In particolare, si osserva un’iperattivazione della via diretta eccitatoria, responsabile dell’inizio e della continuazione di un determinato comportamento, e un’ipoattivazione della via indiretta inibitoria, che consente l’interruzione del comportamento e la possibilità di passare da un comportamento all’altro (Cummings, 1993; Groenewegen & Uylings 2000; Saxena & Rauch 2000). La maggior parte degli studi con tDCS sono stati svolti senza accoppiare la neuro stimolazione ai trattamenti standard e considerando su singoli casi o piccoli gruppi di pazienti. In questi casi, si è osservata una riduzione significativa dei sintomi in seguito alla stimolazione catodica della DLPFC sinistra (Volpato et al., 2013). Altre aree considerate come target efficaci di protocolli di stimolazione sono la corteccia orbito frontale (Mondino et al., 2015) e la corteccia motoria supplementare sinistra (D’urso et al., 2016).

Studi con TMS, per la maggior parte su singoli casi, hanno invece osservato effetti combinati della rTMS e della CBT. In particolare, uno studio ha evidenziato miglioramenti clinicamente significativi in una paziente con DOC farmaco resistente dopo 16 sessioni di CBT, 10 delle quali in combinazione conrTMS ad alta frequenza applicata sulla DLPFC sinistra. I risultati sono stati incoraggianti, poiché gli effetti del trattamento combinato sono stati a lungo termine, con un impatto positivo sul livello di funzionamento generale (Grassi et al., 2015). Benché i risultati di questo primo studio siano stati replicati anche da un’altra ricerca (Tan et al, 2015), la metodologia utilizzata non consente di trarre delle conclusioni certe sull’efficacia del trattamento. Infatti, questi studi mancano della condizione placebo, prevedono che i pazienti siano a conoscenza del trattamento che ricevono e non tengono conto delle terapie farmacologiche in corso. Ulteriori studi metodologicamente più rigorosi e su un numero più ampio di pazienti potranno in futuro chiarire gli effetti delle NIBS e della psicoterapia in pazienti con DOC.

Rispetto agli interventi comportamentali invece, uno studio in doppio cieco ha riportato miglioramenti della sintomatologia subito dopo esercizi di esposizione seguiti della stimolazione rTMS ad alta frequenza della corteccia prefrontale mediale e della corteccia cingolata anteriore (Carmi et al., 2018)

3.4  Disturbo post-traumatico da stress (PTSD)

Come per le fobie, anche nel caso del PTSD, molti studi hanno indagato gli effetti del trattamento combinato delle NIBS con la terapia espositiva. I dati di neuroimaging infatti hanno mostrato che pazienti con PTSD mostrano generalmente un’iperattivazione della corteccia prefrontale destra durante l’esposizione a stimoli trigger (Rauch et al., 1996). Quindi la stimolazione può avere come regione target quest’area (lf-rTMS/tDCS catodica) oppure la omologa controlaterale (hf_rTMS/ tDCS anodica) allo scopo di ribilanciare l’attivazione cerebrale. Due studi in cui l’area target era costituita dalla DLPFC non hanno mostrato risultati significativi (Fryml et al., 2019; Osuch et al., 2009), mentre uno studio di Isserles et al. (2013) ha mostrato una riduzione dei sintomi dopo la stimolazione rTMS reale preceduta dell’esposizione a stimoli traumatici, rispetto alle condizioni di controllo (rTMS placebo preceduta dall’esposizione a stimoli traumatici; rTMS reale preceduta dall’esposizione a stimoli non traumatici). La maggiore numerosità campionaria, le caratteristiche cliniche dei pazienti, l’area target e i parametri di stimolazione potrebbero giustificare i risultati positivi dello studio di Isserles e collaboratori (2013).

3.5  Schizofrenia

Nella schizofrenia le NIBS sono state prevalentemente utilizzate per trattare allucinazioni uditive e sintomi negativi, su cui il trattamento farmacologico ha effetti meno efficaci (Lefaucheur et al., 2017). Studi neuropsicologici e di neuroimaging hanno evidenziato come questa sintomatologia sia riconducibile a una disconnessione tra aree frontali e temporali. In particolare, le allucinazioni uditive sembrano riconducibili ad un aumento dell’attivazione cerebrale nell’emisfero sinistro, in particolare a livello del giro temporale superiore (Homan et al., 2013). Gli studi si sono quindi focalizzati sull’utilizzo di rTMS a bassa frequenza o tDCS catodica su questa regione, allo scopo di ridurre l’attività corticale (Lefaucheur et al., 2017). Entrambe le tecniche hanno mostrato risultati significativi (per una meta-analisi sugli effetti della rTMS vedi Slotema et al., 2014), con effetti duraturi per un periodo di tre mesi nel caso di tDCS (Brunelin et al., 2012).

I correlati neurali della sintomatologia negativa, invece, sono costituiti da una ipofunzionalità delle aree prefrontali (e.g. Hill et al., 2004), pertanto la rTMS ad alta frequenza e la tDCS in modalità anodica sono state applicate allo scopo di aumentare l’eccitabilità corticale. Gli studi, condotti su piccoli campioni di pazienti, hanno mostrato miglioramenti nella sintomatologia negativa, associati ad un aumento della connettività tra DLPFC e la corteccia temporale sinistra (Brunelin et al., 2012; Mondino et al., 2015; Lefaucheur et al., 2017).

3.6  Craving

A livello neurale i pazienti affetti da dipendenze mostrano anomalie funzionali a livello della DLPFC, che gioca un ruolo particolarmente importante nel controllo inibitorio e nei meccanismi di ricompensa (Goldstein and Volkow, 2002; Wilson et al., 2004). I ricercatori si sono quindi focalizzati sulla stimolazione di questo network neurale sia per la rTMS ad alta frequenza, che ha mostrato una possibile efficacia per la dipendenza da nicotina, che per la tDCS, che ha ricevuto invece una valutazione di livello B (efficacia probabile) per il trattamento delle dipendenze (Lefaucheur et al., 2017). Negli studi i ricercatori hanno optato per un montaggio di tipo bi-emisferico, con anodo posizionato sulla DLPFC destra e catodo sulla sinistra, che si è rivelata efficace per la dipendenza da nicotina (Boggio et al., 2009; Fecteau et al., 2014), crack/cocaina (Batista et al., 2015)e alcol (Klauss et al., 2014).

4. Conclusione e sviluppi futuri

Come evidenziato dalle recenti revisioni e linee guida (Lefaucheur et al., 2017), le tecniche NIBS e i trattamenti tradizionali, come la psicoterapia e gli interventi cognitivi, hanno fino ad ora mostrato risultati promettenti per il trattamento dei disturbi neurologici e psichiatrici. Inoltre, le NIBS sono da tempo efficacemente utilizzate in ambito clinico, anche in fase diagnostica, e in ambito di ricerca, in cui un numero sempre più elevato di studi si sta occupando di chiarirne gli effetti. Tuttavia, è ancora poco chiaro quale sia il ruolo delle diverse aree neurali considerate come target della stimolazione e in che modo la stimolazione combinata con le terapie tradizionali possa agire sui sintomi, i meccanismi cognitivi e l’outcome comportamentale dei diversi disturbi. Questo breve articolo ha avuto lo scopo di descrivere lo stato dell’arte circa le caratteristiche delle NIBS e i dati di efficacia rispetto all’impiego di queste tecniche combinato agli interventi psicoterapeutici e cognitivi standard, che finora hanno dimostrato un’efficacia parziale. Studi futuri sono tuttavia necessari per mettere a punto protocolli di trattamento con NIBS combinate con i trattamenti tradizionali, identificando con maggiore efficacia le aree neurali target e i meccanismi cognitivi che influenzano i comportamenti e i vissuti patologici dei pazienti.

 

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