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Sexual compliance: l’associazione con l’abuso di alcol e precedenti esperienze sessuali

Capita più spesso di quanto si pensi che, quando si è ubriachi, sottoposti a pressioni, o addirittura ci si sente forzati, sia dia comunque il proprio consenso all’attività sessuale, anche se indesiderata. Uno sguardo alla sexual compliance.

 

 Desiderare di avere un rapporto sessuale e acconsentire ad averlo spesso coincidono ma, in realtà, desiderio e consenso sessuale sono due costrutti distinti. Le persone, infatti, possono acconsentire al sesso indesiderato o desiderare un rapporto sessuale a cui, alla fine, non acconsentono. Si parla di “sexual compliance” (letteralmente, conformità sessuale) in riferimento all’essere disposti ad impegnarsi in attività sessuali non desiderate. La conformità sessuale non è rara: la letteratura riporta che una percentuale variabile dal 23% al 43% dei giovani riferisce di aver acconsentito ad avere rapporti sessuali che non desideravano veramente (Katz & Tirone, 2010). Gran parte della ricerca esistente sulla teoria dei precedenti sessuali ha esaminato come ci si aspetta un rapporto sessuale ogni volta che le persone si impegnano in rapporti consensuali con partner diversi da quelli avuti in precedenza.

L’obiettivo del presente studio era estendere la ricerca sulla conformità e sul consenso sessuale, esaminando l’associazione tra precedenti sessuali e sexual compliance, utilizzando dati quantitativi derivati da un ampio campione di studenti universitari. L’ipotesi specifica era che i precedenti sessuali possano correlare con la conformità sessuale: poiché le dinamiche relazionali cambiano una volta che le persone si impegnano in attività sessuali, si è previsto che le ragioni delle persone che acconsentono ad attività sessuali indesiderate, variano a seconda che abbiano avuto precedentemente rapporti sessuali con l’altra persona. Indagando le esperienze di conformità sessuale, sono state descritte in modo esplorativo le potenziali associazioni tra precedenti sessuali, tipi di comportamenti sessuali coinvolti e piacere sessuale o esperienze di orgasmo.

Il campione finale era costituito da 7112 studenti universitari, i quali hanno completato un sondaggio online riguardante le caratteristiche sociodemografiche, i precedenti sessuali e il consenso sessuale. Per determinare se i partecipanti avevano un precedente sessuale con il loro partner più recente è stata formulata la domanda “Quante volte hai avuto rapporti vaginali o anali con questa persona?”, dicotomizzando successivamente la risposta in “almeno una volta” oppure “era la prima volta”. Per determinare se l’esperienza sessuale più recente dei partecipanti debba essere classificata come sexual compliance, è stato chiesto loro di indicare come avrebbero descritto la loro esperienza più recente. Tra le molteplici risposte, il presente studio si è concentrato solo su quei soggetti che hanno indicato di aver acconsentito ad attività sessuali indesiderate selezionando la risposta “Non volevo fare sesso ma ho accettato/detto comunque di sì”. I partecipanti che fanno parte di questo gruppo, hanno dovuto rispondere al quesito successivo, riguardante le ragioni per cui secondo loro le persone accettano esperienze sessuali consensuali ma indesiderate, scegliendo tra 12 opzioni. Inoltre, ai partecipanti è stato chiesto di segnalare le tipologie di comportamenti sessuali che si sono verificati durante la loro più recente esperienza sessuale. Ai partecipanti è stato chiesto anche: “Quanto è stato piacevole il recente atto sessuale?”, misurando le risposte in base alla presenza/assenza di orgasmo e valutando anche la possibile finzione nel raggiungimento dell’orgasmo. Infine, al campione è stato chiesto se durante il rapporto sessuale erano sobri o almeno uno dei due partner era sotto l’effetto di bevande alcoliche.

I risultati indicano che soltanto il 2,5% dei partecipanti ha riferito di non volere realmente fare sesso durante la loro più recente esperienza sessuale, ma ha comunque accettato. Le ragioni più comuni erano: “mi sentivo sotto pressione”, “volevo che smettesse di tormentarmi per il sesso”, “ero ubriaco” e “mi piace davvero questa persona e volevo compiacerla”. I precedenti sessuali sono importanti per determinare le ragioni associate all’accettazione di attività sessuali indesiderate. Nello specifico, tra coloro che avevano accettato un’attività sessuale indesiderata con il proprio partner era per compiacerlo; tuttavia, tra coloro che hanno concordato più frequentemente rapporti sessuali indesiderati con un nuovo partner, molti hanno riferito che ciò era dovuto all’abuso di alcol. Il sesso associato all’alcol, infatti, può comportare una minor sensazione di controllo e di sicurezza, nonché limita la percezione di sentimenti spiacevoli quali la mancanza di autostima e di fiducia in sé stessi e aumenta la sensazione di piacere; per questo motivo i giovani adulti si aspettano che il sesso con nuovi partner, quando si abusa di bevande alcoliche, sia più piacevole. Tuttavia, la coercizione sessuale è una preoccupazione per entrambi i tipi di relazione sessuale. Infine, la sexual compliance a nuovi partner sessuali era meno frequentemente associata a comportamenti sessuali affettuosi o all’orgasmo, sia reale che simulato. Questo deriva principalmente dal fatto che la mancanza di conoscenza l’uno dell’altro comporta un repertorio comportamentale sessuale e affettivo limitato, che non permette la sperimentazione di azioni che potrebbero aumentare la probabilità di raggiungere il piacere.

I programmi di educazione alla salute sessuale dovrebbero sottolineare che quando si è ubriachi o sottoposti a pressioni, o addirittura ci si sente forzati, è un diritto poter negare il proprio consenso all’attività sessuale, specialmente quando l’atto sessuale è indesiderato.

Tra i limiti del presente studio si riconosce che i dati sono raccolti per uno studio più ampio sulla salute e sul comportamento sessuale generale; di conseguenza sono necessarie ulteriori ricerche empiriche che si soffermino esclusivamente sul consenso alle esperienze sessuali indesiderate. Inoltre, ulteriori limiti riguardano la mancata considerazione delle differenze individuali e di genere (studi recenti affermano che sono le donne a sentirsi maggiormente obbligate a fare del sesso indesiderato) e la precisione nella misurazione dei costrutti. Infine, bisognerebbe considerare l’influenza della desiderabilità sociale sulle risposte e l’impossibilità di generalizzare i risultati ad un campione diverso da quello costituito da studenti universitari.

 

SURVEY Coronavirus: pensieri, emozioni e comportamenti nella situazione d’emergenza – Partecipa alla ricerca

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare. 

 

Fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe immaginato che le nostre vite sarebbero state stravolte in modo così radicale da un virus. Un nemico invisibile che, oltre a causare un’emergenza medico-sanitaria senza eguali, lutti ed emergenze sociali ed economiche, ha modificato molte nostre abitudini, pensieri, ed emozioni. I migliaia di contagi, la quarantena e lo stato di isolamento, le restrizioni a cui tutti dobbiamo attenerci, in molti casi, ci pongono dinnanzi a pensieri d’incertezza sul nostro presente e sul nostro futuro, che generano in noi emozioni spiacevoli e comportamenti spesso disfunzionali.

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

Per tale motivo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi si è proposto indagare quali sono i pensieri, le emozioni e i comportamenti più diffusi in questo delicato periodo.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti, ci vogliono 5 minuti per compilare il questionario ed aiutarci con la ricerca. 

E’ importante conoscere le opinioni di ciascuno di voi per riuscire a dare una risposta congrua e utile alle domande di aiuto che arrivano da più parti.

Vi saremo molto grati se riuscirete a trovare il tempo per noi!

 


La salute mentale di medici e infermieri ai tempi del Covid-19 – L’impatto psicologico della pandemia su chi lavora in prima linea

Riuscite a percepire la paura di chi è a contatto ogni giorno con una malattia come il Covid-19 ad alta morbilità e potenzialmente letale, che teme di contagiarsi o di contagiare i suoi cari? E la solitudine di chi decide, per precauzione, di isolarsi per non mettere a rischio il proprio partner, i propri bambini, i propri genitori? Tutto questo ha ripercussioni sulla salute mentale degli operatori sanitari.

 

È ormai assodato da anni che una delle categorie lavorative più a rischio di burnout sono le professioni socio sanitarie: medici, infermieri, OSS hanno maggiore probabilità di sviluppare disturbi psicologici a causa dello stress a cui sono sottoposti quotidianamente. Questo, oltre a rappresentare un importante problema di salute per il lavoratore stesso, si ripercuote sulla qualità dell’attività svolta con conseguenze negative, anche gravi, sui pazienti in carico.

Ora, provate a immaginare cosa significhi lavorare nell’health care durante l’epidemia COVID-19.

Chi sceglie una professione sanitaria sa che dovrà fare i conti con il dolore e la sofferenza di pazienti e parenti, con sentimenti di impotenza e mancanza di controllo di fronte alla malattia e alla morte, con un grosso carico emotivo da gestire. Ma probabilmente mai avrebbe pensato un giorno di trovarsi ad affrontare un’emergenza di questa portata.

I numeri in Italia sono impietosi: al 6 aprile si contano 12.681 operatori sanitari ufficialmente contagiati (dati disponibili qui), 88 medici morti (dati disponibili qui) e 25 infermieri del Sistema Sanitario Nazionale (dati disponibili qui).

Immaginate il senso di vulnerabilità dei medici di base, travolti dalle richieste di aiuto, in prima linea a visitare spesso senza DPI disponibili (es. mascherine, guanti…). Pensate allo stress degli infermieri, sotto pressione e allo stremo dopo turni sfiancanti da 12 ore; all’impotenza dei medici senza farmaci efficaci per curare l’infezione; all’angoscia di un anestesista che potrebbe dover scegliere a chi dare la precedenza in terapia intensiva (qui le raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili).

Riuscite a percepire la paura di chi è a contatto ogni singolo giorno con una malattia ad alta morbilità e potenzialmente letale, che teme di contagiarsi o di contagiare i suoi cari a fine giornata? E la solitudine di chi decide, per precauzione, di isolarsi per non mettere a rischio il proprio partner, i propri bambini, i propri genitori?

Riuscite a provare l’ansia lancinante e lo spaesamento di chi si ritrova a lavorare in un reparto non suo? O il senso di inadeguatezza di uno specializzando alle prime armi reclutato per l’emergenza?

E li sentite gli sguardi sospettosi dei vicini di casa che temono di aver accanto l’untore?

Tutti questi fattori hanno ripercussioni, anche pesanti, sulla salute mentale degli operatori. Quali?

Il 23 marzo 2020 è stato pubblicato uno studio intitolato Factors Associated With Mental Health Outcomes Among Health Care Workers Exposed to Coronavirus Disease 2019, che ha indagato gli effetti della pandemia di Covid-19 su 1.257 operatori sanitari cinesi.

I partecipanti sono stati suddivisi in “operatori in prima linea” (a contatto con pazienti con febbre alta o diagnosi COVID-19) e “operatori in seconda linea”.

Popup-Coronavirus-singoloI questionari somministrati (PHQ-9, GAD-7, ISI e IES-R) hanno rilevato la presenza di sintomi depressivi (50,4% dei soggetti), ansia (44,6%), insonnia (34,0%) e stress (71,5%). Infermieri, donne, operatori sanitari di Wuhan e operatori in prima linea sono i soggetti che hanno riportato i sintomi più severi in tutte le valutazioni. In particolare, essere un operatore sanitario in prima linea rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di gravi sintomi psicologici, tanto da suggerire di prestare particolare attenzione alla salute mentale di questa categoria.

Certamente lo studio presenta diversi limiti metodologici tra cui la breve durata (6 giorni), la mancanza di follow-up, la natura del campione (costituito in prevalenza da soggetti provenienti da Wuhan) e l’assenza di un gruppo di controllo. Ciononostante, visto l’attestato maggior rischio di burnout delle professioni health care, sembra plausibile affermare l’assoluta necessità di prevedere immediatamente un supporto psicologico per tutti gli operatori sanitari coinvolti in prima linea nella lotta alla pandemia, che li accompagni anche nel post-emergenza. Obiettivo deve essere non solo la prevenzione e il trattamento di depressione, ansia, insonnia e stress, ma anche, come suggerito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il potenziamento delle capacità di adattamento dell’operatore e la promozione dell’empowerment personale.

Bisogna infatti evitare che all’emergenza medica si sommi anche un’emergenza psicologica che andrebbe a minare ancora di più un sistema che non può permettersi che proprio chi si trova in prima linea crolli.

Sebbene chiunque, in questo periodo di emergenza, possa continuare ad accedere a percorsi di sostegno psicologico nonostante la chiusura degli studi grazie ai servizi di psicologia e psicoterapia online e telefonici attivati non solo da psicologi e psicoterapeuti privati, ma anche da scuole di psicoterapia e centri clinici come per esempio il network di Studi Cognitivi, è comunque necessario prevedere una soluzione mirata e specifica per medici, infermieri e OSS.

Per questo motivo sono state messe in campo alcune iniziative a livello nazionale sia da parte del Consiglio Ordine Nazionale degli Psicologi (Cnop) sia da parte di scuole di specializzazione in psicoterapia (es. le sedi di Studi Cognitivi Modena  e San Benedetto del Tronto), studi clinici (es. lo Studio Clinico San Giorgio), centri clinici (es. il CIP di Modena, il CIP di Milano Navigli, associazioni e società di psicologia e psicoterapia di ogni orientamento, per offrire un servizio di ascolto gratuito a medici, infermieri e personale sanitario.

Tuttavia, come ribadito anche dal Presidente del Cnop Lazzari, la solidarietà e il volontariato non bastano. Da anni infatti si auspica che la figura dello psicologo e dello psicoterapeuta entrino a pieno titolo, in maniera strutturale e strutturata, all’interno dei reparti ospedalieri a supporto del personale sanitario. Ora che siamo di fronte a un’emergenza psicologica di tale portata, è tempo per le istituzioni pubbliche di agire in tal senso, prima che sia davvero troppo tardi. Altrimenti a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori sanitari, le loro famiglie e i loro pazienti…insomma, tutti noi.

 

Coronavirus: i rischi sulla salute mentale

La rapida diffusione del coronavirus è un evento di grande portata per l’intera umanità, capace di innescare reazioni e ripercussioni psicopatologiche che potrebbero rimanere anche quando il virus verrà completamente debellato.

Analisi delle dinamiche con cui si innesca la percezione del rischio sociale

È noto come coronavirus, ma poco si sa sul suo conto, certo è che nasce alla fine del 2019 e si presenta nei primi mesi del 2020 con una forza tale da modificare la vita delle persone di tutto il mondo.

Tutto si ferma: scuole, uffici, negozi chiusi. I bollettini medici vengono verosimilmente comparati ai tempi di guerra. Di uso comune diventano i termini dei dispositivi sanitari protettivi accompagnati da una serie di norme igeniche per prevenire l’infezione virale. Fa eco il messaggio sulle relazioni sociali percepite come non più sicure. L’«altro» si rivela un pericolo per la propria sopravvivenza, per salvarsi è bene sfuggire ai rapporti interpersonali generalmente caratterizzati da sentimenti, passioni condivise, impegni sociali e professionali.

Alla luce di questo scenario sociale che coglie impreparati esperti, genitori, nonni, si diffonde la paura a sostegno della falsa credenza che «questo virus ucciderà ciascuno e tutte le persone care». Le notizie diffuse dai media e social media si presentano allarmanti, a volte discordanti dai pareri tecnici e sollecitano esperienze stressanti tali da incentivare comportamenti inappropriati o addirittura dannosi per la salute fisica e psicologica, come riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel Situation Report numero 13 sul Novel Coronavirus 2019-nCoV.

Scenari  presenti alla base di sviluppi psicopatologici

La ricerca di certezze sul futuro si rivela complessa e la paura continua a segnare le diverse fasi del tempo del Coronavirus nonché alimentare la percezione di vulnerabilità sul fronte sanitario, sociale, personale.

La paura è un’emozione che a livello umanamente ragionevole aiuta a difendersi e proteggersi. Quando questa si attiva, comporta una risposta dell’intero organismo, poiché coinvolge la componente affettiva e l’attivazione dei sistemi organici dando luogo a uno specifico al comportamento.

Facendo ricorso alle teorie classiche sul comportamento, da una prospettiva basata sul condizionamento classico, in questo periodo pandemico, i luoghi pubblici, generalmente neutri, vengono associati al rischio di contaminazione del Covid-19 con l’esito una risposta emotiva condizionata. Nell’ottica del concetto del condizionamento operante, l’evitamento protettivo dei luoghi sociali ha come effetto una conseguenza positiva e la persona tende perciò a ripetere il comportamento. Sorge la preoccupazione per il futuro e l’inevitabile esigenza di stare lontani dai luoghi pubblici a causa del rischio di contaminazione. Ciò potrebbe diventare via via un apprendimento strumentale, un’abitudine che non necessita neanche più di uno stimolo per essere operata una volta generalizzata (LeDoux, 2014).

L’esposizione dell’umanità a vissuti esperienziali stressanti di portata mondiale come le guerre, Tzunami, attacchi terroristici e pandemie, ci insegna che questi eventi catastrofici trasferiscono nella persona in modo esponenziale la tendenza a sovrastimare il fenomeno nonché generalizzare la portata del pericolo. Ad esempio, l’impatto psicologico della deprivazione sociale e l’immobilità può essere assunto, in particolare dagli adolescenti e dai giovani, come evento catastrofico, di isolamento forzato, perdita della libertà e viene vissuto come una forma di stress che causa umore depresso, sentimenti di rabbia e paura. Questi sintomi possono manifestarsi per mesi o anni sotto forma di particolare preoccupazione, pensieri, flashbacks e trasformarsi col tempo un vero e proprio Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD).

Inoltre, comportamenti di “controllo» suggeriti e messi in atto da parte di ciascuno per contenere la diffusione di massa della malattia, indicano come nella percezione del rischio sociale gioca un ruolo chiave la fiducia che le persone pongono nelle risposte risolutive della scienza. Il ritardo di risposte certe (calo dei contaggi, terapie, vaccino) deludono le aspettative di ciascuno, sostanziano il concetto d’impotenza, nonché la costruzione di credenze irrazionali come fattori di mantenimento della sofferenza sperimentata.

Di fronte alla minaccia incombente di un nemico insidioso come il Covid-19, invisibile, del tutto sconosciuto che inevitabilmente crea angoscia, la persona può trovarsi rapidamente coinvolta nel grave circolo vizioso dell’ansia, accompagnato in un secondo tempo dalla cosiddetta agorafobia. Quest’ultima, viene riconosciuta come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali risulta  difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile per esempio,un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato. In questi casi la risposta del sistema nervoso parasimpatico stimola la risposta del tipo «combattimento o fuga» piuttosto che lasciare spazio al ricorso delle capacità riflessive e logiche più evolute.

In questo scenario in cui la rappresentazione soggettiva della realtà rischia di rimanere per lungo tempo caratterizzata da pensieri, immagini o impulsi ricorrenti dettati dall’ansia, dal disgusto della contaminazione. Le cognizioni ossessive possono dare luogo a compulsioni «obbligate» di azioni ripetitive (lavaggi frequenti delle mani) mentali o materiali .

Affidarsi all’autocura

Il diffondersi velocemente dell’infezione Covid-19 è un evento che di per sé ha una portata oggettiva e razionale notevolmente importante e preoccupante per l’intera umanità, innesca reazioni che non sono comunque proporzionate al fenomeno e che potrebbero lasciare ripercussioni psicopatologiche anche quando il virus verrà completamente debellato.

Come ridurre il rischio futuro di una psicopatologia:

  • diffidare delle notizie false e contagiose;
  • valutare i rischi relativi alla comunicazione sui servizi di crittografia «end-to-end» poiché sfuggono alla sorveglianza e si rivelano molto spesso alterati;
  • informarsi sulla capacità manipolatoia delle «fake news»;
  • attingere all’informazione da fonti informative accreditate;
  • per allentare la tensione aiutarsi con piccole dosi di efficacia personale;
  • programmare la sera prima le attività della giornata successiva;
  • stabilire un orario da dedicare ai lavori in casa, alla lettura, agli esercizi fisici, all’ascolto della musica ed eventuali hobby come il disegno, l’arte, la scrittura e soprattutto curare la comunicazione virtuale dei rapporti amicali e professionali;
  • evitare tutto ciò che è passivo e che può alimentare la frustrazione;
  • affidarsi alle iniziative di supporto psicologico gratuito.

 

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività

Stern propone una distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza. Questa separazione costituisce una delle più importanti novità del suo pensiero e giocherà un ruolo fondamentale nella Teoria del cambiamento.

Il presente contributo è il terzo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern, mentre nel secondo si è parlato della Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita. Il successivo articolo verrà pubblicato nei prossimi giorni 

Tesi della distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza

La terza tesi, che mi accingo ad esporre, è forse quella che caratterizza maggiormente il pensiero di Stern. Si tratta della distinzione tra il contenuto dell’esperienza e la su forma. Per comprendere tale distinzione è necessario partire dal concetto di movimento, uno dei concetti che stanno alla base dell’ultima fase del pensiero di Stern, senza il quale è impossibile comprendere il senso delle sue riflessioni. Il movimento è per Stern ciò che caratterizza la vitalità, proprietà del mondo degli esseri animati. Esso permea sia il mondo fisico, sia la mente. L’intero mondo dei viventi, ma in particolare per Stern, il corpo umano è in continuo movimento, esso non può fare a meno di muoversi anche nei momenti in cui diciamo che è fermo (si pensi per esempio al battito cardiaco). Tale movimento può essere descritto attraverso le su proprietà dinamiche, che Stern riassume nei concetti di “movimento”, “tempo”, “forza”, “spazio”, “intenzione” (o “direzionalità”).

Anche gli stati mentali secondo Stern sono dotati di movimento, essi insorgono, permangono e svaniscono attraverso un profilo dinamico che varia di volta in volta. Possono giungere all’improvviso, svanire lentamente, durare tanto o poco, avere un andamento a salti, essere più o meno intensi e così via. L’insieme di queste proprietà dinamiche è ciò che Stern intende per “forma” della nostra esperienza. Vi sarà una forma dei nostri stati mentali e una forma del nostro comportamento fisico.

Il contenuto del nostro comportamento corrisponde, invece, a “ciò che stiamo facendo”, mentre il contenuto degli stati mentali è chiaramente “ciò che stiamo percependo, immaginando, provando…ecc.”. Vi sono dunque una forma e un contenuto degli stati mentali e una forma e un contenuto del nostro comportamento.

Forma e contenuto sono tra loro indipendenti. Può variare la forma e mantenersi costante il contenuto o viceversa. Per esempio posso provare rabbia in modo improvviso e intenso, oppure in modo lieve e continuo ecc. Oppure, sul piano del comportamento, posso alzare una mano lentamente, a scatti, con forza, debolmente…ecc. In questi esempi abbiamo mantenuto costante il contenuto e fatto variare la forma. Vediamo l’opposto. Posso avere una rabbia che cresce velocemente, oppure una gioia che cresce velocemente; posso alzare una mano lentamente oppure alzare una gamba lentamente.

Tra la forma degli stati interni e la forma del comportamento vi è un rapporto di espressione e in tal senso la dinamica del nostro pensiero si esprime nella dinamica del nostro agire. Tale rapporto di espressione consente anche la lettura della forma degli stati interni altrui attraverso la percezione del movimento del loro corpo, senza la necessità di eseguire inferenze di tipo cognitivo.

Stern ha introdotto il concetto di forma dinamica degli stati interni sin dal 1985 e nel corso degli anni ha variato i termini con i quali vi si è riferito: ne Il mondo interpersonale del bambino (1985) usa il termine “affetti vitali”, ma in altri lavori troviamo anche espressioni come “forme affettive temporali”, “profili affettivi temporali”, “involucri protonarrativi”, “profili vitali”. Nel 2010 egli intitola il suo ultimo lavoro, dedicato proprio alla forma dell’esperienza, Le forme vitali.

La separazione tra forma e contenuto dell’esperienza costituisce una delle più importanti novità del pensiero di Stern e, come vedremo, giocherà un ruolo fondamentale nella Teoria del cambiamento che esporrò nell’ultima parte di questo articolo.

Tesi dell’intersoggettività

La tesi dell’intersoggettività rappresenta la posizione che Stern assume nel panorama delle teorie della cognizione sociale. L’attuale disputa filosofica vede sostanzialmente due principali posizioni opposte: da un lato i sostenitori della “Teoria della teoria della mente” (TT) e dall’altro i sostenitori della “Teoria della simulazione della mente” (ST). Per i primi la lettura degli stati mentali altrui avviene attraverso, appunto, una teoria che consiste in un procedimento inferenziale alla migliore spiegazione che partendo dall’osservazione del comportamento degli altri conclude circa gli stati mentali che lo hanno provocato. Ecco come Gallagher e Zahavi spiegano tale posizione.

In generale, comunque, la TT pensa che comprendere le creature dotate di mente (che si tratti di noi stessi e degli altri) è un’operazione di natura teorica, inferenziale e quasi-scientifica. L’attribuzione di stati mentali è vista come un’inferenza alla migliore spiegazione e predizione dei dati comportamentali, e si sostiene che gli stati mentali sono entità inosservabili e postulate teoricamente. (S. Gallagher e D. Zahavi, La mente fenomenologica, cit. p. 261)

Il presupposto principale di tale teoria è l’idea che i nostri stati mentali e quelli degli altri non siano direttamente accessibili, né a noi né agli altri. A conferma di ciò riporto le parole di Leslie sostenitore della TT.

Poiché gli stati mentali degli altri (e anche i nostri, infatti) sono completamente nascosti ai sensi, possono solo essere inferiti. (A. M. Leslie, Children’s understanding of the mental world. In R. L. Gregory (a cura di), The Oxford Companion to the Mind. Oxford University Press, Oxford 1987, p.139)

Della Teoria della simulazione della mente (ST), invece, esistono due versioni: la teoria della simulazione esplicita e quella implicita. Alla base di entrambe vi è l’idea che la conoscenza degli stati mentali altrui avvenga attraverso una simulazione di essi nella nostra mente. Secondo la versione esplicita il processo di simulazione avviene attraverso l’immaginazione cosciente: è il soggetto che decide consapevolmente di mettersi nei panni dell’altro per poi leggere attraverso l’introspezione i propri stati e attribuirli all’altro. Ecco come Goldman (2005) esprime tale processo:

Prima di tutto, l’attributore crea in se stesso degli stati fittizi con lo scopo di corrispondere a quelli di colui che vuole comprendere. In altre parole, l’attributore tenta di mettersi nei “panni mentali” della persona di riferimento. Il secondo passo è di nutrire di questi stati fittizi iniziali (per esempio credenze) qualche meccanismo della psicologia dell’attributore stesso […] e consentire che tale meccanismo operi sugli stati fittizi così da generare uno o più stati (per esempio, decisioni). Terzo, l’attributore assegna alla persona lo stato generato […]. (A. Goldman, Imitation, mind reading and simulation. In Hurley, S., Chater, N. (a cura di), Perspectives on Imitation II. MIT Press, Cambridge 2005, MA, pp. 80-81)

Il presupposto fondamentale di questa versione della ST è che attraverso l’introspezione il soggetto possa cogliere i propri stati mentali.

La versione implicita della ST, invece, spiega la nostra capacità di leggere gli stati mentali altrui attraverso un meccanismo di simulazione implicito. In particolare, secondo la versione di Gallese, si tratta di un meccanismo subpersonale di rispecchiamento motorio possibile grazie alla presenza dei neuroni specchio: particolari neuroni che si attivano sia quando noi eseguiamo un’azione sia quando vediamo la stessa azione eseguita da un altro. In questo senso percepire il movimento del corpo altrui implica già il simulare dentro di noi le emozioni, le intenzioni e gli altri stati mentali che stanno alla base di quel comportamento. Ecco come Gallese spiega tale meccanismo:

Ogni volta che guardiamo qualcuno compiere un’azione, oltre all’attivazione di alcune aree visive, si assiste alla contemporanea attivazione di quei circuiti motori che entrano in gioco quando siamo noi stessi a compiere l’azione. […] Il nostro sistema motorio diventa attivo come se stessimo eseguendo quella medesima azione che stiamo osservando. […] osservare un’azione comporta simulare quell’azione […] il nostro sistema motorio comincia a simulare l’azione dell’agente osservato. (V. Gallese, The “shared manifold” hypothesis: From mirror neurons to empathy. In Journal of Consciousness Studies, 8 (2001), pp. 37-38)

Tale rispecchiamento avviene a nostra insaputa senza che sia necessario decidere di mettersi coscientemente nei panni dell’altro. L’unica condizione necessaria è che si percepisca in qualche modo il movimento del corpo altrui (anche solo il suono prodotto da una particolare azione può attivare la simulazione motoria). Di seguito le parole con cui Gallese spiega questo aspetto.

Ogni volta che affrontiamo situazioni nelle quali l’esposizione al comportamento altrui ci richiede una risposta, sia essa attiva o semplicemente di tipo attentivo, raramente ci impegniamo in un atto interpretativo esplicito e deliberato. La nostra comprensione della situazione per la maggior parte del tempo è immediata, automatica e quasi come un riflesso. (V. Gallese, “Being like me”: self-other identity, mirror neurons and empathy. In Hurley, S., Chater, N. (a cura di), Perspectives on Imitation I. MIT Press, Cambridge 2005, MA, p. 102)

La versione della ST implicita è proprio la posizione sposata da Stern. Essa pur non esaurendo la sua teoria dell’intersoggettività ne costituisce una fondamentale premessa.

Vediamo ora di ricostruire tale tesi attraverso le parole di Stern.

Noi siamo in grado di “leggere” le intenzioni degli altri e di sentire nel nostro corpo le loro stesse sensazioni ed emozioni. E ciò non in qualche forma mistica, ma osservandone il volto, i movimenti e la postura, ascoltandone il tono della voce, e rilevando il contesto presente del loro comportamento. (D. N. Stern, Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana, cit. p. 63)

osservando le espressioni facciali, la postura e movimenti degli altri, possiamo sperimentare all’istante qualcosa di assai simile a ciò che essi stanno provando. […] Le espressioni affettive raccontano i nostri pensieri e le nostre esperienze. Lo stesso vale per i gesti e i movimenti degli altri: possiamo sentire noi stessi muoverci in quel modo. Lo sentiamo nel nostro corpo e lo percepiamo nella nostra mente, insieme. (Ivi, p. 64)

È interessante sottolineare come in questi passaggi si senta fortemente l’influsso delle nuove scoperte neuroscientifiche. Ecco la conferma di ciò in un passo tratto da Stern (2004).

Il nostro sistema nervoso è costruito per “agganciarsi” a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle. Disponiamo di una sorta di canale affettivo diretto con i nostri simili, che ci consente di entrare in risonanza con loro, di partecipare alle loro esperienze e di condividere le nostre. (Ibidem)

In questo ultimo passaggio, Stern fa chiaramente riferimento al meccanismo implicito di rispecchiamento neurale che sta alla base della relazione interpersonale, possibile grazie alla presenza dei neuroni specchio.

Nel rifiutare il modello di cognizione sociale di stampo cognitivista (TT), Stern abbraccia ancora una volta alcune tesi del pensiero fenomenologico. Con il noto concetto di “mente incarnata” tale corrente filosofica mina alla base una convinzione che da Cartesio è giunta sino a noi e che ancora echeggia in alcuni ambiti della nostra cultura, mi riferisco alla distinzione sostanziale tra mente e corpo. L’isolamento della mente dal corpo fa degli stati mentali un fatto privato, non visibile dall’esterno e conoscibile solo attraverso un’ipotesi probabilistica effettuata per mezzo di un’inferenza cognitiva. Il concetto di “mente incarnata” invece rende il mentale presente e “visibile” nel corpo e quindi condivisibile a livello implicito e immediato nella relazione interpersonale.

Stern, però, sembra volersi spingere ancora oltre. A suo parere i dati neuroscientifici relativi ai meccanismi di rispecchiamento motorio non sono ancora sufficienti per giustificare un’importante caratteristica dell’intersoggettività: la bidirezionalità.

I dati emersi fin qui sembrano applicarsi a un’intersoggettività di tipo unidirezionale (“Io so che cosa stai provando”), ma che dire dell’intersoggettività vera e propria, bidirezionale? Ci troviamo di fronte a un’evidente ridondanza (“Io so che tu sai che io so che cosa stai provando”, e viceversa), che richiede un passo ulteriore. Forse i meccanismi di cui abbiamo parlato finora non sono sufficienti in questo caso. (Ivi, p. 68)

Non solo noi siamo in grado di “leggere” le menti degli altri attraverso un processo di simulazione implicito, ma avvertiamo anche e contemporaneamente che l’altro colga questa nostra lettura su di lui.

Perché vi sia piena intersoggettività bidirezionale, occorrono almeno due “letture” dell’altro. La prima consiste nel conoscere l’oggetto dell’esperienza dell’altro; la seconda, nel conoscere il modo in cui l’altro sta facendo esperienza della nostra esperienza di lui. (Ibidem)

Percepire l’altro di fronte a noi è già, immediatamente, simulare in noi i suoi stati mentali avendo contemporaneamente la conferma implicita che egli avverta questa condivisione. Questo è quello che Stern chiama bidirezionalità dell’intersoggettività.

La teoria dell’intersoggettività sterniana, tuttavia, non è ancora completa. Stern infatti non solo ammette la possibilità di una condivisione diretta, implicita e bidirezionale degli stati mentali, ma vuole giungere persino a mettere in discussione la “proprietà” stessa di questi stati.

Da queste considerazioni emerge un modo intersoggettivo, nel quale le nostre menti non sono più così indipendenti, separate e isolate, in cui non siamo più i signori e custodi della nostra soggettività. (Ivi, p. 64)

Un conto è ammettere che i miei stati mentali siano condivisibili con i tuoi e un conto è affermare che gli stati mentali non siano né miei né tuoi, ma originariamente nostri. Secondo Stern, infatti, non vi sono stati mentali che inizialmente appartengono ad un soggetto e che in un secondo tempo condividerà con gli altri, ma vi è una vera e propria co-creazione degli stati mentali.

[…] la differenza tra ciò che è nostro e ciò che appartiene agli altri non sempre è così netta. Tutto quanto pensiamo, sentiamo e desideriamo è influenzato dai pensieri, dai sentimenti e dalle intenzioni che percepiamo negli altri, in un dialogo incessante (reale o virtuale). (Ivi, p. 65)

In breve la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice intersoggettiva. (Ivi, p. 64)

Tale convinzione, che potremmo definire del “primato dell’intersoggettività sulla soggettività”, costituisce un’inversione di ciò che sostiene il senso comune. Al modello di pensiero secondo il quale un individuo forma dei propri stati mentali e in un secondo tempo, eventualmente, li esprime, condividendoli con gli altri, Stern oppone l’idea che l’intersoggettività preceda la soggettività e ne costituisca una condizione necessaria. In questa prospettiva, la soggettività dell’individuo si forma grazie alla co-creazione di una mente condivisa ed in seguito ad essa.

In passato, eravamo soliti pensare all’intersoggettività come a una sorta di epifenomeno che si manifesta occasionalmente quando due menti separate e indipendenti interagiscono. Ora è giunto il momento di considerare la matrice intersoggettiva, nella nostra visione della cultura e della psicoterapia, come il crogiolo imprescindibile da cui evolve la mente dell’individuo.

Le due menti creano l’intersoggettività e l’intersoggettività modella le due menti. Il centro di gravità si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo. (Ivi, p. 66)

L’idea di una mente senza confini, quasi collocata in un luogo neutrale rispetto ai soggetti implicati, in Stern, può reggere solo se accostata alla tesi di una precoce e definitiva differenziazione che si gioca a livello nucleare. Secondo Stern, infatti, il bambino dopo i due mesi percepisce già sé stesso e la madre come due entità fisiche distinte e questo traguardo segna la comparsa del senso del Sé nucleare che non abbandonerà più il bambino per tutta la sua vita. Tale tesi sullo sviluppo contraddice una convinzione del modello psicoanalitico di Mahler e colleghi (Mahler, Pine, Bergman, 1975) secondo la quale il bambino vivrebbe gran parte dell’infanzia sprofondato prima in uno stato di indifferenziazione, detto di autismo normale, e poi in un rapporto simbiotico con la madre. Sempre secondo questo modello egli uscirà da tale stato di simbiosi attraverso un processo di differenziazione e ricerca di un’autonomia. Secondo la teoria di Stern invece la percezione del bambino di una differenziazione fisica con la madre inizia proprio nei primissimi mesi di vita. Solo sulla base di tale separazione fisica può innestarsi la condivisione mentale descritta sopra. Le due prospettive, quella psicoanalitica e quella sterniana, vedono il bambino, nello stesso periodo dello sviluppo, impegnato in due compiti opposti: per la psicoanalisi egli è in una fase di separazione e differenziazione, per Stern è invece in una fase di fusione mentale che avviene attraverso una condivisione intersoggettiva degli stati mentali.

La co-creazione di una mente condivisa che precede la soggettività del singolo è chiamata da Stern “matrice intersoggettiva”. Ecco le parole di Stern.

Viviamo circondati dalle intenzioni, dai sentimenti e dai pensieri degli altri, che interagiscono con i nostri, al punto che la differenza tra ciò che è nostro e ciò che appartiene agli altri non sempre è così netta. […] In breve, la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice intersoggettiva. (Ivi, p. 65)

Infine, per completare la tesi dell’intersoggettività sterniana è necessario soffermarsi su un ultimo aspetto. L’intersoggettività secondo Stern non è solamente una condizione necessaria allo sviluppo dell’umanità di un individuo, ma costituisce propriamente un sistema di motivazione fondamentale, al pari del sesso e dell’attaccamento.

L’intersoggettività è condizione di umanità. La tesi […] è che sia inoltre un sistema motivazionale innato ed essenziale alla sopravvivenza della specie, con uno status comparabile al sesso o all’attaccamento. (Ivi, p. 81)

Perché si possa parlare di sistema motivazionale di base è necessario che si tratti di una tendenza innata e universale degli individui di una specie che ne favorisca la sopravvivenza e che abbia un canale preferenziale per l’organismo. Deve essere inoltre possibile una regolazione di essa in base alle necessità. L’intersoggettività contribuisce alla sopravvivenza della specie attraverso la formazione di gruppi, il loro funzionamento e la loro coesione. Quello di un riscontro intersoggettivo che consenta una condivisione dei propri stati mentali è un bisogno fondamentale che ogni uomo cerca di soddisfare sin dai primi giorni di vita. La prima forma di intersoggettività, detta “intersoggettività primaria” (Trevarthen, 1974, 1979, 1980, 1988, 1993, 1999; Trevarthen, Hubley, 1978) compare già nel primo mese di vita, mentre una seconda forma, detta “intersoggettività secondaria” comparirà dopo i nove mesi. Questo fa pensare che si tratti di un’esigenza innata. Circa la sua universalità, Stern si limita ad osservare quanto segue:

[…] non riesco ad immaginare una società in cui questa capacità non venga usata, in qualche modo, a fini adattivi. (Ibidem)

Infine, l’intersoggettività è regolabile ai fini di evitare due pericolosi estremi: la solitudine cosmica e la fusione che implica il disfacimento del sé.

Il sistema motivazionale intersoggettivo regola la zona di benessere intersoggettivo compresa tra i due poli. (Ibidem)

In conclusione riporto le parole di Stern che indicano in modo chiaro il ruolo che egli attribuisce al fenomeno dell’intersoggettività ed in generale alla relazione interpersonale nell’economia dell’esistenza di un individuo.

In un certo senso, abbiamo bisogno di incontrare lo sguardo dei nostri simili per formarci come individui e mantenerci tali. (Ibidem)

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

Coronavirus e psicoanalisi: dall’emergenza alla riflessione

Momenti di crisi ed emergenza, come quella sopraggiunta con il diffondersi del Covid-19, sconvolgono la nostra quotidianità e si impongono con forza all’interno dei nostri vissuti, mettendo a dura prova la nostra resistenza e le nostre difese.

 

La mancata introspezione delle dinamiche che hanno luogo all’interno dei tessuti più profondi della mente può esacerbare queste difficoltà e condurre, così come è avvenuto nella nostra Nazione, a mettere in scena comportamenti che drammatizzano, sul palco della vita reale, scenari che si svolgono all’interno del proprio mondo psichico.

Le condotte agite dal singolo e dalla collettività (veri e propri acting out della vita quotidiana) si prestano ad esser lette come dovute ad una difficoltà di tenuta dell’assetto psichico di fronte ad un evento che, non rientrando in nessuno degli schemi mentali già in nostro possesso, richiede un accomodamento di tali strutture per consentirne l’inscrizione al suo interno.

Il nemico invisibile e inesorabile che stiamo affrontando, e che per via dei suddetti connotati si è così offerto ad acquisire le vestigia di un oggetto persecutore, non sembra aver slatentizzato psicopatologie latenti (o almeno dovremo aspettare del tempo prima di poter avere dati al riguardo), quanto piuttosto aver fatto leva su quel disagio psichico che soggiace in ognuno di noi, inducendo risposte disadattive nell’affrontare tale evento.

Queste modalità sono inquadrabili lungo l’asse, ipotizzato da Freud, di un continuum tra normalità e patologia, dove le differenze risultano essere di ordine quantitativo piuttosto che qualitativo; asserendo ciò Freud voleva evidenziare come in tutti siano presenti i germi di quei fattori che poi, moltiplicandosi come batteri di una flora alterata, conducono al manifestarsi di una psicopatologia.

Nessuno è immune dall’albergare, dentro di sé, conflitti inconsci.

Il momento di crisi non ha fatto altro che far emergere molti di quei complessi irrisolti che soggiacciono nell’inconscio e che sempre fanno sentire la loro influenza ma che, in un momento come quello che stiamo vivendo, vengono posti in risalto o acuiti.

Secondo quanto riportato dalle stime del Viminale, le denunce per inflazione delle restrizioni imposte sono più di 130.000; un numero che non può non farci chiedere che cosa abbia indotto queste persone a venir meno alle indicazioni e obblighi imposti dagli esperti.

Da questi dati si evince una profonda difficoltà nel dare un nuovo ordine alle proprie esigenze e priorità, una non tenuta del proprio principio di realtà e di contenimento offerto dalle capacità di pensiero, nei confronti del principio di piacere, con un conseguente impedimento nel far prevalere il bene della collettività rispetto al proprio.

Come scrive Freud in Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, l’unico scopo del primo principio, che nell’infanzia dominava il nostro apparato psichico, è quello di adoperarsi al fine di ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni e desideri ed evitare il dispiacere senza badare alle conseguenze. Con l’instaurarsi, poi, all’interno dello stesso apparato, anche del principio di realtà, sorto proprio con la necessità di fare i conti con le reali condizioni imposte dal mondo esterno, l’io ha dovuto rinunciare all’immediato soddisfacimento in un’ottica di utile che mirasse a garantire un piacere più sicuro e duraturo, che tenesse conto delle necessità e divieti imposti dalla realtà.

Il principio di realtà può ritenersi come la base di ciò che è definibile “civile” all’interno della strutturazione di una personalità e nella sua instabilità si rileva anche una falla nel processo di maturazione dell’io, che ne risulta così intaccato in termini di forza e struttura.

Ogni situazione avvertita come difficile e pericolosa ha la capacità di indurre, all’interno del nostro apparato mentale, una regressione a stadi di sviluppo precedenti e il ritorno a un utilizzo maggiore di meccanismi di difesa più primitivi. La condizione da noi vissuta non fa eccezioni. Migliaia sono state le persone che hanno affollato treni e stazioni nella corsa per tornare verso i propri cari, mettendo in atto una negazione degli avvertimenti e delle conseguenze di questo comportamento.

Si è così evinta una problematicità nella capacità di “reggere la situazione”, di cui parlava Winnicott; questa è un’acquisizione di cui l’individuo si rende capace col tempo, grazie all’introiezione del sommarsi delle esperienze positive nel periodo infantile, in cui era la madre a sostenere i momenti di tensione del e per il bambino. Queste introiezioni, che diventano così parte dell’io e del mondo interno, permetteranno all’individuo, una volta divenuto adulto, di essere in grado di reggere la situazione per qualcun altro senza risentimento.

In un’ottica dinamica, osserviamo come le routine possano offrire un senso di sicurezza al sentimento di continuità del sé e valutiamo le difficoltà incontrate dalle persone ad abbandonare abitudini non in linea con le disposizione del ministero della pubblica sicurezza, quali la passeggiata al parco o la corsetta in città, come una fragilità dell’io che non può fare a meno di munirsi di tali espedienti per mantenere un’illusione di tenuta.

Allo stesso modo gli slogan e i motti ripetitivi creati durante questo periodo, come ad esempio “andrà tutto bene”, “uniti ce la faremo” ecc., sono sorti con lo stesso criterio difensivo.

Parole e modi di dire ricorrenti, di cui tutti abbiamo fatto esperienza nella nostra esistenza, sembrano sorgere in momenti in cui sentiamo minacciata la nostra identità e svolgere una funzione di ponteggio a sostegno del sé. Così, le espressioni sopracitate sono diventate motti emotivi a cui legarsi per farsi forza, testimoni non solo di un vacillare individuale, ma dell’intera identità nazionale messa a dura prova dalle implacabili conseguenze portate a livello sociale, lavorativo ed economico dal virus.

Inoltre, la lettura transferale, attraverso cui possiamo commentare le modalità di risposta alle indicazioni e agli obblighi delle autorità, rileva ancora una volta la presenza di conflitti inconsci insoluti.

La disobbedienza manifestata verso l’autorità e una certa coloritura erotica, mai espressa prima all’interno di alcuni post sui social media nei confronti del presidente del consiglio Giuseppe Conte, rimandano a situazione edipiche irrisolte.

Configurazioni siffatte conducono, inevitabilmente, alla mancata integrazione di un super-io all’interno della strutturazione psichica che funga da guida nel processo di assunzione di responsabilità di sé stessi e delle proprie condotte, ma all’instaurarsi, invece, di un superi-io avvertito come duro e inflessibile, poiché immaturo nell’accogliere i bisogni dell’individuo (Loewald, 1979). A conferma di ciò, inoltre, vi è la constatazione da parte di molti di vivere tali misure precauzionali come punitive piuttosto che di presa in carico nei confronti della propria e altrui salute.

Non per ultima, la corsa ai supermercati, verificatasi ad ogni prima comunicazione su future restrizioni, rivela il venir meno di ciò che Bion definiva “capacità negativa”, un’incapacità di tollerare il dubbio e la frustrazione di fronte alle iniziali e più vaghe comunicazioni, nell’attesa di ulteriori chiarimenti sulla realizzazione attuativa dei provvedimenti, la quale ha sospinto, durante più notti, molte persone a riempire quello spazio creato dal dubbio con scorte alimentari accaparrate affollando le corsie dei supermercati.

Molteplici sono le letture che si potrebbero offrire ai diversi comportamenti presi in considerazione, ma è proprio questa moltitudine di possibilità dinamiche che deve spingere il nostro sistema sanitario e governativo a prendere atto della salute (psicologica) dei suoi cittadini, provvedendo alla possibilità che ogni individuo possa interfacciarsi, nel corso della sua vita, con un professionista della salute mentale.

Momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo, non possono non evidenziare con forza come negli esseri umani giochino un ruolo fondamentale le emozioni e di come comportamenti e decisioni seguano una logica della psiche che non sempre coincide con quella più razionale e comprensibile.

La sanità pubblica ha bisogno di rivolgere lo sguardo verso quelle realtà dove tali misure sono già state avviate e di osservare come ciò abbia radicalmente modificato i dati in termini di spesa pubblica, criminalità e welfare, poiché, parafrasando quanto detto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), non può esservi salute lì dove manchi la salute mentale.

 

“Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus”: intervista a un grande esperto nell’ambito delle neuroscienze, il Prof. Massimiliano Oliveri

Come da più fonti viene messo in luce, l’attuale emergenza Coronavirus, sta suscitando una giustificata paura e ancor di più una risposta di angoscia tra la popolazione, per tutto ciò che la stessa sta stravolgendo e comportando in diversi settori.

 

Solo per citarne alcuni: vita privata, abitudini, modalità di condurre il proprio lavoro e di interagire con l’altro, e paure, paure per le proprie risorse finanziare, per la propria incolumità e per quella dei propri cari, paura di poter contrarre il virus e relative conseguenze.

Ma se la paura da una parte, in questo preciso momento, è legittimata e giustificata, dall’altra parte la stessa interferisce con la buona risposta del nostro sistema immunitario. Scopriamo perché e cosa fare allora attraverso le parole del Prof Massimiliano Oliveri, grande esperto nell’ambito delle neuroscienze.

Chi è Massimiliano Oliveri

Neurologo, Professore Universitario di Neuroscienze Cognitive all’Università degli Studi di Palermo, Massimiliano Oliveri (Fig. 1) si occupa di ricerca nell’ambito della neuroriabilitazione, è CEO di Neurotim, una start up innovativa che fornisce servizi clinici e prodotti innovativi di neuroriabilitazione cognitiva, autore di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali in ambito delle neuroscienze cognitive e inserito nella lista dei top italian scientist.

Emozioni e ragione ai tempi del coronavirus Intervista al Prof Oliveri Fig 1

Fig. 1 – Prof. Massimiliano Oliveri

Al Prof. Massimiliano Oliveri ho voluto proporre il seguente tema:

Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus. Situazione attuale e possibili risvolti futuri.

Il Prof. Massimiliano Oliveri, durante l’intervista, ci spiega come il tema proposto sia in realtà un argomento molto attuale e di forte interesse anche per le neuroscienze per diverse ragioni, per tutto ciò che attiene al controllo delle emozioni e soprattutto emozioni di paura e angoscia che proprio in questo momento sono presenti nella popolazione generale, portate anche dalla condizione sociale di isolamento, dall’essere esposti a tutta una serie di informazioni circa il numero di contagiati e decessi, dalla crisi del sistema sanitario, crisi economiche e finanziarie, ma c’è un altro filone di interesse delle neuroscienze ed è quello relativo al controllo della risposta immunitaria della popolazione, la cosiddetta neuroimmunologia.

Prendiamoli in esame separatamente.

Per ciò che attiene il controllo delle emozioni la strategia migliore da un punto di vista delle neuroscienze e quindi del cervello, è quella di attivare dei meccanismi “prefrontali” ossia di attivare una parte del cervello molto anteriore che è coinvolta in compiti di memoria a breve termine, working memory, pianificazione, strategia, soluzione di problemi.

Tenere impegnata la mente, soprattutto in queste operazioni, specialmente con materiale verbale avente a che fare con parole, lettere o numeri, ci spiega il Professore, contribuisce ad abbassare i livelli di attivazione di regioni più profonde del cervello più associate ad emozioni di paura, come ad esempio l’amigdala. Il suggerimento dunque che giunge dalle neuroscienze è quello di impegnarsi in attività che potrebbero essere anche giochi, i cosidetti “serious game”, ma anche videogiochi, seppur usati con moderazione, che stimolino alla risoluzione di problemi, ed ancora attività come quelle proposte e presenti per intenderci, nella settimana enigmistica (anche digitalizzata).

Per ciò che riguarda invece il secondo aspetto sopracitato, ossia l’aspetto neuroimmunologico, c’è in corso tutto un filone di ricerca molto serio di cui si sta occupando il Professore in questi giorni, che evidenzia la presenza di asimmetrie cerebrali nel controllo del sistema immunitario. Sembrerebbe che la parte sinistra del nostro cervello, quella associata al linguaggio, all’elaborazione matematica o all’esecuzione di gesti, abbia un maggiore controllo sulle risposte immunitarie, guarda caso su quella parte della risposta immunitaria, l’attivazione dei linfociti, che è particolarmente colpita dal Covid-19. Da qui una serie di strategie già testate in precedenza non soltanto su animali ma anche su soggetti umani e tra l’altro testati dalla medicina cinese, che in questo senso è andata molto avanti, e forse non a caso, ipotizza Massimiliano Oliveri, il successo nel trattamento della crisi epidemica in Cina precede quello europeo e non soltanto in termini temporali. La strategia potrebbe essere dunque, quella di potenziare l’attività di regioni dell’emisfero sinistro ancora una volta, come detto prima, con compiti verbali che hanno a che fare con strategie verbali come ad esempio calcoli, lettere, numeri, giochi di memoria.

Questa situazione ci segnerà emotivamente anche quando tutto questo sarà finito?

Anche in questo caso l’ipotesi del Prof Oliveri è che questa situazione possa lasciare una condizione di disregolazione emotiva legata a temi di paure e di angoscia, come ad esempio la paura del contagio che potrebbe avere una lunga coda e sarà compito dei professionisti della salute mentale, sottolinea il Prof. Massimiliano Oliveri, trovare nuove modalità di gestione di queste nuove emozioni. D’altra parte, lavorare su tematiche legate al contenimento dell’infezione, della pulizia, del comportamento del lavaggio delle mani, rischia di creare nuove generazioni di nevrotici-ossessivi; se da una parte si tratta di condotte del tutto adeguate in questo momento, in futuro andranno contenute in una logica di sanità mentale e funzionalità, senza prendere derive eccessive.

Consigli e suggerimenti da un punto di vista delle neuroscienze:

L’intervista si conclude cercando di riepilogare insieme al Professore possibili consigli, attività e strategie da applicare e spendere in questo momento.

Primo suggerimento del Prof. Massimiliano Oliveri è quello di provare a non avere paura attivando le migliori strategie di controllo delle emozioni, quelle che ognuno ha disponibili o farsi aiutare da uno psicologo e psicoterapeuta anche a distanza, attraverso i canali online.

Ci ricorda infatti il Professore, come spiegato all’inizio dell’intervista, che la paura, essendo sotto il controllo dell’emisfero destro, se eccessiva può interferire con la funzionalità del nostro sistema immunitario.

Il secondo suggerimento, infine, è quello di potenziare l’attività delle regioni dell’emisfero sinistro, mediante strategie verbali come: letture, rebus, cruciverba, giochi, videogiochi soprattutto quelli che richiedono l’attivazione di strategie di problem solving.

 

EMOZIONI E RAGIONE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AL PROF. MASSIMILIANO OLIVERI

 

Il tempo e il corpo: il valore dell’ “esperienza incarnata” o Embodied experience nella percezione del tempo

Un recente studio utilizza l’embodied experience per verificare l’ipotesi che, tramite la manipolazione di una stimolazione sincrona o asincrona, si possa alterare la percezione del tempo.

 

Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività.

Questo celebre aforisma, attribuito ad Albert Einstein, ci ricorda come nella nostra vita quotidiana lo scorrere del tempo non sia sempre uguale, bensì costituisca un’esperienza connotata soggettivamente dalle fluttuazioni nei nostri stati interni, come potrebbero esserlo in questo caso la temperatura o le emozioni di cui stiamo facendo esperienza.

L’esperienza cosciente del trascorrere del tempo, immanente nell’attività del nostro sistema nervoso che registra la scansione dello stesso e delle sue variazioni situazionali, ha fatto sì che alcuni autori suggerissero che si potesse palare di embodied time (n.d.t: tempo incarnato o basato sul corpo; Droit-Volet, 2014; Wittman 2014).

Facendo riferimento alla cornice teorica dell’Embodied cognition, si postula che le cognizioni di un soggetto siano influenzate tanto dall’attività della mente quanto dagli aspetti del nostro corpo che traducono il nostro essere-nel-mondo, quali il sistema motorio, il sistema percettivo e la nostra interazione con l’ambiente circostante (situadedness = l’essere collocati nello spazio e nel tempo attuali).

Un esempio, può essere quanto riscontrato dagli studi sugli effetti della Mindfulness, un insieme di pratiche meditative che focalizzano l’attenzione sul corpo, le quali non alterano solamente la consapevolezza circa corpo in sé, ma anche le valutazioni circa lo scorrere del tempo (Droit-Volet & Dambrun, 2019; Droit-Volet et al., 2019); altri studi, hanno evidenziato inoltre come i soggetti che avessero un’alta consapevolezza dei propri segnali corporei (nella fattispecie nel discriminare i propri battiti cardiaci), fossero anche più precisi nella percezione temporale (Meissner & Wittmann, 2011).

Di recente, Droit-volet e colleghi (2020) si sono serviti del paradigma dell’out-of-body illusion, per alterare la percezione di consapevolezza corporea e valutare gli eventuali effetti della stessa sull’accuratezza nella percezione temporale dei soggetti: tale illusione avviene quando vengono fatti coincidere sperimentalmente l’informazione visiva ed un’esperienza propriocettiva congruente con la stessa, tale per cui la logica deduzione alla quale arriva la nostra mente è che l’azione sia stata compiuta sul corpo che essa percepisce come proprio.

Questo paradigma sperimentale è l’evoluzione della celebre illusione della mano di gomma o Rubber Hand Illusion (RHI), più volte citata tra le nostre pubblicazioni; in questo caso, mediante un visore di Realtà Virtuale, il soggetto volge lo sguardo verso il basso, dove si trova il proprio corpo e il proprio braccio, mentre l’immagine che gli viene restituita è quella relativa al corpo di un manichino (posto dietro di lui nella stanza) visto dalla stessa prospettiva in prima persona, sul quale vengono effettuate delle azioni, come in questo caso stimolazioni di diverso genere applicate sul braccio corrispondente (Ehrsson, 2007).

È stato dimostrato in letteratura come l’out-of-body illusion, ovvero la percezione che il corpo del manichino appartenesse a loro stessi, avvenisse più spesso quando la stimolazione osservata sul braccio del pupazzo avveniva in maniera sincrona rispetto a quella esercitata sul braccio reale del soggetto; nella condizione asincrona invece, era presente un mismatch percettivo che contrastava l’insorgere dell’illusione e conseguentemente della credenza che quel braccio osservato fosse il proprio (Petkova & Ehrsson, 2001; Schmalzl & Ehrsson, 2011).

Basandosi sull’ipotesi che l’autoconsapevolezza associata alla percezione senso-motoria siano due fattori critici nella percezione del trascorrere del tempo, l’ipotesi degli autori era che manipolandole sperimentalemente con una stimolazione sincrona o asincrona, vi sarebbero state conseguentemente delle differenze nella percezione temporale dei soggetti.

I quarantasette partecipanti all’esperimento, dovevano pertanto giudicare un intervallo di tempo intercorso tra due stimolazioni presentate sul braccio del manichino, esprimendo verbalmente la stima della durata della stessa in termini di secondi (variabile da 4 a 8 secondi), dopo che fosse stata elicitata o meno l’out-of-body illusion: ogni partecipante è stato cioè sottoposto per tre volte alla stimolazione sincrona (fortemente elicitante) o asincrona (scarsamente elicitante) in ordine randomizzato, chiedendo che venisse espresso il grado di out-of-body experience percepita su di una scala a nove passi da “per niente” a “totalmente”. A seguire veniva mostrata la stimolazione target sul braccio del manichino, della quale si dovesse stimare la durata. Inoltre il tipo di stimolazione poteva essere di natura piacevole, ovvero effettuata con un pennello dalle setole soffici, oppure sgradevole, per la quale si è scelto di utilizzare uno strumento pericoloso come la punta di un coltello affilato.

Gli autori hanno calcolato l’errore temporale standardizzato, come la differenza tra la stima temporale espressa dal soggetto e l’effettiva durata della stimolazione sul braccio del manichino, diviso per la durata effettiva: un errore standardizzato più grande di zero avrebbe reso conto di una sovrastima da parte del soggetto, mentre un valore inferiore a zero indicherebbe una sottostima della durata.

Coerentemente con i risultati presenti in letteratura, anche in questo caso i soggetti riportavano più spesso il successo della out-of-body illusion dopo essere stati sottoposti ad una stimolazione preliminare sincrona, mentre, contrariamente alle aspettative degli autori basati su ricerche precedenti, non si sono riscontrate invece differenze sull’efficacia dell’illusione in presenza dello stimolo piacevole piuttosto che di quello sgradevole. L’intervallo di tempo veniva in effetti valutato come più lungo nella condizione sincrona che non in quella sincrona; infine, quando nel modello venivano presi in considerazione tutti i fattori, l’unico predittore dell’accuratezza circa la durata temporale appena osservata era la forza con la quale il soggetto sentiva la out-of-body illusion (p < .001), dove la valenza dello stimolo e la condizione sincrona o asincrona divenivano non significativi.

I risultati ottenuti dimostrano il ruolo chiave dell’esperienza di embodiment nel modulare la percezione dello scorrere del tempo; studi futuri potrebbero integrare questo paradigma sperimentale con la rilevazione di indici fisiologici come la conduttanza cutanea per verificare l’effettiva risposta emotiva agli stimoli utilizzati, che per esempio sono risultati irrilevanti in questo studio, forse perché non percepiti come realmente spiacevoli. Oppure, si potrebbero raccogliere indici dell’attività cerebrale come ad esempio la risonanza magnetica funzionale (fMRI), mediante la quale in altre ricerche (vedi Ehrsson et al., 2004) si è già ottenuta una misura del successo della rubber hand illusion, rilevando l’attività insita nella corteccia premotoria, che sembra essere il meccanismo neurale mediante il quale le esperienze somatiche vengono attribuite al sé.

 

Adattamento creativo al “coronavirus”

Le idee luminarie della terza forza della psicologia: la psicologia umanistica, con un accenno cardinale alla psicologia della Gestalt nella delineazione alla reazione ad uno stato di “emergenza”.

 

Avete mai sentito parlare della teoria della patata? L’ideatore fu Carl Rogers; egli osservò il comportamento delle patate nella credenza buia di casa sua e notò che:

nonostante le condizioni erano sfavorevoli, le patate iniziarono a germogliare: germogli bianchi e pallidi, molto diversi da quelli salutari e verdi prodotti quando erano piantate per terra a primavera. Ma questi tristi, spinosi germogli crebbero di 2 o 3 piedi di lunghezza, tanto da raggiungere la luce lontana della finestra. I germogli erano, nella loro crescita strana e futile, una sorta di espressione disperata della tendenza direzionale che io sto descrivendo. Non sarebbero mai diventate piante, non sarebbero mai maturati, non avrebbero mai raggiunto il loro potenziale. Ma pur nelle condizioni avverse, lottavano per diventarlo. La vita non si arrende, anche se non può fiorire (Rogers,1980, p.118).

Tale metafora è utilizzata dall’autore per spiegare come, in circostanze sfavorevoli all’organismo, l’espressione della tendenza all’attualizzazione, ossia all’autorealizzazione del sé, potrebbe essere influenzata a tal punto che l’organismo diviene distorto, sebbene la tendenza rimanga al massimo della sua costruttività per quelle circostanze. Secondo Rogers anche l’essere umano ha bisogno di tre condizioni fondamentali per la propria realizzazione: assenza di giudizio, accettazione positiva incondizionata ed infine, ma non per ultima, empatia. In virtù di queste potrà sviluppare il suo potenziale, provando l’esperienza della congruenza: in poche parole avendo consapevolezza del suo sentire e agendo in linea con esso. Fare, sapere fare e saper essere. Armonia di pensiero, sentire ed azione. Quindi allo stesso modo in cui le “patate” cercano di portarsi a proprio concepimento e realizzazione, anche l’uomo che si trova in situazioni anguste reagisce e si realizza al meglio delle sue possibilità.

Sicuramente, l’attuale situazione che tutti stiamo vivendo di una emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale legata al nuovo Coronavirus SARS-COV-2 che ci obbliga di risiedere nelle nostre abitazioni, in modo coercitivo, al fine di contrastare la diffusione dell’epidemia, dichiarata da poche settimane pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, pone tutti in uno stato generale di allerta, disagio e paura, dove l’ambiente risulta essere percepito nelle sue polarità, sicuro e costrittivo nelle proprie abitazioni, insicuro, pericoloso seppur con un senso di libertà, fuori da queste ultime.

Così come ci insegna la metafora della “teoria della patata”, tutte le persone sono spinte a reagire in questa inclemente situazione per opera del cosiddetto “adattamento creativo”, il quale avviene grazie alla libera interazione delle facoltà, concentrata su qualche questione attuale, come in questo momento “l’emergenza coronavirus”, e dà luogo non già al caos o ad una pazza fantasia, ma a una gestalt che risolve un problema reale. Per entrare nel cuore dell’adattamento creativo in generale, così come affermano F. Pearls, R.F. Hefferline, P. Goodman, si pensi alla psicologia dell’arte, la parte rilevante si trova nella sensazione concentrata e nella manipolazione lucida del mezzo materiale. Con la chiarezza della sensazione e del gioco nei confronti del mezzo con atti essenziali, l’artista accetta il suo sogno e utilizza la sua intenzionalità critica: ed egli realizza spontaneamente una forma oggettiva. L’artista è ben consapevole di ciò che sta facendo; dopo aver terminato, egli vi può mostrare in dettaglio i passi compiuti; non è inconscio mentre lavora, ma non sta neppure attuando deliberatamente un calcolo deliberato. La sua consapevolezza costituisce una sorta di via di mezzo, né attiva né passiva, che accetta però le condizioni, si concentra sul lavoro, e matura verso la soluzione. Ed è la stessa cosa per quanto riguarda i bambini per esempio: è la chiarezza della sensazione del gioco, apparentemente privo di scopo, che permette all’energia di fluire spontaneamente e giungere a delle invenzioni così affascinanti. In entrambe l’integrazione sensoriale-motoria, l’accettazione dell’impulso, e il contatto assiduo con il nuovo materiale ambientale, sono gli elementi che producono un lavoro valido. Allo stesso modo dell’artista o del bambino che gioca, chiunque di noi in questo momento può attingere, nel modo più adeguato, al proprio adattamento creativo, anche in questa situazione di emergenza nella quale ci troviamo, pensiamo ad esempio a chi, nonostante la costrizione in casa, è riuscito a leggere finalmente quel libro che era sempre rimasto su quel comodino vicino a letto, un po’ impolverato, chi ha inventato nuove pietanze in cucina, chi ha scoperto di saper dipingere, chi si è messo a scrivere un romanzo o un articolo per un giornale, come me in questo momento, chi ha riscoperto i giochi da tavola, la complicità con la famiglia e chi finalmente ha fatto quella chiamata a quella persona cara che non aveva mai il tempo di fare, chi ha inventato nuovi progetti interamente on-line e potrei continuare all’infinito.

Ma l’adattamento creativo non è solo questo, si pensi a tutti gli operatori sul fronte, in questo momento, che hanno sperimentato nuovi modi per sentirsi meno stanchi, per affrontare l’emergenza, a chi fa mascherine fatte in casa perché non ce ne sono più in farmacia e agli scienziati che cercano di adattarsi a questo orripilante virus incentivando la ricerca per un nuovo antidoto.Quindi così come affermano i teorizzatori, nei casi in cui si è in contatto con i bisogni e le circostanze, è subito evidente che la realtà non è qualcosa di inflessibile e di immutabile ma invece pronta ad essere rifatta; e con quanta più spontaneità e senza trattenersi si esercita ogni potere di orientamento e manipolazione, tanto più vitale si dimostrerà tale rifacimento. “Che ciascuno pensi ai suoi colpi migliori, nel lavoro o nel gioco, nell’amore o nell’amicizia, e veda se ciò non è vero” (F.Pearls, R.F. Hefferline, P.Goodman).

Spesso, tuttavia accade che il prudente bisogno di agire in modo premeditato ci fa perdere sempre di più il contatto con le nostre condizioni presenti, ossia nella concentrazione di una questione attuale come suddetto, poiché il presente è sempre nuovo; e la timida ponderazione non è preparata alla novità, giacché ha sempre contatto su qualcos’altro, su qualcosa come il passato. Quindi in questa situazione accade che non si ha la piena percezione del “qui ed ora” che stiamo vivendo, così, se non siamo in contatto con la realtà presente, i nostri bisogni e le circostanze, perdiamo quella spontaneità che ci porta a fallire il bersaglio (anche se non necessariamente nel modo peggiore della nostra prudenza); e questo quindi diventa una confutazione delle possibilità della spontaneità creativa, poiché essa è non realistica.

Ciononostante, per quanto riguarda il funzionamento del corpo dal punto di vista organico è “l’autoregolazione organismica” che ci permette di contattare i bisogni e soddisfarli. Quindi non è necessario programmare deliberatamente, incoraggiare o inibire gli impulsi dell’appetito, della sessualità e così via, negli interessi della salute o della moralità. Se li si lascia stare, questi impulsi si regolano spontaneamente, e se vengono turbati tenderanno a recuperare tale equilibrio. Ma spesso ci si oppone alla proposta dell’autoregolazione più totale di tutte le funzioni dell’anima, comprese la cultura e l’apprendimento, l’aggressività e il compiere quel lavoro che l’attrae, assieme al libero gioco dell’allucinazione (proiezione). La possibilità che, se questi elementi vengono lasciati liberi nel loro contatto con la realtà, i loro squilibri abituali tendano a riequilibrarsi e a giungere a un valido sbocco viene considerata con angoscia e respinta con una sorta di nichilismo (come il vecchio consiglio di Tao: “lasciate la strada libera”). Le persone sono naturalmente capaci di autoregolazione, sensibili al contesto e guidate dalla motivazione a risolvere i problemi, è quindi la tendenza naturale o organismica della persona a regolare il sé.

Quindi, come viene sostenuto da J.M. Robine, quando le persone si trovano in una situazione di disequilibrio, pericolo, paura, di minaccia per la sopravvivenza, come il momento critico che stiamo vivendo tutti e quindi una situazione che l’approccio olistico definirebbe “di emergenza”, l’organismo crea una risposta adattiva globale: globale, perché mette in gioco percezioni, propriocezioni, rappresentazioni e pensieri, attività motoria e così via; adattiva, perché la possibilità al confine di contatto permette che gli eventi vengano gestiti in modo spontaneo e creativo. Tutte le capacità di orientamento e manipolazione nel campo possono dispiegarsi pienamente ed evitare che il campo diventi disorganizzato.

Quindi l’adattamento creativo è parte dell’autoregolazione organismica, che delinea quella capacità dell’organismo di far fronte ai cambiamenti dell’ambiente con risposte originali, caratterizzate dall’abilità a rispondere creando nuovi adattamenti personali alle richieste del mondo interno ed esterno. Un’adeguata autoregolazione ad una determinata situazione dipende da una buona consapevolezza che consente alla persona di valersi di ciò che per lei è “nutriente”, ed è rappresentativa, secondo la psicologia della Gestalt, dell’intero campo; corpo, psiche e ambiente. Pertanto, occorre sottolineare che, in questo caso, l’organismo si adatta all’ambiente in modo spontaneo e creativo, rendendo l’agire coerente con il sentire.

 

Alimentazione: una questione di cibo e amore

L’alimentazione è un processo complesso: nell’infanzia il bambino viene alimentato dall’adulto a partire dall’allattamento per poi proseguire nello svezzamento sino a giungere all’alimentazione autonoma, coinvolgendo aspetti biologici, psicologici e sociali.

 

Una disarmonia in ciascuno di questi aspetti può “alterare” questo processo ed indurre condizioni patologiche non solo da un punto di vista medico, basti pensare al problema dell’obesità infantile che ha visto aumentare il tasso della percentuale dei bambini in sovrappeso in Italia al 20,9%, di cui il 2,2% indicati come severamente obesi.

Il legame tra alimentazione e bisogno di autonomia

Da quando nasce il bambino ha buone capacità autoregolatorie, quindi fin dall’allattamento egli sa ed esprime quando ha fame e quando è sazio; è bene fidarsi di questa capacità anziché definire a priori quantità e orari di allattamento. Intorno ai due anni d’età compare inoltre la motivazione a fare da solo, una spinta naturale all’autonomia. Chiunque abbia a che fare con i bambini sa quanto sia forte la volontà di autodeterminarsi che essi sviluppano in particolare in questa fase di vita. Ebbene, questo è particolarmente evidente anche nella sfera dei comportamenti alimentari, e ancor prima dei due anni. Già all’età di un anno si può notare come il bambino si senta stimolato a stabilire un contatto attivo e personale col cibo, cercando di afferrarlo durante i pasti.

Questo modo di agire è strettamente legato a quello che Lichtenberg ha definito “bisogno esplorativo-assertivo”, uno dei sistemi motivazionali comune a tutti gli esseri umani. Il bambino, dalla possibilità di fare e decidere in autonomia ricava un senso di essere, esistere ed essere causa del proprio agire. Se l’adulto cerca di inibire questa attività spontanea induce nel bambino il tentativo di liberarsi della sua influenza attraverso comportamenti di protesta per recuperare il proprio spazio di autonomia.

Il buon inizio: l’allattamento al seno come fattore preventivo dell’obesità

Tenuto conto del fatto che per alcune madri l’allattamento naturale può non essere fattibile per varie ragioni (mediche, personali), in questo articolo vogliamo approfondire quali siano, secondo varie evidenze scientifiche, i vantaggi legati all’allattamento al seno. Attraverso studi basati su osservazioni sistematiche è stato dimostrato infatti come costituisca un fattore protettivo rispetto al rischio di sovrappeso e obesità. Una delle maggiori ricerche è stata effettuata in Australia su un campione di 2066 maschi e femmine di età compresa tra 9 e 16 anni provenienti da tutti gli stati e territori del continente. Rispetto a quelli che non sono mai stati allattati al seno, i bambini nutriti con latte materno per un periodo maggiore o uguale a 6 mesi avevano significativamente meno probabilità di essere in sovrappeso o obesi in età infantile e adolescenziale. Anche gli ultimi dati della Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), presentati a Glasgow in occasione dello European Congress on Obesity (2019), ci mostrano che la prevalenza dell’obesità è maggiore fra i bambini non allattati al seno: il 16% di essi risulta obeso, contro il 13% di chi è stato allattato per meno di sei mesi e il 9% di chi invece è stato allattato per oltre sei mesi.

Le spiegazioni sul perché l’allattamento al seno sia protettivo rispetto all’obesità sono sia biologiche che comportamentali:

  • un fattore fondamentale è la presenza della leptina nel latte materno, ormone proteico che regola l’assunzione di cibo e il metabolismo energetico, per cui i bimbi allattati hanno una concentrazione di insulina nel sangue più modesta rispetto alle alte concentrazioni dei bimbi allattati artificialmente;
  • per i bambini allattati spesso lo svezzamento è ritardato (l’OMS raccomanda di iniziare lo svezzamento non prima dei 6 mesi d’età), graduale e con un’elevata attenzione alle esigenze del bambino: molto spesso infatti all’allattamento al seno a richiesta segue l’alimentazione complementare a richiesta o uno svezzamento “misto”;
  • con l’allattamento a richiesta il bambino si autoregola sull’apporto di latte, dando avvio a quell’autonomia sull’assunzione di cibo a cui si accennava precedentemente. Questo ruolo attivo del bambino nell’autoregolarsi si manterrà per tutta la crescita e molto spesso, se non interferiscono altri fattori, ha un effetto a lungo termine;
  • la varietà di gusto del latte materno assunto dal bambino lo predispone alla conoscenza di un’ampia gamma di sapori che poi troverà a tavola quando inizierà lo svezzamento e potrà aiutarlo a gradire vari cibi. Di conseguenza il bambino, dal divezzamento in poi, tenderà a mangiare una più ampia varietà di cibi.

L’alimentazione complementare a richiesta: un’esperienza graduale e compartecipata di svezzamento

Un’altra fase che attraversa il bambino per arrivare all’alimentazione autonoma è quella dello svezzamento, passaggio importante da gestire in modo adeguato per arrivare ad un rapporto equilibrato e sano con il cibo. Negli ultimi anni è stata rivalutata l’importanza della scelta del bambino sulle quantità e le tipologie di cibo da assumere in questa fase. Nell’alimentazione complementare vengono rispettati i tempi, i gusti e il grado di sviluppo dei bambini: in questo modo viene assecondato il loro bisogno di autonomia e si continua ad aver fiducia in loro, proprio come nell’allattamento a richiesta.

La ricerca ci dice chiaramente che avere fiducia nelle capacità autoregolatorie del bambino protegge dall’obesità ma anche da altri disturbi alimentari: anoressia, bulimia e alimentazione selettiva. Il primo pioneristico esperimento fu quello di Clara Davis pubblicato sul New England Journal of Medicine: vennero analizzati 36.000 pasti e studiato il comportamento alimentare di bambini lasciati liberi di mangiare ciò che volevano (esclusi i cibi “spazzatura”), per diversi mesi, senza alcun condizionamento da parte degli adulti. Si dimostrava che i bambini crescevano quantitativamente e qualitativamente nei limiti della norma. Questo nonostante l’irregolarità nella quantità e qualità dei pasti, e la variabilità dei loro gusti da un giorno all’altro. L’autrice concludeva affermando l’esistenza di un meccanismo efficace di autoregolazione che portava i bambini ad assumere, nel complesso, la giusta quantità dei vari nutrienti.

Come creare un imprinting funzionale? Intorno ai 6 mesi il bambino viene fatto sedere a tavola con i genitori, in modo che possa osservare quello che mangiano e scegliere di sperimentare quello che desidera, tra proposte varie, salutari e gustose. In un primo periodo ci saranno solo piccoli assaggi, ma non ci si dovrebbe preoccupare perché il bambino continuerà ad assumere il latte finché non farà dei pasti che lo saziano (l’OMS raccomanda di proseguire l’allattamento materno fino ai 2 anni di età se madre e bambino lo desiderano). Proprio per questo, tale tipologia di svezzamento è chiamata “alimentazione complementare”: cibi solidi e latte vanno a completarsi e integrarsi, una cosa non va ad escludere l’altra. Il bambino in questo modo avrà sempre un corretto apporto nutritivo perché il latte materno continua ad avere ottimi nutrienti per tutto il periodo in cui viene prodotto.

I genitori dovrebbero fare in modo di creare un contesto piacevole, in modo che il pasto sia per il bambino un’esperienza relazionale positiva: no a costrizioni su quantità e tipologia di cibi, possibilmente in un clima familiare sereno e senza dispositivi elettronici per intrattenerlo. In questo modo l’alimentazione potrà essere vissuta dal bambino come un’esperienza sensoriale e relazionale piacevole. Nello stesso tempo il momento dei pasti può essere vissuto con serenità anche dai genitori, cosa che va a creare un circolo virtuoso: un buon rapporto col cibo, un buon apporto nutritivo, salute psicofisica del bambino.

Infanzia: quali sono i fattori coinvolti nel problema dell’obesità?

Fattori di ordine biologico, di ordine psicologico e sociale. Le dinamiche psicologiche del paziente obeso nell’infanzia sono legate alla disponibilità del cibo presente nel suo ambiente di vita che si caratterizzerà per:

  • qualità del cibo;
  • quantità del cibo;
  • modalità di consumo.

All’interno della “modalità di consumo” rientrano le dinamiche psicologiche infantili, caratterizzate da aspetti relazionali. Tali aspetti fanno dell’alimentazione e del sintomo iperfagico una questione di “cibo e amore”.

In che modo la relazione interviene nel sintomo iperfagico?

L’alimentazione nell’infanzia è mediata dalla presenza di un caregiver, dunque un bambino non può essere considerato a rischio obesità, se non per quei rarissimi casi in cui è presente un’eziologia medica del disturbo.

Dunque l’adulto che alimenta il bambino, sia il caregiver o l’insegnante che accompagna i bambini a mensa diventa ambiente “sociale” e “relazionale”, ovvero si presta ad essere fonte di sostentamento, intervenendo nel ciclo fame-sazietà, in una modalità che è unica per quella relazione e per quel contesto (casa, scuola).

L’alimentazione e, dunque, l’oralità, costituiscono una modalità di soddisfacimento pulsionale attraverso cui dare e ricevere amore, provare piacere, rifiutare o aggredire. Portare il cibo alla bocca, mordere, sputare e deglutire sono forme di comunicazione e di apprendimento delle modalità relazionali relative ai primi rapporti oggettuali.

Il sintomo iperfagico, in questo processo, può diventare una strategia disfunzionale, presente già in chi alimenta e appresa da chi viene alimentato. Il cibo diventa così il sostituto di quelle persone con cui non è stato possibile entrare in una relazione “sana” e la risposta a stati emotivi come:

  • la ricerca di un intenso bisogno di gratificazione;
  • la  rassicurazione e ricerca continua di un oggetto d’amore;
  • la  difesa rispetto al senso di inadeguatezza.

La risposta a questi stati emotivi, spesso intensi o insostenibili, attiva un processo chiamato emotional eating, in cui alimentarsi costituisce una risposta compensatoria ad uno stato emotivo. L’esito di questo processo non sfocia in maniera causale nell’obesità, ma caratterizza come meccanismo di base, il funzionamento che è alla base dei disturbi alimentari attualmente presenti nel DSM 5.

Prevenzione: l’intervento dello psicologo scolastico mediante l’educazione alimentare

La proposta di un programma a cura dello Psicologo Scolastico in tema di educazione alimentare costituisce una risorsa possibile per effettuare un intervento di prevenzione primaria che tenga conto delle variabili emotive e relazionali, connesse all’alimentazione. Secondo l’Institute of Medicine of the National Accademy of Sciences, possiamo ricorrere a svariate modalità di prevenzione: universale, selettiva e mirata. Le forme di prevenzione che si rivolgono ad un alto numero di soggetti con programmi di comunità strutturati, ovvero le campagne educative, si propongono di raggiungere quella fascia di popolazione ritenuta ad alto rischio con programmi da svolgere proprio nelle scuole. Queste ultime, con la collaborazione della famiglia, possono diventare luogo di prevenzione in cui trovare: informazione, educazione alimentare ed interventi ambientali inerenti l’alimentazione (ad esempio l’incremento di programmi di educazione fisica o il controllo dei pasti offerti dalla mensa scolastica).

Questi interventi richiedono una conciliazione fra l’utilizzo delle linee guida internazionali nutrizionali ed il patto educativo scuola-famiglia. La mensa a scuola rappresenta l’occasione di una nuova convivialità per i bambini e dunque una valida esperienza dello “stare a tavola” in cui tradizioni alimentari ed utilizzo dei cinque sensi si fondono e si condividono con il gruppo dei pari e con la maestra.

E’ importante dunque che l’esperienza del cibo, data la sua complessità, venga vissuta attraverso momenti informativi e formativi con lo scopo di:

  • sensibilizzare i genitori sull’importanza psicologico-emotiva del primo incontro con il cibo, ovvero dalla fase di allattamento;
  • promuovere fiducia ed “allenare” le capacità intuitive dell’adulto, che sia il genitore o l’insegnante a mensa, nel cogliere lo stato emotivo del proprio bambino o dell’alunno al fine di distinguere bisogni fisiologici come la fame da bisogni relazionali;
  • evitare usi impropri del cibo all’interno di dinamiche di potere (“se non mangi viene il vigile!”), del ricatto (“se non finisci la pasta non ti porto alle giostre!”), dell’affettività (“se non mangi divento triste!”) o ancora di comparazione rispetto ad altri bambini (“guarda com’è bravo tuo cugino, lui mangia senza problemi!”);
  • imparare ad “abitare la tavola” intesa come esperienza con regole e spazi esplorativi in un clima di serenità, tanto da consolidare l’esperienza della convivialità come un buon incontro.

 

A cosa serve la psicologia? Una risposta nell’elaborazione del lutto

Spesso ci si pone la domanda sulla funzione della psicologia: in fondo, a cosa serve? Solo ed esclusivamente a fornire strumenti per curare persone con una qualche patologia psichica?

 

Si può osservare che la quasi totalità di testi che si occupano di psicologia si apre con una propria definizione per la disciplina. Per quanto le definizioni possano differire nella forma, la sostanza pare potersi riassumere nel fatto che la psicologia (che nel suo significato etimologico di derivazione greca è la scienza che studia l’anima, lo spirito) si occupa dello studio di funzioni cognitive, funzioni affettive e funzioni comportamentali, sia dal punto di vista fisiologico, sia nelle loro deviazioni patologiche.

Individuato, quindi, il contenuto della psicologia, per comprendere come tale contenuto possa essere utilizzato è opportuno fare riferimento all’art. 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. Il primo comma, infatti, invita gli psicologi a considerare proprio dovere l’accrescimento delle conoscenze sul comportamento umano e a utilizzare tali conoscenze per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. Il secondo comma prosegue con l’indicazione che riguarda l’operatività dello psicologo in ogni ambito in cui esercita la propria professione: tale operatività è rivolta al miglioramento della capacità delle persone di comprendere se stessi, gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Pertanto, a ben leggere, è lo stesso Codice che indica a cosa serva la psicologia: a conoscere il comportamento umano al fine di utilizzare professionalmente tale conoscenza, per promuovere il benessere psicologico dell’individuo.

Il benessere psicologico viene inteso non solo come mero stato di assenza patologica o di disagio, ma come situazione nella quale ciascuno è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per riuscire ad adattarsi costruttivamente alle situazioni che, di momento in momento, si trova a vivere, siano esse caratterizzate da input esterni o interni (OMS). In tal senso, il secondo comma dell’art. 3 può essere letto quale indicazione sulla traiettoria che prende, allora, la psicologia: quella, cioè, di migliorare la capacità di comprendere se stessi e gli altri (istanze interne ed esterne, come si è visto) al fine di un adattamento all’ambiente attraverso l’espressione di comportamenti consapevoli (il soggetto sa), congrui (il soggetto sa di essere adeguato) ed efficaci (il soggetto sa di essere in grado di raggiungere i propri obiettivi e, quindi, di direzionare il proprio comportamento).

Le situazioni che ciascun individuo si trova ad affrontare nel corso della propria esistenza necessariamente variano e appartengono, potenzialmente, a un insieme pressoché infinito di accadimenti, tuttavia ciò che sicuramente tutti, prima o poi, sperimentano è la morte, propria e altrui. In particolare nel mondo Occidentale, la morte nel corso degli ultimi due secoli ha evocato sempre più angoscia, paura e imprevedibilità, al punto da meritare, secondo l’antropologo Gorer, l’aggettivo di “pornografica” (egli pubblicò nel 1955 un articolo dal titolo “The pornography of death”). In una recentissima pubblicazione, la De Caro introduce il proprio testo dedicato alla psicologia del distacco proponendo una riflessione riguardo a quanto spesso capiti, nella supervisione dei tirocinanti in attesa di abilitazione, di imbattersi nella loro riportata frustrazione per non poter fare nulla di fronte a persone in lutto, proprio perché alla morte non c’è rimedio. L’irreversibilità della morte, secondo la De Caro, può generare, quindi, nel professionista a cui viene chiesto sostegno per affrontare una morte, un senso di inadeguatezza, di impotenza e di, addirittura, impossibilità di intervento. La psicologia, che come si è visto sopra è volta alla co-creazione di benessere psicologico mediato dall’intervento del professionista (quando richiesto), ha elaborato diversi strumenti, sia teorici sia pratici, per contribuire a tale obiettivo.

Il lutto è lo stato emotivo di dolore che si prova per una perdita (Pesci) e tale definizione riprende quella proposta da Freud più di un secolo fa nel testo Lutto e Melanconia: insieme di reazioni emotive e affettive a un’esperienza di perdita. Dolore e sofferenza per una perdita sono fisiologici, quando tuttavia il soggetto rimane incastrato in una condizione di dolore permanente o bloccante, possono instaurarsi una serie di funzionamenti tali per cui il lutto non viene elaborato e, quindi, non viene risolto. Un lutto si può definire elaborato/risulto nel momento in cui il soggetto riesce a ristrutturare sé stesso, adattandosi agli altri e all’ambiente in modo nuovo, un modo che contempla come reale e presente la perdita che ha vissuto e, pertanto, l’assenza.

Elizabeth Kübler-Ross, nel testo La morte e il morire (1970), ha descritto cinque fasi nel processo di elaborazione del lutto: shock o negazione (il soggetto rifiuta l’evento, immerso in una realtà non più “reale”, quella in cui la perdita non è avvenuta); rabbia (nel soggetto si manifestano emozioni molto forti e tende a sfogare nell’ambiente, con parenti, sanitari, persone a lui comunque vicine, la frustrazione della perdita); patteggiamento (il soggetto inizia a “masticare” l’assenza, prendendo in esame le alternative che ha nell’affrontarla); depressione (quando l’assenza si manifesta in tutto il suo dolore, il soggetto sperimenta un senso di sopraffazione e di impotenza dato dall’irreversibilità della condizione in cui si trova); accettazione (il soggetto finalmente è riuscito ad attraversare l’assenza, a esserne consapevole e a ristrutturare se stesso e l’ambiente in cui vive, anche nelle relazioni con gli altri). Il modello appena presentato è ancora oggi uno dei più utilizzati per descrivere le dinamiche interne ed esterne delle persone che affrontano un lutto e si ritiene utile precisare che si tratta di un modello a fasi, non a stadi: le fasi possono ricorrere più volte, il soggetto può ripercorrerle in un avvicendamento che non necessariamente è lineare come sopra riportato. Tuttavia, al fine di poter definire un lutto come “elaborato”, ciascuna fase è fisiologica e consente il passaggio a un’altra fase. Al fine di consentire al soggetto l’elaborazione del lutto, quindi, è opportuno disporre di strumenti per accompagnarlo nell’attraversamento di ciascuna di queste fasi, aiutandolo soprattutto a comprendere quanto esse siano normali, pur se nella loro intrinseca novità risultino spaventose.

Secondo una teorizzazione più recente, Bowlby individua nella perdita di una figura di attaccamento un evento che attiva un’angoscia intensa e pervasiva, definita “Separation Distress”: il soggetto sperimenta l’idea di impossibilità di ottenere un senso di sicurezza e amore senza la disponibilità della figura di attaccamento persa. Il processo di separation distress attraversa, secondo l’autore, quattro fasi (1980): stordimento (caratterizzata dal rifiuto emotivo della notizia, pur nella consapevolezza cognitiva dell’evento); struggimento (caratterizzata dalla manifestazione dirompente di tristezza in occasione dei riti funebri e da possibili, successive o concomitanti, esplosioni di rabbia); disorganizzazione (caratterizzata dalla constatazione dell’irreversibilità della perdita e dalla conseguente revisione della realtà: il soggetto reagisce a tale revisione con apatia, depressione umorale, isolamento); riorganizzazione (caratterizzata dalla costruzione di un nuovo modello di vita, da parte del soggetto, modello che include l’assenza).

Partendo, infine, dalla Cognitive Stress Theory di Lazarus e Folkman elaborata negli anni Ottanta, si può ipotizzarne una sua applicazione al processo di elaborazione del lutto in termini di caratteristiche degli stressor, intensi quali eventi traumatici, di strategie di coping, intese quali insieme di processi adattivi messi in atto dal soggetto per affrontare gli stressor, e di relazioni causa-effetto che possono derivare dal binomio stressor-coping, ivi inclusa l’analisi degli outcomes (stato di salute fisica e mentale, o meno, che ne deriva). Stroebe e Schut nel 1999 hanno proposto in tal senso il Dual Processing Model (DPM), integrando fra teoria dello stress cognitivo appena descritta e teoria dell’attaccamento: il processo di elaborazione del lutto, secondo questo modello, si muove in una dinamica di continua tensione fra approccio ed evitamento della perdita e di tutto ciò che ad essa è collegato. Vi sono, quindi, strategie orientate alla perdita che portano all’elaborazione della perdita dell’altro significativo: elaborazione del lutto in senso stretto, rivalutazioni positive e negative dell’assenza, ricollocazione dell’altro significativo in una dimensione che prescinda la sua presenza fisica; e strategie orientate alla riorganizzazione che consentono di affrontare le conseguenze dirette legate alla perdita: compiti che solitamente venivano svolti dall’altro significativo, riorganizzazione materiale della vita nell’assenza dell’altro, cambiamento di identità (da sposato a vedovo, da figlio a orfano, ecc.). Nel modello è centrale il concetto di oscillazione: il processo, infatti, è estremamente dinamico in quanto l’individuazione di strategie di coping adattive non può essere lineare e priva di ostacoli, portando il soggetto attraverso stati funzionali e disfunzionali di fronteggiamento, al fine di consentirgli l’individuazione di quella che meglio gli consente di andare “oltre”, passando “attraverso”.

Le teorizzazioni appena descritte (a titolo di esempio) sono, per parlare in termini gestaltici, lo “sfondo” di “figure” più pratiche di supporto alle persone che si trovano ad affrontare la perdita di un altro significativo. Questi strumenti pratici possono essere applicati sia a un contesto individuale, sia di gruppo o di comunità (intesa quale famiglia, scuola, ambiente lavorativo, ecc.).

Sono stati elaborati numerosi questionari per la valutazione/esplorazione dei sintomi maladattativi legati alla morte o comunque alla perdita di un altro significativo, uno di questi è il l’ICG (Inventory Complicated Grief di Prigerson et al. 1995): si tratta di uno strumento che consente di individuare situazioni di lutto complicato, laddove il punteggio ottenuto sia superiore a 30. Viene somministrato in 10 – 15 minuti, è costituito da 19 items a ciascuno dei quali si attribuisce un punteggio da 0 (mai) a 4 (sempre). La validazione italiana è stata effettuata in tempi recentissimi (2013 – 2014) su 229 soggetti e il punteggio di cut-off maggiormente discriminante per il lutto complicato è risultato essere 30.

Nell’ambito di contesti che coinvolgono più persone, si è visto come la promozione nella realizzazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto (ama) sia di grande supporto nell’elaborazione del lutto per persone che condividono esperienze di perdita. Recentemente Colusso ha proposto in Veneto questo tipo di esperienza all’interno di un contesto di Hospice: viene fornita la possibilità, ai familiari di persone ricoverate (che, in media, perdono la vita nel giro di 4 mesi dall’ingresso nell’Hospice), di partecipare a gruppi in cui i membri hanno in comune la recente perdita di un loro caro. Il modello di ama proposto da Colusso prevede innanzitutto la formazione di soggetti in grado di condurre il gruppo: si tratta di operatori-volontari cui viene esposta l’importanza della narrazione, dell’ascolto e dei riti; ciò consente loro di diventare catalizzatori nell’espressione del dolore e nella condivisione. Centrale, nei gruppi ama per l’elaborazione del lutto, è la risonanza che le narrazioni creano in ciascun partecipante: l’esperienza viene vissuta come un conforto preziosissimo, in quanto spesso i membri riportano il sollievo sperimentato in tal senso, con frasi riassumibili in “ma allora si può parlare della morte”.

Se le precedenti considerazioni contemplano azioni mirate al raggiungimento del benessere psicologico in setting individuale o di gruppo nell’ambito di un lutto non elaborato e quindi già avvenuto, un’ulteriore riflessione può essere proposta nell’attenzione sempre maggiore che la formazione accademica dedica alla morte e al lutto. Viene evidentemente percepito come attuale e opportuno il bisogno di formare professionisti in grado di operare in tali ambiti, legati alla sofferenza in caso di prognosi infauste e alla morte in sé, intesa quale evento naturale della vita. Un esempio del primo ambito è la proposta formativa di Master, in particolare di II livello, in Psiconcologia (si può citare quello dell’Università Cattolica di Roma). Un esempio del secondo ambito è il Master di II livello in Death Studies proposto dall’Università degli Studi di Padova.

Formare professionisti in questo senso risponde all’urgenza di rendere la morte nuovamente accettata e presente nella vita di ciascuno, così come lo è stata in tempi più remoti. Il professionista che ha gli strumenti per parlare e sentir parlare della morte, ha la possibilità di promuovere il benessere psicologico anche in termini di prevenzione: nelle comunità familiari, scolastiche, delle Associazioni di Promozione Sociale, ma anche in quelle degli operatori sanitari di qualsiasi livello che affrontano la morte quotidianamente (nelle RSA, negli Hospice, nei reparti ospedalieri, negli ambulatori veterinari) e via discorrendo si possono avviare percorsi che consentano alle persone di familiarizzare con la propria e l’altrui fine della vita, onde restituire al lutto la dignità che l’aggettivo “fisiologico” gli tributa.

 

Lila e Lenù: l’ambivalenza femminile in età adolescenziale – Analisi attraverso una riflessione psicologica dell’opera televisiva “L’amica geniale”

La serie tv che prende il nome di L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, al di là dell’intenzione di volerne analizzare l’ambientazione storica, che potrebbe trarre in inganno e congelarne i contenuti trattandosi di un’epoca molto distante dalla nostra (anni 50/60), ci conduce per mano negli abissi più profondi dell’età adolescenziale, dove il possibile e l’impossibile viaggiano sullo stesso binario.

 

Lo fa in maniera dolce e crudele, come solo sa essere quest’età dalle mille sfaccettature, accompagnandoci attraverso lo snodo delle caratteristiche di personalità delle due protagoniste e del gruppo dei pari a cui appartengono.

Lila e Lenù: il gruppo dei pari crudele e complice

Ci sono tutti i tipi caratteristici adolescenziali. C’è il bullo e il bullizzato, il facinoroso e il debole, la vanesia e la studiosa, la ribelle e l’ubbidiente, il delinquente e il virtuoso. Ma su tutti troneggia il ‘gruppo’, che sembra avere un’anima tutta sua, separata e sincrona allo stesso tempo. Anima di Gruppo che conoscono molto bene solo coloro che ci sono dentro, che vi prendono parte. Nel gruppo omertà e tradimenti animano le loro menti inquiete e fragili di chi ne fa parte, intervallate da invidie, possesso e complicità, in un’altalena di sentimenti, di legami forti ed avversioni altrettanto profonde che si manifestano non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi ed il mondo circostante.

Un mondo che non riconoscono, ma con cui si sentono di condividere i sapori acri e amari di un tempo dal futuro incerto, poiché tutto si snoda nel qui ed ora. Nel tempo indeterminato dell’attesa senza prospettiva, da cui emerge il tratto caratteristico del tempo tipico adolescenziale, che non si differenzia per epoche né per culture.

Le figure femminili mature, che fanno da contorno alle vite delle protagoniste, sono relegate in un ambito domestico, prive di voce e di storia personale. Mortificate nel loro spazio mortifero tra cucina e fornelli.

Lila e Lenù : una donna allo specchio

Su tutti si levano le due protagoniste femminili, adolescenti, che, ad un occhio attento paiono rappresentare un unico corpo, una sola donna, un’unica immagine di donna vista attraverso lo specchio deforme di quella ‘condizione femminile’, ancora molto lontana dal profilarsi pubblicamente, per essere riconosciuta.

Un corpo con due anime contrapposte, due volti speculari, con due voci dai toni differenti, rabbia e violenza, rassegnazione e rivincita.

Un corpo attraversato dal silenzio e dal rumore, per nascondere le proprie fragilità e le proprie insicurezze. Un corpo in cui la femminilità ora esplode come un uragano, ora si nasconde per paura di mostrarsi, ma è un corpo attraversato da una sottile, quanto pervasiva, similitudine culturale, in cui mancanza e cupidità si mescolano, per dar vita alla loro piccola storia, fatta di pezzi di niente.

Perché ‘mancanza’ non è solo povertà di mezzi, ma di affetto, accoglienza, amorevolezza, riconoscimento. Un’adolescenza dove la delusione e il rifiuto hanno preso il posto dell’abbraccio e dell’accoglienza produce cicatrici.

Piccole ma profonde ferite dell’anima, che strutturano un modo di essere sempre più svincolato dalle richieste, guidato verso una fredda e staccata autonomia emotiva, indotta da situazioni e circostanze negative, non scandite da situazioni piacevoli, ma da abbandoni e disconoscimenti emotivi.

Una mancanza dunque profonda che non permette alcuna stabilità emotiva, né la costruzione di quei modelli affettivi di attaccamento, utili per la realizzazione del proprio mondo emotivo.

Lila e Lenù: pezzi di niente

Pezzi di niente senza fili conduttori, senza legami, senza confini, così sembrano delinearsi le loro vite. In una precarietà quotidiana di un divenire fatiscente, dove non c’è posto per alcun sentimento certo, se non la voglia di ritrovarsi per riconoscere a se stesse una benché minima umanità, che a tratti sentono sgretolarsi e farsi distante.

Due ritratti di donne apparentemente in antitesi, da una parte c’è la buona e cortese fanciulla, remissiva e obbediente ai dettami della scuola, della famiglia e del gruppo dei pari, dall’altra la travolgente e ribelle fanciulla, amazzone in un mondo di maschi violenti e prevaricatori, di cui non accetta la seduttività, se non nell’accezione di servirsene, per sopravvivere alla loro vacuità.

Il sentimento amoroso a tratti veleggia, travolgendo come un turbine le loro vite, senza tra l’altro consentire alcuna costruzione emotivamente importante per nessuna delle due fanciulle. Non è un caso che si infatuino dello stesso uomo, per il quale vivranno la sofferenza della perdita.

L’elemento sempre presente è la mancanza, che si dipana come un filo conduttore sulle loro vite, che anche quando sembra aver soddisfatto e colmato un bisogno, avanza crediti, inesorabili e taglienti, con la vita.

Due figure di donna, che ritraggono l’ambivalenza femminile, quella stessa che ha caratterizzato la vita delle donne per millenni.

La donna ‘strega’ e ‘santa’, ovvero quella peccaminosa e quella senza macchia.

Due aspetti della femminilità che si delineano al di là degli stereotipi, che ancora oggi si fa fatica ad eliminare, perché anche quando il riscatto sociale e il raggiungimento di stati di soddisfazione personale sembrano avanzare, riemerge da lontano una condizione di debolezza emotiva, come un fantasma che raccoglie le loro anime prigioniere di un’infanzia priva di una propria memoria.

Perché le femmine vivono più a lungo dei maschi?

Un team internazionale di scienziati, studiando la durata media di vita dei mammiferi selvaggi femmine, ha scoperto che anche nel loro caso (come negli esseri umani) la durata di vita delle femmine è significativamente più lunga rispetto a quella dei maschi.

 

La ricerca ha preso in analisi 101 specie differenti, dalla pecora all’elefante, i risultati mostrano che le femmine del 60% delle specie prese in analisi, vivono il 18% in più di tempo, rispetto ai maschi delle medesime specie (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Lo studio, pubblicato sul giornale Proceedings of the National Academy of Sciences, riporta come la morte più precoce dei maschi non sia dovuta a problemi fisiologici correlati all’invecchiamento, ma piuttosto si tratti di una questione ambientale: i maschi adulti hanno infatti più probabilità di morire rispetto alle femmine adulte (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Ad esempio, il leone femmina vive il 50% del tempo in più rispetto al leone maschio; questo è dovuto al fatto che il leone maschio va a caccia e durante la sua quotidianità è più a rischio di morte rispetto alla leonessa che rimane nella tana a curare i cuccioli (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Si tratta tuttavia di ipotesi. Infatti, secondo altri autori la maggior longevità del sesso femminile è data dal fatto che il maschio spende tutte le sue energie nel cercare di dare tutte le cure di cui hanno bisogno la femmina e i cuccioli, trascurando più se stesso per aiutare i membri familiari (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per escludere o confermare l’ipotesi ambientale, gli scienziati hanno intenzione di condurre uno studio analogo su una popolazione di mammiferi che vivono nello zoo, cosi, se l’ipotesi ambientale fosse corretta, in questo caso specifico non si dovrebbero verificare differenze di longevità tra i sessi, dato che la variabile ‘’ambiente pericoloso’’ è tenuta sotto controllo (negli zoo il leone non ha bisogno di andare a caccia e mettere cosi a repentaglio la propria incolumità) (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per quel che riguarda gli esseri umani, gli uomini hanno una vita media di 76 anni, mentre le donne di 84. Il motivo di questa differenza non è ancora chiaro. Si verifica inoltre un paradosso, infatti le donne invecchiando tendono ad avere una morbilità più alta rispetto agli uomini, questo dato, per deduzione, farebbe quindi pensare che sono gli uomini ad essere più longevi. Tuttavia, non è cosi: secondo l’ipotesi più accreditata, ma non ancora confermata, la maggior morbilità nelle donne è data da una più pronta risposta del tessuto connettivo agli ormoni sessuali. Questo meccanismo porterebbe ad influenzare il sistema immunitario rendendo più pronta la risposta ad eventuali patologie. Pur essendo l’ipotesi più accreditata, gli studi a supporto di questa teoria sono pochi e deboli (Austad & Fischer., 2016).

 

Fattori predisponenti della ruminazione depressiva

Perché alcune persone tendono a ruminare maggiormente rispetto ad altre? Da cosa dipende? Le ricerche sottolineano il ruolo di tre principali fattori evolutivi implicati nello sviluppo dello stile ruminativo: l’abuso infantile, lo stile genitoriale e la differenza di genere.

 

Sebbene la ruminazione sia una risposta generalmente comune, che può risultare utile al fine di sviluppare un piano d’azione per la soluzione di un problema, se utilizzata in maniera pervasiva, come strategia abituale di regolazione emotiva, può divenire disfunzionale favorendo il mantenimento di un circolo vizioso depressivo in cui l’attenzione dell’individuo viene focalizzata in maniera ripetitiva sugli stati emotivi interni che a loro volta, interferendo nei comportamenti funzionali di soluzione attiva dei problemi, esacerbano gli effetti dell’umore depresso (Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema et al., 2008; Smith e Alloy, 2009).

Ma come può la ruminazione divenire uno stile di risposta abituale? Le ricerche hanno evidenziato che tale modalità può essere appresa dall’individuo, a partire dall’infanzia, come strategia di regolazione emotiva in seguito al vissuto di particolari situazioni. (Palmieri, 2014).

L’abuso infantile

Un primo fattore che favorirebbe la tendenza alla ruminazione riguarda il vissuto di eventi traumatici, primo tra tutti l’abuso sia a livello psicologico sia a livello fisico e/o sessuale (Sarin e Nolen-Hoeksema, 2010). In questo caso, il bambino, non avendo a disposizione altre abilità di regolazione, utilizzerebbe la ruminazione come strategia di coping al fine di dare un senso all’esperienza vissuta, spesso di difficile comprensione e di cui viene vietato di parlare (Conway et al., 2004). Tale modalità quindi, partendo dal rappresentare una strategia adattiva di riduzione della sofferenza, attraverso il rinforzo e l’applicazione indiscriminata ad altri contesti, arriverebbe ad essere disfunzionale contribuendo al mantenimento e all’esacerbazione dei sintomi depressivi (Watkins, 2016). A questo proposito Rooosa et al. (1999) hanno rilevato l’esistenza di un’associazione tra abuso subito in età infantile e sviluppo della depressione in età adulta, dato confermato anche dagli studi di Spasojevic e Alloy (2002). Sempre a questo proposito Conway (2004) ha esaminato la relazione tra abuso, ruminazione e disforia notando come coloro che riportano di aver subito maggiori esperienze di abuso, presentano livelli più elevati di ruminazione e di disforia.

Lo stile genitoriale

Un altro elemento che faciliterebbe lo sviluppo della ruminazione è lo stile genitoriale ipercritico, passivo e/o ipercontrollante. Nel caso di genitori iper-critici, incapaci di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino, questo si troverebbe a trascorrere molto tempo analizzando e valutando le motivazioni ed i segnali dell’altro al fine di predirne i comportamenti ed evitare rimproveri e punizioni. Ciò lo porterebbe però a ritirarsi sempre più nell’interiorità, evitando di esprimere i propri pensieri ed emozioni (Conway et al., 2004; Spasojevic e Alloy, 2002). Nel caso di genitori iper-controllanti, il piccolo mancando della possibilità di sperimentarsi nelle varie attività, potrebbe sviluppare la percezione di avere scarso controllo sull’ambiente e potrebbe essere indotto ad una maggior tendenza alla passività ed al ritenersi senza speranza di fronte alle delusioni (Nolen-Hoeksema, 1998). Infine nel caso di genitori con stile di coping passivo o ruminativo, il bambino trovandosi senza modelli di riferimento da seguire, riguardo l’apprendimento di strategie di problem solving e di coping attive, sarebbe portato a sviluppare uno stile di risposta ruminativo (Nolen-Hoeksema, 2004).

Le differenze di genere

Un ultimo fattore che potrebbe fungere da antecedente evolutivo della ruminazione è quello delle differenze di genere legate a diversità biologiche ed ambientali (Palmieri, 2014). Riguardo i fattori biologici, Nolen-Hoeksema (2004) ha osservato che i bambini fisiologicamente più reattivi allo stress, tendendo a riscontrare maggiori difficoltà nella gestione di stati emozionali negativi, sarebbero spinti a focalizzarsi maggiormente su tali vissuti sviluppando un pattern di risposta di tipo ruminativo. Riguardo i fattori ambientali invece, per cultura maschi e femmine tendono a ricevere insegnamenti differenti dai genitori riguardo le modalità di gestione delle emozioni negative. Mentre i maschi sono da una parte scoraggiati ad esprimere emozioni di paura o tristezza e dall’altra sono sollecitati a mostrarsi forti di fronte alla difficoltà, ciò non accade per le femmine. Questo atteggiamento porta così a favorire nei maschi l’assunzione di stili di risposta attivi come la “distrazione” o il “problem solving costruttivo” per regolare l’umore depresso, mentre nelle femmine è favorito un comportamento più passivo che incentiva ad utilizzare maggiormente la ruminazione come strategia di comprensione delle possibili cause ed implicazioni del loro stato d’animo. A sostegno di tale ipotesi, vi è il dato che il numero di donne che soffre di depressione è doppio rispetto a quello degli uomini.

Concludendo, dato l’importante ruolo svolto dalla ruminazione come fattore di vulnerabilità per lo sviluppo della depressione, risulterebbe auspicabile incrementare la ricerca, ad oggi piuttosto limitata, sulle basi evolutive dei fattori che fungono da antecedenti dello stile di risposta ruminativo. In particolare, i dati attuali, da cui partire per successive indagini, suggeriscono come il vissuto di particolari situazioni, fin dall’infanzia, porti l’individuo a sviluppare strategie di regolazione emotiva come la ruminazione (Palmieri, 2014).

 

Diario di bordo ai tempi del Coronavirus: vademecum psicologico anti-panico e consigli sul benessere psicologico

In termini di utilità emotiva è più efficace pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che è in atto l’emergenza coronavirus e a calmare le ansie.

 

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il Coronavirus (Covid-19) proviene da una famiglia di virus respiratori (CoV) che possono causare malattie con sintomi da lievi a moderati, dal semplice raffreddore a sindromi respiratorie gravi come quelle che si osservano negli Ospedali, nei Pronto Soccorso e nei reparti riservati ad accogliere i pazienti colpiti da questa emergenza.

E’ intuitivo associare la parola tanto pronunciata e ascoltata negli ultimi mesi – Coronavirus –  alla corona di un re o alla corona di alloro che indossano i neolaureati. Infatti, è curioso sapere che il Coronavirus viene chiamato così perché presenta sulla sua superficie delle punte, simili a quelle di una corona. Già osservato in alcune specie animali, non era mai stato rilevato nel genere umano.

Febbre, tosse e difficoltà respiratorie sono i sintomi più comuni del quadro clinico del Coronavirus; non mancano le sindromi respiratorie acute, le polmoniti, con una prognosi che porta spesso al decesso. Non mancano neanche i casi asintomatici: sono proprio loro, e le risorse limitate del Sistema Sanitario Nazionale di fronte a una pandemia, che hanno portato il Governo Italiano a prendere provvedimenti attenti, urgenti e semi-drastici.

Le misure di sicurezza con cui nelle ultime settimane le persone si confrontano riguardano proprio il contagio di questa malattia. Le raccomandazioni e i comportamenti di sicurezza sanitari sono entrati a far parte delle abitudini di grandi e piccoli: non mancano i dubbi su come poter reperire mascherine che sembrano introvabili, il gel igienizzante che tanti prima ignoravano sembra ora il nostro pane quotidiano, si cerca di uscire il meno possibile e ci si domanda come trascorrere le 24 ore quotidiane, moltiplicate per un numero di settimane di cui ancora non siamo certi, nella propria casa, che sappiamo di amare ma che in queste settimane ci coglie impreparati. Non ce lo aspettavamo e probabilmente mai avremmo pensato potesse accadere.

La creatività e la flessibilità dell’uomo in termini di adattabilità sono risorse che possiamo sfruttare in questa situazione e probabilmente abbiamo già cominciato a farlo senza del tutto accorgercene.

Conviene, in termini di utilità emotiva, pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che là fuori c’è un’emergenza in atto, a calmare le ansie e a darci legittimità in termini di riorganizzazione puntuale della giornata e del nostro vivere quotidiano: la mente si rilassa e può pensare in maniera creativa a come trascorrere il tempo. Rimuginare su come andrà a finire – si spera che #andràtuttobene – oppure sul weekend in giro per l’Italia saltato a causa delle restrizioni, sulla mole di lavoro perso e sulle conseguenze tragiche di questa pandemia, non aiuta a migliorare la situazione o a prevenire il contagio del Coronavirus, ma ci pone in uno stato emotivo di allerta e apprensione che, di fatto, nel momento in cui siamo a casa e non stiamo contravvenendo alle norme proposte dal Governo, non ha senso continuare ad alimentare. In tal senso, è utile trascorrere il tempo a casa nella maniera più serena possibile, dedicandoci a noi e a mantenere i contatti con il mondo esterno grazie ai mezzi di comunicazione e ai mass media.

A tal proposito, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha divulgato un Vademecum Psicologico Anti-Panico per i cittadini che consiglia di:

  • Attenersi ai fatti in maniera oggettiva – L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che l’80% dei contagiati guarisce spontaneamente, il 15% presenta problematiche mediche gestibili, il 5% manifesta un quadro sintomatico grave e la metà di essi va incontro al decesso. Parallelamente a ciò, la misurazione del Ministero della Sanità alle h 18.00 del 20 marzo 2020 ci dice che, su 47.021 casi positivi in Italia, l’8,5% abbia perso la vita mentre il 10,9% sia riuscito a guarire.
  • Riflettere sul rapporto tra paura ed efficienza in emergenza: quando la paura è nulla o moltissima, l’efficienza nel fronteggiare la situazione viene meno. L’ideale sarebbe vivere l’attuale scenario con consapevolezza e percezione equilibrata dei pericoli portati dal contagio del Coronavirus.
  • Non mettere in atto strategie sull’onda emotiva dell’allarme e del panico: la messa in atto delle semplici misure di sicurezza proposte è un buon modo per vivere con serenità la situazione. Invece, un’ansia elevata inibisce la capacità di ragionamento senza cui non possiamo garantire a noi stessi e agli altri una gestione ottimale della prevenzione al contagio.

Inoltre, il CNOP raccomanda di:

  • Non ricercare compulsivamente le notizie ma aggiornarsi una volta al giorno e solo da fonti affidabili come il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore della Sanità
  • Entrare nell’ottica che le misure di sicurezza prese servono a proteggere le altre persone e non a proteggere solamente noi stessi. Per questo motivo è importante che tutti le adottino per il bene della collettività: non ignorare la disattenzione altrui, può essere utile spiegare l’importanza dei comportamenti di sicurezza agli altri con pazienza e calma. Reazioni di rabbia o disprezzo non aiuterebbero la persona a comprendere il momento che stiamo vivendo.

Invece, l’Istituto Superiore di Sanità sottolinea l’importanza di preservare il benessere fisico, psicologico e relazionale in queste settimane attingendo alle proprie risorse e conducendo la giornata secondo uno stile di vita il più sano possibile, non semplice in situazione di costrizione a casa, ma usando qualche escamotage. Nel seguire questo consiglio, possiamo accedere alle risorse personali, promuovendo una mentalità costruttiva, più che distruttiva, su ciò che sta accadendo.

Puntare al benessere personale e familiare, organizzando attività durante la giornata e promuovendo la comunicazione, può essere un modo valido per affrontare questo periodo di stand-by e attesa.

Come spunti, l’ISS propone l’attività fisica – ottimo modo per “tenere a bada” frustrazione e stress, per prenderci cura dell’autostima, del rilassamento psicofisico e dell’energia – un sonno regolare, un’alimentazione sana, limitare alcoolici e fumo, organizzare attività piacevoli da fare in famiglia, il mantenimento dei contatti con parenti ed amici. L’obiettivo? Mantenere un buon senso di autoefficacia, oltre a stare meglio come singoli e come coppie o famiglie.

Nella speranza che l’emergenza venga gestita nel migliore dei modi e che questo periodo termini presto, possiamo dare a queste settimane un significato personale e in termini di utilità. Se la resilienza è la capacità di fronteggiare le difficoltà e uscirne più forti di prima, possiamo cogliere i lati positivi di quello che sta succedendo e trarne qualche insegnamento da “rispolverare” in futuro.

 

Coronavirus: gli effetti secondari della paura del contagio

Nel tempo del contagio pandemico, come viene definito il momento che stiamo vivendo, da più parti si sollevano voci per evidenziare gli effetti sulla salute dell’uomo determinati dal cosiddetto Coronavirus.

 

La denominazione coronavirus è dovuta alla particolare forma a corona di questo virus, quasi come uno scherzo della natura, quella di avere una struttura a mo’ di principio regio e assolutistico naturale.

Al di là degli esiti che produce, connessi ad una sindrome respiratoria acuta grave, ci sono effetti derivanti dalle restrizioni adottate per impedirne la diffusione ed il contagio, che assumono particolare rilievo dal punto di vista della sofferenza psicologica che possono determinare.

I numerosi DPCM che si sono susseguiti hanno, di volta in volta, aumentato le limitazioni alle libertà individuali, fino ad arrivare al punto di impedire alle persone di uscire di casa, se non per gravi e comprovati motivi.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie disfunzionali

Il ritiro sociale e la convivenza forzata a cui è stata costretta la popolazione inevitabilmente hanno determinato cambiamenti nella vita degli individui. Cambiamenti che non sempre sortiscono effetti positivi per le persone.

Per un verso molte famiglie si sono viste ricongiunte, come forse non avveniva da anni o non era mai accaduto. In molti casi si è ricostruita una nuova conformazione familiare, che per molti aspetti non ha dato ai suoi componenti il tempo di adattarvisi.

Ma a mano a mano che i giorni passano, stare insieme diventa un modo per riappropriarsi di tempi e di spazi che magari erano stati fino ad allora solo desiderati. Ecco allora che si scoprono linguaggi nuovi e modi di comunicare differenti, in cui non c’è posto per i monosillabi pronunciati frettolosamente, ma è richiesto un verbale più ricco nelle parole e nei toni. I gruppi familiari su whatsapp non hanno più regione di esistere, ma a questi se ne vanno a creare altri, fino a qualche tempo fa impensabili.

La tavola riprende il posto centrale di aggregazione familiare

La famiglia in molti casi riprende un funzionamento equilibrato, che significa promuovere uno sviluppo psicologico appropriato dei suoi componenti.

Ma la convivenza “forzata” dei nuclei familiari, non sempre può essere foriera di effetti positivi. Del resto tutto ciò che è imposto, a lungo andare può generare forme di insofferenza. Questo succede maggiormente nel caso delle famiglie disfunzionali, ovvero quelle famiglie che hanno modalità comportamentali di tipo “invischiato o disimpegnato”, in cui i membri cercano rispettivamente una forma di aggregazione patologica e invadente o di sfuggire alle relazioni ed ai meccanismi di comunicazione tra i presenti.

Nelle tipologie di famiglie invischiate, i confini individuali sono fortemente travalicati dall’altro o dagli altri. Non c’è l’individuo svincolato e autonomo nelle scelte, bensì il soggetto aggregato che si muove sotto la costante regia della identità familiare, che sovrasta su tutti. Permane un “basso livello di differenziazione”, che non promuove la crescita psichica ed emotiva del soggetto. Coloro che si trovano a soccombere sono caratterizzati da un basso livello di autostima, che li limita nei comportamenti e ne favorisce il senso di insicurezza e di inadeguatezza. In questi soggetti una convivenza forzata, determinata dagli eventi connessi al coronavirus, può determinare una crescita esponenziale di comportamenti connaturati da dipendenza e sottomissione, con manifestazioni di ansia anche ingestibile.

Dall’altra parte, nelle famiglie disimpegnate, ognuno è parte a sé stante, il tetto familiare è solo un mezzo per garantire la sopravvivenza dei suoi membri. I soggetti non comunicano tra di loro, se lo fanno è solo per lo stretto necessario alle incombenze quotidiane. Non c’è relazione tra i membri. Lo scambio affettivo è assente o quasi. Ogni membro della famiglia non ha tempo da dedicare all’altro. Vi è un distanziamento emotivo notevole. Nelle famiglie disimpegnate, il dato più significativo è che manca nei componenti la capacità di chiedere aiuto e di sostenersi.

Appare evidente come una situazione di permanenza forzata sotto lo stesso tetto, possa favorire, in questo caso, piuttosto che un ritrovarsi e stare insieme, riscoprendo anche un senso di appartenenza familiare, atteggiamenti di rabbia, sia per l’incapacità di chiedere aiuto, sia per impossibilità di approcciarsi all’altro. Rabbia e insofferenza che possono sfociare in comportamenti violenti tra gli stessi componenti della famiglia.

Gli adolescenti, in special modo, possono mettere in atto modi di fare aggressivi, poiché sono maggiormente insofferenti a sostenere una situazione di permanenza forzata nello stesso luogo; la condizione di vita familiare, che li vede senza la possibilità di uscire di casa e quindi di aggregazione col gruppo dei pari, può accrescere poi negli adolescenti la distanza emotiva e l’intolleranza reciproca.

Inoltre, non è da sottovalutare che l’impossibilità di frequentare coetanei può anche determinare l’evolversi delle condotte di dipendenza da videogiochi e dalla rete internet, più in generale da tutte quelle forme di dipendenze favorite dall’uso e abuso indiscriminato di Internet, dalla dipendenza da smartphone alla navigazione sui social, alla visualizzazione di filmati, al gioco d’azzardo online patologico (GAP) e ad altre forme di dipendenza come quella di filmati porno (sex-addiction ) o lo shopping compulsivo online.

Essendo Internet l’unica risorsa per comunicare, l’uso del mezzo tecnologico diventa lo strumento di elezione per entrare in contatto col resto del mondo. In questi casi la dipendenza costituisce un comportamento di evitamento attraverso cui il soggetto si rifugia nella rete per sfuggire alle sue problematiche esistenziali.

Senza contare la condizione già di per sé deleteria dei cosiddetti Hikikomori, che per definizione sono giovani che soffrono di un “acuto isolamento sociale non derivato da altre malattie psichiatriche”. Giovani che hanno difficoltà comunicative e relazionali, tali da evitare i contatti persino con i propri congiunti. E’ evidente come questi soggetti, venendosi a trovare nella condizione di isolamento, aumentano l’incapacità di superare la difficoltà a relazionarsi ma anche a contrastare la paura degli altri, un altro elemento che caratterizza questo tipo di condizione. Pertanto, la loro asocialità, in questo momento è, paradossalmente, ancora più normalizzata, questo a discapito di un recupero futuro di comportamenti aggreganti.

Nelle famiglie disfunzionali violente, dove i comportamenti aggressivi, il più delle volte, vengono messi in atto senza preavviso determinando in chi li subisce un forte senso di costante allerta e ansia, accade che la convivenza ristretta senza possibilità di “fuga”, possa determinare l’aggravarsi di situazioni al limite della tolleranza, con ripercussioni notevoli sull’equilibrio psicofisico di coloro che subiscono le violenze, ma anche su coloro che vi assistono e che sono ugualmente vittime. Molto spesso bambini e adolescenti, che, in una condizione di convivenza forzata, non hanno alcuna possibilità di sfuggire alla violenza.

Le violenze, lo ricordiamo, non sono solo di tipo fisico, ma anche di tipo psicologico. Sappiamo bene che la violenza psicologica è un potente precursore dei disturbi mentali, che vanno dalle nevrosi alle psicosi, anche di tipo superiore.

I bambini e gli adolescenti vittime di violenza assistita vengono a trovarsi in una condizione di prigionia, pertanto non vengono risparmiati dall’esposizione alla violenza che si genera in famiglia.

Coloro che soffrono di disregolazione emotiva, ovvero che hanno difficoltà a gestire in maniera equilibrata i loro pensieri e le loro azioni, possono attuare una marcata impulsività e trasferire, in modo irruente, la turbolenza mentale che avvertono ingestibile su chiunque, ovvero su tutti coloro che non sono rispondenti al loro ideale parossistico.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie con disabili

Le famiglie in cui sono presenti uno o più disabili, in genere figli, vengono a trovarsi in una condizione di forte stress per la mancanza di aiuti esterni che generalmente favoriscono la gestione quotidiana del disabile.

Questo stato di cose e la condizione emotiva stressogena talvolta portano a crolli fisici e psicologici, di coloro che assistono al familiare infermo, determinando un forte calo delle risorse individuali ed un senso di resa incondizionata di fronte alle difficoltà del momento.

Effetti secondari dell’isolamento per i disturbi psichici

La costrizione domestica, che non consente uscite se non per motivi ben definiti dalla normativa in vigore, agisce sul versante dell’inedia, fattore favorente il consumo di droghe e alcool, in coloro che già sono consumatori abituali. Così come le cattive abitudini alimentari.

I disturbi alimentari potrebbero aumentare in chi già ne è affetto o insorgere in chi inizia a consumare cibo senza regole con abbuffate.

La noia, condizione mentale in cui tanti potrebbero trovarsi, è un fattore altamente favorente l’uso e l’abuso di sostanze, alcool e cibo.

Pertanto, una convivenza forzata o uno stato di isolamento, possono costituire fattori predisponenti a condizioni dannose per l’organismo.

Come le condotte disfunzionali di famiglie e individui, anche i disturbi mentali possono avere un curva di crescita nel periodo di chiusura domestica forzato.

Mentre l’ansia attiva risorse e quindi può essere una buona fonte da cui attingere per fronteggiare situazioni difficili, l’angoscia associata alla paura non alimenta emozioni positive.

L’angoscia, ovvero la sensazione di impotenza e di fragilità, di fronte al nemico in questo caso anche invisibile e non connaturato alla biologia umana, aumenta e favorisce la consapevolezza della costante vulnerabilità di specie.

La paura di soccombere senza potersi difendere è un elemento fortemente destabilizzante di per sé, ma accresce in coloro che già vivono situazioni di fragilità emotiva e sono destrutturati mentalmente.

Avviene che i disturbi della personalità possono acuirsi e rendere la vita di coloro che ne soffrono, e di coloro che sono loro accanto, ingestibile.

Disturbi quali il DOC (disturbo ossessivo compulsivo) o il Disturbo Borderline con la sua vasta gamma di condotte nocive, possono vedere un aumento dei singoli aspetti che li caratterizzano o più di uno.

Nel DOC potrebbero aumentare le preoccupazioni per l’ordine, la pulizia maniacale, il perfezionismo, il controllo, al punto da rendere la vita invalidante sotto vari aspetti, non solo personali ma anche relazionali, considerata la costrizione di condivisione degli spazi comuni.

Così come il Disturbo Borderline di Personalità potrebbe vedere un incremento per quanto riguarda gli aspetti paranoici o autolesivi.

Il soggetto borderline, in considerazione del binario unidirezionale su cui si snoda la convivenza forzata, potrebbe diventare ulteriormente insofferente a coloro che gli sono accanto e che spesso vede come una minaccia alla propria integrità soggettiva.

In coloro che soffrono di disturbi dell’umore, come il disturbo Depressivo, possono aumentare i sintomi di inadeguatezza, il timore degli eventi negativi e il sentimento di insufficienza personale.

Anche chi soffre di disturbo schizoide potrebbe veder aumentare le difficoltà a socializzare e il rifiuto sociale, elementi caratterizzanti un quadro clinico già fortemente disturbante per il soggetto, dove l’isolamento e la solitudine rappresentano le caratteristiche salienti.

Ma coloro che in questo momento sono maggiormente chiamati in causa, portando all’eccesso le loro fobie, sono gli ipocondriaci o patofobici, ovvero coloro che soffrono per la paura di ammalarsi di una determinata malattia.

Per queste persone la paura delle malattie è la fonte di nutrimento della loro ansia. Paura che si trasforma spesso in panico e diventa un greve fardello da sopportare.

Anche per questi soggetti, il periodo che stiamo vivendo può rappresentare una condizione difficilmente gestibile.

L’analisi riportata ha l’intento di fare una panoramica sulle ripercussioni psicologiche di un momento tanto delicato per l’umanità, che vede tutti interessati. La comunanza del rischio, a cui tutto il genere umano è esposto, rappresenta, per molti aspetti, quel senso di appartenenza alla civiltà, di valori condivisi, che spesso viene trascurato. I divieti che tutti siamo chiamati a sostenere sono tanti ed anche pesanti, ma il fatto che siano stati imposti per una causa tanto importante, come quella di salvaguardare la propria vita e quella di tutti gli altri, dispone ad una condizione di accettazione inevitabile degli obblighi.

Del resto, è sempre la paura più grande che vince la paura più piccola.

 

Mente e corpo in camera da letto: il rapporto tra metacognizione e dolore genito-pelvico femminile

Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale.

 

La dispareunia e il vaginismo sono classificati all’interno del DSM-5 tra le Disfunzioni Sessuali, più precisamente con il nome di Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD; APA, 2013). Si tratta della sensazione di acuto dolore che alcune donne provano nel momento della penetrazione, che nella maggior parte dei casi rendono impossibile avere un rapporto sessuale completo con il partner (Pacik & Geletta, 2017).

Alcune tra le cause del GPPPD attualmente dimostrate sono l’ansia, la qualità della relazione con il partner, alcune cause organiche e la mancata conoscenza di base dell’anatomia sessuale umana. Tuttavia, rimane ancora incerta l’eziologia del disturbo (Kabakçi & Batur, 2003). Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con vaginismo riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale (Klaassen & Ter Kuile, 2009).

La metacognizione, che rappresenta la capacità di ragionare sui propri pensieri, sulle proprie credenze e sulla propria cognizione, viene spesso descritta come il “pensiero riguardo al proprio pensiero” (“thinking about thinking”; Wells & Matthews, 1996). Gli approcci metacognitivi suggeriscono che le manifestazioni psicopatologiche siano causate da uno stile di pensiero ripetitivo e rimuginativo, la cognitive attentional syndrome (CAS), che mantiene l’individuo continuamente focalizzato sui propri pensieri. Le credenze metacognitive possono essere positive (es. “preoccuparmi mi aiuta”) o negative (es. “non posso controllare i miei pensieri”; Wells & Matthews, 1996).

Per quanto riguarda le disfunzioni sessuali maschili, uno studio ha trovato una correlazione tra l’esordio e il mantenimento del disturbo e le credenze metacognitive (Giuri et al., 2017); tuttavia, il rapporto tra il GPPPD e le credenze metacognitive non è ancora stato adeguatamente indagato.

Lo scopo degli autori del presente studio (Ünal et al., 2020), infatti, era proprio quello di indagare la correlazione tra metacredenze e il GPPPD in un campione di 135 donne affette dal disturbo, mettendole a paragone con un gruppo di controllo (136 donne).

Tutte le partecipanti hanno completato la SCID-I, la Vaginal Penetration Cognition Questionnaire (VPCQ) – che evidenzia la cognizione di donne che soffrono di vaginismo rispetto alla penetrazione – il Metacognition Questionnaire (MQ), la Hamilton Anxiety Rating Scale (HAM-A) e la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D; Ünal et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che il punteggio del MQ era significativamente maggiore nella sottoscala delle metacredenze positive nelle partecipanti con GPPPD rispetto ai controlli. Tutti i punteggi del VPCQ nelle pazienti con GPPPD sottolineavano un numero maggiore di cognizioni negative sulla penetrazione rispetto ai controlli; anche la frequenza dei rapporti e l’evitamento della sessualità erano significativamente maggiori nel gruppo sperimentale, mentre la sexual communication tra i partner era minore.

In conclusione, lo studio dimostra che oltre alle variabili cognitive già precedentemente indagate, vi è una correlazione anche tra metacognizione e GPPPD, sottolineando un possibile risvolto positivo nel trattamento delle pazienti con Terapia Metacognitiva (Ünal et al., 2020).

 

Disturbo narcisistico e rapporto di coppia

Il disturbo narcisistico di personalità rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. I narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche, ma queste sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

Nelle sue Metamorfosi, Ovidio scrisse di un bel giovane di nome Narciso che rifiutò l’amore di una ninfa di nome Eco e successivamente si innamorò del suo riflesso nell’acqua immobile. Nel poema, Narciso ed Eco si strussero a causa dei loro amori non corrisposti. Tuttavia, come in un curioso colpo di scena di un destino romantico, i loro tipi di carattere si sono mescolati in quello che oggi definiamo come la “Personalità narcisistica”.

Il Disturbo narcisistico di personalità (NPD, American Psychiatric Association, 1994) è caratterizzato da un pervasivo senso di grandiosità e auto importanza (molto simile a Narciso) e da un forte bisogno di essere validato e ottenere ammirazione e attenzione dagli altri (molto simile a Eco) ed è indicato nel DSM IV da 5 o più dei seguenti criteri nel:

  1. Un grandioso senso di importanza personale;
  2. Preoccupazione con fantasie di illimitato successo, potere, genialità, bellezza o amore ideale;
  3. Credenze di essere speciale e unico;
  4. Bisogni di eccessiva ammirazione;
  5. Un senso di pensare che tutto sia dovuto;
  6. Sfruttamento interpersonale;
  7. Mancanza di empatia;
  8. Invidia per gli altri;
  9. Atteggiamenti o comportamenti arroganti o altezzosi.

Si stima che questo disturbo colpisca il 7,7% dei maschi e il 4,8% delle donne nella popolazione generale (Stinson e colleghi, 2008). Pochi studi hanno esaminato se l’espressione dei sintomi del Disturbo Narcisistico di Personalità differisca tra maschi e femmine. Le ricerche precedenti suggeriscono sostanziali differenze sessuali, con i maschi che hanno maggiori probabilità di avere un senso del diritto, una mancanza di empatia (Karterud e colleghi, 2011; Richman e Flaherty, 1990), fantasie di potere e successo e un grandioso senso di importanza personale (Bylsma e Major, 1992; Grijalva e colleghi., 2015; Karterud e colleghi, 2011; Luo e colleghi, 2014; Major, 1994; Major e colleghi., 1984), sfruttare gli altri e credere di essere speciali e meritarsi privilegi unici (Grijalva e colleghi, 2015; O’Brien e colleghi, 2012; Richman e Flaherty, 1990; Tschanz e colleghi, 1998). Le femmine tendono a mostrare maggiore preoccupazione per l’aspetto fisico (Buss e Chiodo, 1991) e hanno una maggiore reattività nei confronti degli altri (Richman e Flaherty, 1990). Sia maschi che femmine sembrano presentare una prevalenza simile di sintomi come vanità, auto assorbimento e invidia (Karterud e colleghi, 2011; Foster e colleghi, 2003).

Il paradosso delle relazioni narcisistiche

Il disturbo narcisistico rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. Da un lato, i narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche. Dall’altro lato, queste relazioni sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Secondo il Modello d’Azione (Agency Model) le relazioni romantiche narcisistiche fanno parte di un sistema globale autoregolamentato. Cioè, le relazioni romantiche hanno un ruolo funzionale nella vita del narcisista che è simile a molti altri processi relazionali e comportamentali. In accordo con il Modello, ci sono almeno 5 qualità fondamentali che sono centrali nel narcisismo:

  1. Focalizzarsi sull’operato piuttosto che sulla condivisione (e.g., Campbell, 1999; Campbell e colleghi, 2006; Campbell e Foster, 2007; Campbell, Foster e Finkel, 2002; Campbell e Green, 2008);
  2. Visione di sé esagerata (John e Robins, 1994);
  3. Processi di auto regolazione che sono incentrati sull’ottenimento e il mantenimento dell’autostima (Campbell, 1999; Raskin, Novacek e Hogan, 1991);
  4. Pensare che tutto sia dovuto (Campbell, Bonacci, Shelton, Exline e Bushman, 2004);
  5. Un approccio mirato all’orientamento (Foster e Trimm, 2008).

Queste qualità fondamentali sono correlate a tre processi interconnessi: strategie intrapsichiche (es. fantasticare sul potere, credere di essere più attraente degli altri), capacità interpersonali (es. sicurezza, carisma, estroversione sociale) e strategie interpersonali (es. conquistare partner come fossero trofei, auto promozione). Coerente con il concetto di un sistema, questi processi si rafforzano a vicenda. Per esempio, la percezione dei narcisisti di essere altamente attraenti, in combinazione con l’estroversione sociale e il fascino, porta il narcisista nell’aggiudicarsi il partner come trofeo di alto rango. Questo, a sua volta, rinforza la sicurezza del narcisista e la visione di sé spropositata. Quando questo sistema funziona correttamente per il narcisista, il risultato è l’esperienza di “stima narcisistica”, per cui sperimenta un senso di autostima simile all’esperienza di un sorpasso (Baumeister e Vohs, 2001) ed è connesso alla dominanza sociale (Brown e Zeigler-Hill, 2004) e ai sentimenti di orgoglio (Tracy e Robins, 2004).

Il disturbo narcisistico di personalità svolge altresì un ruolo paradossale nelle relazioni. Il narcisismo è una forza potente per avviare relazioni positive a breve termine, ma anche la causa di un significativo ritorno di problemi a lungo termine. L’apparente paradosso è il risultato dei tratti dei narcisisti e dell’approccio alle relazioni. I narcisisti hanno una serie di qualità, la fiducia sociale, la piacevolezza e il fascino, che sono ottimali per l’inizio della relazione, ma se combinati con un altro insieme di qualità, come la bassa empatia, la centralità del sé e l’uso degli altri per il  mantenimento dell’autostima, sono distruttivi al funzionamento delle relazioni. Come conseguenza i narcisisti avviano ripetutamente nuovi rapporti, danneggiano la relazione e feriscono i loro partner, per poi passare ad un’altra relazione. Purtroppo, questo è il percorso ottimale per i narcisisti data la loro costituzione d’essere, ma non ottimale per i loro partner o la struttura sociale.

Narcisismo, sessualità e impegno nel rapporto di coppia

Il narcisismo e la sessualità sono stati messi in relazione l’uno all’altra, almeno dalle scritture di Freud (1914) e Ellis (1898). Tuttavia, al di fuori della letteratura psicodinamica, poca ricerca empirica ha affrontato il motivo per cui narcisismo e sessualità sono associati e quali conseguenze potrebbe avere questa associazione.

In uno studio, Foster e colleghi (2006) suggeriscono che per capire la relazione tra disturbo narcisistico di personalitàe la sessualità sia necessario, in primis, considerare l’orientamento interpersonale del narcisismo, il quale è decisamente aggressivo. Le persone narcisistiche si prendono cura delle loro qualità aggressive, come il potere, la dominanza e l’estroversione, e non mostrano la stessa considerazione per le qualità condivise, come l’intimità emotiva e la calorosità (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Brunell, e Finkel, 2006). Gli autori propongono che questo orientamento si rifletta negli atteggiamenti e comportamenti sessuali di persone con personalità narcisistiche. Inoltre, essi aggiungono che l’approccio narcisistico alla sessualità abbia implicazioni nel funzionamento delle loro relazioni.

Il termine “narcisismo” è stato applicato tradizionalmente a un disturbo specifico della personalità: Narcisistic Personality Disorder o NPD (American Psychiatric Association, 1994). Durante gli ultimi 25 anni, tuttavia, i ricercatori nel campo della personalità e della psicologia sociale hanno studiato una dimensione della personalità etichettata come narcisismo “normale”. Una persona con narcisismo normale può possedere alcune delle caratteristiche del NPD; tuttavia, la maggior parte degli individui con alti livelli di narcisismo normale non soddisfa la diagnosi criteri per NPD. Il narcisismo normale elevato è tipicamente definito come punteggio sopra la media sul Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin e Terry, 1988). Nel presente articolo quando ci riferiamo al narcisismo, ci riferiamo al narcisismo normale – o narcisismo così come viene misurato con l’NPI o altri strumenti simili.

C’è un corpus vasto e crescente di letteratura sul tema del narcisismo normale (vedi Campbell & Foster, in stampa, per la revisione). Come ci si potrebbe attendere, il narcisismo è associato ad atteggiamenti positivi verso se stessi (ad esempio, alta autostima, Brown e Zeigler-Hill, 2004). Coerentemente con il loro orientamento aggressivo, tuttavia, gli individui narcisisti adottano atteggiamenti più fortemente positivi nei confronti di sé stessi per quanto riguarda i tratti agentici (ad es., l’intelligenza, l’attrattività). Sono meno positivi (e si preoccupano meno) riguardo i tratti comuni (ad esempio, l’intimità, la cura) (Campbell, Rudich e Sedikides, 2002).

Campbell e colleghi (2006) suggeriscono che l’orientamento agentico del narcisismo sia legato al cattivo funzionamento delle relazioni, come il basso livello di impegno nei rapporti (Campbell e Foster, 2002), alti livelli di infedeltà (Campbell, Foster e Finkel, 2002) e bassa intimità emotiva (Foster, Shrira, Campbell e Loggins, 2003). Poiché il narcisismo è associato a un cattivo funzionamento delle relazioni in una varietà di modi, è importante scoprire le radici di queste associazioni. Cioè, perché i partner romantici narcisistici sono meno impegnati, meno fedeli, e meno emotivamente intimi?

Una prerogativa importante delle relazioni che può influenzare tutti questi problemi, ma che ha ricevuto pochissima attenzione da parte dei ricercatori sul narcisismo, è quella sulla sessualità. La sessualità è una componente chiave di molte relazioni romantiche. Se il narcisismo influenza la sessualità, il collegamento può avere una serie di importanti implicazioni per le relazioni che coinvolgono partner romantici narcisistici. Pertanto, è fondamentale comprendere (a) in che modo il narcisismo e la sessualità sono collegati e (b) se questo collegamento è chiarificatore del funzionamento delle relazioni (ad es. Livelli di impegno) che coinvolgono partner narcisistici.

Lo scopo di diversi studi è stato quello di esaminare gli antecedenti e le conseguenze della sessualità in relazione al narcisismo. A questo riguardo, modelli teorici di narcisismo, come la sociosessualità (il costrutto della sociosessualità, o dell’orientamento sociosessuale, coglie le differenze individuali nella tendenza ad avere relazioni sessuali casuali e senza impegno) e l’impegno relazionale, sono stati testati attraverso due studi. Attraverso gli studi, gli autori hanno esaminato le radici della sociosessualità senza restrizioni (impegnarsi nel sesso in una fase precedente delle loro relazioni, fare sesso con più di un partner alla volta, essere coinvolti in relazioni sessuali caratterizzate da minori investimenti, impegno, amore e dipendenza) e poi hanno utilizzato la sociosessualità per spiegare la mancanza di impegno relazionale segnalata dai partner narcisistici romantici. Coerentemente con i loro modelli, un maggiore narcisismo è associato a una sociosessualità con meno restrizioni. Inoltre la sociosessualità senza restrizioni ha rappresentato l’associazione negativa tra narcisismo e impegno relazionale. Poiché questi modelli si focalizzano su diversi aspetti del narcisismo e della sessualità (cioè, antecedenti e conseguenze), sono stati testati in due studi separati. È importante, tuttavia, vedere i risultati degli studi presenti nel loro insieme per apprezzare appieno le implicazioni di questa ricerca.

Gli individui con personalità narcisistiche inoltre tenderebbero ad avere punti di vista un po’ diversi sulla sessualità. Coerente con l’orientamento agentico (lo stato agentico è una spiegazione dell’obbedienza offerta da Milgram per cui un individuo esegue gli ordini di una figura di autorità, agendo come suo agente) del narcisismo (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Rudich e Sedikides, 2002) e più specificamente con il modello narcisistico dell’Azione (Campbell e colleghi., 2006), il narcisismo è collegato a un bias egoistico nella sfera sessuale: il sesso con un partner avente alti livelli di narcisismo sembra essere caratterizzato da alti punteggi di individualità piuttosto che da intimità condivisa. Come è stato proposto, la natura agentica della sessualità, caratteristica degli individui con elevati tratti di narcisismo, è associata alla sottostima di gratificazioni condivise dei rapporti sessuali (ad esempio, l’intimità emotiva) e a una maggiore importanza data alle gratificazioni agentiche (ad es. piacere fisico).

La presente panoramica offre modelli teorici empiricamente testati che forniscono un primo passo verso la comprensione di una relazione potenzialmente complessa. Sebbene i ricercatori siano consapevoli che le persone con livelli di narcisismo più elevati riportano un bias agentico generalizzato (Bradlee e Emmons, 1992) che si estende anche alle loro relazioni sentimentali (Campbell, 1999; Campbell e colleghi., 2006), non è mai stato dimostrato empiricamente che il narcisismo sia associato a un bias simile per quanto riguarda la sessualità. Il modello narcisistico d’Azione di Campbell (2006) dipinge un ritratto molto simile di narcisismo e relazioni. Campbell (1999) trovò che gli individui narcisistici sono più attratti da altri che possiedono tratti che possono avvantaggiarli personalmente (ad esempio l’attrattività fisica) piuttosto che quelli che possono giovare alla relazione (ad esempio essere emotivamente intimi).

 

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