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La correlazione che non ci si aspetta: come gli stili di attaccamento influenzano le decisioni finanziarie

Un recente studio si propone di comprendere se e come l’attaccamento romantico e la soddisfazione finanziaria siano in relazione tra loro. Esiste una correlazione?

 

È ormai risaputo quanto gli stili di attaccamento (Bowlby, 1973) che si sviluppano nei primi anni di vita siano decisivi per ogni aspetto della personalità e del comportamento degli individui. Tuttavia, nel presente studio viene presa in considerazione un’associazione di cui non si sente spesso parlare: il rapporto che esiste tra le scelte finanziare di tutti i giorni e l’influenza che gli stili di attaccamento individuali hanno su queste (Li et al., 2020).

Durante l’infanzia, le figure di attaccamento principali sono tendenzialmente i genitori (in particolare la madre; Bowlby, 1973) mentre, andando avanti con l’età, gradualmente aumentano di importanza le relazioni romantiche, che in età adulta diventano i rapporti d’attaccamento d’elezione (Shaver and Mikulincer, 2006): uno stile di attaccamento sicuro durante la giovane età porta, come dimostrato da diversi studi, a una soddisfazione di vita maggiore (es. Cook et al., 2017; Moore and Leung, 2002).

Gli stili di attaccamento possono essere di diversi tipi, ma nel presente articolo gli autori si sono concentrati sull’attachment anxiety (quello che in Italiano definiamo attaccamento ansioso/ambivalente), ovvero uno stile caratterizzato da una bassa stima di sé stessi e un’alta considerazione dell’altro, che porta la persona a temere costantemente un abbandono, e sull’attachment avoidance (ovvero lo stile di attaccamento insicuro/evitante), caratterizzato da un’alta considerazione di sé e una bassa stima dell’altro dal quale deriva l’evitamento delle relazioni affettive (Bowlby, 1973).

A questo punto, come si possono mettere in relazione gli stili di attaccamento con i comportamenti finanziari? La soddisfazione economica (intesa qui come la soddisfazione per le proprie finanze), così come una buona relazione di attaccamento, è uno dei più potenti indicatori di benessere per gli individui (Joo and Grable, 2004) e molto spesso i ricercatori hanno espresso la necessità di correlare questa variabile con i tratti psicologici (Ng and Diener, 2014). Lo scopo principale di questo studio è proprio comprendere come l’attaccamento romantico e la soddisfazione finanziaria siano in relazione tra loro (Li et al., 2020).

Gli autori hanno reclutato 635 soggetti, tutti impegnati in una relazione romantica, che avevano frequentato 5 anni di college. A ognuno di loro sono stati forniti strumenti self-report per valutare i comportamenti finanziari (es. spendaccione o tendente al risparmio), la soddisfazione finanziaria e lo stile di attaccamento (Li et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che sia l’attaccamento ansioso/ambivalente sia l’insicuro/evitante erano correlati a una scarsa soddisfazione generale di vita e una scarsa soddisfazione relazionale. L’attaccamento ansioso/ambivalente era correlato a una bassa soddisfazione finanziaria e comportamenti finanziari più irresponsabili. Inoltre, sia l’attaccamento ansioso/ambivalente sia l’insicuro/evitante sono stati correlati a una minor soddisfazione relazionale dovuta ai comportamenti finanziari del partner (Li et al., 2020).

In conclusione, il presente studio ha dimostrato una correlazione tra comportamenti finanziari e stili di attaccamento, aprendo la strada a una serie di possibili risvolti in campo sia terapeutico che di ricerca.

 

Il mondo interno del terapeuta in quarantena

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana, riorganizzare la nostra vita privata e lavorativa e spesso fare delle scelte terapeutiche diverse con i nostri pazienti. Quale impatto può avere l’emergenza Coronavirus sul lavoro del terapeuta?

 

In alcuni articoli precedenti abbiamo ricordato quanto il terapeuta sia un essere umano al pari dei pazienti che cura, con proprie vulnerabilità, con possibili schemi interpersonali problematici, con emozioni intense.

Lo sto scoprendo ancor di più in questi giorni. Per sentirci meno soli, con i miei amici e colleghi abbiamo creato chat di gruppo e abbiamo regolarmente stabilito di vederci su Skype. Confrontandoci, emergono vissuti simili e la necessità di dover mediare tra il modo in cui noi stessi stiamo affrontando la quarantena e le esigenze dei nostri pazienti. Noi continuiamo a svolgere il nostro lavoro tramite sedute online. Alcuni pazienti, nonostante tutto, sembrano tollerare la clausura forzata e gli impedimenti che ci sono stati obbligati, altri lo fanno con più fatica. Una fetta, sta male. Una fetta di pazienti continua a fare il suo giusto lavoro: il paziente fa il paziente. Però, almeno a me, al 16esimo giorno, diventa tutto più difficile ed è più faticoso essere la stessa terapeuta di un mese fa. Mi sono accorta del mio sovraccarico quando una paziente mi ha cercato per qualche minuto di telefonata ed io le ho chiesto di scusarmi e capirmi, ma che ci saremmo dovute sentire l’indomani perché in quel momento non le sarei stata d’aiuto.

Cosa mi stava accadendo?

Da terapeuta, avevo appena concluso la mia ultima seduta Skype della settimana ed ero sinceramente stanca. Da essere umana in quarantena forzata avevo appena finito di disperarmi per una serie di cose. In quel momento, ero affranta. Triste. Volevo solo leggere. Dedicarmi al mio workout. Volevo scrivere. Forse volevo impastare le zeppole. Accarezzare il mio gatto. O semplicemente fissare il soffitto. Insomma, volevo fermarmi. Si perché, un terapeuta non è risparmiato da quello che stare in casa comporta. La prima settimana ci dicevamo “vabbè, che sarà mai un po’ di reclusione!”. La seconda “vabbè, ne approfitto per riposarmi…”. La terza “forse inizio a non tollerare più niente”. Credo, che, la chiave di tutto stia nell’esserne finemente consapevole e gestirlo alla meno peggio.

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana. Ci troviamo costretti con i nostri familiari e con le dinamiche complesse che ne derivano. Ho colleghe che, con i figli in casa, hanno dovuto ridimensionare di molto le ore dedicate al lavoro. Ho colleghe che, lavorando principalmente con i bimbi, magari con disabilità importanti, hanno dovuto mettere in stand by il loro percorso. Alcune colleghe che lavorano in territori devastati dal Covid-19 cercano a tutti i costi di non crollare nonostante siano in piena emergenza. Altri continuano a lavorare in ospedali e servizi pubblici, dovendo quindi essere continuamente prudenti e dovendo gestire comprensibili paure.

Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte che hanno riguardato la vita privata e lavorativa. Ad esempio io ho dovuto rinunciare alla mia indipendenza in casa perché, al settimo giorno, completamente sola, in 50 mq, mi sentivo di impazzire. Dopo due ore, me ne ero già pentita. Ho dovuto riorganizzare il mio lavoro. Assieme ai miei colleghi abbiamo dovuto chiudere lo studio in cui lavoravamo quotidianamente. Ho dovuto mettere in pausa dei progetti lavorativi e di vita, che avevo finalmente realizzato dopo tanta fatica. Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte e dei nuovi piani. Anche con i pazienti. Ad esempio, con coloro su cui stavamo lavorando su aspetti interpersonali, e magari avevano appena iniziato ad uscire, a confrontarsi con l’altro, abbiamo dovuto reinventarci. All’inizio, quando mi sono resa conto che stava accadendo questo, ho anche provato frustrazione e rabbia perché certe cose funzionano bene e altre meno. Ma anche in questo caso, accettiamo consapevolmente i compromessi.

In tutto ciò dobbiamo pur far fronte alle richieste dei pazienti. Ma mentre chiediamo loro di differenziare (Dimaggio et al., 2013) e di accogliere e tollerare le emozioni negative, collegate allo schema patogeno, magari vissute intensamente anche a livello corporeo (Dimaggio et al., 2019), mi ricordo che proprio qualche sera fa ho cominciato a lamentarmi di quanto mi sentissi costretta ed impotente. Ruminavo, dimenticandomi io stessa di differenziare. Sappiamo quanto sia tremendamente difficile fare questa operazione nei casi in cui, aspetti reali colludono e aderiscono alle previsioni dello schema. E’ un po’ come quando diciamo ai nostri pazienti: “Prova a non sentirti totalmente incapace neppure quando il capo ti riprende” oppure “Prova a non sentirti abbandonata se il tuo compagno ti molla improvvisamente”. Su di me, dovrebbe suonare così “Prova a non sentirti impotente o incapace anche se devi restare a casa e non puoi uscire. Insomma prova a sentirti libera ed esplorativa anche se tutto, intorno a te, ti dice il contrario”.

E qui viene il bello. Consapevolezza dello schema, coping funzionali e mastery (Dimaggio et al., 2013) sono la combo perfetta per superare questo periodo. L’insieme di queste strategie, dalle più semplici a quelle più raffinate, da quelle automatiche a quelle apprese, configurano quella che si può chiamare “autoregolazione emotiva” (Dimaggio et al., 2019). Ci riferiamo ad una serie di strategie attentive, di mindfulness, di attivazione corporea che fanno da contraltare ad altre modalità ad esempio ruminative o di evitamento emotivo poco funzionali, che possono addirittura intensificare lo stato doloroso. Eppure, in momenti come questo, in cui le condizioni contingenti mettono a dura prova le nostre competenze, tutte le abilità sembrano dimenticate e lontane pur avendole, invece, a portata di mano. Le strategie più complesse chiamano in causa metacognizione, riconoscimento del proprio funzionamento e capacità di elaborare e modificare lì dove possibile, oppure, semplicemente, accettare e tollerare. In momenti di stress generale, facciamo più fatica a mantenere tutto questo a galla.

E quindi, ogni tanto mi ricordo di respirare, di centrarmi e di andare avanti. So che schiacciare nuovamente il play avrà il suo perché. So che avrà un bel gusto poter organizzare il mio prossimo viaggio. Ritornare a vedere i miei colleghi. Riabbracciare delle persone. Non sappiamo, sinceramente, quando accadrà. Ma sarà bello. E ci sentiremo di nuovo tutti vitalizzati ed esplorativi.

 

La Sindrome di Smith Magenis: difficoltà genitoriali e strategie psicoeducative

La sindrome di Smith Magenis (SMS), di recente scoperta, è una malattia genetica ancora poco conosciuta: è una condizione genetica autosomica dominante, caratterizzata da un pattern di caratteristiche fisiche, ritardo nello sviluppo, disturbi del comportamento e del sonno (Shayota & Helsea, 2018). 

Sara Angelicchio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Ad oggi, la prevalenza mondiale è di 1 su 25.000 su tutti i gruppi etnici, anche se tali dati possono essere soggetti ad una sottostima, dovuta ad una sottodiagnosi. A causa della rarità della sindrome, finora la poca letteratura a riguardo si è incentrata su aspetti medici, permettendo di scoprirne gli aspetti eziologici e genetici alla base. Questi aspetti hanno permesso di consolidare sempre più i principi diagnostici e riabilitativi e, negli ultimi anni, di fornire linee guida psico-educative e sostegno psicologico ai soggetti affetti, alle famiglie ed agli operatori scolastici che li hanno in carico.

Tale sindrome è stata scoperta nel 1986, da Ann C. M. Smith, consulente genetica presso il National Institute of Health degli Stati Uniti e R. Ellen Magenis, pediatra presso l’Oregon Health Sciences University (Smith et al., 1986). La sindrome è causata nel 90% dei casi da una microdelezione del cromosoma 71, p11.2., contenente il gene RAI1 (retinoic acid-induced 1) e nel 10% dei casi da una mutazione del gene stesso. Oggigiorno la maggior parte dei casi viene diagnosticata entro la prima infanzia, sebbene i sintomi possono manifestarsi sin dalla nascita (Shayota & Helsea, 2018). Questa diagnosi precoce è resa possibile dai continui progressi nella testistica genetica, nonché dalla maggiore accessibilità a tali valutazioni.

Caratteristiche fisiche

Le caratteristiche fisiche riscontrate in individui con sindrome di Smith Magenis sono:

  • segni craniofacciali, tra cui brachicefalia, fronte bombata, ipertelorismo, sinofria, rime palpebrali oblique verso l’alto, ipoplasia mediofacciale, faccia quadrata larga con sella nasale depressa, labbro superiore rovesciato a “tenda”, micrognatia neonatale;
  • altre anomalie scheletriche, tra cui brachidattilia, scoliosi, clinodattilia del quinto dito delle mani, sindattilia delle dita dei piedi 2-3, movimenti limitati dell’avambraccio e del gomito, anomalie vertebrali, persistenza dei rigonfiamenti fetali sui polpastrelli delle dita delle mani, polidattilia;
  • frequenti disturbi otorinolaringoiatrici, tra cui insufficienza velofaringea, voce profonda e rauca, noduli/polipi sulle corde vocali;
  • segni oftalmologici, tra cui miopia, anomalie iridee, di rado distacco della retina spesso in seguito a comportamenti violenti. La perdita dell’udito, nel 60% dei pazienti circa, è variabile e può essere lieve-moderata;
  • le malformazioni a livello degli organi, riscontrate nel 30-40% dei casi,  includono cardiopatie, le anomalie renali, urinarie e del Sistema Nervoso Centrale;
  • ridotta sensibilità al dolore.

Ritardo nello sviluppo

Gli individui con sindrome di Smith Magenis nell’infanzia manifestano ritardo in diversi ambiti dello sviluppo:

  • Ritardo nella crescita.
  • Ritardo nello sviluppo motorio: i soggetti affetti dalla sindrome appaiono come “goffi” nei movimenti, impressione dovuta all’ipotonia muscolare. Hanno anche difficoltà a percepire il proprio schema corporeo e difficoltà di coordinazione, che, unite all’analgesia citata sopra, incrementano la difficoltà di relazione tra il proprio corpo e l’ambiente circostante.
  • Ritardo nello sviluppo del linguaggio, rilevato nel 90% dei casi, con o senza perdita dell’udito (Gropman, Duncan & Smith, 2006). Solitamente il linguaggio espressivo è più compromesso di quello ricettivo: all’età di 2 o 3 anni i bambini affetti da tale sindrome faticano ad usare parole strutturate e si esprimono verbalmente con grugniti, gorgoglii, strilli e suoni non articolati. Spesso arricchiscono il loro linguaggio con la comunicazione non verbale, come gesti.
  • Ritardo nello sviluppo cognitivo, presente nella grande maggioranza dei pazienti con sindrome di Smith Magenis. Il ritardo cognitivo causa spesso difficoltà di apprendimento della letto-scrittura: i soggetti analizzati spesso hanno una capacità, variabile secondo i casi, di lettura globale, dovuta ad un funzionamento di tipo gestaltico più che una vera e propria capacità di lettura. Inoltre appaiono intatte le capacità di riconoscimento di singole lettere e sillabe, sebbene sia compromessa la capacità di leggere parole intere o frasi. La scrittura è caratterizzata da difficoltà ancora maggiori, influenzate anche da alcune caratteristiche fisiche della sindrome, come la brachidattilia e gli aspetti relativi alla motricità fine.

Disturbi del comportamento

Solitamente i bambini al di sotto dei 18 mesi non manifestano disturbi comportamentali (Shayota & Elsea, 2018); la loro insorgenza è circa dai 18-24 mesi, con un incremento progressivo coincidente con le tappe di sviluppo. Spesso la comparsa dei comportamenti disfunzionali è influenzata da fattori ambientali. Possono infatti comparire in relazione alla ricerca di attenzione dell’adulto. I disturbi del comportamento associati alla sindrome di Smith Magenis si possono dividere nelle seguenti categorie: autolesionismo, eteroaggressività, iperattività, comportamenti alimentari disfunzionali e stereotipie:

  • Comportamenti autolesivi, quali onicotillomania  (strapparsi le pellicine), tricotillomania (strapparsi i capelli), colpirsi la testa con le mani o con oggetti, mordere o colpire il corpo con le mani e con oggetti.
  • Comportamenti aggressivi e distruzione di proprietà di altri, specialmente verso genitori e parenti, può essere verbale o fisica e impulsiva o programmata. Tali comportamenti sono riscontrabili maggiormente in individui con sindrome di Smith Magenis e concomitante perdita della vista o dell’udito (Bissels, Wilde, Richards, Moss, & Oliver, 2018). I comportamenti aggressivi, che compaiono dai 2 anni di età circa, sotto forma di disobbedienza e scatti d’ira, tendono ad aumentare con l’età, a causa del crescente divario tra sviluppo intellettivo e sviluppo emotivo.
  • Iperattività e comportamenti stereotipati, come “upper body squeezing” ( cingersi la parte superiore del corpo con le braccia, come in un abbraccio a se stessi), urlare, battere le mani, digrignare i denti, camminare avanti e indietro, dondolare con il corpo, ruotare e lanciare oggetti, fare smorfie. Questi comportamenti spesso guidano il medico nella valutazione e nella diagnosi della sindrome.
  • Comportamenti alimentari disfunzionali, che portano gli individui con sindrome ad avere un alto rischio di obesità, spesso notato da età 6-9 anni. Questo è ulteriormente influenzato da preferenze alimentari, iperfagia, abbuffate notturne.

La manifestazione e la frequenza dei comportamenti disfunzionali sopra descritti è influenzata anche e soprattutto dai disturbi del sonno.

Disturbi del sonno

I disturbi del sonno caratterizzano la totalità degli individui con sindrome di Smith Magenis e impattano significativamente sulla loro vita e su quella dei familiari; questi disturbi includono eccessi di sonnolenza, disturbi respiratori associati al sonno, parasonnie, sonnolenza diurna eccessiva, risvegli notturni frequenti e prolungati. Di norma l’addormentamento la sera avviene molto presto, così come il risveglio definitivo la mattina (Boudreau et al, 2009). Da un lato l’addormentamento anticipato esclude il soggetto da una parte della vita relazionale della famiglia e dall’altra i risvegli notturni condizionano pesantemente i cicli di riposo di tutti i membri. Tali vicissitudini comportano un incremento significativo del livello di fatica e frustrazione, che contribuisce ad aggravare i comportamenti disfunzionali descritti in precedenza. Tale peggioramento dei comportamenti causa un ulteriore aumento di stress nel nucleo familiare, alimentando un circolo vizioso di difficile rottura. Inoltre le fasi di sonnolenza diurna si manifestano con maggiore frequenza a metà giornata, cioè nella fase di maggiore e più intensa attività giornaliera; questo incrementa il senso di inadeguatezza e di differenza dagli altri, percepite da coloro che sono affetti dalla sindrome di Smith Magenis.

Stress genitoriale

Come si evince dai paragrafi precedenti, l’intreccio dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e i disturbi del sonno degli individui con sindrome di Smith Magenis coinvolge e “stravolge” la vita dei familiari e caregivers. Oltre all’aspetto traumatico della diagnosi, difficoltà comune ai genitori di bambini con altre disabilità, i genitori di bambini con questa sindrome sperimentano spesso un senso di impotenza percepita di fronte ai comportamenti aggressivi e distruttivi dei propri figli, che li mettono a dura prova. Inoltre i disturbi del sonno, che sovente richiedono vigilanza, portano i genitori a sconvolgere il proprio ciclo sonno-veglia, poiché spesso i comportamenti-problema si manifestano in associazione a questi. L’alterazione del ciclo sonno-veglia, che normalmente è sincronizzato con il ciclo luce-buio,  può portare a compromissione significativa del funzionamento lavorativo o sociale durante la giornata. Questi aspetti, sommati ad eventuali difficoltà o addirittura rifiuti da parte di ambienti sociali o ambienti scolastici  che non dispongono di personale educativo adeguatamente formato per interfacciarsi con questa realtà, alimentano notevolmente il livello di stress genitoriale, portando i genitori a esperire sentimenti di solitudine e sconforto. Per questi motivi, è fondamentale a seguito della diagnosi la formazione di un intervento multidisciplinare e di rete, che preveda, oltre alle terapie mediche, riabilitative ed educative destinate al bambino,  anche un sostegno psicologico familiare ed alla genitorialità per la coppia genitoriale. Questo intervento ha l’obiettivo di attivare le risorse genitoriali all’interno del sistema, fornire informazioni e strategie psico educative per la gestione dei comportamenti-problema e dei disturbi del sonno, così da migliorare significativamente la qualità di vita di tutta la famiglia.

Strategie psico-educative

Con individui affetti da sindrome di Smith Magenis sono raccomandate tecniche comportamentali per diminuire la frequenza e, progressivamente, estinguere i comportamenti-problema, sostituendoli a comportamenti maggiormente adattivi. Tali tecniche risultano efficaci se vengono utilizzate in tutti gli ambienti vissuti dal bambino e da tutti gli adulti che se ne prendono cura (genitori, educatori, insegnanti, etc.), in modo da dare la possibilità al bambino di costruire aspettative coerenti sulle conseguenze dei suoi comportamenti.

Con l’aiuto di un esperto (psicoterapeuta cognitivo comportamentale o tecnico ABA), identificare gli obiettivi, cioè i comportamenti del figlio che si desiderano aumentare di frequenza ed i comportamenti problema che si desiderano estinguere. Identificare poi i rinforzi positivi, cioè gli eventi che, messi in atto subito dopo un comportamento, aumentano la frequenza di tale comportamento. In seguito, è opportuno predisporre un programma di intervento in cui, ad ogni comportamento adattivo che si vuole rinforzare, è associato un rinforzo. Nel programma viene inserita anche la tecnica della Token Economy, che prevede che il bambino, a seguito dell’emissione di un numero preciso e definito di comportamenti adattivi specifici, guadagni un premio, cioè un rinforzo positivo. Ad esempio, si può pattuire con il proprio figlio che, ogni volta che comunica alla madre di voler andare via da un posto senza scappare e che si lava i denti da solo, guadagni un gettone, che può essere una croce o un adesivo applicato su un tabellone. Una volta arrivato a 10 gettoni, il bambino e la mamma possono organizzare una gita al lunapark insieme. Inoltre, spesso è opportuno ignorare i comportamenti che hanno la funzione di richiesta dell’attenzione dell’adulto, se tali comportamenti non sono aggressivi e/o pericolosi per il bambino o per gli altri. Tali tecniche, se applicate con il supervisore di un professionista, riducono in modo significativo la frequenza dei comportamenti oppositivi, provocatori e aggressivi ed incrementano l’autonomia del bambino.

Per quanto riguarda i disturbi del sonno, è opportuno costruire una routine del sonno stabile e regolare, in modo tale da poter essere prevedibile anche per il bambino. Tale routine include un sonnellino a metà mattina, la predisposizione di un ambiente con pochi stimoli eccitatori e con temperatura né troppo calda, né troppo fredda, e l’utilizzo di rumore bianco o suono ritmico per favorire l’addormentamento.

A volte è necessario avvalersi di un letto provvisto di barre di protezione, al fine di diminuire la frequenza di comportamenti autolesivi e camminate notturne.

 

Coronavirus: il rispetto delle regole dal punto di vista dello psicologo

Dopo l’effetto della paura sui nostri comportamenti, oggi parliamo di quali sono le basi psicologiche correlate al rispetto delle regole. Argomento importante in generale ma, soprattutto, in una condizione particolare come quella che stiamo vivendo.

Articolo originariamente pubblicato su Medical Facts il 26 marzo 2020

 

Molte cose sono incerte in questo momento, ma una è certa: l’azione di contenimento dell’epidemia richiede interventi specifici sul comportamento delle persone. Mentre gli epidemiologi cercano di capire l’andamento dell’epidemia, i virologi in laboratorio studiano e fanno ricerca per sviluppare un vaccino o una terapia specifica, medici e infermieri in ospedale cercano di salvare più vite umane possibile, mentre economisti cercano di ipotizzare scenari sostenibili futuri, l’azione di contenimento è basata sul controllo del comportamento delle persone in base alla regola: dobbiamo distanziarci socialmente, dobbiamo stare a casa.

Il comportamento è influenzato da due fattori principali: l’esperienza diretta, afferro il manico bollente della caffettiera e mi scotto, (e la prossima volta sto ben attento a usare una presina), o l’esperienza trasmessa a parole , “non andare dove non tocchi che affoghi”. La prima è più efficace, la seconda previene da esperienze pericolose o letali.

L’esperienza diretta funziona nel far percepire alle persone il pericolo della vicinanza e nel mantenere la gente a casa, principalmente per le persone che hanno un parente ricoverato in ospedale o un parente che lavora come medico o infermiere in ospedale; in altre parole per chi ha avuto esperienza personale della sofferenza e della preoccupazione. Per gli altri dovrebbe essere sufficiente la proposizione di una regola che descrive le conseguenze di un comportamento: dobbiamo stare a casa per limitare le occasioni di contagio tra persone. Abbiamo visto come la percezione del rischio, per diversi motivi, sia ancora bassa, e troppa gente continui a essere per strada (ogni giorno sempre meno, fortunatamente).

Le regole

Perché una regola funzioni, con un gioco di parole direi che bisogna rispettare alcune regole, principi che derivano dai dati sperimentali. Il comportamento da mantenere/modificare deve essere espresso in modo chiaro, limitando il più possibile le ambiguità, le contraddizioni e le eccezioni. Mantenere una distanza di 1,5 metri da un’altra persona è chiaro, comprensibile, misurabile, basato su dati certi (la distanza che il virus non può superare con il suo vettore, le goccioline di saliva). Infatti, stando almeno alle immagini delle persone in fila ai supermercati, funziona.

La regola “state a casa”, e il suo reciproco, “non uscite di casa”, presentano vari problemi. Impossibile rispettarla letteralmente: troppe le eccezioni, troppe le interpretazioni. Quali comportamenti “uscire di casa per” sono consentiti? Acquistare beni necessari (cibo, medicine), andare in posta, andare in banca, andare al lavoro, passeggiare/correre, aiutare un parente, “scendere” (sic!) il cane, gettare la spazzatura, e potrei continuare ancora per molto. Con quale frequenza queste uscite sono consentite? L’uscita del cane 2/3 volte al giorno va bene, ma la spesa ogni giorno non va bene. Non va bene neanche che la spesa si faccia nel centro commerciale o nell’iper dei paesi limitrofi invece che nel supermercato o nel negozio sotto casa, e non va bene neanche che il povero cane venga portato a fare i suoi bisogni lontano kilometri da casa.

Mi fermo per non diventare stucchevole e petulante. Il senso è questo: se bisogna stabilire regole di comportamento ci si deve affidare a esperti di comportamento umano, appartenenti a diverse discipline, i quali possono affrontare in primis un aspetto fondamentale delle regole: la descrizione delle conseguenze della violazione della regola. “Attento, che se vai in acqua dove non tocchi bevi e affoghi”: quante volte abbiamo visto la scena, con un bambino che comincia ad annaspare e un adulto che prontamente interviene per afferrarlo e portarlo in sicurezza? In questo caso la conseguenza della violazione della regola è certa, immediata e naturale.

Se si viola la regola “Non uscite di casa” la conseguenza non è invece così immediata, diretta e naturale, non è come “se tocchi l’asciugacapelli con mani e piedi bagnati ti prendi una bella scossa”. L’effetto del contagio non è lineare e immediato, c’è il periodo di incubazione, la probabilità (o quanto meno il pensiero) di sfangarla, l’”overconfidence bias” “ma io sto attento”, la giustificazione “ma io ho bisogno di…”. La catastrofe è in arrivo, ma non è ancora visibilmente arrivata pertanto è facile atteggiarsi in modo supponente all’invito a restare a casa.

Poi c’è un altro fattore per cui gli individui hanno un atteggiamento sprezzante nei confronti dei consigli di scienziati ed esperti di salute pubblica. La scienza del comportamento si è occupata della reattività psicologica, un concetto introdotto già nel 1966 dallo psicologo sociale americano Jack Brehm, che usa il termine reattanza (reactance) per descrivere una particolare forma di reazione a regole che minacciano o limitano alcune libertà di azione. Nelle sue parole, la reattanza psicologica si riferisce all’idea che nelle situazioni in cui le libertà individuali sono ridotte o a rischio di riduzione, le persone sembrano motivate a riconquistare tali libertà. Cioè, quando ci viene detto che cosa fare o non fare, una parte di noi è spinta a fare il contrario: popolarmente questo atteggiamento viene riassunto dalla frase “tutto ciò che è proibito è desiderabile” (antico proverbio arabo).

La reattanza è l’altra faccia della medaglia della compliance e dell’aderenza, termine con cui si indica il comportamento di seguire le prescrizioni e le indicazioni terapeutiche (anche i medici conoscono bene questo problema, dato si stima che il 50 % dei pazienti non segua correttamente le indicazioni terapeutiche). Ci sono sicuramente fattori socio-culturali, oltre che individuali, che influenzano questa reattività, ad esempio la concezione di Stato come bene comune frutto di un contratto sociale da rispettare (paesi nordici) o il concetto di libertà individuale che prevale su ogni cosa (Stati Uniti).

Gli esperti

Un altro elemento patogeno, che proviene dagli Stati Uniti e ha attecchito subito anche in Italia, è il fastidio per la competenza e verso gli esperti percepiti e etichettati come élite culturali (“professoroni”) con atteggiamento snob. Inoltre il coronavirus trova alimento in un virus sociale che è diventato endemico nella nostra società negli ultimi anni: disinformazione e ignoranza. Tuttavia, chi si occupa di scienza deve possedere l’umiltà di ricordarsi socraticamente che, a volte, e in contesti diversi, siamo tutti ignoranti. Dobbiamo tutti trattarla come una variabile conosciuta, di cui tener conto come condizione di partenza nell’elaborazione di una strategia comportamentale di intervento: prima cosa, ricordare che messaggi contrastanti generano confusione, e sono da evitare come la peste (per restare in tema).

Di tutti questi fattori i governanti dovrebbero essere consapevoli. Il momento di dar retta agli esperti (quelli veri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, non i ciarlatani) non è più procrastinabile, perché è grazie a loro che il mondo ha sconfitto malattie terribili come la poliomielite e resistito a epidemie recenti come l’Ebola. La Scienza si basa sulla realtà dei fatti, e richiede che i governanti dicano la verità: minimizzare la gravità della situazione, o cercare scuse e/o colpevoli (immaginari) per quanto sta accadendo è una pessima scelta, che oltretutto dà voce e potenzia la reattività: se penso che tutti ci mentano sono autorizzato a disobbedire alle “loro” regole.

Le opzioni da scegliere

L’esempio italiano dimostra che le misure devono essere messe in atto immediatamente, messe in atto con assoluta chiarezza e fatte rispettare rigorosamente. (Jason Horowitz)

Queste parole sono di Jason Horowitz, sul New York Times del 22 marzo. In effetti, seppur tardivamente, qualche paese che aveva atteggiamenti supponenti come quelli descritti nei paragrafi precedenti, ha poi seguito il suo consiglio.

Sulla chiarezza dal punto di vista comportamentale ho già detto, dal punto di vista del diritto lascio la parola a chi ne sa (Sabino Cassese sul Corriere del 24 marzo).

Circa il mettere in atto c’è un punto importante da chiarire: uso una metafora medica, in modo generico, sperando che il prof. Burioni non me ne voglia: la somministrazione sottodosaggio di un farmaco, sia un antibiotico per combattere un’infezione, o un antidolorifico per attenuare la sofferenza, è una delle scelte peggiori, non ottiene gli effetti dovuti e presenta comunque la tossicità di ogni farmaco. Il dosaggio va fatto conoscendo le caratteristiche del soggetto e della malattia da curare (per questo si consiglia di rivolgersi al proprio medico curante e di non seguire i consigli del vicino di casa).

Fuori di metafora il consiglio che l’esempio italiano può dare agli altri paesi (e che i loro governanti non seguiranno) è di partire subito con il dosaggio giusto, evitando interventi blandi a intensità progressiva. Il nostro paese sta ancora inseguendo il virus per questo motivo. Gli esperti sanitari (con qualche eccezione purtroppo) si erano espressi dall’inizio per una soluzione ad alto (giusto) dosaggio.

Spero sia chiaro a tutti che la soluzione lockdown, cioè chiusura totale delle attività-rimanere a casa, è necessaria ma non è sostenibile a lungo. Bisogna pensare ora anche al dopo, e bisogna pensare in termini strategici, sulla base di dati e di modelli. Tomas Pueyo, su Medium del 19 marzo, affronta sulla base dei dati il problema della scelta fra varie opzioni di intervento (mitigare vs sopprimere), usando la metafora the Hammer and the Dance, il martello e la danza. L’opzione martello significa agire subito in modo forte, chiusura e distanziamento totali. Se si adottano strategie di tracciamento dei contatti come quelle adottate in Cina, Korea, Singapore, questa fase può essere limitata nel tempo: dipende dalla capacità della popolazione di seguire disciplinatamente le regole (vedere sopra), in ogni caso possiamo ragionare in termini di settimane invece che di mesi di blocco e di isolamento totali.

La fase successiva è quella chiamata la danza. La metafora della danza viene usata nella psicologia del comportamento anche per descrivere le interazioni psicologiche genitori-figli, che si caratterizzano (dovrebbero) come un movimento armonico, sintonizzato, sincronizzato, agile. Nel caso dell’epidemia COVID-19 significa che dopo la fase Martello il virus non è stato debellato, però dovrebbe essere stato messo sotto controllo, per portare la mortalità a un livello accettabile e per guadagnare tempo in attesa dello sviluppo di un vaccino. Nella fase Danza continuano attività di quarantena, di test, di distanziamento sociale e di igiene, ma si eliminano le forme più severe di restrizione. Si modulano gli interventi in modo mirato a seconda delle zone e dei contesti, ma si fa riprendere la vita e l’attività di molte persone.

Ci serve tempo, dobbiamo prendere tempo, dice Pueio. Tempo da usare per sviluppare e applicare una strategia meditata, basata su dati attendibili, con il contributo degli esperti di molte discipline, che in questi giorni si sono espressi pubblicamente sui principali social media. E abbiamo bisogno anche del “coraggio della speranza”.

 

Io sono Iron Man, l’uomo di ferro con il cuore fragile – La LIBET nelle narrazioni

Tony Stark era un bambino pervaso da sensazioni di non amabilità e di non essere mai abbastanza che crescendo ha sviluppato delle strategie volte alla continua ricerca di gratificazione e di successo e all’evitamento di relazioni profonde e stabili, con lo scopo di stare lontano da questa sofferenza.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 12) Iron Man

 

Iron Man, come molti ben sanno, è il primo capitolo di una trilogia che va ad inserirsi nel più ampio universo Marvel (MCU- Marvel Cinematic Universe), dove eroi ed antieroi danno vita ad una continua lotta tra bene e male, fino a mettere in discussione cosa possa essere buono e cosa malvagio.

Iron Man, all’anagrafe Tony Stark, è un “genio miliardario, play boy, filantropo”, per citare le sue stesse parole, un uomo brillante, famoso per il suo successo con le donne e amante delle belle cose. Una vita apparentemente perfetta, peccato che sarà proprio questa la sua fonte più grande di sofferenza, le cui origini non sono da cercare molto lontano.

Quello che infatti scopriamo, anche grazie al film Iron Man 3 e alla tecnologia RIMBA, è un adolescente con un padre estremamente critico e severo nei suoi confronti (“Puoi non incendiare la casa prima di lunedì?”, “Dicono che il sarcasmo sia un mezzo per misurare il potenziale, fosse vero un giorno diventerai un grande uomo”) da un lato, e con una madre che cerca di smorzare i toni e spiegare al figlio come il padre gli voglia bene. Ma purtroppo non basterà tale premura ad evitare quella sensazione di non amabilità e di non essere mai abbastanza agli occhi di suo padre, distante non solo sul piano fisico, ma anche e soprattutto emotivo, creando un vuoto che una volta adulto cercherà di colmare con le cose materiali. A tutto ciò si aggiunge anche il senso del dover essere a tutti i costi all’altezza di Stark padre, che ha collaborato a sconfiggere i nazisti e lavorato al progetto Manhattan, motivi per cui molta gente lo considera un eroe, senza minimamente considerare gli sforzi che un tale compito richieda, fonte di ulteriore stress e frustrazione.

Ne deriva che, per evitare di entrare in contatto con questa sofferenza, Tony, una volta adulto, evita qualsiasi coinvolgimento di tipo emotivo, che lo porta a sedurre ogni sera una donna diversa, una strategia che potremmo definire prudenziale e che mette sistematicamente in atto con l’obiettivo di non amare nessuno, creando uno stato interno di sicurezza che lo rende immune dal contatto con il suo senso di inferiorità. Tony è alla continua ricerca di autogratificazione e successo, si circonda di donne che dimenticherà appena usciranno dal suo letto, non vuole relazioni serie e stabili. Tutto ciò lo porterà a costruirsi l’immagine sociale del play boy, così da essere riconosciuto dagli altri in questo status di successo dove è indiscusso il suo talento. Come non citare il famoso aneddoto del suo “dodici su dodici” con le modelle di copertina di Maxim, anche se lui ci tiene a precisare che ha avuto un conflitto di agenda con Miss Marzo, ma sulla copertina di Natale c’erano due gemelle.

Si può dire che utilizza la seduzione in modo narcisistico, cioè per compensare il senso di non valere abbastanza e poter essere ammirato e riconosciuto dagli altri e forse per essere considerato degno di stima e amore dallo stesso padre.

Sebbene Tony sembra essere riuscito a proteggersi dalla sua emotività tirando su un muro tra sé e gli altri, anche i muri più solidi sono destinati a crollare. Basterà infatti una serata di beneficenza a renderlo consapevole del complotto responsabile non solo del suo rapimento avvenuto mesi prima, ma anche della vendita illegale di armi ai terroristi da parte della sua azienda precedentemente chiusa da lui. Il culmine di insight tuttavia si avrà solamente quando scoprirà che Obediah Stane, che dopo la morte di suo padre era stato per Tony collega e mentore, ha presentato l’ingiunzione contro di lui per allontanarlo dall’azienda per prenderne il controllo e sarà proprio questa amara scoperta a determinare la trasformazione di Tony Stark in Iron Man, non più “un genio miliardario, playboy e filantropo”, ma colui che vuole giustizia e liberare il mondo dal male.

Tuttavia, possiamo notare come anche questa trasformazione, apparentemente benigna, sia ancora caratterizzata dal senso del dover essere a tutti i costi il migliore, alimentando in sé ancora di più rabbia verso un mondo che gli ha voltato le spalle troppo spesso e ansia per cercare di essere all’altezza di qualsiasi situazione.

Per concludere, possiamo notare come l’aver sperimentato emozioni negative in un’età critica come l’infanzia porti da adulti a distanziarsene il più possibile e di conseguenza al desiderio di non provarne più pur di non stare male. Ma tutta questa eccessiva prudenza ha a lungo termine dei costi elevatissimi, perché porta, non solo Tony ma chiunque si rispecchi in lui, a chiudersi sempre più in se stesso e a costruirsi un’immagine di sé che non è altro che il risultato della paura così grande di soffrire.

 

Può la mindfulness ridurre i livelli di paranoia?

La mindfulness è un’attitudine esercitata e sviluppata attraverso la pratica di una forma simil meditativa, sviluppata dai precetti del buddhismo, volta a portare l’attenzione del soggetto in maniera non giudicante verso il momento presente (Hölzel et al., 2011).

 

In ambito psicologico sono stati sviluppati svariati protocolli mindfulness validati in ambito clinico, che hanno mostrato diversi benefici significativi per il trattamento di alcuni disturbi mentali tra cui ansia e depressione; si evidenziano inoltre effetti più di stampo fisiologico, tra cui: miglioramento dei parametri ematici e del benessere fisico percepito. In aggiunta, è anche dimostrato come la pratica di questa disciplina porti allo sviluppo del corpo calloso, componente cerebrale presente nei mammiferi, composto da un fascio di assoni che interconnette i due emisferi cerebrali e che quindi favorisce e permette il trasferimento di informazioni tra i due emisferi e la loro coordinazione (Hölzel et al., 2011).

Altri effetti che possiamo osservare a livello cerebrale sono: l’incremento dell’attività del lobo prefrontale sinistro, la rimodulazione dell’attività dell’amigdala e la modulazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.

La mindfulness è una modalità di prestare attenzione, in particolare ci si concentra sul qui ed ora detto anche hic et nunc. Lo spostamento dell’attenzione sul momento presente deve essere non giudicante, al fine di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento di accettazione di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni (Hölzel et al., 2011).

Gli interventi terapeutici mindfulness-based hanno trovato espressione in diversi approcci metodologici in psicoterapia validati in ambito clinico, tra cui troviamo:

Un recente studio pubblicato a maggio 2019, si è proposto di esaminare il ruolo della mindfulness nell’attenuare i sintomi di paranoia negli studenti (Kingstone et al., 2019).

Il campione era composta da 68 soggetti, il disegno sperimentale utilizzato è quello longitudinale a singolo cieco, infatti gli studenti sono stati seguiti per una settimana.

A metà campione (34 soggetti) è stato fatto un training sulla mindfulness, mentre agli altri 34 soggetti è stato fatto un training sull’immaginazione visiva guidata; si tratta di una tecnica caratterizzata dal dirigere l’attenzione fuori dal momento presente (praticamente l’opposto della mindfulness) (Kingstone et al., 2019).

I livelli di paranoia sono stati misurati con la Paranoia and Depression Scale (PDS; Bodner & Mikulincer, 1998)

Da un punto di vista statistico, per verificare le differenze dei livelli di paranoia prima e dopo nei due gruppi, è stata eseguita una ANOVA a misure ripetute.

I risultati di questo studio mostrano che entrambi gli approcci hanno ridotto in maniera significativa i livelli di paranoia dei soggetti, tuttavia non si denota una differenza statisticamente significativa tra i due approcci terapeutici.

Per futuri studi i ricercatori si propongo di ripetere lo studio, questa volta confrontando mindfulness e psicoterapia placebo, cosi da verificare se ci sono risultati statisticamente significativi a favore dell’approccio mindfulness nel trattare i livelli di paranoia (Kingstone et al., 2019).

 

L’ABC del coronavirus in dialetto napoletano

Tradurre in dialetto napoletano l’ABC -come ha fatto il collega Diego Sarracino- ha le sue difficoltà ma anche i suoi vantaggi. L’ABC, come alcuni sanno, è uno strumento di valutazione dei pensieri disfunzionali, quelli che non ci aiutano ad affrontare le situazioni e che ci fanno stare male.

Lo svantaggio e il vantaggio di usare il napoletano è la sua natura di dialetto ricco di termini concreti e povero di parole astratte. Ad esempio, “pensieri disfunzionali” non c’è, ma c’è “pensà malamente” (pensar male) più vicino al concreto “pensieri che non ci aiutano” italiano. I pensieri che non ci aiutano sono quelli che trasformano le emozioni in ostacoli, invece di trattarle come segnali utili. Ad esempio, l’ansia è un segnale che ci avverte che c’è una prova da affrontare o un rischio da valutare. Diventa un ostacolo se la interpretiamo come un segnale di una nostra supposta inadeguatezza. Il pensiero che ci aiuta davanti a un esame o di fronte al coronavirus è: “c’è un problema”. Quello che non ci aiuta (in napoletano: “o’ pensà malamente”) può essere “non ce la farò” o peggio “non sono all’altezza”. Così le emozioni, ci insegnava Ellis in slang nuovaiorchese, diventano auto-svalutazioni invece che pungoli all’azione.

Il dialetto napoletano popolare, che per sua fortuna non è mai stato una lingua (la “lingua napoletana” classificata dall’Unesco è in realtà il volgare pugliese parlato alla corte dei re di Napoli con cui si componevano poesie e si redigevano i documenti della cancelleria e poco ha a che fare con il dialetto napoletano) ci aiuta a pensare concretamente e ad avere pensieri che ci aiutano.


Una traduzione per i non napoletani:

‘O fatto ca me scuncerta (l’evento disturbante)

Leggo c’a ggente s’ammisca sempr’e cchiù cu stu cazz e virùs (leggo che la gente si infetta sempre di più con questo “maledetto” virus”)

BC

Penzà malamente: (pensiero disfunzionale)
Add’a essere per forza accussì (doverizzazione o pretesa)
«Aggia essere sicuro o cient pe cient ca nun succede» (devo essere sicuro al cento per cento che non accade)

D – Mo te faccio arragiunà (disputing) Dint’a vita te pare normale essere sicuro o cient pe cient? (Nella vita ti sembra possibile essere sicuri al cento per cento?)

Chello ca sento (emozione)

F
Chello ca sento
(emozione)

SO NERVUSO MA CE A’ POZZ FA’ (sono in ansia ma posso tollerarlo)

C
Cello ca faccio (comportamento)
Me lave e mman cient vote o juorno Guardo chello ca succede cient vote o journo (mi lavo le mani cento volte al giorno; sto attento a quel che accade cento volte al giorno)
Penzo tutto journ a comme me ne pozz ascì (rimuginio tutto il giorno come posso cavarmela)

F
Cello ca faccio
(comportamento)
Me lavo senza i’ o’ manicomio (mi lavo senza esagerare come un matto)
Cerco è capì chello ca sta succedendo ma senza i’ o’ manicomio (cerco di capire cosa sta accadendo senza esagerare come un matto) Cerco e sta quieto e fa quaccosa ca me po’ servì (mi tranquillizzo e faccio qualcosa di utile)

Prevenzione del suicidio e valutazione del rischio: l’importanza della formazione

Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni.

 

Ogni 40 secondi qualcuno muore per suicidio, circa 800.000 persone ogni anno.

Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni. La riduzione di un terzo della mortalità globale per suicidio entro il 2030 è l’obiettivo di salute pubblica che si è data l’OMS.

È necessario prima sfatare alcuni miti. Prima di tutto, come persone e come clinici, non dobbiamo avere paura di fare domande esplicite su ideazione ed intenzionalità suicidaria; in nessun modo saremo coloro che insinuano l’idea al soggetto. Inoltre, nessun farmaco può causare il suicidio, come erroneamente a volte sostenuto da più parti. Come sottolinea Kelly Posner (Columbia University), quando si sensibilizza la comunità su questo tema facendo errata informazione, i dati riportano un calo delle prescrizioni di antidepressivi ed un aumento dei suicidi e dei tentati suicidi.

Porre le domande giuste ed avere una lingua comune costituisce una connessione, elemento fondamentale fra paesi ed individui. Va da sé che al polo opposto, rispetto alla connessione, vi è la solitudine, e le sue conseguenze sono spesso letali, più di cardiopatia ed obesità. Parlarne apertamente e formarsi adeguatamente può aiutare a ridurre lo stigma ed a rompere il silenzio.

Altro mito stigmatico da sfatare è che il suicidio sia una scelta, non lo è nella stragrande maggioranza dei casi. Come clinici siamo tenuti, quindi, ad analizzare profondamente il processo decisionale sotteso a questo comportamento, a questa apparente scelta. Quando si parla di cancro, ad esempio, la malattia, la cura ed il suo percorso, non vengono mai avvicinati al costrutto del processo di scelta, mentre quando si parla di disturbi dell’umore, spesso, involontariamente, si trasmettere il messaggio percettivo che il mantenimento del disturbo avvenga per volontà, o scarsa volontà, della persona. E’ facilmente intuibile come, essendo un’esperienza soggettiva di difficile comprensione, le persone vicine ai nostri pazienti non possano comprendere, se non adeguatamente psicoeducate, e questo è compito nostro di clinici. Sempre compito nostro è individuare tempestivamente le persone a rischio, saper monitorare le situazioni a rischio, saper fare prevenzione sia nello specifico dei casi sia di massa attraverso una comunicazione diffusa e competente sul problema.

Come dimostrano la letteratura e le testimonianze di chi è sopravvissuto ad un mancato suicidio è fondamentale considerare il fatto che solitamente si tratta di una scelta fatta nell’impossibilità di far fronte ad un dolore mentale, divenuto ormai insopportabile. Il Prof. Shneidman, padre della suicidologia, ha definito tale forma di dolore con il termine psychache, cioè “tormento della psiche”. Il suicidio non può essere quindi considerato come un movimento verso la morte, ma come un movimento di allontanamento da qualcosa: emozioni intollerabili, dolore insopportabile, angoscia inaccettabile. Questo insieme di variabili definisce il concetto di psychache (Pompili, 2019, Congr.Int.Suicid.e Salute Pubb; Shneidman, 2006).

Un altro fattore culturale stigmatico riguarda, secondo la letteratura, il genere maschile, il quale conta un maggior numero di deceduti per mezzo di suicidio, rispetto alle donne, le quali invece mettono in atto un maggior numero di tentativi. Si era sempre presupposto che questa fosse la conseguenza della scelta di metodi maggiormente letali, effettuata dagli uomini, ma Gibbons (2005), evidenzia che solo l’11% degli uomini deceduti per suicidio stava assumendo farmaci antidepressivi, rispetto al 41% delle donne, ipotizzando un’influenza del contesto culturale e di desiderabilità sociale per cui, in particolare per quanto riguarda il genere maschile, “sono debole se chiedo aiuto”.

Come già detto dal Prof. Pompili, importante suicidologo italiano, il disturbo psichiatrico riguarda una disfunzione fra aree che dialogano fra loro, non riguarda una sola area, è quindi fondamentale porre attenzione anche a come l’esperienza di crisi, nella storia dell’individuo, viene gestita. Sintonizzandoci sulla sofferenza del nostro paziente, anche attraverso l’analisi della sua storia di vita, possiamo riuscire ad adeguare la nostra comunicazione in modo da modulare l’esperienza del paziente, la quale sarà probabilmente collegata ad esperienze passate. La comprensione del vissuto dei nostri pazienti risulta di fondamentale importanza poiché comportamenti che si sono già manifestati (ad es. un pregresso tentativo di suicidio) sono neuro-biologicamente facilitati ad una nuova più rapida riattivazione (Hebb, 1949; Edelman, 2018).

I nostri pazienti devono quindi avere la possibilità di ricostruire e condividere con noi queste esperienze, allo scopo terapeutico di riuscire a rimodulare sia la componente emotiva che quella cognitiva, e creare, insieme al terapeuta, una nuova e più adattiva modalità di gestione personale e di progetto di vita orientato verso scopi e desideri.

Si tratta di un tema molto complesso e sicuramente meritevole di molti altri contributi da considerare, approfondimenti e percorsi formativi, è anche un aspetto di grande difficoltà del lavoro del clinico che necessiterebbe di essere affrontato tramite un lavoro di squadra. La priorità è, senza dubbio, un’adeguata formazione, specifica, basata quanto meno sulle evidenze che esistono, per poter adeguatamente valutare il rischio. La Prof. Posner, dal suo osservatorio scientifico della Columbia University, guida scientifica in materia di suicidologia, sottolinea che il 50% dei casi di suicidio vede il medico di base o afferisce al pronto soccorso nel mese che ha preceduto il tentativo, ma per motivi che non riguardano la salute mentale. Occorre quindi chiedere e, se possibile, utilizzare in larga scala uno strumento di screening in grado di discriminare coloro che devono essere indirizzati ad uno specialista della salute mentale, adeguatamente e specificatamente formato.

A questo proposito, la Columbia University mette gratuitamente a disposizione di tutti noi uno strumento semplice ed efficace per poter effettuare un pre-screening, la cui portata di prevenzione può essere tranquillamente definita epidemiologica. Si tratta della Columbia Suicide Severity Rating Scale, parte del loro Protocollo di prevenzione (C-SSRS), una brevissima scala formata da soli 6 items, tradotta in 140 lingue. Il questionario prende in considerazione i comportamenti suicidari, nonché quelli preparatori (come per es. lasciare uno scritto), è uno strumento molto semplice e non è necessario essere professionisti della salute per poterlo somministrare. È in grado di effettuare uno screening assolutamente preventivo rispetto all’opportunità, e quindi temporalmente ancora prima che intervenga la necessità, di indirizzare ad uno specialista, questa volta sì, necessariamente, della salute mentale.

La valutazione del rischio suicidario è la fotografia di quel momento di vita, può essere una finestra temporale più o meno ampia e molti dei sopravvissuti hanno, dopo, una vita piena. Il Prof. Pompili evidenzia spesso, nei suoi interventi congressuali, come tale valutazione, effettuata a scopo di prevenzione, sia di fatto una previsione scientifica: “se prevedo che piova è il caso che mi porti l’ombrello”. In quanto tale, per poterla davvero attuare, da un punto di vista terapeutico, la sensibilità clinica ed umana dello psichiatra e della psicoterapeuta, sono necessarie ma non sufficienti. E’ indispensabile una specifica formazione, effettuata con lo scopo di acquisire le competenze necessarie alla valutazione del rischio, prima di tutto, poiché moltissimi fattori, nell’interagire fra di loro, possono avere un’influenza e costituire dei segnali di allarme (Pompili e Girardi, 2015). Per valutare se è il caso di portare l’ombrello occorre avere nella nostra cassetta degli attrezzi gli strumenti necessari per la valutazione del rischio perché solo così possiamo tentare di essere efficaci senza allarmarci a nostra volta.

Fra i fattori che dobbiamo valutare, nell’assessment del rischio suicidario, vi sono quelli demografici (ad esempio, sesso, età, stato civile), quelli distali, psichiatrici (ad esempio storia di familiarità al suicidio, abuso di sostanze, abusi fisici o sessuali), la storia personale, fattori di rischio prossimali (ad esempio eventi di vita stressanti, ricadute di malattia), la facilità con cui si può entrare in contatto con mezzi potenzialmente letali, nonché fattori di vulnerabilità cognitiva (Wenzel, Brown & Beck, 2009).

Siamo di fronte ad un livello di complessità piuttosto importante ed ognuno di questi fattori interagisce con l’altro nel determinare i vissuti dei nostri pazienti. Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, il gruppo di A.T. Beck si sofferma in particolar modo sulla valutazione dei costrutti di mancanza di speranza (hopelessness), tolleranza alla frustrazione, focalizzazione della funzione attentiva, impulsività e perfezionismo. In particolare, il ruolo dell’hopelessness in relazione al rischio suicidario è stato oggetto di approfondimento ed il gruppo di studio di A. Beck ha validato una scala di misurazione, la Beck Hopelessness Scale (BHS) (Beck, 1988; Beck & Steer 1993; Beck, Weissman, Lester  & Trexler; 1974). L’hopelessness, in questo senso, si riferisce a schemi cognitivi caratterizzati da aspettative negative nei confronti del futuro, terza componente della triade cognitiva di Beck (1967), concettualizzata nel modello cognitivo della depressione.

Nello specifico, la terapia cognitiva per la prevenzione del suicidio (Wenzel, Brown & Beck, 2009) prevede tre fasi sequenziali. La prima fase riguarda la valutazione del rischio, la gerarchizzazione del progetto terapeutico e la condivisione di un piano di sicurezza per fronteggiare la crisi e regolare il piano emotivo. La seconda fase riguarda l’identificazione dei pensieri disfunzionali e le valutazioni autoriferite dal paziente, i quali sottendono allo stato emotivo e, di conseguenza, all’ideazione suicidaria, mentre la terza ed ultima fase di psicoterapia si occupa di prevenire le ricadute consolidando le competenze acquisite e costruendone di nuove per poter poi fronteggiare in futuro situazioni stressanti con modalità maggiormente adattive.

Raccogliendo il testimone nel sensibilizzare e, soprattutto, nel tentare di iniziare un dialogo ed una formazione di base sull’argomento, la Scuola Cognitiva di Firenze ha organizzato un Convegno, in materia di prevenzione del suicidio, per il prossimo mese di Aprile, il quale, per i motivi che accomunano in questo momento la vita di ciascuno di noi, è rinviato in data da destinarsi. Potrebbe essere però questa l’occasione, anche partendo dalla bibliografia di riferimento, per iniziare ad approfondire questo delicatissimo argomento nonché aspetto essenziale del nostro lavoro di clinici.

 

Aspetti psicologici e esperienze di cura nella maternità omogenitoriale delle donne lesbiche con l’utilizzo delle nuove tecnologie riproduttive

Gli studi condotti sulla omogenitorialità si sono focalizzati principalmente sulle abilità genitoriali e il benessere psicologico dei bambini (APA, 2005; Short et al., 2007). Ciò su cui invece si è poco discusso, sebbene ci sia stato un aumento degli studi che si concentrano sulla popolazione LGBTQ, è la comunità lesbica, che rimane abbastanza invisibile nella ricerca, soprattutto rispetto alla popolazione maschile gay (Marques et al., 2015) e del processo per diventare madri per le donne omosessuali (Chapman et al., 2012).

Jessica Anselmi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi,San Benedetto del Tronto

 

Per quanto riguarda le donne lesbiche e i loro partner, il processo per diventare ‘madri’ è un viaggio complesso che evidenzia anche idee che sarebbero da mettere in pratica per effettuare delle modifiche al sistema sanitario, necessarie per sostenere e curare al meglio le donne lesbiche mentre pianificano la maternità, sperimentano la gravidanza e diventano genitori (Gregg, 2018).

La messa al mondo di un figlio è sempre stata considerata l’esito di un rapporto sessuale, considerato unica condizione necessaria per la procreazione e le categorie di omosessualità e di famiglia sono sempre state considerate come incompatibili fra loro. Fino a poco tempo fa le persone omosessuali che volevano diventare genitori si sposavano, ma attraverso un matrimonio eterosessuale, in quanto era l’unica strada possibile. Il progresso scientifico, ma anche politico e sociale, ha aperto nuove strade, alle persone lesbiche e gay per diventare genitori. Vi sono però alcuni fattori che possono influire sulle decisioni delle minoranze, sul se e come diventare genitori; ma ci sono anche alcune caratteristiche e difficoltà associate alle principali vie da seguire per diventare genitori come la fecondazione alternativa e l’inseminazione artificiale, l’adozione e la maternità surrogata (Goldberg, 2015). In questo articolo ci occuperemo principalmente delle prime alternative sopra citate.

Uno degli ostacoli più importanti che devono affrontare le persone omosessuali quando considerano di diventare genitori è l’omofobia interiorizzata (Gianino, 2008).

Vivendo e crescendo in una società eterosessista, le minoranze sessuali spesso interiorizzano una serie di idee, quali ad esempio l’idea che l’omosessualità sia contro natura o che lesbiche e gay non siano adatti a fare i genitori, differentemente dalle persone eterosessuali, o ancora che ogni bambino necessiti di una madre e di un padre (idee disconfermate da diversi studi e ricerche).

Un altro ostacolo è sicuramente la collocazione geografica e la mancanza di risorse: coloro i quali hanno residenza in zone rurali, distanti dalle grandi aeree metropolitane, o particolarmente conservatrici, non godono di un rapido accesso a una comunità gay visibile e affermata (Osward e Culton, 2003) e possono incontrare difficoltà a trovare risorse rivolte in modo specifico ai genitori omosessuali. Inoltre, la posizione geografica in cui vivono può essere un ostacolo alla genitorialità condivisa, a cause delle leggi sulle adozioni.

Bisogna anche ricordare che sono persone che lottano spesso con la mancanza di supporto dalle loro famiglie e che vengono maggiormente riconosciute dai propri familiari se la scelta di diventare genitore avviene attraverso la fecondazione assistita piuttosto che attraverso l’adozione, in quanto viene riconosciuto un legame biogenetico.

Le persone omosessuali hanno per fortuna la possibilità di incontrare quelli che Goldberg (2010) definisce punti di svolta, ovvero persone omosessuali che hanno sperimentato la genitorialità, entrare in contatto con i figli di altre persone, un aumento di consapevolezza del desiderio di diventare genitori, e l’incontro con il partner giusto.

Una volta deciso che il viaggio verso la genitorialità può essere intrapreso e la scelta si orienta verso la fecondazione assistita e l’inseminazione artificiale, gli aspetti da considerare sono diversi. Innanzitutto nella coppia inizia il negoziato su chi avrà il ruolo di genitore biologico, quindi chi verrà fecondato. Questa decisione di solito è influenzata dall’età, dal desiderio di provare la gravidanza, dalla posizione e sicurezza lavorativa e dalla salute riproduttiva (Bos et al., 2003, 2004; Renaud, 2007). Molte donne esprimono il desiderio di un legame genetico con i loro figli ed è questa la ragione principale che le porta a perseguire la maternità biologica invece di considerare l’adozione (Goldberg & Scheib, 2015). Quando entrambe le donne della coppia sono le giuste candidate per la fecondazione, il processo decisionale risulta più difficile e le coppie tendono a discutere e a negoziare più a lungo sulla scelta. Da uno studio su 95 coppie lesbiche belghe che si erano rivolte ai servizi, nel 14% dei casi quest’ultime volevano restare incinta entrambe mentre nel 86% soltanto una (Baetens, Camus e Devroey, 2002). Nei casi in cui entrambe le partner della coppia vogliano provare la maternità, di solito si decide che la prima a provare sia la più anziana.

La coppia è anche implicata nel processo di scelta dello sperma del donatore. La decisione innanzitutto è legata alla questione del donatore: se debba essere conosciuto o sconosciuto. Goldberg (2006) ha condotto uno studio su un gruppo di donne lesbiche incinte, riscontrando che nel 59% dei casi la loro scelta era ricaduta su un donatore sconosciuto, per il 31% su un donatore conosciuto e per il restante 10% su un donatore detto ‘ID realease o yes’, ovvero una persona che poteva essere contattata al raggiungimento dei 18 anni da parte del bambino. Emerge come di solito la scelta di un donatore sconosciuto veniva fatta per evitare problemi legali, per far sì che il donatore non esercitasse il suo diritto alla paternità. Questa scelta è spesso voluta dalle madri non biologiche per evitare di sentire minacciato il proprio ruolo di cogenitore mentre altre volte avviene perché non si hanno amici o confidenti che possano rivestire il ruolo di donatore. La scelta invece ricade su un donatore conosciuto quando si vuole che il figlio sappia chi è il padre biologico e possa anche avere contatti con lui; altre volte per avere maggiore controllo sul processo di fecondazione o per evitare di interagire con istituzioni eterosessite; altre per ragioni di salute, qualora ne avessero bisogno, soprattutto nei casi di fattori di rischio genetico. Altre volte la scelta ricade su un donatore conosciuto ma gay perché si pensa che possa essere un modello maschile migliore di uno eterosessuale, per una funzione di ‘liberazione dai ruoli’, altre perché si pensa che altrimenti i propri amici gay non avrebbero la possibilità di sperimentarsi come genitori (Goldberg, 2015).

Le coppie lesbiche devono anche decidere quali devono essere le caratteristiche del donatore, così come avviene per le coppie eterosessuali. La scelta in questo caso ricade su una somiglianza fisica tra il donatore e la madre non biologica, per facilitare la riproduzione ‘della loro immagine’. Si cercano donatori con il colore dei capelli e degli occhi simili alla madre non biologica, ma anche per etnia e talvolta per orientamento religioso; vengono considerate anche la storia clinica, l’istruzione, l’intelligenza, il talento e gli interessi del donatore (Goldberg, 2015). Inoltre, la maggior parte delle coppie lesbiche, come si accennava sopra, sperimenta oneri finanziari associati al processo di inseminazione e alcune, anche se meno negli ultimi tempi, difficoltà nell’accesso ai servizi di inseminazione (McManus et al., 2005; Renaud, 2007).

I costi della fecondazione assistita sono notevoli e possono variare da centinaia a molte migliaia di dollari o euro e dipende dagli interventi necessari affinché la gravidanza si verifichi. La copertura assicurativa per i trattamenti di fertilità varia ampiamente, anche per le coppie eterosessuali. Quindi, per affrontare questa scelta, le madri devono essere economicamente stabili (anche prospere) in modo da finanziare il costoso processo per mettere al mondo una nuova vita e costruire una famiglia (Goldberg e Scheib, 2015, p. 726).

Un altro punto da affrontare sono sicuramente gli stigmi all’interno del sistema sanitario. In tutti gli studi esaminati, i ricercatori hanno riferito che le donne lesbiche in cerca di assistenza per la fecondazione assistita hanno sperimentato una certa dose di eteronormatività o omofobia durante gli incontri con il personale sanitario. Hayman et al. (2013) hanno riconosciuto quattro tipi di omofobia overt e covert sperimentati dai loro partecipanti, tra cui esclusione, assunzione eterosessista, domande inappropriate e rifiuto da parte dei servizi. Una forma di esclusione viene vista nell’incidenza di esclusione eteronormativa, in cui vengono escluse le madri non biologiche dalle cure a causa del loro genere (Malmquist & Nelson, 2014). Esempi di ciò sono dati dal fatto che il personale sanitario spesso chiede informazioni sul padre e nel mentre si riferisce alla partner della madre biologica come a sua sorella o un’amica e viene vietato alla madre non biologica l’accesso alla stanza di ricovero (nonostante ai partner maschi sia permesso in quanto visti come persone di sostegno per le neo mamme). Queste situazioni hanno portato a sentimenti di delegittimazione come genitore per le madri non biologiche (Chapman et al., 2012; Hayman et al., 2013). Le partecipanti agli studi hanno riferito che questa mancanza di competenza culturale e sociale da parte del professionista le faceva sentire imbarazzate o ‘scomode’; ciò provocava un particolare vissuto emotivo per le madri non biologiche, che spesso si sentivano come se dovessero combattere per essere viste come i reali genitori (Wojnar e Katzenmeyer, 2014). Tuttavia, in molti casi, le persone che hanno prestato assistenza sono state rispettose e comprensive, nonostante i sistemi eteronormativi (Malmquist e Nelson, 2014). Diversi studi fanno riferimento a come il personale sanitario faccia delle domande che vengono percepite come eccessivamente inquisitrici sull’orientamento sessuale e non collegate alla cura. Sebbene queste domande siano giudicate come non intenzionalmente dannose e dettate dalla sincera curiosità piuttosto che dalla malizia, le partecipanti hanno riferito di sentirsi a disagio a causa delle stesse. Röndahl et al. (2009) affermano che il personale sanitario che aveva prestato assistenza alla maternità delle madri lesbiche e che era stato ben informato sui problemi LGBTQ, trattava tali madri in modo più neutrale e forniva un senso di sicurezza alle stesse. Tuttavia, gli autori affermano che anche quando le partecipanti hanno esperienze positive delle cure, loro credono che ci sia lo stesso un ‘eccesso di attenzione al loro orientamento sessuale’ (Röndahl et al., 2009).

Infine, alcune donne hanno sperimentato l’omofobia venendo rifiutate dai servizi. Una coppia ha denunciato il rifiuto da parte di due ospedali che avevano affermato che per loro ‘non era etico assistere una donna single in quanto le coppie dello stesso sesso non vengono riconosciute come una coppia’ (Hayman et al., 2013). Un’altra partecipante ha riferito che le sue ostetriche non erano d’aiuto nell’educazione all’allattamento al seno o all’assistenza postpartum (ad esempio nella pulizia del perineo), perché le ostetriche erano ‘riluttanti a impegnarsi in aree intime del corpo [della partecipante] a causa del suo orientamento sessuale’ (Lee, Taylor, & Raitt, 2011). Più autori hanno notato la necessità di migliorare l’assistenza sanitaria affinché sia più competente, sensibile e priva di discriminazioni. Lee et al. (2011) hanno riconosciuto che la gravidanza è un periodo in cui si ricerca fiducia nella relazione con il personale sanitario in quanto fondamentale. Molte partecipanti hanno espresso il desiderio che la maternità sia vissuta in egual maniera alle coppie eterosessuali, ma anche su misura per le loro esigenze specifiche (Malmquist & Nelson, 2014). In definitiva, la cura fornita deve essere centrata sulla donna, indipendentemente dalla donna coinvolta (Lee et al., 2011)

In Italia la situazione è ben diversa: possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali) e possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali, nonostante esistano le unioni civili). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino.

Le ricerche condotte sull’esperienza delle donne lesbiche che diventano madri, sono state effettuate solo in alcuni paesi selezionati (tra cui Norvegia, Svezia, Regno Unito, Australia, Portogallo e Stati Uniti). I risultati potrebbero quindi non essere generalizzabili ad altre aree del mondo, come in altri paesi che sono simili in termini di politiche liberali, giustizia sociale e status di sviluppo economico. Inoltre, a causa della natura invisibile della popolazione, i campioni di studio utilizzati sono stati trovati principalmente utilizzando metodi a palla di neve o passaparola. Di conseguenza, i campioni non sono casuali e non sono generalizzabili.

A causa dei limiti e delle difficoltà sopra descritte, le ricerche che hanno esaminato la transizione all’esperienza della genitorialità nelle coppie di lesbiche e gay sono pochissime e quelle che vi sono risentono di molti limiti. Ad esempio non vi sono ricerche sulla transizione alla genitorialità nelle persone bisessuali o transgender e le ricerche si sono focalizzate in gran parte sulle esperienze di coppie bianche lesbiche, relativamente benestanti, che hanno fatto ricorso all’inseminazione. Quindi non vi sono dati esaustivi sul vissuto psicologico nel passaggio alla genitorialità per le coppie lesbiche.

Gartrell e colleghi (1996) sono fra i pochi ad aver condotto uno studio longitudinale sulla transizione alla genitorialità nelle coppie lesbiche. Le madri, prevalentemente donne bianche e di ceto medio, sono state dapprima intervistate nella fase dell’inseminazione o della gravidanza (per la maggior parte era la prima gravidanza) e in questa fase circa il 78% delle donne si aspettava che almeno alcuni parenti avrebbero accettato il bambino. Questo dato è stato confermato dopo la nascita dei figli, in quanto la maggior parte delle stesse si sentiva sostenuta e anzi la nascita del figlio aveva anche portato ad una maggiore vicinanza familiare, dato quest’ultimo riscontrato soprattutto dalle madri biologiche, rispetto alle madri non biologiche.

È stato notato anche come la transizione alla genitorialità mettesse in moto dei cambiamenti anche nella struttura amicale. Sempre Gartrell e colleghi (1996), intervistando le stesse madri, affermarono che il 38% delle stesse considerava i propri amici come una famiglia allargata, ma il 25% riteneva invece di aver perso alcuni amici intimi, soprattutto donne senza figli. È pur vero che tendenzialmente sono gli stessi genitori omosessuali a dichiarare di avere più affinità con gli altri genitori eterosessuali che non con molti dei loro amici gay senza figli. Un altro aspetto che può mutare con la transizione alla genitorialità è la suddivisione del lavoro. Nelle coppie eterosessuali ciò viene tendenzialmente determinato dal genere e quindi dalla classica suddivisione dei ruoli, nelle coppie di donne lesbiche può avvenire la stessa cosa, non sulla base del genere, ma sulla base di chi porta avanti la gravidanza: quest’ultima si dedica al lavoro non retribuito in famiglia, mentre la seconda al lavoro retribuito. Questa differenziazione può però essere vissuta difficilmente da quelle coppie che danno molta importanza all’uguaglianza e alla parità di potere nelle loro relazioni. In generale, le madri non biologiche cercano di dedicare lo stesso buona parte del loro tempo alla cura del figlio (riservandosi il momento della nutrizione e del bagnetto), anche per rimediare alla differenza biologica e alla mancanza di quel legame che si viene ad instaurare durante l’allattamento al seno, proprio perché alcune di loro riferiscono di provare sentimenti di gelosia e di esclusione (Gartrell et al.,1999).

Goldberg e Sayer (2006), nel loro studio sulla transizione alla genitorialità nel quale veniva esaminata la relazione delle coppie lesbiche ricorse all’inseminazione, hanno scoperto che, un po’ come avviene per le coppie eterosessuali, emergono difficoltà e aumenta la frequenza dei conflitti (Goldberg, 2015). In particolare le donne che avevano una personalità nevrotica, tendevano ad avere un peggioramento, deteriorando la qualità della relazione. Le madri non biologiche, invece, sentivano di avere poco sostegno da parte della famiglia della partner, quindi della madre biologica, e a volte anche una certa invadenza, quasi come a volerle escludere dal ruolo genitoriale.

In un altro studio (Goldberg e Smith, 2008), avvenuto in tre rilevazioni temporali (nell’ultimo trimestre della gravidanza, tre mesi dopo la nascita del bambino e tre anni dopo), gli autori hanno cercato di stabilire se il temperamento del bambino, la qualità della relazione, la suddivisione del lavoro e il sostegno extra-familiare fossero correlati all’andamento dell’ansia sia nelle madri biologiche che in quelle non biologiche. Ciò che si è scoperto è che mediamente l’ansia tendeva ad aumentare in tutte le madri, ma specialmente in quelle biologiche, durante il periodo di transizione, e si avvicinava al livello clinico ai tre anni dalla nascita. Questo dato non era però associabile a nessuno dei fattori presi in considerazione. Invece, per quanto riguarda le madri non biologiche, quelle che sperimentavano un maggior incremento di ansia erano coloro che, prima della nascita, percepivano livelli elevati di supporto sociale esterno di tipo strumentale (persone che potevano accudire il bambino) e quelle che, dopo la nascita del bambino, giudicavano difficile il temperamento dello stesso. Probabilmente questo è dovuto al fatto che sono coloro che passano più tempo fuori casa per lavoro e quindi percepiscono più forte il bisogno di persone che possano aiutarle o che possano avere un’influenza in un loro minore coinvolgimento nella cura dei figli. Inoltre, partecipando meno alla cura dei figli, è possibile che siano più sensibili ai loro comportamenti negativi e ne risentano maggiormente.

 

Whatsapp e benessere organizzativo

La rivoluzione digitale ha prodotto strumenti di comunicazione sempre più sofisticati che hanno portato alla transizione dai media tradizionali ai nuovi media, come Whatsapp. Quali sono le implicazioni di questo passaggio? Com’è cambiato il modo di comunicare?

 

La Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2014) ha rivoluzionato il nostro modo di “guardare” all’esperienza umana, puntando al benessere individuale e collettivo. Una delle aree che, dopo la Rivoluzione Digitale, ha diviso le opinioni degli studiosi in Apocalittici e Integrati (Eco, 2011), è la comunicazione di massa.

In effetti, l’evoluzione di queste tecnologie ha prodotto strumenti di comunicazione sempre più sofisticati che hanno permesso la transizione dai media tradizionali, come la radio e la televisione, ai nuovi media, che includono la messaggistica. Ma anche la messaggistica ha subito grandi trasformazioni perché, da modalità asincrona, dove non c’è la stessa disponibilità spazio-temporale degli interlocutori, è approdata alla modalità sincrona, dove è possibile, non solo, conoscere la disponibilità del destinatario (online / offline), ma anche sapere se l’interlocutore ha ricevuto e letto il messaggio. Ciò che cambia è anche il modo di comunicare. Nel sistema dei messaggi brevi (SMS), una modalità di comunicazione asincrona, l’attenzione è sempre stata posta sulla brevità, grazie all’uso di acronimi, soprattutto perché si trattava di servizi a pagamento. Il fatto di rendere sempre più “mobile” i servizi Internet, ha permesso il libero accesso e il superamento delle barriere spazio-temporali, favorendo il passaggio alla messaggistica sincrona, che ha radicalmente trasformato le pratiche di comunicazione in diversi contesti, imitando sempre più la comunicazione faccia a faccia, soprattutto per la sua caratteristica di “istantaneità”.

Ovviamente, questi nuovi mezzi basati sull’istantaneità hanno creato nuove pratiche di significazione per rendere l’individuo capace di migliorare il benessere individuale e sociale. Inoltre, questi nuovi modi di interagire hanno avuto un impatto sulla società soprattutto con l’emergere di generazioni di “Nativi Digitali” (Prensky, 2001), ovvero coloro che sono in grado di utilizzare intuitivamente la tecnologia e, quindi, di usufruire dei dispositivi tecnologici per creare nuovi significati all’interno di diversi settori, compreso quello di lavoro. Il contesto professionale sfrutta sempre più le nuove tecnologie, che accrescono o velocizzano la messa in atto di competenze tecniche e trasversali. In particolare, nelle situazioni lavorative in cui è necessario prendersi cura degli altri, come avviene nelle professioni sanitarie e nelle relazioni d’aiuto, i nuovi media fungono da facilitatori di processi che portano ad una condivisione delle responsabilità legate alle competenze specifiche che, dal singolo lavoratore, sono co-gestite e organizzate all’interno di tutto il team. Uno dei più famosi strumenti di messaggistica istantanea (IM) e che ha anche pervaso la sfera di lavoro è Whatsapp. Ma cosa è cambiato da quando Whatsapp è entrato a far parte delle vite professionali?

Innanzitutto, Whatsapp è un’applicazione di messaggistica istantanea gratuita, creata nel 2009 da due informatici americani, Jan Koum e Brian Acton, ex dipendenti di Yahoo!, successivamente acquistata da Zuckerberg, creatore di Facebook. Il nome deriva dalla fusione dell’espressione inglese “What’s up?” (‘Cosa succede?’), e del termine “App” (‘Applicazione’). Il suo utilizzo consente di scambiare con contatti nell’elenco telefonico, oltre ai messaggi testuali ed emoticon, anche immagini, video e file audio e di condividere la posizione geografica tra chiunque lo abbia installato e su qualsiasi dispositivo (computer, smartphone, tablet…) che sia collegato a Internet (Acton & Koum, 2014). Whatsapp segna, infatti, un importante punto di svolta nella messaggistica perché ha permesso la transizione da una modalità asincrona di comunicazione, come nel caso di SMS o e-mail, ad una modalità sincrona dove è possibile prendere atto del fatto che il messaggio è stato ricevuto e letto dall’interlocutore, attraverso i cosiddetti “segni di spunta blu”. È anche possibile capire la disponibilità del destinatario, cioè il suo essere collegato o aver effettuato l’ultimo accesso in un certo periodo di tempo. Ma soprattutto, sulla base di questi criteri, è possibile creare gruppi di persone che comunicano contemporaneamente, come avviene in un gruppo di lavoro. I gruppi di lavoro online tramite chat Whatsapp hanno aspetti positivi e negativi. In effetti, è necessario considerare l’emergere di fenomeni sociali, come l’istituzione di sottogruppi che sviluppano modalità di comunicazione suburbane. La creazione di un ingroup e di un outgroup online, cioè questo contrasto tra “noi” e “loro”, emerge nel caso di gruppi che presentano elementi che sono, potenzialmente, una fonte di divisione. Anche le regole implicite non scritte possono essere fonte di difficoltà (Wallace, 2015). L’emergere di malintesi può anche dipendere dalla sovrapposizione di turni di parola, che potrebbe ostacolare il raggiungimento di un obiettivo. Per evitare la sovrapposizione di questa polifonia di voci, infatti, è stata aggiunta una funzione con la quale, nel gruppo, è possibile scegliere il singolo messaggio a cui rispondere.

Dai risultati emersi da uno studio sull’importanza dei gruppi Whatsapp nelle professioni sanitarie (Papapicco, 2019), risulta che il gruppo di lavoro online estingue il rapporto gerarchico, tipico delle realtà organizzative faccia a faccia molto strutturate e facilita la gestione delle emergenze organizzative, distribuendo il carico su tutti i membri del team e non solo sulla persona in turno. Si accelera, così, il processo decisionale, ma adottando modelli di comunicazione centralizzata anche nell’ambiente online. In ogni caso, Whatsapp risulta essere uno strumento “positiva-mente” utile per migliorare il benessere organizzativo, soprattutto nelle professioni sanitarie, maggiormente esposte a problemitiche lavorative, come il burnout.

 

Orgasmo femminile: tempo medio per raggiungerlo e variabili di influenza

L’orgasmo femminile è un fenomeno complesso, sopratutto quando si cercano di analizzare le variabili connesse al tempo per raggiungerlo. Quanto aspetti come l’età, la durata della relazione e la posizione durante il rapporto possono influenzare la latenza orgasmica?

 

L’orgasmo femminile è uno degli argomenti meno compresi e più controversi fino ad oggi; infatti, nonostante la presenza di diversi studi in letteratura, il problema non è mai stato affrontato in modo completo a causa della sua complessità. Nel 2003 un gruppo di esperti ha definito l’orgasmo nelle donne come: una sensazione variabile e transitoria di intenso piacere che crea uno stato di coscienza alterato, accompagnato da contrazioni involontarie e ritmiche della muscolatura pelvica, con induzione di benessere e appagamento. Altre definizioni usate in questo studio sono quella di eccitazione sessuale e TitOr. L’eccitazione sessuale è un intenso desiderio di attività sessuale in presenza di stimoli erotici, forniti dal partner, audiovisivi o entrambi; il TitOr è il tempo impiegato, in secondi o minuti, per raggiungere l’orgasmo (misurato con il cronometro) dopo un’eccitazione sessuale adeguata. Infine, è bene sottolineare che nell’uomo l’orgasmo coincide con l’eiaculazione che è clinicamente evidente; nelle donne, invece, l’orgasmo non sempre è clinicamente evidente.

L’obiettivo del presente studio era misurare il tempo medio per raggiungere l’orgasmo (TitOr) durante un rapporto sessuale, in un campione costituito da donne eterosessuali di almeno 18 anni e coinvolte in una relazione monogama stabile. Inoltre, sono stati valutati anche l’effetto dell’età, della durata della relazione, della posizione durante il rapporto sessuale e ulteriori attività non penetrative sul TitOr. I partecipanti furono reclutati compilando un questionario online e il campione finale era costituito da 645 donne; le interviste ai soggetti avvenivano sia face-to-face che tramite piattaforme e interviste online.

Ai partecipanti è stato chiesto di mantenere un diario sulla propria attività sessuale, inserendo i dettagli sulla presenza/assenza dell’orgasmo e di misurarne il tempo, per un periodo di 8 settimane. In generale, il cronometro è stato attivato nello smartphone del soggetto nel momento in cui ritiene di essere sufficientemente eccitato per il rapporto sessuale e viene fermato al raggiungimento dell’orgasmo e registrato con uno screenshot. I dettagli venivano riferiti nel colloquio personale.

Dai risultati si evince che il 17% dei partecipanti non ha mai sperimentato un orgasmo, il 31% ha riferito di aver raggiunto l’orgasmo con la penetrazione, mentre il 68% ha riferito di aver bisogno di ulteriori attività per raggiungere l’orgasmo. La posizione durante l’attività sessuale sembra influire sul raggiungimento dell’orgasmo. Il tempo medio per raggiungere l’orgasmo era di 13 minuti e mezzo.

I fattori mentali e relazionali, come la stabilità e la durata della relazione, nonché la comunicazione interpersonale, sembrano influenzare notevolmente la latenza orgasmica. Inoltre, è stato dimostrato che il tempo impiegato da una donna per raggiungere l’orgasmo nell’attività masturbatoria è minore, comparato a quello impiegato per raggiungere l’orgasmo nel rapporto sessuale; e anche il raggiungimento dell’orgasmo in sé sembra essere più frequente. Altri fattori che influenzano la latenza orgasmica sono l’immagine di sé e del proprio corpo, esperienze passate, l’attrazione fisica nei confronti del proprio partner e atteggiamento nei confronti del sesso. Anche l’anatomia degli organi genitali femminili influenza il TitOr in una donna.

La latenza dell’orgasmo in entrambi i sessi è una questione di dibattito e costituisce un punto importante da considerare quando il medico affronta la disfunzione sessuale in entrambi i sessi. Pertanto, le implicazioni cliniche del presente studio riguardano un supporto nella definizione, nella comprensione e nel trattamento della funzione e disfunzione sessuale nelle donne, ma anche la pianificazione di un possibile intervento per la disfunzione eiaculatoria maschile che si può manifestare nelle coppie in cui le donne non sono riuscite a raggiungere l’orgasmo durante il rapporto sessuale.

Un limite importante di questo studio è rappresentato dalla possibilità di verificare la veridicità delle informazioni, al di fuori dello screenshot; al contrario, un fondamentale punto di forza è la possibilità di cronometrare il TitOr in un contesto di vita reale e la multiculturalità del campione; infine, i risultati di questo studio potrebbero costituire la base per ricerche future sulle funzioni e disfunzioni sessuali.

Daniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie

Il Therapeutic Realistic Immersive Virtual Environments (THRIVE) è il primo dei progetti gameChange e si propone di fornire ai pazienti con psicosi dei coach virtuali in grado di seguirli nelle situazioni disturbanti, aiutandoli a superare le proprie paure.

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University.

 

Oxford VR, una società affiliata all’Università di Oxford, già presentata nei precedenti articoli “Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di Oxford” e “Daniel Freeman e l’Oxford VR. Un impegno virtuale per la salute mentale del Regno Unito“, è partner dell’innovativo progetto gameChange, finanziato dal National Health Service (NHS, Regno Unito). Le persone con psicosi possono sperimentare molta ansia nel vivere la quotidianità, arrivando spesso a ritirarsi. Le attività quotidiane, come salire su un autobus, fare la spesa o parlare con qualcuno, possono divenire attività estremamente impegnative.

Per questo motivo gameChange si occupa di creare dei coach virtuali a disposizione dei pazienti che possano seguirli nelle situazioni disturbanti, aiutandoli a superare le proprie paure. GameChange, per colmare un problema di risorse ben risaputo, programma dei coach virtuali in quanto è difficile trovare un terapeuta esperto che abbia il tempo di uscire con i pazienti o a livello economico sarebbe dispendioso. Il progetto porterà le persone in sofisticate simulazioni degli scenari di vita reale che trovano spaventose. Tali scenari di vita reali sono forniti in modo graduale, in modo che ai pazienti non vengano mai presentate situazioni che vadano oltre la propria capacità di affrontare.

Dal sito gameChange:

THRIVE is the first of our gameChange projects, testing a briefer prototype of our automated VR treatment for psychosis.

Therapeutic Realistic Immersive Virtual Environments (THRIVE) è il primo dei progetti gameChange, che testa un prototipo più breve del nostro trattamento automatizzato di VR per la psicosi. L’apprendimento di questo primo progetto ci sta aiutando nella completa riprogettazione del nostro trattamento VR e nell’apprendimento dei problemi di implementazione. La sperimentazione THRIVE è stata aperta nel settembre 2018 nei servizi di salute mentale di Oxford, Berkshire, Northamptonshire e Milton Keynes.

Nell’articolo Automated psychological therapy using virtual reality (VR) for patients with persecutory delusions: study protocol for a single-blind parallel-group randomized controlled trial (THRIVE), uscito nel 2019 su Trials, Daniel Freeman ed i suoi colleghi indagano il valore dell’uso della VR come strumento che permetta al soggetto con deliri persecutori di sperimentare situazioni temute senza ricorrere a comportamenti di difesa.

Nel presente trial, finanziato dal Medical Research Council, i deliri persecutori sono considerati come convinzioni di minaccia infondate che persistono a causa di comportamenti di difesa, tra cui l’evitamento. Gli autori ipotizzano che nel poter sperimentare le situazioni temute, senza evitarle, vi potrà essere un riapprendimento della sicurezza e, di conseguenza, un decremento degli aspetti paranoidi.

Novanta partecipanti (maggiori di sedici anni, affetti da deliri persecutori da almeno tre mesi e con una convinzione relativa ad essi del 50%) sono stati reclutati dall’Oxford Health NHS Foundation Trust and neighbouring NHS Trusts e sono stati somministrati loro dei questionari demografici e clinici. Innanzitutto, è stato indagato il livello di convincimento relativo ai deliri persecutori (facendo ricorso ad una scala 0-100% del Psychotic Symptom Rating Scale-Delusions, PSYRATS). Successivamente sono state indagate le seguenti dimensioni con i relativi strumenti: l’angoscia in situazioni reali con un task comportamentale; i tratti paranoidei (GPTS); la severità dei deliri (PSYRATS); l’ideazione suicidaria (Columbia-Suicide Severity Rating Scale); la qualità della vita (EuroQol, EQ-5D-5L); il benessere mentale (WEMWBS); il recupero (QPR); lo status economico dei partecipanti (EPQ). Per quanto riguarda gli output conseguenti al trattamento sono stati utilizzati strumenti per valutare l’uso di comportamenti di difesa e di sicurezza (SBQ) ed una valutazione delle convinzioni, utilizzando una scala analogica visiva ideata da Freeman (Freeman et al., 2016). Questi strumenti sono stati somministrati a zero, quattro e ventiquattro settimane, ad esclusione del task comportamentale sulle situazioni reali di disagio e i questionari sulla salute e sulla situazione economica. Inoltre, i questionari PSYRATS, GPTS, SBQ e credenza nella sicurezza sono stati somministrati a zero, due, quattro, otto, sedici e ventiquattro settimane.

In seguito, nella parte sperimentale THRIVE, il trattamento in VR è stato testato su 45 partecipanti versus una situazione di controllo costituita da rilassamento mentale in VR (45 partecipanti). In entrambi i casi il trattamento comprende circa quattro sessioni da trenta minuti ciascuna.

Il presente studio fornisce il primo test di terapia cognitiva automatizzata in VR per pazienti con psicosi.

Si consiglia di rimanere aggiornati sull’apposita pagina del sito dedicata a THRIVE e di partecipare alla conferenza che si terrà a Milano il 19-20 febbraio 2021 European Conference on Digital Psychology, la quale verrà aperta da una lectio magistralis di Daniel Freeman sulla realtà virtuale.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Per informazioni scrivere a[email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario

Stern propone delle tesi che non possono essere considerate come sue esclusive invenzioni, tuttavia, la scelta dell’autore di fondare il proprio paradigma scientifico su tali premesse consente di mettere in discussione alcuni assunti fondamentali propri di importanti scuole di pensiero, come la psicoanalisi e il cognitivismo.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento che verranno pubblicati nei prossimi giorni su State of Mind.

 

Con questo articolo vorrei suggerire di leggere l’intera opera di Stern come un’unica teoria sull’esperienza umana, coerente e sistematica che poggia su quattro tesi fondamentali.

Il mio contributo consiste dunque nel tentativo di individuare nelle quattro tesi i presupposti teorici su cui essa è basata e dai quali essa può essere dedotta. Essi costituiscono le premesse che determinano la sua unicità e le differenze rispetto ad approcci alternativi. In secondo luogo intendo presentare la Teoria del Cambiamento nell’avanzamento terapeutico (Stern, 2004) come suo diretto corollario.

Non è tanto l’originalità assoluta delle tesi ciò che vorrei sottolineare, in quanto non si tratta esclusivamente di invenzioni di Stern che non vedono precedenti nella storia del pensiero, esse infatti affondano le loro radici nella tradizione filosofica della fenomenologia. Tuttavia, con la scelta di fondare il proprio paradigma scientifico su tali premesse, egli mette in discussione alcuni assunti fondamentali propri di importanti scuole di pensiero come la psicoanalisi e il cognitivismo. In ultimo, il contributo di Stern risulta particolarmente importante per aver corroborato tali tesi con un magistrale lavoro di ricerca scientifica.

Di seguito le quattro tesi che, nell’ambito di questo e dei successivi articoli, possiamo denominare come segue:

  1. Tesi della stratificazione dell’esperienza
  2. Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita
  3. Tesi della distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza
  4. Tesi dell’intersoggettività

Tesi della stratificazione dell’esperienza umana

Nelle teorie con le quali si sostiene che lo sviluppo del bambino proceda in modo discontinuo, periodi di stabilità che hanno una certa durata sono interrotti improvvisamente da cambiamenti radicali. Questi salti segnano la fine di un periodo dello sviluppo e l’inizio del successivo. L’arco di tempo compreso tra due discontinuità è comunemente detto fase dello sviluppo.

Vi è un modello di sviluppo, che definiamo classico, che è fondato su almeno due tesi fondamentali che Stern criticherà e rifiuterà. Ricostruiamo ora tale modello attraverso l’analisi delle due tesi per passare poi a considerare le obiezioni di Stern che lo porteranno a formulare la sua posizione.

La prima tesi riguarda la modalità di successione delle fasi. Per i sostenitori del modello classico, provenienti principalmente dalla tradizione psicoanalitica, le fasi dello sviluppo sono periodi di tempo che possiamo rappresentare come segmenti adiacenti, che giacciono sulla retta del tempo della vita di un individuo. Esse succedono una all’altra in modo tale che la successiva rimpiazzi la precedente. Se pensiamo alle fasi dello sviluppo freudiane, avremo una fase orale che termina quando inizia la fase anale, la quale termina quando inizia la fase fallica ecc., senza sovrapposizioni. Esse sono periodi nei quali il bambino vive in una certa modalità il rapporto con la madre e con il mondo attorno a lui; una volta terminata una fase, questa modalità sarà sostituita dalla successiva. Tale tesi si può definire come “Tesi dello sviluppo lineare dell’esperienza”. Stern attribuisce tale tesi sia alla tradizione psicoanalitica che alla psicologia dello sviluppo, entrambe infatti concepiscono lo sviluppo come caratterizzato da forti discontinuità che segnano la fine di una determinata fase e l’inizio della successiva, dove quest’ultima sostituisce o ingloba la precedente senza la possibilità di una convivenza simultanea. A conferma di ciò, le parole di Stern.

L’idea tradizionale sia del bambino clinico sia del bambino osservato induce a considerare una sequenza di fasi. In entrambi i modelli la visione del mondo del bambino si trasforma drasticamente all’ingresso in ogni nuovo stadio, e il mondo viene visto, prevalentemente se non esclusivamente, secondo l’organizzazione del nuovo stadio. (Stern, 1987, p. 45)

La seconda tesi invece riguarda il modo in cui vengono individuate le fasi ed il significato che esse hanno rispetto all’esperienza dell’individuo adulto. Nell’approccio psicoanalitico esse sono ricavate principalmente dalla ricostruzione dell’infanzia di pazienti adulti. Circa il loro significato, non sono da intendere solo come stadi di riorganizzazioni pulsionali, ma anche come periodi di tempo entro i quali il bambino ha a che fare con un preciso problema clinico che deve superare, pena il suo ripresentarsi in forma patologica quando sarà adulto. Le fasi dunque, in questo secondo senso, sono archi di tempo entro i quali originano determinate psicopatologie e, per l’adulto, corrispondono al luogo dove cercare le cause dei propri sintomi psichici.

Le teorie psicoanalitiche dello sviluppo hanno in comune un’altra premessa. Tutte postulano che lo sviluppo proceda secondo stadi successivi, che costituiscono fasi specifiche non solo per lo sviluppo dell’Io e dell’Es, ma anche per determinati aspetti protoclinici. In effetti, le fasi evolutive riguardano il modo in cui il bambino affronta un particolare problema clinico che può manifestarsi in forma patologica nella vita successiva. (Ivi, p. 35)

A tal proposito, in Stern (1985) troviamo una citazione di Peterfreund:

due fondamentali errori concettuali, caratteristici in particolare del pensiero psicoanalitico: una visione adultomorfica della prima infanzia e la tendenza a descrivere gli stadi primitivi dello sviluppo normale in termini di ipotesi riguardanti stati psicopatologici successivi. (Ibidem)

In tal senso, quest’ultima posizione si può definire come “Tesi adultomorfica e patomorfica dello sviluppo”.

Prendo ora in considerazione le obiezioni di Stern a queste due tesi, iniziando dalla seconda. In primo luogo, egli osserva che le fasi psicoanalitiche non sono confermate dall’osservazione diretta sul bambino condotta dalla psicologia dello sviluppo. Esse, infatti, non sono sostenute da una dimostrazione empirica in quanto non sono state ricavate dall’osservazione del bambino, ma sono frutto di una ricostruzione del passato dell’adulto, realizzata a posteriori e finalizzata a spiegare l’origine dei suoi sintomi psichici. Le fasi psicoanalitiche sarebbero periodi di un passato mai esistito costruito appositamente per accogliere la retroiezione delle cause delle nostre nevrosi.

[l’infanzia clinica] viene creata allo scopo di dare un senso a un intero periodo della storia di un paziente, una storia che emerge mentre viene narrata a qualcun altro. […] La verità storica viene stabilita da ciò che viene detto, non da ciò che veramente accadde. Questo modo di vedere implica la possibilità che ogni narrazione della propria vita valga esattamente quanto un’altra. (Ivi, p. 32)

Il bambino descritto dal punto di vista psicoanalitico è chiamato da Stern “bambino clinico” ed è il frutto di una ricostruzione a posteriori.

Questo bambino è la creatura prodotta congiuntamente da due individui uno dei quali è l’adulto, che è giunto ad essere un paziente psichiatrico, e l’altro è il terapeuta, che ha una sua teoria sull’esperienza infantile. (Ivi, p. 30)

Il meccanismo retroiettivo, patomorfico e adultomorfico di ricostruzione dello sviluppo dell’infante, è, dunque, attaccato da Stern. Egli formula contro di esso anche un secondo argomento con il quale mette in luce la natura culturale delle categorie psicoanalitiche attraverso le quali viene riletto lo sviluppo del bambino. I concetti di simbiosi, fiducia, autonomia ecc., secondo alcuni studi sull’influenza della società sul rapporto madre-bambino (Sameroff, 1983), sono dei semplici prodotti della nostra cultura, destinati in futuro a variare e quindi poco attendibili per una ricostruzione oggettiva dello sviluppo.

È doveroso tuttavia sottolineare che non tutti gli psicoanalisti sono in accordo rispetto al problema del significato delle fasi dello sviluppo nell’esperienza dell’adulto. Da un lato troviamo chi come Schafer (1981) sostiene una posizione “estrema”: le narrazioni dell’infanzia del paziente sono completamente disancorate dalla sua reale storia e non è necessario che siano verificate da fatti osservabili. La ricostruzione, in questo senso, ha valore semplicemente se

appare (al narratore), dopo attenta considerazione, sufficientemente fornita di coerenza, compattezza, portata e senso comune. (Schafer, 1981, p. 46)

Le diverse narrazioni possibili sono così equivalenti tra loro a patto che godano di coerenza e compattezza e la loro aderenza ai fatti realmente accaduti è irrilevante. La loro funzione è relativa solo al presente dell’adulto e possono essere ricostruite arbitrariamente per fini terapeutici.

Dall’altro lato troviamo invece chi come Ricoeur (1977) sostiene una posizione meno estrema. Le fasi in quest’ottica sarebbero potenzialmente verificabili attraverso l’osservazione diretta del bambino o attraverso altre prove indipendenti dalle diverse narrazioni.

Ecco come Stern spiega la posizione di Ricoeur.

Ricoeur esprime l’opinione che esistano alcune ipotesi generali sul modo in cui la mente funziona e si sviluppa, indipendentemente dalle varie narrazioni che si possono costruire, ad esempio la sequenza delle fasi dello sviluppo psicosessuale o la natura evolutiva del modo di stabilire relazioni con oggetti o persone. ( Stern, 1987, p. 33)

Ricoeur si mostra in contrasto con la posizione di Schafer:

le affermazioni della psicoanalisi diverrebbero una sorta di retorica della persuasione sotto il pretesto che è l’accettabilità della storia per il paziente a essere terapeuticamente efficace. (Ricoeur, 1977)

Chiarita la dialettica delle posizioni interna alla tradizione psicoanalitica, torniamo alla teoria sterniana.

Al “bambino clinico” Stern oppone il “bambino osservato”, descritto in base alle osservazioni dirette del suo comportamento, nel momento in cui esso è prodotto, condotte dagli psicologi dello sviluppo. Attraverso esperimenti e osservazioni di videoriprese, gli psicologi appartenenti a questa linea di ricerca hanno raccolto dati relativi alle risposte comportamentali dei bambini a determinati stimoli. Questi esperimenti, secondo Stern, possono dirci qualcosa anche sulla vita soggettiva dell’infante e questo è possibile interpretando il comportamento osservato come risposta ad una determinata domanda, appositamente formulata. Per esempio, è possibile avere informazioni sulla capacità di riconoscere determinati oggetti, di preferire determinati stimoli, ma soprattutto sulla presenza di una forma di autocoscienza preriflessiva che Stern chiama Senso del Sé e che costituisce uno dei concetti più importanti della sua teoria.

Il senso del Sé non compare solo in età verbale (dai 15-18 mesi), quando il bambino diviene capace di pensare se stesso oggettivandosi in modo riflessivo, ma emerge sin dai primi giorni di vita. Smentendo una convinzione consolidata, Stern spiega dunque che non è il linguaggio a consentire il fiorire di un senso del Sé, quest’ultimo è presente, in forma preriflessiva, in ogni nostra esperienza cosciente (in senso fenomenico), sin da quando nasciamo.

Secondo la lettura che vorrei proporre, l’idea che vi sia una forma di autocoscienza preriflessiva che accompagna le nostre esperienze, anche in assenza di una vera e propria riflessione su di sé, avvicina Stern ad alcune tesi dei grandi filosofi appartenenti alla fenomenologia, come Husserl, Heidegger e Sartre. La tesi dell’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva è, infatti, condivisa da tutti loro. Tale forma di autocoscienza non richiede strumenti linguistici e una coscienza riflessiva, ma si dà immediatamente in ogni coscienza fenomenica. L’esperire x contiene già un rimando implicito a sé, che non dà vita ad una struttura soggetto–oggetto, cioè che non avviene attraverso un’oggettivazione di sé. Riporto le chiare considerazioni di Gallagher e Zahavi attraverso due passaggi de La mente fenomenologica (2008).

Letteralmente, tutte le maggiori figure della fenomenologia difendono l’idea secondo cui una forma minima di autocoscienza è una caratteristica strutturale costante dell’esperienza cosciente. Quest’ultima si dà per un soggetto d’esperienza in modo immediato, e fa parte di tale immediatezza il fatto che essa sia implicitamente caratterizzata come mia. Per i fenomenologi, questa datità immediata e in prima persona dei fenomeni esperienziali deve essere spiegata con la nozione di autocoscienza preriflessiva. (Gallagher e Zahavi, 2008)

Inoltre, non è una autocoscienza tematica, frutto di attenzione, ne è provocata volontariamente; al contrario, è tacita e, cosa assai significativa, è completamente non osservativa, cioè non consiste nell’osservazione introspettiva di me stesso. (Ibidem)

Accosto ora a tali parole quelle di Stern:

che tipo di senso del Sé può esservi in un bambino in fase preverbale? Per “senso” intendiamo qui la semplice coscienza, distinta dalla consapevolezza autoriflessiva. Stiamo parlando di esperienza diretta, non di pensiero. Quando dico Sé mi riferisco ad uno schema stabile di consapevolezza che si presenta solo in occasione di azioni o di processi mentali dell’infante. Un tale schema è una forma di organizzazione di ciò a cui in seguito ci si riferirà verbalmente come al “Sé”. Questa esperienza soggettiva organizzante è la controparte esistenziale, preverbale, del Sé oggettivabile, autoriflessivo e verbalizzabile. (Stern, 1987, p. 24)

Tali passaggi, a mio avviso, non necessitano chiarimenti. Stern fa propria l’idea fenomenologica dell’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva, l’unica che potrebbe esserci in un bambino in età preverbale; essa accompagna ogni sua esperienza cosciente e rimanda al proprio Sé senza tematizzarlo. Come vedremo, anche Stern, come i filosofi della tradizione fenomenologica, sosterrà che tale forma di autocoscienza sopravviverà anche nell’individuo adulto, non solo accompagnando la riflessione oggettivante di sé, ma rendendola possibile. È infatti la presenza di un sostrato esperienziale implicito a rendere possibile l’oggettivazione, sempre successiva, del Sé.

Veniamo ora alla critica di Stern alla tesi del modello classico, che ho chiamato, “Tesi dello sviluppo lineare”, secondo la quale le fasi evolutive si rimpiazzano via via l’un l’altra senza sovrapporsi. Anche secondo Stern lo sviluppo procede per fasi. Ognuna di queste è caratterizzata dalla comparsa di un particolare tipo di senso del Sé. Nei primi giorni di vita insorge il senso del Sé “emergente”, che Stern definisce come un processo di formazione di un primo senso del Sé. Intorno ai due mesi compare il senso del Sé “nucleare”, col quale il bambino sperimenta se stesso come un corpo unico diviso dalla madre e dal mondo esterno. A 7-9 mesi compare il senso del Sé “soggettivo” che corrisponde alla “scoperta della mente” e della possibilità di condividere gli stati mentali con la madre attraverso il processo di sintonizzazione degli affetti vitali. Infine dopo i 15-18 mesi troviamo il senso del Sé verbale col quale compare il linguaggio e, per la prima volta, la capacità di riferirsi a Sé in modo riflessivo. Ognuno di questi sensi del Sé è accompagnato da un determinato “campo di relazione” che corrisponde al modo in cui il bambino esperisce la relazione con gli altri. Ma veniamo alla differenza col modello classico. Per Stern i sensi del Sé, una volta formati non scompaiono più, al contrario rimangono attivi per tutta la vita dell’individuo. Quando, in prossimità delle discontinuità dello sviluppo, compare un nuovo senso del Sé, esso si accosta a quelli già formati e convive con essi. Al termine dello sviluppo avremo quattro sensi del Sé con i relativi campi di relazione, accostati parallelamente e simultaneamente operanti. L’individuo adulto, secondo questa prospettiva, esperisce la realtà contemporaneamente su livelli differenti.

Possiamo definire questa tesi di Stern “Tesi della stratificazione dell’esperienza”. Per usare una metafora ingegneristica potremmo paragonare lo sviluppo dell’esperienza umana alle fasi di costruzione di una struttura. I vari elementi che la compongono vengono assemblati uno dopo l’altro fino a quando la struttura non è ultimata, dopodiché i vari elementi svolgeranno il loro ruolo simultaneamente. Questo punto di vista ci fa comprendere quale sia il vero significato del lavoro di ricerca di Stern sul bambino. L’osservazione dello sviluppo del bambino è paragonabile all’osservazione delle fasi di costruzione della struttura, è una visita nel cantiere dell’esperienza, momento privilegiato e unico nel quale poter osservare gli elementi, uno ad uno, prima che l’intera struttura li renda singolarmente inavvicinabili. Lungi dunque dall’essere un’ossessiva indagine fine a se stessa di tipo specialistico, l’osservazione del bambino per Stern è un modo per sezionare l’esperienza umana finalizzato alla descrizione della sua struttura.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020

Metaemozioni

Così come le emozioni ci informano riguardo ad eventi rilevanti per il raggiungimento (o evitamento) di obiettivi personali (Lazarus, 1991), allo stesso modo anche le meta-emozioni sono esplicative di ulteriori obiettivi salienti per l’individuo: gli individui sembrano avere in questo senso degli ‘obiettivi circa le emozioni’ (Gross, 2014).

 

Tutti noi, in quanto membri della specie umana, abbiamo familiarità con le emozioni: ogni giorno nella nostra attività quotidiana proviamo stati emotivi differenti e al contempo assistiamo alla manifestazione delle emozioni altrui. Quando queste, provate in prima persona o riconosciute negli altri, generano in noi altri pensieri o emozioni, danno luogo a meta-emozioni (Gottman et al., 1996) o emozioni di secondo ordine. Il riconoscimento di uno stato emotivo Infatti non solo implica un’informazione circa la connotazione dell’emozione in sé, ma getta al contempo luce sulle credenze e gli obiettivi che risultano intrinsecamente implicati nell’emozione esperita. Prendiamo l’esempio di due emozioni vissute come spiacevoli, la delusione e la paura; le due sono intuitivamente emozioni distinte e qualitativamente differenti, ciò che infatti le differenzia sono le credenze e l’obiettivo ad esse correlati. Nella delusione è presente una credenza anticipatoria circa il fatto che un evento si sarebbe verificato – laddove l’obiettivo personale era che l’evento accadesse davvero – seguita da un’invalidazione di questa credenza che ingenera l’esperienza emotiva negativa. Diversamente, nella paura, l’obiettivo personale è che quell’evento in particolare non si verifichi, associato alla credenza che questo possa (o debba) verificarsi.

Mettiamo dunque che io mi trovi alla guida e, sovrappensiero, inchiodi poco prima di mancare la precedenza per un pedone: è facile immaginare l’enorme differenza che farebbe se in quel momento provassi paura…o delusione! Se mi accorgessi di aver provato delusione, ad esempio, potrei subito provarne vergogna (meta-emozione) a testimoniare il fatto di percepire un gap tra l’emozione desiderata (come valore personale) o auspicabile in termini di desiderabilità sociale e quella realmente provata: gli stati mentali di secondo ordine implicano quindi un’attività riflessiva sui propri stati mentali e possono generare delle reazioni in grado di modificare l’esperienza emotiva, di guidare il processo decisionale o il comportamento stesso (Mendonça, 2013).

Infatti, così come le emozioni ci informano riguardo ad eventi rilevanti per il raggiungimento (o evitamento) di obiettivi personali (Lazarus, 1991), allo stesso modo anche le meta-emozioni sono esplicative di ulteriori obiettivi salienti per l’individuo: gli individui sembrano avere in questo senso degli ‘obiettivi circa le emozioni’ (emotion goals o goals about their own emotions; Gross, 2014). È stato riscontrato come gli individui perseguano quelle emozioni che vengono percepite come ‘utili’ (Tamir, 2009) al raggiungimento di un obiettivo, per quanto queste possano essere spiacevoli. Ad esempio, un individuo potrebbe voler provare rabbia in preparazione ad un confronto con un avversario, non soltanto per i benefici che questa attivazione può avere sulla performance, ma anche per volontà di mantenere un’immagine di sé coerente con i propri valori o con quelli della cultura di riferimento, che magari valorizzano una risposta più aggressiva (Mauss & Tamir, 2014).

Queste valutazioni sono in larga parte rapide ed automatiche, altrimenti dette implicite (Wilson et al., 2000) e l’individuo può non esserne cosciente. È però stato suggerito che le meta-emozioni implichino necessariamente una valutazione, e pertanto una capacità dell’individuo di ‘oggettificare sé stesso’ (Frankfurt, 2006, p.5).

La valenza della meta-emozione non si riduce alla sua piacevolezza o desiderabilità in sé, ma si trova a dipendere dalla valutazione che verrà fatta su di essa: ne è un chiaro esempio la cosiddetta colpa del sopravvissuto, dove il senso di colpa è una meta-emozione negativa generata dall’aver provato sollievo e gioia per la propria fortuna nell’essere scampati a una tragedia (Jäger & Bartsch, 2006).

Le meta-emozioni hanno il potere di modificare l’intensità dell’emozione stessa così come di modularne l’espressione, ‘amplificando, attenuando o addirittura invertendo la cognizione di primo ordine’ (Petty et al., 2007, p.274), oppure arricchendo l’esperienza emotiva di note variegate, dove uno stesso evento può elicitare un’esperienza emotiva ambivalente: ad esempio una promozione ottenuta ai danni di un altro può suscitare colpa o orgoglio, tuttavia ad un livello sovraordinato potrò essere orgoglioso di essermi sentito in colpa, perché questo testimonia il mio senso di giustizia, due emozioni non in contraddizione tra loro che evidenziano aspetti (ed obiettivi) diversi di uno stesso evento.

Le meta-emozioni hanno inoltre la capacità di regolare la nostra vita emotiva orientandoci verso alcune esperienze emotive e tenendoci lontani da altre, ma sarebbe semplicistico pensare che queste ci rivolgano sempre verso comportamenti adattivi ed efficaci (Mauss & Tamir, 2014): ad esempio la non-accettazione di determinate emozioni di primo ordine può generare meta-emozioni negative associate con ansia e depressione (Bakhshaie et al., 2014) o da meccanismi di coping repressivi dell’emozione provata, basti pensare alla ‘paura della paura’ nel mantenimento del disturbo da attacco di panico.

Miceli e Castelfranchi (2019) ipotizzano quattro condizioni che concorrono ad elicitare meta-emozioni: l’importanza dell’informazione veicolata dall’emozione primaria (in termini di obiettivi e credenze), la sua imprevedibilità, la presenza di altri quando l’emozione di primo ordine viene espressa e l’impatto che aver provato quell’emozione ha sull’immagine di sé.

In questo senso le meta-emozioni fungono da istigatori per una regolazione emotiva, insegnandoci che sia l’esperienza che la non espressione delle emozioni possono avere conseguenze sul nostro benessere, sulla desiderabilità sociale, sull’integrità morale e sulle relazioni, e che queste conseguenze possono discostarsi largamente dalla valenza originaria dell’emozione di primo ordine, in quanto tutto dipende dalla valutazione che di queste viene fatta; al contempo, le meta-emozioni giocano un ruolo informativo circa il nostro grado di aderenza ai principi morali o di condotta che valutiamo adeguati, rinforzando o spingendo verso un adeguamento del comportamento in accordo con essi (Miceli e Castelfranchi, 2019).

Recenti approcci psicoterapeutici basati sull’accettazione e sulla mindfulness (Hayes et al., 1999; Segal et al., 2002) cercano di minimizzare le meta-emozioni e le emozioni negative che queste tendono a ingenerare, sospendendo il giudizio sulle emozioni provate, tralasciando la volontà di provare o non provare determinate emozioni e imparando invece a identificare gli obiettivi, i bisogni o le preoccupazioni che queste mettono in luce. In particolare, viene posta l’enfasi sull’individuazione e il perseguimento di valori personalmente connotati e l’adesione ad uno stile di pensiero quanto più flessibile e non-giudicante.

 

Macbeth: le cose nascoste – La psicoanalisi in scena nella riscrittura della tragedia shakespeariana

Sul palco, un analista ha scomposto un testo e poi ne è stato assorbito. Fuori, oggi usiamo strumenti del teatro nelle nostre stanze di terapeuti. Giochi di ruolo li chiamiamo, memorie vere messe in scena così che la sofferenza sgorghi potente.

Tratto dal Corriere della Sera del 18 Gennaio 2020

 

Succede ancora una volta. Mi prende quel demone, il destino che le Streghe a me hanno predetto e che in certi giorni devo accogliere. L’impulso a correggere, irrefrenabile quando osservo un collega psicoterapeuta al lavoro. Appare in video la registrazione di uno psicoanalista, dialoga con gli attori in carne e ossa. L’adattamento del Macbeth di Angela Dematté e Carmelo Rifici è iniziato da poco. Cosa hanno fatto gli autori? Hanno invitato un discepolo di Jung a intervistare gli attori, filmando tutto. Cosa ti evoca il Macbeth? Sono apparsi riti arcaici, paesi che incatenano e orchi. Molti hanno rinunciato al ruolo.

La messa in scena inizia da lì, ma la mia testa sfugge al controllo, filtro ogni domanda dell’uomo anziano e ne farei uguale solo mezza. Un moto di ribellione mi prende quando Angelo Di Genio racconta di un padre aggressivo, rifiutante e l’analista lo invita a capire le ragioni di quel padre. No! Avrebbe dovuto domandargli cosa gli succedeva dentro quando ha subito due anni di silenzio ostile. La psicoanalisi junghiana rimane al fondo delle mie preferenze, io insegno altro. Se chiediamo al paziente di mettersi nei panni di chi lo ha fatto soffrire, prima di esserci collocati vicino alle ferite che si porta addosso, gli siamo inutili, dannosi, al meglio rallentiamo il processo di cura. In quel momento il demone della correzione tuona dentro di me in una lingua arcana e non so arrestarlo.

Me ne libera Tindaro Granata, le domande dell’analista gli evocano i misteri di un’infanzia siciliana: la preghiera delle sciamane, lo ‘nciarmari’, fascinazione, malocchio, tre croci disegnate sul corpo per togliere i vermi dalla pancia. Capisco che non sono al centro Lugano Arte e Cultura, il LAC, per correggere, l’anziano psicoanalista nel video è finzione teatrale. Mi suscita simpatia, ci accomuna il tenere le mani incrociate dietro la nuca mentre ascoltiamo drammi, seduti sulla poltrona Pixbo di Ikea, l’oggetto che riscatta il postmoderno. Il demone è scacciato, solo riapparirà durante l’inutile finale, mal recitato dall’attore giovane, un monologo che Ecate non avrebbe pronunciato. Importa poco, perché a quel punto ero già catturato. Tre momenti mi hanno trasportato nell’altrove. Prima di svelarli, devo rispondere a domande: chi sono Macbeth e Signora? Cosa motiva le loro azioni? Dallo psicoterapeuta a teatro la risposta uno se l’aspetta.

Una coppia avida di potere. Questo è facile, Shakespeare ne ha dipinta una simile nella sua opera più recente, House of Cards. È mossa da una pulsione umana innata: il rango, la scalata nella gerarchia, lo status. Fin qui, niente di strano. Eppure, fino al giorno dell’incontro con le Streghe, Macbeth era stato un valoroso combattente fedele alla bandiera, anche se, pare, a volte preda di momenti di bizzarria. Le Streghe cosa evocano in lui? Intanto, non è un caso che l’incontro avvenga dopo una battaglia sanguinosa, dove l’eroe ha seminato sangue. Ha aperto Sinell il traditore “come un maiale”, ma in quel momento di fronte alla calma dell’uomo gli è tremata la mano e ha “visto il tempo fermarsi”. Sono sintomi, Macbeth non è immune al destino dei soldati, il disturbo post traumatico da stress, quella sindrome che frammenta la mente quando il senso di sicurezza di base che dovrebbe accompagnarci nella vita salta in aria.

Quindi, un uomo ambizioso che paga il prezzo della guerra. Un uomo così, può perdere il controllo. Andiamo indietro. Chi sono lui e Lady Macbeth? Mi sono ossessionato sul testo, dovevo capire. Non hanno figli, sono sterili. Ma c’è di più. Lei recita, incitando il marito ad uccidere re Duncan: “Io so quanta tenerezza ci sia in una madre che allatta il figlio”. Hanno addolcito le parole originali. Come effetto del processo psicoanalitico? Chi parlava in quel momento, il personaggio, l’attrice, la scrittrice o il regista? Shakespeare è più diretto e, a mio vedere, non lascia dubbi: “I have given suck”, “Io ho allattato”. Lady Macbeth ha avuto un figlio, col marito, oppure prima? E lo ha perso.

Le azioni che compiono dopo la profezia delle tre Streghe di Ecate sono efferate, tipiche di animali a sangue freddo, ma loro non lo sono. Io ci leggo una delle trame psichiche più dolenti e terribili, un dramma in tre atti. Nel primo, la vulnerabilità iniziale, spesso sedimento della storia di sviluppo. Nel secondo, l’evento scatenante: la perdita del figlio, il trauma della battaglia? Nel terzo avviene la metamorfosi malefica: la cura errata infetta la ferita e l’infiamma. Una cattiva medicina chiamata rivalsa, riscatto attraverso la gloria.

Cosa distingue Macbeth e Lady Macbeth dai predatori di tipo rettiliano? L’ombra di un figlio non avuto – come i loro discendenti in House of Cards – e di un figlio che Lady Macbeth ha perso, li turba e li trasforma in divoratori. Ma conservano un’umanità residua, ne ho le prove. Quali?

Per lei parla quello che gli psicologi chiamano effetto Lady Macbeth, me lo ricorda Francesco Mancini: negli esperimenti di laboratorio, una minaccia alla purezza morale induce le persone a lavarsi. “Non saranno mai bianche queste mani?” dice la regina. Il lavaggio ossessivo, aiutato dall’acqua che scorre sul palco, indica colpa, la colpa indica senso morale, che indica umanità. Lady Macbeth è ambiziosa, certo, ha perso la gioia di essere madre e l’invidia la corrode, ma è ancora donna e la sua coscienza ne paga il prezzo.

E ora le tre scene che mi hanno condotto altrove, figlie del testo e dell’incursione della psicanalisi nella drammaturgia. La prima. Macbeth è stato fomentato dalla moglie a uccidere Duncan. Ha il coltello in mano, le Streghe intonano un canto incessante con voci di boschi notturni, radici e viluppi e lui, preso dalla frenesia, si agita e si agita e non la finisce più e io vorrei che il canto finisse, ma non posso fermarlo e Macbeth, burattino epilettico, non la smette e la musica cresce e la luce è rossa. Non è più teatro, è un folle rito di trasformazione del quale io sono più che spettatore.

La seconda. Macbeth è alla tavola dove siede il fantasma di Banco, l’uomo fertile i cui figli succederanno alla sua corona, morto per suo ordine. Macbeth è prono, faccia al pavimento. Dall’attore smette di uscire voce umana, un animale lo possiede, una scimmia, un cinghiale, non lo so, ma in quel momento ho paura. Di nuovo quell’esercizio di persistenza, vorrei che la smettesse e invece ogni grugnito è più lontano dall’umano. Per la sua malattia non c’è più cura. Perché l’analista ha smesso di guidare il testo dopo la morte del re.

La terza è di quei momenti in cui sai che un gesto doveva accadere, per necessità. Però lo capisci dopo, sul momento ti spiazza, ti folgora. L’analista appare in video, ma lo hanno reso un trittico di Francis Bacon, di quelli in cui una bocca che vorrebbe gemere non articola più suoni. Appartiene ormai all’infraterreno, un impasto di dolore, distanza e cera rossa squagliata. Questo doveva essere lo spettacolo.

L’analista ha preso la coppia folle e l’ha lanciata dentro gli attori, dalla rifrazione sono emerse chimere metà sovrani in delirio e metà squarci del passato, verità e rappresentazione al tempo stesso. E ora l’analista stesso è diventato finzione, fagocitato dal teatro, digerito dalle entità silvane che vagavano per i boschi della Scozia.

Un’altra scena condensa il senso del tutto. Macbeth e la moglie, potenti senza più sonno, parlano ma al centro del palco un’inattesa luce pura soffonde la madre del piccolo maschio di Macduff. Lei lo lava nudo in un catino, lo avvolge di amore tenero. È intollerabile quella scena, l’invidia obbliga a estirpare una felicità a loro preclusa. Lì si chiude il cerchio. L’uccisione del bambino Tindaro Granata la esegue secondo il rito dello scannamento del maiale nella sua Sicilia: “Lui fa un verso che fa paura”. Macbeth è stato fecondato da storie di altre terre e ha generato.

Esco, chiedo agli spettatori, lo spettacolo è piaciuto. L’aria del lungolago è fredda e secca, cammino solo e porto un segreto. Ho visto rappresentato il riflesso del mio lavoro. Sul palco, un analista ha scomposto un testo e poi ne è stato assorbito. Fuori, nel mondo specchio in cui vivo, oggi usiamo strumenti del teatro nelle nostre stanze di terapeuti. Giochi di ruolo li chiamiamo, memorie vere messe in scena così che la sofferenza sgorghi potente. A questa temperatura alta, trasformiamo. La storia che possedeva il corpo del paziente diventa racconto.

 

L’interindividualità ai tempi del COVID-19: tra limite e risorse

La relazione assume un valore imprescindibile e un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’essere umano, dal momento che l’individualità non può ontologicamente prescindere dalla relazionalità. Quali possono essere le conseguenze della privazione di libertà che gli individui vivono oggi? Quale ruolo possono avere gli strumenti tecnologici a nostra disposizione?

 

 Osservando il fenomeno che in questa complessa fase storica sta coinvolgendo l’essere umano, appare interessante analizzarlo e coglierne gli aspetti più salienti facendo riferimento al concetto di sistema dinamico, da un punto di vista psicologico.

Questo lavoro si propone di approfondire tre aspetti: il concetto di relazione, il concetto di limite per l’essere umano e la presenza di internet in questo particolare e complesso momento che mette a dura prova la quotidianità di ogni persona, con un’osservazione sulla comunicazione digitale. Risulta utile, pertanto, procedere gradualmente.

Cos’è un sistema dinamico?

Un sistema dinamico è un sistema che si modifica al passare del tempo indipendentemente dalla propria natura (Hollenstein, 2012; Thelen & Smith, 2006). Altresì, è possibile definirlo come un insieme di elementi in reciproca interazione.

Le proprietà di questo tipo di sistema sono state indagate da quella che viene definita Teoria dei sistemi dinamici (Hollenstein, 2012; Thelen & Smith, 2006). Quest’ultima fu elaborata da Ludwig Von Bertalanffy con riferimento ai principi della filosofia della scienza, cibernetica, fisica, biologia, psicologia della Gestalt, teoria dell’informazione e ingegneria (Gelo, 2014). Tale teoria considera il mondo strutturato secondo le proprietà di un sistema ed è proprio attraverso l’etimologia di questa parola, derivante dal greco σύστημα (complesso), a sua volta proveniente dal verbo συνιστημι (porre insieme), che è possibile riferirsi al sistema come ad un insieme di elementi interdipendenti, anche definito sistema dinamico complesso aperto. Così concepito, il sistema è riconducibile ad un’organizzazione formata da elementi in reciproca interazione che mutano al passare del tempo definendo, in questo modo, la dinamicità degli stessi, caratterizzati da una struttura gerarchicamente organizzata che ne determina la complessità e che scambiano informazione con l’ambiente, risultando dunque aperti.

Dalle riflessioni appena effettuate è possibile dedurre che l’essere umano si può considerare come il sistema complesso e dinamico per eccellenza. Da un punto di vista interpersonale è possibile osservarlo in una visione di continuo scambio con l’altro da sé, realizzato all’interno della relazione instaurata con quest’ultimo. Ne emerge quindi un ragionamento forse un po’ in controtendenza con le considerazioni degli ultimi giorni, molte delle quali mettono in risalto riflessioni tutte incentrate sul concetto del saper bastare a se stessi, e che non considerano adeguatamente le difficoltà che l’essere umano in quanto essere-in-relazione, potrebbe fisiologicamente sperimentare.

In base a queste premesse, quali possono essere le possibili conseguenze della privazione di libertà che gli individui vivono oggi, causata dal virus esploso che ha coinvolto migliaia di persone in poche settimane?

La relazione assume un valore imprescindibile e un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’essere umano, dal momento che l’individualità non può ontologicamente prescindere dalla relazionalità. È dunque facilmente intuibile la difficoltà a cui può andare incontro la persona che vive l’allontanamento dall’altro, e dalla propria già da sempre conosciuta dimensione interindividuale, con il rischio di sperimentare eventuali rotture e squilibri emotivi. Tuttavia, appare al contempo utile evidenziare le risorse sulle quali il soggetto può fare affidamento in momenti di elevata criticità come questo.

Ad esempio, appare calzante il concetto di “accomodamento” formulato da Jean Piaget (psicologo, biologo, pedagogista e filosofo svizzero) col quale, quest’ultimo, identificava un cambiamento degli schemi da sempre utilizzati dall’individuo, a favore di una ristrutturazione di questi ultimi, con la conseguente possibilità di fare esperienza di una maggiore flessibilità. In questo senso è possibile riflettere sulla rottura determinata dal fenomeno attuale, come un’occasione per il soggetto di andare incontro a un accomodamento del proprio sistema, col quale accogliere le nuove esperienze, anche quelle più traumatiche, grazie alle risorse che la persona già possiede in sé, proprio in quanto sistema dinamico complesso.

Da un punto di vista filosofico, alcuni riferimenti possono risultare utili per fornire un contributo teorico significativo ai discorsi precedentemente affrontati e allo stesso tempo consentire una riflessione attorno al concetto di limite, approfondito sulla base dei termini “natura” e “società”. Questi ultimi costituiscono i principali macrosistemi nei quali l’uomo è storicamente inserito e verso i quali può esercitare un potere considerevole.

Con il termine natura ci si riferisce all’universo fisico e fenomenico nel quale l’uomo è stato generato e in cui ha avuto inizio, in un primo momento, il suo lungo percorso di sviluppo, successivamente modificatosi attraverso la nascita della società. Quest’ultima viene considerata, in senso lato, come un insieme di individui legati da rapporti di diversa natura, tra i quali si instaurano forme di cooperazione e collaborazione che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri. Il fil rouge caratterizzante questo momento di transizione dalla natura alla società può essere ricondotto al concetto di bisogno dell’altro, una necessità imprescindibile fondata sul sostegno, sulla cura, sul mutuo aiuto ed espressa attraverso la relazione interindividuale.

In relazione al discorso sulla società e, nello specifico, sulla civiltà, risulta utile il contributo di Freud contenuto in una delle sue ultime opere, ovvero Il disagio della civiltà. Per l’autore, la civiltà nasce per garantire agli uomini una maggiore sicurezza che possa esprimersi attraverso il rispetto delle regole che, a loro volta, consentano ai desideri dell’uomo di poter essere mantenuti sotto il suo controllo. Ed è proprio grazie ai concetti di sicurezza e regola che è possibile affrontare la questione del limite in questo momento storico.

Cosa intendiamo con il termine “limite”?

Diversi autori hanno tentato di fornire una definizione esaustiva del concetto e, tra questi, Kant ha evidenziato l’assoluta importanza e imprescindibilità dello stesso. Il filosofo tedesco descrive il limite della ragione umana come ciò che le fornisce validità. Riconoscere il limite, dunque, consente di definire il campo di azione della ragione, comprendendone il valore e le potenzialità.

Provando ad estendere la premessa kantiana, risulta possibile individuare e riconoscere un limite anche per l’uomo, definito dal bisogno di essere in relazione con l’altro da sé, necessità, quest’ultima, imprescindibile per l’essenza stessa dell’essere umano. L’uomo deve dunque diventare cosciente della finitezza della sua esistenza e, al contempo, della sua ineluttabile interindividualità. Tali consapevolezze possono risultare preziose per l’essere umano inserito in una società moderna sempre maggiormente incentrata sull’esaltazione del culto e del potere di un’individualità centralizzante.

Da un punto di vista prettamente psicologico, tuttavia, è possibile osservare un rapporto di dipendenza dall’altro da sé che può assumere, talvolta, sia tratti vincolanti e dalle forme patologiche, sia caratteristiche costruttive in un’ottica di legami favorevoli tra individui. Come affermava Erich Fromm nel suo libro Anatomia della distruttività umana, l’uomo nutre un costante bisogno di instaurare nuovi legami con i suoi simili. Questa possibilità promuoverebbe un equilibrio psichico e impedirebbe all’essere umano di avvertire un senso di profondo smarrimento o isolamento.

L’incontro con l’altro da sé può avvenire con modalità che si pongono su un continuum tra esperienze positive e negative. Per Fromm, l’amore richiede indipendenza e fecondità, al contrario, in presenza di un mancato senso di libertà, l’uomo può incorrere nel rischio di creare rapporti simbiotici e negativi. Quando l’uomo fa esperienza di queste ultime modalità relazionali, può esercitare un controllo sugli altri (sadismo), oppure riceverlo (masochismo). Nel primo caso, il sadico trasforma l’altro in una estensione di sé stesso, nel secondo, il masochista si riduce a prolungamento dell’altro. Un ulteriore possibile scenario appare, altresì, essere ben descritto dal narcisismo, caratteristica, quest’ultima, secondo la quale l’uomo, incapace di scegliere fra la strada dell’amore e quella della simbiosi, ovvia al problema limitandosi al rapporto con sé stesso, amandosi di un amore esasperato.

A seguito delle considerazioni appena esposte, diventa utile la riflessione intorno all’importanza che la consapevolezza dei propri limiti e la capacità di considerare l’altro come complementare assumono per l’uomo. Queste ultime, infatti, permettono all’uomo di relazionarsi in modo adattivo all’altro da sé.

Il mondo circostante e presente ci restituisce, tuttavia, la difficoltà che l’uomo sperimenta nel mettere in pratica le modalità succitate. La limitazione forzata del campo d’azione dell’uomo rende quest’ultimo frustrato, oppresso e angosciato dall’incapacità di accettare fino in fondo questa realtà, sebbene fondata sulla salvaguardia di un fondamentale principio, quello rivolto alla salute di tutti gli uomini. Nello specifico, in riferimento al fenomeno attuale che impedisce alle persone di scegliere come vivere la propria quotidianità, costringendole al rispetto di una regola ferrea e difficile da accettare, è possibile osservare comportamenti di rifiuto e trasgressione delle norme, come se tale ribellione potesse illusoriamente concedere all’uomo una possibilità di scelta nelle proprie azioni.

Cosa accade, allora, se in un momento di notevole complessità come quello imposto dallo scenario attuale, l’essere umano viene costretto, per un lasso di tempo, a separarsi, se non altro fisicamente, dall’altro?

Secondo Fromm:

L’individuo oscilla spesso tra un legame di dipendenza dalla società, che, però, lo fa sentire sicuro in quanto circondato e radicato, ed una situazione di isolamento, di solitudine opprimente. La rottura del cordone ombelicale che unisce psicologicamente l’individuo alla società, di rado coincide con la maturità nell’autonomia, con la capacità di instaurare normali rapporti con la natura e gli uomini. (Fromm, 1970)

Inoltre:

L’attività spontanea è il solo modo in cui l’uomo può superare il terrore della solitudine senza sacrificare l’integrità del suo essere, infatti nella realizzazione spontanea dell’Io l’uomo si riunisce al mondo: all’uomo, alla natura, a sé stesso. L’amore è la principale componente di tale spontaneità, non l’amore come dissoluzione dell’Io in un’altra persona, non l’amore come possesso di un’altra persona, ma l’amore come affermazione spontanea degli altri, come unione dell’individuo con gli altri sulla base della conservazione dell’io individuale. Il carattere dinamico dell’amore sta proprio in questa polarità: esso sorge dal bisogno di superare la separazione, porta all’unità e tuttavia l’individualità non viene eliminata. Il lavoro è l’altra componente; non il lavoro come attività ossessiva per sfuggire la solitudine, non il lavoro come rapporto con la natura che in parte è dominio su di essa, in parte adorazione e sottomissione agli stessi prodotti delle mani dell’uomo, ma il lavoro come creazione, in cui l’uomo diventa uno con la natura nell’atto della creazione. (Fromm, 1970)

Il pensiero di Erich Fromm può essere considerato come un invito a scorgere nuove possibilità di riflessione sul nostro modo di vivere nella società, riscoprendo forme più adattive di amore, di lavoro e del nostro Io.

E in questo periodo storico in cui grande è l’utilizzo delle piattaforme internet, questo appare come una ulteriore possibilità con cui riscoprirci uniti, collegati, anche se al momento fisicamente distanti gli uni dagli altri, lontani dalla società in cui siamo inseriti. Con questo non si vuole ignorare le diverse riflessioni psicologiche e sociologiche che nel tempo si sono susseguite sempre più ampliandosi, relative alle implicazioni, talvolta negative, che l’uso di Internet può portare con sé.

Si può ritenere, tuttavia, che restare connessi, può in questo momento rappresentare un’alternativa salvifica alle eventuali sensazioni di scoramento percepite. È però opportuno saper distinguere le informazioni dalla conoscenza, una capacità questa, che non deve perdersi nell’oblio della scatola nera di Internet. Al tempo stesso, questo momento può insegnarci qualcosa in più sulla comunicazione digitale e fungere da bussola orientativa per l’utilizzo di Internet in quel domani che tanto desideriamo all’insegna di presenze umane fisicamente tangibili.

A tal proposito interessanti sono le parole di Eugenio Borgna che in uno dei suoi scritti recita:

Quale è il tempo della comunicazione digitale? Non è il tempo della agostiniana circolarità fra il presente, il passato e il futuro, ma è un tempo che vive in un presente intessuto di istanti, di frammenti, che sono gli uni accostati agli altri, gli uni staccati dagli altri, in un presente che non ha storia, non ha passato, e non ha speranze, non ha futuro, in un presente che è di volta in volta risucchiato nel flusso ininterrotto di comunicazioni che nascono e muoiono, rinascono e scompaiono, senza lasciare tracce durature nella nostra vita interiore e nella nostra memoria vissuta. Il tempo della comunicazione digitale, nelle vertiginose dissolvenze, non consente facilmente riflessioni e meditazioni, rielaborazioni e ripensamenti, che richiedono tempi distesi, pause e dilatazioni impossibili nei tempi veloci, anzi velocissimi, delle informazioni digitali. Queste compaiono per un attimo sullo schermo, e poi scompaiono, trascinando con sé risonanze sempre diverse, e non di rado le une in conflitto con le altre, le une inconciliabili con le altre. Il tempo digitale insomma scorre come acqua da una cascata, e lascia appena il tempo alla sua istantanea percezione, e alla sua conseguente sparizione. Non è allora facile parlarsi in questo deserto. (Borgna, 2017)

L’invito dunque è quello di far sì che questo momento che ci divide e separa, possa domani ricongiungerci, con una maggiore attenzione alle parole e alla comunicazione, quella reale, quella fra corpi, volti, mani, contatti visivi, delegando alla rete una funzione di connessione solo se in assenza di una comunicazione più degna della condizione umana.

 

Ansia sociale. Clinica e terapia in una prospettiva cognitivista integrata (2019) a cura di P. Grimaldi – Recensione del libro

Gli autori nel lavoro di stesura del manuale Ansia sociale (a cura di Pietro Grimaldi) hanno cercato, riuscendoci in maniera chiara e ben articolata nelle argomentazioni, di integrare all’interno di un unico modello psicopatologico ricerche e modelli altri provenienti da ambiti diversi.

 

La sintesi proposta spiega lo sviluppo e il mantenimento dell’ansia sociale, arricchendo così il clinico con un modello di intervento terapeutico di codesta patologia nuovo e con efficacia rinnovata.

Viene trattata, quindi, l’ansia sociale; è questo il titolo del capitolo che apre le argomentazioni del manuale, dove nel dettaglio si spiega cosa si intende per ansia sociale, e ne esplicita le tre dimensioni definite dagli autori. La timidezza, che identifica la condizione non clinica, e le due condizioni psicopatologiche rappresentate dal Disturbo d’Ansia Sociale (fobia sociale) e il Disturbo Evitante di Personalità. Nello specifico, l’ansia sociale viene definita come:

una sindrome cognitivo-affettiva caratterizzata da apprensione o intensa paura che si manifesta in situazioni sociali in cui si è sottoposti allo sguardo e alla valutazione degli altri.

Difatti, la paura sociale e della valutazione negativa da parte delle altre persone sono caratteristiche che hanno in comune le tre sindromi appena esposte, pur mantenendo nondimeno altri aspetti sintomatologici che le rendono dissimili tra loro.

Il modello integrato raccoglie il consenso dei professionisti che hanno contribuito alla realizzazione del manuale. Analizzando cosa essi propongono, diversi modelli teorici insieme ai modelli di trattamenti efficaci sono stati esposti per la cura dell’ansia sociale. La rassegna delle linee guida per la cura dell’ansia sociale racchiude varie proposte, tra esse i protocolli del trattamento della terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behavioural Therapy – CBT) hanno ottenuto maggiori consensi di efficacia a livello internazionale. In aggiunta a tale terapia, vengono delineati i modelli eziologici con l’obiettivo di aggiungere la descrizione dell’insorgenza e mantenimento dei disturbi. Emerge e prende forma il modello integrato; esso si sforza di raccogliere in una unica trattazione i fattori eziologici insieme a quelli di mantenimento.

Nello specifico, la Cognitive-Behavioural Therapy (CBT), la teoria cognitivo-evoluzionistica, il modello metacognitivo interpersonale, le neuroscienze e gli studi sulle emozioni vengono assimilati nel modello integrato.

Trovo fondamentali i capitoli due e tre, in quanto pongono le basi e la chiarezza necessaria per comprendere i meccanismi psicologici e fisiologici. Così facendo, si evitano errori terminologici, si raggiunge l’accordo semantico condiviso, si migliora il processo di cura, in quanto selettivamente orientato ai vissuti del soggetto, escludendo interferenze di produzione e comprensione fonologica tra paziente e professionista.

I modelli neurobiologici evidenziano il ruolo dell’amigdala nello sviluppo e mantenimento dell’ansia sociale. Nello specifico presuppongono che l’equilibrio funzionale tra i sistemi neuronali coinvolti nella regolazione emotiva possa essere alterato. In altri termini il controllo top-down e i meccanismi di regolazione giocano un ruolo minore rispetto all’eccessivo arousal emozionale e al bias attenzionale esterno, favorendo l’insorgere delle problematiche dell’ansia sociale. Gli autori, proponendo la spiegazione neuorobiologica, arricchiscono il quadro complessivo sostenendo l’importanza di comprendere il funzionamento neuronale finalizzato allo sviluppo di modelli di intervento efficaci alla cura delle persone.

Come riportano le prime righe sul capitolo dedicato alla Neurobiologia dell’ansia sociale, nell’introduzione l’autore dichiara che:

Uno degli obiettivi fondamentali delle neuroscienze è quello di comprendere l’organizzazione funzionale delle reti cerebrali che sono alla base dei disturbi psichiatrici. I contributi delle neuroscienze possono dare sostanza ai modelli psicopatologici […] e aiutare il clinico anche nella implementazione o nella scelta di interventi psicoterapeutici più efficaci.

Il capitolo quarto è dedicato al trattamento dell’ansia sociale. Attualmente la CBT viene ritenuta come la più efficace nella cura della patologia. Il modello di intervento è strutturato in uno schema generale, ma nello stesso tempo adattabile al singolo individuo. Esercizi di esposizione, metodi di rilassamento e tecniche di ristrutturazione sono esempi di aspetti della struttura della CBT. Senza entrare nel merito del metodo, in generale esso afferma che gli individui con ansia sociale percepiscono l’ambiente come minaccioso e giudicante. Si tratta di una percezione distorta che provoca tutta una serie di sintomi fisici, comportamentali e cognitivi che generano disagio, immagine di sé caratterizzata da sensazione di inadeguatezza e sentimenti di umiliazione. Non resta al soggetto che l’evitamento delle situazioni temute, così come dalle relazioni sociali.

Ritornando sullo scopo del manuale, si evince come la proposta del modello di trattamento integri gli interventi standard della CBT con altre strategie terapeutiche. L’analisi approfondita dei meccanismi psicopatologici promuoventi il funzionamento e mantenimento del disturbo e dei legami tra eziologia e mantenimento, insieme ed integrati, provano così a strutturare il modello integrato come esposto in precedenza.

A mio avviso la prospettiva che ne deriva è vincente; non cerca di esprimere un giudizio negativo su modelli e tecniche già esistenti ponendo competizione tra interventi, ma, nell’ottica di cooperazione scientifica validata, assume l’impegno di arricchire le possibilità di aiuto. Integra, non separa. Aiuta, non cerca di primeggiare.

La conoscenza dei substrati neuronali è importante, come sostengono gli autori; il terapeuta inserito nella relazione diventa egli stesso modello umano per il paziente con ansia sociale; infatti:

il paziente ha la possibilità di esplorare il rapporto con il terapeuta nel qui ed ora e può avere la possibilità, grazie al terapeuta, di porre attenzione ai propri modelli relazionali, rivalutare la loro funzionalità e imparare nuovi metodi di regolazione affettiva.

Due capitoli sono dedicati al trattamento del Disturbo di Ansia Sociale e Disturbo Evitante di Personalità; hanno come modello della Teoria Evoluzionistica delle Motivazioni (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). Essa postula che l’attivazione non regolata del sistema agonistico sia la causa della sensibilità alla vergogna che i soggetti con ansia sociale vivono in maniera pronunciata. Il trattamento viene spiegato nelle parti fondanti, arricchite però con esempi di psicoterapie specifiche, dalle quali si evince e si comprende meglio il funzionamento patologico e, soprattutto, come intervenire nella pratica. Un grosso aiuto nella comprensione.

Il manuale termina con il capitolo dedicato alla Compassion Focused Therapy nel trattamento della Fobia Sociale.

 

Gli effetti psicologici della quarantena

L’epidemia di Covid-19 che ha colpito così duramente il nostro paese ha fatto in modo che le nostre nostre abitudini, che ci sembravano così scontate, siano state improvvisamente stravolte e profondamente modificate.

 

Purtroppo per contenere l’espansione incontrollata dell’epidemia, il governo è stato costretto a prendere misure drastiche che hanno costretto tutti noi a un lungo periodo di quarantena. Oltre al disagio che ci hanno recato queste settimane di isolamento sociale forzato, sembra con tutta probabilità che la spiacevole condizione che stiamo vivendo possa effettivamente impattare in maniera sostanziale sul nostro benessere psicofisico. In letteratura infatti esistono diverse ricerche che hanno raccolto numerose prove sugli effetti negativi che un prolungato periodo di segregazione può avere sulla salute psicologica.

La parola quarantena (forma veneta per quarantina) descrive il periodo di isolamento obbligato utilizzato per limitare il diffondersi di un’epidemia, che fu impiegato per la prima volta dalla repubblica di Venezia in relazione agli equipaggi delle navi in arrivo dai possedimenti in Dalmazia. Questo decreto speciale fu emanato per contenere l’epidemia di peste nera che imperversava in Europa e in Asia nel quattordicesimo secolo. Tale provvedimento imponeva infatti ai nuovi arrivati nella città lagunare, di passare un periodo di isolamento in un luogo ad accesso limitato per la durata appunto di quaranta gironi.

Se per tutti noi questa è un’esperienza nuova e dolorosa, queste misure drastiche di contenimento sono già state attuate molte volte in diversi periodi storici. Anche in tempi recenti differenti paesi hanno attuato queste disposizioni restrittive, come ad esempio diverse zone della Cina e il Canada per l’epidemia di SARS del 2003, alcuni villaggi africani per l’epidemia di Ebola del 2014 e prima di noi la provincia cinese di Hubei per l’attuale epidemia di Covid-19.

La quarantena, come stiamo purtroppo sperimentando, è un’esperienza spiacevole che comporta la perdita di libertà individuale, la separazione dai nostri affetti più cari e uno stato di incertezza sulla propria salute e sul futuro.

Durante il periodo di quarantena ci sono numerosi fattori di stress che secondo le ricerche contribuiscono a farci vivere il periodo di distanziamento sociale in maniera ancor più difficile. A tal proposito si è constatato che quanto più la durata della quarantena è lunga, tanto più è facile che si sviluppino sentimenti di rabbia, sintomi di disturbo da stress post traumatico e comportamenti fobici di evitamento. In special modo sembra essere presente la paura di poter sviluppare i sintomi della malattia e infettare gli altri (Hawryluck L., et al. 2004) (Marjanovic Z., et al. 2007).

La perdita del proprio lavoro, della propria routine quotidiana e l’annullamento del contatto sociale sono poi indicati spesso come cause di sentimenti negativi, come noia, demoralizzazione, senso di solitudine e di isolamento dal resto del mondo. In studi precedentemente svolti emerge inoltre come la paura di non avere a disposizione i rifornimenti per la sussistenza, come cibo o farmaci, sia stata fonte di notevole stress, che ha causato nelle persone ansia, rabbia e frustrazione, emozioni che in alcuni casi hanno continuato a essere presenti anche fino a sei mesi dopo la fine del periodo di quarantena (Blendon R.J., et al. 2004) (Jeong H., Yim H.W., Song Y.­J., et al. 2017).

I dati raccolti suggeriscono poi che è probabile che durante il periodo di distanziamento sociale si possano sviluppare disturbi di tipo fobico od ossessivo che permangono a lungo dopo la fine dell’epidemia. Una ricerca fatta a questo proposito su individui che erano stati in quarantena a causa di un possibile contatto con il virus della SARS ha rilevato che dopo la fine dell’emergenza, il 54% delle persone che erano state messe in isolamento evitavano chi tossiva o starnutiva, il 26% evitava luoghi chiusi e affollati e il 21% evitava tutti gli spazi pubblici (Reynolds D.L., et al. 2008). Uno studio a lungo termine correlato, effettuato dopo il periodo di quarantena, ha evidenziato la presenza di cambiamenti comportamentali diretti a ridurre l’ipotetico rischio di contagio, come il lavaggio compulsivo delle mani e l’evitamento di luoghi affollati (Cava M.A., et al. 2005). Inoltre un’analisi condotta su personale ospedaliero che era entrato in contatto con i malati di SARS, ha scoperto che dopo la fine del periodo di quarantena (nove giorni) venivano riportati sintomi da stress acuto, come forte ansia, irritabilità, insonnia, scarsa concentrazione e calo della produttività lavorativa (Bai Y., et al. 2004).

Come già stiamo vedendo, uno dei problemi più grandi della quarantena è quello dello sviluppo di una grossa crisi finanziaria. Interrompere la propria attività professionale a tempo indeterminato porta a effetti potenzialmente negativi sulla salute psicologica che si possono protrarre anche per molto tempo dopo la fine dell’emergenza. Come si è già osservato durante le epidemie di virus Ebola, di influenza equina o di SARS, l’interruzione dell’attività lavorativa ha causato oltre a gravi perdite finanziarie per i lavoratori, anche un forte rischio di sviluppare nella fase successiva alla fine dell’epidemia disturbi ansiosi, rabbia e depressione (Mihashi M., et al. 2009; Pellecchia U., et al. 2015; Taylor M.R., et al. 2008).

Risulta evidente che le misure restrittive prese dal governo siano state necessarie a evitare il propagarsi dell’epidemia. Tuttavia non bisogna sottovalutare gli eventuali costi in termini di salute psicologica che tale brutto periodo porterà a tutti gli italiani. La letteratura scientifica, come abbiamo visto, fornisce numerosi dati al riguardo. Dopo un evento traumatico di tale portata storica è inevitabile che ci siano anche ripercussioni sul benessere psicologico individuale di ogni cittadino. La struttura dell’assistenza sociale e psicologica senza dubbio andrà ripensata anche per far fronte al sicuro aumento di patologie stress correlate. Chi prima dell’epidemia aveva già un disturbo psichiatrico probabilmente avrà bisogno di un ulteriore aiuto. Con ogni probabilità poi, a questa popolazione si aggiungerà un gruppo numeroso di nuovi malati che avranno bisogno di assistenza e adeguato sostegno da parte della sanità e delle istituzioni.

Se si vuole ridurre la portata degli effetti negativi presenti e futuri dell’attuale quarantena, gli elementi suggeriscono che è necessario dare informazioni corrette e non fuorvianti ai cittadini, spiegando in maniera esaustiva la natura dei rischi e far sì ci siano chiare linee di comunicazione con la sanità pubblica, facendo in modo che la popolazione abbia un’adeguata comprensione della malattia. Se le persone sentono le istituzioni vicine, se percepiscono chiarezza nella comunicazione, può effettivamente nascere quel sano sentimento di altruismo che può unire il paese nella battaglia contro questa nuova epidemia. Non si può chiedere alle persone di mettersi in quarantena per il bene della comunità, se lo Stato che la rappresenta non è efficace nel tracciare linee chiare e trasmettere fiducia nel futuro (S. K. Brooks., et al. 2020).

La chiarezza e la trasparenza di informazione da parte delle autorità sulla durata della quarantena e sui propositi futuri, sono la chiave per riavvicinare i cittadini alle istituzioni politiche e per rafforzare il concetto che questo difficile periodo è necessario alla salvaguardia delle vite di ognuno di noi. Limitare la libertà dell’intera popolazione è stata sicuramente una delle scelte più complicate e gravose che siano state prese nella storia della Repubblica. Conseguentemente abbiamo visto anche che gli effetti psicologici della quarantena possono essere variegati, diffusi e avere una lunga durata. Quanto più i cittadini si sentiranno soli e abbandonati durante questo periodo, tanto più le ripercussioni sul benessere psicologico futuro saranno gravi. In questo difficile momento ci sono una moltitudine di persone che oltre a essere preoccupate per la loro vita, sono preoccupate per l’avvenire incerto che le attende. Se lasciate sole, senza punti di riferimento, dove adesso c’è noia alla lunga ci sarà angoscia, dove c’è frustrazione alla lunga ci sarà disperazione. Quanto peggiore sarà la percezione del vissuto di questa brutta esperienza, tanto peggiori saranno gli effetti prossimi sulla salute mentale. Mai come adesso l’abbraccio dello stato può farci sentire al sicuro. Mai come adesso le parole e le scelte delle istituzioni possono aiutarci ad avere fiducia in quello che dovranno essere le nostre nuove vite dopo la fine di tutto questo.

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