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Covid-19: vivere la quarantena tra relazioni sociali virtuali, parasociali e flashmob dai balconi

L’emergenza covid-19 ha comportato una netta restrizione in termini di libertà e relazioni sociali, imponendo una quarantena sempre più restrittiva per limitare e fermare il contagio.

 

Pur essendo innegabile il costo emotivo e psicologico che una restrizione del genere comporta sul benessere psicofisico, emerge ora più che mai il valore positivo dello sviluppo tecnologico nell’attenuare gli effetti collaterali dell’isolamento.

Al di là del restare in contatto con i nostri cari, vicini e lontani, o continuare a lavorare da casa in smart working (ove possibile), innumerevoli sono le iniziative e gli enti che si sono prodigati per offrire, spesso gratuitamente, intrattenimento digitale, per ogni età e interesse. Dalle visite a musei internazionali, ad allenamenti sportivi, canali di streaming illimitati e attività per bambini, la rete offre a tutti la possibilità di mantenersi attivi e social, seppur virtualmente.

Tra questi c’è chi più di altri, e non solo in quarantena, trova rifugio e consolazione anche in un altro tipo di relazione virtuale, interagendo e coltivando un legame affettivo con persone sconosciute, con cui riesce a ricreare una sorta di intimità. Si tratta di ciò che gli psichiatri Donald Horton e Richard Wohl (1956) hanno definito interazione parasociale, ovvero quel tipo di relazione che si può creare tra persone che non sono mai entrate in contatto diretto tra loro, ma che cinema, televisione e ora anche Internet danno l’impressione di conoscere di persona. La relazione parasociale è un rapporto in cui la reciprocità non si basa sulla realtà, bensì è simulata, nella misura in cui lo spettatore vedendo l’altro (attore o personaggio famoso che sia) sente di essere in comunicazione diretta con lui/lei. È da questa impressione che nasce quella illusione di intimità che fa sì che noi percepiamo il nostro idolo come un nostro amico o conoscente. È opportuno precisare che quello delle relazioni parasociali non è legato ad una particolare personalità o disturbo. L’uomo è una macchina da socialità e come tale necessita di relazioni per soddisfare i propri bisogni psicologi; tali bisogni possono essere soddisfatti anche da quell’ideale di persona irraggiungibile di cui tutti siamo o siamo stati fan per un periodo nella vita. Pur trattandosi di un rapporto asimmetrico, la relazione parasociale non è scevra di forti emozioni e spinte identitarie che giocano un ruolo importante in gusti e scelte delle persone.

Quella ‘intimità̀ non reciproca a distanza’ che viene a crearsi non impedisce infatti che ‘amici’ mai incontrati fisicamente, siano presenti nella vita psichica delle persone tanto da poter comparire anche nei loro sogni (Thompson, 2000).

Lo psicologo americano George Stever ha elencato le diverse fonti di attrazione per comprendere quali sono i bisogni psicologi che la relazione parasociale soddisfa:

  • Abilità e performance del vip, il quale può fungere da fonte di ispirazione e motivazione nel coltivare un talento o desiderio
  • Attrazione romantica, che suscita e alimenta fantasie. Questo genere di attaccamento permette di provare e sperimentare emozioni in un contesto sicuro.
  • Idealizzazione, che porta ad una sovrastima delle qualità del personaggio, con conseguente eliminazione dei difetti e giustificazione degli atti. Spesso si tratta di uno strascico dell’idealizzazione dei genitori tipica dell’infanzia.
  • Identificazione, utilizzata per costruire una immagine di sé ricercando elementi comuni, veri o presunti.
  • Attaccamento, nella misura in cui, sin da bambini, ricerchiamo dall’altro non solo sostentamento materiale ma soprattutto contatto e nutrimento emotivo. Diventa allora evidente come ci si possa sentire legati a personaggi che fanno provare emozioni, seppur non vi è reciprocità. Questo tipo di rapporto è tipicamente femminile e si caratterizza per il desiderio di proteggere ed accudire l’oggetto del proprio attaccamento.

Ma tornando alla situazione attuale e all’emergenza in corso degli ultimi mesi, se è vero che grazie ad internet il mondo si è arricchito di una realtà virtuale parallela che regala quella libertà illusoria ed effimera di essere chiunque e ovunque, si è sempre dietro uno schermo tra le proprie mura. Che si tratti di un rapporto reale o simulato come quello appena descritto, l’estensione del dialogo a distanza genera solitudine. I social network possono sicuramente sopperire laddove non possono i confini geografici nel restare in contatto con la propria rete o addirittura ampliarla, ma non sono in grado di offrire quegli elementi necessari della comunicazione umana che veicolano il vero calore umano (linguaggio verbale, non verbale e para-verbale). In rete si può provare solidarietà, grazie alla condivisione di un messaggio, uno stato emotivo o partecipando a una raccolta fondi per una buona causa (si pensi alle tante campagne di crowd-funding lanciate con successo dall’inizio dell’emergenza covid-19). Ma nell’impossibilità di esperire in toto la relazione nei suoi aspetti comunicativi, è più difficile provare empatia e attingere a quel calore umano. Ed è proprio per questo motivo che a un certo punto, l’Italia tutta, da Nord a Sud, ha sentito il bisogno di scendere di nuovo in piazza per sentirsi meno sola e darsi forza; non potendolo fare si è ritrovata sul balcone, a cantare contro la paura. Ognuno da casa propria ma insieme, alla stessa ora; guardandosi negli occhi, lontani ma vicini, e abbracciandosi virtualmente.

La musica e la vicinanza emotiva e fisica di dirimpettai e condomini più o meno sconosciuti, hanno unito e lenito più di ogni altro mezzo di telecomunicazione, conferendo in qualche modo il calore di un abbraccio e la forza per non arrendersi. Un orgoglio patriottico che non si provava dai mondiali del 2006 e un senso di comunità che ha valicato i confini nazionali, commuovendo e ispirando il resto del mondo (e da italiana all’estero posso confermare che quel pianto sommesso da un canto, misto a tanta speranza, sia arrivato diretto in tutta la sua forza e bellezza, trapassando lo schermo di un cellulare).

Due elementi indispensabili, nonché conclamati, hanno permesso che ciò avvenisse. La musica, denominatore comune di unione senza distinzione, cura per l’anima e antidoto capace di abbattere le barriere della paura, dell’odio e dell’indifferenza. E più di questo il contatto visivo che, al di là di ogni sviluppo tecnologico possibile, resta il mezzo di comunicazione più potente ed ineguagliabile.

E mi vengono in mente le parole di Brunori Sas in Canzone Contro la Paura:

Ma non ti sembra un miracolo
Che in mezzo a questo dolore
E in tutto questo rumore
A volte basta una canzone
Solo una stupida canzone
A ricordarti chi sei

Lontani ma vicini.

Adolescenza e sexting: informare i ragazzi e supportare i genitori

Negli ultimi anni, il numero di giovani che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente. Appare importante studiare questo fenomeno per una maggior comprensione degli adolescenti alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna.

 

La parola sexting è stata utilizzata per la prima volta nel 2005 dal Daily Telegraph, per unire i termini “sesso” e “sms”, diventando parola certificata nel 2009, sebbene non vi sia nessun consenso sulla definizione del termine nella comunità scientifica. Il sexting è generalmente definito come la ricezione e l’invio di messaggi sessualmente categorici e immagini digitali nude, parzialmente nude o sessualmente suggestive di se stessi o di altri, tramite un telefono cellulare, e-mail, internet, o social network. Negli ultimi anni, il numero di giovani (e non) che fanno uso di sexting è aumentato notevolmente.

In uno studio condotto su 1.289 adolescenti, Dake et al. (2012) hanno scoperto che tra i partecipanti che avevano tentato il suicidio nell’anno precedente, il 50% usava il sexting in modo compulsivo, sfociando quasi in comportamenti psicopatologici. Pertanto, indagare i rischi tra la popolazione giovanile può identificare i fattori che influenzano la progressione della pratica del sexting. Il suicidio, infatti, è la terza causa di morte tra le persone dai 15 ai 24 anni e la seconda causa di morte tra i 25 e 34 anni (Centers for Disease Control and Prevention, 2010); è stato dimostrato che la pratica apparentemente innocente del sexting comporta gravi rischi per il benessere degli studenti universitari e non, se effettuata in modo compulsivo.

L’attuale ricerca ha indagato la pratica del sexting tra i giovani adulti ed esplorato i comportamenti, le esperienze e le percezioni associate a questa pratica. Nello specifico, gli obiettivi del presente studio erano esaminare le differenze nei comportamenti di sexting in base alle variabili demografiche di età, sesso, status sociale e relazioni intime; i dati raccolti riguardavano i comportamenti, le esperienze e le percezioni sia di studenti impegnati nel sexting, sia di coloro che non lo praticano.

Il campione finale era composto da 41 studenti universitari tra i 18 e i 25 anni. Come metodo di indagine è stato creato dai ricercatori un sondaggio con domande esplorative nell’ambito del sexting che hanno guidato la ricerca.

I risultati dell’analisi dimostrano che la frequenza del sexting era significativamente associata al genere, alla posizione sociale e alla tipologia di relazione instaurata; ma non era associata in modo significativo con l’età dei partecipanti. In particolare, l’invio delle immagini sessuali riguardava nella maggioranza dei casi soggetti di sesso maschile non impegnati in relazioni stabili. Per quanto riguarda i comportamenti, le esperienze e le percezioni sul sexting, relativamente pochi soggetti hanno pensato che la possibilità di inviare e/o ricevere immagini a sfondo sessuale aumentasse il rischio di abuso di sostanze o alcol; mentre la metà dei partecipanti ha ritenuto che il sexting porti ad avere un rapporto sessuale completo.

Questo studio è importante per le figure professionali in ambito sanitario, scolastico e medico che guidano le famiglie verso una miglior comprensione e comunicazione con i propri figli; alla luce delle innovazioni tecnologiche della società moderna. Alcune modalità specifiche attraverso cui l’educatore e lo psicologo potrebbero aiutare i genitori includono:

  1. consigliare ai genitori di parlare con i propri figli adolescenti del loro utilizzo di internet e della tecnologia, analizzando problemi specifici che i giovani d’oggi devono affrontare;
  2. discutere con i genitori l’importanza di supervisionare le attività online attraverso la partecipazione attiva e la comunicazione;
  3. consigliare agli insegnanti di colmare il divario esistente nelle proprie classi, diventando più istruiti sulle tecnologie che usano gli studenti e integrando con programmi di educazione sessuale.

Il sexting può avere gravi conseguenze sui giovani, sia autori che vittime, soprattutto in relazione al tema della privacy e le problematiche legate alla possibilità che foto private diventino “pubbliche”, sfociando in fenomeni di bullismo e cyberbullismo. Pertanto, i giovani devono essere educati sulle violazioni della sicurezza e sulla responsabilità riguardo alla condivisione e alla realizzazione di foto e video a sfondo sessuale.

Sarebbero necessarie ulteriori ricerche sul sexting al fine di esaminare l’incidenza e la pervasività di questo comportamento anche in altri contesti, l’effetto che può avere su studenti e genitori e le credenze, gli atteggiamenti e i sentimenti che gli studenti nutrono nei confronti di questa pratica, le politiche e le procedure scolastiche che potrebbero essere messe in atto per prevenire e reagire ad incidenti dovuti al sexting.

 

Coronavirus: come gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva – Il Centro Disturbi della Personalità di Modena offre uno sportello di ascolto psicologico gratuito

Sportello di ascolto psicologico: gestire le problematiche di Disregolazione Emotiva al tempo del Coronavirus. Servizio gratuito telematico e telefonico.

 

L’importante emergenza per il Coronavirus richiede l’impegno personale a rimanere a casa, tale necessità crea un notevole stress per tutti, maggiormente per le persone che hanno difficoltà a gestire i propri stati emotivi.

Interrompere le nostre routine destabilizza, la percezione di perdere il controllo sulla propria vita aumenta il nostro costante preoccuparci, facendoci sperimentare emozioni molto intense.

L’impossibilità nel muoversi limita l’uso di strategie per scaricare la carica emotiva causando un sovraccarico. Lo sportello di ascolto psicologico ha l’obiettivo di fornire: informazioni sui disturbi legati alla regolazione emotiva presente in molti disturbi della personalità e supporto per la gestione delle emozioni difficili da sopportare.

I professionisti del Centro Disturbi di Personalità ti assisteranno con appuntamenti in:
• videoconsulenza (Skype, WhatsApp)
• consulenza telefonica.

Lo sportello è rivolto a tutte le persone interessate al tema dei Disturbi della Regolazione Emotiva.

Per accedere allo sportello di ascolto telematico, compilare il modulo online su: modena.clinichepsicoterapia.it/sportello-di-ascolto/

 

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Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/san-benedetto/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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Emergenza Psicologica Coronavirus – Studi Cognitivi Modena offre un colloquio psicologico gratuito online o telefonico

Emergenza Coronavirus: vicini, oltre le distanze. I professionisti di Studi Cognitivi Modena offrono un colloquio psicologico gratuito online o telefonico.

 

La situazione emergenziale attuale non ha precedenti nella nostra storia recente, molteplici sono le conseguenze di disagio psicologico: ansia, paure e preoccupazioni per i nostri familiari, le incertezze sul futuro e la gestione della quotidianità.

Come professionisti della salute mentale offriamo un incontro gratuito informativo e di supporto. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi Modena ha attivato la modalità di intervento psicologico e di psicoterapia a distanza tramite sedute in videochiamata (Skype o WhatsApp) o, per chi non ha la possibilità di videochiamata, le sedute telefoniche.

 

Per richiedere un appuntamento per un primo colloquio gratuito compilare il modulo online: studicognitivi.it/modena/emergenza-psicologica-coronavirus/

 

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Fobia del contagio: il coronavirus e la rupofobia

Nel periodo attuale prendere precauzioni rispetto ad eventuali contagi di coronavirus è necessario, ma potrebbe anche slatentizzare delle forme di psicopatologia. Ad oggi, non è facile distinguere una persona con rupofobia da chi si attiene scrupolosamente alle direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita del rupofobico è insoddisfacente e particolarmente complessa, specialmente in questo periodo storico.

 

La profonda rivoluzione che le nostre vite stanno subendo in questi giorni ci spinge a chiederci se e in che modalità, terminata la pandemia, modificheremo i nostri stili di comportamento. Quando saremo liberi dall’ipotesi di contagio, torneremo ad agire come in passato? I nostri atteggiamenti nei confronti del mondo esterno e degli altri resteranno i medesimi di sempre? È possibile ipotizzare una risposta negativa a queste domande. È probabile, infatti, che il timore del contatto, ormai così profondamente radicato nella nostra mente e nelle nostre azioni quotidiane, resti impresso dentro di noi, con notevoli conseguenze comportamentali ed emotive. Tale cambiamento sarà probabilmente amplificato in coloro che già in precedenza mostravano alcune specifiche vulnerabilità.

Il Covid-19 è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto con una persona contagiata. La via primaria di contagio sono le goccioline del respiro emesse tramite saliva, tosse, starnuti ed i contatti diretti personali, toccando nello specifico le mani, la bocca, il naso o gli occhi. Il collegamento epidemiologico può avvenire entro un periodo di quattordici giorni prima della manifestazione di malattia. Il Coronavirus ha avuto origine a Wuhan, in Cina, alla fine del 2019. Una serie di misure è stata urgentemente adottata, quale l’identificazione e l’isolamento di casi sia diagnosticati che sospetti, la diffusione dei criteri diagnostici nazionali da seguire e la messa a disposizione di forniture mediche e team di esperti. Il nuovo focolaio di Coronavirus ha reso necessarie cure tempestive anche per quanto riguarda la salute mentale di tutti i cittadini cinesi: il 26 gennaio 2020 la National Health Commission of China ha notificato i principi base per pianificare alcuni interventi di psicologia dell’emergenza: fornire assistenza sanitaria psicologica per tutti i pazienti affetti da Coronavirus, ma anche per coloro che hanno avuto contatto con essi, per chi si trova in regime di isolamento o di ricovero, per tutti i familiari e gli amici delle persone colpite e per gli operatori sanitari. L’assistenza psicologica fornita finora riguarda principalmente la gestione di emozioni quali solitudine, rabbia ed ansia, in particolare relativa al terrore del contagio o di poter infettare i propri familiari, amici o colleghi (Xiang, Y.T., et al., 2020).

Il Coronavirus sta cambiando in ognuno di noi la percezione del pericolo, aumenta l’intolleranza all’incertezza e al rischio. Gli esperti ipotizzano un rapido incremento di casi di Disturbo da Stress Post-Traumatico al termine della pandemia, così come è stato indagato nella popolazione cinese (Sun, L. et al., 2020). Aiuto psicologico e psichiatrico specialistico si renderà necessario anche in Italia, soprattutto rivolto a pazienti con disagi psichici in comorbidità. L’avvento del Coronavirus ha infatti slatentizzato numerose patologie psicologiche, precedentemente gestite oppure già fonti di malessere pervasivo. Una tipologia di disturbo che tale virus ha accentuato è la fobia dello sporco: la paura irrazionale di entrare in contatto con superfici potenzialmente contagianti e la conseguente necessità implacabile di disinfettarsi. Il timore del contagio batterico e virologico è ad oggi chiaramente giustificato e comprensibile: tutti sperimentiamo ansia per la nostra salute e pensieri relativi alle catastrofiche conseguenze di entrare in contatto con il virus. L’emozione di ansia normale e flessibile si differenzia però dal terrore patologico, rigido ed incontrollato, che si sperimenta ad ogni possibilità di contagio. Pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi, quali ad esempio rituali di pulizia, possono infatti sfociare in una vera e propria forma di ansia patologica, derivante da precedenti vulnerabilità: la Rupofobia. Il termine Rupofobia deriva dal greco rupos: sporco. Le ossessioni rupofobiche riguardano la paura della contaminazione, della possibilità di contrarre una malattia ed il disgusto verso certi ambienti o situazioni potenzialmente contagianti. I pensieri ossessivi sono intrusivi, ripetitivi e persistenti e si legano a compulsioni, quali rituali messi in atto in maniera continuativa allo scopo di contrastare la paura del contagio. Tali agiti forniscono sollievo solo temporaneo, per poi rinforzare la credenza disfunzionale sottostante: l’intollerabile rischio di poter essere stati infettati. Il dubbio di non aver effettuato perfettamente i rituali di pulizia provoca ansia, fino ad arrivare anche a forme di panico. Le strategie di evitamento conseguenti possono essere pervasive, causando difficoltà relazionali e sociali profonde e disfunzionali. I rituali di pulizia rigidi ed inflessibili rappresentano il tentativo di rimuovere ogni minima possibilità di contaminazione, che può minacciare l’idea di salute fisica. La fobia del contagio è dunque una forma patologica di paura persistente che si differenzia dal naturale timore di contrarre una malattia (Rachman, 2004). Le credenze centrali sottostanti riguardano il desiderio di controllo assoluto sul proprio stato di salute, così come accade nell’Ipocondria: non si cerca di perseguire uno scopo in positivo, ma di evitare l’opposto, attraverso strategie di controllo percettivo, cognitivo e comportamentale. L’attenzione selettiva, i pensieri automatici negativi e le interpretazioni catastrofiche, le immagini terribili ed i comportamenti di evitamento caratterizzano tale patologia. Nella fobia del contagio manca quindi la ‘regola dell’interruzione’: non si è mai davvero convinti di essere al sicuro, quindi non si possono fermare i rituali. Nulla è mai abbastanza pulito ed igienizzato.

La fobia dello sporco, così come tutti i disturbi psicologici, può avere differenti cause. Similmente all’Ipocondria, la Rupofobia presenta derivati genetici, esperienziali – vissuti traumatici ed episodi drammatici durante l’infanzia – e sociali, con l’apprendimento di modelli di comportamento simili all’interno del nucleo familiare (Fallon et al., 2000). I genitori del fobico sono spesso criticisti, eccessivamente perfezionisti, con aspettative elevate ed alti standard; l’obbligo a regole rigide ed imprescindibili, soprattutto verso l’ordine e la pulizia, una moralità inflessibile ed imposta, amplificano sentimenti quali ansia e disgusto nei bambini. Il rupofobico sperimenta fin da piccolo insicurezza, timore delle scelte e delle responsabilità, ansia rispetto alle novità. L’idea che il rupofobico costruisce di sé è di una persona debole, insicura, particolarmente soggetta a patologie fisiche e psichiche. Inoltre, oggi vediamo come l’influenza dei mass media colpisca soprattutto chi è più vulnerabile e fragile, contribuendo ad alimentare la fobia.

Nel periodo attuale prendere precauzioni rispetto ad eventuali contagi è necessario, ma potrebbe anche slatentizzare delle forme di psicopatologia. Ad oggi, non è facile distinguere un rupofobico da chi si attiene scrupolosamente alle direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita del rupofobico è insoddisfacente e particolarmente complessa, specialmente in questo periodo storico. La caratteristica principale dello stato mentale che presenta l’individuo affetto da Rupofobia è legata all’estremo desiderio di controllo dello sporco, totale ed assoluto, impossibile da raggiungere, che intensifica le emozioni negative. Ognuno di noi è oggi chiamato a fare prevenzione e a comportarsi in maniera scrupolosa ed attenta, ma coloro che erano già particolarmente suscettibili alle varie forme di contaminazione – come i rupofobici – hanno trovato conferma delle loro credenze centrali: i pensieri relativi al timore di essere contagiati o di contagiare, oggi si mostrano maggiormente credibili, reali. E’ quindi necessario chiedersi in che modalità il loro stile di vita si modificherà a seguito della pandemia vissuta oggi. In futuro probabilmente per ciascuno di noi diventerà particolarmente difficoltoso mettere in atto atteggiamenti e comportamenti verso gli altri e verso il mondo esterno simili al passato: stringersi le mani, abbracciarsi, baciarsi o frequentare luoghi affollati saranno gesti legati al timore di non essere al sicuro. Individui affetti da Rupofobia troveranno probabilmente ancora più difficoltà nell’intraprendere una vita adattiva, equilibrata e serena, sia a livello personale che sociale. Le convinzioni relative alla pericolosità di certi agiti saranno rinforzate, con il conseguente aumento dell’intensità emotiva negativa.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata fino ad oggi estremamente efficace nel fornire aiuto per tale tipologia di disagio, così come per altre forme di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e di Fobie Specifiche (Sassaroli, S. et al. 2006). Le tecniche cognitive e comportamentali fornisco un aiuto fondamentale nella formulazione di risposte adattive verso lo stress e nello sviluppo di pensieri alternativi razionali, offrendo strumenti per diminuire i comportamenti protettivi. In termini LIBET, la TCC mirerà alla flessibilizzazione dei Piani Prescrittivo e Prudenziale, tipici degli individui rupofobici. Lo scopo sarà infatti quello di gestire le strategie rigide di evitamento, diminuire il rimuginio e contrastare i tentativi di ipermonitorare le possibili fonti di contagio, prevederle per mantenersi al polo opposto rispetto al disagio temuto, lo sporco. Il percorso psicoterapico aiuta a promuovere nel paziente il processo di accettazione del rischio di potersi ammalare, aumentando la consapevolezza dei propri meccanismi interni. La situazione di emergenza attuale rende necessaria una profonda validazione della sofferenza, che colpisce l’intera popolazione mondiale ma in particolar modo le persone che soffrono di Rupofobia.

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita

Stern distingue tra esperienza esplicita, che ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, di oggettivare se stessi in modo riflessivo e di usare le parole per eseguire resoconti della propria esperienza, ed esperienza implicita, un’esperienza prelinguistica, non verbale, non simbolica e che non presenta forme di coscienza riflessiva.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern. I successivi articoli verranno pubblicati nei prossimi giorni.

 

Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita

Nella stratificazione dell’esperienza, tra i diversi livelli, vi è un punto di frattura che separa due tipi di esperienza qualitativamente differenti. Il punto di discontinuità è collocato tra i primi tre sensi del Sé e l’ultimo, cioè in prossimità della comparsa del linguaggio. I primi tre sensi del Sé appartengono a quella che Stern chiama l’esperienza implicita e il senso del Sé verbale all’esperienza esplicita. Tali dimensioni dell’esperienza costituiscono due sistemi distinti e paralleli. Non vi è un’evoluzione che nel tempo trasforma l’esperienza implicita in quella esplicita, come due periodi dello sviluppo, ma vi è una convivenza tra due sfere dell’esperienza che operano simultaneamente.

Vediamo ora le caratteristiche dei due tipi di esperienza, l’implicita e l’esplicita, attraverso le parole di Stern (2004).

In estrema sintesi, la conoscenza implicita è non simbolica, non verbale, procedurale e inconscia (nel senso che non è riflessivamente conscia), mentre quella esplicita è simbolica, dichiarativa, cosciente (in senso riflessivo), verbalizzabile e narrabile (p. 93).

Analizzando le proprietà delle due forme di esperienza si può notare come ciò che fa da spartiacque sia proprio la comparsa del linguaggio. L’esperienza esplicita, infatti, ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, la capacità di oggettivare se stessi in modo riflessivo e l’uso delle parole per eseguire resoconti della propria esperienza. L’esperienza implicita è, invece, un’esperienza prelinguistica e ha caratteristiche opposte a quella esplicita, essa è non verbale, non simbolica e non presenta forme di coscienza riflessiva.

In estrema sintesi, quando la nostra esperienza è messa a tema e quindi ha la forma del resoconto verbale, o solo mentale, di ciò che stiamo esperendo, si tratta di una forma di esperienza esplicita. È da notare che tale resoconto non può essere simultaneo all’esperienza che ha come oggetto, vi è infatti sempre un pur piccolo scarto temporale tra le due esperienze e quella esplicita è sempre successiva. A conferma di ciò, ecco le parole di Stern (2004).

il momento presente viene esperito mentre è ancora in corso, dunque la sua conoscenza non può essere esplicita, simbolica o verbale. Queste proprietà, infatti, gli vengono attribuite solo a posteriori.

Se accettiamo la distinzione tra coscienza fenomenica (o semplice consapevolezza) e coscienza riflessiva, possiamo affermare che l’esperienza esplicita è accompagnata da una forma di coscienza riflessiva che ha come oggetto un’esperienza fenomenica. Se con ESP1(x) indichiamo la consapevolezza di x che abbiamo in un tempo t1, allora l’esperienza esplicita sarà del tipo ESP2(ESP1(x)) dove con tale espressione si vuole intendere la consapevolezza della consapevolezza di x.

Per maggior chiarezza riporto le parole di Gallagher e Zahavi (2008) attraverso le quali spiegano con una metafora tale struttura:

Un modo per illustrare l’idea guida di questo approccio è quella di paragonare la coscienza a un fascio di luce. Alcuni stati mentali sono illuminati, mentre altri espletano la loro funzione nell’oscurità. Ciò che rende cosciente (illuminato) uno stato mentale è il fatto di essere preso a oggetto da uno stato di ordine superiore (p. 80).

In un dato istante t1 l’individuo adulto può esperire il mondo anche solamente in modo implicito e cioè attraverso una semplice coscienza fenomenica, come quando siamo impegnati in un’operazione che richiede molta attenzione. Tale esperienza implicita – ESP1(x) – può in un momento t2 essere oggettivata da un’esperienza esplicita con la quale portiamo a tema ciò che abbiamo esperito nella forma ‘ho esperito x’ – ESP2(ESP1(x)) – o, impropriamente, ‘sto esperendo x’. Come detto sopra, il resoconto sarà sempre, per così dire, ‘in ritardo’ rispetto all’esperienza originaria.

Spesso capita di illuderci di essere coscienti riflessivamente, in un determinato momento, di ciò che stiamo facendo e ci esprimiamo per esempio nella forma ‘ora sto scrivendo’. In realtà ciò che accade è che nel momento in cui attiviamo una coscienza riflessiva che mette a tema ciò che stiamo facendo, dobbiamo sospendere la nostra coscienza su quell’attività e lasciare eventualmente che essa venga svolta in modo automatico e in assenza di consapevolezza (in un determinato istante o sono consapevole del contenuto della mia scrittura – ESP1(x) – prestando attenzione a ciò che scrivo, oppure sono consapevole di esserne consapevole – ESP2(ESP1(x)) – interrompendo la mia attività, ma non entrambe le cose contemporaneamente). Queste interruzioni possono essere frequenti e ravvicinate e ciò ci dà l’illusione di una simultaneità tra le due forme di coscienza. Ecco a tal proposito le parole di Gallagher e Zahavi (2008).

Al contrario, quando riflettiamo, facciamo un passo indietro rispetto all’attività mentale che è in corso e, come Richard Moran ha recentemente osservato, questo fare un passo indietro è una metafora di distanziamento e separazione, ma anche di osservazione e confronto (pp. 103-104).

Ancora una volta è possibile tracciare un parallelismo tra la teoria di Stern e la fenomenologia. Seguiamo ancora Gallagher e Zahavi in un passaggio estremamente chiaro col quale spiegano il pensiero di Husserl e Merleau-Ponty:

La temporalità contiene una frattura interna che ci permette di ritornare sulle nostre esperienze passate per indagarle riflessivamente; e tuttavia questa stessa frattura ci impedisce anche di coincidere pienamente con noi stessi. Rimarrà sempre una differenza tra il vissuto e il compreso (p. 101).

Ma come è possibile coniugare quest’idea di uno scarto temporale ineliminabile tra esperienza implicita ed esplicita con la tesi della stratificazione dell’esperienza? Secondo quest’ultima i livelli dell’esperienza dovrebbero essere attivi simultaneamente. In realtà le due tesi non sono affatto incompatibili, esperienza esplicita ed implicita possono tranquillamente convivere simultaneamente. Per esempio se sto guidando la mia auto posso contemporaneamente pensare al fatto che prima di partire ho parlato con una certa persona. Nel momento in cui un soggetto ha un’esperienza esplicita, infatti, essa è sempre accompagnata da tutta una serie di esperienze implicite che passano inosservate. Le esperienze implicite possono essere caratterizzate da un alto livello di attenzione e focalizzazione, oppure avvenire in modo automatico e inconsapevole, andando così a costituire quelli che Stern chiama i buchi di coscienza. Da un lato, dunque, vi sono quelli che Stern chiama i momenti presenti, brevi periodi temporali che formano unità percettive globali dotate di senso, in cui è possibile scomporre la nostra esperienza diretta del mondo e che, pur essendo impliciti, rimangono impressi nella memoria e recuperabili come oggetto di una successiva riflessione. Dall’altro lato vi sono i buchi di coscienza, ossia esperienze vissute che non si fissano nella memoria a lungo termine e non possono più essere recuperate. Alla descrizione del momento presente Stern dedica un’importante opera (Stern, 2004) nella quale compie un’analisi fenomenologica dell’esperienza implicita e del suo aspetto temporale.

Stern si oppone ancora una volta al modello classico e in particolar modo alla tesi dello sviluppo lineare dell’esperienza, che vorrebbe vedere una sostituzione dell’esperienza prelinguistica con quella linguistica. Ciò che critica fortemente è la possibilità di una traduzione dell’esperienza implicita in esperienza esplicita. Nella traduzione infatti molte caratteristiche dell’esperienza implicita vengono perdute. Per esempio quando si traduce una percezione amodale attraverso un resoconto verbale, che ne specifica il canale sensoriale coinvolto, si perde la sua amodalità; ecco un celebre esempio che Stern (1985) usa per spiegare questa perdita.

Consideriamo ad esempio un bambino che osserva una macchia gialla di sole sulla parete. Il bambino sperimenterà l’intensità, il calore, la forma, la brillantezza, il piacere e altri aspetti amodali della macchia. Il fatto che la macchia sia gialla non è molto importante, anzi non lo è per niente. Mentre guarda la macchia e la sente-percepisce (secondo Werner), il bambino vive un’esperienza globale che è la risultante di una serie di esperienze amodali, o qualità percettuali primarie, inerenti alla macchia di luce: intensità, calore, etc. Per poter mantenere questa prospettiva altamente flessibile e onnidimensionale sulla macchia, il bambino deve restare cieco a quelle particolari proprietà (qualità percettuali secondarie e terziarie come ad esempio il colore) che specificano il canale sensoriale attraverso il quale la macchia viene sperimentata. Non deve notare né essere consapevole del fatto che si tratta di un’esperienza visiva. Ma il linguaggio costringerà il bambino a fare proprio questo. Qualcuno entrerà nella stanza ed esclamerà: ‘Oh! Guarda che bella macchia gialla di luce!’ (p. 182).

Un altro motivo di perdita delle caratteristiche dell’esperienza implicita è costituito dall’applicazione dei concetti nella descrizione di determinate esperienze. Questo fa sì che venga persa la singolarità dell’episodio per via della generalizzazione che il resoconto concettuale comporta. Ecco le parole di Stern (1985).

Nessun episodio specifico ha un suo proprio nome. Le parole si applicano a classi di cose […] Gli episodi specifici passano attraverso il setaccio linguistico e non possono essere riferiti verbalmente se non quando il bambino è molto avanti nell’uso del linguaggio, a volte mai (p. 183).

Ma non vi sono solo problemi legati alla perdita di alcune caratteristiche, vi sono, come abbiamo detto, intere esperienze implicite che non possono essere catturate dal nostro linguaggio. Ancora Stern (1985).

Infine, esistono esperienze globali al livello della relazione nucleare e intersoggettiva (quale ad esempio il senso del Sé nucleare) che non si aprono al linguaggio in misura sufficiente da consentire un’operazione di trasformazione linguistica. Esperienze del genere, dunque, sono condannate a condurre una vita clandestina, non verbalizzata, e in una certa misura sconosciuta, ma tuttavia assolutamente reale (p. 181).

Non è dunque possibile pensare di trasformare l’intera esperienza implicita in esperienza esplicita effettuando un resoconto linguistico. La nostra cultura tuttavia, influenzata dal modello classico, ha sempre privilegiato l’esperienza esplicita considerandola come la versione ufficiale della nostra esperienza. È proprio contro questa convinzione che si scaglia fortemente Stern (1985) mostrando, senza troppi giri di parole, di ritenere che la comparsa del linguaggio non sia solo una conquista positiva dello sviluppo ma comporti molti aspetti negativi.

E tuttavia in realtà il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Esso fa sì che parti della nostra esperienza divengano più difficilmente comunicabili a noi stessi e agli altri. Inserisce un cuneo fra due forme simultanee di esperienza interpersonale: quella vissuta e quella verbalmente rappresentata (p. 169).

E, nella misura in cui agli eventi che hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di ‘realtà’, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno luogo negli altri campi. (Possono divenire i campi sommersi dell’esperienza.) Il linguaggio, dunque, produce una scissione nell’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale, astratto, intrinseco al linguaggio stesso.

Come è possibile capire da questi passaggi, Stern (2004) propone, in modo molto impopolare, di rivalutare il rapporto tra l’esplicito e l’implicito, cioè tra il linguaggio e l’esperienza prelinguistica, mettendo in discussione i valori che comunemente la nostra cultura attribuisce loro e l’attenzione ad essi dedicata.

Quando un’esperienza viene espressa a parole, si guadagna e si perde qualcosa. Si perde in integrità, autenticità e ricchezza (p. 120).

A proposito dell’apprendimento del linguaggio, è sottolineato come il mondo delle esperienze preverbali e implicite, ricco e confortevole, venga mandato in frantumi e si disperda in mille pezzi irriconoscibili.

In conclusione, la distinzione qualitativa tra esperienza implicita ed esplicita, la loro convivenza simultanea come due sistemi distinti, paralleli e relativamente indipendenti e l’inversione dei loro valori rispetto a quelli attribuitigli dalla nostra cultura costituiscono l’ossatura della seconda tesi sterniana che ho chiamato ‘Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita’.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

Seno prosperoso? No grazie! Studio sull’impatto della mastoplastica riduttiva sulla qualità della vita

Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno.

 

Ogni corpo è differente, ogni corpo è unico, ogni individuo odia certe parti del proprio corpo e ne apprezza altre, per questo motivo la moderna medicina ha sviluppato sofisticate tecniche correttive per modellare il fisico, divenuto tela per l’esperto artista del bisturi, pronto a donare ad ognuno il corpo che ha sempre sognato.

Per quanto alcuni esortino all’accettazione tollerante verso la propria immagine e le proprie eventuali imperfezioni fisiche (reali o percepite), è doveroso riconoscere come in alcuni casi un difetto estetico evidente possa costituire motivo di profonda vergogna, generare vissuti personali negativi, in taluni casi addirittura isolamento sociale e ritiro dall’intimità con gli altri. Per questo motivo, in alcuni paesi è data la possibilità di accedere ad interventi di chirurgia estetica godendo della copertura assicurativa o, come nel nostro caso, che se ne faccia carico il Sistema Sanitario Nazionale, previo l’accertamento di una compromissione della funzionalità o di forte disagio psicologico dovuti al difetto fisico che si intende correggere.

Le statistiche ci dicono che vi è una notevole disparità di genere nella richiesta di interventi estetici, tanto che secondo un recente report dell’ASAPS (America Society Aesthetic Plastic Surgery), nel 2018 negli Stati Uniti sono stati effettuati 1,533,639 trattamenti estetici chirurgici dei quali il 92,9% erano richiesti da donne e, di questi, circa il 40% era costituito da donne tra i 35 e i 50 anni (n.b: escluse quindi da questo conteggio pratiche come iniezioni di acido ialuronico, filler o il peeling chimico, che rientrano negli interventi non chirurgici).

Sembra che la parte del corpo che crei più disagio alle donne in maniera consistente nelle diverse fasce d’età siano i seni, sui quali vengono praticati aumenti di volume, lifting, rimodellamenti, sbiancamenti areolari, tutto per ottenere forme e dimensioni perfette. Accanto a queste procedure che mirano ad un miglioramento dell’estetica, ma generalmente non vengono riconosciute come interventi di miglioramento funzionale, altri, come ad esempio le ricostruzioni dopo interventi di rimozione delle ghiandole mammarie o la diminuzione del volume del seno possono rispondere a delle esigenze che vanno oltre la preferenza estetica.

Tuttavia, mentre la ricostruzione del seno a seguito dell’asportazione è garantita dal nostro Sistema Sanitario Nazionale, i criteri di eligibilità per l’intervento di riduzione del seno o Mastoplastica Riduttiva, sono spesso basati su valori come il BMI (Body Mass Index) o il peso minimo di resezione mammaria durante la chirurgia (ovvero la quantità di tessuto minima che si potrà recidere), indici medicali che non tengono conto del vissuto dell’individuo e dalla menomazione risultante dai sintomi dolorosi connessi con l’ipertrofia del seno: come risultato a molte donne viene negato l’accesso ad una misura considerata come ‘di minore impatto’ e in definitiva ritenuta poco necessaria (Frey et al., 2014), quando al contrario esiste un solido corpo di studi a sostegno dei benefici ottenuti ricorrendo alla riduzione del seno (Blomqvist et al., 2000; Freire et al., 2007; Mello et al, 2010).

Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno. Per valutare l’effettivo impatto benefico costituito dall’intervento, il gruppo sperimentale è stato confrontato con un gruppo di controllo che rispondesse agli stessi criteri di eligibilità ma che non si fosse ancora sottoposto all’operazione e ad un secondo gruppo, costituito da donne il cui seno non fosse ipertrofico e la cui qualità della vita non risentisse dunque di questa problematica. Il 97,6% delle partecipanti ha dichiarato nel questionario post-operatorio che avrebbero rifatto l’intervento, 4 pazienti risultavano indecise e una soltanto non avrebbe ripetuto l’esperienza. A seguito dell’operazione inoltre le pazienti spendevano meno denaro per l’acquisto di medicinali o trattamenti (5.73$ al mese contro i 36,4$ dichiarati nel pre-operatorio) e richiedevano meno giorni di assenza dal lavoro (0,1 giorni nell’arco di sei mesi contro 4,5 giorni). A 3 mesi dall’intervento i punteggi al questionario usato per valutare la qualità della vita in relazione alla salute (SF-36) hanno mostrato un miglioramento significativo su tutte le 8 scale considerate, tali da essere equiparabili ai punteggi appartenenti al gruppo delle donne con seni di dimensioni regolari, rimanendo poi stabile a 6 e 12 mesi successivi all’operazione; il gruppo di controllo, non sottoposto ad intervento, riportava inizialmente una media inferiore di quella della popolazione normativa per poi rimanere prevedibilmente costante nei successivi assessment; nel confronto con le pazienti post-operatorie, il gruppo di controllo riferiva una condizione di salute peggiore, confermando l’effettiva efficacia dell’operazione nel migliorare la salute psicofisica delle donne.

I risultati ottenuti da Crittenden e colleghi (2020) riflettono un miglioramento sulla qualità della vita che eccede quelli ottenuti mediante l’innesto di un bypass coronarico o di riparazione di un’ernia, ed è equiparabile a quello ottenuto con l’impianto di una protesi totale del ginocchio, avvallando il ruolo dell’intervento di riduzione del seno nel migliorare in maniera clinicamente rilevante la qualità della vita delle donne che vi fanno ricorso.

Storia critica della psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati – Recensione del libro

Storia critica della psicoterapia è un testo che prepara e spinge a non aderire ai protocolli in modo rigido, a non dimenticare che anche se si chiamano psicoterapie in realtà la prassi terapeutica è una ed ha l’obiettivo di curare la sofferenza umana.

 

Ci siamo passati tutti. L’esame di storia della psicologia.

Si studiava Piaget. Bowlby. Freud. Winnicott. Fairbain. Pavlov. E via dicendo. Quindi il cognitivismo. Il costruttivismo. La psicoanalisi. La fenomenologia. L’attaccamentismo. Insomma. Grandi nomi. Grandi correnti.

Poi nel 2020 pubblicano Storia critica della psicoterapia, pensi a quell’esame e ti ritrovi a pensare che forse è l’ennesima carrellata di nomi, autori, teorie.

Invece, sorprendentemente, quello che emerge fin dalle prime pagine è che il punto di vista è completamente diverso. E il fulcro di tutto è la parola ‘critica’. La psicoterapia è raccontata a partire dai contesti storico-culturali in una operazione di ‘relativizzazione transdisciplinare’ in cui vengono analizzate le condizioni che hanno determinato la nascita, lo sviluppo, la modificazione e il superamento di una psicoterapia e dell’altra. Culture diverse, epoche storiche, prospettive epistemologiche che si sono susseguite nel tempo. Ma non solo. La psicoterapia si è evoluta anche grazie all’intreccio di differenti correnti come la medicina, la psichiatria, l’antropologia, ma ugualmente la filosofia, l’arte, la storia delle religioni, le neuroscienze e via dicendo.

Per anticipare questo progetto, cioè per offrire un background completo della psicoterapia, Lingiardi nella prefazione parla di ‘visione della psicoterapia con le radici all’insù, non dettata dall’innamoramento (o peggio dal pregiudizio) per questa o quella teoria, ma da uno spirito appunto critico, che non può separare la figura dallo sfondo…’. Tale affermazione risuona potentemente in un momento storico in cui di psicoterapie ne esistono a iosa, modelli e trattamenti, alcuni integrati (alcuni bene altri meno bene) che spesso confondono i terapeuti già formati e, ancor di più, quelli in formazione che si contendono prove di efficacia trovando pace nel così detto ‘verdetto del Dodo’. Ci ritroviamo terapie, protocolli, manuali che si abbattono di fronte alla necessità di cucire l’intervento sulla singola persona, costringendoci a mettere da parte le prescrizioni. Questa consapevolezza dovrebbe essere rafforzata e testi come questo insegnano a farlo. Preparano e spingono a non aderire ai protocolli in modo rigido, a non dimenticare che anche se si chiamano psicoterapie in realtà la prassi terapeutica è una ed ha l’obiettivo di curare la sofferenza umana. Ricordano come ogni terapeuta dovrebbe avere la responsabilità di conoscere da dove deriva il proprio orientamento teorico, dove esso è nato e maturato, in quali contesti, senza perdere di vista i restanti. Ed ogni terapeuta dovrebbe avere il dovere di conoscere la storia della propria professione e di come essa si sia costruita. Una storia che comprende intrecci socio-culturali e politici complessi.

Ad esempio, si conosce molto poco della ‘preistoria’ della psicoterapia scientifica (ma per chi volesse colmare questa lacuna in questo testo viene descritto il percorso che si origina dalle primissime concezioni di malattia e sofferenza e dalle prime pratiche di cura già nella Mesopotamia del 2100 a.C., passando per la filosofia greca, per il medioevo, il rinascimento e l’influsso del cristianesimo) oppure poco altro oltre la psicoterapia occidentale (come la tradizione francese rintracciabile in Charcot, Ribot, Janet o tedesca) e quella anglosassone.

Ci siamo mai chiesi, però, in che modo la filosofia dell’Ottocento faceva da sfondo alle prime riflessioni sull’inconscio? Chi sono i freudomarxisti? La loro idea di cura della nevrosi partiva dalla considerazione che curare il singolo significava interessarsi anche e soprattutto alla società. Come quest’attenzione ha portato alla nascita della Scuola di Francoforte che utilizzava la psicoanalisi come indagine della società contemporanea? In che modo Marx o Nietzsche piuttosto che Schopenhauer hanno influenzato la psicologia dinamica rappresentata in Freud, Jung, Adler? Tutti noi conosciamo Freud, certamente. Le sue teorie, la sua psicoanalisi. Pochi sanno che mentre nel 1900 vedeva la luce L’interpretazione dei sogni, a Berna, Dubois gettava le basi della psicosomatica e perfino del cognitivismo rappresentato da Ellis (che esplode poi con Beck), applicando per la prima volta una forma di psicoterapia basata sulla decostruzione delle credenze dei pazienti. Ed era solo la fine Ottocento e l’inizio del Novecento. Anni in cui Watson, sulla base del pensiero di Pavlov in Russia, ha dato vita negli Stati Uniti alle prime applicazioni del comportamentismo, esploso poi dagli anni Sessanta. E ancora, cosa accadeva alla psicoterapia rappresentata dai terapeuti che si trovavano a vivere gli anni della seconda guerra mondiale in rapporto, ad esempio, al trauma nei veterani di guerra?

Inoltre, sempre poco si sa di come le pratiche di cura mentale si siano sviluppate a partire dai primi esorcismi, magnetismi, il ruolo del sonnambulismo e dell’ipnotismo e di come esse si siano letteralmente trasformate le une nelle altre. Interessante la duplice versione di queste prassi: sia per esplorare e sperimentare che per trattare, non molto lontane dall’utilizzo di alcune tecniche terapeutiche moderne che, difatti, possono essere utilizzate con scopi e obiettivi diversi, in tempi diversi. Infine, in che modo è nata l’attenzione alla ‘relazione’ durante l’utilizzo di questi primi interventi di cura che sembravano essere eseguiti come un compito e subiti passivamente dal paziente?

Trasversalmente a tutto lo sviluppo della psicoterapia individuale, scopriamo la nascita delle terapie di gruppo, infantile, di coppia o familiare. Quando? E ad opera di chi? E perché? A quale necessità rispondevano? Com’è nata la crisi della psicoanalisi che ha spianato la strada alle altre forme di psicoterapia fino a giungere dalla terza ondata della psicoterapia cognitiva e alle terapie integrative che puntano ad un lavoro aperto e transdisciplinare, ad hoc per il singolo paziente e basate sulla relazione?

Viviamo in un mondo che evolve a rapidità estreme, le strutture mentali e neuronali vanno di pari passo ad esse e questo vale per le menti dei terapeuti quanto per quelle dei pazienti. Viviamo in un mondo globale, internazionale, in cui culture e abitudini si fondono; curiamo pazienti che si trovano al buio mentre noi siamo in piena luce, collegati via Skype e questo è contesto, è cultura, è società. È alla base della nostra esistenza. Non può essere dimenticato mentre si fa terapia. La transdisciplinarietà fa evolvere il modo di fare terapia. E noi evolviamo con essa. L’ultimo capitolo dal titolo Dal passato al futuro, infatti, si focalizza sulla modernità liquida, sull’avvento di internet e dei social, sui processi di globalizzazione che hanno assorbito anche la psicoterapia, sulla moltiplicazione dei modelli di intervento che abbiamo a disposizione oggi, molti di essi focalizzati sul principio della evidence based. Inoltre, le discipline si sono fuse sempre di più tra di esse, come l’affascinante unione delle neuroscienze alla psicoterapia, e aderiscono alle esigenze della modernità. Basti pensare a come oggi i pazienti cerchino terapie brevi ed efficaci per rispondere alle risorse economiche limitate.

Non dimentichiamo quindi di avere sempre una visione ‘critica’ non nel senso comune del termine, non per indicare cosa non va, ma nel senso di ‘relatività’.

Questo viaggio della psicoterapia nel tempo e nello spazio, in modo strutturato ed ordinato, possibile grazie alla lettura di questo testo, è affascinante. Certo, è un libro che non prende posizione, come chiarito fin dalle prime pagine. Come d’altronde è giusto che sia per una rassegna storico-critica. Non è uno di quei libri da leggere nelle pause tra un paziente e l’altro né in metro. Richiede tempo. È una lettura che deve maturare. Ed il lettore deve pensare, collegare, ricordare. Accedere alla memoria di eventi storici. Però l’impegno vale tutto. Mi sembra quasi di essere più consapevole di cosa vuol dire essere una terapeuta nel 2020 dopo aver saputo cosa è accaduto alla prassi psicoterapica fin dal tempo 0.

COVID-19: aver paura di avere paura

Non permettere a noi stessi di provare paura ci pone in una condizione di estrema fragilità emotiva, perché da un lato ci fa recitare la parte di coloro che non cadono vittime delle angosce e ci fa sentire apparentemente invincibili, ma dall’altra parte ci preclude la possibilità di un confronto con noi stessi, con i nostri limiti e, reciprocamente, con le nostre risorse.

 

 Ad oggi, relativamente alla pandemia di Covid-19 (SARS-CoV-2) si sono registrati a livello globale 294.110 casi confermati e 12.944 persone decedute (Fonte: Dati OMS – Health Emergency Dashboard, del 22 Marzo, ore 18.00 CET).

Fa paura? Si.

Apriamo una parentesi teorica, rivolta a tutti. La paura in psicologia viene compresa tra le sei emozioni di base identificate dallo psicologo statunitense Paul Ekman (1972, 1987). Per emozioni di base si intendono quelle emozioni che vengono provate da tutti gli essere umani, prescindendo da caratteristiche quali cultura di appartenenza, sesso, età, etnia, ecc.

Possiamo definire la paura come uno stato emotivo connotato da una sensazione di pericolo, per sé o per altri, legato ad una particolare situazione o stimolo. La paura viene alimentata da tensione e incertezza, che ci impediscono di poter dedurre in modo chiaro ed inequivocabile quali saranno le conseguenze con cui dovremo relazionarci. La paura può scaturire da uno stimolo definito e circoscritto oppure avere ad oggetto qualcosa di indefinito, che non riusciamo a identificare. È bene tenere in considerazione che la paura, come tutte le emozioni che possiamo provare, se espressa in modo proporzionato al pericolo, ha una funzione adattiva, ovvero ci consente di relazionarci con una situazione data dall’ambiente che ci circonda, in modo utile e funzionale per la nostra sopravvivenza. Tradotto in termini più pratici, possiamo dire che la paura ci tutela poiché ci consente di riconoscere una situazione di pericolo e di prepararci ad affrontarla. Le reazioni che mettiamo in atto di fronte alla paura possono essere di attacco o di fuga, a seconda che decidiamo di fronteggiare e opporci allo stimolo che ci fa paura, oppure che optiamo per evitarlo. Risulta intuitivo comprendere come la decisione di fuggire o attaccare dipenderà in larghissima parte, oltre che dalle predisposizioni personali di ognuno di noi, da una serie di elementi che caratterizzano l’oggetto della nostra paura e da quanto la paura stessa dell’oggetto impatti su di noi in termini di benessere psico-fisico.

Cosa vuol dire allora affermare che la pandemia di Covid-19 ci fa paura? Significa poter conoscere che ci sentiamo in una situazione di pericolo sia per noi stessi che per le persone a noi vicine e per gli altri in generale, e che questo pericolo è legato al rischio biologico di infettarci e di contrarre il Covid-19. Significa chiederci se la paura che proviamo in questa situazione è proporzionata al reale pericolo che stiamo vivendo e, se sì, se risulta essere utile e funzionale per poterci proteggere e salvare dal pericolo stesso. Significa riconoscere che è una situazione alimentata da tensione e incertezza, e della quale non possiamo dedurre in modo chiaro ed inequivocabile le conseguenze sul piano sanitario, economico, sociale e psicologico.

Relativamente agli stimoli che elicitano la paura possiamo sicuramente affermare che il principale di questi sia rappresentato dal virus, a cui si somma la preoccupazione legata alla morte, alla sofferenza, al contagio. Possiamo tuttavia aggiungere anche una serie di stimoli indefiniti e poco delineati, legati per esempio alle preoccupazioni derivanti dalla situazione economica e lavorativa che conseguirà, alla incertezza legata alla durata della situazione di emergenza e al tempo post-emergenza. In quale misura questi stimoli, o altri, alimentino la nostra paura è ovviamente un dato soggettivo, che dipende in larga parte dalla capacità del singolo individuo di razionalizzare e incasellare in modo funzionale le informazioni che riceve circa la situazione in corso, nonché dalla capacità di comprendere a fondo e informarsi tramite fonti certe, per evitare di alimentare l’incertezza. L’intensità con cui questa situazione ci spaventa dipende inoltre molto dalle risorse personali che possiamo mettere in campo sul piano emotivo e psicologico per fronteggiare la paura, cioè quelle strategie che ci permettono di mantenerci lucidi e quanto più possibile calmi riguardo alla situazione che stiamo vivendo. Situazione dinnanzi alla quale, come da teoria, possiamo rispondere con due tipologie di comportamenti a seconda che decidiamo di combattere la paura o di fuggirla.

Combattere la paura significa combattere tutti i suoi stimoli, significa mettere in campo le proprie energie cognitive ed emotive per far fronte ad una situazione totalmente nuova, ricolma di incertezze e di domande prive di risposta, di dubbi irrisolvibili, di attese e di vite attaccate a respiratori. Combattere la paura cioè significa ammettere di avere paura. Avere paura di essere stati contagiati, avere paura che i più fragili, perché di età avanzata o perché presentano quadri clinici compromessi possano non sopravvivere, avere paura che lo stress legato a questa situazione prenda il sopravvento sulla nostra emotività e ci crei problemi psicologici che a loro volta ci spaventano. Significa anche cedere alla paura di restare senza alimenti e beni di prima necessità, così come a quella di essere costretti in casa senza riuscire a vedere la fine, in termini temporali, di questa situazione e temere per gli aspetti economici dovuti all’impossibilità di svolgere il proprio lavoro. Significa, non da ultimo, riuscire ad adattarsi in modo funzionale e positivo ad una situazione di isolamento sociale forzato e reinventare il tempo in esso, così da dotarlo di senso. Sfide queste che si configurano come vere e proprie battaglie quotidiane con e contro noi stessi, nell’ottica di riadattarci ad una dimensione di vita fino ad oggi mai immaginata.

Fuggire la paura, di contro, significa sottrarsi al presente, negare le peculiarità della situazione che stiamo vivendo fino a giungere al punto di negare a noi stessi di avere il diritto di avere paura, cioè negarci la possibilità di dirci chiaramente e senza equivoci “io ho paura di quello che succede intorno a me”. Non permettere a noi stessi di provare paura, aver paura di avere paura, ci pone in una condizione di estrema fragilità emotiva, perché da un lato ci fa recitare la parte di coloro che non cadono vittime delle angosce che attanagliano la società e ci fa sentire apparentemente invincibili, ma dall’altra parte ci preclude la possibilità di un confronto con noi stessi, con i nostri limiti e, reciprocamente, con le nostre risorse. Se non ci poniamo nella condizione di provare paura, ci risulta molto difficile riuscire ad identificare in modo nitido quali siano gli stimoli che ci scatenano questa emozione; conoscere l’origine della nostra paura ci consente di delineare quali siano i confini oltre i quali non siamo in grado di addentrarci e di conseguenza quali siano le risorse personali che possiamo mettere in campo per provare a spingere un po’ oltre queste linee di confine. Negarci di avere paura può sembrare apparentemente una misura adattiva, che ci protegge dal dolore che la presa di coscienza porta con sé: non serve certo lo psicologo per capire che negare che un problema esista ci toglie dalla condizione di subirne gli effetti collaterali, se non altro a livello emotivo.

La necessità di rispondere ad una richiesta sociale precisa, che ci impone di mostrarci sempre funzionanti al massimo delle nostre potenzialità, ci pone nella condizione di dover rispondere ad un alto standard di performance, quello di coloro che sono forti. Essere forti è comunque un livello emotivo tutt’altro che rigido e prestabilito, ma anzi altamente modellabile e adattabile. Porsi interrogativi circa la necessità stessa di dover essere forti risulta quantomeno inutile in un mondo dove il progresso della specie di basa sulla sopravvivenza dell’individuo più forte biologicamente e – in tempi moderni – emotivamente. Di contro si rivela più che mai necessario interrogarsi circa il significato di essere forti. Non è più quindi un “chi” è forte, ma diviene inevitabilmente un “come” si è forti. Ragionevolmente si può concludere che forte possa essere colui che si concede la possibilità di esperire tutte le emozioni che prova, senza necessità di reprimere quelle più spiacevoli e di più difficile gestione, ma anzi permettendo a sé stesso di lasciare che queste emozioni si manifestino nella loro integrità in modo tale da poterle conoscere e gestire in modo adattivo e funzionale. Forte è colui che non ha paura di avere paura, e che dalla paura stessa ricava le risorse per fronteggiarla.

Inevitabilmente la paura che sta accompagnando questo periodo storico e sociale non è una paura che possiamo governare e gestire interamente da soli, perché si tratta di una paura di dimensioni molto vaste, sia in termini di intensità che di durata. È una paura che coinvolge tutti noi, che si insidia ovunque, senza lasciarci la possibilità di sfuggirla, neanche per un attimo. Possiamo concederci di avere paura, dunque, e possiamo farlo senza paura di avere paura. Quali saranno poi i risvolti psicologici del Covid-19, i mostri che lo accompagnano, non possiamo far altro che aspettare di vederlo.

Emergenza coronavirus e smartworking – Erickson lancia eLab-PRO per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali

Emergenza coronavirus e smartworking: Erickson lancia eLab-PRO per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali. Un ambiente online gratuito con oltre 200 risorse e strumenti digitali.

 

Anche in questo momento Erickson è vicina alle esigenze dei professionisti proponendo una serie di materiali che permettono di attivare nuove modalità di lavoro anche a distanza. eLab-PRO è un ambiente online che rende disponibili oltre 200 materiali tra test, griglie di valutazione, attività, esercizi facilmente consultabili in base al proprio ambito di riferimento e scaricabili gratuitamente. Tutte le proposte, pensate per psicologi, logopedisti, educatori e assistenti sociali, sono basate su evidenze scientifiche e su una visione dell’aiuto professionale che mette al centro le persone, e la fiducia verso un cambiamento possibile.

Ogni professionista è libero di consultare tutti i materiali e scegliere quelli più utili per le proprie attività cliniche, riabilitative, assistenziali. Ogni file (in formato PDF) si può consultare, scaricare sul proprio device (PC, tablet, smartphone…) e stampare. Sono inoltre riportate le fonti dei materiali per ulteriori necessità di approfondimento.

I materiali affrontano 6 ambiti di attività: psicologia clinica, logopedia e linguaggio, autismi, disabilità, anziani fragili, tutela dei minori.

L’ambito psicologia cognitiva affronta le seguenti tematiche: ansia sociale, disturbi dell’alimentazione, strategie di coping, regolazione delle emozioni, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo da accumulo, insonnia, ansia per le malattie, perfezionismo, criticismo genitoriale.

L’ambito logopedia e linguaggio affronta i seguenti temi: abilità socio-pragmatiche, riconoscimento delle categorie di parole, comprensione del testo, digrammi e trigrammi, gruppi consonantici, recupero ortografico, strategie di lettura visiva, suoni difficili, abilità fonologiche e metafonologiche, allenamento percettivo-articolatorio, educazione vocale infantile.

L’ambito autismi affronta i seguenti temi: storie sociali, teoria della mente, autonomie personali e sociali, abilità socio-pragmatiche, concetti matematici, creatività, attenzione visiva, comunicazione, comprensione dei testi, parent training.

L’ambito disabilità affronta i seguenti temi: storie con la Comunicazione Aumentativa Alternativa, strumenti per potenziare le autonomie (fare la spesa, cucinare), facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, attività per affrontare amicizia e amore, suggerimenti per aiutare le persone con disabilità in ospedale, interventi psicoeducativi nella disabilità grave, percorsi educativi e disabilità visiva, training metacognitivo, stimoli per garantire l’autodeterminazione.

L’ambito anziani fragili affronta i seguenti temi: idee per laboratori, strumenti per lavorare sulla storia di vita, esercizi di stimolazione cognitiva, consigli per ridurre i comportamenti problematici, indicazioni per la comunicazione con i familiari, linee guida per il superamento del lutto.

L’ambito tutela minori affronta i seguenti temi: colloquio di aiuto, stress sul lavoro, accoglienza in comunità, valutazione/assessment, relazione con il bambino, visita domiciliare, sostegno alla genitorialità, violenza domestica.

 

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Partecipa alla ricerca: isolamento e quarantena ai tempi del covid-19 – SURVEY

La dichiarazione dell’OMS sullo stato pandemico ha portato molti Stati ad imporre un regime di quarantena il cui rispetto è essenziale per contenere le infezioni. Questa restrizione impedisce il soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali. 

 

Il rapporto tra il tasso soggettivo di sconto del ritardo (DD), la tendenza a preferire premi immediati, ma più piccoli rispetto a quelli più grandi in futuro, e il rischio percepito (PR) di contagio, sono variabili capaci di influenzare il rispetto della quarantena. Inoltre, alcune variabili cognitive ed emotive, come l’ansia, la preoccupazione e l’intolleranza all’incertezza, possono influenzare i comportamenti dei cittadini.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti.  

 


Un nemico invisibile, un pensiero possibile

L’emergenza COVID-19 oltre allo spazio, ha modificato anche il tempo, che si allunga e rischia di diventare inutile ed infinito. Ci siamo abituati a viverlo in modo troppo veloce, nella nostra ansia di correre e di riempirlo di quanti più eventi possibili. Abbiamo usato il nostro tempo proiettandoci sempre in avanti, il tempo ci sfuggiva tra le dita e non siamo stati capaci di vivere sufficientemente il ‘qui ed ora’.

 

Un nemico invisibile stravolge la vita di tutti gli esseri umani del pianeta e tiene in ‘… ostaggio la nostra libertà e ci costringe a fare il vuoto attorno a noi perché siamo noi i veicoli del virus’ (Mauro E., La Repubblica.it, 4 marzo, 2020). Non solo siamo in pericolo, ma siamo noi stessi il pericolo. Nessuna catastrofe precedente a quella del virus COVID-19 è stata così globale e trasversale, paradossalmente, neanche le guerre mondiali. All’inizio del contagio, in Europa pensavamo che fosse un problema transitorio e localizzato in Cina; un mese dopo, in Europa pensavano che fosse un problema italiano. Dopo due mesi, è diventato un problema sanitario, sociale ed economico globale che mette a dura prova una sanità pubblica ormai agonizzante, mietendo inesorabilmente molte vite umane, stravolgendo la vita sociale e imponendo distanze di sicurezza –il cosiddetto distanziamento sociale- perché l’altro è diventato un pericolo, un untore da evitare.

Il COVID-19 – che si propaga per contatto diretto tra esseri umani – genera sgomento e morte, produce un ribaltamento totale dei principi che governano la dimensione intersoggettiva (i modi di stare con l’altro),  riduce la libertà di movimento e ridimensiona la vita frenetica e lo spazio del fare. Ci costringe ad ‘uscire dentro, ad entrare fuori’ (Rizzo, 2014), ad abitare spazi fisici compressi e a vivere come reclusi in una casa ormai diventata una prigione, nell’attesa spasmodica che il suo potere di morte si neutralizzi. ‘Spazi nei quali, novelli cacciatori-raccoglitori post-moderni e globali, non siamo più capaci di abitare (da habere) – e quindi essere abitati in reciprocità – ma riusciamo soltanto a vivere. Spazi nei quali non siamo più capaci di stare e ri-trovarci ma nei quali solo possiamo permanere con scarsa autonomia rispetto a un perderci che ci impone di ricorrere tosto a riempitivi di vario genere per non sentirci senza pubblico, soli come un’unica incandescente scintilla nel buio dello spazio infinito‘ (Caroppo, 2020).

Queste costrizioni possono generare euforia, depressione e paura; quest’ultima può diventare uno stato di angoscia generalizzato, che è in grado sfociare in gesti e comportamenti irrazionali generati dalla sola spinta a risolverla. Ci sono anche persone che sminuiscono o negano la portata di questo evento, forse perché, come sostiene Semi, ‘… non c’è stata né la costruzione interiore dell’idea di morte né quella di sofferenza. Da qui comportamenti inadeguati – e pericolosi per il prossimo oltre che per sé‘ (Semi, 13 marzo 2020). Prima ancora che il governo italiano emanasse il decreto legge per istituire la zona rossa (isolamento totale) della Lombardia, la sera dell’8 marzo, centinaia di persone, devastate dal panico ed incapaci di pensare in modo critico, hanno preso d’assalto i treni per scappare in altre regioni, contribuendo a diffondere il contagio altrove.

Di fronte a qualcosa di eccezionale ed inatteso, una delle prime reazioni psicologiche è la negazione e, da un punto di vista clinico, è plausibile ipotizzare la comparsa di sintomi sovrapponibili a quelli scatenati da un trauma psicologico. Il trauma psicologico viene differenziato dal trauma complesso che fa riferimento ad esperienze traumatiche cumulative (Liotti e Farina, 2011) e si riferisce ad una minaccia alla vita o all’incolumità propria o altrui, anche nella forma indiretta della trascuratezza subita durante l’infanzia e delle forme più gravi di misattunement (mancata sincronizzazione dell’interazione comunicativa).

Emozioni veementi, perdita di controllo e sensazione di impotenza rientrano pienamente nella definizione di trauma psicologico (Liotti e Farina, 2011). Come risposta al trauma, la persona attiva in modo automatico meccanismi arcaici di difesa dalle minacce ambientali e sperimenta distacco dalla consueta esperienza di sé e del mondo esterno. Quando queste difese -fuga o attacco- falliscono, si può verificare un effetto sull’integrità della coscienza. Da una parte si avvera una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive e dall’altra l’evento traumatico non viene integrato nella memoria e si perde la continuità del flusso di coscienza e della costruzione dei significati. Gli effetti costituiscono quelli che sono stati definiti sintomi dissociativi di distacco che ‘… rimandano tutti, direttamente, all’esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni, dal proprio corpo, dal senso usuale della propria stessa identità, dal senso usuale di familiarità di realtà ambientali note‘ (Liotti e Farina, op. cit., pag. 44).

Il fare incessante, competitivo e faticoso che da molto tempo scandisce la vita quotidiana di ognuno, oggi si volatilizza e il sovrainvestimento narcisistico sugli oggetti precipita drasticamente con conseguente disorientamento e con un angosciante senso di vuoto. Fino a ieri anche il tempo libero veniva messo in agenda e persino la vacanza poteva diventare un calendario intenso, con l’imperativo inconsapevole di divertirsi o di conoscere e di vedere il più possibile. Quel fare senza limiti (a lavoro, nella vita privata, nelle relazioni) che ci ha fatto sentire onnipotenti nell’era della distrazione a tutti i costi, oggi è aggredito da un nemico invisibile che può essere dovunque e portato da chiunque. Si riducono tutti gli spazi fisici e sociali, quelli immaginati e desiderati (le vacanze, il cinema, il teatro, etc.) e quelli privati (le case), mentre si dilatano a dismisura quelli virtuali. In realtà, gli spazi intimi acquistano un valore insolito perché abitati obbligatoriamente e contemporaneamente da più persone che possono andare incontro a desideri e vissuti anche di segno opposto, come ad esempio, la fusionalità, l’euforia, le fobie, la rabbia persecutoria, l’isolamento, l’evitamento.

La reale possibilità di contagiare o di essere contagiati induce, potenzia e giustifica comportamenti di evitamento e rituali di tipo ossessivo – siamo diventati tutti fobici e washers (variante del Disturbo ossessivo compulsivo caratterizzata dalla paura del contagio che comporta rituali di lavaggio finalizzati a neutralizzare la minaccia di contaminazione, ad esempio lavaggio ripetuto delle mani, degli abiti o di oggetti; le persone che ne soffrono hanno una preoccupazione intensa ed eccessiva circa la possibilità che loro stesse o un familiare possa ammalarsi entrando in contatto con qualche germe o sostanza tossica). Questa possibilità inoltre fa saltare la cosiddetta ‘distanza personale’ (45-120 cm). Nel mondo occidentale, quest’ultima rappresenta la distanza ideale per buona parte delle interazioni e coincide con lo spazio necessario per una stretta di mano. Di contro prevale la cosiddetta ‘distanza pubblica’ (oltre i 3 metri) in cui è praticamente impossibile interagire singolarmente.

In questi giorni di quarantena siamo costretti a stare ‘troppo vicino e per troppo tempo’ con il partner, i figli, i familiari, senza grosse alternative di fuga o di svago fuori dalle mura domestiche. Certo, i social, il telefono e persino i balconi e i terrazzi condominiali vengono in soccorso, illudendoci che ‘finirà presto e saremo ancora più forti di prima’. Ma basta tutto ciò per ‘evitare’ depressione, paura ed angoscia? Il restringimento dello spazio sociale e la coabitazione forzata richiedono necessariamente una ridefinizione dei comportamenti quotidiani, delle relazioni e del concetto di intimità. Si rischia di sentirsi in gabbia ed è necessario imparare a conoscere meglio chi ci sta accanto: è vitale esplorare diversamente tutte le nostre relazioni. Anche chi non è in quarantena medica è obbligato, da giuste e sacrosante misure di contenimento del contagio, ad uscire dalle mura domestiche il meno possibile. Nelle case ognuno cerca un proprio sottospazio, una propria agibilità, per non sovrapporsi o scontrarsi con analoghi bisogni del suo o dei suoi compagni di sventura. Tuttavia, nonostante tutte le misure di cautela adottate per non sovrapporsi all’altro nel medesimo spazio, possono affiorare con prepotenza conflitti intrapsichici e relazionali ‘rimossi’ e lo ‘scontro’ rischia di diventare altamente probabile. Da giorni sui social circolano senza sosta vignette e video umoristici di persone che parlano o ballano da sole, o tentano di animare gli oggetti di casa, che si nascondono alla vista dei figli, che si chiamano al telefono per darsi appuntamento in corridoio o in sala. La prima risposta alle limitazioni imposte dal virus è stata di tipo ‘euforico’ e rappresenta un inconsapevole desiderio di riprodurre virtualmente quello che non è più possibile nella realtà. (Quali saranno gli effetti dell’inevitabile e conseguente fase ‘depressiva’?). Ci si incontra, ancora più di prima, in quello spazio virtuale che già da tempo ‘… ha eclissato i vecchi [spazi] guadagnandosi nuova fiducia nel futuro ed ha escogitato una cura quasi gratuita e domiciliare. In questo spazio però è difficile poter trovare quell’accoglimento capace di produrre nuovi processi di pensiero realmente trasformativi‘ (Marinelli, 2019, pag. 18). L’umorismo, ritenuto in psicologia un meccanismo di difesa evoluto, è oggi ancor più presente sui social e di fatto ‘… permette una certa espressione di affetti o desideri che sono coinvolti in un conflitto o in un fattore di stress. Ogni volta che un conflitto o tensioni esterne bloccano la piena espressione degli affetti o la soddisfazione di desideri, l’umorismo permette una certa espressione simbolica di essi e dell’origine del conflitto. La frustrazione dovuta al conflitto è temporaneamente mitigata, in modo tale che sia il soggetto sia gli altri possano sorridere o ridere‘ (Lingiardi, 1994, pag. 191).

A tale proposito, in un bellissimo articolo dal titolo Dopo la peste torneremo a essere umani, pubblicato sul quotidiano La Repubblica, David Grossman, afferma: ‘E sia benedetto l’umorismo, il miglior modo di affrontare tutto questo. Quando riusciamo a ridere del COVID-19 proclamiamo, di fatto, che non siamo completamente paralizzati’. Non si possono però affrontare il disorientamento, il vuoto, l’impotenza e la disperazione di questi giorni solo con umorismo e sarcasmo né tantomeno basta affacciarsi alla finestra per cantare l’inno d’Italia, soprattutto quando il numero dei morti aumenta vertiginosamente di giorno in giorno. Forse è necessario rallentare, attraversare ed ascoltare il silenzio, il dolore, il lutto e quelle emozioni che abbiamo sfuggito o evitato per molto tempo. Fino a questo momento, abbiamo avuto l’impressione che le tragedie, la morte, le carestie, le migrazioni di massa appartenessero ad altri, così le abbiamo sistematicamente rimosse e collocate in luoghi lontani perché noi europei ci sentivamo invincibili e protetti dal nostro benessere. Forse è arrivato il momento della ferma, del maggese, del guardarci dentro per provare a riflettere in modo critico sulla nostra esistenza e sui valori consumistici che hanno finora orientato il nostro stile di vita. Certamente è necessario imparare a convivere con chi abita con noi il piccolo spazio casalingo, ma forse dobbiamo accettare e vivere le nostre paure, la nostra angoscia di morte e ridimensionare l’onnipotenza che ci ha allontanato dal piacere delle piccole cose. Chi pratica la mindfulness sa quanto sia importante coltivare la capacità di guardare con rinnovata attenzione al momento presente in modo non giudicante e con spirito di accettazione (Hanh, 1989).

Lo scopo principale della paura (nel nostro caso di un nemico invisibile) è, come già detto, quello di allertare l’organismo affinché possa prepararsi all’attacco o alla fuga, nelle situazioni in cui sembra non esserci possibilità di salvezza, il nostro organismo va oltre generando una risposta di parziale o totale immobilizzazione detta freezing (Liotti, 2005 ). L’angoscia della morte, se non è vissuta pienamente, ci porta ad essere eccitati, compulsivi, fobici e scontrosi. In questa emergenza globale, il corpo è obbligato a fermarsi, a rallentare la sua corsa, quindi perché non provare a rallentare anche la mente? Fermiamoci, proviamo ad esercitare la pazienza e ad abitare pienamente l’angoscia, la solitudine, il vuoto e l’impotenza. Riprendiamo a vivere con meno sovrastrutture e bisogni indotti, proviamo a fare una cosa alla volta e soprattutto ad ascoltare noi stessi e gli altri.

L’emergenza di questi ultimi mesi e forse dei prossimi anni, oltre allo spazio, ha modificato anche il tempo, che si allunga e rischia di diventare inutile ed infinito. Ci siamo abituati a viverlo in modo troppo veloce, nella nostra ansia di correre e di riempirlo di quanti più eventi possibili. Quante volte abbiamo detto o ascoltato la frase ‘oggi proprio non ho tempo’? Quante volte ci siamo trovati contemporaneamente a scrivere al computer, a rispondere al telefono e a parlare con qualcuno che stava di fronte a noi? Abbiamo usato il nostro tempo proiettandoci sempre in avanti, mentre facevamo una cosa ne pensavamo una successiva. Il tempo ci sfuggiva tra le dita e non siamo stati capaci di vivere sufficientemente il ‘qui ed ora’ (questo concetto deriva dalla locuzione latina hic et nunc, un motto che riprende il principio del carpe diem di Orazio; vivere nel qui ed ora, significa vivere nel momento presente, non intrappolati nel passato e nel futuro. Sono però le culture orientali ad aver esplorato ed ampliato questo concetto).

Tra i quattro termini che gli antichi greci utilizzavano per indicare il tempo, due sono per noi molto significativi: Chronos e Kairos. Il primo indica il tempo in senso cronologico e sequenziale (minuti, ore, giorni, etc.), che può diventare quello che ci travolge, quello ripetitivo che non basta mai. Il secondo rappresenta il momento giusto per l’accadere di qualcosa, anche di speciale, per chi la sta sperimentando in quel preciso momento. Come mai ci siamo persi la capacità di vivere il momento in cui sta accadendo qualcosa? Se vivevamo qualcosa di bello, pensavamo che non lo fosse abbastanza o che ci sarebbe stato qualcosa di ancora più bello il giorno dopo e così via. Se vivevamo qualcosa di triste, pensavamo o cercavamo qualcosa che scacciasse questa emozione. E così facendo, prima di viverlo, il presente era già passato, anche se il futuro non era ancora arrivato e, quando sopraggiungeva diventando il nostro presente, ancora una volta, non esisteva perché la nostra mente era rivolta ad un nuovo ed illusorio futuro. Ci siamo impantanati, complice anche il potere dei media e del consumismo imperante, in un circolo vizioso senza fine, che solo una grande presa di coscienza collettiva o una catastrofe inattesa ed improvvisa possono interrompere. Oggi siamo obbligati a fermarci in questo presente, per quanto tragico e mostruoso possa essere ed abbiamo bisogno di pensare. Se ci fermiamo realmente, riusciremo a pensare e, se riusciremo a pensare, guadagneremo la capacità di sentire meglio quello che proviamo, anche se ci spaventa, ci annichilisce e ci sconcerta. Grossman (op. cit.) aggiunge: ‘La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo – e non il denaro- è la risorsa più preziosa. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere‘.  Non possiamo più scappare e non solo perché non ci sono luoghi alternativi; e allora se ci fermiamo, forse riusciremo a dare un senso a quello che stiamo vivendo adesso e a capire come (ri)costruire un nuovo futuro per noi e per i nostri figli. Non possiamo più rimandare e attendere che le cose cambino da sole, non possiamo aspettare che qualcun’altro pensi, parli o agisca per noi. E’ indispensabile per ognuno ri-pensare completamente il proprio essere nel mondo.

 

Una breve rassegna degli effetti psicologici conseguenti all’epidemia di Covid-19

L’epidemia di COVID-19 ha causato gravi minacce alla salute fisica e alla vita delle persone. Ha anche innescato una vasta gamma di problemi psicologici, come disturbo da panico, ansia e depressione.

 

Alcuni studi hanno indagato il disagio psicologico nella popolazione generale della Cina durante l’epidemia di COVID-19. Al centro di tali disagi c’è la minaccia dell’integrità della società e del senso di sicurezza percepita. Emergenze come queste ci hanno fatto comprendere che la nostra società necessità di una riconfigurazione al termine di questa epidemia.

I punti focali riguardano:

  1. l’attenzione volta a gruppi vulnerabili come i giovani, anziani, donne e lavoratori migranti;
  2. potenziamento dell’accessibilità alle risorse mediche e al sistema di servizio sanitario pubblico;
  3. pianificazione strategica a livello nazionale e coordinamento per il primo soccorso psicologico;
  4. potenziamento del sistema di telemedicina e supporto psicologico on-line;
  5. miglioramento del sistema di prevenzione e intervento, compreso il monitoraggio epidemiologico, lo screening e un intervento mirato finalizzato a prevenire il disagio psicologico prevenendo ulteriori problemi di salute mentale.

L’insorgenza di malesseri, difficoltà e sofferenze (letteratura scientifica “in calce”) si riferiscono alle sensazioni di solitudine, negazione, ansia, depressione, insonnia e disperazione, che possono ridurre l’aderenza al trattamento. Possiamo distinguerli in base alle condizioni o alla circostanza vissuta, essenzialmente:

  1. infetti;
  2. possibili infetti (con alta probabilità di essere stati contagiati);
  3. individui sani che temono l’infezione;
  4. soggetti in quarantena;
  5. giovani;
  6. anziani o soggetti con salute precaria.

 Dato che l’approfondimento dei singoli punti precitati richiede una lunga dissertazione, in linea generale, i vissuti psicologici più frequenti, riferiti soprattutto ai casi 2 e 3, riguardavano sintomi ossessivo-compulsivi, come controllo ripetuto della temperatura e la sterilizzazione compulsiva di ogni cosa con cui si è venuto a contatto. Nei casi 4, la rigorosa quarantena e il non-contatto obbligatorio hanno causato più frequentemente, nei confronti di questi soggetti, rifiuto sociale, perdite finanziarie, discriminazione e stigmatizzazione. Altri sintomi notati sono stati l’aumento dell’aggressività (anche nei casi 3), ansia e tendenze suicide. L’incertezza circa il proprio stato di salute è una variabile che, in questi periodi, innesca profondi sensi di insicurezza. Paradossalmente, nei giovani (casi 5), che tendono ad ottenere una grande quantità di informazioni dai social media, può facilmente innescarsi uno stato psicologicamente stressante. Dal momento che la mortalità più alta si è verificata nei casi 6 durante l’epidemia, non è inatteso che gli anziani hanno avuto maggiori probabilità di essere colpiti psicologicamente. Allo stesso modo, le persone con l’istruzione più elevata tendevano ad avere una maggiore angoscia, probabilmente associata all’alta autoconsapevolezza della loro salute.

 

Relazioni e giochi di potere: come il narcisismo influenza la percezione del potere all’interno delle coppie

Il potere si riferisce alla capacità di un individuo di influenzare un’altra persona nei suoi pensieri, nei suoi comportamenti o, addirittura, nelle sue sensazioni (es. Simpson, Farrell, Orina & Rothman, 2015).

 

Diversi studi hanno sottolineato il ruolo di rilievo che gioca il potere all’interno delle relazioni romantiche, per esempio, per quanto riguarda le decisioni domestiche e i turni di parola nelle conversazioni (es. Neff & Suizzo, 2006). Coloro che si sentono meno potenti all’interno della coppia, possono correre il rischio di subire violenza fisica o psicologica, di adottare comportamenti sessuali a rischio o di soffrire di disturbi mentali (Bentley et al., 2007; Filson et al., 2010; Woolf & Maisto, 2008).

Nonostante vi sia una cospicua mole di ricerche sull’importanza del potere all’interno delle relazioni romantiche, non sono altrettante quelle che sottolineano la connessione tra il narcisismo e il potere nelle coppie. Dal momento che il narcisismo è caratterizzato da sentimenti grandiosità e di diritto percepito, dalla mancanza di empatia e dalla tendenza ad approfittarsi degli altri, individui con alti livelli di narcisismo dovrebbero avere un rapporto stretto e problematico con il potere all’interno delle relazioni (Campbell & Foster, 2007).

È dimostrato che individui con forti tendenze narcisistiche necessitino di un maggior grado di potere e si rapportino alla vita di coppia con alcune modalità: tenere l’altro sulle spine, non rispondere alle telefonate, dare messaggi contraddittori (Campbell & Foster, 2007).

Gli autori del presente studio (Vrabel et al., 2020) si sono posti l’obiettivo di indagare il rapporto che intercorre tra ammirazione narcisistica (narcissism adimration: auto-glorificazione di sé e considerazione esagerata del proprio Io), rivalità narcisistica (antagonist rivalry: che consiste nella tendenza a proteggere se stessi e a difendersi da torti immaginari) e potere all’interno delle coppie. Sono stati condotti due diversi studi: il primo, di cui hanno fatto parte 375 soggetti con una relazione romantica da almeno 3 mesi, andava ad indagare la correlazione tra potere percepito e ammirazione e rivalità narcisistica; con il secondo, composto da un campione di 352 partecipanti anch’essi in coppia da almeno 3 mesi, gli autori si domandavano se il potere percepito moderasse in qualche modo l’associazione che ammirazione e rivalità narcisistica avevano con il funzionamento nelle relazioni romantiche (Vrabel et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che l’ammirazione narcisistica, ma non la rivalità narcisistica, correlava significativamente con la sensazione di potere esperita all’interno della coppia (studio 1) e il potere percepito moderava l’associazione che la rivalità narcisistica aveva con il funzionamento delle relazioni romantiche (studio 2; Vrabel et al., 2020).

In conclusione, le ricerche menzionate nello studio dimostrano ciò gli autori avevano in qualche modo predetto nelle loro ipotesi, ovvero che vi è una stretta relazione tra il comportamento narcisista e la percezione di potere (Vrabel et al., 2020).

 

AperiZoom e AperiSkype al tempo del COVID-19

Ahi, che terribile difficoltà affrontare questi aperitivi, queste cene, tra vecchi amici che si vogliono bene e che improvvisamente chiusi in casa tentano di far vivere vecchi riti, vecchie chiacchiere. Ma la tecnologia non lo consente.

 

Zoom non ha ancora la capacità di simulare, neanche lontanamente, quel chiacchiericcio e quel sovrapporsi uno all’altro che segna e delinea il normale svolgersi di una cena tra vecchi amici. Quella fluidità, quella svagatezza, quegli accordi e disaccordi che durano il tempo di un minuto e che poi si lasciano scorrere via.

Con Zoom ci si interrompe ma non si sente bene cosa dice quello che sta interrompendo, quando ci si sovrappone non si comprende nulla, e ci si blocca tutti insieme, se si parla a turno non si sa cosa dire perché manca quel naturale evolversi dei discorsi, presente nelle conversazioni tra persone non virtuali.

Alla fine si è straniti con il senso che manchi qualcosa e che quella allegria forzata non sia altro che una richiesta di aiuto perché la tristezza fa paura. E la solitudine anche.

Ora (ma presto cambierà) Zoom è giusto e utile per le riunioni di lavoro, per le aule universitarie, per le piccole classi o le riunioni tra colleghi di lavoro concentrati a risolvere un problema. Quando si è in modalità problem solving.

Noi non abbiamo ad oggi alcun mezzo per trovarci veramente tra amici, quegli incontri sono insostituibili. Diciamocelo per favore!

Allora meglio non mimare allegria o bicchieri di vino alzati in virtuale e fare i conti con le reazioni di ciascuno di noi alla tristezza, al senso di isolamento, a vecchi ricordi che emergono in questo strano vuoto sociale, la compassione, il senso che forse ce la sfanghiamo, i pensieri catastrofici, l’ansia, la pena.

Questa è una prova dura veramente, non è uno scherzo e tanto vale affrontarla con l’elmo in testa con la consapevolezza che il dolore personale che comporta per ciascuno di noi è ineluttabile, e tanto vale farci i conti.

Non siamo isolati è vero, ma siamo sì un poco più soli, e soprattutto stiamo ubbidendo a un dovere che non era mai stato nei nostri progetti. Si fa, ma spesso fa male.

Quindi da vecchio clinico:

accettiamo pensieri ed emozioni negative, attraversiamole indomiti e sicuramente alla fine finiranno come tutto finisce e saremo cambiati e probabilmente, se saremo stati abbastanza coraggiosi, in meglio. Perché avere attraversato qualcosa in modo consapevole e affrontato la paura del periodo ci rende più competenti e consapevoli dei nostri mezzi, emotivi e mentali.

E ricorriamo di più alle vecchie telefonate, così normali, così vicine, così personali e consolatorie. Così comode e intime, che non ci illudevano di una presenza corporale ma ci davano il senso di una comunicazione vera.

Alla fine di tutto questo finalmente potremo rivederci con gli amici, con i loro difetti, i loro corpi e i loro vezzi, e insieme andare a cena, con il nostro passato di isolamento indimenticato e la nostra voglia di stare insieme intatta.

 

Mindful Compassion. Come la scienza della compassione può aiutarti a comprendere le emozioni, vivere nel presente e sentirsi connesso agli altri. (2019) di Paul Gilbert e Choden – Recensione del libro

Dai lavori trentennali di Paul Gilbert, psicologo e psicoterapeuta, e Choden, monaco buddhista, nasce il presente lavoro dal titolo Mindful Compassion dove vengono approfonditi lo sviluppo ed i punti di forza dell’approccio della Compassion Focused Therapy (CFT), uniti agli interessanti punti di ispirazione frutto della tradizione buddhista.

 

Aspetti essenziali diventano il comprendere la necessità di sviluppare una mentalità aperta, flessibile, compassionevole, in grado di comprendere le emozioni, vivere nel presente e sentirsi connesso agli altri, come recita per l’appunto il titolo del testo.

Il testo si snoda nell’approfondire gli aspetti teorici a cui la CFT si ispira, analizzando i punti di unione con la filosofia buddhista. Dalle intuizioni del Buddha di più di 2500 anni fa che hanno portato allo sviluppo delle Quattro Nobili Verità relative all’esistenza della sofferenza, le cause di tale sofferenza e del dolore ma anche la cura o sentiero per liberarsi da tale sofferenza, gli autori analizzano e sottolineano aspetti essenziali per il benessere della persona ed il buon esito di una psicoterapia, quali accettazione, anche delle emozioni più dolorose, saggezza, gentilezza e non giudizio, connessione con il mondo esterno. Infatti, quando parliamo di compassione intendiamo la capacità di sentire la sofferenza in noi stessi e negli altri ed al contempo l’essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza. In tale definizione si sottolineano i due aspetti essenziali della compassione quali la comprensione della sofferenza e l’impegno e lo sforzo per alleviarla.

La mindfulness, sottolineano gli autori del testo, in tale percorso può rivelarsi un valido ausilio nello sviluppo di tali abilità. Questa però va affrontata con impegno e costanza. Gli autori infatti recitano:

Proprio come un maratoneta si impegna ad allenarsi ogni mattina anche quando fa freddo perché è impegnato a partecipare a una maratona, così anche noi abbiamo bisogno di coltivare attivamente le abilità della mente compassionevole, soprattutto quando il percorso si fa duro e siamo di fronte ad una sfida.

Vecchio e nuovo cervello

P. Gilbert, all’interno delle vari pagine del testo, grazie ai contributi delle neuroscienze e delle teorie evoluzionistiche, fornisce una chiara spiegazione di cervello antico, sede delle emozioni primarie, spinto da motivazioni basiche (protezione, nutrizione, accoppiamento, appartenenza al rango) e cervello nuovo, sede di tutti quei processi cognitivi superiori che ci consentono di pianificare, immaginare eventi futuri, concentrarci, ruminare, tutti aspetti che ci distinguono dai mammiferi. Ma questi ultimi aspetti, spiegano gli autori, se non si imparano a ‘domare’ possono creare sofferenza nell’uomo. Ancora una volta, grazie alla mindfulness la persona può imparare a prendere consapevolezza della complessità della nostra mente, prestare attenzione al presente, in modo distaccato e non giudicante.

Il testo infatti prosegue nella seconda parte, su una serie di aspetti pratici volti a sviluppare quella ‘mentalità sociale accudente’ e dunque compassionevole.

Parte seconda – La pratica

La seconda parte del testo approfondisce ed entra nel vivo di tutte quelle tecniche ed esercizi che vengono sviluppati all’interno dei protocolli di intervento di CFT, come la pratica della mindfulness, l’importanza del respiro, il lavoro con l’accettazione, le tecniche di imagery per costruire le capacità compassionevoli per poi approfondire lo sviluppo di un sé compassionevole, in grado di interfacciarsi con quei sé (arrabbiato, impaurito, ansioso, critico) che in un particolare momento della nostra vita possono rivelarsi particolarmente disfunzionali.

Lavorare con l’imagery

Le tecniche di immaginazione possono essere molto utili nello sviluppare quelle abilità compassionevoli.

Gli autori sottolineano che non serve riuscire ad immaginare delle immagini nitide, ma invitano a lasciare accadere ciò che accade, anche immagini frammentate, poco chiare e a focalizzarsi sulle sensazioni o sui pensieri che nascono da ciò.

Tra gli esercizi gli autori citano quello di ‘creare un luogo sicuro’, focalizzando l’attenzione sulle sensazioni, cosa si vede, cosa si sente, come ci si sente…, ‘creare un colore’ che sia associato a forza, saggezza, calore e gentilezza, fino allo sviluppo dell’immagine compassionevole che ha come primo obiettivo la nostra felicità.

Sviluppando un sé compassionevole, la persona poi potrà continuare a lavorare sulle proprie emozioni dolorose (paura, ansia, rabbia, vergogna, autocrica) e sul recuperare la propria natura sociale dell’essere connessi agli altri riuscendo gradualmente ad ‘allargare il cerchio’.

Tutto ciò all’interno del testo, oltre ad essere approfondito in modo chiaro, si accompagna a spiegazioni di ordine pratico.

Potrei definire il libro in questione, un validissimo testo di riferimento ed approfondimento  per gli interessati all’approccio della CFT, dove il parallelismo con le filosofie buddhiste lo arricchisce ulteriormente, facendo dello stesso un testo sul quale ‘meditare’.

Non un testo dunque che offre consigli su come eliminare il dolore, la sofferenza, ma che ci guida a diventare più ‘fiori di loto’ che riescono a sbocciare dal fango e che forse necessitano proprio di quel fango per essere come a noi ci appaiono.

Lo svincolo dalla famiglia di origine – Personaggi e tappe del viaggio

Il trasloco assume il significato e le caratteristiche del viaggio iniziatico. Nelle culture arcaiche per essere riconosciuti come adulti si devono superare delle prove. Anche in questo viaggio bisogna superare molti ostacoli per raggiungere il nuovo nido.

 

Se prendiamo, ad esempio, le fasi, le tappe e i passaggi che C. Vogler (2007), sceneggiatore statunitense di Hollywood, individua, analizzando i film e i romanzi che hanno per tema l’eroe, possiamo comprendere il grande lavoro da fare durante le varie fasi di ciclo vitale. In ogni fase bisogna entrare in un mondo nuovo dalle quali si esce con un nuovo sé. In questo lavoro voglio trasportare questo modello dal mondo cinematografico al modello relazionale simbolico nella fase di svincolo dalla famiglia di origine.

Vogler nel viaggio dell’eroe distingue:

  1. Gli archetipi o personaggi principali;
  2. Le tappe del viaggio.

1. Gli archetipi o personaggi principali sono:

  • a. L’eroe che è colui che muove la storia ed ha un punto debole in cui può essere colpito.
  • b. Il mentore è colui che guida, allena e supporta l’eroe offrendogli spesso doni per incoraggiarlo a continuare il viaggio.

Se l’eroe è l’io della storia, il mentore è il suo sé che sono i genitori e il sistema generazionale. Essi dovrebbero supportare e allenare il proprio figlio ad affrontare le prove, ben sapendo che deve svolgere il viaggio da solo. Essere guida non vuol dire pianificare il futuro dei figli, ma semplicemente donargli gli strumenti necessari per poter affrontare le prove. Ritorna il tema sul valore del dono e del debito positivo. Solo se si crea un debito positivo si danno ai figli gli strumenti per poter affrontare le prove.

Le qualità simboliche (del dono) sono quelle della speranza fiducia nel legame e della giustizia nello scambio con l’altro. (Cigoli)

La mamma aquila, nel momento in cui si rende conto che il suo piccolo è pronto a volare, lo artiglia, lo porta in alto cielo e lo lascia andare. In sostanza “tocca alle generazioni precedenti garantire uno spazio fluido e di rinnovamento delle origini a quelle successive”. Andolfi individua nel padre una delle figure preminente nello svincolo dei figli:

Egli è il regista invisibile, meno coinvolto rispetto alla madre, più capace d’intervenire e di opporre la barriera del rifiuto, coltivando al tempo stesso il legame d’amore, indispensabile nel consentire lo svincolo adolescenziale attraverso il porre e garantire le regole.

Kohut (1982), come riportato da Andolfi, sostiene che

la funzione paterna esercita un compito vivificante in  grado di favorire la nascita sociale dei figli non solo offrendo un’alternativa al rispecchiamento materno ma sostenendo, anche attraverso la frustrazione, un’organizzazione del pensiero e delle prove di realtà in quanto strumenti di separazione, distacco e autonomia.

  • c. Il guardiano della soglia è colui che mette alla prova ed in qualche modo sonda la determinazione dell’eroe a portare a conclusione il viaggio.

Nel viaggio interiore rappresenta la parte nevrotica costituita da paure, ansie e demoni che dobbiamo sconfiggere ed uccidere durante il viaggio. Sono le paure che ci portiamo dietro dall’infanzia e dai rapporti con il mondo esterno ivi compresi quelli con le famiglie di origine. Come ci informa Cigoli è il luogo della lotta tra spinte generative e antigenerative. Se da un alto, come abbiamo visto in precedenza, tocca alle generazioni precedenti favorire il rinnovamento delle origini, alle generazioni successive, dall’altro, tocca

accettare e riconoscere ciò che padri e madri hanno lasciato in eredità e passare aldilà rilanciando l’azione generativa. (Cigoli)

  • d. Il messaggero è colui che comunica l’inizio del viaggio.

L’inizio può essere un avvenimento straordinario o ordinario come una fase di ciclo vitale da affrontare. L’inizio della fase di svincolo dalla famiglia di origine si pone al momento della scelta del lavoro da fare. Quasi alla fine della scuola media superiore si pone il problema del percorso di studi o meno da intraprendere in funzione del tipo di lavoro futuro che si intende svolgere. E’ la prima delle tappe da affrontare a cui seguiranno la scelta della/del compagna/o di vita, la scelta del luogo in cui vivere, la scelta del nuovo nido, etc. In passato il messaggero era l’ufficiale notificatore del comune che consegnava la cartolina rossa con la quale si veniva chiamati a svolgere il servizio di leva. Iniziava proprio in quel momento la fase di svincolo dalla famiglia di origine. Oggi potrebbe essere rappresentata dall’iscrizione e dalla scelta della sede universitaria o l’andare a lavorare fuori dal proprio contesto di vita.

  • e. Il mutaforme è l’amico che diventa nemico.

Rappresenta il combattimento che avviene durante il viaggio con le istanze non conosciute del nostro mondo interiore. Nello specifico nello svincolo dalla famiglia di origine ci si aspetta che i fratelli, ad esempio, siano insieme ad affrontare il viaggio ed, invece, si scopre che essi si trovano all’improvviso in contrasto poiché, a volte, per potersi svincolare è necessario lasciare l’altro vincolato.

  • f. L’ombra è l’antagonista dell’eroe.

Nel viaggio nel mondo interiore rappresenta la parte psicotica dell’eroe, ovvero la parte irrazionale, quella che ci invita a scappare, a cercare di sfuggire al compito. E’ la parte negativa del nostro sé, ma che, comunque, è indispensabile perché la conoscenza avviene sempre per differenza. Se non ci fossero i cattivi non avrebbero senso neanche i buoni. Essa è la sede dell’odio generazionale

di cui occorre cogliere le forme e, al contempo, le strategie per affrontarlo .. l’odio si presenta con il volto della menzogna, dell’iniquità, dell’invidia e della crudele indifferenza. (Cigoli)

Esiodo, nel narrare il mito delle età dell’uomo, colloca l’odio generazionale nell’età del ferro, caratterizzata dalla rottura dei legami tra padri e figli:

Figli diversi dai padri e padri diversi dai figli………maltratteranno i parenti appena attempati li copriranno di male parole e d’insulti, gli infami senza rispetto divino. Costoro neppure daranno il necessario per dare da vivere ai vecchi che li hanno allevati…sarà abbandonata la terra con le sue strade spaziose, agli uomini il pianto e il dolore. Contro il disastro per gli uomini non ci sarà riparo.

Svincolarsi dalla famiglia d’origine non vuol dire recidere i legami, ma, semmai, valorizzarli all’interno di una nuova storia generazionale. Le tendenze distruttive non portano verso lo svincolo, ma ad errare all’interno di tendenze malefiche e distruttive. L’ombra rappresenta le tendenze demoniache che si contrappongono al bene. Cigoli analizzando il pensiero psicoanalitico sul passaggio dannoso fa notare che essi parlano

di lutti incistati (cripta), di traumi non elaborati, di telescopage con membri di generazioni lontane, di segreti violenti, di incestuale e cosi via.

L’eroe se vuol veramente svincolarsi deve sconfiggere il male rappresentato da tutte quelle forze che si contrappongono al riconoscimento e all’accettazione della propria storia generazionale. Lo svincolo è un andare avanti non la distruzione del passato.

  • g. L’imbroglione è la spalla dell’eroe.

Rappresenta la parte goliardica, egocentrica ed infantile che spesso è necessaria e utile a rendere l’aria meno pesante, a far diventare gioco anche le prove più difficili.

2. Le tappe del viaggio vengono identificate:

Nella partenza, contraddistinta dalle seguenti fasi:

  1. Mondo ordinario: è il luogo, l’ambiente, il contesto che l’eroe lascia per avventurarsi in un nuovo mondo che una volta conosciuto non fa altro che diventare ordinario.
  2. Richiamo all’avventura: è il punto di partenza, il momento di inizio del viaggio, ma anche la fase che prestabilisce il punto di arrivo e tutte le tappe intermedie.
  3. Rifiuto del richiamo: a volte vi è molta ritrosia ad iniziare il viaggio per paura di ciò che non si conosce o per la paura di non avere gli strumenti necessari per affrontarlo.
  4. Incontro con il mentore: in cui ci si confronta con chi ha già affrontato il viaggio ed è lì per aiutarci, consigliarci, allenarci e fornirci gli strumenti necessari.
  5. Varco della prima soglia: è il momento del passaggio dal mondo ordinario al mondo speciale. Varcare la soglia vuol dire confrontarsi con i guardiani, ovvero con tutte le ansie e le paure tipiche dell’incontro con il nuovo. Varcare la soglia costituisce anche il punto di non ritorno. Una volta varcata la porta si è costretti ad andare avanti fino alle fine del percorso.

Nell’iniziazione, costituita dai seguenti passaggi:

  • Prove, nemici, alleati, in cui l’eroe sceglie gli alleati e riconosce i nemici per le prove che si troverà ad affrontare. Nel viaggio interiore valuterà le risorse di cui ha bisogno e si confronterà con i mostri interni, ovvero con le paure. In sostanza si dovrà confrontare con i debiti positivi e negativi che vengono dall’eredità generazionale. Spesso nella terapia e nella clinica si analizzano e si valutano i saldi negativi senza considerare le risorse che provengono dalla storia della nostra famiglia. E’ in essa che possiamo trovare gli strumenti, le armi per poter portare a termine il compito. In un progetto di cui sono coordinatore denominato Banca della Memoria stiamo raccogliendo e analizzando le storie di vita degli anziani. Dalle storie che riguardano la vita familiare emerge che fino a metà del secolo scorso le famiglie si riunivano quasi ogni sera a tavola o davanti al focolare domestico in cui, spesso, si raccontavano le storie della famiglia. Nella fase di fidanzamento delle figlie era questo il momento in cui il fidanzato poteva fare visita all’amorosa. Addirittura in una di queste storie emerge che la riunione di famiglia avveniva attorno alla recita del Rosario che era demandata al papà. Il fidanzato era costretto a partecipare alla recita tant’è che il capofamiglia aspettava il suo arrivo prima di iniziare. Finita la preghiera doveva lasciare la casa. Ciò che emerge dalla lettura e dalle visioni di queste storie di vita è l’estrema serenità e felicità con cui i giovani vivevano questi momenti. Eppure vivevano in contesti spesso drammatici come le due guerre mondiali o i successivi dopoguerra. La serenità, a mio modo di vedere, era dovuta alla perfetta conoscenza della storia familiare e alla certezza di trovare all’interno di essa tutte le certezze per poter affrontare i vari compiti evolutivi. Il fidanzamento e il successivo matrimonio venivano inseriti all’interno di un contesto di sacralità. D’altronde per la religione cattolica il matrimonio è un sacramento così come il battesimo, la cresima, etc. E’ una tappa da cui si deve passare per rinnovare il rapporto con Dio. Siamo chiamati a sposarci in modo da poter continuare a generare e, quindi, continuare la storia delle generazioni e delle stirpi. Solo immergendoci nella storia familiare possiamo trovare le certezze per poter affrontare il viaggio dello svincolo. Il Film l’Albero degli Zoccoli di Ermanno Olmi ci fa vedere le modalità di passaggio generazionale in 4 famiglie della bassa bergamasca alla fine del 1800. L’amore per il figlio e il tentativo di dargli un futuro diverso portano il padre Battistì a tagliare un albero per poter costruire un paio di zoccoli nuovi. Dalla visione del film emerge come le famiglie si riunivano davanti al focolare domestico a raccontarsi la loro storia. All’interno di questa storia nasce il matrimonio tra Stefano e Maddalena e la solidarietà generazionale.
  • Avvicinare la caverna più recondita, ovvero l’avvicinamento al posto pericoloso. E’ il momento in cui si deve trovare il modo per superare le proprie paure e magari scoprire che si hanno più risorse di quante si pensa di averne. Si scelgono gli alleati e si fa ricorso alle proprie risorse.
  • Prova centrale è il momento della verità in cui l’eroe si trova a combattere sapendo che il dopo non sarà mai più come prima. Si tratta di lasciare il nido che ci ha accolti, custoditi, salvati. Noi a casa nostra siamo in grado di camminare anche al buio cosa che non riusciamo a fare in un altro ambiente. Canevaro afferma che “una delle fasi più difficili nella crescita di un essere umano è il processo di autonomizzazione, elaborazione di un progetto esistenziale e inserimento creativo nella società. Distaccarci dalla organizzazione familiare che ci ha dato il nome e dalle persone con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia di interazioni lungo il tempo è un processo graduale che non finisce mai e che si interseca con la nostra discendenza in un movimento ciclico, auto perpetuante”. Bowen (1979), a proposito dello svincolo dalla famiglia di origine, sostiene che esso “riguarda il grado di ‘differenziazione del sé’ di una persona. Il contrario della differenziazione è dato dal livello di ‘non differenziazione’ cioè di ‘fusione dell’io”. Affinché possa avvenire il trasloco da un nido all’altro bisogna differenziare il proprio sé al fine di poter costruire un nuovo noi. Il nuovo nido ha bisogno di ancorarsi saldamente sul vecchio. Il passaggio da un nido all’altro fino a pochi anni fa avveniva con il matrimonio, oggi si va a convivere o a vivere da soli. Sono aumentate le possibilità di sperimentarsi senza l’ausilio dei genitori. Nell’attuare lo svincolo dalla famiglia di origine bisogna stabilire i confini tra il nuovo e il vecchio nido. A volte questi confini sono rigidi, soprattutto quando le famiglie di origini hanno difficoltà ad accettare l’uscita dei propri figli. Altre volte sono inesistenti ovvero vi è un passaggio continuo da un nido all’altro tanto da non riuscire a capire se il figlio sia veramente uscito di casa. Ciò avviene quando i figli hanno eccessivi sensi di colpa e, quindi, cercano di attenuare le conseguenze emotive legate allo svincolo. Le famiglie sono più propense ad accettare lo svincolo per il matrimonio: la formazione di una nuova coppia rientra nell’ordine delle cose, mentre quello per rendersi autonomo dipende dal contesto culturale. Le culture “nordiche” sono più propense non solo ad accettare, ma anzi favoriscono ed auspicano l’uscita del figlio da casa. Le culture del sud tendono a tenere il figlio per molto più tempo dentro casa. Da una ricerca condotta dal CNR nel 1999 su Giovani che non Lasciano il Nido: Atteggiamenti, speranze, condizioni all’uscita da casa risulta che il 58% dei genitori vorrebbe che il loro figlio uscisse da casa solo per sposarsi. Dell’uscita da casa si parla anche troppo poco all’interno delle famiglie: il 49% degli intervistati, infatti, afferma che non se ne mai parlato, il 29% che se ne parlato raramente, il 22% che se ne parlato qualche volta. Sempre da questa ricerca risulta che i parametri che vengono ritenuti importanti per l’autonomia sono altri come avere un reddito di un certo tipo, avere una casa, riuscire a mantenere il livello di vita attuale, etc. Nella fase di svincolo sono comprese due entità generazionali: i genitori e i figli. I genitori dovrebbero comportarsi come la mamma aquila che costringe i propri figli a volare artigliandoli e lasciandoli andare in alto nel cielo. Dovrebbero anzi prepararli a lasciare la casa dandogli tutte quelle certezze e sicurezze di cui avranno bisogno nella vita futura. Oltre alle certezze di ordine emotivo, dovrebbero anche dargli tutti gli insegnamenti di ordine pratico come imparare a cucinare, a lavare i vestiti, a pagare le bollette, ad aprirsi un conto in banca, a sbrigare le faccende domestiche etc.. Essi dovrebbero, facendo leva sulle loro risorse di coppia, superare quella che è stata definita la sindrome del nido vuoto. I figli dovrebbero imparare, come abbiamo sostenuto precedentemente, a “trasgredire” a scommettersi rinunciando, a favore della loro autonomia, a tutte le comodità della casa genitoriale. Marius, nei Miserabili, rinuncia, per la propria indipendenza, all’eredità del nonno. La differenziazione del sé non può non passare attraverso delle vere e proprie trasgressioni. Quest’ultime possono risultare funzionali come ne caso di Marius, o disfunzionali come nel caso di Adèle, la figlia di Hugo. Cancrini  scrive che “Il ciclo vitale della famiglia deve essere integrato per completezza, tenendo conto di situazioni psicopatologiche che sviluppano all’interno di altri sistemi interpersonali”. Partendo da queste considerazione egli individua quattro tipi di svincolo disfunzionale:
  1. Svincolo impossibile: che corrisponde alle situazioni di una famiglia nella quale si verifica la presenza di una forma schizofrenia di tipo ebefrenico; a livello familiare corrisponde, secondo Bowen, un tipo di famiglia secondo la capacità di differenziazione: esso riguarda la “massa indifferenziata dell’io”.
  2. Svincolo inaccettabile: con un membro appartenente alla classificazione di schizofrenia di tipo catatonica. Lo svincolo “non avviene o avviene per brevi periodi e in settori limitati”.
  3. Svincolo apparente: avviene in modo incompleto o parziale. A livello del soggetto troviamo le crisi di tipo schizoaffettivo: crisi maniacali e depressive; forme gravi di anoressia e di tossicomanie di tipo C.
  4. Svincolo del compromesso: essa si determina attraverso un progetto che appartiene alla famiglia. A livello del soggetto troviamo un disturbo psicotico di personalità: schizoide o borderline; si possono presentare con forme meno gravi di tossicomanie di tipo C o anoressia vera.
  • Adèle Hugo nel tentativo di scappare del padre pensa di trovare nelle promesse del tenente Pinson un alleato  per iniziare la sua prova cruciale. L’abbandono subito da quest’ultimo le comporta una forte angoscia con il conseguente rischio di un dissolvimento psichico a cui reagisce con veri e propri “rifugi della mente” (Cancrini, 1999). Quest’ultimi, nell’accezione di Cancrini, sono una sorta di organizzazioni mentali, veri e propri mondi immaginari, che rendono il soggetto in questione inaccessibile e lo proteggono dal confronto insostenibile con la realtà.
  • Ricompensa è il momento in cui si festeggia la vittoria. Si riconosce il nuovo sé e all’interno di esso le potenzialità che si sono scoperte. La ricompensa può essere costituita da: l’elisir, l’iniziazione, il nuovo nome, il nuovo punto di vista sulle cose, la conoscenza, la chiaroveggenza, la realizzazione di sé, la sposa. Può anche essere, come nel caso di Adèle, la follia che comunque serve a superare l’angoscia legata all’abbandono.

Nel ritorno, costituito dai seguenti passaggi:

  • La via del ritorno in cui si attraversa nuovamente la soglia per ritornare nel mondo ordinario o, meglio, per riportare all’interno di quest’ultimo ciò che si è conquistato nel mondo speciale;
  • La resurrezione in cui ci si ripresenta al mondo ordinario cambiati. E’ il momento in cui si deve dimostrare che si è in grado di mettere in pratica ciò che si è appreso.
  • Ritorno con l’elisir in cui si ritorna con nuovo sé. La storia, afferma Vogler, può avere un finale chiuso con il ritorno al punto di partenza o uno con un finale aperto. Non vi è dubbio che nel caso dei vari passaggi delle fasi di ciclo vitale rimane aperta alle nuove generazioni che faranno tesoro delle battaglie di coloro che li hanno preceduti.

 

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