expand_lessAPRI WIDGET

Body Dismorphic Disorder: quando la bassa autostima non è che la punta dell’iceberg

Uno studio pubblicato di recente su Psychiatry Research (Grant et al., 2019) ha cercato di indagare la prevalenza del Body Dismorphic Disorder (BDD) e le conseguenze di tale condizione sulla salute fisica e mentale degli individui.

 

Il BDD è caratterizzato da una forte preoccupazione da parte della persona per i difetti fisici percepiti, spesso focalizzati su un’unica parte del corpo (APA, 2013). Questa preoccupazione, provoca un forte disagio e risulta associata a un maggior rischio suicidario rispetto alla popolazione non clinica (Phillips & Menard, 2006; Weingarden et al., 2016;).

Le persone con BDD sono tendenzialmente preoccupate per le caratteristiche del proprio volto, come la pelle o la bocca (Phillips, 2014) anche se alcuni soggetti riferiscono di sentirsi a disagio anche su altre parti del corpo (attenzione che il focus non sia solo sul peso corporeo, sulla pancia, sui fianchi o sulle cosce: in quel caso si potrebbe pensare più a un Disturbo dell’Alimentazione; APA, 2013). All’interno del DSM-5, troviamo il BDD inserito nella sezione dedicata ai disturbi ossessivo-compulsivi e correlati, poiché vi sono alcune caratteristiche in comune tra il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e il BDD, in particolare per quanto riguarda la compulsività (APA,2013).

Diversi studi condotti negli ultimi decenni hanno sottolineato la presenza di forti correlazioni tra BDD e depressione (Cerea et al., 2018; Schneider et al., 2017), ansia (Cerea et al., 2018) e abuso di sostanze (Grant et al., 2005); inoltre, è stato dimostrato che individui con BDD abbiano livelli di impulsività e di compulsività significativamente maggiori rispetto ai controlli (Jefferies-Sewell et al., 2017).

Nel presente studio, gli autori hanno analizzato la prevalenza del BDD in un campione universitario, composto da 3.459 partecipanti, ipotizzando che il disturbo sarebbe stato associato a una scarsa autostima, a un peggior rendimento scolastico, a tassi più elevati di abuso di sostanze, a depressione e ansia e, infine, a maggior impulsività e compulsività (Grant et al., 2019).

I risultati hanno mostrato una prevalenza del BDD dell’1,7% nel campione analizzato (composto per il 63% da femmine e per il 37% da maschi).

Rispetto agli studenti che non risultavano affetti da BDD, quelli che mostravano la sintomatologia del disturbo analizzato avevano avuto, o erano a rischio di mettere in atto in futuro, un numero significativamente maggiore di comportamenti sessuali a rischio; in aggiunta, avevano una quantità significativamente superiore rispetto ai controlli di sintomi depressivi, di sintomi ansiosi e di sintomi correlati al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD).

Infine, il BDD è stato associato a punteggi più alti di impulsività e di compulsività, e con una maggiore maggior propensione a fare uno di sostanze stupefacenti o di alcolici (Grant et al., 2019).

In conclusione, gli autori mettono in luce alcune caratteristiche di un disturbo che sta attirando l’attenzione degli esperti solo da qualche anno: la bassa autostima di cui soffrono gli individui affetti da BDD, non è che la punta dell’iceberg.

 

Covid-19, schemi maladattivi interpersonali e strategie di fronteggiamento: quale relazione?

Quando si dice che l’uomo è un animale sociale si dice una grossa verità: non possiamo fare a meno dell’altro, sia esso reale oppure interiorizzato nella nostra mente. Già normalmente nella vita è molto difficile che questi bisogni siano adeguatamente soddisfatti, in questo periodo drammatico, lo è ancora di più

Si suggerisce l’ascolto di Tomorrow Never Knows (Beatles,1966) durante la lettura.

 

Un altro articolo sul Coronavirus? Ma non si può parlare d’altro? A quanto pare no. Il covid-19 ha impattato a sorpresa sulle nostre vite, stravolgendole. Gli scenari sono ancora tutti aperti, nessuno sa cosa accadrà nelle prossime settimane e nei prossimi anni. Cosa cambierà? Come sarà la nostra vita e la nostra società? Forse è proprio questo stato di incertezza che genera angoscia e paura, oltre alle conseguenze pratiche, relazionali e di salute causate dall’isolamento forzato. Tanto si sta dicendo e tutti ne stanno occupando, a vario titolo e con più o meno legittime competenze. Noi proviamo a farlo puntando l’accento su come le persone stanno reagendo positivamente e in modo sorprendentemente creativo a tutto questo.

Partiamo dal presupposto che tutti noi mammiferi abbiamo bisogni che devono essere soddisfatti, dalla nascita fino all’ultimo respiro (Bowlby, 1969; Dimaggio et al., 2019; Liotti & Monticelli, 2014). Sono sistemi motivazionali interpersonali (SMI) di base, biologicamente determinati. Sono sempre desideri relazionali (Wish), hanno bisogno dell’altro per essere appagati. Le attivazioni dei vari sistemi motivazionali e dei vari Wish alla base degli schemi maladattivi interpersonali (Dimaggio et al., 2019) possono generare quadri variegati di malessere e sintomi clinici più o meno intensi, sia psicologici che fisici. Quando si dice che l’uomo è un animale sociale si dice una grossa verità: non possiamo fare a meno dell’altro, sia esso reale oppure interiorizzato nella nostra mente. Molto dipende dalle immagini nucleari di sé che si sono create e iscritte nei corpi e nella mente in base ai nostri eventi di vita. Già normalmente nella vita è molto difficile che questi bisogni siano adeguatamente soddisfatti, in questo periodo drammatico, lo è ancora di più. Quindi, ci vogliamo sbizzarrire un po’ a ipotizzare cosa succede, senza allontanarci però dalla realtà clinica offerta dai nostri pazienti e che, molto probabilmente, riguarda anche noi terapeuti.

Gli Schemi Maladattivi Interpersonali nel CoViD-19

Ci sono pazienti che si trovano a inibire ogni esplorazione autonoma ed ogni forma di libertà curiosa e legittima, si sentono particolarmente costretti e ingabbiati dalle limitazioni imposte, dalle convivenze con altri familiari, dalle attività inaccessibili, se non in modalità online. I pazienti in fase intermedia di terapia, a cavallo, quindi, tra la concettualizzazione condivisa del funzionamento e la promozione del cambiamento (Dimaggio et al., 2013), dopo tanto lavoro, in cui erano riusciti ad identificare e assecondare il proprio Wish, si trovano scomodi nelle loro case, provando costrizione, impotenza, rabbia. Possono soffrire per questi motivi in modo molto più intenso degli altri.

Poi ci sono i pazienti in cui, in questi stati di emergenza e di riattivazione di un sé vulnerabile, si innesca l’attaccamento. Essi si sentono ancora più abbandonati se costretti, ad esempio, a stare lontani dai propri cari, a non poter ricevere cure e attenzioni dall’altro e magari faticano a differenziare, scambiando distanza per abbandono schema-correlato. Possono allora, provare paura e ansia, emozioni che devono pur gestire in qualche modo.

Per altre persone invece il problema principale è la sopravvivenza, sono principalmente preoccupati per la propria salute e terrorizzati di contrarre il virus (sistema di sicurezza e/o di attaccamento). Pensiamo poi a tutte quelle persone che hanno genitori anziani o figli lontani, qui l’accudimento può essere ai massimi livelli. Ci si sente colpevoli o indegni anche se la badante ha fatto la pasta un po’ scotta o se il figlio fuori sede è dimagrito 300 grammi. Oppure, pazienti che sono angosciati esclusivamente dal fatto che possono contagiare gli altri qualora dovessero contagiarsi loro, sentendosene in colpa solo all’idea. Già costruiscono scenari apocalittici in cui sono untori, responsabili del danno altrui. E quindi possono scegliere di autoisolarsi, o attuare altre modalità di accudimento ipertrofico verso l’altro.

Inoltre ci sono loro, i pazienti che desiderano l’apprezzamento grandioso e speciale, che impegnano molto tempo nell’immaginare azioni eroiche, salvifiche. Si immaginano nella loro torre d’avorio, intoccabili, ad essere i primi a trovare il vaccino, i primi a suggerire manovre anti crollo finanziario. Sono i paladini delle mascherine introvabili. E poi, invece, ci sono gli adepti del workaholism e del perfezionismo che, ovviamente bloccati, non potendo lavorare, produrre, studiare o essere performanti nello sport, nelle uscite, nella società, nella sessualità, devono combattere con quei vissuti di inadeguatezza, oppure di indegnità e cadere nella “sindrome del Grande Lebowski” (si vedono fannulloni, oziosi e lavativi, ai margini del gioco della vita). E cosa succede quando l’attivazione riguarda il sistema sessuale? Convivenze forzate con partner trascuranti mentre gli amanti sono lontani, magari anche loro con partner controllanti, impossibilitati alle fughe d’amore ma anche a contatti telefonici o via social. Ovviamente la peggio è per coloro che sono a casa con conviventi o familiari violenti.

Chi invece è abituato a lavorare in equipe (gruppi di lavoro, sportivi o musicisti), mosso dal desiderio di cooperazione o di inclusione, soffrirà molto per il mancato soddisfacimento di questa attività di squadra. Chi ha una vita sociale ricca e soddisfacente, risente della lontananza e della impossibilità a svolgere le attività gruppali.

Mastery, coping e tanta creatività

Come gestire tutte queste attivazioni? Le emozioni che ne derivano come ansia, colpa, paura, tristezza, rabbia? Le immagini di sé come abbandonati, incapaci, dannosi, non amabili? Quando si attivano, ci fanno pensare, agire e sentire in modo automatico e procedurale come se veramente fossimo soli e abbandonati, fallimentari e inadeguati, bloccati per sempre o pericolosi criminali, costringendoci ad attuare strategie di coping non sempre adattive.

Sappiamo bene che la prima cosa da fare è esserne consapevoli e distinguere la rappresentazione che abbiamo di noi stessi dalla realtà, anche se in momenti del genere, è particolarmente difficile. Come quando a una mia paziente, Maria, devo ricordare che è vero che il suo ragazzo Roberto è in isolamento a 100 km di distanza, ma questo non vuol dire che non è più nella sua mente. Eh, sappiamo quanto è faticoso!

A parte questo indispensabile processo di differenziazione, sono essenziali coping funzionali e mastery di secondo e terzo livello (Dimaggio et al., 2019), a livello sia individuale che collettivo. In realtà è proprio quello che stiamo già osservando. Molte persone, in modo autonomo ed efficace, tanto per fronteggiare l’angoscia del virus, ma anche l’isolamento forzato, si stanno appoggiando ai social come Facebook o Instagram. L’APP che più sta avendo successo è Tik-Tok. È efficace perché, date le sue caratteristiche, dà la possibilità di realizzare rapidamente video di pochi secondi, molto dinamici, divertenti e leggeri, in perfetta linea con i tempi digitali di oggi. Inoltre, alcune piattaforme interattive come Skype, Zoom o videochiamate WhatsApp permettono di vederci spesso, di condividere, di sentirci meno soli. Addirittura gruppi di colleghi collaborano in Smart Working per raggiungere ugualmente i loro obiettivi. Gruppi di amici che continuano a fare allenamenti sportivi in diretta video o aperitivi arrangiati con popcorn e Martini. Fedeli che si riuniscono per pregare. Ovviamente noi terapeuti usiamo tutte queste possibilità tecnologiche anche per continuare a seguire i nostri pazienti. Ne abbiamo già parlato in un altro articolo Le terapie online: quello che accade attraverso uno schermo. Insomma, l’isolamento può essere subito o affrontato. Tutta questa tecnologia, effettivamente, ci sta permettendo di ricadere nel secondo caso.

Sono fortunati poi, anche coloro che approfittano di questo tempo nuovo per rafforzare le unioni o per dare spazio al gioco sociale (Panksepp, Biven 2012). In questa categoria rientrano ad esempio, padri e madri che, magari poco abituati, si trovano a dover gestire i tempi morti a contatto stretto con i loro figli reinventando il tempo libero.

Quello che accade nelle chat Whatsapp, nelle condivisioni di meme, foto o video come possiamo definirlo? Cosa succede quando Vito mi manda immagini divertenti sulle bimbe di Conte o su RoboDeLuca oppure video di uomini con la pancia che implorano pietà? Cosa succede in lui quando io gli mando le foto dei miei gatti o della mia disperazione dopo 8 giorni di isolamento? Cosa gli è accaduto quando, con delle amiche, gli ho fatto una videochiamata a sorpresa e l’ho beccato proprio mentre uno dei suoi figli spegneva le candeline per il suo compleanno? È accaduto che mi ha scritto un messaggio che recitava: “Grazie, vi adoro”. Accade una cosa magica, difficile da spiegare. Eppure noi terapeuti la conosciamo bene, perché accade spesso in diversi momenti delle nostre sedute con i pazienti. Si chiama sintonizzazione, rispecchiamento. Si chiama condivisione e interrelazione. Equivale a dire: non sei solo, ed io mi sento esattamente come te.

La soddisfazione vicaria dei Wish tramite la creatività e la vicinanza virtuale è rapidissima, si moltiplica di giorno in giorno, di ora in ora vengono creati e diffusi nuovi meme, video, vignette, grafiche, messaggi vocali che ci permettono di shiftare ad esempio dal bisogno di attaccamento, di apprezzamento, di autonomia fisica a quello della condivisone giocosa. Tramite la creatività, perfino il sistema sentimentale o sessuale shifta produttivamente nel gioco. Diciamocelo, in questo periodo, complice anche il tempo libero, girano molto più frequentemente immagini e video a contenuto ironicamente piccante. Tutto ciò ha però una funzione cooperativa, crea un senso di vicinanza generale che sta avvenendo in vari modi. Si va a soddisfare un bisogno di ordine superiore di intersoggettività, si passa dai SMI di secondo livello a quelli primari. A questo servono allora gli applausi, i flash-mob, le bandiere, l’inno di Mameli, i concerti sui balconi e la diffusione di contenuti sui social.

Quello che, alla fine di questa riflessione vogliamo chiederci è: ce lo saremmo mai aspettato? Avremmo mai pensato di trovare modi così funzionali per gestire l’isolamento ed il senso di precarietà che ci troviamo a vivere? Questa è la faccia bella della nostra umanità. In questo senso allora non è vero che ce la faremo, ce l’abbiamo già fatta.

 

I Disturbi d’Ansia e la Mindfulness

La mindfulness può diventare un mezzo potente ed efficace per entrare in relazione con la propria esperienza interna, come quella di ansia o paura nei disturbi d’ansia, imparando a conoscerla e a riconoscerla ogni volta che si presenta alla nostra coscienza, e ad accettarla con pazienza e fiducia piuttosto che cercare di reprimerla; quindi grazie alla mindfulness, impareremo a “stare” con la nostra ansia piuttosto che a temerla e quindi evitarla.

 

L’ansia è una normale emozione della condizione umana che segnala una minaccia non ben definita. Infatti lo scopo principale a livello evoluzionistico è quello di segnalarci un pericolo imminente e di preparare il nostro organismo, attraverso l’attivazione del sistema nervoso simpatico e la secrezione di cortisolo, a due possibili reazioni ovvero quella di attacco o di fuga. Ma se nel mondo animale è molto più semplice individuare quali possono essere possibili fonti di pericolo, nel mondo umano è estremamente più complesso dare una definizione unica e certa di cosa può rappresentare un pericolo per un individuo. Per esempio tutto ciò che mette a repentaglio la propria sopravvivenza, oppure un pericolo può essere anche psicologico quando non è in gioco la vita stessa ma i problemi possono essere economici, relazionali, lavorativi, ecc. Anche la tempistica fa la differenza: infatti il pericolo può essere presente in questo preciso momento o può essere immaginato, prospettato nel futuro oppure anche ricordato da situazioni passate. Quindi, forse, per cercare di dare una definizione di pericolo nella nostra società, esso consiste in tutto ciò che possiamo descrivere come un problema, ovvero una questione che in un determinato momento della nostra vita ha bisogno di tutte le nostre energie, delle nostre risorse, della nostra attenzione per poter essere affrontato e che non può essere accantonato e tanto meno ignorato fino a quando non troviamo una soluzione. L’ansia diventa patologica oltrepassando i livelli di normalità quando il sistema dell’ansia si attiva anche in situazioni in cui non sarebbe necessario (come per esempio parlare in pubblico), quando raggiunge livelli di intensità tali da ridurre le capacità delle funzioni cognitive come per esempio l’attenzione o la memoria e infine quando questa attivazione si manifesta ripetutamente e costantemente per un periodo prolungato di tempo riducendo la qualità di vita della persona e causando una compromissione del funzionamento in ambito lavorativo, sociale o in altre aree importanti. In questi casi si può parlare di un vero e proprio disturbo d’ansia (American Psychiatric Association, 2000). Secondo il DSM5 sono classificati tra i Disturbi d’Ansia il disturbo d’ansia di separazione, il mutismo selettivo, la fobia specifica, la fobia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata e il disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci. Nonostante ci siano delle differenze significative tra i vari disturbi d’ansia, ci sono dei meccanismi cognitivi, emotivi, corporei e comportamentali che non solo mantengono ma addirittura alimentano tutti i disturbi d’ansia. Per spiegare alcuni di questi meccanismi tipici dei disturbi d’ansia diamo la parola ai pazienti.

L’altro giorno quando ero in treno ho cominciato a sentire che mi stava mancando l’aria, non riuscivo più a respirare, sentivo un forte caldo, un vuoto alla testa, non sapevo che cosa mi stesse succedendo, non riuscivo proprio a capire…mi sono impaurito tantissimo anche perché queste sensazioni continuavano a peggiorare sempre di più! Ho pensato che stessi per impazzire!

In questa situazione possiamo notare un’attenzione selettiva verso dei sintomi fisici (mancanza d’aria, caldo) e cognitivi (vuoto alla testa) che hanno fatto interpretare in modo catastrofico (catastrofizzazione) al paziente quello che stava succedendo.

Prima di ogni esame mi preoccupo tantissimo molti giorni prima, comincio a immaginarmi le situazioni peggiori… e se il prof mi farà domande alle quali non saprò rispondere? Potrei andare nel pallone, stare zitto…. Che figuraccia farei…magari potrei anche bocciare l’esame per l’ennesima volta… non riesco proprio a non pensarci, è un pensiero fisso che mi assilla, e più mi preoccupo e mi più mi agito. Capita anche che, proprio per tutta questa ansia dei giorni prima, non mi presenti all’esame e rimandi. 

Questo paziente descrive un meccanismo tipico dell’ansia ovvero un pensiero ripetivo di preoccupazione chiamato rimuginio che alimenta un’ansia anticipatoria prima di situazioni che la persona può trovarsi ad affrontare portando a volte anche ad evitare l’esposizione all’evento temuto (non presentarsi all’esame).

Di solito porto sempre con me le goccioline che mi ha dato il mio psichiatra, una bottiglietta d’acqua nel caso in cui mi venisse un attacco di panico e tengo sempre il cell in mano per essere pronta a chiamare mio marito. Nonostante tutto questo, l’altro giorno, mentre stavo camminando per strada, ho sentito un forte dolore al petto, dei tremori in tutto il corpo, il cuore battere fortissimo…ho capito subito cosa mi stava succedendo, mi sta venendo un’altra volta un attacco di panico. Mi sono fermata, mi sono seduta per terra, non mi è servito a niente bere un po’ di acqua. Non sono più riuscita a muovermi fino a quando non è venuto a prendermi mio marito…quando è arrivato ero un po’ più tranquilla perché avevo già preso qualche gocciolina.

In questo esempio sono evidenti altri due meccanismi ovvero i comportamenti protettivi cioè tutti i comportamenti che vengono messi in atto per evitare le conseguenze temute (in questo caso portare con sé le goccioline date dallo psichiatra, l’acqua e tenere a portata di mano il cellulare) e la paura della paura cioè il timore che si possano provare nuovamente, come in momenti precedenti, sensazioni corporee legate all’ansia.

Durante una riunione con dei miei colleghi ho fatto vari interventi esprimendo di volta in volta le mie riflessioni e le mie opinioni. A un certo punto il mio capo mi ha fatto notare che avevo detto una cosa ormai non più attuale e avrei dovuto aggiornarmi di più. In quel momento sono diventato tutto rosso, la mia mente era vuota, non riuscivo più a concentrarmi su cosa dire o replicare, mi sembrava che tutti mi stessero guardando e stessero capendo che figuraccia avevo fatto e stessi facendo. Ho passato il resto della riunione in silenzio senza più intervenire continuando a ripensare continuamente a cosa era successo. Anche quando sono uscito da lavoro non riuscivo a levarmi dalla testa la figuraccia che avevo fatto alla riunione, mi tornava in mente in continuazione l’immagine di me completamente paonazzo e in difficoltà. So che tutti penseranno che sono uno strano, stupido e imbranato.

Nel racconto di questo paziente possiamo riscontrare l’astrazione selettiva ovvero di una situazione viene rilevato solo un aspetto, a discapito di altri (in questa situazione il momento in cui il paziente è stato ripreso perdendo invece tutti gli altri momenti positivi in cui era intervenuto), il pensiero dicotomico cioè il pensiero bianco/nero, tutto/niente (in questa situazione una critica ricevuta dal capo ha fatto sì che il paziente ricordasse questo evento come un totale fallimento) e infine la rivalutazione a posteriori più precisamente chiamata ruminazione (il ripensare e ancora ripensare concentrandosi nel ricordo di un’immagine negativa, goffa, impacciata di sé).

Gli approcci standard per i disturbi d’ansia includono l’intervento psicoterapico e il trattamento farmacologico (American Psychiatric Association, 2005). Per un miglioramento a breve termine dei sintomi risultano ugualmente efficaci interventi psicoterapici come la terapia comportamentale che si focalizza sull’esposizione graduale della persona alle situazioni temute per ridurre l’evitamento, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT, Cognitive-Behavioral Therapy) in cui si ha un intervento cognitivo di individuazione e ristrutturazione di credenze e valutazioni distorte e disfunzionali unito ad un intervento comportamentale di esposizione graduale alle situazioni temute (Barlow, 2002) e la terapia farmacologica come per esempio le benzodiazepine, gli antidepressivi triciclici, gli inibitori della monoamminaossidasi e gli inibitori della ricaptazione selettiva della serotonina (Sheehan &Harnet Sheehan, 2007). A lungo termine la CBT ha dimostrato un’efficacia maggiore rispetto alla terapia farmacologica (Otto, Smits & Reese, 2005). Nei casi cronici e resistenti al trattamento è risultato efficace un intervento integrato di terapia psicoterapica e farmacologica (Sheehan & Harnett Sheehan, 2007).

Negli ultimi anni a questi approcci standard sono stati affiancati interventi di nuova generazione come per esempio la mindfulness al fine di incrementare i risultati ottenuti a breve e a lungo termine per quanto riguarda varie psicopatologie fra cui i disturbi d’ansia (Feldman, 2007; Hayes, 2005; Lau & McMain, 2005; Orsillo & Roemer, 2005; Segal et al. , 2002).

Dopo aver osservato i meccanismi cognitivi, emotivi, corporei e comportamentali da vicino tipici dei disturbi d’ansia andiamo a vedere perché e in che modo la mindfulness può contribuire in modo efficace ad incrementare e a stabilizzare i miglioramenti ottenuti grazie agli approcci standard.

Tramite la pratiche di meditazione è possibile allenare una funzione cognitiva molto importante come quella dell’attenzione mantenendo un focus attentivo in modo intenzionale al momento presente in contrapposizione a un focus attentivo che di solito viene pilotato dai nostri automatismi oppure dalle nostre reazioni emotive. Durante le pratiche di meditazione, così come nella nostra vita quotidiana, facciamo esperienza del fatto che la nostra mente vaghi continuamente (mente scimmia). Questo è un fenomeno normale e può accadere un numero infinito di volte. Ma mentre stiamo praticando siamo invitati ad accorgerci di quando questo accade, riconoscere che cosa aveva distratto la nostra attenzione (per esempio un pensiero, un rumore, ecc.) e con gentilezza ed intenzionalità lasciare andare sullo sfondo questa distrazione per riportare la nostra attenzione su ciò su cui ci stavamo focalizzando in quel preciso momento della pratica di meditazione (per esempio il respiro oppure i punti di appoggio). Questo è già un atto di consapevolezza. E’ così che più pratichiamo più diventiamo consapevoli di cosa ci sta accadendo in un preciso momento a livello di pensieri, di sensazioni corporee e anche di emozioni del momento presente (Hahn, 1976; Kabat-Zinn, 1990); Salberg & Goldstein, 2001; Brantley, 2003).

La mindfulness diventa quindi un mezzo potente ed efficace per entrare in relazione con la propria esperienza interna, per esempio come può essere quella di ansia o paura come nei disturbi d’ansia, imparando a conoscerla con curiosità ed apertura e a riconoscerla ogni volta che si presenta alla nostra coscienza (questa è la mente del principiante, uno dei 7 pilastri della mindfulness; Kabat-Zinn,1990). La conoscenza dell’esperienza interna (pensieri, emozioni e sensazioni corporee) ci permette anche di accettarla con pazienza e fiducia piuttosto cercare di reprimerla, di contrastarla o di lottare contro la sua spiacevolezza (in questa frase ci sono altri 4 pilastri della mindfulness: accettazione, pazienza, fiducia e non cercare risultati; Kabat-Zinn, 1990). Quindi, grazie alla mindfulness, impararemo a “stare” con la nostra ansia piuttosto che a temerla e quindi evitarla.

Inoltre in questo modo possiamo assumere un punto di osservazione diverso da cui guardare la nostra esperienza interna, invece che essere fusi, identificati con essa, possiamo vederci distinti, distaccati come se fossimo su una sponda del fiume ad osservare il flusso di sensazioni corporee, di emozioni e anche di pensieri che in quel momento attraversano la nostra consapevolezza (Salzberg & Goldstein, 2001; Segal et al., 2002; Teasdale et al., 2002). Shapiro et al. (2006) scrivono a riguardo “invece di essere immersi nel dramma della propria narrazione o della storia di vita personale, riusciamo a fare un passo indietro e semplicemente ne diventiamo testimoni”. Nei disturbi d’ansia quindi sarà possibile per esempio riconoscere i propri pensieri come semplici eventi mentali e non come un’accurata descrizione della realtà e di conseguenza riconoscere quando siamo finiti nel fiume dei nostri pensieri, tornare sulla sponda del fiume e lasciare fluire e scorrere il fiume dei nostri pensieri (lasciar andare è un altro dei 7 pilastri della Mindfulness; Kabat-Zinn, 1990). Si ridurranno così di conseguenza processi come il rimuginio e la ruminazione.

E ancora a cascata la conoscenza, la consapevolezza, l’accettazione, il lasciare andare creano ulteriori circoli virtuosi invece che viziosi nei disturbi d’ansia. Infatti grazie a tutte queste abilità continuamente addestrate durante la mindfulness riusciamo anche a disattivare i piloti automatici che siamo soliti utilizzare continuamente senza la nostra consapevolezza, soprattutto in risposta alle nostre reazioni emotive. Alcuni piloti automatici tipici delle reazioni ansiose sono l’evitamento di situazione temute, il rumiginio, la ruminazione oppure strategie immunizzanti come per esempio abuso di alcool o sostanze che hanno l’effetto di ridurre momentaneamente lo stato ansioso ma che invece a lungo termine lo mantengono e lo alimentano.

Infine tramite la mindfulness alleniamo anche un’ altra abilità ovvero quella del non giudizio (un altro pilastro della Mindfulness; Kabat-Zinn, 1990) sia nei nostri confronti ma anche nei confronti degli altri. Durante le pratiche infatti impareremo a riconoscere questa tendenza naturale della nostra mente a voler giudicare tutto e tutti, osserveremo questo fenomeno come un pensiero, un semplice evento mentale, e così come gli altri pensieri lo lasceremo andare nel fiume dei nostri pensieri. Proviamo solo ad immaginare che effetti benevoli può avere questa abilità per le persone che presentano fobia sociale, che tendono ad essere molto critici verso se stessi. Ognuno di noi avrà quindi la possibilità di sviluppare una maggiore gentilezza compassionevole nei propri confronti e verso gli altri.

Quindi, concludendo, è evidente come la mindfulness possa essere un valido aiuto di integrazione sia agli interventi psicoterapaci che a quelli farmacologici risultati efficaci nel trattamento dei disturbi d’ansia a breve termine per interrompere i cicli di mantenimento tipici dell’ansia e a lungo termine per ridurre la vulnerabilità e quindi per mantenere e rafforzare i miglioramenti ottenuti nel tempo.

 

 

I rischi della limitazione delle libertà personali al tempo del coronavirus – Videoconferenza online con G. M. Ruggiero

Quali sono i rischi della limitazione delle libertà personali al tempo dell’epidemia da Coronavirus? Giovanni Maria Ruggiero e altri importanti esperti si confrontano in un’interessante videoconferenza.. 

 

Rosalba Reggio de Il Sole 24 ORE intervista alcuni esperti sui rischi di limitazione delle libertà personali al tempo dell’epidemia da Coronavirus. Il Direttore di State of Mind, Giovanni M. Ruggiero, discute degli aspetti psicologici di questi rischi. Si parla inoltre anche degli aspetti filosofici con Massimo Cacciari, storici con Stefano Bottoni, e giuridici con Graziella Romeo e Rocco Todero.

 

LA VITA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA:

 

 

“Gli Dei con gli Ani” della Quarantena: il recupero della Sensazione di Morte al tempo del Covid 19

Il Coronavirus ha costretto i vari Governi ad attenersi a nuove misure di prevenzione, cambiando improvvisamente le abitudini e lo stile di vita dei paesi interessati, e ha portato l’uomo riscoprire elementi psico-culturali ormai dimenticati, come la salienza della mortalità. 

 

Fra i meccanismi di difesa dell’Ego Umano, la Negazione della mortalità ha assunto un ruolo principale nella società odierna, grazie al declino del senso religioso e alla maggior importanza data all’Immagine grazie ai Social Media. Tuttavia, con l’avvento della pandemia del Coronavirus, si sta riscoprendo il valore della fragilità e del senso del limite del corpo umano.

Segue una breve analisi di ciò su basi didattiche e di cultura generale.

Sin dalla sua diffusione ufficiale, il virus Covid-19, conosciuto maggiormente col termine di “Coronavirus”, ha portato delle conseguenze assai corpulente nelle questioni economiche, geopolitiche e culturali (Bollettino ANSA, 2020). Il virus in questione, grazie alla facilità di trasmissione e alla assenza di vaccini e di strumenti scientifici per combatterlo, che attualmente sono sotto fase di studio e in attesa della fase di sperimentazione (Loiacono, 2020; Bollettino Ansa, 2020), ha costretto i vari Governi ad attenersi a nuove misure di prevenzione, come il mantenere la distanza prossemica di un metro, l’utilizzo obbligatorio di mascherine, l’utilizzo di gel disinfettanti il più possibile e la chiusura degli esercizi commerciali non considerati necessari (Foschi, 2020). Tutto ciò ha portato a un cambiamento improvviso delle abitudini e dello stile di vita dei paesi interessati, accolto con una grandissima resistenza dalle loro popolazioni, sebbene le onerose multe legate alle loro violazioni (Ziniti, 2020).

Dal punto di vista psicosociale si è potuto constatare empiricamente un aumento di ansia sociale, di paranoia di massa e di sintomi derivanti dall’isolamento: il livello epidemiologico è stato tale che il mondo medico psichiatrico si è mosso in massa per offrire elementi di prevenzione mentale (Sandal, 2020). Inoltre, il Covid-19 ha avuto conseguenze importanti dal punto di vista psicopolitico e sociologico, aumentando ulteriormente la ricerca di sicurezza e il richiamo ad un governo dell’Uomo Forte di stampo ultraconservatore (Applebaum, 2020; Haski, 2020).

Uno degli elementi psico-culturali, nella cultura accademica e generale, che ha ricevuto un grande riscoperta come conseguenza di questo periodo è la salienza della mortalità. Come sottolinea lo scrittore Domenico Starnone nella sua rubrica Parole del 20 Marzo (2020), uno delle poche conseguenze positive di questo periodo attuale è l’abbandonare la presunzione dell’eterna giovinezza: di fatto, come indica Starnone, in questo ventennio del ventunesimo secolo si è combattuta una guerra disperata conto l’invecchiamento naturale del corpo e il senso di Vecchiaia in generale, soprattutto dovuta al ruolo essenziale dell’Immagine nella società attuale ampiamente influenzata dai social media. Guerra persa ovviamente in partenza, dato che il riscoprire la materialità del corpo è un ulteriore invito a reintegrare nelle proprie vite il Senso del Limite e il Senso di Saggezza (Galimberti, 2012).

La cultura occidentale, principalmente quella di stampo europeo, ha avuto sempre un rapporto controverso con la Mortalità del Corpo: come sottolinea lo psichiatra Vittorino Andreoli, rispetto ad altre culture, l’Occidente ha cercato sempre di nascondere o di minimizzare gli effetti della salienza della Mortalità attraverso vari meccanismi di difesa, come la sua spettacolarizzazione, la sua negazione o la creazione di un aldilà di stampo religioso in modo da dominare teoricamente il proprio destino (2020).

Uno dei problemi principali alla conoscenza della propria fine è dovuta alla autoconsapevolezza (Arndt, Greenberg., Simon, Pyszczynski, Solomon, 1998), vista l’anticipazione del Dolore che essa causa nella propria vita e dei propri cari (Andreoli 2003), conducendo a quella gestione delle risorse interne che l’antropologo Ernst Becker ha identificato come terror theory management (1973), ovvero la negazione inconscia e subconscia della nozione di mortalità come meccanismo di sopravvivenza. Meccanismo di sopravvivenza che si è evoluto e modificato nelle varie epoche culturali e sociali dell’essere umano, fino ad avere una grande rilevanza soprattutto alla esposizione corporea e fisica richiesta dai social media (Bisceglio, 2013).

Tuttavia, come sottolinea il sopracitato Starnone, questa fuga perenne dell’uomo dalla sensazione di morte avrà forse un “alt” più sano oggigiorno, visto le conseguenze (purtroppo) testimoniabili del Sars-Cov-2. Una conclusione che riporta ad una frase celebre del già citato Becker e ricondotta spesso anche allo psicanalista Otto Rank, “We are Gods with anuses”: invero gli esseri mammiferi autocoscienti che hanno raggiunto l’apice della Catena Alimentare grazie anche all’ autoconsapevolezza dalla quale allo stesso tempo sfugge, soprattutto quando riguarda il Limite e la nostra Fine.

 

Covid 19 e il processo del dolore: riconoscerlo e comprenderlo per elaborarlo

Ognuno di noi al giorno d’oggi, in qualunque parte del mondo, sta sperimentando un senso di perdita in diversi modi e livelli. Perdita della libertà individuale, di un futuro prevedibile, della stabilità economica (spesso già incerta), delle connessioni, delle certezze. Potremmo dire, in una sola parola, perdita della normalità.

 

Il mondo non è più quello di 3-4 settimane fa e questo ci sta colpendo nel profondo, lasciandoci esperire un dolore collettivo a cui non eravamo abituati. “Siamo tutti sulla stessa barca” abbiamo diverse volte sentito o in alcuni casi, finalmente, realizzato, eppure ognuno esperisce il senso di perdita in maniera diversa.

Vi è poi quello che viene definito dolore anticipato: accade quando temiamo per l’incolumità propria o di un famigliare, quando si riceve una diagnosi terribile e ci si prefigura il peggiore degli scenari. Questo lutto anticipato può essere anche un futuro che non abbiamo immaginato, una tempesta per cui nessuno è equipaggiato. È il virus lì fuori che rompe il nostro senso di sicurezza. Abbiamo paura per i nostri cari, per la nostra salute, per il nostro lavoro, per il nostro paese, per quello che sarà dopo e in fondo per la morte stessa. Seppur ognuno esperisce ed elabora in maniera diversa il dolore, appellandosi a una esperienza universalmente condivisa di esso, è possibile comprendere meglio le nostre reazioni individuali e collettive.

I sei stadi nel processo del dolore

In questo processo ci guida David Kessler, esperto mondiale sul dolore, e co-autore del libro On Grief and Grieving insieme a Elisabeth Kübler-Ross. Il primo passo per affrontare il dolore è comprenderlo e, per aiutarci a farlo, gli autori ricercano quei vissuti che, tutti, seppur in diverso ordine, ci troviamo a sperimentare.

1. Negazione

“È una esagerazione dei media.”

“È una semplice influenza, la gente la prende ogni anno e solo raramente si muore.”

“Non sono vecchio/a, immunodepresso/a o con altre patologie, questo virus non mi riguarda.”

La negazione è il rifiuto emozionale ed intellettuale di qualcosa che è chiaro ed ovvio. Ed è qualcosa che abbiamo ereditato dai nostri antenati. L’evoluzione ha creato nell’uomo la capacità di negare tanto il dolore fisico quanto quello emotivo per un breve periodo di tempo, al fine dell’autoconservazione.

2. Rabbia

“È tutta colpa della Cina.”

“Mi stanno privando della mia libertà e diritti rinchiudendomi in casa.”

“Non mi interessano le misure preventive istituzionali, io esco lo stesso.”

Il sentimento di rabbia conferisce spesso potenza o l’illusione di essa, quando sentiamo di perderla o non averla. Ricorriamo alla rabbia nel tentativo di avere il controllo sugli altri e sulle nostre paure. Così, spesso, più che accettare e affrontare il problema, lo proiettiamo all’esterno, divenendo ostili, incolpando gli altri, o non rispettando le regole.

3. Negoziazione

“Ok, se osservo la distanza sociale per 2 settimane ogni cosa andrà meglio, no?”

“So riconoscere le persone malate, quindi starò bene finché me ne tengo a distanza.”

“Questo sarà finito per Pasqua, saremo salvi allora e potremo tornare alla normalità.”

Come in qualsiasi compromesso, la negoziazione giunge nel momento in cui la negazione inizia a farsi debole e si inizia a prendere atto della realtà, ma non si è ancora pronti per arrendersi all’illusione di avere ancora il controllo. E allora si patteggia una soluzione win-win per entrambe le parti.

4. Disperazione

“Non so se e quando tutto questo finirà.”

“Non posso andare a lavoro, non ho più uno stipendio, tra poco non avrò più un tetto e da mangiare.”

“Sono ad alto rischio e probabilmente morirò solo. Nessuno verrà quando accadrà.”

Quando la negazione viene del tutto spazzata via e ogni forma di controllo e potere è perduta, si insinuano disperazione e depressione. Ci si riversa sull’autocommiserazione e nonostante ci siano evidenze contrarie, ci si prefigura solo il peggio.

5. Accettazione

“Non posso controllare la pandemia, ma posso fare del mio meglio per tenerla a bada.”

“Il fatto che non posso lasciare la mia casa non significa che la mia vita si sia fermata. Ci sono un sacco di cose che posso fare o continuare a fare da casa.”

“Il mondo cambierà, ma alla fine di questo saremo migliori.”

L’accettazione subentra quando ci si arrende all’evidenza della realtà e anziché continuare ad opporvi resistenza, la si affronta nel modo più efficace possibile. L’accettazione sta anche in una forma di potere ritrovato: osservare la distanza sociale, lavarsi le mani frequentemente, adattarsi a lavorare da casa conferisce quel controllo e rassicurazione di cui si aveva bisogno.

6. Dare senso

Riusciremo a dare un senso a tutto questo, magari non immediatamente subito, magari mesi dopo, ma troveremo la luce anche in quelle ore più buie. È il pensiero di Kessler, a cui si deve l’aggiunta del sesto stadio del processo del dolore, che terminava con l’accettazione.

Già ora la gente ne sta traendo significato: ci si accorge che è possibile abbattere anche la più impensabile distanza grazie alla tecnologia e che quindi non siamo poi così lontani come pensiamo, o l’apprezzare una semplice passeggiata all’aria aperta, il potere salvifico della natura che impervia e fiorisce nonostante la tempesta come accade in primavera. La gente continuerà a trovare un significato e a trarne del buono, quando tutto sarà finito.

E se, pur dopo aver letto tutto questo, ci si sentisse ancora sopraffatti dal dolore?

È l’ultima domanda posta a Kessler nell’intervista della Harvard Business Review. Continua a provare, lui risponde. “Emotion needs motion”. È importante riconoscere quel che stiamo attraversando. C’è qualcosa di straordinariamente potente nel nominare questo come dolore. Ci aiuta a sentire cosa c’è dentro di noi. Quante volte diciamo a noi stessi “Sono triste, ma non dovrei sentirmi così, c’è chi sta peggio.” Non ci autorizziamo a provare dolore, quasi vergognandocene. Ma lottare contro quel che proviamo, negarlo, non ci aiuta a lasciarlo andare via, anzi lo amplifica. Abituiamoci a concederci questi sentimenti, ad accettarli ed esperirli per pochi minuti senza negarli o respingerli. Permettendo ai nostri sentimenti di accadere, questi saranno meno irruenti e da essi ne usciremo fortificati.

 

L’Inferno di Strindberg e il processo d’individuazione al tempo del Covid

Questo articolo vuole prefiggersi come obiettivo quello di integrare la psicologia ad un’opera letteraria al fine di offrire una chiave di lettura critica sulla nostra società ai tempi del coronavirus, beninteso che le informazioni qui contenute possono essere esportate a situazioni e circostanze della vita di ciascuno e della società oltre il tempo attuale che stiamo attraversando.

 

Il libro di Strindberg (1994) intitolato Inferno non è sicuramente di facile lettura. Non permette di essere masticato e digerito così facilmente. Questo senz’altro è il merito del clima allucinatorio e delirante che caratterizza lo scritto. Comunque sia questo non è il tema dell’articolo e nemmeno di questo libro che si configura come un viaggio dentro ognuno di noi, alla scoperta dei nostri demoni o potenze, come vengono definite nel libro, non necessariamente crudeli.

L’autore si lascia trasportare da questi deliri, da questo clima allucinatorio, senza respingerlo, senza cacciarlo in profondità, senza rimuoverlo nell’inconscio. Lo accetta, lo affronta e lo dissolve. Solve et coagula, come riporta la scritta sugli avambracci del Bafometto di Eliphas Lévi (1972), figura anch’essa eccessivamente associata al diavolo. Il Bafometto, la cui etimologia non è chiara, è stato definito come storpiatura del nome di Maometto, o anche come Baphe e Metis ossia ‘tintore di saggezza’, ma anche associata al dio sumero Enki, divinità legata all’acqua e dunque alla creazione e alla conoscenza il cui simbolo era un pesce-capro. La mitologia cristiana ha associato successivamente la figura di capro al diavolo e il gioco è stato fatto. Ma la figura presentata da Eliphas Lévi unisce il tutto: uomo-animale (figura metà umana e metà animale), maschile-femminile. Una figura di congiungimento degli opposti come le due lune: luna bianca e luna nera. Come la scritta: solve et coagula. Una frase che è l’essenza del processo alchemico dal quale poi Jung ha estrapolato la metafora del processo di individuazione. Così le due braccia che indicano l’alto e il basso, la luna bianca e quella nera rappresentano, parafrasando, quanto Trismegisto sostiene formulando le sue leggi, ossia che ciò che è sopra corrisponde a ciò che è sotto poiché tutto è Uno.

L’alchimia interessa anche il protagonista di Inferno, Strindberg, alla quale egli dedica gran parte degli studi quando si trasferisce in Francia.

Allora è possibile sostenere che Strindberg abbia attraversato l’inferno, o meglio ancora, il mondo infero e sia rinato e questo è il percorso che il libro descrive. Rinasce nel momento in cui egli scopre l’opera di Swedenborg. In questo momento i demoni che hanno perseguitato l’autore divengono una sorta di spirito guida che richiama la figura del Daimon socratico. Dunque le potenze, i demoni, non sono visti come entità negative ma come un primo e necessario passo verso la rinascita. I demoni sono infatti in origine dei Geni pagani il cui obiettivo è di porsi come entità intermedie tra l’uomo e la divinità (Bamonte, 2006). Il demone può allora essere interpretato come una figura che, pur certo con una certa sofferenza, riconduce l’uomo a sé stesso. È ciò che accade anche nel processo di individuazione la cui prima fase è l’opera al nero, la nigredo, ossia la putrefazione e disgregazione della materia, l’incontro con l’ombra. Si tratta allora di dissolvere l’ombra e di illuminarla. In questo è Lucifero, il portatore di luce. In fondo, citando Strindberg (1994) ‘tutti i vecchi dei, nelle epoche che vengono dopo, diventano dei demoni’ (p.92) e questi demoni, questi spiriti maligni ‘non sono in realtà malvagi, perché il loro scopo è un bene, e sarebbe più opportuno servirci della terminologia di Swedenborg, il quale li chiama spiriti castigatori, o correttori’ (p.91).

Dunque il libro altro non pone se non l’uomo davanti a sé stesso e fa delle paure, delle angosce, degli incubi e dei fantasmi che portiamo dentro, insomma, del mondo infero, un mondo che non solo dobbiamo attraversare ma del quale dobbiamo essere orgogliosi poiché ‘Dio vi vuole con sé‘ (Strindberg, p.91). È dunque una possibilità di procedere verso l’individuazione. Allora oggi, ai tempi del Virus, l’angoscia verso la quale siamo esposti è anche una possibilità di crescita. ‘Finché c’è angoscia c’è speranza’ (Fougeyrollas, p.203) purché tale angoscia non sia patologica, non esponga al vuoto ma sia evolutiva e permetta una seria riflessione e presa di consapevolezza.

Una di queste consapevolezze è sicuramente rivolta a quelle zone in ombra della nostra società come le comunità terapeutiche, i pazienti psichiatrici, i senza tetto, bambini e anziani di cui oggi si è dovuto parlare. Aspetti eccessivamente offuscati dal primato dell’economia. Ma una delle maggiori consapevolezze mortificanti che l’uomo deve saper integrare e a cui l’emergenza COVID lo ha spinto, è sicuramente la venuta meno dei modelli di antropocentrismo, di volontarismo. Quei modelli che pongono l’uomo al centro del suo mondo e pongono la sua volontà come suprema potenza creatrice: ‘se voglio posso’.

Un recente libro di Leonardo Caffo (2017) Fragile umanità e un altro di Lorenzo Biagi (2019) Unico e molteplice, per una fondazione antropologica oltre l’individualismo espongono il problema in modo molto articolato. L’uomo deve esporsi all’angoscia per poter integrare la propria fragilità e rendere possibile la sua apertura al mondo, non la sua chiusura di cui l’antropocentrismo è il testimone.

L’uomo non è, come direbbe Sartre (1946), un ‘in sé’ ma un ‘per sé’. Dunque un soggetto fragile, spezzato per dirla alla Ricoeur, che non può dire ‘io sono’ ma ‘eccomi’ (Biagi, p.41), definendo così la sua ontologica apertura al mondo che è apertura all’altro. Non a caso, nel programma televisivo Carta Bianca, Walter Veltroni in data 31/03/2020, intervistato, ha sostenuto come il virus permetta all’uomo una riscoperta della figura dell’Altro che fino a poco tempo fa era esclusa e brutalizzata.

Dunque questo periodo è sicuramente inserito in un movimento di crescita dell’uomo, ossia in un processo di individuazione che muovendo dall’angoscia può portare, se correttamente attraversata, ad un ampliamento della coscienza. L’angoscia deve però poter essere contenuta per non frammentare l’individuo e tale contenimento altro non è offerto se non dallo Stato che deve ritrovare il suo ruolo di giuda nell’interesse del popolo. La legge del padre non è solo castrazione ma deve anche essere protezione e contenimento.

 

Come la dopamina guida l’attività cerebrale

La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto in molti aspetti del funzionamento umano, dal comportamento alla cognizione, dal movimento alla motivazione, dal sonno all’umore.

 

La dopamina è un neurotrasmettitore endogeno appartenente alla famiglia delle catecolammine; viene prodotta in diverse aree cerebrali, tra cui la substantia nigra e l’area tegmentale ventrale (ATV); tuttavia la troviamo anche in altre zone cerebrali, come per esempio nei gangli della base e nel nucleo accumbens.

Le funzioni della dopamina sono molte, influisce infatti su: comportamento, movimento volontario, cognizione, motivazione, sonno e umore. La sua azione si riversa anche sul sistema nervoso simpatico, causando l’accelerazione del battito cardiaco e l’innalzamento della pressione del sangue (Wise, 2004).

La dopamina è particolarmente coinvolta nel sistema delle ricompense, infatti, tutti gli stimoli che producono motivazione e ricompensa (come il cibo, l’acqua, sesso e sostanze stupefacenti) provocano il rilascio di dopamina da parte del nucleo accumbens.

Date le numerose funzioni che ha il suddetto neurotrasmettitore, i farmaci che inibiscono o incrementano la produzione di dopamina sono molti ed utilizzati per le più disparate patologie, dal Parkinson, al trattamento della depressione ai disturbi psicotici (Seeman, 1980).

Uno studio pubblicato il primo aprile del 2020 sulla rivista Nature, ha scoperto in che modo la dopamina rilasciata in profondità nel cervello, influenza sia le regioni cerebrali vicine che quelle distanti; infatti, prima di questa ricerca, la modalità tramite cui la dopamina influenzasse l’attività neuronale in tutto il cervello era sconosciuta. Utilizzando una nuova e particolare risonanza magnetica, in grado di tracciare la dopamina, i ricercatori hanno osservato che la dopamina ha effetto principalmente sue due zone cerebrali: la corteccia motoria e la corteccia insulare. Quest’ultima è particolarmente coinvolta nella regolazione delle funzioni cognitive collegate alla percezione dello stato del proprio corpo interno (enterocezione) (Li &Jasanoff, 2020).

I ricercatori hanno iniziato ad analizzare il modo in cui la dopamina, rilasciata nello striato dei ratti, influenzasse la funzione neurale, sia localmente che in altre regioni del cervello.

Innanzitutto, hanno iniettato dei sensori che tracciano la dopamina (visibili con la risonanza magnetica citata sopra) nello striato, che si trova in profondità nel cervello e svolge un ruolo importante nel controllo del movimento (Li&Jasanoff, 2020). In seguito hanno stimolato elettricamente una parte del cervello chiamata ipotalamo laterale, quest’ultima è una tecnica sperimentale comunemente utilizzata per premiare il comportamento e indurre il cervello a produrre dopamina. A questo punto, i ricercatori hanno utilizzato il loro sensore di dopamina per misurarne i livelli in tutto lo striato. Inoltre, hanno anche eseguito la risonanza magnetica tradizionale per misurare l’attività neurale in ciascuna parte dello striato (Li&Jasanoff, 2020). Con loro sorpresa, hanno scoperto che alte concentrazioni di dopamina non hanno reso i neuroni più attivi. Tuttavia, livelli più elevati di dopamina hanno fatto rimanere i neuroni attivi per un periodo di tempo più lungo, hanno osservato inoltre che le zone cerebrali che più risentivano della dopamina erano la corteccia motoria e la corteccia insulare (Li&Jasanoff, 2020).

 

Pensieri, parole, emozioni ai tempi del coronavirus: Intervista al Prof. Giovanbattista Presti

In questo difficile momento storico, la flessibilità psicologica può contribuire ad affrontare meglio le difficoltà emotive e cognitive scaturite dall’emergenza coronavirus ed aiutarci a sviluppare la resilienza, la capacità di resistere agli urti della vita.

 

Prendendo spunto dalla sua ultima pubblicazione scritta insieme al Prof. Paolo Moderato dal titolo Pensieri, parole, emozioni. CBT e ABA di terza generazione: basi sperimentali e cliniche, ho intervistato il Prof. Giovanbattista Presti in merito al suo punto di vista circa queste tre dimensioni importanti dell’essere umano, oggi messe a dura prova di fronte all’emergenza coronavirus.

Giovanbattista Presti è uno psicologo, psicoterapeuta, Docente Universitario all’Università Kore di Enna, autore di numerose pubblicazioni di carattere scientifico nell’ambito della ricerca sullo sviluppo del linguaggio e sui training per bambini con ritardo evolutivo. Curatore della traduzione italiana di testi come Quando il mondo ti crolla addosso e La trappola della felicità di Russ Harris, autore di testi di psicologia e ideatore del Podcast RadioCoronavir, un podcast creato in questo particolare momento storico, basato sui principi dell’ACT che grazie al contributi di altri validi colleghi dello stesso, si pone come obiettivo quello di aiutare le persone a sviluppare una flessibilità psicologica che possa contribuire ad affrontare meglio le difficoltà emotive e cognitive, comportate dall’emergenza coronavirus.

Immagine 1 – Il Prof. Giovanbattista Presti

Fatte tali premesse, ho desiderato chiedere al Prof. Giovanbattista Presti:

Pensieri, parole, emozioni ai tempi del coronavirus: in che modo la flessibilità psicologica può aiutarci?

Il tema, risponde il Prof. Presti, sta a lui particolarmente a cuore e parlare di flessibilità psicologica vuol dire creare quelle condizioni che ci consentano di accogliere quella tempesta che si sta scatenando dentro noi, fatta di pensieri ed emozioni diverse.

La situazione non è facile per nessuno. Il Prof. Presti sottolinea come lo stravolgimento delle nostre abitudini e routine quotidiane sia di per sé un importante fattore di stress, al quale si vanno poi ad aggiungere le informazioni che ci ricordano il numero di contagiati ed ancor di più dei deceduti. La flessibilità psicologica, sottolinea il Prof. Presti, riguarda l’elasticità della nostra mente e di conseguenza del nostro comportamento di riuscire ad adattarsi a tutto ciò e per l’appunto richiama il tema dell’adattamento.

I pensieri sono tantissimi, in generale di tipo catastrofico, come ad esempio “Questa situazione non finirà mai”, “Quando riuscirò a ritornare a lavoro”, “Chissà se colpirà i miei figli”, “Subirò dei danni economici”, tutti pensieri ammissibili ricorda il Professore in questo momento, e le emozioni di conseguenza vanno dalla rabbia, alla paura, all’angoscia, dubbi e incertezze, sgomento…

Ma siamo chiamati ad andare avanti, riorganizzare le nostre vite. La situazione è molto delicata e complessa, continua il Professore ricordando ad esempio il personale sanitario chiamato in prima linea, chi ha subito uno o più lutti, chi non ha potuto concedersi di dare un ultimo saluto al proprio familiare poi deceduto o tanto meno di poter celebrarne i funerali. Situazioni di profonda tristezza, angoscia, paura, rabbia…

In questo, la flessibilità psicologica, ci spiega il Prof. Presti, può aiutarci a sviluppare quella che in psicologia prende il nome di resilienza, ossia la capacità di resistere agli urti della vita e di riportarsi al mondo del possibile ed al mondo del reale, a ritrovare il senso della vita e delle cose. Flessibilità psicologica vuol dire anche muoversi verso questa direzione.

All’interno dell’intervista viene ricordato anche il materiale reperibile dalle puntate del Podcast, all’interno del quale si ha l’opportunità reperire audio guida che aiutano a meditare, riflettere e sperimentarsi in alcuni esercizi proposti che aiutino a creare quello spazio mentale che ci consente di agire in direzione dei nostri valori. Altro tema trattato all’interno del podcast è il tema dell’accettazione, accettazione anche delle emozioni difficili e dolorose e suggerimenti riguardanti la vita quotidiana come ad esempio, organizzarsi la giornata, prendersi delle pause, fare attività fisica, dedicarsi ad hobby, ritornare ai propri affetti, prendersi cura anche del proprio aspetto estetico.

Un ultimo suggerimento del professore è quello di pensare alla possibilità di creare una scatola dei tesori dove ogni membro della famiglia possa mettere un biglietto con un proprio messaggio, pensiero, che alla sera possa essere recuperato e condividerlo con il resto della famiglia.

E prendendo spunto da questa metafora, desideravo condividere con voi il contenuto di questa intervista e relativi link utili che sicuramente per me sono tesoro, ma ritenevo altrettanto utile e prezioso condividere con gli interessati.

 

Guarda l’intervista al Prof. Presti:

Ascolta il Podcast RadioCoronavir.

 

Virus e viralità

Dopo poche settimane dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 in Cina, il focolaio della cattiva informazione – e della disinformazione – stava già cominciando a diffondersi tra di noi, molto prima che il vero virus varcasse le soglie del nostro paese.

 

Man mano che immagini e notizie sempre più inquietanti riempivano le testate giornalistiche, parallelamente voci fuorvianti su ipotetiche teorie cospirative sull’origine del virus iniziavano a serpeggiare tra di noi, dando il via all’escalation di notizie false che ancora oggi circolano indiscriminatamente sul Web. È così, su questi canali veloci e tumultuosi di disinformazione, che l’epidemia del panico è riuscita a viaggiare più velocemente del coronavirus. Si è trattata di una vera e propria infodemia che ha travolto le nostre sicurezze e ha innescato come una bomba le nostre peggiori paure, disegnando scene di abbrutimento sociale a cui tutti noi purtroppo abbiamo dovuto assistere. Dai tentativi di pestaggio nei confronti dei residenti orientali, fino all’assalto selvaggio e incontrollato dei supermercati.

Mai come questa volta, abbiamo assistito a una coincidenza così netta tra virologia e viralità, dove la disinformazione è riuscita a far crescere l’onda della paura, cavalcandone la spinta e inondando le pagine dei social network.

Negli ultimi anni l’uso di internet nel settore sanitario sta diventando una delle principali tendenze mondiali. Milioni di cittadini cercano continuamente e ossessivamente informazioni online sulla salute e condividono sui loro profili pubblici contenuti a scopo divulgativo.

Per ogni vero esperto che cerca di condividere corrette informazioni scientifiche e ogni leader che cerca di trasmettere dati obbiettivi, ci sono migliaia di utenti che creano e fanno circolare notizie false e scandalistiche, al solo scopo di ottenere il maggior numero possibile di click ai propri post. Di solito sono gli stessi algoritmi che strutturano i social network a promuovere le notizie che creano più coinvolgimento, attirando maggior interesse verso i contenuti scioccanti e sensazionalistici e alimentandone così la diffusione. Il termine che meglio descrive questo tipo di fenomeno sociale è l’inglese “rumours”, che può essere tradotto in italiano in diversi modi: dicerie, chiacchiere, pettegolezzi, indiscrezioni. Le “leggende metropolitane”, come tendiamo a chiamarle, hanno da sempre accompagnato ogni tipo di evento storico che avesse una certa rilevanza. Già nella mitologia romana era presente la Dea Fama, una divinità annunziatrice e messaggera di Giove. Fama era immaginata come una donna sempre in moto, gridava continuamente dappertutto notizie buone e cattive, era figurata giovane e irruente con ali cosparse di occhi, di bocche e di lingue, e in atto di suonare una tromba oppure due, una per la verità, l’altra per la menzogna (Crescimbene, La Longa, Lanza., 2012).

La letteratura accademica in questo senso ha approfondito notevolmente i meccanismi di esordio e propagazione del fenomeno dei rumours. A tal proposito Allport e Postman (1947) definirono i rumours come proposizioni di fede su argomenti specifici (o attuali) che passano da persona a persona, di solito con il passaparola, senza alcuna prova della loro verità. Sebbene le voci siano di solito comunicate da persona a persona tramite il passaparola, anche i media al giorno d’oggi hanno un ruolo chiave nella loro diffusione.

Più specificatamente il fenomeno delle voci infondate è stato osservato anche durante lo scoppio di precedenti epidemie. Ad esempio durante l’epidemia di Ebola che colpì l’Africa occidentale nel 2014, un articolo del British journal of Medical rilevò che la maggior parte dei messaggi che riguardavano l’epidemia conteneva notizie false e che queste erano quelle che destavano maggiore attenzione e che venivano condivise maggiormente sui social network (Oyeyemi, Gabarron, Wynn., 2014). I social network in questo caso contribuirono a diffondere voci su trattamenti falsi, diventando poi notizie generali.

Un altro studio ha analizzato il diffondersi di voci infondate durante l’epidemia di SARS del 2003 che colpì alcune regioni della Cina. La maggior parte di queste dicerie, perlopiù di natura mistica o soprannaturale avevano iniziato diffondendosi con il passaparola, per poi raggiungere una certa popolarità attraverso i canali di comunicazione digitali. Spesso il contenuto di queste notizie false riguardava la possibile eziologia soprannaturale della malattia o rimedi terapeutici di tipo magico -religioso che in alcune aree rurali avevano trovato ampio spazio di diffusione e proliferazione (Zixue, Tao., 2011).

Un fenomeno diverso, ma per certi versi simile, si era già notato anche durante la tristemente famosa epidemia di influenza spagnola del 1918. I giornali americani dell’epoca ebbero il ruolo fondamentale di cassa di risonanza delle paure individuali, amplificando con titoli sensazionalistici il panico che si diffondeva tra la popolazione. (Hume., 2000)

Se nei primi anni del ‘900 le disperate e recondite paure individuali trovavano spazio solo sui titoli dei quotidiani, adesso le notizie, false o vere che siano, viaggiano alla velocità stessa della mente che le pensa. Passano pochi minuti infatti, da quando una voce infondata inizia a circolare, a quando gli schermi dei nostri cellulari illuminano i nostri volti, lasciando a noi la scelta di continuare ad alimentare il meccanismo vorticoso del clamore inutile.

Tutti noi dovremmo capire che contribuire alla disinformazione in momenti così delicati come quello che siamo vivendo, non equivale a fare innocui pettegolezzi. Le intuizioni miracolose che propinano false cure, la propaganda incosciente tesa alla sottostima della gravità dell’epidemia o le superficiali campagne della notorietà, proprio non sono semplici pettegolezzi. L’infodemia può essere pericolosa tanto quando la pandemia.

Condividendo una notizia insensata, ci assumiamo la responsabilità di essere l’anello di una catena di ignoranza, che alla lunga finisce per stringere le nostre esistenze in una morsa di confusione e panico. Pertanto se riteniamo necessario condividere un’informazione, è importante assicurarsi che l’origine sia attendibile e accettarsi che la persona o l’organo da cui dovrebbe provenire abbiano rilasciato una dichiarazione ufficiale.

In un momento in cui non abbiamo grandi strumenti per combattere il Covid -19 se non quello di stare in casa, dobbiamo utilizzare il megafono dei social media per migliorare l’aderenza della popolazione alle procedure di quarantena, ridurre le paure infondate, chiarire le incertezze e rafforzare la fiducia nei confronti della nostra sanità pubblica che sta combattendo una battaglia senza precedenti.

C’è un contagio virale da fermare e purtroppo non è solo quello che si trasmette per via aerea. Per evitare che l’infezione di stupidità mandi in poltiglia le nostre menti, basta poco. Un istante di logicità e razionalità. Semplice… come un click.

Il “Sistema” Coppia: come si passa dall’infatuazione all’amore

Ogni coppia segue un percorso che passa attraverso fasi diverse: attrazione, innamoramento, amore. Oltre alle componenti chimiche, comuni a tutti gli esseri umani, altri aspetti della storia individuale, psicologica, famigliare e trigenerazionale influenzano gli individui nella scelta e nel legame duraturo con il partner.

 

Non c’è fine al mio stupor, al mio tacerlo
Senti
Come mi batte forte il tuo cuore…

Recita così la poesia della poetessa premio Nobel Wislawa Szimborska, descrivendo la sensazione di quando la persona innamorata sente nel suo petto il battito del cuore del suo amato. Quando siamo all’inizio di una storia d’amore il nostro cuore batte forte, non riusciamo a contenere le emozioni, viviamo una vera ossessione per il partner. In realtà per alcuni mesi i nostri ormoni hanno il potere di travolgere e stravolgere la nostra esistenza dove testa, cuore e corpo collaborano per farci vivere in uno stato di euforia. Vi parlerò di questo, perché in ogni coppia tutto è in evoluzione dal momento in cui veniamo attratti da qualcuno, ci innamoriamo e realizziamo che amiamo proprio quella persona. C’è un percorso che ogni coppia segue e che passa attraverso fasi diverse: attrazione, innamoramento, amore. Oltre alle componenti chimiche, comuni a tutti gli esseri umani, altri aspetti della storia individuale, psicologica, famigliare e trigenerazionale influenzano gli individui nella scelta e nel legame duraturo con il partner.

La chimica

All’inizio siamo attratti da un partner di cui non sappiamo nulla, ma che ci attrae per motivi sconosciuti, e questo è il preludio dell’innamoramento. Quello che sta avvenendo dentro di noi è opera del cervello dove ha sede l’intelligenza, la fantasia, il linguaggio, le emozioni e dei suoi correlati chimici. I neurofisiologi, insieme a psicologi, antropologi, biologi e genetisti, ci raccontano che anni di evoluzione, ancorati al nostro patrimonio genetico, che fanno parte del nostro DNA, giocano un ruolo fondamentale al di fuori della nostra consapevolezza, inducendo a comportarci e a provare sensazioni che non immaginavamo.

Infatuazione

Durante l’infatuazione siamo in preda ad un vero disturbo ossessivo-compulsivo: continuiamo a pensare in modo spontaneo e ossessivo al partner fino ad occupare tutta la giornata. Ci sentiamo onnipotenti, pieni di energia, euforici. Tutto quello che accade è legato agli ormoni androgeni che sono i responsabili dell’attivazione del desiderio sessuale. Testosterone in misura maggiore combinato con l’estrogeno per gli uomini e l’estrogeno in misura maggiore combinato con il testosterone per la donna sono una vera tempesta chimica per il desiderio. Siamo in preda ad una vera iper-eccitazione.

Innamoramento

Durante l’innamoramento il livello del testosterone diminuisce nei maschi, lasciando posto alla tenerezza, mentre lo vediamo aumentare nelle donne comportando un atteggiamento più determinato. In questa fase i partner sperimentano atteggiamenti di cura e tenerezza reciproca. Ma è la feniletilamina che fa sì che le nostre pupille si dilatino quando qualcosa ci attrae, ci fa brillare gli occhi, riduce l’appetito, rende iperattivi sessualmente e stimola il rilascio di dopamina. La dopamina quando è a livelli molto alti produce effetti d’euforia, rendendoci simili ai dipendenti da droghe e facendoci perdere la testa. Ma se da una parte esiste questa dipendenza dovuta all’aumento della dopamina nelle fasi iniziali dell’innamoramento, dall’altra si verifica una diminuzione della serotonina che abbassa il nostro umore, inducendo uno stato di stress e ansia elevata. Quindi se da un lato all’inizio di una storia d’amore siamo euforici, dall’altra siamo in uno stato di ipervigilanza: ci allarmiamo se l’amato non ci presta attenzione o se non ci risponde.

Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…

(Antoine De Saint-Exupery – Il Piccolo Principe)

Amore

Tutti i correlati chimici che abbiamo visto sono presenti nei primi 6/8 mesi della fase iniziale di una coppia, mentre nella fase dell’amore sono l’intimità e l’impegno di caregiver a prevalere. In questa fase la dopamina, che produce il nostro benessere, esaurisce la funzione che ci fa sentire euforici. A questo punto si attivano altre aree cerebrali, che hanno un gran peso nell’amore e che permettono il rilascio di un altro ormone: l’ossitocina. L’ossitocina è l’ormone dell’amore, quello che induce le contrazioni del parto, che entra in gioco nel mettere in atto atteggiamenti di cura materni quando diventiamo genitori, ma è anche quello che rimane nel tempo permettendoci sentimenti di tenerezza e di mantenere il contatto per l’attività sessuale.

Ma cosa succede nelle relazioni…

 Siamo fatti di relazioni.

Ognuno di noi è unico al mondo e quello che siamo è determinato dalle nostre relazioni con gli altri. Ognuno di noi ama ed è amato da persone diverse e va rispettato nella propria unicità, nel proprio desiderio di compagnia o di solitudine. La fase più difficile nella crescita di un individuo è la sua autonomizzazione e differenziazione dall’organizzazione familiare.

Perché si formi una coppia gli individui devono essersi svincolati in maniera adattiva dalle proprie famiglie d’origine (Scabini, 1995).

Canevaro descrive molto bene questo passaggio tra vincolo di alleanza e vincolo di filiazione:

Nel corso del suo ciclo di vita, la coppia è guidata dal vincolo di alleanza tra i coniugi. Questo vincolo è inversamente proporzionale al vincolo di filiazione che unisce ogni individuo alla propria famiglia e ai figli che genera. Se aumenta la capacità nella coppia il vincolo di alleanza si accentua, di conseguenza si indebolisce il legame con la famiglia di origine e viceversa.

Un individuo che abbia elaborato un progetto esistenziale e di inserimento nella società diventa disponibile alla formazione di una coppia.

Fatta questa premessa, possiamo considerare la coppia come un sistema aperto, un’organizzazione complessa di relazioni di parentela che è esposta, lungo il suo ciclo vitale, a momenti di sviluppo. Ogni membro della coppia intrattiene relazioni interpersonali caratterizzate da uno scambio reciproco. In ogni relazione ognuno di noi si aspetta qualcosa dall’altro; così anche nella ricerca di un partner non ci sorprende che ci si orienti a cercare nell’altro caratteristiche che rispondano alle nostre aspettative e bisogni.

Così come siamo poco consapevoli di ciò che avviene dal punto di vista chimico nella scelta di un partner, possiamo osservare in egual misura la poca consapevolezza dei nostri bisogni più profondi e di quanto veniamo influenzati nella scelta dalla nostra storia familiare e dai modelli con cui siamo cresciuti.

Dall’innamoramento all’amore

L’innamoramento è il momento in cui avviene la costruzione dell’identità di coppia, quella fase iniziale, come abbiamo visto prima, in cui la sessualità ha giocato un ruolo fondamentale favorendo l’unione e la fusione con il nuovo partner. Quando due persone formano una nuova coppia, non pensano che la loro relazione sia influenzata da modelli, rituali, tradizioni e miti che hanno interiorizzato nella loro storia con la famiglia d’origine. Durante l’innamoramento osserviamo un’idealizzazione reciproca, dove ogni individuo propone inconsapevolmente all’altro un’immagine ideale di Sé. Quello di cui ci innamoriamo è l‘immagine che l’altro rimanda di noi e dell’immagine che noi rimandiamo a lui.

Ci innamoriamo di persone estranee a noi ma affini per educazione, valori, intelligenza, visione della vita, ma anche interessi, orientamento religioso e politico e non ultimo per il senso dell’umorismo. Lo sguardo dell’altro rispecchia un immagine di noi stessi: l’immagine che noi desideriamo. Se chiedete perché le persone si sono innamorate proprio di una data persona, non sanno rispondere se non descrivendo il comportamento, lo sguardo, l’odore il modo di fare (“Il piacere nella coppia”, Frongia P., Toffanetti D., 2012).

Da questo incrocio e scambio reciproco di immagini scaturisce quella che chiamiamo “relazione” (Cancrini, Harrison, 1991). In questa fase i membri della coppia sono immersi in una fusione che procede parallelamente ai processi di individuazione e autonomizzazione dal resto del mondo. Per individuazione, intendiamo quel processo di distacco emotivo che permette ad un individuo di formare una nuova famiglia senza sentirsi limitato nei confronti della famiglia d’origine. Bowen (1979) pioniere della terapia familiare, descrivendo la costituzione di una nuova coppia parla di “contratto fraudolento”: ritiene che, mentre ognuno dei membri della coppia è intento a dare il meglio di sé, contemporaneamente coglie l’immagine dei bisogni più profondi del partner e si ritrova ad agire come se fosse proprio lui a soddisfarli. Questo porta entrambi i partner ad assumere un compito di impossibile realizzazione, in quanto nell’innamoramento la scelta del partner è scarsamente legata alle caratteristiche dell’amato; infatti osserviamo spesso come, pur rimanendo inalterate queste caratteristiche, le coppie si separano e l’amore finisce. Ognuno di noi nella fase di innamoramento propone inconsapevolmente all’altro, ma anche a se stesso, un’immagine ideale di sé. Il partner sarà più o meno attratto da questa immagine, se questa corrisponde ai suoi bisogni più profondi.

La parte nascosta di questo contratto è costituita dall’illusione, dove ognuno vede nell’altro l’unica possibilità di realizzare i propri bisogni. Malagoli M. e Togliatti et al (1999) descrivono la presenza di due patti /contratti: uno dichiarato, esplicito, che riguarda gli accordi come la sessualità e le norme sociali e che ci fa sentire uniti e ci contiene, ed uno segreto, implicito, sommerso che rappresenta i vincoli non consapevoli di natura affettivo-emotiva, relativi al considerare il partner come l‘unico capace di soddisfare le nostre esigenze e le aspettative più profonde, convalidando anche una specifica immagine di Sé.

Questa è la parte di cui non siamo consapevoli e che gioca un ruolo sommerso nell’innamoramento.

Anche Jackson (1978) nella formazione delle coppie ritiene che spesso ci troviamo di fronte ad un “Quid pro quo” cioè: qualcosa per qualcosa d’altro. Cosa significa? Stiamo parlando di uno scambio relazionale tra due persone dove ognuno desidera ricevere qualcosa per ciò che ha dato o ritiene di aver dato. Dove quid, riguarda le aspettative a cui pensiamo l’altro debba rispondere, mentre per pro quo si intende quello che ci aspettiamo di condividere con l’altro e le aspettative di cui investiamo l’altro. Per esempio stare in una relazione di coppia sana, significa che i due individui devono poter contrattare esplicitamente come collaborare in un gran numero di compiti, come guadagnare dei soldi, occuparsi della casa, dei figli, avere rapporti sociali con l’esterno e sessuali.

Può accadere che le attese della famiglia di un individuo siano più elevate rispetto a quelle dell’individuo. In questo caso le richieste familiari si scontrano con i desiderata individuali. In questo caso sarà necessario un compromesso tra il mandato familiare e le esigenze personali. Dipenderà allora dal grado di autonomizzazione dell’individuo e dalla sua capacità di rielaborare i miti familiari la risoluzione dei legami con la famiglia d’origine.

Siamo nella fase dell’innamoramento, dove la dopamina, ormone della passione, ci ha fatto perdere la testa. Questi 6/8 mesi restano impressi nella memoria della coppia come quelli più belli e intensi. La fine dell’innamoramento e l’inizio della coppia consistono nel prendere coscienza che l’altro è diverso da noi, non sarà mai come lo avevamo pensato e desiderato ma soprattutto non potrà coprire i nostri vuoti dei patti dichiarati.

Alla prima fase dell’illusione potremmo dire che segue quella della delusione, dove scopriamo che l’altro è diverso da noi, che ha bisogni e desideri differenti. Questa fase è la fase cruciale per la costituzione della coppia. Se non cediamo all’idea di cambiare il nostro partner, ma lo accogliamo nonostante le aspettative e i patti espliciti non siano stati mantenuti, potremmo passare alla disillusione dove l’altro verrà percepito e accettato per quello che è con pregi e difetti, traghettandoci verso l’amore.

L’amore è un processo evolutivo che si costruisce giorno per giorno, caratterizzato da una maggiore attenzione alle esigenze del partner e la messa in campo di atteggiamenti di caregiving.

Nella fase dell’amore il rapporto affettivo si stabilizza e cominciano a concretizzarsi maggiormente altri aspetti come l’intimità, il dialogo, la condivisione della vulnerabilità, dell’impegno reciproco a costruire un “amore coterapeutico”, come viene definito da Canevaro (Canevaro, 1990, 1992).

Il piccolo principe strappò anche con una certa malinconia gli ultimi germogli di baobab. Credeva di non tornare mai più. Ma tutti quei lavori consueti, quel mattino, gli sembravano estremamente dolci. E quando, innaffiò per l’ultima volta il suo fiore, e si preparò a metterlo a riparo sotto una campana di vetro, scoprì che aveva una gran voglia di piangere.
Addio, disse al suo fiore.
Ma lui non gli rispose.
Addio, ripeté.
Il fiore tossì. Ma non era perché fosse raffreddato.
Sono stato uno sciocco, disse infine al fiore. Scusami e cerca di essere felice.
Restò colpito dalla mancanza di rimproveri, e rimase lì sconcertato, con la campana di vetro sospesa per aria. Non riusciva a capire quella dolcezza.
E sì, ti amo, disse il fiore. Tu non lo hai saputo per colpa mia. Questo non ha alcuna importanza. Ma tu sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice e lascia quella campana di vetro. Io non lo voglio più.
(…) Poi aggiunse: Non indugiare ancora, è fastidioso. Hai deciso di partire. Allora vai.
Non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso…

(Antoine De Saint-Exupery – Il Piccolo Principe)

 

“Trincee domestiche” – Esiti sistemici dell’isolamento domiciliare nel periodo di Covid-19

Durante il periodo di Covid-19 l’isolamento domiciliare può aiutare a contenere e controllare la diffusione delle infezioni e dalla malattia, tuttavia non è privo di conseguenze psicologiche negative a medio-lungo termine.

 

Il fiume modella le sponde e le sponde guidano il fiume (Gregory Bateson)

È ben radicato nella psicologia e nella letteratura sulla salute pubblica che l’isolamento sociale ha conseguenze dannose per il benessere, con effetti paragonabili ad altri rischi ben noti, come il fumo di sigaretta.

L’angoscia e l’irritabilità per mancanza di contatto sociale, perdita di libertà e noia durante la quarantena sono legati secondi alcuni studi (si consulti la bibliografia) a conseguenze come sintomi depressivi e dipendenza da sostanze che si può estendere fino a tre anni dopo la fine della quarantena.

Riconfigurare la società

Le cause di questa catastrofe, sia per la salute dei cittadini che per l’intera economia del paese, sono essenzialmente da intercettare in un ritardo temporale della presa di coscienza collettiva della minaccia; purtroppo, non è stato ascoltato chi gridava “al lupo”, con il lupo alle spalle, così il pericolo si è talmente diffuso da far pensare ad una riconfigurazione dell’intera società verso nuovi standard di comportamento (e.g. handwashing, don’t touch etc.) ma soprattutto, indispensabile, è la disponibilità di un modello da seguire in caso di pandemie, come adottato dalla città di Taiwan.

Altresì, si dovrà filtrare qualsiasi informazione senza lasciarla al mero criterio per lo più giornalistico, così spesso superficiale sotto l’ammanto del bello scrivere, o ai dibatti per lo piu sbrigativi, narcisisticamente tendenziosi e pressappochisti, dove ne consegue un altrettanto criterio personale del cittadino nei social network, guidato da fugaci impressioni o da idee surrettizie di chi ha fornito versioni contrastanti e poco chiare della minaccia virale. Un effetto dell’isolamento?

Un virus per le relazioni

Miracolo è ciò che un materialista pensa debba accadere per liberarsi dal proprio materialismo (Gregory Bateson)

Quando si parla di isolamento l’attenzione è volta alle relazioni sociali; tuttavia, a questa questione se ne interpone un’altra: come interrompere le relazioni che l’economia ha creato, le stesse relazioni di cui il virus si nutre?

Nell’immaginario collettivo gli ospedali sono considerati punti cruciali di “recupero delle vite”, sono relazioni con la sopravvivenza; allo stesso modo si può parlare di una “sopravvivenza dell’economia” di una nazione laddove le precitate relazioni vengano “infettate”.

Attaccarle per primi vuol dire essere uno stratega di guerra pericoloso!

Come un cecchino in guerra che mira all’ufficiale medico affinché non recuperi vite che vanno incontro a morte quasi certa. La perdita, in questo caso, è inevitabile.

Posizionarsi in una “base sicura” rimanendo nelle proprie case, rappresenta una scelta strategica a propria volta utile a combattere la minaccia. L’isolamento (per i soggetti infetti) o il semi-isolamento (anche per i soggetti sani) è una tattica difensiva attuata nel nostro modello contro l’attacco biologico del virus. Tuttavia, le “trincee domestiche” non sono esenti da altrettanti pericoli.

Insidie dell’isolamento

Se la parte iniziale dell’isolamento può essere fronteggiata in maniera efficiente, quasi come fosse una vacanza, in un secondo periodo la sensazione è di un vissuto in bianco-e-nero, l’esistenza “svuotata” dell’anima; accidia, aggressività, perdita di abitudini, manie di persecuzione e auto-dialogo negativo possono insorgere in molte persone. I social network sono uno specchio, una denuncia palese di questi disagi.

Certamente fa impallidire il paragone con il film la Trincea infinita, storia ispirata a fatti realmente accaduti in cui un uomo è costretto a nascondersi per oltre trent’anni dalla dittatura fascista. I militari, setacciando casa dopo casa, lo spinsero a calarsi in un mini bunker costruito sotto il pavimento divenuto la sua nuova “base sicura”.

Facciamo un passo indietro

Nella normale quotidianità, quella fatta di lavoro, famiglia, svago etc. il nostro corpo recita un modello psico-genetico “alterato” su base individuale, ambientale e di processi cumulativi (stile di vita, abitudini apprese etc.) abbinato ad un ingrediente che genera un’apparente libertà, sedazione  e sicurezza: il consumismo di massa, che si traduce nella possibilità di poter usufruire “illimitatamente” di ogni bene, anche a discapito della vita (es. allevamento intensivo degli animali).

Nel capitalismo avanzato in cui risiede, per dirla con J.K. Galbraith, la “società dell’opulenza” che l’uomo somigli al sapiens o ad una confezione di burro di arachidi, poco importa. Le necessità primarie vengono costruite, alla stregua dei prodotti commerciali da consumare indiscriminatamente. Anche l’uomo si configura come tale: un bene da consumare, parafrasando Matteo 5-26, “finchè non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”

Tutto è connesso

L’economia cambia la nostra psicologia. Si veicola un messaggio trascendente al nostro inconscio: eccesso di  sicurezza e di felicità, l’omnis per eccellenza: la tecnologia come strumento che sistema tutto col minimo sforzo; viaggi interstellari come simbolo di dominio su altri pianeti; spese folli per beni superflui; si inventano i bisogni, ma anche la vita (clonazione); ci si culla, come nello spot della famigerata Coca-Cola, in un “mondo senza confini” che ci sostituisce a Dio, come se avessimo un controllo su ogni molecola del cosmo o la storia la scrivessimo senza la partecipazione di meteoriti, terremoti o virus.

Ma il precitato sistema capitalista è apparentemente perfetto, è auto-alimentante: gestire una gran mole di persone con la creazione di nuovi bisogni di massa che generino, a propria volta, acquisti che alimentano il sistema stesso tramite una costante “spesa” di energia: il consumismo, appunto.

Livellare ogni individuo indebolendo, per poi asportare, il guscio dell’individualità. Una logica pericolosa in un’epoca in cui abbiano in casa un ospite indesiderato: un virus altrettanto pericoloso.

Questo è uno dei motivi che spiega l’approccio sistemico: il collegamento tra il nostro sistema immunitario e l’economia dove ne scaturisce la nostra salute mentale. Tutto è connesso.

Conclusioni

Comprendo che vi sareste aspettati che scrivessi di complessi psicologici in stato di isolamento e come affrontarli, ma sono dell’opinione che è bene parlare del contesto e delle relazioni di cui giornalmente viviamo, dato che il disagio, la felicità, la sicurezza e così via emergono naturalmente dal nostro ambiente. Sposo con questo articolo (ma non è detto che lo faccia con altri, dato che certe questioni richiedono “punti di vista molteplici”) la prospettiva di Hillman quando parla della pscioterapia: “[…] raramente i sintomi sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi, non sono evitati”.

Pur non partendo dal presupposto dell’inutilità della psicoterapia, vedo questo intervento come un cambio di traiettoria dal focus moderno proiettato a creare tecniche o rimedi indirizzati ad “aggiustare” questioni psicologiche che sono il risultato, direi fisiologico, di un ambiente, di un “eco-sistema” poco flessibile: tutto va bene fin quando non ci sono ostacoli.

Al di là di ogni considerazione sull’efficacia di alcuni approcci, c’è da prendere seriamente in carico una riconfigurazione totale della nostra società in un periodo che spinge a dare il massimo, sia al terapeuta che al singolo individuo costretto nella propria trincea domiciliare.

 

Gli anticorpi nel cervello innescano l’epilessia?

Certe forme di epilessia sono accompagnate dall’infiammazione di importati regioni cerebrali, una ricerca condotta dall’università di Bonn, pubblicata su Annals of Neurology, ha identificato un meccanismo che spiegherebbe questo collegamento, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici (Crespel et al., 2002).

 

L’epilessia può essere ereditaria. In altri casi, i pazienti sviluppano la malattia solo più tardi nella vita: a seguito di una lesione cerebrale, dopo un ictus o un tumore. Anche l’infiammazione delle meningi o del cervello stesso può provocare epilessia (Crespel et al., 2002).

Particolarmente pericolose sono le reazioni infiammatorie che colpiscono l’ippocampo, che è una struttura cerebrale che svolge un ruolo importante nei processi di memoria e nello sviluppo delle emozioni. I medici chiamano questa condizione encefalite limbica, tuttavia, in molti casi non è ancora chiaro che cosa causi tale infiammazione (Crespel et al., 2002).

I ricercatori hanno ora identificato un autoanticorpo che si ritiene sia il responsabile dell’encefalite in alcuni pazienti. A differenza dei normali anticorpi, non è diretto contro le molecole che sono entrate nell’organismo dall’esterno, ma contro le strutture del corpo. L’anticorpo è stato trovato nel liquido spinale dei pazienti con epilessia che soffrono di infiammazione acuta dell’ippocampo. I ricercatori hanno riscontrato un problema in questo anticorpo: questo è diretto contro la proteina Drebrin, che assicura che i punti di contatto tra le cellule nervose (sinapsi) funzionino correttamente (Pitsch et al., 2020).

Quando l’autoanticorpo incontra una molecola di Drebrin, la mette fuori uso e interrompe quindi la trasmissione di informazioni tra le cellule nervose. Allo stesso tempo avvisa il sistema immunitario, che viene quindi attivato e passa a una modalità infiammatoria, producendo ancora più autoanticorpi. Tuttavia, la proteina Drebrin si trova all’interno delle sinapsi, mentre l’anticorpo si trova nel fluido tissutale, quindi normalmente non dovrebbero mai entrare in contatto tra loro. Sembrerebbe che l’anticorpo riesca ad entrare come neurotrasmettitore all’interno della cellula nervosa (Pitsch et al., 2020).

Negli esperimenti di coltura cellulare i ricercatori sono stati in grado di mostrare cosa succede dopo il contatto tra le due molecole: poco dopo l’aggiunta dell’anticorpo, i neuroni nella capsula di Petri iniziano a sparare esplosioni rapide simili a mitragliatrici di impulsi elettrici. Questa forma di eccitazione elettrica è contagiosa, le cellule nervose, che sono interconnesse per formare una rete, iniziano improvvisamente a scaricare elettricità contemporaneamente, il tutto traducibile in due parole: attacco epilettico (Pitsch et al., 2020).

I risultati, come accennato in precedenza, danno speranza a nuovi approcci terapeutici. Ad esempio, sostanze attive come il cortisone possono sopprimere il sistema immunitario e quindi prevenire anche la produzione massiccia di anticorpi. In futuro, potrebbe anche essere possibile intercettarli e inibirli specificamente con determinati farmaci. Tuttavia c’è ancora molta strada da fare prima che le cure diventino disponibili; è importante specificare che questo approccio alla malattia gioverebbe principalmente ai pazienti con epilessia infiammatoria. Quindi, a differenza delle epilessie congenite, quelle basate sull’infiammazione potrebbero essere vicine ad una svolta terapeutica (Pitsch et al., 2020).

 

Varianti di setting

Fin da quando si muovono i primi passi nell’ambito della psicologia clinica e nella formazione come psicoterapeuti si incontra, a volte ci si scontra, con il concetto di setting, termine a cui variabilmente seguono svariati aggettivi: clinico, relazionale, terapeutico, etc etc.

 

In linea di massima, dopo tanti libri letti, tante supervisioni, intervisioni, discussioni, confronti e altro, abbiamo l’idea del setting come di un ambiente psichico e fisico, uno spazio che contiene la costruzione della relazione tra un terapeuta e un paziente, un dare e ricevere cura, allo scopo di renderla il più possibile efficace ed  utile per il paziente stesso. Efficace ed utile: come, per cosa e secondo quali linee di significato sono argomenti su cui, appunto, si può discorrere per ore, soprattutto con quegli  psicologi e psichiatri del servizio pubblico destinati, dato il contesto non propriamente analitico degli ambulatori,  ad innumerevoli  variazioni del setting stesso.

Quando immaginiamo un setting  quindi, pensiamo certamente ad un ambiente fisico, pensiamo  a delle regole contrattuali condivise nella relazione tra terapeuta e paziente ma, soprattutto, pensiamo a come quella relazione si costruisce e si colloca nella mente di entrambi nel qui ed ora dell’incontro e, ancor più, nelle memorie a breve e lungo termine. Dunque il setting è l’ambiente che protegge la costruzione della relazione terapeutica e un luogo sicuro per entrambi. Tutti questi elementi variano, inoltre, a seconda dell’ancor più ampio spazio, ambulatorio, studio privato ed altro, in cui terapeuta e paziente giocano la loro partita.

C’è qualcosa, tuttavia, che  rimane invariato e che, forse, mette tutti d’accordo: lo scopo  psicoterapeutico, ovvero accompagnare il paziente verso l’acquisizione ed incremento di consapevolezza sui significati personali con cui ognuno trasforma i fatti in esperienza, la storia precipua di questi significati  ed il tentativo di esplorare altre possibilità. Per compiere queste funzioni di profonda auto riflessività si ritenne, negli anni pionieristici della psicoterapia, che fosse necessario un contesto privo di “fatti attuali” o in corso, poiché essi sarebbero stati una perturbazione rispetto alla concentrazione necessaria per guardarsi dentro e per poter attribuire finalmente a sé quanto accadeva, in assenza di ogni altro stimolo.

Ecco quindi che gli sforzi si orientarono, idealmente, verso il concetto di neutralità del setting terapeutico: uno spazio vuoto, dove il terapeuta è discreto, un po’ amorfo, nemmeno lo si vede, dà maggiore libertà ed il paziente, privo finalmente delle preoccupazioni anche minime che ogni tipo di relazione umana comporta per il semplice fatto che si guarda e si è guardati, parla a se stesso, può prendersi cura di sé e può sperimentare il benefico sollievo dell’essere ascoltati in modo non giudicante e altruistico. Chiunque abbia sperimentato il passaggio dalla poltrona della stanza analitica, vis a vis con il terapeuta, al  famoso divano con l’analista defilato, conosce quel tipo di sollievo.

Winnicott, che si occupò molto di specificare il concetto di setting, scriveva:

questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio, una stanza tranquilla, al riparo da rumori improvvisi ed imprevedibili senza, tuttavia, che vi sia un silenzio di tomba o che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o variabile. La stanza non è certamente buia e deve essere calda e confortevole. Il paziente si sdraia sul divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a stare. Può eventualmente disporre di una coperta e di acqua da bere.

Insomma, l’ambiente deve essere il più possibile confortevole da un punto di vista fisico ed un luogo sicuro, dove si sente di poter essere così come si è, senza essere giudicati o abbandonati. Per questo motivo è opportuno che la stanza della terapia non sia troppo connotata da aspetti personali del terapeuta; non è opportuno tenerci un mezzo busto di Mussolini, o un poster del Che Guevara, simboli politici, religiosi od oggetti che mostrino aspetti importanti della vita del terapeuta. La self disclosure può essere utilizzata, ma come strumento terapeutico e ad uso e beneficio esclusivo del paziente, al momento opportuno e per scopi chiari nella mente del terapeuta, non per fare sfoggio o mostrare competenze del terapeuta, ad esempio, come tennista provetto certificato dalla sfilata di coppe e coppette.

Tuttavia, si vide in seguito che era un po’ illusorio, perfino un po’ ingenuo pensare di eliminare ogni tipo di perturbazione, poiché la presenza del terapeuta nella mente del paziente, come il primo veniva fatto accomodare nella più intima, profonda interiorità del secondo, era un fatto che, pur privo di elementi concreti, disegnava i chiaroscuri della relazione e della direzione nell’apertura di sé del paziente. Così, per immunizzare dalla presenza del terapeuta, sono state compiute due operazioni: da un lato il tentativo impossibile di renderlo impersonale, in alcun modo connotato, voce fuori campo incolore, inodore ed insapore; dall’altro, su queste premesse, di interpretare la relazione terapeutica, più fantastica che reale, come il prodotto esclusivo del mondo di significati con cui ogni paziente costruisce la sua intera esperienza esistenziale

Con ciò la terapia, soprattutto ad orientamento analitico, è divenuta per massima parte l’analisi del transfert: la scoperta del senso che la persona attribuisce alla realtà non avviene solo attraverso l’analisi dei fatti, eventi esterni della vita del paziente, da lui narrati ma, in primis, con l’analisi dei sogni insieme all’analisi del suo modo di costruire la relazione con il terapeuta stesso.

Tutto bene fino al punto in cui, negli anni e in certi ambienti clinici, è avvenuto un ribaltamento tra mezzi e finalità e l’ortodossa ritualità del setting è divenuta più importante della funzione psicoterapeutica di cui il setting è il principale fattore di protezione; per dirla in termini evangelici il sabato è divenuto più importante dell’uomo per cui fu creato. Freud, infatti, non dedicò molti scritti teorici sull’argomento, limitandosi a dare l’esempio con la sua pratica clinica a cui, nella Vienna della bella epoque, dedicava presso la sua abitazione trenta ore settimanali, ovvero cinque pazienti ognuno a  cinque sedute settimanali dal lunedì al venerdì.

Furono i suoi collaboratori e colleghi, successivamente, a formalizzare regole che, appunto, diventarono più importanti dello spirito pionieristico che le aveva prodotte, se non addirittura contrarie ad esso. Si pensi ad Ernst Lanzer, più noto come l’uomo dei topi, cui Freud offriva durante le sedute tè ed aringhe.E tutto bene finché dello spazio terapeutico usufruiscono quei pazienti che, nel nostro stringato e un po’ riduttivo linguaggio condiviso, chiamiamo nevrotici o a “buon funzionamento”.Quelle persone, cioè, che pur avendo aspetti di sofferenza che compromettono o limitano alcuni tempi dell’esistenza quotidiana, anche con difficoltà, riescono ad avere legami affettivi o a lavorare, studiare, appartenere ad un gruppo sociale, divertirsi etc

Discorso un po’ diverso per quelle persone il cui funzionamento è gravemente compromesso, disturbi di personalità, dell’umore, o del tutto frantumato, le psicosi. Questi pazienti, cosiddetti difficili, se non inguaribili, e che pure rappresentano il cuore della nostra professione, in modo particolare quando il nostro lavoro è legato agli ambulatori del servizio pubblico, pur accettando, più di buon grado di quanto si creda, l’ora di colloquio individuale, sembrano ogni volta ricominciare da capo. E a nulla serve allungare la durata dei singoli incontri o moltiplicarli, che alquanto fragile è la capacità di stare intimi, consapevoli e presenti in una relazione duale. E’ come se quel varco che intravediamo alla fine dell’ora non avesse modo di stabilizzarsi nella mente come un passaggio verso nuove conoscenze di sé. All’incontro successivo si ricomincia da capo.

Già solo questa considerazione ci dà un’idea di quanto antiche e radicate siano le credenze su di sé, e sugli altri, che generano la sofferenza del paziente. Sembra una tela di Penelope, ciò che il paziente insieme al terapeuta ricama durante il colloquio si disfa nei giorni e nelle notti tra un colloquio e l’altro. Anche gli homework, pur utili, non sembrano prolungare il contesto terapeutico oltre l’ora della seduta. Non basta, non pare sufficiente. Non basta l’empatia e la pazienza, quella pazienza del terapeuta che, volta dopo volta, ripete e ripete e contestualizza lo stesso significato problematico all’interno delle diverse esperienze di vita , passate e presenti, del paziente. Non basta la disponibilità del paziente e la sua sofferenza che, anche se motore del cambiamento, alimenta al contempo la rigidità e l’impermeabilità dello stato mentale: di fronte ad un vissuto doloroso egli si ancòra di più nelle convinzioni, nei sentimenti e negli affetti pregiudiziali che in un tempo lontano gli furono utili e magari salvavita. Alcune emozioni, più che intense, di questo tipo di paziente sono impotenza e paura, rabbia e disperazione. Lo stato clinico è una depressione come vuoto immenso. Sul piano cognitivo metaconvinzioni radicate e irrisolvibili: niente cambierà mai, non ho speranza, sono sfortunato, è tutta colpa mia, è tutta colpa degli altri

Il tentativo di neutralità, in cui tutto è interpretabile come attribuzione di significati del paziente è, in questi casi, un modo di semplificare la cura, riducendo a perturbazioni disturbanti e da silenziare quelle informazioni che, se si ampliano i confini, si trasformano da rumore di fondo in elementi essenziali, evolutivi e molto significativi. Esercitare la funzione psicologica e psicoterapeutica in un contesto articolato come la vita quotidiana, in cui il mondo di significati del paziente viene rappresentato in ogni gesto, in ogni interazione, in ogni parola o silenzio è molto complesso, ma anche molto arricchente per tutti; necessita di terapeuti curiosi, che devono circondarsi di autorevolezza, mentre mangiano o disegnano con il paziente, che devono continuamente cercare punti di equilibrio tra proteggere la propria privacy e raccontarsi, che devono coltivare l’attitudine allo sperimentare continuamente forme nuove di relazione con la curiosità dello scienziato e dell’umanista e non farsi intimorire dai pregiudizi personali, dalle immagini – mito della storia della psicologia clinica.

Brunella Coratti: varianti di setting, un’esperienza personale

Sono psicologa e psicoterapeuta nel Dipartimento di Salute Mentale da tanti anni, ho iniziato nel 1989, ho conosciuto diversi servizi, diversi modi di lavorare e incontrato decine di pazienti. Ho una formazione solida e, soprattutto, l’attitudine a non voler mai smettere di imparare, perciò leggo e studio da sempre e cerco risposte alle domande che mi sono posta attraverso il tempo o che altri, i pazienti, i familiari mi hanno fatto. Ho sempre apprezzato il confortevole setting individuale della psicoterapia, con un’attenzione particolare alle caratteristiche di una relazione di cura, ed in questo setting mi sono sempre mossa con tutti i pazienti, anche e soprattutto quelli definiti gravi, parola importante e dai poliedrici significati.

Lavorare in un DSM è un’esperienza molto coinvolgente che può turbare, nel tempo, ogni tipo di solida formazione. Soprattutto se si lavora con mente aperta e curiosa si dubita, fortunatamente, di una certa rigidità che accompagna ogni ottimo percorso formativo che si traduce, talvolta, nell’affermazione “abbiamo ragione solo noi”. Il DSM ha un’organizzazione complessa costituita da servizi molto differenziati tra loro per scopi ed attività cliniche, ormai talmente noti nelle loro funzioni da rendere superfluo, in questa sede, specificarli ulteriormente. Basti ricordare che esistono ambulatori, comunità terapeutiche, centri diurni, strutture residenziali e semiresidenziali e reparti ospedalieri dedicati. E consideriamo, inoltre, la varietà di figure professionali che costituiscono un’equipe. Dunque, ogni singola interazione terapeuta/paziente porta con sé, neanche troppo sullo sfondo, le interazioni che il paziente ha e ha avuto con altri operatori o con altre strutture; si pensi al paziente dimesso dal reparto SPDC o dalla comunità, cosa porta con sé nel colloquio clinico con lo psicologo.

Ogni psicoterapia, nel DSM, risente benevolmente di tutto quello che ruota intorno ad essa ed ecco perché il concetto stesso di setting e la possibilità di farne un’approfondita analisi ed un oggetto di attenta supervisione acquista un significato fondamentale nel trattamento dei pazienti gravi.

Un paio di anni fa, nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale dove lavoro, ho assunto la responsabilità di apertura e gestione di un nuovo Centro Diurno per giovani, l’età dei quali si colloca tra i 18 e i 25 anni. Il Centro Diurno è una struttura semiresidenziale con apertura mattina/sera che accoglie pazienti complessi, per diagnosi, numero di ricoveri, storia di vita etc,  proponendo attività terapeutiche e riabilitative. Così, nel giro di una manciata di mesi mi trovo a muovermi dal più confortevole e per me più agevole setting individuale ad una dimensione di cura perennemente gruppale: il Centro Diurno è luogo di gruppo per eccellenza, i giovani vivono nel gruppo e per il gruppo che li connota e li definisce anche quando, o soprattutto quando, ne sono spaventati o sono ai margini.

Già possiamo intravedere qui un primo scenario in azione, le relazioni sociali.

In più io stessa, assumendo un ruolo di responsabilità, ho il dovere professionale di gestire un piccolo, variabile gruppo di operatori, e me, all’interno di questa mini equipe: ognuno di noi  è benevolente e curioso, la motivazione è forte e, anche se spesso siamo tramortiti dalla burocrazia, “mi piego ma non mi spezzo” sembra circolare nell’aria del Centro. Ci rompiamo la testa per iniziare da qualche attività sostenibile, poiché, avendo in generale scarse risorse materiali ed economiche, poco possiamo mettere in pratica di quanto grandiosamente progettato all’inizio; dobbiamo appellarci esclusivamente  alle nostre competenze professionali e partire da lì, cosa può offrire ognuno di noi, studiamo e ristudiamo molto, leggiamo, ci confrontiamo, ci curiamo reciprocamente l’ansia e formiamo vari tipi di gruppi.

Secondo scenario, interazioni nel sottogruppo operatori

Ci accorgiamo che, seppure orientata in modo diverso, l’attività gruppale, che sia skill training, psicoterapia, psicoeducazione, laboratori etc. converge in modo armonico e naturale verso uno scopo: dare una mano ai nostri giovani pazienti a conoscersi un po’ di più, stimolando una curiosità verso se stessi che favorisca parole nuove, non pregiudiziali, ampliare la consapevolezza, favorire la riflessione e la conoscenza, non aver paura delle emozioni e dell’interiorità e, non ultimo, scoprire il significato del disturbo che li accompagna che, per i nostri giovani ma già molto disorganizzati utenti, non è solo un sintomo isolato in una persona comunque funzionante, è un gruppo di sintomi  in una struttura psichica scricchiolante, ancorché sconosciuta e perciò fragile. Ci viene in mente come si autodescrivono  questi pazienti o meglio, come non riescono a farlo: per raccontare una poliedricità di esperienze con infinite sfumature utilizzano quasi sempre un unico concetto ampio e polarizzato “sto bene” / “sto male”. Chi ascolta la loro storia di vita, se attento, coglie clichè, idee pregiudiziali, frasi fatte riprese da chissà quale figura di riferimento, un genitore, un insegnante, diagnosi a buon mercato prese in prestito da un consulto medico o da internet. Mentre parlano, nel silenzio di un vero ascolto, sono annoiati, spaventati nel migliore dei casi, trascurati e superficiali, sono certi che non interessa a nessuno poiché non interessa nemmeno a loro stessi e non c’è tempo da perdere in chiacchiere.

Terzo pattern, le parole condivise.

Un gruppo di operatori facilita la differenziazione delle parole necessarie ad una persona per rappresentarsi a sé e ad altri in un modo più vero; queste parole, a prescindere dall’aspetto fisico, da come si è vestiti o da come è andata la propria vita sociale, scolastica, familiare, sono parole nuove, più specifiche, una diversa  possibilità di avvicinarsi e farsi conoscere. Ci viene in mente quel momento della vita in cui si comincia a parlare: per imitazione, attraverso l’ascolto, attraverso parole inventate che fanno ridere o attraverso l’esperienza, nasce un vocabolario che allarga gli orizzonti conoscitivi di un bambino e favorisce l’esplorazione.

E, infine, c’è un’altra dimensione terapeutica in queste strutture: uno spazio quotidiano, fatto di gesti, espressioni, battute, gioco, attività in comune, chiacchiere, un’immenso deposito di possibilità di cura che si apre agli occhi dell’operatore attento. E’ in particolare tramite questa molteplice concretezza che, soprattutto i giovani, si aprono all’ascolto e all’osservazione dei commenti altrui e, attraverso questa apertura, apprendono e fanno diretta esperienza di aspetti della relazione come l’accettazione, la fiducia, la possibilità di piacere o di essere ascoltati perché dicono o fanno cose interessanti. E’ questo rispecchiamento concreto che permette a pazienti così faticosamente ricettivi nei contesti individuali di mettere in discussione le loro coriacee e fosche convinzioni rispetto a sé e agli altri ed iniziare a pensare che forse ci sono alternative più piacevoli per la loro vita ed il loro futuro. La concretezza della vita comunitaria quotidiana, gesti, azioni, comportamenti, impatta in modo spontaneo ed immediato su funzioni psichiche importanti quali l’autoriflessività, la teoria della mente, l’empatia, la comprensione del punto di vista altrui, il distanziamento dal proprio punto di vista, la differenziazione, etc.

Il senso dell’umorismo, di cui questi giovani non sono mai privi, è colorante essenziale delle interazioni tra loro e tra pazienti ed operatori. Tutti abbiamo esperienza di quanto sia terapeutica una risata, di quanto possa alleggerire una conflittualità, rinforzare un’alleanza, stabilire una complicità, rasserenare una giornata, farsi conoscere su altri aspetti di sé che non riguardino solo la propria problematicità e il proprio disturbo.

L’esperienza preziosa che fanno i pazienti in semiresidenza è che alcune persone, coetanei e non, li conoscono e riconoscono a prescindere dalla loro patologia e ne vedono e confermano qualità per troppo tempo segrete. Una domanda interessante da fare è: chi sei tu a parte il tuo disturbo? Come ti descriveresti? Quali sono i tuoi pregi, le tue risorse? Ci siamo accorti che di queste domande si ignora completamente la risposta; se già nella descrizione del disturbo si è  laconici e vaghi, tutto il resto è sconosciuto.

Comprensibile se riflettiamo, analizzando le anamnesi, sull’identità fortemente negativa che si è venuta strutturando sia nell’ambiente scolastico e, di conseguenza con i coetanei, sia in famiglia. Quasi tutti questi pazienti hanno una diagnosi di ADHD, di DSA, qualcuno ha avuto il sostegno, sicuramente un rendimento piuttosto basso, esperienze gravi e dolorose di bullismo, di emarginazione sociale, ambienti familiari superficiali, trascurati o, al contrario fortemente controllanti: che opinione possono avere di loro stessi? Che tipo di autostima?

Questo è il quarto scenario, ultimo ma fondamentale nella nostra esperienza, proprio per coadiuvare il setting individuale e rinforzare l’accettazione di sé preludio di un cambiamento.

Il limite, che è stato descritto molte volte, è che l’operatore psichiatrico rischia di diventare l’amicone del cuore e quindi perdere di autorevolezza, rischio peraltro presente anche in setting individuali e direttamente connesso ai bisogni relazionali inconsapevoli del terapeuta. Nella nostra esperienza non è così, almeno in questa fascia di età dei pazienti di cui qui raccontiamo. Non è così quando lo psicologo sta attento a mantenere attiva e nitida, nella relazione terapeutica, la dimensione di accudimento, di nutrimento, nello specifico io curo/tu ricevi, io  dò/ tu prendi, io insegno/tu apprendi, ed in questo senso non si è paritari, c’è differenza ed è proprio questa meravigliosa differenza che permette quelle esperienze correttive di cui questi ragazzi hanno fame e bisogno. Gli stimoli per il cambiamento passano attraverso una dimensione accudente, realisticamente sicura e costante, dove è condivisa la responsabilità della cura, nel senso della compliance, ma non le conoscenze. Questa quarta ed ultima dimensione, che consideriamo essenziale, è quella che va più monitorata dallo psicologo che lavori nei centri residenziali e semiresidenziali, per non incorrere in fraintendimenti, confusioni o altro.

Molto importante  il confronto all’interno del gruppo di lavoro ed il sostegno reciproco, l’umiltà di riconoscere un proprio, intimo, bisogno di aiuto, senza per ciò sentirsi meno bravi, una frequente supervisione ed auto osservazione e, soprattutto, serve la “mente del principiante”. La mente del principiante ha a che fare con l’atteggiamento di apertura, curiosità ed assenza di pregiudizi. E’ quando si osserva qualcosa per la prima volta, nella mente del principiante sono presenti tutte le possibilità e l’osservazione è accompagnata da stupore, nonostante certe esperienze possano essere riconoscibili o note. E’ osservare senza pretesa di sapere già tutto, senza entrare in modalità competitiva, ma lasciandosi ricettivi e disponibili.

Pasti assistiti: il supporto ai pazienti con Disturbi dell’Alimentazione

Durante i momenti dedicati ai pasti, il supporto attraverso i pasti assistiti offerto da operatori esperti e adeguatamente formati (generalmente dietisti, psicologi o infermieri professionali) ha come fine generale quello di favorire nel paziente una riattribuzione di valenza positiva al significato e alla funzione del cibo come nutrimento.

 

I Disturbi dell’Alimentazione (DA) sono caratterizzati dalla presenza di comportamenti alimentari disadattivi che comportano un’alterazione del consumo e dell’assorbimento di alimenti, compromettendo significativamente la salute fisica e il funzionamento psicosociale, come riportato nel DSM-5 (APA, 2013). Questa categoria diagnostica comprende l’Anoressia Nervosa (AN), la Bulimia Nervosa (BN) e il Binge Eating Disorder (BED o disturbo da alimentazione incontrollata), tre patologie che in Italia hanno una percentuale di prevalenza sempre più elevata e preoccupante tra la popolazione (in particolare tra gli adolescenti e le donne adulte): 0,5-1% AN; 1-3% BN; 10% forme subcliniche (Regione Lombardia, Decreto N.4408 del 18.04.2017).

I pazienti con DA vivono il momento del pasto come “naufraghi in un mare in tempesta”: in continua balia di pensieri disfunzionali, inghiottiti e sopraffatti dal loro personale oceano di forti emozioni negative. I sintomi della malnutrizione, la sensazione di pienezza, l’utilizzo di condotte compensatorie (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo) e la diminuzione della motivazione rappresentano sostanziali ostacoli che impediscono il mantenimento di un corretto regime alimentare. Tali difficoltà possono rappresentare rischi non indifferenti per la salute clinica, soprattutto per i pazienti sottopeso.

Nei centri ospedalieri e specializzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, in forma residenziale, semiresidenziale e ambulatoriale day hospital, viene sempre più spesso utilizzata una particolare procedura di riabilitazione psiconutrizionale: il pasto assistito (Ministero della Salute, 2013; 2017). Durante i momenti dedicati ai pasti, il supporto offerto da operatori esperti e adeguatamente formati (generalmente dietisti, psicologi o infermieri professionali) ha come fine generale quello di favorire nel paziente una riattribuzione di valenza positiva al significato e alla funzione del cibo come nutrimento. Nello specifico, le Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale dei disturbi dell’alimentazione redatte dal Ministero della Salute nel 2017 indicano come obiettivi specifici: la normalizzazione del comportamento alimentare inteso secondo parametri di frequenza, quantità e qualità dei pasti; l’incremento ponderale nei pazienti sottopeso o il mantenimento del peso; la gestione efficace dell’ansia legata al cibo e alla sua assunzione; l’interruzione dei rituali alimentari, se presenti; la rivalutazione del valore biologico e sociale dell’atto di nutrirsi; il sostegno nella fase post-prandiale.

CIP MILANO - BANNER SOMGli operatori che offrono assistenza sono chiamati a creare condizioni ambientali e relazionali favorevoli (Salvo, 2018), applicando specifiche procedure per aiutare i pazienti in caso di difficoltà. L’educazione, la distrazione, il supporto e l’osservazione attraverso uno sguardo attento e non giudicante rappresentano gli elementi chiave di questo processo (Ministero della Salute 2013; 2017; Salvo, 2018).

Ai pazienti con DA va garantito sostegno emotivo prima, durante e dopo il pasto, favorendo la gestione efficace di quell’ondata di sensazioni fisiche (senso di fame e sazietà), emozioni e pensieri negativi che non risultano attendibili a causa degli effetti della malnutrizione e diminuendo, ove presenti, i rituali alimentari messi in atto. L’operatore, da osservatore esterno e competente, monitora i comportamenti disfunzionali dei pazienti e interviene nel momento di difficoltà, facilitando la progressiva riacquisizione della capacità di alimentarsi in maniera adeguata e autonoma.

Tale procedura guarda al paziente come parte attiva del cambiamento: la condivisione delle modalità, delle caratteristiche proprie del pasto assistito e il suo coinvolgimento cooperativo risultano non solo fondamentali per la buona riuscita del trattamento, ma anche ottime strategie per ridurre i casi di drop-out, favorendo la percezione di “sentirsi in controllo”.

I programmi di cura che includono la pratica del pasto assistito offrono vari vantaggi: per il paziente, il supporto al pasto rappresenta la possibilità concreta di una riduzione della durata dei ricoveri e dell’utilizzo di metodi di rialimentazione prescrittivi e invasivi; per i membri dell’équipe, invece, esso può offrire l’opportunità di stabilire e rafforzare un rapporto di fiducia con il paziente, estrapolando osservazioni utili per il trattamento psicoterapeutico e nutrizionale.

 


CONTATTI:

Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano
Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
– Telefono: 02 36725912
– E-mail: [email protected]
– Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19 (In ottemperanza alla legge per la tutela dei dati personali le informazioni di tipo sanitario non vengono fornite al telefono e la consegna di certificati e copie della documentazione clinica sono rilasciate unicamente all’interessato o a persona da lui delegata per iscritto).

 

 

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte III: la prosodia nella Depressione Maggiore e nel Disturbo Bipolare

Per quanto attiene i Disturbi dell’umore, la letteratura scientifica internazionale evidenzia come pazienti con Depressione Maggiore mostrino una compromissione nel riconoscimento delle emozioni veicolate attraverso la prosodia, mentre per quanto riguarda il Disturbo Bipolare la letteratura riporta risultati sostanzialmente simili sia per quanto riguarda l’elaborazione emotiva veicolata attraverso l’espressione dei volti che per quanto riguarda la capacità di riconoscimento emotivo attraverso la prosodia.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – La prosodia nella Depressione Maggiore e nel Disturbo Bipolare (Nr. 3)

 

Come noto, una corretta interpretazione dei segnali dell’altro, in questo caso a contenuto emotivo, è fondamentale per il buon funzionamento nelle interazioni sociali. Sotto il profilo acustico i segnali rilevanti da un punto di vista della cognizione sociale possono essere espressi verbalmente, in modalità semantica, o non verbalmente, in modalità prosodica, i quali sono generalmente percepiti come fonte di informazioni maggiormente affidabile circa i sentimenti dell’altro (Jacob et al., 2013a, 2013b, Koch et al, 2018). Nei nostri setting di psicoterapia tale capacità può essere valutata attraverso la storia e l’osservazione clinica comportamentale dei nostri pazienti, quali la capacità, durante il colloquio, di veicolare emozioni per mezzo dell’espressione facciale, la gestualità, la voce, il linguaggio corporeo, le risposte emozionali durante le interazioni, sia a colloquio con noi che nelle dinamiche familiari (Blundo, 2011).

Da un punto di vista neuroanatomico la prosodia si esprime in un circuito neurale situato prevalentemente nell’emisfero destro, in particolare nella regione temporale superiore, nel lobo e nelle regioni posteriori del solco temporale, rispettivamente per quanto riguarda la percezione e l’astrazione dell’informazione uditiva ed il processo di rappresentazione di significato di quanto udito. La valutazione del contenuto emotivo della prosodia sembra invece mediata dalla corteccia frontale inferiore bilaterale (Wildgruber et al., 2004; 2005; 2006; Ross, 1981; Buchanan et al., 2000; Kotz et al., 2003; Mitchell et al., 2003).

La letteratura propone un modello secondo il quale lesioni dell’emisfero destro, in corrispondenza delle zone sinistre responsabili delle classiche afasie, possano determinare disturbi nella prosodia a valenza emotiva. Nello specifico si evidenzia come una lesione nella regione temporo-parietale destra possa esprimersi in un’aprosodia nella funzione recettiva, mentre una lesione nella regione dell’opercolo frontale, nella corteccia e nella sostanza bianca, possano produrre un’alterazione della prosodia nella sua funzione espressiva (Ross, 2000).

Per quanto attiene i Disturbi dell’umore, la letteratura scientifica internazionale evidenzia come pazienti con Depressione Maggiore mostrino maggior compromissione, rispetto al campione di controllo di soggetti sani, nel riconoscimento delle emozioni veicolate attraverso la prosodia (Wildgruber et al, 2004; Uekermann et al., 2008).

Così come già approfondito per quanto riguarda l’elaborazione delle emozioni facciali (Parte I e Parte II di questa rubrica; per una review completa vds Cusi et al. 2012, Turchi et al., 2017), anche in questo caso si evidenzia una distorta interpretazione delle emozioni neutre, come ad esempio la sorpresa, valutate piuttosto come emozioni a valenza negativa (Naranjo  et al., 2011; Kan et al., 2004) nonché compromissioni nella capacità di identificazione delle emozioni, sia a valenza negativa che positiva, attraverso il tono della voce (Wildgruber et al., 2006; Ross, 1981). Si riscontrano, infatti, in questi pazienti, una tendenza a sottovalutare le informazioni emozionali a valenza positiva (Schlipf et al., 2013) nonché una compromissione nell’elaborazione della tristezza ed un’alterazione nel riconoscimento di emozioni a valenza negativa, sempre espresse attraverso il canale prosodico (Pang et al. 2014; Peron et al., 2011). Tali compromissioni non sembrano essere in correlazione con la gravità della sintomatologia depressiva e sono state quindi proposte come possibile alterazione di tratto, caratteristico del disturbo (Schlipf et al, 2013; Pang et al., 2014).

In linea anche un recentissimo studio che, per la prima volta, ha preso in esame la valutazione esplicita di contenuti emozionali espressi attraverso il canale della prosodia sia a livello neurale che comportamentale, il quale conclude per una distorta attribuzione, nei pazienti con Depressione maggiore confrontati con il campione di controllo di soggetti sani, a carico delle emozioni prosodiche a valenza positiva. Lo studio mostra inoltre un’aumentata attivazione dell’amigdala, bilateralmente, nell’elaborazione dell’informazione emozionale prosodica, probabilmente associata alle compromesse strategie di regolazione emotiva nei soggetti con Depressione Maggiore, già ampiamente note in letteratura. Secondo gli autori la maggior attivazione dell’amigdala, in questo senso, potrebbe essere interpretata come meccanismo di tentata compensazione rispetto alla distorsione nell’elaborazione di stimoli a contenuto emotivo, allo scopo di favorirne una percezione più accurata. Al tempo stesso, però, l’alterata percezione delle emozioni a valenza positiva, caratteristica dell’Episodio Depressivo Maggiore (Cusi et al, 2012 ; Turchi et al. 2016; 2017), contribuisce a mantenere in atto la sintomatologia depressiva, ostacolando di fatto il tentativo di recupero (Koch et al., 2018).

Per quanto riguarda il Disturbo Bipolare la letteratura riporta risultati sostanzialmente simili, sia per quanto riguarda l’elaborazione emotiva veicolata attraverso l’espressione dei volti (Cusi et al. 2012, Turchi et al., 2016) che per quanto riguarda la capacità di riconoscimento emotivo attraverso la prosodia (Murphy & Cutting, 1990; Bozikas et al. 2007). Di eventuali specifiche differenze da un punto di vista neurofunzionale ci occuperemo invece nella prossima parte della rubrica.

I soggetti con Disturbo Bipolare in questo caso, così come quelli con diagnosi di Schizofrenia, confrontati con i controlli sani, mostrano una minor attivazione dell’amigdala, del giro temporale superiore bilaterale, dell’uncino dell’ippocampo e del giro frontale inferiore destro, durante l’ascolto passivo di intonazione vocale veicolante un contenuto chiaramente emozionale, nonché un aumento di attivazione neurofunzionale nel giro temporale superiore sinistro durante l’elaborazione di stimolo prosodico emozionale non filtrato. Il fatto che non si riscontri un’attivazione nelle aree dell’emisfero destro, prefrontali e temporali, essenziali per la funzione di riconoscimento della prosodia a contenuto emotivo, fa pensare ad una compromissione, a livello neurale, nella capacità di elaborazione di tale stimolo (Mitchell et al., 2004).

Ad oggi non sono disponibili studi che riguardino l’influenza dello stato di umore, del trattamento di farmacoterapia, dell’età e della storia di malattia sulla risposta neurale nell’elaborare stimoli prosodici a contenuto emozionale per cui la materia meriterebbe ulteriori approfondimenti.

Dal nostro punto di vista la comprensione di tali aspetti risulterebbe molto importante poiché un buon funzionamento globale del paziente, ivi compresa la dimensione sociale, aspetto fondamentale che riguarda la vita di ciascuno di noi sotto il profilo sia affettivo che professionale, risulta direttamente collegato alla qualità di vita percepita ed alla probabilità di ricadere in un nuovo episodio dell’umore. Iniziare a prendere in considerazione le abilità di Social Cognition (Couture, Penn e Roberts, 2006), comprese quelle veicolate dalla prosodia, potrebbe risultare quindi molto utile nel lavoro di psicoterapia con persone affette da Disturbi dell’umore, per cercare di valutare e migliorare il funzionamento globale della persona e, in questo modo, prevenire il più possibile la ricaduta che, a sua volta, come noto, porta a maggiori compromissioni sotto diversi profili. E’ infatti ormai necessario, vista la complessità psicopatologica di questi disturbi, effettuare una valutazione ed una progettazione dell’intervento, evidence based, che non prescinda dal percorso epigenetico della persona.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

 

Aperitivo Skype ai tempi del Coronavirus

Sento la vicinanza di tutti con questo aperitivo online, i progetti futuri sono solo rimandati. “Dove lo faremo il viaggio?”. La testa viaggia in posti nuovi. Percepisco un po’ di tristezza nei volti di tutti. Come se all’improvviso ci fossimo ricordati di come stanno realmente le cose. Degli affetti lontani, della preoccupazione per la salute di persone care più anziane.

 

Ho stappato un Riesling del 2015. Ah che storia! Il suo colore dorato restituisce la luce in questo momento buio. Gli idrocarburi al naso si confondono in bocca con la frutta, un succo dolcissimo. Rido perché mi ricorda il gelato “Fior di Fragola” che mangiavo da bambina, fragola e panna insieme. Dopo più di un anno di corso per diventare sommelier, i miei compagni di viaggio appena mi sentono esplicitare questa sensazione iniziano a ridere: “Ele ma che dici?! Ma non è possibile! Ci dici solo questo dopo mesi di lezione?!”.

Stefano è a casa sua e sorseggia anche lui un Riesling Renano del 2017, il colore è di un giallo paglierino con riflessi verdolini. Lui ci sente gli agrumi e sentori di erbe aromatiche. La moglie appare e scompare dietro di lui nello schermo, pian piano diventerà una di noi. Stefano è il nostro “leader” ed è bravo nel ruolo. Organizza, sprona, aiuta, cazzia quando necessario.

Roberta beve un rosé di uve di Negroamaro, come dice sempre Stefano, lei è un cane da tartufo, ha un olfatto incredibile. Ci descrive i profumi del vino e sembra di stare lì ad assaporarlo insieme. Il bocciolo di rosa, la fragolina di bosco, la mineralità data dalla pietra focaia. Il vitigno pugliese ci porta con la mente al mare azzurro e alle estati calde che tutti attendiamo.

Pia e il suo ragazzo hanno fatto “un’uscita” separati: il compagno è collegato con i suoi amici da un altro portale (sempre per un aperitivo virtuale), lei invece è connessa qui con noi. La prendiamo in giro perché beve quasi sempre vini biodinamici, stavolta una Garnacha (quella che noi chiamiamo Cannonau per capirci) coltivata a 1200 metri sulla Sierra Andalusa. La sorprende il bellissimo color rubino, vivido e cristallino. Ci dice… “sento quel sentore classico dei vini biodinamici”, noi in coro “eh certo, animale, pelliccia, stalla!!!”. Sorride e si rassegna alle opposizioni del gruppo.

Marco ci dice che l’ultimo decreto non è stato annunciato. Ancora non sappiamo che fine faranno i lavoratori autonomi con partita IVA. Lui è pacato e composto, apre la sua bottiglia, un assemblaggio di uve Petit Rouge, Vien de Nus, Fumin e Cornalin. Sapidità importante, ci dice, e si nota dall’espressione che fa nel descriverla. “Oggi sono uscito con il cane a passeggio. Volanti dei carabinieri in giro… sembra di stare in dittatura, con i controlli costanti. Sai che non stai facendo nulla di male ma ti sale comunque l’ansia”, ci racconta Marco. “Ieri sera ho rivisto The Truman Show… cavolo sembra di essere nel film, sento gli occhi puntati addosso della gente, mi sento controllata anche io”, lamenta Pia. Il virus non lo possiamo vedere ma cerchiamo di scrutarlo nello sguardo degli altri, lo intravediamo in un colpo di tosse, in uno schiarirsi la gola. Forse è lui, stiamo alla larga.

Più tardi arriva Nicola, stravolto in volto, gli dico: “Hai già bevuto, eh?”. Lui mi dice di no, ma che comincerà ora e continuerà ad oltranza. “Eh appunto! Immaginavo azioni bellicose!”. Stappa una Bonarda dell’Oltrepò Pavese del 2016, Croatina in purezza. Stefano sorride perché è uno dei suoi vini preferiti. Nicola ci sente la ciliegia e il pepe nero. I tannini si fanno sentire ma sono gradevoli in bocca. Ne beve un altro goccio assorto nei suoi pensieri. Gli siamo tutti molto vicini, domani lui è l’unico tra noi che andrà a lavoro.

Con me c’è mia sorella (in questo momento le nostre case, divise solo da un cancello in giardino, sono la nostra salvezza) e per un paio d’ore sembra che nulla sia cambiato. Sento la vicinanza di tutti, i progetti futuri sono solo rimandati. “Dove lo faremo il viaggio?”, “Bolgheri? In Champagne? Oppure in Rioja?”. La testa viaggia in posti nuovi, immaginiamo i vitigni illuminati dal sole, le cantine in cui degustare, l’aria fresca da respirare. Stefano ci ricorda la bellezza della Valpolicella. Vedo le foto, che meraviglia.

Roberta sente la mancanza del suo ragazzo, stessa città ma divisi. Parla con mia sorella, abbattuta anche lei per la distanza dall’amato. Dovevano andare insieme a Vienna ma il viaggio è stato annullato. Cerchiamo tutti di sostenerle e scherziamo. Ma percepisco un po’ di tristezza nei volti di tutti. Come se all’improvviso ci fossimo ricordati di come stanno realmente le cose. Degli affetti lontani, della preoccupazione per la salute di persone care più anziane.

Riprendiamo a giocare.

Stefano compie gli anni tra pochi giorni ed eravamo pronti da mesi per partecipare al suo mega party. Purtroppo da rimandare a data da destinarsi. Faremo un brindisi virtuale per esserci comunque. “Ele per il barbecue a casa tua, ti regalerò gli arrosticini!” afferma Stefano con il suo accento abruzzese”. Parliamo degli ordini di bottiglie di vino che stiamo facendo online. “Io ho preso un rosé della Provenza!”, “E cosa ne pensate di una magnum della Rioja?”, “Io sto degustando solo vitigni in purezza per capirne meglio le caratteristiche”. Ci confrontiamo da neofiti e chissà quante ne diciamo giuste e quante sbagliate. Ma ora non ci interessa.

Roberta inserisce Valerio, il compagno, nel nostro aperitivo Skype. Siamo una famiglia allargata. Mentre anche lui è connesso (da casa sua) Roberta in video si toglie la felpa per il caldo (o per il vino). Purtroppo per lei, iniziamo a fare battute sul fatto che cerca invano, in tutte le maniere, di convincere Valerio a raggiungerla a casa. Neanche lo “spogliarello” l’ha persuaso!

Ci diciamo che cosa cucineremo per cena. Stefano, secchione com’è, ha ripassato l’abbinamento cibo-vino. Può darci indicazioni sensate e precise. “Nicola se ti fai la pasta al pesto, vai di Timorasso!”.

Ci manchiamo, è normale. Degustare in un’enoteca e scambiarci i calici (guai ora a farlo!) è un’altra cosa. Quando si spegne il video, per qualche secondo, sentiamo un vuoto dentro. La nostalgia. Ma se ci riflettiamo, non è la stessa di quando accompagniamo un amico a casa, o l’amata, dopo una bella serata trascorsa insieme? Quando questa accade, ci riprendiamo però dopo pochi momenti perché sappiamo che lo rivedremo, la rivedremo. È così anche ora. Ci rivedremo per brindare tutti insieme e sentire di nuovo il suono dei calici che si toccano.

Con gli “occhi” degli Healthcare Workers: la sfida psicologica del Covid-19

L’emergenza legata al Covid-19 ha costretto gli operatori sanitari a confrontarsi con una nuova realtà, piena di sfide e difficoltà, che comporta uno stress psicologico senza precedenti.

 

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri..
(G. Leopardi)

Di fronte a questo evento contagioso di salute pubblica su larga scala il personale medico è sotto pressione, sia fisicamente che psicologicamente.

Lo scoppio del Covid-19 ha causato uno stress psicologico senza precedenti sugli operatori sanitari (‘Healthcare Workers’, HW), coraggiosi sostenitori e ricostruttori di vite, ma esposti al complesso di reazioni emotive e stress psicologico (come evidenziato dalla letteratura in calce). Nei casi più gravi si è vittime del senso di irrealtà, confusione dei sentimenti, depressione e abulia, in cui il corpo non risponde alle intenzioni razionali essendo incapace di placare l’ansia dello sconforto; l’immobilità di agire non si traduce in viltà.

Sulla scorta di Dewey, la “circostanza” è la fusione tra il principio personale di ogni individuo, il complesso di dati biologici e ambientali di cui subisce l’influenza. Tanti operatori sanitari dispiegati contro un nemico virale che rappresenta una seria “sfida psicologica”, in grado di compromettere l’attenzione degli HW, il funzionamento cognitivo e il processo decisionale clinico (Lijun, et al., 2020) e in cui può conseguire il verificarsi di errori e incidenti medici.

Certamente il confronto maggiore è quello con sé stessi: “aiutare il paziente senza diventare paziente a propria volta”.

Con gli occhi degli HW

Il lavoro degli HW è raccolto nell’intimità carnale delle vittime del virus: la patologia del corpo, ovvero l’efficienza corporea ostruita dall’ignoto, da un nuovo agente patogeno di cui se ne vorrebbe sapere di più per starne alla larga.

Il fantasma di un corpo è il suo virus, la memoria del mondo, focolare incontenibile che non lascia all’arbitrio della mente la capacità di spegnerlo. Un’entità biologica sorda alle grida di uomini o donne.

Gli anziani vengono deportati per far spazio ai giovani. È la voce degli HW che si oblitera nel paziente, farmacologicamente passivo, limitano nei movimenti e nei pensieri di coscienze ridotte a “reliquie del passato”.

Processi istintivi, veglia e sonno, regolazione viscero-ghiandolare…. hanno le orme del virus!

Tutto è sintesi di un’immagine: una croce (la forza vitale umana), un cerchio (il limite di contenimento), un tubo dove fuoriesce l’”ossigeno della vita”: l’aria attraversa a carponi un tunnel, è la trachea, un tubo che permette di comunicare col polmone, un organo incastonato nel corpo la cui vitalità dipende dalla respirazione, “un movimento su, uno giù”.

La patologia virale è l’ostruzione della secolare natura della geometria del diaframma sedimentata in abitudine, una divina tradizione contrastata dall’ateismo del corpo infetto, una diabolica interferenza (la parola Satana è denominazione originaria del sanscrito che significa “Colui-che-va-contro”) capace di far esplodere i sintomi in una perdita di controllo della vitalità umana che si intensifica e si agita: è la crisi respiratoria.

L’affanno, la respirazione urgente e forzata dall’istinto, si aggrappa all’invisibile cercando disperatamente di cogliere l’essenza della vita per assimilarla.

Ogni respiro contrattacca la morte. Gli healthcare workers in prima linea!

Con tale rappresentazione l’ospedale può essere descritto ‒ simbolicamente ‒ con un “cerchio”, elemento dell’ideografismo ermetico, che indica la «ritensione massima della forza vitale» contenuta nei limiti; limiti che mettono a dura prova gli HW!

Nell’«ambiente interno» di un ospedale lo spazio è la sicurezza di un “respiro”, teatro differente ‒ se non opposto ‒ all’«ambiente esterno» in cui lo spazio personale è dilatato con le dovute distanze che sottolineano le debite differenze identitarie legate al virus: infetto/possibile infetto/sano.

Ma pur stando a casa c’è l’ansia della dispersione, amplificata da un tubo contenente fili elettrici dove passa l’informazione. L’individuo dall’ambiente esterno vede nel cerchio, nel contenimento dell’energia vitale, nel luogo sanatorio ospedaliero, l’orificità affidata alla macchina: è lo specchio delle proprie paure.

Un nodo in gola ostruisce la ragione, manca l’aria, si trattiene il fiato, ogni pensiero positivo è sopravvivenza potenziata da una benedizione di massa.

Ma il male non ha spiegazioni o senso. Il male non ha sentimenti o emozioni. Il male va contro, ostruisce.

Così, un tubo dona la vitalità mancante in un corpo e intercetta una minaccia non localizzata e invisibile; unisce i nostri pensieri alla realtà così come la vita ad un corpo.

Da un tubo nasce la speranza della vita, come la paura della morte.

Covid19 l'emergenza dal punto di vista degli healthcare workers IMM.1

Immagine 1 – Disegno prodotto da Serena Vignoli

Un disegno di Serena Vignolini, eseguito sotto le indicazioni dell’autore dell’articolo a cui non si deve minimamente il contributo dell’opera data la larga competenza dell’artista di aver saputo contenere magistralmente ‒ in un’immagine ‒ i concetti essenziali racchiusi in questa sede.

La croce: la forza vitale umana.

Il cerchio: il limite di contenimento.

Il tubo: come metafora della speranza di vita e paura della morte.

 

cancel