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Alla scoperta del neurone: dalla “reazione nera” di Golgi alla sinapsi di Sherrington

La scoperta della ‘reazione nera’ di Golgi e le sue implicazioni sull’osservazione del tessuto nervoso ebbero una portata scientifica enorme. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Che spettacolo inaspettato! Filamenti neri sparsi, lisci e sottili, oppure cellule nere spinose, spesse, triangolari, stellate o fusiformi si possono vedere su uno sfondo giallo perfettamente traslucido! Si potrebbe quasi paragonare le immagini a disegni di inchiostro cinesi su carta giapponese trasparente […] questo è il metodo di Golgi. (Cajal)

Così ricordava nei suoi scritti un medico spagnolo rievocando la sua prima osservazione, avvenuta nel laboratorio rudimentale allestito a casa di un collega, del tessuto nervoso trattato con la “reazione nera” ideata qualche anno prima dall’italiano Camillo Golgi.

Il medico spagnolo era Santaigo Ramon y Cajal. Colui che avrebbe condiviso, proprio con Camillo Golgi, il premio Nobel per la medicina del 1906. Colui che avrebbe individuato nel neurone l’elemento costitutivo essenziale del tessuto nervoso, portando alla ribalta la teoria cellulare del sistema nervoso.

La “teoria cellulare”, secondo cui le cellule sono i componenti elementari degli organismi viventi, era stata proposta nel 1600, ma venne formalizzata solo nel 1800 dal botanico Matthias Schleiden e dallo zoologo Theodor Schwann e ulteriormente validata, per ciò che riguarda gli organi che compongono il corpo umano, dal patologo tedesco Rudolph Virchov. Sino all’inizio del ‘900,  fu dibattuto tuttavia se tale teoria fosse applicabile anche al sistema nervoso; infatti, il tessuto nervoso appariva strutturalmente più complesso rispetto a quello di altri organi e i metodi di indagine dell’epoca non consentivano di distinguere le cellule rispetto alle fibre nervose. A prevalere era la teoria secondo cui il sistema nervoso fosse l’insieme di una fitta rete di sottili filamenti che si univano per formare le fibre nervose, collegate le une alle altre. Tale teoria, descritta dal tedesco Josef von Gerlach nel 1871, prendeva il nome di “teoria reticolare” ed era abbracciata dalla maggior parte degli studiosi dell’epoca. Tra questi, vi era Camillo Golgi.

Camillo Golgi si laureò in medicina nel 1865 all’università di Pavia sotto la guida di un professore la cui fama è tuttora nota: Cesare Lombroso. Tuttavia, gli studi di carattere istologico sul tessuto nervoso ebbero inizio per il neolaureato Golgi, quando entrò a far parte del laboratorio di Pavia diretto da Giulio Bizzozero, e si sarebbero interrotti da lì a qualche anno se la sua determinazione non avesse prevalso e aggirato le difficoltà che si trovò ad affrontare. Fu infatti nominato primario presso un ospedale di provincia, le Pie Case degli Incurabili di Abbiategrasso, ove non era previsto che venisse effettuata attività di ricerca, non vi era alcun laboratorio e i mezzi a disposizione erano rudimentali. Particolari trascurabili per lo studioso che trasformò la cucina dell’ospedale in laboratorio e proseguì i suoi studi con l’appoggio dei colleghi di Pavia.

Golgi desiderava studiare il tessuto nervoso e per farlo voleva osservare il tessuto cerebrale come sino ad allora non era stato possibile. I microscopi ottici, utilizzati per la ricerca scientifica sin dal 1600, avevano avuto un ulteriore sviluppo nell’800, ma erano ancora viziati da alcuni artefatti ottici e cromatici. Inoltre, per poter osservare al microscopio i tessuti nervosi, essi dovevano essere sezionati in “fette” sottilissime e trattati con fissanti, che all’epoca erano principalmente alcol e acido cromico, e coloranti, come il carminio. Tali tecniche, tuttavia, non permettevano risultati ottimali. A rivoluzionare l’osservazione del tessuto nervoso sarebbe stata proprio la “reazione nera” di Golgi, “ricetta” elaborata in seguito ai numerosi tentativi condotti nella cucina/laboratorio di Abbiategrasso.

Mi valsi ancora dell’acido osmico, che è, massime pel sistema nervoso, uno dei reagenti più preziosi, perché senza indurre alterazioni di forma e di rapporto degli elementi, indura in poche ore i tessuti, colorando altresì in nero intenso il grasso e le fibre nervose, ed in bruno più o meno carico, gli altri elementi, ed esclusi l’alcol, il quale per lunga esperienza si è dimostrato affatto inopportuno per lo studio dei tessuti nervosi.

ricorda il ricercatore pavese nei suoi scritti. Non fu sufficiente. Solo dopo numerose prove, Golgi capì che poteva ottenere l’agognato risultato immergendo il tessuto nervoso in una soluzione di bicromato di potassio e, in successione, di nitrato d’argento. Al microscopio, era finalmente possibile osservare le cellule e le fibre nervose, che si stagliavano con il loro profilo nero su fondo chiaro.

Su tale scoperta si sono diffuse svariate leggende, secondo le quali la “reazione nera” sarebbe stata frutto di uno straordinario colpo di fortuna. Alcune fonti raccontano che il ricercatore, con una gomitata, rovesciò per errore la soluzione d’argento sui campioni di tessuto cerebrale; altre, che un inserviente buttò per sbaglio un campione di tessuto cerebrale nella spazzatura dove qualche ora prima era stato gettato un campione di nitrato d’argento. In entrambi i casi, Golgi avrebbe deciso di riutilizzare ugualmente i campioni, osservando con grande stupore lo spettacolo che si palesava alla sua osservazione al microscopio. Non è possibile essere certi della veridicità di tali episodi che, per quanto suggestivi, sono abbastanza improbabili. Ciò che è certo è che, indipendentemente da come tale scoperta sia realmente avvenuta, la sua portata scientifica era enorme: nessun’altra metodica dell’epoca consentiva una tale osservazione del tessuto nervoso. Dal perfezionamento di essa, ebbero inizio le moderne ricerche sulla struttura istologica del sistema nervoso e delle unità di cui è composto.

Annunciata per la prima volta nel 1873, la scoperta della “reazione nera” venne descritta più dettagliatamente l’anno successivo sulla Gazzetta Medica Italiana.

Benché Golgi fu il primo ad avere l’occasione di osservare distintamente le cellule nervose, tinte di nero, e le loro ramificazioni, che solo decenni più tardi sarebbero stati battezzate con il nome di assoni e dendriti, ne trasse alcune conclusioni errate. Con i limiti della metodica, i dendriti e gli assoni erano ben visibili, ma sembravano formare intrecci ininterrotti, senza alcuna soluzione di contiguità l’uno con l’altro. Era, per il ricercatore pavese, una conferma alla teoria reticolare del sistema nervoso.

A dare una svolta, affermando l’individualità delle cellule nervose come elementi costitutivi del tessuto cerebrale sarà proprio il ricercatore spagnolo Cajal, che per molti anni diventerà per Golgi un avversario, seppur stimato, nel panorama scientifico europeo.

Cajal, medico reduce da un’esperienza militare nella guerra di Cuba, rientrò nel 1875 in Spagna e proprio allora iniziò a dedicarsi alla ricerca scientifica. Caratterizzato sin da giovanissimo da un’indole creativa, impulsiva e appassionata, decise di comprare l’attrezzatura necessaria per l’attività di laboratorio con la paga da militare, dividendosi negli anni successivi tra le università di Madrid e Barcellona.

Non facevo altro che curiosare senza metodo. Mi si offriva un campo meravigliosamente ricco di scoperte ed esplorazioni, pieno di grandi sorprese. Con questo spirito ho esaminato i globuli del sangue, le cellule epiteliali, i corpuscoli muscolari e i nervosi, fermandomi qui o là per disegnare o fotografare le scene più accattivanti della vita degli infinitamente piccoli.

ricorda Cajal nei suoi scritti. Fu nel 1887 che, per la prima volta, nel rudimentale laboratorio allestito nella casa di un collega e amico, lo psichiatra Dott. Simarro, osservò alcuni campioni di tessuto nervoso trattati con la reazione nera di Golgi.

A partire da quell’osservazione, Cajal iniziò a usare il metodo di Golgi nel suo laboratorio, effettuando via via delle modifiche. Variò la durata di immersione del tessuto nella soluzione a seconda della struttura nervosa che desiderava studiare e delle caratteristiche dell’animale a cui apparteneva il tessuto.

Fu grazie a tali modifiche che poté osservare il tessuto nervoso con una definizione ancora maggiore. Grazie al suo talento artistico, ostacolato in giovinezza dalla famiglia che nutriva per lui l’aspirazione di una carriera medica, poté riprodurre fedelmente ciò che osservava al microscopio in centinaia di splendidi disegni effettuati a mano. Con il perfezionamento della ”reazione nera” di Golgi, Cajal osservò che alcuni assoni, benché molto vicini a quelli contigui, terminavano liberamente, senza connessione diretta con altre fibre nervose. Nel 1889, il ricercatore concluse che le cellule nervose, cosi come quelle di altri tessuti, erano unità indipendenti tra loro. Era la conferma della teoria cellulare del sistema nervoso.

I risultati dei suoi studi, tuttavia, faticavano a espandersi oltre i confini spagnoli. Pertanto, nel 1889, Cajal decise di partecipare ad un prestigioso congresso a Berlino, pagando di propria tasca le spese poiché l’università rifiutò di finanziarlo. Tra gli organizzatori dell’evento, vi era un autorevole studioso dell’epoca: Wilhelm von Waldeyer, direttore dell’istituto di anatomia dell’Università di Berlino. Impressionato dagli studi di Cajal, Waldeyer si dedicò a condurre una rassegna della ricerche sino ad allora effettuate sulle cellule nervose. Ne scaturì, nel 1891, la pubblicazione di una lunga opera in sei parti, in cui, per la prima volta, le più importanti cellule del sistema nervoso venivano battezzate con il nome con cui le conosciamo: neuroni. Essi venivano definiti come unità elementari e indipendenti le une dalle altre. La teoria cellulare, grazie agli studi di Cajal e all’opera di Waldeyer, diventava la “teoria del neurone”. Ben presto, anche le ramificazioni di fibre nervose che originavano dal corpo del neurone ebbero un nome: Wilhelm His denominò nel 1890 col nome di “dendriti” le fibre che conducono l’impulso nervoso dalla periferia verso il corpo cellulare; nel 1896 Albrecth von Kolliker denominò “assoni” quelle che lo conducono dal soma cellulare alla periferia. Nonostante le evidenze a supporto della teoria del neurone e l’ampia adesione da parte della comunità scientifica, alcun fieri oppositori continuavano ad osteggiarla. Golgi, che nel frattempo aveva fornito altri autorevoli e poliedrici contributi alla ricerca scientifica, descrivendo cellule gliali come gli astrociti, identificando il “reticolo di Golgi” all’interno della cellula, i recettori muscolo-tendinei denominati “organi di Golgi” e quelli cutanei denominati “corpuscoli Golgi–Mazzoni”, chiarendo alcuni aspetti della struttura anatomica del rene e del ciclo di replicazione del Plasmodium responsabile della malaria, su una questione non transigeva: a suo parere, gli assoni erano uniti gli uni agli altri e per anni continuò a battersi per far valere la teoria reticolare.

La diatriba non si placò neppure quando venne annunciato che i due studiosi antagonisti, Golgi e Cajal, avrebbero condiviso il premio Nobel per la medicina, l’uno per l’invenzione del metodo della “reazione nera”, l’altro per averla sfruttata stabilendo la struttura e funzione del neurone.

Che crudele ironia del destino da accoppiare, come gemelli siamesi uniti alle spalle, avversari scientifici dai caratteri così contrastanti.

commenterà Cajal nei suoi scritti. La cerimonia si svolse nel 1906, lo stesso anno in cui anche l’italiano Giosuè Carducci ritirò il premio Nobel per la letteratura. Persino tale occasione diventò  pretesto per i due studiosi per difendere le rispettive teorie, sferrando attacchi a quella antagonista nei rispettivi discorsi di ringraziamento.

Se la teoria cellulare del neurone era ormai predominante, vi era un grosso interrogativo a cui doveva ancora rispondere. Se l’informazione nervosa viaggia lungo dendriti e assoni e questi non sono uniti tra loro, come può il segnale passare da un neurone all’altro in breve tempo, trasferendo l’informazione anche su lunghe distanze? La teoria reticolare, proclamando la continuità delle fibre nervose l’una con l’altra, su questo aspetto era in vantaggio. Entrambe, tuttavia, non rispondevano a un’altra spinosa questione: come nasce e si propaga il segnale nervoso?

A dare una risposta a entrambe le domande, sarebbe stata un’altra coppia di studiosi che, ironia della sorte, condivisero a loro volta il premio Nobel per la medicina nel 1932: si trattava dei britannici Edgar Douglas Adrian e Charles Scott Sherrington. Il primo identificò nell’attività elettrica il meccanismo alla base della trasmissione dell’impulso nervoso del neurone, il secondo chiarì come tale impulso venisse trasmesso tra due o più neuroni.

L’idea che l’attività elettrica rappresenti la modalità di trasmissione dei segnali nervosi era già presente dal 1700 e seguiva la lunga tradizione scientifica italiana di studiosi come GianBattista Beccaria, Luigi Galvani, Leopoldo Nobili. Le loro teorie, tuttavia, furono in gran parte criticate e ignorate dagli altri autorevoli ricercatori europei per oltre due secoli. Fu necessario attendere sino al 1928 affinché, grazie ad Adrian, l’attività elettrica potesse essere legittimamente riconosciuta alla base dell’impulso nervoso.  Nel suo celebre esperimento, il medico inglese isolò pochi assoni da un nervo del collo di un coniglio e pose un elettrodo a contatto con essi. L’elettrodo, ogni volta che il coniglio emetteva un respiro, registrava attività elettrica, che veniva convertita in un segnale sonoro simile a un crepitio mediante un amplificatore. Ogni crepitio corrispondeva all’ impulso elettrico utilizzato dal neurone per trasmettere il segnale e “dialogare” con i neuroni vicini: il potenziale d’azione. Oggi sappiamo che il potenziale d’azione si crea poiché ciascun neurone ha una carica elettrica sempre presente, il “potenziale a riposo”. Il potenziale a riposo è garantito dalla struttura del neurone che, come una batteria, presenta da un lato una carica elettrica positiva fuori dalla membrana che lo riveste, e dall’altro una carica negativa, all’interno della cellula. La carica positiva o negativa è data dal prevalere di atomi dotati di carica elettrica, gli ioni, tra i due lati della membrana. Quando arriva uno stimolo al neurone, si verifica un cambiamento della concentrazione degli ioni dai due lati della membrana e, di conseguenza, della carica elettrica. In particolare, se lo stimolo è eccitatorio, la differenza di carica elettrica si riduce: si ha così il fenomeno chiamato “depolarizzazione”. Superato un determinato valore “soglia” di depolarizzazione, si ha il “potenziale d’azione”: manifestazione elettrica dell’impulso nervoso, rappresenta la modalità con cui i neuroni diffondono i loro messaggi.

In uno studio successivo sul rospo, Adrian registrò gli impulsi elettrici, li amplificò e li convertì graficamente, visualizzandoli come  “picchi” appuntiti.  Osservando i picchi, scoprì i potenziali d’azione di un dato neurone erano tutti uguali per ampiezza e durata, indipendentemente dall’intensità dello stimolo: ciò che variava era la loro frequenza.

Adrian descrisse pertanto come gli impulsi nervosi, così generati ad alta o bassa frequenza, si propagano lungo l’assone, a partire dal corpo cellulare del neurone sino alla sua estremità, “come una fiamma lungo una miccia accesa”. La “miccia” percorre l’assone per tutta la sua lunghezza e può viaggiare anche per percorsi piuttosto lunghi. Tuttavia, se come sostenuto dalla teoria del neurone, gli assoni non sono uniti l’uno all’altro, com’è possibile la loro propagazione tra diversi neuroni?

La risposta verrà fornita da quello che per molti viene riconosciuto come il “filosofo del sistema nervoso”, Charles Scott Sherrington, ed ha un nome preciso: sinapsi.

Sinapsi, termine utilizzato per la prima volta proprio dal medico inglese, significa “giunzione”, “unione”, e rappresenta la connessione funzionale tra due neuroni attraverso la quale viene trasmesso il segnale nervoso. All’epoca di Sherrington, si parlava di struttura “funzionale” poiché l’esistenza dello spazio sinaptico fu confermata e osservabile strutturalmente solo nei decenni successivi, in seguito all’avvento del microscopio elettronico.

A livello della sinapsi, i neuroni dialogano tra loro mediante una stupefacente trasformazione del messaggio, che da impulso elettrico diventa segnale chimico.

Come era accaduto per la teoria cellulare e la teoria reticolare, anche la teoria elettrica e chimica del segnale nervoso furono per lungo tempo dibattute e apparivano inconciliabili alla maggior parte degli studiosi.

A conciliare tali teorie sarebbe stato il contributo scientifico di una terza coppia di scienziati e premi Nobel per la medicina nel 1936: Otto Loewi e Henry Dale. Gli esperimenti di Loewi sul cuore di rana evidenziarono come ad uno stimolo elettrico, veicolato lungo l’assone, seguiva il rilascio di una sostanza chimica in grado di trasmettere il “messaggio” tra due neuroni e tra neurone e muscolo con conseguenze tangibili: il cuore di rana, a seconda dello stimolo elettrico e della sostanza chimica rilasciata di conseguenza, accelerava o rallentava il suo battito. Henry Dale, identificò due sostanze coinvolte nella comunicazione a livello sinaptico: la noradrenalina e l’acetilcolina. Essi vennero definiti neurotrasmettitori, per il loro ruolo nella trasmissione dell’informazione nei tessuti nervosi. A seguire, tra gli anni ’30 e gli anni ’50, furono identificati altri neurotrasmettitori e chiarite le loro funzioni: il glutammato e la glicina, ad effetto eccitatorio; la serotonina, coinvolta nel tono dell’umore; l’acido gamma-amino butirrico (GABA), inibitorio; la dopamina, coinvolta nel circuito del piacere e del movimento. I segnali, che viaggiano attraverso differenti circuiti cerebrali coinvolgendo numerosi neuroni e differenti sinapsi, vengono veicolati mediante una sequenza di impulsi elettrici e di neurotrasmettitori, che, come in una somma algebrica a cascata, vanno a sommarsi o a sottrarsi tra loro, in una miriade di configurazioni differenti.

Nei decenni che seguirono tali scoperte, nuovi studi hanno ulteriormente chiarito i meccanismi che regolano la comunicazione tra neuroni e i loro circuiti a livello del sistema nervoso, mettendo in luce, d’altro canto, una inaspettata complessità, che ancor oggi non è stata completamente decifrata.

Intuendo il fascino e la grandiosità di tale complessità, lo stesso Sherrington scrisse poeticamente:

Come una Via Lattea che entri in una specie di danza cosmica, il cervello è come un telaio incantato, in cui milioni di spolette lampeggianti intessono una configurazione che si dissolve, sempre significativa, ma mutevole, una mobile armonia di subconfigurazioni.

 

Il Mobbing: in cosa consiste e come riconoscerlo. Dalle conseguenze psicologiche e fisiche del Mobbing, alle forme di prevenzione e formazione per contrastare questo fenomeno.

Negli ultimi anni si sta registrando un aumento dei casi di Mobbing in molteplici contesti lavorativi. Si tratta di un complesso fenomeno che è stato sistematizzato solo di recente, ma la cui origine è in realtà molto antica.

 

Gli atti vessatori, ostili ed aggressivi esercitati sul luogo di lavoro sono sempre esistiti, ma soltanto negli ultimi decenni si è cercato incrementare la consapevolezza sulle dinamiche subdole e manipolatorie che si celano dietro questo fenomeno. Il Mobbing può essere causa di molteplici disturbi che interessano sia la sfera relazionale e mentale, sia quella fisica e neurovegetativa. Le azioni mobbizzanti sono in grado di condizionare ogni aspetto della vita dell’individuo, compromettendone non solo la salute psicofisica, ma anche i principali rapporti umani, come quelli familiari. Pertanto, risulta di primaria importanza intervenire attraverso specifici percorsi di prevenzione, formazione ed informazione, senza perdere di vista il contributo che ognuno di noi può offrire quotidianamente per contenere questo fenomeno, impendendone la sua ulteriore diffusione.

Il Mobbing può essere definito come un complesso e problematico fenomeno di terrorismo psicologico perpetrato nell’ambiente di lavoro (H. Ege, 1996). Dal punto di vista etimologico, il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, assalire e affollarsi intorno a qualcuno.

Il Mobbing, inizialmente nato ed approfondito nel campo dell’etologia, è stato oggetto di studio nel contesto lavorativo a partire dagli anni ’90, grazie al contributo dello psicologo svedese di origini tedesche Heinz Leymann. Il Mobbing viene considerato da H. Leymann come un insieme di vessazioni di natura psicologica, esercitate sul posto di lavoro, da parte di un collega o di un superiore, con episodi ricorrenti e protratti nel tempo (H. Leymann, 1996). Più nello specifico, H. Leymann definisce il Mobbing come un insieme di condotte ostili che riguardano tre ambiti principali: la comunicazione, la reputazione e la prestazione. Per quanto riguarda il primo punto, il Mobbing si esplica attraverso una comunicazione disfunzionale, ostile, carica di presunzione, perpetrata in maniera sistematica da uno o più individui e rivolta contro uno o più lavoratori, i quali vengono spinti in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa. Ci sono poi i comportamenti che mirano a distruggere la reputazione del lavoratore, attraverso strategie subdole come pettegolezzi, offese, derisioni sull’aspetto fisico e umiliazioni pubbliche. Infine, il mobbing può puntare anche alla prestazione della vittima, la quale può essere dequalificata professionalmente, oppure obbligata a svolgere delle mansioni pericolose per la propria incolumità psicofisica (H. Leymann, 1993). L’effetto di tali condotte agite dal mobber è quello di annientare nel corso del tempo la vittima del Mobbing, portandola a sentirsi incapace, inutile e privata di ogni forma di valore e di autostima. Le motivazioni possono essere molteplici, molte volte può trattarsi di una strategia mirata ad allontanare lavoratori diventati “scomodi”, portandoli a dare volontariamente le dimissioni oppure arrivando ad un procedimento di licenziamento (H. Ege, 2002). Dunque, affinché si possa parlare di Mobbing, è necessario che le azioni mobbizzanti siano agite dal mobber nel corso del tempo (un periodo maggiore di sei mesi), con una frequenza di almeno un episodio a settimana (H. Leymann, 1990). È importante sottolineare che si tratta di un fenomeno non circoscritto all’ambiente di lavoro, ma ben più esteso. Le difficoltà psicologiche, fisiche e psicosomatiche che la vittima di Mobbing può sviluppare, mettono in subbuglio ogni ambito della vita dell’individuo, sfociando spesso in disordini mentali come episodi depressivi, insonnia, attacchi di panico e disturbi alimentari. Uno dei contesti che risente maggiormente delle conseguenze negative del Mobbing è sicuramente la famiglia del lavoratore mobbizzato. La famiglia, rappresenta il principale luogo in cui vengono riversati tutti i sentimenti di frustrazione e di impotenza scaturiti dal malsano e patologico ambiente di lavoro. Tuttavia, la dose quotidiana di negatività che la vittima del Mobbing porta nel suo nucleo familiare, può condurre ad una vera e propria crisi del rapporto con i familiari, i quali, dopo vari tentativi volti ad incoraggiare e sostenere il parente in difficoltà, finiscono con l’esaurire le risorse a disposizione per far fronte alla problematica lavorativa, e pertanto si verifica quel fenomeno che H. Ege definisce come “Doppio Mobbing” (H. Ege, 2002). La vittima finisce col ritrovarsi completamente sola e incompresa, privata persino della possibilità di trovare sostegno e comprensione nella sua famiglia, ed è proprio in questa fase che possono prospettarsi gli scenari più tragici. Negli ultimi anni, purtroppo, si è registrato un incremento di suicidi Mobbing-correlati. Si tratta di suicidi che molte volte possono essere definiti tali soltanto sulla carta, in quanto rappresentano l’ultima scelta disperata messa in atto da chi ha subito per troppo tempo gli effetti deleteri delle condotte riprovevoli e disumane agite nel mondo del lavoro. Pertanto più che di suicidi, si potrebbe parlare di omicidi mascherati. Questi gesti estremi, possono essere considerati come l’ultimo passo che la vittima del Mobbing vuole compiere, pur di liberarsi una volta per tutte da un tormento terrificante il cui peso è diventato insostenibile nel corso del tempo. Sono decisioni drastiche, non facili da accettare e da comprendere per chi non si è mai ritrovato nel ruolo della vittima del Mobbing. Per tali motivi, risulta essere di fondamentale importanza riflettere sulla criticità di questo grave fenomeno, perché si tratta di una realtà che racchiude in sé molteplici valenze e significati. Basti pensare al valore che il lavoro ha sempre avuto nella storia dell’essere umano. Il lavoro è qualcosa che definisce e struttura l’identità dell’uomo. La possibilità di svolgere un lavoro, offre all’individuo l’opportunità di sentirsi produttivo e capace di sostentarsi in maniera autonoma. Ne deriva da ciò un senso di gratificazione e di soddisfazione personale che è indispensabile per una sana autostima ed una positiva percezione della propria immagine sociale. Pertanto, qualora dovessero intervenire delle problematiche che interessano la funzione produttiva dell’individuo, come critiche al suo operato, umiliazioni, vessazioni e atti denigratori, viene da sé che l’accezione emotiva di questi eventi possa essere distruttiva per il lavoratore. Sentirsi continuamente svalutati nelle proprie competenze operative, è qualcosa che logora e che scava una ferita profonda nel mondo interiore dell’individuo. Una delle più preoccupanti conseguenze può essere proprio la destrutturazione dell’identità della persona, che non riesce più a riconoscere sé stessa, le sue qualità ed il suo valore, fino ad arrivare ad una condizione di annientamento.

Porre attenzione su questo fenomeno è sicuramente il primo passo da compiere per cercare di contrastare un disagio di così grande portata. È bene precisare che intervenire sul mobbing, non significa limitarsi a trattare esclusivamente i sintomi psicofisici manifestati dalla vittima, ma bisogna agire in maniera più ampia. Il Mobbing costituisce un fenomeno di interesse socioculturale, che nella maggior parte dei casi affonda le sue radici in una organizzazione malsana e disfunzionale del contesto lavorativo, pertanto vanno coinvolti tutti gli attori facenti parte di tale ambiente, poiché ognuno di loro contribuisce inconsciamente o consapevolmente al mantenimento di quelle dinamiche relazionali che portano all’attuazione delle condotte ostili e mobbizzanti. Dunque, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, con il suo patrimonio di strumenti conoscitivi e d’intervento specifici per i contesti produttivi, rappresenta senza dubbio una preziosa risorsa per far fronte a questa forma di disagio. Ancora più utile, può essere l’impegno dedicato alle attività di prevenzione. Quindi, oltre ad intervenire sulle situazioni conclamate di Mobbing (cioè laddove il Mobbing si sia già manifestato producendo le sue nefaste conseguenze), è importante soprattutto prevenirlo attraverso iniziative mirate come corsi di formazione e di informazione. Si può agire anche con largo anticipo, a partire dall’istruzione e dall’educazione, in quanto la trasmissione dei principali valori etici e di convivenza sociale e civile, può rappresentare un passo importante per la formazione di una sana coscienza collettiva, capace di contrastare ogni forma di violenza e/o di discriminazione nei confronti degli esseri umani. È fondamentale educare le nuove generazioni al rispetto dell’essere umano, la cui tutela non deve essere affidata solo ed esclusivamente alle istituzioni (delegando a quest’ultime la risoluzione di ogni difficoltà), ma anche al nostro senso di responsabilità sociale, nell’ottica di una cittadinanza attiva e partecipe.

La prevenzione può essere pianificata anche a livello aziendale, ad esempio attraverso corsi di formazione incentrati sulla gestione del conflitto e del Mobbing, oppure a livello professionale, entrando in contatto con la rete dei principali professionisti che operano nel campo del Mobbing, come medici, psicologi ed avvocati. Difatti, il Mobbing è un fenomeno che va contrastato su molteplici livelli: etico, istituzionale e legislativo.

Infine, per contribuire alla prevenzione ed al contrasto del Mobbing, ognuno di noi può iniziare col prestare attenzione alle dinamiche relazionali che si vengono a creare nel proprio ambiente di lavoro, denunciando le condotte moralmente scorrette, violente ed aggressive, e, soprattutto, rinunciando a quell’atteggiamento passivo ed omertoso che troppe volte ha prodotto vittime innocenti.

 

Il potere del presente: l’effetto della mindfulness sulla risposta sessuale delle donne

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne dal momento che la mindfulness è risultata associata ad un miglioramento nel trattamento delle disfunzioni sessuali ma non sono ancora del tutto chiari i meccanismi sottostanti.

 

Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare: con intenzione, al momento presente e in modo non giudicante. La mindfulness è un’antica pratica orientale, con radici nella meditazione buddhista, definita anche come presenza e attenzione al momento presente, al qui ed ora (Hanh, 1976). La letteratura fino ad ora si è concentrata sullo studio di come uno stato consapevole, o la capacità di una persona di raggiungere tale stato, sia correlato ad un sano funzionamento sessuale e come, al contrario, una mancanza di consapevolezza possa minacciare l’abilità di una persona di provare piacere sessuale e di avere una risposta sessuale positiva (Arora & Brotto, 2017).

È stato dimostrato che le donne rispondono regolarmente con un certo grado di eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale quando si interfacciano con stimoli sessuali rivelanti (ad esempio, guardare un video erotico); tuttavia, una risposta sessuale è attivata solo quando le donne prestano attenzione allo stimolo erotico e non sono distratte da pensieri non sessuali o da altre diversioni. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, nella sua attuale quinta edizione (DSM-5; APA, 2013), definisce la mancanza di eccitazione o di piacere sessuale e una risposta assente o ridotta all’eccitazione genitale durante il sesso, come criteri per una disfunzione sessuale femminile, ossia il disturbo da eccitazione. Ulteriori studi hanno approfondito la relazione tra eccitazione sessuale soggettiva e genitale, dimostrando come esse non sempre siano correlate, ma alcune donne potrebbero sentirsi sessualmente eccitate a livello soggettivo ed emotivo, senza la corrispondente risposta genitale, e viceversa.

È fondamentale che le donne siano in grado di concentrarsi sulle sensazioni del momento presente durante il sesso; pertanto, gli interventi psicosociali che mirano a migliorare il funzionamento sessuale delle donne, insegnando loro la mindfulness, sono stati trovati efficaci per il trattamento delle disfunzioni sessuali, incluso il disturbo dell’eccitazione sessuale.

L’obiettivo del presente studio è valutare l’impatto di tre esercizi mindfulness sulla risposta sessuale delle donne. Il campione era costituito da 49 donne, le quali hanno partecipato a una sessione di laboratorio basata su tre esercizi mindfulness di 5 minuti ciascuno, un compito di immaginazione mentale (attività di controllo) e visione di filmati erotici. In questi esercizi, le partecipanti sono state incoraggiate a concentrarsi sulle sensazioni nei loro genitali, sulle sensazioni del corpo in generale e sul flusso dei pensieri. Nella condizione di controllo, invece, l’attenzione era focalizzata sull’immaginazione di una passeggiata attraverso una foresta lussureggiante.

Le ipotesi erano:

  1. L’eccitazione sessuale genitale delle donne del gruppo sperimentale è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri. Inoltre, è stato esplorato il livello di eccitazione sessuale genitale durante la visione di film erotici a seguito degli esercizi.
  2. Gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee (cioè sui genitali o sul corpo in generale) portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale.
  3. Esplorare come le stesse tipologie di esercizi mindfulness aumentino o diminuiscano la relazione tra arousal soggettivo e genitale.

L’eccitazione sessuale soggettiva è stata misurata continuamente durante la presentazione di video neutrali ed erotici. Il dispositivo, chiamato arousometro, consisteva in un mouse del computer e alle donne veniva chiesto di spostare il mouse su e giù ogni volta che notavano un cambiamento di eccitazione durante la presentazione dello stimolo. Il feedback visivo sul loro attuale livello di eccitazione veniva presentato ai soggetti sullo schermo di un computer, attraverso un grafico a barre che indicava i livelli di eccitazione su una scala da zero a 100 (livello più alto di eccitazione). L’eccitazione sessuale genitale, invece, è stata costantemente misurata tramite l’ampiezza dell’impulso vaginale (VPA) usando un fotopletismografo vaginale.

Per valutare in che modo gli esercizi in laboratorio sono stati considerati dai partecipanti, è stato chiesto loro di indicare su una scala di tipo Likert, quanto hanno trovato difficili, rilassanti e piacevoli gli esercizi. Inoltre, i soggetti hanno indicato la misura in cui pensavano che gli esercizi avessero influenzato la loro risposta al filmato erotico direttamente dopo il compito, tramite la Toronto Mindfulness Scale (Lau et al., 2006).  È una scala composta da 13 item, somministrata ripetutamente durante la sessione di laboratorio per valutare se i diversi esercizi hanno portato a cambiamenti nella consapevolezza dello stato. Questa scala è composta da due fattori: la curiosità, che riflette la consapevolezza dell’esperienza del momento, e il decentramento, che riflette la capacità di osservare pensieri e sentimenti solo come eventi mentali lontani, da accettare senza esserne eccessivamente coinvolti nel contenuto. In relazione a ciò, non sono state evidenziate differenze significative rispetto alla situazione di controllo, ad eccezione di alcuni item sulla curiosità che sembrano mostrare punteggi più elevati.

I risultati forniscono la prova del fatto che una singola esposizione ad un esercizio di consapevolezza in un ambiente di laboratorio può influenzare entrambi i tipi di risposta sessuale delle donne, sia durante l’esercizio sia durante l’attività che segue, la visione del filmato erotico. Nello specifico, per quanto riguarda la difficoltà di seguire le istruzioni, solo l’esercizio di focalizzazione dell’attenzione sul proprio corpo differiva dall’esercizio di controllo, in quanto le donne percepivano l’esercizio significativamente più difficile. Non sono emerse differenze riguardo alla piacevolezza derivata dai diversi esercizi e la mindfulness rivolta al corpo è stato l’unico esercizio ad essere percepito come più rilassante rispetto al compito della situazione di controllo. La prima ipotesi e la seconda ipotesi sono state confermate. I risultati dimostrano che l’eccitazione sessuale vaginale delle donne è più alta durante un esercizio di mindfulness che le incoraggia a focalizzare l’attenzione sui loro genitali e non sul loro corpo nell’insieme o sul flusso dei pensieri e, quindi, potrebbe essere utile per le donne che sperimentano una mancanza di lubrificazione genitale durante l’attività sessuale. Tuttavia, questo effetto non si è tradotto in forti aumenti del VPA durante la successiva presentazione di filmati erotici; il VPA tende a rispondere molto rapidamente alla stimolazione sessuale e raggiunge un massimo dopo 21 secondi, questo probabilmente lascia poco spazio agli aumenti del VPA durante i successivi film erotici. L’aumento di VPA era più alto nella condizione di focalizzazione sulle sensazioni corporee in generale. Infatti, gli esercizi mindfulness che conducono la donna a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee portano ad una maggior eccitazione sessuale sia soggettiva che genitale. Infine, questo spiegherebbe anche perché la terza ipotesi è stata supportata solo parzialmente: sembra che la relazione tra arousal soggettivo e genitale aumenti solo dopo gli esercizi di attenzione alle sensazioni corporee. Dunque, i risultati non supportano l’idea che concentrarsi sulle sensazioni specificamente nei genitali potrebbe portare le donne ad essere più “in sintonia” con la loro risposta di eccitazione fisica.

In conclusione, si consiglia alle donne di praticare regolarmente la mindfulness verso le sensazioni corporee generali, il respiro o le sensazioni nei genitali, nel corso di diversi giorni o settimane, per il miglioramento a lungo termine della risposta sessuale e della sperimentazione del piacere. Inoltre, l’intervento risulta efficace per lavorare anche sul basso desiderio sessuale, sul disturbo da eccitazione e sul dolore genito-pelvico sperimentato durante l’attività sessuale.

 

Vissuti ed emozioni di un umano qualsiasi: uno psicoterapeuta

Spesso il terapeuta viene visto come controllato, risoluto, imperturbabile, non dovrebbe commuoversi di fronte ai racconti dei pazienti, né avere insicurezze, paure o fobie, non dovrebbe provare rabbia, odio o tristezza, ma cavarsela sempre, in ogni situazione. Alla luce del fatto che ogni psicoterapeuta è prima di tutto un essere umano, come sarebbe possibile tutto questo? 

Si suggerisce l’ascolto del brano “Closer to the heart“  (Rush, 1977) durante la lettura.

 

Ecco un altro aspetto del nostro lavoro di cui forse non si parla abbastanza: il terapeuta può essere un umano, con una vita normale, noiosa e a volte perfino problematica. Una vita non perfetta. Con delle normali zone d’ombra o aspetti personali non risolti. Come chiunque, in pratica. Di solito, mentendo ed illudendoci, ci dicono e a volte ci insegnano che dovremmo essere controllati, risoluti, imperturbabili. Dei “mini Budda”. Nessuno dice che, in realtà, non solo questo non è possibile ma per le terapie non serve nemmeno. Non possiamo essere dei robot perché in effetti siamo fatti di carne ossa, con un cuore che batte e una mente che pensa, perfino con degli occhi che piangono. L’avreste mai detto? Se ci pensiamo, nella rappresentazione comune, ad esempio se il paziente parla di cose dure o crude, il terapeuta non dovrebbe mai commuoversi, figuriamoci piangere poi mentre guarda il finale di “Gran Torino” o il training montage di “Rocky II” (Quando Adriana dice: “Vinci, vinci”). Cavolo, e allora come la mettiamo con tutte quelle volte in cui ci commuoviamo nel sentire le storie struggenti dei pazienti? Ne parla approfonditamente Virginia Failoni in questo articolo Quando è il terapeuta a piangere.

Oppure si pensa comunemente che il terapeuta non debba avere insicurezze, paure o fobie, che non può provare rabbia, odio o tristezza e che deve sempre cavarsela in ogni situazione. Com’è possibile questo? Su dai, siamo terapeuti e sappiamo che le emozioni esistono! Quello che a volte manca è l’attrezzo per leggerle: l’autoriflessività. Ma se invece raggiriamo l’alessitimia capiamo bene che è proprio l’autenticità di un terapeuta sufficientemente “umano” e fisiologicamente a contatto con le proprie aree di vulnerabilità, che favorisce una maggiore vicinanza ed una buona riuscita della terapia, soprattutto con i pazienti cosiddetti “difficili” (ad esempio con nucleo borderline o dell’area psicotica). Infatti le emozioni dolorose non riconosciute ed eventualmente non espresse con chiarezza dal terapeuta, se attive in seduta, vengono comunque percepite grazie alla naturale trasmissione emotiva e somatica veicolata dai neuroni specchio, e attraverso una serie di segnali non verbali. Questo può, in alcuni casi, favorire l’attivazione di sottili cicli interpersonali disadattivi, inficiando il successo terapeutico (Liotti & Farina, 2011; Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Inoltre, in qualità di esseri umani, anche noi terapeuti abbiamo i nostri stati mentali interni e le nostre strategie di coping per fronteggiarli. Chi oscilla nella ruminazione, chi nel perfezionismo, chi nel ritiro. Se da un lato sappiamo (o almeno dovremmo sapere) che i coping ci fanno restare a lavoro fino alle 10.00 di sera, rischiando il burnout o di gestire male una relazione terapeutica, non sempre riusciamo a regolarli. Alcune strategie di coping, per loro natura, rafforzano le idee nucleari collegate allo schema disfunzionale maladattivo (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019), ma per altri versi ci aiutano a raggiungere grandi risultati, ad esempio in termini di performance. Infatti a partire da un wish di apprezzamento potremmo avere una rappresentazione di noi stessi di scarso valore a fronte di un altro umiliante/critico. Nel tentativo di gestire le emozioni che ne deriverebbero, come la vergogna, giusto per citarne una, le strategie di coping si attivano in modo automatico. Tra di esse il perfezionismo, il raggiungimento di standard elevati, il controllo relazionale, possono essere di aiuto, illudendoci che in questo modo l’altro non avrà modo di essere critico. Ma è davvero un modo funzionale per gestire la rappresentazione di sé schema correlata? (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). L’aspetto importante resta collegato alla consapevolezza e alla regolazione di essi. Come abbiamo accennato non è sempre semplice perché per loro natura schemi e coping si attivano in modo automatico e procedurale (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Eppure la riflessione su questi nostri aspetti ci permette di capire quanto è difficile raggirare l’evitamento per un paziente evitante oppure gestire i pensieri sospettosi per un paranoide. D’altronde, se è vero che ognuno di noi ha una sua organizzazione di personalità, dei tratti che rientrano nelle categorie diagnostiche dei disturbi di personalità del DSM-5, allora perché dovremmo noi terapeuti essere sovraumani? Perché reprimerli o inibirli? Faremmo fatica e sarebbe più patologico cercare di nasconderli che riconoscerli, integrarli e regolarli.

Infine, un altro aspetto critico: nell’era dei social i pazienti sanno chi siamo ancor prima di venire in studio. Conoscono il nostro viso, la nostra età e la nostra formazione. L’accesso ai numeri di telefono è così semplice che basta salvarlo in rubrica per poter sbirciare l’immagine WhatsApp. Quindi non dovrei sentirmi libera di utilizzare la foto buffa con mia nipote e il suo cerchietto con l’unicorno? Oppure quella con il mio partner? O ancor meno quella in cui mi scateno in discoteca? O davanti a una moltitudine di bottiglie di vino a cena con gli amici? Condividere su Facebook le mie idee politiche, religiose o musicali? E magari ho anche faticato tanto per scrollarmi da dosso quel perfezionismo e workaholism lavorativo per godermi il tempo libero, divertendomi. E anche lo sport, se mi piace fare danze caraibiche piuttosto che combattimento dovrei farmene un cruccio? Secondo l’immaginario comune andrebbe meglio lo yoga o il pilates per uno psicologo. Zumba, già siamo al limite, ma solo per le terapeute donne. Per i maschi è concesso il circolo degli scacchi e senza esagerare, quello del nuoto.

Se ci sentiamo liberi di essere quello che siamo non tremiamo più quando un paziente ci chiede: “Ma lei ha mai fumato uno spinello?” Oppure: “Dott. ma lei la terapia l’ha fatta?”. Ora come ora non mi faccio più problemi se vado a ballare e trovo il paziente del mercoledì delle 11.00 e non mi faccio più crucci se mi lascio andare ad un karaoke e guarda caso il proprietario del bar è un mio cliente. Quanta fatica mi è costata per arrivare a fare shopping nell’atelier della paziente del giovedì alle 20.00? Oppure se mi diverto e faccio casino a un concerto rock, ovvio, senza sforare gli articoli 28 e 38 del codice deontologico! Se c’è una cosa che abbiamo imparato, però, è che permettere agli altri di intravedere gli aspetti più umani di noi stessi a volte può essere una svolta perfino nella terapia. Ad esempio, recentemente, un paziente mi disse: “Dottore ha l’aria stanca tutto bene?”. Anni fa mi sarei irrigidito e avrei risposto frettolosamente che andava tutto bene cambiando subito discorso. Questa volta invece mi sono quasi rilassato, gli ho risposto che era vero, che ero stanco per via di un trasloco che pareva non finire più e che mi stava stressando tantissimo. Il paziente mi ha ascoltato con interesse dicendomi che mi capiva benissimo dato che lui nella sua vita aveva già fatto 4-5 traslochi. Ci siamo poi confrontati per qualche minuto su questo argomento condividendo aneddoti e impressioni. C’è stata intimità, empatia non eravamo più dottore e paziente, ma due persone in rispecchiamento reciproco di stati interni e mutue debolezze in cui il paziente può avventurarsi in un mondo relazionale inesplorato ma in un contesto sicuro (Hill, 2017).

Se, per certi versi siamo fortunati perché riusciamo a comprendere un minimo di più la mente umana e conosciamo alcuni meccanismi psicologici, nonostante questo restiamo esseri umani. E, come tali, abbiamo le nostre criticità. Ma se grazie al nostro lavoro personale (ne abbiamo parlato nell’articolo L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale), abbiamo faticosamente abbandonato i coping, abbiamo superato paura del giudizio o di critica, e abbiamo anche visto quanto è stata dura, allora sappiamo quello che stiamo chiedendo ai nostri pazienti. Potremmo perfino diventare dei modeling sufficientemente incoraggianti per l’altro. Sappiamo che è possibile lavorare sullo schema, sulle emozioni, gestire le normali ricadute, esplorare parti sane di sé o crearne di nuove se necessario. Senza saperlo il nostro modo di pensare, di stare in relazione, di lavorare con gli assetti interni viene implicitamente appreso dai pazienti e questo spesso è utile nella regolazione emotiva. Ad esempio, un paziente spaventato o disregolato può essere aiutato da un nostro stato interno regolato, ma non solo da esso. Quando i pazienti osservano i nostri comportamenti buffi, i nostri errori in diretta e “apprendono” come possono essere anche loro così, funzionare bene anche se non perfetti, ad esempio. Tale processo favorisce l’integrazione: parti di sé e dell’altro, che possono sembrare dissonanti, in realtà fanno parte dell’individuo nella sua totalità. Agli occhi dei pazienti restiamo terapeuti presenti, accoglienti e validanti anche se rovesciamo una tazza di thè mentre compiliamo la fattura, oppure diamo due appuntamenti alla stessa ora. Non siamo sempre noi? Oppure tutte le volte che una mia paziente cita luoghi, negozi famosi della mia città che io non conosco e mi prende in giro per questo, o quando la rinite cronica è in fase acuta e durante la seduta consumo 3 pacchi di fazzoletti cercandoli in giro come un tossicomane zombie, non siamo sempre quel terapeuta lì? Insomma il paradosso è che un terapeuta sanamente “scompensato” appare integro agli occhi del paziente. Il terapeuta è un essere umano con le sue parti sane e le sue fragilità, ma rimane comunque stabile nella mente del paziente, una persona che risponde in modo adeguato ai suoi bisogni (Meares, 2014). Rimaniamo integri anche se a volte ci capita di…….? E qui ognuno di noi può pensare a un proprio comportamento all’apparenza “scompensato”. Con sincerità! Ma se proprio questa proposta vi attanaglia e non vi sentite liberi vi ricordiamo che, almeno in questo momento mentre state leggendo, nessuno vi guarda nella mente!

 

“La Fotografia mi sta salvando la vita”: lo scatto fotografico come strumento di comunicazione

Negli anni Settanta del Novecento  è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza, aprendo così alla possibilità di utilizzarla anche con persone affette da malattie rare.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

 La fotografia, come la pittura e qualsiasi altra forma d’arte, può diventare uno strumento molto potente per far emergere un vissuto “invisibile”. La fotografia diventa terapeutica quando assume il delicato ruolo di facilitare e promuovere il riconoscimento di stati emotivi e la loro comunicazione.

Edith Kramer, pittrice e pioniera dell’arteterapia, sosteneva che l’opera d’arte fosse come un “contenitore di emozioni” e considerava l’atto stesso del creare come terapeutico di per sé. La fotografia cattura le emozioni attraverso l’obiettivo e l’atto stesso di fotografare può diventare, dunque, una forma terapeutica. La forza della fotografia in campo terapeutico non è dovuta tanto alla sua validità artistica che anzi risulta essere irrilevante, ma è data dalla sua efficacia nel rievocare il simbolico personale del paziente, nell’aiutarlo a far riemergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010).

Malattie non diagnosticate

Con il termine inglese “Malattie non diagnosticate” si intende un eterogeneo gruppo di patologie che restano senza nome a causa della mancanza di una diagnosi definitiva. Il ritardo o la completa assenza di diagnosi rappresenta uno dei principali ostacoli da superare per i pazienti affetti da malattie rare, condizioni che, essendo caratterizzate da un’estrema varietà e da una bassissima incidenza, è assai complicato identificare anche nel caso in cui siano effettivamente disponibili strumenti diagnostici adeguati. La diagnosi può essere definita come la conoscenza della patogenesi di una data malattia, basata su riscontri clinici e/o genetici e in grado di fornire una successiva prognosi e terapia. Il ritardo nella diagnosi, che può cambiare significativamente in base al tipo di patologia e al Paese d’origine del paziente, impedisce quindi, innanzitutto, l’inizio di un percorso di cura specifico, con conseguenze irreversibili e potenzialmente fatali per il malato. Inoltre, nel tentativo di ottenere una diagnosi corretta e definitiva, i pazienti e i loro familiari sono costretti ad affrontare un percorso spesso molto lungo, travagliato e dispendioso, nonché costellato di pareri medici errati e/o approssimativi ed esami clinici inconcludenti o non necessari. A tutto ciò occorre aggiungere il fatto che, in molti casi, è ancora oggi possibile che un malato resti senza diagnosi per tutta la vita. In base a quanto stabilito nelle “Raccomandazioni internazionali congiunte per affrontare le esigenze specifiche dei pazienti affetti da malattie rare non diagnosticate” (Ottobre 2016) è opportuno distinguere due distinti gruppi di pazienti senza diagnosi:

  • quelli ‘Non ancora diagnosticati’, che vivono con una patologia non diagnosticata nonostante una diagnosi sia disponibile, in quanto non sono stati riferiti a specialisti appropriati a causa di sintomi comuni e fuorvianti o di una presentazione clinica atipica di una malattia rara diagnosticabile;
  • quelli ‘Non diagnosticabili’ (SWAN), per cui non è disponibile un test per la diagnosi in quanto la malattia non è stata descritta o la causa non è stata ancora identificata. Questi ultimi possono ricevere una diagnosi erronea in quanto la malattia può essere facilmente confusa con altre. Le malattie di questo tipo, definite anche come “senza nome”, sono probabilmente malattie rare.

In entrambi i casi i malati, assieme alle loro famiglie, potrebbero non ricevere mai una diagnosi, e non è possibile comprendere a priori in quale dei due gruppi si trovi uno specifico paziente. Nonostante ciò, tale distinzione risulta essere fondamentale per la progettazione e l’adozione di strategie in grado di migliorare la diagnosi delle malattie rare.

Oltre il visibile: cosa sono le malattie rare?

Una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera una soglia stabilita. In UE la soglia è fissata allo 0,05 per cento della popolazione, ossia 5 casi su 10.000 persone. La metà delle malattie rare compaiono alla nascita o durante l’infanzia, l’altra metà si manifestano in età adulta. La gran parte delle malattie rare sono di origine genetica ma possono anche essere attribuite al risultato dell’esposizione ambientale durante la gravidanza o durante particolari fasi della vita, spesso in presenza di particolare suscettibilità genetica (Notizie acquisite dall’Istituto Superiore di Sanità). Ogni malattia può presentarsi in forme diverse e questo rende il suo riconoscimento ancora più difficile e complicato.

Esternamente la persona sembra star bene, non mostra i segni che ci si aspetterebbe di trovare in un soggetto “malato” proprio perché spesso le malattie rare sono malattie invisibili. Il corpo non platealizza, anzi spesso contiene, un profondo malessere prima fisico e poi psicologico. La persona vede se stessa trasformarsi, peggiorare. Quando le malattie rare colpiscono la popolazione giovane il rischio di un crollo psicologico è ancora più elevato. Il soggetto si trova a dover affrontare l’impossibilità di compiere alcune attività, effettuando spesso un paragone tra sé e gli altri, tra il prima e l’adesso. La malattia appare come aggressiva, spesso non c’è cura e si agisce solo per alleviare i sintomi usando farmaci, fisioterapia. Per la maggior parte di queste malattie, ancora oggi non è disponibile una cura efficace, ma numerosi trattamenti appropriati possono migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata. In alcuni casi sono stati ottenuti progressi sostanziali, dimostrando che non bisogna arrendersi ma, al contrario, perseguire e intensificare gli sforzi della ricerca e della solidarietà sociale. Tutte le persone affette da queste malattie incontrano simili difficoltà nel raggiungere la diagnosi, nell’ottenere informazioni, nel venire orientati verso professionisti competenti. Sono ugualmente problematici l’accesso a cure di qualità, la presa in carico sociale e medica della malattia, il coordinamento tra le cure ospedaliere e le cure di base, l’autonomia e l’inserimento sociale, professionale e civico. La solitudine è il pericolo maggiore che corre chi soffre di una delle tante malattie rare, la quale può sopraggiungere per la mancanza di informazione e conoscenza della patologia. La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento.

Guardandomi, nessuno sospetta che la mia vita possa essere fatta di intere giornate a letto con dolori profondi alle gambe, rinuncia ad una vita sociale normale, limitazioni, rallentamenti, infezioni, stanchezza cronica, ricoveri mensili…Tutto questo dall’esterno non si vede, sembro una normalissima ragazza sana e attiva. Ma se il dolore non è visibile, non vuol dire che non esista. E’ un combattimento corpo a corpo con qualcosa di ignoto, con la speranza, un giorno, di avere la mia vittoria definitiva (testimonianza di Claudia Amatruda, 23 anni).

I “costi” da subire

Indipendentemente dall’eterogeneità delle malattie rare, i pazienti colpiti e i loro familiari si confrontano con la stessa ampia gamma di difficoltà che deriva direttamente dalla rarità di queste patologie:

  • difficoltà nel giungere ad una diagnosi corretta
  • ritardo nella diagnosi e/o diagnosi errate
  • carenza di informazione
  • carenza di cure di qualità appropriate
  • alti costi delle cure

La prima sfida che devono affrontare i pazienti e le famiglie è giungere alla diagnosi: è questa spesso la battaglia più disarmante. Questa lotta si ripete ad ogni nuovo stadio di evoluzione della malattia. La carenza di conoscenza sulla malattia spesso mette in pericolo la vita dei pazienti e conduce ad enormi perdite: ritardi e ricoveri inutili, infinite consulenze specialistiche e prescrizione di farmaci e trattamenti inadeguati o persino inutili. Poiché si sa così poco sulla maggior parte delle malattie rare, una diagnosi accurata è solitamente tardiva, quando il paziente è già stato curato per molti mesi o perfino anni per un altro disturbo più comune. Spesso, solo alcuni sintomi sono riconosciuti e trattati.

In assenza di una diagnosi corretta, i dipartimenti di emergenza non sono in grado di fornire un trattamento adeguato. Incomprensione, depressione, isolamento e ansia sono parte integrante della vita di tutti i giorni della maggior parte dei genitori di bambini affetti da malattie rare, specialmente nel periodo che precede la diagnosi.

Tra i punti prima elencati vi è uno ancora più importante che spesso appesantisce il quadro clinico: la sfera sociale.

L’intera famiglia di un paziente affetto da malattie rare, sia adulto che bambino, è colpita dalla malattia del loro caro e diventa emarginata psicologicamente, socialmente, culturalmente ed è economicamente vulnerabile.

Dopo periodi molto lunghi si giunge alla fase 2: la diagnosi. Un altro momento cruciale per i pazienti affetti da malattie rare è la scoperta della diagnosi: a dispetto dei progressi fatti negli ultimi anni, la diagnosi di malattia rara è spesso comunicata in maniera inadeguata. Molti pazienti e le loro famiglie descrivono come insensibile e poco esaustivo il momento della comunicazione della diagnosi. Il problema è comune tra i medici, che troppo spesso non sono organizzati né addestrati nella buona pratica della comunicazione delle diagnosi.

Indipendentemente dalla modalità in cui la malattia rara viene scoperta, essa porterà ad un inevitabile cambiamento. Quando il soggetto riceve la diagnosi, benchè vi sia sollievo iniziale, successivamente egli entra in una fase della vita “nuova” e diversa dalla precedente. Il setting familiare si modifica, il suo ruolo familiare riceve bruschi cambiamenti e tutto viene riorganizzato e ripensato nel contesto “malato”. Il paziente assume così il ruolo di malato, dal quale difficilmente riesce ad evadere: la sfera personale, sociale e lavorativa viene riletta nell’ottica della malattia, fino a far emergere spesso nella mente di chi soffre “io sono la mia malattia.” Il soggetto non riesce ad andare oltre, crea un muro, nascondendosi in esso anche dai familiari stessi e da se stesso. Per aiutare i pazienti affetti da malattie rare e le loro famiglie a far fronte ai loro progetti per il futuro e al crollo delle loro aspettative è estremamente necessario un supporto psicologico. Ogni madre e padre sanno quante preoccupazioni e speranze per il futuro sono implicate quando si aspetta un figlio. Ma cosa significa avere una diagnosi – o avere un figlio con una diagnosi – di malattia rara non può essere spiegato. Spesso i sogni di carriera e benessere affettivi sono sostituiti da nuovi sogni come la speranza di riuscire a riportare il proprio familiare a casa dall’ospedale o che viva serenamente senza soffrire troppo.

La fotografia

Le reazioni di fronte ad una situazione di sofferenza sono ovviamente soggettive e sono collegate con l’immagine mentale interna che abbiamo di noi stessi: essa riguarda sia il modo in cui ci vediamo ma anche il modo in cui vogliamo essere visti dagli altri.

Oltre al riconoscimento della sua funzione documentaria e di valore estetico, la fotografia può essere un potente mediatore tra ricordo e memoria. Connessa da tempo, intimamente, alla nostra identità culturale, la fotografia è capace di sostituire la memoria con cui comunica e ne condivide il presente.

Le fotografie sono le orme della nostra mente, specchi delle nostre vite, riflessi del nostro cuore, memorie sospese che possiamo tenere in mano, immobili nel silenzio – se lo volessimo, per sempre. Non solo testimoniano dove siamo stati, ma indicano anche la strada che potremmo forse intraprendere, che ce ne rendiamo già conto oppure no…
(Judi Weiser)

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 1

La fotografia e le malattie rare

Quando la fotografia incontra una persona portatrice di una malattia rara può nascere un legame. Per alcune di esse, la fotografia può rappresentare l’unico modo per riuscire ad accettare l’etichetta “rara”, vivere la rassegnazione e cercare di accettarsi. Percorso questo non semplice, spesso la malattia cambia e modifica la percezione di sé, carica il corpo di una valenza negativa. Può accadere che chi soffre di malattie rare si isoli, disconosca il proprio corpo volgendosi più verso una negazione di sé, faticando nel guardarsi allo specchio perché quest’ultimo rimanda un’immagine di sé che non coincide. L’incertezza circa la natura del proprio malessere spesso conduce il malato, dopo una sequenza di visite mediche ed esami insoddisfacenti, ad isolarsi nel suo dolore e rifiutare qualsiasi proposta di indagine. La chiusura non riguarda solo la sfera amicale, la persona finisce con l’escludere anche la propria famiglia. Ci si sente soli anche se non lo si è. Esistono malattie rare cui si associa il fenomeno del farmaco ‘orfano’, che non si trova in commercio a causa dell’insufficienza di richiesta di mercato utile a ripagarne la produzione, a cui si combina la mancanza di esenzioni ed assistenza a livello pubblico e privato. Le caratteristiche proprie delle malattie rare (bassa frequenza nella popolazione, difficoltà diagnostica e conseguente peregrinazione fra diverse strutture sanitarie, scarsità di terapie risolutive, cronicità) sollecitano vissuti di disagio e solitudine nelle persone colpite da tali patologie e nei loro familiari più che in altre malattie. A questo punto entra in scena l’arte: la fotografia, la danza, la pittura sono solo alcune forme di arte capaci di far emergere i vissuti interni. E’ stato solamente negli anni Settanta del Novecento che è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza. La Foto-Terapia è una pratica terapeutica in cui vengono usate le foto personali, gli album di famiglia, le foto scattate da altri come elemento stimolante per approfondire la comprensione e migliorare le sedute terapeutiche condotte da professionisti specializzati (psicologi psicoterapeuti) e formati in tali tecniche, in un modo che non sarebbe possibile usando solamente le parole. Nella Foto-Terapia il terapeuta assegna dei compiti fotografici al paziente per poi aiutarlo nella lettura e nella comprensione dei suoi scatti all’interno del processo terapeutico. La fotografia però può essere adoperata anche in assenza di uno specialista, con lo scopo di aumentare il livello di auto-conoscenza, incrementare la propria consapevolezza, per risolvere piccoli conflitti non di tipo patologico, per attivare un cambiamento positivo o per migliorare le relazioni interpersonali. Essa può essere quindi usata anche in contesti didattici, formativi, educativi, ma sempre con finalità non cliniche e senza la presenza di uno psicoterapeuta. Ciò che si promuove in entrambi i casi, non è la tecnica o la bravura nel realizzare una foto, molto spazio viene lasciato al percorso simbolico in cui vengono attivate capacità e potenziale. È d’aiuto ed interessante scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni. Adrian Hill, insegnante d’arte, sottolinea l’importanza che riveste anche il solo fare fine a se stesso, in quanto esso sarebbe in grado di produrre quella scarica emozionale indispensabile per cercare di sfogare angoscia e dolore. Edith Kramer, precedentemente citata, sposta l’attenzione al processo creativo. Non è il prodotto finale a destare attenzione, ma lo è il processo creativo in quanto parte fondamentale per ottenere risultati: il lavoro non è visto solo in termini di espressione dei conflitti interni ma come risorsa per la loro risoluzione.

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 2

“Naiade”

Nelle situazioni più complesse e “rare” possono emergere risorse sconosciute e importanti. L’avvicinamento alla fotografia, come a qualsiasi forma d’arte, nasce il più delle volte spontaneamente. Si utilizzano perciò le immagini per esprimere la condizione di invisibilità del dolore, del buio di una diagnosi incompleta e non definitiva. Spesso la fotografia può essere usata come momento di condivisione, anche tramite i social network, per raccontare la malattia, la realtà degli ospedali, per raccontarsi. L’immagine fotografica si rivela essere uno strumento utile per guidare il paziente verso l’accettazione di situazioni difficili e sentimenti spesso insostenibili, laddove è necessario consolidare una comunicazione che va oltre il verbale. Prima di arrivare a questa fase, il percorso è lungo, spesso esso è preceduto da un periodo di non accettazione, di isolamento, di chiusura. Riprendere in mano la propria vita richiede una percentuale interna alta di resilienza. La capacità di reinventarsi, di “assorbire un urto senza rompersi”, porta, a piccoli passi, il paziente a guardarsi intorno e trovare strumenti personali e soggettivi utili per proseguire. Il confronto tra il prima, l’adesso e il dopo può far cadere vittima di depressione e tenta il soggetto in più occasioni. La famiglia e il soggetto sono in una posizione fragile e instabile, ma soprattutto nuova, ingestibile e intollerabile in alcuni casi. Alcuni trovano nella fotografia la propria via di uscita. Il semplice riuscire a concentrarsi sull’immagine, a cercare di catturare i dettagli, funge probabilmente da alternativa a rimuginio o ruminazione che possono incastrare il pensiero in un circolo vizioso. Di riflesso, il vedere la persona sofferente muoversi, uscire, impegnarsi in una attività, concentrarsi, è di aiuto anche ai familiari. Potremmo supporre a questo punto che la fotografia abbia quindi una molteplicità di funzioni che si ripercuotono positivamente su tutto il nucleo familiare. La fotografia acquista per la persona un potere curativo (da qui il richiamo alle naiadi). Alla fotografia dovrebbe però essere sempre accompagnato un percorso terapeutico e di sostegno familiare per rinforzare le risorse personali. È opportuno però ricordare che la riuscita non è dovuta ad un potere “magico” attribuibile ad un oggetto quale la fotocamera, essa scaturisce da un lungo lavoro, spesso scandito da cadute, fallimenti e successi attribuibili al soggetto. La persona si allontana dalla sua zona di comfort per ricominciare a “camminare”.

Per me la cosa più bella è svegliarmi, uscire e andare in giro a guardare. Guardare tutto. Senza che nessuno stia li a dirmi: devi guardare questo o quello (Josef Koudelka)

Malattie rare la fotografia come strumento di comunicazione e terapia Fig 3

 

APA Style: arrivata la nuova edizione del manuale

Alla fine dello scorso anno, più precisamente ad ottobre 2019, l’American Psychological Association (APA) ha pubblicato la settima edizione dell’APA Publication Manual che sostituirà l’ultima edizione del 2009.

 

La versione aggiornata del manuale, composto da 12 capitoli, si propone di fornire linee guida più ampie e agevoli relativamente alla modalità di citazione di fonti bibliografiche e formattazione del testo.

In questo articolo verrà proposta una panoramica delle principali sezioni che sono state revisionate nel manuale.

Per quanto riguarda la bibliografia e le citazioni nel testo, il nuovo manuale propone una serie di esempi che facilitano la comprensione della modalità corretta di citazione delle fonti, anche di quelle online.

Tra i principali cambiamenti nella settima edizione troviamo:

  • la citazione nel testo per le opere con tre o più autori è ora accorciata sin dalla prima citazione; ovvero è necessario inserire solo il primo autore seguito da “et al.”;
  • il riferimento geografico dell’editore non è più incluso;
  • nella bibliografia finale devono essere inserite le iniziali di cognome e nome fino ad un numero massimo di 20 autori diversamente dai 7 indicati nella penultima edizione del manuale; sono presenti anche indicazioni su come citare lavori con più di 20 autori;
  • i DOI sono formattati come gli URL e l’etichetta “DOI:” non è più necessaria.

Altri cambiamenti proposti nel nuovo manuale riguardano una maggiore flessibilità del formato del testo con, ad esempio, l’indicazione di più opzioni tra cui scegliere relativamente al tipo di carattere e alla sua dimensione. Inoltre, la dicitura “Running head” è stata eliminata in favore solo del titolo abbreviato e del numero di pagina.

Sono presenti anche dei cambiamenti per quel che riguarda la formattazione di tabelle e figure sebbene essa non sia cambiata radicalmente rispetto alla sesta edizione del manuale.

Il nuovo manuale, infine, prevede anche un capitolo per supportare gli autori in uno stile di scrittura che sia inclusivo e che eviti pregiudizi su temi come il genere, l’età, la disabilità, l’identità razziale ed etnica e l’orientamento sessuale. Anche in questo caso sono fornite delle esemplificazioni.

Il manuale dovrebbe iniziare ad essere ufficialmente utilizzato a partire dalla primavera 2020; nel frattempo restano valide le indicazioni presenti nella sesta edizione pubblicata nel 2009.

 

Anakin Skywalker e il suo passaggio al lato oscuro – La LIBET nelle narrazioni

Quali sono i processi che porteranno Anakin Skywalker ad un punto di rottura? Cosa contribuisce alla manifestazione sintomatica di questo personaggio, caratterizzata dal passaggio al lato oscuro?

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 14) Anakin Skywalker

Introduzione

Verrà di seguito analizzato il personaggio di Anakin Skywalker da un punto di vista evolutivo in ottica LIBET. In particolare, facendo riferimento alla prima trilogia del film STAR WARS (episodio I: La minaccia fantasma; episodio II: L’attacco dei cloni; episodio III: La vendetta dei Sith), si approfondiranno: i processi di apprendimento, il tema doloroso, il piano semiadattivo, i processi di metacontrollo ed i processi di invalidazione, che portano il protagonista Anakin Skywalker ad un punto di rottura, ovvero alla manifestazione sintomatica caratterizzata dal passaggio al lato oscuro.

Processi di apprendimento

Nel primo film della trilogia (Episodio I) viene raccontata l’infanzia del protagonista.

Anakin è un bambino di nove anni che vive nel pianeta di Totooine in condizione di schiavitù, costantemente trattato come inferiore e indegno dal padrone Watto. Il film fornisce importanti informazioni circa la dimensione più intima ed emotiva del personaggio: Anakin è cresciuto senza un padre, solo con la madre, la quale “dipende” totalmente da lui (sia concretamente, attraverso il lavoro, sia emotivamente in quanto unico uomo di casa e fonte di affetto ed amore per la donna). È chiaro che il personaggio non può permettersi di pensare a sé, tantomeno di abbandonare la madre. Ad un certo punto Anakin viene “ceduto” al Jedi Qui-Gon Jinn, in seguito ad una scommessa persa tra il Jedi e Watto. Qui-Gon Jinn “libera” formalmente Anakin dalla schiavitù, conducendolo ad intraprendere una nuova strada, quella di Jedi, espressione di nuove e grandi possibilità; questa scelta viene validata ed avvallata anche dalla madre, tuttavia Anakin sperimenta un forte senso di colpa.

Tema

Appare piuttosto comprensibile come queste esperienze durante l’età evolutiva abbiano contribuito alla costruzione del tema doloroso di indegnità: io indegno, io sbagliato, ma soprattutto io colpevole.

Il nuovo mondo Jedi, per quanto diverso dalla schiavitù di Tatooine, non fa altro che confermare e rafforzare il tema doloroso: Anakin è dotato di grande forza, tuttavia in quanto apprendista deve sottostare agli insegnamenti e alla posizione del maestro (Qui-Gon Jinn muore e il maestro di Anakin diviene Obi One Kenobi). L’apprendista mostra evidenti segni di risentimento e frustrazione e si trova nuovamente in una condizione di inferiorità. Inoltre, nel mondo Jedi non è permesso provare sentimenti di attaccamento ed amore, poiché da questi scaturiscono emozioni quali paura, invidia e odio, che portano alla via del lato oscuro. Anakin ha sempre nutrito nostalgia e amore nei confronti della madre, queste emozioni hanno una duplice conseguenza: senso di colpa nei confronti dei Jedi, poiché gli hanno dato fiducia e lui sente di tradirli; senso di colpa nei confronti della madre che sogna più volte in pericolo.

Ancora una volta viene rafforzato il tema doloroso: io colpevole.

Processi di metacotrollo

Per il protagonista questo tema è insopportabile, dolorosissimo e intollerabile, fin da quando è bambino. Infatti da piccolo per non sentirsi indegno, sbagliato e colpevole ha cercato di “distrarsi” in diversi modi: idealizza il mondo Jedi e sogna ad occhi aperti di potervi entrare e farne parte, un giorno. Costruisce il droide C-3PO, droide dalle elevate potenzialità che diventerà il suo compagno di avventure. Infine, nonostante il divieto della madre, partecipa alle gare di sgusci, gare di velocità in cui Anakin sfida la vita, uscendone vincente.

Da giovane adulto, sempre per non sentirsi tale, si impegna nell’arte Jedi, promettendosi di divenire il Jedi più forte di tutti. L’obiettivo è quello di diventare il Jedi più potente, trovarsi “più in alto di tutti” in modo da poter essere superiore agli altri e alla morte; inoltre desidera diventare l’unico in grado di decidere della vita e della morte degli altri.

Tuttavia ad un certo punto nemmeno questo è sufficiente, anzi il mondo Jedi viene percepito come limitante e critico, quindi Anakin decide di passare al lato oscuro, considerato l’unica via per evitare la morte e quindi per non entrare in contatto con il tema doloroso.

Piano

Anakin per non entrare in contatto con il tema doloroso, per lui intollerabile, mette in atto strategie semiadattive riconducibili ad un piano di tipo immunizzante. Per non far emergere il tema “io indegno” si ripromette, come già detto, di divenire il Jedi più forte, ma nel raggiungere tale obiettivo mette in atto emozioni rabbiose nei confronti di chiunque si trovi in una posizione “sociale” superiore alla sua (il consiglio Jedi, il maestro Obi One Kenobi). Inoltre, per non entrare in contatto con il tema “io colpevole” riversa tutta la rabbia e la colpa sugli altri, incolpando il proprio maestro ed il consiglio dei Jedi della morte della madre e del fatto che non diano spazio allo sviluppo della sua forza, considerata un mezzo di salvezza.

Quindi, nel complesso Anakin manifesta un comportamento di tipo aggressivo e rabbioso, caratterizzato da attacco verso gli altri, tipico di un piano immunizzante. Questo  lo porta ad aggredire gli altri verbalmente e fisicamente, fino ad arrivare al passaggio sintomatologico al lato oscuro.

Processi di invalidazione

I processi di invalidazione sono molteplici.

Il primo episodio riguarda l’innamoramento per Padme, vietato dall’arte Jedi, come specificato precedentemente. Innamorandosi di Padme, Anakin entra in contatto con il senso di colpa e con la paura di perderla (io colpevole, non degno).

Il secondo e più importante episodio riguarda la morte della madre. Anakin sogna la madre in difficoltà e decide di andarla a cercare per poterla salvare. Tuttavia, quando la raggiunge, è troppo tardi e la donna muore fra le sue braccia. In questa circostanza Anakin entra pienamente in contatto con il senso di colpa, e quindi con il tema doloroso “io colpevole”,  ed in preda alla rabbia fa una strage di Tusken (popolazione che ha catturato e portato alla morte la madre).

Da qui si ha un vero e proprio esordio sintomatico, già evidente con sintomi prodromici, rappresentati nei film con l’avvicinamento al lato oscuro, per concludersi in una vera e propria sofferenza patologica che si rende palese con il passaggio definitivo al lato oscuro e la creazione del personaggio di Darth Vader.

 

Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (2020) di V. Adamo – Recensione del libro

Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie, offre un interessante approfondimento sull’ansia in generale e sulle zoofobie in particolare, descrivendone le caratteristiche e analizzando le tecniche di trattamento maggiormente efficaci.

 

Vincenzo Adamo (2020), psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, psicopatologo forense e formatore; nel suo saggio Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (edito da in.edit Psicologia), spiega, utilizzando un linguaggio semplice, da cosa si originano le zoofobie. Il libro inizia con la storia di Marco e Laura due ragazzi che hanno una cosa in comune: la Zoofobia, ovvero la fobia per gli animali. Entrambi riconoscono che il loro timore è eccessivo e ritengono necessario il suo superamento, in quanto si sentono ostacolati nella loro libertà personale.

I due protagonisti potrebbero sentirsi ostacolati perché nelle zoofobie, vengono messe in atto due risposte: evitamento delle situazioni in cui potevano trovarsi gli animali di cui manifestavano la fobia e fuga nel caso in cui si trovavano di fronte ad essi (Markus, 1987).

Prima di individuare il tipo di trattamento psicoterapeutico da applicare alle persone affette da zoofobie, un passo necessario è quello di comprenderne l’origine e la natura dell’ansia in generale. Pertanto, l’autore nel primo capitolo fornisce diverse definizioni di ansia, i corrispondenti sintomi fisici tra cui: aumento dell’attenzione, della pressione arteriosa, respiratoria e cardiaca, della sudorazione, aumento del sangue a livello muscolare, aumento della tensione muscolare, rallentamento della digestione, riduzione della secrezione della saliva, aumento degli zuccheri prodotti dal fegato per avere più energia (Zinbarg et al., 1992).

Oltre ai sintomi fisici appena citati, l’autore descrive le tipologie di ansia e quando essa è fisiologica o patologica, i sintomi, gli effetti che produce nell’individuo.

Nel secondo capitolo sono state analizzate le cause dell’ansia in particolare è stata analizzata la componente ereditaria dell’ansia, i processi biologici che avvengono a livello cerebrale ed i processi che avvengono a livello intrapsichico e si è posta enfasi al modello cognitivo dell’ansia di Clark e Beck (2010). Inoltre è stata analizzata l’ansia come risposta appresa, intesa come il risultato dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente (Bandura, 1969).

Ciò che rende interessante lo studio dei disturbi d’ansia, sono le diverse cose di cui gli esseri umani hanno paura; nel terzo capitolo sono state descritte le diverse tipologie di fobie, dalle più comuni alle meno frequenti, ponendo una particolare enfasi alle zoofobie (argomento che verrà descritto nel dettaglio nel capitolo successivo). Inoltre, sono stati descritti i sintomi, le loro cause e quando emergono.

Dopo aver compreso le origini dell’ansia in generale e delle zoofobie nel particolare, nell’ultimo capitolo sono stati descritti i trattamenti e le tecniche maggiormente efficaci per le zoofobie. In quest’ultimo capitolo sono stati esposti in rassegna le tecniche che possono essere utilizzate nel trattamento delle zoofobie. In particolare la Realtà Virtuale sembrerebbe elicitare le stesse reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale, incrementare il senso di autoefficacia nel paziente e ridurre significativamente le fobie anche nei soggetti con particolari condizioni (ad esempio soggetti che hanno delle lesioni cerebrali e disturbo dello spettro autistico). Infine, sono stati esposti i vantaggi, i limiti e le recenti ricerche inerenti l’esposizione; una tecnica che consiste nell’esposizione diretta agli animali che producono sintomi fobici nei soggetti affetti da zoofobia.

 

Egocentrismo emotivo: come l’esperienza emotiva influenza la percezione delle emozioni altrui

Per orientarci nelle interazioni sociali con gli altri individui, comprendere il loro stato d’animo, così come i loro comportamenti, è necessario basarsi su degli indizi indiretti, dal momento che ci è preclusa la possibilità di avere accesso alla fonte diretta: la loro mente.

 

Generalmente, è possibile contare su degli indizi contestuali, ovvero l’interpretazione della situazione in cui l’azione si svolge, per inferire con discreta verosimiglianza cosa l’altra persona possa provare e dedurre o predire il suo comportamento; un altro metodo di indagine che l’essere umano ha perfezionato nel corso dell’evoluzione, è la capacità di interpretare gli stati emotivi a partire dalle espressioni del volto della controparte, operazione facilitata dalla relativa regolarità inter individuale e cross-culturale delle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, sorpresa e disgusto), di intuibile valenza adattiva, e di alcune emozioni dette secondarie (divertimento, disprezzo, contentezza, imbarazzo, eccitazione, colpa, orgoglio, sollievo, soddisfazione, piacere sensoriale, vergogna), come formalizzato nella teoria Neuroculturale delle emozioni (Ekman, 1971).

Tuttavia, alcune ricerche nell’ambito della cognizione sociale, hanno evidenziato come non solo indizi esterni, come quelli contestuali o delle espressioni altrui, ma anche indizi interni, come lo stato emotivo della stessa persona che si trova a giudicare la situazione, vengono presi in considerazione in maniera più o meno esplicita nell’attribuzione di senso e nel guidare le predizioni degli individui (Silani et al., 2013; Steinbeis & Singer, 2014), fenomeno che è stato denominato Egocentrismo Emotivo.

Quando veniva chiesto di esprimere giudizi emotivi circa loro stessi ed un altro individuo, in situazioni congruenti o incongruenti, ad esempio subendo entrambi una stimolazione tattile piacevole o dove uno ricevesse una stimolazione piacevole e l’altro una stimolazione fastidiosa, gli individui dimostravano un bias costante verso il proprio stato emotivo, dimostrando un’inevitabile tendenza a proiettare la propria emozione sull’altro, rendendo meno accurati i loro giudizi.

I risultati di questi studi che, va sottolineato, precludevano la possibilità di vedere in prima persona la reazione dell’altro alla stimolazione subita e si basavano soltanto sulla descrizione contestuale, sono stati interpretati come una difficoltà nel discriminare l’articolazione sé/altro in termini di rappresentazione degli stati emotivi (Hoffman et al., 2016; Silani et al., 2013; Tomova et al., 2014).

Altri studi, che includevano invece la possibilità di assistere alle espressioni emotive della controparte per formulare il giudizio, hanno riscontrato come risultasse più facile riconoscere correttamente le emozioni altrui quando queste fossero congruenti con quella sperimentata contestualmente dal soggetto giudicante (Qiao-Tasserit et al., 2017; Schmid & Schmidmast, 2010): in questo caso, i risultati sono stati interpretati come evidenze del fatto che gli stati emotivi esperiti dal soggetto attivassero le rappresentazioni mnestiche corrispondenti, fungendo di fatto da facilitatori nel riconoscimento e nell’elaborazione cognitiva di informazioni congruenti con esse (Forgas, 2017). Tuttavia, una spiegazione alternativa potrebbe essere nuovamente quella di un bias di attribuzione dei propri stati mentali agli altri, ovvero come riflesso dell’Egocentrismo Emotivo: per verificare questa eventualità, Trilla e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca sperimentale su 50 soggetti, sottoponendoli ad un task di percezione emotiva dopo aver indotto differenti stati emozionali.

I soggetti sono stati esposti dapprima ad una combinazione di ricordi autobiografici rievocati da loro stessi e di clip audiovisive create dagli sperimentatori, con l’obiettivo di elicitare in loro una determinata emozione (felicità, tristezza o neutra). In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se le immagini che venivano loro mostrate raffigurassero espressioni di felicità o di tristezza: i volti presentati si configuravano in realtà come figure ambigue, create cioè ad hoc dagli sperimentatori mescolando i connotati di volti felici o tristi tratti dal Database FACES (Ebner et al., 2010). Ad ogni trial successivo il volto mostrato presentava il 5% in più dell’emozione contraria a quella appena identificata dal soggetto, decrescendo su di una scala immaginaria nel continuum tra felicità e tristezza: se ad esempio il volto veniva correttamente identificato come tristezza, quella successiva avrebbe mostrato il 5% in più di felicità, “diluendo” la tristezza ulteriormente fino ad un punto (reversal point) in cui il partecipante smetteva di percepire la tristezza iniziando a percepire felicità. Dopo aver raggiunto per otto volte il reversal point la scala terminava.

Da ultimo, i partecipanti hanno compilato dei questionari volti a raccogliere informazioni demografiche così come indici disposizionali di empatia, misurati attraverso due scale dell’Interpersonal Reactivity Index (empathic concern e prospective taking) ed eventuali tratti caratteristici dello spettro autistico, che sono stati associati nella letteratura scientifica ad una difettualità nel riconoscimento delle emozioni e caratterizzati da un maggiore egocentrismo nei compiti di mentalizzazione cognitiva.

I risultati hanno confermato l’esistenza del bias di Egocentrismo Emotivo, ovvero che la percezione delle emozioni venisse effettivamente influenzata dallo stato emotivo dei partecipanti e che l’emozione provata dai soggetti fosse un predittore significativo dell’emozione percepita nei volti che venivano loro mostrati. Inoltre, è stato riscontrato come una maggiore tendenza nel prospective taking, misurata con il questionario sull’empatia, correlasse con una minore influenza del bias di Egocentrismo Emotivo, limitando la misura in cui l’emozione provata dal soggetto influenzasse il suo giudizio circa gli stati emotivi altrui e di fatto rimarcando come esso sia legato alle abilità di cognizione sociale. Una recente metanalisi (Israelashvili et al., 2019) sembra supportare questi dati riscontrando un’associazione positiva tra la disposizione individuale al prospective taking e una maggiore accuratezza nel riconoscimento delle emozioni, interpretata come una maggiore attenzione focalizzata sull’”altro” durante il processo di inferenza circa gli stati mentali, che minimizza l’interferenza del proprio stato emotivo in questo processo. Da ultimo si è esclusa un’associazione tra l’Egocentrismo Emotivo e i tratti dello spettro autistico, che sembrano incapaci di contrastare il bias di egocentrismo, così come con l’indice di empathic concern, che sembra supportare studi precedenti che associano questo tratto a bias di attribuzione altercentrici, ovvero di natura speculare a quelli egocentrici (Hoffmann et al. 2016).

Studi futuri dovrebbero mirare ad estendere i risultati ottenuti, ad esempio adottando un paradigma più ecologico che non limiti a due sole emozioni le possibilità di scelta dei partecipanti, così come sarebbe auspicabile prevedere un gruppo di controllo che esprima giudizi di natura non emotiva pur essendo stato sottoposto all’induzione emotiva preliminare.

 

Stimolazione cerebrale non invasiva per potenziare gli effetti di interventi comportamentali e di psicoterapia

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva hanno guadagnato sempre maggiore popolarità e sono state affiancate ad altri interventi psicoterapeutici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali.

Alessia Gallucci e Alessandra Vergallito – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva sono sempre più spesso utilizzate non solo a scopo di ricerca, ma anche per potenziare gli effetti di trattamenti comportamentali con pazienti con disturbi neuropsicologici (Buch et al., 2017; Wessel et al., 2015) e psichiatrici (Brunelin et al. 2018; Palm et al., 2017; Jahshan et al., 2017).

I risultati tuttavia sono da considerarsi parziali e necessitano di maggiori evidenze sperimentali per giungere ad una raccomandazione clinica rispetto all’efficacia di tali trattamenti (Vicario et al., 2019).

Il presente articolo ha lo scopo di illustrare lo stato dell’arte rispetto all’utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale in ambito psichiatrico, affiancato ad interventi di tipo farmacologico e di psicoterapia.

1. NIBS cosa sono e come funzionano

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva (non-invasive brain stimulation, NIBS) hanno guadagnato sempre maggiore popolarità tra ricercatori e clinici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali dei partecipanti.

Le NIBS includono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione elettrica (tES), che è ulteriormente suddivisa a seconda della modalità con cui la corrente viene somministrata, ovvero continua (stimolazione transcranica a corrente continua, tDCS), alternata (stimolazione transcranica a corrente alternata, tACS) o random (stimolazione transcranicarandomnoise, tRNS). Per gli scopi del presente articolo saranno trattate solo TMS e tDCS, che hanno avuto maggiore applicazione in ambito sia clinico che di ricerca.

TMS e tDCS influenzano l’eccitabilità corticale utilizzando meccanismi differenti. La TMS è costituita da una bobina (coil) collegata ad un condensatore; lo strumento è in grado di rilasciare un campo magnetico di forte intensità (fino a 4T) e breve durata (280μs). L’impulso induce una depolarizzazione sopra-soglia nella membrana cellulare nei neuroni sottostanti, generando un potenziale d’azione (Barker et al., 1985, 1987), seguito da una depolarizzazione o iperpolarizzazione dei neuroni interconnessi. La risoluzione spaziale della TMS varia a seconda della forma del coil, ad esempio un coil a forma di 8 (o coil a farfalla) permette una stimolazione focale, consentendo di stimolare piccole porzioni di corteccia (0.5-2 cm2).

La TMS può essere somministrata in modalità impulso singolo, in cui gli impulsi vengono rilasciati con un intervallo temporale tale da non indurre modificazioni a lungo termine nella corteccia cerebrale sottostante, o ripetitiva (rTMS), che ha lo scopo di causare cambiamenti plastici nelle aree stimolate. In particolare, si parla di rTMS a bassa frequenza (low frequency, lf-rTMS) quando gli impulsi sono rilasciati con una frequenza inferiore ad 1 Hz per alcuni minuti (effetto riduzione dell’eccitabilità dell’area) vs rTMS ad alta frequenza (high-frequency, hf-rTMS), in cui gli impulsi sono rilasciati con una frequenza superiore a 3 HZ (aumento dell’eccitabilità dell’area stimolata).

La tDCS invece agisce attraverso l’applicazione di una corrente elettrica debole (~1-2 mA) per un tempo variabile (10-20 minuti, Nitsche et al., 2008), utilizzando una coppia di elettrodi posizionati sullo scalpo (Nitsche&Paulus, 2000; Priori et al., 1998). Uno degli elettrodi ha carica positiva (anodo), mentre l’altro ha carica negativa (catodo). I due poli influenzano in maniera differente la corteccia cerebrale sottostante, infatti il polo positivo depolarizza la membrana neuronale, mentre il polo negativo la iperpolarizza. A differenza della TMS, la polarizzazione indotta dalla tDCS è sottosoglia, ovvero troppo debole per generare un potenziale d’azione; tuttavia, essa è in grado di indurre cambiamenti nel potenziale di membrana a riposo, rendendo la risposta neuronale agli stimoli più o meno probabile (Bindman et al., 1964). La risoluzione spaziale della tecnica è meno focale rispetto alla TMS, gli elettrodi infatti hanno dimensioni variabili (ad esempio sono spesso utilizzati in letteratura elettrodi 5×5 cm, per un totale di 25 cm2 e.g. Nitsche et al., 2008).

Oltre alla differenza nel tipo di effetto indotto a livello cerebrale, le due tecniche hanno peculiarità e limiti che le rendono più o meno utilizzabili in determinati contesti. La TMS, a differenza della tDCS, è uno strumento costoso e difficilmente trasportabile. La somministrazione della TMS, inoltre, può essere distraente/fastidiosa in termini somato-sensoriali: gli impulsi infatti generano dei “click” sonori e contrazioni muscolari facciali, che possono renderla difficilmente utilizzabile mentre il partecipante sta svolgendo un compito.

La tDCS, d’altro canto, non genera particolari sensazioni sensoriali se non un leggero formicolio/prurito sotto agli elettrodi al momento dell’inizio della stimolazione (e.g. Poreisz et al., 2007), per questo è particolarmente adatta ad essere utilizzata durante lo svolgimento di compiti e nei casi in cui sia richiesta una condizione di controllo con stimolazione di tipo sham/placebo (Gandiga et al., 2006).

2. Ambiti di utilizzo delle NIBS: ricerca, diagnosi, trattamento

Le NIBS sono ampiamente utilizzate in ambito di ricerca, allo scopo di indagare lo stato funzionale dei sistemi cerebrali, tracciare una relazione causale tra una certa area/network neurale e l’esecuzione di un compito, approfondire la connettività funzionale tra aree cerebrali e indurre/mappare cambiamenti nella plasticità neurale.

A livello diagnostico, la TMS è utilizzata nel valutare la funzionalità del sistema motorio in diverse patologie, come sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, ictus, disturbi del movimento che riguardano la colonna vertebrale, i nervi cranici e facciali (Rossini and Rossi, 2007; Groppa et al., 2012; Rossini et al., 2015; Menon et al., 2015). Numerosi studi, tuttavia, suggeriscono che la tecnica possa essere utile nella diagnosi differenziale di diverse forme di demenza (e.g. Benussi et al., 2017; Pierantozzi et al., 2004), per individuare specifici marker di trattamento (Canali et al., 2014) e monitorare il trattamento riabilitativo (Cipollari et al., 2015).

Per quanto riguarda le indicazioni al trattamento, a parte poche eccezioni (es. depressione, vedi il paragrafo successivo), le NIBS sono attualmente utilizzate in ambito riabilitativo neuropsicologico e psichiatrico a livello solo sperimentale. Nonostante siano considerate come potenzialmente utili per il trattamento di svariati disturbi, i ricercatori concordano che siano necessarie più evidenze empiriche per stabilirne l’efficacia clinica e tracciare protocolli riabilitativi specifici. A questo scopo, panel di esperti mondiali si occupano periodicamente di valutare lo stato dell’arte sull’argomento e tracciare linee guida per l’utilizzo delle tecniche nella pratica clinica.

Per gli scopi del presente articolo descriveremo lo stato dell’arte dell’utilizzo delle NIBS come intervento nei disturbi psichiatrici.

3. Applicazione delle NIBS in ambito psichiatrico

Ad oggi, i disturbi psichiatrici sono tra le patologie più diffuse in tutto il mondo, con un impatto estremamente negativo sulla qualità di vita e il funzionamento socio-lavorativo, connesse ad alti tassi di mortalità ed elevati costi per i servizi sanitari (Wittchen et al., 2011). Nonostante la maggior parte dei pazienti acceda a trattamenti psicoterapici e farmacologici standard, i dati mostrano che il 20–30% dei pazienti con disturbo depressivo maggiore, il 40-60% dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo e fino al 50% dei pazienti con schizofrenia non rispondano ai trattamenti tradizionali (Bloch et al., 2006; Rush et., 2006; Scholten et al., 2013; Yamanaka et al., 2010).

Questi dati, insieme all’evidenza circa il coinvolgimento di specifici network neurali nei disturbi psichiatrici, hanno reso necessaria la ricerca su forme alternative di trattamento come le NIBS che, affiancando le terapie tradizionali, possono potenziarne gli effetti, consentendo di sviluppare interventi il più possibile specifici ed efficaci.

In particolare, rispetto alla possibilità di combinare la psicoterapia con l’uso delle NIBS i protocolli prevedono un trattamento intermittente, allo scopo di indurre cambiamenti nella funzionalità neurale e nell’outcome comportamentale. Inoltre, gli studi evidenziano che gli effetti neurobiologici della psicoterapia non dipendono solo dalle anomalie anotomo-funzionali che caratterizzano i diversi disturbi, ma anche dagli effetti specifici conseguenti all’applicazione delle NIBS sulla corteccia. Allo stesso modo, in linea con gli studi sull’efficacia dei trattamenti di riabilitazione motoria e cognitiva (Buch et al., 2017; Jahshan et al., 2017), gli effetti degli interventi psicoterapici sull’apprendimento e sui meccanismi di controllo top-down, possono favorire il mantenimento a lungo termine degli esiti delle NIBS (Bajbouj & Padberg, 2014). Da un punto di vista pratico, le NIBS sono economiche e generalmente ben tollerate dai pazienti, favorendo la loro applicazione anche in contesti di sanità pubblica. Confrontate con la farmacoterapia, le NIBS presentano meno effetti collaterali, aumentando la possibilità di compliance dei pazienti.

Nei paragrafi successivi sarà descritto lo stato dell’arte dell’applicazione delle NIBS nei disturbi psichiatrici.

3.1  Disturbo depressivo maggiore (DDM)

Il DDM è il disturbo rispetto al quale l’efficacia delle NIBS è stata maggiormente dimostrata. Il razionale che motiva lo sviluppo e l’applicazione di protocolli delle NIBS per il trattamento del DDM deriva dall’evidenza di anomalie strutturali e funzionali che coinvolgono la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e ventromediale (VMPFC), dell’amigdala e dell’ippocampo (Campbell et al., 2004; Grimm et al., 2009). In particolare, le ricerche evidenziano un’ipoeccitabilità della DLPFC sinistra e un’ipereccitabilità della DLPFC destra (Debener et al., 2000). I protocolli riabilitativi con NIBS hanno quindi l’obiettivo di ristabilire il disequilibrio interemisferico, utilizzando la hf-rTMS sulla DLPFC sinistra e lf-rTMS sulla DLPFC destra (Lefaucheur et al., 2014), oppure la tDCS con stimolazione anodica sulla DLPFC sinistra con catodo sopraorbitale controlaterale, anche se diversi autori stanno suggerendo l’utilizzo di un montaggio bi-emisferico con anodo sulla DLPFC sinistra e catodo sulla regione omologa destra (e.g. Brunoni et al., 2012). L’efficacia della rTMS nel DDM è confermata dalla sua approvazione nel trattamento della depressione farmaco resistente da parte della FDA (Food and Drug Administration, 2008). Per quanto riguarda la rTMS, diversi studi hanno mostrato miglioramenti significativi anche a distanza di tre mesi dalla fine del trattamento quando la stimolazione era associata a CBT (e.g. Donse et al., 2018). In modo cruciale, i miglioramenti osservati poco dopo l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo che sia possibile capire in fase molto precoce se una persona migliorerà oppure no.

Rispetto alla rTMS, uno studio su singolo caso (Vedeniapin et al., 2010) ha mostrato un miglioramento significativo della sintomatologia depressiva dopo 39 sessioni di rTMS ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra, 14 delle quali in combinazione con la terapia cognitivo comportamentale (CBT) standard. Gli effetti dell’intervento combinato sono stati osservati anche al follow-up a distanza di tre mesi. Uno studio più recente (Donse et al., 2018) ha sottoposto 196 pazienti a 10 sessioni CBT in cui la rTMS è stata applicata ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra o a bassa frequenza sulla DLPFC destra. In linea con lo studio precedente, i risultati hanno mostrato una remissione significativa dei sintomi anche dopo tre mesi dalla fine del trattamento, senza particolari differenze tra i due protocolli di stimolazione rTMS. Crucialmente, i miglioramenti osservati dopo poco l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo la possibilità di considerare le prime fasi di trattamento come riferimento per le successive.

L’efficacia della tDCS nel DDM è tuttora oggetto di dibattito, anche se le più recenti linee guida (Lefaucheur et al., 2017) suggeriscono un’indicazione al trattamento di livello B (efficacia probabile). Uno studio su un singolo caso ha mostrato la sua efficacia quando applicata insieme alla CBT (D’Urso et al., 2013), non replicato da Welch e collaboratori (2018), che registravano miglioramenti sia in caso di stimolazione reale che placebo. Anche la combinazione tra tDCS e Cognitive Control Therapy, che consiste in una serie di esercizi di potenziamento della memoria di lavoro da eseguire al computer, è stata oggetto di studio, mostrando effetti nel caso in cui le due fossero combinate. Gli effetti erano più forti a distanza di tempo rispetto a quelli rilevati subito al termine del trattamento (Segrave et al., 2014) ed erano influenzati dall’età del paziente e dalla loro performance durante gli esercizi cognitivi (Brunoni et al., 2014).

3.2  Fobie

Gli studi di neuroimmagine hanno riportato nel caso di pazienti fobici anomalie funzionali a carico delle strutture neurali quali l’amigdala, l’ippocampo, l’insula e la corteccia prefrontale, che costituiscono insieme alla corteccia cingolata anteriore e al corpo striato il circuito della paura (Davis, 2006), particolarmente coinvolto nei disturbi d’ansia in generale (Shin & Liberzon, 2010). In particolare, si è osservata nei pazienti una ridotta capacità delle strutture frontali di inibire le risposte alla paura di strutture sottocorticali, soprattutto dell’amigdala (Deppermann et al., 2016). La maggior parte degli studi hanno indagato gli effetti della CBT e della stimolazione.

Al momento non ci sono indicazioni sull’efficacia al trattamento delle fobie con NIBS, tuttavia alcuni studi hanno utilizzato protocolli di TMS (Intermittent Theta-burst o iTBS) combinati con CBT mostrando che, nonostante non ci siano dei miglioramenti clinici significativi, il protocollo di stimolazione reale rispetto a quello placebo è in grado di attivare la corteccia che risultava ipofunzionate alla baseline (Deppermann et al., 2016). Tuttavia questi  risultati non sono stati replicati da un altro studio dello stesso gruppo di ricerca in cui la iTBS è stata applicata insieme alla psicoeducazione (Deppermann et al., 2014).

Particolarmente utile nel trattamento delle fobie potrebbe essere la combinazione tra NIBS e realtà virtuale, allo scopo di associare la stimolazione con le tecniche di esposizione. Alcuni studi hanno mostrato effetti benefici positivi, in particolare della rTMS, soprattutto nell’accelerare la comparsa dei benefici della CBT (Guhn et al., 2014) . Uno studio di Notzon et al. (2015) ha invece mostrato che l’utilizzo della iTBS, seguita dall’esposizione tramite la realtà virtuale, non influenzava i parametri elettrofisiologici di pazienti con aracnofobia (conduttanza cutanea, battito cardiaco) durante la presentazione di stimoli fobici. Il protocollo, tuttavia, era costituito da una singola sessione di stimolazione, non sufficiente per misurare l’efficacia di trattamento. Inoltre, è possibile che attraverso la realtà virtuale l’attivazione fisiologica dei pazienti abbia raggiunto una sorta di effetto tetto, tanto da rendere nullo gli effetti della iTBS.

3.3  Disturbo ossessivo-compulsivo

Numerosi studi hanno evidenziato uno squilibrio funzionale tra le due vie neurali che uniscono la corteccia ai gangli della base e il talamo in pazienti con disturbo ossessivo-compusivo (DOC). In particolare, si osserva un’iperattivazione della via diretta eccitatoria, responsabile dell’inizio e della continuazione di un determinato comportamento, e un’ipoattivazione della via indiretta inibitoria, che consente l’interruzione del comportamento e la possibilità di passare da un comportamento all’altro (Cummings, 1993; Groenewegen & Uylings 2000; Saxena & Rauch 2000). La maggior parte degli studi con tDCS sono stati svolti senza accoppiare la neuro stimolazione ai trattamenti standard e considerando su singoli casi o piccoli gruppi di pazienti. In questi casi, si è osservata una riduzione significativa dei sintomi in seguito alla stimolazione catodica della DLPFC sinistra (Volpato et al., 2013). Altre aree considerate come target efficaci di protocolli di stimolazione sono la corteccia orbito frontale (Mondino et al., 2015) e la corteccia motoria supplementare sinistra (D’urso et al., 2016).

Studi con TMS, per la maggior parte su singoli casi, hanno invece osservato effetti combinati della rTMS e della CBT. In particolare, uno studio ha evidenziato miglioramenti clinicamente significativi in una paziente con DOC farmaco resistente dopo 16 sessioni di CBT, 10 delle quali in combinazione conrTMS ad alta frequenza applicata sulla DLPFC sinistra. I risultati sono stati incoraggianti, poiché gli effetti del trattamento combinato sono stati a lungo termine, con un impatto positivo sul livello di funzionamento generale (Grassi et al., 2015). Benché i risultati di questo primo studio siano stati replicati anche da un’altra ricerca (Tan et al, 2015), la metodologia utilizzata non consente di trarre delle conclusioni certe sull’efficacia del trattamento. Infatti, questi studi mancano della condizione placebo, prevedono che i pazienti siano a conoscenza del trattamento che ricevono e non tengono conto delle terapie farmacologiche in corso. Ulteriori studi metodologicamente più rigorosi e su un numero più ampio di pazienti potranno in futuro chiarire gli effetti delle NIBS e della psicoterapia in pazienti con DOC.

Rispetto agli interventi comportamentali invece, uno studio in doppio cieco ha riportato miglioramenti della sintomatologia subito dopo esercizi di esposizione seguiti della stimolazione rTMS ad alta frequenza della corteccia prefrontale mediale e della corteccia cingolata anteriore (Carmi et al., 2018)

3.4  Disturbo post-traumatico da stress (PTSD)

Come per le fobie, anche nel caso del PTSD, molti studi hanno indagato gli effetti del trattamento combinato delle NIBS con la terapia espositiva. I dati di neuroimaging infatti hanno mostrato che pazienti con PTSD mostrano generalmente un’iperattivazione della corteccia prefrontale destra durante l’esposizione a stimoli trigger (Rauch et al., 1996). Quindi la stimolazione può avere come regione target quest’area (lf-rTMS/tDCS catodica) oppure la omologa controlaterale (hf_rTMS/ tDCS anodica) allo scopo di ribilanciare l’attivazione cerebrale. Due studi in cui l’area target era costituita dalla DLPFC non hanno mostrato risultati significativi (Fryml et al., 2019; Osuch et al., 2009), mentre uno studio di Isserles et al. (2013) ha mostrato una riduzione dei sintomi dopo la stimolazione rTMS reale preceduta dell’esposizione a stimoli traumatici, rispetto alle condizioni di controllo (rTMS placebo preceduta dall’esposizione a stimoli traumatici; rTMS reale preceduta dall’esposizione a stimoli non traumatici). La maggiore numerosità campionaria, le caratteristiche cliniche dei pazienti, l’area target e i parametri di stimolazione potrebbero giustificare i risultati positivi dello studio di Isserles e collaboratori (2013).

3.5  Schizofrenia

Nella schizofrenia le NIBS sono state prevalentemente utilizzate per trattare allucinazioni uditive e sintomi negativi, su cui il trattamento farmacologico ha effetti meno efficaci (Lefaucheur et al., 2017). Studi neuropsicologici e di neuroimaging hanno evidenziato come questa sintomatologia sia riconducibile a una disconnessione tra aree frontali e temporali. In particolare, le allucinazioni uditive sembrano riconducibili ad un aumento dell’attivazione cerebrale nell’emisfero sinistro, in particolare a livello del giro temporale superiore (Homan et al., 2013). Gli studi si sono quindi focalizzati sull’utilizzo di rTMS a bassa frequenza o tDCS catodica su questa regione, allo scopo di ridurre l’attività corticale (Lefaucheur et al., 2017). Entrambe le tecniche hanno mostrato risultati significativi (per una meta-analisi sugli effetti della rTMS vedi Slotema et al., 2014), con effetti duraturi per un periodo di tre mesi nel caso di tDCS (Brunelin et al., 2012).

I correlati neurali della sintomatologia negativa, invece, sono costituiti da una ipofunzionalità delle aree prefrontali (e.g. Hill et al., 2004), pertanto la rTMS ad alta frequenza e la tDCS in modalità anodica sono state applicate allo scopo di aumentare l’eccitabilità corticale. Gli studi, condotti su piccoli campioni di pazienti, hanno mostrato miglioramenti nella sintomatologia negativa, associati ad un aumento della connettività tra DLPFC e la corteccia temporale sinistra (Brunelin et al., 2012; Mondino et al., 2015; Lefaucheur et al., 2017).

3.6  Craving

A livello neurale i pazienti affetti da dipendenze mostrano anomalie funzionali a livello della DLPFC, che gioca un ruolo particolarmente importante nel controllo inibitorio e nei meccanismi di ricompensa (Goldstein and Volkow, 2002; Wilson et al., 2004). I ricercatori si sono quindi focalizzati sulla stimolazione di questo network neurale sia per la rTMS ad alta frequenza, che ha mostrato una possibile efficacia per la dipendenza da nicotina, che per la tDCS, che ha ricevuto invece una valutazione di livello B (efficacia probabile) per il trattamento delle dipendenze (Lefaucheur et al., 2017). Negli studi i ricercatori hanno optato per un montaggio di tipo bi-emisferico, con anodo posizionato sulla DLPFC destra e catodo sulla sinistra, che si è rivelata efficace per la dipendenza da nicotina (Boggio et al., 2009; Fecteau et al., 2014), crack/cocaina (Batista et al., 2015)e alcol (Klauss et al., 2014).

4. Conclusione e sviluppi futuri

Come evidenziato dalle recenti revisioni e linee guida (Lefaucheur et al., 2017), le tecniche NIBS e i trattamenti tradizionali, come la psicoterapia e gli interventi cognitivi, hanno fino ad ora mostrato risultati promettenti per il trattamento dei disturbi neurologici e psichiatrici. Inoltre, le NIBS sono da tempo efficacemente utilizzate in ambito clinico, anche in fase diagnostica, e in ambito di ricerca, in cui un numero sempre più elevato di studi si sta occupando di chiarirne gli effetti. Tuttavia, è ancora poco chiaro quale sia il ruolo delle diverse aree neurali considerate come target della stimolazione e in che modo la stimolazione combinata con le terapie tradizionali possa agire sui sintomi, i meccanismi cognitivi e l’outcome comportamentale dei diversi disturbi. Questo breve articolo ha avuto lo scopo di descrivere lo stato dell’arte circa le caratteristiche delle NIBS e i dati di efficacia rispetto all’impiego di queste tecniche combinato agli interventi psicoterapeutici e cognitivi standard, che finora hanno dimostrato un’efficacia parziale. Studi futuri sono tuttavia necessari per mettere a punto protocolli di trattamento con NIBS combinate con i trattamenti tradizionali, identificando con maggiore efficacia le aree neurali target e i meccanismi cognitivi che influenzano i comportamenti e i vissuti patologici dei pazienti.

 

Mindfulness quotidiana: una risposta agli effetti psicologici del Coronavirus

Può la pratica di mindfulness essere di supporto al malessere generato dalle misure restrittive per contrastare il coronavirus di questi giorni? Provare per credere.

 

Numerose sono le applicazioni della mindfulness, dalla clinica al benessere, e diversi sono i protocolli esistenti, ma bastano 10 minuti di pratica al giorno per ridurre i livelli di ansia e stress (Xu et all, 2017).

Il tempo sospeso di questi giorni ci obbliga alla prossimità, tanto con i nostri affetti, quanto con noi stessi, e ci costringe ad abitare casa ma, sopratutto, ci costringe ad abitare il tempo.

Un tempo che non siamo abituati ad avere e a concederci.

Ci sembra di vivere in una bolla, uno spazio interrotto da qualcosa che non ci aspettavamo e che vogliamo mandar via quanto prima, qualcosa che ci ha bloccati.

Emerge allora il senso di costrizione, di paura, di ansia, di incertezza che, tutte insieme, ci trascinano nel vortice. L’istinto è quello di vivere la paura ingaggiando una lotta, alzando muri, irrigidendoci. E il corpo risponde a modo suo: la pressione si alza, lo stomaco brucia, il cuore rimbomba, i pensieri si arrovellano.

Siamo in preda alla naturale propensione della mente, ereditata filogeneticamente, di concentrarsi sul negativo, perché evolutivamente questo ci ha permesso di preservarci come specie, portandoci fino ai giorni nostri. L’attenzione allora si focalizza su ciò che non va. Ed è normale. La mente funziona così. I pensieri negativi si auto-alimentano e ne richiamano altri, attivando il default mode network, una rete neurale che supporta il divagare mentale e che, al contempo, ci prosciuga l’energia, ci stanca.

Spezzare il circolo vizioso è allora fondamentale, oltre che possibile.

Corpo e mente comunicano costantemente e si influenzano in maniera reciproca.

Ed è proprio attraverso il corpo che è possibile arrivare ai pensieri.

Possiamo farlo portando un po’ di mindfulness nelle nostre giornate.

Come? Tornando ad “aprire” la nostra attenzione, proiettandola sulle azioni quotidiane come il cucinare un buon piatto, guardare un film, fare yoga, cucire, leggere o qualsiasi altra cosa ci piaccia. E magari iniziando a praticare delle piccole pause, fermandoci, chiudendo gli occhi e osservando il respiro.

Ecco un esercizio da fare durante la giornata.

Pausa di respiro

Scegli un posto tranquillo in cui puoi rimanere indisturbato, sia dal cellulare che dai familiari per qualche minuto. Puoi sederti o scegliere di rimanere in piedi. In entrambi i casi, fa’ sì che la schiena sia naturalmente dritta e, allo stesso tempo, morbida.

Chiudi gli occhi in modo da portare l’attenzione all’interno oppure, se preferisci, tienili socchiusi soffermando lo sguardo su un punto del pavimento.

Porta l’attenzione al respiro. Fai tre lunghi respiri, poi torna a una respirazione normale, chiudendo la bocca e respirando dal naso.

Osserva il respiro. Nota com’è. Potrebbe essere lungo, corto, veloce, affannoso, calmo. Stai con il tuo respiro così com’è, senza modificarlo. Ogni respiro è fatto da un’ inspirazione e da una espirazione. A ogni inspirazione segue, spontaneamente, una espirazione. Non c’è sforzo in questo.

Porta una mano sull’addome e respira sentendo come l’addome si solleva e si ritrae.

Succederà che interverranno pensieri o sensazioni corporee a distrarti. È nella natura della mente.

Osserva di cosa si tratta: potranno essere pensieri che riguardano cose da fare, preoccupazioni, oppure qualcosa che è successo nei giorni precedenti, o ancora, potresti notare delle sensazioni nel corpo: fastidio, prurito, calore, rilassamento. Ogni volta che succede, torna al respiro lasciando scivolare via la distrazione. In maniera dolce, senza l’intenzione di scacciare qualcosa che è venuto a disturbarti. Come il fiume scorre nel suo letto, i pensieri e le sensazioni scorrono, attraversandoti.

Nota quale effetto producono a livello di sensazioni corporee e di pensiero.

Puoi scriverle se vuoi, creando un piccolo diario di pratica giornaliero.

Comincia praticando per tre minuti al giorno che puoi ripetere in diversi momenti della giornata. Puoi impostare un timer che tenga il tempo per te.

Gradualmente, puoi provare ad aumentare di un minuto alla settimana la tua pausa di respiro.

Fatta con costanza, questa pratica permetterà di abbassare i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e di ridimensionare gradualmente la paura vedendola per quello che è: un importante e potente emozione universale che accomuna gli essere viventi, proteggendoci e al contempo indicandoci di essere prudenti, di adottare le giuste misure, di rispettare le indicazioni.

Portando l’attenzione lontano dal rumore dei pensieri, attraverso le piccole azioni del quotidiano fatte dal corpo, possiamo far spazio in noi stessi, dando forma a quel luogo interiore, sempre presente, fonte di sostegno e stabilità.

 

Realtà Virtuale in psicoterapia: l’importanza di un utilizzo guidato e personalizzato

Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza della realtà virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente.

 

L’articolo di Marina Morgese introduce molto bene riflessioni inerenti l’uso della realtà virtuale in un contesto terapeutico, aprendo al tempo stesso l’opportunità di spingerci oltre, alla luce della sempre crescente disponibilità di strumentazioni di realtà virtuale e dell’ormai decennale letteratura scientifica a supporto.

Non mi soffermerei sulla specificità dell’intervento sulle fobie, in particolare quella dell’aereo, su cui ci sono ripetute prove di evidenza scientifica e previsioni di intervento che integrano anche i futuri sviluppi tecnologici (Botella et al., 2017). Focalizzo invece la mia riflessione su tutti i nuovi possibili utilizzi della realtà virtuale, come appunto quello avveniristico (ma non troppo) di cui si è parlato nell’articolo sopra citato. Non sappiamo quali possano essere gli sviluppi della realtà virtuale da qui a cinque anni: se ci guardiamo indietro, solo cinque anni fa non c’era la possibilità di utilizzare visori di realtà virtuale senza un computer a supporto, quindi con la richiesta di una capacità tecnica da parte di un terapeuta di gestire questo grado di complessità. Per quanto riguarda invece i contenuti a disposizione si trovavano perlopiù ambienti per le fobie e di rilassamento, generalmente prodotti da istituti di ricerca, quindi con i pregi e le limitazioni del contesto stesso: un forte ancoraggio teorico, ma una usabilità in molti casi migliorabile.

Un primo elemento da definire quando parliamo di realtà virtuale è proprio l’usabilità, perché non si tratta di un aspetto accessorio: se il paziente ha difficoltà ad interagire con l’ambiente, ad esempio se quest’ultimo si muove a scatti o ha momenti in cui per problemi di sviluppo i movimenti degli oggetti non seguono le leggi della fisica del mondo reale, vivrà un senso di presenza molto meno forte. Il senso di presenza è l’elemento centrale dell’efficacia della realtà virtuale (Riva et al., 2007), pertanto problemi di usabilità diminuiscono l’efficacia dell’intervento con una proporzionalità praticamente diretta.

Per quanto riguarda i contenuti, invece, la diffusione della realtà virtuale permette di avere a disposizione dello psicoterapeuta un portfolio di soluzioni molto più ampio, grazie principalmente a due bacini di riferimento: contenuti free creati da altri utenti (in alcuni casi, psicoterapeuti a loro volta) e contenuti creati da aziende che stanno investendo nel settore psicologico. Entrambe le soluzioni aumentano contestualmente anche il target di professionisti in grado di poter integrare facilmente la realtà virtuale all’interno del proprio agire terapeutico senza stravolgerlo: uscendo dal contesto specifico delle fobie, storicamente legato all’approccio cognitivo-comportamentale, aumenta infatti una possibile integrazione con altri approcci.

Il secondo elemento da mettere in evidenza è come saper scegliere all’interno della molteplicità di risorse disponibili: l’aspetto chiave in questa direzione per me è rappresentato dal fatto di aver provato e riprovato personalmente l’ambiente in realtà virtuale. Questa indicazione crea sicuramente un filtro pratico, perché richiede al terapeuta interessato all’utilizzo professionale della realtà virtuale in ambito psicologico di essere almeno in parte un “piccolo nerd”, in quanto è necessario dedicare del tempo alla scoperta e alla fruizione dell’ambiente virtuale. Solo in questo modo è possibile poi potersi confrontare col paziente al termine dell’esperienza virtuale, avendo la possibilità di cogliere tutti gli aspetti che possono averlo colpito sapendo esattamente di cosa sta parlando. La realtà virtuale è una esperienza immersiva, per cui molti dettagli possono colpire emotivamente il paziente in modo maggiore rispetto ad altre tecniche classiche. Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente. Solo con una chiara spiegazione del razionale per cui si sceglie questa tecnica e uno spazio successivo di confronto e rielaborazione è possibile inserirla in una formulazione condivisa del caso, che è poi uno degli elementi prognostici più favorevoli sia per l’esito sia per la costruzione della relazione stessa.

Il terzo elemento su cui basare l’intervento terapeutico utilizzando la realtà virtuale come tecnica per favorire il cambiamento è la capacità di prevedere, o quanto meno ipotizzare, quali sono gli aspetti del quadro clinico del paziente su cui l’esperienza immersiva nell’ambiente virtuale potrà intervenire. Un paragone che può essere utile per guidare la riflessione secondo me è l’utilizzo della scala DES nel protocollo EMDR base, per escludere pazienti ad alto rischio di dissociazione. Allo stesso modo è opportuno valutare, anche senza test ma con una valutazione clinica approfondita, quali possono essere i rischi e i benefici dell’esperienza virtuale. Torniamo un attimo all’esperienza avveniristica di I met you, ipotizzando che fra 5 anni possa essere disponibile in ogni nostro studio o ambulatorio come possibilità per far gestire il lutto ai pazienti: con quali dei nostri casi clinici possiamo pensare di utilizzarlo? Con quelli che sono alle fasi iniziali di elaborazione del lutto (Kubler Ross, 1973) o con quelli che riferiscono un lutto in sospeso da anni? Con i pazienti più emotivi o con quelli che hanno meccanismi di difesa più strutturati?

Come prevedibile, inoltrarsi nella riflessione pratica non permette di avere tutte le risposte perché il fascino dell’intervento clinico resta sempre la necessità di personalizzare il proprio agire all’interno del proprio orizzonte teorico di riferimento e alla luce del paziente che abbiamo davanti. Si tratta di una convinzione di base che i miei ormai dieci anni lavoro con la realtà virtuale in psicologia non hanno scalfito, anzi che è stata rafforzata di continuo nella mia crescita come psicoterapeuta, nonostante i miei ripetuti flirt con questa tecnica spesso definita come “fredda”. Al tempo stesso, la necessità di personalizzazione ci ricorda di spostare sempre l’attenzione dal cosiddetto effetto wow della realtà virtuale a quello che invece può darci dal punto di vista terapeutico: non importa tanto quanto avveniristica sia l’esperienza, perché lo stupore di rado ha un potere curativo. Bisogna essere in grado di differenziare anche dentro di noi terapeuti quali ambienti virtuali ci stupiscono e ci entusiasmano e quali invece possono essere utili per emozionare: questo confine non sembra così sottile, eppure è un campanello d’allarme importante per non lasciarci coinvolgere da realtà virtuali cool, ma lasciarci convincere da realtà virtuali potenzialmente terapeutiche (e, possibilmente, evidence-based). L’essenziale non è solo comprendere bene cosa può fare la realtà virtuale, ma puntare alla formazione di terapeuti verso un utilizzo professionale della stessa, che permette di evitare usi impropri dei mezzi che la tecnologia ci offre, riflettendo invece sulle potenzialità che un utilizzo guidato di questi nuovi strumenti potrà sicuramente avere nel nostro campo.

Tratti di personalità oscura e sessismo: la triade oscura odia le donne?

E’ possibile distinguere tra due forme di sessismo, quello ostile e quello benevolo e sembra che il primo possa correlare con i tratti tipici della triade oscura di personalità.

 

 Con il termine triade oscura di personalità si intende un insieme di tratti che comprendono: narcisismo (caratterizzato da idee di grandiosità), machiavellismo (tendenza a manipolare) e psicopatia (continui comportamenti antisociali e mancanza di senso di colpa) (Paulhus & Williams, 2002).

La triade oscura è più prevalente nei maschi piuttosto che nelle femmine e, sempre più spesso, ci si chiede come nascono o da cosa originano questi tratti di personalità (Paulhus & Williams, 2002).

I ricercatori dell’Università della Florida, suggeriscono che la triade oscura sia il prodotto della promozione, da parte della società, della posizione sociale dominante degli uomini sulle donne. Per verificare quest’ipotesi, Melissa Gluck e i suoi colleghi hanno iniziato a indagare se qualsiasi forma di sessismo fosse associata allo sviluppo dei tratti di personalità oscura. Lo studio è stato condotto online su un totale di 295 adulti statunitensi (164 maschi e 131 femmine) che hanno completato questionari self-report riguardanti la triade oscura e il sessismo (Gluck & Choi, 2020).

È importante specificare che il sessismo è una forma di discriminazione, e in quanto tale, è basato su pregiudizi i quali possono essere sia negativi che positivi. Elogiare una categoria di persone a prescindere è una forma di pregiudizio, tanto quanto lo è discriminarle; proprio per questo motivo, il questionario sul sessismo comprendeva due sottoscale, la prima riguardante il sessismo ostile “le donne manipolano gli uomini per i propri interessi’’ mentre la seconda il sessismo benevolo “le donne sono migliori degli uomini’’ (Gluck & Choi, 2020).

I partecipanti dovevano specificare in che misura concordavano con affermazioni come “Le donne cercano di ottenere potere tramite il controllo sugli uomini” (per il sessismo ostile) o “Una donna buona dovrebbe essere messa su un piedistallo dal suo uomo” (per il sessismo benevolo).

Per quel che riguarda la misurazione dei tratti di personalità è stato utilizzato un questionario denominato “The Dirty Dozen” letteralmente “la sporca dozzina”, consistente in 12 item, in scala likert a 5 punti (Gluck & Choi, 2020).

I risultati di questo studio mostrano una correlazione positiva tra i tratti di personalità oscura e il sessismo ostile, ma non con il sessismo benevolo.

Maschi e femmine differiscono sia nei livelli di sessismo che nei livelli di tratti oscuri, entrambe le variabili dipendenti risultano più alte negli uomini; tuttavia le differenze di genere nei livelli di tratti oscuri non sono spiegati dai livelli differenti di sessismo (Gluck & Choi, 2020).

Gli autori sottolineano il legame tra il sessismo ostile e la triade oscura come una scoperta chiave, dato che i risultati suggeriscono che combattendo il sessismo i tratti negativi della personalità nella società come quelli racchiusi nella triade oscura potrebbero essere ridotti.

Si tratta tuttavia di uno studio preliminare dato che il disegno di ricerca è cross-sectional, e le analisi statistiche sono di tipo correlazionale, per tanto i risultati fungono da stimolo che potrebbe dare vita ad altre ricerche sull’argomento (Gluck & Choi, 2020).

 

Iniziare una psicoterapia online: una scelta influenzata soltanto dall’età?

Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire della psicoterapia online.

 

Il recente sviluppo tecnologico ha sicuramente rivoluzionato le nostre esistenze in modi imprevedibili, modificando i nostri stili di vita, le città, i mestieri e le società in modo permanente e irreversibile. Fondamentale per questa rivoluzione è stata l’introduzione di internet, che ha contribuito in maniera determinante all’evoluzione di un ‘villaggio globale’ interconnesso, come definito dal teorico dei media Marshall McLuhan (1962). La velocità con cui la tecnologia cambia e si evolve rende quasi impossibile rimanere al passo, ciò che è nuovo oggi diviene obsoleto in un paio d’anni e possiamo facilmente riscontrare come nella nostra vita quotidiana molte usanze o attività comuni si siano inevitabilmente modificate per assecondare l’onnipresenza tecnologica: il puntare una sveglia, il leggere le notizie di cronaca, il cercare una via sconosciuta, sono solo alcuni degli esempi che immediatamente rendono evidente come il mezzo che rendeva possibili queste attività si sia trasformato grazie all’introduzione dei nuovi supporti informatici.

Di recente, anche il mondo della psicologia si sta aprendo alla possibilità di sfruttare nuovi mezzi tecnologici nella propria pratica clinica e consulenziale. Da un lato, questa tendenza riflette forse un desiderio di innovazione in seno alla disciplina, dall’altro è sicuramente un’esigenza implicitamente espressa dagli utenti stessi, sia per necessità legate alla flessibilità e mobilità garantite da questi strumenti, ma anche, e forse soprattuto, perché i nativi digitali, le nuove generazioni di futuri pazienti, stanno crescendo immersi in una realtà tecnologica, dalla quale la psicologia non può più esimersi, pena l’essere percepita come alienata e non attuale.

In anni recenti quindi si è lavorato per creare applicazioni che consentissero di ‘portare in tasca’ il proprio strumento di benessere psicologico, si pensi ad esempio alla ottima Headspace che fornisce agli iscritti percorsi guidati di mindfulness quotidiani, ad inTheapy, strumento ad usufrutto dei terapeuti per assegnare homework ai propri pazienti e monitorarne l’andamento nel tempo, oppure la cybertherapy, ovvero la possibilità di svolgere le sedute a distanza, servendosi di servizi di videochiamata o di messaggistica istantanea, pratica la cui efficacia è stata confermata da svariati studi (per una review vedi Postel et al. 2008).

Tuttavia, nell’immaginario storico di quei paesi dove non si è andata sviluppando un’adeguata cultura psicologica, permane l’idea vetusta del paziente sdraiato su di un lettino, in uno studio chiuso al mondo e quasi fuori dal tempo, dove misticamente si risolvono i problemi mentali delle persone: una visione che poco si concilia con la flessibilità e mobilità che contraddistinguono i tempi moderni (oltre ad essere comicamente errata). Sorge quindi spontanea una domanda, gli strumenti sono stati creati, ma ora i pazienti vorranno usarli?

Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire del cybercounseling, osservando come il fatto di essere un paziente adulto, facente parte ad esempio delle cosiddette generazioni X e Y (nati tra il 1965 e il 1989) nelle quali la presenza tecnologica è giunta tardivamente, oppure un giovane paziente, come i ragazzi della generazione Z o ‘network generation’ (nati tra il 1995 e il 2015), avrebbe verosimilmente comportato differenti traiettorie, rendendo conto delle differenze generazionali nella familiarità ma anche della disinvoltura nell’utilizzare i nuovi mezzi tecnologici a disposizione.

Lo studio trae il suo fondamento teorico dalla Extended Theory of Planned Behavior di Mak e Davis (E-TPB, estensione dell’originale TPB di Ajzen, 1991) che prevede come diversi fattori intervengano nel modulare l’intenzione di un individuo di utilizzare terapie somministrate telematicamente. Se nel modello classico l’intenzione è determinata dalla compresenza di attitudini, norme soggettive e percezione di controllo sul comportamento target, nella versione estesa questi tre fattori risentono a loro volta rispettivamente dell’attitudine verso l’utilizzo di internet, lo stigma sociale verso la richiesta di aiuto psicologico e da ultimo la percezione della propria autoefficacia nell’utilizzo dei mezzi informatici. I ricercatori hanno raccolto i dati ottenuti da questionari self-report somministrati a 1494 individui, provenienti da due gruppi demografici diversi in termini di età, la generazione Z, ovvero i nativi digitali, e le generazioni X e Y.

I risultati hanno dimostrato come l’autoefficacia nell’uso del computer sulla percezione di controllo del comportamento da una parte e l’effetto dell’attitudine nell’influenzare l’effettiva intenzione di utilizzo della terapia online dall’altra, risultassero avere un peso maggiore nel gruppo anagraficamente più vecchio, in linea con i risultati emersi da precedenti studi (Morris et al., 2005; Wagner et al., 2010), suggerendo come lo sviluppo di interfacce facili da usare per facilitare utenti di ogni livello di alfabetizzazione informatica potrebbe contribuire ad un maggiore coinvolgimento dei pazienti adulti. Contrariamente alle aspettative, l’effetto delle norme soggettive sull’intenzione risultava più debole nella fascia di età inferiore, risultato che è stato interpretato come riflesso dell’ubbidienza e del rispetto del volere dei genitori e di una mentalità collettivista (contrapposta a quelle indivisualiste Occidentali) fortemente presenti nella cultura cinese, effetto che potrebbe differire in altre culture. Al contrario di quanto ipotizzato dagli autori, non si sono riscontrate differenze generazionali negli effetti che sia l’attitudine verso l’utilizzo di internet che e la percezione del controllo del comportamento avevano sull’attitudine, permettendo ipoteticamente di soprassedere su questi aspetti nell’ideazione di campagne di promozione per l’utilizzo del cybercounseling. Allo stesso modo non è risultato significativo l’effetto della percezione dello stigma legata alla ricerca di aiuto psicologico sulle norme soggettive, forse perché la segretezza garantita dal mezzo informatico interviene nel contrastare le resistenze verso la psicoterapia ingenerate dallo stigma legato alla ricerca di supporto psicologico.

Con le dovute limitazioni, date in primis alla non generalizzabilità dei risultati ottenuti a campioni di nazionalità differenti, questo studio suggerisce come sia necessario prendere in considerazione l’impatto che il background di conoscenze e familiarità con i mezzi informatici hanno sull’attitudine verso la cybertherapy, non trascurando aspetti che riflettono la rapida ed inevitabile evoluzione delle tecnologie e le implicazioni che questa ha avuto e continuerà sempre più ad avere sul vissuto personale dei pazienti.

Dipendenza affettiva, tratti ansiosi e stile di attaccamento

Una recente ricerca ha indagato alcune specificità della Love Addiction, in particolare la relazione tra Love Addiction ed ansia di stato, nonché tra Love Addiction e stile relazionale ansioso. Infatti l’ansia, secondo il modello teorico suggerito da Sassaroli (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013), sembrerebbe essere un fattore importante nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo: l’ansia assumerebbe un ruolo importante nel mantenimento del disturbo.

Introduzione

La Dipendenza Affettiva (o Love Addiction) può essere inquadrata nel campo generale delle “nuove dipendenze”, classe di disturbi eterogenei (come la dipendenza dal gioco d’azzardo, da lavoro, da internet) caratterizzata da un forte coinvolgimento in comportamenti ripetitivi e persistenti, che compromettono in maniera significativa la vita relazionale, sociale e professionale della persona (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

Come ci insegnano gli studi sull’attaccamento, il bisogno di vicinanza fisica e psicologica ad un altro essere umano è un bisogno fondamentale dell’individuo.

Si parla di Love Addiction quando la ricerca dell’altro è ossessiva, caratterizzata da continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato, chiusura ed evitamento sociale, totale dedizione ai voleri dell’altro e da un mancato riconoscimento delle proprie necessità, bisogni, desideri e persino della propria identità (Fisher, 2006; Sussman &Ames, 2008).

Si tratta di un disturbo molto spesso pericoloso, in quanto il soggetto dipendente affettivo tende a coinvolgersi in relazioni invischianti con persone tendenzialmente violente ed aggressive verso le quali innesca la propria dipendenza, atta a colmare antichi vuoti affettivi.

La Love Addiction è una patologia ancora poco conosciuta, che solo in anni recenti è diventata oggetto di interesse nell’ambito della ricerca scientifica, probabilmente perché quella delle “nuove dipendenze” è, in generale, una categoria clinica che è emersa soprattutto a partire dagli ultimi anni. Di fatto, tale disturbo non ha ancora trovato spazio nell’ambito di una classificazione ufficiale, tuttavia si tratta di un fenomeno sempre più riscontrabile nel contesto dell’attività clinica (Manfredi, 2016).

Per non ritrovarci dunque spaesati e disorientati rispetto a chi ci porta problematiche di questo genere, è importante allora orientare in questa direzione l’attività di ricerca, al fine di conoscere meglio la dipendenza affettiva e procurarci gli strumenti necessari per una psicoterapia efficace.

Di conseguenza, abbiamo pensato di effettuare una ricerca che indagasse alcune specificità di questa forma di psicopatologia. In particolare ci interessava approfondire la relazione tra Love Addiction ed ansia di stato, nonché tra Love Addiction e stile relazionale ansioso. Infatti l’ansia, secondo il modello teorico suggerito da Sassaroli (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013), sembrerebbe essere un fattore importante nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo: l’ansia assumerebbe un ruolo importante nel mantenimento del disturbo.

Metodo

Lo ricerca è stata effettuata su un campione non randomizzato di 112 soggetti, composto dal 62,5% di soggetti femminili e dal 37,5% di soggetti maschili. Non è stato applicato alcun criterio di esclusione salvo la richiesta di adesione al consenso informato.

I test sono stati somministrati on-line, tramite l’utilizzo della piattaforma Google Moduli.

La Dipendenza Affettiva è stata misurata tramite l’utilizzo del Love Addiction Screening Test (LAST), composto da 25 items. Lo strumento self-report valuta la presenza di caratteristiche legate alla dipendenza affettiva, quali ad esempio il coinvolgimento totale nella relazione con il partner e una vita sociale limitata, oppure l’ebbrezza provata in relazione alla vicinanza con il partner.

La variabile “ansia di stato” e’ stata misurata mediante lo State Trait Anxiety Inventory (STAI), laddove l’ansia di stato si definisce come una interruzione del continuum emozionale, che provoca cioè una rottura nell’equilibrio emotivo della persona, che si esprime per mezzo di una sensazione soggettiva di tensione, preoccupazione, inquietudine, nervosismo, reattività (Cattel e Scheier, 1961).

Lo stile relazionale è stato invece valutato con l’utilizzo del test Experiences in Close Relationship – Revised (ECR-R) che valuta in maniera esplicita lo stile di attaccamento adulto nell’ambito delle relazioni di coppia, facendo riferimento a come il soggetto si sente nelle relazioni intime in generale e non tanto a ciò che accade in un’eventuale relazione in atto. È costituito da due scale che misurano rispettivamente la dimensione di Ansia rispetto all’abbandono e di Evitamento della vicinanza, due dimensioni che caratterizzano in modo generale il comportamento di attaccamento degli individui (Brennan, Clark & Shaver, 1998). Gli item che fanno riferimento alla dimensione dell’Ansia valutano il livello di preoccupazione nelle relazioni, la paura del rifiuto ed il desiderio di fusione con gli altri. La scala dell’Evitamento, invece, contiene item che misurano il grado di disagio nelle condizioni di vicinanza e di dipendenza, la negazione dei bisogni di attaccamento e la fiducia compulsiva in se stessi.

Analisi dei dati e risultati

I dati sono stati elaborati attraverso statistiche parametriche. Primariamente, per realizzare il modello mediazionale sono state realizzate delle statistiche preparatorie: una correlazione di Pearson che consente di verificare se possa esserci una relazione tra le variabili; successivamente una regressione lineare che permette di verificare la presenza di relazioni causa – effetto ed infine una regressione gerarchica che evidenzia l’ordine di arrivo della variabili indipendenti sulla variabile dipendente Love Addiction.

I tratti ansiosi misurati tramite il test STAI sono risultati essere il maggior predittore della Dipendenza Affettiva (p < 0.01 al test t di Student).

Anche lo stile relazionale ansioso, misurato attraverso l’utilizzo del test ECR-R, si è dimostrato correlare significativamente con la Love Addiction (p = 0.002 al test t di Student). Quest’ultima è risultata correlare invece in modo inversamente proporzionale con lo stile relazionale evitante (p = – 0.485 al coefficiente di correlazione R di Pearson).

Tramite il test statistico di Preacher & Hayes (2008), è stata inoltre confermata l’ipotesi che lo stile relazionale ansioso sia un mediatore dell’effetto dell’ansia di stato sulla Dipendenza Affettiva (p < 0.05 al test t di Student)

Discussione

Sulla base dei risultati statistici appena riportati, l’ipotesi iniziale appare dunque confermata ed è possibile affermare che l’ansia di stato risulta significativamente correlata alla dipendenza affettiva, risultandone anzi il maggior predittore tra quelli misurati, con un effetto significativo diretto sulle manifestazioni di tale patologia. La potenza dell’ansia come fattore implicato nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo è altresì dimostrata dall’esistenza di una correlazione statisticamente significativa tra stile relazionale ansioso e dipendenza affettiva, che suggerisce l’esistenza di un importante effetto di mediazione esercitato dai tratti ansiosi del soggetto nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza affettiva.

Quanto emerso apre dunque uno scenario nel quale è possibile esplorare nuove ed interessanti prospettive volte a garantire un approccio al trattamento della dipendenza affettiva a più ampio spettro.

Da un lato l’inquadramento dei fattori di tipo ansioso nello sviluppo e nel mantenimento della patologia consente un trattamento tempestivo del disturbo sulla base di quelli che sono risultati i protocolli già efficaci nella gestione della patologie collegate allo spettro ansioso. L’intervento su quelli che sono stati identificati come i principali fattori implicati nei disturbi d’ansia permetterebbe di interrompere un circolo vizioso che, all’interno del contesto relazionale, viene ad acquisire spesso una gravità ancora maggiore e una grande sofferenza dalla quale tuttavia il paziente fatica ad allontanarsi a causa della forte paura della solitudine, che costituisce forse oggi la paura più grande all’interno della nostra società che pur di starvi lontano è alla ricerca costante di nuovi mezzi di connessione digitale e tecnologica. Dall’altro lato, l’individuazione degli aspetti più nucleari e legati all’immagine di sé e alla visione del Sé con Altri consente di arrivare al nodo centrale della patologia e di predisporre le condizioni per un cambiamento duraturo. Considerato che la maggior parte delle persone che vivono una situazione di dipendenza affettiva mostra tratti di tipo ansioso, obiettivo della terapia dovrebbe essere innanzitutto la creazione di un setting in grado di offrire un senso di sicurezza tale da permettere un’esplorazione libera di sé e della relazione verso il raggiungimento dell’espressione del proprio vero Sé. Infine, dal punto di vista dell’alleanza terapeutica, l’individuazione di tali fattori potrebbe facilitare il clinico nella valorizzazione degli aspetti in grado di garantire la creazione di una relazione genuina, autentica, non giudicante e realmente di aiuto per il paziente, permettendogli di vivere l’esperienza di una relazione emotivamente correttiva. È in questo modo possibile creare le condizioni necessarie per poter aver accesso a quello che è il tema doloroso, spesso legato ad un vissuto di indegnità o non amore, che caratterizza le persone che soffrono di dipendenza affettiva.

 

Freud: una serie TV che lascia traccia

Nonostante Freud sia un prodotto esplicitamente commerciale, alcuni tratti della personalità del protagonista sono rappresentati con una vivacità innegabile: l’irresistibile ansia di conoscenza, la smodata ambizione, l’atteggiamento antiautoritario, che sconfina spesso in arroganza e sfrontatezza, e la dipendenza da cocaina.

 

Confesso che da qualche tempo ho crescenti difficoltà ad avvicinare le produzioni cinematografiche o televisive. L’esibizione costante di violenza truce e sanguinaria e la rappresentazione di una sessualità perversa e animalesca mi hanno quasi del tutto estraniato dal piccolo e grande schermo.

Ho fatto un’eccezione per la serie Tv Freud recentemente apparsa su Netflix. Come altri analisti mi sottraggo con fatica ad un interesse un po’ coatto per il padre fondatore della psicoanalisi. Imitazione, antagonismo, voyeurismo contribuiscono senza dubbio a questo fenomeno, del resto ben noto nell’ambiente analitico.

Freud è un prodotto esplicitamente commerciale. Non mira a ricostruire la biografia o la personalità di Freud in modo realistico. Freud è senza dubbio un prodotto di genere, un film in costume che fonde il poliziesco d’intelletto alla Sherlock Holmes con il fantasy dell’occulto. Chi ha passato la mezza età ha senza dubbio pensato alla nota serie Belfagor, ovvero Il fantasma del Louvre degli anni ‘60.

L’Europa fin de siècle dimostrò un interesse inteso per l’occultismo. Grandi artisti, intellettuali, politici, aristocratici, persino monarchi non resistevano all’appeal di medium e sedute spiritiche. In questa atmosfera il regista Marvin Kren cala Freud e i personaggi del suo ambiente. Alcuni hanno tratti più o meno storicamente realistici (ad esempio Breuer, così saggio e paterno, alcuni membri della famiglia di Freud, l’angelica e salvifica Martha). Altri conservano solo il nome di contemporanei, colleghi ed amici di Feud. Occorre qui ricordare che Freud era notoriamente piuttosto scettico verso la cultura dell’irrazionale (cfr. la XXX lezione di Introduzione alla psicoanalisi) e sembra che questo sia stato uno dei punti di disaccordo con il Carl Gustav Jung, il suo più noto allievo.

La struttura del racconto è quella tipica di un prodotto hollywoodiano. Come Frodo Baggings nel Signore degli Anelli, Freud raccoglie intorno a sé un gruppo di personaggi positivi, decisi a sfidare le forze del male morale e politico e dell’oscurantismo scientifico. Analogamente ai supereroi dei fumetti, questi difensori dell’umanità mostrano varie specializzazioni: Freud conosce e tratta l’inconscio, Kiss è dotato di forza sovrumana, Beurer dispensa consigli degni del grillo parlante, la medium Fleur Salomè scatena le forze dell’occulto.

Molti colleghi non hanno potuto completare la visione del filmato. Hanno segnalato la scarsa qualità artistica, o hanno manifestato disagio ed indignazione per l’abuso del nome di Freud per un personaggio così semplificato.

Io invece non ho perso una puntata. Vorrei cercare ora di spiegarvi cosa mi ha avvinto fino alla fine.

Del primo Freud il regista ha colto soprattutto l’interesse per gli stati di coscienza: la trance ipnotica, il sogno. E ha adottato un modulo narrativo assolutamente coerente.

La realtà filmica oscilla ripetutamente, e senza evidente soluzione, di continuo tra esperienza diurna e sogno. Possiamo vedere il padre della psicoanalisi suicidarsi o unirsi incestuosmente alla madre, il feroce Kiss uccidere il proprio doppio, la medium Fleur rivivere ciclicamente gli atroci traumi dell’infanzia. Sullo spettatore si riversa in abbondanza materiale preedipico, carico di sangue, violenza e perversione, solo a volte sapientemente agganciato a spunti psicologici, politici o di storia della cultura (sotto questo profilo una vera chicca è senza dubbio l’uso molto creativo e artisticamente efficace della mitologia ungherese precristiana).

Spesso, però, i sentimenti di orrore, lutto, eccitazione si sciolgono con un sereno risveglio di uno dei protagonisti. Kren ci consente di immergerci reversibilmente in una atmosfera francamente schizoparanoide, che presto intuiamo sarà destinata a stemperarsi in un lieto fine.

La serie Freud quindi avvince il pubblico con un racconto che spesso risulta avvincente e catartico. Per chi ha scelto la via della psicoanalisi, però, il filmato ha in serbo qualche sorpresa più ghiotta e pone questioni più delicate.

La straordinaria somiglianza fisica e fisiognomica del protagonista Robert Finster con il giovane Freud è senza dubbio una sfida. Su una trama evidentemente fittizia e fantastica spiccano abbondanti e precisi riferimenti alla vita privata e familiare di Freud: il conflitto con il padre, la faida con il cognato, il matrimonio lungamente rinviato, perfino la mitica mano appoggiata sulla gamba di Martha sotto il tavolo.

Alcuni tratti della personalità di Freud sono rappresentati con una vivacità innegabile: l’irresistibile ansia di conoscenza, la smodata ambizione, l’atteggiamento antiautoritario, che sconfina spesso nella arroganza e nella sfrontatezza. E soprattutto la tossicodipendenza da cocaina.

I grandi geni dell’umanità sono oggetto di inevitabili meccanismi di idealizzazione. È chiaro che una rappresentazione così cruda, ma non totalmente irrealistica, del padre fondatore della psicoanalisi possa creare un significativo disagio in chi come me ha costruito la propria vita professionale ricalcando per quanto possibile le orme del medico viennese. Freud stesso, però, ci ha insegnato che l’obiettivo specifico dell’impresa psicoanalitica è la ricerca della verità. E a questo mandato non possiamo certo rinunciare.

Penso che il merito principale della serie sia proprio quello di rappresentare in modo vivo e realistico le ambiguità e i conflitti del maestro: eroe pronto a sfidare l’establishment medico-scientifico nell’interesse dei pazienti a lui affidati e dell’umanità in generale e nel contempo scienziato ambizioso e fortemente competitivo; medico votato anima e corpo all’etica professionale, ma anche consumatore abituale di stupefacenti.

La rappresentazione del padre è sottoposta ad inevitabili meccanismi di scissione. Gli psicoanalisti riconducono la loro etica professionale alla scelta ascetica del padre fondatore, ma nei corridoi amano attribuirgli vari successi extraconiugali e torbide storie di incesto. Responsabilità della cura e sentimenti di onnipotenza narcisistica, funzione genitoriale e seduzioni di un godimento immaginario sono componenti quotidiane del transfert professionale nonché del lavoro sul controtransfert per ciascuno di noi. Insomma, pur con tutti i suoi limiti, la serie di Marvin Kren mi ha detto qualcosa della mia vita intellettuale e professionale, e di ciò le sono grato.

 

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario

La teoria sterniana del cambiamento è riferita al processo di avanzamento terapeutico e si fonda sulle quattro precedenti tesi riguardanti l’esperienza. La teoria spiega come avvengono i cambiamenti su cui si basano i progressi in terapia.

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern, nel secondo si è parlato della Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita, mentre nel terzo sono stati analizzati i temi della forma e del contenuto dell’esperienza e dell’intersoggettività.

La teoria del cambiamento nel processo di avanzamento terapeutico

La teoria del cambiamento nel processo di avanzamento terapeutico costituisce un naturale corollario della teoria sterniana dell’esperienza fondata sulle quattro tesi analizzate. La teoria spiega come avvengono i cambiamenti che costituiscono i progressi del percorso psicoterapeutico che vede faccia a faccia paziente e terapeuta.

Per quanto l’obiettivo di Stern sia quello di fornire un contributo spendibile all’interno della pratica psicoterapeutica, non è raro che, nell’esposizione di tale teoria, egli si serva di esempi presi dalla vita di tutti i giorni. In particolare egli menziona spesso relazioni tra genitori e figli o quelle tra innamorati. Per spiegare cosa intenda per cambiamenti radicali egli si serve di un esempio riguardante due ragazzi che escono insieme per la prima volta.

Può essere utile, a riguardo, un altro esempio non clinico, che riprende alcune considerazioni espresse nei capitoli precedenti.

Una sera d’inverno, un ragazzo e una ragazza […]. (Ivi, p. 144)

Nello stesso capitolo Stern introduce un altro esempio simile.

Farei un parallelo, un po’ estremo, con la vita quotidiana. Mettiamo che un giovane dica a una ragazza “Mi piaci da impazzire”. (Ivi, p. 141)

Oppure, per descrivere il concetto di corrispondenza intenzionale si riferisce al rapporto tra un padre e il figlio di pochi mesi nei momenti che precedono il sonno del bambino. Infine, vi è anche una dichiarazione più esplicita sull’estendibilità della teoria alle relazioni non terapeutiche.

Questo conoscere implicito può essere generalizzato a situazioni simili che riguardano paziente e terapeuta, o anche relazioni al di fuori della terapia. (Ivi, p. 148)

Per quanto il tema non sia mai affrontato direttamente da Stern, sembra che l’idea di una possibile estensione della teoria dell’avanzamento terapeutico alle relazioni non cliniche sia implicitamente da lui condivisa. Se così fosse, la teoria assumerebbe una portata indiscutibilmente filosofica in quanto pretenderebbe di affermare qualcosa sulla la relazione interpersonale in quanto tale e sul ruolo che essa gioca nel cambiamento della vita di un individuo.

Veniamo ora alla descrizione della teoria riassumendola nei suoi punti principali.

La grande svolta sterniana consiste nel proporre come luogo privilegiato del cambiamento, nel processo di avanzamento terapeutico, l’implicito che, per sua natura, vive sempre al presente. Non più il significato esplicito delle narrazioni del paziente che si riferiscono sempre al passato, ma l’esperienza fenomenica immediata che accade qui e ora. Il presente è secondo Stern una dimensione temporale puramente soggettiva, un momento di kairos, una dilatazione del tempo cronologico. Esso può essere vissuto coscientemente (con una coscienza fenomenica non riflessiva) oppure in assenza di coscienza. Nel primo caso l’esperienza gode di un alto livello di attenzione focalizzata e di una registrazione nella memoria a lungo termine, nel secondo caso, invece, ciò che è esperito non è oggetto di attenzione e non viene registrato nella memoria. I periodi di tempo caratterizzati da una coscienza fenomenica continua formano quelli che Stern chiama gli “episodi di coscienza”, mentre quelli vissuti in assenza di coscienza sono detti “buchi non-cs” (buchi di coscienza). Gli episodi di coscienza sono ripartiti in unità chiamate “momenti presenti”. Si tratta di periodi di tempo della durata oggettiva che varia tra 1 e 10 secondi (che mediamente si colloca tra 3 e 4 secondi) in cui il soggetto vive un’esperienza soggettiva cosciente che rappresenta un’unità globale circoscritta e dotata di senso. Tali momenti sono caratterizzati da uno sviluppo temporale soggettivo interno tripartito in “ritenzione”, “presente del momento presente” e “protensione”. I tre termini husserliani si riferiscono rispettivamente ad un “passato immediato che riecheggia ancora nell’istante presente, come la coda di una cometa” (Stern, 2004), ad un istante presente che si muove come un punto su una retta e ad un futuro immediato già anticipato nel presente. Per quanto tripartito il momento presente è colto come un’unica esperienza, un’unica gestalt.

È possibile descrivere il momento presente anche dal punto di vista del profilo dinamico tratteggiato dalle forme vitali che lo abitano: in tal senso esso acquista una “trama” implicita che può essere rappresentata in termini di variazione dell’intensità nel tempo.

Da ultimo, il momento presente costituisce l’unità dell’esperienza cosciente anche in senso oggettivo. Il flusso continuo dell’esperienza è reso discreto da meccanismi innati e automatici della percezione, dell’azione e della coscienza. Il tempo di 3-4 secondi corrisponde infatti alla durata delle unità in cui noi segmentiamo il flusso di informazioni in ingresso, alla durata delle “frasi” che costituiscono il nostro comportamento e al tempo necessario per attivare la coscienza, elemento fondamentale perché si possa parlare di “momento presente”.

All’interno di un contesto relazionale, i momenti presenti possono essere di tre tipi: i “momenti presenti ordinari”, i “momenti ora” e i “momenti di incontro”. I primi godono delle proprietà che abbiamo sin qui descritto. I “momenti ora” invece sono momenti in cui accade qualcosa di decisivo che impone al soggetto la necessità di fornire una risposta che funga da soluzione. Si tratta di momenti di discontinuità e di rottura in cui i soggetti implicati nella relazione sono richiamati al presente e costretti a riorientare il proprio comportamento. I “momenti di incontro” infine sono momenti risolutivi dei “momenti ora”, essi ristabiliscono la relazione su un nuovo livello facendo provare ai soggetti coinvolti la sensazione di essere nuovamente insieme in una condivisione intersoggettiva degli stati mentali.

I “buchi non-cs” (i buchi di coscienza) invece sono periodi di tempo in cui ciò che accade “passa inosservato” e non viene registrato nella memoria. Appartengono a questo tipo di esperienza tutte quelle attività che conduciamo automaticamente senza prestare attenzione e che sono destinate ad essere perdute. In una relazione i “buchi non-cs” sono popolati dalle “mosse relazionali” che corrispondono a tutti quei comportamenti che sfuggono alla nostra coscienza, ma che costituiscono una parte fondamentale della comunicazione implicita.

Momenti presenti e mosse relazionali costituiscono la grammatica dell’avanzamento terapeutico. Esso può prevedere cinque esiti differenti: i cambiamenti radicali, le opportunità mancate, i cambiamenti progressivi, le nuove esplorazioni e le interpretazioni.

I cambiamenti radicali sono forti riorientamenti della relazione paziente-terapeuta che avvengono grazie all’insorgere di un momento ora, che irrompe come un momento di rottura della relazione, risolto dal terapeuta favorendo l’emergere di un momento di incontro. In questi casi si assiste ad un passo in avanti significativo nell’avanzamento terapeutico del quale entrambi i soggetti coinvolti hanno consapevolezza. Tuttavia, si tratta sempre di cambiamenti che non sono provocati da un’attività riflessiva esplicita (come per esempio nelle interpretazioni del significato dell’esperienza del paziente), ma che avvengono qui ed ora nelle pieghe dell’implicito.

Le opportunità mancate costituiscono i fallimenti del tentativo da parte del terapeuta di risolvere un momento ora in un momento di incontro. In questi casi la relazione, a seguito della rottura provocata dal momento ora, non trova un momento di soluzione. Ciò porta a volte persino a dover interrompere il percorso terapeutico in quanto il paziente non sente più di “essere-con” il terapeuta.

I cambiamenti progressivi sono cambiamenti lenti che avvengono gradualmente senza essere notati né dal paziente né dal terapeuta. Solo dopo che la relazione ha raggiunto un nuovo livello è possibile apprezzare il cambiamento. Sono causati dalle mosse relazionali che costituiscono una comunicazione sotterranea fatta di movimenti del corpo, posture, espressioni, ma anche di dialoghi espressi in un determinato modo, organizzando il discorso inconsapevolmente secondo una certa sintassi, selezionando determinati termini ecc.

Le nuove esplorazioni sono delle nuove possibilità di esperienza esplicita che emergono solo grazie ad una variazione del campo intersoggettivo. In tal senso la relazione implicita abilita e contestualizza quella esplicita consentendo di affrontare determinati contenuti ancora inesplorati.

Le interpretazioni, infine, costituiscono il momento di analisi esplicita del significato dell’esperienza del paziente. Nella teoria sterniana esse hanno un ruolo decisamente ridotto rispetto a quello assegnatoli nelle tecniche terapeutiche tradizionali e operano in un intreccio con l’esperienza implicita: da un lato possono seguire i momenti di incontro interpretandoli esplicitamente, dall’altro possono precedere i momenti ora favorendo il loro insorgere.

Fatta eccezione per l’ultimo tipo di esito, in tutti gli altri casi si tratta di cambiamenti che avvengono implicitamente, senza essere programmati e, addirittura, a volte, senza essere notati. Il loro accadere in un presente implicito li rende estranei ad un controllo riflessivo e ad un’intenzionalità precedente che li possa prevedere in anticipo.

La parola in questo panorama gioca un ruolo marginale nel suo aspetto legato al significato, ma centrale per quanto riguarda l’espressione e la costruzione implicita del discorso.

Ne deriva che l’avanzamento terapeutico venga contraddistinto da una certa imprevedibilità e che le caratteristiche del terapeuta che emergono in questo modo di considerare la terapia siano la capacità di improvvisazione, l’autenticità, ma anche l’imprecisione e l’approssimazione poiché conferiscono vitalità umana alla relazione. Ciò che emergerà non sarà la conoscenza delle tecniche terapeutiche (comunque fondamentali) ma lo stile implicito che caratterizza tutto il comportamento del terapeuta.

Lontano dunque dall’idea che sia la comprensione cognitiva dell’altro la strada per il cambiamento, Stern sostiene che esso origini da un’esperienza implicita, condivisa e fondata sulle dinamiche temporali. In ciò dunque si intravede una radicale svolta culturale nell’approccio alla relazione interpersonale: esso si concentra sul presente e sull’esperienza vissuta direttamente. Il passato, l’inconscio, il linguaggio e l’esperienza esplicita del contenuto, vecchi capisaldi della teoria della relazione interpersonale devono lasciare il posto, secondo Stern, alla dimensione implicita dell’esperienza, diretta, vissuta al presente, concentrata sulle forme dinamiche temporali. Tale dimensione dell’esperienza precede, contestualizza e costituisce le condizioni di possibilità dell’esperienza esplicita ed è su di essa che è necessario concentrare la nostra attenzione se vogliamo promuovere un cambiamento attraverso la relazione interpersonale.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

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