expand_lessAPRI WIDGET

“Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus”: intervista a un grande esperto nell’ambito delle neuroscienze, il Prof. Massimiliano Oliveri

Come da più fonti viene messo in luce, l’attuale emergenza Coronavirus, sta suscitando una giustificata paura e ancor di più una risposta di angoscia tra la popolazione, per tutto ciò che la stessa sta stravolgendo e comportando in diversi settori.

 

Solo per citarne alcuni: vita privata, abitudini, modalità di condurre il proprio lavoro e di interagire con l’altro, e paure, paure per le proprie risorse finanziare, per la propria incolumità e per quella dei propri cari, paura di poter contrarre il virus e relative conseguenze.

Ma se la paura da una parte, in questo preciso momento, è legittimata e giustificata, dall’altra parte la stessa interferisce con la buona risposta del nostro sistema immunitario. Scopriamo perché e cosa fare allora attraverso le parole del Prof Massimiliano Oliveri, grande esperto nell’ambito delle neuroscienze.

Chi è Massimiliano Oliveri

Neurologo, Professore Universitario di Neuroscienze Cognitive all’Università degli Studi di Palermo, Massimiliano Oliveri (Fig. 1) si occupa di ricerca nell’ambito della neuroriabilitazione, è CEO di Neurotim, una start up innovativa che fornisce servizi clinici e prodotti innovativi di neuroriabilitazione cognitiva, autore di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali in ambito delle neuroscienze cognitive e inserito nella lista dei top italian scientist.

Emozioni e ragione ai tempi del coronavirus Intervista al Prof Oliveri Fig 1

Fig. 1 – Prof. Massimiliano Oliveri

Al Prof. Massimiliano Oliveri ho voluto proporre il seguente tema:

Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus. Situazione attuale e possibili risvolti futuri.

Il Prof. Massimiliano Oliveri, durante l’intervista, ci spiega come il tema proposto sia in realtà un argomento molto attuale e di forte interesse anche per le neuroscienze per diverse ragioni, per tutto ciò che attiene al controllo delle emozioni e soprattutto emozioni di paura e angoscia che proprio in questo momento sono presenti nella popolazione generale, portate anche dalla condizione sociale di isolamento, dall’essere esposti a tutta una serie di informazioni circa il numero di contagiati e decessi, dalla crisi del sistema sanitario, crisi economiche e finanziarie, ma c’è un altro filone di interesse delle neuroscienze ed è quello relativo al controllo della risposta immunitaria della popolazione, la cosiddetta neuroimmunologia.

Prendiamoli in esame separatamente.

Per ciò che attiene il controllo delle emozioni la strategia migliore da un punto di vista delle neuroscienze e quindi del cervello, è quella di attivare dei meccanismi “prefrontali” ossia di attivare una parte del cervello molto anteriore che è coinvolta in compiti di memoria a breve termine, working memory, pianificazione, strategia, soluzione di problemi.

Tenere impegnata la mente, soprattutto in queste operazioni, specialmente con materiale verbale avente a che fare con parole, lettere o numeri, ci spiega il Professore, contribuisce ad abbassare i livelli di attivazione di regioni più profonde del cervello più associate ad emozioni di paura, come ad esempio l’amigdala. Il suggerimento dunque che giunge dalle neuroscienze è quello di impegnarsi in attività che potrebbero essere anche giochi, i cosidetti “serious game”, ma anche videogiochi, seppur usati con moderazione, che stimolino alla risoluzione di problemi, ed ancora attività come quelle proposte e presenti per intenderci, nella settimana enigmistica (anche digitalizzata).

Per ciò che riguarda invece il secondo aspetto sopracitato, ossia l’aspetto neuroimmunologico, c’è in corso tutto un filone di ricerca molto serio di cui si sta occupando il Professore in questi giorni, che evidenzia la presenza di asimmetrie cerebrali nel controllo del sistema immunitario. Sembrerebbe che la parte sinistra del nostro cervello, quella associata al linguaggio, all’elaborazione matematica o all’esecuzione di gesti, abbia un maggiore controllo sulle risposte immunitarie, guarda caso su quella parte della risposta immunitaria, l’attivazione dei linfociti, che è particolarmente colpita dal Covid-19. Da qui una serie di strategie già testate in precedenza non soltanto su animali ma anche su soggetti umani e tra l’altro testati dalla medicina cinese, che in questo senso è andata molto avanti, e forse non a caso, ipotizza Massimiliano Oliveri, il successo nel trattamento della crisi epidemica in Cina precede quello europeo e non soltanto in termini temporali. La strategia potrebbe essere dunque, quella di potenziare l’attività di regioni dell’emisfero sinistro ancora una volta, come detto prima, con compiti verbali che hanno a che fare con strategie verbali come ad esempio calcoli, lettere, numeri, giochi di memoria.

Questa situazione ci segnerà emotivamente anche quando tutto questo sarà finito?

Anche in questo caso l’ipotesi del Prof Oliveri è che questa situazione possa lasciare una condizione di disregolazione emotiva legata a temi di paure e di angoscia, come ad esempio la paura del contagio che potrebbe avere una lunga coda e sarà compito dei professionisti della salute mentale, sottolinea il Prof. Massimiliano Oliveri, trovare nuove modalità di gestione di queste nuove emozioni. D’altra parte, lavorare su tematiche legate al contenimento dell’infezione, della pulizia, del comportamento del lavaggio delle mani, rischia di creare nuove generazioni di nevrotici-ossessivi; se da una parte si tratta di condotte del tutto adeguate in questo momento, in futuro andranno contenute in una logica di sanità mentale e funzionalità, senza prendere derive eccessive.

Consigli e suggerimenti da un punto di vista delle neuroscienze:

L’intervista si conclude cercando di riepilogare insieme al Professore possibili consigli, attività e strategie da applicare e spendere in questo momento.

Primo suggerimento del Prof. Massimiliano Oliveri è quello di provare a non avere paura attivando le migliori strategie di controllo delle emozioni, quelle che ognuno ha disponibili o farsi aiutare da uno psicologo e psicoterapeuta anche a distanza, attraverso i canali online.

Ci ricorda infatti il Professore, come spiegato all’inizio dell’intervista, che la paura, essendo sotto il controllo dell’emisfero destro, se eccessiva può interferire con la funzionalità del nostro sistema immunitario.

Il secondo suggerimento, infine, è quello di potenziare l’attività delle regioni dell’emisfero sinistro, mediante strategie verbali come: letture, rebus, cruciverba, giochi, videogiochi soprattutto quelli che richiedono l’attivazione di strategie di problem solving.

 

EMOZIONI E RAGIONE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AL PROF. MASSIMILIANO OLIVERI

 

Il tempo e il corpo: il valore dell’ “esperienza incarnata” o Embodied experience nella percezione del tempo

Un recente studio utilizza l’embodied experience per verificare l’ipotesi che, tramite la manipolazione di una stimolazione sincrona o asincrona, si possa alterare la percezione del tempo.

 

Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività.

Questo celebre aforisma, attribuito ad Albert Einstein, ci ricorda come nella nostra vita quotidiana lo scorrere del tempo non sia sempre uguale, bensì costituisca un’esperienza connotata soggettivamente dalle fluttuazioni nei nostri stati interni, come potrebbero esserlo in questo caso la temperatura o le emozioni di cui stiamo facendo esperienza.

L’esperienza cosciente del trascorrere del tempo, immanente nell’attività del nostro sistema nervoso che registra la scansione dello stesso e delle sue variazioni situazionali, ha fatto sì che alcuni autori suggerissero che si potesse palare di embodied time (n.d.t: tempo incarnato o basato sul corpo; Droit-Volet, 2014; Wittman 2014).

Facendo riferimento alla cornice teorica dell’Embodied cognition, si postula che le cognizioni di un soggetto siano influenzate tanto dall’attività della mente quanto dagli aspetti del nostro corpo che traducono il nostro essere-nel-mondo, quali il sistema motorio, il sistema percettivo e la nostra interazione con l’ambiente circostante (situadedness = l’essere collocati nello spazio e nel tempo attuali).

Un esempio, può essere quanto riscontrato dagli studi sugli effetti della Mindfulness, un insieme di pratiche meditative che focalizzano l’attenzione sul corpo, le quali non alterano solamente la consapevolezza circa corpo in sé, ma anche le valutazioni circa lo scorrere del tempo (Droit-Volet & Dambrun, 2019; Droit-Volet et al., 2019); altri studi, hanno evidenziato inoltre come i soggetti che avessero un’alta consapevolezza dei propri segnali corporei (nella fattispecie nel discriminare i propri battiti cardiaci), fossero anche più precisi nella percezione temporale (Meissner & Wittmann, 2011).

Di recente, Droit-volet e colleghi (2020) si sono serviti del paradigma dell’out-of-body illusion, per alterare la percezione di consapevolezza corporea e valutare gli eventuali effetti della stessa sull’accuratezza nella percezione temporale dei soggetti: tale illusione avviene quando vengono fatti coincidere sperimentalmente l’informazione visiva ed un’esperienza propriocettiva congruente con la stessa, tale per cui la logica deduzione alla quale arriva la nostra mente è che l’azione sia stata compiuta sul corpo che essa percepisce come proprio.

Questo paradigma sperimentale è l’evoluzione della celebre illusione della mano di gomma o Rubber Hand Illusion (RHI), più volte citata tra le nostre pubblicazioni; in questo caso, mediante un visore di Realtà Virtuale, il soggetto volge lo sguardo verso il basso, dove si trova il proprio corpo e il proprio braccio, mentre l’immagine che gli viene restituita è quella relativa al corpo di un manichino (posto dietro di lui nella stanza) visto dalla stessa prospettiva in prima persona, sul quale vengono effettuate delle azioni, come in questo caso stimolazioni di diverso genere applicate sul braccio corrispondente (Ehrsson, 2007).

È stato dimostrato in letteratura come l’out-of-body illusion, ovvero la percezione che il corpo del manichino appartenesse a loro stessi, avvenisse più spesso quando la stimolazione osservata sul braccio del pupazzo avveniva in maniera sincrona rispetto a quella esercitata sul braccio reale del soggetto; nella condizione asincrona invece, era presente un mismatch percettivo che contrastava l’insorgere dell’illusione e conseguentemente della credenza che quel braccio osservato fosse il proprio (Petkova & Ehrsson, 2001; Schmalzl & Ehrsson, 2011).

Basandosi sull’ipotesi che l’autoconsapevolezza associata alla percezione senso-motoria siano due fattori critici nella percezione del trascorrere del tempo, l’ipotesi degli autori era che manipolandole sperimentalemente con una stimolazione sincrona o asincrona, vi sarebbero state conseguentemente delle differenze nella percezione temporale dei soggetti.

I quarantasette partecipanti all’esperimento, dovevano pertanto giudicare un intervallo di tempo intercorso tra due stimolazioni presentate sul braccio del manichino, esprimendo verbalmente la stima della durata della stessa in termini di secondi (variabile da 4 a 8 secondi), dopo che fosse stata elicitata o meno l’out-of-body illusion: ogni partecipante è stato cioè sottoposto per tre volte alla stimolazione sincrona (fortemente elicitante) o asincrona (scarsamente elicitante) in ordine randomizzato, chiedendo che venisse espresso il grado di out-of-body experience percepita su di una scala a nove passi da “per niente” a “totalmente”. A seguire veniva mostrata la stimolazione target sul braccio del manichino, della quale si dovesse stimare la durata. Inoltre il tipo di stimolazione poteva essere di natura piacevole, ovvero effettuata con un pennello dalle setole soffici, oppure sgradevole, per la quale si è scelto di utilizzare uno strumento pericoloso come la punta di un coltello affilato.

Gli autori hanno calcolato l’errore temporale standardizzato, come la differenza tra la stima temporale espressa dal soggetto e l’effettiva durata della stimolazione sul braccio del manichino, diviso per la durata effettiva: un errore standardizzato più grande di zero avrebbe reso conto di una sovrastima da parte del soggetto, mentre un valore inferiore a zero indicherebbe una sottostima della durata.

Coerentemente con i risultati presenti in letteratura, anche in questo caso i soggetti riportavano più spesso il successo della out-of-body illusion dopo essere stati sottoposti ad una stimolazione preliminare sincrona, mentre, contrariamente alle aspettative degli autori basati su ricerche precedenti, non si sono riscontrate invece differenze sull’efficacia dell’illusione in presenza dello stimolo piacevole piuttosto che di quello sgradevole. L’intervallo di tempo veniva in effetti valutato come più lungo nella condizione sincrona che non in quella sincrona; infine, quando nel modello venivano presi in considerazione tutti i fattori, l’unico predittore dell’accuratezza circa la durata temporale appena osservata era la forza con la quale il soggetto sentiva la out-of-body illusion (p < .001), dove la valenza dello stimolo e la condizione sincrona o asincrona divenivano non significativi.

I risultati ottenuti dimostrano il ruolo chiave dell’esperienza di embodiment nel modulare la percezione dello scorrere del tempo; studi futuri potrebbero integrare questo paradigma sperimentale con la rilevazione di indici fisiologici come la conduttanza cutanea per verificare l’effettiva risposta emotiva agli stimoli utilizzati, che per esempio sono risultati irrilevanti in questo studio, forse perché non percepiti come realmente spiacevoli. Oppure, si potrebbero raccogliere indici dell’attività cerebrale come ad esempio la risonanza magnetica funzionale (fMRI), mediante la quale in altre ricerche (vedi Ehrsson et al., 2004) si è già ottenuta una misura del successo della rubber hand illusion, rilevando l’attività insita nella corteccia premotoria, che sembra essere il meccanismo neurale mediante il quale le esperienze somatiche vengono attribuite al sé.

 

Adattamento creativo al “coronavirus”

Le idee luminarie della terza forza della psicologia: la psicologia umanistica, con un accenno cardinale alla psicologia della Gestalt nella delineazione alla reazione ad uno stato di “emergenza”.

 

Avete mai sentito parlare della teoria della patata? L’ideatore fu Carl Rogers; egli osservò il comportamento delle patate nella credenza buia di casa sua e notò che:

nonostante le condizioni erano sfavorevoli, le patate iniziarono a germogliare: germogli bianchi e pallidi, molto diversi da quelli salutari e verdi prodotti quando erano piantate per terra a primavera. Ma questi tristi, spinosi germogli crebbero di 2 o 3 piedi di lunghezza, tanto da raggiungere la luce lontana della finestra. I germogli erano, nella loro crescita strana e futile, una sorta di espressione disperata della tendenza direzionale che io sto descrivendo. Non sarebbero mai diventate piante, non sarebbero mai maturati, non avrebbero mai raggiunto il loro potenziale. Ma pur nelle condizioni avverse, lottavano per diventarlo. La vita non si arrende, anche se non può fiorire (Rogers,1980, p.118).

Tale metafora è utilizzata dall’autore per spiegare come, in circostanze sfavorevoli all’organismo, l’espressione della tendenza all’attualizzazione, ossia all’autorealizzazione del sé, potrebbe essere influenzata a tal punto che l’organismo diviene distorto, sebbene la tendenza rimanga al massimo della sua costruttività per quelle circostanze. Secondo Rogers anche l’essere umano ha bisogno di tre condizioni fondamentali per la propria realizzazione: assenza di giudizio, accettazione positiva incondizionata ed infine, ma non per ultima, empatia. In virtù di queste potrà sviluppare il suo potenziale, provando l’esperienza della congruenza: in poche parole avendo consapevolezza del suo sentire e agendo in linea con esso. Fare, sapere fare e saper essere. Armonia di pensiero, sentire ed azione. Quindi allo stesso modo in cui le “patate” cercano di portarsi a proprio concepimento e realizzazione, anche l’uomo che si trova in situazioni anguste reagisce e si realizza al meglio delle sue possibilità.

Sicuramente, l’attuale situazione che tutti stiamo vivendo di una emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale legata al nuovo Coronavirus SARS-COV-2 che ci obbliga di risiedere nelle nostre abitazioni, in modo coercitivo, al fine di contrastare la diffusione dell’epidemia, dichiarata da poche settimane pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, pone tutti in uno stato generale di allerta, disagio e paura, dove l’ambiente risulta essere percepito nelle sue polarità, sicuro e costrittivo nelle proprie abitazioni, insicuro, pericoloso seppur con un senso di libertà, fuori da queste ultime.

Così come ci insegna la metafora della “teoria della patata”, tutte le persone sono spinte a reagire in questa inclemente situazione per opera del cosiddetto “adattamento creativo”, il quale avviene grazie alla libera interazione delle facoltà, concentrata su qualche questione attuale, come in questo momento “l’emergenza coronavirus”, e dà luogo non già al caos o ad una pazza fantasia, ma a una gestalt che risolve un problema reale. Per entrare nel cuore dell’adattamento creativo in generale, così come affermano F. Pearls, R.F. Hefferline, P. Goodman, si pensi alla psicologia dell’arte, la parte rilevante si trova nella sensazione concentrata e nella manipolazione lucida del mezzo materiale. Con la chiarezza della sensazione e del gioco nei confronti del mezzo con atti essenziali, l’artista accetta il suo sogno e utilizza la sua intenzionalità critica: ed egli realizza spontaneamente una forma oggettiva. L’artista è ben consapevole di ciò che sta facendo; dopo aver terminato, egli vi può mostrare in dettaglio i passi compiuti; non è inconscio mentre lavora, ma non sta neppure attuando deliberatamente un calcolo deliberato. La sua consapevolezza costituisce una sorta di via di mezzo, né attiva né passiva, che accetta però le condizioni, si concentra sul lavoro, e matura verso la soluzione. Ed è la stessa cosa per quanto riguarda i bambini per esempio: è la chiarezza della sensazione del gioco, apparentemente privo di scopo, che permette all’energia di fluire spontaneamente e giungere a delle invenzioni così affascinanti. In entrambe l’integrazione sensoriale-motoria, l’accettazione dell’impulso, e il contatto assiduo con il nuovo materiale ambientale, sono gli elementi che producono un lavoro valido. Allo stesso modo dell’artista o del bambino che gioca, chiunque di noi in questo momento può attingere, nel modo più adeguato, al proprio adattamento creativo, anche in questa situazione di emergenza nella quale ci troviamo, pensiamo ad esempio a chi, nonostante la costrizione in casa, è riuscito a leggere finalmente quel libro che era sempre rimasto su quel comodino vicino a letto, un po’ impolverato, chi ha inventato nuove pietanze in cucina, chi ha scoperto di saper dipingere, chi si è messo a scrivere un romanzo o un articolo per un giornale, come me in questo momento, chi ha riscoperto i giochi da tavola, la complicità con la famiglia e chi finalmente ha fatto quella chiamata a quella persona cara che non aveva mai il tempo di fare, chi ha inventato nuovi progetti interamente on-line e potrei continuare all’infinito.

Ma l’adattamento creativo non è solo questo, si pensi a tutti gli operatori sul fronte, in questo momento, che hanno sperimentato nuovi modi per sentirsi meno stanchi, per affrontare l’emergenza, a chi fa mascherine fatte in casa perché non ce ne sono più in farmacia e agli scienziati che cercano di adattarsi a questo orripilante virus incentivando la ricerca per un nuovo antidoto.Quindi così come affermano i teorizzatori, nei casi in cui si è in contatto con i bisogni e le circostanze, è subito evidente che la realtà non è qualcosa di inflessibile e di immutabile ma invece pronta ad essere rifatta; e con quanta più spontaneità e senza trattenersi si esercita ogni potere di orientamento e manipolazione, tanto più vitale si dimostrerà tale rifacimento. “Che ciascuno pensi ai suoi colpi migliori, nel lavoro o nel gioco, nell’amore o nell’amicizia, e veda se ciò non è vero” (F.Pearls, R.F. Hefferline, P.Goodman).

Spesso, tuttavia accade che il prudente bisogno di agire in modo premeditato ci fa perdere sempre di più il contatto con le nostre condizioni presenti, ossia nella concentrazione di una questione attuale come suddetto, poiché il presente è sempre nuovo; e la timida ponderazione non è preparata alla novità, giacché ha sempre contatto su qualcos’altro, su qualcosa come il passato. Quindi in questa situazione accade che non si ha la piena percezione del “qui ed ora” che stiamo vivendo, così, se non siamo in contatto con la realtà presente, i nostri bisogni e le circostanze, perdiamo quella spontaneità che ci porta a fallire il bersaglio (anche se non necessariamente nel modo peggiore della nostra prudenza); e questo quindi diventa una confutazione delle possibilità della spontaneità creativa, poiché essa è non realistica.

Ciononostante, per quanto riguarda il funzionamento del corpo dal punto di vista organico è “l’autoregolazione organismica” che ci permette di contattare i bisogni e soddisfarli. Quindi non è necessario programmare deliberatamente, incoraggiare o inibire gli impulsi dell’appetito, della sessualità e così via, negli interessi della salute o della moralità. Se li si lascia stare, questi impulsi si regolano spontaneamente, e se vengono turbati tenderanno a recuperare tale equilibrio. Ma spesso ci si oppone alla proposta dell’autoregolazione più totale di tutte le funzioni dell’anima, comprese la cultura e l’apprendimento, l’aggressività e il compiere quel lavoro che l’attrae, assieme al libero gioco dell’allucinazione (proiezione). La possibilità che, se questi elementi vengono lasciati liberi nel loro contatto con la realtà, i loro squilibri abituali tendano a riequilibrarsi e a giungere a un valido sbocco viene considerata con angoscia e respinta con una sorta di nichilismo (come il vecchio consiglio di Tao: “lasciate la strada libera”). Le persone sono naturalmente capaci di autoregolazione, sensibili al contesto e guidate dalla motivazione a risolvere i problemi, è quindi la tendenza naturale o organismica della persona a regolare il sé.

Quindi, come viene sostenuto da J.M. Robine, quando le persone si trovano in una situazione di disequilibrio, pericolo, paura, di minaccia per la sopravvivenza, come il momento critico che stiamo vivendo tutti e quindi una situazione che l’approccio olistico definirebbe “di emergenza”, l’organismo crea una risposta adattiva globale: globale, perché mette in gioco percezioni, propriocezioni, rappresentazioni e pensieri, attività motoria e così via; adattiva, perché la possibilità al confine di contatto permette che gli eventi vengano gestiti in modo spontaneo e creativo. Tutte le capacità di orientamento e manipolazione nel campo possono dispiegarsi pienamente ed evitare che il campo diventi disorganizzato.

Quindi l’adattamento creativo è parte dell’autoregolazione organismica, che delinea quella capacità dell’organismo di far fronte ai cambiamenti dell’ambiente con risposte originali, caratterizzate dall’abilità a rispondere creando nuovi adattamenti personali alle richieste del mondo interno ed esterno. Un’adeguata autoregolazione ad una determinata situazione dipende da una buona consapevolezza che consente alla persona di valersi di ciò che per lei è “nutriente”, ed è rappresentativa, secondo la psicologia della Gestalt, dell’intero campo; corpo, psiche e ambiente. Pertanto, occorre sottolineare che, in questo caso, l’organismo si adatta all’ambiente in modo spontaneo e creativo, rendendo l’agire coerente con il sentire.

 

Alimentazione: una questione di cibo e amore

L’alimentazione è un processo complesso: nell’infanzia il bambino viene alimentato dall’adulto a partire dall’allattamento per poi proseguire nello svezzamento sino a giungere all’alimentazione autonoma, coinvolgendo aspetti biologici, psicologici e sociali.

 

Una disarmonia in ciascuno di questi aspetti può “alterare” questo processo ed indurre condizioni patologiche non solo da un punto di vista medico, basti pensare al problema dell’obesità infantile che ha visto aumentare il tasso della percentuale dei bambini in sovrappeso in Italia al 20,9%, di cui il 2,2% indicati come severamente obesi.

Il legame tra alimentazione e bisogno di autonomia

Da quando nasce il bambino ha buone capacità autoregolatorie, quindi fin dall’allattamento egli sa ed esprime quando ha fame e quando è sazio; è bene fidarsi di questa capacità anziché definire a priori quantità e orari di allattamento. Intorno ai due anni d’età compare inoltre la motivazione a fare da solo, una spinta naturale all’autonomia. Chiunque abbia a che fare con i bambini sa quanto sia forte la volontà di autodeterminarsi che essi sviluppano in particolare in questa fase di vita. Ebbene, questo è particolarmente evidente anche nella sfera dei comportamenti alimentari, e ancor prima dei due anni. Già all’età di un anno si può notare come il bambino si senta stimolato a stabilire un contatto attivo e personale col cibo, cercando di afferrarlo durante i pasti.

Questo modo di agire è strettamente legato a quello che Lichtenberg ha definito “bisogno esplorativo-assertivo”, uno dei sistemi motivazionali comune a tutti gli esseri umani. Il bambino, dalla possibilità di fare e decidere in autonomia ricava un senso di essere, esistere ed essere causa del proprio agire. Se l’adulto cerca di inibire questa attività spontanea induce nel bambino il tentativo di liberarsi della sua influenza attraverso comportamenti di protesta per recuperare il proprio spazio di autonomia.

Il buon inizio: l’allattamento al seno come fattore preventivo dell’obesità

Tenuto conto del fatto che per alcune madri l’allattamento naturale può non essere fattibile per varie ragioni (mediche, personali), in questo articolo vogliamo approfondire quali siano, secondo varie evidenze scientifiche, i vantaggi legati all’allattamento al seno. Attraverso studi basati su osservazioni sistematiche è stato dimostrato infatti come costituisca un fattore protettivo rispetto al rischio di sovrappeso e obesità. Una delle maggiori ricerche è stata effettuata in Australia su un campione di 2066 maschi e femmine di età compresa tra 9 e 16 anni provenienti da tutti gli stati e territori del continente. Rispetto a quelli che non sono mai stati allattati al seno, i bambini nutriti con latte materno per un periodo maggiore o uguale a 6 mesi avevano significativamente meno probabilità di essere in sovrappeso o obesi in età infantile e adolescenziale. Anche gli ultimi dati della Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), presentati a Glasgow in occasione dello European Congress on Obesity (2019), ci mostrano che la prevalenza dell’obesità è maggiore fra i bambini non allattati al seno: il 16% di essi risulta obeso, contro il 13% di chi è stato allattato per meno di sei mesi e il 9% di chi invece è stato allattato per oltre sei mesi.

Le spiegazioni sul perché l’allattamento al seno sia protettivo rispetto all’obesità sono sia biologiche che comportamentali:

  • un fattore fondamentale è la presenza della leptina nel latte materno, ormone proteico che regola l’assunzione di cibo e il metabolismo energetico, per cui i bimbi allattati hanno una concentrazione di insulina nel sangue più modesta rispetto alle alte concentrazioni dei bimbi allattati artificialmente;
  • per i bambini allattati spesso lo svezzamento è ritardato (l’OMS raccomanda di iniziare lo svezzamento non prima dei 6 mesi d’età), graduale e con un’elevata attenzione alle esigenze del bambino: molto spesso infatti all’allattamento al seno a richiesta segue l’alimentazione complementare a richiesta o uno svezzamento “misto”;
  • con l’allattamento a richiesta il bambino si autoregola sull’apporto di latte, dando avvio a quell’autonomia sull’assunzione di cibo a cui si accennava precedentemente. Questo ruolo attivo del bambino nell’autoregolarsi si manterrà per tutta la crescita e molto spesso, se non interferiscono altri fattori, ha un effetto a lungo termine;
  • la varietà di gusto del latte materno assunto dal bambino lo predispone alla conoscenza di un’ampia gamma di sapori che poi troverà a tavola quando inizierà lo svezzamento e potrà aiutarlo a gradire vari cibi. Di conseguenza il bambino, dal divezzamento in poi, tenderà a mangiare una più ampia varietà di cibi.

L’alimentazione complementare a richiesta: un’esperienza graduale e compartecipata di svezzamento

Un’altra fase che attraversa il bambino per arrivare all’alimentazione autonoma è quella dello svezzamento, passaggio importante da gestire in modo adeguato per arrivare ad un rapporto equilibrato e sano con il cibo. Negli ultimi anni è stata rivalutata l’importanza della scelta del bambino sulle quantità e le tipologie di cibo da assumere in questa fase. Nell’alimentazione complementare vengono rispettati i tempi, i gusti e il grado di sviluppo dei bambini: in questo modo viene assecondato il loro bisogno di autonomia e si continua ad aver fiducia in loro, proprio come nell’allattamento a richiesta.

La ricerca ci dice chiaramente che avere fiducia nelle capacità autoregolatorie del bambino protegge dall’obesità ma anche da altri disturbi alimentari: anoressia, bulimia e alimentazione selettiva. Il primo pioneristico esperimento fu quello di Clara Davis pubblicato sul New England Journal of Medicine: vennero analizzati 36.000 pasti e studiato il comportamento alimentare di bambini lasciati liberi di mangiare ciò che volevano (esclusi i cibi “spazzatura”), per diversi mesi, senza alcun condizionamento da parte degli adulti. Si dimostrava che i bambini crescevano quantitativamente e qualitativamente nei limiti della norma. Questo nonostante l’irregolarità nella quantità e qualità dei pasti, e la variabilità dei loro gusti da un giorno all’altro. L’autrice concludeva affermando l’esistenza di un meccanismo efficace di autoregolazione che portava i bambini ad assumere, nel complesso, la giusta quantità dei vari nutrienti.

Come creare un imprinting funzionale? Intorno ai 6 mesi il bambino viene fatto sedere a tavola con i genitori, in modo che possa osservare quello che mangiano e scegliere di sperimentare quello che desidera, tra proposte varie, salutari e gustose. In un primo periodo ci saranno solo piccoli assaggi, ma non ci si dovrebbe preoccupare perché il bambino continuerà ad assumere il latte finché non farà dei pasti che lo saziano (l’OMS raccomanda di proseguire l’allattamento materno fino ai 2 anni di età se madre e bambino lo desiderano). Proprio per questo, tale tipologia di svezzamento è chiamata “alimentazione complementare”: cibi solidi e latte vanno a completarsi e integrarsi, una cosa non va ad escludere l’altra. Il bambino in questo modo avrà sempre un corretto apporto nutritivo perché il latte materno continua ad avere ottimi nutrienti per tutto il periodo in cui viene prodotto.

I genitori dovrebbero fare in modo di creare un contesto piacevole, in modo che il pasto sia per il bambino un’esperienza relazionale positiva: no a costrizioni su quantità e tipologia di cibi, possibilmente in un clima familiare sereno e senza dispositivi elettronici per intrattenerlo. In questo modo l’alimentazione potrà essere vissuta dal bambino come un’esperienza sensoriale e relazionale piacevole. Nello stesso tempo il momento dei pasti può essere vissuto con serenità anche dai genitori, cosa che va a creare un circolo virtuoso: un buon rapporto col cibo, un buon apporto nutritivo, salute psicofisica del bambino.

Infanzia: quali sono i fattori coinvolti nel problema dell’obesità?

Fattori di ordine biologico, di ordine psicologico e sociale. Le dinamiche psicologiche del paziente obeso nell’infanzia sono legate alla disponibilità del cibo presente nel suo ambiente di vita che si caratterizzerà per:

  • qualità del cibo;
  • quantità del cibo;
  • modalità di consumo.

All’interno della “modalità di consumo” rientrano le dinamiche psicologiche infantili, caratterizzate da aspetti relazionali. Tali aspetti fanno dell’alimentazione e del sintomo iperfagico una questione di “cibo e amore”.

In che modo la relazione interviene nel sintomo iperfagico?

L’alimentazione nell’infanzia è mediata dalla presenza di un caregiver, dunque un bambino non può essere considerato a rischio obesità, se non per quei rarissimi casi in cui è presente un’eziologia medica del disturbo.

Dunque l’adulto che alimenta il bambino, sia il caregiver o l’insegnante che accompagna i bambini a mensa diventa ambiente “sociale” e “relazionale”, ovvero si presta ad essere fonte di sostentamento, intervenendo nel ciclo fame-sazietà, in una modalità che è unica per quella relazione e per quel contesto (casa, scuola).

L’alimentazione e, dunque, l’oralità, costituiscono una modalità di soddisfacimento pulsionale attraverso cui dare e ricevere amore, provare piacere, rifiutare o aggredire. Portare il cibo alla bocca, mordere, sputare e deglutire sono forme di comunicazione e di apprendimento delle modalità relazionali relative ai primi rapporti oggettuali.

Il sintomo iperfagico, in questo processo, può diventare una strategia disfunzionale, presente già in chi alimenta e appresa da chi viene alimentato. Il cibo diventa così il sostituto di quelle persone con cui non è stato possibile entrare in una relazione “sana” e la risposta a stati emotivi come:

  • la ricerca di un intenso bisogno di gratificazione;
  • la  rassicurazione e ricerca continua di un oggetto d’amore;
  • la  difesa rispetto al senso di inadeguatezza.

La risposta a questi stati emotivi, spesso intensi o insostenibili, attiva un processo chiamato emotional eating, in cui alimentarsi costituisce una risposta compensatoria ad uno stato emotivo. L’esito di questo processo non sfocia in maniera causale nell’obesità, ma caratterizza come meccanismo di base, il funzionamento che è alla base dei disturbi alimentari attualmente presenti nel DSM 5.

Prevenzione: l’intervento dello psicologo scolastico mediante l’educazione alimentare

La proposta di un programma a cura dello Psicologo Scolastico in tema di educazione alimentare costituisce una risorsa possibile per effettuare un intervento di prevenzione primaria che tenga conto delle variabili emotive e relazionali, connesse all’alimentazione. Secondo l’Institute of Medicine of the National Accademy of Sciences, possiamo ricorrere a svariate modalità di prevenzione: universale, selettiva e mirata. Le forme di prevenzione che si rivolgono ad un alto numero di soggetti con programmi di comunità strutturati, ovvero le campagne educative, si propongono di raggiungere quella fascia di popolazione ritenuta ad alto rischio con programmi da svolgere proprio nelle scuole. Queste ultime, con la collaborazione della famiglia, possono diventare luogo di prevenzione in cui trovare: informazione, educazione alimentare ed interventi ambientali inerenti l’alimentazione (ad esempio l’incremento di programmi di educazione fisica o il controllo dei pasti offerti dalla mensa scolastica).

Questi interventi richiedono una conciliazione fra l’utilizzo delle linee guida internazionali nutrizionali ed il patto educativo scuola-famiglia. La mensa a scuola rappresenta l’occasione di una nuova convivialità per i bambini e dunque una valida esperienza dello “stare a tavola” in cui tradizioni alimentari ed utilizzo dei cinque sensi si fondono e si condividono con il gruppo dei pari e con la maestra.

E’ importante dunque che l’esperienza del cibo, data la sua complessità, venga vissuta attraverso momenti informativi e formativi con lo scopo di:

  • sensibilizzare i genitori sull’importanza psicologico-emotiva del primo incontro con il cibo, ovvero dalla fase di allattamento;
  • promuovere fiducia ed “allenare” le capacità intuitive dell’adulto, che sia il genitore o l’insegnante a mensa, nel cogliere lo stato emotivo del proprio bambino o dell’alunno al fine di distinguere bisogni fisiologici come la fame da bisogni relazionali;
  • evitare usi impropri del cibo all’interno di dinamiche di potere (“se non mangi viene il vigile!”), del ricatto (“se non finisci la pasta non ti porto alle giostre!”), dell’affettività (“se non mangi divento triste!”) o ancora di comparazione rispetto ad altri bambini (“guarda com’è bravo tuo cugino, lui mangia senza problemi!”);
  • imparare ad “abitare la tavola” intesa come esperienza con regole e spazi esplorativi in un clima di serenità, tanto da consolidare l’esperienza della convivialità come un buon incontro.

 

A cosa serve la psicologia? Una risposta nell’elaborazione del lutto

Spesso ci si pone la domanda sulla funzione della psicologia: in fondo, a cosa serve? Solo ed esclusivamente a fornire strumenti per curare persone con una qualche patologia psichica?

 

Si può osservare che la quasi totalità di testi che si occupano di psicologia si apre con una propria definizione per la disciplina. Per quanto le definizioni possano differire nella forma, la sostanza pare potersi riassumere nel fatto che la psicologia (che nel suo significato etimologico di derivazione greca è la scienza che studia l’anima, lo spirito) si occupa dello studio di funzioni cognitive, funzioni affettive e funzioni comportamentali, sia dal punto di vista fisiologico, sia nelle loro deviazioni patologiche.

Individuato, quindi, il contenuto della psicologia, per comprendere come tale contenuto possa essere utilizzato è opportuno fare riferimento all’art. 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. Il primo comma, infatti, invita gli psicologi a considerare proprio dovere l’accrescimento delle conoscenze sul comportamento umano e a utilizzare tali conoscenze per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. Il secondo comma prosegue con l’indicazione che riguarda l’operatività dello psicologo in ogni ambito in cui esercita la propria professione: tale operatività è rivolta al miglioramento della capacità delle persone di comprendere se stessi, gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Pertanto, a ben leggere, è lo stesso Codice che indica a cosa serva la psicologia: a conoscere il comportamento umano al fine di utilizzare professionalmente tale conoscenza, per promuovere il benessere psicologico dell’individuo.

Il benessere psicologico viene inteso non solo come mero stato di assenza patologica o di disagio, ma come situazione nella quale ciascuno è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per riuscire ad adattarsi costruttivamente alle situazioni che, di momento in momento, si trova a vivere, siano esse caratterizzate da input esterni o interni (OMS). In tal senso, il secondo comma dell’art. 3 può essere letto quale indicazione sulla traiettoria che prende, allora, la psicologia: quella, cioè, di migliorare la capacità di comprendere se stessi e gli altri (istanze interne ed esterne, come si è visto) al fine di un adattamento all’ambiente attraverso l’espressione di comportamenti consapevoli (il soggetto sa), congrui (il soggetto sa di essere adeguato) ed efficaci (il soggetto sa di essere in grado di raggiungere i propri obiettivi e, quindi, di direzionare il proprio comportamento).

Le situazioni che ciascun individuo si trova ad affrontare nel corso della propria esistenza necessariamente variano e appartengono, potenzialmente, a un insieme pressoché infinito di accadimenti, tuttavia ciò che sicuramente tutti, prima o poi, sperimentano è la morte, propria e altrui. In particolare nel mondo Occidentale, la morte nel corso degli ultimi due secoli ha evocato sempre più angoscia, paura e imprevedibilità, al punto da meritare, secondo l’antropologo Gorer, l’aggettivo di “pornografica” (egli pubblicò nel 1955 un articolo dal titolo “The pornography of death”). In una recentissima pubblicazione, la De Caro introduce il proprio testo dedicato alla psicologia del distacco proponendo una riflessione riguardo a quanto spesso capiti, nella supervisione dei tirocinanti in attesa di abilitazione, di imbattersi nella loro riportata frustrazione per non poter fare nulla di fronte a persone in lutto, proprio perché alla morte non c’è rimedio. L’irreversibilità della morte, secondo la De Caro, può generare, quindi, nel professionista a cui viene chiesto sostegno per affrontare una morte, un senso di inadeguatezza, di impotenza e di, addirittura, impossibilità di intervento. La psicologia, che come si è visto sopra è volta alla co-creazione di benessere psicologico mediato dall’intervento del professionista (quando richiesto), ha elaborato diversi strumenti, sia teorici sia pratici, per contribuire a tale obiettivo.

Il lutto è lo stato emotivo di dolore che si prova per una perdita (Pesci) e tale definizione riprende quella proposta da Freud più di un secolo fa nel testo Lutto e Melanconia: insieme di reazioni emotive e affettive a un’esperienza di perdita. Dolore e sofferenza per una perdita sono fisiologici, quando tuttavia il soggetto rimane incastrato in una condizione di dolore permanente o bloccante, possono instaurarsi una serie di funzionamenti tali per cui il lutto non viene elaborato e, quindi, non viene risolto. Un lutto si può definire elaborato/risulto nel momento in cui il soggetto riesce a ristrutturare sé stesso, adattandosi agli altri e all’ambiente in modo nuovo, un modo che contempla come reale e presente la perdita che ha vissuto e, pertanto, l’assenza.

Elizabeth Kübler-Ross, nel testo La morte e il morire (1970), ha descritto cinque fasi nel processo di elaborazione del lutto: shock o negazione (il soggetto rifiuta l’evento, immerso in una realtà non più “reale”, quella in cui la perdita non è avvenuta); rabbia (nel soggetto si manifestano emozioni molto forti e tende a sfogare nell’ambiente, con parenti, sanitari, persone a lui comunque vicine, la frustrazione della perdita); patteggiamento (il soggetto inizia a “masticare” l’assenza, prendendo in esame le alternative che ha nell’affrontarla); depressione (quando l’assenza si manifesta in tutto il suo dolore, il soggetto sperimenta un senso di sopraffazione e di impotenza dato dall’irreversibilità della condizione in cui si trova); accettazione (il soggetto finalmente è riuscito ad attraversare l’assenza, a esserne consapevole e a ristrutturare se stesso e l’ambiente in cui vive, anche nelle relazioni con gli altri). Il modello appena presentato è ancora oggi uno dei più utilizzati per descrivere le dinamiche interne ed esterne delle persone che affrontano un lutto e si ritiene utile precisare che si tratta di un modello a fasi, non a stadi: le fasi possono ricorrere più volte, il soggetto può ripercorrerle in un avvicendamento che non necessariamente è lineare come sopra riportato. Tuttavia, al fine di poter definire un lutto come “elaborato”, ciascuna fase è fisiologica e consente il passaggio a un’altra fase. Al fine di consentire al soggetto l’elaborazione del lutto, quindi, è opportuno disporre di strumenti per accompagnarlo nell’attraversamento di ciascuna di queste fasi, aiutandolo soprattutto a comprendere quanto esse siano normali, pur se nella loro intrinseca novità risultino spaventose.

Secondo una teorizzazione più recente, Bowlby individua nella perdita di una figura di attaccamento un evento che attiva un’angoscia intensa e pervasiva, definita “Separation Distress”: il soggetto sperimenta l’idea di impossibilità di ottenere un senso di sicurezza e amore senza la disponibilità della figura di attaccamento persa. Il processo di separation distress attraversa, secondo l’autore, quattro fasi (1980): stordimento (caratterizzata dal rifiuto emotivo della notizia, pur nella consapevolezza cognitiva dell’evento); struggimento (caratterizzata dalla manifestazione dirompente di tristezza in occasione dei riti funebri e da possibili, successive o concomitanti, esplosioni di rabbia); disorganizzazione (caratterizzata dalla constatazione dell’irreversibilità della perdita e dalla conseguente revisione della realtà: il soggetto reagisce a tale revisione con apatia, depressione umorale, isolamento); riorganizzazione (caratterizzata dalla costruzione di un nuovo modello di vita, da parte del soggetto, modello che include l’assenza).

Partendo, infine, dalla Cognitive Stress Theory di Lazarus e Folkman elaborata negli anni Ottanta, si può ipotizzarne una sua applicazione al processo di elaborazione del lutto in termini di caratteristiche degli stressor, intensi quali eventi traumatici, di strategie di coping, intese quali insieme di processi adattivi messi in atto dal soggetto per affrontare gli stressor, e di relazioni causa-effetto che possono derivare dal binomio stressor-coping, ivi inclusa l’analisi degli outcomes (stato di salute fisica e mentale, o meno, che ne deriva). Stroebe e Schut nel 1999 hanno proposto in tal senso il Dual Processing Model (DPM), integrando fra teoria dello stress cognitivo appena descritta e teoria dell’attaccamento: il processo di elaborazione del lutto, secondo questo modello, si muove in una dinamica di continua tensione fra approccio ed evitamento della perdita e di tutto ciò che ad essa è collegato. Vi sono, quindi, strategie orientate alla perdita che portano all’elaborazione della perdita dell’altro significativo: elaborazione del lutto in senso stretto, rivalutazioni positive e negative dell’assenza, ricollocazione dell’altro significativo in una dimensione che prescinda la sua presenza fisica; e strategie orientate alla riorganizzazione che consentono di affrontare le conseguenze dirette legate alla perdita: compiti che solitamente venivano svolti dall’altro significativo, riorganizzazione materiale della vita nell’assenza dell’altro, cambiamento di identità (da sposato a vedovo, da figlio a orfano, ecc.). Nel modello è centrale il concetto di oscillazione: il processo, infatti, è estremamente dinamico in quanto l’individuazione di strategie di coping adattive non può essere lineare e priva di ostacoli, portando il soggetto attraverso stati funzionali e disfunzionali di fronteggiamento, al fine di consentirgli l’individuazione di quella che meglio gli consente di andare “oltre”, passando “attraverso”.

Le teorizzazioni appena descritte (a titolo di esempio) sono, per parlare in termini gestaltici, lo “sfondo” di “figure” più pratiche di supporto alle persone che si trovano ad affrontare la perdita di un altro significativo. Questi strumenti pratici possono essere applicati sia a un contesto individuale, sia di gruppo o di comunità (intesa quale famiglia, scuola, ambiente lavorativo, ecc.).

Sono stati elaborati numerosi questionari per la valutazione/esplorazione dei sintomi maladattativi legati alla morte o comunque alla perdita di un altro significativo, uno di questi è il l’ICG (Inventory Complicated Grief di Prigerson et al. 1995): si tratta di uno strumento che consente di individuare situazioni di lutto complicato, laddove il punteggio ottenuto sia superiore a 30. Viene somministrato in 10 – 15 minuti, è costituito da 19 items a ciascuno dei quali si attribuisce un punteggio da 0 (mai) a 4 (sempre). La validazione italiana è stata effettuata in tempi recentissimi (2013 – 2014) su 229 soggetti e il punteggio di cut-off maggiormente discriminante per il lutto complicato è risultato essere 30.

Nell’ambito di contesti che coinvolgono più persone, si è visto come la promozione nella realizzazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto (ama) sia di grande supporto nell’elaborazione del lutto per persone che condividono esperienze di perdita. Recentemente Colusso ha proposto in Veneto questo tipo di esperienza all’interno di un contesto di Hospice: viene fornita la possibilità, ai familiari di persone ricoverate (che, in media, perdono la vita nel giro di 4 mesi dall’ingresso nell’Hospice), di partecipare a gruppi in cui i membri hanno in comune la recente perdita di un loro caro. Il modello di ama proposto da Colusso prevede innanzitutto la formazione di soggetti in grado di condurre il gruppo: si tratta di operatori-volontari cui viene esposta l’importanza della narrazione, dell’ascolto e dei riti; ciò consente loro di diventare catalizzatori nell’espressione del dolore e nella condivisione. Centrale, nei gruppi ama per l’elaborazione del lutto, è la risonanza che le narrazioni creano in ciascun partecipante: l’esperienza viene vissuta come un conforto preziosissimo, in quanto spesso i membri riportano il sollievo sperimentato in tal senso, con frasi riassumibili in “ma allora si può parlare della morte”.

Se le precedenti considerazioni contemplano azioni mirate al raggiungimento del benessere psicologico in setting individuale o di gruppo nell’ambito di un lutto non elaborato e quindi già avvenuto, un’ulteriore riflessione può essere proposta nell’attenzione sempre maggiore che la formazione accademica dedica alla morte e al lutto. Viene evidentemente percepito come attuale e opportuno il bisogno di formare professionisti in grado di operare in tali ambiti, legati alla sofferenza in caso di prognosi infauste e alla morte in sé, intesa quale evento naturale della vita. Un esempio del primo ambito è la proposta formativa di Master, in particolare di II livello, in Psiconcologia (si può citare quello dell’Università Cattolica di Roma). Un esempio del secondo ambito è il Master di II livello in Death Studies proposto dall’Università degli Studi di Padova.

Formare professionisti in questo senso risponde all’urgenza di rendere la morte nuovamente accettata e presente nella vita di ciascuno, così come lo è stata in tempi più remoti. Il professionista che ha gli strumenti per parlare e sentir parlare della morte, ha la possibilità di promuovere il benessere psicologico anche in termini di prevenzione: nelle comunità familiari, scolastiche, delle Associazioni di Promozione Sociale, ma anche in quelle degli operatori sanitari di qualsiasi livello che affrontano la morte quotidianamente (nelle RSA, negli Hospice, nei reparti ospedalieri, negli ambulatori veterinari) e via discorrendo si possono avviare percorsi che consentano alle persone di familiarizzare con la propria e l’altrui fine della vita, onde restituire al lutto la dignità che l’aggettivo “fisiologico” gli tributa.

 

Lila e Lenù: l’ambivalenza femminile in età adolescenziale – Analisi attraverso una riflessione psicologica dell’opera televisiva “L’amica geniale”

La serie tv che prende il nome di L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, al di là dell’intenzione di volerne analizzare l’ambientazione storica, che potrebbe trarre in inganno e congelarne i contenuti trattandosi di un’epoca molto distante dalla nostra (anni 50/60), ci conduce per mano negli abissi più profondi dell’età adolescenziale, dove il possibile e l’impossibile viaggiano sullo stesso binario.

 

Lo fa in maniera dolce e crudele, come solo sa essere quest’età dalle mille sfaccettature, accompagnandoci attraverso lo snodo delle caratteristiche di personalità delle due protagoniste e del gruppo dei pari a cui appartengono.

Lila e Lenù: il gruppo dei pari crudele e complice

Ci sono tutti i tipi caratteristici adolescenziali. C’è il bullo e il bullizzato, il facinoroso e il debole, la vanesia e la studiosa, la ribelle e l’ubbidiente, il delinquente e il virtuoso. Ma su tutti troneggia il ‘gruppo’, che sembra avere un’anima tutta sua, separata e sincrona allo stesso tempo. Anima di Gruppo che conoscono molto bene solo coloro che ci sono dentro, che vi prendono parte. Nel gruppo omertà e tradimenti animano le loro menti inquiete e fragili di chi ne fa parte, intervallate da invidie, possesso e complicità, in un’altalena di sentimenti, di legami forti ed avversioni altrettanto profonde che si manifestano non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi ed il mondo circostante.

Un mondo che non riconoscono, ma con cui si sentono di condividere i sapori acri e amari di un tempo dal futuro incerto, poiché tutto si snoda nel qui ed ora. Nel tempo indeterminato dell’attesa senza prospettiva, da cui emerge il tratto caratteristico del tempo tipico adolescenziale, che non si differenzia per epoche né per culture.

Le figure femminili mature, che fanno da contorno alle vite delle protagoniste, sono relegate in un ambito domestico, prive di voce e di storia personale. Mortificate nel loro spazio mortifero tra cucina e fornelli.

Lila e Lenù : una donna allo specchio

Su tutti si levano le due protagoniste femminili, adolescenti, che, ad un occhio attento paiono rappresentare un unico corpo, una sola donna, un’unica immagine di donna vista attraverso lo specchio deforme di quella ‘condizione femminile’, ancora molto lontana dal profilarsi pubblicamente, per essere riconosciuta.

Un corpo con due anime contrapposte, due volti speculari, con due voci dai toni differenti, rabbia e violenza, rassegnazione e rivincita.

Un corpo attraversato dal silenzio e dal rumore, per nascondere le proprie fragilità e le proprie insicurezze. Un corpo in cui la femminilità ora esplode come un uragano, ora si nasconde per paura di mostrarsi, ma è un corpo attraversato da una sottile, quanto pervasiva, similitudine culturale, in cui mancanza e cupidità si mescolano, per dar vita alla loro piccola storia, fatta di pezzi di niente.

Perché ‘mancanza’ non è solo povertà di mezzi, ma di affetto, accoglienza, amorevolezza, riconoscimento. Un’adolescenza dove la delusione e il rifiuto hanno preso il posto dell’abbraccio e dell’accoglienza produce cicatrici.

Piccole ma profonde ferite dell’anima, che strutturano un modo di essere sempre più svincolato dalle richieste, guidato verso una fredda e staccata autonomia emotiva, indotta da situazioni e circostanze negative, non scandite da situazioni piacevoli, ma da abbandoni e disconoscimenti emotivi.

Una mancanza dunque profonda che non permette alcuna stabilità emotiva, né la costruzione di quei modelli affettivi di attaccamento, utili per la realizzazione del proprio mondo emotivo.

Lila e Lenù: pezzi di niente

Pezzi di niente senza fili conduttori, senza legami, senza confini, così sembrano delinearsi le loro vite. In una precarietà quotidiana di un divenire fatiscente, dove non c’è posto per alcun sentimento certo, se non la voglia di ritrovarsi per riconoscere a se stesse una benché minima umanità, che a tratti sentono sgretolarsi e farsi distante.

Due ritratti di donne apparentemente in antitesi, da una parte c’è la buona e cortese fanciulla, remissiva e obbediente ai dettami della scuola, della famiglia e del gruppo dei pari, dall’altra la travolgente e ribelle fanciulla, amazzone in un mondo di maschi violenti e prevaricatori, di cui non accetta la seduttività, se non nell’accezione di servirsene, per sopravvivere alla loro vacuità.

Il sentimento amoroso a tratti veleggia, travolgendo come un turbine le loro vite, senza tra l’altro consentire alcuna costruzione emotivamente importante per nessuna delle due fanciulle. Non è un caso che si infatuino dello stesso uomo, per il quale vivranno la sofferenza della perdita.

L’elemento sempre presente è la mancanza, che si dipana come un filo conduttore sulle loro vite, che anche quando sembra aver soddisfatto e colmato un bisogno, avanza crediti, inesorabili e taglienti, con la vita.

Due figure di donna, che ritraggono l’ambivalenza femminile, quella stessa che ha caratterizzato la vita delle donne per millenni.

La donna ‘strega’ e ‘santa’, ovvero quella peccaminosa e quella senza macchia.

Due aspetti della femminilità che si delineano al di là degli stereotipi, che ancora oggi si fa fatica ad eliminare, perché anche quando il riscatto sociale e il raggiungimento di stati di soddisfazione personale sembrano avanzare, riemerge da lontano una condizione di debolezza emotiva, come un fantasma che raccoglie le loro anime prigioniere di un’infanzia priva di una propria memoria.

Perché le femmine vivono più a lungo dei maschi?

Un team internazionale di scienziati, studiando la durata media di vita dei mammiferi selvaggi femmine, ha scoperto che anche nel loro caso (come negli esseri umani) la durata di vita delle femmine è significativamente più lunga rispetto a quella dei maschi.

 

La ricerca ha preso in analisi 101 specie differenti, dalla pecora all’elefante, i risultati mostrano che le femmine del 60% delle specie prese in analisi, vivono il 18% in più di tempo, rispetto ai maschi delle medesime specie (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Lo studio, pubblicato sul giornale Proceedings of the National Academy of Sciences, riporta come la morte più precoce dei maschi non sia dovuta a problemi fisiologici correlati all’invecchiamento, ma piuttosto si tratti di una questione ambientale: i maschi adulti hanno infatti più probabilità di morire rispetto alle femmine adulte (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Ad esempio, il leone femmina vive il 50% del tempo in più rispetto al leone maschio; questo è dovuto al fatto che il leone maschio va a caccia e durante la sua quotidianità è più a rischio di morte rispetto alla leonessa che rimane nella tana a curare i cuccioli (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Si tratta tuttavia di ipotesi. Infatti, secondo altri autori la maggior longevità del sesso femminile è data dal fatto che il maschio spende tutte le sue energie nel cercare di dare tutte le cure di cui hanno bisogno la femmina e i cuccioli, trascurando più se stesso per aiutare i membri familiari (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per escludere o confermare l’ipotesi ambientale, gli scienziati hanno intenzione di condurre uno studio analogo su una popolazione di mammiferi che vivono nello zoo, cosi, se l’ipotesi ambientale fosse corretta, in questo caso specifico non si dovrebbero verificare differenze di longevità tra i sessi, dato che la variabile ‘’ambiente pericoloso’’ è tenuta sotto controllo (negli zoo il leone non ha bisogno di andare a caccia e mettere cosi a repentaglio la propria incolumità) (Lemaitre & Gaillard., 2020).

Per quel che riguarda gli esseri umani, gli uomini hanno una vita media di 76 anni, mentre le donne di 84. Il motivo di questa differenza non è ancora chiaro. Si verifica inoltre un paradosso, infatti le donne invecchiando tendono ad avere una morbilità più alta rispetto agli uomini, questo dato, per deduzione, farebbe quindi pensare che sono gli uomini ad essere più longevi. Tuttavia, non è cosi: secondo l’ipotesi più accreditata, ma non ancora confermata, la maggior morbilità nelle donne è data da una più pronta risposta del tessuto connettivo agli ormoni sessuali. Questo meccanismo porterebbe ad influenzare il sistema immunitario rendendo più pronta la risposta ad eventuali patologie. Pur essendo l’ipotesi più accreditata, gli studi a supporto di questa teoria sono pochi e deboli (Austad & Fischer., 2016).

 

Fattori predisponenti della ruminazione depressiva

Perché alcune persone tendono a ruminare maggiormente rispetto ad altre? Da cosa dipende? Le ricerche sottolineano il ruolo di tre principali fattori evolutivi implicati nello sviluppo dello stile ruminativo: l’abuso infantile, lo stile genitoriale e la differenza di genere.

 

Sebbene la ruminazione sia una risposta generalmente comune, che può risultare utile al fine di sviluppare un piano d’azione per la soluzione di un problema, se utilizzata in maniera pervasiva, come strategia abituale di regolazione emotiva, può divenire disfunzionale favorendo il mantenimento di un circolo vizioso depressivo in cui l’attenzione dell’individuo viene focalizzata in maniera ripetitiva sugli stati emotivi interni che a loro volta, interferendo nei comportamenti funzionali di soluzione attiva dei problemi, esacerbano gli effetti dell’umore depresso (Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema et al., 2008; Smith e Alloy, 2009).

Ma come può la ruminazione divenire uno stile di risposta abituale? Le ricerche hanno evidenziato che tale modalità può essere appresa dall’individuo, a partire dall’infanzia, come strategia di regolazione emotiva in seguito al vissuto di particolari situazioni. (Palmieri, 2014).

L’abuso infantile

Un primo fattore che favorirebbe la tendenza alla ruminazione riguarda il vissuto di eventi traumatici, primo tra tutti l’abuso sia a livello psicologico sia a livello fisico e/o sessuale (Sarin e Nolen-Hoeksema, 2010). In questo caso, il bambino, non avendo a disposizione altre abilità di regolazione, utilizzerebbe la ruminazione come strategia di coping al fine di dare un senso all’esperienza vissuta, spesso di difficile comprensione e di cui viene vietato di parlare (Conway et al., 2004). Tale modalità quindi, partendo dal rappresentare una strategia adattiva di riduzione della sofferenza, attraverso il rinforzo e l’applicazione indiscriminata ad altri contesti, arriverebbe ad essere disfunzionale contribuendo al mantenimento e all’esacerbazione dei sintomi depressivi (Watkins, 2016). A questo proposito Rooosa et al. (1999) hanno rilevato l’esistenza di un’associazione tra abuso subito in età infantile e sviluppo della depressione in età adulta, dato confermato anche dagli studi di Spasojevic e Alloy (2002). Sempre a questo proposito Conway (2004) ha esaminato la relazione tra abuso, ruminazione e disforia notando come coloro che riportano di aver subito maggiori esperienze di abuso, presentano livelli più elevati di ruminazione e di disforia.

Lo stile genitoriale

Un altro elemento che faciliterebbe lo sviluppo della ruminazione è lo stile genitoriale ipercritico, passivo e/o ipercontrollante. Nel caso di genitori iper-critici, incapaci di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino, questo si troverebbe a trascorrere molto tempo analizzando e valutando le motivazioni ed i segnali dell’altro al fine di predirne i comportamenti ed evitare rimproveri e punizioni. Ciò lo porterebbe però a ritirarsi sempre più nell’interiorità, evitando di esprimere i propri pensieri ed emozioni (Conway et al., 2004; Spasojevic e Alloy, 2002). Nel caso di genitori iper-controllanti, il piccolo mancando della possibilità di sperimentarsi nelle varie attività, potrebbe sviluppare la percezione di avere scarso controllo sull’ambiente e potrebbe essere indotto ad una maggior tendenza alla passività ed al ritenersi senza speranza di fronte alle delusioni (Nolen-Hoeksema, 1998). Infine nel caso di genitori con stile di coping passivo o ruminativo, il bambino trovandosi senza modelli di riferimento da seguire, riguardo l’apprendimento di strategie di problem solving e di coping attive, sarebbe portato a sviluppare uno stile di risposta ruminativo (Nolen-Hoeksema, 2004).

Le differenze di genere

Un ultimo fattore che potrebbe fungere da antecedente evolutivo della ruminazione è quello delle differenze di genere legate a diversità biologiche ed ambientali (Palmieri, 2014). Riguardo i fattori biologici, Nolen-Hoeksema (2004) ha osservato che i bambini fisiologicamente più reattivi allo stress, tendendo a riscontrare maggiori difficoltà nella gestione di stati emozionali negativi, sarebbero spinti a focalizzarsi maggiormente su tali vissuti sviluppando un pattern di risposta di tipo ruminativo. Riguardo i fattori ambientali invece, per cultura maschi e femmine tendono a ricevere insegnamenti differenti dai genitori riguardo le modalità di gestione delle emozioni negative. Mentre i maschi sono da una parte scoraggiati ad esprimere emozioni di paura o tristezza e dall’altra sono sollecitati a mostrarsi forti di fronte alla difficoltà, ciò non accade per le femmine. Questo atteggiamento porta così a favorire nei maschi l’assunzione di stili di risposta attivi come la “distrazione” o il “problem solving costruttivo” per regolare l’umore depresso, mentre nelle femmine è favorito un comportamento più passivo che incentiva ad utilizzare maggiormente la ruminazione come strategia di comprensione delle possibili cause ed implicazioni del loro stato d’animo. A sostegno di tale ipotesi, vi è il dato che il numero di donne che soffre di depressione è doppio rispetto a quello degli uomini.

Concludendo, dato l’importante ruolo svolto dalla ruminazione come fattore di vulnerabilità per lo sviluppo della depressione, risulterebbe auspicabile incrementare la ricerca, ad oggi piuttosto limitata, sulle basi evolutive dei fattori che fungono da antecedenti dello stile di risposta ruminativo. In particolare, i dati attuali, da cui partire per successive indagini, suggeriscono come il vissuto di particolari situazioni, fin dall’infanzia, porti l’individuo a sviluppare strategie di regolazione emotiva come la ruminazione (Palmieri, 2014).

 

Diario di bordo ai tempi del Coronavirus: vademecum psicologico anti-panico e consigli sul benessere psicologico

In termini di utilità emotiva è più efficace pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che è in atto l’emergenza coronavirus e a calmare le ansie.

 

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il Coronavirus (Covid-19) proviene da una famiglia di virus respiratori (CoV) che possono causare malattie con sintomi da lievi a moderati, dal semplice raffreddore a sindromi respiratorie gravi come quelle che si osservano negli Ospedali, nei Pronto Soccorso e nei reparti riservati ad accogliere i pazienti colpiti da questa emergenza.

E’ intuitivo associare la parola tanto pronunciata e ascoltata negli ultimi mesi – Coronavirus –  alla corona di un re o alla corona di alloro che indossano i neolaureati. Infatti, è curioso sapere che il Coronavirus viene chiamato così perché presenta sulla sua superficie delle punte, simili a quelle di una corona. Già osservato in alcune specie animali, non era mai stato rilevato nel genere umano.

Febbre, tosse e difficoltà respiratorie sono i sintomi più comuni del quadro clinico del Coronavirus; non mancano le sindromi respiratorie acute, le polmoniti, con una prognosi che porta spesso al decesso. Non mancano neanche i casi asintomatici: sono proprio loro, e le risorse limitate del Sistema Sanitario Nazionale di fronte a una pandemia, che hanno portato il Governo Italiano a prendere provvedimenti attenti, urgenti e semi-drastici.

Le misure di sicurezza con cui nelle ultime settimane le persone si confrontano riguardano proprio il contagio di questa malattia. Le raccomandazioni e i comportamenti di sicurezza sanitari sono entrati a far parte delle abitudini di grandi e piccoli: non mancano i dubbi su come poter reperire mascherine che sembrano introvabili, il gel igienizzante che tanti prima ignoravano sembra ora il nostro pane quotidiano, si cerca di uscire il meno possibile e ci si domanda come trascorrere le 24 ore quotidiane, moltiplicate per un numero di settimane di cui ancora non siamo certi, nella propria casa, che sappiamo di amare ma che in queste settimane ci coglie impreparati. Non ce lo aspettavamo e probabilmente mai avremmo pensato potesse accadere.

La creatività e la flessibilità dell’uomo in termini di adattabilità sono risorse che possiamo sfruttare in questa situazione e probabilmente abbiamo già cominciato a farlo senza del tutto accorgercene.

Conviene, in termini di utilità emotiva, pensare a ciò che è lecito fare in questo periodo di #iorestoacasa, piuttosto che a ciò che ci è negato fare. Riflettere sulle possibilità porta ad abbassare l’arousal attivato dal sapere che là fuori c’è un’emergenza in atto, a calmare le ansie e a darci legittimità in termini di riorganizzazione puntuale della giornata e del nostro vivere quotidiano: la mente si rilassa e può pensare in maniera creativa a come trascorrere il tempo. Rimuginare su come andrà a finire – si spera che #andràtuttobene – oppure sul weekend in giro per l’Italia saltato a causa delle restrizioni, sulla mole di lavoro perso e sulle conseguenze tragiche di questa pandemia, non aiuta a migliorare la situazione o a prevenire il contagio del Coronavirus, ma ci pone in uno stato emotivo di allerta e apprensione che, di fatto, nel momento in cui siamo a casa e non stiamo contravvenendo alle norme proposte dal Governo, non ha senso continuare ad alimentare. In tal senso, è utile trascorrere il tempo a casa nella maniera più serena possibile, dedicandoci a noi e a mantenere i contatti con il mondo esterno grazie ai mezzi di comunicazione e ai mass media.

A tal proposito, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha divulgato un Vademecum Psicologico Anti-Panico per i cittadini che consiglia di:

  • Attenersi ai fatti in maniera oggettiva – L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che l’80% dei contagiati guarisce spontaneamente, il 15% presenta problematiche mediche gestibili, il 5% manifesta un quadro sintomatico grave e la metà di essi va incontro al decesso. Parallelamente a ciò, la misurazione del Ministero della Sanità alle h 18.00 del 20 marzo 2020 ci dice che, su 47.021 casi positivi in Italia, l’8,5% abbia perso la vita mentre il 10,9% sia riuscito a guarire.
  • Riflettere sul rapporto tra paura ed efficienza in emergenza: quando la paura è nulla o moltissima, l’efficienza nel fronteggiare la situazione viene meno. L’ideale sarebbe vivere l’attuale scenario con consapevolezza e percezione equilibrata dei pericoli portati dal contagio del Coronavirus.
  • Non mettere in atto strategie sull’onda emotiva dell’allarme e del panico: la messa in atto delle semplici misure di sicurezza proposte è un buon modo per vivere con serenità la situazione. Invece, un’ansia elevata inibisce la capacità di ragionamento senza cui non possiamo garantire a noi stessi e agli altri una gestione ottimale della prevenzione al contagio.

Inoltre, il CNOP raccomanda di:

  • Non ricercare compulsivamente le notizie ma aggiornarsi una volta al giorno e solo da fonti affidabili come il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore della Sanità
  • Entrare nell’ottica che le misure di sicurezza prese servono a proteggere le altre persone e non a proteggere solamente noi stessi. Per questo motivo è importante che tutti le adottino per il bene della collettività: non ignorare la disattenzione altrui, può essere utile spiegare l’importanza dei comportamenti di sicurezza agli altri con pazienza e calma. Reazioni di rabbia o disprezzo non aiuterebbero la persona a comprendere il momento che stiamo vivendo.

Invece, l’Istituto Superiore di Sanità sottolinea l’importanza di preservare il benessere fisico, psicologico e relazionale in queste settimane attingendo alle proprie risorse e conducendo la giornata secondo uno stile di vita il più sano possibile, non semplice in situazione di costrizione a casa, ma usando qualche escamotage. Nel seguire questo consiglio, possiamo accedere alle risorse personali, promuovendo una mentalità costruttiva, più che distruttiva, su ciò che sta accadendo.

Puntare al benessere personale e familiare, organizzando attività durante la giornata e promuovendo la comunicazione, può essere un modo valido per affrontare questo periodo di stand-by e attesa.

Come spunti, l’ISS propone l’attività fisica – ottimo modo per “tenere a bada” frustrazione e stress, per prenderci cura dell’autostima, del rilassamento psicofisico e dell’energia – un sonno regolare, un’alimentazione sana, limitare alcoolici e fumo, organizzare attività piacevoli da fare in famiglia, il mantenimento dei contatti con parenti ed amici. L’obiettivo? Mantenere un buon senso di autoefficacia, oltre a stare meglio come singoli e come coppie o famiglie.

Nella speranza che l’emergenza venga gestita nel migliore dei modi e che questo periodo termini presto, possiamo dare a queste settimane un significato personale e in termini di utilità. Se la resilienza è la capacità di fronteggiare le difficoltà e uscirne più forti di prima, possiamo cogliere i lati positivi di quello che sta succedendo e trarne qualche insegnamento da “rispolverare” in futuro.

 

Coronavirus: gli effetti secondari della paura del contagio

Nel tempo del contagio pandemico, come viene definito il momento che stiamo vivendo, da più parti si sollevano voci per evidenziare gli effetti sulla salute dell’uomo determinati dal cosiddetto Coronavirus.

 

La denominazione coronavirus è dovuta alla particolare forma a corona di questo virus, quasi come uno scherzo della natura, quella di avere una struttura a mo’ di principio regio e assolutistico naturale.

Al di là degli esiti che produce, connessi ad una sindrome respiratoria acuta grave, ci sono effetti derivanti dalle restrizioni adottate per impedirne la diffusione ed il contagio, che assumono particolare rilievo dal punto di vista della sofferenza psicologica che possono determinare.

I numerosi DPCM che si sono susseguiti hanno, di volta in volta, aumentato le limitazioni alle libertà individuali, fino ad arrivare al punto di impedire alle persone di uscire di casa, se non per gravi e comprovati motivi.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie disfunzionali

Il ritiro sociale e la convivenza forzata a cui è stata costretta la popolazione inevitabilmente hanno determinato cambiamenti nella vita degli individui. Cambiamenti che non sempre sortiscono effetti positivi per le persone.

Per un verso molte famiglie si sono viste ricongiunte, come forse non avveniva da anni o non era mai accaduto. In molti casi si è ricostruita una nuova conformazione familiare, che per molti aspetti non ha dato ai suoi componenti il tempo di adattarvisi.

Ma a mano a mano che i giorni passano, stare insieme diventa un modo per riappropriarsi di tempi e di spazi che magari erano stati fino ad allora solo desiderati. Ecco allora che si scoprono linguaggi nuovi e modi di comunicare differenti, in cui non c’è posto per i monosillabi pronunciati frettolosamente, ma è richiesto un verbale più ricco nelle parole e nei toni. I gruppi familiari su whatsapp non hanno più regione di esistere, ma a questi se ne vanno a creare altri, fino a qualche tempo fa impensabili.

La tavola riprende il posto centrale di aggregazione familiare

La famiglia in molti casi riprende un funzionamento equilibrato, che significa promuovere uno sviluppo psicologico appropriato dei suoi componenti.

Ma la convivenza “forzata” dei nuclei familiari, non sempre può essere foriera di effetti positivi. Del resto tutto ciò che è imposto, a lungo andare può generare forme di insofferenza. Questo succede maggiormente nel caso delle famiglie disfunzionali, ovvero quelle famiglie che hanno modalità comportamentali di tipo “invischiato o disimpegnato”, in cui i membri cercano rispettivamente una forma di aggregazione patologica e invadente o di sfuggire alle relazioni ed ai meccanismi di comunicazione tra i presenti.

Nelle tipologie di famiglie invischiate, i confini individuali sono fortemente travalicati dall’altro o dagli altri. Non c’è l’individuo svincolato e autonomo nelle scelte, bensì il soggetto aggregato che si muove sotto la costante regia della identità familiare, che sovrasta su tutti. Permane un “basso livello di differenziazione”, che non promuove la crescita psichica ed emotiva del soggetto. Coloro che si trovano a soccombere sono caratterizzati da un basso livello di autostima, che li limita nei comportamenti e ne favorisce il senso di insicurezza e di inadeguatezza. In questi soggetti una convivenza forzata, determinata dagli eventi connessi al coronavirus, può determinare una crescita esponenziale di comportamenti connaturati da dipendenza e sottomissione, con manifestazioni di ansia anche ingestibile.

Dall’altra parte, nelle famiglie disimpegnate, ognuno è parte a sé stante, il tetto familiare è solo un mezzo per garantire la sopravvivenza dei suoi membri. I soggetti non comunicano tra di loro, se lo fanno è solo per lo stretto necessario alle incombenze quotidiane. Non c’è relazione tra i membri. Lo scambio affettivo è assente o quasi. Ogni membro della famiglia non ha tempo da dedicare all’altro. Vi è un distanziamento emotivo notevole. Nelle famiglie disimpegnate, il dato più significativo è che manca nei componenti la capacità di chiedere aiuto e di sostenersi.

Appare evidente come una situazione di permanenza forzata sotto lo stesso tetto, possa favorire, in questo caso, piuttosto che un ritrovarsi e stare insieme, riscoprendo anche un senso di appartenenza familiare, atteggiamenti di rabbia, sia per l’incapacità di chiedere aiuto, sia per impossibilità di approcciarsi all’altro. Rabbia e insofferenza che possono sfociare in comportamenti violenti tra gli stessi componenti della famiglia.

Gli adolescenti, in special modo, possono mettere in atto modi di fare aggressivi, poiché sono maggiormente insofferenti a sostenere una situazione di permanenza forzata nello stesso luogo; la condizione di vita familiare, che li vede senza la possibilità di uscire di casa e quindi di aggregazione col gruppo dei pari, può accrescere poi negli adolescenti la distanza emotiva e l’intolleranza reciproca.

Inoltre, non è da sottovalutare che l’impossibilità di frequentare coetanei può anche determinare l’evolversi delle condotte di dipendenza da videogiochi e dalla rete internet, più in generale da tutte quelle forme di dipendenze favorite dall’uso e abuso indiscriminato di Internet, dalla dipendenza da smartphone alla navigazione sui social, alla visualizzazione di filmati, al gioco d’azzardo online patologico (GAP) e ad altre forme di dipendenza come quella di filmati porno (sex-addiction ) o lo shopping compulsivo online.

Essendo Internet l’unica risorsa per comunicare, l’uso del mezzo tecnologico diventa lo strumento di elezione per entrare in contatto col resto del mondo. In questi casi la dipendenza costituisce un comportamento di evitamento attraverso cui il soggetto si rifugia nella rete per sfuggire alle sue problematiche esistenziali.

Senza contare la condizione già di per sé deleteria dei cosiddetti Hikikomori, che per definizione sono giovani che soffrono di un “acuto isolamento sociale non derivato da altre malattie psichiatriche”. Giovani che hanno difficoltà comunicative e relazionali, tali da evitare i contatti persino con i propri congiunti. E’ evidente come questi soggetti, venendosi a trovare nella condizione di isolamento, aumentano l’incapacità di superare la difficoltà a relazionarsi ma anche a contrastare la paura degli altri, un altro elemento che caratterizza questo tipo di condizione. Pertanto, la loro asocialità, in questo momento è, paradossalmente, ancora più normalizzata, questo a discapito di un recupero futuro di comportamenti aggreganti.

Nelle famiglie disfunzionali violente, dove i comportamenti aggressivi, il più delle volte, vengono messi in atto senza preavviso determinando in chi li subisce un forte senso di costante allerta e ansia, accade che la convivenza ristretta senza possibilità di “fuga”, possa determinare l’aggravarsi di situazioni al limite della tolleranza, con ripercussioni notevoli sull’equilibrio psicofisico di coloro che subiscono le violenze, ma anche su coloro che vi assistono e che sono ugualmente vittime. Molto spesso bambini e adolescenti, che, in una condizione di convivenza forzata, non hanno alcuna possibilità di sfuggire alla violenza.

Le violenze, lo ricordiamo, non sono solo di tipo fisico, ma anche di tipo psicologico. Sappiamo bene che la violenza psicologica è un potente precursore dei disturbi mentali, che vanno dalle nevrosi alle psicosi, anche di tipo superiore.

I bambini e gli adolescenti vittime di violenza assistita vengono a trovarsi in una condizione di prigionia, pertanto non vengono risparmiati dall’esposizione alla violenza che si genera in famiglia.

Coloro che soffrono di disregolazione emotiva, ovvero che hanno difficoltà a gestire in maniera equilibrata i loro pensieri e le loro azioni, possono attuare una marcata impulsività e trasferire, in modo irruente, la turbolenza mentale che avvertono ingestibile su chiunque, ovvero su tutti coloro che non sono rispondenti al loro ideale parossistico.

Effetti della convivenza forzata per le famiglie con disabili

Le famiglie in cui sono presenti uno o più disabili, in genere figli, vengono a trovarsi in una condizione di forte stress per la mancanza di aiuti esterni che generalmente favoriscono la gestione quotidiana del disabile.

Questo stato di cose e la condizione emotiva stressogena talvolta portano a crolli fisici e psicologici, di coloro che assistono al familiare infermo, determinando un forte calo delle risorse individuali ed un senso di resa incondizionata di fronte alle difficoltà del momento.

Effetti secondari dell’isolamento per i disturbi psichici

La costrizione domestica, che non consente uscite se non per motivi ben definiti dalla normativa in vigore, agisce sul versante dell’inedia, fattore favorente il consumo di droghe e alcool, in coloro che già sono consumatori abituali. Così come le cattive abitudini alimentari.

I disturbi alimentari potrebbero aumentare in chi già ne è affetto o insorgere in chi inizia a consumare cibo senza regole con abbuffate.

La noia, condizione mentale in cui tanti potrebbero trovarsi, è un fattore altamente favorente l’uso e l’abuso di sostanze, alcool e cibo.

Pertanto, una convivenza forzata o uno stato di isolamento, possono costituire fattori predisponenti a condizioni dannose per l’organismo.

Come le condotte disfunzionali di famiglie e individui, anche i disturbi mentali possono avere un curva di crescita nel periodo di chiusura domestica forzato.

Mentre l’ansia attiva risorse e quindi può essere una buona fonte da cui attingere per fronteggiare situazioni difficili, l’angoscia associata alla paura non alimenta emozioni positive.

L’angoscia, ovvero la sensazione di impotenza e di fragilità, di fronte al nemico in questo caso anche invisibile e non connaturato alla biologia umana, aumenta e favorisce la consapevolezza della costante vulnerabilità di specie.

La paura di soccombere senza potersi difendere è un elemento fortemente destabilizzante di per sé, ma accresce in coloro che già vivono situazioni di fragilità emotiva e sono destrutturati mentalmente.

Avviene che i disturbi della personalità possono acuirsi e rendere la vita di coloro che ne soffrono, e di coloro che sono loro accanto, ingestibile.

Disturbi quali il DOC (disturbo ossessivo compulsivo) o il Disturbo Borderline con la sua vasta gamma di condotte nocive, possono vedere un aumento dei singoli aspetti che li caratterizzano o più di uno.

Nel DOC potrebbero aumentare le preoccupazioni per l’ordine, la pulizia maniacale, il perfezionismo, il controllo, al punto da rendere la vita invalidante sotto vari aspetti, non solo personali ma anche relazionali, considerata la costrizione di condivisione degli spazi comuni.

Così come il Disturbo Borderline di Personalità potrebbe vedere un incremento per quanto riguarda gli aspetti paranoici o autolesivi.

Il soggetto borderline, in considerazione del binario unidirezionale su cui si snoda la convivenza forzata, potrebbe diventare ulteriormente insofferente a coloro che gli sono accanto e che spesso vede come una minaccia alla propria integrità soggettiva.

In coloro che soffrono di disturbi dell’umore, come il disturbo Depressivo, possono aumentare i sintomi di inadeguatezza, il timore degli eventi negativi e il sentimento di insufficienza personale.

Anche chi soffre di disturbo schizoide potrebbe veder aumentare le difficoltà a socializzare e il rifiuto sociale, elementi caratterizzanti un quadro clinico già fortemente disturbante per il soggetto, dove l’isolamento e la solitudine rappresentano le caratteristiche salienti.

Ma coloro che in questo momento sono maggiormente chiamati in causa, portando all’eccesso le loro fobie, sono gli ipocondriaci o patofobici, ovvero coloro che soffrono per la paura di ammalarsi di una determinata malattia.

Per queste persone la paura delle malattie è la fonte di nutrimento della loro ansia. Paura che si trasforma spesso in panico e diventa un greve fardello da sopportare.

Anche per questi soggetti, il periodo che stiamo vivendo può rappresentare una condizione difficilmente gestibile.

L’analisi riportata ha l’intento di fare una panoramica sulle ripercussioni psicologiche di un momento tanto delicato per l’umanità, che vede tutti interessati. La comunanza del rischio, a cui tutto il genere umano è esposto, rappresenta, per molti aspetti, quel senso di appartenenza alla civiltà, di valori condivisi, che spesso viene trascurato. I divieti che tutti siamo chiamati a sostenere sono tanti ed anche pesanti, ma il fatto che siano stati imposti per una causa tanto importante, come quella di salvaguardare la propria vita e quella di tutti gli altri, dispone ad una condizione di accettazione inevitabile degli obblighi.

Del resto, è sempre la paura più grande che vince la paura più piccola.

 

Mente e corpo in camera da letto: il rapporto tra metacognizione e dolore genito-pelvico femminile

Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale.

 

La dispareunia e il vaginismo sono classificati all’interno del DSM-5 tra le Disfunzioni Sessuali, più precisamente con il nome di Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD; APA, 2013). Si tratta della sensazione di acuto dolore che alcune donne provano nel momento della penetrazione, che nella maggior parte dei casi rendono impossibile avere un rapporto sessuale completo con il partner (Pacik & Geletta, 2017).

Alcune tra le cause del GPPPD attualmente dimostrate sono l’ansia, la qualità della relazione con il partner, alcune cause organiche e la mancata conoscenza di base dell’anatomia sessuale umana. Tuttavia, rimane ancora incerta l’eziologia del disturbo (Kabakçi & Batur, 2003). Ricerche recenti hanno sottolineato che donne con vaginismo riportavano una maggior preoccupazione riguardo alle conseguenze della penetrazione, una minor autostima e l’aspettativa di provare dolore durante il rapporto sessuale (Klaassen & Ter Kuile, 2009).

La metacognizione, che rappresenta la capacità di ragionare sui propri pensieri, sulle proprie credenze e sulla propria cognizione, viene spesso descritta come il “pensiero riguardo al proprio pensiero” (“thinking about thinking”; Wells & Matthews, 1996). Gli approcci metacognitivi suggeriscono che le manifestazioni psicopatologiche siano causate da uno stile di pensiero ripetitivo e rimuginativo, la cognitive attentional syndrome (CAS), che mantiene l’individuo continuamente focalizzato sui propri pensieri. Le credenze metacognitive possono essere positive (es. “preoccuparmi mi aiuta”) o negative (es. “non posso controllare i miei pensieri”; Wells & Matthews, 1996).

Per quanto riguarda le disfunzioni sessuali maschili, uno studio ha trovato una correlazione tra l’esordio e il mantenimento del disturbo e le credenze metacognitive (Giuri et al., 2017); tuttavia, il rapporto tra il GPPPD e le credenze metacognitive non è ancora stato adeguatamente indagato.

Lo scopo degli autori del presente studio (Ünal et al., 2020), infatti, era proprio quello di indagare la correlazione tra metacredenze e il GPPPD in un campione di 135 donne affette dal disturbo, mettendole a paragone con un gruppo di controllo (136 donne).

Tutte le partecipanti hanno completato la SCID-I, la Vaginal Penetration Cognition Questionnaire (VPCQ) – che evidenzia la cognizione di donne che soffrono di vaginismo rispetto alla penetrazione – il Metacognition Questionnaire (MQ), la Hamilton Anxiety Rating Scale (HAM-A) e la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D; Ünal et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che il punteggio del MQ era significativamente maggiore nella sottoscala delle metacredenze positive nelle partecipanti con GPPPD rispetto ai controlli. Tutti i punteggi del VPCQ nelle pazienti con GPPPD sottolineavano un numero maggiore di cognizioni negative sulla penetrazione rispetto ai controlli; anche la frequenza dei rapporti e l’evitamento della sessualità erano significativamente maggiori nel gruppo sperimentale, mentre la sexual communication tra i partner era minore.

In conclusione, lo studio dimostra che oltre alle variabili cognitive già precedentemente indagate, vi è una correlazione anche tra metacognizione e GPPPD, sottolineando un possibile risvolto positivo nel trattamento delle pazienti con Terapia Metacognitiva (Ünal et al., 2020).

 

Disturbo narcisistico e rapporto di coppia

Il disturbo narcisistico di personalità rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. I narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche, ma queste sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

Nelle sue Metamorfosi, Ovidio scrisse di un bel giovane di nome Narciso che rifiutò l’amore di una ninfa di nome Eco e successivamente si innamorò del suo riflesso nell’acqua immobile. Nel poema, Narciso ed Eco si strussero a causa dei loro amori non corrisposti. Tuttavia, come in un curioso colpo di scena di un destino romantico, i loro tipi di carattere si sono mescolati in quello che oggi definiamo come la “Personalità narcisistica”.

Il Disturbo narcisistico di personalità (NPD, American Psychiatric Association, 1994) è caratterizzato da un pervasivo senso di grandiosità e auto importanza (molto simile a Narciso) e da un forte bisogno di essere validato e ottenere ammirazione e attenzione dagli altri (molto simile a Eco) ed è indicato nel DSM IV da 5 o più dei seguenti criteri nel:

  1. Un grandioso senso di importanza personale;
  2. Preoccupazione con fantasie di illimitato successo, potere, genialità, bellezza o amore ideale;
  3. Credenze di essere speciale e unico;
  4. Bisogni di eccessiva ammirazione;
  5. Un senso di pensare che tutto sia dovuto;
  6. Sfruttamento interpersonale;
  7. Mancanza di empatia;
  8. Invidia per gli altri;
  9. Atteggiamenti o comportamenti arroganti o altezzosi.

Si stima che questo disturbo colpisca il 7,7% dei maschi e il 4,8% delle donne nella popolazione generale (Stinson e colleghi, 2008). Pochi studi hanno esaminato se l’espressione dei sintomi del Disturbo Narcisistico di Personalità differisca tra maschi e femmine. Le ricerche precedenti suggeriscono sostanziali differenze sessuali, con i maschi che hanno maggiori probabilità di avere un senso del diritto, una mancanza di empatia (Karterud e colleghi, 2011; Richman e Flaherty, 1990), fantasie di potere e successo e un grandioso senso di importanza personale (Bylsma e Major, 1992; Grijalva e colleghi., 2015; Karterud e colleghi, 2011; Luo e colleghi, 2014; Major, 1994; Major e colleghi., 1984), sfruttare gli altri e credere di essere speciali e meritarsi privilegi unici (Grijalva e colleghi, 2015; O’Brien e colleghi, 2012; Richman e Flaherty, 1990; Tschanz e colleghi, 1998). Le femmine tendono a mostrare maggiore preoccupazione per l’aspetto fisico (Buss e Chiodo, 1991) e hanno una maggiore reattività nei confronti degli altri (Richman e Flaherty, 1990). Sia maschi che femmine sembrano presentare una prevalenza simile di sintomi come vanità, auto assorbimento e invidia (Karterud e colleghi, 2011; Foster e colleghi, 2003).

Il paradosso delle relazioni narcisistiche

Il disturbo narcisistico rappresenta una questione spinosa nelle relazioni romantiche. Da un lato, i narcisisti sono esperti nell’iniziare relazioni romantiche. Dall’altro lato, queste relazioni sono frequentemente problematiche perché si rivelano instabili, di breve durata e distruttive per gli individui che frequentano il narcisista.

Secondo il Modello d’Azione (Agency Model) le relazioni romantiche narcisistiche fanno parte di un sistema globale autoregolamentato. Cioè, le relazioni romantiche hanno un ruolo funzionale nella vita del narcisista che è simile a molti altri processi relazionali e comportamentali. In accordo con il Modello, ci sono almeno 5 qualità fondamentali che sono centrali nel narcisismo:

  1. Focalizzarsi sull’operato piuttosto che sulla condivisione (e.g., Campbell, 1999; Campbell e colleghi, 2006; Campbell e Foster, 2007; Campbell, Foster e Finkel, 2002; Campbell e Green, 2008);
  2. Visione di sé esagerata (John e Robins, 1994);
  3. Processi di auto regolazione che sono incentrati sull’ottenimento e il mantenimento dell’autostima (Campbell, 1999; Raskin, Novacek e Hogan, 1991);
  4. Pensare che tutto sia dovuto (Campbell, Bonacci, Shelton, Exline e Bushman, 2004);
  5. Un approccio mirato all’orientamento (Foster e Trimm, 2008).

Queste qualità fondamentali sono correlate a tre processi interconnessi: strategie intrapsichiche (es. fantasticare sul potere, credere di essere più attraente degli altri), capacità interpersonali (es. sicurezza, carisma, estroversione sociale) e strategie interpersonali (es. conquistare partner come fossero trofei, auto promozione). Coerente con il concetto di un sistema, questi processi si rafforzano a vicenda. Per esempio, la percezione dei narcisisti di essere altamente attraenti, in combinazione con l’estroversione sociale e il fascino, porta il narcisista nell’aggiudicarsi il partner come trofeo di alto rango. Questo, a sua volta, rinforza la sicurezza del narcisista e la visione di sé spropositata. Quando questo sistema funziona correttamente per il narcisista, il risultato è l’esperienza di “stima narcisistica”, per cui sperimenta un senso di autostima simile all’esperienza di un sorpasso (Baumeister e Vohs, 2001) ed è connesso alla dominanza sociale (Brown e Zeigler-Hill, 2004) e ai sentimenti di orgoglio (Tracy e Robins, 2004).

Il disturbo narcisistico di personalità svolge altresì un ruolo paradossale nelle relazioni. Il narcisismo è una forza potente per avviare relazioni positive a breve termine, ma anche la causa di un significativo ritorno di problemi a lungo termine. L’apparente paradosso è il risultato dei tratti dei narcisisti e dell’approccio alle relazioni. I narcisisti hanno una serie di qualità, la fiducia sociale, la piacevolezza e il fascino, che sono ottimali per l’inizio della relazione, ma se combinati con un altro insieme di qualità, come la bassa empatia, la centralità del sé e l’uso degli altri per il  mantenimento dell’autostima, sono distruttivi al funzionamento delle relazioni. Come conseguenza i narcisisti avviano ripetutamente nuovi rapporti, danneggiano la relazione e feriscono i loro partner, per poi passare ad un’altra relazione. Purtroppo, questo è il percorso ottimale per i narcisisti data la loro costituzione d’essere, ma non ottimale per i loro partner o la struttura sociale.

Narcisismo, sessualità e impegno nel rapporto di coppia

Il narcisismo e la sessualità sono stati messi in relazione l’uno all’altra, almeno dalle scritture di Freud (1914) e Ellis (1898). Tuttavia, al di fuori della letteratura psicodinamica, poca ricerca empirica ha affrontato il motivo per cui narcisismo e sessualità sono associati e quali conseguenze potrebbe avere questa associazione.

In uno studio, Foster e colleghi (2006) suggeriscono che per capire la relazione tra disturbo narcisistico di personalitàe la sessualità sia necessario, in primis, considerare l’orientamento interpersonale del narcisismo, il quale è decisamente aggressivo. Le persone narcisistiche si prendono cura delle loro qualità aggressive, come il potere, la dominanza e l’estroversione, e non mostrano la stessa considerazione per le qualità condivise, come l’intimità emotiva e la calorosità (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Brunell, e Finkel, 2006). Gli autori propongono che questo orientamento si rifletta negli atteggiamenti e comportamenti sessuali di persone con personalità narcisistiche. Inoltre, essi aggiungono che l’approccio narcisistico alla sessualità abbia implicazioni nel funzionamento delle loro relazioni.

Il termine “narcisismo” è stato applicato tradizionalmente a un disturbo specifico della personalità: Narcisistic Personality Disorder o NPD (American Psychiatric Association, 1994). Durante gli ultimi 25 anni, tuttavia, i ricercatori nel campo della personalità e della psicologia sociale hanno studiato una dimensione della personalità etichettata come narcisismo “normale”. Una persona con narcisismo normale può possedere alcune delle caratteristiche del NPD; tuttavia, la maggior parte degli individui con alti livelli di narcisismo normale non soddisfa la diagnosi criteri per NPD. Il narcisismo normale elevato è tipicamente definito come punteggio sopra la media sul Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin e Terry, 1988). Nel presente articolo quando ci riferiamo al narcisismo, ci riferiamo al narcisismo normale – o narcisismo così come viene misurato con l’NPI o altri strumenti simili.

C’è un corpus vasto e crescente di letteratura sul tema del narcisismo normale (vedi Campbell & Foster, in stampa, per la revisione). Come ci si potrebbe attendere, il narcisismo è associato ad atteggiamenti positivi verso se stessi (ad esempio, alta autostima, Brown e Zeigler-Hill, 2004). Coerentemente con il loro orientamento aggressivo, tuttavia, gli individui narcisisti adottano atteggiamenti più fortemente positivi nei confronti di sé stessi per quanto riguarda i tratti agentici (ad es., l’intelligenza, l’attrattività). Sono meno positivi (e si preoccupano meno) riguardo i tratti comuni (ad esempio, l’intimità, la cura) (Campbell, Rudich e Sedikides, 2002).

Campbell e colleghi (2006) suggeriscono che l’orientamento agentico del narcisismo sia legato al cattivo funzionamento delle relazioni, come il basso livello di impegno nei rapporti (Campbell e Foster, 2002), alti livelli di infedeltà (Campbell, Foster e Finkel, 2002) e bassa intimità emotiva (Foster, Shrira, Campbell e Loggins, 2003). Poiché il narcisismo è associato a un cattivo funzionamento delle relazioni in una varietà di modi, è importante scoprire le radici di queste associazioni. Cioè, perché i partner romantici narcisistici sono meno impegnati, meno fedeli, e meno emotivamente intimi?

Una prerogativa importante delle relazioni che può influenzare tutti questi problemi, ma che ha ricevuto pochissima attenzione da parte dei ricercatori sul narcisismo, è quella sulla sessualità. La sessualità è una componente chiave di molte relazioni romantiche. Se il narcisismo influenza la sessualità, il collegamento può avere una serie di importanti implicazioni per le relazioni che coinvolgono partner romantici narcisistici. Pertanto, è fondamentale comprendere (a) in che modo il narcisismo e la sessualità sono collegati e (b) se questo collegamento è chiarificatore del funzionamento delle relazioni (ad es. Livelli di impegno) che coinvolgono partner narcisistici.

Lo scopo di diversi studi è stato quello di esaminare gli antecedenti e le conseguenze della sessualità in relazione al narcisismo. A questo riguardo, modelli teorici di narcisismo, come la sociosessualità (il costrutto della sociosessualità, o dell’orientamento sociosessuale, coglie le differenze individuali nella tendenza ad avere relazioni sessuali casuali e senza impegno) e l’impegno relazionale, sono stati testati attraverso due studi. Attraverso gli studi, gli autori hanno esaminato le radici della sociosessualità senza restrizioni (impegnarsi nel sesso in una fase precedente delle loro relazioni, fare sesso con più di un partner alla volta, essere coinvolti in relazioni sessuali caratterizzate da minori investimenti, impegno, amore e dipendenza) e poi hanno utilizzato la sociosessualità per spiegare la mancanza di impegno relazionale segnalata dai partner narcisistici romantici. Coerentemente con i loro modelli, un maggiore narcisismo è associato a una sociosessualità con meno restrizioni. Inoltre la sociosessualità senza restrizioni ha rappresentato l’associazione negativa tra narcisismo e impegno relazionale. Poiché questi modelli si focalizzano su diversi aspetti del narcisismo e della sessualità (cioè, antecedenti e conseguenze), sono stati testati in due studi separati. È importante, tuttavia, vedere i risultati degli studi presenti nel loro insieme per apprezzare appieno le implicazioni di questa ricerca.

Gli individui con personalità narcisistiche inoltre tenderebbero ad avere punti di vista un po’ diversi sulla sessualità. Coerente con l’orientamento agentico (lo stato agentico è una spiegazione dell’obbedienza offerta da Milgram per cui un individuo esegue gli ordini di una figura di autorità, agendo come suo agente) del narcisismo (Bradlee e Emmons, 1992; Campbell, Rudich e Sedikides, 2002) e più specificamente con il modello narcisistico dell’Azione (Campbell e colleghi., 2006), il narcisismo è collegato a un bias egoistico nella sfera sessuale: il sesso con un partner avente alti livelli di narcisismo sembra essere caratterizzato da alti punteggi di individualità piuttosto che da intimità condivisa. Come è stato proposto, la natura agentica della sessualità, caratteristica degli individui con elevati tratti di narcisismo, è associata alla sottostima di gratificazioni condivise dei rapporti sessuali (ad esempio, l’intimità emotiva) e a una maggiore importanza data alle gratificazioni agentiche (ad es. piacere fisico).

La presente panoramica offre modelli teorici empiricamente testati che forniscono un primo passo verso la comprensione di una relazione potenzialmente complessa. Sebbene i ricercatori siano consapevoli che le persone con livelli di narcisismo più elevati riportano un bias agentico generalizzato (Bradlee e Emmons, 1992) che si estende anche alle loro relazioni sentimentali (Campbell, 1999; Campbell e colleghi., 2006), non è mai stato dimostrato empiricamente che il narcisismo sia associato a un bias simile per quanto riguarda la sessualità. Il modello narcisistico d’Azione di Campbell (2006) dipinge un ritratto molto simile di narcisismo e relazioni. Campbell (1999) trovò che gli individui narcisistici sono più attratti da altri che possiedono tratti che possono avvantaggiarli personalmente (ad esempio l’attrattività fisica) piuttosto che quelli che possono giovare alla relazione (ad esempio essere emotivamente intimi).

 

La trasformazione di Sansa Stark – La LIBET nelle narrazioni

Nel momento in cui Sansa Stark ottiene potere e riconoscimento tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste alla sua evoluzione finale: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 13) Sansa Stark

 

Attenzione: l’articolo può contenere spoiler!

Il personaggio di Sansa Stark è, probabilmente, uno dei personaggi che ha mostrato un percorso di cambiamento più forte all’interno delle 8 stagioni di Game of Thrones. Dapprima, infatti, Sansa appare come una giovane ragazza che sogna di essere data in sposa al principe Joffrey, così come nelle favole che la madre le raccontava quando era piccola. Per poter diventare una lady, a Sansa viene chiesto di essere sempre bella e posata, senza immischiarsi nelle vicende considerate da uomini: il suo aspetto è sempre curato, i suoi modi sempre educati e si dedica al cucito.

La realizzazione e la validazione da parte dei genitori sembrerebbero secondarie ad una condizione: “Sarai riconosciuta solo se sarai una regina”.

Per poter rispondere a questa condizione, Sansa adotta una strategia di Metacontrollo molto strutturata per la protezione dal tema, che potrebbe essere quello di indegnità. Il piano, prescrittivo, per riuscire a ottenere considerazione pare quello di conformarsi allo stereotipo della Lady nobildonna, controllandosi nei comportamenti e negli atteggiamenti, senza mai contraddire il principe.

Quello che la attende nel corso delle successive stagioni, tuttavia, invaliderà più volte il suo piano.

Quando Joffrey, suo promesso sposo ed erede al trono, arriva a Winterfell, Sansa è subito preoccupata di non essere abbastanza bella per lui. Durante uno scambio con sua madre, dimostra quanto sia importante per lei diventare sposa di Joffrey, tanto da non considerare il lasciare la sua famiglia e la sua terra di origine, un deterrente per la realizzazione del suo sogno. Ma è in un evento chiave successivo che Sansa dimostra quanto il bisogno di sposare il principe e diventare regina sia per lei importante. Joffrey, infatti, dimostra subito il suo lato violento intimidendo con la sua spada il figlio di un macellaio e quando Arya, la sorella di Sansa, interviene per difenderlo, il principe le punta la spada al collo. È solo grazie all’intervento del metalupo Nimeria, che azzanna il principe al braccio, se Arya rimane illesa. Arya viene accusata da Joffrey di averlo attaccato senza motivo ed è qui che Sansa prende le parti del principe e non della sorella, arrivando a sacrificare come gesto di scuse il suo metalupo.

Da questo momento, tuttavia, si susseguono alcune invalidazioni al piano. Joffrey si rivela, infatti, sempre più violento, manipolativo e sempre meno interessato a Sansa, tanto che prenderà in sposa l’erede di una diversa casata. A Sansa toccherà in sposo lo zio di Joffrey, Tyrion Lannister, detto “il folletto” in quanto affetto da nanismo. Tyrion continua a sua volta a fornire una immagine diversa dal principe idealizzato di Sansa: nonostante non abbia le caratteristiche canoniche del principe (bell’aspetto, cura di sé, rispetto, potere ecc.) si rivela essere gentile con lei, tanto da non consumare il matrimonio. Stesso ruolo ha nello stesso periodo anche il Mastino, il quale la difende prima da Joffrey e poi la salva da un possibile stupro durante alcune sommosse. Questi incontri costituiscono delle prime invalidazioni del piano prescrittivo, ma non sembrano sufficienti ad una sua modifica.

La successiva e probabilmente invalidazione chiave per Sansa è il matrimonio con Ramsay Bolton, figlio illegittimo di Roose Bolton, il quale riconquista Grande Inverno, terra natia di Sansa. Questi si dimostra addirittura più feroce di Joffrey, dando spesso in pasto ai propri cani i suoi nemici e stuprando Sansa la prima notte di nozze. Tuttavia in questo momento sembra esserci una trasformazione. Sansa, infatti, convince Ramsay della pericolosità del nuovo nascituro di suo padre, inducendolo a pugnalare il padre e dare in pasto ai cani la matrigna e il nuovo genito. In seguito, riesce a fuggire e a ricongiungersi con il fratello Jon Snow, con il quale riconquisterà Grande Inverno spodestando i Bolton. Sarà lei stessa, poi, a dare Ramsay in pasto ai suoi cani.

Sembra, dunque, che sebbene il piano resti prescrittivo, il rispetto e il prestigio non siano più ottenibili per Sansa solo tramite il matrimonio ma tramite l’ottenimento di potere esercitando un controllo estremo, un “pugno di ferro”. Nei successivi avvenimenti, infatti, Sansa viene eletta Lady di Grande Inverno, meritandosi la stima di tutti gli alleati della casata Stark.

Continuando a ottenere potere e riconoscimento, non per quei comportamenti definiti in ambito familiare come importanti per essere date in mogli ad un principe, ma tramite la sua intelligenza e il suo spirito combattivo, si assiste all’evoluzione finale di Sansa: si riappropria del suo corpo, in seguito alle violenze subite, e del suo destino, senza delegare la propria realizzazione alla presenza di un principe azzurro.

Colloquio immaginario

Sansa arriva al castello dei Lannister convinta di essere data in sposa al suo principe azzurro Joffrey.

Accede in terapia per umore depresso. Si è nel momento di invalidazione del piano prescrittivo alla cui base sta: “Se sarò una lady, allora avrò il mio principe azzurro”. Fino ad ora Sansa si è infatti comportata secondo gli insegnamenti della madre, è sempre curata nel suo aspetto e nei suoi modi, come si addice ad una nobildonna. Comportamenti come quello della sorella Arya, la quale preferisce alla mondanità lezioni di duello, vengono scoraggiati indicandola spesso come un maschiaccio.

Quando Sansa viene finalmente promessa in sposa al primogenito della casata reale Lannister, il suo sogno sembra avverarsi. Il piano è talmente forte e il bisogno di difendersi dal tema di indegnità è così prevalente da farle sacrificare il suo metalupo a seguito di un litigio tra Arya e Joffrey, durante il quale Sansa si schiera dalla parte di quest’ultimo. Sacrificherà nuovamente una parte della sua famiglia, quando re Joffrey farà decapitare il padre.

Nonostante questi avvenimenti, tuttavia, Sansa resta al palazzo reale nella speranza di vivere la sua favola con il principe Joffrey. A questo punto, però, la natura violenta dell’erede al trono della casata Lannister si riversa su Sansa stessa: dapprima la umilia di fronte a tutta la corte e, in seguito, passa alla violenza fisica facendola picchiare dalle guardie e minacciando ripetutamente di ferirla con una balestra.

T: Signorina Sansa lei mi ha detto che ultimamente sta provando una forte tristezza e un senso di impotenza, soprattutto legate alle sue aspettative nei confronti del principe Joffrey. È corretto?

S: Sì, è così. Mi aspettavo che una volta giunta ad Approdo del Re, sarei finalmente stata amata come le principesse dei racconti che mi faceva mia madre quando ero piccola. Avrei voluto vivere la mia favola. E invece mi ritrovo ad essere umiliata in pubblico e a subire le sue torture.

T: E’ comprensibile provare tristezza e frustrazione in una situazione di forte stress come quella che sta vivendo in questo momento. Specialmente visto che le sue figure più importanti e che potrebbero aiutarla in questo momento sono distanti. Tuttavia è positivo che lei abbia deciso di intraprendere un percorso di terapia; questo indica una forte volontà di cambiare le cose e di reagire a questa situazione, non crede?

S: Sì penso di sì…non so. Forse è come dicevamo l’altra volta: sono stanca di dover sempre dire di sì e di stare zitta. Devo essere sempre controllata in tutto. Ma mi sento come se non fossi libera di fare quello che voglio…di modificare le cose.

T: cambiare non è un processo semplice, occorrono tante energie e tanta forza per rimettere in gioco ciò che ci è stato insegnato quando eravamo piccoli e il nostro modo di comportarci. Si ricorda quando abbiamo parlato della Sansa “bambina” e di cosa le fosse stato insegnato?

S: Sì ricordo, che si è amati solo se ci si comporta come una principessa…

T: Esattamente. Comportarsi in questo modo, tuttavia, è stato utile e funzionale all’interno del suo contesto familiare. Ora però, mi corregga se sbaglio, mi sembra che le stia un po’ stretto.

S: Decisamente stretto. Ma non so cosa fare, ho sempre fatto così e mi aspettavo che sarei stata regina. Forse aveva ragione Cersei quando mi ha detto “Non amerai mai il re”… Forse dovrei fare come fa Arya.

T: Mi spieghi meglio.

S: E’ sempre stata la ribelle. Invece che farsi fare i capelli o di scegliere il vestito da indossare passava il tempo ad addestrarsi nella lotta o nel tiro con l’arco. Ormai è anche più brava dei nostri fratelli. L’ho sempre guardata dall’alto verso il basso per questo, ma forse ha fatto bene lei.

T: Mi faccia capire: in che senso ha fatto bene?

S: A fregarsene di cosa dicevano i miei genitori. Sono sempre stati troppo legati alle tradizioni, sempre a criticarci e pronti a puntare il dito quando sbagliavamo. Con me di meno, ma perché io sono sempre stata quella che faceva quello che dicevano. Arya invece ha avuto la forza di fare quello che le pareva. Forse a me manca questo, forse non sono abbastanza forte.

T: Mi pare che lei stia vivendo una situazione molto difficile tra la recente perdita di suo padre e del suo metalupo e ciò che sta affrontando con Joffrey. Ci sono momenti nella vita che ci mettono di fronte ad una sofferenza che è difficile da sopportare e da affrontare. Ma questo non ci rende persone deboli, anzi.

S: […]

T: Non è d’accordo?

S: Sì è solo che, non so… Vorrei che tutto si risolvesse da solo. Vorrei svegliarmi domani mattina ed essere la principessa che ho sempre desiderato essere.

T: Vede Sansa, questa è la strategia di comportamento che avevamo identificato le scorse volte: cerchiamo di controllarci aspettandoci che la situazione si risolva. Secondo lei in questo momento questa strategia sta funzionando?

S: Direi di no. È quello che mi sono ripetuta quando ho sacrificato Lady, il mio metalupo. E alla fine non è servito a nulla. Alla fine comunque sono finta qui, ad essere picchiata e umiliata da Joffrey.

T: Ecco vede: se questa strategia, come dicevamo prima, è servita alla Sansa bambina con la sua famiglia, è anche vero che al momento sembra avere dei costi troppo alti. E forse, mi corregga se sbaglio, questo suo senso di impotenza potrebbe derivare da qui. Ha imparato un modo di comportarsi che fino ad ora ha sempre funzionato ma adesso sta un po’ scricchiolando e lei si sta chiedendo, anche iniziando un percorso di terapia, come mai non funziona più.

S: Forse ho capito che l’idea che avevo di principessa non è poi quella reale. Voglio dire, di facciata ho ottenuto quello che volevo. Ma non mi sento felice. Ho sacrificato tutto per arrivare qui e ora non mi piace.

T: Ho capito. Allora le chiedo: secondo lei esiste un modo per cambiare la sua situazione attuale?

S: […] Non so, forse dovrei impormi. Ma non ci riesco. Alla fine sono venuta qui per questo no? Perché vorrei che lei mi dicesse cosa devo fare.

T: Sansa, io non posso dirle che cosa deve o non deve fare. Posso però aiutarla a capire se esiste una strategia o una modalità di comportamento differenti da quelle che abbiamo usato fino ad ora e vedere se questo può aiutarla a stare meglio. E’ d’accordo con me?

S: ok…

T: Molto bene. Proviamo allora a pensare ad una situazione in cui ha provato i sentimenti di tristezza e di impotenza di cui mi parla e proviamo a immaginare di imporci, come lo definisce lei.

S: Mi viene in mente subito quando ho preso le parti di Joffrey nel suo litigio con Arya. Avrei dovuto difenderla…del resto aveva ragione lei.

T: Ottimo, proviamo a pensare nello specifico come avrebbe voluto reagire.

S: Gli avrei detto che è un viziato, un idiota e lo avrei fatto sbranare dalla mia metalupa.

T: Certo, sono emozioni e parole forti, ma che sono comprensibili visto quello che le sta capitando. Proviamo però a ridimensionare e a cercare un altro modo che possa comunicare quello che proviamo senza però usare la violenza e passare così dalla parte del torto.

S: Beh, allora avrei potuto dire che Arya non aveva fatto nulla. Che era stato Joffrey a minacciare il figlio del macellaio e poi ad atterrare Arya. Nimeria l’ha solo difesa.

T: Proviamo a immedesimarci nel momento, cosa pensa proverebbe?

S: […]

T: Proviamo come l’altra volta a pensare a che informazioni ci trasmette il corpo. Chiudiamo gli occhi e focalizziamoci sulle sensazioni corporee. Cosa pensa proverebbe in quel momento a livello fisico?

S: Mi tremano le mani…Mi sento il cuore in gola…Avrei voglia di urlare penso

T: Molto bene Sansa, molto bene. Possiamo dare un’emozione a queste sensazioni?

S: Non so… In questo momento mi sembra così distante da cosa provo ora… Forse, felicità?

T: Ottimo, rimaniamo un attimo in quel momento e sentiamo quella emozione.

[…]

Quanto è forte da 1 a 10?

S: direi 6 o 7

T: Molto bene, signorina Sansa. Quindi abbiamo visto come da un lato le strategie che abbiamo utilizzato fino ad ora ci risultino poco efficienti in questo momento e ci diano emozioni negative, mentre dall’altro, immaginando di comportarci in maniera differente, abbiamo provato delle emozioni positive e forti. Lei stessa mi ha detto 6-7 su 10. Giusto?

S: Sì.

T: Mh. Allora direi che potremmo vedere qui insieme come riuscire ad utilizzare comportamenti e strategie nuove. Sarà un percorso che richiederà tempo ed energie, ma sono convinto che abbia le risorse per poterlo affrontare. Che ne dice, è d’accordo?

 

Effetti della “pillow talk” sulla soddisfazione relazionale e sulle risposte fisiologiche allo stress nelle coppie

Con pillow talk si definisce una comunicazione intima tra partner dopo l’attività sessuale. Che benefici può portare questa pratica a uomini e donne?

 

Con l’espressione “pillow talk” (letteralmente, “conversazione con il cuscino”) si intende la conversazione che avviene tra i partner in seguito all’attività sessuale (PSTI). Molte ricerche in letteratura dimostrano un’associazione positiva tra l’impegnarsi in una comunicazione verbale e non verbale (coccole, baci, discorsi intimi) dopo l’attività sessuale e il benessere relazionale e sessuale degli individui e della coppia.

Il riferimento in letteratura, utilizzato per estendere questa linea di ricerca, è l’AET. L’AET è una teoria neo-darwiniana che dimostra come l’”affectionate behavior” (letteralmente, comunicazione affettuosa), è essenziale per aiutare gli individui a sviluppare e mantenere legami di coppia e rafforzare la resilienza. Nello specifico, la comunicazione affettuosa è definita come la messa in atto o l’espressione di sentimenti di vicinanza, cura e affetto per un altro significativo (abbracciare, baciare, dire “ti amo”). Ricerche precedenti indicano che le persone si impegnano in discorsi intimi post-sesso in media per 12 minuti.

Il presente studio si propone di testare sperimentalmente se l’aumento della comunicazione post-sessuale tra partner influisce sulla soddisfazione relazionale delle coppie e sulle risposte fisiologiche allo stress, in particolare nel momento in cui si discute di un problema relazionale che induce al conflitto.

Nello specifico, le ipotesi testate sono:

  • I partner che raddoppiano la “pillow talk” durante un arco di tre settimane (condizione sperimentale) mostreranno una maggior soddisfazione della relazione;
  • La soddisfazione della relazione predice la reattività del cortisolo e le risposte fisiologiche allo stress, ossia i partner sessuali più soddisfatti della loro relazione sperimentano meno stress quando discutono di un problema relazionale difficile;
  • Le coppie assegnate al gruppo sperimentale sono meno stressate rispetto a quelle appartenenti al gruppo di controllo, che non hanno raddoppiato la loro “pillow talk”.

Il campione finale comprendeva 50 coppie eterosessuali, mediamente dell’età di 20 anni, impegnati in una relazione monogama di almeno tre mesi e un’attività sessuale settimanale. I partecipanti erano invitati a compilare un questionario relativo ad informazioni demografiche, funzionamento relazionale, attività sessuale, situazioni stressanti e conflittuali vissute nel mese precedente. Dopo tre settimane, i soggetti erano invitati ad una visita di laboratorio per la misura della reattività del cortisolo responsabile dello stress tramite un tampone orale, prima e dopo aver discusso con il proprio partner per un tempo di 5, 20 e 40 minuti su una problematica relazionale conflittuale. Infine, è stato utilizzata la scala di Hendrick (1988) per la misura della soddisfazione della relazione, prima e dopo l’intervento sperimentale.

I risultati indicano che un aumento di “pillow talk” produce inaspettatamente una maggior soddisfazione relazionale solo per gli uomini e non per le donne, ma non predice le risposte allo stress fisiologico in entrambi i gruppi. Pertanto, la prima ipotesi è verificata soltanto per il genere maschile, mentre la seconda ipotesi non è stata supportata. Infine, anche la terza ipotesi è verificata soltanto per gli uomini, i quali giungevano in laboratorio con livelli di stress decisamente più alti rispetto alle donne, che diminuivano in seguito al confronto con la propria partner sulle problematiche relazionali. Di conseguenza, l’intervento non ha avuto un effetto significativo sulla reattività del cortisolo nelle donne, sia nel gruppo di controllo che in quello sperimentale; mentre gli uomini nella condizione di “pillow talk” hanno riportato un aumento nella soddisfazione relazionale e una diminuzione dei livelli di stress, rispetto agli uomini a cui era stata assegnata la condizione di controllo.

Una spiegazione sul perché gli uomini arrivassero in laboratorio con livelli di stress più elevati, rispetto al gruppo di controllo, potrebbe derivare dall’eccessiva preoccupazione per il compito di comunicazione che dovevano svolgere; ciò significa che essi sperimentavano una pressione maggior su sé stessi per aumentare la comunicazione intima positiva con la partner e, quindi, erano più stressati avvicinandosi alla discussione. Tuttavia, una volta che si sono effettivamente impegnati nel confronto, potrebbero essersi sentiti meglio attrezzati per gestire lo stress e, dunque, i loro livelli di cortisolo si abbassano notevolmente. Ciò non avviene per le donne.

Secondo la concezione AET, le norme di genere definiscono le donne come coloro che vogliono investire di più nelle loro relazioni rispetto agli uomini, perché sono state socializzate per farlo attraverso ruoli di genere prescritti. Pertanto, è stato chiesto loro di aumentare un comportamento che è già comune all’interno del loro ruolo di genere. Inoltre, è anche possibile che alcune donne abbiano inquadrato negativamente questo comportamento come lavoro emotivo all’interno della loro relazione romantica; in effetti, le donne possono già affrontare un aumento dello stress a causa delle aspettative di essere gestori familiari e relazionali, a volte riferite al colloquio come carico mentale. Di conseguenza, l’intervento potrebbe essere stato visto da alcune donne come uno dei tanti modi in cui ci si aspettava che gestissero la loro relazione e quindi non essere stato particolarmente gratificante, razionalmente benefico o positivo per lo stress.

Le norme di genere potrebbero anche spiegare l’efficacia dell’intervento sugli uomini. Infatti, la letteratura dimostra che le norme di genere sono più proibitive per l’espressione emotiva degli uomini. Pertanto, per gli uomini che partecipavano alla condizione sperimentale, avere il “permesso” di esprimere le proprie emozioni, impegnandosi in un comportamento che promuova l’attenzione, la consapevolezza e l’impegno nei confronti della propria partner dopo l’attività sessuale, può aver portato a benefici più pronunciati.

Alcuni limiti rappresentati dal presente studio sono l’età relativamente giovane del campione e la limitata generalizzabilità dei risultati. La ricerca futura può ora espandersi per verificare se forme e caratteristiche specifiche della comunicazione sono più o meno utili durante il PSTI.

 

Le emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

L’indagine SEG-Covid19, avviata il 14 Marzo dall’Associazione di Volontariato “Mammachemamme” e patrocinata dal MIPPE (Movimento Italiano Psicologia Perinatale), ha l’obiettivo di valutare lo stato di salute psicologica delle donne in gravidanza durante la diffusione del Coronavirus.

 

Lo studio è coordinato dalle dottoresse Maria Cecilia Gioia (psicologa e psicoterapeuta presso l’U.O. Ostetricia e Ginecologia – iGreco Ospedali Riuniti di Cosenza) e Alessia Aloi (psicologa psicoterapeuta), entrambe socie di “Mammachemamme”, associazione che da 8 anni si occupa della promozione del benessere psicologico per le mamme, i bambini e le bambine e le famiglie.

La gravidanza – racconta la dott.ssa Gioia – rappresenta per ogni donna un periodo di importanti trasformazioni fisiche ed emotive, di adattamento e continue scoperte. Durante la gestazione, sperimentare una condizione cronica di stress rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio, sia a livello fisico, che psicologico e sociale.

L’attuale emergenza sanitaria, rappresentata dalla circolazione del virus responsabile della COVID-19, sta avendo un notevole impatto sullo stile di vita della gestante e sulla gestione della gravidanza. Le poche informazioni al momento disponibili sull’impatto della COVID-19 in gravidanza appaiono tendenzialmente confortanti ma, visto l’esiguo numero di studi, è comprensibile registrare una forte risposta di ansia nelle donne in attesa.

L’indagine SEG-Covid19 (Fig. 1) mira appunto a conoscere le emozioni, i pensieri e i comportamenti che accompagnano la gravidanza in questo particolare momento storico. I questionari sono anonimi, la compilazione è semplice e richiede circa 20 minuti di tempo. I dati verranno analizzati solo in forma aggregata e i risultati saranno pubblicati in forma riassuntiva.

Possono partecipare allo studio tutte le donne in gravidanza. E’ importante la partecipazione del più alto numero possibile di gestanti, pertanto si ringraziano tutte le future mamme che vorranno supportare la ricerca, partecipando e condividendo l’iniziativa. Circa mille le gestanti che attualmente hanno aderito a questo studio con una distribuzione sul territorio nazionale maggiore nelle regioni del nord.

Stiamo già analizzando i primi dati – riporta la dott.ssa Aloi – e a breve pubblicheremo il nostro studio.

 

Covid-19 e gravidanza uno studio sulle emozioni delle future mamme Fig 1

Fig. 1. SEG-COVID-19. Studio sulle emozioni in gravidanza durante la diffusione del Covid-19

 

Per saperne di più sulla ricerca, clicca qui

Compila il questionario – Clicca qui

 

La Stimolazione Magnetica Transcranica nel trattamento delle dipendenze

Il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, residenziale o semi residenziale, ma sempre maggior rilevanza sta assumendo la possibilità di integrare il trattamento con l’utilizzo della deep TMS (dTMS).

Sara Angelicchio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il disturbo da uso di sostanze viene definito dal DSM 5 (2014) ‘Un cluster di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che indicano come l’individuo continui a fare uso della sostanza nonostante i significativi problemi correlati alla sostanza’. Una persona con questo disturbo quindi continua a fare un uso disfunzionale della sostanza, nonostante tutte le conseguenze negative che comporta, come il fallimento o l’abbandono delle attività lavorative, sociali e ricreative dell’individuo e l’eventualità di mettere in pericolo la propria vita. Tale disturbo si manifesta con i seguenti raggruppamenti di sintomi:

  • Incapacità di controllare l’uso della sostanza
  • Compromissione sociale derivante dall’uso della sostanza
  • Situazioni a rischio derivate dall’uso della sostanza
  • Tolleranza: necessità di una dose maggiore della sostanza per generare l’effetto desiderato
  • Astinenza: sindrome generata dalla diminuzione della concentrazione della sostanza nel sangue o nei tessuti, a seguito di un uso pesante e prolungato della stessa.

Le sostanze psicotrope sono un gruppo di sostanze eterogenee che agiscono sui processi psichici, alterando l’attività mentale di chi le assume. Nello specifico attivano determinate aree cerebrali deputate al sistema di gratificazione, di motivazione e di ricompensa e nella produzione di ricordi. (Hyman, 2007). Il sistema di gratificazione e ricompensa è un circuito neuronale, cioè un insieme di neuroni, che parte dall’area tegmentale ventrale ed è collegato ad aree subcorticali come il nucleo accumbens, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula ed ad aree corticali, come la corteccia prefrontale ed il giro cingolato anteriore. L’area tegmentale ventrale è responsabile della sensazione di piacere che proviamo in associazione ad alcune attività per noi adattive (come mangiare, stare in compagnia di amici, avere un rapporto sessuale, etc.). Il sistema di gratificazione si attiva con la produzione di un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Le sostanze psicotrope agiscono direttamente su questo sistema e causano un enorme rilascio di dopamina, responsabile dell’intenso piacere che si prova consumandole. Dopo un consumo continuativo il cervello, a seguito di tale iperproduzione di dopamina causata da agenti esterni, ne produce di meno o riduce il numero di recettori dopaminergici in grado di riceverne il segnale. Di conseguenza la capacità di provare piacere è drasticamente ridotta e si prova piacere soltanto aumentando progressivamente la dose di sostanza consumata, che diventa progressivamente l’unica fonte di piacere. Compare quindi il craving, ossia il forte ed incontrollabile desiderio di usare la sostanza. La diminuzione della produzione di dopamina, a sua volta, causa un’ipoattività della corteccia prefrontale, l’area cerebrale deputata all’attenzione, alla pianificazione ed al controllo degli impulsi. Il malfunzionamento della corteccia prefrontale causa la diminuzione della capacità di controllo, che a sua volta genera l’uso compulsivo e rischioso della sostanza (Everitt, Belin, Economidou, Pelloux, Dalley & Robbins, 2005). Un uso prolungato della sostanza causa quindi cambiamenti morfologici e funzionali dei circuiti cerebrali implicati. Queste modificazioni cerebrali sono state osservate anche nella comparsa di altri comportamenti compulsivi nei quali il craving non riguarda sostanze, come nel disturbo da gioco d’azzardo.

Secondo il modello bio-psico-sociale l’insorgenza di un disturbo o di una patologia è il risultato dell’interazione di più variabili, dette fattori di rischio, che aumentano la probabilità dell’insorgenza, e fattori di protezione, che la diminuiscono. Queste variabili sono di natura biologica/genetica, psicologica e sociale. In linea con tale modello, i fattori di rischio per l’insorgenza ed il mantenimento di una dipendenza sono:

  • biologici: la predisposizione biologica al disturbo da uso di sostanze è caratterizzata da un’alterazione nella produzione di alcuni neurotrasmettitori endogeni (soprattutto la dopamina), responsabili del sistema di gratificazione e ricompensa sopracitato.
  • ambientali: situazione socio-economica, esposizione ad eventi stressanti e traumatici, familiarità per dipendenze o altri disturbi psichiatrici.

Attualmente il trattamento delle dipendenze è di tipo multidisciplinare e prevede l’integrazione di interventi di pertinenza psichiatrica, psicologica/psicoterapeutica, riabilitativo psichiatrica e internistica, ai quali può essere utile aggiungere un intervento di tipo residenziale o semi residenziale.

La Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso  (Fiore, 2017). La TMS dispone di una serie di coil, o elettrodi, che si posizionano sulla testa, in corrispondenza della regione cerebrale di interesse. I coil rilasciano una corrente elettrica che genera un campo magnetico. Il campo magnetico raggiunge le aree cerebrali desiderate e inibisce il loro funzionamento.

La TMS è utilizzata a scopo di ricerca per indagare le funzioni dell’area cerebrale stimolata, ed a scopo clinico per trattare disturbi quali la depressione, il morbo di Parkinson, etc. A scopo clinico è utilizzata la TMS ripetuta (rTMS), ossia più sessioni di TMS ad alta o bassa frequenza. Tale trattamento consente di modulare la riorganizzazione neuronale, facilitando o inibendo circuiti neuronali responsabili di una funzione cognitiva o di un sintomo.

Utilizzando i coil della rTMS il campo magnetico generato raggiunge la corteccia cerebrale, ma non le aree sottostanti, coinvolte nelle dipendenze patologiche. La deep TMS (dTMS) consente la stimolazione di aree cerebrali profonde, mediante l’utilizzo di un tipo particolare di coil, chiamato Hesed-coil (H-coil), che genera campi magnetici in grado di raggiungere la profondità di 6 cm sotto lo scalpo: 4/4,5 cm più in profondità rispetto alla TMS (Roth,  Zangen & Hallett, 2002). Negli ultimi anni è stata dimostrata l’efficacia del trattamento con dTMS per diversi disturbi, incluse le dipendenze.

Molti studi hanno indagato l’efficacia del trattamento con dTMS in pazienti con disturbi da uso di sostanze quali alcol, nicotina, cocaina, resistenti al trattamento farmacologico e psicoterapeutico (Fiocchi et al., 2018; Kedzior, Gerkensmeier & Schuchinsky, 2018; Tendler, Barnea Ygael, Roth & Zangen, 2016). In questi studi vengono stimolate le aree subcorticali e corticali protagoniste del circuito dopaminergico della ricompensa: area tegmentale ventrale, nucleo accumbens, amigdala, insula, corteccia prefrontale, corteccia cingolata anteriore. I risultati mostrano che generalmente i protocolli di dTMS ad alta frequenza riducono il craving di sostanze, i sintomi depressivi comorbidi, sia a breve che a lungo termine (dopo 6-12 mesi), mentre i protocolli ad alta frequenza riducono il craving esclusivamente a breve termine. Poiché diversi tipi di sostanze alterano il circuito dopaminergico in modalità differenti, i protocolli di trattamento con dTMS devono essere adattati alla specificità di ogni sostanza. Le modifiche strutturali più durature nel tempo sono state ottenute con protocolli di somministrazione di dTMS ripetuta nel tempo per almeno 20 sessioni ed ad ampio raggio. Questo trattamento, oltre a ridurre il craving, riabilita e stimola la funzione cognitiva deputata al controllo del proprio comportamento, fondamentale per ridurre i comportamenti compulsivi dell’uso della sostanza.

Benché la letteratura sull’argomento al momento presenti dei limiti (studi con campioni poco ampi, senza gruppo di controllo, etc.) e siano necessari ulteriori studi di approfondimento, i dati ad oggi disponibili mostrano come il trattamento con dTMS per le dipendenze sia efficace nel diminuire il craving e riacquisire il controllo sui propri comportamenti. Tale tecnica, in associazione a trattamento farmacologico e psicoterapeutico, nell’ottica di un trattamento multidisciplinare, contribuirebbe ad alleviare i sintomi dei disturbi da uso di sostanze.

 

Per saperne di più su TMS e trattamento delle dipendenze, visita il Centro TMS

 

 

Gestire il virus con una corretta Prospettiva Temporale – Come la comprensione della Psicologia Temporale individuale può aiutare ad affrontare la pandemia

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del coronavirus.

 

Non c’è dubbio che il complesso fenomeno sociale causato dalla pandemia del Coronavirus determinerà in modo drammatico un “prima” ed un “dopo” nella storia delle nostre vite.

La parola quarantena, che deriva dalla parola latina che indica la durata di quaranta giorni, fu usata per la prima volta nel XIV secolo a Venezia. La Repubblica Serenissima, per contenere la diffusione della peste bubbonica, la “morte nera” che stava devastando l’Europa, obbligò a quaranta giorni di isolamento (dalla parola latina “insula”, che significa “isola”) le numerose navi commerciali straniere che arrivavano nella città lagunare. Durante questo periodo, le persone e le merci venivano monitorate su alcune isole della laguna veneta.

I veneziani furono saggi nell’adottare questa strategia a lungo termine rinunciando ai benefici economici e commerciali immediati. Anche senza le moderne conoscenze scientifiche, decisioni governative lungimiranti possono effettivamente contenere la diffusione di un’infezione al punto di sradicarla (Konstantinidou et al., 2009). Ciò fu ottenuto, nella città lagunare, limitando almeno parzialmente le interazioni sociali umane, consentendo così alle istituzioni veneziane di riguadagnare il controllo sociale e ristabilendo buone condizioni di salute.

Il coronavirus è un fenomeno bio-psico-sociale perché è un agente biologico che ha bisogno di un ospite umano per prosperare. Gli esseri umani hanno motivazioni psicologiche integrate in contesti sociali. Una persona è definita dalle complesse interazioni esistenti tra le varie motivazioni per perseguire obiettivi biologici, psicologici e socioculturali, ciascuna dotata di scopi propri (Agnoletti, 2019).

Il comportamento umano è il risultato di queste interazioni finalizzate, che globalmente, chiamiamo “fitness” in termini di salute fisica e psicofisica.

In questa prospettiva, l’isolamento sociale e fisico che limita collettivamente l’esposizione al virus, gli stati emotivi che sperimentiamo (più emozioni negative vivremo, meno efficace sarà il nostro sistema immunitario; più emozioni positive sperimenteremo, più forte sarà il nostro sistema immunitario), le scelte che faremo nel nostro comportamento quotidiano (lavarsi spesso le mani, etc.), determineranno sia la nostra fitness ed il benessere personale sia, indirettamente, la fitness della comunità in cui viviamo.

La ricerca scientifica sulla prospettiva temporale individuale, concettualizzata da Philip Zimbardo (Zimbardo & Boyd, 2008) e dai suoi gruppi di ricerca (Stolarski, Fieulaine e Van Beek, 2015), ci dimostra che il personale atteggiamento nei confronti del tempo è assolutamente cruciale sia a livello individuale sia a livello di decisioni sociopolitiche che devono essere prese dagli organi governativi per decidere e gestire i comportamenti efficaci per contenere la diffusione del virus.

In questo periodo di incertezza e stress, è importante sapere che individui, culture e istituzioni che sono più fatalisti sottovalutano i possibili fattori di rischio, poiché sono più focalizzati sul presente e molto meno consapevoli delle conseguenze delle loro azioni individuali e collettive (si pensi agli assembramenti che sono sorti e che sono stati contrastati dalla polizia). Per tali soggetti, politiche altamente restrittive possono contenere in modo più efficace il virus rispetto a individui che sono molto più orientati al futuro e che quindi hanno maggiori probabilità di comportarsi in modo più prudente.

Questa conoscenza psicosociale relativa alla Prospettiva Temporale può essere utile per comprendere, ad esempio, la differenza nei risultati epidemiologici tra due nazioni, come l’Italia e la Corea del Sud. Questi paesi sono comparabili per dimensioni delle loro popolazioni ed efficienza dei loro sistemi sanitari. Le loro culture, tuttavia, differiscono notevolmente per quanto riguarda il rispetto delle istituzioni e delle autorità. Le persone in questi due paesi differiscono anche nei loro orientamenti individualistici e legati al presente edonistico.

Il fatto che la Corea del Sud abbia prontamente applicato misure altamente restrittive (derivanti dal loro più forte orientamento futuro) ampiamente rispettate dalla popolazione ha limitato fortemente la diffusione del virus. Nel momento in cui sto scrivendo questo testo, il numero di morti era cinque volte inferiore a quello italiano.

La consapevolezza della Prospettiva Temporale potrebbe essere cruciale sia per progettare che per migliorare l’adesione individuale alle strategie governative adottate per ridurre l’impatto psicosociale ed economico del virus.

Il coronavirus ci obbliga ad essere più consapevoli del nostro bisogno di interazione sociale. Le restrizioni sulle interazioni sociali sfidano drammaticamente le nostre consuete abitudini. Qual è la nostra percezione del rischio e del controllo personale delle nostre vite? Come possiamo esprimere il nostro bisogno sociale in modo non fisico?

Prima accettiamo psicologicamente e culturalmente di far parte di una comunità umana globale con una forte coesione, prima saremo in grado di contrastare i danni socioeconomici e personali causati dal virus.

In breve, dobbiamo affrontare individualmente e socialmente questo momento storico caratterizzato dalla diffusione del coronavirus. È necessario essere più consapevoli della necessità di agire collettivamente in modo compatto, deciso e positivo prendendo decisioni orientate ai futuri benefici nel medio e lungo termine. Dobbiamo riconoscere ed accettare che alcuni aspetti relativi agli obiettivi immediati e a breve termine devono essere significativamente modificati.

Infine dobbiamo dare priorità al nostro futuro benessere comune rispetto gli interessi immediati individuali.

 

La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower – Psicologia Digitale

Outfit all’ultima moda, pose da consumati professionisti del fashion, sguardo serio: sono piccoli protagonisti, baby influencers popolari sui social media.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 8) La moda dei baby influencers: bambini icone di stile tra like e follower 

 

Baby influencers: chi sono e che cosa fanno sui social

Li chiamano micro-microcelebrities, mini influencers, kid influencers o più spesso baby influencers. Non si tratta solo di figli di persone famose: i baby influencers più famosi infatti sono sconosciuti, come ad esempio in Italia la piccola Ameli, 6 anni, con più di 2 milioni di iscritti al suo canale YouTube, oppure su Instagram la piccolissima Gaiaburuburu, classe 2016, gaiamasseroni e lauramasseroni, sorelle anche su Instagram, o ancora gennarodesimone.

Oltre oceano è un fenomeno consolidato e frutto di scelte mirate per ottenere un ritorno economico dall’attività sui social, quasi sempre gestiti da genitori-manager (si parla di “sharenting”: la condivisione di post con i propri figli), come faroukjames, clementstwins, coco_pinkprincess tra i più popolari. Che si tratti di vlog su Youtube o di immagini su Instagram, i contenuti variano da foto con capi e accessori alla moda o, invece, semplici episodi di vita quotidiana. Viene chiamata automedia (Pedersen e Aspevig, 2018) questa nuova forma di autobiografia attraverso i media; come un nuovo genere letterario, fa riferimento alla creazione e condivisione della narrazione della vita online.

Come mai sono così popolari: cosa significa comunicare la vita reale attraverso i media

Perché i baby influencers hanno successo? Una spiegazione potrebbe risiedere nella spontaneità, nella messa in scena di pezzi di vita di persone comuni, autentiche, che si mostrano così come sono, “celebrità ordinarie”, come le definisce Abidin (2015; 2017), perché danno l’impressione che non ci sia nulla o quasi di artefatto in ciò che condividono. E’ questa autenticità che comunica un senso di connessione e somiglianza. L’Autrice parla però di “calibrated amateurism”: questo stile amatoriale sarebbe “calibrato”, cioè creato ad hoc in maniera intenzionale e deliberata appunto per creare questo legame con i followers. Anche se le produzioni sembrano amatoriali (gli sfondi, le pose) si ha invece un livello di competenza digitale e tecnologica molto alto. Per trasmettere un senso di continuità, vicinanza e fidelizzare i followers, i post vengono pubblicati a cadenza quasi giornaliera, con contenuti semplici e tratti dalla vita quotidiana. I contenuti sono adattati per essere ben fruibili su tutte le piattaforme e i device in diversi formati, dal video di Youtube alle immagini di Instagram, con l’uso abile delle affordance dei diversi social media.

Privacy e uso dei social media

Secondo le recenti leggi sulla privacy per i minori (come la GDPR-Kids), nessuna informazione personale può essere acquisita a meno che un genitore non abbia dato espressamente l’autorizzazione. La socializzazione digitale dei più piccoli avviene molto presto: secondo i dati del PWC Kids Digital Media Report 2019, ogni secondo nel mondo 2 bambini si connettono per la prima volta; un terzo degli utenti attivi online è minorenne; un bambino di 4 anni spende in media 4 ore a settimana online che salgono a più di 20 per i ragazzi di 15 anni. Anche se il loro primo contatto avviene quasi sempre in presenza e con i genitori, risulta difficile credere che l’utilizzo sia sempre mediato da figure adulte. Se da un lato ciò favorisce un processo di rispecchiamento dei comportamenti dei genitori, dei quali imitano l’utilizzo di tecnologie e app per trasmettere storie di vita e “condividerle live”, dall’altro siamo di fronte a una contraddizione. Minori visti come analfabeti digitali che necessitano della guida di un adulto, ma poi soggetti in grado di costruire intorno a sé una identità online e farla fruttare, anche economicamente.

La vita in un post: pubblicità e futuro

Un ampio numero di followers vuol dire anche arrivare all’attenzione dei brand. La monetizzazione dei post – o per meglio dire degli advertorial (l’unione di advertising ed editorial, poiché sui social la pubblicità è integrata in un contenuto editoriale, post o video) – è un mercato in crescita che sfrutta proprio quel senso di fiducia e di appartenenza. Gli influencers provano personalmente dei prodotti e pubblicano post in cui li descrivono accuratamente, ne descrivono l’uso che ne hanno fatto e le caratteristiche. Per essere trasparenti con i propri followers, il post dovrebbe essere accompagnato da un “#ad” o “#advertising” per segnalare agli utenti che si tratta di un post sponsorizzato, tuttavia non tutti gli influencers adottano questa misura in quanto non obbligatoria. I prodotti più sponsorizzati sono principalmente di moda, bellezza, alimentari, viaggi, elettronica. Anche per i baby influencers con un buon numero di followers (in media a partire da 40.000) si aprono le porte della commercializzazione dei post con ottimi riscontri e potenzialità: l’importante nicchia di mercato dei prodotti per bambini e per famiglie. A volte assistiti da agenzie, più spesso da genitori-manager, questi bimbi vengono ritratti mentre mangiano un certo snack, mentre scartano un determinato gioco, fruttando consistenti compensi per i genitori.

Al di là dell’aspetto economico, cosa comporta questa continua esposizione mediatica per i piccoli? Essendo un fenomeno recente, lo scopriremo tra un po’, quando sapremo che fine hanno fatto queste piccole star del web. Ci sarà anche da capire come reagiranno a tutto quel materiale pubblicato senza il loro consenso. Le tracce che lasciamo online rimangono e non sappiamo per quanto e a chi rimangono disponibili. Per il momento questo sembra un prezzo da pagare non troppo alto; probabilmente questa diventerà una tematica oggetto di discussioni più approfondite in futuro, quando quelli che oggi sono bambini diventeranno adulti consapevoli.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

cancel