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Pensieri, parole, emozioni ai tempi del coronavirus: Intervista al Prof. Giovanbattista Presti

In questo difficile momento storico, la flessibilità psicologica può contribuire ad affrontare meglio le difficoltà emotive e cognitive scaturite dall’emergenza coronavirus ed aiutarci a sviluppare la resilienza, la capacità di resistere agli urti della vita.

 

Prendendo spunto dalla sua ultima pubblicazione scritta insieme al Prof. Paolo Moderato dal titolo Pensieri, parole, emozioni. CBT e ABA di terza generazione: basi sperimentali e cliniche, ho intervistato il Prof. Giovanbattista Presti in merito al suo punto di vista circa queste tre dimensioni importanti dell’essere umano, oggi messe a dura prova di fronte all’emergenza coronavirus.

Giovanbattista Presti è uno psicologo, psicoterapeuta, Docente Universitario all’Università Kore di Enna, autore di numerose pubblicazioni di carattere scientifico nell’ambito della ricerca sullo sviluppo del linguaggio e sui training per bambini con ritardo evolutivo. Curatore della traduzione italiana di testi come Quando il mondo ti crolla addosso e La trappola della felicità di Russ Harris, autore di testi di psicologia e ideatore del Podcast RadioCoronavir, un podcast creato in questo particolare momento storico, basato sui principi dell’ACT che grazie al contributi di altri validi colleghi dello stesso, si pone come obiettivo quello di aiutare le persone a sviluppare una flessibilità psicologica che possa contribuire ad affrontare meglio le difficoltà emotive e cognitive, comportate dall’emergenza coronavirus.

Immagine 1 – Il Prof. Giovanbattista Presti

Fatte tali premesse, ho desiderato chiedere al Prof. Giovanbattista Presti:

Pensieri, parole, emozioni ai tempi del coronavirus: in che modo la flessibilità psicologica può aiutarci?

Il tema, risponde il Prof. Presti, sta a lui particolarmente a cuore e parlare di flessibilità psicologica vuol dire creare quelle condizioni che ci consentano di accogliere quella tempesta che si sta scatenando dentro noi, fatta di pensieri ed emozioni diverse.

La situazione non è facile per nessuno. Il Prof. Presti sottolinea come lo stravolgimento delle nostre abitudini e routine quotidiane sia di per sé un importante fattore di stress, al quale si vanno poi ad aggiungere le informazioni che ci ricordano il numero di contagiati ed ancor di più dei deceduti. La flessibilità psicologica, sottolinea il Prof. Presti, riguarda l’elasticità della nostra mente e di conseguenza del nostro comportamento di riuscire ad adattarsi a tutto ciò e per l’appunto richiama il tema dell’adattamento.

I pensieri sono tantissimi, in generale di tipo catastrofico, come ad esempio “Questa situazione non finirà mai”, “Quando riuscirò a ritornare a lavoro”, “Chissà se colpirà i miei figli”, “Subirò dei danni economici”, tutti pensieri ammissibili ricorda il Professore in questo momento, e le emozioni di conseguenza vanno dalla rabbia, alla paura, all’angoscia, dubbi e incertezze, sgomento…

Ma siamo chiamati ad andare avanti, riorganizzare le nostre vite. La situazione è molto delicata e complessa, continua il Professore ricordando ad esempio il personale sanitario chiamato in prima linea, chi ha subito uno o più lutti, chi non ha potuto concedersi di dare un ultimo saluto al proprio familiare poi deceduto o tanto meno di poter celebrarne i funerali. Situazioni di profonda tristezza, angoscia, paura, rabbia…

In questo, la flessibilità psicologica, ci spiega il Prof. Presti, può aiutarci a sviluppare quella che in psicologia prende il nome di resilienza, ossia la capacità di resistere agli urti della vita e di riportarsi al mondo del possibile ed al mondo del reale, a ritrovare il senso della vita e delle cose. Flessibilità psicologica vuol dire anche muoversi verso questa direzione.

All’interno dell’intervista viene ricordato anche il materiale reperibile dalle puntate del Podcast, all’interno del quale si ha l’opportunità reperire audio guida che aiutano a meditare, riflettere e sperimentarsi in alcuni esercizi proposti che aiutino a creare quello spazio mentale che ci consente di agire in direzione dei nostri valori. Altro tema trattato all’interno del podcast è il tema dell’accettazione, accettazione anche delle emozioni difficili e dolorose e suggerimenti riguardanti la vita quotidiana come ad esempio, organizzarsi la giornata, prendersi delle pause, fare attività fisica, dedicarsi ad hobby, ritornare ai propri affetti, prendersi cura anche del proprio aspetto estetico.

Un ultimo suggerimento del professore è quello di pensare alla possibilità di creare una scatola dei tesori dove ogni membro della famiglia possa mettere un biglietto con un proprio messaggio, pensiero, che alla sera possa essere recuperato e condividerlo con il resto della famiglia.

E prendendo spunto da questa metafora, desideravo condividere con voi il contenuto di questa intervista e relativi link utili che sicuramente per me sono tesoro, ma ritenevo altrettanto utile e prezioso condividere con gli interessati.

 

Guarda l’intervista al Prof. Presti:

Ascolta il Podcast RadioCoronavir.

 

Virus e viralità

Dopo poche settimane dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 in Cina, il focolaio della cattiva informazione – e della disinformazione – stava già cominciando a diffondersi tra di noi, molto prima che il vero virus varcasse le soglie del nostro paese.

 

Man mano che immagini e notizie sempre più inquietanti riempivano le testate giornalistiche, parallelamente voci fuorvianti su ipotetiche teorie cospirative sull’origine del virus iniziavano a serpeggiare tra di noi, dando il via all’escalation di notizie false che ancora oggi circolano indiscriminatamente sul Web. È così, su questi canali veloci e tumultuosi di disinformazione, che l’epidemia del panico è riuscita a viaggiare più velocemente del coronavirus. Si è trattata di una vera e propria infodemia che ha travolto le nostre sicurezze e ha innescato come una bomba le nostre peggiori paure, disegnando scene di abbrutimento sociale a cui tutti noi purtroppo abbiamo dovuto assistere. Dai tentativi di pestaggio nei confronti dei residenti orientali, fino all’assalto selvaggio e incontrollato dei supermercati.

Mai come questa volta, abbiamo assistito a una coincidenza così netta tra virologia e viralità, dove la disinformazione è riuscita a far crescere l’onda della paura, cavalcandone la spinta e inondando le pagine dei social network.

Negli ultimi anni l’uso di internet nel settore sanitario sta diventando una delle principali tendenze mondiali. Milioni di cittadini cercano continuamente e ossessivamente informazioni online sulla salute e condividono sui loro profili pubblici contenuti a scopo divulgativo.

Per ogni vero esperto che cerca di condividere corrette informazioni scientifiche e ogni leader che cerca di trasmettere dati obbiettivi, ci sono migliaia di utenti che creano e fanno circolare notizie false e scandalistiche, al solo scopo di ottenere il maggior numero possibile di click ai propri post. Di solito sono gli stessi algoritmi che strutturano i social network a promuovere le notizie che creano più coinvolgimento, attirando maggior interesse verso i contenuti scioccanti e sensazionalistici e alimentandone così la diffusione. Il termine che meglio descrive questo tipo di fenomeno sociale è l’inglese “rumours”, che può essere tradotto in italiano in diversi modi: dicerie, chiacchiere, pettegolezzi, indiscrezioni. Le “leggende metropolitane”, come tendiamo a chiamarle, hanno da sempre accompagnato ogni tipo di evento storico che avesse una certa rilevanza. Già nella mitologia romana era presente la Dea Fama, una divinità annunziatrice e messaggera di Giove. Fama era immaginata come una donna sempre in moto, gridava continuamente dappertutto notizie buone e cattive, era figurata giovane e irruente con ali cosparse di occhi, di bocche e di lingue, e in atto di suonare una tromba oppure due, una per la verità, l’altra per la menzogna (Crescimbene, La Longa, Lanza., 2012).

La letteratura accademica in questo senso ha approfondito notevolmente i meccanismi di esordio e propagazione del fenomeno dei rumours. A tal proposito Allport e Postman (1947) definirono i rumours come proposizioni di fede su argomenti specifici (o attuali) che passano da persona a persona, di solito con il passaparola, senza alcuna prova della loro verità. Sebbene le voci siano di solito comunicate da persona a persona tramite il passaparola, anche i media al giorno d’oggi hanno un ruolo chiave nella loro diffusione.

Più specificatamente il fenomeno delle voci infondate è stato osservato anche durante lo scoppio di precedenti epidemie. Ad esempio durante l’epidemia di Ebola che colpì l’Africa occidentale nel 2014, un articolo del British journal of Medical rilevò che la maggior parte dei messaggi che riguardavano l’epidemia conteneva notizie false e che queste erano quelle che destavano maggiore attenzione e che venivano condivise maggiormente sui social network (Oyeyemi, Gabarron, Wynn., 2014). I social network in questo caso contribuirono a diffondere voci su trattamenti falsi, diventando poi notizie generali.

Un altro studio ha analizzato il diffondersi di voci infondate durante l’epidemia di SARS del 2003 che colpì alcune regioni della Cina. La maggior parte di queste dicerie, perlopiù di natura mistica o soprannaturale avevano iniziato diffondendosi con il passaparola, per poi raggiungere una certa popolarità attraverso i canali di comunicazione digitali. Spesso il contenuto di queste notizie false riguardava la possibile eziologia soprannaturale della malattia o rimedi terapeutici di tipo magico -religioso che in alcune aree rurali avevano trovato ampio spazio di diffusione e proliferazione (Zixue, Tao., 2011).

Un fenomeno diverso, ma per certi versi simile, si era già notato anche durante la tristemente famosa epidemia di influenza spagnola del 1918. I giornali americani dell’epoca ebbero il ruolo fondamentale di cassa di risonanza delle paure individuali, amplificando con titoli sensazionalistici il panico che si diffondeva tra la popolazione. (Hume., 2000)

Se nei primi anni del ‘900 le disperate e recondite paure individuali trovavano spazio solo sui titoli dei quotidiani, adesso le notizie, false o vere che siano, viaggiano alla velocità stessa della mente che le pensa. Passano pochi minuti infatti, da quando una voce infondata inizia a circolare, a quando gli schermi dei nostri cellulari illuminano i nostri volti, lasciando a noi la scelta di continuare ad alimentare il meccanismo vorticoso del clamore inutile.

Tutti noi dovremmo capire che contribuire alla disinformazione in momenti così delicati come quello che siamo vivendo, non equivale a fare innocui pettegolezzi. Le intuizioni miracolose che propinano false cure, la propaganda incosciente tesa alla sottostima della gravità dell’epidemia o le superficiali campagne della notorietà, proprio non sono semplici pettegolezzi. L’infodemia può essere pericolosa tanto quando la pandemia.

Condividendo una notizia insensata, ci assumiamo la responsabilità di essere l’anello di una catena di ignoranza, che alla lunga finisce per stringere le nostre esistenze in una morsa di confusione e panico. Pertanto se riteniamo necessario condividere un’informazione, è importante assicurarsi che l’origine sia attendibile e accettarsi che la persona o l’organo da cui dovrebbe provenire abbiano rilasciato una dichiarazione ufficiale.

In un momento in cui non abbiamo grandi strumenti per combattere il Covid -19 se non quello di stare in casa, dobbiamo utilizzare il megafono dei social media per migliorare l’aderenza della popolazione alle procedure di quarantena, ridurre le paure infondate, chiarire le incertezze e rafforzare la fiducia nei confronti della nostra sanità pubblica che sta combattendo una battaglia senza precedenti.

C’è un contagio virale da fermare e purtroppo non è solo quello che si trasmette per via aerea. Per evitare che l’infezione di stupidità mandi in poltiglia le nostre menti, basta poco. Un istante di logicità e razionalità. Semplice… come un click.

Il “Sistema” Coppia: come si passa dall’infatuazione all’amore

Ogni coppia segue un percorso che passa attraverso fasi diverse: attrazione, innamoramento, amore. Oltre alle componenti chimiche, comuni a tutti gli esseri umani, altri aspetti della storia individuale, psicologica, famigliare e trigenerazionale influenzano gli individui nella scelta e nel legame duraturo con il partner.

 

Non c’è fine al mio stupor, al mio tacerlo
Senti
Come mi batte forte il tuo cuore…

Recita così la poesia della poetessa premio Nobel Wislawa Szimborska, descrivendo la sensazione di quando la persona innamorata sente nel suo petto il battito del cuore del suo amato. Quando siamo all’inizio di una storia d’amore il nostro cuore batte forte, non riusciamo a contenere le emozioni, viviamo una vera ossessione per il partner. In realtà per alcuni mesi i nostri ormoni hanno il potere di travolgere e stravolgere la nostra esistenza dove testa, cuore e corpo collaborano per farci vivere in uno stato di euforia. Vi parlerò di questo, perché in ogni coppia tutto è in evoluzione dal momento in cui veniamo attratti da qualcuno, ci innamoriamo e realizziamo che amiamo proprio quella persona. C’è un percorso che ogni coppia segue e che passa attraverso fasi diverse: attrazione, innamoramento, amore. Oltre alle componenti chimiche, comuni a tutti gli esseri umani, altri aspetti della storia individuale, psicologica, famigliare e trigenerazionale influenzano gli individui nella scelta e nel legame duraturo con il partner.

La chimica

All’inizio siamo attratti da un partner di cui non sappiamo nulla, ma che ci attrae per motivi sconosciuti, e questo è il preludio dell’innamoramento. Quello che sta avvenendo dentro di noi è opera del cervello dove ha sede l’intelligenza, la fantasia, il linguaggio, le emozioni e dei suoi correlati chimici. I neurofisiologi, insieme a psicologi, antropologi, biologi e genetisti, ci raccontano che anni di evoluzione, ancorati al nostro patrimonio genetico, che fanno parte del nostro DNA, giocano un ruolo fondamentale al di fuori della nostra consapevolezza, inducendo a comportarci e a provare sensazioni che non immaginavamo.

Infatuazione

Durante l’infatuazione siamo in preda ad un vero disturbo ossessivo-compulsivo: continuiamo a pensare in modo spontaneo e ossessivo al partner fino ad occupare tutta la giornata. Ci sentiamo onnipotenti, pieni di energia, euforici. Tutto quello che accade è legato agli ormoni androgeni che sono i responsabili dell’attivazione del desiderio sessuale. Testosterone in misura maggiore combinato con l’estrogeno per gli uomini e l’estrogeno in misura maggiore combinato con il testosterone per la donna sono una vera tempesta chimica per il desiderio. Siamo in preda ad una vera iper-eccitazione.

Innamoramento

Durante l’innamoramento il livello del testosterone diminuisce nei maschi, lasciando posto alla tenerezza, mentre lo vediamo aumentare nelle donne comportando un atteggiamento più determinato. In questa fase i partner sperimentano atteggiamenti di cura e tenerezza reciproca. Ma è la feniletilamina che fa sì che le nostre pupille si dilatino quando qualcosa ci attrae, ci fa brillare gli occhi, riduce l’appetito, rende iperattivi sessualmente e stimola il rilascio di dopamina. La dopamina quando è a livelli molto alti produce effetti d’euforia, rendendoci simili ai dipendenti da droghe e facendoci perdere la testa. Ma se da una parte esiste questa dipendenza dovuta all’aumento della dopamina nelle fasi iniziali dell’innamoramento, dall’altra si verifica una diminuzione della serotonina che abbassa il nostro umore, inducendo uno stato di stress e ansia elevata. Quindi se da un lato all’inizio di una storia d’amore siamo euforici, dall’altra siamo in uno stato di ipervigilanza: ci allarmiamo se l’amato non ci presta attenzione o se non ci risponde.

Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…

(Antoine De Saint-Exupery – Il Piccolo Principe)

Amore

Tutti i correlati chimici che abbiamo visto sono presenti nei primi 6/8 mesi della fase iniziale di una coppia, mentre nella fase dell’amore sono l’intimità e l’impegno di caregiver a prevalere. In questa fase la dopamina, che produce il nostro benessere, esaurisce la funzione che ci fa sentire euforici. A questo punto si attivano altre aree cerebrali, che hanno un gran peso nell’amore e che permettono il rilascio di un altro ormone: l’ossitocina. L’ossitocina è l’ormone dell’amore, quello che induce le contrazioni del parto, che entra in gioco nel mettere in atto atteggiamenti di cura materni quando diventiamo genitori, ma è anche quello che rimane nel tempo permettendoci sentimenti di tenerezza e di mantenere il contatto per l’attività sessuale.

Ma cosa succede nelle relazioni…

 Siamo fatti di relazioni.

Ognuno di noi è unico al mondo e quello che siamo è determinato dalle nostre relazioni con gli altri. Ognuno di noi ama ed è amato da persone diverse e va rispettato nella propria unicità, nel proprio desiderio di compagnia o di solitudine. La fase più difficile nella crescita di un individuo è la sua autonomizzazione e differenziazione dall’organizzazione familiare.

Perché si formi una coppia gli individui devono essersi svincolati in maniera adattiva dalle proprie famiglie d’origine (Scabini, 1995).

Canevaro descrive molto bene questo passaggio tra vincolo di alleanza e vincolo di filiazione:

Nel corso del suo ciclo di vita, la coppia è guidata dal vincolo di alleanza tra i coniugi. Questo vincolo è inversamente proporzionale al vincolo di filiazione che unisce ogni individuo alla propria famiglia e ai figli che genera. Se aumenta la capacità nella coppia il vincolo di alleanza si accentua, di conseguenza si indebolisce il legame con la famiglia di origine e viceversa.

Un individuo che abbia elaborato un progetto esistenziale e di inserimento nella società diventa disponibile alla formazione di una coppia.

Fatta questa premessa, possiamo considerare la coppia come un sistema aperto, un’organizzazione complessa di relazioni di parentela che è esposta, lungo il suo ciclo vitale, a momenti di sviluppo. Ogni membro della coppia intrattiene relazioni interpersonali caratterizzate da uno scambio reciproco. In ogni relazione ognuno di noi si aspetta qualcosa dall’altro; così anche nella ricerca di un partner non ci sorprende che ci si orienti a cercare nell’altro caratteristiche che rispondano alle nostre aspettative e bisogni.

Così come siamo poco consapevoli di ciò che avviene dal punto di vista chimico nella scelta di un partner, possiamo osservare in egual misura la poca consapevolezza dei nostri bisogni più profondi e di quanto veniamo influenzati nella scelta dalla nostra storia familiare e dai modelli con cui siamo cresciuti.

Dall’innamoramento all’amore

L’innamoramento è il momento in cui avviene la costruzione dell’identità di coppia, quella fase iniziale, come abbiamo visto prima, in cui la sessualità ha giocato un ruolo fondamentale favorendo l’unione e la fusione con il nuovo partner. Quando due persone formano una nuova coppia, non pensano che la loro relazione sia influenzata da modelli, rituali, tradizioni e miti che hanno interiorizzato nella loro storia con la famiglia d’origine. Durante l’innamoramento osserviamo un’idealizzazione reciproca, dove ogni individuo propone inconsapevolmente all’altro un’immagine ideale di Sé. Quello di cui ci innamoriamo è l‘immagine che l’altro rimanda di noi e dell’immagine che noi rimandiamo a lui.

Ci innamoriamo di persone estranee a noi ma affini per educazione, valori, intelligenza, visione della vita, ma anche interessi, orientamento religioso e politico e non ultimo per il senso dell’umorismo. Lo sguardo dell’altro rispecchia un immagine di noi stessi: l’immagine che noi desideriamo. Se chiedete perché le persone si sono innamorate proprio di una data persona, non sanno rispondere se non descrivendo il comportamento, lo sguardo, l’odore il modo di fare (“Il piacere nella coppia”, Frongia P., Toffanetti D., 2012).

Da questo incrocio e scambio reciproco di immagini scaturisce quella che chiamiamo “relazione” (Cancrini, Harrison, 1991). In questa fase i membri della coppia sono immersi in una fusione che procede parallelamente ai processi di individuazione e autonomizzazione dal resto del mondo. Per individuazione, intendiamo quel processo di distacco emotivo che permette ad un individuo di formare una nuova famiglia senza sentirsi limitato nei confronti della famiglia d’origine. Bowen (1979) pioniere della terapia familiare, descrivendo la costituzione di una nuova coppia parla di “contratto fraudolento”: ritiene che, mentre ognuno dei membri della coppia è intento a dare il meglio di sé, contemporaneamente coglie l’immagine dei bisogni più profondi del partner e si ritrova ad agire come se fosse proprio lui a soddisfarli. Questo porta entrambi i partner ad assumere un compito di impossibile realizzazione, in quanto nell’innamoramento la scelta del partner è scarsamente legata alle caratteristiche dell’amato; infatti osserviamo spesso come, pur rimanendo inalterate queste caratteristiche, le coppie si separano e l’amore finisce. Ognuno di noi nella fase di innamoramento propone inconsapevolmente all’altro, ma anche a se stesso, un’immagine ideale di sé. Il partner sarà più o meno attratto da questa immagine, se questa corrisponde ai suoi bisogni più profondi.

La parte nascosta di questo contratto è costituita dall’illusione, dove ognuno vede nell’altro l’unica possibilità di realizzare i propri bisogni. Malagoli M. e Togliatti et al (1999) descrivono la presenza di due patti /contratti: uno dichiarato, esplicito, che riguarda gli accordi come la sessualità e le norme sociali e che ci fa sentire uniti e ci contiene, ed uno segreto, implicito, sommerso che rappresenta i vincoli non consapevoli di natura affettivo-emotiva, relativi al considerare il partner come l‘unico capace di soddisfare le nostre esigenze e le aspettative più profonde, convalidando anche una specifica immagine di Sé.

Questa è la parte di cui non siamo consapevoli e che gioca un ruolo sommerso nell’innamoramento.

Anche Jackson (1978) nella formazione delle coppie ritiene che spesso ci troviamo di fronte ad un “Quid pro quo” cioè: qualcosa per qualcosa d’altro. Cosa significa? Stiamo parlando di uno scambio relazionale tra due persone dove ognuno desidera ricevere qualcosa per ciò che ha dato o ritiene di aver dato. Dove quid, riguarda le aspettative a cui pensiamo l’altro debba rispondere, mentre per pro quo si intende quello che ci aspettiamo di condividere con l’altro e le aspettative di cui investiamo l’altro. Per esempio stare in una relazione di coppia sana, significa che i due individui devono poter contrattare esplicitamente come collaborare in un gran numero di compiti, come guadagnare dei soldi, occuparsi della casa, dei figli, avere rapporti sociali con l’esterno e sessuali.

Può accadere che le attese della famiglia di un individuo siano più elevate rispetto a quelle dell’individuo. In questo caso le richieste familiari si scontrano con i desiderata individuali. In questo caso sarà necessario un compromesso tra il mandato familiare e le esigenze personali. Dipenderà allora dal grado di autonomizzazione dell’individuo e dalla sua capacità di rielaborare i miti familiari la risoluzione dei legami con la famiglia d’origine.

Siamo nella fase dell’innamoramento, dove la dopamina, ormone della passione, ci ha fatto perdere la testa. Questi 6/8 mesi restano impressi nella memoria della coppia come quelli più belli e intensi. La fine dell’innamoramento e l’inizio della coppia consistono nel prendere coscienza che l’altro è diverso da noi, non sarà mai come lo avevamo pensato e desiderato ma soprattutto non potrà coprire i nostri vuoti dei patti dichiarati.

Alla prima fase dell’illusione potremmo dire che segue quella della delusione, dove scopriamo che l’altro è diverso da noi, che ha bisogni e desideri differenti. Questa fase è la fase cruciale per la costituzione della coppia. Se non cediamo all’idea di cambiare il nostro partner, ma lo accogliamo nonostante le aspettative e i patti espliciti non siano stati mantenuti, potremmo passare alla disillusione dove l’altro verrà percepito e accettato per quello che è con pregi e difetti, traghettandoci verso l’amore.

L’amore è un processo evolutivo che si costruisce giorno per giorno, caratterizzato da una maggiore attenzione alle esigenze del partner e la messa in campo di atteggiamenti di caregiving.

Nella fase dell’amore il rapporto affettivo si stabilizza e cominciano a concretizzarsi maggiormente altri aspetti come l’intimità, il dialogo, la condivisione della vulnerabilità, dell’impegno reciproco a costruire un “amore coterapeutico”, come viene definito da Canevaro (Canevaro, 1990, 1992).

Il piccolo principe strappò anche con una certa malinconia gli ultimi germogli di baobab. Credeva di non tornare mai più. Ma tutti quei lavori consueti, quel mattino, gli sembravano estremamente dolci. E quando, innaffiò per l’ultima volta il suo fiore, e si preparò a metterlo a riparo sotto una campana di vetro, scoprì che aveva una gran voglia di piangere.
Addio, disse al suo fiore.
Ma lui non gli rispose.
Addio, ripeté.
Il fiore tossì. Ma non era perché fosse raffreddato.
Sono stato uno sciocco, disse infine al fiore. Scusami e cerca di essere felice.
Restò colpito dalla mancanza di rimproveri, e rimase lì sconcertato, con la campana di vetro sospesa per aria. Non riusciva a capire quella dolcezza.
E sì, ti amo, disse il fiore. Tu non lo hai saputo per colpa mia. Questo non ha alcuna importanza. Ma tu sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice e lascia quella campana di vetro. Io non lo voglio più.
(…) Poi aggiunse: Non indugiare ancora, è fastidioso. Hai deciso di partire. Allora vai.
Non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso…

(Antoine De Saint-Exupery – Il Piccolo Principe)

 

“Trincee domestiche” – Esiti sistemici dell’isolamento domiciliare nel periodo di Covid-19

Durante il periodo di Covid-19 l’isolamento domiciliare può aiutare a contenere e controllare la diffusione delle infezioni e dalla malattia, tuttavia non è privo di conseguenze psicologiche negative a medio-lungo termine.

 

Il fiume modella le sponde e le sponde guidano il fiume (Gregory Bateson)

È ben radicato nella psicologia e nella letteratura sulla salute pubblica che l’isolamento sociale ha conseguenze dannose per il benessere, con effetti paragonabili ad altri rischi ben noti, come il fumo di sigaretta.

L’angoscia e l’irritabilità per mancanza di contatto sociale, perdita di libertà e noia durante la quarantena sono legati secondi alcuni studi (si consulti la bibliografia) a conseguenze come sintomi depressivi e dipendenza da sostanze che si può estendere fino a tre anni dopo la fine della quarantena.

Riconfigurare la società

Le cause di questa catastrofe, sia per la salute dei cittadini che per l’intera economia del paese, sono essenzialmente da intercettare in un ritardo temporale della presa di coscienza collettiva della minaccia; purtroppo, non è stato ascoltato chi gridava “al lupo”, con il lupo alle spalle, così il pericolo si è talmente diffuso da far pensare ad una riconfigurazione dell’intera società verso nuovi standard di comportamento (e.g. handwashing, don’t touch etc.) ma soprattutto, indispensabile, è la disponibilità di un modello da seguire in caso di pandemie, come adottato dalla città di Taiwan.

Altresì, si dovrà filtrare qualsiasi informazione senza lasciarla al mero criterio per lo più giornalistico, così spesso superficiale sotto l’ammanto del bello scrivere, o ai dibatti per lo piu sbrigativi, narcisisticamente tendenziosi e pressappochisti, dove ne consegue un altrettanto criterio personale del cittadino nei social network, guidato da fugaci impressioni o da idee surrettizie di chi ha fornito versioni contrastanti e poco chiare della minaccia virale. Un effetto dell’isolamento?

Un virus per le relazioni

Miracolo è ciò che un materialista pensa debba accadere per liberarsi dal proprio materialismo (Gregory Bateson)

Quando si parla di isolamento l’attenzione è volta alle relazioni sociali; tuttavia, a questa questione se ne interpone un’altra: come interrompere le relazioni che l’economia ha creato, le stesse relazioni di cui il virus si nutre?

Nell’immaginario collettivo gli ospedali sono considerati punti cruciali di “recupero delle vite”, sono relazioni con la sopravvivenza; allo stesso modo si può parlare di una “sopravvivenza dell’economia” di una nazione laddove le precitate relazioni vengano “infettate”.

Attaccarle per primi vuol dire essere uno stratega di guerra pericoloso!

Come un cecchino in guerra che mira all’ufficiale medico affinché non recuperi vite che vanno incontro a morte quasi certa. La perdita, in questo caso, è inevitabile.

Posizionarsi in una “base sicura” rimanendo nelle proprie case, rappresenta una scelta strategica a propria volta utile a combattere la minaccia. L’isolamento (per i soggetti infetti) o il semi-isolamento (anche per i soggetti sani) è una tattica difensiva attuata nel nostro modello contro l’attacco biologico del virus. Tuttavia, le “trincee domestiche” non sono esenti da altrettanti pericoli.

Insidie dell’isolamento

Se la parte iniziale dell’isolamento può essere fronteggiata in maniera efficiente, quasi come fosse una vacanza, in un secondo periodo la sensazione è di un vissuto in bianco-e-nero, l’esistenza “svuotata” dell’anima; accidia, aggressività, perdita di abitudini, manie di persecuzione e auto-dialogo negativo possono insorgere in molte persone. I social network sono uno specchio, una denuncia palese di questi disagi.

Certamente fa impallidire il paragone con il film la Trincea infinita, storia ispirata a fatti realmente accaduti in cui un uomo è costretto a nascondersi per oltre trent’anni dalla dittatura fascista. I militari, setacciando casa dopo casa, lo spinsero a calarsi in un mini bunker costruito sotto il pavimento divenuto la sua nuova “base sicura”.

Facciamo un passo indietro

Nella normale quotidianità, quella fatta di lavoro, famiglia, svago etc. il nostro corpo recita un modello psico-genetico “alterato” su base individuale, ambientale e di processi cumulativi (stile di vita, abitudini apprese etc.) abbinato ad un ingrediente che genera un’apparente libertà, sedazione  e sicurezza: il consumismo di massa, che si traduce nella possibilità di poter usufruire “illimitatamente” di ogni bene, anche a discapito della vita (es. allevamento intensivo degli animali).

Nel capitalismo avanzato in cui risiede, per dirla con J.K. Galbraith, la “società dell’opulenza” che l’uomo somigli al sapiens o ad una confezione di burro di arachidi, poco importa. Le necessità primarie vengono costruite, alla stregua dei prodotti commerciali da consumare indiscriminatamente. Anche l’uomo si configura come tale: un bene da consumare, parafrasando Matteo 5-26, “finchè non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”

Tutto è connesso

L’economia cambia la nostra psicologia. Si veicola un messaggio trascendente al nostro inconscio: eccesso di  sicurezza e di felicità, l’omnis per eccellenza: la tecnologia come strumento che sistema tutto col minimo sforzo; viaggi interstellari come simbolo di dominio su altri pianeti; spese folli per beni superflui; si inventano i bisogni, ma anche la vita (clonazione); ci si culla, come nello spot della famigerata Coca-Cola, in un “mondo senza confini” che ci sostituisce a Dio, come se avessimo un controllo su ogni molecola del cosmo o la storia la scrivessimo senza la partecipazione di meteoriti, terremoti o virus.

Ma il precitato sistema capitalista è apparentemente perfetto, è auto-alimentante: gestire una gran mole di persone con la creazione di nuovi bisogni di massa che generino, a propria volta, acquisti che alimentano il sistema stesso tramite una costante “spesa” di energia: il consumismo, appunto.

Livellare ogni individuo indebolendo, per poi asportare, il guscio dell’individualità. Una logica pericolosa in un’epoca in cui abbiano in casa un ospite indesiderato: un virus altrettanto pericoloso.

Questo è uno dei motivi che spiega l’approccio sistemico: il collegamento tra il nostro sistema immunitario e l’economia dove ne scaturisce la nostra salute mentale. Tutto è connesso.

Conclusioni

Comprendo che vi sareste aspettati che scrivessi di complessi psicologici in stato di isolamento e come affrontarli, ma sono dell’opinione che è bene parlare del contesto e delle relazioni di cui giornalmente viviamo, dato che il disagio, la felicità, la sicurezza e così via emergono naturalmente dal nostro ambiente. Sposo con questo articolo (ma non è detto che lo faccia con altri, dato che certe questioni richiedono “punti di vista molteplici”) la prospettiva di Hillman quando parla della pscioterapia: “[…] raramente i sintomi sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi, non sono evitati”.

Pur non partendo dal presupposto dell’inutilità della psicoterapia, vedo questo intervento come un cambio di traiettoria dal focus moderno proiettato a creare tecniche o rimedi indirizzati ad “aggiustare” questioni psicologiche che sono il risultato, direi fisiologico, di un ambiente, di un “eco-sistema” poco flessibile: tutto va bene fin quando non ci sono ostacoli.

Al di là di ogni considerazione sull’efficacia di alcuni approcci, c’è da prendere seriamente in carico una riconfigurazione totale della nostra società in un periodo che spinge a dare il massimo, sia al terapeuta che al singolo individuo costretto nella propria trincea domiciliare.

 

Gli anticorpi nel cervello innescano l’epilessia?

Certe forme di epilessia sono accompagnate dall’infiammazione di importati regioni cerebrali, una ricerca condotta dall’università di Bonn, pubblicata su Annals of Neurology, ha identificato un meccanismo che spiegherebbe questo collegamento, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici (Crespel et al., 2002).

 

L’epilessia può essere ereditaria. In altri casi, i pazienti sviluppano la malattia solo più tardi nella vita: a seguito di una lesione cerebrale, dopo un ictus o un tumore. Anche l’infiammazione delle meningi o del cervello stesso può provocare epilessia (Crespel et al., 2002).

Particolarmente pericolose sono le reazioni infiammatorie che colpiscono l’ippocampo, che è una struttura cerebrale che svolge un ruolo importante nei processi di memoria e nello sviluppo delle emozioni. I medici chiamano questa condizione encefalite limbica, tuttavia, in molti casi non è ancora chiaro che cosa causi tale infiammazione (Crespel et al., 2002).

I ricercatori hanno ora identificato un autoanticorpo che si ritiene sia il responsabile dell’encefalite in alcuni pazienti. A differenza dei normali anticorpi, non è diretto contro le molecole che sono entrate nell’organismo dall’esterno, ma contro le strutture del corpo. L’anticorpo è stato trovato nel liquido spinale dei pazienti con epilessia che soffrono di infiammazione acuta dell’ippocampo. I ricercatori hanno riscontrato un problema in questo anticorpo: questo è diretto contro la proteina Drebrin, che assicura che i punti di contatto tra le cellule nervose (sinapsi) funzionino correttamente (Pitsch et al., 2020).

Quando l’autoanticorpo incontra una molecola di Drebrin, la mette fuori uso e interrompe quindi la trasmissione di informazioni tra le cellule nervose. Allo stesso tempo avvisa il sistema immunitario, che viene quindi attivato e passa a una modalità infiammatoria, producendo ancora più autoanticorpi. Tuttavia, la proteina Drebrin si trova all’interno delle sinapsi, mentre l’anticorpo si trova nel fluido tissutale, quindi normalmente non dovrebbero mai entrare in contatto tra loro. Sembrerebbe che l’anticorpo riesca ad entrare come neurotrasmettitore all’interno della cellula nervosa (Pitsch et al., 2020).

Negli esperimenti di coltura cellulare i ricercatori sono stati in grado di mostrare cosa succede dopo il contatto tra le due molecole: poco dopo l’aggiunta dell’anticorpo, i neuroni nella capsula di Petri iniziano a sparare esplosioni rapide simili a mitragliatrici di impulsi elettrici. Questa forma di eccitazione elettrica è contagiosa, le cellule nervose, che sono interconnesse per formare una rete, iniziano improvvisamente a scaricare elettricità contemporaneamente, il tutto traducibile in due parole: attacco epilettico (Pitsch et al., 2020).

I risultati, come accennato in precedenza, danno speranza a nuovi approcci terapeutici. Ad esempio, sostanze attive come il cortisone possono sopprimere il sistema immunitario e quindi prevenire anche la produzione massiccia di anticorpi. In futuro, potrebbe anche essere possibile intercettarli e inibirli specificamente con determinati farmaci. Tuttavia c’è ancora molta strada da fare prima che le cure diventino disponibili; è importante specificare che questo approccio alla malattia gioverebbe principalmente ai pazienti con epilessia infiammatoria. Quindi, a differenza delle epilessie congenite, quelle basate sull’infiammazione potrebbero essere vicine ad una svolta terapeutica (Pitsch et al., 2020).

 

Varianti di setting

Fin da quando si muovono i primi passi nell’ambito della psicologia clinica e nella formazione come psicoterapeuti si incontra, a volte ci si scontra, con il concetto di setting, termine a cui variabilmente seguono svariati aggettivi: clinico, relazionale, terapeutico, etc etc.

 

In linea di massima, dopo tanti libri letti, tante supervisioni, intervisioni, discussioni, confronti e altro, abbiamo l’idea del setting come di un ambiente psichico e fisico, uno spazio che contiene la costruzione della relazione tra un terapeuta e un paziente, un dare e ricevere cura, allo scopo di renderla il più possibile efficace ed  utile per il paziente stesso. Efficace ed utile: come, per cosa e secondo quali linee di significato sono argomenti su cui, appunto, si può discorrere per ore, soprattutto con quegli  psicologi e psichiatri del servizio pubblico destinati, dato il contesto non propriamente analitico degli ambulatori,  ad innumerevoli  variazioni del setting stesso.

Quando immaginiamo un setting  quindi, pensiamo certamente ad un ambiente fisico, pensiamo  a delle regole contrattuali condivise nella relazione tra terapeuta e paziente ma, soprattutto, pensiamo a come quella relazione si costruisce e si colloca nella mente di entrambi nel qui ed ora dell’incontro e, ancor più, nelle memorie a breve e lungo termine. Dunque il setting è l’ambiente che protegge la costruzione della relazione terapeutica e un luogo sicuro per entrambi. Tutti questi elementi variano, inoltre, a seconda dell’ancor più ampio spazio, ambulatorio, studio privato ed altro, in cui terapeuta e paziente giocano la loro partita.

C’è qualcosa, tuttavia, che  rimane invariato e che, forse, mette tutti d’accordo: lo scopo  psicoterapeutico, ovvero accompagnare il paziente verso l’acquisizione ed incremento di consapevolezza sui significati personali con cui ognuno trasforma i fatti in esperienza, la storia precipua di questi significati  ed il tentativo di esplorare altre possibilità. Per compiere queste funzioni di profonda auto riflessività si ritenne, negli anni pionieristici della psicoterapia, che fosse necessario un contesto privo di “fatti attuali” o in corso, poiché essi sarebbero stati una perturbazione rispetto alla concentrazione necessaria per guardarsi dentro e per poter attribuire finalmente a sé quanto accadeva, in assenza di ogni altro stimolo.

Ecco quindi che gli sforzi si orientarono, idealmente, verso il concetto di neutralità del setting terapeutico: uno spazio vuoto, dove il terapeuta è discreto, un po’ amorfo, nemmeno lo si vede, dà maggiore libertà ed il paziente, privo finalmente delle preoccupazioni anche minime che ogni tipo di relazione umana comporta per il semplice fatto che si guarda e si è guardati, parla a se stesso, può prendersi cura di sé e può sperimentare il benefico sollievo dell’essere ascoltati in modo non giudicante e altruistico. Chiunque abbia sperimentato il passaggio dalla poltrona della stanza analitica, vis a vis con il terapeuta, al  famoso divano con l’analista defilato, conosce quel tipo di sollievo.

Winnicott, che si occupò molto di specificare il concetto di setting, scriveva:

questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio, una stanza tranquilla, al riparo da rumori improvvisi ed imprevedibili senza, tuttavia, che vi sia un silenzio di tomba o che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o variabile. La stanza non è certamente buia e deve essere calda e confortevole. Il paziente si sdraia sul divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a stare. Può eventualmente disporre di una coperta e di acqua da bere.

Insomma, l’ambiente deve essere il più possibile confortevole da un punto di vista fisico ed un luogo sicuro, dove si sente di poter essere così come si è, senza essere giudicati o abbandonati. Per questo motivo è opportuno che la stanza della terapia non sia troppo connotata da aspetti personali del terapeuta; non è opportuno tenerci un mezzo busto di Mussolini, o un poster del Che Guevara, simboli politici, religiosi od oggetti che mostrino aspetti importanti della vita del terapeuta. La self disclosure può essere utilizzata, ma come strumento terapeutico e ad uso e beneficio esclusivo del paziente, al momento opportuno e per scopi chiari nella mente del terapeuta, non per fare sfoggio o mostrare competenze del terapeuta, ad esempio, come tennista provetto certificato dalla sfilata di coppe e coppette.

Tuttavia, si vide in seguito che era un po’ illusorio, perfino un po’ ingenuo pensare di eliminare ogni tipo di perturbazione, poiché la presenza del terapeuta nella mente del paziente, come il primo veniva fatto accomodare nella più intima, profonda interiorità del secondo, era un fatto che, pur privo di elementi concreti, disegnava i chiaroscuri della relazione e della direzione nell’apertura di sé del paziente. Così, per immunizzare dalla presenza del terapeuta, sono state compiute due operazioni: da un lato il tentativo impossibile di renderlo impersonale, in alcun modo connotato, voce fuori campo incolore, inodore ed insapore; dall’altro, su queste premesse, di interpretare la relazione terapeutica, più fantastica che reale, come il prodotto esclusivo del mondo di significati con cui ogni paziente costruisce la sua intera esperienza esistenziale

Con ciò la terapia, soprattutto ad orientamento analitico, è divenuta per massima parte l’analisi del transfert: la scoperta del senso che la persona attribuisce alla realtà non avviene solo attraverso l’analisi dei fatti, eventi esterni della vita del paziente, da lui narrati ma, in primis, con l’analisi dei sogni insieme all’analisi del suo modo di costruire la relazione con il terapeuta stesso.

Tutto bene fino al punto in cui, negli anni e in certi ambienti clinici, è avvenuto un ribaltamento tra mezzi e finalità e l’ortodossa ritualità del setting è divenuta più importante della funzione psicoterapeutica di cui il setting è il principale fattore di protezione; per dirla in termini evangelici il sabato è divenuto più importante dell’uomo per cui fu creato. Freud, infatti, non dedicò molti scritti teorici sull’argomento, limitandosi a dare l’esempio con la sua pratica clinica a cui, nella Vienna della bella epoque, dedicava presso la sua abitazione trenta ore settimanali, ovvero cinque pazienti ognuno a  cinque sedute settimanali dal lunedì al venerdì.

Furono i suoi collaboratori e colleghi, successivamente, a formalizzare regole che, appunto, diventarono più importanti dello spirito pionieristico che le aveva prodotte, se non addirittura contrarie ad esso. Si pensi ad Ernst Lanzer, più noto come l’uomo dei topi, cui Freud offriva durante le sedute tè ed aringhe.E tutto bene finché dello spazio terapeutico usufruiscono quei pazienti che, nel nostro stringato e un po’ riduttivo linguaggio condiviso, chiamiamo nevrotici o a “buon funzionamento”.Quelle persone, cioè, che pur avendo aspetti di sofferenza che compromettono o limitano alcuni tempi dell’esistenza quotidiana, anche con difficoltà, riescono ad avere legami affettivi o a lavorare, studiare, appartenere ad un gruppo sociale, divertirsi etc

Discorso un po’ diverso per quelle persone il cui funzionamento è gravemente compromesso, disturbi di personalità, dell’umore, o del tutto frantumato, le psicosi. Questi pazienti, cosiddetti difficili, se non inguaribili, e che pure rappresentano il cuore della nostra professione, in modo particolare quando il nostro lavoro è legato agli ambulatori del servizio pubblico, pur accettando, più di buon grado di quanto si creda, l’ora di colloquio individuale, sembrano ogni volta ricominciare da capo. E a nulla serve allungare la durata dei singoli incontri o moltiplicarli, che alquanto fragile è la capacità di stare intimi, consapevoli e presenti in una relazione duale. E’ come se quel varco che intravediamo alla fine dell’ora non avesse modo di stabilizzarsi nella mente come un passaggio verso nuove conoscenze di sé. All’incontro successivo si ricomincia da capo.

Già solo questa considerazione ci dà un’idea di quanto antiche e radicate siano le credenze su di sé, e sugli altri, che generano la sofferenza del paziente. Sembra una tela di Penelope, ciò che il paziente insieme al terapeuta ricama durante il colloquio si disfa nei giorni e nelle notti tra un colloquio e l’altro. Anche gli homework, pur utili, non sembrano prolungare il contesto terapeutico oltre l’ora della seduta. Non basta, non pare sufficiente. Non basta l’empatia e la pazienza, quella pazienza del terapeuta che, volta dopo volta, ripete e ripete e contestualizza lo stesso significato problematico all’interno delle diverse esperienze di vita , passate e presenti, del paziente. Non basta la disponibilità del paziente e la sua sofferenza che, anche se motore del cambiamento, alimenta al contempo la rigidità e l’impermeabilità dello stato mentale: di fronte ad un vissuto doloroso egli si ancòra di più nelle convinzioni, nei sentimenti e negli affetti pregiudiziali che in un tempo lontano gli furono utili e magari salvavita. Alcune emozioni, più che intense, di questo tipo di paziente sono impotenza e paura, rabbia e disperazione. Lo stato clinico è una depressione come vuoto immenso. Sul piano cognitivo metaconvinzioni radicate e irrisolvibili: niente cambierà mai, non ho speranza, sono sfortunato, è tutta colpa mia, è tutta colpa degli altri

Il tentativo di neutralità, in cui tutto è interpretabile come attribuzione di significati del paziente è, in questi casi, un modo di semplificare la cura, riducendo a perturbazioni disturbanti e da silenziare quelle informazioni che, se si ampliano i confini, si trasformano da rumore di fondo in elementi essenziali, evolutivi e molto significativi. Esercitare la funzione psicologica e psicoterapeutica in un contesto articolato come la vita quotidiana, in cui il mondo di significati del paziente viene rappresentato in ogni gesto, in ogni interazione, in ogni parola o silenzio è molto complesso, ma anche molto arricchente per tutti; necessita di terapeuti curiosi, che devono circondarsi di autorevolezza, mentre mangiano o disegnano con il paziente, che devono continuamente cercare punti di equilibrio tra proteggere la propria privacy e raccontarsi, che devono coltivare l’attitudine allo sperimentare continuamente forme nuove di relazione con la curiosità dello scienziato e dell’umanista e non farsi intimorire dai pregiudizi personali, dalle immagini – mito della storia della psicologia clinica.

Brunella Coratti: varianti di setting, un’esperienza personale

Sono psicologa e psicoterapeuta nel Dipartimento di Salute Mentale da tanti anni, ho iniziato nel 1989, ho conosciuto diversi servizi, diversi modi di lavorare e incontrato decine di pazienti. Ho una formazione solida e, soprattutto, l’attitudine a non voler mai smettere di imparare, perciò leggo e studio da sempre e cerco risposte alle domande che mi sono posta attraverso il tempo o che altri, i pazienti, i familiari mi hanno fatto. Ho sempre apprezzato il confortevole setting individuale della psicoterapia, con un’attenzione particolare alle caratteristiche di una relazione di cura, ed in questo setting mi sono sempre mossa con tutti i pazienti, anche e soprattutto quelli definiti gravi, parola importante e dai poliedrici significati.

Lavorare in un DSM è un’esperienza molto coinvolgente che può turbare, nel tempo, ogni tipo di solida formazione. Soprattutto se si lavora con mente aperta e curiosa si dubita, fortunatamente, di una certa rigidità che accompagna ogni ottimo percorso formativo che si traduce, talvolta, nell’affermazione “abbiamo ragione solo noi”. Il DSM ha un’organizzazione complessa costituita da servizi molto differenziati tra loro per scopi ed attività cliniche, ormai talmente noti nelle loro funzioni da rendere superfluo, in questa sede, specificarli ulteriormente. Basti ricordare che esistono ambulatori, comunità terapeutiche, centri diurni, strutture residenziali e semiresidenziali e reparti ospedalieri dedicati. E consideriamo, inoltre, la varietà di figure professionali che costituiscono un’equipe. Dunque, ogni singola interazione terapeuta/paziente porta con sé, neanche troppo sullo sfondo, le interazioni che il paziente ha e ha avuto con altri operatori o con altre strutture; si pensi al paziente dimesso dal reparto SPDC o dalla comunità, cosa porta con sé nel colloquio clinico con lo psicologo.

Ogni psicoterapia, nel DSM, risente benevolmente di tutto quello che ruota intorno ad essa ed ecco perché il concetto stesso di setting e la possibilità di farne un’approfondita analisi ed un oggetto di attenta supervisione acquista un significato fondamentale nel trattamento dei pazienti gravi.

Un paio di anni fa, nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale dove lavoro, ho assunto la responsabilità di apertura e gestione di un nuovo Centro Diurno per giovani, l’età dei quali si colloca tra i 18 e i 25 anni. Il Centro Diurno è una struttura semiresidenziale con apertura mattina/sera che accoglie pazienti complessi, per diagnosi, numero di ricoveri, storia di vita etc,  proponendo attività terapeutiche e riabilitative. Così, nel giro di una manciata di mesi mi trovo a muovermi dal più confortevole e per me più agevole setting individuale ad una dimensione di cura perennemente gruppale: il Centro Diurno è luogo di gruppo per eccellenza, i giovani vivono nel gruppo e per il gruppo che li connota e li definisce anche quando, o soprattutto quando, ne sono spaventati o sono ai margini.

Già possiamo intravedere qui un primo scenario in azione, le relazioni sociali.

In più io stessa, assumendo un ruolo di responsabilità, ho il dovere professionale di gestire un piccolo, variabile gruppo di operatori, e me, all’interno di questa mini equipe: ognuno di noi  è benevolente e curioso, la motivazione è forte e, anche se spesso siamo tramortiti dalla burocrazia, “mi piego ma non mi spezzo” sembra circolare nell’aria del Centro. Ci rompiamo la testa per iniziare da qualche attività sostenibile, poiché, avendo in generale scarse risorse materiali ed economiche, poco possiamo mettere in pratica di quanto grandiosamente progettato all’inizio; dobbiamo appellarci esclusivamente  alle nostre competenze professionali e partire da lì, cosa può offrire ognuno di noi, studiamo e ristudiamo molto, leggiamo, ci confrontiamo, ci curiamo reciprocamente l’ansia e formiamo vari tipi di gruppi.

Secondo scenario, interazioni nel sottogruppo operatori

Ci accorgiamo che, seppure orientata in modo diverso, l’attività gruppale, che sia skill training, psicoterapia, psicoeducazione, laboratori etc. converge in modo armonico e naturale verso uno scopo: dare una mano ai nostri giovani pazienti a conoscersi un po’ di più, stimolando una curiosità verso se stessi che favorisca parole nuove, non pregiudiziali, ampliare la consapevolezza, favorire la riflessione e la conoscenza, non aver paura delle emozioni e dell’interiorità e, non ultimo, scoprire il significato del disturbo che li accompagna che, per i nostri giovani ma già molto disorganizzati utenti, non è solo un sintomo isolato in una persona comunque funzionante, è un gruppo di sintomi  in una struttura psichica scricchiolante, ancorché sconosciuta e perciò fragile. Ci viene in mente come si autodescrivono  questi pazienti o meglio, come non riescono a farlo: per raccontare una poliedricità di esperienze con infinite sfumature utilizzano quasi sempre un unico concetto ampio e polarizzato “sto bene” / “sto male”. Chi ascolta la loro storia di vita, se attento, coglie clichè, idee pregiudiziali, frasi fatte riprese da chissà quale figura di riferimento, un genitore, un insegnante, diagnosi a buon mercato prese in prestito da un consulto medico o da internet. Mentre parlano, nel silenzio di un vero ascolto, sono annoiati, spaventati nel migliore dei casi, trascurati e superficiali, sono certi che non interessa a nessuno poiché non interessa nemmeno a loro stessi e non c’è tempo da perdere in chiacchiere.

Terzo pattern, le parole condivise.

Un gruppo di operatori facilita la differenziazione delle parole necessarie ad una persona per rappresentarsi a sé e ad altri in un modo più vero; queste parole, a prescindere dall’aspetto fisico, da come si è vestiti o da come è andata la propria vita sociale, scolastica, familiare, sono parole nuove, più specifiche, una diversa  possibilità di avvicinarsi e farsi conoscere. Ci viene in mente quel momento della vita in cui si comincia a parlare: per imitazione, attraverso l’ascolto, attraverso parole inventate che fanno ridere o attraverso l’esperienza, nasce un vocabolario che allarga gli orizzonti conoscitivi di un bambino e favorisce l’esplorazione.

E, infine, c’è un’altra dimensione terapeutica in queste strutture: uno spazio quotidiano, fatto di gesti, espressioni, battute, gioco, attività in comune, chiacchiere, un’immenso deposito di possibilità di cura che si apre agli occhi dell’operatore attento. E’ in particolare tramite questa molteplice concretezza che, soprattutto i giovani, si aprono all’ascolto e all’osservazione dei commenti altrui e, attraverso questa apertura, apprendono e fanno diretta esperienza di aspetti della relazione come l’accettazione, la fiducia, la possibilità di piacere o di essere ascoltati perché dicono o fanno cose interessanti. E’ questo rispecchiamento concreto che permette a pazienti così faticosamente ricettivi nei contesti individuali di mettere in discussione le loro coriacee e fosche convinzioni rispetto a sé e agli altri ed iniziare a pensare che forse ci sono alternative più piacevoli per la loro vita ed il loro futuro. La concretezza della vita comunitaria quotidiana, gesti, azioni, comportamenti, impatta in modo spontaneo ed immediato su funzioni psichiche importanti quali l’autoriflessività, la teoria della mente, l’empatia, la comprensione del punto di vista altrui, il distanziamento dal proprio punto di vista, la differenziazione, etc.

Il senso dell’umorismo, di cui questi giovani non sono mai privi, è colorante essenziale delle interazioni tra loro e tra pazienti ed operatori. Tutti abbiamo esperienza di quanto sia terapeutica una risata, di quanto possa alleggerire una conflittualità, rinforzare un’alleanza, stabilire una complicità, rasserenare una giornata, farsi conoscere su altri aspetti di sé che non riguardino solo la propria problematicità e il proprio disturbo.

L’esperienza preziosa che fanno i pazienti in semiresidenza è che alcune persone, coetanei e non, li conoscono e riconoscono a prescindere dalla loro patologia e ne vedono e confermano qualità per troppo tempo segrete. Una domanda interessante da fare è: chi sei tu a parte il tuo disturbo? Come ti descriveresti? Quali sono i tuoi pregi, le tue risorse? Ci siamo accorti che di queste domande si ignora completamente la risposta; se già nella descrizione del disturbo si è  laconici e vaghi, tutto il resto è sconosciuto.

Comprensibile se riflettiamo, analizzando le anamnesi, sull’identità fortemente negativa che si è venuta strutturando sia nell’ambiente scolastico e, di conseguenza con i coetanei, sia in famiglia. Quasi tutti questi pazienti hanno una diagnosi di ADHD, di DSA, qualcuno ha avuto il sostegno, sicuramente un rendimento piuttosto basso, esperienze gravi e dolorose di bullismo, di emarginazione sociale, ambienti familiari superficiali, trascurati o, al contrario fortemente controllanti: che opinione possono avere di loro stessi? Che tipo di autostima?

Questo è il quarto scenario, ultimo ma fondamentale nella nostra esperienza, proprio per coadiuvare il setting individuale e rinforzare l’accettazione di sé preludio di un cambiamento.

Il limite, che è stato descritto molte volte, è che l’operatore psichiatrico rischia di diventare l’amicone del cuore e quindi perdere di autorevolezza, rischio peraltro presente anche in setting individuali e direttamente connesso ai bisogni relazionali inconsapevoli del terapeuta. Nella nostra esperienza non è così, almeno in questa fascia di età dei pazienti di cui qui raccontiamo. Non è così quando lo psicologo sta attento a mantenere attiva e nitida, nella relazione terapeutica, la dimensione di accudimento, di nutrimento, nello specifico io curo/tu ricevi, io  dò/ tu prendi, io insegno/tu apprendi, ed in questo senso non si è paritari, c’è differenza ed è proprio questa meravigliosa differenza che permette quelle esperienze correttive di cui questi ragazzi hanno fame e bisogno. Gli stimoli per il cambiamento passano attraverso una dimensione accudente, realisticamente sicura e costante, dove è condivisa la responsabilità della cura, nel senso della compliance, ma non le conoscenze. Questa quarta ed ultima dimensione, che consideriamo essenziale, è quella che va più monitorata dallo psicologo che lavori nei centri residenziali e semiresidenziali, per non incorrere in fraintendimenti, confusioni o altro.

Molto importante  il confronto all’interno del gruppo di lavoro ed il sostegno reciproco, l’umiltà di riconoscere un proprio, intimo, bisogno di aiuto, senza per ciò sentirsi meno bravi, una frequente supervisione ed auto osservazione e, soprattutto, serve la “mente del principiante”. La mente del principiante ha a che fare con l’atteggiamento di apertura, curiosità ed assenza di pregiudizi. E’ quando si osserva qualcosa per la prima volta, nella mente del principiante sono presenti tutte le possibilità e l’osservazione è accompagnata da stupore, nonostante certe esperienze possano essere riconoscibili o note. E’ osservare senza pretesa di sapere già tutto, senza entrare in modalità competitiva, ma lasciandosi ricettivi e disponibili.

Pasti assistiti: il supporto ai pazienti con Disturbi dell’Alimentazione

Durante i momenti dedicati ai pasti, il supporto attraverso i pasti assistiti offerto da operatori esperti e adeguatamente formati (generalmente dietisti, psicologi o infermieri professionali) ha come fine generale quello di favorire nel paziente una riattribuzione di valenza positiva al significato e alla funzione del cibo come nutrimento.

 

I Disturbi dell’Alimentazione (DA) sono caratterizzati dalla presenza di comportamenti alimentari disadattivi che comportano un’alterazione del consumo e dell’assorbimento di alimenti, compromettendo significativamente la salute fisica e il funzionamento psicosociale, come riportato nel DSM-5 (APA, 2013). Questa categoria diagnostica comprende l’Anoressia Nervosa (AN), la Bulimia Nervosa (BN) e il Binge Eating Disorder (BED o disturbo da alimentazione incontrollata), tre patologie che in Italia hanno una percentuale di prevalenza sempre più elevata e preoccupante tra la popolazione (in particolare tra gli adolescenti e le donne adulte): 0,5-1% AN; 1-3% BN; 10% forme subcliniche (Regione Lombardia, Decreto N.4408 del 18.04.2017).

I pazienti con DA vivono il momento del pasto come “naufraghi in un mare in tempesta”: in continua balia di pensieri disfunzionali, inghiottiti e sopraffatti dal loro personale oceano di forti emozioni negative. I sintomi della malnutrizione, la sensazione di pienezza, l’utilizzo di condotte compensatorie (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo) e la diminuzione della motivazione rappresentano sostanziali ostacoli che impediscono il mantenimento di un corretto regime alimentare. Tali difficoltà possono rappresentare rischi non indifferenti per la salute clinica, soprattutto per i pazienti sottopeso.

Nei centri ospedalieri e specializzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, in forma residenziale, semiresidenziale e ambulatoriale day hospital, viene sempre più spesso utilizzata una particolare procedura di riabilitazione psiconutrizionale: il pasto assistito (Ministero della Salute, 2013; 2017). Durante i momenti dedicati ai pasti, il supporto offerto da operatori esperti e adeguatamente formati (generalmente dietisti, psicologi o infermieri professionali) ha come fine generale quello di favorire nel paziente una riattribuzione di valenza positiva al significato e alla funzione del cibo come nutrimento. Nello specifico, le Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale dei disturbi dell’alimentazione redatte dal Ministero della Salute nel 2017 indicano come obiettivi specifici: la normalizzazione del comportamento alimentare inteso secondo parametri di frequenza, quantità e qualità dei pasti; l’incremento ponderale nei pazienti sottopeso o il mantenimento del peso; la gestione efficace dell’ansia legata al cibo e alla sua assunzione; l’interruzione dei rituali alimentari, se presenti; la rivalutazione del valore biologico e sociale dell’atto di nutrirsi; il sostegno nella fase post-prandiale.

CIP MILANO - BANNER SOMGli operatori che offrono assistenza sono chiamati a creare condizioni ambientali e relazionali favorevoli (Salvo, 2018), applicando specifiche procedure per aiutare i pazienti in caso di difficoltà. L’educazione, la distrazione, il supporto e l’osservazione attraverso uno sguardo attento e non giudicante rappresentano gli elementi chiave di questo processo (Ministero della Salute 2013; 2017; Salvo, 2018).

Ai pazienti con DA va garantito sostegno emotivo prima, durante e dopo il pasto, favorendo la gestione efficace di quell’ondata di sensazioni fisiche (senso di fame e sazietà), emozioni e pensieri negativi che non risultano attendibili a causa degli effetti della malnutrizione e diminuendo, ove presenti, i rituali alimentari messi in atto. L’operatore, da osservatore esterno e competente, monitora i comportamenti disfunzionali dei pazienti e interviene nel momento di difficoltà, facilitando la progressiva riacquisizione della capacità di alimentarsi in maniera adeguata e autonoma.

Tale procedura guarda al paziente come parte attiva del cambiamento: la condivisione delle modalità, delle caratteristiche proprie del pasto assistito e il suo coinvolgimento cooperativo risultano non solo fondamentali per la buona riuscita del trattamento, ma anche ottime strategie per ridurre i casi di drop-out, favorendo la percezione di “sentirsi in controllo”.

I programmi di cura che includono la pratica del pasto assistito offrono vari vantaggi: per il paziente, il supporto al pasto rappresenta la possibilità concreta di una riduzione della durata dei ricoveri e dell’utilizzo di metodi di rialimentazione prescrittivi e invasivi; per i membri dell’équipe, invece, esso può offrire l’opportunità di stabilire e rafforzare un rapporto di fiducia con il paziente, estrapolando osservazioni utili per il trattamento psicoterapeutico e nutrizionale.

 


CONTATTI:

Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano
Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
– Telefono: 02 36725912
– E-mail: [email protected]
– Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19 (In ottemperanza alla legge per la tutela dei dati personali le informazioni di tipo sanitario non vengono fornite al telefono e la consegna di certificati e copie della documentazione clinica sono rilasciate unicamente all’interessato o a persona da lui delegata per iscritto).

 

 

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte III: la prosodia nella Depressione Maggiore e nel Disturbo Bipolare

Per quanto attiene i Disturbi dell’umore, la letteratura scientifica internazionale evidenzia come pazienti con Depressione Maggiore mostrino una compromissione nel riconoscimento delle emozioni veicolate attraverso la prosodia, mentre per quanto riguarda il Disturbo Bipolare la letteratura riporta risultati sostanzialmente simili sia per quanto riguarda l’elaborazione emotiva veicolata attraverso l’espressione dei volti che per quanto riguarda la capacità di riconoscimento emotivo attraverso la prosodia.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – La prosodia nella Depressione Maggiore e nel Disturbo Bipolare (Nr. 3)

 

Come noto, una corretta interpretazione dei segnali dell’altro, in questo caso a contenuto emotivo, è fondamentale per il buon funzionamento nelle interazioni sociali. Sotto il profilo acustico i segnali rilevanti da un punto di vista della cognizione sociale possono essere espressi verbalmente, in modalità semantica, o non verbalmente, in modalità prosodica, i quali sono generalmente percepiti come fonte di informazioni maggiormente affidabile circa i sentimenti dell’altro (Jacob et al., 2013a, 2013b, Koch et al, 2018). Nei nostri setting di psicoterapia tale capacità può essere valutata attraverso la storia e l’osservazione clinica comportamentale dei nostri pazienti, quali la capacità, durante il colloquio, di veicolare emozioni per mezzo dell’espressione facciale, la gestualità, la voce, il linguaggio corporeo, le risposte emozionali durante le interazioni, sia a colloquio con noi che nelle dinamiche familiari (Blundo, 2011).

Da un punto di vista neuroanatomico la prosodia si esprime in un circuito neurale situato prevalentemente nell’emisfero destro, in particolare nella regione temporale superiore, nel lobo e nelle regioni posteriori del solco temporale, rispettivamente per quanto riguarda la percezione e l’astrazione dell’informazione uditiva ed il processo di rappresentazione di significato di quanto udito. La valutazione del contenuto emotivo della prosodia sembra invece mediata dalla corteccia frontale inferiore bilaterale (Wildgruber et al., 2004; 2005; 2006; Ross, 1981; Buchanan et al., 2000; Kotz et al., 2003; Mitchell et al., 2003).

La letteratura propone un modello secondo il quale lesioni dell’emisfero destro, in corrispondenza delle zone sinistre responsabili delle classiche afasie, possano determinare disturbi nella prosodia a valenza emotiva. Nello specifico si evidenzia come una lesione nella regione temporo-parietale destra possa esprimersi in un’aprosodia nella funzione recettiva, mentre una lesione nella regione dell’opercolo frontale, nella corteccia e nella sostanza bianca, possano produrre un’alterazione della prosodia nella sua funzione espressiva (Ross, 2000).

Per quanto attiene i Disturbi dell’umore, la letteratura scientifica internazionale evidenzia come pazienti con Depressione Maggiore mostrino maggior compromissione, rispetto al campione di controllo di soggetti sani, nel riconoscimento delle emozioni veicolate attraverso la prosodia (Wildgruber et al, 2004; Uekermann et al., 2008).

Così come già approfondito per quanto riguarda l’elaborazione delle emozioni facciali (Parte I e Parte II di questa rubrica; per una review completa vds Cusi et al. 2012, Turchi et al., 2017), anche in questo caso si evidenzia una distorta interpretazione delle emozioni neutre, come ad esempio la sorpresa, valutate piuttosto come emozioni a valenza negativa (Naranjo  et al., 2011; Kan et al., 2004) nonché compromissioni nella capacità di identificazione delle emozioni, sia a valenza negativa che positiva, attraverso il tono della voce (Wildgruber et al., 2006; Ross, 1981). Si riscontrano, infatti, in questi pazienti, una tendenza a sottovalutare le informazioni emozionali a valenza positiva (Schlipf et al., 2013) nonché una compromissione nell’elaborazione della tristezza ed un’alterazione nel riconoscimento di emozioni a valenza negativa, sempre espresse attraverso il canale prosodico (Pang et al. 2014; Peron et al., 2011). Tali compromissioni non sembrano essere in correlazione con la gravità della sintomatologia depressiva e sono state quindi proposte come possibile alterazione di tratto, caratteristico del disturbo (Schlipf et al, 2013; Pang et al., 2014).

In linea anche un recentissimo studio che, per la prima volta, ha preso in esame la valutazione esplicita di contenuti emozionali espressi attraverso il canale della prosodia sia a livello neurale che comportamentale, il quale conclude per una distorta attribuzione, nei pazienti con Depressione maggiore confrontati con il campione di controllo di soggetti sani, a carico delle emozioni prosodiche a valenza positiva. Lo studio mostra inoltre un’aumentata attivazione dell’amigdala, bilateralmente, nell’elaborazione dell’informazione emozionale prosodica, probabilmente associata alle compromesse strategie di regolazione emotiva nei soggetti con Depressione Maggiore, già ampiamente note in letteratura. Secondo gli autori la maggior attivazione dell’amigdala, in questo senso, potrebbe essere interpretata come meccanismo di tentata compensazione rispetto alla distorsione nell’elaborazione di stimoli a contenuto emotivo, allo scopo di favorirne una percezione più accurata. Al tempo stesso, però, l’alterata percezione delle emozioni a valenza positiva, caratteristica dell’Episodio Depressivo Maggiore (Cusi et al, 2012 ; Turchi et al. 2016; 2017), contribuisce a mantenere in atto la sintomatologia depressiva, ostacolando di fatto il tentativo di recupero (Koch et al., 2018).

Per quanto riguarda il Disturbo Bipolare la letteratura riporta risultati sostanzialmente simili, sia per quanto riguarda l’elaborazione emotiva veicolata attraverso l’espressione dei volti (Cusi et al. 2012, Turchi et al., 2016) che per quanto riguarda la capacità di riconoscimento emotivo attraverso la prosodia (Murphy & Cutting, 1990; Bozikas et al. 2007). Di eventuali specifiche differenze da un punto di vista neurofunzionale ci occuperemo invece nella prossima parte della rubrica.

I soggetti con Disturbo Bipolare in questo caso, così come quelli con diagnosi di Schizofrenia, confrontati con i controlli sani, mostrano una minor attivazione dell’amigdala, del giro temporale superiore bilaterale, dell’uncino dell’ippocampo e del giro frontale inferiore destro, durante l’ascolto passivo di intonazione vocale veicolante un contenuto chiaramente emozionale, nonché un aumento di attivazione neurofunzionale nel giro temporale superiore sinistro durante l’elaborazione di stimolo prosodico emozionale non filtrato. Il fatto che non si riscontri un’attivazione nelle aree dell’emisfero destro, prefrontali e temporali, essenziali per la funzione di riconoscimento della prosodia a contenuto emotivo, fa pensare ad una compromissione, a livello neurale, nella capacità di elaborazione di tale stimolo (Mitchell et al., 2004).

Ad oggi non sono disponibili studi che riguardino l’influenza dello stato di umore, del trattamento di farmacoterapia, dell’età e della storia di malattia sulla risposta neurale nell’elaborare stimoli prosodici a contenuto emozionale per cui la materia meriterebbe ulteriori approfondimenti.

Dal nostro punto di vista la comprensione di tali aspetti risulterebbe molto importante poiché un buon funzionamento globale del paziente, ivi compresa la dimensione sociale, aspetto fondamentale che riguarda la vita di ciascuno di noi sotto il profilo sia affettivo che professionale, risulta direttamente collegato alla qualità di vita percepita ed alla probabilità di ricadere in un nuovo episodio dell’umore. Iniziare a prendere in considerazione le abilità di Social Cognition (Couture, Penn e Roberts, 2006), comprese quelle veicolate dalla prosodia, potrebbe risultare quindi molto utile nel lavoro di psicoterapia con persone affette da Disturbi dell’umore, per cercare di valutare e migliorare il funzionamento globale della persona e, in questo modo, prevenire il più possibile la ricaduta che, a sua volta, come noto, porta a maggiori compromissioni sotto diversi profili. E’ infatti ormai necessario, vista la complessità psicopatologica di questi disturbi, effettuare una valutazione ed una progettazione dell’intervento, evidence based, che non prescinda dal percorso epigenetico della persona.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

 

Aperitivo Skype ai tempi del Coronavirus

Sento la vicinanza di tutti con questo aperitivo online, i progetti futuri sono solo rimandati. “Dove lo faremo il viaggio?”. La testa viaggia in posti nuovi. Percepisco un po’ di tristezza nei volti di tutti. Come se all’improvviso ci fossimo ricordati di come stanno realmente le cose. Degli affetti lontani, della preoccupazione per la salute di persone care più anziane.

 

Ho stappato un Riesling del 2015. Ah che storia! Il suo colore dorato restituisce la luce in questo momento buio. Gli idrocarburi al naso si confondono in bocca con la frutta, un succo dolcissimo. Rido perché mi ricorda il gelato “Fior di Fragola” che mangiavo da bambina, fragola e panna insieme. Dopo più di un anno di corso per diventare sommelier, i miei compagni di viaggio appena mi sentono esplicitare questa sensazione iniziano a ridere: “Ele ma che dici?! Ma non è possibile! Ci dici solo questo dopo mesi di lezione?!”.

Stefano è a casa sua e sorseggia anche lui un Riesling Renano del 2017, il colore è di un giallo paglierino con riflessi verdolini. Lui ci sente gli agrumi e sentori di erbe aromatiche. La moglie appare e scompare dietro di lui nello schermo, pian piano diventerà una di noi. Stefano è il nostro “leader” ed è bravo nel ruolo. Organizza, sprona, aiuta, cazzia quando necessario.

Roberta beve un rosé di uve di Negroamaro, come dice sempre Stefano, lei è un cane da tartufo, ha un olfatto incredibile. Ci descrive i profumi del vino e sembra di stare lì ad assaporarlo insieme. Il bocciolo di rosa, la fragolina di bosco, la mineralità data dalla pietra focaia. Il vitigno pugliese ci porta con la mente al mare azzurro e alle estati calde che tutti attendiamo.

Pia e il suo ragazzo hanno fatto “un’uscita” separati: il compagno è collegato con i suoi amici da un altro portale (sempre per un aperitivo virtuale), lei invece è connessa qui con noi. La prendiamo in giro perché beve quasi sempre vini biodinamici, stavolta una Garnacha (quella che noi chiamiamo Cannonau per capirci) coltivata a 1200 metri sulla Sierra Andalusa. La sorprende il bellissimo color rubino, vivido e cristallino. Ci dice… “sento quel sentore classico dei vini biodinamici”, noi in coro “eh certo, animale, pelliccia, stalla!!!”. Sorride e si rassegna alle opposizioni del gruppo.

Marco ci dice che l’ultimo decreto non è stato annunciato. Ancora non sappiamo che fine faranno i lavoratori autonomi con partita IVA. Lui è pacato e composto, apre la sua bottiglia, un assemblaggio di uve Petit Rouge, Vien de Nus, Fumin e Cornalin. Sapidità importante, ci dice, e si nota dall’espressione che fa nel descriverla. “Oggi sono uscito con il cane a passeggio. Volanti dei carabinieri in giro… sembra di stare in dittatura, con i controlli costanti. Sai che non stai facendo nulla di male ma ti sale comunque l’ansia”, ci racconta Marco. “Ieri sera ho rivisto The Truman Show… cavolo sembra di essere nel film, sento gli occhi puntati addosso della gente, mi sento controllata anche io”, lamenta Pia. Il virus non lo possiamo vedere ma cerchiamo di scrutarlo nello sguardo degli altri, lo intravediamo in un colpo di tosse, in uno schiarirsi la gola. Forse è lui, stiamo alla larga.

Più tardi arriva Nicola, stravolto in volto, gli dico: “Hai già bevuto, eh?”. Lui mi dice di no, ma che comincerà ora e continuerà ad oltranza. “Eh appunto! Immaginavo azioni bellicose!”. Stappa una Bonarda dell’Oltrepò Pavese del 2016, Croatina in purezza. Stefano sorride perché è uno dei suoi vini preferiti. Nicola ci sente la ciliegia e il pepe nero. I tannini si fanno sentire ma sono gradevoli in bocca. Ne beve un altro goccio assorto nei suoi pensieri. Gli siamo tutti molto vicini, domani lui è l’unico tra noi che andrà a lavoro.

Con me c’è mia sorella (in questo momento le nostre case, divise solo da un cancello in giardino, sono la nostra salvezza) e per un paio d’ore sembra che nulla sia cambiato. Sento la vicinanza di tutti, i progetti futuri sono solo rimandati. “Dove lo faremo il viaggio?”, “Bolgheri? In Champagne? Oppure in Rioja?”. La testa viaggia in posti nuovi, immaginiamo i vitigni illuminati dal sole, le cantine in cui degustare, l’aria fresca da respirare. Stefano ci ricorda la bellezza della Valpolicella. Vedo le foto, che meraviglia.

Roberta sente la mancanza del suo ragazzo, stessa città ma divisi. Parla con mia sorella, abbattuta anche lei per la distanza dall’amato. Dovevano andare insieme a Vienna ma il viaggio è stato annullato. Cerchiamo tutti di sostenerle e scherziamo. Ma percepisco un po’ di tristezza nei volti di tutti. Come se all’improvviso ci fossimo ricordati di come stanno realmente le cose. Degli affetti lontani, della preoccupazione per la salute di persone care più anziane.

Riprendiamo a giocare.

Stefano compie gli anni tra pochi giorni ed eravamo pronti da mesi per partecipare al suo mega party. Purtroppo da rimandare a data da destinarsi. Faremo un brindisi virtuale per esserci comunque. “Ele per il barbecue a casa tua, ti regalerò gli arrosticini!” afferma Stefano con il suo accento abruzzese”. Parliamo degli ordini di bottiglie di vino che stiamo facendo online. “Io ho preso un rosé della Provenza!”, “E cosa ne pensate di una magnum della Rioja?”, “Io sto degustando solo vitigni in purezza per capirne meglio le caratteristiche”. Ci confrontiamo da neofiti e chissà quante ne diciamo giuste e quante sbagliate. Ma ora non ci interessa.

Roberta inserisce Valerio, il compagno, nel nostro aperitivo Skype. Siamo una famiglia allargata. Mentre anche lui è connesso (da casa sua) Roberta in video si toglie la felpa per il caldo (o per il vino). Purtroppo per lei, iniziamo a fare battute sul fatto che cerca invano, in tutte le maniere, di convincere Valerio a raggiungerla a casa. Neanche lo “spogliarello” l’ha persuaso!

Ci diciamo che cosa cucineremo per cena. Stefano, secchione com’è, ha ripassato l’abbinamento cibo-vino. Può darci indicazioni sensate e precise. “Nicola se ti fai la pasta al pesto, vai di Timorasso!”.

Ci manchiamo, è normale. Degustare in un’enoteca e scambiarci i calici (guai ora a farlo!) è un’altra cosa. Quando si spegne il video, per qualche secondo, sentiamo un vuoto dentro. La nostalgia. Ma se ci riflettiamo, non è la stessa di quando accompagniamo un amico a casa, o l’amata, dopo una bella serata trascorsa insieme? Quando questa accade, ci riprendiamo però dopo pochi momenti perché sappiamo che lo rivedremo, la rivedremo. È così anche ora. Ci rivedremo per brindare tutti insieme e sentire di nuovo il suono dei calici che si toccano.

Con gli “occhi” degli Healthcare Workers: la sfida psicologica del Covid-19

L’emergenza legata al Covid-19 ha costretto gli operatori sanitari a confrontarsi con una nuova realtà, piena di sfide e difficoltà, che comporta uno stress psicologico senza precedenti.

 

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri..
(G. Leopardi)

Di fronte a questo evento contagioso di salute pubblica su larga scala il personale medico è sotto pressione, sia fisicamente che psicologicamente.

Lo scoppio del Covid-19 ha causato uno stress psicologico senza precedenti sugli operatori sanitari (‘Healthcare Workers’, HW), coraggiosi sostenitori e ricostruttori di vite, ma esposti al complesso di reazioni emotive e stress psicologico (come evidenziato dalla letteratura in calce). Nei casi più gravi si è vittime del senso di irrealtà, confusione dei sentimenti, depressione e abulia, in cui il corpo non risponde alle intenzioni razionali essendo incapace di placare l’ansia dello sconforto; l’immobilità di agire non si traduce in viltà.

Sulla scorta di Dewey, la “circostanza” è la fusione tra il principio personale di ogni individuo, il complesso di dati biologici e ambientali di cui subisce l’influenza. Tanti operatori sanitari dispiegati contro un nemico virale che rappresenta una seria “sfida psicologica”, in grado di compromettere l’attenzione degli HW, il funzionamento cognitivo e il processo decisionale clinico (Lijun, et al., 2020) e in cui può conseguire il verificarsi di errori e incidenti medici.

Certamente il confronto maggiore è quello con sé stessi: “aiutare il paziente senza diventare paziente a propria volta”.

Con gli occhi degli HW

Il lavoro degli HW è raccolto nell’intimità carnale delle vittime del virus: la patologia del corpo, ovvero l’efficienza corporea ostruita dall’ignoto, da un nuovo agente patogeno di cui se ne vorrebbe sapere di più per starne alla larga.

Il fantasma di un corpo è il suo virus, la memoria del mondo, focolare incontenibile che non lascia all’arbitrio della mente la capacità di spegnerlo. Un’entità biologica sorda alle grida di uomini o donne.

Gli anziani vengono deportati per far spazio ai giovani. È la voce degli HW che si oblitera nel paziente, farmacologicamente passivo, limitano nei movimenti e nei pensieri di coscienze ridotte a “reliquie del passato”.

Processi istintivi, veglia e sonno, regolazione viscero-ghiandolare…. hanno le orme del virus!

Tutto è sintesi di un’immagine: una croce (la forza vitale umana), un cerchio (il limite di contenimento), un tubo dove fuoriesce l’”ossigeno della vita”: l’aria attraversa a carponi un tunnel, è la trachea, un tubo che permette di comunicare col polmone, un organo incastonato nel corpo la cui vitalità dipende dalla respirazione, “un movimento su, uno giù”.

La patologia virale è l’ostruzione della secolare natura della geometria del diaframma sedimentata in abitudine, una divina tradizione contrastata dall’ateismo del corpo infetto, una diabolica interferenza (la parola Satana è denominazione originaria del sanscrito che significa “Colui-che-va-contro”) capace di far esplodere i sintomi in una perdita di controllo della vitalità umana che si intensifica e si agita: è la crisi respiratoria.

L’affanno, la respirazione urgente e forzata dall’istinto, si aggrappa all’invisibile cercando disperatamente di cogliere l’essenza della vita per assimilarla.

Ogni respiro contrattacca la morte. Gli healthcare workers in prima linea!

Con tale rappresentazione l’ospedale può essere descritto ‒ simbolicamente ‒ con un “cerchio”, elemento dell’ideografismo ermetico, che indica la «ritensione massima della forza vitale» contenuta nei limiti; limiti che mettono a dura prova gli HW!

Nell’«ambiente interno» di un ospedale lo spazio è la sicurezza di un “respiro”, teatro differente ‒ se non opposto ‒ all’«ambiente esterno» in cui lo spazio personale è dilatato con le dovute distanze che sottolineano le debite differenze identitarie legate al virus: infetto/possibile infetto/sano.

Ma pur stando a casa c’è l’ansia della dispersione, amplificata da un tubo contenente fili elettrici dove passa l’informazione. L’individuo dall’ambiente esterno vede nel cerchio, nel contenimento dell’energia vitale, nel luogo sanatorio ospedaliero, l’orificità affidata alla macchina: è lo specchio delle proprie paure.

Un nodo in gola ostruisce la ragione, manca l’aria, si trattiene il fiato, ogni pensiero positivo è sopravvivenza potenziata da una benedizione di massa.

Ma il male non ha spiegazioni o senso. Il male non ha sentimenti o emozioni. Il male va contro, ostruisce.

Così, un tubo dona la vitalità mancante in un corpo e intercetta una minaccia non localizzata e invisibile; unisce i nostri pensieri alla realtà così come la vita ad un corpo.

Da un tubo nasce la speranza della vita, come la paura della morte.

Covid19 l'emergenza dal punto di vista degli healthcare workers IMM.1

Immagine 1 – Disegno prodotto da Serena Vignoli

Un disegno di Serena Vignolini, eseguito sotto le indicazioni dell’autore dell’articolo a cui non si deve minimamente il contributo dell’opera data la larga competenza dell’artista di aver saputo contenere magistralmente ‒ in un’immagine ‒ i concetti essenziali racchiusi in questa sede.

La croce: la forza vitale umana.

Il cerchio: il limite di contenimento.

Il tubo: come metafora della speranza di vita e paura della morte.

 

Sexual compliance: l’associazione con l’abuso di alcol e precedenti esperienze sessuali

Capita più spesso di quanto si pensi che, quando si è ubriachi, sottoposti a pressioni, o addirittura ci si sente forzati, sia dia comunque il proprio consenso all’attività sessuale, anche se indesiderata. Uno sguardo alla sexual compliance.

 

 Desiderare di avere un rapporto sessuale e acconsentire ad averlo spesso coincidono ma, in realtà, desiderio e consenso sessuale sono due costrutti distinti. Le persone, infatti, possono acconsentire al sesso indesiderato o desiderare un rapporto sessuale a cui, alla fine, non acconsentono. Si parla di “sexual compliance” (letteralmente, conformità sessuale) in riferimento all’essere disposti ad impegnarsi in attività sessuali non desiderate. La conformità sessuale non è rara: la letteratura riporta che una percentuale variabile dal 23% al 43% dei giovani riferisce di aver acconsentito ad avere rapporti sessuali che non desideravano veramente (Katz & Tirone, 2010). Gran parte della ricerca esistente sulla teoria dei precedenti sessuali ha esaminato come ci si aspetta un rapporto sessuale ogni volta che le persone si impegnano in rapporti consensuali con partner diversi da quelli avuti in precedenza.

L’obiettivo del presente studio era estendere la ricerca sulla conformità e sul consenso sessuale, esaminando l’associazione tra precedenti sessuali e sexual compliance, utilizzando dati quantitativi derivati da un ampio campione di studenti universitari. L’ipotesi specifica era che i precedenti sessuali possano correlare con la conformità sessuale: poiché le dinamiche relazionali cambiano una volta che le persone si impegnano in attività sessuali, si è previsto che le ragioni delle persone che acconsentono ad attività sessuali indesiderate, variano a seconda che abbiano avuto precedentemente rapporti sessuali con l’altra persona. Indagando le esperienze di conformità sessuale, sono state descritte in modo esplorativo le potenziali associazioni tra precedenti sessuali, tipi di comportamenti sessuali coinvolti e piacere sessuale o esperienze di orgasmo.

Il campione finale era costituito da 7112 studenti universitari, i quali hanno completato un sondaggio online riguardante le caratteristiche sociodemografiche, i precedenti sessuali e il consenso sessuale. Per determinare se i partecipanti avevano un precedente sessuale con il loro partner più recente è stata formulata la domanda “Quante volte hai avuto rapporti vaginali o anali con questa persona?”, dicotomizzando successivamente la risposta in “almeno una volta” oppure “era la prima volta”. Per determinare se l’esperienza sessuale più recente dei partecipanti debba essere classificata come sexual compliance, è stato chiesto loro di indicare come avrebbero descritto la loro esperienza più recente. Tra le molteplici risposte, il presente studio si è concentrato solo su quei soggetti che hanno indicato di aver acconsentito ad attività sessuali indesiderate selezionando la risposta “Non volevo fare sesso ma ho accettato/detto comunque di sì”. I partecipanti che fanno parte di questo gruppo, hanno dovuto rispondere al quesito successivo, riguardante le ragioni per cui secondo loro le persone accettano esperienze sessuali consensuali ma indesiderate, scegliendo tra 12 opzioni. Inoltre, ai partecipanti è stato chiesto di segnalare le tipologie di comportamenti sessuali che si sono verificati durante la loro più recente esperienza sessuale. Ai partecipanti è stato chiesto anche: “Quanto è stato piacevole il recente atto sessuale?”, misurando le risposte in base alla presenza/assenza di orgasmo e valutando anche la possibile finzione nel raggiungimento dell’orgasmo. Infine, al campione è stato chiesto se durante il rapporto sessuale erano sobri o almeno uno dei due partner era sotto l’effetto di bevande alcoliche.

I risultati indicano che soltanto il 2,5% dei partecipanti ha riferito di non volere realmente fare sesso durante la loro più recente esperienza sessuale, ma ha comunque accettato. Le ragioni più comuni erano: “mi sentivo sotto pressione”, “volevo che smettesse di tormentarmi per il sesso”, “ero ubriaco” e “mi piace davvero questa persona e volevo compiacerla”. I precedenti sessuali sono importanti per determinare le ragioni associate all’accettazione di attività sessuali indesiderate. Nello specifico, tra coloro che avevano accettato un’attività sessuale indesiderata con il proprio partner era per compiacerlo; tuttavia, tra coloro che hanno concordato più frequentemente rapporti sessuali indesiderati con un nuovo partner, molti hanno riferito che ciò era dovuto all’abuso di alcol. Il sesso associato all’alcol, infatti, può comportare una minor sensazione di controllo e di sicurezza, nonché limita la percezione di sentimenti spiacevoli quali la mancanza di autostima e di fiducia in sé stessi e aumenta la sensazione di piacere; per questo motivo i giovani adulti si aspettano che il sesso con nuovi partner, quando si abusa di bevande alcoliche, sia più piacevole. Tuttavia, la coercizione sessuale è una preoccupazione per entrambi i tipi di relazione sessuale. Infine, la sexual compliance a nuovi partner sessuali era meno frequentemente associata a comportamenti sessuali affettuosi o all’orgasmo, sia reale che simulato. Questo deriva principalmente dal fatto che la mancanza di conoscenza l’uno dell’altro comporta un repertorio comportamentale sessuale e affettivo limitato, che non permette la sperimentazione di azioni che potrebbero aumentare la probabilità di raggiungere il piacere.

I programmi di educazione alla salute sessuale dovrebbero sottolineare che quando si è ubriachi o sottoposti a pressioni, o addirittura ci si sente forzati, è un diritto poter negare il proprio consenso all’attività sessuale, specialmente quando l’atto sessuale è indesiderato.

Tra i limiti del presente studio si riconosce che i dati sono raccolti per uno studio più ampio sulla salute e sul comportamento sessuale generale; di conseguenza sono necessarie ulteriori ricerche empiriche che si soffermino esclusivamente sul consenso alle esperienze sessuali indesiderate. Inoltre, ulteriori limiti riguardano la mancata considerazione delle differenze individuali e di genere (studi recenti affermano che sono le donne a sentirsi maggiormente obbligate a fare del sesso indesiderato) e la precisione nella misurazione dei costrutti. Infine, bisognerebbe considerare l’influenza della desiderabilità sociale sulle risposte e l’impossibilità di generalizzare i risultati ad un campione diverso da quello costituito da studenti universitari.

 

SURVEY Coronavirus: pensieri, emozioni e comportamenti nella situazione d’emergenza – Partecipa alla ricerca

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare. 

 

Fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe immaginato che le nostre vite sarebbero state stravolte in modo così radicale da un virus. Un nemico invisibile che, oltre a causare un’emergenza medico-sanitaria senza eguali, lutti ed emergenze sociali ed economiche, ha modificato molte nostre abitudini, pensieri, ed emozioni. I migliaia di contagi, la quarantena e lo stato di isolamento, le restrizioni a cui tutti dobbiamo attenerci, in molti casi, ci pongono dinnanzi a pensieri d’incertezza sul nostro presente e sul nostro futuro, che generano in noi emozioni spiacevoli e comportamenti spesso disfunzionali.

In quanto professionisti della salute mentale non possiamo ignorare le conseguenze psicologiche che il coronavirus porta con sé. Conoscere le paure e le preoccupazioni più comuni, infatti, può aiutarci a capire come poterle gestire e affrontare.

Per tale motivo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi si è proposto indagare quali sono i pensieri, le emozioni e i comportamenti più diffusi in questo delicato periodo.

Vi chiediamo gentilmente di compilare questa survey e di diffonderla tra i vostri conoscenti, ci vogliono 5 minuti per compilare il questionario ed aiutarci con la ricerca. 

E’ importante conoscere le opinioni di ciascuno di voi per riuscire a dare una risposta congrua e utile alle domande di aiuto che arrivano da più parti.

Vi saremo molto grati se riuscirete a trovare il tempo per noi!

 


La salute mentale di medici e infermieri ai tempi del Covid-19 – L’impatto psicologico della pandemia su chi lavora in prima linea

Riuscite a percepire la paura di chi è a contatto ogni giorno con una malattia come il Covid-19 ad alta morbilità e potenzialmente letale, che teme di contagiarsi o di contagiare i suoi cari? E la solitudine di chi decide, per precauzione, di isolarsi per non mettere a rischio il proprio partner, i propri bambini, i propri genitori? Tutto questo ha ripercussioni sulla salute mentale degli operatori sanitari.

 

È ormai assodato da anni che una delle categorie lavorative più a rischio di burnout sono le professioni socio sanitarie: medici, infermieri, OSS hanno maggiore probabilità di sviluppare disturbi psicologici a causa dello stress a cui sono sottoposti quotidianamente. Questo, oltre a rappresentare un importante problema di salute per il lavoratore stesso, si ripercuote sulla qualità dell’attività svolta con conseguenze negative, anche gravi, sui pazienti in carico.

Ora, provate a immaginare cosa significhi lavorare nell’health care durante l’epidemia COVID-19.

Chi sceglie una professione sanitaria sa che dovrà fare i conti con il dolore e la sofferenza di pazienti e parenti, con sentimenti di impotenza e mancanza di controllo di fronte alla malattia e alla morte, con un grosso carico emotivo da gestire. Ma probabilmente mai avrebbe pensato un giorno di trovarsi ad affrontare un’emergenza di questa portata.

I numeri in Italia sono impietosi: al 6 aprile si contano 12.681 operatori sanitari ufficialmente contagiati (dati disponibili qui), 88 medici morti (dati disponibili qui) e 25 infermieri del Sistema Sanitario Nazionale (dati disponibili qui).

Immaginate il senso di vulnerabilità dei medici di base, travolti dalle richieste di aiuto, in prima linea a visitare spesso senza DPI disponibili (es. mascherine, guanti…). Pensate allo stress degli infermieri, sotto pressione e allo stremo dopo turni sfiancanti da 12 ore; all’impotenza dei medici senza farmaci efficaci per curare l’infezione; all’angoscia di un anestesista che potrebbe dover scegliere a chi dare la precedenza in terapia intensiva (qui le raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili).

Riuscite a percepire la paura di chi è a contatto ogni singolo giorno con una malattia ad alta morbilità e potenzialmente letale, che teme di contagiarsi o di contagiare i suoi cari a fine giornata? E la solitudine di chi decide, per precauzione, di isolarsi per non mettere a rischio il proprio partner, i propri bambini, i propri genitori?

Riuscite a provare l’ansia lancinante e lo spaesamento di chi si ritrova a lavorare in un reparto non suo? O il senso di inadeguatezza di uno specializzando alle prime armi reclutato per l’emergenza?

E li sentite gli sguardi sospettosi dei vicini di casa che temono di aver accanto l’untore?

Tutti questi fattori hanno ripercussioni, anche pesanti, sulla salute mentale degli operatori. Quali?

Il 23 marzo 2020 è stato pubblicato uno studio intitolato Factors Associated With Mental Health Outcomes Among Health Care Workers Exposed to Coronavirus Disease 2019, che ha indagato gli effetti della pandemia di Covid-19 su 1.257 operatori sanitari cinesi.

I partecipanti sono stati suddivisi in “operatori in prima linea” (a contatto con pazienti con febbre alta o diagnosi COVID-19) e “operatori in seconda linea”.

Popup-Coronavirus-singoloI questionari somministrati (PHQ-9, GAD-7, ISI e IES-R) hanno rilevato la presenza di sintomi depressivi (50,4% dei soggetti), ansia (44,6%), insonnia (34,0%) e stress (71,5%). Infermieri, donne, operatori sanitari di Wuhan e operatori in prima linea sono i soggetti che hanno riportato i sintomi più severi in tutte le valutazioni. In particolare, essere un operatore sanitario in prima linea rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di gravi sintomi psicologici, tanto da suggerire di prestare particolare attenzione alla salute mentale di questa categoria.

Certamente lo studio presenta diversi limiti metodologici tra cui la breve durata (6 giorni), la mancanza di follow-up, la natura del campione (costituito in prevalenza da soggetti provenienti da Wuhan) e l’assenza di un gruppo di controllo. Ciononostante, visto l’attestato maggior rischio di burnout delle professioni health care, sembra plausibile affermare l’assoluta necessità di prevedere immediatamente un supporto psicologico per tutti gli operatori sanitari coinvolti in prima linea nella lotta alla pandemia, che li accompagni anche nel post-emergenza. Obiettivo deve essere non solo la prevenzione e il trattamento di depressione, ansia, insonnia e stress, ma anche, come suggerito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il potenziamento delle capacità di adattamento dell’operatore e la promozione dell’empowerment personale.

Bisogna infatti evitare che all’emergenza medica si sommi anche un’emergenza psicologica che andrebbe a minare ancora di più un sistema che non può permettersi che proprio chi si trova in prima linea crolli.

Sebbene chiunque, in questo periodo di emergenza, possa continuare ad accedere a percorsi di sostegno psicologico nonostante la chiusura degli studi grazie ai servizi di psicologia e psicoterapia online e telefonici attivati non solo da psicologi e psicoterapeuti privati, ma anche da scuole di psicoterapia e centri clinici come per esempio il network di Studi Cognitivi, è comunque necessario prevedere una soluzione mirata e specifica per medici, infermieri e OSS.

Per questo motivo sono state messe in campo alcune iniziative a livello nazionale sia da parte del Consiglio Ordine Nazionale degli Psicologi (Cnop) sia da parte di scuole di specializzazione in psicoterapia (es. le sedi di Studi Cognitivi Modena  e San Benedetto del Tronto), studi clinici (es. lo Studio Clinico San Giorgio), centri clinici (es. il CIP di Modena, il CIP di Milano Navigli, associazioni e società di psicologia e psicoterapia di ogni orientamento, per offrire un servizio di ascolto gratuito a medici, infermieri e personale sanitario.

Tuttavia, come ribadito anche dal Presidente del Cnop Lazzari, la solidarietà e il volontariato non bastano. Da anni infatti si auspica che la figura dello psicologo e dello psicoterapeuta entrino a pieno titolo, in maniera strutturale e strutturata, all’interno dei reparti ospedalieri a supporto del personale sanitario. Ora che siamo di fronte a un’emergenza psicologica di tale portata, è tempo per le istituzioni pubbliche di agire in tal senso, prima che sia davvero troppo tardi. Altrimenti a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori sanitari, le loro famiglie e i loro pazienti…insomma, tutti noi.

 

Coronavirus: i rischi sulla salute mentale

La rapida diffusione del coronavirus è un evento di grande portata per l’intera umanità, capace di innescare reazioni e ripercussioni psicopatologiche che potrebbero rimanere anche quando il virus verrà completamente debellato.

Analisi delle dinamiche con cui si innesca la percezione del rischio sociale

È noto come coronavirus, ma poco si sa sul suo conto, certo è che nasce alla fine del 2019 e si presenta nei primi mesi del 2020 con una forza tale da modificare la vita delle persone di tutto il mondo.

Tutto si ferma: scuole, uffici, negozi chiusi. I bollettini medici vengono verosimilmente comparati ai tempi di guerra. Di uso comune diventano i termini dei dispositivi sanitari protettivi accompagnati da una serie di norme igeniche per prevenire l’infezione virale. Fa eco il messaggio sulle relazioni sociali percepite come non più sicure. L’«altro» si rivela un pericolo per la propria sopravvivenza, per salvarsi è bene sfuggire ai rapporti interpersonali generalmente caratterizzati da sentimenti, passioni condivise, impegni sociali e professionali.

Alla luce di questo scenario sociale che coglie impreparati esperti, genitori, nonni, si diffonde la paura a sostegno della falsa credenza che «questo virus ucciderà ciascuno e tutte le persone care». Le notizie diffuse dai media e social media si presentano allarmanti, a volte discordanti dai pareri tecnici e sollecitano esperienze stressanti tali da incentivare comportamenti inappropriati o addirittura dannosi per la salute fisica e psicologica, come riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel Situation Report numero 13 sul Novel Coronavirus 2019-nCoV.

Scenari  presenti alla base di sviluppi psicopatologici

La ricerca di certezze sul futuro si rivela complessa e la paura continua a segnare le diverse fasi del tempo del Coronavirus nonché alimentare la percezione di vulnerabilità sul fronte sanitario, sociale, personale.

La paura è un’emozione che a livello umanamente ragionevole aiuta a difendersi e proteggersi. Quando questa si attiva, comporta una risposta dell’intero organismo, poiché coinvolge la componente affettiva e l’attivazione dei sistemi organici dando luogo a uno specifico al comportamento.

Facendo ricorso alle teorie classiche sul comportamento, da una prospettiva basata sul condizionamento classico, in questo periodo pandemico, i luoghi pubblici, generalmente neutri, vengono associati al rischio di contaminazione del Covid-19 con l’esito una risposta emotiva condizionata. Nell’ottica del concetto del condizionamento operante, l’evitamento protettivo dei luoghi sociali ha come effetto una conseguenza positiva e la persona tende perciò a ripetere il comportamento. Sorge la preoccupazione per il futuro e l’inevitabile esigenza di stare lontani dai luoghi pubblici a causa del rischio di contaminazione. Ciò potrebbe diventare via via un apprendimento strumentale, un’abitudine che non necessita neanche più di uno stimolo per essere operata una volta generalizzata (LeDoux, 2014).

L’esposizione dell’umanità a vissuti esperienziali stressanti di portata mondiale come le guerre, Tzunami, attacchi terroristici e pandemie, ci insegna che questi eventi catastrofici trasferiscono nella persona in modo esponenziale la tendenza a sovrastimare il fenomeno nonché generalizzare la portata del pericolo. Ad esempio, l’impatto psicologico della deprivazione sociale e l’immobilità può essere assunto, in particolare dagli adolescenti e dai giovani, come evento catastrofico, di isolamento forzato, perdita della libertà e viene vissuto come una forma di stress che causa umore depresso, sentimenti di rabbia e paura. Questi sintomi possono manifestarsi per mesi o anni sotto forma di particolare preoccupazione, pensieri, flashbacks e trasformarsi col tempo un vero e proprio Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD).

Inoltre, comportamenti di “controllo» suggeriti e messi in atto da parte di ciascuno per contenere la diffusione di massa della malattia, indicano come nella percezione del rischio sociale gioca un ruolo chiave la fiducia che le persone pongono nelle risposte risolutive della scienza. Il ritardo di risposte certe (calo dei contaggi, terapie, vaccino) deludono le aspettative di ciascuno, sostanziano il concetto d’impotenza, nonché la costruzione di credenze irrazionali come fattori di mantenimento della sofferenza sperimentata.

Di fronte alla minaccia incombente di un nemico insidioso come il Covid-19, invisibile, del tutto sconosciuto che inevitabilmente crea angoscia, la persona può trovarsi rapidamente coinvolta nel grave circolo vizioso dell’ansia, accompagnato in un secondo tempo dalla cosiddetta agorafobia. Quest’ultima, viene riconosciuta come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali risulta  difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile per esempio,un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato. In questi casi la risposta del sistema nervoso parasimpatico stimola la risposta del tipo «combattimento o fuga» piuttosto che lasciare spazio al ricorso delle capacità riflessive e logiche più evolute.

In questo scenario in cui la rappresentazione soggettiva della realtà rischia di rimanere per lungo tempo caratterizzata da pensieri, immagini o impulsi ricorrenti dettati dall’ansia, dal disgusto della contaminazione. Le cognizioni ossessive possono dare luogo a compulsioni «obbligate» di azioni ripetitive (lavaggi frequenti delle mani) mentali o materiali .

Affidarsi all’autocura

Il diffondersi velocemente dell’infezione Covid-19 è un evento che di per sé ha una portata oggettiva e razionale notevolmente importante e preoccupante per l’intera umanità, innesca reazioni che non sono comunque proporzionate al fenomeno e che potrebbero lasciare ripercussioni psicopatologiche anche quando il virus verrà completamente debellato.

Come ridurre il rischio futuro di una psicopatologia:

  • diffidare delle notizie false e contagiose;
  • valutare i rischi relativi alla comunicazione sui servizi di crittografia «end-to-end» poiché sfuggono alla sorveglianza e si rivelano molto spesso alterati;
  • informarsi sulla capacità manipolatoia delle «fake news»;
  • attingere all’informazione da fonti informative accreditate;
  • per allentare la tensione aiutarsi con piccole dosi di efficacia personale;
  • programmare la sera prima le attività della giornata successiva;
  • stabilire un orario da dedicare ai lavori in casa, alla lettura, agli esercizi fisici, all’ascolto della musica ed eventuali hobby come il disegno, l’arte, la scrittura e soprattutto curare la comunicazione virtuale dei rapporti amicali e professionali;
  • evitare tutto ciò che è passivo e che può alimentare la frustrazione;
  • affidarsi alle iniziative di supporto psicologico gratuito.

 

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività

Stern propone una distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza. Questa separazione costituisce una delle più importanti novità del suo pensiero e giocherà un ruolo fondamentale nella Teoria del cambiamento.

Il presente contributo è il terzo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern, mentre nel secondo si è parlato della Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita. Il successivo articolo verrà pubblicato nei prossimi giorni 

Tesi della distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza

La terza tesi, che mi accingo ad esporre, è forse quella che caratterizza maggiormente il pensiero di Stern. Si tratta della distinzione tra il contenuto dell’esperienza e la su forma. Per comprendere tale distinzione è necessario partire dal concetto di movimento, uno dei concetti che stanno alla base dell’ultima fase del pensiero di Stern, senza il quale è impossibile comprendere il senso delle sue riflessioni. Il movimento è per Stern ciò che caratterizza la vitalità, proprietà del mondo degli esseri animati. Esso permea sia il mondo fisico, sia la mente. L’intero mondo dei viventi, ma in particolare per Stern, il corpo umano è in continuo movimento, esso non può fare a meno di muoversi anche nei momenti in cui diciamo che è fermo (si pensi per esempio al battito cardiaco). Tale movimento può essere descritto attraverso le su proprietà dinamiche, che Stern riassume nei concetti di “movimento”, “tempo”, “forza”, “spazio”, “intenzione” (o “direzionalità”).

Anche gli stati mentali secondo Stern sono dotati di movimento, essi insorgono, permangono e svaniscono attraverso un profilo dinamico che varia di volta in volta. Possono giungere all’improvviso, svanire lentamente, durare tanto o poco, avere un andamento a salti, essere più o meno intensi e così via. L’insieme di queste proprietà dinamiche è ciò che Stern intende per “forma” della nostra esperienza. Vi sarà una forma dei nostri stati mentali e una forma del nostro comportamento fisico.

Il contenuto del nostro comportamento corrisponde, invece, a “ciò che stiamo facendo”, mentre il contenuto degli stati mentali è chiaramente “ciò che stiamo percependo, immaginando, provando…ecc.”. Vi sono dunque una forma e un contenuto degli stati mentali e una forma e un contenuto del nostro comportamento.

Forma e contenuto sono tra loro indipendenti. Può variare la forma e mantenersi costante il contenuto o viceversa. Per esempio posso provare rabbia in modo improvviso e intenso, oppure in modo lieve e continuo ecc. Oppure, sul piano del comportamento, posso alzare una mano lentamente, a scatti, con forza, debolmente…ecc. In questi esempi abbiamo mantenuto costante il contenuto e fatto variare la forma. Vediamo l’opposto. Posso avere una rabbia che cresce velocemente, oppure una gioia che cresce velocemente; posso alzare una mano lentamente oppure alzare una gamba lentamente.

Tra la forma degli stati interni e la forma del comportamento vi è un rapporto di espressione e in tal senso la dinamica del nostro pensiero si esprime nella dinamica del nostro agire. Tale rapporto di espressione consente anche la lettura della forma degli stati interni altrui attraverso la percezione del movimento del loro corpo, senza la necessità di eseguire inferenze di tipo cognitivo.

Stern ha introdotto il concetto di forma dinamica degli stati interni sin dal 1985 e nel corso degli anni ha variato i termini con i quali vi si è riferito: ne Il mondo interpersonale del bambino (1985) usa il termine “affetti vitali”, ma in altri lavori troviamo anche espressioni come “forme affettive temporali”, “profili affettivi temporali”, “involucri protonarrativi”, “profili vitali”. Nel 2010 egli intitola il suo ultimo lavoro, dedicato proprio alla forma dell’esperienza, Le forme vitali.

La separazione tra forma e contenuto dell’esperienza costituisce una delle più importanti novità del pensiero di Stern e, come vedremo, giocherà un ruolo fondamentale nella Teoria del cambiamento che esporrò nell’ultima parte di questo articolo.

Tesi dell’intersoggettività

La tesi dell’intersoggettività rappresenta la posizione che Stern assume nel panorama delle teorie della cognizione sociale. L’attuale disputa filosofica vede sostanzialmente due principali posizioni opposte: da un lato i sostenitori della “Teoria della teoria della mente” (TT) e dall’altro i sostenitori della “Teoria della simulazione della mente” (ST). Per i primi la lettura degli stati mentali altrui avviene attraverso, appunto, una teoria che consiste in un procedimento inferenziale alla migliore spiegazione che partendo dall’osservazione del comportamento degli altri conclude circa gli stati mentali che lo hanno provocato. Ecco come Gallagher e Zahavi spiegano tale posizione.

In generale, comunque, la TT pensa che comprendere le creature dotate di mente (che si tratti di noi stessi e degli altri) è un’operazione di natura teorica, inferenziale e quasi-scientifica. L’attribuzione di stati mentali è vista come un’inferenza alla migliore spiegazione e predizione dei dati comportamentali, e si sostiene che gli stati mentali sono entità inosservabili e postulate teoricamente. (S. Gallagher e D. Zahavi, La mente fenomenologica, cit. p. 261)

Il presupposto principale di tale teoria è l’idea che i nostri stati mentali e quelli degli altri non siano direttamente accessibili, né a noi né agli altri. A conferma di ciò riporto le parole di Leslie sostenitore della TT.

Poiché gli stati mentali degli altri (e anche i nostri, infatti) sono completamente nascosti ai sensi, possono solo essere inferiti. (A. M. Leslie, Children’s understanding of the mental world. In R. L. Gregory (a cura di), The Oxford Companion to the Mind. Oxford University Press, Oxford 1987, p.139)

Della Teoria della simulazione della mente (ST), invece, esistono due versioni: la teoria della simulazione esplicita e quella implicita. Alla base di entrambe vi è l’idea che la conoscenza degli stati mentali altrui avvenga attraverso una simulazione di essi nella nostra mente. Secondo la versione esplicita il processo di simulazione avviene attraverso l’immaginazione cosciente: è il soggetto che decide consapevolmente di mettersi nei panni dell’altro per poi leggere attraverso l’introspezione i propri stati e attribuirli all’altro. Ecco come Goldman (2005) esprime tale processo:

Prima di tutto, l’attributore crea in se stesso degli stati fittizi con lo scopo di corrispondere a quelli di colui che vuole comprendere. In altre parole, l’attributore tenta di mettersi nei “panni mentali” della persona di riferimento. Il secondo passo è di nutrire di questi stati fittizi iniziali (per esempio credenze) qualche meccanismo della psicologia dell’attributore stesso […] e consentire che tale meccanismo operi sugli stati fittizi così da generare uno o più stati (per esempio, decisioni). Terzo, l’attributore assegna alla persona lo stato generato […]. (A. Goldman, Imitation, mind reading and simulation. In Hurley, S., Chater, N. (a cura di), Perspectives on Imitation II. MIT Press, Cambridge 2005, MA, pp. 80-81)

Il presupposto fondamentale di questa versione della ST è che attraverso l’introspezione il soggetto possa cogliere i propri stati mentali.

La versione implicita della ST, invece, spiega la nostra capacità di leggere gli stati mentali altrui attraverso un meccanismo di simulazione implicito. In particolare, secondo la versione di Gallese, si tratta di un meccanismo subpersonale di rispecchiamento motorio possibile grazie alla presenza dei neuroni specchio: particolari neuroni che si attivano sia quando noi eseguiamo un’azione sia quando vediamo la stessa azione eseguita da un altro. In questo senso percepire il movimento del corpo altrui implica già il simulare dentro di noi le emozioni, le intenzioni e gli altri stati mentali che stanno alla base di quel comportamento. Ecco come Gallese spiega tale meccanismo:

Ogni volta che guardiamo qualcuno compiere un’azione, oltre all’attivazione di alcune aree visive, si assiste alla contemporanea attivazione di quei circuiti motori che entrano in gioco quando siamo noi stessi a compiere l’azione. […] Il nostro sistema motorio diventa attivo come se stessimo eseguendo quella medesima azione che stiamo osservando. […] osservare un’azione comporta simulare quell’azione […] il nostro sistema motorio comincia a simulare l’azione dell’agente osservato. (V. Gallese, The “shared manifold” hypothesis: From mirror neurons to empathy. In Journal of Consciousness Studies, 8 (2001), pp. 37-38)

Tale rispecchiamento avviene a nostra insaputa senza che sia necessario decidere di mettersi coscientemente nei panni dell’altro. L’unica condizione necessaria è che si percepisca in qualche modo il movimento del corpo altrui (anche solo il suono prodotto da una particolare azione può attivare la simulazione motoria). Di seguito le parole con cui Gallese spiega questo aspetto.

Ogni volta che affrontiamo situazioni nelle quali l’esposizione al comportamento altrui ci richiede una risposta, sia essa attiva o semplicemente di tipo attentivo, raramente ci impegniamo in un atto interpretativo esplicito e deliberato. La nostra comprensione della situazione per la maggior parte del tempo è immediata, automatica e quasi come un riflesso. (V. Gallese, “Being like me”: self-other identity, mirror neurons and empathy. In Hurley, S., Chater, N. (a cura di), Perspectives on Imitation I. MIT Press, Cambridge 2005, MA, p. 102)

La versione della ST implicita è proprio la posizione sposata da Stern. Essa pur non esaurendo la sua teoria dell’intersoggettività ne costituisce una fondamentale premessa.

Vediamo ora di ricostruire tale tesi attraverso le parole di Stern.

Noi siamo in grado di “leggere” le intenzioni degli altri e di sentire nel nostro corpo le loro stesse sensazioni ed emozioni. E ciò non in qualche forma mistica, ma osservandone il volto, i movimenti e la postura, ascoltandone il tono della voce, e rilevando il contesto presente del loro comportamento. (D. N. Stern, Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana, cit. p. 63)

osservando le espressioni facciali, la postura e movimenti degli altri, possiamo sperimentare all’istante qualcosa di assai simile a ciò che essi stanno provando. […] Le espressioni affettive raccontano i nostri pensieri e le nostre esperienze. Lo stesso vale per i gesti e i movimenti degli altri: possiamo sentire noi stessi muoverci in quel modo. Lo sentiamo nel nostro corpo e lo percepiamo nella nostra mente, insieme. (Ivi, p. 64)

È interessante sottolineare come in questi passaggi si senta fortemente l’influsso delle nuove scoperte neuroscientifiche. Ecco la conferma di ciò in un passo tratto da Stern (2004).

Il nostro sistema nervoso è costruito per “agganciarsi” a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle. Disponiamo di una sorta di canale affettivo diretto con i nostri simili, che ci consente di entrare in risonanza con loro, di partecipare alle loro esperienze e di condividere le nostre. (Ibidem)

In questo ultimo passaggio, Stern fa chiaramente riferimento al meccanismo implicito di rispecchiamento neurale che sta alla base della relazione interpersonale, possibile grazie alla presenza dei neuroni specchio.

Nel rifiutare il modello di cognizione sociale di stampo cognitivista (TT), Stern abbraccia ancora una volta alcune tesi del pensiero fenomenologico. Con il noto concetto di “mente incarnata” tale corrente filosofica mina alla base una convinzione che da Cartesio è giunta sino a noi e che ancora echeggia in alcuni ambiti della nostra cultura, mi riferisco alla distinzione sostanziale tra mente e corpo. L’isolamento della mente dal corpo fa degli stati mentali un fatto privato, non visibile dall’esterno e conoscibile solo attraverso un’ipotesi probabilistica effettuata per mezzo di un’inferenza cognitiva. Il concetto di “mente incarnata” invece rende il mentale presente e “visibile” nel corpo e quindi condivisibile a livello implicito e immediato nella relazione interpersonale.

Stern, però, sembra volersi spingere ancora oltre. A suo parere i dati neuroscientifici relativi ai meccanismi di rispecchiamento motorio non sono ancora sufficienti per giustificare un’importante caratteristica dell’intersoggettività: la bidirezionalità.

I dati emersi fin qui sembrano applicarsi a un’intersoggettività di tipo unidirezionale (“Io so che cosa stai provando”), ma che dire dell’intersoggettività vera e propria, bidirezionale? Ci troviamo di fronte a un’evidente ridondanza (“Io so che tu sai che io so che cosa stai provando”, e viceversa), che richiede un passo ulteriore. Forse i meccanismi di cui abbiamo parlato finora non sono sufficienti in questo caso. (Ivi, p. 68)

Non solo noi siamo in grado di “leggere” le menti degli altri attraverso un processo di simulazione implicito, ma avvertiamo anche e contemporaneamente che l’altro colga questa nostra lettura su di lui.

Perché vi sia piena intersoggettività bidirezionale, occorrono almeno due “letture” dell’altro. La prima consiste nel conoscere l’oggetto dell’esperienza dell’altro; la seconda, nel conoscere il modo in cui l’altro sta facendo esperienza della nostra esperienza di lui. (Ibidem)

Percepire l’altro di fronte a noi è già, immediatamente, simulare in noi i suoi stati mentali avendo contemporaneamente la conferma implicita che egli avverta questa condivisione. Questo è quello che Stern chiama bidirezionalità dell’intersoggettività.

La teoria dell’intersoggettività sterniana, tuttavia, non è ancora completa. Stern infatti non solo ammette la possibilità di una condivisione diretta, implicita e bidirezionale degli stati mentali, ma vuole giungere persino a mettere in discussione la “proprietà” stessa di questi stati.

Da queste considerazioni emerge un modo intersoggettivo, nel quale le nostre menti non sono più così indipendenti, separate e isolate, in cui non siamo più i signori e custodi della nostra soggettività. (Ivi, p. 64)

Un conto è ammettere che i miei stati mentali siano condivisibili con i tuoi e un conto è affermare che gli stati mentali non siano né miei né tuoi, ma originariamente nostri. Secondo Stern, infatti, non vi sono stati mentali che inizialmente appartengono ad un soggetto e che in un secondo tempo condividerà con gli altri, ma vi è una vera e propria co-creazione degli stati mentali.

[…] la differenza tra ciò che è nostro e ciò che appartiene agli altri non sempre è così netta. Tutto quanto pensiamo, sentiamo e desideriamo è influenzato dai pensieri, dai sentimenti e dalle intenzioni che percepiamo negli altri, in un dialogo incessante (reale o virtuale). (Ivi, p. 65)

In breve la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice intersoggettiva. (Ivi, p. 64)

Tale convinzione, che potremmo definire del “primato dell’intersoggettività sulla soggettività”, costituisce un’inversione di ciò che sostiene il senso comune. Al modello di pensiero secondo il quale un individuo forma dei propri stati mentali e in un secondo tempo, eventualmente, li esprime, condividendoli con gli altri, Stern oppone l’idea che l’intersoggettività preceda la soggettività e ne costituisca una condizione necessaria. In questa prospettiva, la soggettività dell’individuo si forma grazie alla co-creazione di una mente condivisa ed in seguito ad essa.

In passato, eravamo soliti pensare all’intersoggettività come a una sorta di epifenomeno che si manifesta occasionalmente quando due menti separate e indipendenti interagiscono. Ora è giunto il momento di considerare la matrice intersoggettiva, nella nostra visione della cultura e della psicoterapia, come il crogiolo imprescindibile da cui evolve la mente dell’individuo.

Le due menti creano l’intersoggettività e l’intersoggettività modella le due menti. Il centro di gravità si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo. (Ivi, p. 66)

L’idea di una mente senza confini, quasi collocata in un luogo neutrale rispetto ai soggetti implicati, in Stern, può reggere solo se accostata alla tesi di una precoce e definitiva differenziazione che si gioca a livello nucleare. Secondo Stern, infatti, il bambino dopo i due mesi percepisce già sé stesso e la madre come due entità fisiche distinte e questo traguardo segna la comparsa del senso del Sé nucleare che non abbandonerà più il bambino per tutta la sua vita. Tale tesi sullo sviluppo contraddice una convinzione del modello psicoanalitico di Mahler e colleghi (Mahler, Pine, Bergman, 1975) secondo la quale il bambino vivrebbe gran parte dell’infanzia sprofondato prima in uno stato di indifferenziazione, detto di autismo normale, e poi in un rapporto simbiotico con la madre. Sempre secondo questo modello egli uscirà da tale stato di simbiosi attraverso un processo di differenziazione e ricerca di un’autonomia. Secondo la teoria di Stern invece la percezione del bambino di una differenziazione fisica con la madre inizia proprio nei primissimi mesi di vita. Solo sulla base di tale separazione fisica può innestarsi la condivisione mentale descritta sopra. Le due prospettive, quella psicoanalitica e quella sterniana, vedono il bambino, nello stesso periodo dello sviluppo, impegnato in due compiti opposti: per la psicoanalisi egli è in una fase di separazione e differenziazione, per Stern è invece in una fase di fusione mentale che avviene attraverso una condivisione intersoggettiva degli stati mentali.

La co-creazione di una mente condivisa che precede la soggettività del singolo è chiamata da Stern “matrice intersoggettiva”. Ecco le parole di Stern.

Viviamo circondati dalle intenzioni, dai sentimenti e dai pensieri degli altri, che interagiscono con i nostri, al punto che la differenza tra ciò che è nostro e ciò che appartiene agli altri non sempre è così netta. […] In breve, la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice intersoggettiva. (Ivi, p. 65)

Infine, per completare la tesi dell’intersoggettività sterniana è necessario soffermarsi su un ultimo aspetto. L’intersoggettività secondo Stern non è solamente una condizione necessaria allo sviluppo dell’umanità di un individuo, ma costituisce propriamente un sistema di motivazione fondamentale, al pari del sesso e dell’attaccamento.

L’intersoggettività è condizione di umanità. La tesi […] è che sia inoltre un sistema motivazionale innato ed essenziale alla sopravvivenza della specie, con uno status comparabile al sesso o all’attaccamento. (Ivi, p. 81)

Perché si possa parlare di sistema motivazionale di base è necessario che si tratti di una tendenza innata e universale degli individui di una specie che ne favorisca la sopravvivenza e che abbia un canale preferenziale per l’organismo. Deve essere inoltre possibile una regolazione di essa in base alle necessità. L’intersoggettività contribuisce alla sopravvivenza della specie attraverso la formazione di gruppi, il loro funzionamento e la loro coesione. Quello di un riscontro intersoggettivo che consenta una condivisione dei propri stati mentali è un bisogno fondamentale che ogni uomo cerca di soddisfare sin dai primi giorni di vita. La prima forma di intersoggettività, detta “intersoggettività primaria” (Trevarthen, 1974, 1979, 1980, 1988, 1993, 1999; Trevarthen, Hubley, 1978) compare già nel primo mese di vita, mentre una seconda forma, detta “intersoggettività secondaria” comparirà dopo i nove mesi. Questo fa pensare che si tratti di un’esigenza innata. Circa la sua universalità, Stern si limita ad osservare quanto segue:

[…] non riesco ad immaginare una società in cui questa capacità non venga usata, in qualche modo, a fini adattivi. (Ibidem)

Infine, l’intersoggettività è regolabile ai fini di evitare due pericolosi estremi: la solitudine cosmica e la fusione che implica il disfacimento del sé.

Il sistema motivazionale intersoggettivo regola la zona di benessere intersoggettivo compresa tra i due poli. (Ibidem)

In conclusione riporto le parole di Stern che indicano in modo chiaro il ruolo che egli attribuisce al fenomeno dell’intersoggettività ed in generale alla relazione interpersonale nell’economia dell’esistenza di un individuo.

In un certo senso, abbiamo bisogno di incontrare lo sguardo dei nostri simili per formarci come individui e mantenerci tali. (Ibidem)

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

Coronavirus e psicoanalisi: dall’emergenza alla riflessione

Momenti di crisi ed emergenza, come quella sopraggiunta con il diffondersi del Covid-19, sconvolgono la nostra quotidianità e si impongono con forza all’interno dei nostri vissuti, mettendo a dura prova la nostra resistenza e le nostre difese.

 

La mancata introspezione delle dinamiche che hanno luogo all’interno dei tessuti più profondi della mente può esacerbare queste difficoltà e condurre, così come è avvenuto nella nostra Nazione, a mettere in scena comportamenti che drammatizzano, sul palco della vita reale, scenari che si svolgono all’interno del proprio mondo psichico.

Le condotte agite dal singolo e dalla collettività (veri e propri acting out della vita quotidiana) si prestano ad esser lette come dovute ad una difficoltà di tenuta dell’assetto psichico di fronte ad un evento che, non rientrando in nessuno degli schemi mentali già in nostro possesso, richiede un accomodamento di tali strutture per consentirne l’inscrizione al suo interno.

Il nemico invisibile e inesorabile che stiamo affrontando, e che per via dei suddetti connotati si è così offerto ad acquisire le vestigia di un oggetto persecutore, non sembra aver slatentizzato psicopatologie latenti (o almeno dovremo aspettare del tempo prima di poter avere dati al riguardo), quanto piuttosto aver fatto leva su quel disagio psichico che soggiace in ognuno di noi, inducendo risposte disadattive nell’affrontare tale evento.

Queste modalità sono inquadrabili lungo l’asse, ipotizzato da Freud, di un continuum tra normalità e patologia, dove le differenze risultano essere di ordine quantitativo piuttosto che qualitativo; asserendo ciò Freud voleva evidenziare come in tutti siano presenti i germi di quei fattori che poi, moltiplicandosi come batteri di una flora alterata, conducono al manifestarsi di una psicopatologia.

Nessuno è immune dall’albergare, dentro di sé, conflitti inconsci.

Il momento di crisi non ha fatto altro che far emergere molti di quei complessi irrisolti che soggiacciono nell’inconscio e che sempre fanno sentire la loro influenza ma che, in un momento come quello che stiamo vivendo, vengono posti in risalto o acuiti.

Secondo quanto riportato dalle stime del Viminale, le denunce per inflazione delle restrizioni imposte sono più di 130.000; un numero che non può non farci chiedere che cosa abbia indotto queste persone a venir meno alle indicazioni e obblighi imposti dagli esperti.

Da questi dati si evince una profonda difficoltà nel dare un nuovo ordine alle proprie esigenze e priorità, una non tenuta del proprio principio di realtà e di contenimento offerto dalle capacità di pensiero, nei confronti del principio di piacere, con un conseguente impedimento nel far prevalere il bene della collettività rispetto al proprio.

Come scrive Freud in Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, l’unico scopo del primo principio, che nell’infanzia dominava il nostro apparato psichico, è quello di adoperarsi al fine di ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni e desideri ed evitare il dispiacere senza badare alle conseguenze. Con l’instaurarsi, poi, all’interno dello stesso apparato, anche del principio di realtà, sorto proprio con la necessità di fare i conti con le reali condizioni imposte dal mondo esterno, l’io ha dovuto rinunciare all’immediato soddisfacimento in un’ottica di utile che mirasse a garantire un piacere più sicuro e duraturo, che tenesse conto delle necessità e divieti imposti dalla realtà.

Il principio di realtà può ritenersi come la base di ciò che è definibile “civile” all’interno della strutturazione di una personalità e nella sua instabilità si rileva anche una falla nel processo di maturazione dell’io, che ne risulta così intaccato in termini di forza e struttura.

Ogni situazione avvertita come difficile e pericolosa ha la capacità di indurre, all’interno del nostro apparato mentale, una regressione a stadi di sviluppo precedenti e il ritorno a un utilizzo maggiore di meccanismi di difesa più primitivi. La condizione da noi vissuta non fa eccezioni. Migliaia sono state le persone che hanno affollato treni e stazioni nella corsa per tornare verso i propri cari, mettendo in atto una negazione degli avvertimenti e delle conseguenze di questo comportamento.

Si è così evinta una problematicità nella capacità di “reggere la situazione”, di cui parlava Winnicott; questa è un’acquisizione di cui l’individuo si rende capace col tempo, grazie all’introiezione del sommarsi delle esperienze positive nel periodo infantile, in cui era la madre a sostenere i momenti di tensione del e per il bambino. Queste introiezioni, che diventano così parte dell’io e del mondo interno, permetteranno all’individuo, una volta divenuto adulto, di essere in grado di reggere la situazione per qualcun altro senza risentimento.

In un’ottica dinamica, osserviamo come le routine possano offrire un senso di sicurezza al sentimento di continuità del sé e valutiamo le difficoltà incontrate dalle persone ad abbandonare abitudini non in linea con le disposizione del ministero della pubblica sicurezza, quali la passeggiata al parco o la corsetta in città, come una fragilità dell’io che non può fare a meno di munirsi di tali espedienti per mantenere un’illusione di tenuta.

Allo stesso modo gli slogan e i motti ripetitivi creati durante questo periodo, come ad esempio “andrà tutto bene”, “uniti ce la faremo” ecc., sono sorti con lo stesso criterio difensivo.

Parole e modi di dire ricorrenti, di cui tutti abbiamo fatto esperienza nella nostra esistenza, sembrano sorgere in momenti in cui sentiamo minacciata la nostra identità e svolgere una funzione di ponteggio a sostegno del sé. Così, le espressioni sopracitate sono diventate motti emotivi a cui legarsi per farsi forza, testimoni non solo di un vacillare individuale, ma dell’intera identità nazionale messa a dura prova dalle implacabili conseguenze portate a livello sociale, lavorativo ed economico dal virus.

Inoltre, la lettura transferale, attraverso cui possiamo commentare le modalità di risposta alle indicazioni e agli obblighi delle autorità, rileva ancora una volta la presenza di conflitti inconsci insoluti.

La disobbedienza manifestata verso l’autorità e una certa coloritura erotica, mai espressa prima all’interno di alcuni post sui social media nei confronti del presidente del consiglio Giuseppe Conte, rimandano a situazione edipiche irrisolte.

Configurazioni siffatte conducono, inevitabilmente, alla mancata integrazione di un super-io all’interno della strutturazione psichica che funga da guida nel processo di assunzione di responsabilità di sé stessi e delle proprie condotte, ma all’instaurarsi, invece, di un superi-io avvertito come duro e inflessibile, poiché immaturo nell’accogliere i bisogni dell’individuo (Loewald, 1979). A conferma di ciò, inoltre, vi è la constatazione da parte di molti di vivere tali misure precauzionali come punitive piuttosto che di presa in carico nei confronti della propria e altrui salute.

Non per ultima, la corsa ai supermercati, verificatasi ad ogni prima comunicazione su future restrizioni, rivela il venir meno di ciò che Bion definiva “capacità negativa”, un’incapacità di tollerare il dubbio e la frustrazione di fronte alle iniziali e più vaghe comunicazioni, nell’attesa di ulteriori chiarimenti sulla realizzazione attuativa dei provvedimenti, la quale ha sospinto, durante più notti, molte persone a riempire quello spazio creato dal dubbio con scorte alimentari accaparrate affollando le corsie dei supermercati.

Molteplici sono le letture che si potrebbero offrire ai diversi comportamenti presi in considerazione, ma è proprio questa moltitudine di possibilità dinamiche che deve spingere il nostro sistema sanitario e governativo a prendere atto della salute (psicologica) dei suoi cittadini, provvedendo alla possibilità che ogni individuo possa interfacciarsi, nel corso della sua vita, con un professionista della salute mentale.

Momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo, non possono non evidenziare con forza come negli esseri umani giochino un ruolo fondamentale le emozioni e di come comportamenti e decisioni seguano una logica della psiche che non sempre coincide con quella più razionale e comprensibile.

La sanità pubblica ha bisogno di rivolgere lo sguardo verso quelle realtà dove tali misure sono già state avviate e di osservare come ciò abbia radicalmente modificato i dati in termini di spesa pubblica, criminalità e welfare, poiché, parafrasando quanto detto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), non può esservi salute lì dove manchi la salute mentale.

 

“Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus”: intervista a un grande esperto nell’ambito delle neuroscienze, il Prof. Massimiliano Oliveri

Come da più fonti viene messo in luce, l’attuale emergenza Coronavirus, sta suscitando una giustificata paura e ancor di più una risposta di angoscia tra la popolazione, per tutto ciò che la stessa sta stravolgendo e comportando in diversi settori.

 

Solo per citarne alcuni: vita privata, abitudini, modalità di condurre il proprio lavoro e di interagire con l’altro, e paure, paure per le proprie risorse finanziare, per la propria incolumità e per quella dei propri cari, paura di poter contrarre il virus e relative conseguenze.

Ma se la paura da una parte, in questo preciso momento, è legittimata e giustificata, dall’altra parte la stessa interferisce con la buona risposta del nostro sistema immunitario. Scopriamo perché e cosa fare allora attraverso le parole del Prof Massimiliano Oliveri, grande esperto nell’ambito delle neuroscienze.

Chi è Massimiliano Oliveri

Neurologo, Professore Universitario di Neuroscienze Cognitive all’Università degli Studi di Palermo, Massimiliano Oliveri (Fig. 1) si occupa di ricerca nell’ambito della neuroriabilitazione, è CEO di Neurotim, una start up innovativa che fornisce servizi clinici e prodotti innovativi di neuroriabilitazione cognitiva, autore di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali in ambito delle neuroscienze cognitive e inserito nella lista dei top italian scientist.

Emozioni e ragione ai tempi del coronavirus Intervista al Prof Oliveri Fig 1

Fig. 1 – Prof. Massimiliano Oliveri

Al Prof. Massimiliano Oliveri ho voluto proporre il seguente tema:

Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus. Situazione attuale e possibili risvolti futuri.

Il Prof. Massimiliano Oliveri, durante l’intervista, ci spiega come il tema proposto sia in realtà un argomento molto attuale e di forte interesse anche per le neuroscienze per diverse ragioni, per tutto ciò che attiene al controllo delle emozioni e soprattutto emozioni di paura e angoscia che proprio in questo momento sono presenti nella popolazione generale, portate anche dalla condizione sociale di isolamento, dall’essere esposti a tutta una serie di informazioni circa il numero di contagiati e decessi, dalla crisi del sistema sanitario, crisi economiche e finanziarie, ma c’è un altro filone di interesse delle neuroscienze ed è quello relativo al controllo della risposta immunitaria della popolazione, la cosiddetta neuroimmunologia.

Prendiamoli in esame separatamente.

Per ciò che attiene il controllo delle emozioni la strategia migliore da un punto di vista delle neuroscienze e quindi del cervello, è quella di attivare dei meccanismi “prefrontali” ossia di attivare una parte del cervello molto anteriore che è coinvolta in compiti di memoria a breve termine, working memory, pianificazione, strategia, soluzione di problemi.

Tenere impegnata la mente, soprattutto in queste operazioni, specialmente con materiale verbale avente a che fare con parole, lettere o numeri, ci spiega il Professore, contribuisce ad abbassare i livelli di attivazione di regioni più profonde del cervello più associate ad emozioni di paura, come ad esempio l’amigdala. Il suggerimento dunque che giunge dalle neuroscienze è quello di impegnarsi in attività che potrebbero essere anche giochi, i cosidetti “serious game”, ma anche videogiochi, seppur usati con moderazione, che stimolino alla risoluzione di problemi, ed ancora attività come quelle proposte e presenti per intenderci, nella settimana enigmistica (anche digitalizzata).

Per ciò che riguarda invece il secondo aspetto sopracitato, ossia l’aspetto neuroimmunologico, c’è in corso tutto un filone di ricerca molto serio di cui si sta occupando il Professore in questi giorni, che evidenzia la presenza di asimmetrie cerebrali nel controllo del sistema immunitario. Sembrerebbe che la parte sinistra del nostro cervello, quella associata al linguaggio, all’elaborazione matematica o all’esecuzione di gesti, abbia un maggiore controllo sulle risposte immunitarie, guarda caso su quella parte della risposta immunitaria, l’attivazione dei linfociti, che è particolarmente colpita dal Covid-19. Da qui una serie di strategie già testate in precedenza non soltanto su animali ma anche su soggetti umani e tra l’altro testati dalla medicina cinese, che in questo senso è andata molto avanti, e forse non a caso, ipotizza Massimiliano Oliveri, il successo nel trattamento della crisi epidemica in Cina precede quello europeo e non soltanto in termini temporali. La strategia potrebbe essere dunque, quella di potenziare l’attività di regioni dell’emisfero sinistro ancora una volta, come detto prima, con compiti verbali che hanno a che fare con strategie verbali come ad esempio calcoli, lettere, numeri, giochi di memoria.

Questa situazione ci segnerà emotivamente anche quando tutto questo sarà finito?

Anche in questo caso l’ipotesi del Prof Oliveri è che questa situazione possa lasciare una condizione di disregolazione emotiva legata a temi di paure e di angoscia, come ad esempio la paura del contagio che potrebbe avere una lunga coda e sarà compito dei professionisti della salute mentale, sottolinea il Prof. Massimiliano Oliveri, trovare nuove modalità di gestione di queste nuove emozioni. D’altra parte, lavorare su tematiche legate al contenimento dell’infezione, della pulizia, del comportamento del lavaggio delle mani, rischia di creare nuove generazioni di nevrotici-ossessivi; se da una parte si tratta di condotte del tutto adeguate in questo momento, in futuro andranno contenute in una logica di sanità mentale e funzionalità, senza prendere derive eccessive.

Consigli e suggerimenti da un punto di vista delle neuroscienze:

L’intervista si conclude cercando di riepilogare insieme al Professore possibili consigli, attività e strategie da applicare e spendere in questo momento.

Primo suggerimento del Prof. Massimiliano Oliveri è quello di provare a non avere paura attivando le migliori strategie di controllo delle emozioni, quelle che ognuno ha disponibili o farsi aiutare da uno psicologo e psicoterapeuta anche a distanza, attraverso i canali online.

Ci ricorda infatti il Professore, come spiegato all’inizio dell’intervista, che la paura, essendo sotto il controllo dell’emisfero destro, se eccessiva può interferire con la funzionalità del nostro sistema immunitario.

Il secondo suggerimento, infine, è quello di potenziare l’attività delle regioni dell’emisfero sinistro, mediante strategie verbali come: letture, rebus, cruciverba, giochi, videogiochi soprattutto quelli che richiedono l’attivazione di strategie di problem solving.

 

EMOZIONI E RAGIONE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AL PROF. MASSIMILIANO OLIVERI

 

Il tempo e il corpo: il valore dell’ “esperienza incarnata” o Embodied experience nella percezione del tempo

Un recente studio utilizza l’embodied experience per verificare l’ipotesi che, tramite la manipolazione di una stimolazione sincrona o asincrona, si possa alterare la percezione del tempo.

 

Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività.

Questo celebre aforisma, attribuito ad Albert Einstein, ci ricorda come nella nostra vita quotidiana lo scorrere del tempo non sia sempre uguale, bensì costituisca un’esperienza connotata soggettivamente dalle fluttuazioni nei nostri stati interni, come potrebbero esserlo in questo caso la temperatura o le emozioni di cui stiamo facendo esperienza.

L’esperienza cosciente del trascorrere del tempo, immanente nell’attività del nostro sistema nervoso che registra la scansione dello stesso e delle sue variazioni situazionali, ha fatto sì che alcuni autori suggerissero che si potesse palare di embodied time (n.d.t: tempo incarnato o basato sul corpo; Droit-Volet, 2014; Wittman 2014).

Facendo riferimento alla cornice teorica dell’Embodied cognition, si postula che le cognizioni di un soggetto siano influenzate tanto dall’attività della mente quanto dagli aspetti del nostro corpo che traducono il nostro essere-nel-mondo, quali il sistema motorio, il sistema percettivo e la nostra interazione con l’ambiente circostante (situadedness = l’essere collocati nello spazio e nel tempo attuali).

Un esempio, può essere quanto riscontrato dagli studi sugli effetti della Mindfulness, un insieme di pratiche meditative che focalizzano l’attenzione sul corpo, le quali non alterano solamente la consapevolezza circa corpo in sé, ma anche le valutazioni circa lo scorrere del tempo (Droit-Volet & Dambrun, 2019; Droit-Volet et al., 2019); altri studi, hanno evidenziato inoltre come i soggetti che avessero un’alta consapevolezza dei propri segnali corporei (nella fattispecie nel discriminare i propri battiti cardiaci), fossero anche più precisi nella percezione temporale (Meissner & Wittmann, 2011).

Di recente, Droit-volet e colleghi (2020) si sono serviti del paradigma dell’out-of-body illusion, per alterare la percezione di consapevolezza corporea e valutare gli eventuali effetti della stessa sull’accuratezza nella percezione temporale dei soggetti: tale illusione avviene quando vengono fatti coincidere sperimentalmente l’informazione visiva ed un’esperienza propriocettiva congruente con la stessa, tale per cui la logica deduzione alla quale arriva la nostra mente è che l’azione sia stata compiuta sul corpo che essa percepisce come proprio.

Questo paradigma sperimentale è l’evoluzione della celebre illusione della mano di gomma o Rubber Hand Illusion (RHI), più volte citata tra le nostre pubblicazioni; in questo caso, mediante un visore di Realtà Virtuale, il soggetto volge lo sguardo verso il basso, dove si trova il proprio corpo e il proprio braccio, mentre l’immagine che gli viene restituita è quella relativa al corpo di un manichino (posto dietro di lui nella stanza) visto dalla stessa prospettiva in prima persona, sul quale vengono effettuate delle azioni, come in questo caso stimolazioni di diverso genere applicate sul braccio corrispondente (Ehrsson, 2007).

È stato dimostrato in letteratura come l’out-of-body illusion, ovvero la percezione che il corpo del manichino appartenesse a loro stessi, avvenisse più spesso quando la stimolazione osservata sul braccio del pupazzo avveniva in maniera sincrona rispetto a quella esercitata sul braccio reale del soggetto; nella condizione asincrona invece, era presente un mismatch percettivo che contrastava l’insorgere dell’illusione e conseguentemente della credenza che quel braccio osservato fosse il proprio (Petkova & Ehrsson, 2001; Schmalzl & Ehrsson, 2011).

Basandosi sull’ipotesi che l’autoconsapevolezza associata alla percezione senso-motoria siano due fattori critici nella percezione del trascorrere del tempo, l’ipotesi degli autori era che manipolandole sperimentalemente con una stimolazione sincrona o asincrona, vi sarebbero state conseguentemente delle differenze nella percezione temporale dei soggetti.

I quarantasette partecipanti all’esperimento, dovevano pertanto giudicare un intervallo di tempo intercorso tra due stimolazioni presentate sul braccio del manichino, esprimendo verbalmente la stima della durata della stessa in termini di secondi (variabile da 4 a 8 secondi), dopo che fosse stata elicitata o meno l’out-of-body illusion: ogni partecipante è stato cioè sottoposto per tre volte alla stimolazione sincrona (fortemente elicitante) o asincrona (scarsamente elicitante) in ordine randomizzato, chiedendo che venisse espresso il grado di out-of-body experience percepita su di una scala a nove passi da “per niente” a “totalmente”. A seguire veniva mostrata la stimolazione target sul braccio del manichino, della quale si dovesse stimare la durata. Inoltre il tipo di stimolazione poteva essere di natura piacevole, ovvero effettuata con un pennello dalle setole soffici, oppure sgradevole, per la quale si è scelto di utilizzare uno strumento pericoloso come la punta di un coltello affilato.

Gli autori hanno calcolato l’errore temporale standardizzato, come la differenza tra la stima temporale espressa dal soggetto e l’effettiva durata della stimolazione sul braccio del manichino, diviso per la durata effettiva: un errore standardizzato più grande di zero avrebbe reso conto di una sovrastima da parte del soggetto, mentre un valore inferiore a zero indicherebbe una sottostima della durata.

Coerentemente con i risultati presenti in letteratura, anche in questo caso i soggetti riportavano più spesso il successo della out-of-body illusion dopo essere stati sottoposti ad una stimolazione preliminare sincrona, mentre, contrariamente alle aspettative degli autori basati su ricerche precedenti, non si sono riscontrate invece differenze sull’efficacia dell’illusione in presenza dello stimolo piacevole piuttosto che di quello sgradevole. L’intervallo di tempo veniva in effetti valutato come più lungo nella condizione sincrona che non in quella sincrona; infine, quando nel modello venivano presi in considerazione tutti i fattori, l’unico predittore dell’accuratezza circa la durata temporale appena osservata era la forza con la quale il soggetto sentiva la out-of-body illusion (p < .001), dove la valenza dello stimolo e la condizione sincrona o asincrona divenivano non significativi.

I risultati ottenuti dimostrano il ruolo chiave dell’esperienza di embodiment nel modulare la percezione dello scorrere del tempo; studi futuri potrebbero integrare questo paradigma sperimentale con la rilevazione di indici fisiologici come la conduttanza cutanea per verificare l’effettiva risposta emotiva agli stimoli utilizzati, che per esempio sono risultati irrilevanti in questo studio, forse perché non percepiti come realmente spiacevoli. Oppure, si potrebbero raccogliere indici dell’attività cerebrale come ad esempio la risonanza magnetica funzionale (fMRI), mediante la quale in altre ricerche (vedi Ehrsson et al., 2004) si è già ottenuta una misura del successo della rubber hand illusion, rilevando l’attività insita nella corteccia premotoria, che sembra essere il meccanismo neurale mediante il quale le esperienze somatiche vengono attribuite al sé.

 

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