expand_lessAPRI WIDGET

La formazione del Sé nella prospettiva di Heinz Kohut

La sopravvivenza psicologica del bambino e poi dell’adulto richiede la presenza di oggetti-sé che rispondano empaticamente ai bisogni personali. Gli oggetti-sé si formano dalla relazione con gli altri significativi e sono capaci di strutturare il sé in modo coeso ed integrato.

Introduzione

Kohut (1971) elabora una teoria della mente che si allontana gradualmente dall’ambito pulsionale, la sua teoria considera come proprietà motivazionale la realizzazione e la coesione del Sé. Il Sé è concettualizzato come un centro di avvio, di organizzazione e di integrazione delle motivazioni umane.

La motivazione umana fondamentale per Kohut, è raggiungere l’equilibrio e l’autorealizzazione del Sé in termini di coesione interna. Le forze che sottostanno la realizzazione personale sono rappresentate da ideali, ambizioni, valori e talenti personali; affinché la personale identità o il Sé possa vivere l’esperienza della propria soggettività è necessario fare esperienza di rispecchiamento empatico da parte delle figure di riferimento, e al contempo è importante sentirsi appartenente al cosmo umano attraverso la funzione della gemellarità. L’esperienza relazionale con specifici oggetto- sé permette la formazione del personale nucleo strutturale. Ma andiamo a vedere nello specifico la sua teoria.

Le funzioni di oggetto-sé sono esplicitate da persone reali, non da rappresentazioni mentali, e riguardano le funzioni genitoriali di rispecchiamento, idealizzazione e, infine, la gemellarità vissute anche nelle traslazioni terapeutiche. La formazione del Sé nucleare è il perno su cui poi si realizzerà un Sé più maturo e coeso, ciò avviene attraverso un determinato processo chiamato interiorizzazione trasmutante che permette l’instaurarsi della formazione delle strutture psichiche e indica nel modo seguente le condizioni che lo rendono possibile:

  1. Una maturazione adeguata dell’apparato psichico;
  2. Un ritiro degli investimenti idealizzanti dovuto a piccole, non traumatiche, delusioni, che consenta una progressiva e graduale interiorizzazione di singoli aspetti dell’oggetto idealizzato. Quando la delusione è integrale e l’oggetto da onnipotente si rivela impotente, questa interiorizzazione risulta impossibile.
  3. Le qualità che vengono interiorizzate perdono il loro carattere di attributi personali dell’oggetto e assumono sempre più quello delle funzioni che l’oggetto era solito svolgere.

Sono i valori interni, i principi, gli ideali, le mete, le ambizioni e i talenti a strutturare l’identità; il sentire l’appartenenza al genere umano (gemellarità) ad attivarsi e a strutturare il Sé rendendo partecipe alla propria esistenza inserita con altre esistenze. Il tutto dipende dalle risposte affettive avute (oggetti-sé) che a volte continuano ad essere ridondanti  a irretirsi.

Nel 1977 Kohut prende le distanze da Freud, allontanandosi dal concetto di narcisismo primario inteso come investimento libidico del Sé, ma il narcisista secondo la sua prospettiva è colui che ha un esperienza di deficit strutturale e non raggiunge un equilibrio narcisistico adeguato in termini di autostima e accettazione di sé; e le modalità reattive emotive di rabbia, di grandiosità a volte di arroganza, la paura di frammentazione o alcuni disturbi psicosomatici caratterizzano la sua identità, sono squilibri narcisistici che portano alla difficoltà a decentrarsi con l’altro e alla impossibilità di condividerne l’esperienza in modo sano.

La psicologia del Sé: la teoria, la relazione con gli oggetti sé, i processi e la struttura

Kohut concepisce il Sé formato da una struttura interna in tre costituenti (non più bipolare come invece aveva considerato in Narcisismo e analisi del Sé nel 1971) che si formano in funzione alla relazione con i suoi oggetti sé:

  • L’oggetto speculare: ha la funzione di confermare il senso innato di vigore, grandezza e perfezione del bambino (conseguenza di un sano rispecchiamento empatico materno);
  • L’oggetto idealizzante: ha la funzione di farsi ammirare, per cui il bambino può confondersi nella fusionalità, come immagini di calma, infallibilità e onnipotenza (conseguenza dell’idealizzazione solitamente paterna).
  • L’oggetto gemellare: ha una funzione che subentra successivamente, permette un senso di appartenenza.

I tre costituenti del Sé si riferiscono a tre poli:

  1. Il polo delle ambizioni, che si struttura con la funzione oggetto sé rispecchiante o speculare;
  2. Il polo degli ideali, che si struttura con la funzione oggetto-sé idealizzante;
  3. Una zona intermedia dei talenti e delle capacità, che si struttura con la funzione oggetto sé gemellare, alter egoica;

Il Sé in relazione ai suoi oggetti – sé può presentare dei deficit e quindi può essere danneggiato in uno o più poli sopra decritti e vivere tre tipi di traslazioni di oggetti sé vissuti nella relazione terapeutica:

  1. Il Sé danneggiato nel polo delle ambizioni cerca di suscitare risposte di conferma e approvazione da parte dell’oggetto sé (traslazione speculare).
  2. Il Sé danneggiato nel polo degli ideali è alla ricerca di oggetti – sé che voglia accettare la sua idealizzazione (traslazione idealizzante).
  3. Il Sé danneggiato nel polo intermedio nel settore talenti e capacità cerca oggetti disponibili per garantire l’esperienza rassicurante di una sostanziale somiglianza (traslazione gemellare o di alter ego). Questa area nella prima teorizzazione era considerata un sottogruppo della traslazione speculare. E’ una similarità di funzione e di significato.

Il bisogno di sperimentare oggetti sé subisce una maturazione che dura per la vita. A tal proposito Kohut distingue gli “oggetti arcaici immaturi”, che rappresentano la normale esigenza della prima infanzia, oppure sono ricercati più tardi, in modo cronico, nei casi di difetti del Sé, o in modo passeggero, in periodi di particolari tensione da coloro che non manifestano una patologia con gli oggetti sé maturi di cui tutti noi abbiamo bisogno per la sopravvivenza psicologica.

Sono tre i bisogni che l’uomo ha per sostenere il suo Sé:

  1. Bisogno di rispecchiamento e accettazione, corrisponde alla possibilità di avere un oggetto – sé rispecchiante, empatico e speculare;
  2. Bisogno di fusione con la grandezza, la forza e la calma corrisponde alla possibilità che l’oggetto -sé si faccia ammirare;
  3. Bisogno di sperimentare una somiglianza sostanziale, corrisponde alla possibilità di trovare sostegno nella presenza di qualcuno abbastanza simile da comprenderla ed essere compresa.

Il bisogno arcaico dell’oggetto – sé non deriva necessariamente dalla perdita di un oggetto d’amore ma dalla perdita di un’esperienza d’oggetto più matura.

Se il Sé è carente in tutte le risposte di oggetti – sé, la condizione del sé si aggrava e risulta gravemente impoverito. Ecco perché è fondamentale nella concezione kohutiana il concetto di strutture compensatorie, che servono a  sopperire le carenze di oggetti-sé maturi con la possibilità di vitalizzarsi in una modalità non sana (esempio l’uso di sostanze di dipendenza).

La funzione empatica e il rispecchiamento

Una funzione indispensabile del caregiver o dell’oggetto Sé è la funzione empatica e di rispecchiamento, poiché in questo modo si avvia il processo di crescita e maturazione consono alla propria persona. L’empatia è l’immedesimarsi nel mondo dell’altro attraverso l’introspezione vicariante, ossia attraverso la risonanza affettiva che il mondo interno dell’altro suscita, ma per fare ciò è necessaria una grande capacità introspettiva e una rispondenza empatica; attraverso tale comprensione si costruisce una nuova relazione che fornisce esperienze rispecchianti e funzionali per il proprio sé e la propria identità. Kohut, spiega l’importanza funzionale degli “oggetti-Sé” indispensabili per tutta la vita e asserisce che a seconda delle qualità delle interazioni tra il Sé e i suoi oggetti nell’infanzia (relazioni Sé/oggetto Sé) esso emergerà come una struttura solida e sana oppure più o meno gravemente danneggiata (Kohut, 1978). Il primo “oggetto Sé” (oggetto speculare o rispecchiante) esperisce alla funzione empatica, solitamente materna, e al bisogno narcisistico di ricevere conferme alla propria onnipotenza esso struttura il senso di vigore e grandezza del bambino.

Identità e carenza idealizzante

L’“oggetto Sé” idealizzante (imago parentale idealizzata) esplica la funzione fusionale che il bambino ha solitamente  nei confronti del padre in particolar modo nella fase edipica. Tale fusione, si riferisce alla possibilità del bambino di confondersi e ammirare la figura paterna, attribuibile a immagini di calma e onnipotenza per costruire fiduciosi ideali- guida indispensabili per la propria sicurezza. Tramite la cosiddetta “interiorizzazione trasmutante” la funzione di tale oggetto contribuisce a creare struttura interna e serve a fornire il senso di fiducia e sicurezza interna per tutta la vita. In particolare, negli stati di angoscia diffusa, il Sé non ha avuto la possibilità di fondersi con il proprio “oggetto- Sé” onnipotente ed ha sofferto, afferma Kohut, il trauma dell’emotività condivisa.

Quando la relazione con l’oggetto idealizzato è stata disturbata molto precocemente, si determina una vulnerabilità narcisistica diffusa con l’incapacità di mantenere un adeguato equilibrio psico-fisico. Quando le vicende traumatiche nella relazione con l’oggetto sono intervenute successivamente, ma ancora nella fase pre-edipica, si ha difficoltà nell’incanalamento degli impulsi e la sintomatologia è spesso legata alla sfera sessuale (prime teorizzazioni). Quando le delusioni traumatiche sono intervenute nella fase edipica, si assiste ad un bisogno continuo di un oggetto da idealizzare e da cui ricevere approvazione. Nello sviluppo normale gli investimenti idealizzanti vengono progressivamente interiorizzati e si trasformano via via in una stabile idealizzazione del Super-Io, dei valori e dei principi che ne costituiscono i contenuti. Nei disturbi narcisistici le caratteristiche della traslazione idealizzante sono in qualche modo correlate al periodo in cui il processo di sviluppo del narcisismo idealizzante si è bloccato in seguito all’esperienza traumatica con l’oggetto-sé idealizzato. Anche gli “ideali” sono fonte di fiducia e sicurezza e calma. Durante l’infanzia il Sè angosciante cerca di fondersi con figure idealizzati (l’imago paterna) che servirà per favorire la tranquillità interna.

La vicinanza, il contatto ai corpi rilassati quando ci tenevano in braccio permettono un sostegno sano. Il bambino ha la possibilità di sperimentare il calore, la gioia condivisa, l’esibizione grandiosa e al contempo un atteggiamento realistico che tiene conto delle limitazioni del bambino attraverso la frustrazione ottimale, che non significa traumatica ma non empatica.

L’identità o il Sé nella sintomatologia, l’oggetto- sé arcaico caratterizzante un aspetto del Sé

I comportamenti sintomatici vanno ricondotti a quei bisogni arcaici non soddisfatti, droga e alcool sono probabilmente oggetti arcaici non separati da sé, fusi con esso per sopperire una carenza di oggetto- sé. Tali oggetti arcaici sottolineano il fallimento degli stessi, essi costituiscono la compensazione dei vuoti del Sé. La stigmatizzazione o il giudizio accentuano la rimozione dei bisogni che ne sono all’origine e, impedendone l’espressione, li rende così definitivamente non elaborabili. La comprensione della funzione protettiva della relazione con gli oggetti arcaici, riguarda la possibilità di evitare le angosce di disintegrazione. Le manifestazioni sintomatiche, permetteranno ai bisogni narcisistici di affiorare e di trovare nella relazione terapeutica una nuova possibilità di evoluzione. I deficit strutturali bloccano queste persone a configurazioni arcaiche del Sé grandioso oppure a oggetti arcaici sopravvalutati e investiti di libido narcisistica (fissati e non integrati). A differenza dello psicotico e dei casi limite, i pazienti narcisistici hanno raggiunto un Sé coeso e hanno costruito oggetti arcaici idealizzati coesivi, quindi la minaccia verso una disintegrazione del sé arcaico non è irreversibile come nei casi di psicosi.

L’identità, una seconda possibilità di esistenza: “Il Sé si esprime e matura nelle traslazioni analitiche”

Kohut, stimolato indubbiamente dalla conoscenza clinica del momento, amplia il concetto direi di persona, la umanizza, cerca di comprendere la soggettività e la formazione della sua struttura personale. Attraverso la sua esperienza personale e la sua acutezza clinica azzarda tale ambiziosa teoria che contribuisce a rendere più ottimistica la visione dell’uomo e a darli una nuova possibilità di esistenza.

Le traslazioni terapeutiche e l’empatia come strumento terapico, offrono alla persona una nuova possibilità esperienziale e relazionale. Nel contesto terapeutico il vivere nel qui ed ora i processi traslativi, attraverso il terapeuta come funzione di oggetto sé offre una nuova possibilità di strutturazione del sé.

Dalla Cura Psicoanalitica di Heinz Kohut: l’esperienza mi ha insegnato come sia errato guidare il paziente all’analisi di traumi precoci…il punto cruciale dello sviluppo successivo, quando per la seconda volta il Sé ha ricercato quelle risposte “da persone reali ” (o esperienze) che avrebbero rafforzato la sua coesione, viene rivissuto nelle decisive traslazioni che hanno luogo in analisi ed i processi di elaborazione così avviati determineranno la formazione di un Se’ strutturalmente completo e coeso. (Kohut, 1984)

La relazione terapeutica permette una nuova visione della propria identità, più strutturata e consapevole di chi siamo. Fondamentale al fine di costruire un sé sano è l’armonia di base tra il Sé e i suoi oggetti-sé. In secondo luogo devono verificarsi da parte dell’oggetto sé alcune carenze (che Kohut identifica  nelle risposte di empatia inadeguata) di grado non traumatico, la cosiddetta chiamata “frustrazione ottimale”. E’ in realtà questa una sequenza bifasica di eventi psicologici della prima infanzia che si ripetono un infinite di volte e comportano delle conseguenze:

  1. La formazione della struttura attraverso un processo chiamato interiorizzazione trasmutante;
  2. Prepara un cambiamento molto significativo nelle relazioni Sé/oggetto sé: si tratta del passaggio graduale da un sé che per sostenersi dipende da modelli arcaici di rapporto nella sfera narcisistica, in particolare da fusioni con l’oggetto sé speculare, fusioni con l’oggetto sé idealizzato e fusioni gemellari (fusioni con oggetto sé vissuto come alter ego del sé) ad un sé che diviene gradualmente capace di essere sostenuto, per la maggior parte del tempo, attraverso la risonanza empatica da oggetti sé presenti anche nella vita adulta. Per poter guarire con la psicoanalisi il paziente deve essere capace di assumere dentro di sé l’analista come oggetto – sé, riattivando quel gruppo di esperienze interiori chiamate “traslazioni oggetto- Sé”.

Il Sé che soffre di una nevrosi da conflitto, o di un disturbo narcisistico della personalità o del comportamento, è un individuo cui il sé residuo è ancora potenzialmente alla ricerca di oggetti sé che li diano risposte adeguate. La parte del sé residua può essere rimossa o scissa e può essere alla ricerca di oggetti sé che rispondano in modo adeguato.

Secondo la psicologia del sé quindi l’essenza della guarigione psicoanalitica risiede nella nuova capacità del paziente di identificare e trovare oggetti – sé appropriati, sia speculari che idealizzabili, quando essi si presentano nel suo ambiente reale e di essere sostenuto da essi. L’analisi quindi permette l’acquisizione di una struttura psicologica più solida; questo però non la rende indipendente dagli oggetti sé ma accresce la capacità del Sé di usare oggetti – sé per sostenersi, nonché la libertà di ricercare oggetti sé più maturi. Quindi durante la traslazione terapeutica si ha una riattivazione delle strutture arcaiche che Kohut chiama regressione, senza il pericolo di una frammentazione (come invece avviene nei casi di psicosi).

E’ un lavoro delicato in cui si attivano processi che si alternano a volte si confondono, ma il fine ultimo è la coesione e il sentirsi in diritto di esistere come persone in un contesto appartenente al genere umano di persone se pur diverse.

L’obiettivo del trattamento è la riabilitazione delle strutture imperfette o indebolite del Sé. Questo è possibile solo mobilitando i bisogni arcaici, rimasti insoddisfatti perché rimasti privi di risposta e per questo profondamente rimossi o scissi dal settore centrale della psiche.

E’ questo un tentativo di Kohut di dare delle risposte concettuali che partono dalla clinica e ciò che avviene nel processo analitico in cui per l’appunto si attivano delle traslazioni che vanno comprese e supportate. E’ una psicologia che si integra con altre psicologie, “la relazionale” e “l’intersoggettiva in cui viene ripresa ed ampliata la dinamica inconscia che spesso irrigidisce i processi mentali”.

Conclusioni

La sopravvivenza psicologica del bambino e poi adulto richiede un ambiente psicologico specifico, la presenza di oggetti sé che rispondano empaticamente ai bisogni personali. Gli oggetti sé si formano dalla relazione con gli altri significativi, sono funzioni esterne e reali capaci di strutturare il proprio sé in modo coeso ed integrato in termini di equilibrio narcisistico e autostima e struttura coesa. Gli “altri” reali sono necessari per creare un senso di onnipotenza sana e conferma della propria autoefficacia (tramite il rispecchiamento) per rafforzare  un senso di sicurezza per affrontare la vita con fiducia e creatività. Tale processo di integrazione comincia sin dalla nascita e gli oggetti sé servono per costruire strutture interne per un equilibrio narcisistico in termini di autostima e accettazione di Sé. Il Sé autonomo, tuttavia non è una replica di oggetti Sé, ma da una possibilità di avvio e autorealizzazione per la propria identità alla ricerca di oggetti sé maturi.

 

Le origini della teoria dell’attaccamento

Bowlby nelle sue teorizzazioni parla della fame del bambino per l’amore e la presenza della madre e definisce il comportamento di attaccamento come un modo di agire che si presenta in un individuo che consegue o mantiene una vicinanza nei confronti di un’altra persona, identificata chiaramente e ritenuta in grado di riuscire ad affrontare le diverse situazioni ambientali in modo adeguato.

 

I primi studi di Bowlby furono sull’esperienza di separazione e sulla privazione della madre nei bambini e mostrarono come questi ultimi sperimentavano un intenso dolore rispetto alle separazioni e che, a lungo termine, potevano portare alle nevrosi ed alla delinquenza, sia nei bambini che negli adolescenti, ed alla malattia mentale negli adulti (Holmes, 1994). La teorizzazione di Bowlby, che parla di fame nel bambino per l’amore e la presenza della madre, si discosta dalle descrizioni psicanalitiche della relazione madre-bambino del suo tempo, che vedevano in questo legame un tipo d’amore interessato e volto al soddisfacimento pulsionale (ibidem). Proprio dalla critica di Bowlby alla psicanalisi e dalle scoperte in ambito etologico, prende le mosse la teoria dell’attaccamento.

L’importanza dell’attaccamento deriva sia dagli esperimenti di Lorenz (1989) sui piccoli di oca, dove il legame tra piccolo e madre, o il surrogato della madre, era indipendente dal cibo e prescindeva dal nutrimento, sia dagli esperimenti di Harlow (1958) sui piccoli di scimmie Rhesus che, separati dalle loro madri, vengono allevati da due “madri fantoccio”, una dotata di biberon, l’altra senza biberon ma fatta di stoffa morbida: i piccoli primati mostrarono una preferenza per la madre di stoffa con la quale passavano gran parte del giorno e dalla quale si allontanavano solo per andare a mangiare da quella dotata di biberon. Se l’esperimento di Lorenz aveva dimostrato che il legame è svincolato dal nutrimento, Harlow dimostrò che è possibile nutrirsi senza stabilire un legame (Holmes, 1994).

Grazie all’influenza degli studi sopracitati a lui contemporanei e di molti altri, Bowlby ipotizza una predisposizione biologica nei neonati nei confronti di una persona, basata su una motivazione intrinseca e che, fin dalla nascita, il bambino sia dotato di sistemi motivazionali specie-specifici, ovvero di una serie di comportamenti innati slegati da apprendimenti precedenti attivati da fattori esterni, come l’assenza e il ritorno della figura di attaccamento, e da fattori interni, come la fatica e la sofferenza. Per Bowlby il comportamento di attaccamento risulta essere, dunque, un modo di agire che si presenta in un individuo che consegue o mantiene una vicinanza nei confronti di un’altra persona, identificata chiaramente e ritenuta in grado di riuscire ad affrontare le diverse situazioni ambientali in modo adeguato. Questo comportamento si fa esplicito ogni volta che l’individuo è spaventato, affaticato o malato, e si affievolisce quando si ricevono conforto e cure (Bowlby, 1995). L’attaccamento riveste una specifica funzione biologica che è quella della protezione: esso permette di rimanere nelle vicinanze di una persona che si reputa familiare, pronta e disponibile per venire in aiuto in caso di pericolo (ibidem).

C’è una distinzione da fare, però, tra concetti strettamente connessi tra di loro che sono: attaccamento, comportamento d’attaccamento e sistema dei comportamenti di attaccamento. L’attaccamento è un termine generico che fa riferimento

allo stato e all’attualità degli attaccamenti di un individuo che possono essere divisi in attaccamenti sicuri e insicuri (Holmes, 1994, p.72).

Per comportamento di attaccamento intendiamo una qualsiasi condotta che si manifesta in un individuo per ottenere o mantenere la vicinanza a qualcun altro differenziato o preferito; questo comportamento è attivato dalla minaccia, dalla reale separazione o dall’allontanamento dalla figura d’accudimento e diminuisce attraverso la vicinanza a quest’ultima. I concetti sopracitati, di attaccamento e comportamento d’attaccamento, si basano sul sistema dei comportamenti di attaccamento, dove vengono rappresentati il sé, gli altri significativi e la loro relazione e che codifica lo specifico pattern di attaccamento mostrato.

Una relazione di attaccamento può essere definita sulla base di tre caratteristiche fondamentali (ivi):

  • la ricerca di vicinanza a una figura preferita: il grado di vicinanza dipenderà dalle circostanze e da diversi fattori individuali. Nel cercare la vicinanza, però, si predilige una figura discriminata o un piccolo gruppo di figure;
  • l’effetto “base sicura”: Mary Ainsworth fu la prima a parlare di base sicura per descrivere la sensazione creata dal caregiver per la persona che le si attacca. La base sicura diventa, a sua volta, un trampolino per iniziare l’esplorazione e, quando un pericolo diventa incombente, si ritorna e si cerca nuovamente la vicinanza delle figure di accadimento (Holmes, 1994);
  • protesta per la separazione: Bowlby identificò la protesta come la prima risposta nei bambini alla separazione dai genitori e come la migliore prova per identificare un legame d’attaccamento (ibidem).

Bowlby usa la nozione di modelli operativi interni non funzionali per descrivere i differenti pattern di attaccamento nevrotico (Holmes, 1994). Infatti, oltre ad un tipo di attaccamento sicuro, che deriva dall’interiorizzazione da parte del bambino di un modello operativo interno che comprende una persona che si prende cura di lui, sensibile e affidabile e una rappresentazione di sé come degno di amore, esiste anche un tipo di attaccamento insicuro che porta il bambino a vedere il mondo come un posto pericoloso e a considerare se stesso come non degno di amore (ibidem). Questo tipo di attaccamento insicuro deriva da un tipo di caregiver rifiutante o imprevedibile e le due strategie di base utilizzate in questo caso sono l’evitamento o l’adesione, che porteranno ad un tipo di attaccamento insicuro evitante o insicuro ambivalente.

Sarà, però, la Ainsworth a descrivere queste categorie per la prima volta, arricchite poi dalla Main (Main, Kaplan & Cassidy, 1985) e altri autori come Sroufe (1983). Mary Ainsworth, allieva di Bowlby, partendo da alcune ricerche svolte negli Stati Uniti e in Uganda sulle interazioni tra madre e bambino, ideò la Strange Situation, una tecnica che serve a misurare l’attaccamento del bambino, basata sull’osservazione sistematica dell’interazione del bambino con il caregiver in un ambiente strutturato. La Strange Situation si pone come obiettivo quello di intensificare, oltre che attivare, i comportamenti di attaccamento nel bambino, mettendolo in una condizione di stress moderato, che aumenta nel corso dell’osservazione. L’aggettivo attribuito alla prova “strange” sta proprio a significare che l’ambiente non risulta essere familiare (si tratta di un laboratorio) e che, in aggiunta, il bambino si trova in presenza di una persona a lui estranea; la situazione prevede nel corso dell’esperimento una serie di separazioni e ricongiungimenti durante otto episodi in un ordine prestabilito (Santrock, 2013). Grazie all’osservazione in questo specifico setting, è possibile arrivare alla classificazione dei diversi tipi di attaccamento, prendendo come riferimento la funzione della base sicura di aprire il bambino all’esplorazione, le risposte del bambino all’estraneo e alle continue separazioni e riunioni e, infine, la qualità del gioco e dell’esplorazione. Si rilevano, in questa maniera, tre tipi diversi di attaccamento: quello sicuro, quello insicuro evitante e quello insicuro resistente (Main, 2008; Santrock, 2013). Solo successivamente la Main aggiunse un quarto tipo di attaccamento denominato disorganizzato (Main & Salomon, 1990).

 

Il setting terapeutico negli interventi di tele-psicologia durante l’emergenza covid19

L’emergenza coronavirus ha inevitabilmente compromesso la pratica con la quale le normali attività psicologiche si pongono nei confronti degli utenti. Che si parli di realtà lavorative, associative, pratiche mediche o ludiche, il distanziamento sociale imposto dalla diffusione del virus e prescritto dalle autorità ha portato alla luce tutti i limiti di una gestione basata sulla vicinanza e sul rapporto umano, gestione particolarmente affine a determinate pratiche psicologiche.

 

Quando si parla di psicologia, che ci si riferisca alla psicoterapia o a colloqui di supporto psicologico, ci si approccia ad un mondo fondato sul rapporto con il paziente / utente e sull’alleanza terapeutica. Questi aspetti sono fondamentali per la buona riuscita di un qualsivoglia intervento che sia esso di breve o lunga durata. L’ alleanza terapeutica è legata indissolubilmente alla buona pratica psicologica e, a prescindere dai differenti approcci e dalle varie forme di intervento, il distanziamento sociale pare creare un vero e proprio muro tra le parti in gioco.

A fronte di questa condizione e considerando la situazione di estrema difficoltà gli operatori del settore si sono trovati a dover somministrare interventi di psicologia d’emergenza. La richiesta attuale è la seguente: squadre di soccorritori e/o lavoratori del campo sanitario o di pubblica sicurezza o di gestione di protezione civile si trovano sovraccarichi emotivamente e psicologicamente. Il personale è ridotto e la richiesta è molta quindi tali squadre sono impegnate al massimo delle possibilità per far fronte alla pandemia. Alla quotidianità degli interventi di soccorso e aiuto si somma il crescente numero di interventi per Covid19, che per la loro natura innovativa e imprevedibile aumentano sensibilmente la soglia di stress individuale incrementando il rischio per i soccorritori di sviluppare problematiche psicologiche con conseguenze drammatiche per il loro futuro. Come rispondere a tali richieste mantenendo il distanziamento sociale? In questo caso l’unica soluzione è attuare interventi da remoto, utilizzando piattaforme online o tramite telefonata. Nel caso specifico in cui mi sono trovato ad operare la piattaforma online è risultata particolarmente versatile e adattabile al contesto dell’intervento.

Quando si opera in psicologia d’emergenza solitamente non vengono forniti servizi di psicoterapia e terapia a medio o lungo termine, ma si attuano singoli interventi specifici che servono ad abbassare la soglia di stress e aiutano a metabolizzare l’accaduto. Questi interventi solitamente comprendono un incontro con un’utenza massima di 4/5 persone per una durata media di 2 ore e mezzo e servono ad abbassare sensibilmente l’opportunità di sviluppare in futuro episodi di stress acuto o patologie correlate allo stress quali per esempio il DSPT. Chi opera nel campo della psicologia conosce l’importanza di un fattore essenziale: il setting terapeutico. Trovandosi ad operare da remoto si ha il controllo su quasi tutta la procedura e per alcuni aspetti, quali la capacità di dialogo tra psicologo-assistente e la possibilità di condurre l’intervento, il setting a distanza diventa quasi uno strumento sorprendentemente migliorativo, se non essenziale della pratica. Il problema però rimane lo stesso, come gestire a distanza un setting terapeutico casalingo o improvvisato? Abbandoniamo l’idea del safe-place dove discutere senza venire interrotti, senza distrazioni o rumori; l’intero ambiente è sicuro proprio perché controllato nei minimi dettagli dai conduttori, il cui unico scopo è indagare il vissuto dell’utente e aiutarlo in questo difficile momento. Tutto questo scompare e ci si trova improvvisamente ad avere a che fare con le persone nell’intimità della loro abitazione (il più delle volte) o in luoghi pubblici improvvisati (per fortuna più raramente). Questo limita non solo la capacità dei conduttori di svolgere l’intervento ma pone un limite altrettanto rilevante al raggiungimento di quella condizione di safe-place che è requisito basilare per una corretta fruizione di un intervento psicologico da parte degli utenti. Essi si trovano infatti nel salotto di casa, accanto le fotografie di famiglia, oppure in camera da letto, luogo intimo per eccellenza, con la costante minaccia di essere disturbati dal telefono, dai figli o da altri parenti che passeggiano nell’abitazione. Perché non dimentichiamo che, se la maggior parte degli utenti sono operatori costretti al lavoro, in questi giorni di isolamento forzato, molto spesso i loro famigliari invece sono costretti tra le mura domestiche e quindi si moltiplicano le probabilità di essere disturbati anche involontariamente dai coinquilini che condividono volenti o nolenti l’abitazione con la persona sottoposta all’intervento psicologico a distanza.

Come gestire il setting? Quali sono i limiti e/o le possibilità di tale situazione? Il limite più manifesto di questo setting è l’impossibilità da parte dei conduttori di gestire completamente l’ambiente in cui l’intervento viene somministrato, di conseguenza viene perso parte del controllo che solitamente viene attuato al fine di costruire e co-costruire con l’utente un luogo sicuro e privo di distrazioni che permetta di scorrere indisturbati, concentrandosi completamente sugli individui e sull’andamento dell’intervento stesso. Vero, si tratta di un limite importante ma la psicologia deve adattarsi e trovare nuove soluzioni anche a costo di cambiare la sua pratica e di accettare di cedere parte del controllo alla casualità degli eventi. Una possibilità emersa durante questi interventi di tele-psicologia è l’eventualità che la persona riesca a trovarsi maggiormente a suo agio proprio perché tra le mura domestiche. L’eliminazione del setting terapeutico da un certo punto di vista diluisce l’immagine pregiudiziale dell’intervento psicologico che solitamente accompagna il soggetto e lo scoraggia dal partecipare attivamente (o dal non partecipare proprio) all’intervento. Da questo punto di vista quindi si può affermare che le persone si sentono più motivate a partecipare sia in termini numerici che qualitativi. Parlare e discutere a distanza, dalla propria casa, per alcuni è un incentivo alla partecipazione e questo spesso risulta in un sensibile aumento del tempo trascorso durante gli interventi. Questo chiaramente non vale per tutti: chi opera nel campo psicologico sa benissimo che ogni persona reagisce e si comporta in modo diverso sulla base dei propri vissuti e dei costrutti biografici quindi per alcuni un “setting disturbato” o comunque non asettico può creare dei problemi.

Come risolvere in questi casi tale problema? Se è vero che alcune persone si sentono a proprio agio tra le mura domestiche, è vero anche che l’importanza di un luogo neutro e condotto da professionisti trascende dal semplice “sentirsi a proprio agio” e permette di attuare l’intervento in un modo standardizzato (per quanto possibile) ed efficiente. In questo momento, come già detto, è necessario attuare un piano organizzativo che permetta la fruizione di interventi di psicologia d’emergenza al personale che si trova a lavorare quotidianamente nell’emergenza Covid19. Stiamo parlando principalmente di soccorritori e personale sanitario, forze di polizia, forze armate e personale di protezione civile nonché lavoratori di settori specifici (spesso dimenticati) che si trovano ad operare nel settore. Facendo queste persone parte di organizzazioni / istituzioni potrebbe essere interessante riuscire a stabilire un luogo idoneo da parte di tali organizzazioni / istituzioni adibito al setting terapeutico. Tramite il consiglio di esperti sarebbe utile creare una stanza-setting all’interno delle varie strutture sanitarie, governative o associative dove il personale, collegandosi da remoto, possa fruire liberamente del servizio. In questo modo le persone potranno scegliere, anche sulla base della disponibilità personale, quale setting preferiscono. Chi possiede una abitazione grande o tranquilla potrà usufruire del servizio direttamente tra le mura domestiche, chi invece non è in grado di permettersi un setting di questo tipo potrà fare affidamento sulla stanza-setting predisposta dalle autorità / organizzazioni. Per quanto riguarda la pratica psicologica, e non solo, dobbiamo fare i conti con la possibilità che questa emergenza si prolunghi (magari con modalità di restrizione diverse) per un periodo di mesi se non addirittura di anni e sarebbe da irresponsabili evitare di prepararsi per interventi da remoto a lungo termine. Istituire un luogo e adibirlo a setting a distanza credo sia un punto necessario per iniziare a fornire un servizio al personale coinvolto nell’emergenza che sia il più democratico possibile. Sotto le indicazioni dei professionisti del settore, si può arredare in modo semplice e funzionale un safe-place che abiliti la somministrazione di interventi di psicologia d’emergenza, pratica necessaria per permettere al personale impiegato di continuare a lavorare in sicurezza fisica e psicologica, promuovendo al tempo stesso la cura del benessere mentale.

 

Discriminazione sessuale e abuso di sostanze

Sembra che chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali. A cosa è dovuto? La teoria del minority stress.

 

I Disturbi da Uso di Sostanze interessano circa 20 milioni di adulti negli Stati Uniti (Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2018) e includono i disturbi da uso di alcol (AUD), da uso di sostanze (DUD) e da uso di tabacco (TUD; APA, 2013). Questo genere di disturbi ha un impatto significativo sulla mortalità negli Stati Uniti, nonché dei costi elevati per i familiari, costretti il più delle volte a pagare cure dispendiose, centri di recupero ed essere soggetti a furti da parte del parente con una dipendenza (Whiteford et al., 2015).

Chi ha un orientamento sessuale o un’identità di genere non maggioritario, ovvero le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender – o transessuali –, queer, intersessuali e asessuali) ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali, anche nel caso in cui le caratteristiche socioculturali e demografiche siano le medesime (Kerridge et al., 2017). In particolare, chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha maggiori probabilità di avere una diagnosi di AUD (Allen & Mowbray, 2016), una di TUD (McCabe et al., 2018) e una di disturbo da uso di marijuana (McCabe et al., 2009).

Il minority stress è la motivazione più scientificamente fondata a sostegno di questa differenza nell’abuso di sostanze tra le minoranze sessuali; questo è dovuto principalmente al fatto che le minoranze sessuali sono sottoposte a un numero significativamente maggiore di fattori di stress cronici nel corso della vita. I fattori di stress cronici comprendono pregiudizio, discriminazione, stigma relativo all’orientamento e/o all’identità di genere o la paura di subire discriminazioni dalla società (Meyer, 2003).

Alcune ricerche condotte di recente, hanno evidenziato che l’abuso di sostanze, correlato a un orientamento sessuale e/o un’identità sessuale non maggioritaria, varia anche in base all’età anagrafica: le esperienze di discriminazione di individui appartenenti a minoranze sessuali giovani possono infatti essere differenti da quelle dei soggetti più anziani (Hammack et al., 2018).

A questo proposito, il presente studio (Evan-Polce et al., 2020), si è posto l’obiettivo di indagare la correlazione esistente tra età anagrafica, orientamento e/o identità sessuale e AUD, TUD e DUD. Il campione, composto da 2375 soggetti, includeva individui eterosessuali, omosessuali e bisessuali.

I risultati hanno mostrato che la discriminazione sessuale era più evidente durante la prima infanzia, ma riportava un’associazione statisticamente significativamente con AUD, TUD e DUD solamente in età più avanzata. Le correlazioni più significative tra abuso di sostanze e orientamento sessuale sono state riscontrate tra i 24 e i 40 anni per l’AUD, tra i 32,5 e i 42,9 anni per il DUD e tra i 39,3 e i 43,2 anni per il TUD. Coloro che venivano discriminati per il loro orientamento sessuale intorno ai 30 anni di età avevano una possibilità 2,1 volte superiore di abusare di alcolici rispetto a coloro che non venivano discriminati e agli eterosessuali (Evan-Polce et al., 2020).

In conclusione, lo studio condotto dimostra che è tuttora presente una forte correlazione tra discriminazione sessuale e abuso di sostanze e di alcolici, in particolare per i giovani adulti, sottolineando il rischio psicologico dello stigma sociale, purtroppo ancora duro a morire.

 

Gli effetti della ruminazione depressiva

Quali sono gli effetti che la continua ruminazione produce sull’individuo? L’attenzione tende a focalizzarsi sulle perdite passate e sugli errori commessi portando a fare paragoni e confronti negativi tra sé e gli altri e ad emettere giudizi svalutativi nei propri riguardi. Si verificano difficoltà nella presa di decisioni e nel problem solving, domina il pessimismo, si riscontrano scarsa flessibilità cognitiva e difficoltà interpersonali e tutto ciò concorre a mantenere ed incrementare l’umore negativo.  

 

Una volta attivata, la ruminazione depressiva produce conseguenze sia a livello cognitivo che emotivo e comportamentale. L’individuo è indotto in uno stato emotivo negativo caratterizzato da senso di scoraggiamento, persistente evitamento delle situazioni ed utilizzo di domande afinalistiche come “perché mi accadono solo cose negative? Perché mi sento sempre così triste? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” (Watkins, 2016).

Livello cognitivo

A livello cognitivo la ruminazione comporta: scarse capacità di problem solving, riduzione della concentrazione, distorsione degli schemi di giudizio, indebolimento della performance cognitiva ed aumento dello stress (Lyubomirsky e Tkach, 2004).

Riguardo la capacità di problem solving, nella ruminazione si è indotti a porsi domande generali ed astratte piuttosto che quesiti specifici e concreti e ciò, oltre a ridurre la facoltà di trovare soluzioni pratiche, aumenta la percezione di senso di impotenza e la sensazione di essere “senza speranza” (Watkins e Barcaia, 2001).

Rispetto all’abbassamento della performance cognitiva, collegata alla ridotta capacità di concentrazione, questa può interferire con lo svolgimento di prestazioni lavorative e più in generale con lo svolgimento di attività quotidiane. Ciò avviene in quanto i pensieri ruminativi tendono ad intrudere nelle occupazioni che si stanno svolgendo, comportando sia una riduzione della quantità di informazioni che possono essere elaborate in parallelo sia una riduzione nella velocità del compito che ha, come conseguenza, il depauperamento delle risorse attenzionali dirette verso il compito specifico e la diminuzione delle prestazioni cognitive (Baddley e Hitch, 1994).

Passiamo ora alla distorsione degli schemi di giudizio cognitivi (Lyubomirsky e Tkach, 2004) caratterizzati da aumento del ricordo di episodi autobiografici negativi (Lyubomirsky, Caldwell e Nolen-Hoeksema, 1998), intensificazione del pensiero negativo riguardo al futuro (Lavender e Watkins, 2004) e accrescimento delle interpretazioni negative in termini di valutazione globale di sé (Rimes e Watkins, 2005). Il soggetto è portato ad incolparsi per i problemi, si considera incapace, sfortunato e/o mancante di alcune abilità normali. Tali schemi di giudizio, agendo come chiavi di lettura della realtà, hanno l’effetto di produrre costanti esperienze di deflessione del tono dell’umore che riattivano la ruminazione in un ciclo auto-perpetrantesi.

Infine un ultimo effetto del pensiero ripetitivo a livello cognitivo è l’aumento dello stress, a sua volta correlato a problemi di salute fisica. Prolungando infatti l’arousal psicologico e fisiologico che accompagna lo stress si produce un’elevata attivazione del sistema autonomo, in particolare della pressione arteriosa, che, prolungando le emozioni negative, incide sul livello di stress (Gerin et al., 2006).

Livello emotivo

A livello emotivo la ruminazione depressiva comporta un peggioramento dell’umore, della tristezza, del senso di disperazione ed anche di altre emozioni, come vergogna, colpa e rabbia, soprattutto indirizzate verso sé stessi. La persona tende a sentirsi maggiormente impotente, incompresa e sola ed a questo si associa un peggioramento delle convinzioni negative di sé, del mondo e del futuro, la cosiddetta “triade cognitiva” di Beck.

Piano comportamentale

Sul piano comportamentale l’individuo tende maggiormente ad isolarsi, a procrastinare e ad essere inattivo (Rainone e Mancini, 2018).

L’evitamento nasce dalla volontà di voler meditare sui propri problemi al fine di trovarvi soluzione. In realtà ciò che accade è che, oltre a non intraprendere azioni concrete per la risoluzione di problemi, la ruminazione riduce al minimo gli stimoli distrattori che potrebbero portare ad interrompere tale processo. Ciò ha l’effetto paradossale di portare la persona a concentrare l’attenzione su di sé, mantenendo l’umore depresso ed incrementando la ruminazione che diviene una potenziale causa e conseguenza dell’evitamento (Carver e Scheier, 1981).

Riguardo la riduzione della motivazione e l’inibizione del comportamento strumentale, l’individuo a seguito della focalizzazione sui sintomi depressivi è portato a pensare di non disporre di strategie utili alla risoluzione dei problemi o di non riuscire più a provare piacere nello svolgimento delle attività quotidiane e ciò, di conseguenza, lo spinge a non impegnarsi in attività costruttive ed adattive (Lyubomirski e Tkach, 2004).

Rispetto alle relazioni sociali, la ruminazione può associarsi sia alla tendenza a dimenticare impegni amicali e professionali sia alla difficoltà a prendersi adeguatamente cura della propria persona, con il risultato, in entrambi i casi, di un peggioramento delle abilità di coping e di un aumento del rischio di fallimento che mantiene e peggiora lo stato depressivo (Seligman, 1975). Chi rumina infatti può faticare a rimanere attento in uno scambio relazionale a causa della costante interferenza prodotta dalla ruminazione stessa o può, tramite il suo stile pessimista e lamentoso, generare risposte negative di allontanamento e rifiuto da parte delle altre persone (Papageorgiou e Wells, 2008). Inoltre il timore di essere abbandonati porta a cercare di evitare situazioni sociali, creando un effetto paradosso, per cui si avvera proprio ciò che si teme. Infine la persona, tendendo a sentirsi più responsabile del tono emotivo delle sue reazioni (Nolen-Hoeksema e Jackson, 2001) e prestando molta attenzione ad ogni sfumatura del suo rapporto interpersonale rispetto a possibili pericoli, alimenta la ruminazione stessa.

L’insieme di questi risultati sembra quindi confermare come la ruminazione depressiva sia una strategia disfunzionale di regolazione delle emozioni associata a disfunzioni cognitive, emotive e comportamentali che contribuiscono al mantenimento e all’inasprimento di sentimenti negativi (Daches et al., 2010).

 

Il disturbo dissociativo e l’attaccamento disorganizzato: una possibile relazione

Recenti studi hanno identificato l’esistenza di una possibile relazione tra attaccamento disorganizzato infantile e sintomi dissociativi in età adulta, fondando questa ipotesi a partire dalle analogie riscontrabili tra i due aspetti patologici.

 

Per comprendere la natura di questo legame è necessario definire il concetto di dissociazione come uno stato psichico la cui presenza causa una totale disconnessione tra memoria, attenzione, identità, aspetti che in condizioni non patologiche funzionano a livello sintetico e collaborativo. Freud (1920; 1925)  definiva l’episodio di dissociazione come un meccanismo di difesa che intercorre dopo un evento di particolare impatto emotivo, identificabile, nella maggioranza dei casi, con un trauma che spinge l’Io a distanziarsi dall’evento disgregante per non doverlo affrontare né rielaborare, fin tanto da non riconoscerlo come proprio (negazione) o da ritenere che lo stesso sia mai accaduto (diniego).

Janet dà invece una definizione diversa di trauma, che ben poco ha a che vedere col meccanismo di difesa ipotizzato da Freud. La dissociazione che consegue al trauma viene in questo caso definita come un fallimento della sintesi personale, intesa come adattamento funzionale all’ambiente, che costituisce l’obiettivo principale dell’attività mentale (1889; 1907). Questo fallimento non può venir causato solo dal trauma, ma da qualunque altra situazione ad impatto emotivo particolarmente disgregante, come emozioni violente, malattie, lutti: in ogni caso in cui il meccanismo dissociativo viene messo in azione, ad ogni modo, non si tratta di un meccanismo di difesa dell’Io, quanto di una conseguenza del trauma stesso, quel trauma che provoca il crollo della coerenza dei processi mentali adattivi in grado di garantire il mantenimento di un Sé integrato. La memoria dell’evento traumatico assume in questo frangente uno stato subconscio, e non perché la mente la rimuove in un tentativo di autoconservazione, come sostenuto dalla teoria freudiana, bensì perché la memoria stessa non riesce mai a raggiungere una rappresentazione pienamente conscia, verbalizzata, traducibile in elemento narrativo, rimanendo al contrario imprigionata in una serie di memorie implicite non accessibili alla coscienza (1889; 1907). D’altro canto la possibilità di narrare un episodio occorso in un determinato luogo e momento esplicita il maggior successo della sintesi personale teorizzata da Janet, funzione che proprio dal trauma viene impedita. La mente deve creare ordine e coerenza tra i suoi contenuti: ove fallisca in quest’impresa a causa del trauma anche la sintesi personale vedrà il proprio fallimento, e l’elaborazione mentale resterà allo stato confusionale della dimensione subconscia.

Analogie tra disturbo dissociativo e attaccamento disorganizzato

Le caratteristiche del disturbo dissociativo sono afferenti ad esperienze incongruenti, disorganizzate, spesso instabili, confabulatorie a livello cognitivo, anamnestico. Le medesime caratteristiche si riscontrano nei soggetti con attaccamento disorganizzato, tanto che tra i disturbi è stato possibile parlare di una somiglianza fenotipica. Ciò non significa che alla base dei due disturbi ci siano i medesimi processi eziologici, ma la somiglianza tra attaccamento disorganizzato e disturbo dissociativo rende plausibile l’ipotesi che il concetto di Janet, relativo all’esperienza dissociativa come ad un fallimento della sintesi personale, possa risultare applicabile a processi mentali dissociati osservati nei soggetti adulti sottoposti all’AAI e nei bambini considerati disorganizzati nella Strange Situation (Main e Morgan, 1996). In entrambi i casi si sono infatti rilevati aggressività agita e comportamenti incoerenti con il contesto, e per quanto riguarda gli adulti anche deficit metacognitivi nel monitoraggio del ragionamento e del discorso.

Questo aspetto di mancata integrazione, incoerenza e imprevedibilità potrebbe essere dovuto alla mancata verbalizzazione dell’esperienza traumatica che ne impedisce anche la riorganizzazione e la rievocazione mnestica, la cui origine può venir identificata, sia per la dissociazione sia per l’attaccamento disorganizzato, in un mancato coordinamento integrativo tra memoria implicita e memoria esplicita, relativo a ricordi semantici ed episodi (Liotti, 1999). I bambini con attaccamento disorganizzato, esattamente come i soggetti dissociati di fronte al ricordo dell’esperienza traumatica, sono incapaci di sintetizzare in una struttura mnestica coesa la loro esperienza complessiva con la figura di accudimento, e formano al contrario una serie di ricordi composti da significati separati e inconciliabili (Putnam, 1995). Tale incongruenza mnestica a livello verbale e cognitivo non rappresenta un vero e proprio meccanismo di difesa, quanto un meccanismo di sopravvivenza cui il bambino ricorre per evitare la realtà traumatica, e che si traduce immancabilmente in una rottura primaria dei processi intersoggettivi da cui deriverebbe una vera e propria assenza mentale, una dissociazione dal Sé (Stolorow et al., 1992).

Nel caso dei soggetti con attaccamento disorganizzato vediamo come questo possa essere causato altresì dall’incongruenza dei MOI che il bambino sperimenta attraverso un’interazione genitoriale connotata da aspetti incoerenti e contraddittori: così, se il bambino con attaccamento evitante riesce a predire il rifiuto del genitore e quello con attaccamento ansioso riesce a predirne l’ambivalenza e l’insicurezza, al bambino con attaccamento disorganizzato tale possibilità di previsione è negata dalla presenza di una figura genitoriale disconnessa e instabile. È infatti probabile che in un’occasione il comportamento del caregiver risulti eccessivamente intrusivo o controllante, e in una situazione completamente analoga esso mostri aspetti comportamentali totalmente antitetici. Il bambino, disorientato e confuso da tali cambiamenti, impara così a non fare affidamento sul comportamento del genitore, del quale riflette l’instabilità in una serie di comportamenti contraddittori, scissi e inconciliabili che lo rendono talvolta controllante e iperprotettivo verso il caregiver, e altre volte ostile, scontroso, evitante. Nei casi di maltrattamento la situazione appare ancora più disastrosa: i bambini che ne risultano oggetto non possono esplicitare ricordi in cui stati d’animo come la paura, l’angoscia, la rabbia e il sollievo si succedono drammaticamente sia nel Sé che nella percezione della figura di attaccamento, e le strutture di significato che derivano da queste esperienze sono ancora più incomprensibili e polisemiche (Liotti, 1992; Main e Morgan 1996).

Nello specifico i bambini che non riescono a spiegarsi il comportamento abusante del genitore, si risolvono ad una serie di interpretazioni patologiche che condizionano il loro sviluppo emotivo e cognitivo: così possono, simultaneamente e con la stessa probabilità, ritenersi colpevoli di certi atteggiamenti del genitore, e dunque di meritarli, oppure possono considerare la figura di attaccamento come causa diretta della loro paura, o al contrario possono ritenere se stessi in grado di salvare la figura genitoriale da un pericolo esterno. I MOI tipici di tali contesti evolutivi, anziché apparire coesi ed integrati, sono dunque frammentati in una serie di interpretazioni polisemiche e sconnesse che rendono il bambino vittima, salvatore o aggressore, nel c.d. triangolo drammatico, in grado di ostacolare gravemente la sintesi mentale di un Sé unitario (Liotti, 1999). Questo aspetto della disorganizzazione infantile ha corroborato l’ipotesi che considera l’attaccamento disorganizzato nella prima infanzia come predittore dello sviluppo dissociativo in adolescenza e nell’età adulta. Così il bambino che si sente contemporaneamente vittima e carnefice del genitore potrebbe risultare un adulto il cui Sé appare inconsapevolmente collegato ad aspetti altalenanti tra punizione e accudimento, tra persecuzione e cura: da qui l’origine di microdissociazioni incontrollabili, di esperienze del Sé e del Sé con l’altro non integrate che si sublimano nel disturbo dissociativo (Main e Cassidy, 1988).

Tanto premesso è tuttavia doveroso precisare come il legame tra attaccamento disorganizzato in età infantile e disturbo dissociativo in età adulta non costituisce un automatismo: molti fattori protettivi sono infatti in grado di escludere questa infausta relazione, quali la presenza di una figura familiare di attaccamento diversa e più sicura di quella genitoriale, rapporti extra-familiari funzionali, una comunicazione relativamente libera e sincera con una figura disponibile, la tempestiva presa in cura del caregiver che consenta un recupero dalla disfunzionalità del trauma e della sua sofferenza irrisolta. Questo e altri fattori protettivi sarebbero dunque in grado di consentire, anche in situazioni disorganizzate, un livello di sintesi personale capace di impedire a sua volta la formazione di significati del Sé contraddittori, e dunque dissociati, nell’adulto (Gilbert, 1989; Liotti, 1999).

Conclusioni

Effettuate le dovute precisazioni, sembra che l’attaccamento disorganizzato sia la via prototipica, sebbene non la sola, per la costruzione di ricordi incongruenti che impediscono la sintesi personale del Sé come intesa da Janet, e quindi il legame tra emozioni dolorose e trauma non deve essere considerato necessariamente come una difesa da emozioni dolorose, ma anche e soprattutto come la riaffermazione di significati polisemici e incongruenti concernenti la separazione del Sé con l’altro. Proprio le rappresentazioni del Sé con l’altro che derivano da questo processo si mostrano precoci, instabili, incongruenti, congelate, inflessibili o sin troppo mutevoli, e non alternativamente, bensì contemporaneamente, dando vita a quell’instabilità e a quella mutevolezza patologica tipica dello stato dissociativo.

Secondo questa teoria, le esperienze dissociative quali flashback, depersonalizzazione, amnesia, esperienze extracorporali e vissuti di trance, potrebbero venir intese sia come il risultato di emozioni dolorose e non rielaborate, sia come il fallimento di una sintesi mnestica e cognitiva, quindi della coscienza personale stessa, derivante dalla disfunzione dei processi impliciti nella costruzione dei modelli operativi di attaccamento (Liotti, 1999).

 

Cognitivismo Clinico: proposte di intervento clinico e nuove prospettive in terapia cognitiva- Editoriale

Il 2019 di Cognitivismo Clinico si chiude con un numero che comprende interessanti rassegne, proproste di intervento clinico e nuove prospettive.

 

Il numero si apre con due lavori che si focalizzano sull’efficacia di due noti approcci terapeutici su specifiche patologie. Il primo lavoro di Somma e colleghi, del gruppo del San Raffaele di Milano coordinato dal Prof. Fossati, è una approfondita e accurata metanalisi sull’efficacia della Schema Focused Therapy (SFT) nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). L’articolo utilizza le caratteristiche del DBP come indicatore di outcome primario e la sintomatologia acuta come indicatore di outcome secondario. Nonostante una significativa eterogeneità dei dati viene rilevata un’efficacia elevata della SFT su entrambi gli outcome, supportandone l’utilità clinica per il trattamento del DBP.

Cosentino e Mancini prendono invece in esame l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) come protocollo da utilizzare nel trattamento del disturbo ossessivo- compulsivo (DOC). Gli autori dopo una rassegna della letteratura evidenziano che i dati ad oggi disponibili non sono sufficienti per considerare l’EMDR, utilizzato come intervento unico, un protocollo efficace nel trattamento di tale disturbo. Pertanto essi propongono come integrare l’EMDR nel protocollo di trattamento per il DOC descritto da Mancini (2016) per il quale sono già disponibili dati di efficacia. In particolare gli autori ritengono che l’EMDR può essere utile per desensibilizzare e rielaborare i ricordi delle esperienze legate alla sensibilità alla colpa caratteristica di questi pazienti. L’articolo è supportato da due chiare e interessanti esemplificazioni cliniche.

Perdighe et al. presentano un intervento di dodici sedute basato sulla terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), rivolto a caregiver di pazienti con malattia di Alzheimer, allo scopo di supportare e ridurre il loro disagio emotivo legato allo svolgimento di questo specifico ruolo. Il lavoro nasce da una collaborazione tra la Scuola di Psicoterapia Cognitiva e l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e cerca di favorire l’accettazione della malattia e l’investimento su valori e scopi personali per migliorare la qualità della vita dei caregiver.

Nel lavoro successivo Toso illustra con chiarezza espositiva i recenti progressi raggiunti nelle aree di apprendimento ed estinzione della paura che hanno portato alla formulazione di un nuovo modello concettuale della terapia di esposizione. Tale modello si basa su due punti chiave: 1) l’efficacia è legata alla creazione di nuove memorie antagoniste e inibitorie, piuttosto che, come riportato da vecchi modelli, dalla cancellazione dei ricordi eccitatori di paura. Di conseguenza, 2) la riduzione della paura, all’interno di ogni singola seduta di esposizione, non è di per sé un indice di successo terapeutico, se non associata alla forza e alla recuperabilità delle nuove associazioni inibitorie che si formano e all’efficacia della regolazione neurale sottostante. L’autore illustra, quindi, le caratteristiche del nuovo modello concettuale e come mettere a punto strategie finalizzate a consolidare l’apprendimento inibitorio mediante interventi di tipo comportamentale, farmacologico e di neuromodulazione.

Bisogno et al. dedicano il loro lavoro a sottolineare l’importanza di attuare interventi precoci per il trattamento delle psicosi. È noto, infatti, come la durata di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis, DUP) influenza l’esito del trattamento e quindi, eventualmente, si lega alla cronicizzazione del disturbo. Gli autori descrivono la necessità di un intervento multidimensionale specifico e immediato, illustrando i punti chiave della procedura di ingaggio e assessment rivolta ai pazienti all’esordio, basandosi sull’esperienza italiana di progetti capostipite che mettono in evidenza quanto sia essenziale dotare i servizi di salute mentale di un’équipe multidisciplinare dedicata agli esordi.

Il numero si chiude con un articolo di Mancuso che affronta un argomento attuale, spesso oggetto di dibattiti, legato all’uso della tecnologia nel contesto di cura. In particolare l’articolo affronta il tema della terapia online, come modalità di assistenza psicologica remota che sempre di più si sta diffondendo anche in Italia. L’uso di tecnologie di comunicazione virtuale può essere particolarmente utile per il trattamento di pazienti ritirati o che vivono in situazioni geografiche disagiate, ma presenta evidentemente nette differenze con la terapia tradizionale. L’autore illustra la recente letteratura che descrive i campi di efficacia di tale modalità di intervento, analizza limiti e benefici di esso ed espone anche le problematiche di tipo legislativo che possono ostacolare la fruizione del servizio di terapia a distanza.

 

Il Social Skill Training nel trattamento della schizofrenia: l’esperienza di un servizio pubblico di Reggio Emilia

Il Social Skill Traning lavora sulle abilità sociali, ossia sui comportamenti interpersonali che sono regolati socialmente. La maggior parte degli utenti schizofrenici presentano marcati deficit a questo livello.

 

 Il Social Skill Training è un trattamento di matrice comportamentale, utilissimo per gli utenti psichiatrici che sono trattati in regime ambulatoriale o residenziale. In questo approccio gli utenti svolgono un ruolo attivo e, dopo aver appreso le tecniche, possono essi stessi condurre un gruppo, rinforzando e incoraggiando gli altri utenti che si approcciano per le prime volte a questo metodo. Questo è quanto successo nella Residenza Terapeutica Riabilitativa “Il Borgo” di Reggio Emilia. Dopo un percorso di Social Skill Training durato due anni, un utente  è passato dal ruolo di  partecipante al ruolo di co-conduttore insieme al Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica, che aveva invece il ruolo di conduttore.

Il Social Skill Traning lavora sulle abilità sociali, ossia sui comportamenti interpersonali che sono regolati socialmente. La maggior parte degli utenti schizofrenici presentano marcati deficit a questo livello. Gli studi di questi anni hanno rilevato come la terapia psicofarmacologica da sola non basta per far fronte al deficit di funzionamento sociale, sottolineando l’importanza di sottoporre gli utenti ad un’esperienza di apprendimento o riapprendimento delle abilità sociali. Molte persone che soffrono di disturbi mentali gravi, sono cresciute in ambienti poco supportivi a questo livello, nei quali non hanno avuto la possibilità di apprendere come fare ad esprimere le emozioni, come fare a mantenere la giusta distanza interpersonale, cosa dire e non dire nei vari contesti sociali in cui ci si trova, etc. Altri hanno avuto la possibilità di apprendere quanto elencato, ma il disturbo ha agito a livello cognitivo logorando le abilità apprese. Alla luce di quanto detto risulta semplice immaginare quali possano essere le conseguenze a livello sociale: sperimentazione del fallimento, del rifiuto e della critica. Il circuito delle conseguenze continua, concretizzandosi in un ritiro attivo da ogni forma di interazione sociale e dallo sviluppo di rapporti sociali da parte degli utenti. Il lavoro svolto nella RTR Il Borgo di Reggio Emilia ha coinvolto un gruppo di otto utenti  adulti che sono stati sottoposti all’inizio e alla fine del percorso ad un attento intervento di assessment attraverso l’utilizzo  delle scale Camberwell Assessment of Needs (CAN) ed Healt of the Nation Outcomes Scales (HoNOS). La CAN ha permesso di valutare il livello di consapevolezza da parte degli utenti dei bisogni di salute percepiti in 22 aree di vita, mentre la HoNOS ha permesso di valutare la gravità clinica e il funzionamento sociale attraverso l’esplorazione di 12  aree di vita. Gli outcomes iniziali e finali hanno subito un’evoluzione in positivo, dando una prova in più della potenzialità protettiva dell’intervento in oggetto.

Come si svolge una seduta di Social Skill Training e quali sono le tecniche utilizzate?

Le tecniche utilizzate nel training di abilità sociali sono diverse:

  • il modeling;
  • il rinforzo;
  • lo shaping;
  • l’automatizzazione;
  • la generalizzazione.

Il modeling si riferisce al processo di apprendimento per osservazione; il rinforzo all’approvazione verbale da parte del conduttore e degli altri partecipanti al gruppo, che aumenta la probabilità che quel comportamento venga nuovamente emesso; lo shaping si riferisce al rinforzo di risposte progressivamente più simili al comportamento funzionale desiderato; l’automatizzazione al processo di pratica ripetuta fino a quando diventa automatica; e la generalizzazione alla possibilità di trasferire le abilità apprese nel gruppo di Social Skill Training al contesto di vita reale e quotidiano.

Dopo una fase iniziale di riflessione condivisa sull’utilità di apprendere l’abilità sociale da trattare si prosegue con il gioco di ruolo, ossia nella messa in scena di una situazione sociale inventata che prende spunto da situazioni di vita vera. L’utilizzo di situazioni inventate serve ad evitare l’amplificazione emotiva che potrebbe scaturire dalla messa in gioco di una situazione di vita reale,  ma rimane comunque utile in quanto prende spunto da essa. Gli utenti vengono coinvolti attivamente nei giochi di ruolo dopo aver osservato il conduttore e il co-conduttore in azione; inoltre, tutti i partecipanti sono invitati ad osservare le scene giocate e a dare un feedback positivo o correttivo, ma mai negativo. L’atmosfera che si crea infatti risulta molto fluida ed accogliente, in quanto non sono ammessi atteggiamenti di critica o giudizio.

Quali sono nello specifico le abilità trattate ?

Le abilità sociali trattate sono suddivise in macrocategorie che contengono abilità specifiche. Le macrocategorie sono: abilità di conversazione, abilità di gestione dei conflitti, abilità di assertività, abilità di gestione della vita quotidiana, abilità di amicizia e corteggiamento, abilità di gestione dei farmaci, abilità lavorative e di qualificazione professionale. Ognuna di queste macrocategorie comprende differenti abilità specifiche che vengono trattate di volta in volta nelle singole sedute.

È sempre utile ricordare che l’integrazione dei trattamenti farmacologici e psicosociali è risultata essere la chiave per un maggiore successo terapeutico, ma l’ingrediente segreto che fa funzionare il tutto è l’empatia: dove c’è empatia c’è la competenza relazionale del professionista.

 

Il ruolo del cervelletto nella sindrome depressiva

Diversi studi con utilizzo di neuroimaging stanno rilevando un ruolo del cervelletto e delle sue alterazioni nei processi cognitivi e affettivi, con particolari implicazioni per quanto riguarda i disturbi del tono dell’umore, come la depressione.

 

Il cervelletto è sempre stato studiato per il ruolo che esso ha nei processi motori. Ultimamente la ricerca si sta orientando a capire la funzione che questa struttura del Sistema Nervoso Centrale ha nei processi cognitivi e affettivi, grazie all’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging. In particolare, si stanno sondando le implicazioni che il cervelletto ha nei disturbi del tono dell’umore. Nei pazienti depressi si rileva una ridotta connettività nei circuiti nervosi cerebellari. Tali alterazioni funzionali provocherebbero alcuni sintomi che si manifestano nel corso delle sindromi depressive, quali, ad esempio, l’impoverimento della memoria di lavoro e il rallentamento psicomotorio.

Keywords: cervelletto, sindrome depressiva, impoverimento memoria di lavoro, rallentamento psicomotorio.

 

Il cervelletto è sempre stato studiato per il ruolo che esso ha nei processi motori. Ultimamente la ricerca si sta orientando a capire la funzione che questa struttura del Sistema Nervoso Centrale ha nei processi cognitivi e affettivi, grazie all’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging. In particolare, si stanno sondando le implicazioni che il cervelletto ha nei disturbi del tono dell’umore.

A tal proposito, lesioni a carico dell’emisfero cerebellare posteriore e del verme cerebellare sono frequentemente associate a disturbi cognitivi ed affettivi (Depping e al., 2018). Dal punto di vista cognitivo, si hanno alterazioni nell’ambito delle funzioni esecutive e linguistiche e, nell’ambito affettivo, si ha un processo di disregolazione emotiva, caratterizzato da labilità emotiva, alterazione delle abilità emotive sociali e umore depresso (Hoche e al., 2018).

La stimolazione elettrica dei circuiti neuronali cerebellari produce negli animali da esperimento un incremento dei comportamenti ansiosi e impulsivi (Huguet e al., 2017).

Buckner e al. (2011), attraverso indagini compiute con la risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato che buona parte dei circuiti neurali, che appartengono alla corteccia cerebellare, sono implicati nella psicofisiologia cognitiva ed emozionale.

Altre ricerche (Alalade e al., 2011; Liu e al., 2012; Guo e al., 2013) hanno evidenziato che in pazienti affetti da depressione si riscontra un rallentamento delle connessioni funzionali fra alcune zone della corteccia cerebellare e in alcune vie nervose che collegano il cervelletto alla corteccia cerebrale. Tali alterazioni funzionali sarebbero responsabili di un impoverimento della memoria verbale di lavoro, sintomo che si nota in molti pazienti depressi. In aggiunta, esse sarebbero alla base del rallentamento psicomotorio, che si osserva in molti soggetti nel corso dei disturbi del tono dell’umore (Buyukdura e al., 2011; Bracht e al., 2012; Hyett e al., 2018).

In conclusione, nei pazienti depressi si rileva una ridotta connettività nei circuiti nervosi cerebellari. Tali alterazioni funzionali provocherebbero alcuni sintomi che si manifestano nel corso delle sindromi depressive, quali, ad esempio, l’impoverimento della memoria di lavoro e il rallentamento psicomotorio.

 

Basta un abbraccio! Ma davvero tutti gli abbracci sono uguali? Non per i neonati

Nella nostra cultura gli abbracci, e il contatto fisico più in generale, non sono qualcosa a cui ci apriamo indiscriminatamente, ma veicola l’idea di un legame di conoscenza (e presumibilmente di fiducia) con l’altra persona coinvolta. Come vivono gli abbracci i neonati?

 

A seguito del tragico attentato avvenuto nel 2013 durante la maratona di Boston, Ken E. Nwadike Jr., documentarista americano e attivista per la Pace, ha fondato il movimento Free Hugs Project (n.d.t. progetto abbracci gratuiti), nel tentativo di ridurre gli episodi di violenza durante le proteste e le manifestazioni politiche. L’iniziativa ha presto guadagnato moltissima popolarità. Un abbraccio, seppure offerto da uno sconosciuto, comunica “Tu non sei una minaccia, non ho paura di starti vicino. Posso rilassarmi, sentirmi a casa. Sono protetto, e qualcuno mi comprende”.

Tuttavia, non tutti sono disposti a farsi abbracciare da uno sconosciuto: le motivazioni possono spaziare da una semplice disposizione individuale verso il contatto fisico ad usanze culturali, dal pregiudizio verso l’altro individuo al ragionevole istinto di autoconservazione che ci mette in guardia verso ciò che non conosciamo. Di fatto, nella nostra cultura gli abbracci, così come il contatto fisico più in generale, non sono qualcosa a cui ci apriamo indiscriminatamente, ma veicola l’idea di un legame di conoscenza (e presumibilmente di fiducia) con l’altra persona coinvolta.

La vita dei bambini, specialmente se molto piccoli, rappresenta però una violazione di questo assunto di base; spesso infatti, le neomamme si trovano a dover fronteggiare la miriade di richieste di conoscenti, parenti più o meno alla lontana, se non addirittura perfetti sconosciuti che avanzano la pretesa di toccare, stringere, cullare o baciare il loro bambino, noncuranti dell’effetto che l’incontro con un Altro, estraneo, possa avere sul piccolo. Di fatto, anche la letteratura scientifica presenta delle lacune considerevoli in questo senso e solo di rado ci si è discostati dalla ricerca confermativa circa l’importanza della relazione con il caregiver (Bowlby, 1969, 1977; Sullivan et al., 2011), per mettere invece in luce le potenziali “controindicazioni” rappresentate dal contatto non sollecitato con altre figure che gravitano nella vita del bambino nei suoi primi mesi di vita.

Dal momento che i neonati dipendono quasi interamente dagli adulti per la propria sopravvivenza, le occasioni di contatto fisico, siano esse durante l’allattamento al seno o artificiale, in occasione degli spostamenti o delle interazioni quotidiane sono estremamente frequenti: è stato documentato inoltre come l’essere presi in braccio mentre il genitore cammina abbia un effetto calmante generalizzato sui neonati nei primi mesi, che interrompono quasi subitaneamente il pianto e i movimenti volontari (Esposito et al., 2013). L’abbraccio tuttavia, esula dalle pratiche di accudimento legate ai bisogni fisiologici del bambino, ma si configura come un’espressione di affetto, vicinanza e amore esclusivamente finalizzato alla formazione di un legame emotivo bidirezionale tra il genitore e la propria prole.

Un recente studio condotto da Yoshida e colleghi (2020) ha cercato di verificare empiricamente se l’abbraccio di un genitore fosse distinguibile da quello di un altro adulto, valutandone i diversi effetti, in particolare scegliendo di analizzarne i battiti cardiaci, intesi come riflesso dell’attivazione fisiologica del neonato, così come i movimenti corporei del bambino in risposta alle diverse stimolazioni ricevute.

I recettori cutanei vanno formandosi già tra la 4 e la 7 settimana di gestazione, seguiti dallo sviluppo delle funzioni somatosensoriali (Bremner & Spence, 2017), pertanto i bambini sono naturalmente in grado di apprezzare la differenza tra l’essere semplicemente presi in braccio, l’essere abbracciati o l’essere stretti forte al petto, tre condizioni che i ricercatori hanno scelto di valutare.

Inoltre, si è scelto di condurre l’esperimento coinvolgendo entrambi i genitori, per valutare l’eventuale differenza di genere e verosimilmente delle cure genitoriali, che prevedono primato quasi inconfutabile della madre rispetto al padre, specialmente laddove sia presente l’allattamento al seno nonché della presenza garantita dal congedo di maternità che raramente incontra un corrispettivo paterno che consenta una distribuzione più egualitaria delle cure nei primi mesi. Come ulteriore condizione sperimentale sono state coinvolte delle donne con esperienze pregresse di genitorialità che però non fossero familiari ai bambini, per verificare se il supposto effetto calmante di un abbraccio, permanesse anche in questo caso.

I risultati hanno dimostrato come non vi fossero differenze apprezzabili nelle reazioni dei bambini dai quattro mesi in su quando venivano abbracciati dal padre o dalla madre, registrando una diminuzione nella frequenza dei battiti e un effetto calmante equiparabile; al contrario invece di quanto avveniva nei primi quattro mesi di vita, periodo in cui non vi erano differenze apprezzabili tra il tocco di un genitore o quello di un’estranea e l’unica discriminante nel determinare l’effetto calmante era rappresentato dall’aumento della pressione esercitata sul corpo del bambino (essere semplicemente tenuti in braccio vs. essere abbracciati). Questo risultato è in linea con la maturazione tardiva dell’attività parasimpatica (Eyre et al. 2014; Massin et al., 1997) che spiegherebbe come l’effetto calmante garantito dall’abbraccio di un genitore diventi apprezzabile verso l’età di quattro mesi, mentre fino a quel momento si possa rilevare con chiarezza solo l’effetto dell’attivazione del sistema simpatico ovvero quando la stretta da parte dell’adulto, fosse esso familiare o sconosciuto, superava i livelli di gradevolezza, come nella condizione dell’”venire stretto forte” al petto. Inoltre, l’effetto calmante dell’abbraccio sembra essere bidirezionale, in quanto anche nei genitori è stata riscontrata una diminuzione dell’attività cardiaca quando stringevano il proprio bambino.

Le analisi statistiche condotte sulla qualità dei movimenti dei neonati hanno rivelato come a partire dai quattro mesi, momento in cui l’attività motoria diventa maggiormente autonoma e volontaria, un maggior rilevamento di movimenti della testa, indice dell’attività esploratoria nei bambini, correlasse con una minore diminuzione dei battiti cardiaci e di fatto un minor effetto calmante: i bambini si dimostravano quindi più attivi quando venivano interrotti dall’abbraccio, seppure questi movimenti esploratori presumano, anche secondo la letteratura, la presenza di una “base sicura” costituita appunto dalla madre che li rassicuri abbastanza da consentirla (Ainsworth & Bell, 1970); consistentemente, la presenza della donna estranea inibiva tali movimenti ed i bambini risultavano più concentrati nel guardare la donna sconosciuta oppure nel fissare il punto dove si trovavano i genitori.

Studi futuri potrebbero ampliare i risultati ottenuti valutando altri profili neuropsicologici, come nello spettro Autistico, dove proprio nell’interazione con le figure di accudimento primarie si potrebbero precocemente rintracciare indizi di uno sviluppo atipico (Wan et al. 2019).

 

Al via il “Barometro della Salute Mentale”

 

Roma, 23 aprile 2020. Quale impatto ha avuto il “lockdown” sul benessere psicologico e mentale degli italiani? A oltre quaranta giorni dall’inizio dell’isolamento, comportamenti, consuetudini lavorative, relazioni sociali e legami affettivi hanno subito condizionamenti profondi e mai sperimentati prima, tali da privare ciascuno di noi dei più essenziali e immediati punti di riferimento.

In questo contesto, l’Ordine degli Psicologi del Lazio, in collaborazione con la Facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma e l’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP), lancia Il “Barometro Salute Mentale” (https://salutementaleitalia.it/): un progetto di monitoraggio rivolto all’intero territorio nazionale, basato sul contributo di oltre 1000 professionisti della salute mentale di tutte le regioni d’Italia e finalizzato a fotografare il grado di benessere psicologico della popolazione, durante e dopo l’emergenza legata all’epidemia. Basandosi sugli elementi emersi dalle relazioni di sostegno psicologico e psicoterapeutico, lo strumento restituirà a cadenze regolari un resoconto dell’impatto della crisi sulle persone, con riferimento alle dimensioni affettive, all’atteggiamento nei confronti dell’esperienza in corso e alla visione del prossimo futuro.

Entrando più nel dettaglio, il “Barometro” fornirà tre tipologie di riscontro: un’analisi dati quantitativa, aggiornata settimanalmente, in grado di mostrare “visivamente” e in modo dinamico  lo stato emotivo degli individui: le emozioni negative, le emozioni positive, la fiducia verso il prossimo futuro; Una “Tags Cloud”, aggiornata settimanalmente, contenente i termini più utilizzati per descrivere la situazione affettiva, cognitiva ed esperienziale delle persone; un report qualitativo, strutturato in forma narrativa e a cadenza mensile, descrittivo degli elementi emergenti nell’esperienza che le persone stanno avendo dell’epidemia. Tali analisi, prodotte sia a livello trasversale (lo stato mentale generale), sia a livello verticale su specifici contesti e/o territori, verranno poi messi a disposizione dei decisori pubblici e degli stakeholder del progetto, per l’elaborazione di strategie di risposta ai bisogni emergenti della cittadinanza e per indirizzare le politiche di rilancio post-crisi.

Come spiega Federico Conte, Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, «Lo strumento nasce dalla necessità di avere dati strutturati con l’obiettivo di fornire indicazioni da un lato agli stessi professionisti, per sviluppare modelli di intervento sempre più efficaci e attività formative mirate, e dall’altro alle Istituzioni e alla Politica, per orientare i processi di costruzione di quei contesti che siano sempre più adattati alle persone che li abitano. D’altra parte il benessere psicologico è quello stato nel quale l’individuo riesce a sfruttare al meglio le sue capacità cognitive o emozionali per rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno e stabilire relazioni soddisfacenti essendo integrato nella sua rete sociale».

Il tentativo di pervenire a un monitoraggio sistematico del benessere psicologico comporta la necessità di affrontare sfide anche su un piano metodologico, psicometrico e data-analitico” dice Fabio Lucidi, Preside della Facoltà di Medicina e Psicologia. «È necessaria una operazione complessa sul piano dello sviluppo e selezione di strumenti psicometrici validi e attendibili, di prassi metodologicamente adeguate per proporli ai professionisti, di competenze data–analitiche molto avanzate, della capacità di combinare dati qualitativi con dati quantitativi in modo efficace. La psicologia è una disciplina basata su evidenze scientifiche e analisi articolate a vari livelli. La Facoltà metterà a disposizione di questo progetto le risorse e competenze psicometriche e metodologiche necessarie per procedere a analisi accurate, affidabili e precise e per fornire risposte valide alle domande sfidanti che il barometro vuole affrontare».

Lo stravolgimento delle nostre vite, a cui questi giorni terribili ci hanno condotto, tocca corde sensibili nella nostra organizzazione psichica, corde che risuoneranno a lungo riverberando sul nostro benessere personale. Secondo Felice Damiano Torricelli, Presidente dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi, «La situazione sta già cambiando la cifra del nostro malessere e di conseguenza il modo in cui, da Psicologi, siamo chiamati ad aiutare le persone nel fronteggiarlo. Per questo è importante monitorare i bisogni di Salute Mentale che vanno emergendo e registrare le modalità per rispondergli in maniera adeguata. Il Barometro sarà uno strumento cruciale di osservazione di questi cambiamenti, che ci consentirà di trarre informazioni utilissime per meglio intercettare le necessità dei cittadini e indirizzare il riposizionamento della Psicologia professionale, ora e soprattutto nelle prossime fasi di ripartenza del Paese dopo lo shock di queste settimane. Per ENPAP, che si occupa del futuro della professione, sarà così possibile attivare interventi di supporto alle trasformazioni in divenire, in modo da rendere sempre più adeguate le competenze e le soluzioni messe in campo dagli Psicologi».

 

 

 

 

Giuliano Lesca
Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
Cell: 327 3290946
[email protected]

Il pendolo di Newton: in psicoterapia si gioca con la legge di conservazione della quantità di moto

Capita spesso anche a tutti noi di mettere in atto dei comportamenti, di sperimentare delle emozioni, di produrre dei pensieri senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tali meccanismi. Il pendolo di Newton con le sue 5 sfere ci aiuta ad analizzare meglio questo aspetto del funzionamento umano.

 

 Uno dei motivi per cui le persone si rivolgono spontaneamente ad un professionista della salute mentale è perché si trovano a sperimentare delle emozioni, avere dei pensieri e agire dei comportamenti che non riconoscono appieno come frutto della loro volontà o perlomeno considerano spiacevoli, incontrollabili e non in linea con l’immagine che hanno di sé stessi.

Molte persone, ad esempio, si rivolgono allo psicologo perché sovente mettono in atto dei comportamenti distruttivi e aggressivi sia auto che etero diretti. Questi pazienti riferiscono delle perdite di controllo dei propri impulsi eccessive e spesso immotivate. Successivamente a tale discontrollo il paziente riporta emozioni di delusione, sconforto e confusione del pensiero a causa appunto della discordanza tra il proprio modo di intendersi come persona e il comportamento appena posto in essere. Questa dissonanza cognitiva e le emozioni che ne derivano portano anche ad una notevole riduzione dell’autostima e soprattutto ad un abbassamento della self-efficacy (credenza in merito alla propria capacità di produrre specifici comportamenti utili al raggiungimento di un obiettivo desiderato)  poiché non si è stati in grado, ancora una volta, di non perdere il controllo nonostante i buoni propositi.

Questi pazienti hanno come l’impressione che in quel particolare momento in cui si perde il controllo si sia spinti da una forza ingovernabile e da uno stato di attivazione emotiva completamente disregolato. Sia il paziente che lo psicologo si trovano impegnati dunque a cooperare per scoprire la vera natura di questa “forza”.

Un giorno, al termine di una seduta con un paziente con problematiche simili a quelle descritte poco sopra, riflettendo mi riecheggiavano ancora le domande che il paziente si era posto e mi aveva posto durante la seduta appena conclusasi, domande del tipo: “com’è possibile che io abbia perso il controllo per una sciocchezza del genere? È normale che in alcuni momenti mi si annebbi la vista dalla rabbia e poi dopo neanche cinque minuti già quasi non mi ricordo più il motivo per cui mi ero arrabbiato così tanto?”

Mentre ripensavo a queste domande ipotizzavo che al paziente a volte capitava di dimenticare così facilmente il “motivo” della sua arrabbiatura semplicemente perché quello a cui lui faceva riferimento non era il vero motivo, ma probabilmente solo l’ultimo anello di una lunga catena di fenomeni interni. Mentre riflettevo su tutto ciò, giochicchiavo, come spesso mi capita, con un oggetto poggiato sulla mia scrivania, il cosiddetto “Pendolo di Newton”. Mentre osservavo le sfere oscillare e ascoltavo il tipico ticchettio provocato dalla loro collisione mi sono sorpreso a pensare ad una strana ma simpatica analogia tra il funzionamento di quello strumento e il “funzionamento” del paziente che mi aveva da poco salutato.

Prima di chiarire e, mi viene da dire, giustificare una simile analogia voglio però assicurarmi che il lettore abbia ben presente lo strumento di cui parlo (pendolo di Newton o biglie di Newton) e soprattutto cercare di fornirgli dei superficiali ma fondamentali concetti psicologici.

Che cos’è il pendolo di Newton?

Credo che la maggior parte di noi abbia visto almeno una volta tale oggetto. Stiamo parlando di un dispositivo composto da varie sfere metalliche (di solito 5) tutte aventi la stessa massa e ciascuna sospesa mediante due fili. Le sfere stanno a contatto sulla stessa linea orizzontale e si possono muovere sul piano verticale.

Viene usato per illustrare le leggi di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica.

Come funziona?

A sfere ferme, si solleva la prima sfera, mantenendo tesi i fili con cui è sospesa, e la si lascia cadere. Essa urterà contro la fila delle altre e si osserverà che la prima si ferma, le intermedie non si muovono, e l’ultima sfera invece parte verso l’alto, raggiungendo la stessa altezza da cui era partita la prima, e così di seguito. Questa “botta e risposta” potrebbe potenzialmente andare avanti all’infinito se solo non intervenissero fattori esterni come ad esempio l’attrito dell’aria che rallenta progressivamente il movimento delle sfere fino al loro arresto.

Infatti ricordiamo che il principio della conservazione della quantità di moto stabilisce che:

“In un qualunque sistema di corpi interagenti tra loro e in assenza di forze esterne la quantità di moto totale del sistema si conserva”.

Due osservazioni mi risultano particolarmente interessanti del funzionamento del pendolo di Newton ed entrambe saranno riprese più avanti come elementi che giustificano la mia bizzarra analogia:

  1. se solleviamo e poi lasciamo cadere solo la prima sfera si otterrà il movimento uguale e contrario solo dell’ultima sfera. Dunque la prima e l’ultima sfera saranno le uniche a produrre movimento e apparirà chiaro che il movimento dell’ultima sfera è determinato dal precedente movimento della prima nonostante queste due sfere non entrino mai in diretto contatto. L’energia pertanto verrà trasmessa sempre e solo attraverso gli elementi intermedi;
  2. se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Ma cosa hanno a che fare il pendolo di Newton e i principi che ne determinano il funzionamento con l’essere umano e la sua psicologia?

L’essere umano è un sistema certamente non isolato e dunque mai indipendente dal contesto in cui si trova. I fattori esterni ambientali e sociali hanno una determinante influenza sui nostri pensieri e sul nostro comportamento.

La neo-corteccia ha dotato noi esseri umani di finissimi ed evolutissimi strumenti che consentono di leggere in diretta i segnali ambientali e sociali presenti nel contesto ambientale e “matcharli” con le informazioni personali, culturali e morali archiviate in memoria.

Questa capacità è evidente in quelli che vengono definiti script cognitivi ovvero degli schemi comportamentali più o meno complessi che, il più delle volte in modo implicito, mettiamo in atto in uno specifico e determinato ordine al fine di adattarci ad uno dato contesto. Un esempio banale è quando andiamo al ristorante e ci avviciniamo al tavolo, come prima cosa non chiediamo il conto al cameriere, ma probabilmente ci togliamo la giacca e ci accomodiamo. Questo comportamento, insieme magari al fatto che (se il ristorante è un raffinatissimo locale 3 Stelle Michelin) rispettiamo un particolare dress code, non dipende soltanto dal buon funzionamento della memoria procedurale, ma ci informa anche circa la nostra capacità di riconoscere, accettare ed adattarci alle norme culturali e alle convenzioni sociali dell’ambiente in cui viviamo e tale capacità ricordiamo è fortemente mediata dalle strutture corticali superiori che svolgono una continua funzione di monitoraggio online del nostro comportamento.

Ma la neo corteccia non è l’unico apparato cerebrale di cui l’evoluzione ci ha fornito. Con MacLean ( MacLean, P. 1973) potremmo simbolicamente dividere il nostro sistema cerebrale in 3 parti:

  • la neo-corteccia;
  • il sistema limbico;
  • Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e cervello rettiliano.

Della neo-corteccia si è già accennato.

Per quanto riguarda il sistema limbico, possiamo sinteticamente dire che è costituito da alcune strutture sotto corticali: i bulbi olfattivi, l’ippocampo, l’amigdala, il giro del cingolo, i nuclei talamici anteriori e la corteccia limbica. Supporta svariate funzioni psichiche come l’elaborazione delle emozioni, motivazione, apprendimento, memoria e attaccamento.

Il cervello rettiliano risiede nel diencefalo, nel mesencefalo e nella parte iniziale del telencefalo e si occupa dei bisogni e degli istinti innati: territorialità, predazione, esplorazione del territorio e procreazione. Il Sistema Nervoso Autonomo è costituito da porzioni anatomicamente e funzionalmente distinte ma sinergiche: il sistema nervoso simpatico, il sistema nervoso parasimpatico e il sistema nervoso enterico.

Ha la funzione di regolare l’omeostasi dell’organismo ed è un sistema neuro-motorio non influenzabile dalla volontà che opera con meccanismi appunto autonomi, relativi a riflessi periferici sottoposti al controllo centrale. Per quanto riguarda il SNA è degna di essere citata la differenziazione tra due tipologie di nervo vago, quello mielinizzato e quello non mielinizzato, proposta da Stephen W. Porges (Porges, S. W.. 2014) nella sua teoria polivagale.

Perché è utile sapere che “il cervello” come comunemente inteso è in realtà frutto di diverse strutture e funzionalità?

Perché in questo modo è più facile comprendere quale struttura o funzione è inibita, iperattivata, alterata, compromessa o più semplicemente comprendere qual è, se c’è, la gerarchia di funzionamento interno tra queste strutture.

Ad esempio:

..nelle strutture limbiche i neuroni non sono organizzati in strutture regolari, ma piuttosto in un’amalgama più rudimentale, ecco che ne deriva che l’elaborazione di uno stimolo risulta più primitiva che nella corteccia e al tempo stesso più veloce, adatta cioè a reazioni essenziali per la nostra sopravvivenza. Questa è dunque la ragione per cui ci capita di reagire in modo improvviso e spropositato a uno stimolo, anche se sappiamo che non dovremmo farlo o non serve.

Il dato neurofisiologico interessante è proprio che in questa situazione si assiste a quello che è stato definito “shutdown corticale” (Arnsten et al. 2014.): ovvero la corteccia è stata messa offline, fuori uso, e il sistema sottocorticale antico ha preso il sopravvento, più veloce nella sua risposta cosiddetta di “attacco o fuga”.

Lo shutdown corticale conduce a una perdita temporanea delle funzioni di mentalizzazione, causando una perdita di visione simbolica, integrazione degli stimoli e capacità di interpretarli. A questo punto tutto accade nel sistema limbico: il talamo, stazione d’ingresso, filtro degli stimoli, invia il proprio segnale all’amigdala, primo centro di reazione emozionale, che risponde con una cascata di reazioni neurovegetative, con rilascio di cortisolo nel sangue dai surreni, analgesia temporanea, attivazione del sistema nervoso autonomo. In altri termini, dopo la primissima reazione di freezing, cui corrisponde soggettivamente quel primo istante di blocco o sorpresa, l’amigdala ci dispone ad attaccare lo stimolo o a fuggirlo, mentre proviamo alternativamente rabbia o paura.

Tutto questo accade in soli 12 millisecondi ed è al di fuori della nostra consapevolezza, senza che la corteccia abbia ricevuto alcun messaggio.

Esiste anche una via di collegamento tra il sistema limbico e la corteccia, chiamato anche “via alta” che decorre dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’amigdala, ma impiega ben 25 millisecondi: questo significa che la risposta somatica accade sempre prima di ogni altra fantasia o riformulazione verbale, che è dunque soltanto un tentativo retrospettivo di spiegare una condizione inconscia, sottocorticale. (Poli, E. F. 2014).

Tale suddivisione ovviamente asserve ad un puro scopo esplicativo, ma in realtà tutte le strutture anatomo-funzionali che costituiscono il nostro sistema nervoso centrale sono strettamente collegate e funzionano sinergicamente.

Questa suddivisione mi è inoltre molto utile per riprendere il filo del discorso.

Si parlava del nesso che c’è tra psicologia e il pendolo di Newton, vero?

Ecco, adesso facciamo un esercizio immaginativo. Immaginiamo che ognuna delle 5 sfere del pendolo rappresenti qualcosa:

  • la prima sfera rappresenta uno stimolo esterno o interno. Stimolo è qui inteso come fenomeno, evento che viene percepito ed elaborato dal nostro organismo, quindi uno stimolo esterno potrebbe essere, ad esempio, un rumore metallico che noi solo successivamente comprendiamo essere il rumore delle chiavi di un nostro familiare che sta per aprire la porta di casa, oppure potrebbe essere un aumento del battito cardiaco che noi potremmo interpretare come il segno di un’emozione di paura;
  •  la seconda sfera rappresenta il nostro SNA e il cervello rettiliano;
  • la terza sfera rappresenta il nostro cervello limbico;
  • la quarta sfera rappresenta la nostra neocorteccia;
  • la quinta sfera rappresenta la risposta. Risposta intesa come attività mentale e/o comportamentale posta in essere come conseguenza ad uno stimolo.

Le sfere sono state così ordinate in base alla velocità con cui i diversi sistemi cerebrali tendono ad attivarsi in situazioni percepite come pericolose e/o minacciose.

Ora sappiamo dunque che uno stimolo, esterno o interno, oggettivamente pericoloso o interpretato soggettivamente come tale può dare il via ad una reazione immediata e complessa che solo in ultima analisi (e neanche tutte le volte) potrebbe arrivare alla nostra consapevolezza come nel caso dello shutdown corticale. Potremmo in queste situazioni sperimentare delle emozioni, produrre dei pensieri e mettere in atto dei comportamenti anche molto complessi che quindi a posteriori ci sembrano a tutti gli effetti privi di una valida motivazione oppure spropositati rispetto a quanto da noi esplicitamente vissuto (Imm.1)

Pendolo di Newton l'analogia con il funzionamento della mente umana

Imm.1 – Il pendolo di Newton come metafora del funzionamento psichico

Questa mancanza di consapevolezza in merito alla stretta interdipendenza tra stimolo e risposta comportamentale è ben rappresentata dall’esempio del pendolo di Newton e in particolare dalla prima delle due osservazioni che ho proposto sopra, ovvero al fatto che la prima e l’ultima sfera non si toccano anche se è l’energia dell’una a produrre il movimento dell’altra.

Il punto è questo, così come accade nel pendolo di Newton dove la quinta sfera effettua un movimento senza “sapere” che esso avviene grazie all’energia prodotta dal movimento della prima, allo stesso modo capita spesso anche a noi di mettere in atto dei comportamenti senza renderci conto di quali specifici stimoli abbiano inizialmente elicitato tale comportamento. Le due sfere non si toccano eppure vediamo che si influenzano grandemente. In terapia l’obbiettivo è proprio quello di comprendere come le nostre reazioni sono il frutto di un complesso processo di elaborazione che parte tuttavia sempre da uno stimolo.

La seconda osservazione a cui il Pendolo di Newton ha dato spunto era la seguente:

se un sistema isolato riceve uno stimolo, producendo di conseguenza una determinata risposta e non interviene nessun fattore esterno, esso continuerà a produrre nel tempo sempre la stessa risposta con la medesima energia.

Abbiamo già detto che l’essere umano non è un sistema isolato così come non è isolato il pendolo di Newton, a meno che quest’ultimo non venga messo all’interno di una campana sotto vuoto senza mandargli alcun tipo di vibrazione. Eppure abbiamo visto che nella psiche dell’essere umano si presenta un principio sovrapponibile a quello di conservazione della quantità di moto e dell’energia meccanica. Lo osserviamo tutte le volte che una persona è consapevole, decisa e determinata a voler modificare un determinato comportamento o pensiero e poi puntualmente finisce per fallire nonostante il suo impegno cosciente e sincero.

Alcuni in passato lo chiamavano “eterno ritorno”, “coazione a ripetere”, più recentemente “cicli interpersonali”, “copioni di vita”, “schemi maladattivi precoci”, ecc. Oggi, soprattutto grazie alle neuroscienze, sappiamo che alla base di questo principio c’è sempre

l’attivazione della nostra memoria emotiva, la libreria esperenziale nell’archivio limbico. Essa fa sì che ciò che ci può in qualche modo collegare a un “pericolo” inneschi una reazione. (ibidem)

Il termine pericolo è virgolettato per sottolineare ancora una volta il fatto che il pericolo non necessariamente deve essere reale ovvero attuale, ma è sufficiente che sia in grado di attivare tracce mnestiche associate a situazioni vissute o immaginate ove si abbia soggettivamente sperimentato sentimenti di minaccia e/o pericolo. Qui è fondamentale specificare che per sensazione soggettiva di minaccia/pericolo non si intende soltanto quella fisica ma, anzi quasi sempre, una minaccia/pericolo alla propria immagine identitaria, le proprie credenze e i propri valori e principi. In quella o, più spesso, quelle occasioni passate la persona avrà sicuramente agito delle risposte mentali e comportamentali che hanno contribuito alla sua sopravvivenza fisica e identitaria. Da allora in poi il sistema limbico tutte le volte che incontrerà sulla sua strada uno stimolo in grado di evocare in qualche modo quelle esperienze di pericolo passate cercherà di bypassare la neo corteccia (convinto di evitarci inutili perdite di tempo) e in circa 12 millisecondi farà sì che noi produciamo un’adeguata risposta mentale e/o comportamentale che è simile per qualità e quantità alle prime risposte che tanto tempo fa abbiamo imparato inconsapevolmente ad usare.

L’obiettivo della terapia è dunque fare quello che fa l’aria con le sfere del pendolo di Newton ossia interferire sulla perpetua propagazione dell’energia e del moto rendendo il sistema non più isolato. L’attrito dell’aria contro le sfere va sostituito in terapia con l’auto-osservazione continua e sistematica grazie all’aiuto dello psicologo e alle tecniche che consiglierà.

Osservarsi in maniera quanto più “oggettiva” possibile consente di sistematizzare gli eventi interni ed esterni, ad archiviarli, a riconoscerne la ripetitività, a produrre eventuali nessi di causa effetto e dunque a prevenirne le manifestazioni o di ridurre la portata di quelli considerati più problematici.

Per un bel po’ di tempo, o forse per sempre, lo stimolo esterno soggettivamente considerato minacciante continuerà ad elicitare un’ iperattivazione/ipoattivazione del SNA e anche quella del circuito limbico-sottocorticale causando di conseguenza un’attivazione o un’ipoattivazione emotiva che però, se ben riconosciuta e accettata, potrà essere regolata per mezzo di una concomitante retro-azione cognitiva (reappraisal cognitivo) che, insieme a possibili varie tecniche di regolazione dello stato di attivazione fisiologica (arousal) produrrà un aumento della mastery intesa come percezione di padronanza ossia sentire di avere il controllo sul proprio stato mentale.

 

Rimuginare ai tempi del coronavirus – Il video di Psychoarea

In questo video, registrato dalla diretta streaming del 09 Aprile 2020, il Dott. Andrea Dalboni discute, insieme alla d.ssa Dal Ben, alla dr.ssa Greco e alla d.ssa Meneghello di Psycho Area di Verona, di un argomento trasversale a molti disturbi sintomatici: il rimuginio.

 

È proprio in questi mesi di quarantena infatti che molte persone possono sviluppare ansia, mancanza di motivazione depressiva e pensieri intrusivi mai sperimentati in precedenza: alla base di questi vissuti c’è una grande attività di pensiero cosciente, il rimuginio appunto, che li alimenta e li trasforma da sensazioni normali e transitorie a problemi psicologici più strutturati. Ma che cos’è il rimuginio di preciso? C’è differenza tra una normale preoccupazione e il rimuginare? È possibile applicare tecniche specifiche per fermarlo? Da dove origina? A queste e a molte altre domande poste direttamente dagli spettatori della diretta è stata data risposta, fornendo oltre ad un’ampia discussione sul tema, anche consigli e strategie tecniche molto concrete, elaborate dalle moderne terapie cognitive, da applicare in questi giorni proprio per fronteggiare lo stato di emergenza e la quarantena.

 

I meccanismi biologici dell’infedeltà

E’ possibile che esista una predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

 

Si è soliti indicare il concetto di fedeltà coniugale come un valore, ovvero una dote morale e intellettuale che costituisce espressione della personalità e del contesto evolutivo di un individuo. Essere fedeli è dunque un attributo, un modus vivendi che può derivare non solo dalle abitudini di pensiero e di comportamento della singola persona, ma anche dalle condizioni culturali, religiose e sociali dell’ambiente in cui la persona si evolve e vive, interagendo con i propri simili. Che i valori morali abbiano una stretta correlazione con la cultura non costituisce certo un elemento di novità: è chiaro come in una società possa venir definito infedele un comportamento che in un diverso assetto culturale viene connotato di assoluta normalità, e nulla affatto stigmatizzato (si veda ad esempio il caso della monogamia nelle società orientali ed occidentali, o ancora il caso di adulterio previsto come reato in alcuni paesi del mondo, mentre in altri stigmatizzato solo come condotta amorale ma senza nessuna conseguenza giuridica). Ciò che costituisce una novità, al contrario, è affermare che la fedeltà coniugale, intesa come capacità di creare e mantenere un legame stabile e duraturo nel tempo con un solo partner, possa derivare, tanto nelle specie animali quanto in quella umana, altresì da fattori biologici, ereditari e, dunque, innati. Sostenere una tesi del genere significa anche accettare che certi individui, in virtù di certe caratteristiche neurobiologiche, possono essere naturalmente predisposti alla fedeltà rispetto ad altri che non manifestano le medesime caratteristiche. Alcuni studi scientifici svolti di recente hanno dimostrato come in realtà, in questa affermazione all’apparenza improbabile, ci sia del vero. Se ne citano alcuni tra i più significativi condotti in questo campo.

Anticipiamo in primo luogo che l’ormone vasopressina, di origine neuronale, gioca un ruolo fondamentale in alcuni processi umani volti alla cooperazione e alla collaborazione nella coppia; nello specifico la sua presenza, assieme a quella dell’ossitocina, si mostra notevolmente aumentata nello stabilimento della fase di attaccamento, che segue immediatamente il periodo dell’innamoramento, in cui a far da padroni sono peptidi quali serotonina, adrenalina e dopamina. L’ossitocina è un ormone che viene rilasciato da uomini e donne durante l’orgasmo, e dalle donne durante il parto e l’allattamento; si tratta inoltre un ormone che gioca un ruolo fondamentale nell’instaurazione dell’attaccamento tra madre e bambino.

Mentre l’ossitocina agisce principalmente sulla diade materna, sembra che la vasopressina rivesta una funzione importante nella fase di attaccamento di coppia. Oltre a regolarizzare la pressione, questo ormone è responsabile della soddisfazione post-orgasmica, determinando il grado di fedeltà al partner. La quantità di questo ormone all’interno di un soggetto, sia umano sia animale, è determinata dalla tipologia di alleli relativi al sistema della vasopressina che, ove affetti da polimorfismo, si mostrano più corti e meno in grado di rispondere attivamente alla sostanza. Questo provoca una minor produzione e una minor sensibilità dei recettori alla stessa, effetti che si traducono in comportamenti meno propensi alla fedeltà e all’attaccamento al partner.

Si tratta di un’evidenza riscontrabile in primo luogo negli animali, dato come in alcune particolari specie di roditori, ad esempio le arvicole, si è visto come una più massiccia presenza dell’ormone vasopressina sia positivamente relazionata alla fedeltà alla partner, e pertanto alla monogamia; si tratta oltretutto di specie dove è stato riscontrato un polimorfismo degli alleli relativi al sistema vasopressina (Hammock e Young, 2002).

Uomini portatori di un allele specifico del gene della vasopressina sono stati sottoposti ad uno studio di valutazione da Walum e colleghi (2008): si trattava di soggetti sposati o conviventi da cinque anni o più – 552 coppie complessivamente- ai quali è stato somministrato la Parent Bonding Scale, finalizzata a valutare l’attaccamento al proprio partner. I risultati sono stati espliciti: soggetti portatori di tale allele specifico hanno mostrato un attaccamento inferiore alla compagna, e i loro punteggi sono risultati inoltre dose-dipendenti: quanti possedevano due di questi alleli hanno mostrato un attaccamento minore rispetto a quelli che ne possedevano soltanto uno, a loro volta seguiti da quanti non lo presentavano affatto. Gli uomini portatori di questo allele hanno inoltre avuto maggiori crisi di coppia nell’anno precedente, ivi comprese minacce di divorzio e allontanamento dalla casa coniugale, e anche in questo caso i punteggi si sono rivelati dose-dipendenti, perché gli uomini con due copie dell’allele hanno mostrato il doppio di probabilità di aver avuto una crisi di coppia nei 12 mesi precedenti rispetto a quelli con una sola copia o con nessuna copia dell’allele, e un maggior numero di rapporti extraconiugali rispetto ai gruppi di confronto. Le mogli degli uomini portatori di uno o due alleli hanno infine mostrato punteggi notevolmente più bassi ai questionari volti a rilevare il grado di soddisfazione matrimoniale

Ma qual è l’allele identificato da Walum? Esiste davvero una genetica della fedeltà, dunque? Si tratterebbe nello specifico del gene AVPR1A, situato nel cromosoma 12q14-15, le cui sequenze in caso di polimorfismo non sarebbero corrette e continue. Il polimorfismo di questo gene è stato correlato con autismo, con comportamenti sessuali precoci e multipli, e infine con minore altruismo e prosocialità, a testimonianza di come lo stesso abbia un impatto rilevante nel comportamento umano.

Un altro studio recentemente condotto da Garcia e colleghi (2010) su 181 uomini adulti, ha dimostrato che esiste un collegamento diretto tra alleli specifici del sistema della dopamina e maggiore frequenza di rapporti sessuali occasionali, e dunque fuori da una relazione, nonché maggiore frequenza di infedeltà sessuale. Si ricordi infatti come il sistema della dopamina è fortemente connesso col sistema della ricompensa e della ricerca della novità, aspetti che possono risultare fortemente coinvolti nel comportamento di promiscuità e infedeltà sessuale. Nello specifico, si ritiene che i geni che mediano la trasmissione dopaminergica, specie il gene per il recettore D4DR, siano associati con la ricerca di nuovi stimoli, anche sessuali, soprattutto quando presentano sette o più sequenze dell’allele. Un maggiore allungamento di questi alleli potrebbe infatti predisporre a comportamenti impulsivi, ricerca di nuovi stimoli, e, nello specifico comportamento sessuale; è stato dimostrato che i soggetti che presentano 7 o più ripetizioni dell’allele del gene D4DR hanno più probabilità di intrattenere rapporti occasionali, anche in assenza di differenze significative nella fedeltà complessiva (Garcia et al., 2010)

Un ulteriore sistema biologico coinvolto nella fedeltà sembra essere il sistema immunitario. In particolare il riferimento va al complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), un gruppo di geni polimorfici costituiti da 30 unità che si trovano sul braccio corto del cromosoma umano 6. Il sistema di istocompatibilità tipico di queste cellule si basa sulle molecole presenti nella membrana delle stesse le quali, a contatto con il sistema immunitario di un soggetto, lo riconoscono come estraneo e, adottando una risposta immunitaria, agiscono come antigeni: in poche parole si legano alla molecola estranea e cercano di contrastarla.

Si tratta di un procedimento che si trova alla base della verifica della compatibilità per il trapianto di organi che, in caso di rifiuto immunitario, meglio noto come rigetto, non può essere attuato. Si richiede invece, in tal caso, che i sistemi immunitari del donante e del donatario siano afferenti e simili, magari perché legati da vincolo di parentela o da affinità genetiche intrinseche: persone con un MHC simile sono infatti probabilmente parenti.

Questo meccanismo di riconoscimento, nell’essere umano, viene attivato con il semplice utilizzo dell’olfatto: grazie all’emissione dei feromoni, che portano in sé tracce delle molecole del sistema MHC appena descritto, è possibile riconoscere un soggetto geneticamente somigliante a se stessi da uno che non lo è. Si tratta di un sistema biologicamente innato, molto probabilmente sviluppato nel tempo dagli umani per evitare l’incesto, secondo l’ipotesi di Wedekind (1995). Soggetti che “fiutano” le medesime molecole del proprio MHC in un altro, tendono ad evitarlo come partner perché inconsciamente lo riconoscono come parente; comportamento opposto si verifica al contrario identificando soggetti con patrimonio genetico diverso dal proprio, che vengono scelti in misura massicciamente maggiore come partner sessuali, in quanto estranei.

Wedekind ha confermato, con il famoso esperimento delle magliette sudate, come le donne siano propense a scegliere partners con patrimonio genetico diverso dal loro, e come il riconoscimento degli stessi sia possibile semplicemente annusando le magliette sudate dei suddetti maschi. Il sudore, intriso di feromoni, è sufficiente ad identificare un soggetto estraneo, rassicurando la donna sul rischio di tenere relazioni sessuali con potenziali parenti.

Gli studi di Wedekind sono stati replicati in tutto il mondo più volte, ed hanno condotto sempre ai medesimi risultati, dimostrando pertanto la fondatezza dell’ipotesi di partenza. In particolare, uno di questi studi ha dimostrato come donne sposate con uomini che avevano geni simili ai loro nella componente MHC del sistema immunitario, apparivano anche più portate all’adulterio; inoltre, più questi geni erano condivisi tra una donna e il proprio coniuge, più la partner si mostrava incline a tenere relazioni sessuali extraconiugali (Garver-Apgar et al., 2006).

Si è rilevato come anche la struttura del cervello possa contribuire all’infedeltà; in particolare si fa riferimento ai tre sistemi cerebrali che, secondo ipotesi di Fisher (1998), sono stati sviluppati dall’uomo per lo svolgimento di compiti e funzioni specifiche: quello dell’attrazione sessuale, legata al sistema ipotalamico, come le sensazioni fisiologiche di fame e sete, quello dell’amore romantico, riferita al sistema rettiliano, una zona cerebrale arcaica alla quale è legata la soddisfazione di istinti connessi alla sopravvivenza, e quello dell’attaccamento romantico, dipendente dalla zona del pallido ventrale, legato a sua volta a sensazioni di gusto e piacere. Questi tre sistemi neuronali presentano numerose interazioni tra di loro ed anche con molti altri sistemi cerebrali, e sono in grado di generare un’ampia gamma di pensieri, emozioni e comportamenti necessari all’organizzazione della strategia riproduttiva (Fisher, 2004; Fisher et al., 2002; Fisher, 2015).

Malgrado ciò essi possono agire anche in maniera separata, provocando in questo caso una sorta di divisione tra le funzioni alle quali ciascuno di essi è collegato, funzioni che vengono così a manifestarsi e ad esplicitarsi in maniera indipendente l’una dall’altra: in poche parole si può provare attrazione fisica per una persona al di fuori della coppia, provando al contempo attaccamento per una certa persona, magari il partner fisso, e amore romantico per un’altra persona ancora (Fisher, 2004). Questa spiegazione profondamente scientifica e dalle basi biologiche potrebbe costituire una valida risposta al comportamento umano, specie maschile, che molto spesso si trova a manifestare in maniera scissa e contemporanea i tre bisogni sopra identificati.

L’indipendenza biologica di questi tre sistemi neuronali avrebbe inoltre consentito, sin dai tempi dell’Homo sapiens, di avere un rapporto monogamo ufficiale e di condurre al contempo relazioni sessuali clandestine (Fisher, 2004). Da qui una possibile predisposizione filogenetica del cervello ai rapporti di infedeltà, importante anche a fini adattivi (Buss, 1994). È infatti indubbio come, sia nella specie umana sia in quella animale, i maschi e le femmine che riescono a trovare un maggior numero di partner più o meno interni alla coppia, hanno sempre avuto una maggiore possibilità di riprodursi e pertanto di continuare la propria specie.

Ecco che nell’infedeltà potrebbe nascondersi un innato intento di contribuzione alla propria fitness, finalizzata ad apportare i benefici riproduttivi di una prole geneticamente più varia (Fisher, 1992). I maschi infedeli potrebbero infatti aver avuto maggiori possibilità di riproduzione proprio grazie ad un maggior numero di rapporti sessuali condotti al di fuori della coppia, e le femmine, dal canto loro, potrebbero aver ottenuto da rapporti sessuali clandestini, un maggior numero di disponibilità di risorse e di supporto genitoriale per la prole dopo il decesso del primo partner o dell’abbandono da parte di quest’ultimo (Fisher, 1992). Pertanto, l’infedeltà clandestina può aver avuto il merito di apportare vantaggi riproduttivi per le femmine e i maschi ancestrali non meno della monogamia stessa, e questo atteggiamento potrebbe aver determinato la selezione delle basi biologiche dell’infedeltà giunte fino ai giorni nostri in entrambi i sessi.

Non solo un comportamento eticamente scorretto, dunque, si nasconderebbe al di là del rapporto infedele clandestino: la scienza suggerisce come la predisposizione all’infedeltà, tanto nei maschi quanto nelle femmine, possa non solo vantare origini biologiche e pertanto innate, non apprese e geneticamente ereditabili, ma potrebbe addirittura mostrarsi utile, ove non preziosa, per la riproduzione e il mantenimento della specie.

 

Il sonno dei soggetti insonni è davvero di “cattiva qualità”?

Ricerche cliniche hanno dimostrato l’esistenza di due principali fattori in grado di influenzare la percezione di “cattivo sonno” in soggetti che soffrono di insonnia. Da una parte la difficoltà di saper riconoscere i segnali che precedono il sonno e che spingono a prepararsi a dormire e dall’altra la presenza di credenze erronee sull’idea di “buon sonno”.

 

Per “percezione del sonno” si intende la capacità dell’individuo sia di saper identificare il proprio sonno, distinguendolo da uno stato di veglia sia di essere in grado di valutarne soggettivamente la qualità. Tale percezione risulta essere alterata nei soggetti insonni ed è questo che fa sì che tali fattori rivestano un importante ruolo nel mantenimento e nella genesi dell’insonnia (Giganti et al., 2016). Esaminiamoli più da vicino.

Segnali che precedono il sonno

Un primo fattore che influenza la percezione che un individuo ha della propria qualità di sonno è la capacità di saper riconoscere il sopraggiungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici come la riduzione dell’attività motoria, la chiusura delle palpebre, il bruciore agli occhi, la sonnolenza, la difficoltà a mantenere la concentrazione e la graduale modificazione dell’attività celebrale che assume via via le caratteristiche del sonno REM (Salzarulo, 2003).

Nei soggetti insonni, tali segnali non sono però tenuti in considerazione al momento della decisione di coricarsi mentre risultano privilegiati segnali esterni, come ad esempio l’orario (Giganti et al., 2014). La conseguenza del basarsi esclusivamente sull’orario per capire se è ora di andare a letto, senza tener conto della propria tipologia circadiana (cioè della naturale propensione a dormire che differisce da persona a persona), è che l’individuo potrebbe mettersi a letto ad un orario anticipato senza per questo riuscire a dormire. Il non sopraggiungere del sonno in poco tempo, potrebbe poi portare l’individuo a ruminare sulle preoccupazioni quotidiane e sulle possibili conseguenze negative prodotte dal “cattivo sonno” (Van Egeren et al., 1983) creando un circolo vizioso che mantiene svegli. La ruminazione, favorendo l’attivazione cognitiva che a sua volta correla con l’attivazione fisiologica sia a livello corticale (Kertesez e Cote, 2011) che neurovegetativo (Bonnet e Arand, 2010) impedirà al corpo e alla mente di rilassarsi e di far sopraggiungere il sonno (Morin et al., 2002).

Credenze erronee sul sonno

Altro fattore che influenza la percezione della qualità del proprio sonno è quello psicologico legato a idee e credenze, a loro volta modulate da fattori culturali, sociali e da esperienze personali (Giganti et al., 2016).

Una prima credenza ritiene che la durata ottimale del sonno, necessaria a sostenere un buon funzionamento durante il giorno, sia di otto ore a notte (Morini et al., 2002). Tale visione non tiene conto però di numerosi fattori tra cui le differenze inter-individuali relative alla tipologia del dormitore e le modificazioni fisiologiche dovute all’età. Con l’invecchiamento per esempio, tendono a venir anticipati gli orari di addormentamento e di risveglio ed aumenta il numero di coloro che dormono per periodi più brevi.

Altra falsa credenza è quella per cui basta una sola notte di sonno disturbato per produrre delle conseguenze negative diurne. In realtà le ricerche dimostrano che i meccanismi fisiologici consentono normalmente di far fronte ad episodiche perdite di sonno senza conseguenze obiettive (Harvey e Greenall, 2003).

Ulteriore idea comune è che una buona qualità di sonno non debba presentare risvegli notturni (Bruck et al., 2015). In realtà, i risvegli notturni possono essere presenti ma mentre in individui normo-dormitori, bastando 2-4 minuti effettivi di sonno per avere la percezione di aver dormito, la presenza di risvegli notturni non comporta una percezione di “cattiva qualità del sonno”, diversa è la situazione dei soggetti insonni, a cui servono circa 15 minuti di sonno per avere la percezione di aver dormito. La conseguenza, per questi ultimi, è quindi di avere maggiori possibilità di provare la sensazione di non aver affatto riposato se vi saranno più risvegli consecutivi separati da brevi episodi di sonno (Knab e Engel, 1988).

Infine è utile ricordare che tali pensieri disfunzionali tendono ad associarsi ad atteggiamenti controproducenti come ad esempio il restare a letto sforzandosi di dormire che, se favoriti nel tempo, inducono l’associazione tra lo stare a letto e uno stato di iperattivazione che rende ancor più difficile l’addormentamento (Perlis et al, 1997).

In conclusione, tali evidenze dimostrano come i soggetti insonni siano meno capaci, rispetto agli individui normo-dormienti, di discriminare il sonno dalla veglia; mostrano anche come gli insonni tendano a percepire la durata del sonno inferiore rispetto a quella reale e come sovrastimino il tempo di addormentamento arrivando a valutare il proprio sonno di “cattiva qualità” (Ohayon e Reynolds, 2009). Ad influire su tali percezioni intervengono inoltre fattori psicologici e cognitivi come le caratteristiche di personalità (Edinger et al., 2000), il tono dell’umore (Edinger et al., 2000) e la memoria (Perlis et al., 1997).

Interventi comportamentali

Sulla base di quanto analizzato, il trattamento dell’insonnia non dovrebbe avere come focus l’aumento del tempo totale di sonno o la riduzione della latenza di addormentamento quanto piuttosto l’obiettivo di modificare le credenze erronee sul sonno ed i comportamenti disfunzionali ad esse associati (Harvey, 2002).

A questo proposito, gli interventi di tipo comportamentale che utilizzano tecniche quali “la restrizione del sonno” ed “il controllo degli stimoli” si sono rivelati utili sia al fine di rendere maggiormente consapevole il soggetto insonne dell’aver dormito, riducendo le preoccupazioni associate al sonno, sia migliorando l’abilità di individuazione dei segnali corporei che indicano il sopraggiungere del sonno (Giganti et al., 2014).

Rough sex: il piacere della violenza

Uno studio pubblicato di recente su Evolutionary Psychological Science (Burch & Salmon, 2019) si è focalizzato sulla natura del rough sex (tradotto prevalentemente in italiano con “sesso spinto” o “sesso violento”) consensuale e, in particolar modo, sul motivo per cui viene preferito al sesso più tipico. 

 

Nel corso degli anni, sono stati numerosi gli studi che si sono focalizzati sui dati derivanti dal rough sex inteso come aggressività e abuso sessuale, in particolare sullo stupro (Messing, Thaller e Bagwell 2014; Camilleri and Stiver 2014). Tuttavia, la mole di ricerche si restringe nel momento in cui il rough sex viene considerato come una pratica consensuale e preferito al sesso tipico da uno dei due partner o da entrambi. Ryan e Mohr, in una ricerca portata avanti nel 2005 hanno evidenziato come alcuni comportamenti aggressivi siano interpretati come giocosi dai partecipanti se essi si manifestano senza essere accompagnati da emozioni negative o ingiurie fisiche.

Alcuni dei comportamenti che rientrano nelle pratiche del rough sex sono tirare i capelli, mordere e stringere la gola; questi possono lasciare leggeri segni sul corpo, come rossori o lividi ma, in ogni caso, devono sempre essere condivisi e accettati da entrambi i partner (Burch & Salmon, 2019).

Al fine di determinare cosa comporta il rough sex e quali comportamenti lo innescano, ai partecipanti del presente studio è stata richiesta una loro personale definizione della pratica, con quale frequenza la mettono in atto e quali fattori e sensazioni sono stati associati al rough sex (Burch & Salmon, 2019).

Il campione era costituito da 734 studenti universitari, sia maschi che femmine. A ognuno è stato chiesto di rispondere a un breve questionario demografico e, in seguito, di descrivere le loro esperienze di rough sex. In particolare il focus degli autori era su domande relative alle diverse sensazioni tra sesso tipico e rough sex, quanto spesso adottavano questa pratica e sui principali comportamenti che mettevano in atto.

I risultati hanno mostrato che la maggior parte dei partecipanti riferiva solo comportamenti leggermente aggressivi riguardo al rough sex (es. schiaffi, tirarsi i capelli, ed essere tenuti fermi/legati) e con una penetrazione rapida e violenta.

Nonostante sia gli uomini che le donne fossero principalmente d’accordo sui fattori che scatenavano il rough sex, vi era una differenza riguardo al fattore “gelosia sessuale”: gli uomini riferivano che gli elementi che rendevano loro gelosi (es. essere separati, essere traditi, attenzione della partner rivolta ad altri) aumentavano la probabilità che assumessero comportamenti sessuali violenti. Infine, le donne hanno riportato una tendenza leggermente superiore degli uomini a incominciare il rough sex e una minor latenza dell’orgasmo. Inoltre, esse riportavano anche una soddisfazione maggiore in questo tipo di pratica rispetto al sesso più tipico (Burch & Salmon, 2019).

In conclusione, il rough sex sembra essere un comportamento ampiamente ricreativo, innescato sia dal desiderio di novità sia dalla gelosia, che in molti casi può risultare addirittura più soddisfacente dei rapporti sessuali tipici.

COVID-19 e salute mentale – Partecipa alla ricerca

Il Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” sta conducendo, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e le Università Statale di Milano, “Milano Bicocca”, Perugia, Pisa, La Sapienza di Roma, la Cattolica di Roma, Ferrara, Trieste e Ancona uno studio per valutare l’impatto della pandemia da Covid-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

 

Carissimi,

vorremmo chiedere la Vostra collaborazione per un progetto importante che stiamo conducendo in collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria dell’Università della Campania “L. Vanvitelli”, il Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Superioredi Sanità, e altre 8 Università Italiane (tra cui Trieste).

Si tratta di valutare gli effetti della pandemia da COVID-19 e della quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana per poter mettere a punto adeguati interventi di assistenza e cura.

L’isolamento sociale, la solitudine, la paura dell’infezione e di non riuscire a provvedere ai beni primari rappresentano importanti fattori di rischio per lo sviluppo di problemi di salute mentale. Riuscire a trovare delle strategie per proteggere la nostra salute mentale è davvero importante. Troverete il questionario completamente anonimo al seguente link:

https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

Vi chiediamo solo un po’ del Vostro tempo. La nostra salute dipende da noi.

Grazie a tutti,

 

Andrea Fiorillo
Professore Ordinario di Psichiatria
Dipartimento di Psichiatria Università della Campania Luigi Vanvitelli

Umberto Albert
Professore Associato di Psichiatria Dipartimento Universitario Clinico di Scienze Mediche, Chirurgiche e della Salute
Università degli Studi di Trieste

 


Qual è lo scopo dello studio?

L’11 Marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito lo stato di “pandemia” causato dall’infezione da coronavirus COVID-19, sottolineandone la gravità della diffusione a livello mondiale. Con lo scopo di preservare la salute pubblica e di contenere la diffusione del contagio, numerose nazioni, inclusa l’Italia, hanno adottato misure contenitive quali distanziamento sociale e quarantena, fino all’isolamento delle persone infette. La quarantena è un’esperienza stressante e spiacevole che si associa ad una riduzione della libertà personale, dei contatti sociali, ad una percezione di insicurezza rispetto all’esito del contagio e ad un significativo cambiamento della routine quotidiana. La quarantena può avere un impatto importante sulla salute mentale delle persone, attraverso complessi meccanismi che interagiscono tra loro. In particolare, l’isolamento sociale, il senso di solitudine, la paura dell’infezione e del contagio, il timore di non avere beni di prima necessità a sufficienza, la scarsità delle informazioni condivise dalle principali agenzie sanitarie nazionali e internazionali, rappresentano fattori di rischio in grado di causare un aumento di sintomi ansioso-depressivi, insonnia, irritabilità e sintomi ossessivo-compulsivi, oltre che un maggiore utilizzo di sostanze stupefacenti e, infine, la comparsa di ideazione suicidaria nella popolazione generale.
Sulla base di tali premesse, abbiamo sviluppato uno studio che ha avuto l’obiettivo di valutare: 1) l’impatto della pandemia e delle misure di quarantena sulla salute mentale della popolazione italiana in termini di sintomi ansioso-depressivi; 2) la percezione della solitudine e di isolamento sociale percepito; 3) l’insorgenza di pensieri di morte, le strategie di adattamento alla quarantena e alla pandemia; 4) il ruolo di Internet e della rete sociale in questo delicato momento. Questo ci darà la possibilità di favorire l’organizzazione e l’implementazione di adeguati interventi e strategie di cura.
PER PARTECIPARE: https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/COVIDSurvey2020

 


Per professionisti e ricercatori: SCARICA IL PROTOCOLLO DELLA RICERCA (file PDF)

Perché si rumina nonostante le conseguenze negative?

Data la mole di dati che mostra le conseguenze negative della ruminazione, ha senso domandarsi come mai le persone continuino a mettere in atto tale processo. Alcuni autori hanno risposto sottolineando l’esistenza di una “ruminazione positiva” che, nella sua forma adattiva di riflessione costruttiva, è associata ad effetti positivi sul benessere psicologico.

 

Diversi studi sottolineano il ruolo giocato dalla ruminazione nella genesi e nel mantenimento della depressione in quanto processo di pensiero ripetitivo, persistente e ricorrente che porta l’individuo a concentrarsi sui sintomi della propria sofferenza ed a focalizzare l’attenzione su di sé, amplificando gli stati emotivi negativi interni con la conseguenza di produrre numerosi effetti quali: esacerbazione del tono dell’umore negativo, irritabilità, ansia, sfiducia, insonnia, amplificazione del pensiero negativo e tendenza a rimuginare sulle proprie difficoltà (Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema, 1995; Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema, 2000; Nolen-Hoeksema e Morrow, 1993; Watkins, 2008).

Viene allora da chiedersi, date le conseguenze negative, come mai le persone continuino ad utilizzare la ruminazione come strategia di regolazione emozionale.

Ruminazione come problem solving

Daches e colleghi (2010) hanno messo in luce come la ruminazione sia uno stile di elaborazione di pensiero utilizzato dalle persone allo scopo di trovare rimedio ad un problema e di meditare sui propri errori dopo un fallimento, al fine di imparare dall’esperienza e di migliorare le prestazioni future.

Per Watkins (2016), le funzioni positive che gli individui rintracciano nella ruminazione sono:

  • Aumento della comprensione e dell’insight di eventi, significati personali, emozioni e comportamenti al fine di prevenire futuri problemi ed aumentare una sensazione di controllo.
  • Evitamento di attributi indesiderati attraverso l’auto-motivazione e la riflessione sulle proprie caratteristiche negative al fine di spronarsi, migliorare la performance ed evitare di ricadere in comportamenti indesiderati.
  • Pianificazione e preparazione ad eventi futuri, immaginando ad esempio ciò che potrebbe accadere o quali potrebbero essere eventuali reazioni altrui.
  • Evitamento di un sé indesiderato, di un tipo di persona che si teme di essere rimarcando gli aspetti “sgraditi di sé” al fine di avere un promemoria che ricordi di agire diversamente.
  • Evitamento di un cambiamento o gestione della noia del quotidiano focalizzandosi su ricordi, immagini e pensieri.
  • Evitamento del rischio di fallimento ed umiliazione riguardo situazioni difficili, complicate e rischiose attraverso la riflessione che permette di considerare cosa potrebbe andare storto.
  • Prevenzione di critiche da parte degli altri anticipando potenziali risposte negative al fine di prepararsi all’eventualità e minimizzando l’impatto negativo del possibile rifiuto.
  • Controllo delle emozioni e delle sensazioni spiacevoli ed indesiderate.
  • Ricerca di scuse e razionalizzazioni, ad esempio per non aver intrapreso un’attività o cambiato idea.
  • Ricerca di prove sul perché le cose dovrebbero andare in un certo modo o giustificazioni per il proprio comportamento.

Esperimenti che confermano le credenze positive delle persone sulla ruminazione

Varie ricerche hanno dimostrato gli effetti positivi che gli individui nutrono sul ruolo svolto dalla ruminazione. Esaminiamone alcune.

In uno studio sperimentale, Lyubomirsky e Nolen-Hoeksema (1993) hanno osservato che dopo aver indotto la ruminazione, i partecipanti disforici tendevano a credere di ottenere un maggior guadagno in termini di comprensione di sé stessi e dei loro problemi, anche se le soluzioni individuate erano giudicate insoddisfacenti.

Papageorgiou e Wells (2001) hanno effettuato delle ricerche cliniche, in cui hanno constatato che le persone con episodi depressivi ricorrenti, presentano sia credenze positive che negative sulla ruminazione. Le credenze favorevoli riguardano l’idea che la ruminazione sia un’utile strategia di coping ed un metodo grazie al quale è possibile ottenere maggior insight, efficace per identificare le cause della depressione, risolvere i problemi e prevenire gli errori e i fallimenti futuri. Le credenze metacognitive negative riguardano invece l’incontrollabilità dei pensieri ruminativi e i danni prodotti da questa a livello sociale ed interpersonale, come ad esempio l’idea che “la gente non mi accetterebbe se sapesse davvero quanto rumino”.

Watkins e Moulds (2005) hanno invece esaminato le differenze riguardo le credenze positive sulla ruminazione in pazienti depressi in fase di remissione e in persone che non avevano mai sofferto di depressione. I risultati dello studio hanno evidenziato da una parte come i pazienti depressi presentino maggiori credenze favorevoli sulla ruminazione rispetto ai soggetti del gruppo di controllo e dall’altra parte hanno mostrato come sia i pazienti attualmente depressi sia coloro che si sono ripresi dalla depressione nutrono maggiori credenze positive circa l’utilità dei pensieri ripetitivi sugli stati d’animo e sugli eventi del passato, rispetto ai soggetti che non sono mai stati depressi.

Infine, ulteriori analisi hanno evidenziato che coloro che ruminano spesso, sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti ed è proprio questo che li spingerebbe ad utilizzare tale strategia come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di accadimenti futuri temuti (Harvey, Watkins, Mansell e Shafran, 2004).

Il rovescio della medaglia

Nonostante le persone nutrano tali credenze positive sulla ruminazione, non va però dimenticato l’effetto negativo di incremento dell’umore depresso che questa può produrre, se utilizzata come strategia pervasiva. La ruminazione, essendo caratterizzata da una modalità astratta di pensiero che si focalizza su rappresentazioni mentali generali, sovraordinate e decontestualizzate, avrebbe minor capacità di generare problem solving rispetto a forme di elaborazione più concrete che partendo da un’esperienza diretta e specifica, e valutando i mezzi a disposizione, portano l’individuo a raggiunge gli obiettivi prefissati e a mettere in atto azioni fattibili, utili al raggiungimento dello scopo (Watkins, 2016). La conseguenza è che l’individuo focalizza l’attenzione sulla valutazione dei significati personali del problema stesso e sulle implicazione prodotte arrivando a generare un pensiero disfunzionale e ripetitivo rivolto ai sintomi, alle emozioni, ai problemi e agli aspetti negativi del sé che incrementa l’umore negativo (Ciarocco et al,. 2010; Watkins, 2016).

In conclusione, una possibile spiegazione sul perché le persone tendano a ruminare nonostante gli effetti negativi, si basa sul presupposto che i ruminatori nutrano delle credenze metacognitive positive circa la ruminazione stessa, relative alla sua utilità come strategia di regolazione emotiva, di pianificazione di azioni volte alla soluzione di un problema e di riflessione sulle cause di un evento o sul proprio stato d’animo che non tiene conto (Palmieri, 2014).

 

cancel