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Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (2020) di V. Adamo – Recensione del libro

Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie, offre un interessante approfondimento sull’ansia in generale e sulle zoofobie in particolare, descrivendone le caratteristiche e analizzando le tecniche di trattamento maggiormente efficaci.

 

Vincenzo Adamo (2020), psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, psicopatologo forense e formatore; nel suo saggio Cani, ragni, topi, serpenti. Comprendere e vincere le zoofobie (edito da in.edit Psicologia), spiega, utilizzando un linguaggio semplice, da cosa si originano le zoofobie. Il libro inizia con la storia di Marco e Laura due ragazzi che hanno una cosa in comune: la Zoofobia, ovvero la fobia per gli animali. Entrambi riconoscono che il loro timore è eccessivo e ritengono necessario il suo superamento, in quanto si sentono ostacolati nella loro libertà personale.

I due protagonisti potrebbero sentirsi ostacolati perché nelle zoofobie, vengono messe in atto due risposte: evitamento delle situazioni in cui potevano trovarsi gli animali di cui manifestavano la fobia e fuga nel caso in cui si trovavano di fronte ad essi (Markus, 1987).

Prima di individuare il tipo di trattamento psicoterapeutico da applicare alle persone affette da zoofobie, un passo necessario è quello di comprenderne l’origine e la natura dell’ansia in generale. Pertanto, l’autore nel primo capitolo fornisce diverse definizioni di ansia, i corrispondenti sintomi fisici tra cui: aumento dell’attenzione, della pressione arteriosa, respiratoria e cardiaca, della sudorazione, aumento del sangue a livello muscolare, aumento della tensione muscolare, rallentamento della digestione, riduzione della secrezione della saliva, aumento degli zuccheri prodotti dal fegato per avere più energia (Zinbarg et al., 1992).

Oltre ai sintomi fisici appena citati, l’autore descrive le tipologie di ansia e quando essa è fisiologica o patologica, i sintomi, gli effetti che produce nell’individuo.

Nel secondo capitolo sono state analizzate le cause dell’ansia in particolare è stata analizzata la componente ereditaria dell’ansia, i processi biologici che avvengono a livello cerebrale ed i processi che avvengono a livello intrapsichico e si è posta enfasi al modello cognitivo dell’ansia di Clark e Beck (2010). Inoltre è stata analizzata l’ansia come risposta appresa, intesa come il risultato dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente (Bandura, 1969).

Ciò che rende interessante lo studio dei disturbi d’ansia, sono le diverse cose di cui gli esseri umani hanno paura; nel terzo capitolo sono state descritte le diverse tipologie di fobie, dalle più comuni alle meno frequenti, ponendo una particolare enfasi alle zoofobie (argomento che verrà descritto nel dettaglio nel capitolo successivo). Inoltre, sono stati descritti i sintomi, le loro cause e quando emergono.

Dopo aver compreso le origini dell’ansia in generale e delle zoofobie nel particolare, nell’ultimo capitolo sono stati descritti i trattamenti e le tecniche maggiormente efficaci per le zoofobie. In quest’ultimo capitolo sono stati esposti in rassegna le tecniche che possono essere utilizzate nel trattamento delle zoofobie. In particolare la Realtà Virtuale sembrerebbe elicitare le stesse reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale, incrementare il senso di autoefficacia nel paziente e ridurre significativamente le fobie anche nei soggetti con particolari condizioni (ad esempio soggetti che hanno delle lesioni cerebrali e disturbo dello spettro autistico). Infine, sono stati esposti i vantaggi, i limiti e le recenti ricerche inerenti l’esposizione; una tecnica che consiste nell’esposizione diretta agli animali che producono sintomi fobici nei soggetti affetti da zoofobia.

 

Egocentrismo emotivo: come l’esperienza emotiva influenza la percezione delle emozioni altrui

Per orientarci nelle interazioni sociali con gli altri individui, comprendere il loro stato d’animo, così come i loro comportamenti, è necessario basarsi su degli indizi indiretti, dal momento che ci è preclusa la possibilità di avere accesso alla fonte diretta: la loro mente.

 

Generalmente, è possibile contare su degli indizi contestuali, ovvero l’interpretazione della situazione in cui l’azione si svolge, per inferire con discreta verosimiglianza cosa l’altra persona possa provare e dedurre o predire il suo comportamento; un altro metodo di indagine che l’essere umano ha perfezionato nel corso dell’evoluzione, è la capacità di interpretare gli stati emotivi a partire dalle espressioni del volto della controparte, operazione facilitata dalla relativa regolarità inter individuale e cross-culturale delle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, sorpresa e disgusto), di intuibile valenza adattiva, e di alcune emozioni dette secondarie (divertimento, disprezzo, contentezza, imbarazzo, eccitazione, colpa, orgoglio, sollievo, soddisfazione, piacere sensoriale, vergogna), come formalizzato nella teoria Neuroculturale delle emozioni (Ekman, 1971).

Tuttavia, alcune ricerche nell’ambito della cognizione sociale, hanno evidenziato come non solo indizi esterni, come quelli contestuali o delle espressioni altrui, ma anche indizi interni, come lo stato emotivo della stessa persona che si trova a giudicare la situazione, vengono presi in considerazione in maniera più o meno esplicita nell’attribuzione di senso e nel guidare le predizioni degli individui (Silani et al., 2013; Steinbeis & Singer, 2014), fenomeno che è stato denominato Egocentrismo Emotivo.

Quando veniva chiesto di esprimere giudizi emotivi circa loro stessi ed un altro individuo, in situazioni congruenti o incongruenti, ad esempio subendo entrambi una stimolazione tattile piacevole o dove uno ricevesse una stimolazione piacevole e l’altro una stimolazione fastidiosa, gli individui dimostravano un bias costante verso il proprio stato emotivo, dimostrando un’inevitabile tendenza a proiettare la propria emozione sull’altro, rendendo meno accurati i loro giudizi.

I risultati di questi studi che, va sottolineato, precludevano la possibilità di vedere in prima persona la reazione dell’altro alla stimolazione subita e si basavano soltanto sulla descrizione contestuale, sono stati interpretati come una difficoltà nel discriminare l’articolazione sé/altro in termini di rappresentazione degli stati emotivi (Hoffman et al., 2016; Silani et al., 2013; Tomova et al., 2014).

Altri studi, che includevano invece la possibilità di assistere alle espressioni emotive della controparte per formulare il giudizio, hanno riscontrato come risultasse più facile riconoscere correttamente le emozioni altrui quando queste fossero congruenti con quella sperimentata contestualmente dal soggetto giudicante (Qiao-Tasserit et al., 2017; Schmid & Schmidmast, 2010): in questo caso, i risultati sono stati interpretati come evidenze del fatto che gli stati emotivi esperiti dal soggetto attivassero le rappresentazioni mnestiche corrispondenti, fungendo di fatto da facilitatori nel riconoscimento e nell’elaborazione cognitiva di informazioni congruenti con esse (Forgas, 2017). Tuttavia, una spiegazione alternativa potrebbe essere nuovamente quella di un bias di attribuzione dei propri stati mentali agli altri, ovvero come riflesso dell’Egocentrismo Emotivo: per verificare questa eventualità, Trilla e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca sperimentale su 50 soggetti, sottoponendoli ad un task di percezione emotiva dopo aver indotto differenti stati emozionali.

I soggetti sono stati esposti dapprima ad una combinazione di ricordi autobiografici rievocati da loro stessi e di clip audiovisive create dagli sperimentatori, con l’obiettivo di elicitare in loro una determinata emozione (felicità, tristezza o neutra). In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se le immagini che venivano loro mostrate raffigurassero espressioni di felicità o di tristezza: i volti presentati si configuravano in realtà come figure ambigue, create cioè ad hoc dagli sperimentatori mescolando i connotati di volti felici o tristi tratti dal Database FACES (Ebner et al., 2010). Ad ogni trial successivo il volto mostrato presentava il 5% in più dell’emozione contraria a quella appena identificata dal soggetto, decrescendo su di una scala immaginaria nel continuum tra felicità e tristezza: se ad esempio il volto veniva correttamente identificato come tristezza, quella successiva avrebbe mostrato il 5% in più di felicità, “diluendo” la tristezza ulteriormente fino ad un punto (reversal point) in cui il partecipante smetteva di percepire la tristezza iniziando a percepire felicità. Dopo aver raggiunto per otto volte il reversal point la scala terminava.

Da ultimo, i partecipanti hanno compilato dei questionari volti a raccogliere informazioni demografiche così come indici disposizionali di empatia, misurati attraverso due scale dell’Interpersonal Reactivity Index (empathic concern e prospective taking) ed eventuali tratti caratteristici dello spettro autistico, che sono stati associati nella letteratura scientifica ad una difettualità nel riconoscimento delle emozioni e caratterizzati da un maggiore egocentrismo nei compiti di mentalizzazione cognitiva.

I risultati hanno confermato l’esistenza del bias di Egocentrismo Emotivo, ovvero che la percezione delle emozioni venisse effettivamente influenzata dallo stato emotivo dei partecipanti e che l’emozione provata dai soggetti fosse un predittore significativo dell’emozione percepita nei volti che venivano loro mostrati. Inoltre, è stato riscontrato come una maggiore tendenza nel prospective taking, misurata con il questionario sull’empatia, correlasse con una minore influenza del bias di Egocentrismo Emotivo, limitando la misura in cui l’emozione provata dal soggetto influenzasse il suo giudizio circa gli stati emotivi altrui e di fatto rimarcando come esso sia legato alle abilità di cognizione sociale. Una recente metanalisi (Israelashvili et al., 2019) sembra supportare questi dati riscontrando un’associazione positiva tra la disposizione individuale al prospective taking e una maggiore accuratezza nel riconoscimento delle emozioni, interpretata come una maggiore attenzione focalizzata sull’”altro” durante il processo di inferenza circa gli stati mentali, che minimizza l’interferenza del proprio stato emotivo in questo processo. Da ultimo si è esclusa un’associazione tra l’Egocentrismo Emotivo e i tratti dello spettro autistico, che sembrano incapaci di contrastare il bias di egocentrismo, così come con l’indice di empathic concern, che sembra supportare studi precedenti che associano questo tratto a bias di attribuzione altercentrici, ovvero di natura speculare a quelli egocentrici (Hoffmann et al. 2016).

Studi futuri dovrebbero mirare ad estendere i risultati ottenuti, ad esempio adottando un paradigma più ecologico che non limiti a due sole emozioni le possibilità di scelta dei partecipanti, così come sarebbe auspicabile prevedere un gruppo di controllo che esprima giudizi di natura non emotiva pur essendo stato sottoposto all’induzione emotiva preliminare.

 

Stimolazione cerebrale non invasiva per potenziare gli effetti di interventi comportamentali e di psicoterapia

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva hanno guadagnato sempre maggiore popolarità e sono state affiancate ad altri interventi psicoterapeutici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali.

Alessia Gallucci e Alessandra Vergallito – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva sono sempre più spesso utilizzate non solo a scopo di ricerca, ma anche per potenziare gli effetti di trattamenti comportamentali con pazienti con disturbi neuropsicologici (Buch et al., 2017; Wessel et al., 2015) e psichiatrici (Brunelin et al. 2018; Palm et al., 2017; Jahshan et al., 2017).

I risultati tuttavia sono da considerarsi parziali e necessitano di maggiori evidenze sperimentali per giungere ad una raccomandazione clinica rispetto all’efficacia di tali trattamenti (Vicario et al., 2019).

Il presente articolo ha lo scopo di illustrare lo stato dell’arte rispetto all’utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale in ambito psichiatrico, affiancato ad interventi di tipo farmacologico e di psicoterapia.

1. NIBS cosa sono e come funzionano

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva (non-invasive brain stimulation, NIBS) hanno guadagnato sempre maggiore popolarità tra ricercatori e clinici allo scopo di indurre cambiamenti nell’attività cerebrale e modificare le risposte comportamentali dei partecipanti.

Le NIBS includono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione elettrica (tES), che è ulteriormente suddivisa a seconda della modalità con cui la corrente viene somministrata, ovvero continua (stimolazione transcranica a corrente continua, tDCS), alternata (stimolazione transcranica a corrente alternata, tACS) o random (stimolazione transcranicarandomnoise, tRNS). Per gli scopi del presente articolo saranno trattate solo TMS e tDCS, che hanno avuto maggiore applicazione in ambito sia clinico che di ricerca.

TMS e tDCS influenzano l’eccitabilità corticale utilizzando meccanismi differenti. La TMS è costituita da una bobina (coil) collegata ad un condensatore; lo strumento è in grado di rilasciare un campo magnetico di forte intensità (fino a 4T) e breve durata (280μs). L’impulso induce una depolarizzazione sopra-soglia nella membrana cellulare nei neuroni sottostanti, generando un potenziale d’azione (Barker et al., 1985, 1987), seguito da una depolarizzazione o iperpolarizzazione dei neuroni interconnessi. La risoluzione spaziale della TMS varia a seconda della forma del coil, ad esempio un coil a forma di 8 (o coil a farfalla) permette una stimolazione focale, consentendo di stimolare piccole porzioni di corteccia (0.5-2 cm2).

La TMS può essere somministrata in modalità impulso singolo, in cui gli impulsi vengono rilasciati con un intervallo temporale tale da non indurre modificazioni a lungo termine nella corteccia cerebrale sottostante, o ripetitiva (rTMS), che ha lo scopo di causare cambiamenti plastici nelle aree stimolate. In particolare, si parla di rTMS a bassa frequenza (low frequency, lf-rTMS) quando gli impulsi sono rilasciati con una frequenza inferiore ad 1 Hz per alcuni minuti (effetto riduzione dell’eccitabilità dell’area) vs rTMS ad alta frequenza (high-frequency, hf-rTMS), in cui gli impulsi sono rilasciati con una frequenza superiore a 3 HZ (aumento dell’eccitabilità dell’area stimolata).

La tDCS invece agisce attraverso l’applicazione di una corrente elettrica debole (~1-2 mA) per un tempo variabile (10-20 minuti, Nitsche et al., 2008), utilizzando una coppia di elettrodi posizionati sullo scalpo (Nitsche&Paulus, 2000; Priori et al., 1998). Uno degli elettrodi ha carica positiva (anodo), mentre l’altro ha carica negativa (catodo). I due poli influenzano in maniera differente la corteccia cerebrale sottostante, infatti il polo positivo depolarizza la membrana neuronale, mentre il polo negativo la iperpolarizza. A differenza della TMS, la polarizzazione indotta dalla tDCS è sottosoglia, ovvero troppo debole per generare un potenziale d’azione; tuttavia, essa è in grado di indurre cambiamenti nel potenziale di membrana a riposo, rendendo la risposta neuronale agli stimoli più o meno probabile (Bindman et al., 1964). La risoluzione spaziale della tecnica è meno focale rispetto alla TMS, gli elettrodi infatti hanno dimensioni variabili (ad esempio sono spesso utilizzati in letteratura elettrodi 5×5 cm, per un totale di 25 cm2 e.g. Nitsche et al., 2008).

Oltre alla differenza nel tipo di effetto indotto a livello cerebrale, le due tecniche hanno peculiarità e limiti che le rendono più o meno utilizzabili in determinati contesti. La TMS, a differenza della tDCS, è uno strumento costoso e difficilmente trasportabile. La somministrazione della TMS, inoltre, può essere distraente/fastidiosa in termini somato-sensoriali: gli impulsi infatti generano dei “click” sonori e contrazioni muscolari facciali, che possono renderla difficilmente utilizzabile mentre il partecipante sta svolgendo un compito.

La tDCS, d’altro canto, non genera particolari sensazioni sensoriali se non un leggero formicolio/prurito sotto agli elettrodi al momento dell’inizio della stimolazione (e.g. Poreisz et al., 2007), per questo è particolarmente adatta ad essere utilizzata durante lo svolgimento di compiti e nei casi in cui sia richiesta una condizione di controllo con stimolazione di tipo sham/placebo (Gandiga et al., 2006).

2. Ambiti di utilizzo delle NIBS: ricerca, diagnosi, trattamento

Le NIBS sono ampiamente utilizzate in ambito di ricerca, allo scopo di indagare lo stato funzionale dei sistemi cerebrali, tracciare una relazione causale tra una certa area/network neurale e l’esecuzione di un compito, approfondire la connettività funzionale tra aree cerebrali e indurre/mappare cambiamenti nella plasticità neurale.

A livello diagnostico, la TMS è utilizzata nel valutare la funzionalità del sistema motorio in diverse patologie, come sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, ictus, disturbi del movimento che riguardano la colonna vertebrale, i nervi cranici e facciali (Rossini and Rossi, 2007; Groppa et al., 2012; Rossini et al., 2015; Menon et al., 2015). Numerosi studi, tuttavia, suggeriscono che la tecnica possa essere utile nella diagnosi differenziale di diverse forme di demenza (e.g. Benussi et al., 2017; Pierantozzi et al., 2004), per individuare specifici marker di trattamento (Canali et al., 2014) e monitorare il trattamento riabilitativo (Cipollari et al., 2015).

Per quanto riguarda le indicazioni al trattamento, a parte poche eccezioni (es. depressione, vedi il paragrafo successivo), le NIBS sono attualmente utilizzate in ambito riabilitativo neuropsicologico e psichiatrico a livello solo sperimentale. Nonostante siano considerate come potenzialmente utili per il trattamento di svariati disturbi, i ricercatori concordano che siano necessarie più evidenze empiriche per stabilirne l’efficacia clinica e tracciare protocolli riabilitativi specifici. A questo scopo, panel di esperti mondiali si occupano periodicamente di valutare lo stato dell’arte sull’argomento e tracciare linee guida per l’utilizzo delle tecniche nella pratica clinica.

Per gli scopi del presente articolo descriveremo lo stato dell’arte dell’utilizzo delle NIBS come intervento nei disturbi psichiatrici.

3. Applicazione delle NIBS in ambito psichiatrico

Ad oggi, i disturbi psichiatrici sono tra le patologie più diffuse in tutto il mondo, con un impatto estremamente negativo sulla qualità di vita e il funzionamento socio-lavorativo, connesse ad alti tassi di mortalità ed elevati costi per i servizi sanitari (Wittchen et al., 2011). Nonostante la maggior parte dei pazienti acceda a trattamenti psicoterapici e farmacologici standard, i dati mostrano che il 20–30% dei pazienti con disturbo depressivo maggiore, il 40-60% dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo e fino al 50% dei pazienti con schizofrenia non rispondano ai trattamenti tradizionali (Bloch et al., 2006; Rush et., 2006; Scholten et al., 2013; Yamanaka et al., 2010).

Questi dati, insieme all’evidenza circa il coinvolgimento di specifici network neurali nei disturbi psichiatrici, hanno reso necessaria la ricerca su forme alternative di trattamento come le NIBS che, affiancando le terapie tradizionali, possono potenziarne gli effetti, consentendo di sviluppare interventi il più possibile specifici ed efficaci.

In particolare, rispetto alla possibilità di combinare la psicoterapia con l’uso delle NIBS i protocolli prevedono un trattamento intermittente, allo scopo di indurre cambiamenti nella funzionalità neurale e nell’outcome comportamentale. Inoltre, gli studi evidenziano che gli effetti neurobiologici della psicoterapia non dipendono solo dalle anomalie anotomo-funzionali che caratterizzano i diversi disturbi, ma anche dagli effetti specifici conseguenti all’applicazione delle NIBS sulla corteccia. Allo stesso modo, in linea con gli studi sull’efficacia dei trattamenti di riabilitazione motoria e cognitiva (Buch et al., 2017; Jahshan et al., 2017), gli effetti degli interventi psicoterapici sull’apprendimento e sui meccanismi di controllo top-down, possono favorire il mantenimento a lungo termine degli esiti delle NIBS (Bajbouj & Padberg, 2014). Da un punto di vista pratico, le NIBS sono economiche e generalmente ben tollerate dai pazienti, favorendo la loro applicazione anche in contesti di sanità pubblica. Confrontate con la farmacoterapia, le NIBS presentano meno effetti collaterali, aumentando la possibilità di compliance dei pazienti.

Nei paragrafi successivi sarà descritto lo stato dell’arte dell’applicazione delle NIBS nei disturbi psichiatrici.

3.1  Disturbo depressivo maggiore (DDM)

Il DDM è il disturbo rispetto al quale l’efficacia delle NIBS è stata maggiormente dimostrata. Il razionale che motiva lo sviluppo e l’applicazione di protocolli delle NIBS per il trattamento del DDM deriva dall’evidenza di anomalie strutturali e funzionali che coinvolgono la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e ventromediale (VMPFC), dell’amigdala e dell’ippocampo (Campbell et al., 2004; Grimm et al., 2009). In particolare, le ricerche evidenziano un’ipoeccitabilità della DLPFC sinistra e un’ipereccitabilità della DLPFC destra (Debener et al., 2000). I protocolli riabilitativi con NIBS hanno quindi l’obiettivo di ristabilire il disequilibrio interemisferico, utilizzando la hf-rTMS sulla DLPFC sinistra e lf-rTMS sulla DLPFC destra (Lefaucheur et al., 2014), oppure la tDCS con stimolazione anodica sulla DLPFC sinistra con catodo sopraorbitale controlaterale, anche se diversi autori stanno suggerendo l’utilizzo di un montaggio bi-emisferico con anodo sulla DLPFC sinistra e catodo sulla regione omologa destra (e.g. Brunoni et al., 2012). L’efficacia della rTMS nel DDM è confermata dalla sua approvazione nel trattamento della depressione farmaco resistente da parte della FDA (Food and Drug Administration, 2008). Per quanto riguarda la rTMS, diversi studi hanno mostrato miglioramenti significativi anche a distanza di tre mesi dalla fine del trattamento quando la stimolazione era associata a CBT (e.g. Donse et al., 2018). In modo cruciale, i miglioramenti osservati poco dopo l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo che sia possibile capire in fase molto precoce se una persona migliorerà oppure no.

Rispetto alla rTMS, uno studio su singolo caso (Vedeniapin et al., 2010) ha mostrato un miglioramento significativo della sintomatologia depressiva dopo 39 sessioni di rTMS ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra, 14 delle quali in combinazione con la terapia cognitivo comportamentale (CBT) standard. Gli effetti dell’intervento combinato sono stati osservati anche al follow-up a distanza di tre mesi. Uno studio più recente (Donse et al., 2018) ha sottoposto 196 pazienti a 10 sessioni CBT in cui la rTMS è stata applicata ad alta frequenza sulla DLPFC sinistra o a bassa frequenza sulla DLPFC destra. In linea con lo studio precedente, i risultati hanno mostrato una remissione significativa dei sintomi anche dopo tre mesi dalla fine del trattamento, senza particolari differenze tra i due protocolli di stimolazione rTMS. Crucialmente, i miglioramenti osservati dopo poco l’inizio del trattamento erano predittivi degli esiti al termine del trattamento stesso, suggerendo la possibilità di considerare le prime fasi di trattamento come riferimento per le successive.

L’efficacia della tDCS nel DDM è tuttora oggetto di dibattito, anche se le più recenti linee guida (Lefaucheur et al., 2017) suggeriscono un’indicazione al trattamento di livello B (efficacia probabile). Uno studio su un singolo caso ha mostrato la sua efficacia quando applicata insieme alla CBT (D’Urso et al., 2013), non replicato da Welch e collaboratori (2018), che registravano miglioramenti sia in caso di stimolazione reale che placebo. Anche la combinazione tra tDCS e Cognitive Control Therapy, che consiste in una serie di esercizi di potenziamento della memoria di lavoro da eseguire al computer, è stata oggetto di studio, mostrando effetti nel caso in cui le due fossero combinate. Gli effetti erano più forti a distanza di tempo rispetto a quelli rilevati subito al termine del trattamento (Segrave et al., 2014) ed erano influenzati dall’età del paziente e dalla loro performance durante gli esercizi cognitivi (Brunoni et al., 2014).

3.2  Fobie

Gli studi di neuroimmagine hanno riportato nel caso di pazienti fobici anomalie funzionali a carico delle strutture neurali quali l’amigdala, l’ippocampo, l’insula e la corteccia prefrontale, che costituiscono insieme alla corteccia cingolata anteriore e al corpo striato il circuito della paura (Davis, 2006), particolarmente coinvolto nei disturbi d’ansia in generale (Shin & Liberzon, 2010). In particolare, si è osservata nei pazienti una ridotta capacità delle strutture frontali di inibire le risposte alla paura di strutture sottocorticali, soprattutto dell’amigdala (Deppermann et al., 2016). La maggior parte degli studi hanno indagato gli effetti della CBT e della stimolazione.

Al momento non ci sono indicazioni sull’efficacia al trattamento delle fobie con NIBS, tuttavia alcuni studi hanno utilizzato protocolli di TMS (Intermittent Theta-burst o iTBS) combinati con CBT mostrando che, nonostante non ci siano dei miglioramenti clinici significativi, il protocollo di stimolazione reale rispetto a quello placebo è in grado di attivare la corteccia che risultava ipofunzionate alla baseline (Deppermann et al., 2016). Tuttavia questi  risultati non sono stati replicati da un altro studio dello stesso gruppo di ricerca in cui la iTBS è stata applicata insieme alla psicoeducazione (Deppermann et al., 2014).

Particolarmente utile nel trattamento delle fobie potrebbe essere la combinazione tra NIBS e realtà virtuale, allo scopo di associare la stimolazione con le tecniche di esposizione. Alcuni studi hanno mostrato effetti benefici positivi, in particolare della rTMS, soprattutto nell’accelerare la comparsa dei benefici della CBT (Guhn et al., 2014) . Uno studio di Notzon et al. (2015) ha invece mostrato che l’utilizzo della iTBS, seguita dall’esposizione tramite la realtà virtuale, non influenzava i parametri elettrofisiologici di pazienti con aracnofobia (conduttanza cutanea, battito cardiaco) durante la presentazione di stimoli fobici. Il protocollo, tuttavia, era costituito da una singola sessione di stimolazione, non sufficiente per misurare l’efficacia di trattamento. Inoltre, è possibile che attraverso la realtà virtuale l’attivazione fisiologica dei pazienti abbia raggiunto una sorta di effetto tetto, tanto da rendere nullo gli effetti della iTBS.

3.3  Disturbo ossessivo-compulsivo

Numerosi studi hanno evidenziato uno squilibrio funzionale tra le due vie neurali che uniscono la corteccia ai gangli della base e il talamo in pazienti con disturbo ossessivo-compusivo (DOC). In particolare, si osserva un’iperattivazione della via diretta eccitatoria, responsabile dell’inizio e della continuazione di un determinato comportamento, e un’ipoattivazione della via indiretta inibitoria, che consente l’interruzione del comportamento e la possibilità di passare da un comportamento all’altro (Cummings, 1993; Groenewegen & Uylings 2000; Saxena & Rauch 2000). La maggior parte degli studi con tDCS sono stati svolti senza accoppiare la neuro stimolazione ai trattamenti standard e considerando su singoli casi o piccoli gruppi di pazienti. In questi casi, si è osservata una riduzione significativa dei sintomi in seguito alla stimolazione catodica della DLPFC sinistra (Volpato et al., 2013). Altre aree considerate come target efficaci di protocolli di stimolazione sono la corteccia orbito frontale (Mondino et al., 2015) e la corteccia motoria supplementare sinistra (D’urso et al., 2016).

Studi con TMS, per la maggior parte su singoli casi, hanno invece osservato effetti combinati della rTMS e della CBT. In particolare, uno studio ha evidenziato miglioramenti clinicamente significativi in una paziente con DOC farmaco resistente dopo 16 sessioni di CBT, 10 delle quali in combinazione conrTMS ad alta frequenza applicata sulla DLPFC sinistra. I risultati sono stati incoraggianti, poiché gli effetti del trattamento combinato sono stati a lungo termine, con un impatto positivo sul livello di funzionamento generale (Grassi et al., 2015). Benché i risultati di questo primo studio siano stati replicati anche da un’altra ricerca (Tan et al, 2015), la metodologia utilizzata non consente di trarre delle conclusioni certe sull’efficacia del trattamento. Infatti, questi studi mancano della condizione placebo, prevedono che i pazienti siano a conoscenza del trattamento che ricevono e non tengono conto delle terapie farmacologiche in corso. Ulteriori studi metodologicamente più rigorosi e su un numero più ampio di pazienti potranno in futuro chiarire gli effetti delle NIBS e della psicoterapia in pazienti con DOC.

Rispetto agli interventi comportamentali invece, uno studio in doppio cieco ha riportato miglioramenti della sintomatologia subito dopo esercizi di esposizione seguiti della stimolazione rTMS ad alta frequenza della corteccia prefrontale mediale e della corteccia cingolata anteriore (Carmi et al., 2018)

3.4  Disturbo post-traumatico da stress (PTSD)

Come per le fobie, anche nel caso del PTSD, molti studi hanno indagato gli effetti del trattamento combinato delle NIBS con la terapia espositiva. I dati di neuroimaging infatti hanno mostrato che pazienti con PTSD mostrano generalmente un’iperattivazione della corteccia prefrontale destra durante l’esposizione a stimoli trigger (Rauch et al., 1996). Quindi la stimolazione può avere come regione target quest’area (lf-rTMS/tDCS catodica) oppure la omologa controlaterale (hf_rTMS/ tDCS anodica) allo scopo di ribilanciare l’attivazione cerebrale. Due studi in cui l’area target era costituita dalla DLPFC non hanno mostrato risultati significativi (Fryml et al., 2019; Osuch et al., 2009), mentre uno studio di Isserles et al. (2013) ha mostrato una riduzione dei sintomi dopo la stimolazione rTMS reale preceduta dell’esposizione a stimoli traumatici, rispetto alle condizioni di controllo (rTMS placebo preceduta dall’esposizione a stimoli traumatici; rTMS reale preceduta dall’esposizione a stimoli non traumatici). La maggiore numerosità campionaria, le caratteristiche cliniche dei pazienti, l’area target e i parametri di stimolazione potrebbero giustificare i risultati positivi dello studio di Isserles e collaboratori (2013).

3.5  Schizofrenia

Nella schizofrenia le NIBS sono state prevalentemente utilizzate per trattare allucinazioni uditive e sintomi negativi, su cui il trattamento farmacologico ha effetti meno efficaci (Lefaucheur et al., 2017). Studi neuropsicologici e di neuroimaging hanno evidenziato come questa sintomatologia sia riconducibile a una disconnessione tra aree frontali e temporali. In particolare, le allucinazioni uditive sembrano riconducibili ad un aumento dell’attivazione cerebrale nell’emisfero sinistro, in particolare a livello del giro temporale superiore (Homan et al., 2013). Gli studi si sono quindi focalizzati sull’utilizzo di rTMS a bassa frequenza o tDCS catodica su questa regione, allo scopo di ridurre l’attività corticale (Lefaucheur et al., 2017). Entrambe le tecniche hanno mostrato risultati significativi (per una meta-analisi sugli effetti della rTMS vedi Slotema et al., 2014), con effetti duraturi per un periodo di tre mesi nel caso di tDCS (Brunelin et al., 2012).

I correlati neurali della sintomatologia negativa, invece, sono costituiti da una ipofunzionalità delle aree prefrontali (e.g. Hill et al., 2004), pertanto la rTMS ad alta frequenza e la tDCS in modalità anodica sono state applicate allo scopo di aumentare l’eccitabilità corticale. Gli studi, condotti su piccoli campioni di pazienti, hanno mostrato miglioramenti nella sintomatologia negativa, associati ad un aumento della connettività tra DLPFC e la corteccia temporale sinistra (Brunelin et al., 2012; Mondino et al., 2015; Lefaucheur et al., 2017).

3.6  Craving

A livello neurale i pazienti affetti da dipendenze mostrano anomalie funzionali a livello della DLPFC, che gioca un ruolo particolarmente importante nel controllo inibitorio e nei meccanismi di ricompensa (Goldstein and Volkow, 2002; Wilson et al., 2004). I ricercatori si sono quindi focalizzati sulla stimolazione di questo network neurale sia per la rTMS ad alta frequenza, che ha mostrato una possibile efficacia per la dipendenza da nicotina, che per la tDCS, che ha ricevuto invece una valutazione di livello B (efficacia probabile) per il trattamento delle dipendenze (Lefaucheur et al., 2017). Negli studi i ricercatori hanno optato per un montaggio di tipo bi-emisferico, con anodo posizionato sulla DLPFC destra e catodo sulla sinistra, che si è rivelata efficace per la dipendenza da nicotina (Boggio et al., 2009; Fecteau et al., 2014), crack/cocaina (Batista et al., 2015)e alcol (Klauss et al., 2014).

4. Conclusione e sviluppi futuri

Come evidenziato dalle recenti revisioni e linee guida (Lefaucheur et al., 2017), le tecniche NIBS e i trattamenti tradizionali, come la psicoterapia e gli interventi cognitivi, hanno fino ad ora mostrato risultati promettenti per il trattamento dei disturbi neurologici e psichiatrici. Inoltre, le NIBS sono da tempo efficacemente utilizzate in ambito clinico, anche in fase diagnostica, e in ambito di ricerca, in cui un numero sempre più elevato di studi si sta occupando di chiarirne gli effetti. Tuttavia, è ancora poco chiaro quale sia il ruolo delle diverse aree neurali considerate come target della stimolazione e in che modo la stimolazione combinata con le terapie tradizionali possa agire sui sintomi, i meccanismi cognitivi e l’outcome comportamentale dei diversi disturbi. Questo breve articolo ha avuto lo scopo di descrivere lo stato dell’arte circa le caratteristiche delle NIBS e i dati di efficacia rispetto all’impiego di queste tecniche combinato agli interventi psicoterapeutici e cognitivi standard, che finora hanno dimostrato un’efficacia parziale. Studi futuri sono tuttavia necessari per mettere a punto protocolli di trattamento con NIBS combinate con i trattamenti tradizionali, identificando con maggiore efficacia le aree neurali target e i meccanismi cognitivi che influenzano i comportamenti e i vissuti patologici dei pazienti.

 

Mindfulness quotidiana: una risposta agli effetti psicologici del Coronavirus

Può la pratica di mindfulness essere di supporto al malessere generato dalle misure restrittive per contrastare il coronavirus di questi giorni? Provare per credere.

 

Numerose sono le applicazioni della mindfulness, dalla clinica al benessere, e diversi sono i protocolli esistenti, ma bastano 10 minuti di pratica al giorno per ridurre i livelli di ansia e stress (Xu et all, 2017).

Il tempo sospeso di questi giorni ci obbliga alla prossimità, tanto con i nostri affetti, quanto con noi stessi, e ci costringe ad abitare casa ma, sopratutto, ci costringe ad abitare il tempo.

Un tempo che non siamo abituati ad avere e a concederci.

Ci sembra di vivere in una bolla, uno spazio interrotto da qualcosa che non ci aspettavamo e che vogliamo mandar via quanto prima, qualcosa che ci ha bloccati.

Emerge allora il senso di costrizione, di paura, di ansia, di incertezza che, tutte insieme, ci trascinano nel vortice. L’istinto è quello di vivere la paura ingaggiando una lotta, alzando muri, irrigidendoci. E il corpo risponde a modo suo: la pressione si alza, lo stomaco brucia, il cuore rimbomba, i pensieri si arrovellano.

Siamo in preda alla naturale propensione della mente, ereditata filogeneticamente, di concentrarsi sul negativo, perché evolutivamente questo ci ha permesso di preservarci come specie, portandoci fino ai giorni nostri. L’attenzione allora si focalizza su ciò che non va. Ed è normale. La mente funziona così. I pensieri negativi si auto-alimentano e ne richiamano altri, attivando il default mode network, una rete neurale che supporta il divagare mentale e che, al contempo, ci prosciuga l’energia, ci stanca.

Spezzare il circolo vizioso è allora fondamentale, oltre che possibile.

Corpo e mente comunicano costantemente e si influenzano in maniera reciproca.

Ed è proprio attraverso il corpo che è possibile arrivare ai pensieri.

Possiamo farlo portando un po’ di mindfulness nelle nostre giornate.

Come? Tornando ad “aprire” la nostra attenzione, proiettandola sulle azioni quotidiane come il cucinare un buon piatto, guardare un film, fare yoga, cucire, leggere o qualsiasi altra cosa ci piaccia. E magari iniziando a praticare delle piccole pause, fermandoci, chiudendo gli occhi e osservando il respiro.

Ecco un esercizio da fare durante la giornata.

Pausa di respiro

Scegli un posto tranquillo in cui puoi rimanere indisturbato, sia dal cellulare che dai familiari per qualche minuto. Puoi sederti o scegliere di rimanere in piedi. In entrambi i casi, fa’ sì che la schiena sia naturalmente dritta e, allo stesso tempo, morbida.

Chiudi gli occhi in modo da portare l’attenzione all’interno oppure, se preferisci, tienili socchiusi soffermando lo sguardo su un punto del pavimento.

Porta l’attenzione al respiro. Fai tre lunghi respiri, poi torna a una respirazione normale, chiudendo la bocca e respirando dal naso.

Osserva il respiro. Nota com’è. Potrebbe essere lungo, corto, veloce, affannoso, calmo. Stai con il tuo respiro così com’è, senza modificarlo. Ogni respiro è fatto da un’ inspirazione e da una espirazione. A ogni inspirazione segue, spontaneamente, una espirazione. Non c’è sforzo in questo.

Porta una mano sull’addome e respira sentendo come l’addome si solleva e si ritrae.

Succederà che interverranno pensieri o sensazioni corporee a distrarti. È nella natura della mente.

Osserva di cosa si tratta: potranno essere pensieri che riguardano cose da fare, preoccupazioni, oppure qualcosa che è successo nei giorni precedenti, o ancora, potresti notare delle sensazioni nel corpo: fastidio, prurito, calore, rilassamento. Ogni volta che succede, torna al respiro lasciando scivolare via la distrazione. In maniera dolce, senza l’intenzione di scacciare qualcosa che è venuto a disturbarti. Come il fiume scorre nel suo letto, i pensieri e le sensazioni scorrono, attraversandoti.

Nota quale effetto producono a livello di sensazioni corporee e di pensiero.

Puoi scriverle se vuoi, creando un piccolo diario di pratica giornaliero.

Comincia praticando per tre minuti al giorno che puoi ripetere in diversi momenti della giornata. Puoi impostare un timer che tenga il tempo per te.

Gradualmente, puoi provare ad aumentare di un minuto alla settimana la tua pausa di respiro.

Fatta con costanza, questa pratica permetterà di abbassare i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e di ridimensionare gradualmente la paura vedendola per quello che è: un importante e potente emozione universale che accomuna gli essere viventi, proteggendoci e al contempo indicandoci di essere prudenti, di adottare le giuste misure, di rispettare le indicazioni.

Portando l’attenzione lontano dal rumore dei pensieri, attraverso le piccole azioni del quotidiano fatte dal corpo, possiamo far spazio in noi stessi, dando forma a quel luogo interiore, sempre presente, fonte di sostegno e stabilità.

 

Realtà Virtuale in psicoterapia: l’importanza di un utilizzo guidato e personalizzato

Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza della realtà virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente.

 

L’articolo di Marina Morgese introduce molto bene riflessioni inerenti l’uso della realtà virtuale in un contesto terapeutico, aprendo al tempo stesso l’opportunità di spingerci oltre, alla luce della sempre crescente disponibilità di strumentazioni di realtà virtuale e dell’ormai decennale letteratura scientifica a supporto.

Non mi soffermerei sulla specificità dell’intervento sulle fobie, in particolare quella dell’aereo, su cui ci sono ripetute prove di evidenza scientifica e previsioni di intervento che integrano anche i futuri sviluppi tecnologici (Botella et al., 2017). Focalizzo invece la mia riflessione su tutti i nuovi possibili utilizzi della realtà virtuale, come appunto quello avveniristico (ma non troppo) di cui si è parlato nell’articolo sopra citato. Non sappiamo quali possano essere gli sviluppi della realtà virtuale da qui a cinque anni: se ci guardiamo indietro, solo cinque anni fa non c’era la possibilità di utilizzare visori di realtà virtuale senza un computer a supporto, quindi con la richiesta di una capacità tecnica da parte di un terapeuta di gestire questo grado di complessità. Per quanto riguarda invece i contenuti a disposizione si trovavano perlopiù ambienti per le fobie e di rilassamento, generalmente prodotti da istituti di ricerca, quindi con i pregi e le limitazioni del contesto stesso: un forte ancoraggio teorico, ma una usabilità in molti casi migliorabile.

Un primo elemento da definire quando parliamo di realtà virtuale è proprio l’usabilità, perché non si tratta di un aspetto accessorio: se il paziente ha difficoltà ad interagire con l’ambiente, ad esempio se quest’ultimo si muove a scatti o ha momenti in cui per problemi di sviluppo i movimenti degli oggetti non seguono le leggi della fisica del mondo reale, vivrà un senso di presenza molto meno forte. Il senso di presenza è l’elemento centrale dell’efficacia della realtà virtuale (Riva et al., 2007), pertanto problemi di usabilità diminuiscono l’efficacia dell’intervento con una proporzionalità praticamente diretta.

Per quanto riguarda i contenuti, invece, la diffusione della realtà virtuale permette di avere a disposizione dello psicoterapeuta un portfolio di soluzioni molto più ampio, grazie principalmente a due bacini di riferimento: contenuti free creati da altri utenti (in alcuni casi, psicoterapeuti a loro volta) e contenuti creati da aziende che stanno investendo nel settore psicologico. Entrambe le soluzioni aumentano contestualmente anche il target di professionisti in grado di poter integrare facilmente la realtà virtuale all’interno del proprio agire terapeutico senza stravolgerlo: uscendo dal contesto specifico delle fobie, storicamente legato all’approccio cognitivo-comportamentale, aumenta infatti una possibile integrazione con altri approcci.

Il secondo elemento da mettere in evidenza è come saper scegliere all’interno della molteplicità di risorse disponibili: l’aspetto chiave in questa direzione per me è rappresentato dal fatto di aver provato e riprovato personalmente l’ambiente in realtà virtuale. Questa indicazione crea sicuramente un filtro pratico, perché richiede al terapeuta interessato all’utilizzo professionale della realtà virtuale in ambito psicologico di essere almeno in parte un “piccolo nerd”, in quanto è necessario dedicare del tempo alla scoperta e alla fruizione dell’ambiente virtuale. Solo in questo modo è possibile poi potersi confrontare col paziente al termine dell’esperienza virtuale, avendo la possibilità di cogliere tutti gli aspetti che possono averlo colpito sapendo esattamente di cosa sta parlando. La realtà virtuale è una esperienza immersiva, per cui molti dettagli possono colpire emotivamente il paziente in modo maggiore rispetto ad altre tecniche classiche. Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente. Solo con una chiara spiegazione del razionale per cui si sceglie questa tecnica e uno spazio successivo di confronto e rielaborazione è possibile inserirla in una formulazione condivisa del caso, che è poi uno degli elementi prognostici più favorevoli sia per l’esito sia per la costruzione della relazione stessa.

Il terzo elemento su cui basare l’intervento terapeutico utilizzando la realtà virtuale come tecnica per favorire il cambiamento è la capacità di prevedere, o quanto meno ipotizzare, quali sono gli aspetti del quadro clinico del paziente su cui l’esperienza immersiva nell’ambiente virtuale potrà intervenire. Un paragone che può essere utile per guidare la riflessione secondo me è l’utilizzo della scala DES nel protocollo EMDR base, per escludere pazienti ad alto rischio di dissociazione. Allo stesso modo è opportuno valutare, anche senza test ma con una valutazione clinica approfondita, quali possono essere i rischi e i benefici dell’esperienza virtuale. Torniamo un attimo all’esperienza avveniristica di I met you, ipotizzando che fra 5 anni possa essere disponibile in ogni nostro studio o ambulatorio come possibilità per far gestire il lutto ai pazienti: con quali dei nostri casi clinici possiamo pensare di utilizzarlo? Con quelli che sono alle fasi iniziali di elaborazione del lutto (Kubler Ross, 1973) o con quelli che riferiscono un lutto in sospeso da anni? Con i pazienti più emotivi o con quelli che hanno meccanismi di difesa più strutturati?

Come prevedibile, inoltrarsi nella riflessione pratica non permette di avere tutte le risposte perché il fascino dell’intervento clinico resta sempre la necessità di personalizzare il proprio agire all’interno del proprio orizzonte teorico di riferimento e alla luce del paziente che abbiamo davanti. Si tratta di una convinzione di base che i miei ormai dieci anni lavoro con la realtà virtuale in psicologia non hanno scalfito, anzi che è stata rafforzata di continuo nella mia crescita come psicoterapeuta, nonostante i miei ripetuti flirt con questa tecnica spesso definita come “fredda”. Al tempo stesso, la necessità di personalizzazione ci ricorda di spostare sempre l’attenzione dal cosiddetto effetto wow della realtà virtuale a quello che invece può darci dal punto di vista terapeutico: non importa tanto quanto avveniristica sia l’esperienza, perché lo stupore di rado ha un potere curativo. Bisogna essere in grado di differenziare anche dentro di noi terapeuti quali ambienti virtuali ci stupiscono e ci entusiasmano e quali invece possono essere utili per emozionare: questo confine non sembra così sottile, eppure è un campanello d’allarme importante per non lasciarci coinvolgere da realtà virtuali cool, ma lasciarci convincere da realtà virtuali potenzialmente terapeutiche (e, possibilmente, evidence-based). L’essenziale non è solo comprendere bene cosa può fare la realtà virtuale, ma puntare alla formazione di terapeuti verso un utilizzo professionale della stessa, che permette di evitare usi impropri dei mezzi che la tecnologia ci offre, riflettendo invece sulle potenzialità che un utilizzo guidato di questi nuovi strumenti potrà sicuramente avere nel nostro campo.

Tratti di personalità oscura e sessismo: la triade oscura odia le donne?

E’ possibile distinguere tra due forme di sessismo, quello ostile e quello benevolo e sembra che il primo possa correlare con i tratti tipici della triade oscura di personalità.

 

 Con il termine triade oscura di personalità si intende un insieme di tratti che comprendono: narcisismo (caratterizzato da idee di grandiosità), machiavellismo (tendenza a manipolare) e psicopatia (continui comportamenti antisociali e mancanza di senso di colpa) (Paulhus & Williams, 2002).

La triade oscura è più prevalente nei maschi piuttosto che nelle femmine e, sempre più spesso, ci si chiede come nascono o da cosa originano questi tratti di personalità (Paulhus & Williams, 2002).

I ricercatori dell’Università della Florida, suggeriscono che la triade oscura sia il prodotto della promozione, da parte della società, della posizione sociale dominante degli uomini sulle donne. Per verificare quest’ipotesi, Melissa Gluck e i suoi colleghi hanno iniziato a indagare se qualsiasi forma di sessismo fosse associata allo sviluppo dei tratti di personalità oscura. Lo studio è stato condotto online su un totale di 295 adulti statunitensi (164 maschi e 131 femmine) che hanno completato questionari self-report riguardanti la triade oscura e il sessismo (Gluck & Choi, 2020).

È importante specificare che il sessismo è una forma di discriminazione, e in quanto tale, è basato su pregiudizi i quali possono essere sia negativi che positivi. Elogiare una categoria di persone a prescindere è una forma di pregiudizio, tanto quanto lo è discriminarle; proprio per questo motivo, il questionario sul sessismo comprendeva due sottoscale, la prima riguardante il sessismo ostile “le donne manipolano gli uomini per i propri interessi’’ mentre la seconda il sessismo benevolo “le donne sono migliori degli uomini’’ (Gluck & Choi, 2020).

I partecipanti dovevano specificare in che misura concordavano con affermazioni come “Le donne cercano di ottenere potere tramite il controllo sugli uomini” (per il sessismo ostile) o “Una donna buona dovrebbe essere messa su un piedistallo dal suo uomo” (per il sessismo benevolo).

Per quel che riguarda la misurazione dei tratti di personalità è stato utilizzato un questionario denominato “The Dirty Dozen” letteralmente “la sporca dozzina”, consistente in 12 item, in scala likert a 5 punti (Gluck & Choi, 2020).

I risultati di questo studio mostrano una correlazione positiva tra i tratti di personalità oscura e il sessismo ostile, ma non con il sessismo benevolo.

Maschi e femmine differiscono sia nei livelli di sessismo che nei livelli di tratti oscuri, entrambe le variabili dipendenti risultano più alte negli uomini; tuttavia le differenze di genere nei livelli di tratti oscuri non sono spiegati dai livelli differenti di sessismo (Gluck & Choi, 2020).

Gli autori sottolineano il legame tra il sessismo ostile e la triade oscura come una scoperta chiave, dato che i risultati suggeriscono che combattendo il sessismo i tratti negativi della personalità nella società come quelli racchiusi nella triade oscura potrebbero essere ridotti.

Si tratta tuttavia di uno studio preliminare dato che il disegno di ricerca è cross-sectional, e le analisi statistiche sono di tipo correlazionale, per tanto i risultati fungono da stimolo che potrebbe dare vita ad altre ricerche sull’argomento (Gluck & Choi, 2020).

 

Iniziare una psicoterapia online: una scelta influenzata soltanto dall’età?

Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire della psicoterapia online.

 

Il recente sviluppo tecnologico ha sicuramente rivoluzionato le nostre esistenze in modi imprevedibili, modificando i nostri stili di vita, le città, i mestieri e le società in modo permanente e irreversibile. Fondamentale per questa rivoluzione è stata l’introduzione di internet, che ha contribuito in maniera determinante all’evoluzione di un ‘villaggio globale’ interconnesso, come definito dal teorico dei media Marshall McLuhan (1962). La velocità con cui la tecnologia cambia e si evolve rende quasi impossibile rimanere al passo, ciò che è nuovo oggi diviene obsoleto in un paio d’anni e possiamo facilmente riscontrare come nella nostra vita quotidiana molte usanze o attività comuni si siano inevitabilmente modificate per assecondare l’onnipresenza tecnologica: il puntare una sveglia, il leggere le notizie di cronaca, il cercare una via sconosciuta, sono solo alcuni degli esempi che immediatamente rendono evidente come il mezzo che rendeva possibili queste attività si sia trasformato grazie all’introduzione dei nuovi supporti informatici.

Di recente, anche il mondo della psicologia si sta aprendo alla possibilità di sfruttare nuovi mezzi tecnologici nella propria pratica clinica e consulenziale. Da un lato, questa tendenza riflette forse un desiderio di innovazione in seno alla disciplina, dall’altro è sicuramente un’esigenza implicitamente espressa dagli utenti stessi, sia per necessità legate alla flessibilità e mobilità garantite da questi strumenti, ma anche, e forse soprattuto, perché i nativi digitali, le nuove generazioni di futuri pazienti, stanno crescendo immersi in una realtà tecnologica, dalla quale la psicologia non può più esimersi, pena l’essere percepita come alienata e non attuale.

In anni recenti quindi si è lavorato per creare applicazioni che consentissero di ‘portare in tasca’ il proprio strumento di benessere psicologico, si pensi ad esempio alla ottima Headspace che fornisce agli iscritti percorsi guidati di mindfulness quotidiani, ad inTheapy, strumento ad usufrutto dei terapeuti per assegnare homework ai propri pazienti e monitorarne l’andamento nel tempo, oppure la cybertherapy, ovvero la possibilità di svolgere le sedute a distanza, servendosi di servizi di videochiamata o di messaggistica istantanea, pratica la cui efficacia è stata confermata da svariati studi (per una review vedi Postel et al. 2008).

Tuttavia, nell’immaginario storico di quei paesi dove non si è andata sviluppando un’adeguata cultura psicologica, permane l’idea vetusta del paziente sdraiato su di un lettino, in uno studio chiuso al mondo e quasi fuori dal tempo, dove misticamente si risolvono i problemi mentali delle persone: una visione che poco si concilia con la flessibilità e mobilità che contraddistinguono i tempi moderni (oltre ad essere comicamente errata). Sorge quindi spontanea una domanda, gli strumenti sono stati creati, ma ora i pazienti vorranno usarli?

Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire del cybercounseling, osservando come il fatto di essere un paziente adulto, facente parte ad esempio delle cosiddette generazioni X e Y (nati tra il 1965 e il 1989) nelle quali la presenza tecnologica è giunta tardivamente, oppure un giovane paziente, come i ragazzi della generazione Z o ‘network generation’ (nati tra il 1995 e il 2015), avrebbe verosimilmente comportato differenti traiettorie, rendendo conto delle differenze generazionali nella familiarità ma anche della disinvoltura nell’utilizzare i nuovi mezzi tecnologici a disposizione.

Lo studio trae il suo fondamento teorico dalla Extended Theory of Planned Behavior di Mak e Davis (E-TPB, estensione dell’originale TPB di Ajzen, 1991) che prevede come diversi fattori intervengano nel modulare l’intenzione di un individuo di utilizzare terapie somministrate telematicamente. Se nel modello classico l’intenzione è determinata dalla compresenza di attitudini, norme soggettive e percezione di controllo sul comportamento target, nella versione estesa questi tre fattori risentono a loro volta rispettivamente dell’attitudine verso l’utilizzo di internet, lo stigma sociale verso la richiesta di aiuto psicologico e da ultimo la percezione della propria autoefficacia nell’utilizzo dei mezzi informatici. I ricercatori hanno raccolto i dati ottenuti da questionari self-report somministrati a 1494 individui, provenienti da due gruppi demografici diversi in termini di età, la generazione Z, ovvero i nativi digitali, e le generazioni X e Y.

I risultati hanno dimostrato come l’autoefficacia nell’uso del computer sulla percezione di controllo del comportamento da una parte e l’effetto dell’attitudine nell’influenzare l’effettiva intenzione di utilizzo della terapia online dall’altra, risultassero avere un peso maggiore nel gruppo anagraficamente più vecchio, in linea con i risultati emersi da precedenti studi (Morris et al., 2005; Wagner et al., 2010), suggerendo come lo sviluppo di interfacce facili da usare per facilitare utenti di ogni livello di alfabetizzazione informatica potrebbe contribuire ad un maggiore coinvolgimento dei pazienti adulti. Contrariamente alle aspettative, l’effetto delle norme soggettive sull’intenzione risultava più debole nella fascia di età inferiore, risultato che è stato interpretato come riflesso dell’ubbidienza e del rispetto del volere dei genitori e di una mentalità collettivista (contrapposta a quelle indivisualiste Occidentali) fortemente presenti nella cultura cinese, effetto che potrebbe differire in altre culture. Al contrario di quanto ipotizzato dagli autori, non si sono riscontrate differenze generazionali negli effetti che sia l’attitudine verso l’utilizzo di internet che e la percezione del controllo del comportamento avevano sull’attitudine, permettendo ipoteticamente di soprassedere su questi aspetti nell’ideazione di campagne di promozione per l’utilizzo del cybercounseling. Allo stesso modo non è risultato significativo l’effetto della percezione dello stigma legata alla ricerca di aiuto psicologico sulle norme soggettive, forse perché la segretezza garantita dal mezzo informatico interviene nel contrastare le resistenze verso la psicoterapia ingenerate dallo stigma legato alla ricerca di supporto psicologico.

Con le dovute limitazioni, date in primis alla non generalizzabilità dei risultati ottenuti a campioni di nazionalità differenti, questo studio suggerisce come sia necessario prendere in considerazione l’impatto che il background di conoscenze e familiarità con i mezzi informatici hanno sull’attitudine verso la cybertherapy, non trascurando aspetti che riflettono la rapida ed inevitabile evoluzione delle tecnologie e le implicazioni che questa ha avuto e continuerà sempre più ad avere sul vissuto personale dei pazienti.

Dipendenza affettiva, tratti ansiosi e stile di attaccamento

Una recente ricerca ha indagato alcune specificità della Love Addiction, in particolare la relazione tra Love Addiction ed ansia di stato, nonché tra Love Addiction e stile relazionale ansioso. Infatti l’ansia, secondo il modello teorico suggerito da Sassaroli (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013), sembrerebbe essere un fattore importante nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo: l’ansia assumerebbe un ruolo importante nel mantenimento del disturbo.

Introduzione

La Dipendenza Affettiva (o Love Addiction) può essere inquadrata nel campo generale delle “nuove dipendenze”, classe di disturbi eterogenei (come la dipendenza dal gioco d’azzardo, da lavoro, da internet) caratterizzata da un forte coinvolgimento in comportamenti ripetitivi e persistenti, che compromettono in maniera significativa la vita relazionale, sociale e professionale della persona (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

Come ci insegnano gli studi sull’attaccamento, il bisogno di vicinanza fisica e psicologica ad un altro essere umano è un bisogno fondamentale dell’individuo.

Si parla di Love Addiction quando la ricerca dell’altro è ossessiva, caratterizzata da continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato, chiusura ed evitamento sociale, totale dedizione ai voleri dell’altro e da un mancato riconoscimento delle proprie necessità, bisogni, desideri e persino della propria identità (Fisher, 2006; Sussman &Ames, 2008).

Si tratta di un disturbo molto spesso pericoloso, in quanto il soggetto dipendente affettivo tende a coinvolgersi in relazioni invischianti con persone tendenzialmente violente ed aggressive verso le quali innesca la propria dipendenza, atta a colmare antichi vuoti affettivi.

La Love Addiction è una patologia ancora poco conosciuta, che solo in anni recenti è diventata oggetto di interesse nell’ambito della ricerca scientifica, probabilmente perché quella delle “nuove dipendenze” è, in generale, una categoria clinica che è emersa soprattutto a partire dagli ultimi anni. Di fatto, tale disturbo non ha ancora trovato spazio nell’ambito di una classificazione ufficiale, tuttavia si tratta di un fenomeno sempre più riscontrabile nel contesto dell’attività clinica (Manfredi, 2016).

Per non ritrovarci dunque spaesati e disorientati rispetto a chi ci porta problematiche di questo genere, è importante allora orientare in questa direzione l’attività di ricerca, al fine di conoscere meglio la dipendenza affettiva e procurarci gli strumenti necessari per una psicoterapia efficace.

Di conseguenza, abbiamo pensato di effettuare una ricerca che indagasse alcune specificità di questa forma di psicopatologia. In particolare ci interessava approfondire la relazione tra Love Addiction ed ansia di stato, nonché tra Love Addiction e stile relazionale ansioso. Infatti l’ansia, secondo il modello teorico suggerito da Sassaroli (Fiore, Ruggiero & Sassaroli, 2013), sembrerebbe essere un fattore importante nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo: l’ansia assumerebbe un ruolo importante nel mantenimento del disturbo.

Metodo

Lo ricerca è stata effettuata su un campione non randomizzato di 112 soggetti, composto dal 62,5% di soggetti femminili e dal 37,5% di soggetti maschili. Non è stato applicato alcun criterio di esclusione salvo la richiesta di adesione al consenso informato.

I test sono stati somministrati on-line, tramite l’utilizzo della piattaforma Google Moduli.

La Dipendenza Affettiva è stata misurata tramite l’utilizzo del Love Addiction Screening Test (LAST), composto da 25 items. Lo strumento self-report valuta la presenza di caratteristiche legate alla dipendenza affettiva, quali ad esempio il coinvolgimento totale nella relazione con il partner e una vita sociale limitata, oppure l’ebbrezza provata in relazione alla vicinanza con il partner.

La variabile “ansia di stato” e’ stata misurata mediante lo State Trait Anxiety Inventory (STAI), laddove l’ansia di stato si definisce come una interruzione del continuum emozionale, che provoca cioè una rottura nell’equilibrio emotivo della persona, che si esprime per mezzo di una sensazione soggettiva di tensione, preoccupazione, inquietudine, nervosismo, reattività (Cattel e Scheier, 1961).

Lo stile relazionale è stato invece valutato con l’utilizzo del test Experiences in Close Relationship – Revised (ECR-R) che valuta in maniera esplicita lo stile di attaccamento adulto nell’ambito delle relazioni di coppia, facendo riferimento a come il soggetto si sente nelle relazioni intime in generale e non tanto a ciò che accade in un’eventuale relazione in atto. È costituito da due scale che misurano rispettivamente la dimensione di Ansia rispetto all’abbandono e di Evitamento della vicinanza, due dimensioni che caratterizzano in modo generale il comportamento di attaccamento degli individui (Brennan, Clark & Shaver, 1998). Gli item che fanno riferimento alla dimensione dell’Ansia valutano il livello di preoccupazione nelle relazioni, la paura del rifiuto ed il desiderio di fusione con gli altri. La scala dell’Evitamento, invece, contiene item che misurano il grado di disagio nelle condizioni di vicinanza e di dipendenza, la negazione dei bisogni di attaccamento e la fiducia compulsiva in se stessi.

Analisi dei dati e risultati

I dati sono stati elaborati attraverso statistiche parametriche. Primariamente, per realizzare il modello mediazionale sono state realizzate delle statistiche preparatorie: una correlazione di Pearson che consente di verificare se possa esserci una relazione tra le variabili; successivamente una regressione lineare che permette di verificare la presenza di relazioni causa – effetto ed infine una regressione gerarchica che evidenzia l’ordine di arrivo della variabili indipendenti sulla variabile dipendente Love Addiction.

I tratti ansiosi misurati tramite il test STAI sono risultati essere il maggior predittore della Dipendenza Affettiva (p < 0.01 al test t di Student).

Anche lo stile relazionale ansioso, misurato attraverso l’utilizzo del test ECR-R, si è dimostrato correlare significativamente con la Love Addiction (p = 0.002 al test t di Student). Quest’ultima è risultata correlare invece in modo inversamente proporzionale con lo stile relazionale evitante (p = – 0.485 al coefficiente di correlazione R di Pearson).

Tramite il test statistico di Preacher & Hayes (2008), è stata inoltre confermata l’ipotesi che lo stile relazionale ansioso sia un mediatore dell’effetto dell’ansia di stato sulla Dipendenza Affettiva (p < 0.05 al test t di Student)

Discussione

Sulla base dei risultati statistici appena riportati, l’ipotesi iniziale appare dunque confermata ed è possibile affermare che l’ansia di stato risulta significativamente correlata alla dipendenza affettiva, risultandone anzi il maggior predittore tra quelli misurati, con un effetto significativo diretto sulle manifestazioni di tale patologia. La potenza dell’ansia come fattore implicato nel funzionamento cognitivo del dipendente affettivo è altresì dimostrata dall’esistenza di una correlazione statisticamente significativa tra stile relazionale ansioso e dipendenza affettiva, che suggerisce l’esistenza di un importante effetto di mediazione esercitato dai tratti ansiosi del soggetto nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza affettiva.

Quanto emerso apre dunque uno scenario nel quale è possibile esplorare nuove ed interessanti prospettive volte a garantire un approccio al trattamento della dipendenza affettiva a più ampio spettro.

Da un lato l’inquadramento dei fattori di tipo ansioso nello sviluppo e nel mantenimento della patologia consente un trattamento tempestivo del disturbo sulla base di quelli che sono risultati i protocolli già efficaci nella gestione della patologie collegate allo spettro ansioso. L’intervento su quelli che sono stati identificati come i principali fattori implicati nei disturbi d’ansia permetterebbe di interrompere un circolo vizioso che, all’interno del contesto relazionale, viene ad acquisire spesso una gravità ancora maggiore e una grande sofferenza dalla quale tuttavia il paziente fatica ad allontanarsi a causa della forte paura della solitudine, che costituisce forse oggi la paura più grande all’interno della nostra società che pur di starvi lontano è alla ricerca costante di nuovi mezzi di connessione digitale e tecnologica. Dall’altro lato, l’individuazione degli aspetti più nucleari e legati all’immagine di sé e alla visione del Sé con Altri consente di arrivare al nodo centrale della patologia e di predisporre le condizioni per un cambiamento duraturo. Considerato che la maggior parte delle persone che vivono una situazione di dipendenza affettiva mostra tratti di tipo ansioso, obiettivo della terapia dovrebbe essere innanzitutto la creazione di un setting in grado di offrire un senso di sicurezza tale da permettere un’esplorazione libera di sé e della relazione verso il raggiungimento dell’espressione del proprio vero Sé. Infine, dal punto di vista dell’alleanza terapeutica, l’individuazione di tali fattori potrebbe facilitare il clinico nella valorizzazione degli aspetti in grado di garantire la creazione di una relazione genuina, autentica, non giudicante e realmente di aiuto per il paziente, permettendogli di vivere l’esperienza di una relazione emotivamente correttiva. È in questo modo possibile creare le condizioni necessarie per poter aver accesso a quello che è il tema doloroso, spesso legato ad un vissuto di indegnità o non amore, che caratterizza le persone che soffrono di dipendenza affettiva.

 

Freud: una serie TV che lascia traccia

Nonostante Freud sia un prodotto esplicitamente commerciale, alcuni tratti della personalità del protagonista sono rappresentati con una vivacità innegabile: l’irresistibile ansia di conoscenza, la smodata ambizione, l’atteggiamento antiautoritario, che sconfina spesso in arroganza e sfrontatezza, e la dipendenza da cocaina.

 

Confesso che da qualche tempo ho crescenti difficoltà ad avvicinare le produzioni cinematografiche o televisive. L’esibizione costante di violenza truce e sanguinaria e la rappresentazione di una sessualità perversa e animalesca mi hanno quasi del tutto estraniato dal piccolo e grande schermo.

Ho fatto un’eccezione per la serie Tv Freud recentemente apparsa su Netflix. Come altri analisti mi sottraggo con fatica ad un interesse un po’ coatto per il padre fondatore della psicoanalisi. Imitazione, antagonismo, voyeurismo contribuiscono senza dubbio a questo fenomeno, del resto ben noto nell’ambiente analitico.

Freud è un prodotto esplicitamente commerciale. Non mira a ricostruire la biografia o la personalità di Freud in modo realistico. Freud è senza dubbio un prodotto di genere, un film in costume che fonde il poliziesco d’intelletto alla Sherlock Holmes con il fantasy dell’occulto. Chi ha passato la mezza età ha senza dubbio pensato alla nota serie Belfagor, ovvero Il fantasma del Louvre degli anni ‘60.

L’Europa fin de siècle dimostrò un interesse inteso per l’occultismo. Grandi artisti, intellettuali, politici, aristocratici, persino monarchi non resistevano all’appeal di medium e sedute spiritiche. In questa atmosfera il regista Marvin Kren cala Freud e i personaggi del suo ambiente. Alcuni hanno tratti più o meno storicamente realistici (ad esempio Breuer, così saggio e paterno, alcuni membri della famiglia di Freud, l’angelica e salvifica Martha). Altri conservano solo il nome di contemporanei, colleghi ed amici di Feud. Occorre qui ricordare che Freud era notoriamente piuttosto scettico verso la cultura dell’irrazionale (cfr. la XXX lezione di Introduzione alla psicoanalisi) e sembra che questo sia stato uno dei punti di disaccordo con il Carl Gustav Jung, il suo più noto allievo.

La struttura del racconto è quella tipica di un prodotto hollywoodiano. Come Frodo Baggings nel Signore degli Anelli, Freud raccoglie intorno a sé un gruppo di personaggi positivi, decisi a sfidare le forze del male morale e politico e dell’oscurantismo scientifico. Analogamente ai supereroi dei fumetti, questi difensori dell’umanità mostrano varie specializzazioni: Freud conosce e tratta l’inconscio, Kiss è dotato di forza sovrumana, Beurer dispensa consigli degni del grillo parlante, la medium Fleur Salomè scatena le forze dell’occulto.

Molti colleghi non hanno potuto completare la visione del filmato. Hanno segnalato la scarsa qualità artistica, o hanno manifestato disagio ed indignazione per l’abuso del nome di Freud per un personaggio così semplificato.

Io invece non ho perso una puntata. Vorrei cercare ora di spiegarvi cosa mi ha avvinto fino alla fine.

Del primo Freud il regista ha colto soprattutto l’interesse per gli stati di coscienza: la trance ipnotica, il sogno. E ha adottato un modulo narrativo assolutamente coerente.

La realtà filmica oscilla ripetutamente, e senza evidente soluzione, di continuo tra esperienza diurna e sogno. Possiamo vedere il padre della psicoanalisi suicidarsi o unirsi incestuosmente alla madre, il feroce Kiss uccidere il proprio doppio, la medium Fleur rivivere ciclicamente gli atroci traumi dell’infanzia. Sullo spettatore si riversa in abbondanza materiale preedipico, carico di sangue, violenza e perversione, solo a volte sapientemente agganciato a spunti psicologici, politici o di storia della cultura (sotto questo profilo una vera chicca è senza dubbio l’uso molto creativo e artisticamente efficace della mitologia ungherese precristiana).

Spesso, però, i sentimenti di orrore, lutto, eccitazione si sciolgono con un sereno risveglio di uno dei protagonisti. Kren ci consente di immergerci reversibilmente in una atmosfera francamente schizoparanoide, che presto intuiamo sarà destinata a stemperarsi in un lieto fine.

La serie Freud quindi avvince il pubblico con un racconto che spesso risulta avvincente e catartico. Per chi ha scelto la via della psicoanalisi, però, il filmato ha in serbo qualche sorpresa più ghiotta e pone questioni più delicate.

La straordinaria somiglianza fisica e fisiognomica del protagonista Robert Finster con il giovane Freud è senza dubbio una sfida. Su una trama evidentemente fittizia e fantastica spiccano abbondanti e precisi riferimenti alla vita privata e familiare di Freud: il conflitto con il padre, la faida con il cognato, il matrimonio lungamente rinviato, perfino la mitica mano appoggiata sulla gamba di Martha sotto il tavolo.

Alcuni tratti della personalità di Freud sono rappresentati con una vivacità innegabile: l’irresistibile ansia di conoscenza, la smodata ambizione, l’atteggiamento antiautoritario, che sconfina spesso nella arroganza e nella sfrontatezza. E soprattutto la tossicodipendenza da cocaina.

I grandi geni dell’umanità sono oggetto di inevitabili meccanismi di idealizzazione. È chiaro che una rappresentazione così cruda, ma non totalmente irrealistica, del padre fondatore della psicoanalisi possa creare un significativo disagio in chi come me ha costruito la propria vita professionale ricalcando per quanto possibile le orme del medico viennese. Freud stesso, però, ci ha insegnato che l’obiettivo specifico dell’impresa psicoanalitica è la ricerca della verità. E a questo mandato non possiamo certo rinunciare.

Penso che il merito principale della serie sia proprio quello di rappresentare in modo vivo e realistico le ambiguità e i conflitti del maestro: eroe pronto a sfidare l’establishment medico-scientifico nell’interesse dei pazienti a lui affidati e dell’umanità in generale e nel contempo scienziato ambizioso e fortemente competitivo; medico votato anima e corpo all’etica professionale, ma anche consumatore abituale di stupefacenti.

La rappresentazione del padre è sottoposta ad inevitabili meccanismi di scissione. Gli psicoanalisti riconducono la loro etica professionale alla scelta ascetica del padre fondatore, ma nei corridoi amano attribuirgli vari successi extraconiugali e torbide storie di incesto. Responsabilità della cura e sentimenti di onnipotenza narcisistica, funzione genitoriale e seduzioni di un godimento immaginario sono componenti quotidiane del transfert professionale nonché del lavoro sul controtransfert per ciascuno di noi. Insomma, pur con tutti i suoi limiti, la serie di Marvin Kren mi ha detto qualcosa della mia vita intellettuale e professionale, e di ciò le sono grato.

 

Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario

La teoria sterniana del cambiamento è riferita al processo di avanzamento terapeutico e si fonda sulle quattro precedenti tesi riguardanti l’esperienza. La teoria spiega come avvengono i cambiamenti su cui si basano i progressi in terapia.

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern, nel secondo si è parlato della Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita, mentre nel terzo sono stati analizzati i temi della forma e del contenuto dell’esperienza e dell’intersoggettività.

La teoria del cambiamento nel processo di avanzamento terapeutico

La teoria del cambiamento nel processo di avanzamento terapeutico costituisce un naturale corollario della teoria sterniana dell’esperienza fondata sulle quattro tesi analizzate. La teoria spiega come avvengono i cambiamenti che costituiscono i progressi del percorso psicoterapeutico che vede faccia a faccia paziente e terapeuta.

Per quanto l’obiettivo di Stern sia quello di fornire un contributo spendibile all’interno della pratica psicoterapeutica, non è raro che, nell’esposizione di tale teoria, egli si serva di esempi presi dalla vita di tutti i giorni. In particolare egli menziona spesso relazioni tra genitori e figli o quelle tra innamorati. Per spiegare cosa intenda per cambiamenti radicali egli si serve di un esempio riguardante due ragazzi che escono insieme per la prima volta.

Può essere utile, a riguardo, un altro esempio non clinico, che riprende alcune considerazioni espresse nei capitoli precedenti.

Una sera d’inverno, un ragazzo e una ragazza […]. (Ivi, p. 144)

Nello stesso capitolo Stern introduce un altro esempio simile.

Farei un parallelo, un po’ estremo, con la vita quotidiana. Mettiamo che un giovane dica a una ragazza “Mi piaci da impazzire”. (Ivi, p. 141)

Oppure, per descrivere il concetto di corrispondenza intenzionale si riferisce al rapporto tra un padre e il figlio di pochi mesi nei momenti che precedono il sonno del bambino. Infine, vi è anche una dichiarazione più esplicita sull’estendibilità della teoria alle relazioni non terapeutiche.

Questo conoscere implicito può essere generalizzato a situazioni simili che riguardano paziente e terapeuta, o anche relazioni al di fuori della terapia. (Ivi, p. 148)

Per quanto il tema non sia mai affrontato direttamente da Stern, sembra che l’idea di una possibile estensione della teoria dell’avanzamento terapeutico alle relazioni non cliniche sia implicitamente da lui condivisa. Se così fosse, la teoria assumerebbe una portata indiscutibilmente filosofica in quanto pretenderebbe di affermare qualcosa sulla la relazione interpersonale in quanto tale e sul ruolo che essa gioca nel cambiamento della vita di un individuo.

Veniamo ora alla descrizione della teoria riassumendola nei suoi punti principali.

La grande svolta sterniana consiste nel proporre come luogo privilegiato del cambiamento, nel processo di avanzamento terapeutico, l’implicito che, per sua natura, vive sempre al presente. Non più il significato esplicito delle narrazioni del paziente che si riferiscono sempre al passato, ma l’esperienza fenomenica immediata che accade qui e ora. Il presente è secondo Stern una dimensione temporale puramente soggettiva, un momento di kairos, una dilatazione del tempo cronologico. Esso può essere vissuto coscientemente (con una coscienza fenomenica non riflessiva) oppure in assenza di coscienza. Nel primo caso l’esperienza gode di un alto livello di attenzione focalizzata e di una registrazione nella memoria a lungo termine, nel secondo caso, invece, ciò che è esperito non è oggetto di attenzione e non viene registrato nella memoria. I periodi di tempo caratterizzati da una coscienza fenomenica continua formano quelli che Stern chiama gli “episodi di coscienza”, mentre quelli vissuti in assenza di coscienza sono detti “buchi non-cs” (buchi di coscienza). Gli episodi di coscienza sono ripartiti in unità chiamate “momenti presenti”. Si tratta di periodi di tempo della durata oggettiva che varia tra 1 e 10 secondi (che mediamente si colloca tra 3 e 4 secondi) in cui il soggetto vive un’esperienza soggettiva cosciente che rappresenta un’unità globale circoscritta e dotata di senso. Tali momenti sono caratterizzati da uno sviluppo temporale soggettivo interno tripartito in “ritenzione”, “presente del momento presente” e “protensione”. I tre termini husserliani si riferiscono rispettivamente ad un “passato immediato che riecheggia ancora nell’istante presente, come la coda di una cometa” (Stern, 2004), ad un istante presente che si muove come un punto su una retta e ad un futuro immediato già anticipato nel presente. Per quanto tripartito il momento presente è colto come un’unica esperienza, un’unica gestalt.

È possibile descrivere il momento presente anche dal punto di vista del profilo dinamico tratteggiato dalle forme vitali che lo abitano: in tal senso esso acquista una “trama” implicita che può essere rappresentata in termini di variazione dell’intensità nel tempo.

Da ultimo, il momento presente costituisce l’unità dell’esperienza cosciente anche in senso oggettivo. Il flusso continuo dell’esperienza è reso discreto da meccanismi innati e automatici della percezione, dell’azione e della coscienza. Il tempo di 3-4 secondi corrisponde infatti alla durata delle unità in cui noi segmentiamo il flusso di informazioni in ingresso, alla durata delle “frasi” che costituiscono il nostro comportamento e al tempo necessario per attivare la coscienza, elemento fondamentale perché si possa parlare di “momento presente”.

All’interno di un contesto relazionale, i momenti presenti possono essere di tre tipi: i “momenti presenti ordinari”, i “momenti ora” e i “momenti di incontro”. I primi godono delle proprietà che abbiamo sin qui descritto. I “momenti ora” invece sono momenti in cui accade qualcosa di decisivo che impone al soggetto la necessità di fornire una risposta che funga da soluzione. Si tratta di momenti di discontinuità e di rottura in cui i soggetti implicati nella relazione sono richiamati al presente e costretti a riorientare il proprio comportamento. I “momenti di incontro” infine sono momenti risolutivi dei “momenti ora”, essi ristabiliscono la relazione su un nuovo livello facendo provare ai soggetti coinvolti la sensazione di essere nuovamente insieme in una condivisione intersoggettiva degli stati mentali.

I “buchi non-cs” (i buchi di coscienza) invece sono periodi di tempo in cui ciò che accade “passa inosservato” e non viene registrato nella memoria. Appartengono a questo tipo di esperienza tutte quelle attività che conduciamo automaticamente senza prestare attenzione e che sono destinate ad essere perdute. In una relazione i “buchi non-cs” sono popolati dalle “mosse relazionali” che corrispondono a tutti quei comportamenti che sfuggono alla nostra coscienza, ma che costituiscono una parte fondamentale della comunicazione implicita.

Momenti presenti e mosse relazionali costituiscono la grammatica dell’avanzamento terapeutico. Esso può prevedere cinque esiti differenti: i cambiamenti radicali, le opportunità mancate, i cambiamenti progressivi, le nuove esplorazioni e le interpretazioni.

I cambiamenti radicali sono forti riorientamenti della relazione paziente-terapeuta che avvengono grazie all’insorgere di un momento ora, che irrompe come un momento di rottura della relazione, risolto dal terapeuta favorendo l’emergere di un momento di incontro. In questi casi si assiste ad un passo in avanti significativo nell’avanzamento terapeutico del quale entrambi i soggetti coinvolti hanno consapevolezza. Tuttavia, si tratta sempre di cambiamenti che non sono provocati da un’attività riflessiva esplicita (come per esempio nelle interpretazioni del significato dell’esperienza del paziente), ma che avvengono qui ed ora nelle pieghe dell’implicito.

Le opportunità mancate costituiscono i fallimenti del tentativo da parte del terapeuta di risolvere un momento ora in un momento di incontro. In questi casi la relazione, a seguito della rottura provocata dal momento ora, non trova un momento di soluzione. Ciò porta a volte persino a dover interrompere il percorso terapeutico in quanto il paziente non sente più di “essere-con” il terapeuta.

I cambiamenti progressivi sono cambiamenti lenti che avvengono gradualmente senza essere notati né dal paziente né dal terapeuta. Solo dopo che la relazione ha raggiunto un nuovo livello è possibile apprezzare il cambiamento. Sono causati dalle mosse relazionali che costituiscono una comunicazione sotterranea fatta di movimenti del corpo, posture, espressioni, ma anche di dialoghi espressi in un determinato modo, organizzando il discorso inconsapevolmente secondo una certa sintassi, selezionando determinati termini ecc.

Le nuove esplorazioni sono delle nuove possibilità di esperienza esplicita che emergono solo grazie ad una variazione del campo intersoggettivo. In tal senso la relazione implicita abilita e contestualizza quella esplicita consentendo di affrontare determinati contenuti ancora inesplorati.

Le interpretazioni, infine, costituiscono il momento di analisi esplicita del significato dell’esperienza del paziente. Nella teoria sterniana esse hanno un ruolo decisamente ridotto rispetto a quello assegnatoli nelle tecniche terapeutiche tradizionali e operano in un intreccio con l’esperienza implicita: da un lato possono seguire i momenti di incontro interpretandoli esplicitamente, dall’altro possono precedere i momenti ora favorendo il loro insorgere.

Fatta eccezione per l’ultimo tipo di esito, in tutti gli altri casi si tratta di cambiamenti che avvengono implicitamente, senza essere programmati e, addirittura, a volte, senza essere notati. Il loro accadere in un presente implicito li rende estranei ad un controllo riflessivo e ad un’intenzionalità precedente che li possa prevedere in anticipo.

La parola in questo panorama gioca un ruolo marginale nel suo aspetto legato al significato, ma centrale per quanto riguarda l’espressione e la costruzione implicita del discorso.

Ne deriva che l’avanzamento terapeutico venga contraddistinto da una certa imprevedibilità e che le caratteristiche del terapeuta che emergono in questo modo di considerare la terapia siano la capacità di improvvisazione, l’autenticità, ma anche l’imprecisione e l’approssimazione poiché conferiscono vitalità umana alla relazione. Ciò che emergerà non sarà la conoscenza delle tecniche terapeutiche (comunque fondamentali) ma lo stile implicito che caratterizza tutto il comportamento del terapeuta.

Lontano dunque dall’idea che sia la comprensione cognitiva dell’altro la strada per il cambiamento, Stern sostiene che esso origini da un’esperienza implicita, condivisa e fondata sulle dinamiche temporali. In ciò dunque si intravede una radicale svolta culturale nell’approccio alla relazione interpersonale: esso si concentra sul presente e sull’esperienza vissuta direttamente. Il passato, l’inconscio, il linguaggio e l’esperienza esplicita del contenuto, vecchi capisaldi della teoria della relazione interpersonale devono lasciare il posto, secondo Stern, alla dimensione implicita dell’esperienza, diretta, vissuta al presente, concentrata sulle forme dinamiche temporali. Tale dimensione dell’esperienza precede, contestualizza e costituisce le condizioni di possibilità dell’esperienza esplicita ed è su di essa che è necessario concentrare la nostra attenzione se vogliamo promuovere un cambiamento attraverso la relazione interpersonale.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
  4. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020

 

Body Dismorphic Disorder: quando la bassa autostima non è che la punta dell’iceberg

Uno studio pubblicato di recente su Psychiatry Research (Grant et al., 2019) ha cercato di indagare la prevalenza del Body Dismorphic Disorder (BDD) e le conseguenze di tale condizione sulla salute fisica e mentale degli individui.

 

Il BDD è caratterizzato da una forte preoccupazione da parte della persona per i difetti fisici percepiti, spesso focalizzati su un’unica parte del corpo (APA, 2013). Questa preoccupazione, provoca un forte disagio e risulta associata a un maggior rischio suicidario rispetto alla popolazione non clinica (Phillips & Menard, 2006; Weingarden et al., 2016;).

Le persone con BDD sono tendenzialmente preoccupate per le caratteristiche del proprio volto, come la pelle o la bocca (Phillips, 2014) anche se alcuni soggetti riferiscono di sentirsi a disagio anche su altre parti del corpo (attenzione che il focus non sia solo sul peso corporeo, sulla pancia, sui fianchi o sulle cosce: in quel caso si potrebbe pensare più a un Disturbo dell’Alimentazione; APA, 2013). All’interno del DSM-5, troviamo il BDD inserito nella sezione dedicata ai disturbi ossessivo-compulsivi e correlati, poiché vi sono alcune caratteristiche in comune tra il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e il BDD, in particolare per quanto riguarda la compulsività (APA,2013).

Diversi studi condotti negli ultimi decenni hanno sottolineato la presenza di forti correlazioni tra BDD e depressione (Cerea et al., 2018; Schneider et al., 2017), ansia (Cerea et al., 2018) e abuso di sostanze (Grant et al., 2005); inoltre, è stato dimostrato che individui con BDD abbiano livelli di impulsività e di compulsività significativamente maggiori rispetto ai controlli (Jefferies-Sewell et al., 2017).

Nel presente studio, gli autori hanno analizzato la prevalenza del BDD in un campione universitario, composto da 3.459 partecipanti, ipotizzando che il disturbo sarebbe stato associato a una scarsa autostima, a un peggior rendimento scolastico, a tassi più elevati di abuso di sostanze, a depressione e ansia e, infine, a maggior impulsività e compulsività (Grant et al., 2019).

I risultati hanno mostrato una prevalenza del BDD dell’1,7% nel campione analizzato (composto per il 63% da femmine e per il 37% da maschi).

Rispetto agli studenti che non risultavano affetti da BDD, quelli che mostravano la sintomatologia del disturbo analizzato avevano avuto, o erano a rischio di mettere in atto in futuro, un numero significativamente maggiore di comportamenti sessuali a rischio; in aggiunta, avevano una quantità significativamente superiore rispetto ai controlli di sintomi depressivi, di sintomi ansiosi e di sintomi correlati al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD).

Infine, il BDD è stato associato a punteggi più alti di impulsività e di compulsività, e con una maggiore maggior propensione a fare uno di sostanze stupefacenti o di alcolici (Grant et al., 2019).

In conclusione, gli autori mettono in luce alcune caratteristiche di un disturbo che sta attirando l’attenzione degli esperti solo da qualche anno: la bassa autostima di cui soffrono gli individui affetti da BDD, non è che la punta dell’iceberg.

 

Covid-19, schemi maladattivi interpersonali e strategie di fronteggiamento: quale relazione?

Quando si dice che l’uomo è un animale sociale si dice una grossa verità: non possiamo fare a meno dell’altro, sia esso reale oppure interiorizzato nella nostra mente. Già normalmente nella vita è molto difficile che questi bisogni siano adeguatamente soddisfatti, in questo periodo drammatico, lo è ancora di più

Si suggerisce l’ascolto di Tomorrow Never Knows (Beatles,1966) durante la lettura.

 

Un altro articolo sul Coronavirus? Ma non si può parlare d’altro? A quanto pare no. Il covid-19 ha impattato a sorpresa sulle nostre vite, stravolgendole. Gli scenari sono ancora tutti aperti, nessuno sa cosa accadrà nelle prossime settimane e nei prossimi anni. Cosa cambierà? Come sarà la nostra vita e la nostra società? Forse è proprio questo stato di incertezza che genera angoscia e paura, oltre alle conseguenze pratiche, relazionali e di salute causate dall’isolamento forzato. Tanto si sta dicendo e tutti ne stanno occupando, a vario titolo e con più o meno legittime competenze. Noi proviamo a farlo puntando l’accento su come le persone stanno reagendo positivamente e in modo sorprendentemente creativo a tutto questo.

Partiamo dal presupposto che tutti noi mammiferi abbiamo bisogni che devono essere soddisfatti, dalla nascita fino all’ultimo respiro (Bowlby, 1969; Dimaggio et al., 2019; Liotti & Monticelli, 2014). Sono sistemi motivazionali interpersonali (SMI) di base, biologicamente determinati. Sono sempre desideri relazionali (Wish), hanno bisogno dell’altro per essere appagati. Le attivazioni dei vari sistemi motivazionali e dei vari Wish alla base degli schemi maladattivi interpersonali (Dimaggio et al., 2019) possono generare quadri variegati di malessere e sintomi clinici più o meno intensi, sia psicologici che fisici. Quando si dice che l’uomo è un animale sociale si dice una grossa verità: non possiamo fare a meno dell’altro, sia esso reale oppure interiorizzato nella nostra mente. Molto dipende dalle immagini nucleari di sé che si sono create e iscritte nei corpi e nella mente in base ai nostri eventi di vita. Già normalmente nella vita è molto difficile che questi bisogni siano adeguatamente soddisfatti, in questo periodo drammatico, lo è ancora di più. Quindi, ci vogliamo sbizzarrire un po’ a ipotizzare cosa succede, senza allontanarci però dalla realtà clinica offerta dai nostri pazienti e che, molto probabilmente, riguarda anche noi terapeuti.

Gli Schemi Maladattivi Interpersonali nel CoViD-19

Ci sono pazienti che si trovano a inibire ogni esplorazione autonoma ed ogni forma di libertà curiosa e legittima, si sentono particolarmente costretti e ingabbiati dalle limitazioni imposte, dalle convivenze con altri familiari, dalle attività inaccessibili, se non in modalità online. I pazienti in fase intermedia di terapia, a cavallo, quindi, tra la concettualizzazione condivisa del funzionamento e la promozione del cambiamento (Dimaggio et al., 2013), dopo tanto lavoro, in cui erano riusciti ad identificare e assecondare il proprio Wish, si trovano scomodi nelle loro case, provando costrizione, impotenza, rabbia. Possono soffrire per questi motivi in modo molto più intenso degli altri.

Poi ci sono i pazienti in cui, in questi stati di emergenza e di riattivazione di un sé vulnerabile, si innesca l’attaccamento. Essi si sentono ancora più abbandonati se costretti, ad esempio, a stare lontani dai propri cari, a non poter ricevere cure e attenzioni dall’altro e magari faticano a differenziare, scambiando distanza per abbandono schema-correlato. Possono allora, provare paura e ansia, emozioni che devono pur gestire in qualche modo.

Per altre persone invece il problema principale è la sopravvivenza, sono principalmente preoccupati per la propria salute e terrorizzati di contrarre il virus (sistema di sicurezza e/o di attaccamento). Pensiamo poi a tutte quelle persone che hanno genitori anziani o figli lontani, qui l’accudimento può essere ai massimi livelli. Ci si sente colpevoli o indegni anche se la badante ha fatto la pasta un po’ scotta o se il figlio fuori sede è dimagrito 300 grammi. Oppure, pazienti che sono angosciati esclusivamente dal fatto che possono contagiare gli altri qualora dovessero contagiarsi loro, sentendosene in colpa solo all’idea. Già costruiscono scenari apocalittici in cui sono untori, responsabili del danno altrui. E quindi possono scegliere di autoisolarsi, o attuare altre modalità di accudimento ipertrofico verso l’altro.

Inoltre ci sono loro, i pazienti che desiderano l’apprezzamento grandioso e speciale, che impegnano molto tempo nell’immaginare azioni eroiche, salvifiche. Si immaginano nella loro torre d’avorio, intoccabili, ad essere i primi a trovare il vaccino, i primi a suggerire manovre anti crollo finanziario. Sono i paladini delle mascherine introvabili. E poi, invece, ci sono gli adepti del workaholism e del perfezionismo che, ovviamente bloccati, non potendo lavorare, produrre, studiare o essere performanti nello sport, nelle uscite, nella società, nella sessualità, devono combattere con quei vissuti di inadeguatezza, oppure di indegnità e cadere nella “sindrome del Grande Lebowski” (si vedono fannulloni, oziosi e lavativi, ai margini del gioco della vita). E cosa succede quando l’attivazione riguarda il sistema sessuale? Convivenze forzate con partner trascuranti mentre gli amanti sono lontani, magari anche loro con partner controllanti, impossibilitati alle fughe d’amore ma anche a contatti telefonici o via social. Ovviamente la peggio è per coloro che sono a casa con conviventi o familiari violenti.

Chi invece è abituato a lavorare in equipe (gruppi di lavoro, sportivi o musicisti), mosso dal desiderio di cooperazione o di inclusione, soffrirà molto per il mancato soddisfacimento di questa attività di squadra. Chi ha una vita sociale ricca e soddisfacente, risente della lontananza e della impossibilità a svolgere le attività gruppali.

Mastery, coping e tanta creatività

Come gestire tutte queste attivazioni? Le emozioni che ne derivano come ansia, colpa, paura, tristezza, rabbia? Le immagini di sé come abbandonati, incapaci, dannosi, non amabili? Quando si attivano, ci fanno pensare, agire e sentire in modo automatico e procedurale come se veramente fossimo soli e abbandonati, fallimentari e inadeguati, bloccati per sempre o pericolosi criminali, costringendoci ad attuare strategie di coping non sempre adattive.

Sappiamo bene che la prima cosa da fare è esserne consapevoli e distinguere la rappresentazione che abbiamo di noi stessi dalla realtà, anche se in momenti del genere, è particolarmente difficile. Come quando a una mia paziente, Maria, devo ricordare che è vero che il suo ragazzo Roberto è in isolamento a 100 km di distanza, ma questo non vuol dire che non è più nella sua mente. Eh, sappiamo quanto è faticoso!

A parte questo indispensabile processo di differenziazione, sono essenziali coping funzionali e mastery di secondo e terzo livello (Dimaggio et al., 2019), a livello sia individuale che collettivo. In realtà è proprio quello che stiamo già osservando. Molte persone, in modo autonomo ed efficace, tanto per fronteggiare l’angoscia del virus, ma anche l’isolamento forzato, si stanno appoggiando ai social come Facebook o Instagram. L’APP che più sta avendo successo è Tik-Tok. È efficace perché, date le sue caratteristiche, dà la possibilità di realizzare rapidamente video di pochi secondi, molto dinamici, divertenti e leggeri, in perfetta linea con i tempi digitali di oggi. Inoltre, alcune piattaforme interattive come Skype, Zoom o videochiamate WhatsApp permettono di vederci spesso, di condividere, di sentirci meno soli. Addirittura gruppi di colleghi collaborano in Smart Working per raggiungere ugualmente i loro obiettivi. Gruppi di amici che continuano a fare allenamenti sportivi in diretta video o aperitivi arrangiati con popcorn e Martini. Fedeli che si riuniscono per pregare. Ovviamente noi terapeuti usiamo tutte queste possibilità tecnologiche anche per continuare a seguire i nostri pazienti. Ne abbiamo già parlato in un altro articolo Le terapie online: quello che accade attraverso uno schermo. Insomma, l’isolamento può essere subito o affrontato. Tutta questa tecnologia, effettivamente, ci sta permettendo di ricadere nel secondo caso.

Sono fortunati poi, anche coloro che approfittano di questo tempo nuovo per rafforzare le unioni o per dare spazio al gioco sociale (Panksepp, Biven 2012). In questa categoria rientrano ad esempio, padri e madri che, magari poco abituati, si trovano a dover gestire i tempi morti a contatto stretto con i loro figli reinventando il tempo libero.

Quello che accade nelle chat Whatsapp, nelle condivisioni di meme, foto o video come possiamo definirlo? Cosa succede quando Vito mi manda immagini divertenti sulle bimbe di Conte o su RoboDeLuca oppure video di uomini con la pancia che implorano pietà? Cosa succede in lui quando io gli mando le foto dei miei gatti o della mia disperazione dopo 8 giorni di isolamento? Cosa gli è accaduto quando, con delle amiche, gli ho fatto una videochiamata a sorpresa e l’ho beccato proprio mentre uno dei suoi figli spegneva le candeline per il suo compleanno? È accaduto che mi ha scritto un messaggio che recitava: “Grazie, vi adoro”. Accade una cosa magica, difficile da spiegare. Eppure noi terapeuti la conosciamo bene, perché accade spesso in diversi momenti delle nostre sedute con i pazienti. Si chiama sintonizzazione, rispecchiamento. Si chiama condivisione e interrelazione. Equivale a dire: non sei solo, ed io mi sento esattamente come te.

La soddisfazione vicaria dei Wish tramite la creatività e la vicinanza virtuale è rapidissima, si moltiplica di giorno in giorno, di ora in ora vengono creati e diffusi nuovi meme, video, vignette, grafiche, messaggi vocali che ci permettono di shiftare ad esempio dal bisogno di attaccamento, di apprezzamento, di autonomia fisica a quello della condivisone giocosa. Tramite la creatività, perfino il sistema sentimentale o sessuale shifta produttivamente nel gioco. Diciamocelo, in questo periodo, complice anche il tempo libero, girano molto più frequentemente immagini e video a contenuto ironicamente piccante. Tutto ciò ha però una funzione cooperativa, crea un senso di vicinanza generale che sta avvenendo in vari modi. Si va a soddisfare un bisogno di ordine superiore di intersoggettività, si passa dai SMI di secondo livello a quelli primari. A questo servono allora gli applausi, i flash-mob, le bandiere, l’inno di Mameli, i concerti sui balconi e la diffusione di contenuti sui social.

Quello che, alla fine di questa riflessione vogliamo chiederci è: ce lo saremmo mai aspettato? Avremmo mai pensato di trovare modi così funzionali per gestire l’isolamento ed il senso di precarietà che ci troviamo a vivere? Questa è la faccia bella della nostra umanità. In questo senso allora non è vero che ce la faremo, ce l’abbiamo già fatta.

 

I Disturbi d’Ansia e la Mindfulness

La mindfulness può diventare un mezzo potente ed efficace per entrare in relazione con la propria esperienza interna, come quella di ansia o paura nei disturbi d’ansia, imparando a conoscerla e a riconoscerla ogni volta che si presenta alla nostra coscienza, e ad accettarla con pazienza e fiducia piuttosto che cercare di reprimerla; quindi grazie alla mindfulness, impareremo a “stare” con la nostra ansia piuttosto che a temerla e quindi evitarla.

 

L’ansia è una normale emozione della condizione umana che segnala una minaccia non ben definita. Infatti lo scopo principale a livello evoluzionistico è quello di segnalarci un pericolo imminente e di preparare il nostro organismo, attraverso l’attivazione del sistema nervoso simpatico e la secrezione di cortisolo, a due possibili reazioni ovvero quella di attacco o di fuga. Ma se nel mondo animale è molto più semplice individuare quali possono essere possibili fonti di pericolo, nel mondo umano è estremamente più complesso dare una definizione unica e certa di cosa può rappresentare un pericolo per un individuo. Per esempio tutto ciò che mette a repentaglio la propria sopravvivenza, oppure un pericolo può essere anche psicologico quando non è in gioco la vita stessa ma i problemi possono essere economici, relazionali, lavorativi, ecc. Anche la tempistica fa la differenza: infatti il pericolo può essere presente in questo preciso momento o può essere immaginato, prospettato nel futuro oppure anche ricordato da situazioni passate. Quindi, forse, per cercare di dare una definizione di pericolo nella nostra società, esso consiste in tutto ciò che possiamo descrivere come un problema, ovvero una questione che in un determinato momento della nostra vita ha bisogno di tutte le nostre energie, delle nostre risorse, della nostra attenzione per poter essere affrontato e che non può essere accantonato e tanto meno ignorato fino a quando non troviamo una soluzione. L’ansia diventa patologica oltrepassando i livelli di normalità quando il sistema dell’ansia si attiva anche in situazioni in cui non sarebbe necessario (come per esempio parlare in pubblico), quando raggiunge livelli di intensità tali da ridurre le capacità delle funzioni cognitive come per esempio l’attenzione o la memoria e infine quando questa attivazione si manifesta ripetutamente e costantemente per un periodo prolungato di tempo riducendo la qualità di vita della persona e causando una compromissione del funzionamento in ambito lavorativo, sociale o in altre aree importanti. In questi casi si può parlare di un vero e proprio disturbo d’ansia (American Psychiatric Association, 2000). Secondo il DSM5 sono classificati tra i Disturbi d’Ansia il disturbo d’ansia di separazione, il mutismo selettivo, la fobia specifica, la fobia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata e il disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci. Nonostante ci siano delle differenze significative tra i vari disturbi d’ansia, ci sono dei meccanismi cognitivi, emotivi, corporei e comportamentali che non solo mantengono ma addirittura alimentano tutti i disturbi d’ansia. Per spiegare alcuni di questi meccanismi tipici dei disturbi d’ansia diamo la parola ai pazienti.

L’altro giorno quando ero in treno ho cominciato a sentire che mi stava mancando l’aria, non riuscivo più a respirare, sentivo un forte caldo, un vuoto alla testa, non sapevo che cosa mi stesse succedendo, non riuscivo proprio a capire…mi sono impaurito tantissimo anche perché queste sensazioni continuavano a peggiorare sempre di più! Ho pensato che stessi per impazzire!

In questa situazione possiamo notare un’attenzione selettiva verso dei sintomi fisici (mancanza d’aria, caldo) e cognitivi (vuoto alla testa) che hanno fatto interpretare in modo catastrofico (catastrofizzazione) al paziente quello che stava succedendo.

Prima di ogni esame mi preoccupo tantissimo molti giorni prima, comincio a immaginarmi le situazioni peggiori… e se il prof mi farà domande alle quali non saprò rispondere? Potrei andare nel pallone, stare zitto…. Che figuraccia farei…magari potrei anche bocciare l’esame per l’ennesima volta… non riesco proprio a non pensarci, è un pensiero fisso che mi assilla, e più mi preoccupo e mi più mi agito. Capita anche che, proprio per tutta questa ansia dei giorni prima, non mi presenti all’esame e rimandi. 

Questo paziente descrive un meccanismo tipico dell’ansia ovvero un pensiero ripetivo di preoccupazione chiamato rimuginio che alimenta un’ansia anticipatoria prima di situazioni che la persona può trovarsi ad affrontare portando a volte anche ad evitare l’esposizione all’evento temuto (non presentarsi all’esame).

Di solito porto sempre con me le goccioline che mi ha dato il mio psichiatra, una bottiglietta d’acqua nel caso in cui mi venisse un attacco di panico e tengo sempre il cell in mano per essere pronta a chiamare mio marito. Nonostante tutto questo, l’altro giorno, mentre stavo camminando per strada, ho sentito un forte dolore al petto, dei tremori in tutto il corpo, il cuore battere fortissimo…ho capito subito cosa mi stava succedendo, mi sta venendo un’altra volta un attacco di panico. Mi sono fermata, mi sono seduta per terra, non mi è servito a niente bere un po’ di acqua. Non sono più riuscita a muovermi fino a quando non è venuto a prendermi mio marito…quando è arrivato ero un po’ più tranquilla perché avevo già preso qualche gocciolina.

In questo esempio sono evidenti altri due meccanismi ovvero i comportamenti protettivi cioè tutti i comportamenti che vengono messi in atto per evitare le conseguenze temute (in questo caso portare con sé le goccioline date dallo psichiatra, l’acqua e tenere a portata di mano il cellulare) e la paura della paura cioè il timore che si possano provare nuovamente, come in momenti precedenti, sensazioni corporee legate all’ansia.

Durante una riunione con dei miei colleghi ho fatto vari interventi esprimendo di volta in volta le mie riflessioni e le mie opinioni. A un certo punto il mio capo mi ha fatto notare che avevo detto una cosa ormai non più attuale e avrei dovuto aggiornarmi di più. In quel momento sono diventato tutto rosso, la mia mente era vuota, non riuscivo più a concentrarmi su cosa dire o replicare, mi sembrava che tutti mi stessero guardando e stessero capendo che figuraccia avevo fatto e stessi facendo. Ho passato il resto della riunione in silenzio senza più intervenire continuando a ripensare continuamente a cosa era successo. Anche quando sono uscito da lavoro non riuscivo a levarmi dalla testa la figuraccia che avevo fatto alla riunione, mi tornava in mente in continuazione l’immagine di me completamente paonazzo e in difficoltà. So che tutti penseranno che sono uno strano, stupido e imbranato.

Nel racconto di questo paziente possiamo riscontrare l’astrazione selettiva ovvero di una situazione viene rilevato solo un aspetto, a discapito di altri (in questa situazione il momento in cui il paziente è stato ripreso perdendo invece tutti gli altri momenti positivi in cui era intervenuto), il pensiero dicotomico cioè il pensiero bianco/nero, tutto/niente (in questa situazione una critica ricevuta dal capo ha fatto sì che il paziente ricordasse questo evento come un totale fallimento) e infine la rivalutazione a posteriori più precisamente chiamata ruminazione (il ripensare e ancora ripensare concentrandosi nel ricordo di un’immagine negativa, goffa, impacciata di sé).

Gli approcci standard per i disturbi d’ansia includono l’intervento psicoterapico e il trattamento farmacologico (American Psychiatric Association, 2005). Per un miglioramento a breve termine dei sintomi risultano ugualmente efficaci interventi psicoterapici come la terapia comportamentale che si focalizza sull’esposizione graduale della persona alle situazioni temute per ridurre l’evitamento, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT, Cognitive-Behavioral Therapy) in cui si ha un intervento cognitivo di individuazione e ristrutturazione di credenze e valutazioni distorte e disfunzionali unito ad un intervento comportamentale di esposizione graduale alle situazioni temute (Barlow, 2002) e la terapia farmacologica come per esempio le benzodiazepine, gli antidepressivi triciclici, gli inibitori della monoamminaossidasi e gli inibitori della ricaptazione selettiva della serotonina (Sheehan &Harnet Sheehan, 2007). A lungo termine la CBT ha dimostrato un’efficacia maggiore rispetto alla terapia farmacologica (Otto, Smits & Reese, 2005). Nei casi cronici e resistenti al trattamento è risultato efficace un intervento integrato di terapia psicoterapica e farmacologica (Sheehan & Harnett Sheehan, 2007).

Negli ultimi anni a questi approcci standard sono stati affiancati interventi di nuova generazione come per esempio la mindfulness al fine di incrementare i risultati ottenuti a breve e a lungo termine per quanto riguarda varie psicopatologie fra cui i disturbi d’ansia (Feldman, 2007; Hayes, 2005; Lau & McMain, 2005; Orsillo & Roemer, 2005; Segal et al. , 2002).

Dopo aver osservato i meccanismi cognitivi, emotivi, corporei e comportamentali da vicino tipici dei disturbi d’ansia andiamo a vedere perché e in che modo la mindfulness può contribuire in modo efficace ad incrementare e a stabilizzare i miglioramenti ottenuti grazie agli approcci standard.

Tramite la pratiche di meditazione è possibile allenare una funzione cognitiva molto importante come quella dell’attenzione mantenendo un focus attentivo in modo intenzionale al momento presente in contrapposizione a un focus attentivo che di solito viene pilotato dai nostri automatismi oppure dalle nostre reazioni emotive. Durante le pratiche di meditazione, così come nella nostra vita quotidiana, facciamo esperienza del fatto che la nostra mente vaghi continuamente (mente scimmia). Questo è un fenomeno normale e può accadere un numero infinito di volte. Ma mentre stiamo praticando siamo invitati ad accorgerci di quando questo accade, riconoscere che cosa aveva distratto la nostra attenzione (per esempio un pensiero, un rumore, ecc.) e con gentilezza ed intenzionalità lasciare andare sullo sfondo questa distrazione per riportare la nostra attenzione su ciò su cui ci stavamo focalizzando in quel preciso momento della pratica di meditazione (per esempio il respiro oppure i punti di appoggio). Questo è già un atto di consapevolezza. E’ così che più pratichiamo più diventiamo consapevoli di cosa ci sta accadendo in un preciso momento a livello di pensieri, di sensazioni corporee e anche di emozioni del momento presente (Hahn, 1976; Kabat-Zinn, 1990); Salberg & Goldstein, 2001; Brantley, 2003).

La mindfulness diventa quindi un mezzo potente ed efficace per entrare in relazione con la propria esperienza interna, per esempio come può essere quella di ansia o paura come nei disturbi d’ansia, imparando a conoscerla con curiosità ed apertura e a riconoscerla ogni volta che si presenta alla nostra coscienza (questa è la mente del principiante, uno dei 7 pilastri della mindfulness; Kabat-Zinn,1990). La conoscenza dell’esperienza interna (pensieri, emozioni e sensazioni corporee) ci permette anche di accettarla con pazienza e fiducia piuttosto cercare di reprimerla, di contrastarla o di lottare contro la sua spiacevolezza (in questa frase ci sono altri 4 pilastri della mindfulness: accettazione, pazienza, fiducia e non cercare risultati; Kabat-Zinn, 1990). Quindi, grazie alla mindfulness, impararemo a “stare” con la nostra ansia piuttosto che a temerla e quindi evitarla.

Inoltre in questo modo possiamo assumere un punto di osservazione diverso da cui guardare la nostra esperienza interna, invece che essere fusi, identificati con essa, possiamo vederci distinti, distaccati come se fossimo su una sponda del fiume ad osservare il flusso di sensazioni corporee, di emozioni e anche di pensieri che in quel momento attraversano la nostra consapevolezza (Salzberg & Goldstein, 2001; Segal et al., 2002; Teasdale et al., 2002). Shapiro et al. (2006) scrivono a riguardo “invece di essere immersi nel dramma della propria narrazione o della storia di vita personale, riusciamo a fare un passo indietro e semplicemente ne diventiamo testimoni”. Nei disturbi d’ansia quindi sarà possibile per esempio riconoscere i propri pensieri come semplici eventi mentali e non come un’accurata descrizione della realtà e di conseguenza riconoscere quando siamo finiti nel fiume dei nostri pensieri, tornare sulla sponda del fiume e lasciare fluire e scorrere il fiume dei nostri pensieri (lasciar andare è un altro dei 7 pilastri della Mindfulness; Kabat-Zinn, 1990). Si ridurranno così di conseguenza processi come il rimuginio e la ruminazione.

E ancora a cascata la conoscenza, la consapevolezza, l’accettazione, il lasciare andare creano ulteriori circoli virtuosi invece che viziosi nei disturbi d’ansia. Infatti grazie a tutte queste abilità continuamente addestrate durante la mindfulness riusciamo anche a disattivare i piloti automatici che siamo soliti utilizzare continuamente senza la nostra consapevolezza, soprattutto in risposta alle nostre reazioni emotive. Alcuni piloti automatici tipici delle reazioni ansiose sono l’evitamento di situazione temute, il rumiginio, la ruminazione oppure strategie immunizzanti come per esempio abuso di alcool o sostanze che hanno l’effetto di ridurre momentaneamente lo stato ansioso ma che invece a lungo termine lo mantengono e lo alimentano.

Infine tramite la mindfulness alleniamo anche un’ altra abilità ovvero quella del non giudizio (un altro pilastro della Mindfulness; Kabat-Zinn, 1990) sia nei nostri confronti ma anche nei confronti degli altri. Durante le pratiche infatti impareremo a riconoscere questa tendenza naturale della nostra mente a voler giudicare tutto e tutti, osserveremo questo fenomeno come un pensiero, un semplice evento mentale, e così come gli altri pensieri lo lasceremo andare nel fiume dei nostri pensieri. Proviamo solo ad immaginare che effetti benevoli può avere questa abilità per le persone che presentano fobia sociale, che tendono ad essere molto critici verso se stessi. Ognuno di noi avrà quindi la possibilità di sviluppare una maggiore gentilezza compassionevole nei propri confronti e verso gli altri.

Quindi, concludendo, è evidente come la mindfulness possa essere un valido aiuto di integrazione sia agli interventi psicoterapaci che a quelli farmacologici risultati efficaci nel trattamento dei disturbi d’ansia a breve termine per interrompere i cicli di mantenimento tipici dell’ansia e a lungo termine per ridurre la vulnerabilità e quindi per mantenere e rafforzare i miglioramenti ottenuti nel tempo.

 

 

I rischi della limitazione delle libertà personali al tempo del coronavirus – Videoconferenza online con G. M. Ruggiero

Quali sono i rischi della limitazione delle libertà personali al tempo dell’epidemia da Coronavirus? Giovanni Maria Ruggiero e altri importanti esperti si confrontano in un’interessante videoconferenza.. 

 

Rosalba Reggio de Il Sole 24 ORE intervista alcuni esperti sui rischi di limitazione delle libertà personali al tempo dell’epidemia da Coronavirus. Il Direttore di State of Mind, Giovanni M. Ruggiero, discute degli aspetti psicologici di questi rischi. Si parla inoltre anche degli aspetti filosofici con Massimo Cacciari, storici con Stefano Bottoni, e giuridici con Graziella Romeo e Rocco Todero.

 

LA VITA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA:

 

 

“Gli Dei con gli Ani” della Quarantena: il recupero della Sensazione di Morte al tempo del Covid 19

Il Coronavirus ha costretto i vari Governi ad attenersi a nuove misure di prevenzione, cambiando improvvisamente le abitudini e lo stile di vita dei paesi interessati, e ha portato l’uomo riscoprire elementi psico-culturali ormai dimenticati, come la salienza della mortalità. 

 

Fra i meccanismi di difesa dell’Ego Umano, la Negazione della mortalità ha assunto un ruolo principale nella società odierna, grazie al declino del senso religioso e alla maggior importanza data all’Immagine grazie ai Social Media. Tuttavia, con l’avvento della pandemia del Coronavirus, si sta riscoprendo il valore della fragilità e del senso del limite del corpo umano.

Segue una breve analisi di ciò su basi didattiche e di cultura generale.

Sin dalla sua diffusione ufficiale, il virus Covid-19, conosciuto maggiormente col termine di “Coronavirus”, ha portato delle conseguenze assai corpulente nelle questioni economiche, geopolitiche e culturali (Bollettino ANSA, 2020). Il virus in questione, grazie alla facilità di trasmissione e alla assenza di vaccini e di strumenti scientifici per combatterlo, che attualmente sono sotto fase di studio e in attesa della fase di sperimentazione (Loiacono, 2020; Bollettino Ansa, 2020), ha costretto i vari Governi ad attenersi a nuove misure di prevenzione, come il mantenere la distanza prossemica di un metro, l’utilizzo obbligatorio di mascherine, l’utilizzo di gel disinfettanti il più possibile e la chiusura degli esercizi commerciali non considerati necessari (Foschi, 2020). Tutto ciò ha portato a un cambiamento improvviso delle abitudini e dello stile di vita dei paesi interessati, accolto con una grandissima resistenza dalle loro popolazioni, sebbene le onerose multe legate alle loro violazioni (Ziniti, 2020).

Dal punto di vista psicosociale si è potuto constatare empiricamente un aumento di ansia sociale, di paranoia di massa e di sintomi derivanti dall’isolamento: il livello epidemiologico è stato tale che il mondo medico psichiatrico si è mosso in massa per offrire elementi di prevenzione mentale (Sandal, 2020). Inoltre, il Covid-19 ha avuto conseguenze importanti dal punto di vista psicopolitico e sociologico, aumentando ulteriormente la ricerca di sicurezza e il richiamo ad un governo dell’Uomo Forte di stampo ultraconservatore (Applebaum, 2020; Haski, 2020).

Uno degli elementi psico-culturali, nella cultura accademica e generale, che ha ricevuto un grande riscoperta come conseguenza di questo periodo è la salienza della mortalità. Come sottolinea lo scrittore Domenico Starnone nella sua rubrica Parole del 20 Marzo (2020), uno delle poche conseguenze positive di questo periodo attuale è l’abbandonare la presunzione dell’eterna giovinezza: di fatto, come indica Starnone, in questo ventennio del ventunesimo secolo si è combattuta una guerra disperata conto l’invecchiamento naturale del corpo e il senso di Vecchiaia in generale, soprattutto dovuta al ruolo essenziale dell’Immagine nella società attuale ampiamente influenzata dai social media. Guerra persa ovviamente in partenza, dato che il riscoprire la materialità del corpo è un ulteriore invito a reintegrare nelle proprie vite il Senso del Limite e il Senso di Saggezza (Galimberti, 2012).

La cultura occidentale, principalmente quella di stampo europeo, ha avuto sempre un rapporto controverso con la Mortalità del Corpo: come sottolinea lo psichiatra Vittorino Andreoli, rispetto ad altre culture, l’Occidente ha cercato sempre di nascondere o di minimizzare gli effetti della salienza della Mortalità attraverso vari meccanismi di difesa, come la sua spettacolarizzazione, la sua negazione o la creazione di un aldilà di stampo religioso in modo da dominare teoricamente il proprio destino (2020).

Uno dei problemi principali alla conoscenza della propria fine è dovuta alla autoconsapevolezza (Arndt, Greenberg., Simon, Pyszczynski, Solomon, 1998), vista l’anticipazione del Dolore che essa causa nella propria vita e dei propri cari (Andreoli 2003), conducendo a quella gestione delle risorse interne che l’antropologo Ernst Becker ha identificato come terror theory management (1973), ovvero la negazione inconscia e subconscia della nozione di mortalità come meccanismo di sopravvivenza. Meccanismo di sopravvivenza che si è evoluto e modificato nelle varie epoche culturali e sociali dell’essere umano, fino ad avere una grande rilevanza soprattutto alla esposizione corporea e fisica richiesta dai social media (Bisceglio, 2013).

Tuttavia, come sottolinea il sopracitato Starnone, questa fuga perenne dell’uomo dalla sensazione di morte avrà forse un “alt” più sano oggigiorno, visto le conseguenze (purtroppo) testimoniabili del Sars-Cov-2. Una conclusione che riporta ad una frase celebre del già citato Becker e ricondotta spesso anche allo psicanalista Otto Rank, “We are Gods with anuses”: invero gli esseri mammiferi autocoscienti che hanno raggiunto l’apice della Catena Alimentare grazie anche all’ autoconsapevolezza dalla quale allo stesso tempo sfugge, soprattutto quando riguarda il Limite e la nostra Fine.

 

Covid 19 e il processo del dolore: riconoscerlo e comprenderlo per elaborarlo

Ognuno di noi al giorno d’oggi, in qualunque parte del mondo, sta sperimentando un senso di perdita in diversi modi e livelli. Perdita della libertà individuale, di un futuro prevedibile, della stabilità economica (spesso già incerta), delle connessioni, delle certezze. Potremmo dire, in una sola parola, perdita della normalità.

 

Il mondo non è più quello di 3-4 settimane fa e questo ci sta colpendo nel profondo, lasciandoci esperire un dolore collettivo a cui non eravamo abituati. “Siamo tutti sulla stessa barca” abbiamo diverse volte sentito o in alcuni casi, finalmente, realizzato, eppure ognuno esperisce il senso di perdita in maniera diversa.

Vi è poi quello che viene definito dolore anticipato: accade quando temiamo per l’incolumità propria o di un famigliare, quando si riceve una diagnosi terribile e ci si prefigura il peggiore degli scenari. Questo lutto anticipato può essere anche un futuro che non abbiamo immaginato, una tempesta per cui nessuno è equipaggiato. È il virus lì fuori che rompe il nostro senso di sicurezza. Abbiamo paura per i nostri cari, per la nostra salute, per il nostro lavoro, per il nostro paese, per quello che sarà dopo e in fondo per la morte stessa. Seppur ognuno esperisce ed elabora in maniera diversa il dolore, appellandosi a una esperienza universalmente condivisa di esso, è possibile comprendere meglio le nostre reazioni individuali e collettive.

I sei stadi nel processo del dolore

In questo processo ci guida David Kessler, esperto mondiale sul dolore, e co-autore del libro On Grief and Grieving insieme a Elisabeth Kübler-Ross. Il primo passo per affrontare il dolore è comprenderlo e, per aiutarci a farlo, gli autori ricercano quei vissuti che, tutti, seppur in diverso ordine, ci troviamo a sperimentare.

1. Negazione

“È una esagerazione dei media.”

“È una semplice influenza, la gente la prende ogni anno e solo raramente si muore.”

“Non sono vecchio/a, immunodepresso/a o con altre patologie, questo virus non mi riguarda.”

La negazione è il rifiuto emozionale ed intellettuale di qualcosa che è chiaro ed ovvio. Ed è qualcosa che abbiamo ereditato dai nostri antenati. L’evoluzione ha creato nell’uomo la capacità di negare tanto il dolore fisico quanto quello emotivo per un breve periodo di tempo, al fine dell’autoconservazione.

2. Rabbia

“È tutta colpa della Cina.”

“Mi stanno privando della mia libertà e diritti rinchiudendomi in casa.”

“Non mi interessano le misure preventive istituzionali, io esco lo stesso.”

Il sentimento di rabbia conferisce spesso potenza o l’illusione di essa, quando sentiamo di perderla o non averla. Ricorriamo alla rabbia nel tentativo di avere il controllo sugli altri e sulle nostre paure. Così, spesso, più che accettare e affrontare il problema, lo proiettiamo all’esterno, divenendo ostili, incolpando gli altri, o non rispettando le regole.

3. Negoziazione

“Ok, se osservo la distanza sociale per 2 settimane ogni cosa andrà meglio, no?”

“So riconoscere le persone malate, quindi starò bene finché me ne tengo a distanza.”

“Questo sarà finito per Pasqua, saremo salvi allora e potremo tornare alla normalità.”

Come in qualsiasi compromesso, la negoziazione giunge nel momento in cui la negazione inizia a farsi debole e si inizia a prendere atto della realtà, ma non si è ancora pronti per arrendersi all’illusione di avere ancora il controllo. E allora si patteggia una soluzione win-win per entrambe le parti.

4. Disperazione

“Non so se e quando tutto questo finirà.”

“Non posso andare a lavoro, non ho più uno stipendio, tra poco non avrò più un tetto e da mangiare.”

“Sono ad alto rischio e probabilmente morirò solo. Nessuno verrà quando accadrà.”

Quando la negazione viene del tutto spazzata via e ogni forma di controllo e potere è perduta, si insinuano disperazione e depressione. Ci si riversa sull’autocommiserazione e nonostante ci siano evidenze contrarie, ci si prefigura solo il peggio.

5. Accettazione

“Non posso controllare la pandemia, ma posso fare del mio meglio per tenerla a bada.”

“Il fatto che non posso lasciare la mia casa non significa che la mia vita si sia fermata. Ci sono un sacco di cose che posso fare o continuare a fare da casa.”

“Il mondo cambierà, ma alla fine di questo saremo migliori.”

L’accettazione subentra quando ci si arrende all’evidenza della realtà e anziché continuare ad opporvi resistenza, la si affronta nel modo più efficace possibile. L’accettazione sta anche in una forma di potere ritrovato: osservare la distanza sociale, lavarsi le mani frequentemente, adattarsi a lavorare da casa conferisce quel controllo e rassicurazione di cui si aveva bisogno.

6. Dare senso

Riusciremo a dare un senso a tutto questo, magari non immediatamente subito, magari mesi dopo, ma troveremo la luce anche in quelle ore più buie. È il pensiero di Kessler, a cui si deve l’aggiunta del sesto stadio del processo del dolore, che terminava con l’accettazione.

Già ora la gente ne sta traendo significato: ci si accorge che è possibile abbattere anche la più impensabile distanza grazie alla tecnologia e che quindi non siamo poi così lontani come pensiamo, o l’apprezzare una semplice passeggiata all’aria aperta, il potere salvifico della natura che impervia e fiorisce nonostante la tempesta come accade in primavera. La gente continuerà a trovare un significato e a trarne del buono, quando tutto sarà finito.

E se, pur dopo aver letto tutto questo, ci si sentisse ancora sopraffatti dal dolore?

È l’ultima domanda posta a Kessler nell’intervista della Harvard Business Review. Continua a provare, lui risponde. “Emotion needs motion”. È importante riconoscere quel che stiamo attraversando. C’è qualcosa di straordinariamente potente nel nominare questo come dolore. Ci aiuta a sentire cosa c’è dentro di noi. Quante volte diciamo a noi stessi “Sono triste, ma non dovrei sentirmi così, c’è chi sta peggio.” Non ci autorizziamo a provare dolore, quasi vergognandocene. Ma lottare contro quel che proviamo, negarlo, non ci aiuta a lasciarlo andare via, anzi lo amplifica. Abituiamoci a concederci questi sentimenti, ad accettarli ed esperirli per pochi minuti senza negarli o respingerli. Permettendo ai nostri sentimenti di accadere, questi saranno meno irruenti e da essi ne usciremo fortificati.

 

L’Inferno di Strindberg e il processo d’individuazione al tempo del Covid

Questo articolo vuole prefiggersi come obiettivo quello di integrare la psicologia ad un’opera letteraria al fine di offrire una chiave di lettura critica sulla nostra società ai tempi del coronavirus, beninteso che le informazioni qui contenute possono essere esportate a situazioni e circostanze della vita di ciascuno e della società oltre il tempo attuale che stiamo attraversando.

 

Il libro di Strindberg (1994) intitolato Inferno non è sicuramente di facile lettura. Non permette di essere masticato e digerito così facilmente. Questo senz’altro è il merito del clima allucinatorio e delirante che caratterizza lo scritto. Comunque sia questo non è il tema dell’articolo e nemmeno di questo libro che si configura come un viaggio dentro ognuno di noi, alla scoperta dei nostri demoni o potenze, come vengono definite nel libro, non necessariamente crudeli.

L’autore si lascia trasportare da questi deliri, da questo clima allucinatorio, senza respingerlo, senza cacciarlo in profondità, senza rimuoverlo nell’inconscio. Lo accetta, lo affronta e lo dissolve. Solve et coagula, come riporta la scritta sugli avambracci del Bafometto di Eliphas Lévi (1972), figura anch’essa eccessivamente associata al diavolo. Il Bafometto, la cui etimologia non è chiara, è stato definito come storpiatura del nome di Maometto, o anche come Baphe e Metis ossia ‘tintore di saggezza’, ma anche associata al dio sumero Enki, divinità legata all’acqua e dunque alla creazione e alla conoscenza il cui simbolo era un pesce-capro. La mitologia cristiana ha associato successivamente la figura di capro al diavolo e il gioco è stato fatto. Ma la figura presentata da Eliphas Lévi unisce il tutto: uomo-animale (figura metà umana e metà animale), maschile-femminile. Una figura di congiungimento degli opposti come le due lune: luna bianca e luna nera. Come la scritta: solve et coagula. Una frase che è l’essenza del processo alchemico dal quale poi Jung ha estrapolato la metafora del processo di individuazione. Così le due braccia che indicano l’alto e il basso, la luna bianca e quella nera rappresentano, parafrasando, quanto Trismegisto sostiene formulando le sue leggi, ossia che ciò che è sopra corrisponde a ciò che è sotto poiché tutto è Uno.

L’alchimia interessa anche il protagonista di Inferno, Strindberg, alla quale egli dedica gran parte degli studi quando si trasferisce in Francia.

Allora è possibile sostenere che Strindberg abbia attraversato l’inferno, o meglio ancora, il mondo infero e sia rinato e questo è il percorso che il libro descrive. Rinasce nel momento in cui egli scopre l’opera di Swedenborg. In questo momento i demoni che hanno perseguitato l’autore divengono una sorta di spirito guida che richiama la figura del Daimon socratico. Dunque le potenze, i demoni, non sono visti come entità negative ma come un primo e necessario passo verso la rinascita. I demoni sono infatti in origine dei Geni pagani il cui obiettivo è di porsi come entità intermedie tra l’uomo e la divinità (Bamonte, 2006). Il demone può allora essere interpretato come una figura che, pur certo con una certa sofferenza, riconduce l’uomo a sé stesso. È ciò che accade anche nel processo di individuazione la cui prima fase è l’opera al nero, la nigredo, ossia la putrefazione e disgregazione della materia, l’incontro con l’ombra. Si tratta allora di dissolvere l’ombra e di illuminarla. In questo è Lucifero, il portatore di luce. In fondo, citando Strindberg (1994) ‘tutti i vecchi dei, nelle epoche che vengono dopo, diventano dei demoni’ (p.92) e questi demoni, questi spiriti maligni ‘non sono in realtà malvagi, perché il loro scopo è un bene, e sarebbe più opportuno servirci della terminologia di Swedenborg, il quale li chiama spiriti castigatori, o correttori’ (p.91).

Dunque il libro altro non pone se non l’uomo davanti a sé stesso e fa delle paure, delle angosce, degli incubi e dei fantasmi che portiamo dentro, insomma, del mondo infero, un mondo che non solo dobbiamo attraversare ma del quale dobbiamo essere orgogliosi poiché ‘Dio vi vuole con sé‘ (Strindberg, p.91). È dunque una possibilità di procedere verso l’individuazione. Allora oggi, ai tempi del Virus, l’angoscia verso la quale siamo esposti è anche una possibilità di crescita. ‘Finché c’è angoscia c’è speranza’ (Fougeyrollas, p.203) purché tale angoscia non sia patologica, non esponga al vuoto ma sia evolutiva e permetta una seria riflessione e presa di consapevolezza.

Una di queste consapevolezze è sicuramente rivolta a quelle zone in ombra della nostra società come le comunità terapeutiche, i pazienti psichiatrici, i senza tetto, bambini e anziani di cui oggi si è dovuto parlare. Aspetti eccessivamente offuscati dal primato dell’economia. Ma una delle maggiori consapevolezze mortificanti che l’uomo deve saper integrare e a cui l’emergenza COVID lo ha spinto, è sicuramente la venuta meno dei modelli di antropocentrismo, di volontarismo. Quei modelli che pongono l’uomo al centro del suo mondo e pongono la sua volontà come suprema potenza creatrice: ‘se voglio posso’.

Un recente libro di Leonardo Caffo (2017) Fragile umanità e un altro di Lorenzo Biagi (2019) Unico e molteplice, per una fondazione antropologica oltre l’individualismo espongono il problema in modo molto articolato. L’uomo deve esporsi all’angoscia per poter integrare la propria fragilità e rendere possibile la sua apertura al mondo, non la sua chiusura di cui l’antropocentrismo è il testimone.

L’uomo non è, come direbbe Sartre (1946), un ‘in sé’ ma un ‘per sé’. Dunque un soggetto fragile, spezzato per dirla alla Ricoeur, che non può dire ‘io sono’ ma ‘eccomi’ (Biagi, p.41), definendo così la sua ontologica apertura al mondo che è apertura all’altro. Non a caso, nel programma televisivo Carta Bianca, Walter Veltroni in data 31/03/2020, intervistato, ha sostenuto come il virus permetta all’uomo una riscoperta della figura dell’Altro che fino a poco tempo fa era esclusa e brutalizzata.

Dunque questo periodo è sicuramente inserito in un movimento di crescita dell’uomo, ossia in un processo di individuazione che muovendo dall’angoscia può portare, se correttamente attraversata, ad un ampliamento della coscienza. L’angoscia deve però poter essere contenuta per non frammentare l’individuo e tale contenimento altro non è offerto se non dallo Stato che deve ritrovare il suo ruolo di giuda nell’interesse del popolo. La legge del padre non è solo castrazione ma deve anche essere protezione e contenimento.

 

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