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Nel silenzio e nella natura – Gli effetti sul benessere psicologico

Uno studio cerca di indagare se un momento di silenzio in due condizioni differenti, in un ambiente naturale o in un palazzo, può produrre risultati diversi su rilassamento, noia, percezione del sé, dello spazio e del tempo.

 

Il silenzio e l’ambiente naturale sono concetti unitamente ancora poco approfonditi in letteratura scientifica (Pfeifer et al., 2020).

In musicoterapia il silenzio è considerato un aspetto importante per la struttura del discorso musicale (De Backer, 2008) e può rappresentare non solo una difesa, uno scudo protettivo (Sutton & De Backer, 2009), ma anche un momento da sfruttare a livello creativo (Wakao, 2002). A livello biologico è stato dimostrato come il silenzio sia associato a un abbassamento della pressione arteriosa diastolica e della frequenza cardiaca – oltre che dei livelli di cortisolo (Trappe & Voit, 2016). Inoltre, un periodo di silenzio di 6:30 minuti seguito da un quarto d’ora di Depth Relaxation Music Therapy (DRMT)/ Hypnomusictherapy (HMT) ha un’efficacia sensibile nel promuovere il rilassamento, affievolire la percezione dello spazio e del tempo e ridurre la tendenza a orientare il pensiero al futuro (Decker-Voigt, 2007).

Questi risultati possono rivelarsi utili anche in ambito psicopatologico – si pensi alla sintomatologia ansiosa o a quella depressiva – per via degli effetti benefici che il metodo DRMT/HMT, combinato con il silenzio, ha sulla capacità di rilassamento e sulla diminuzione della ruminazione e del rimuginio (Pfeifer et al., 2016). Tuttavia, non sembra esserci un tipo di silenzio per definizione (Sutton & De Backer, 2009): a livello fenomenologico questo può manifestarsi in varie forme e condizioni.

Uno studio recente (Pfeifer et al., 2020) ha voluto indagare se l’esperienza dello stesso momento di silenzio in due condizioni differenti – un’aula universitaria e un parco cittadino – producesse risultati diversi sul rilassamento, sulla noia, nella percezione del sé, dello spazio e del tempo.

Quarantasei studenti dell’Università Cattolica di Scienze Applicate di Friburgo sono stati reclutati a questo scopo. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi e hanno sperimentato entrambe condizioni di silenzio (di 6:30 minuti) in ordine inverso a una settimana di distanza – sempre sotto l’istruzione di un musicoterapeuta. Gli studenti – prima e dopo il periodo di silenzio – hanno completato i seguenti questionari: l’Inventory on Subjective Time, Self, Space (STSS, Pfeifer et al., 2016) per la percezione del sé, del tempo e dello spazio; due Visual Analogue Scale (VAS) per misurare il rilassamento e la noia; lo Zimbardo Time Perspective Inventory (ZTPI) (Zimbardo & Boyd, 1999) per misurare l’orientamento nel tempo e la Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11) (Barratt et al., 1999) per la valutazione dell’impulsività.

Dai risultati dello studio si evince come il momento di silenzio abbia portato a un effettivo aumento del rilassamento in entrambe le condizioni; tuttavia, nella condizione all’aria aperta gli studenti hanno sperimentato un maggiore rilassamento – oltre che livelli inferiori di noia – rispetto alla condizione dell’aula universitaria. Inoltre, nella condizione di silenzio outdoor il senso di vivere il momento presente era maggiore, mentre erano minori i pensieri riguardanti il passato, rispetto alla condizione indoor. Nella condizione dell’aula universitaria, più gli studenti erano rilassati, meno erano consapevoli dello scorrere del tempo.

Questi risultati confermano che già solo sperimentare una condizione di silenzio abbia effetti positivi sul benessere psicologico dell’individuo, specialmente se si è circondati da un ambiente naturale. I risultati sono in linea con la letteratura scientifica che enfatizza gli effetti rilassanti e salutari dell’essere circondati da un ambiente naturale, oltre che la sperimentazione di una minor sensazione di noia (Berger & Lahad, 2013; Berry et al., 2015; Ulrich, 1979). Ciò supporta la teoria sulla possibilità di affidare all’ambiente naturale un ruolo attivo di co-terapeuta – evidentemente utile all’interno dello stesso processo terapeutico (Pfeifer, 2017).

 

Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus: ansia e tristezza da sana a malsana – Intervista alla grande Sandra Sassaroli

Paura, tristezza ed ansia, alcune delle emozioni legate al contesto di emergenza da COVID-19 che è necessario accettare, ma che non devono governare le nostre giornate.

 

 Continuano le interviste a grandi professionisti in merito al tema “Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus”. Nella presente intervista sentiremo il punto di vista ed il suggerimento della grande Sandra Sassaroli, che ci spiegherà come approcciarci alle emozioni predominanti di questo momento come ansia e tristezza e soprattutto come utilizzarle a nostro vantaggio.

La Prof.ssa Sandra Sassaroli, Psichiatra e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, Direttore di Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, Direttore del dipartimento di Psicologia alla Sigmund Freud University di Milano e Socio Didatta SITCC – Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, parte con il fare una breve premessa su che cosa siano le emozioni.

Le emozioni non sono altro che informazioni urgenti sul mondo.

La paura, ci spiega la Prof. Sassaroli, ci informa e ci mette in guardia di fronte ad un possibile pericolo o difficoltà e tale emozione ci aiuta a scegliere in modo rapido una strategia che permette di salvarci la vita o uscire da quella situazione, mediante risposte come quella di attacco o fuga.

Le emozioni sono informazioni che servono per organizzarci nel mondo, sottolineando dunque il forte carattere adattivo delle stesse. La paura è infatti un’emozione di base che nella storia dell’uomo ne ha garantito la sopravvivenza nei momenti di minaccia ed incertezza. La Prof.ssa Sassaroli riprende l’esempio di questo preciso momento ossia l’arrivo di questo nemico di cui conosciamo solo il nome: Coronavirus.

In questo caso non possiamo pensare di non provare paura o ansia, ma diventa importante usare queste emozioni a nostro vantaggio.

L’ansia adattiva in questo caso, ci spinge a mettere in atto comportamenti prudenziali per salvaguardarci e non infettarci come ad esempio, mantenere la distanza dagli altri, lavarci spesso le mani, usare la mascherina…

L’ansia disadattiva invece, è un’ansia talmente alta che coinvolge la nostra mente in pensieri catastrofici e rimuginii, del tipo non finirà mai, non ne uscirò mai, moriremo tutti, che ci distraggono e non aiuta a mettere in atto strategie funzionali ed anzi potrebbe esporci ad ulteriore rischio. Quando ciò si verifica, ci suggerisce la Prof.ssa Sassaroli, dobbiamo riportare l’ansia in modo realistico a comportamenti prudenziali.

Immagine 1 – Prof.ssa Sandra Sassaroli

Ma abbiamo parlato anche della tristezza.

In merito alla tristezza, la Prof. Sassaroli, ancora una volta parte con il sottolineare la natura essenziale ed il ruolo adattivo di tale emozione, anch’essa molto presente in questo delicato momento.

Anche la tristezza ci serve. Ci è servita da sempre ad elaborare le perdite.

Anche la tristezza ci è sempre servita, ci ricorda la Prof.ssa Sassaroli, ci consente di elaborare le perdite, elaborare i lutti, ci serve per fare i conti con ciò che avevamo e che non abbiamo più.

Un’emozione anch’essa essenziale e di base, non solo nostra ma presente anche nei mammiferi.

Essere tristi in questo momento non deve preoccuparci, ci suggerisce la Prof.ssa Sassaroli, perché può esserci un uso utile della tristezza.

Pertanto il suo consiglio è quello di fare i conti con la nostra tristezza, imparare a starci dentro, accettarla sapendo che possiamo aver perso un amico, una persona cara, aver perso uno stile di vita che avevamo prima dell’emergenza del coronavirus e che di fronte a tali vissuti o pensieri non possiamo non sperimentare tristezza. Avere pensieri tristi e nostalgici è per così dire “normale”, ma anch’essi devono essere utilizzati per guidarci verso comportamenti prudenziali. Importante non caderci dentro, soprattutto per chi può avere una certa vulnerabilità a tali stati emotivi. Ciò che potrebbe divenire pericoloso è sprofondare in una situazione di tristezza assoluta, mettendo in atto comportamenti disfunzionali come mettersi al letto, smettere di nutrirsi…

Dunque ciò che sembra voler evidenziare la Prof.ssa Sassaroli è che non sono le emozioni in sé ad essere malsane, ma può esserlo l’uso che si fa delle stesse. Le emozioni vanno accolte, ascoltate e indirizzate in senso costruttivo.

Accettiamo la tristezza, usiamo l’ansia, ma non facciamoci governare dalla tristezza e dall’ansia ma mettiamola al servizio di ciò che ci serve adesso per uscirne fuori nel modo migliore possibile!

 

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE ALLA PROF.SSA SANDRA SASSAROLI:

 

NON PERDERTI GLI INCONTRI DEL CICLO “DIALOGHI CON SANDRA”:

DIALOGHI CON SANDRA – TERZO INCONTRO 9733

 

La tecnica ABC per esercitare l’ottimismo

Secondo la cultura popolare gli ottimisti sono caratterizzati da una visione della vita positiva, orientata al futuro, piuttosto che al passato; spesso si immaginano le persone ottimiste come più felici, più sorridenti, più gioiose. Ma è davvero così?

Giulia Marton e Laura Vergani – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

L’ottimismo, il profumo della vita

…l’ottimismo è il profumo della vita!

Così recitava in un famoso spot televisivo il poeta, scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra, dando voce ad una frase che sarebbe risuonata per anni in ogni angolo dell’Italia. Entrate di fatto nella cultura popolare italiana, queste sette parole sono diventate il motto di tutti coloro che amano vedere il bicchiere mezzo pieno. E se la frase di Tonino Guerra è datata 2001, tanti altri sono i tormentoni e i personaggi caratteristici simbolo dell’ottimismo, di quello stile di vita colorato di positività, che spera sempre nell’arcobaleno anche quando ci si trova zuppi sotto la pioggia.

Alzi la mano chi non si è mai trovato a fischiettare insieme a Baloo e Mowgli la canzone più famosa del Libro della Giungla, targato Walt Disney.

Ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar. In fondo basta il minimo, sapessi quanto è facile, trovar quel po’ che occorre per campar.

Cos’è questa canzone – cantata nella versione tricolore da Tony De Falco e Luigi Palma – se non un inno all’ottimismo?

Per moltissimi, invece, l’ottimismo avrà i capelli rossi e le lentiggini di Pollyanna, personaggio protagonista dell’omonimo romanzo nato dalla penna di Eleanor Hodgman Porter e base per tante trasposizioni cinematografiche e cartoni animati. Oppure la barba bianca di Gongolo, il nano sorridente e felice di Biancaneve, il suono del “Salve salvino” di Ned Flanders dell’universo dei Simpson, o quello della risata di Pippo, il migliore amico sorridente di Topolino.

Ancora, gli amanti del genere fantasy ricorderanno il personaggio di Sam, del Signore degli Anelli, o il consiglio dato da Albus Silente ad Harry Potter:

La felicità la si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo uno si ricorda … di accendere la luce.

Gli appassionati di storia apprezzeranno la frase attribuita a Sir Winston Churchill:

L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.

Mentre gli amanti della musica, almeno una volta, avranno canticchiato Don’t worry, be happy di Bobby McFerrin. Forse, anche Einstein preferiva l’ottimismo; in una frase attribuita a lui si legge:

è meglio essere ottimisti ed avere torto, piuttosto che pessimisti ed avere ragione.

Secondo la cultura popolare, dunque, gli ottimisti sono caratterizzati da una visione della vita positiva, orientata al futuro, piuttosto che al passato; spesso, poi, ci immaginiamo le persone ottimiste come più felici, più sorridenti, più gioiose.

Ma è davvero così?

Davvero le persone con un livello più alto di ottimismo hanno una marcia in più nell’affrontare le sfide della quotidianità? Davvero l’ottimismo è il profumo della vita? E si può imparare?

Prima di cercare di rispondere a queste domande, facciamo un passo indietro per scoprire cos’è davvero l’ottimismo e per vedere se corrisponde a quanto ci immaginiamo nella cultura popolare.

Ottimisti per disposizione

L’ottimismo è un tratto di personalità.

In psicologia, lo studio della personalità è stata una costante negli anni, passando per diversi approcci, autori, teorie. Prendendo in prestito le parole di Roberts (2009), possiamo definire la personalità come

uno schema relativamente duraturo di pensieri, sentimenti e comportamenti che riflettono la tendenza a rispondere in certi modi in determinate circostanze. (Roberts, 2009, p. 140)

In quest’ottica, tra questi pensieri, sentimenti e comportamenti duraturi che caratterizzano o meno ogni individuo, si inserisce anche l’ottimismo. Appunto, inteso come tratto di personalità, o disposizione, l’ottimismo assume anche nome di ottimismo disposizionale.

Lo studio dell’ottimismo come tratto di personalità affonda le sue radici solo negli ultimi decenni, quando, appunto, la cultura popolare, da un lato, e la ricerca scientifica, dall’altro, hanno iniziato ad interessarsi sempre di più a caratteristiche e correlati nascosti nel famoso bicchiere mezzo pieno.

Tra i primi a darne una definizione scientifica sono due ricercatori statunitensi, Micheal Scheier e Charles Carver. Oggi professori di psicologia rispettivamente alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh e presso l’University of Miami, nel 1985 scrissero insieme un articolo pubblicato su Health Psychology con il titolo Optimism, coping, and health: assessment and implications of generalized outcome expectancies (Scheier & Carver, 1985). Oltre a discutere le proprietà psicometriche di una scala pensata per misurare l’ottimismo, i due studiosi diedero proprio una definizione di ottimismo disposizionale come di

tratto relativamente stabile che determina l’aspettativa generalizzata di risultati positivi in situazioni di vita rilevanti.

L’ottimismo disposizionale è dunque un tratto stabile di personalità, in grado di portare ad avere un’aspettativa generalizzata, cioè in diversi aspetti di vita dell’individuo, di risultati positivi. Si tratta di una definizione in cui è possibile ritrovare alcune delle caratteristiche viste prima presenti nella cultura popolare del bicchiere mezzo pieno, e del colore di positività che caratterizza la visione, in particolare, del futuro.

Ottimismo ed effetti positivi

Quali effetti può avere l’ottimismo sulle nostre performance, sugli stili decisionali, sulla nostra salute? Davvero non farsi abbattere dalla pioggia e pregustare la bellezza dell’arcobaleno può avere alcuni vantaggi per la nostra vita?

Sono numerosi gli studi condotti sulle persone con alto – e basso – livello di ottimismo e sui correlati che questo può avere nella vita quotidiana. Ad esempio, gli ottimisti ottengono performance migliori. Ma come?

Gli individui ottimisti – che, come ricordato prima, si aspettano un futuro più roseo – sono più perseveranti e persistenti per il raggiungimento degli obiettivi e accumulano più facilmente risorse nel tempo. Tutto ciò faciliterebbe una migliore performance in diversi compiti.

A concentrarsi sulla relazione tra ottimismo e performance è stata, in particolare, Suzanne Segerstrom (2007), oggi professore di psicologia presso l’University of Kentucky. Sono stati 61 gli studenti di giurisprudenza arruolati, per uno studio longitudinale durato ben dieci anni, con lo scopo di osservare ottimismo disposizionale, risorse e performance. Il risultato? Gli studenti che, al primo anno di studi, registravano livelli più alti di ottimismo erano anche quelli che, invecchiati di dieci anni, guadagnavano più denaro.

È un gruppo di ricerca tutto italiano, invece, quello che ha esaminato la relazione tra ottimismo e stili decisionali: Magnano, dell’università Kore di Enna, e Paolillo e Giacominelli – dell’università di Verona. L’ottimismo disposizionale rende le persone più fiduciose sulla possibilità di risolvere un problema. Quindi, come prendono decisioni gli ottimisti? Le persone con alti livelli di ottimismo, in genere, presentano stili decisionali razionali e logici, caratterizzati da una forte capacità di ricerca di informazioni, una maggiore definizione degli obiettivi, una maggiore pianificazione di azioni con definizione di piani alternativi. E chi vede tutto nero? Livelli più bassi di ottimismo, essendo associati a strategie di coping evitanti, possono portare ad uno stile decisionale più inefficace, con procrastinazione, presenza di dubbi e maggiore propensione alla delega (Carver, Scheier, & Segerstrom, 2010; Magnano, Paolillo, & Giacominelli, 2015).

Risultati simili sono stati ritrovati anche in uno studio condotto in Australia, da Creed, Patton e Bartrum (2002). In particolare, i tre ricercatori della Griffith University -Creed e Bartrum- e della Queensland University of Technology -Patton-, si sono occupati di ottimismo, pessimismo e scelta professionale. Ancora, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è in grado di influenzare il modo in cui scegliamo il nostro futuro professionale? I risultati hanno dimostrato che un alto livello di ottimismo disposizionale è associato ad una migliore pianificazione della carriera; inoltre, gli ottimisti sono più concentrati sui loro obiettivi. I pessimisti, invece, sono più indecisi e meno consapevoli delle loro possibili scelte.

Ma l’ottimismo ha anche dei rischi?

In effetti, alcuni studi hanno dimostrato un legame tra ottimismo disposizionale e tendenza al rischio. Nello studio di Gibson (2004), le persone con un alto livello di ottimismo disposizionale dimostrano di avere aspettative di vittoria più alte nel gioco d’azzardo e continuano a scommettere anche dopo aver registrato un risultato negativo (Gibson & Sanbonmatsu, 2004).

Come già accennato sopra, e come spiegato anche in un articolo pubblicato su State of Mind dal titolo Le strategie di Coping e l’ottimismo – Psicologia, gli individui con alti e bassi livelli di ottimismo differiscono anche nell’utilizzo delle strategie di coping.

L’ottimismo porta a una più frequente focalizzazione sul problema, con un impegno prevalente di strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused. (Ascolese, 2013)

Gli ottimisti sono infatti più inclini ad utilizzare strategie di coping, cioè modalità per fronteggiare i problemi, proattive. Queste strategie sono attuate ancora prima di sperimentare l’evento stressante. Al contrario, chi vede il bicchiere mezzo vuoto tende a mettere in atto strategie di coping incentrate sull’evitamento, cioè fuga o evitamento della situazione stressante.

E riguardo la salute fisica?

Un legame tra ottimismo e visite dal dottore sembrerebbe essere caratterizzato proprio dagli stili di coping. Reckel e Wong nel 1983 sono tra i primi a proporre uno studio a riguardo. Il campione? Un gruppo di soggetti anziani, istituzionalizzati e non. A loro è stato chiesto quali eventi si aspettavano nell’immediato futuro. Due anni dopo, furono indagati anche i sintomi fisici di alcuni di loro. Il risultato? Gli anziani più ottimisti riportarono meno sintomi fisici e anche una condizione fisica e psicologica migliore.

Insomma, ottimismi e pessimisti hanno modalità diverse di approcciarsi alla vita quotidiana. Davanti a momenti particolari e situazioni difficili, i primi sembrerebbero trovare le risorse necessarie per affrontare i fallimenti, senza arrendersi e con una visione più rosea del futuro.

L’ottimismo si impara?

A rispondere a questa domanda è stato Martin Seligman. Nato a New York nel 1942, Seligman è professore di psicologia presso l’University of Pennsylvania, ha ricoperto la carica di presidente dell’American Psychological Association dal 1998 ed è oggi considerato il fondatore della psicologia positiva e uno tra gli psicologi più eminenti del ventesimo secolo. Tra la sua produzione scientifica, si inserisce anche un libro edito nel 1990, dal titolo Learning Optimism.

L’ottimismo, dunque, può essere appreso e imparato (Peters, Flink, Boersma, & Linton, 2010; Seligman, 1990) da tutti noi. Anche dai più pessimisti. Tutti possono imparare a vivere in modo più ottimistico, con tutti gli effetti del caso. Cioè le nostre scelte, la nostra qualità di vita e la nostra salute fisica, potrebbero migliorare di conseguenza.

Le scoperte di Seligman e degli altri studiosi in questo ambito hanno avuto e stanno avendo enormi implicazioni, anche dal punto di vista clinico. Ma come si fa a pensare all’arcobaleno quando si è sotto la pioggia?

Una delle tecniche descritte da Seligman per esercitarsi con il pensiero positivo è la tecnica dell’ABCD (Seligman, 1990). Questa tecnica si basa sulla presa di coscienza dello sviluppo dei propri pensieri e le emozioni che ne derivano; si divide in quattro sezioni, partendo proprio dall’A, un evento accaduto nel qui ed ora.

Come descritto in un articolo precedentemente pubblicato qui su State of Mind, dal titolo La tecnica ABC, sono descritti i passi principali dell’ABCD, che riportiamo qui sotto.

  • A – Activating event (Avversità) – sono gli eventi antecedenti.
  • B – Belief system (cosa hai pensato?) – sono i pensieri.
  • C – Consequences (come hai reagito?) – sono le emozioni e i comportamenti che seguono i pensieri (De Silvestri 1981).
  • D – Disputa (discuti con le tue idee) – un rimedio per i pensieri negativi che accompagnano le avversità. Mette in discussione le convinzioni (i pensieri, B).

Dopo una presa di consapevolezza del legame tra le emozioni di disagio (C) e i pensieri (B), il passo successivo è semplice. Modificando le idee, si può cambiare anche lo stato d’animo.

Nell’esercitazione sull’ottimismo disposizionale, Seligman (1990) spiega questi concetti come segue:

A – si tratta generalmente di una avversità, una qualsiasi anche la più semplice. Deve essere però descritta con imparzialità. Parte degli esempi proposti da Seligman sono: un rubinetto che perde, accorgersi del cipiglio di un amico, un bambino che non smette di piangere, una grossa spesa, una disattenzione da parte del partner.

B – si tratta dei pensieri immediatamente dopo l’avversità, che rappresentano la modalità secondo la quale si interpreta l’evento. Degli esempi possono essere: “il mio amico è sicuramente arrabbiato con me” e “il rubinetto perde per colpa mia”.

C – sono le conseguenze dei pensieri; questa sezione indaga come si è sentito il soggetto, e cosa ha fatto, come conseguenza del pensiero. Parte degli esempi da lui proposti sono: “non avevo energia”, “l’ho fatto/a scusare”, “sono tornato a letto”.

D – è la disputa, vista come un rimedio per i pensieri negativi che accompagnano le avversità. Il ruolo della disputa è quello di mettere in discussione le convinzioni, cioè i pensieri, B. Questo passaggio può avvenire solo in seguito ad una presa consapevolezza del legame tra le emozioni di disagio (C) e i pensieri (B). Ciò che viene richiesto all’individuo è di contestare in modo deciso le convinzioni che seguono le avversità. Seligman, impostando l’esercitazione sull’ottimismo disposizionale, propone quattro modi per rendere convincenti le contestazioni:

  • Prove – Che prove ho che giustificano il mio pensiero?
  • Alternative – Ci sono delle spiegazioni alternative?
  • Implicazioni – Anche se i miei pensieri sono corretti, quali sono le implicazioni?
  • Utilità – Mi è utile soffermarmi su questi pensieri?

L’esercitazione impostata da Seligman richiede che l’individuo, una volta compresi questi concetti, prenda nota su un foglio, per sette giorni consecutivi, delle avversità che ha affrontato durate la giornata. Poi, occorre compilare le sezioni B e C collegate all’A iniziale, facendo attenzione a cercare il collegamento tra pensiero e sua conseguenza.

Viene spiegato quindi ai soggetti di fare attenzione al fatto che le spiegazioni pessimistiche scatenano la passività e lo sconforto, mentre le spiegazioni ottimistiche generano energia.

E quindi? Non ci resta che provare!

 

La psiche e il crimine

Con il termine criminologia si intende la scienza che studia i reati, gli autori, le vittime, la condotta criminale e come è possibile prevenire e controllare i crimini.

 

Si tratta di una disciplina completa che prevede una parte teorica ed una pratica e che rientra nelle scienze criminali assieme ad altre discipline come la vittimologia, la politica criminale, il diritto penale, ecc. La criminologia studia la personalità della vittima e dei fenomeni di devianza, anche nelle manifestazioni non criminose. Il campo d’azione del criminologo è molto vasto, per questo motivo egli deve conoscere e saper utilizzare metodi propri di altre discipline (psichiatria, medicina, antropologia, sociologia, pedagogia, statistica), materie che sono interconnesse con la criminologia e fra loro stesse.

La criminologia diviene quindi una scienza multidisciplinare poiché studia sotto varie sfaccettature e prospettive il fenomeno criminale, integrando le varie tecniche e conoscenze provenienti da altre discipline. La criminologia viene annoverata come scienza, poiché risponde ai criteri di sistematicità che devono essere sempre presenti in una disciplina per essere considerata scientifica. Come tutte le scienze, anche la criminologia si basa sull’osservazione del reale. Fra le altre caratteristiche che fanno della criminologia una scienza vi è la controllabilità, cioè gli enunciati possono essere sottoposti a un controllo senza perdere di veridicità; presenta una capacità teoretica, ossia è in grado di riassumere molteplici informazioni e dati in preposizione astratte e unite da nessi logici. La criminologia ha una funzione descrittiva dato che descrive i fatti, classifica e differenzia tassonomicamente i delitti e i loro autori, ma ha anche una funzione applicativa dato che il compito del criminologo è quello di intervenire in maniera pratica nei casi delittuosi ricercandone le cause. L’eziologia, ossia la ricerca delle cause, differenzia la criminologia dalle altre scienze criminali che spesso hanno funzione normativa o preventiva. Le cause che determinano il comportamento deviante possono essere unifattoriali, quando vi è una causa principale rispetto alle altre, oppure multifattoriali quando vi sono diverse cause che si equivalgono per importanza.

Altra importate caratteristica della criminologia che la diversifica è l’ampiezza del campo di indagine dato che non viene preso in considerazione solo il crimine, ma anche tutto ciò che gira attorno ad esso (autore del reato, fattori ambientali, reazione sociale, le vittime, i fenomeni di devianza, ecc.). In alcuni casi la criminologia viene considerata come scienza prettamente teorica poiché riassume osservazioni complesse in teorie astratte; in altri casi viene considerata come scienza teorica e pratica allo stesso tempo, poiché si pone come obiettivo la ricerca di rapporti causali, correlazioni e variabili nella sua osservazione. Inoltre la criminologia è in continua evoluzione, presenta un sapere cumulativo in cui le vecchie teorie e osservazioni vengono sostituite da quelle più recenti che correggono, modificano e amplificano quelle precedentemente elaborate. La criminologia si è talmente evoluta che diviene sempre più utile nella formulazione delle previsioni sulla pericolosità di un soggetto come anche su quali e quanti delitti verranno commessi in uno specifico arco di tempo in relazione al contesto sociale. Si tratta comunque di analisi probabilistiche che non possono essere considerate veritiere con assoluta certezza, ma permettono di prendere precauzioni e attuare modifiche ai codici penali.

Le scienze criminali possono essere suddivise in due branche, ossia le scienze criminali vere e proprie, che studiano il problema della criminalità, e le scienze che sono collegate alla criminologia ma che non studiano esclusivamente l’aspetto criminale ma ciò che ne scaturisce e ciò che lo ha scaturito. Al primo gruppo, oltre alla criminologia, appartengono:

  • Vittimologia: studio dell’incidenza della vittima nel delitto. Essa è stata ufficialmente separata dalla criminologia e studia le relazioni che si creano fra la vittima e chi commette il reato.
  • Politica criminale: la politica criminale pone gli obiettivi che dovranno essere perseguiti dal diritto penale, come ad esempio la depenalizzazione di alcuni reati e l’introduzione della pena in altri, ha quindi lo scopo di prevenire la criminalità.
  • Diritto penale: è il mezzo di attuazione della politica criminale. Definisce inoltre quali sono i reati sui quali la criminologia deve indirizzare la sua ricerca
  • Diritto penitenziario: regola la fase esecutiva, il trattamento, la risocializzazione del procedimento giudiziario penale.
  • Psicologia giudiziaria: la psicologia giudiziaria studia le interrelazioni psicologiche fra gli individui protagonisti del procedimento giudiziario (dall’imputato al magistrato, dalla vittima al testimone, all’operatore amministrativo).
  • Psicologia giuridica: la psicologia giuridica è una branca della psicologia applicata al diritto.
  • Criminalistica: non bisogna confondere la criminologia con la criminalistica, essa si avvale di numerose discipline, fra cui la medicina legale, per ovviare ai problemi legati all’investigazione.

Le discipline facenti parte del secondo gruppo comprendono invece:

  • Antropologia criminale: studio biologico e deterministico del criminale.
  • Criminologia clinica: criminologia generale applicata al singolo individuo.
  • Psicologia criminale: studio del criminale, del delitto e dell’ambiente esterno.
  • Psichiatria forense: accertamenti che escludono o diminuiscono l’imputabilità.
  • Sociologia criminale: criminalità intesa come fenomeno sociale.

La criminologia si avvale degli studi antropologici e sociologici ai fini di identificare le cause del crimine. Gli studi antropologici riguardano i fattori organici, psicologici, motivazionali, psicosociali che possono aver indotto il comportamento di chi ha commesso il crimine, prendendo in considerazione anche i fattori microsociali nei quali la personalità si è sviluppata. Nel campo della sociologia invece vengono valutati i fattori macrosociali capaci di influenzare lo scaturire del crimine. Possiamo affermare che la criminogenesi si attua secondo tre metodi:

  • Biologico-deterministico: rivolto agli elementi fisici che determinano la condotta criminale.
  • Psicologico: rivolto alla mente per individuare le cause del comportamento.
  • Sociologico-deterministico: considera i fenomeni sociali che hanno influenzato la mente criminale.

La criminologia clinica impiega le conoscenze della criminologia generale ad ogni delinquente in modo da individuare i fattori ambientali microsociali che lo hanno influenzato ed è utile per stabilire gli interventi da attuare per la risocializzazione. La criminologia clinica intende reinserire nella società il delinquente, a differenza dell’antropologia criminale il cui obiettivo è quello di difendere la società. Anche la psicologia criminale si basa sul medesimo approccio di queste due discipline appena descritte; analizza infatti il modo di essere, di sentire, di agire, del criminale. Le condizioni morbose di rilevanza giuridica, vengono accertate della psichiatria forense, grazie ad essa è possibile, ad esempio, determinare l’imputabilità o la pericolosità del criminale, l’incapacità, l’interdizione o l’inabilitazione in diritto civile. La sociologia criminale nasce da un approccio sociologico e non antropologico della criminalità. Essa viene considerata come fenomeno sociale e verifica l’influenza che ha l’ambiente sulle caratteristiche individuali, come l’età, il sesso, l’occupazione, la razza, e così via.

Il criminal profiling è un’attività che permette di stabilire il profilo psicologico e comportamentale di un criminale. Gli elementi necessari a tale funzione corrispondono al tipo di crimine commesso, al modus operandi, la scena del crimine, la  tipologia  della  vittima e la possibile firma, ossia quei rituali che possono essere svolti dal criminale ogni volta che commette l’atto. L’applicazione del criminal profiling si ebbe per la prima volta negli USA nel 1980, una delle primissime classificazioni eseguite dal FBI fu la distinzione fra omicidio organizzato, in cui solitamente il cadavere veniva occultato e il criminale non lasciava tracce ed indizi del suo operato nella scena del crimine (in scene del genere si presuppone che il criminale sia dotato di intelligenza e capacità di controllo), e omicidio disorganizzato,  in  cui  la  scena  del  crimine  racconta  tutto  l’opposto rispetto alla precedente e il criminale spesso presenta problemi psicopatologici. Proprio considerando tale distinzione, un delitto viene valutato normale o anormale in base al profilo psichiatrico di chi lo ha commesso. Tra i delitti anormali si annoverano quelli compiuti da criminali che presentano un ritardo mentale, da tossicomani, cerebropatici, alcolisti, da chi è affetto da disturbi della personalità, ecc., i criminali normali, che corrispondono alla percentuale più consistente, sono invece rappresentati da tutti i soggetti che non presentano deficienze psichiche. Analizzando le scene del crimine con il metodo del criminal profiling, ci si è accorti che i casi di omicidio, nella maggior parte dei casi, non corrispondono né all’omicidio organizzato né a quello disorganizzato, ma prendono alcuni caratteri dell’uno e dell’altro. Oggi il profilo criminale viene applicato nei casi di omicidio e attentati, è stato riscontrato che, anche se ogni individuo viene considerato unico e irripetibile, vi sono tratti psicologici che compaiono più di frequente nei criminali: instabilità, immaturità, impulsività, frustrazione, scarsa tolleranza e scarso autocontrollo, ecc. Non è comunque possibile standardizzare la delinquenza poiché esistono troppe variabili e i criminali sono troppo vari. Ciò che differenzia un criminale da un non criminale è la sua condotta, che non si relaziona alla persona che è ma a ciò che fa. Il più delle volte, i delitti sono da considerarsi programmati, ossia la conseguenza di una scelta prodotta prima di commettere il fatto.

La criminalità non programmata è dovuta a raptus dove la responsabilità morale è minore. La legge fa una distinzione fra i criminali recidivi e quelli primari, questi ultimi non hanno precedenti penali a loro carico, mentre i recidivi generici sono coloro che commettono delitti più volte indipendentemente dalla loro natura, e i recidivi specifici sono individui che commettono reati caratterizzata dalla stessa indole. La maggior parte dei reati vengono commessi da recidivi, poiché si riscontra una permanenza delle motivazioni e degli aspetti della personalità che determinano la scelta di delinquere. I fattori che incentivano la recidività comprendono le situazioni ambientali, l’interesse economico, l’inefficienza della pena giudiziaria, gli effetti della carcerazione e dell’etichettamento e infine gli aspetti psicologici (disturbi, aggressività, ecc.).

Un modello statunitense per la costruzione dei profili è stato elaborato da Ronald Holmes, professore ordinario al Louiseville, e da Stephen Holmes, professore associato presso l’Università della Florida centrale. Insieme i due autori hanno sviluppato un nuovo modello di Criminal Profiling differente dall’approccio inteso nel FBI. Per R. Holmes e S. Holmes l’Offender Profiling deve provvedere:

  • alla valutazione psicologica e sociologica dell’Offender;
  • alla valutazione psicologica degli oggetti personali trovati in possesso del presunto colpevole;
  • al suggerimento sulle strategie di interrogatorio dell’arrestato.

R. Holmes e S. Holmes ritengono che i casi in cui l’offender profiling rivesta maggiore utilità sono quelli connotati da esistenza di torture alle vittime nei casi di aggressione sessuale, di eviscerazione della vittima, di attività sessuali o mutilazioni post-mortem, di inneschi di incendi senza apparente motivo, di stupri, di crimini seriali rituali o satanici e di pedofilia.

Il modello sviluppato da questi autori si basa sui seguenti paradigmi:

  • la personalità di un individuo non cambia mai radicalmente nel corso del tempo;
  • il comportamento riflette la personalità;
  • le persone diverse con personalità “similari” si comportano in maniera simile.

Da questi principi, gli autori deducono le seguenti conseguenze, che portano poi a commettere un delitto:

  • i crimini compiuti da un individuo non sono soggetti a cambiamenti nel corso del tempo;
  • la scena del crimine riflette la personalità dell’autore di reato;
  • i criminali diversi con personalità “similare” sono portati a compiere crimini simili.

Una delle tecniche che si è sviluppata nell’ambito del profilo psicologico è l’autopsia psicologica, ossia una perizia psicologica che si attua post mortem. Si parla di autopsia psicologica quando l’identità della vittima è nota ma risulta necessario stabilire le dinamiche e le cause del decesso, anche nei casi incerti. L’obiettivo è quello di ricostruire la retrospettiva di una persona ormai scomparsa e le cause e le dinamiche che hanno portato alla sua morte, in modo da restringere il cerchio degli ipotetici colpevoli. Con la ricostruzione dello stato mentale della vittima, si possono acquisire informazioni sulla stessa, inoltre si possono rilevare elementi che possano indicare eventuali atti suicidi. L’autopsia psicologica prevede diversi ambiti di indagine retrospettiva che hanno la funzione di ricostruire la vita della vittima, le sue abitudini, la sua condizione sociale:

  • Storia del consumo alcolico.
  • Note sul suicidio.
  • Scritti e diari.
  • Libri.
  • Valutazione delle relazioni interpersonali nel giorno prima della morte.
  • Valutazione del rapporto coniugale.
  • Umore, stato d’animo.
  • Fattori di stress psico-sociali.
  • Comportamenti pre-suicidi.
  • Lingua.
  • Storia del consumo di droghe.
  • Storia medica.
  • Esame riflessivo dello stato mentale, della condizione del deceduto prima della sua morte.
  • Storia psicologica.
  • Studi ed analisi di laboratorio.
  • Rapporto medico legale.
  • Valutazione delle motivazioni.
  • Ricostruzione degli eventi
  • Pensieri e sentimenti riguardanti la morte (preoccupazioni, fantasie).
  • Storia militare.
  • Storia delle morti familiari.
  • Storia familiare.
  • Storia lavorativa
  • Storia scolastica.
  • Familiarità del deceduto con i metodi di morte.
  • Rapporti di polizia.

In Italia la Unità per l’Analisi del Crimine Violento (UACV) della polizia utilizza una tecnica particolare di profilo psicologico (in analogia con il profilo psicologico esiste anche il profilo geografico, ideato da David Canter, per cercare di localizzare l’area geografica di appartenenza dell’offender).

Il profilo psicologico ha natura probabilistica, quindi non può formare una prova (cosa che in Italia avviene nel dibattimento processuale). Esso inizia e si consuma nella fase delle indagini, non entra nel processo.

Per risolvere un delitto violento gli inquirenti devono avere in mano almeno: una confessione oppure un testimone oppure una prova materiale. Il profilo serve per indirizzare le indagini al fine di ottenere almeno uno di questi elementi.

 

Nati per calcolare? Abilità matematiche innate e le loro evidenze

E’ possibile che il bambino possegga, ben prima di andare a scuola, delle abilità matematiche di origine innata? E se il neonato fosse già capace di interpretare la realtà attraverso i numeri?

 

La matematica accompagna l’individuo per tutto l’arco della vita, presentandosi, tuttavia, con forme e modalità differenti. Per molti anni, si è ritenuto che il primo incontro che il bambino avesse con la matematica fosse tra i banchi di scuola, dove effettivamente viene posto nelle condizioni di sperimentare e conoscere il mondo del calcolo e la sua complessità.

Ma se il bambino avesse, ben prima di andare a scuola, delle abilità matematiche di origine innata? Se il neonato fosse già capace di interpretare la realtà attraverso i numeri?

E’ quello che ha sostenuto Butterworth (1999, 2005) elaborando la tesi innatista del “cervello matematico” in cui afferma che alcune capacità matematiche sarebbero presenti sin dalla nascita. Nei suoi studi, infatti, l’autore definisce “Modulo numerico” quel nucleo di abilità innate attraverso cui si percepisce, in modo veloce ed automatico, il mondo in termini numerici. Spiegando, ad esempio, che l’individuo sarebbe in grado di riconoscere la differenza tra due insiemi che presentano una diversa numerosità di oggetti senza che ciò gli venga insegnato. Persino i neonati nei primi giorni di vita sarebbero capaci di discriminare tra loro insiemi di 2 o 3 elementi (Antell e Keating, 1983).

Ulteriori studi hanno dimostrato la presenza di altre abilità innate e preverbali, come il “subitizing”, o immediatizzazione. Quest’ultima consiste in un processo specializzato di percezione visiva che permette di cogliere la dimensione numerica di un insieme di massimo quattro elementi in modo immediato, senza alcuna necessità di contare (Atkinson, Campbell e Francis, 1976).

Emerge, inoltre, la capacità innata del bambino di avere delle aspettative numeriche sulle possibili variazioni di oggetti dovute alla loro sottrazione o aggiunta all’interno di un insieme (Lucangeli, Iannitti, Vettore, 2007). Secondo Wynn (1992), ciò sarebbe possibile già all’età di 5 o 6 mesi.

Alla luce di quanto detto, l’intelligenza numerica è considerata la capacità innata che ogni individuo ha di pensare e comprendere la realtà in termini di numeri e quantità (Lucangeli et al., 2007). Come ogni altra abilità essa necessita di essere allenata ed affinata attraverso l’istruzione la quale permette lo svolgimento di calcoli sempre più complessi e la loro applicazione in contesti pratici. In questo senso, imparare a contare rappresenta il primo incontro tra natura e cultura dove la prima fornisce competenze generali (come memoria a breve termine e abilità spaziali) e specificamente matematiche, mentre la seconda offre strumenti culturali condivisi (es. simboli numerici).

Da questi studi nascono nuove riflessioni: si possono, dunque, considerare i bambini dei piccoli matematici e potenziare le loro abilità prima dell’ingresso a scuola? Se c’è una predisposizione innata al calcolo, le differenze interindividuali nei compiti matematici come si spiegano?

Rispetto al primo interrogativo, è possibile potenziare le abilità matematiche di un bambino in età prescolare adeguando il livello di difficoltà alle sue reali possibilità. Compiti troppo sofisticati non produrrebbero alcun potenziamento, compiti eccessivamente semplici non risulterebbero interessanti agli occhi di un bambino. Sarebbe, quindi, necessario utilizzare mezzi che stimolino l’interesse e che favoriscano lo sviluppo di queste abilità.

Rispetto al secondo interrogativo, Butterworth spiega che le differenze interindividuali riscontrabili nei compiti matematici siano da attribuire agli effetti dell’apprendimento e della cultura in quanto sia la presenza di strutture cerebrali specializzate sia la predisposizione innata ad interpretare matematicamente la realtà sono comuni a tutti gli individui. Sicuramente, però, va tenuto conto della presenza di numerose altre variabili (l’ansia, la memoria a breve termine, la difficoltà del compito, l’esercizio continuo, ecc…) che insieme determinano differenze prestazionali.

 

Vedere la musica, sentire la musica. Le associazioni mentali tra musica, emozioni e colori

I brani percepiti come più allegri e vivaci sono associati a colori brillanti e luminosi, mentre le melodie a carattere maggiormente meditativo e malinconico sono spesso collegate a colori grigi o appartenenti a tonalità più fredde e spente.

 

Suono e colore. La vista è uno dei sensi maggiormente utilizzato per esplorare la realtà che ci circonda. Per questo motivo, molto spesso si tende a ricercare un’associazione tra gli stimoli sonori e quelli visivi. In numerose attività in ambito educativo, artistico e di marketing, si sperimentano collegamenti tra suoni e strutture sonore e stimoli di tipo visivo. Un esempio artistico tra i più noti e recenti è sicuramente contenuto nel film di animazione Fantasia (Disney, 1940): in alcune scene, la presentazione di alcuni estratti di famose composizioni di musica classica è accompagnata dalla visione di particolari immagini e colori. Ma i meccanismi che regolano l’associazione tra suono e colore sono sicuramente molto complessi.

Vedere la musica a colori. È questa la sensazione prodotta da un fenomeno legato alla percezione sensoriale, ovvero una delle forme di sinestesia più diffuse, la combinazione mentale tra stimoli provenienti dalla modalità uditiva e la rievocazione, involontaria, di percezioni derivanti da un’altra modalità sensoriale, quella visiva (Cytowic, 2002). Tale forma di associazione sinestetica tra percezioni sensoriali è stata ampiamente descritta da Oliver Sacks nel suo saggio Musicofilia (2007). Un suono, una particolare tonalità, un accordo, percepito da una persona con tale forma di sinestesia, possono suscitare, in modo immediato, un’associazione con una caratteristica di tipo visivo (un colore, una luce più o meno intensa..). Gli esempi riportati dal famoso neurologo mostrano come tale forma di sinestesia possa assumere modalità differenti, coinvolgendo diversi aspetti visivi (colore, ma anche grado di luminosità) e sonori specifici (suono singolo, tonalità musicale, modo maggiore o minore della scala, tipo di strumento musicale). La particolarità di questo fenomeno ha influenzato alcuni recenti studi, i quali hanno cercato di comprendere i meccanismi neuronali coinvolti in questo tipo di sinestesia. Ad esempio, la ricerca condotta da Zamm e colleghi (2013) ha mostrato come le persone che manifestano forme di sinestesia del tipo musica-colore sembrano possedere, a livello neurologico, una maggiore connettività tra il lobo frontale e le aree del cervello deputate alle associazioni visive e uditive. Questa particolare attivazione neuronale potenziata permette loro di percepire un’esperienza sensoriale multimodale, che, nella sua affascinante peculiarità, può essere semplificata nell’espressione “vedere i suoni colorati”.

Le associazioni prodotte tra colori e suoni sono molto variabili, sia nel fenomeno della sinestesia, che in relazione alla creazione di associazioni a carattere artistico, e il codice associativo sembra, in parte, variare da individuo a individuo. Quali possono essere, allora, gli aspetti che influenzano la combinazione tra un dato suono (o gruppo di suoni) e uno specifico colore? Alcune ricerche hanno evidenziato come, in generale, le emozioni possono essere un fattore in grado di influenzare l’associazione tra una melodia e un determinato colore. La ricerca di Barbiere, Vidal e Zellner (2007) ha coinvolto studenti universitari che non presentavano specificatamente forme di sinestesia. Ai partecipanti sono state presentate delle brevi melodie, chiedendo loro di associarle ad uno specifico colore, scelto da una lista di 11 tonalità, e successivamente, di definire l’emozione che il brano musicale comunicava loro. I risultati hanno mostrato come la scelta del colore fosse collegata all’emozione percepita: i brani che comunicavano un’emozione positiva sono stati più frequentemente associati ad un colore primario (blu, rosso, giallo) o al verde, mentre le composizioni che suscitavano una sensazione di malinconia erano più frequentemente associate al colore grigio o ad altre tonalità fredde. Il ruolo di mediatore che le emozioni possono avere nell’associazione tra musica e colore è stato confermato anche da una serie di ricerche condotte da Palmer e colleghi (2013), che hanno studiato l’associazione tra musica-emozioni-colore in individui che non presentavano sinestesia. Anche in questo caso, i brani percepiti come più allegri e vivaci (caratterizzati da tonalità musicali maggiori, tempo veloce) sono stati associati a colori brillanti e luminosi, mentre le melodie a carattere maggiormente meditativo e malinconico (tonalità musicali minori, tempo più lento) venivano spesso collegate a colori grigi o appartenenti a tonalità più fredde e spente.

Questi studi sembrano quindi confermare lo stretto legame che si può riscontrare tra il modo in cui musica, emozioni e colore vengono messi in relazione nella percezione della realtà esterna. I risultati potrebbero costituire un fondamentale punto di partenza per approfondire la ricerca sulle associazioni suono-colore anche nel fenomeno della sinestesia. Va, tuttavia, sottolineata, una rilevante limitazione delle ricerche citate: i partecipanti possedevano un background culturale occidentale, e i brani musicali proposti si riferivano ad alcune tra le opere più famose della musica classica occidentale. Inoltre, i disegni sperimentali sono stati costruiti basandosi su alcuni aspetti culturalmente determinati, il più evidente dei quali è rappresentato dalle associazioni, tipiche della musica occidentale, tra modo minore della scala musicale -tono emotivo nostalgico e modo maggiore-tono emotivo allegro (Virtala e Tervaniemi, 2017). E, in aggiunta a ciò, tracce di influenze culturali possono essere identificate anche nell’associazione emozione-colore. Proprio per questi motivi, sarebbe opportuno comprendere se questa tendenza ad associare suoni-emozioni-colori sia presente anche in individui appartenenti a culture differenti rispetto a quella occidentale.

L’associazione mentale tra musica e colore rappresenta quindi un fenomeno affascinante e complesso, non ancora del tutto esplorato, all’interno del quale sembrano avere un ruolo rilevante anche la percezione delle emozioni legate allo stimolo sonoro. Tali aspetti si fondono in un’esperienza percettiva di tipo multimodale, arricchendo l’esperienza individuale con la realtà esterna e offrendo nuovi e significativi spunti di espressione anche in ambito artistico, culturale ed educativo.

Comportamento alimentare: nella scelta di cosa mangiare contano il gusto, l’olfatto e…forse qualcosa in più

L’alimentazione è un requisito imprescindibile per la sopravvivenza di ogni essere vivente; eppure, l’atto del mangiare ha assunto nel corso della nostra evoluzione molteplici significati, superando la semplice funzione di nutrimento per la macchina-corpo.

 

Possiamo citare, ad esempio, la dimensione sociale, che entra in gioco nel momento conviviale della condivisione dei pasti nel quotidiano familiare oppure come rituale comunitario durante le festività, il significato simbolico di accudimento secondo il quale cucinare per qualcuno è un gesto che esprime affetto, vicinanza, intimità, o ancora può essere visto come un “farmaco emotivo”; si pensi ad esempio al comfort food, ovvero quei cibi ai quali ciascuno di noi si rivolge per coccolarsi nei momenti di sconforto. Eppure, il cibo può essere anche un elemento di disuguaglianza sociale: secondo il Rapporto annuale 2019 della FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations) nel mondo vi sono infatti circa 800 milioni di persone denutrite (1 su 9), di cui 513,9 milioni in Asia e 256,1 milioni in Africa, con più di 49 milioni di bambini sotto i cinque anni in stato di deperimento; al contempo, 672 milioni di individui vivono una condizione di obesità (1 su 8) e sono nel mondo 338 milioni i bambini e adolescenti in sovrappeso.

Ad oggi l’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile ed è considerata una delle principali criticità nella salute pubblica del XXI secolo (Barness et al., 2007), “pesando” sulle spese sanitarie nazionali in una percentuale tra il 4 e il 10% del totale annuale (Allender & Rayner, 2007; Tsai et al., 2010) e alimentando un commercio di prodotti mirati alla perdita di peso che solo negli Stati Uniti ha superato i 72 miliardi di dollari nel 2018: mantenere il peso forma nelle cosiddette “società del benessere” sembra essere più difficile che mai.

Il comportamento appetitivo rivolto al cibo è quindi un complesso processo multifattoriale, che coinvolge emozioni, aspetti psicologici, fisiologici, ambientali, ma soprattutto sensoriali; in particolare il gusto e l’olfatto, ovvero i sensi chimici, sono i mezzi attraverso cui apprezziamo le proprietà organolettiche dei diversi cibi, contribuendo allo sviluppo di preferenze e di idiosincrasie alimentari. Tuttavia, gli studi che si sono proposti di indagare il rapporto tra questi sensi e lo sviluppo di una condizione di sovrappeso si sono rivelati inconcludenti, sia per quanto riguarda gli adulti che per i bambini. Alcune ricerche sembrano rintracciare una minore sensibilità ai gusti (dolce, salato, aspro, amaro, umami) negli individui sovrappeso o obesi rispetto agli individui normopeso (Proserpio et al., 2016; Sartor et al., 2011; per i bambini Feeney et al, 2017; Overberg et al., 2012), altre hanno riscontrato l’inverso (Hardikar et al., 2017; Pasquet et al., 2007), altre ancora non hanno riscontrato alcun effetto (Thompson et al., 1976; Grinker et al., 1972). Altrettanto controversi sono i risultati degli studi che hanno indagato il ruolo dell’olfatto. Anche in questo caso alcuni risultati sostengono la tesi di una minore acuità olfattiva negli individui sovrappeso o obesi rispetto alla controparte normopeso (Fernandez-Aranda et al., 2016; Fernandez-Garcia et al., 2017; Skrandies & Zschieschang, 2015; per i bambini Obrebowski et al, 2000), altre che riscontrano invece una maggiore sensibilità olfattiva (Patel et al., 2015; Stafford & Welbeck, 2011), in particolare verso l’odore del cioccolato (Stafford & Whittle, 2015), altri ancora non hanno riferito alcuna differenza a fronte di diversi BMI (Trellakis et al., 2011).

Alcuni ricercatori hanno tuttavia suggerito come sia importante distinguere infanzia e adolescenza nella ricerca rivolta ai sensi chimici, in quanto i profondi cambiamenti ormonali che avvengono in questa fase di sviluppo possono influenzare in maniera determinante la percezione del gusto e degli odori (Martin et al., 2009; Loper et al., 2015).

Herz e colleghi (2020) hanno di recente condotto una ricerca coinvolgendo solo adolescenti tra i 12 e i 16 anni e sottoponendoli a dei test di sensibilità olfattiva e gustativa mediante l’utilizzo di apposite strisce create in laboratorio e denominate “sniffin’ sticks” e “tasting sticks” (Burghart GmbH, Wedel, Germany), contenenti degli agenti chimici in diverse concentrazioni che vengono interpretati come i gusti principali (dolce, salato, amare, aspro) o sapori di uso comune (es. cannella, limone, menta) se posti sulla lingua e come sentori di odori più o meno spiccati, se annusate. L’obbiettivo era quello di testare non soltanto la capacità di discriminazione tra diversi gusti, ma anche la soglia di sensibilità, motivo per cui è stato impiegato il PROP (6-n-propylthiouracil), che consente di distinguere tra non-taster, normal-taster e i cosiddetti super-taster.

Gli adolescenti con un BMI più alto, e quindi più sovrappeso, hanno riportato in media una soglia olfattiva inferiore, risultando quindi più sensibili; questo risultava particolarmente vero per gli adolescenti in età più precoce rispetto a quelli che volgevano al fine del loro sviluppo. Gli autori sottolineano a questo punto come nelle ricerche precedenti che avevano ottenuto risultati contrari, si fosse impiegato una versione precedente delle sniffin’ stick: questa informazione diventa particolarmente rilevante poiché l’agente utilizzato vedeva il coinvolgimento del sistema trigeminale, che raccoglie le componenti nocicettive, di calore e tattili legate agli odori, riflettendo quindi potenzialmente una minore suscettibilità trigeminale e non una minore sensibilità olfattiva. A supportare questa ipotesi vi è lo studio di Stafford e Whittle (2015) sulla maggiore sensibilità all’odore del cioccolato, aroma che infatti non attiva il sistema trigeminale. Ipotizzando una maggiore sensibilità verso odori che mancano di questa componente, tipicamente gli aromi dei cibi dolci, questo motiverebbe un comportamento appetitivo verso cibi altamente calorici; conversamente una minore sensibilità trigeminale, attivata dai cibi salati o saporiti, li renderebbe di gusto meno intenso, potenzialmente promuovendone un maggiore consumo per raggiungere la sazietà.

Riguardo al gusto, gli autori non hanno riscontrato effetti significativi. Tuttavia, la suggestione di una componente trigeminale che possa coinvolgere anche questo tipo di esplorazione è supportata dal fatto che le tasting stick utilizzate non permettono di valutare tale effetto. L’utilizzo ad esempio di capsaicina, l’elemento del piccante negli alimenti, potrebbe fornire un mezzo per testare questa ipotesi in studi futuri.

 

dCBT: la digital cognitive behavioural therapy nel trattamento dell’insonnia – Psicologia Digitale

La CBT, riconosciuta come terapia d’elezione per i disturbi del sonno, ha il suo corrispettivo digitale: la Digital Cognitive Behavioural Therapy (dCBT). 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 9) dCBT: la digital cognitive behavioural therapy nel trattamento dell’insonnia

 

Tipologie di Digital Cognitive Behavioural Therapy

In letteratura è possibile trovare diversi modi per riferirsi alla CBT via web o mobile: Internet CBT (iCBT), CBT computerizzata (cCBT), CBT elettronica (eCBT) o CBT online (oCBT); il termine più utilizzato nelle pubblicazioni più recenti è digital CBT, termine che include i precedenti e fa riferimento a tutte le nuove tecnologie.

Luik e colleghi (2017) descrivono i tre tipi di Digital Cognitive Behavioural Therapy (dCBT) che differiscono per tempo speso dal clinico, livello di automatizzazione, costi e scalabilità, quindi la possibilità di un uso estensivo. Nella dCBT come supporto, la tecnologia è uno degli strumenti attraverso cui il clinico fornisce la terapia o parti di essa, come app per monitorare i sintomi o proporre esercizi, diari del sonno ecc. Abbiamo poi la dCBT guidata in cui al paziente vengono forniti programmi preimpostati con diverse modalità e sessioni che vengono supervisionati a distanza dal clinico, il quale ha un livello di coinvolgimento limitato poiché una parte del processo terapeutico viene automatizzata. Infine, la dCBT completamente automatizzata che non prevede alcuna forma di supporto da parte del clinico ma solo programmi e contenuti preimpostati, come testi interattivi con video o chatbot con terapeuti virtuali (per vedere un esempio: www.sleepio.com).

La dCBT: effetti e adesione al trattamento

Miglioramenti nelle prestazioni cognitive, nella sintomatologia di altre condizioni pregresse, diminuita assunzione di farmaci, aumento di tempo totale e qualità del sonno: la dCBT per l’insonnia ha dato prova di efficacia nel medio e lungo termine (Luik et al., 2017; 2019; Zachariae et al., 2016). van der Zweerde e colleghi (2019) evidenziano alcuni fattori che mediano l’adozione e l’efficacia del trattamento online, prima di tutto: le caratteristiche del singolo. La Digital Cognitive Behavioural Therapy non è adatta a tutti per svariati motivi: è necessario ci sia una forte motivazione personale e autodisciplina; alcuni pazienti possono non sentirsi a proprio agio e preferire un setting e un trattamento ‘classici’, in studio. Ancora, molti sollevano dubbi circa i dati condivisi e la privacy, dato che è necessario inserire dati personali e sensibili. Vanno considerati poi i casi in cui si ha la presenza di un quadro diagnostico complesso che richiede necessariamente un supporto face-to-face.

Il fattore U: uomo vs macchina

Quanto è centrale il coinvolgimento del clinico? Alcuni studi confrontano gli esiti del trattamento faccia a faccia con quello digitale (Luik et al., 2017; 2019) mostrando, come intuibile, che essere seguiti da un terapeuta ha un effetto maggiore su aderenza ed esito del trattamento anche quando il supporto avviene solo via mail, chat, forum. La presenza del clinico è indubbiamente un fattore fondamentale, ma va considerato che la maggior parte dei programmi dCBT finora utilizzati non sfrutta appieno le possibilità che le soluzioni digitali possono offrire, per cui a fare la differenza potrebbe non essere il supporto umano di per sé quanto flessibilità e facilità di utilizzo dello strumento.

Le sfide future

La digitalizzazione delle terapie le rende più economiche, disponibili 24/7 ovunque e per chiunque, personalizzabili: tipologia di trattamento, intensità, durata, promemoria e strumenti di monitoraggio delle attività, tutto viene pianificato su misura.

Tra le sfide future abbiamo la raccolta di ulteriori evidenze scientifiche e una espansione dell’utilizzo: rimane tanto da fare perché questi strumenti siano compresi e promossi dagli operatori sanitari e siano diffusi standard globali di controllo qualità.

La CBT saprà adattarsi e svilupparsi stando al passo con l’innovazione digitale, mettendo insieme tecnologia, creatività, ricerca e competenza clinica.


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Vero come la finzione: l’accettazione e il disturbo ossessivo-compulsivo

Nel film Vero come la finzione non viene specificato se il protagonista soffra effettivamente di un disturbo ossessivo-compulsivo ma sicuramente i meccanismi della sua mente svelano una moderata rigidità mentale che nel tempo diviene parte integrante del suo modo di essere.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Vero come la finzione è un film del 2016 che racconta la storia di Harold Crick, un esattore delle tasse. È ossessionato dai numeri e per questo, già dai primi minuti della pellicola, ci proietta all’interno della sua modalità di vivere le situazioni quotidiane: conta perfettamente le spazzolate che dà ai suoi denti al mattino, i passi per raggiungere la fermata del pullman che lo porta al lavoro ed esegue diverse volte dei calcoli mentali faticosi. Ad un certo punto, questa “normalità” viene interrotta da un evento inusuale. Una mattina, appena sveglio e pronto per recarsi in ufficio, inizia a sentire una voce femminile. La voce descrive esattamente tutte le azioni che Harold compie e tutte le modalità mentali che lui assume nel momento in cui fa un semplice gesto, come quello di lavarsi i denti. I maggiori intenditori di psicologia e gli esperti del settore potrebbero pensare ad un crollo psicotico di Harold, dovuto alla fatica di perpetrare a lungo tutti quei processi mentali faticosi che mette in atto ogni giorno, oppure, ad un aggravamento dei sintomi di un disturbo ossessivo-compulsivo. In realtà, si scopre che la voce nella testa del signor Crick è la voce di una famosa scrittrice di romanzi drammatici che sta raccontando la storia di un uomo qualunque, ossessionato da numeri, rigido mentalmente e nelle sue relazioni. Harold cerca in tutti i modi di scoprire la provenienza di questa voce, fino ad arrivare a conoscere di persona l’autrice di romanzi che sta raccontando in quel momento la sua storia. La voce ha finalmente un volto, la finzione diviene realtà e l’autrice e lo stesso Harold rimangono sotto shock. L’unico modo per far scomparire la voce nella testa del protagonista è quella di terminare il romanzo, ma nella mente della scrittrice l’unica fine possibile per Harold è estremamente drammatica. Nel frattempo il nostro esattore delle tasse si innamora di una pasticcera che riesce a fargli osservare, riconoscendo i suoi difetti ma anche i suoi pregi, le rigidità mentali che si era sempre imposto e a renderlo più empatico e meno egocentrato. Harold comprende cosa significa rimanere ancorato alle proprie emozioni, e che forse le modalità mentali che metteva in atto lo tenevano lontano dal provare determinate angosce, ma erano proprio quelle a determinare il suo distacco dalla vita relazionale e la sua sofferenza.

Non viene specificato se il protagonista soffra effettivamente di un disturbo ossessivo-compulsivo ma sicuramente i meccanismi della sua mente svelano una moderata rigidità mentale che nel tempo diviene parte integrante del suo modo di essere.

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una patologia largamente diffusa. Ha come sintomi la nascita di pensieri, impulsi o immagini mentali che vengono percepite come intrusive e sgradevoli; per tenersi lontani da tali ossessioni, i pazienti sviluppano delle compulsioni, ovvero, comportamenti ripetitivi o azioni mentali che allontanano momentaneamente la persona dal disagio e dall’angoscia causate delle ossessioni.

Il trattamento elettivo per tali disturbi è la terapia cognitivo-comportamentale, ma attualmente si utilizzano approcci improntati sull’accettazione, come la Mindfulness. Tali approcci cercano spesso di combinare i protocolli da Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) con le tecniche di Mindfulness.

Harold durante il film compie inconsapevolmente delle esposizioni alle situazioni stressanti sperimentando un’ansia reattiva all’assenza delle sue modalità protettive e prudenziali: le compulsioni. Rileggendo il romanzo della scrittrice e concentrandosi sulla sua voce e i suoi racconti, inizia ad osservare le sue modalità disfunzionali e prenderne sempre più consapevolezza. Arriva alla conclusione che non tutto necessita costantemente di essere controllato; gli esseri umani sono sempre esposti all’incertezza e al dubbio, in quanto esseri mortali e sottoposti a ciò che è imprevedibile. Da una parte sviluppa delle abilità osservative riconducibili alla Mindfulness e dall’altra diviene consapevole dei suoi processi mentali e dei suoi pensieri automatici che alimentano la sua sofferenza. Ridefinire e osservare in modo non giudicante le sue credenze disfunzionali è stato un fattore determinante per il signor Crick. La Mindfulness, infatti, può essere definita come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2003).

L’utilizzo della Mindfulness e del protocollo ERP sembrerebbe una svolta nel trattamento dei DOC. Esistono già in letteratura alcuni studi pilota effettuati da Strauss e colleghi (2015) condotti su una popolazione di pazienti con disturbo ossessivo compulsivo con lo scopo di definire i parametri per un trattamento definitivo che coniuga l’utilizzo di tecniche Mindfulness-based (MB) in associazione ad un protocollo di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP). Nel protocollo di MB-ERP la terapia porta i pazienti a lavorare sull’astensione dal giudizio verso i pensieri intrusivi, incrementando l’accettazione nei confronti delle sensazioni fisiche e corporee provocate dall’ansia e porta ad osservare in modo consapevole i comportamenti impulsivi; come detto in precedenza, se osserviamo bene il percorso di cambiamento di Harold possiamo azzardare una sorta di fusione tra consapevolezza ed esposizione alle situazioni stressanti che il protagonista mette in atto.

Dopo un’attenta analisi della situazione, Harold diviene consapevole che il finale che la scrittrice aveva immaginato per lui fosse quello più adatto per terminare la sua storia, lasciando nel lettore un modo diverso per rileggere la sofferenza e porsi delle domande esistenziali, rimanendo conscio del fatto che non tutto possa essere spiegato e razionalizzato.

Decide così di accettare la sua sorte. Riconosce la tristezza, la paura e la rabbia relative all’ingiustizia di morire ancor prima di aver vissuto veramente la sua vita.

Il finale del film lascia nello spettatore diversi spunti di riflessione. Non posso svelarlo in questa recensione poiché si perderebbe tutta la sorpresa e il pathos che tale conclusione suscita, per cui invito voi lettori a vedere questo film e tirare le vostre conclusioni, solo dopo averlo visto. Sicuramente il tema più importante di questo film è l’accettazione e l’auto-osservazione come capacità intrinseca nell’essere umano. L’accettazione di cui parla il film non è rassegnazione. Jon Kabat Zinn, fondatore della Mindfulness, sostiene che accettare significa che prima o poi abbiamo bisogno di renderci disponibili a vedere le cose così come sono. È l’atteggiamento che pone i presupposti per un’azione più appropriata nella nostra vita, qualsiasi cosa stia avvenendo ora. Secondo l’autore diviene molto più facile agire con convinzione e con efficacia quando si ha una chiara immagine di come stanno le cose, di come funzioniamo, di cosa proviamo. Al contrario, diviene più difficile nel momento in cui la nostra visione viene influenzata da giudizi e desideri, timori e pensieri disfunzionali. Harold, con la sua storia, ci insegna proprio questo.

Vero come la finzione ci proietta all’interno di situazioni esilaranti, con umorismo, ma allo stesso tempo ci aiuta a riflettere su alcuni temi importanti come l’amore, l’accettazione e il significato della vita stessa.

 

gameChange – Un progetto su psicosi e l’uso delle nuove tecnologie da parte del professor Daniel Freeman

Molti pazienti con psicosi vivono situazioni sociali quotidiane con una forte ansia, evitano situazioni e tale isolamento conduce ad un ciclo di peggioramento. Perché sia possibile interrompere questo ciclo è stato creato un programma di trattamento VR gameChange.

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University.

 

Negli ultimi anni la realtà virtuale (VR) è stata applicata con risultati promettenti per la comprensione e il trattamento di disturbi mentali. Continuando ad esplorare i progetti di Daniel Freeman e dell’Oxford VR (di cui abbiamo già parlato nei precedenti articoli: Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di OxfordDaniel Freeman e l’Oxford VR. Un impegno virtuale per la salute mentale del Regno UnitoDaniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie), ci soffermeremo su uno degli ultimi lavori del gruppo: Automated virtual reality (VR) cognitive therapy for patients with psychosis: study protocol for a single-blind parallel group randomised controlled trial (gameChange), pubblicato nel 2019 su BMJ open.

Molti pazienti con esperienza di psicosi vivono situazioni sociali quotidiane con una forte ansia, a causa di possibili allucinazioni, paranoie, convinzioni negative su se stessi e così via. Di conseguenza i pazienti con psicosi evitano situazioni e tale isolamento conduce ad un ciclo di peggioramento. Perché sia possibile interrompere questo ciclo è stato creato un programma di trattamento automatizzato in realtà virtuale (VR).

432 partecipanti con psicosi saranno reclutati tramite il servizio sanitario nazionale inglese (NHS). Saranno esclusi i partecipanti con epilessia fotosensibile, patologie organiche specifiche, una diagnosi di abuso di sostanze e disturbo di personalità, un disturbo dell’apprendimento severo e coloro con ideazione suicidaria al momento dello studio. Il 50% dei partecipanti parteciperà al training VR, mentre il restante 50% farà da gruppo di controllo. Valutazioni di follow up a sei settimane e a sei mesi dal trattamento verranno raccolte.

Il trattamento VR gameChange è un’applicazione di realtà virtuale per adulti con psicosi che soffrono di disturbi d’ansia in situazioni sociali quotidiane, perché i pazienti possano sentirsi più sicuri in mezzo alla gente. Il trattamento è stato programmato da Oxford VR (Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di Oxford) in conformità ai requisiti essenziali e alle disposizioni della direttiva CE93/42/CEE (dispositivi medici). Durante la somministrazione del trattamento VR sarà presente uno psicologo nella stanza come supporto tecnico per il partecipante e per incoraggiare i partecipanti ad applicare ciò che hanno imparato nella VR nel mondo reale tra un incontro ed il successivo.

Specifiche sul training in VR:

La terapia cognitiva VR ha lo scopo di mettere alla prova le aspettative di paura dei pazienti in sei sessioni di 30 minuti. Il partecipante, usando un visore VIVE, ha la possibilità di stare in piedi, camminando leggermente negli scenari. Durante l’immersione in virtuale, il coach virtuale spiega innanzitutto ai partecipanti la base del trattamento, prima di condurre il paziente nelle sei situazioni di VR: un bar, una sala d’attesa di un medico di base, un pub, un autobus, una strada ed un negozio. Per ogni situazione ci sono cinque livelli di difficoltà (es. numero e vicinanza delle persone, una maggiore richiesta di interazione). Per ogni livello ci sono degli esercizi volti all’abbandono dei comportamenti di difesa in vista di un nuovo apprendimento. Il partecipante, al termine di ogni scenario, può decidere di ripetere una precedente situazione o di svolgere la successiva/il successivo livello.

 

 

La sperimentazione ha iniziato il reclutamento dei pazienti a Luglio 2019. Il reclutamento durerà fino a Luglio 2020, con termine del progetto a Gennaio 2021. Si invitano pertanto le persone interessate a partecipare alla conferenza sulle nuove tecnologie che si terrà a Milano il 19-20 febbraio 2021 “European Conference of Digital Psychology“, la quale verrà aperta da una lectio magistralis dello stesso Daniel Freeman sulla realtà virtuale.


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Per informazioni scrivere a[email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

Meditazione mindfulness ai tempi del coronavirus: come può tornarci utile in questo momento? Intervista al Dott. Andrea Paschetto

Da anni la mindfulness sta prendendo sempre più piede, in quanto si è dimostrata una valida pratica in grado di contribuire al nostro benessere psico-fisico. Considerato il delicato momento storico causato dall’emergenza coronavirus ho desiderato intervistare e confrontarmi con il collega Andrea Paschetto.

 

Andrea Paschetto è cultore della Materia in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Udine, da molti anni impegnato nell’ambito della ricerca scientifica e della formazione sulla “meditazione orientata alla mindfulness” (MOM) insieme al Prof. Franco Fabbro. Quest’ultimo è ideatore e fondatore del gruppo MOM, un gruppo nato in Friuli Venezia Giulia, con l’obiettivo per l’appunto di portare avanti, a livello nazionale, attività di ricerca, formazione e pratica sulla meditazione di consapevolezza.

Il metodo MOM

Il metodo di meditazione orientata alla mindfulness (MOM) è stato messo a punto più di dieci anni fa da Franco Fabbro. Si tratta di un programma simile alla MBSR (Mindfulness-based stress reduction) sviluppata da Kabat-Zinn. Il programma infatti è strutturato in otto incontri a cadenza settimanale, durante i quali i partecipanti praticheranno 30 minuti di meditazione, distribuita in 10 minuti di attenzione al respiro (anapanasati), 10 minuti di attenzione al corpo e gli ultimi 10 minuti di osservazione degli stati o contenuti della mente (in termini di pensieri, immagini, ricordi). È previsto per ogni incontro una parte iniziale durante la quale si affronterà un tema attinente alla mindfulness ed una parte finale a seguito della pratica esperienziale che consente ai partecipanti di confrontarsi su quanto è accaduto.

Il gruppo è molto attivo non soltanto nell’ambito della formazione ma anche in quello della ricerca scientifica circa la validità del metodo.

Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito ufficiale dello stesso, all’interno del quale è possibile reperire materiale bibliografico, pubblicazioni, ricerche scientifiche e audio guida.

Emergenza Coronavirus: la mindfulness in questo momento può tornarci utile?

Andrea Paschetto parte dal fare una breve premessa su cosa sia la mindfulness, e dunque ci ricorda che essa rappresenta una delle tante pratiche meditative esistenti. Il termine mindfulness infatti, è intraducibile in italiano e lo si fa corrispondere convenzionalmente al concetto di meditazione di consapevolezza.

Tale pratica viene ripresa da un metodo di cura scoperto più di 2500 anni fa dal Principe Gautama Buddha che aveva elaborato questo percorso di cura chiamato ottuplice sentiero e la mindfulness per l’appunto è un componente di tale percorso. L’obiettivo è quello di aumentare il livello di consapevolezza delle persone.

Il Buddha aveva capito con acuta chiarezza che la mente è il mezzo attraverso cui si attua la nostra sofferenza. La liberazione dalla sofferenza significa innanzitutto la liberazione dai condizionamenti mentali. (F. Fabbro, 2019).

Può in questo momento la mindfulness contribuire al nostro benessere?

Il dott. Paschetto ritiene che forse iniziare a praticare la mindfulness in questo delicato momento potrebbe non essere molto funzionale in quanto aumentando il livello di consapevolezza, se è presente disagio, si percepirebbe ancor più disagio, “sarebbe come imparare a nuotare intanto che una nave sta imbarcando acqua”.

In generale però, tale pratica, continua a spiegare il dott. Paschetto, ci potrebbe aiutare in questo momento sotto due aspetti interessanti. La sua originaria funzione infatti era quella di ridurre la sofferenza ed oggi anche la ricerca scientifica ci dice che la mindfulness contribuisce ad abbassare livelli di risposte emotive come paura, rabbia, tristezza e dunque un primo aspetto funzionale in questo momento potrebbe essere rappresentato dal limitare il dolore percepito dall’essere immersi nel dramma di questa situazione. Attraverso la pratica infatti, le persone possono riuscire a diventare osservatori esterni di ciò che avviene in termini di reazioni emotive, sensazioni corporee e pensieri, molti di questi divenuti automatizzati. Un secondo interessante aspetto che potrebbe tornarci utile in questo momento potrebbe essere rappresentato dall’opportunità di fare una sorta di bilancio e distinzione tra ciò che è essenziale nella nostra vita e ciò che è importante e dunque avere l’opportunità di rivedere il nostro sistema di valori.

Riuscendo ad essere meno sopraffatti dalla sofferenza, ci spiega il dott. Paschetto, abbiamo più possibilità di reagire ad essa.

Non Giudizio e atteggiamento gentile: quale ruolo nella mindfulness?

Ci spiega e chiarisce il dott. Paschetto che l’atteggiamento gentile e non giudicante non deve essere frainteso con il valutare che “vada tutto bene”, in quando per cambiare serve necessariamente diventare per l’appunto consapevoli di ciò che “non va bene”. Sarebbe più corretto parlare di quello che nel gruppo MOM viene chiamato atteggiamento equanime, che non va frainteso come atteggiamento distaccato dall’esperienza ma anzi va considerato come atteggiamento mentale che va coltivato e sviluppato, che osserva, si interroga ma che non giudica. Una mente equilibrata dunque, dall’essere vicino all’esperienza, qualunque essa sia, ma non estremamente coinvolta e travolta, una mente presente, vigile e attenta, in un armonico equilibrio tra soggetto che osserva e oggetto osservato (in termini di pensieri, emozioni, sensazioni).

E visto che ogni viaggio, percorso, obiettivo, inizia sempre da un primo passo, ho chiesto al dottore di offrirci una breve dimostrazione della pratica, che per chiarezza di informazione ricordiamo che è stata ridotta in questa sede e per tale intervista a solamente cinque minuti di esercizio del respiro (Anapanasati: consapevolezza del respiro). Si ricorda infatti, che la mindfulness nella sua completezza prevede un tempo di circa trenta minuti distribuito in tre fasi come già accennato sopra.

 

Guarda l’intervista integrale:

 

 

 

 

Taekwondo: l’arte marziale che aumenta le prestazioni cognitive

Esiste una correlazione ormai accertata tra aumento della performance cognitiva e arti marziali (Douris, 2015; Johnstone, 2018; Origua Rios, 2018). Le ricerche hanno evidenziato in particolare come la pratica del taekwondo sia in grado di ottimizzare alcune funzioni cognitive e incrementare la neuroplasticità, non solo nei soggetti in età giovane e adulta, ma anche tra individui al di sopra dei 70 anni.

 

Il taekwondo è un’arte marziale nata in Corea. Diffusa dal paese di origine a partire dal 1972, è divenuta disciplina olimpica dall’edizione dei Giochi di Sidney del 2000. Attualmente coinvolge 80 milioni di atleti in circa 200 paesi nel mondo.

La motivazione che spinge la ricerca ad indagare sulla relazione tra capacità cognitive e pratica del taekwondo sembra giustificata dalle particolari caratteristiche di questa disciplina sportiva. In generale l’esercizio di questo sport coinvolge l’atleta in un comportamento che enfatizza il controllo, il rispetto, l’integrità, la perseveranza, e varie funzioni cognitive quali l’attenzione sostenuta, la velocità di elaborazione, la pianificazione e il problem solving. La complessità cognitiva nella pratica del taekwondo è esemplificata dalle “poomse” (forme) che sono una serie di movimenti coreografici attuati con precisione tecnica in un determinato ordine, in un processo di apprendimento a complessità crescente che coinvolge il soggetto per molti anni.

Le ricerche che hanno esaminato gli atleti più giovani hanno mostrato un aumento significativo nei valori plasmatici dei fattori neurotrofici maggiormente correlati con i processi di plasticità cerebrale. In particolare, una serie di studi coreani (Cho et al., 20171; Cho et al., 20172; Kim, 2015) ha verificato che un training in taekwondo di sole 16 settimane, con soggetti tra 10 e 12 anni di età, è in grado di produrre un aumento significativo del livello plasmatico di BDNF (Brain-derived neurotrophic factor), IGF-1(Insulin-like growth factor-1) e VEGF (Vascular endothelial growth factor). BDNF è una neurotrofina che contribuisce alla sopravvivenza e alla differenziazione neuronale. L’IGF-1, quale mediatore dell’azione della somatotropina, promuove lo sviluppo somatico e la crescita dell’organismo. Il VEGF è un indice importante di angiogenesi. Le medesime ricerche hanno misurato le funzioni cognitive dei giovani atleti, attraverso la versione per l’età evolutiva del Test di Stroop (Golden et al., 2003) rilevando un significativo aumento della prestazione rispetto alle misurazioni nel gruppo di controllo. Il test di Stroop, che fornisce una misura della capacità inibitoria, dell’attenzione sostenuta e divisa, della velocità percettiva e di elaborazione, è generalmente un test utilizzato nell’assessment cognitivo degli atleti praticanti le arti marziali.

Una ricerca dell’Università della California (Lakes et al., 2013) ha coinvolto 600 studenti dai 12 ai 14 anni e ha rilevato, nel gruppo sottoposto a training di taekwondo rispetto al gruppo di controllo, un aumento delle prestazioni nella working memory, controllo inibitorio e flessibilità cognitiva utilizzando il Hearts & Flowers Task (Davidson, 2006). La medesima ricerca ha potuto evidenziare inoltre che gli studenti partecipanti al gruppo di training hanno esteso le capacità acquisite di controllo comportamentale e attenzionale anche al contesto scolastico e quotidiano. In accordo con questa evidenza, un altro studio (Roh et al., 2018) ha dimostrato come la pratica del taekwondo sia in grado di ottimizzare le abilità di socializzazione in giovane età.

Una ricerca recente (Kadri et al., 2019) ha evidenziato come la pratica di questo sport concorra all’aumento dell’attenzione sostenuta in soggetti giovani con ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività).

Tutti questi dati possono indicare che i miglioramenti nelle capacità cognitive e sociali promossi dal taekwondo in età evolutiva possiedano un alto valore ecologico e possano essere generalizzati ad altri contesti di vita quotidiana.

Una ricerca dell’University Hospital di Maastricht (Pons van Dijk, 2013) ha esaminato 24 soggetti tra i 41 e i 71 anni. I volontari, tutti in buona salute, hanno aderito ad un training in taekwondo della durata di 15 mesi, impegnandosi in un allenamento settimanale della durata di 1 ora. I risultati della ricerca hanno mostrato un incremento significativo delle prestazioni cognitive, rilevate all’inizio e al termine del programma. Un miglioramento significativo è stato evidenziato soprattutto nella velocità di elaborazione in relazione a compiti di controllo inibitorio.

Un altro studio (Cho et al., 2019) ha coinvolto 40 donne con un’età media di 69 anni. Il campione è stato suddiviso in un gruppo di training di taekwondo della durata di 16 settimane e in un gruppo di controllo. I risultati emersi sono in linea con quelli osservati nei bambini: un significativo aumento dei livelli plasmatici dei già citati fattori neurotrofici (BDNF, VEGF e IGN-1) e un incremento della prestazione cognitiva allo Stroop Test.

Lo stato della ricerca è ancora in una fase iniziale, tuttavia i risultati sono promettenti. Sembra che la pratica del taekwondo lavori su un piano multidimensionale: neuroplastico (incremento degli indicatori neurotrofici), cognitivo (capacità di concentrazione e controllo), fisico (flessibilità, forza e precisione), emozionale (mediazione, controllo delle emozioni) e sociale (rispetto reciproco e responsabilità individuale). Tutte queste caratteristiche rendono il taekwondo uno sport che può ritenersi indicato per rallentare i processi di neurodegenerazione fisiologica in età avanzata e per migliorare la performance cognitiva soprattutto nei soggetti più giovani.

 

La pubblicità basata sulle emozioni: il marketing ai tempi del Covid-19

La lotta al Covid-19 prosegue, nel contesto italiano, utilizzando nuovi canali comunicativi, come quello degli spot pubblicitari.

 

Esplicativo è il caso dello spot del brand Barilla che risulta essere un inno all’Italia che resiste. Nello spot pubblicitario, si nota immediatamente come il prodotto Barilla assuma un ruolo di secondo piano, essendo presente in pochi frammenti relativi alle aziende che resistono e producono, nonostante lo stato di emergenza.

In primo piano, invece, c’è l’Italia con il suo patrimonio artistico e culturale, con i flashmob sui balconi durante la quarantena, con il personale sanitario in prima linea e le categorie lavorative “più a rischio”. Si tratta di uno spot che commuove e che sta affascinando tutta l’Italia. Il caso Barilla, infatti, è riconducibile ad un esempio prototipico di “emotional advertising” (Eckler & Bolls, 2011). Si tratta di una strategia di marketing e comunicazione molto potente, perché basata su messaggi solitamente costruiti con immagini che evocano forti stati emotivi, come paura, rabbia, passione…(Eckler & Bolls, 2011). In questi spot non sono fornite molte informazioni sul prodotto, ma si predilige l’immagine alla comunicazione sul prodotto. Sfruttando l’aspetto visivo, l’inserzionista giunge prima agli obiettivi di vendita: ecco perché il marketing basato su comunicazione emotiva diventa una vera e propria rivoluzione. Invero, da uno studio condotto sulla percezione dell’emotional advertising (Chan, 1996), i risultati mostrano che la pubblicità emozionale incrementa le vendite e la fiducia nel marchio.

Ma oltre alle immagini, quali altri elementi contribuiscono a creare uno spot pubblicitario basato su una comunicazione emotiva? Altri elementi possono essere la musica di sottofondo e la scelta di una voce riconoscibile nell’immaginario comune. Nel caso della musica, la letteratura scientifica propone studi con risultati contrastanti, dove si mettono in evidenza posizioni favorevoli o sfavorevoli dell’importanza della musica come fattore “scatenante” dell’emotività. Uno studio che sintetizza le due posizioni dimostra come di per sé la musica attiva risposte fisiologiche emotive (arousal), ma deve essere combinata ad altri fattori e deve essere scelta accuratamente attraverso studi pilota, monitorando i cambiamenti emotivi in un piccolo campione di persone (Morris & Boone, 1998). La scelta della canzone dello spot Barilla 2020, ad esempio, non è casuale, in quanto si tratta di Hymne del compositore Vangelis. Già dal titolo della canzone scelta vi è un chiaro riferimento all’intento dello spot che si comprende solo al termine, ovvero quello di ringraziare l’Italia che lotta. La melodia è, inoltre, accompagnata dalla voce narrante di Sophia Loren, personaggio noto sulla scena mediale. Anche la scelta dell’opinion leader e della strategia retorica della narrazione mirano a costruire un effetto di multisensorialità (Di Fuccio et al., 2016). La forza, infatti, di questa forma di comunicazione è proprio la grande opportunità che offre per “raccontare” il brand, per trasformare lo spot in pura suggestione e intrattenimento, volendosi allontanare da obiettivi puramente commerciali, anche se solo apparentemente (Buffo, 2017). La narrazione affidata a personaggi noti sulla scena mediale, insieme alle immagini e alla musica, mirano a generare un senso di “immedesimazione” che fidelizza e genera il comportamento d’acquisto. Tutti noi, infatti, ci riconosciamo nella narrazione della pubblicità della Barilla:

A questo silenzio che protegge le nostre strade e alla vita che grida dai balconi. A chi è fermo ma si muove e a chi dà tutto senza chiedere nulla. A chi è stremato ma ci dà forza per sperare e alla bellezza che non smette mai di ricordarci chi siamo. Alla paura che risveglia il coraggio e al sorriso che dà senso a ogni fatica. A chi è stanco ma non molla. A chi è lontano ma sa starci vicino e a chi è spaesato ma si sente ancora un paese. All’Italia che ancora una volta resiste.

 

L’Alzheimer altera la capacità dell’intestino di assorbire il principio attivo di un farmaco

L’Alzheimer è considerata una malattia del sistema nervoso centrale. Si tratta di una condizione clinica che ad oggi non conosce cura: è possibile rallentarne il decorso, ma non è ancora raggiungibile una completa guarigione. Quali sono le nuove scoperte riguardanti le terapie farmacologiche?

 

 Ai pazienti con malattia di Alzheimer (AD) vengono spesso prescritti farmaci per altre condizioni, tra cui diabete o ipertensione, allo stesso dosaggio di quelle che vengono somministrare ai pazienti senza demenza (Jin & Tran, 2020). Potrebbe essere necessario riesaminare tale pratica, sulla base dei nuovi studi condotti su topi e riportati sulla rivista Molecular PharmaceuticsI risultati suggeriscono che l’AD potrebbe alterare l’assorbimento dei farmaci nel tratto digestivo, di conseguenza, potrebbe essere necessario modificarne il dosaggio per questi pazienti (Jin & Tran, 2020).

L’Alzheimer è considerata una malattia del sistema nervoso centrale, è caratterizzata dalla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari nel cervello, purtroppo si tratta di una condizione clinica che ad oggi non conosce cura, è possibile rallentarne il decorso, tuttavia non è ancora raggiungibile una completa guarigione, si tratta inoltre della demenza più comune e frequente tra gli over 65 (Hardy & Higgins, 1992).

Gli scienziati si sono concentrati principalmente sullo studio di farmaci in grado di attraversare la barriera emato-encefalica (BEE). La loro ricerca ha rivelato che la quantità e la funzione delle proteine ​​che trasportano i farmaci attraverso la BEE sono alterate nelle persone con AD. E’ stata però posta meno attenzione sulle altre barriere biologiche, come il rivestimento dell’intestino, attraverso il quale i farmaci orali passano nel flusso sanguigno. I pochi studi pubblicati su questo argomento, tuttavia, suggeriscono che questo processo di assorbimento potrebbe essere interrotto dal Morbo di Azlheimer (Jin & Tran, 2020).

Tramite sperimentazione su topi, i ricercatori hanno misurato l’assorbimento dei composti che si spostano dall’intestino tenue al flusso sanguigno. Ad esempio, i livelli plasmatici di diazepam, che si diffonde passivamente attraverso le cellule intestinali per raggiungere il flusso sanguigno, erano simili sia nei topi appartenenti al gruppo AD che nei topi di controllo (senza AD). Tuttavia si riscontrano delle differenze da farmaco a farmaco, infatti la replica della stessa sperimentazione, fatta questa volta utilizzando il valsartan, ha rilevato che i topi appartenenti al gruppo AD avevano meno concentrazione del principio attivo del farmaco nel plasma, rispetto ai topi facenti parte del gruppo di controllo (Jin & Tran, 2020).

Il passaggio di questi farmaci attraverso le cellule intestinali è controllato da trasportatori che potrebbero essere interrotti dall’AD (Jin & Tran, 2020).

I risultati sono indicativi della probabile necessità di dover modificare l’approccio farmacologico al paziente con morbo di Alzheimer, sono tuttavia da replicare sull’essere umano (dato che la suddetta ricerca è stata condotta su topi), se i risultati dovessero essere analoghi allora si delineerà l’assoluta necessita di ridimensionare le dosi farmacologiche dei pazienti con morbo di Alzheimer (Jin & Tran, 2020).

 

Aborto e disturbi della sfera emotiva

Le donne con storia di aborto spontaneo vivono spesso un dolore che, sia a livello affettivo che comportamentale, si avvicina all’intensità di una vera e propria perdita. Tale dolore solitamente si allevia spontaneamente dopo circa 6 mesi, oppure con l’arrivo di una nuova gravidanza. Cosa accade quando questo non avviene?

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM 5) ha inserito come specifica di molte patologie psichiatriche l’esordio nel “peripartum” a significare la crescente importanza di tutti i nove mesi di gravidanza dal concepimento e fino alle quattro settimane successive al parto.

Una delle condizioni che più frequentemente si verifica nell’arco di tale periodo è l’aborto spontaneo. Esso è definito come l’interruzione spontanea della gravidanza nel periodo gestazionale precedente alla vitalità del feto, prima dello sviluppo della capacità di vita autonoma, corrispondente circa al periodo di 23 settimane.

Le donne che hanno un aborto spontaneo, pur presentando inizialmente uno stress mentale superiore rispetto alle donne che hanno interrotto volontariamente la gravidanza (IGV), vanno incontro ad un miglioramento dei disturbi psicologici iniziali statisticamente significativo più veloce rispetto a quelle che hanno abortito volontariamente. Dunque, la risposta psicologica all’aborto spontaneo e all’aborto volontario è diversa ed è possibile attribuire questa differenza alle caratteristiche dei due tipi di aborto.

Nell’ordinamento italiano, l’aborto procurato deve avvenire prima dei tre mesi dal presunto concepimento e può essere attuato se sussiste pericolo fisico o psichico per la salute della madre. L’I.V.G., dopo i primi 90 giorni, può essere praticata quando: la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Le donne con storia di aborto spontaneo vivono spesso un dolore che, sia a livello affettivo che comportamentale, si avvicina all’intensità di una vera e propria perdita; tale dolore solitamente si allevia spontaneamente dopo circa 6 mesi, oppure con l’arrivo di una nuova gravidanza. Inizialmente compaiono sintomi di una generica sofferenza caratterizzata da shock e incredulità, conseguentemente si esperiscono sentimenti di tristezza, sensi di colpa, di vergogna e di impotenza, spesso associati a sintomi somatici.

Le reazioni da lutto sembrano rappresentare la forma più comune di sofferenza psichica conseguente ad un aborto, soprattutto se spontaneo; esso assume verosimilmente le stesse forme, durata e fasi di altre forme di lutto conseguente a perdite significative (Brier, 2008).

Negli anni, una letteratura sempre più ampia ha evidenziato l’importanza dell’aborto nella patogenesi di disturbi psicopatologici. La letteratura sembra dimostrare come l’interruzione di gravidanza sia certamente correlata, sebbene con frequenza estremamente variabile da caso a caso, a manifestazioni di sofferenza soggettiva, generalmente costituite da reazioni di lutto o da manifestazioni ansiose e/o depressive minori  (Iles, 1989; Rosenfeld, 1992; Bianchi-DeMicheli, 2007; Romans-Clarkson, 1989; Shadmi et al, 2002).

Il rischio di sofferenza psichica sembra generalmente più elevato nel caso dell’aborto spontaneo (Friedman & Gath, 1989; Lapelle, 1991; Frost & Condon, 1996; Lee & Slade, 1996; Klier et al,2002; Geller et al, 2004; Brier, 2004; Lok & Neugebauer, 2007; Brier, 2008). Meno problematica sembra essere, in generale, l’interruzione volontaria di gravidanza, la quale sembra associarsi nella maggioranza dei casi ad un’attenuazione delle condizioni di disagio emotivo pre-esistenti all’interruzione di gravidanza stessa (Greer et al, 1976; Payne et al, 1976; Romans-Clarkson, 1990, Teichman et al,1993; Rosenfeld, 1992, Schleiss et al, 1997; Bradhaw & Slade, 2003; Bianchi-DeMicheli, 2007).

In ogni caso, anche l’interruzione volontaria di gravidanza non è necessariamente esente da significative conseguenze in termini di salute mentale. Infatti, uno studio, svolto su donne che avevano abortito volontariamente 8 settimane prima, ha rilevato che il 44% presentava disturbi mentali, il 36% disturbi del sonno, il 31% si era pentito e l’11% si era fatto prescrivere psicofarmaci dal proprio medico di famiglia. Un altro studio ha rilevato che il 25% delle donne che abortiscono esegue visite psichiatriche, in confronto al 3% del gruppo di controllo, e che le donne che abortiscono hanno una probabilità molto più alta, rispetto alle altre, di essere ricoverate successivamente in un reparto psichiatrico. Bradshaw et al. (2003) hanno esaminato il livello di stress psicologico presente immediatamente prima dell’interruzione di gravidanza ed hanno riscontrato che nel  45% delle donne è presente un elevato livello di ansia. Subito dopo l’intervento, invece, c’è una riduzione dei livelli di stress, ma una minoranza di donne continua ad avere importanti disturbi psicologici, che frequentemente consistono in un’ansia molto elevata.

Lo stress causato dall’aborto, può evolvere in un vissuto ancor di più doloroso che può condurre a incremento o inizio di assunzione di droghe e alcool, cambiamenti del comportamento alimentare, ritiro sociale, scarsa stima di sé, fino all’ideazione suicidaria e tentativi di suicidio. Inoltre, si è visto che l’aborto è correlato con il Disturbo da Stress Post Traumatico. In una ricerca su donne che avevano praticato l’interruzione volontaria di gravidanza, il 46% delle partecipanti manifestava sintomi da stress quali disturbi del sonno, stati dissociativi, ricordi ricorrenti ed intrusivi dell’evento, evitamento degli stimoli che richiamavano l’aborto.

L’aborto aumenta il rischio di suicidio, come atto impulsivo di disperazione. Uno studio finlandese ha messo in evidenza che, di tutti i suicidi commessi, il 5.4% sono associati alla gravidanza. Di questi il 5.9% è associato alla nascita del bambino, il 18.1% all’aborto spontaneo, mentre il 34.7% all’aborto volontario.

In conclusione, l’aborto rappresenta uno stressor per la donna che inizialmente non viene elaborato ed integrato nella struttura di personalità, poiché si trova in uno stato di vulnerabilità causando la comparsa di una serie di disturbi della sfera emotiva: ansia, disturbo post – traumatico da stress, depressione, abuso di sostanze e alcool e comportamenti estremi quali il suicidio.

COVID-19: le linee guida internazionali per il benessere psicologico e la gestione dello stress

Il coronavirus ci ha costretti quasi tutti a stare a casa ed è sempre più comune sentire associare questa esperienza di limitazione di mobilità a quella di quarantena ed isolamento. Quali possano essere le ricadute psicologiche di questa pandemia è ancora presto per dirlo, ma sulla base di esperienze simili passate forse è possibile essere preparati e applicare alcuni utili suggerimenti forniti dagli esperti per migliorare il nostro benessere.

 

La diffusione pandemica del COVID-19 ha costretto numerosi governi ad intervenire con misure di contenimento particolarmente restrittive che rientrano nella definizione di “distanziamento sociale”. Con distanziamento sociale si fa riferimento a un insieme estremamente variegato di azioni volte a ridurre il contatto tra gli individui, quali ad esempio la cancellazione degli eventi di massa, la chiusura delle scuole e dei luoghi di lavoro (Centers for Disease Control and Prevention, 2017; European Centre for Disease Prevention and Control, 2020). Ci sono alcune misure di distanziamento sociale che riguardano non tanto i gruppi, ma i singoli individui, che possono essere categorizzate in: Isolamento, Quarantena, e Limitazione degli spostamenti (raccomandazione di restare a casa). Sebbene queste tre misure abbiano caratteristiche estremamente differenti, nel linguaggio comune sono state spesso utilizzate come sinonimi creando molta confusione.

Per fare chiarezza, la prima cosa da fare è descrivere questi tre concetti (European Centre for Disease Prevention and Control, 2020):

  • Isolamento – L’isolamento fa riferimento a quelle azioni volte a separare un individuo che ha già contratto il coronavirus (o in generale qualsiasi patologia infettiva) da tutti gli altri individui con l’intento di evitare che possa contagiare altre persone. L’isolamento è quindi una precauzione che viene applicata nei casi di persone confermate positive al virus o con sintomi tali da sospettare di essere stati contagiati. L’isolamento comporta generalmente una separazione fisica della persona in ospedale (quando le condizioni di salute sono gravi o moderate) o in una struttura domiciliare (per situazioni meno gravi) fino alla completa guarigione.
  • Quarantena – La quarantena è un periodo di distacco e restrizione di una persona che non risulta positiva o con sintomatologia evidente della patologia, ma che è stata esposta al virus o che abbia avuto contatti stretti con casi confermati di coronavirus. Il periodo da trascorrere in quarantena varia a seconda dalla tipologia di malattia infettiva, ma per il coronavirus il tempo di quarantena è stato fissato a quattordici giorni. I soggetti in quarantena hanno generalmente il divieto di uscire fino alla conclusione del periodo indicato.
  • Limitazione degli spostamenti (raccomandazione di restare a casa) – La limitazione degli spostamenti è una misura rivolta all’intera popolazione con la raccomandazione di restare a casa per evitare gli incontri fisici e la creazione di aggregazioni di persone. È una misura che viene applicata per periodi di tempo estremamente variabili e che dipendono da numerosi fattori, ma che per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità permette di uscire di casa.

Le tre misure, sebbene condividano la necessità di distanziamento fisico, hanno proprietà specifiche che le rendono chiaramente diverse nelle caratteristiche, ma anche nelle ricadute sulla quotidianità. Basti pensare come non sia permesso uscire di casa a tutti coloro che si trovano in quarantena o in isolamento neanche per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità, concesse invece nei casi di limitazione degli spostamenti. Proprio sull’esperienza di quarantena è stata pubblicata recentemente sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet una review di studi (Brooks, et al., 2020) che basandosi su esperienze di quarantene e isolamento di altre malattie (quali Sars, influenza H1N1, Ebola, influenza equina e MERS) ne ha descritto i possibili rischi psicologici.

Quello che emerge da questa revisione di studi è che in generale le persone sottoposte a quarantena tendono a riportare maggiori condizioni di stress rispetto a chi non ha ricevuto questa misura restrittiva, ma ad emergere in modo particolarmente evidente sono problematiche emotive quali la paura e la preoccupazione di poter contrarre la patologia o di poterla trasmettere ad altri, ma anche l’ansia di non riuscire a svolgere attività importanti come acquistare cibo e generi di prima necessità. Gli studi hanno messo in evidenza che l’agitazione può anche essere legata a problematiche di natura lavorativa, economica o familiare dovute all’incertezza della situazione in cui si sta vivendo. La noia e la solitudine legate al cambio di stile di vita ed ai lunghi periodi passati a casa, insieme all’interruzione così repentina della quotidianità, potrebbe anche portare a maggiore tristezza ed umore depresso, ma anche frustrazione ed irritabilità legate all’assenza di libertà di movimento e l’impossibilità di poter svolgere delle attività a cui si tiene. A tutte queste problematiche possono anche aggiungersi difficoltà del sonno e a svolgere le attività quotidiane, ma anche il rischio di stigma ed emarginazione sociale.

Come detto in precedenza, le problematiche descritte in questo studio fanno riferimento alle conseguenze di condizioni di vero e proprio isolamento o quarantena. Tuttavia c’è una crescente attenzione da parte delle istituzioni per gli effetti sulla popolazione dello stress generato da questo stato di crisi (World Health Organization, 2020a). Come sottolineato dall’American Psychological Association (APA, 2020), il passare molto tempo a casa con stimoli e contatti sociali limitati potrebbe comunque essere considerato rischioso per il benessere psicologico degli individui. Infatti nonostante le problematiche psicologiche legate alla “limitazione degli spostamenti” (raccomandazione di restare a casa) non siano equiparabili a quelle vissute in quarantena o in isolamento, e nonostante a livello globale le influenze negative per la salute mentale degli individui sembrino essere ancora sotto controllo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020a) ha comunque espresso preoccupazione i livelli di stress che sta generando questa crisi globale. Per questo motivo, sebbene, non ci siano ancora ricerche che possano dimostrare le conseguenze psicologiche delle restrizioni di mobilità causate dal COVID-19, precedenti studi condotti su esperienze stressanti e condizioni ambientali limitanti ed ostili hanno permesso a numerosi enti, organizzazioni, ordini ed associazioni scientifiche nazionali ed internazionali (Australian Psychological Society, 2020; Berufsverband Österreichischer PsychologInnen, 2020; Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, 2020a; 2020b; Centers for Disease Control and Prevention, 2020; European Federation of Psychologists Associations, 2020; Ordem dos Psicólogos Portugueses, 2020), di sintetizzare, in ottica di prevenzione, alcuni consigli da applicare per supportare il benessere psicologico e la salute mentale durante l’epidemia di COVID-19. In linea con l’infografica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020b) le principali indicazioni alla popolazione sono:

  • Evita la visione eccessiva e la ricerca compulsiva di notizie sul coronavirus che potrebbero causare ansia e stress. Quando siamo preoccupati tendiamo a valutare le cose in modo peggiore di quello che sono. Avere informazioni accurate su tematiche di salute pubblica è importante, ma fai riferimento e condividi solo fonti ufficiali ed affidabili.
  • Mantieni uno stile vita salutare, mangia sano ed in modo equilibrato, e cerca di dormire bene e con regolarità. Se sei in grado di svolgere attività fisica in casa, non perdere l’occasione di restare in forma. Evita il consumo di alcool, tabacco o di altre sostanze quando sei stressato e che potrebbero limitare la tua lucidità. Trova dei momenti per te e presta attenzione ad i tuoi bisogni, alle tue emozioni ed ai tuoi sentimenti.
  • Conserva buone relazioni sociali e continua a comunicare con i tuoi amici ed i tuoi familiari. Nonostante non sia possibile incontrare fisicamente le persone, prova a mantenere i contatti attraverso le telefonate, i messaggi e le chat. Le nuove tecnologie permettono di mantenere una rete sociale attraverso il mondo virtuale, usa anche video-chiamate ed i social network per restare in contatto con le persone intorno a te in questo momento di limitazione della mobilità.
  • Imposta le tue giornate creando e seguendo routine quotidiane. Svolgere attività regolari e organizzare il tempo della tua giornata può facilitare l’adattamento in una situazione nuova come questa. Togli il pigiama quando inizi la giornata e cerca di strutturare momenti specifici per il lavoro, per lo studio, per rilassarti e per divertirti. Definisci degli orari per i pasti e se è possibile prova a creare una distinzione fisica degli spazi per attività diverse.
  • Utilizza le strategie che hai già applicato in passato per superare situazioni difficili. Prova a ricordare come hai gestito in precedenza le tue emozioni durante delle avversità. Focalizzati sul positivo, prova a pensare al “distanziamento sociale” come un atto altruistico che stai mettendo in atto per proteggere le persone che sono più vulnerabili riducendo la possibilità di diffusione del virus.
  • Cerca ulteriore supporto se lo ritieni necessario. Se credi che lo stress, la paura o l’agitazione stiano influenzando negativamente la tua quotidianità creandoti una situazione di malessere, il supporto di uno psicologo può aiutarti. Gli psicologi sono professionisti altamente qualificati ed esperti che possono aiutarti ad affrontare le difficoltà. Vai sul sito del Ministero della Salute per trovate l’elenco delle iniziative di supporto psicologico in tutte le regioni.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020a) ha chiaramente espresso la necessità di affiancare alle misure di contenimento del COVID-19 azioni di supporto del benessere psicologico per aiutare la popolazione ad affrontare lo stress generato da questa crisi. Per riuscire a prevenire e fronteggiare adeguatamente le difficoltà che potrebbero insorgere risulta quindi indispensabile seguire le linee guida internazionali e del Ministero della Salute affidandosi al supporto degli psicologi.

 

L’abuso sessuale sui minori: tra fragilità e indifferenza

L’abuso sessuale a danno di minori è una delle forme di violenza più estreme della nostra società. Danneggia lo sviluppo fisico, psicologico, emozionale e sociale dei bambini.

 

È un fenomeno di proporzioni enormi: secondo le Nazioni Unite circa il 10% dei minori europei è o è stato vittima di qualche forma di abuso sessuale. Eppure ancora si fa fatica a riconoscere l’effetto devastante che questo può generare, anche a distanza di molti anni. Spesso non si comprende davvero cosa succede a un bimbo abusato e gli adulti, profondamente toccati dai racconti della vittima, tendono a non ascoltare con attenzione, a dubitare.

La base per sradicare questo fenomeno è migliorarne lo studio e la comprensione, assistere i minori vittime di abuso. Invece spesso capita che gli adulti dubitino delle parole di un bambino, mentre la vittima fatica a esprimere quello che sente e ha vissuto.

Le cinque fasi dell’adattamento all’abuso

Una delle teorie che può aiutarci a capire cosa succede a questi minori è la Sindrome di Adattamento all’Abuso, sviluppata dallo psichiatra statunitense Roland Summit (1987). L’autore divide questa sindrome in cinque fasi. Si comincia per quella della “segretezza”, in cui il minore viene manipolato emozionalmente. Prima dell’abuso, si crea un contesto oscuro dove il bambino può percepire che qualcosa non va, ma nondimeno si fida della parola dell’adulto. L’abusatore ottiene la sottomissione fisica ed emozionale del minore, che si trova in una situazione di paura e insicurezza. Spesso le vittime raccontano che chi gli ha inflitto violenza “era buono” e di non aver denunciato perché gli “veniva chiesto di non dire niente”.

La seconda fase è il “sentimento di impotenza”. Il minore vittima di abuso, si trova in uno stato di vulnerabilità e di mancanza di riferimenti. Soffre l’abbandono e l’assenza di protezione. Di questo può approfittare l’abusatore, traendo vantaggio della necessità di affetto da parte del bambino.

In una situazione di abuso sessuale cronico e ripetuto il minore cerca disperatamente un equilibrio, si adatta al dolore e alla violenza. Di fatto si dissocia. Prova a isolare le emozioni causate dall’abuso perché questo non invada anche il resto della sua vita. Così il minore mantiene una facciata di normalità, senza mostrare la sua sofferenza. Si adatta al trauma. Questa è la terza fase, che Summit chiama “intrappolamento e adattamento”, e spiega come molto spesso gli altri adulti che circondano il minore abusato non si rendano conto di quello che gli sta succedendo.

La fase successiva è quella della “rivelazione ritardata, conflittuale e poco convincente”. Sprofondato nella paura e la manipolazione da parte dell’adulto, è poco probabile che il minore possa denunciarlo spontaneamente, meno ancora al di fuori della famiglia. Può però succedere che la violenza venga scoperta in maniera accidentale o un professionista medico se ne renda conto. Oppure, il minore trova l’opportunità di denunciare in un momento di crisi all’interno della famiglia. Ma la denuncia stessa porta a una nuova crisi e alla reazione della famiglia e questo spesso causa nella vittima un sentimento di colpa, altre paure, vergogna. Il minore può sentirsi responsabile per la reazione degli adulti, pentirsi di aver parlato e di conseguenza – questa è l’ultima fase che Summit chiama “ritrattazione” – arrivare a dire di essersi sbagliato, di non ricordare bene.

La responsabilità degli adulti

Spostiamo ora l’attenzione sugli adulti. Spesso non sanno né ascoltare le richieste di aiuto dei minori né come intervenire. Sono ostacoli legati a miti e pregiudizi erronei: si crede per esempio che gli abusi sessuali su minori capitino solo fra le classi socioeconomiche più basse, o che i bambini mentano o esagerino il loro racconti, oppure che queste cose riguardino solo le bambine e comunque siano molto rare. Molti sono ancora convinti che gli abusi avvengano solo fuori di casa e che siano gravi solo se includono il coito. O ancora che i minori stessi provochino o seducano gli adulti e che quindi siano essi stessi responsabili attivi dell’abuso.

Ma chi lavora in questo campo sa fin troppo bene che tutto questo è falso: gli abusi avvengono a tutti i livelli della società, ai danni di maschi e femmine. È poco probabile che un bambino inventi di sana pianta un episodio di abuso. Abusi che sono in gran parte operati all’interno della famiglia o da conoscenti: in generale esiste fra abusato e abusatore una relazione di fiducia o affetto preesistente.

Inoltre, è necessario ampliare il nostro concetto di abuso sessuale: questo non si limita alla penetrazione. Per il minore possono avere effetti devastanti anche episodi di esibizionismo, masturbazione, contatti con genitali. Ed è un errore pericoloso pensare che i minori abbiano qualche responsabilità per aver cercato affetto e contatto fisico. Sono innocenti, pur avendo bisogno di vicinanza, carezze, abbracci adatti alla loro età. Colpevolizzarli per questo non è altro che un modo subdolo per togliere responsabilità agli adulti.

L’abuso sessuale sui minori si origina da vari fattori. Per combatterlo bisogna partir dal punto centrale della questione, cioè il conflitto tra l’esperienza del bambino e l’indifferenza del mondo adulto. Dobbiamo promuovere una maggiore consapevolezza dei rischi a cui i minori sono esposti, oltre a sradicare miti e convinzioni sbagliate sul fenomeno che impediscono la prevenzione e un’assistenza corretta alle vittime. Soprattutto, l’adulto che sa di un bambino che soffre di abusi sessuali ha sempre la responsabilità di denunciare e fare tutto quello che è in suo potere per interrompere le violenze. Questo non vuol dire credere a tutto quello che un bambino dice, bensì allargare lo sguardo per evitare cadere nella disattenzione o pregiudizi che possono essere dannosi.

 

Aspetti neuropatologici e neuropsicologici nella variante comportamentale della demenza frontotemporale (bvFTD)

L’articolo propone un approfondimento circa le caratteristiche neuropatologiche della variante comportamentale della Demenza Frontotemporale, in rapporto agli specifici deficit cognitivi e segni clinici che la sindrome comporta.

 

 La Demenza Frontotemporale descrive un gruppo di sindromi che presentano deficit nelle funzioni esecutive, modificazioni nel comportamento e problemi di linguaggio. Ne esistono due sottotipi, comportamentale e linguistica, quest’ultima suddivisa nei tipi non-fluente e semantica. Il tipo comportamentale della demenza frontotemporale costituisce la forma più comune all’interno dell’ampio cluster delle sindromi da degenerazione frontotemporale, la quale include la paralisi supranucleare progressiva, la sindrome corticobasale e appunto la demenza frontotemporale (Murley et al., 2018).

La variante comportamentale della Demenza Frontotemporale (bvFTD – behavioural variant frontotemporal dementia) è attualmente considerata la seconda causa più comune di demenza dopo quella di Alzheimer (Young et al., 2018; Rascovsky et al., 2011; Harciarek et al., 2013) e rappresenta soprattutto in fase di esordio e a ragione dell’eterogeneità sintomatologica, una sfida diagnostica per il clinico.

I cambiamenti nella personalità, nel comportamento e nelle facoltà cognitive caratteristici della bvFTD riflettono disfunzioni a carico delle connessioni reciproche tra le cortecce orbitofrontale, prefrontale dorsolaterale e prefrontale mediale e i nuclei della base ed il talamo. Questi circuiti sono a loro volta influenzati da afferenze corticali dai lobi temporale e parietale (Lanata et al., 2016).

Una normale attività nella corteccia prefrontale mediale, inclusa la corteccia cingolata anteriore, è associata con la motivazione. Lesioni in queste aree determinano una riduzione del comportamento motorio spontaneo che include l’avvio della comunicazione. Esse determinano inoltre un deficit del comportamento finalizzato in generale. La corteccia cingolata anteriore è spesso compromessa da processi neurodegenerativi nella bvFTD, particolarmente nel lobo destro, e causa apatia e inerzia. Pazienti con una forma apatica di bvFTD occupano molte ore guardando la televisione, non si occupano della propria igiene personale o delle loro responsabilità sociali. Non iniziano una conversazione e parlano solo se interrogati. La bvFTD è caratterizzata da una precoce e pervasiva modificazione cerebrale nelle regioni che sono state considerate critiche per i processi di cognizione sociale: corteccia orbitofrontale, corteccia prefrontale ventromediale, insula e il lobo temporale anteriore.

Se da un lato è lecito supporre che i deficit di cognizione sociale possano riflettere più generalmente una disfunzione esecutiva (a titolo di esempio, per la risoluzione di un dilemma sociale, correlato con l’empatia, occorrono capacità di flessibilità cognitiva), ci sono evidenze che dimostrano che nella bvFTD i cambiamenti nella cognizione sociale precedano e superino le disfunzioni esecutive, in relazione alla precoce compromissione della corteccia prefrontale ventromediale e orbitofrontale e del lobo temporale, piuttosto che i cambiamenti nella corteccia prefrontale dorsolaterale (Harciarek et al., 2013).

Anche altri studi confermano che relativamente ai deficit di cognizione sociale, la perdita dell’abilità di interpretare gli stati emotivi altrui, la perdita di consapevolezza e di empatia sembra siano dovuti ad una disfunzione della corteccia orbitofrontale mediale destra e dell’insula anteriore (Lanata et al., 2016).

I deficit nelle funzioni esecutive che comunemente sono osservati nella bvFTD, a carico della working memory, flessibilità mentale, controllo inibitorio e pianificazione, non sono così comuni nella prima fase della malattia.

Uno studio di meta-analisi sulle funzioni esecutive nella bvFTD ( Lough et al., 2001) ha evidenziato una preservata abilità esecutiva in un contesto di alterazione comportamentale e di deficit nella cognizione sociale quale risultato di una primaria compromissione nella corteccia orbitofrontale, prefrontale ventromediale e temporale anteriore, e non nella regione della corteccia prefrontale dorsolaterale. Gli autori hanno descritto casi in cui si evidenziavano cambiamenti significativi nel comportamento e nella personalità, con un deficit nella fluenza verbale ma con una performance nella norma nel Wisconsin (WCST). Il medesimo studio ha indicato nei risultati delle prove di Theory of Mind il deficit più evidente in test formali, confermando che nella bvFTD vi è una grande difficoltà nell’abilità di prendere la prospettiva dell’altro ed interpretarne i segnali sociali.

Rahman e colleghi (Rahman et al., 1999) hanno trovato una dissociazione tra le funzioni esecutive in pazienti con bvFTD, con un deficit di decision-making, mentre la working memory spaziale e la programmazione erano preservate. Risultati che anche altri studi più recenti sembrano confermare. In particolare Vijverberg e collaboratori (Vijverberg et al., 2017), nella comparazione del profilo neuropsicologico nella bvFTD e i disturbi psichiatrici più comuni, hanno evidenziato un deficit significativo nei compiti di fluenza verbale (soprattutto per i nomi di animali) e risultati migliori in attenzione, working memory e memoria verbale rispetto al gruppo dei soggetti schizofrenici o con disturbo bipolare.

Un altro studio (Ranasinghe et al., 2016) ha rilevato differenti pattern di deficit cognitivo nei diversi stadi della bvFTD. In particolare si è osservato che nelle prime fasi della malattia sono più evidenti i disturbi neuropsichiatrici, insensibilità agli errori, lenti tempi di risposta, deficit di denominazione, mentre sono preservate memoria, attenzione e denominazione degli stati affettivi altrui. Progressivamente il declino si estende alla rievocazione libera, shifting, abilità visuospaziali, fluenza semantica, denominazione delle emozioni, calcolo e comprensione sintattica. Dalla meta-analisi effettuata nello studio emerge una capacità di controllo inibitorio al di sotto della media (z=-1.4/-1.6) ma non così compromessa come ci si aspetterebbe viste le caratteristiche del disturbo.

Correlata al controllo inibitorio, è proprio la disinibizione il segno più eclatante di bvFTD. Un grande ruolo nei sistemi di controllo cognitivo è giocato dalla corteccia orbitofrontale (OFC), che può essere definita come una stazione di collegamento nella corteccia frontale, perché ha un ruolo inibitorio in relazione alla corteccia limbica. La OFC gioca anche un ruolo critico nella modificazione del comportamento in relazione a premi e punizioni. Una disfunzione della OFC è comunemente associata con la disinibizione e la labilità emotiva, le quali possono manifestarsi anche con impulsività (guida spericolata, gioco d’azzardo, abuso di sostanze, acquisto compulsivo, comportamento criminale, binge eating) (Christidi et al., 2018).

Sembra invece che una disfunzione fronto-sottocorticale possa essere responsabile dei movimenti ripetitivi (ritualistici e compulsivi) e dell’espressività verbale stereotipata.

Anche le disfunzioni neurochimiche sembra giochino un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi della bvFTD. In particolare si osserva una diminuzione di densità dei neuroni serotoninergici e dopaminergici, mentre le vie noradrenergiche e colinergiche risultano preservate. Si è documentata una perdita fino al 40% dei neuroni serotoninergici nei nuclei del Rafe e una disfunzionalità dei recettori 5HT1 e 5HT2A nelle regioni fronto-orbitale, cingolata, frontale mediale e temporale. E’ stata osservata una perdita di neuroni glutammatergici e GABAergici, ma la conseguenza funzionale di questa perdita non è ancora chiara, in parte a ragione della complessità delle dinamiche di interazione tra neuroni glutammatergici e GABAergici nei circuiti corticali (Murley et al., 2018; Hughes et al., 2015).

Allo stato attuale della ricerca, sembra che la bvFTD rifletta un profilo di deficit neuropsicologico multi-dominio correlato ad una generale disfunzionalità corticale e sottocorticale. La rilevazione del quadro è resa ancora più complessa dall’eterogeneità dei segni clinici nelle fasi di esordio, i quali possono apparire simili a quelli osservati in un disturbo psicotico. Inoltre le modificazioni cerebrali strutturali, evidenti nelle fasi avanzate della sindrome, possono non essere documentate fino ad alcuni anni dall’esordio sintomatologico. Ai fini di una diagnosi precoce di bvFTD, la letteratura è concorde nel raccomandare un assessment che tenga in considerazione i segni clinici, i sintomi comportamentali e psicologici, così come una misura della performance neuropsicologica.

 

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