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Attaccamento e self-compassion: proteggono gli adolescenti dal NSSI?

L’adolescenza è una fase evolutiva caratterizzata da rapidi cambiamenti fisici e psicologici; essa si accompagna ad un’elevata attenzione sulle relazioni interpersonali ed emotive con le figure significative della propria vita.

 

Questi cambiamenti potrebbero accrescere la vulnerabilità dell’adolescente nei confronti dell’insorgenza di disturbi psicologici, come ad esempio il disturbo d’ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare e depressione (Lerner &Steinberg, 2009), e il non suicidal self-injury (NSSI).

NSSI fa riferimento alla distruzione diretta, volontaria e socialmente non accettabile, del proprio tessuto corporeo, in assenza di un intento letale (Nock, 2010), sebbene incrementi il rischio di futuri tentativi di suicidio (You&Lin, 2015). Secondo una meta-analisi condotta da Swannelle colleghi nel 2014, l’NSSI ha una prevalenza del 17.2% durante l’adolescenza (Swannell, Martin, Page, Hasking, & St. John, 2014). Servendosi di dati self-report di 658 studenti della scuola secondaria, il presente studio esamina, nello specifico, due potenziali fattori interpersonali protettivi per gli adolescenti con NSSI: la qualità dell’attaccamento dell’adolescente con gli altri significativi e la sua autocompassione (Mikulincer&Shaver, 2007; van Vliet&Kalnins, 2011). Infine, è stato esplorato l’effetto di mediazione dell’autocompassione nella relazione tra NSSI e attaccamento alle figure significative.

Innanzitutto, la teoria dell’attaccamento si occupa di interpretare i legami affettivi degli individui in interazione con altri. Gli schemi relazionali ed emotivi che si sviluppano con le figure di accudimento primario, andranno a costituire dei prototipi per le relazioni interpersonali future. Precisamente, ricerche precedenti hanno identificato l’assenza di attaccamento sicuro come un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento di condotte autolesive prive di intenti fatali (Tatnell, Kelada, Hasking, & Martin, 2014).

L’autocompassione può essere considerata una strategia di coping basata sulle emozioni. Essa si definisce come la capacità di essere compassionevoli nei confronti di se stessi e, a sua volta, include la capacità di comprendere e accettare con atteggiamento non giudicante i propri fallimenti o la propria sofferenza (self – kindness), la capacità di riconoscere che gli errori e i fallimenti sono parte integrante dell’esperienza umane (sense of common humanity) e la capacità di essere consapevoli dei propri pensieri e sentimenti dolorosi, senza ricorrere a ruminazione, evitamento o negazione di essi (Neff, 2016). Infine, sulla base dei “modelli operativi interni” della teoria dell’attaccamento (Pietromonaco&Barrett, 2000), l’autocompassione può fungere da meccanismo sottostante attraverso cui la qualità della relazione di attaccamento protegge l’individuo dalle condotte legate al NSSI. Gli individui con attaccamento sicuro percepiscono l’altro come benevolo e considerano se stessi come degni di essere amati, pertanto il loro senso di valore e di connessione sicura all’altro facilitano lo sviluppo di auto compassione (Pepping, Davis, O’Donovan, &Pal, 2015).

I risultati della presente ricerca hanno rivelato che il 13.8% del campione hanno avuto esperienze di NSSI durante l’anno precedente e che le ragazze ricorrono a tali comportamenti più frequentemente rispetto ai ragazzi. Inoltre, confrontando il gruppo dei minori che hanno avuto esperienze di NSSI e il gruppo che non ha mai avuto esperienze di questo tipo, è emerso che differiscono significativamente rispetto all’attaccamento con la madre, con il padre e rispetto al costrutto dell’autocompassione, mentre non sono emerse differenze circa l’attaccamento con i coetanei. Infine, per quanto concerne gli effetti di mediazione, la ricerca ha rilevato che l’autocompassione funge da mediatore tra la vicinanza dell’adolescente ad entrambi i genitori e ai pari con l’insorgenza di NSSI. In aggiunta, l’autocompassione media la qualità della comunicazione con i pari e NSSI.

Nello specifico, i minori del gruppo “non – NSSI” hanno rivelato un attaccamento ai genitori caratterizzato da maggiore fiducia, comunicazione e vicinanza rispetto all’altro gruppo, così come hanno riportato livelli più alti di compassione verso se stessi.

In primo luogo, ciò permette di guardare alla capacità di autocompassione come un fattore di protezione nei confronti dell’attivazione di schemi negativi sul sé, responsabili dell’insorgenza di condotte inadeguate come quelle del non suicidal self-injury. Infatti, individui dotati di self-kindness tenderanno ad astenersi dal punire se stessi (Nock, 2010), così come i soggetti che possiedono un senso comune di umanità non avranno sentimenti di isolamento sociale, spesso correlati a condotte autolesive (Nock, 2010) e, infine, coloro che hanno consapevolezza dei propri pensieri negativi e li accettano in quanto tali, saranno protetti dal ricorrere al NSSI come strategia di regolazione delle emozioni (Heath et al., 2016).

In secondo luogo, appare evidente come le esperienze di attaccamento negative con i propri genitori, aumentino la probabilità di insorgenza e di mantenimento di condotte tipiche di NSSI.

Da un punto di vista clinico, tali risultati suggeriscono l’estrema importanza di intervenire, da un lato sulla relazione genitore-bambino, al fine di migliorarne la qualità e prevenire l’autolesionismo, dall’altro sull’implementazione e sul miglioramento della capacità di essere compassionevoli verso se stessi. A tali scopi, di grande utilità saranno le terapie familiari basate sull’attaccamento, così come è auspicabile, in ambito scolastico, la promozione di progetti che vedano un maggiore coinvolgimento dei genitori e che, al contempo, favoriscono opportunità di interazioni positive tra pari.

 

I sistemi multiagente nell’intelligenza artificiale e una loro interpretazione in chiave di teoria dei giochi

Il sistema multiagente è un ambiente operativo in cui interagiscono due o più agenti razionali; è anche detto sistema con agenti multipli.

 

L’ambito dei sistemi multiagente è sempre più collegato all’ambito applicativo dell’intelligenza artificiale (IA). Diventa di conseguenza rilevante la questione di come affrontare e governare situazioni in cui diversi sistemi di intelligenza artificiale si trovano a operare nello stesso ambiente. Si citano tre esempi: a) il trading autonomo, vari sistemi computazionali indipendenti – generalmente operanti per conto di organizzazioni diverse – decidono autonomamente il volume da acquistare o vendere all’interno di un certo mercato; b) le automobili autonome che, per conto di utenti diversi, percorrono le stesse strade per raggiungere le proprie destinazioni secondo un criterio sicuro ed efficiente; c) i robot autonomi utilizzati nella logistica per la movimentazione di merci che operano all’interno di un magazzino, con l’obiettivo di aumentare la produttività dell’impresa che se ne avvale (Amigoni, 2020).

Sorge così l’interrogativo su come possa un insieme di agenti IA autonomi operare simultaneamente in uno stesso contesto (fisico o virtuale). Possono sorgere interazioni affatto spiacevoli: ad esempio, nel caso di automobili autonome simultaneamente in circolazione in una città, ciascuna di esse cercherà di occupare lo spazio comune; arrivare a destinazioni percorrendo le medesime strade secondo un criterio di sicurezza ed efficienza; ecc.

Per semplificare l’analisi, ipotizziamo che il sistema multiagente sia costituito da due soli soggetti IA autonomi, che indichiamo rispettivamente come A e B.

Circa la natura delle interazioni fra i due agenti IA, consideriamo tipicamente due strategie: “Non Cooperare” e “Cooperare”. Se la strategia è quella di non cooperare, come nell’esempio precedente, si genera un risultato inefficiente: ingorghi (costi transazionali in termini di tempo perso), incidenti, sovraffollamento negli spazi comuni, ecc.

In una mappa a due dimensioni, ipotizziamo che si muovano due agenti robot che perseguono lo stesso obiettivo. Ipotizziamo che i due agenti autonomi siano razionali, secondo la teoria economica neoclassica, cioè perseguano il fine di ottimizzare la propria funzione obiettivo (massimizzazione dell’utilità, massimizzazione dei profitti, minimizzazione dei costi, e così via).

I fattori di contesto, alcuni dei quali istituzionali e/o stabiliti dal legislatore/regolatore sono determinanti. Tipicamente, c’è un vincolo di privacy (GDPR, Regolamento (UE) 2016/679): ciò fa sì che i due agenti autonomi IA non possano rivelare i propri dati, cioè non possano comunicare. Ne consegue che essi non possano accordarsi su una strategia congiunta da seguire che porterebbe al risultato ottimale (cioè la migliore per entrambi, che ha la caratteristica di essere Pareto-efficiente).

Attraverso una cross-fartilization fra discipline, ci troviamo in una classica situazione di “dilemma del prigioniero”, nell’ambito della Teoria dei Giochi. Seguendo la metodologia, i due agenti razionali e autonomi della IA vengono chiamati giocatore A e B, e i risultati ottenuti da ciascuno – indicati con un valore numerico, generalmente un valore monetario o un livello di utilità (nella Teoria dell’utilità cardinale) – sono denominati payoff. Il tipo di interazione fra loro genera uno specifico payoff.

Ipotizziamo inoltre che i due giocatori facciano le proprie mosse – cioè, interagiscano – simultaneamente (“one-shot game”) e non possano comunicare fra loro.

Nel “dilemma del prigioniero”, la storia con i relativi payoff proposti dalla polizia, è nota. La polizia non ha sufficienti prove per condannare i due soggetti di un certo reato che hanno commesso, e quindi – chiudendoli in due celle separate in modo che essi non possano comunicare – propone loro le seguenti strategie alternative (dove i payoff sono gli anni di prigione):

  • se solo uno dei due Non Confessa accusando l’altro, chi Non Confessa evita la pena (il suo payoff è quindi 0); mentre all’altro è inflitta una condanna a 6 anni di reclusione;
  • se Non Confessano, entrambi vengono condannati solo a 1 anno, perché colpevoli di porto abusivo di armi;
  • se Confessano, entrambi saranno condannati a 5 anni di reclusione.

Le due strategie sono quindi: C = Confessare, che è la strategia non cooperativa nei confronti del complice; NC = Non Confessare, che è la strategia cooperativa fra i due reclusi.

Il gioco viene rappresentato in forma normale o strategica tramite una matrice (2×2) il cui numero di righe e di colonne è dato dal numero di strategie disponibili al giocatore. In ciascuna cella, il primo payoff fa riferimento al giocatore A, il secondo a B.

Sistemi multiagente nell intelligenza artificiale e loro interpretazione Fig 1

Per ognuno dei due lo scopo è minimizzare la propria condanna, cioè la strategia ottimizzante. Di conseguenza, la strategia razionale di questo gioco per entrambi è Confessare (C, C) perché ciascun prigioniero non sa quale strategia sceglierà il complice. Essi saranno condannati a 5 anni di reclusione.

La Teoria dei Giochi predice che c’è un solo equilibrio. Quello in cui i due complici Non Cooperano fra loro, e quindi confessano (C, C). Poiché la coppia di payoff che scaturisce dalla loro interazione è di conseguenza (5, 5), la soluzione è inefficiente, benché razionale dal punto di vista di ciascuno.

Infatti, entrambi sarebbero stati meglio se avessero adottato una strategia cooperativa, Non Confessando (NC, NC): avrebbero avuto solo 1 anno di reclusione per porto d’armi.

Dal punto di vista della progettazione e realizzazione dei sistemi di IA, la soluzione più semplice – ma anche la più inefficiente – sarebbe lasciare le interazioni fra i questi sistemi non coordinate e non governate, con ovvie conseguenze sulla affidabilità e sulle prestazioni (Amigoni, 2020). Vale a dire, adottare una strategia non cooperativa.

Forme di coordinamento che portino alla cooperazione fra sistemi di IA operanti in uno stesso ambiente appaiono quindi necessarie (Amigoni, 2020).

Per arrivare a ciò, vengono introdotti elementi aggiuntivi, che nei sistemi multiagente di IA sono chiamati multiagent path planning oppure multiagent path finding.

Tra i numerosi approcci proposti per affrontare il multiagent path finding, di seguito viene utilizzato un meccanismo esogeno, quale l’introduzione di “convenzioni sociali”, vale a dire “regole” di coordinamento.

Nel caso delle automobili autonome, il problema è quindi quello di pianificare i percorsi per tutti gli agenti in modo tale che, quando le automobili autonome seguono tali percorsi, tutti raggiungano le loro destinazioni partendo dalle rispettive posizioni iniziali, senza che ci siano collisioni e che una determinata funzione obiettivo sia ottimizzata, come per esempio utilizzare il tragitto più breve (Amigoni, 2020).

Anche questa volta, l’introduzione e il risultato di regole di comportamento possono avvalersi della Teoria dei Giochi come metodologia di analisi. Il gioco viene di nuovo rappresentato in forma normale o strategica tramite una matrice (2×2).

Secondo le regole, cioè il Codice della strada, il giocatore che viene da destra (D) ha la precedenza: nel nostro esempio, il giocatore B.

Le strategie a disposizione di ciascun giocatore sono: F = Fermarsi; P = Passare.

La convenzione, se le regole della strada sono rispettate da ciascun giocatore/automobilista, è che ha la precedenza l’agente che viene da destra. Il relativo payoff è di conseguenza (-2, 0).

Sistemi multiagente nell intelligenza artificiale e loro interpretazione Fig 2

E’ interessante notare che il meccanismo di coordinamento utilizzato nella Teoria dei Giochi spiega il rationale (in ambito filosofico, economico ed evoluzionista) della nascita delle istituzioni sociali e, oggi – con la pervasività nel nostro quotidiano dell’intelligenza artificiale – anche una delle soluzioni del multiagent path planning nell’ambito sempre più diffuso dei sistemi multiagente nel campo della IA.

Dal Nyotaimori al Body Sushi

Nyotaimori rappresenta un esempio esplicito di correlazione tra alimentazione e sessualità che assume significato diverso a seconda del periodo e del contesto storico.

 

Il termine Nyotaimori (女体盛り), letteralmente “servire (i cibi) sul corpo femminile”, indica la pratica di mangiare sashimi o sushi dal corpo di una donna, tipicamente nuda. Prima di trasformarsi in un vassoio vivente di pesce crudo, la “geisha” viene sottoposta ad un severo addestramento durante il quale deve restare sdraiata per molte ore senza muoversi, sopportando l’esposizione prolungata all’alimento freddo sul corpo. I peli della donna, soprattutto quelli pubici, vengono completamente rasati per ragioni igieniche, ma anche al fine di evitare qualsiasi riferimento sessuale. La donna si prepara al servizio seguendo una precisa liturgia che prevede un bagno per mezzo di un sapone neutro speciale ed una veloce doccia fredda che oltre a tonificare il corpo favorisce il consumo ottimale del cibo. Nel frattempo la temperatura del sushi o del sashimi serviti sulla pelle della modella raggiunge più o meno quella corporea (Nihon Japan: La terra del sol levante; Aroma, 2011).

Poco si sa delle radici storiche del Nyotaimori eppure in occidente se ne parla come un esempio tradizionale di ‘perversione’ giapponese, negli ultimi anni spesso correlata alla pratica della sitofilia una forma di feticismo legata al cibo in cui viene raggiunta l’eccitazione sessuale mangiando dal corpo di un’altra persona oppure usando il cibo come stimolo sessuale. Simile comportamento dal punto di vista psicoanalitico verrebbe spiegato attraverso la teoria dell’attaccamento secondo cui l’attaccamento alla madre durante i primi anni di vita del bambino è strettamente legato alla funzione vitale della nutrizione a cui assolve la madre stessa.

Diffusasi fino ad oggi nei ristoranti di lusso di tutto il mondo dagli Stati Uniti d’America all’Europa: in lingua inglese è meglio conosciuto come body sushi o naked sushi.

Tale pratica ha ricevuto numerose critiche per il suo carattere ritenuto da alcuni “vergognosamente sessista” e per le norme igieniche non sempre rispettate, tuttavia il Nyotaimori, con il passare del tempo ha subito certamente un’evoluzione, da pratica legata alla tradizione giapponese è diventato fenomeno di costume nella società occidentale mutando così il suo significato dal punto di vista simbolico-relazionale (Mayukh Sen, 2017)

Un’importante modifica, forse la più comune, è stato l’uso prima di indumenti intimi (slip e reggiseno) da parte della modella fin poi alla completa sostituzione del corpo femminile con bambole gonfiabili.

Questa evoluzione ha portato da una parte ad un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e ad una minor ‘mercificazione‘ della figura femminile ma dall’altro ha compromesso in maniera significativa l’aspetto ritualistico di questa pratica.

L’uso di indumenti intimi ha creato una barriera: cibo e genitalità perdono il loro legame più diretto e ne assumono uno mediato da un qualcosa che si frappone al loro rapporto.

L’uso di bambole gonfiabili fa sì che il materiale umano di per sé portatore di calore corporeo e dunque di energia vitale venga sostituito dalla plastica, materiale freddo e sterile: il sushi ed il sushimi che prima si caricavano di calore ed energia grazie al contatto con la pelle adesso giacciono su freddo materiale di plastica.

L’intero pasto prima giacente su un corpo immobile ma vivo adesso viene consumato su un qualcosa di inanimato.

L’evoluzione del costume descrive la trasformazione da una sessualità sicuramente più diretta e viva ad una forse più moralmente corretta, rispettosa, ma soprattutto descrittiva dei costumi della nostra società occidentale, in cui si esalta la dicotomia mente/corpo ma forse viene meno quel concetto di olismo che caratterizza il pensiero orientale.


Infine la descrizione di altre varianti di Nyotaimori: alcune prevedono la partecipazione sia del soggetto maschile che di quello femminile in quella che sembra essere una ‘pratica delle pari opportunità fino ad arrivare a pratiche aliene alla tradizione nipponica, ma di interesse dal punto di descrittivo nei giorni nostri, in cui il corpo femminile viene completamente sostituito da un quello maschile: un uomo nudo coperto da cibo giapponese viene servito come pasto.

Nyotaimori può assumere una forte connotazione di tipo ritualistico, è una pratica che si presta bene ad essere esplicata in luoghi chiusi alla presenza di un numero limitato di persone. Il corpo diviene oggetto ed assume un significato quasi metafisico, intorno a lui si radunano persone per condividere attraverso il cibo un qualcosa che va ben oltre il semplice mangiare. Sushi e sushimi sono sì cibo ma diventano anche mezzo di decorazione del corpo un po’ come le pratiche purificatorie e di igiene personale che precedono il pasto preludono ad un qualcosa che va ben oltre il terreno, cosicchè, a seconda del contesto, sembra quasi di assistere ad un sacrificio o ad un atto liturgico, lo stesso corpo femminile diventa sacro e dunque venerabile, chissà che possa esser ravvisabile in questo comportamento una ritualità ancestrale propiziatoria alla fecondità.

 

 

Cybercondria e iCBT: patologia nuova, nuovo intervento?

Uno studio recente (Newby & McElroy, 2020) ha indagato per la prima volta se una terapia cognitivo-comportamentale via internet (iCBT) per problemi legati all’ansia da malattia portasse a miglioramenti nei self-report sulla cybercondria e se questi ultimi fossero associati a miglioramenti sull’ansia da malattia.

 

Avere un po’ di ansia legata alle condizioni di salute è normale e adattivo, ma quando questa diventa persistente ed eccessiva può avere un impatto negativo sulla vita dell’individuo, dei suoi cari e anche sugli operatori sanitari (Tyrer et al., 2016), oltre che sulla società in generale (Bobevski et al., 2016; Tyrer, 2018).

Le persone con un’eccessiva ansia legata alla salute – per cui il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) prevede le diagnosi di Disturbo da ansia da malattia (IAD) o Disturbo da sintomi somatici (SSD) – hanno una costante paura di avere o di potere avere in futuro patologie invalidanti. Come conseguenza di ciò, queste si impegnano spesso nella ricerca di eccessive auto-rassicurazioni da parte di altre persone (familiari o sanitari) sulle proprie condizioni di salute: in un primo momento ciò riesce ad allontanare le loro paure; nel lungo periodo, tuttavia, la preoccupazione si cronicizza e aumenta (Warwick&Salkovskis, 1990).

Nei tempi della digitalizzazione, è diventata una pericolosa abitudine esporsi alle informazioni delle ricerche online, spesso allarmanti, inaccurate o fuorvianti sulle varie malattie: questo comportamento può esacerbare le preoccupazioni già presenti sulla salute e produrne di nuove, in un circolo vizioso di ulteriori ricerche legate alle condizioni di salute che prende il nome di ”cybercondria” (Starcevic& Berle, 2013).

Sebbene le ricerche più recenti abbiano trovato una forte correlazione tra l’ansia sulle condizioni di salute e la cybercondria (McMullan et al., 2019), le analisi psicometriche hanno evidenziato che esiste una differenza significativa tra le due (Fergus & Russell, 2016), portando a considerare la cybercondria come un pattern di particolari comportamenti e ansie che devono essere considerate come un nuovo target specifico a livello terapeutico.

Uno studio recente (Newby & McElroy, 2020) ha indagato per la prima volta se una terapia cognitivo-comportamentale via internet (iCBT) per problemi legati all’ansia da malattia portasse a miglioramenti nei self-report sulla cybercondria e se questi ultimi fossero associati a miglioramenti sull’ansia da malattia.

Sono stati analizzati i dati secondari di uno studio randomizzato controllato (RCT) confrontando un gruppo iCBT (n = 41) – che ha seguito lo specifico corso online Health Anxiety Course (strutturato in sei lezioni) – con un gruppo di controllo che ha ricevuto psicoeducazione, monitoraggio e supporto clinico (n = 41) in pazienti con diagnosi di IAD e/o SSD (DSM-5, 2013).

Due questionari sono stati utilizzati in questa ricerca (pre e post intervento): lo Short Health Anxiety Inventory (SHAI) (Salkovskis et al., 2002) per la valutazione dell’ansia da malattia e la Cyberchondria Severity Scale (McElroy & Shevlin, 2014) per la valutazione relativa alla cybercondria.

Dai risultati si è evinto che il gruppo iCBT ha mostrato – dopo l’intervento – una maggiore riduzione della cybercondria rispetto al gruppo di controllo, con grandi differenze soprattutto nelle sottoscale della CSS relative alle compulsioni, al distress e all’eccessività.

Inoltre, tutti i miglioramenti legati ai sintomi sull’ansia da malattia erano mediati dai miglioramenti nelle sottoscale della CSS (tranne quella legata alla diffidenza nei confronti dei medici).

Pur essendo legati a un primo studio sull’argomento (e a un ambito ancora da approfondire), questi risultati hanno importanti implicazioni per l’assessment e per il trattamento della cybercondria: innanzitutto confermano che un trattamento più specifico legato anche a un intervento che va a minare gli aspetti problematici legati alla ricerca online sulle condizioni di salute può migliorare i sintomi della cybercondria.

Tuttavia, ancora non è chiaro quanto il miglioramento sia stato dovuto alla co-presenza di tecniche cognitivo-comportamentali standard (essendo questo intervento stato strutturato per l’ansia da malattia più che per la cybercondria).

In questo senso, si auspica che in futuro la ricerca si preoccupi di capire quali siano gli aspetti critici più specifici per ottenere migliori risultati sulla cybercondria, anche integrando un assessment che incorpori moduli per la cybercondria e l’ansia da malattia.

Io, tu e gli altri: la gelosia nel poliamore

Nelle relazioni consensualmente non monogame (CNM) esiste un accordo aperto sul fatto che uno, entrambi o tutti gli individui coinvolti possano avere anche altri partner sessuali e/o romantici. C’è spazio per la gelosia nel poliamore?

 

Il termine poliamore viene utilizzato per descrivere una forma di non-monogamia etica o consensuale (Anapol, 1997; Easton & Liszt, 1997) che prevede la possibilità di avere contemporaneamente più di una relazione intima, sessuale o sentimentale (Haritaworn, Lin & Klesse, 2006) con il consenso di tutti i partner attuali e potenziali (Sheff, 2005; Borys, 2006). Da questa descrizione, in accordo con Anapol (2010), il poliamore appare come un orientamento relazionale per il fatto che designa una specifica modalità di costruire una relazione. Nelle relazioni consensualmente non monogame (CNM) esiste un accordo aperto sul fatto che uno, entrambi o tutti gli individui coinvolti in una relazione romantica possano avere anche altri partner sessuali e / o romantici. La ricerca sulla non monogamia consensuale è cresciuta di recente, ma ha appena iniziato a determinare in che modo possono variare le relazioni tra i partner in accordi consensualmente non monogami.

Sebbene il termine poliamore indichi il permesso di impegnarsi in relazioni sessuali o romantiche con più di un partner, la natura di queste relazioni e il modo in cui gli individui si avvicinano possono variare da una persona che si relaziona con più persone, ai membri di una coppia che si relazionano con un terzo, a due coppie in una relazione reciproca, a reti di persone coinvolte tra loro in varie configurazioni (Sheff, 2013; Pines & Aronson, 1981). Il poliamore comprende molti stili diversi di coinvolgimento intimo, tuttavia, la maggior parte degli individui identificati come poliamorosi riferisce di avere due partner (Wosick-Correa, 2010) e una delle configurazioni di relazioni poliamorose più comunemente discusse è caratterizzata da una distinzione tra relazioni primarie e secondarie (Veaux, 2016; Veaux, Hardy & Gill, 2014). In questa configurazione, esiste una relazione primaria tra due partner che in genere condividono una famiglia (vivono insieme) e le finanze, che sono sposati (se il matrimonio è desiderato) e/o che hanno o stanno crescendo figli (se i bambini sono desiderati) (Klesse, 2006). Una relazione secondaria è spesso costituita da partner che vivono in famiglie separate e non condividono le finanze (Klesse, 2006). In generale, ai partner secondari viene concesso relativamente meno tempo, energia e priorità nella vita di una persona rispetto ai partner primari. È importante sottolineare che non tutti i soggetti poliamorosi hanno relazioni primarie con altri partner secondari e alcuni rifiutano categoricamente le distinzioni gerarchiche implicate nelle relazioni primarie-secondarie (Sheff, 2013).

Una domanda comune che gli individui poliamorosi ricevono da coetanei monogami riguardo la loro identità e le loro relazioni è: “Non sei geloso?” (Deri, 2015). In risposta al concetto negativo della gelosia perpetuata dalla cultura monogama (Ritchie & Barker, 2006), le comunità poliamorose sviluppano risposte e insegnano ai loro membri come affrontare la gelosia all’interno delle loro relazioni (Wolfe, 2003). La comunità poliamorosa insegna strategie di gestione relazionale prosociale (Conley & Moors, 2014) e il modo in cui gli individui poliamorosi concettualizzano e comunicano la gelosia può anche rivelare metodi produttivi per gestire sentimenti di gelosia in contesti relazionali.

La gelosia è un’emozione, spesso ritenuta negativa, che un individuo prova quando percepisce che la propria relazione amorosa è minacciata da altri individui (VadenBos, 2007; D’Urso, 2013). La gelosia è un costrutto complesso che comprende molteplici vissuti emotivi, pensieri, valutazioni, manifestazioni psicologiche e comportamentali (Zammuner & Zorzi, 2012). La gelosia è un’emozione composta da più emozioni primarie come paura, tristezza e rabbia, ma è costituita anche da molti altri vissuti emotivi come vergogna, insicurezza, ansia per la perdita, umiliazione, odio per il rivale (Zammuner & Fischer, 1995). Una ricerca sulle emozioni primarie della gelosia afferma che la paura derivi dall’incertezza, la tristezza dalla perdita dei benefici della relazione e dalla diminuzione dell’autostima, mentre la rabbia sia causata principalmente dalla perdita del possesso e dalle eventuali bugie ed inganni (Mathes, Adams & Davies, 1985). I pensieri che accompagnano i vissuti della gelosia possono essere ruminazioni generate dal dubbio e dal sospetto oppure dall’autocommiserazione (D’Urso, 2013). Pfeiffer e Wong (1989) hanno suddiviso la gelosia in tre componenti: la gelosia cognitiva che si riferisce ai dubbi ed ai sospetti di una possibile infedeltà del partner; la gelosia emotiva che comprende sentimenti che suscitano le situazioni in cui il partner mette in atto comportamenti che potrebbero minacciare la relazione; la gelosia comportamentale che include le reazioni ad una possibile infedeltà del partner.

In un’interessante ricerca qualitativa, Rubinsky (2018) ha indagato le strategie che gli individui poliamorosi utilizzano nella gestione della gelosia. Le comunità poliamorose definiscono coerentemente la comunicazione aperta e onesta non solo come una pratica comune di base (Barker, 2005), ma la situano al centro dell’identità poliamorosa (Wosick-Correa, 2010). Un fenomeno comunicativo particolarmente rilevante per gli individui poliamorosi è la gelosia. La gelosia è importante da studiare perché l’esperienza emotiva e l’espressione comunicativa della gelosia romantica incidono sulla qualità relazionale. All’interno delle relazioni eterosessuali e gay e lesbiche monogame, la gelosia cognitiva ed emotiva sono associate negativamente alla qualità relazionale. Poiché le relazioni poliamorose enfatizzano la comunicazione (Barker, 2005), il modo in cui gli individui poliamorosi esprimono gelosia può influenzare positivamente o negativamente le loro relazioni. Nelle relazioni romantiche, la gelosia è una minaccia percepita all’esclusiva natura romantica della relazione (Bringle & Boebinger, 1990). Per gli individui poliamorosi, in cui la natura della loro relazione è spesso non esclusiva e l’altra terza parte può o meno costituire una minaccia, potrebbero essere necessarie ulteriori ricerche per comprendere la loro concettualizzazione della gelosia romantica. In particolare, per le persone poliamorose, potrebbe essere necessario contestualizzare il concetto della gelosia romantica attraverso la comprensione della compersione. La compersione, un termine che è emerso nella comunità poliamorosa per descrivere i sentimenti positivi a seguito della felicità di un partner derivata da un altro partner, può influire sul grado in cui gli individui poliamorosi provano la sensazione di ansia tipicamente associata alla gelosia (Wolfe, 2003). Gli individui poliamorosi sperimentano la gelosia in modalità che possono essere diverse dagli individui monogami e gestiscono sfide diverse nel concettualizzare e comunicare la gelosia ai loro partner. Aumer e colleghi (2014) sostengono che gli obiettivi relazionali possono essere importanti nel dare un senso ad emozioni come la gelosia che avranno un impatto positivo o negativo su una relazione. L’intimità e la fedeltà influiscono anche sul modo in cui gli individui comprendono la gelosia e possono operare in modo diverso nelle relazioni poliamorose.

Wosick-Correa (2010) sostiene che la fedeltà genuina, una certa forma di impegno tra le persone che si identificano come poliamorose, potrebbe caratterizzare il modo in cui gli individui poliamorosi esprimono bisogni e confini. Rispetto agli uomini e alle donne monoamorosi, gli individui poliamorosi sembrano mostrare livelli di intimità maggiori (Morrison, Beaulieu, Brockman & Beaglaoich, 2013).

In particolare, Conley and Moors (2014) affrontano il ruolo della comunicazione nel poliamore, la natura della negoziazione del soddisfacimento dei bisogni e l’aumento del capitale sociale. Il loro studio dimostra che le persone con più partner sessuali consensuali potrebbero anche aver bisogno di gestire in modo discorsivo l’esperienza emotiva della gelosia in modi che considerano costruttivi per le loro relazioni. La letteratura sulla gelosia, la compersione e l’intimità poliamorosa identifica la gelosia come un’esperienza emotiva potenzialmente carica di identità che può esistere in una tensione con l’ideale della compersione. La gelosia è quindi presentata come difficile e stimolante, ma gestibile (Deri, 2015), tuttavia è ancora da esplorare la modalità con la quale la comunità poliamorosa concettualizza la gelosia. L’obiettivo finale non deve essere quello di cambiare il comportamento del proprio partner, ma di sentirsi validati così da poter ottenere supporto nella sua gestione, attraverso una probabile rinegoziazione dei confini relazionali in base ai bisogni espressi. Infatti, la comunicazione al partner della propria gelosia correla positivamente con la soddisfazione relazionale anche nelle relazioni monogame (Guerrero et al., 1995).

 

Il mondo evaporato e l’isolamento sociale nel Covid-19. Una riflessione empatico-esperienziale ispirata a Dissipatio H.G.

L’isolamento sociale, la lontananza dalle proprie figure di attaccamento e la conseguente impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse dovute al lockdown antipandemico si potrebbero tradurre in una più marcata incapacità di elaborare gli eventi traumatici

 

E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo,
è  un  silenzio  che  non scorre.  Si  accumula
(Morselli, 2012, p.51)

Introduzione

Negli ultimi mesi, in riferimento al Covid-19, tanto nella letteratura specialistica, quanto in quella generale è stata posta molta attenzione sul trauma e sul periodo post- traumatico (ad es. Chen, Liang et al, 2020; Van Bavel, Baggio, Capraro et al, 2020; Li, Wang et al, 2020).

Eventi quale quelli sopracitati richiedono, da parte del clinico, una particolare formazione e una capacità empatica molto raffinata (Van Der Kolk, 2006). Tale articolo, a partire da una recensione di Dissipatio H.G. (Morselli, 2012), vorrebbe allora proporsi quale tecnica immaginativa guidata (Erickson, 1991; Dimaggio, 2019). L’assunto di fondo troverebbe base consolidata nel costrutto di introspezione vicariante avanzato da Kohut (2014). L’obiettivo dell’articolo sarà quello di porsi quale tecnica immaginativa guidata, a partire dal romanzo Dissipatio H.G. (2012), per evocare nel lettore spunti emotivi con cui sintonizzarsi in merito ai vissuti d’isolamento sociale connessi al lockdown antipandemico (Verdesca, 2018a).

Isolamento sociale, empatia e trauma

Negli ultimi mesi, in riferimento al Covid-19, tanto nella letteratura specialistica, quanto in quella generale è stata posta molta attenzione sul trauma e sul periodo post-traumatico (ad es. Chen, Liang et al, 2020; Van Bavel, Baggio, Capraro et al, 2020; Li, Wang et al, 2020). Da una breve disamina delle ultime evidenze scientifiche si evince come, a seguito di periodi pandemici, sia lecito aspettarsi il loro effetto di ritorno sulla psiche: il contraccolpo post-traumatico che, parafrasando Van Der Kolk (2006), i corpi accuserebbero o, nelle parole di Bromberg (2012), l’ombra dello tsunami.

I professionisti della salute mentale con i propri pazienti si ritroveranno presumibilmente a fronteggiare depressioni, lutti complicati, disturbi psicosomatici – data la natura preverbale e marcatamente asociale del trauma – e, più in generale, le manifestazioni sintomatiche riconducibili al PTSD.

In soggetti traumatizzati – in accordo con Panksepp (2004), Liotti (Liotti e Monticelli, 2008; Liotti e Migone, 2018;), Porges (2011), Le Doux (2004),– gli stati del corpo (Damasio, 2006) tendono ad assumere solitamente organizzazioni rettiliane e sottocorticali (attacco-fuga), a discapito, dunque, di sistemi motivazionali pro-sociali e interpersonali (ad es. attaccamento). Questi ultimi, infatti, in quanto inibiti, chiuderebbero alla dimensione intersoggettiva, precludendo la condivisione e l’elaborazione simbolica di accadimenti potenzialmente traumatici (Onnis, 2016).

Il razionale di tale supposizione muove dalle intuizioni – largamente dimostrate – dall’infant research, dalla teoria dell’attaccamento e dalla neurobiologia intersoggettiva (Beebe & Lachmann, 2013), secondo le quali, la costruzione della realtà sarebbe mediata, come già anticipato, da aspetti sociali e simbolici basati sulla condivisione intersoggettiva.

L’ipotesi di chi scrive, nel dettaglio, è che l’isolamento sociale, la lontananza dalle proprie figure di attaccamento e la conseguente impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse – caratteristiche, queste ultime, intrinseche al lockdown antipandemico – si traducano in una più marcata incapacità di elaborare gli eventi traumatici nei soggetti coinvolti.

L’organizzazione emergente venutasi a costituire nel lockdown da Covid-19, potrebbe leggersi anche come una sorta di sincronizzazione sistemica complessa basata su un gioco a somma zero (Watzlawick et al, 1971). La stessa, seppur parzialmente imposta, ha chiamato le persone coinvolte ad assumere un alto senso di responsabilità e solidarietà (senso di comunità), talvolta percependo – paradossalmente – un bonding prima d’ora impalpabile (Verdesca, 2018a, 2018b).

Tale solidarietà potrebbe, in maniera diametralmente opposta a quanto qui descritto, assumersi potenzialmente come esperienza emozionale collettiva (parafrasando ironicamente Alexander, 1980), portando anche verso traiettorie di crescita post-traumatica teorizzate da Seligman nel 2012 (tuttavia, esula dall’interesse dell’autore affrontare tali interessanti aspetti in questa sede).

L’isolamento sociale, la lontananza dalle figure di attaccamento e l’impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse richiedono, da parte del clinico, tanto una particolare formazione quanto una capacità empatica molto raffinata (Van Der Kolk, 2006).

Tale articolo vorrebbe allora proporsi quale tecnica immaginativa guidata (Erickson, 1991; Dimaggio, 2019). L’assunto di fondo troverebbe base consolidata nel costrutto di introspezione vicariante esposto da Kohut (2014).

Introspezione vicariante significa che l’analista ascolta il paziente e cerca di ricordare proprie esperienze personali analoghe, o d’immaginarle, se non le trova nel repertorio dei propri ricordi. (Lorenzini, 2004, p.3).

Banalmente, tentare di calarsi nei panni dell’altro.

D’altro canto, la capacità di condividere, rispecchiare ed empatizzare con le emozioni altrui ha ritrovato riscontro tanto microscopicamente (ad es. neuroni specchio), quanto macroscopicamente (ad es. terapie basate sulla mentalizzazione). Non a caso, l’empatia stessa, è riconosciuta alla base dell’alleanza terapeutica, a sua volta fattore a-specifico ritenuto unanimemente efficace nelle psicoterapie (Gabbard, 2010; Gallese, Migone & Eagle, 2006).

Utilizzando come ambientazione di partenza il romanzo Dissipatio H.G. (Morselli, 2012) si tenterà di delineare, per mezzo del suo potenziale suggestivo, un esercizio esperenziale di introspezione vicariante (Verdesca, 2018a; 2018b).

L’obiettivo sarà quello di delineare ed evocare nel lettore un contesto viscerale tramite cui empatizzare e sintonizzarsi, più efficacemente, con quella popolazione di clienti traumatizzati da eventi struggenti che li hanno segnati; ad es. lavorando in prima linea in quarantena e/o imponendo una distanza siderale dai propri cari in ospedale e/o, nei casi peggiori, rendendo impossibile piangerne il lutto all’interno di una dimensione condivisa che funga da contenitore semiotico o da rito liminale, di passaggio – ad es. funerali (Van Gennep, 2019; Bruner, 2009).

Una costellazione emotiva caotica che, passando dalle forme post-traumatiche, a volte giunge all’attenzione clinica oramai in forma mutata (ad es. depressiva) in grado di rendere a prima vista invisibile il trauma che vi sottende.

È difficile e faticoso, soprattutto per chi non vi è passato attraverso – clinici compresi! – sintonizzarsi adeguatamente con queste frequenze cognitivo-emotive profonde e colme d’ombra, di vertigini e silenzio.

Per chi avesse voglia di comprendere meglio cosa si prova, affacciandosi nei moti e nei pensieri connessi a un isolamento sociale e interiore, allora si consiglia la lettura di Dissipatio H.G., un romanzo onirico-narrativo in cerca di regista, in grado di porsi come una triste testimonianza simbolica – in merito a quanto sopra è stato scritto – soprattutto alla luce della morte suicida che l’autore stesso scelse nel lontano luglio del ’73.

Un romanzo, che descrive l’oblio del contatto, il fallimento e il disuso dell’umana partecipazione, relegandone i protagonisti a singhiozzi interrotti nei quali, mentre lo spazio e il tempo regnano, l’Altro evapora.

Dissipatio H.G. di G. Morselli – Recensione vicariante

Karpinsky mi raccontava un episodio della corrispondenza Freud-Jung.
Jung scrisse a Freud, su semplice cartolina:
«Le propongo di sintetizzare la nostra esperienza di psicologi in quattro parole.
Di dentro e di fuori, l’uomo è l’abitudine».
Freud rispose: «D’accordo! – Io potrei aggiungere una notazione:
più sconvolgenti sono le stimolazioni,
più urgente, più vitale, è il bisogno di adattarsi.» ” (Morselli, 2012, p.23)

Il protagonista, il cui il nome non è dato sapere, narra in prima persona lo scontro dei suoi pensieri alla vista di una Crisopoli insolita e spettrale.

Il romanzo – che a tratti pare un saggio per alcune perle nichiliste che lo pervadono – si apre in medias res: un antieroe tenta e pianifica, previa attenta analisi dei pro e dei contro, il suicidio. Per farlo si allontana di notte dalla città, per l’appunto da Crisopoli, tuttavia, prima esita e poi desiste nel gesto, non togliendosi difatti più la vita.

Non ho agito. Sono stato agito dal senso organico, che è quanto dire: 85 chilogrammi di sostanza  vivente non ubbidivano. Consci, a modo loro, della sentenza secondo cui  morire è cambiare materia,  non erano disposti a cambiare materia. (ibidem, p.38)

Un senso organico fra sé e non-sé che, tempestivamente, porta lo stesso protagonista ad abbandonare la macabra idea suicida; causa deformazione professionale del presente scrittore, si potrebbe qui intravedere un riferimento alla modalità incarnata/embodied di elaborazione inconscia della mente (Gallese, Migone & Eagle, 2006; Salvatore, 2015).

Digressioni a parte, l’uomo, sulla strada del ritorno intravede nella città lontana dei fari d’auto puntati verso il cielo; pensando si possa trattare di un incidente, il protagonista, telefona in cerca di soccorsi. Tentativo vano, così, a seguito di mancata risposta si reca in centro.

Ecco.

Qui la bizzarra scoperta: la Dissipatio Humani Generis, ossia, la dissipazione del genere umano che pare essere, per l’appunto, evaporato – d’un tratto – lasciando la quotidianità completamente congelata, sacralmente intatta.

Me ne sono stato seduto alla macchina da scrivere un pomeriggio, senza toccarla. Il ticchettio dei tasti mi avrebbe sconvolto. O era come un superstizioso dovere, non rompere il silenzio. In cucina, per riscaldarmi il caffè, in punta di piedi. Fuori, sul selciato, la pioggia batteva sonoramente, ma io non  dovevo fare rumore. (Morselli, 2012, p.26)

La vita delle cose è in pausa. Pronta a riprendere o forse a restare. Destinata ad esistere. Il protagonista, girovagando, realizza progressivamente come sia rimasto solo, come durante la sua breve assenza sia successo qualcosa di inspiegabile al mondo intero. Nessuno – eccetto lui – escluso. Suddetto evento, pone il protagonista di fronte a un dubbio amletico: è stato l’unico incluso – cioè il condannato – a patire un destino spietato oppure, al contrario, l’unico privilegiato ad esserne escluso?

Io sopravvivo. Dunque sono stat prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me  interpretare, questo  sì. Concluderò che sono il  prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno  l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se  suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il  dannato. Con la curiosa  caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida. (Morselli, 2012, p.147)

Pare qui di scorgere quella sorta di senso di colpa del sopravvissuto (Weiss et al, 2014).

Gli oggetti, ciò che l’autore definisce relitti audiovisivi (G. Morselli, 2012, p.5), sono ciò che più s’incarnano d’umana presenza. Non sono la poesia o l’arte – secondo la penna di Morselli – che sopravvivranno all’uomo ma sono la natura, la terra coi suoi moti, gli oggetti e le voci registrate su nastro; i quali continueranno a popolare con gli animali gli echi di quel mondo desolato. Ciò che rende l’uomo eterno sono le relazioni che intreccia, le memorie che in esse – come sinapsi – stabilisce e/o che ripone nella fede-in (in senso lato). Il protagonista che prende vita dalla penna di Morselli, invece, pare privo di speranza, privo di qualcosa in cui credere, dimostrandosi dotato di un auto-referenzialità forclusa da qualsiasi progettualità. A questo punto, dunque, il suo metro di paragone diviene l’anima spicciola delle macchine che, curiosamente conservano, in tal senso, più umanità di lui.

Ciò che si ha la sensazione di leggere fra le righe di questo testo è il senso di frattura, di dis-integrazione – tipica dei traumi incondivisibili. Quello, che gli psicologi, definiscono come esordio del trauma: l’alterazione della regolarità. Ogni giorno si vivono milioni di esperienze diverse che, tuttavia, essendo più o meno prevedibili e coerenti nella loro media aritmetica, continuano a restare possibilità possibili. Tendenzialmente l’uomo generalizza i suoi modelli, dando giustamente per assodato che domani il sole continuerà a sorgere come previsto.

E’ ciò che devia da questi script, da queste credenze o da questi modelli co-costruiti sotto forma di aspettative, a porsi in definitiva come trauma (Fingert Chused, 2007; Beebe & Lachmann, 2013).

Le illusioni ci sono gradite poiché ci preservano dal dolore, permettendoci di provare piacere. Dobbiamo dunque accettare se delle volte vanno in pezzi scontrandosi contro un pezzo di realtà. (Freud, 1921, p.5)

Le regolarità cui si è fatto cenno infondono sicurezza, garanzia, eternità del qui ed ora.

E’ la loro alterazione che conduce alla perdita d’un desiderato senso d’agency. Quel beato controllo che, illusoriamente ed onnipotentemente, si crede di possedere sul corso degli eventi quotidiani:

Sto scoprendo  che  l’eterno,  per  me  che  lo  guardo  da  un’orbita  di  parcheggio, è  la  permanenza  del  provvisorio. (…)  Fuori,  la  natura  continua.  Con  le  sue  manifestazioni  solite:  la pioggia,  che  ora  si  sta  trasformando  in  nevischio,  e  la  strada  principia  a imbiancarsi. (Morselli, 2012, p.36)

Curioso come a tratti rientri il tema dell’intersoggettività, quando l’autore del romanzo scrive:

Io  sono  ormai l’Umanità,  io  sono  la  Società  (U  e  S  maiuscole).  Potrei,  senza  enfasi, parlare  in  terza  persona:  «  l’Uomo  ha  detto  così,  ha  fatto  così…  ».  A parte  che,  dal  2  giugno,  la  terza  persona  e  qualunque  altra  persona, esistenziale  o  grammaticale,  s’identificano  necessariamente  con  la  mia. Non  c’è  più  che  l’Io,  e  l’Io  non  è  più  che  il  mio.  Sono  io. (ibidem, p.51)

Esiste un motto popolare che recita “si nasce soli e si muore soli”, ciò, lascia pensare che nelle esperienze limitrofe alla morte, nel loro luttuoso distacco, emerga come le vite psichiche siano destinate incommensurabilmente ad essere separate dai confini-pelle, che, per definizione, seguiranno traiettorie temporali diverse. Per le soggettività umane non è mai possibile incontrarsi realmente nello spazio (alla stregua di due rette parallele) ma solo, talvolta, co-esistere e co-incidere in anfratti temporali circoscritti: essere-con. È in quegli incontri, in quei momenti presenti (Beebe & Lachmann, 2013) che gli individui sperimentano il ritmo vitale (Stern, 2011; Verdesca, 2018c), l’apparente regolarità di essere realmente insieme con-l’Altro (Beebe & Lachmann, 2013). Tornando al punto: l’autore, secondo il parer di chi scrive, svela come l’intero romanzo si svolga presso sé stesso, senza capacità di fuga dalla propria interiorità psichica.

Il mondo delineato in Dissipatio H.G. potrebbe essere il mondo interno del protagonista.

Un personaggio, dunque, destinato a riferirsi costantemente al proprio io, privato della possibilità di diffondersi e difendersi psichicamente e a cui, in assenza di una Alterità, risulta inaccessibile proiettare, sublimare, negare, ecc. – termini cari all’autore che lascia trasparire una certa confidenza con il linguaggio psicoanalitico a lui contemporaneo (Gabbard, 2010; Verdesca, 2018a; Verdesca, 2018b).

Eppure  il  silenzio  gravava  e  io  lo  registravo  con  un  senso  diverso  da  quello  uditivo,  forse  emozionale,  forse  riflesso  e  ragionante. Ciò  che  fa’  il  silenzio  e  il  suo  contrario,  in  ultima  analisi  è  la  presenza umana,  gradita  o  sgradita;  e  la  sua  mancanza.  Nulla  le  sostituisce,  in questo  loro  effetto. E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo,  è  un  silenzio  che  non scorre.  Si  accumula. (Morselli, 2012; p.51)

E’ qui, secondo chi scrive, che il silenzio a cui Morselli si riferisce viene vissuto come apocalisse emozionale: l’impossibilità di essere pensiero d’un pensatore, e ancora, l’impossibilità di mancare a qualcuno Altro, a un mondo o a un qualsivoglia contesto posto lì: al di fuori da sé. Nei pensieri depressivi – per utilizzare un ossimoro – è questa, di pari passo al tema dell’incomunicabilità, l’assenza maggiormente presente: un senso di costante incomprensibilità reciproca.

Parliamo  pure  di  dinamismo  vitale  dell’individuo,  di  molteplicità virtualmente  infinita  di  relazioni,  o  di  esperienze.  Ma  rendiamoci  conto che  è  retorica.  Ognuno  è  vincolato  a  un  suo  minuscolo  frammento  di realtà,  e,  di  fatto,  non  ne  esce.  La  retorica  opposta,  quella  della incomunicabilità,  solo  in  questo  senso  si  giustifica.  Non  soltanto  l’agire ma  anche  l’apprendere,  il  sentire,  sono  funzioni  per  cui  ci  aggiriamo  in tondo.  E,  lei  noti,  siamo  individui,  manteniamo  una  coerenza  e  una stabilità  (anche  organica),  proprio  in  grazie  di  questo.  Intorno  c’è  il possibile,  che  non  diventa  quasi  mai  reale  (per  noi),  e  a  quella immensità  siamo  chiusi  e  remoti:  per  fortuna  nostra,  poiché  altrimenti ci  disperderemmo.  Determinazione è  negazione,  il  nostro  status d’individui  richiede  questi  stretti  confini,  noi  siamo  fatti  di  esclusioni,  di occlusioni.  Ma questo  fa  sì  che  alla  vita,  perlomeno  la  nostra,  ciò  che chiamiamo  il  suo  contrario  le  assomigli  molto. (Morselli, 2012, p.133 )

Conclusioni

Il finale di questa opera colpisce profondamente:

Rivoli  d’acqua  piovana  (saranno  guasti  gli  scoli nella  parte  alta  della  città)  confluiscono  nel  viale,  e  hanno  steso sull’asfalto,  giorno  dopo  giorno,  uno  strato  leggero  di  terriccio.  Poco più di un  velo,  eppure  qualche  cosa  verdeggia  e  cresce,  e  non  la  solita erbetta  municipale;  sono  piantine  selvatiche. (ibidem, p.152)

E’ un caso che finisca così Dissipatio H. G.? Non è dato sapere neanche questo, tuttavia, a parer di chi si è accinto a recensire quest’opera proponendola come spunto introspettivo, si potrebbe scorgere nella conclusione dell’opera uno spiraglio di speranza: la vita che, tuttavia, continua a imporsi sulla morte. La natura che si riappropria, con eleganza e pazienza, dei propri spazi, conferendo al romanzo un’aria un po’ più fresca e colorata; la rinascita delle emozioni asfaltate o, in gergo specialistico, la crescita post-traumatica (Seligman, 2012).

Un romanzo consigliato ai clinici e non, un testo che insegna a empatizzare e fare i conti con l’assenza più presente, con l’ombra dei traumi concreti. Un omaggio dovuto a uno scrittore, Morselli, che aveva tanta esigenza d’esprimere nel mondo la propria soggettività. Una possibilità, attuale, di permetterglielo a posteriori tramite un piccolo esercizio di introspezione vicariante.

 

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere – Recensione

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere intende offrire al lettore una sintesi del lavoro di studio e di ricerca che la professoressa Daniela Lucangeli svolge da anni, nell’ambito dei meccanismi di apprendimento in età evolutiva.

 

L’autrice, tra i suoi numerosi incarichi (professore ordinario in Psicologia dello sviluppo e prorettore dell’Università di Padova), è anche presidente dell’Associazione per il Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati (CNIS). Tale Associazione opera, a livello nazionale, con lo scopo di favorire la diffusione di informazioni, conoscenze scientifiche e tecniche nel settore della psicologia dell’apprendimento e della psicopedagogia nelle situazioni di handicap.

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere rappresenta un primo tentativo di sintesi del lavoro di divulgazione scientifica che la professoressa Lucangeli svolge nell’ambito di numerosi convegni. Le lezioni, trascritte con un linguaggio accessibile a tutti, sono rivolte a insegnanti e operatori che lavorano in ambito scolastico, ma anche a genitori e studenti che intendono approfondire il vasto argomento dei processi cognitivi ed emotivi che accompagnano l’apprendimento.

Lezione 1: la scuola dell’abbraccio

Questa lezione si focalizza sull’ampia gamma di emozioni che accompagnano l’apprendimento. Partendo dal presupposto teorico che “nel nostro cervello nessuna funzione è silente a tutte le altre”, si spiegano i fondamenti della warm cognition, un nuovo filone di ricerca scientifica che si è focalizzato proprio sullo studio fra cognizioni ed emozioni e le sue ripercussioni, in termini pratici ed operativi, per la didattica. Le emozioni sono così spiegate come flussi di corrente neuroelettrica che lasciano una traccia indelebile nelle nostre memorie. Per questo motivo è necessario che ogni insegnante conosca bene le emozioni che “transitano” nell’apprendimento: “ci si può occupare di apprendimento se, e solo se, si comprende la potenza della sincronicità fra le informazioni e le memorie emozionali”.

Lezione 2: sbagliando si impara

Essere alleati degli studenti “contro” gli errori: in questo modo l’errore diventa una chiave di lettura del percorso cognitivo ed emotivo di ogni singolo studente, perché ci aiuta a capire dove ha incontrato difficoltà nel suo percorso di apprendimento. L’insegnante, in questo senso, dovrebbe passare “dal ruolo di giudice a quello di alleato”.

Le evidenze scientifiche confermano la teoria secondo la quale l’esperienza interviene direttamente sul nostro cervello: l’apprendimento “scolpisce” le strutture neurali, creando continuamente nuove connessioni. Se pensiamo che bastino pochi millesimi di secondo per tracciare le nostre memorie, la scuola ha un enorme potere, in termini di tempo, sull’insieme delle reti neurali che può modificare.

La professoressa Lucangeli invita, pertanto, tutti gli insegnanti a diventare consapevoli della loro funzione di facilitatori: non maestri che ingozzano di nozioni e giudicano gli studenti, ma alleati degli allievi, che cercano, insieme a loro, di capire il perché degli errori e come si possono risolvere.

Lezione 3: verso il successo scolastico

Le emozioni che accompagnano il successo scolastico, come “l’intuizione, la creatività nella soluzione dei problemi e una disposizione ottimistica verso l’impegno che si deve affrontare” dovrebbero essere sostenute, con l’obiettivo di promuovere il benessere scolastico di tutti.

Come sostenere queste emozioni positive? In questa lezione vengono sottolineate alcune posizioni pedagogiche, che trovano un ampio consenso all’interno della letteratura scientifica di riferimento, come: promuovere la percezione di autoefficacia dello studente, ovvero la capacità di sentirsi in grado di far bene; aiutare lo studente a sperimentare il successo, soprattutto nelle prime fasi dell’apprendimento, “momento in cui i pensieri su di sé sono in fase di costruzione”; offrire dei modelli positivi e incoraggiare. L’autrice, anche in questa lezione, sottolinea l’importanza dell’errore come strumento educativo, quando cioè permette allo studente di attribuire l’insuccesso a strategie di apprendimento inadeguate e non ad una sua assenza di abilità.

Lezione 4: stare male a scuola

In questa lezione sono riportati i dati di un’indagine condotta in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, in cui si rileva che il 73% degli studenti intervistati dichiara di stare male a scuola. Tra le motivazioni, emerge che il carico di lavoro è vissuto come particolarmente inadeguato: “I nostri ragazzi vengono ingozzati di prestazioni. Intendo dire che ai ragazzi viene chiesto di memorizzare procedure e regole in grande quantità, anziché di fare proprie delle conoscenze, che servano loro per sviluppare delle competenze utili per il futuro”. Inoltre gli studenti hanno dichiarato di vivere a scuola uno stato di “continuo alert fatto di ansia, senso di colpa e noia”.

Oltre agli studenti, anche gli insegnanti, caricati di responsabilità, che non vengono valutate come pertinenti alla loro professione, dichiarano di stare male a scuola, perché poco gratificati e non riconosciuti come figure di riferimento del mondo scolastico.

Di fronte a questo malessere diffuso, è importante promuovere la possibilità di stare bene fin dai primi anni di scolarizzazione.

Lezione 5: tutti bravi con i numeri

L’ultima lezione riguarda uno degli ambiti di specializzazione dell’autrice: l’intelligenza numerica. Partendo dal presupposto scientifico che “la forma più antica di intelligenza che noi possediamo, la prima che compare, è proprio l’intelligenza numerica di quantità”, Daniela Lucangeli offre preziose indicazioni per tutti coloro che intendano promuovere l’intelligenza, fin dai primi anni di vita. Il potenziamento delle funzioni di cui il nostro cervello dispone, per apprendere i meccanismi di base del calcolo, dovrebbe essere svolto in modo corretto e costante nei primi sei anni di vita, quindi prima della formale istruzione della matematica.

É importante che genitori e docenti sappiano riconoscere “le abilità che sostengono la capacità di lavorare con i numeri, di eseguire i calcoli e di tutto ciò che concerne l’aritmetica, in modo da sostenere, fin da subito, lo sviluppo e di accompagnare la maturazione funzionale di questa forma dell’intelligere”.

 

Mindcooking: mente e corpo in comunicazione attraverso la scoperta dei sapori

Ricordi, immagini, sensazioni, pensieri ed emozioni, tutta questa sensorialità, a partire per esempio da un semplice stimolo olfattivo, è in grado di evocare un soggettivo stato di benessere e di raccontare tanto di noi e della nostra storia personale. Ma è possibile rendere questo processo, spontaneo e naturale, un qualcosa di ripetibile?

 

Immaginiamo di camminare per le strade piovose della nostra città. La giornata è grigia come ormai le precedenti dell’ultima settimana. Il nostro umore non è dei migliori dopo aver dedicato una fetta importante della nostra mattinata libera a trovare un parcheggio in centro per andare a sbrigare una pratica in comune. Stiamo consapevolmente o inconsapevolmente ruminando sul traffico affrontato, sulla prepotenza degli altri guidatori, sul perché non sia possibile ancora al giorno d’oggi sbrigare pratiche burocratiche così banali on-line. “Ecco, ma dimmi tu se è questo il modo di tenere una strada!”. Giriamo in un vicolo cercando di recuperare minuti, così forse riusciremo ad arrivare giusto in tempo per prendere i bambini da scuola. “Cavolo ma è oggi che devo accompagnarli a nuoto?”

Qualcosa però irrompe in questo flusso negativo. È familiare, diretto, intenso, ma soprattutto buono. Dal retro di un panificio che stiamo affiancando si affaccia il profumo del pane appena sfornato. Nella nostra mente vi sono due possibili strade da percorrere. Nella prima un’immagine ci trasforma il pensiero, le emozioni. Tutto è un po’ meno grigio. Per qualche secondo il nostro stato mentale è mutato. Possiamo esserne consapevoli o inconsapevoli, ma è innegabile che qualcosa in noi stia accadendo. Nella seconda strada, ci perdiamo il momento e torniamo dopo poche pozzanghere progressivamente alla grigia mattinata pronti per rimbalzare tra gli sportelli del comune. Se la nostra mente riesce a trattenere quel momento, allora qualcosa continua a modificarsi. I nostri passi potrebbero cambiare ritmo. L’attenzione si focalizzerebbe immediatamente sul presente e mentre solleviamo il naso il nostro respiro si fa più profondo assecondando il bisogno di restare il più possibile su quel profumo. Ognuno di noi immerso in una simile esperienza avrà uno stato mentale interno del tutto soggettivo, un’esperienza che Marcel Proust descrive cosi:

…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio. (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)

Ricordi, immagini, sensazioni, pensieri ed emozioni, tutta questa sensorialità si sprigiona nella nostra corteccia secondaria sensoriale (Sacco , Sacchetti , 2010) evocando un soggettivo stato di benessere che è in grado di raccontare tanto di noi e della nostra storia personale. Una porta di accesso ai nostri stati interni è aperta, la chiave? Un modesto stimolo olfattivo.

Le domande sono semplici ed essenziali: cosa è possibile fare per rendere questo processo, spontaneo e naturale, un qualcosa di ripetibile? Come possiamo richiamarlo in un momento di necessità? Essere più consapevoli di questo fenomeno ci permetterebbe di imparare qualcosa di più su noi stessi?

Da queste domande scaturiscono riflessioni condivise tra colleghi, uniti probabilmente anche dalla passione per il cibo, abbiamo iniziato a sviluppare un’idea: il Mindcooking. La psicoterapia offre un repertorio di strumenti e domande generoso. Lo sdoganamento di queste da un contesto puramente clinico ci ha permesso di mettere a punto una procedura in grado di creare un’esperienza sensoriale interattiva con il cibo alla quale chiunque può partecipare.

Il nostro tentativo è stato quello di cercare di creare una situazione esperienziale dove fosse possibile provare a incrementare la nostra consapevolezza attraverso il cibo. Creare una procedura che sia ri-evocabile, intensa e profonda utilizzando delle semplici tecniche. L’obiettivo è di creare un arricchimento alla propria esperienza interna dove i partecipanti possano scoprire come agiscono le proprie memorie e come gli stati sensoriali vissuti siano collegati ad esse, considerando tanto gli aspetti piacevoli e positivi quanto quelli negativi che ne possono scaturire.

Il passaggio iniziale attraverso il quale può essere avviato un simile processo è fondamentalmente uno: la consapevolezza.

Quando diciamo di essere presenti e consapevoli nel qui e ora in pratica stiamo descrivendo uno stato di mindfulness. Tutti siamo potenzialmente in grado di transitare in uno stato simile, può avvenire più volte durante il giorno, ma portare la nostra mente con intenzione e farla restare sulla consapevolezza è ben altra cosa. Essere presenti con un’attenzione consapevole su ciò che accade in noi, nella nostra mente e nel nostro corpo e fuori di noi, nell’ambiente che ci circonda è una conquista che si ottiene e che migliora con la pratica.

Nella clinica la pratica della mindfulness è sempre più diffusa. Nel corso degli anni sono stati improntati diversi protocolli di applicazione che hanno sfruttato le potenzialità della mindfulness su problematiche cliniche (Kabat-Zinn, Lipworth, Burney, 1985) e su problematiche specifiche legate ai disturbi alimentari (Epstein, 1995; Ray,1981), (Kristeller & Hallett, 1999). Da quest’ultime si sviluppa il panorama del Mindful Eating. Diversi sono gli studi di efficacia (Mason, Epel, Kristeller, et al., 2016; Mason, Jhaveri, Cohn, Brewer, Testing, 2018). Uno degli scopi principali è quello di arrivare a ottenere una consapevolezza non giudicante delle sensazioni fisiche ed emotive associate al mangiare. Da qui la nostra scelta di estrapolare da tali programmi alcune tecniche da inserire nella costruzione della nostra esperienza Mindcooking.

Le nostre idee si ispirano alla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013; 2019) e hanno il fine di guidare gradualmente il soggetto a esplorare il suo mondo interiore e prendere sempre maggiore consapevolezza di se stesso, in particolare di alcuni nessi tra stimoli sensoriali (che provengono dal cibo), cognizioni e affetti. Nel Mindcooking non abbiamo la pretesa di portare i partecipanti a livelli alti di metacognizione, ma utilizziamo alcune tecniche al fine di rendere alcune ore di esperienza con il cibo più intense e incrementare la consapevolezza del proprio mondo interiore.

Mindcooking può essere un momento in cui aumentare il contatto con i nostri stati positivi, andando a nutrire la nostra percezione positiva di noi. Allo stesso modo però è possibile anche che in tale esperienza si elicitino anche degli stati mentali negativi; in tal caso nell’esperienza è previsto un breve intervento dove è possibile comprendere come gestire simili sensazioni.

A  tal proposito ciò che tentiamo di fare nella prima ipotesi, attraverso una consapevolezza mindful, è cercare di tenere la nostra mente sul presente provando a individuare o rievocare sensazioni positive, allo scopo di alimentare quella che definiamo la nostra parte sana. Diversamente, in caso di attivazione di sensazioni negative o spiacevoli proveremo a guidare il soggetto all’accettazione di tali sensazioni al fine di provare a comprendere poi come “lasciarle andare”.

Questo rappresenta un modo per prendere distanza da eventuali stati negativi presenti in noi che ci dicono “No questo non puoi averlo” oppure “Questo piacere non puoi provarlo” cercando di tornare a nutrire invece il “Mi piace!” o “Questo mi dà benessere”.

Mindcooking è un’esperienza in cui è possibile tentare un piccolo arricchimento della propria consapevolezza anche provando a rievocare sensazioni legate al cibo nel nostro passato. Naturalmente non si tratta di quel tipo di consapevolezza ricca e capace di portare a un cambiamento strutturale, quella resta tipica della psicoterapia. Col Mindcooking vogliamo aumentare la conoscenza di sé e la scoperta della capacità di potere agire sui propri stati mentali.

L’obiettivo è quello di creare di questo processo una traccia un po’ più chiara e marcata di se stessi, al fine di portarsela a casa e conservarla per poi utilizzarla come strumento consapevole e pratico ogni qualvolta si desideri evocare uno stato positivo e di benessere oppure quel pizzico di consapevolezza in più sull’ipotesi che una sensazione negativa può anche dissiparsi se impariamo a non nutrirla.

L’esperienza Mindcooking può essenzialmente essere svolta in due modalità: “mani in pasta” o “degustazione”. Gli elementi comuni a entrambe sono che: uno chef prepara le diverse portate, i partecipanti prima le degustano e poi segue un momento di riflessione condivisa. Il cibo e l’individuo sono interconnessi attraverso l’integrazione delle esperienze sensoriali. La differenza tra le due situazioni è che in “mani in pasta” vi sono anche delle postazioni per cucinare seguendo lo chef, mettendosi così in prima linea nella preparazione di ciò che si andrà poi a mangiare. La scelta della modalità dipende molto dalla disponibilità dello Chef e della sala, poiché non sempre si hanno 12 postazioni singole disponibili e attrezzate con utensili e ingredienti necessari, stile Masterchef per così dire. Sicuramente la modalità “degustazione” è più semplice e fruibile.

Nella pratica, l’esperienza Mindcooking consta di quattro portate: antipasto, primo piatto, secondo piatto, dolce. Lo chef terrà in considerazione il fatto che i cinque sensi debbano essere coinvolti in ognuna delle quattro portate; ad esempio, nella degustazione dell’antipasto si potrà portare maggiore attenzione a ciò che la vista ci suggerisce e alle percezioni che ci suscita in termini di emozioni, sensazioni, immagini e pensieri. Dopo l’attenzione alla vista, l’assaggio si concentra sul gusto, e questo porterà a cercare eventuali differenze percettive.

La stessa esperienza potrà essere fatta con l’olfatto, i partecipanti annuseranno la pietanza tenendo gli occhi chiusi. Successivamente si passa all’esplorazione aprendo gli occhi e assaggiando (olfatto integrato al gusto). L’olfatto è un senso particolarmente importante nell’esperienza Mindcooking perché le aree cerebrali dedicate al processamento delle informazioni olfattive hanno connessioni con le aree dedicate alle emozioni e alla memoria autobiografica (Gottfried et al. 2004). In queste situazioni l’esperienza Mindcooking aiuta a rimanere sul presente connettendosi con tutte le sensazioni ed emozioni elicitate dal ricordo, se positivo, potenziandole attraverso l’integrazione dei vari sensi; si crea così un circolo virtuoso in cui gli elementi sensoriali evocano emozioni e immagini e a loro volta queste elicitano un ricordo che arricchisce l’esperienza di nuove immagini, emozioni e sensazioni. Mente e corpo iniziano a comunicare consapevolmente tra loro.

Il partecipante può quindi raggiungere la consapevolezza che l’integrazione di più sensi apre la mente e il corpo ad un’esperienza, soprattutto emotiva, più allargata. Quello che affiora confrontando le immagini, idee, emozioni, emerse esplorando coi cinque sensi, sarà poi condiviso nel momento di discussione successivo.

E’ possibile che, nel corso dell’esperienza, i partecipanti entrino in contatto principalmente con due tipologie di immagini mentali: a contenuto positivo e a contenuto negativo.

Quando l’immagine che emerge è positiva i conduttori invitano il partecipante a soffermarsi su di essa e ad integrare le sensazioni ed emozioni sperimentate, facendole proprie e registrandole, mettendo in comunicazione la parte sensoriale, emotiva e cognitiva.

Qualora l’immagine elicitata fosse a contenuto negativo, con emozioni e sensazioni spiacevoli, è importante lavorare verso la focalizzazione sul presente (Garland et al. 2015; 2016). L’immagine negativa e le emozioni connesse vengono notate, ma si invitano i partecipanti a lasciare andare queste attivazioni negative senza critiche né giudizi, invitandoli invece a esplorare in modo curioso ciò che hanno di fronte. I conduttori per esempio li possono invitare ad aprire gli occhi e assaggiare la pietanza concentrandosi sulle diversità dei sapori, delle consistenze, degli odori. L’esplorazione curiosa e non giudicante sul presente, soprattutto partendo da un’immagine a contenuto negativo, offre la possibilità di regolare le emozioni negative, di integrare mente e corpo finché il partecipante non scopre che può sì sperimentare sensazioni spiacevoli, ma padroneggiarle nel qui ed ora attraverso l’esercizio mindful abbinato al cibo. Di solito a questo punto, l’immagine e le sensazioni precedenti diventano più sbiadite per lasciare spazio all’integrazione sensoriale, dando vita alla consapevolezza di gestire le emozioni spiacevoli.

Nella riflessione condivisa successiva si rende esplicito tutto il percorso a partire dall’emersione di un’emozione negativa. L’obiettivo, riassumiamo, è di rendere consapevole l’individuo della possibile gestione di stati negativi/dolorosi attraverso la focalizzazione sul presente e soprattutto attraverso l’integrazione di diverse vie di percezione sensoriale, attivando allo stesso tempo una curiosa esplorazione del presente.

Quando invece l’esperienza evocata è positiva, il lavoro mira a permettere alla persona di goderne appieno, amplificando la connessione mente/corpo e integrando le diverse informazioni provenienti dai 5 sensi per imparare a soffermarsi sulle percezioni a contatto con la realtà immediata della portata assaggiata .

Nel complesso, questa esplorazione curiosa e consapevole attraverso il cibo è uno strumento in più che aiuta l’individuo in due modi: a capire che sensazioni, immagini o ricordi negativi, possono essere lasciati andar via, focalizzandosi sul qui ed ora della percezione in un’esplorazione curiosa integrando le informazioni provenienti dai 5 sensi per essere consapevoli di poter agire recuperando uno stato di benessere e soprattutto essere capaci a farlo.

Allo stesso tempo Mindcooking può insegnare a potenziare eventi piacevoli e a recuperarli quando occorre. Alcuni hanno proposto tecniche comportamentali e di allocazione dell’attenzione per favorire il persistere di stati positivi: il cosiddetto “savoring”, “assaporare” consiste nel soffermarsi su stati positivi di esperienze passate, presenti e immaginate nel futuro (Bryant, 2003-2007). Molte ricerche confermano che gli affetti positivi hanno un ruolo attivo sullo stato di benessere dell’individuo (Langston, 1994). Quindi, padroneggiare una strategia di recupero di uno stato positivo aumenta la motivazione e ha effetti positivi sul comportamento in relazione a una maggiore percezione di soddisfazione nella propria vita (Smith & Bryant, 2016; Smith & Hollinger-Smith, 2015), maggiore percezione di buona salute (Geiger, Morey, & Segerstrom, 2017), benessere generale e felicità (Smith & Hollinger-Smith, 2015), bassa percezione di depressione e stati emotivi negativi (Garland et al., 2017; Hou et al., 2017; Smith & Hollinger-Smith, 2015). Si delinea quindi un percorso di cambiamento consapevole dell’individuo che parte dalla promozione di stati positivi e dal mantenerli nella coscienza. “Assaporare” permette agli individui di massimizzare il piacere e la soddisfazione creando dei pensieri ripetitivi adattivi (Segerstrom et al., 2010). Possiamo evocarli attraverso un lavoro sul corpo, di spostamento dell’attenzione oppure adottando specifici comportamenti, come ad esempio l’esperienza Mindcooking. I processi cognitivi e motivazionali beneficiano dello stato positivo che l’individuo ha contattato e diventa più semplice farlo accedere a ulteriori riflessioni positive, affrontare compiti con più motivazione e pianificare attività benefiche a lungo termine. Sarà anche più semplice favorire un punto di vista sovraordinato, più distaccato da cui osservare le parti di sé sofferenti (Dimaggio et al., 2013; 2019).

Raccontiamo un’esperienza di Mindcooking, realizzata grazie a uno Chef che ha avuto voglia di sperimentare e mettersi in gioco in modo creativo, partecipando attivamente anche alle discussioni sulle portate.

In questa occasione, caso ha voluto che Lorenzo, lo Chef esploratore curioso, fosse uno dei due proprietari dello splendido bistrot dove avremmo svolto l’esperienza Mindcooking. L’altro proprietario, Riccardo, si è occupato della gestione in sala per tutta la durata dell’evento. L’evento è stato del tipo degustazione.

Il menù è stato scelto dallo Chef a seguito di un briefing con i due terapeuti che hanno poi condotto l’esperienza: quattro portate  bilanciate in tutte le loro parti per permettere un’esplorazione sensoriale completa. Il briefing sostanzialmente ha avuto l’obiettivo di comunicare allo Chef, per ogni portata, i sensi che andavano maggiormente stimolati e, in base a queste istruzioni lui ha preparato i piatti. A quel punto i due conduttori hanno costruito degli esercizi mirati insieme ai commensali per poi ritrovarsi tutti nella fase di discussione alla fine della portata.

Il menù scelto appositamente da Chef Lorenzo è stato questo:

  • Antipasto: “Ingannevole alla vista”. Cannolo ripieno di gamberi su crema di topinambur.
  • Primo piatto: “Gioco di consistenze”. Gnocchetto di farro, tartara di baccalà, carciofi in crema di chips.
  • Secondo piatto: “Gusto e Olfatto”. Manzo al fumo di faggio, nido di cicoria e tuorlo fondente.
  • Dolce: “Dolce e salato”. Salame di cioccolato con mousse al mango e terra di cacao.

L’atmosfera del bistrot è calda e familiare. Oggetti vintage come il telefono della nonna e lampade di rame decorano il locale. Un grande tavolo per 12 persone è pronto per i partecipanti all’evento in un angolo dedicato vicino al grande bancone di legno dove Riccardo ci attende. Dopo che tutti abbiamo preso posto l’esperienza Mindcooking può iniziare.

Una breve introduzione con le istruzioni da seguire durante la degustazione esperienziale, così come descritto in precedenza, e un successivo momento per prendere contatto con il proprio corpo e la propria sensorialità, lasciano il posto alla prima portata: l’antipasto.

Durante la degustazione dell’antipasto la focalizzazione sensoriale è sulla vista cercando di osservare emozioni, pensieri ed immagini che il piatto suscita. Successivamente lo Chef Lorenzo presenta il piatto e dopo l’assaggio (gusto) si osservano nuovamente emozioni, sensazioni, pensieri ed immagini. I partecipanti prendono tutti nota delle variazioni per poi discuterne insieme. Emergono emozioni e immagini diverse. “Ho provato colpa perché ho immaginato che il cannolo fosse una pelle di porchetta arrotolata, ma quando l’ho assaggiato la colpa ha lasciato spazio alla sorpresa per poi assaporare con piacevolezza…”, “Sorpresa perché avevo immaginato fosse dolce, ma dopo l’assaggio la mia percezione è cambiata…”.

Il primo piatto viene servito mentre lo Chef presenta la portata e ci focalizziamo tutti, al primo impatto, sull’esplorazione tattile e uditiva della pietanza. Solitamente l’attenzione consapevole al tatto e all’udito, mentre si degusta un piatto, non è assolutamente automatica: è importante allenare questi due sensi alle percezioni che ci rimandano. Successivamente osserviamo le differenze tra esperienza visiva, in termini di emozioni, sensazioni, pensieri e immagini suscitate, ed esperienza gustativa. Anche qui i partecipanti prendono nota delle differenze, di ciò che notano e ne discutiamo insieme. Le prime impressioni che emergono sono legate all’esplorazione curiosa: “ho giocato con i miei sensi e ho scoperto che assaggiando poi il piatto tutto quello che avevo precedentemente esplorato, l’ho messo insieme e sentivo tutti i sensi collegati, ma nello stesso momento distinguevo le singole percezioni. I sapori poi li riconoscevo separatamente, ma anche insieme, funzionava tutto…”.

È il momento di chiudere gli occhi per lasciare entrare in sala il secondo piatto. Viene servito a i partecipanti che rimangono ad occhi chiusi. Quando l’affumicatura al fumo di faggio viene liberata, prendono vita immagini, emozioni, sensazioni e pensieri con un’immediatezza fulminea. Il senso dell’olfatto rimanda istantaneamente a vissuti emotivi, a volte dolorosi. Si procede allora con un momento di mindfulness dove ci si concentra tutti sul qui ed ora dell’esperienza, si prende consapevolezza dei punti di contatto del nostro corpo con il tavolo, il pavimento, la sedia, accettiamo con benevolenza le sensazioni e le emozioni che ci pervadono, stendiamo loro un tappeto rosso per lasciarle dimorare nella nostra locanda, stringiamo i pugni per aumentare l’agency e l’autoefficacia percepita. Successivamente si aprono gli occhi per svolgere l’esperienza olfattiva ad occhi aperti e, dopo la presentazione dello Chef, procedere all’assaggio, annotando le differenze percettive e cosa l’esperienza ha suscitato in noi, per poi discuterne insieme.“E’ stato immediato il collegamento con un’immagine della mia infanzia molto nitida, piacevole nel passato, dolorosa nel presente, nel ricordarla ho sentito tristezza. L’esercizio di mindfulness con ancora presenti tutti quegli odori, mi ha invece riportato alla piacevolezza di quel vissuto, ho sentito di nuovo quel ricordo come tale ma piacevole, l’assaggio poi ha confermato tutto questo, mi è rimasta una sensazione di nostalgia, ma ho recuperato insieme anche il piacere di quei momenti…”.

L’esperienza Mindcooking si conclude con il dolce, grande atteso della serata. Dopo una breve premessa sulla focalizzazione della nostra attenzione sui contrasti, lo Chef Lorenzo presenta il piatto e possiamo passare all’assaggio. I contrasti dominano la portata e l’attenzione viene posta sulla risonanza che i contrasti di sapore, dolce e salato, ci danno: fisica o emotiva? Entrambe? La discussione sarà animata. Emerge, come per l’antipasto, molto stupore e la conferma che le percezioni cambiano aggiungendo all’esperienza una focalizzazione sensoriale più ampia: “sembrava il classico salame di cioccolato, invece la parte salata, la consistenza del biscotto che era rimasto croccante, l’amaro del cacao e il dolce della mousse al mango, mi hanno stupito, le sentivo tutte insieme, ma distinte, mi sono immaginato steso sotto una palma in una spiaggia tropicale…”.

In conclusione, nelle diverse discussioni emergono svariate emozioni collegate sempre a immagini chiare e nitide. I partecipanti hanno preso consapevolezza di avere la tendenza a ricercare attivamente la conferma alle proprie percezioni iniziali, cambiata dopo l’introduzione di altri canali percettivi. Questi esercizi esplorativi consapevoli aiutano a cambiare il nostro iniziale punto di vista, a non rimanere affezionati ai propri pregiudizi e a comprendere come ciò che pensiamo, ad un primo impatto, della realtà non sempre vi corrisponde dopo un’analisi consapevolmente esplorativa ed integrata. Questo è ciò che in Terapia Metacognitiva Interpersonale chiamiamo differenziazione (Dimaggio et al., 2013; 2019) e attraverso il corpo possiamo allenare la nostra mente ad essere più attenta e flessibile.

Il risultato di queste riflessioni può essere sintetizzato da una frase, condivisa da una partecipante alla fine dell’esperienza Mindcooking: “sono andata sui divanetti fuori per una sigaretta prima dell’inizio dell’esperienza e poi sono andata ora, alla fine dell’esperienza, ed ho fatto caso ad un centrotavola sul tavolino, peraltro bellissimo e grande, che prima non avevo per niente notato. Ho sicuramente ampliato la mia esperienza del mondo, a regolare anche le immagini negative e a vivere in maniera insolita i sensi. Ho capito che li utilizziamo molto poco in modo completo e che spesso ci ingannano se non li integriamo tra loro. Quando la mente si crea un’aspettativa è difficile sganciarsi da essa, è importante soffermarsi”.

Gli spunti di riflessione confermano la difficoltà generale che le persone hanno a distaccarsi da una prima impressione percettiva, negativa o positiva che sia, ma anche la possibilità di andare oltre quello che è, alla lettera un pre-giudizio, e aprirsi alla novità dell’esperienza. In questo aiutano l’attenzione e l’integrazione delle percezioni provenienti dai cinque sensi, oltre che, con l’esercitazione mindfulness. Quest’ultima è di fondamentale aiuto nei momenti percettivi negativi ed il cibo può essere un valido mezzo per recuperare uno stato mentale, fisico ed emotivo positivo ma soprattutto un elemento che ci allena ad esplorare con curiosità osservativa. Mindcooking è un’esperienza percettiva e sensoriale che allena mente e corpo a comunicare tra loro.

 

La scia dietro di noi: profumo e dati

Muovendoci lasciamo una scia. Una volta era di un profumo, oggi vi si aggiunge un alone di dati, un corteo che non ci abbandona mai, dal risveglio al sonno notturno. Un furto di privacy h24.

 

L’editorialista Noonan del Wall Street Journal ha osservato:

La privacy è legata alla nostra persona. Ha a che fare con aspetti intimi — i meccanismi della nostra testa e del nostro cuore, il funzionamento della nostra mente — e il confine tra queste cose e il mondo esterno (2013).

Eppure, muovendoci, lasciamo una scia. Una volta era di un profumo; oggi vi si aggiunge un alone di dati. Un corteo – quello dei dati – che non ci abbandona mai, dal risveglio al sonno notturno. Un furto di privacy h24.

Bersagli sono molte categorie di soggetti, tra cui tipicamente consumatori, lavoratori, giovani. Nel 2018, le società statunitensi hanno speso circa 19 miliardi di dollari per acquisire e interpretare i dati riguardanti i consumatori (Matsakis, 2019).

I dati sono dual use:

  • cibo per nutrire algoritmi;
  • cibo per mercato, politica, sanità, sicurezza, giustizia, ambiente, ricerca, ecc.

Le piattaforme social forniscono un enorme patrimonio di dati personali. Ci si può illudere che esse siano gratuite. Invece è uno scambio in cui stiamo cedendo informazioni personali a fronte di un servizio. Com’è noto, “se non stai pagando un prodotto, tu sei il prodotto”. Non esistono free lunch: quanto viene postato sui social viene usato per profilare e mirare efficientemente la messaggistica. Se possiamo considerare positiva la circostanza di ricevere annunci e post che ci interessano, è pure necessario essere consapevoli di cosa viene fatto dei nostri dati personali e controllare il loro uso tramite un consenso informato (Rossi, 2019).

Ma ecco che sorge un’altra questione spinosa. Verosimilmente è stato accordato il proprio consenso nel momento della sottoscrizione delle condizioni di un’app. Ma le informative sono complesse. Secondo il Time, per leggere tutte le condizioni d’uso, una persona impiegherebbe 76 ore ogni anno. Il New York Times, quando ne lesse 150, le definì “un disastro incomprensibile” (Pasley, 2020).

L’agenda della nostra giornata trasmuta per le tecno-compagnie in agenda di dati.

Al risveglio, se si vorrà dare un’occhiata alle notizie tramite smartphone, rimarranno le tracce.E se ci accadesse quanto capitato a Geoffrey Fowler del Washington Post? Ha scoperto che il suo iPhone inviava dati a decine di aziende nella notte (Pasley, 2020).

Per andare al lavoro, ci serviamo di ciò che il New York Times ha definito “essenzialmente uno smartphone con le ruote”. Chi noleggia d’abitudine un’automobile di una compagnia tramite app sarà accolto, entrato nell’autoveicolo, dal proprio genere di musica preferito trasmesso dalla radio. E’ stato registrato in memoria e appreso. Il tragitto all’interno di una comfort area. E’ stata acquistata un’auto? Essa è in grado di registrare il peso dell’automobilista, il numero dei passeggeri, la velocità, le strade percorse.

Arrivati in ufficio, ecco cosa può accadere… Avere la brutta sorpresa di essere stati profilati dall’azienda o, quanto meno, essere assaliti dal timore di subire la sorte di dipendenti di altre società. Ad esempio, della catena di moda svedese H&M, con i suoi presunti trattamenti illeciti dei dati dei propri dipendenti per mezzo di registrazioni occulte. Le informazioni riguarderebbero aspetti sensibili, quali la loro salute e vita privata.Come afferma l’Autorità per la protezione dei dati di Amburgo – che ha avviato un procedimento nei confronti dell’H&M- l’ampiezza quantitativa e qualitativa del trattamento dei dati dei dipendenti, accessibili a tutto il management dell’azienda, mostra una profilazione completa dei dipendenti non paragonabile a nessun’altra (Domenici, 2020).

Questo orrifico episodio ci fa tornare in mente un altro scabroso scandalo, anch’esso recente. Secondo quanto riportato dal The Wall Street Journal (Copeland, 2019), negli USA il progetto Nightingale ha visto Google, insieme all’operatore sanitario Ascension, raccogliere segretamente i dati (di laboratorio, diagnosi mediche, con nomi e data di nascita) relativi a cartelle cliniche di pazienti appartenenti a 21 Stati USA: la loro storia medica al completo. Il ruolo di Google è stato mettere a disposizione sistemi di intelligenza artificiale (IA) per leggere le cartelle cliniche elettroniche e identificare più rapidamente le condizioni di un paziente. Scopo, una più efficiente interoperabilità nella rete ospedaliera americana (Porro, 2019). Efficienza vs. etica.

Raccogliamo poi lo sfogo di un’amica il cui figlio sta facendo domanda di iscrizione a università statunitensi, ma – dice – la email etiquette potrebbe venire controllata. Infatti, le università americane si servono dei dati, quali la quantità di tempo su cui resta aperta una mail e i link cliccati, per valutare il grado di motivazione del candidato (Pasley, 2020).

Uno studio della Northeastern University (Renet al., 2019) – il più esteso sulle smart tv – ha illustrato che i televisori connessi di nuova generazione trasferiscono dati sensibili degli utenti a società quali Google, Netflix e Facebook, persino se non abbonati ad alcun servizio. Nel caso di Netflix, i dati vengono spediti anche quando l’app non è attiva. Fra le numerose implicazioni: terze parti sono in grado di sapere se siamo in casa; in base alle preferenze scelte sul dispositivo, possiamo essere targettizzati con una pubblicità mirata ed efficace. Sicurezza e privacy a rischio, dal quale pure l’FBI allerta per evitare di essere spiati e finire nella rete della cyber criminalità (Lavalle, 2019).

La violazione dei dati personali è una neverending story: ToTok, simile nel nome alla più famosa (e altrettanto problematica) TikTok, sebbene si presentasse come app di messaggistica – tipo WhatsApp, Telegram, Signal –sarebbe stato strumento di spionaggio gestito dal Governo degli Emirati Arabi Uniti (Rijtano, 2019). Dietro l’app, infatti, ci sarebbe stata Pax AI, azienda specializzata nel data mining, a sua volta, collegata a DarkMatter, una società di Abu Dhabi che si occupa di white e black hacking: protegge la sicurezza e la privacy dei suoi clienti, mentre spia i loro concorrenti. ToTok era uno strumento di sorveglianza molto efficace, perché tracciava conversazioni, spostamenti, contatti, appuntamenti, il suono registrato dal microfono e le immagini catturate dalla fotocamera dello smartphone su cui era installato. In febbraio Google l’ha rimosso (Martiradonna, 2020; HDBLOG.it, 2020).

Il tema della privacy – la tutela di informazioni personali, il valore e il costo di tale tutela – può rientrare nel solco nella letteratura dell’economia dell’informazione. In tale prospettiva, la privacy non ha esclusivamente valenza giuridica, ma anche economica.

Nel 2010 Zuckerberg aveva tentato di abbassare il valore e il costo della tutela dei dati personali, affermando che

Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così è anche per la privacy (Bruno, 2010).

E’ il tecno-capitalista che parlava poiché massimizzare i suoi profitti significa sfruttare l’innata socialità dell’uomo e la tendenza alla esposizione di sé; i dati personali (cioè la vita degli utenti) si trasformano in risorsa economica da estrarre attraverso la surrettizia offerta di una vita user-fliendly, attraverso la retorica della condivisione e la componente ludica, il make-up di tale strategia. Ma sbagliava Zuckerberg nelle sue dichiarazioni pro condivisione a tutto tondo: tale (artato) ottimismo sperimenta oggi un totale viraggio a favore della privacy. Ed egli stesso – a meno di dieci anni da quella dichiarazione forte – attua un viraggio della medesima portata, quando nel 2019 a San Jose, dal palco del Congresso F8 (la Convention per gli sviluppatori dei social network), si è presentato con una scritta altrettanto forte e a lettere cubitali “The future is private” (Fiocca, 2019). Tra i buoni propositi a favore della privacy per il 2020 c’è la tutela degli utenti introducendo la nuova funzione “Off-Facebook Activity”, che consente di limitare le informazioni condivise con siti e app di terze parti. A conferma del new deal, in gennaio Facebook ha festeggiato il “Data Privacy Day” per rassicurare i cittadini quanto il tecno-capitalismo sia sensibile al tema della privacy. Peccato che ai festeggiamenti si sia messo di traverso lo scandalo Avast, antivirus disponibile gratuitamente sul mercato: l’applicazione memorizzava le attività degli utenti registrati e trasferiva le informazioni a una società controllata di Avast -la Jumpshot – per confezionare pacchetti di dati da vendere a colossi quali Google, Yelp, Microsoft, McKinsey, Pepsi, Home Depot e varie società di marketing. Naturalmente, per potenziare i canali di vendita, profilare il mercato in segmenti, ottimizzare i servizi, ecc. (D’Elia, 2020).

Particolarmente incisivo, anche per l’autorevolezza dei soggetti – il Vaticano, promotore della “Rome Call for AI Etichs” e la Commissione europea, con la pubblicazione in febbraio del Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale – l’attuale battage sull’etica e l’allineamento ai valori umani della IA.

Termini come Trasparency, Inclusion, Accountability, Responsability, Impartiality, Reliability, Security, Privacy, devono diventare patrimonio di tutti e non solo degli esperti dell’etica dell’Intelligenza Artificiale (V. Paglia in RaiNews, 2020).

Aspetti fondanti, questi, di fronte a pratiche sempre più pervasive della IA, tra cui il tanto dibattuto riconoscimento facciale – ormai diffusamente applicato, anche in paesi con governi non autoritari.

La UE già possiede normative adeguate sulla privacy: il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr – Regolamento UE 2016/679) ha consentito di mettere la protezione dei dati al centro del dibattito anche per l’IA (art. 22). Preoccupazione e indicazioni inerenti aspetti etici sono emerse nel giugno 2019 pure da un rapporto del Gruppo di alto livello della Commissione europea sulla IA: l’UE dovrebbe regolamentare pratiche invasive quali identificazione biometrica (come il riconoscimento facciale), uso di sistemi autonomi di armi letali (come i robot militari), profilazione dei bambini. Poco dopo, appena insediata, la Presidente della Commissione fissò tra le sue priorità la regolamentazione della IA in Europa. Le proposte sono contenute nel Libro Bianco sull’intelligenza artificiale e una strategia europea sui dati. La Commissione punta a un approccio “umanocentrico”, secondo cui i sistemi di IA vengano utilizzati in modo da rispettare le leggi UE e i diritti fondamentali. L’identificazione biometrica in remoto e altri sistemi di IA ad alto rischio sono consentiti solo per motivi di “sostanziale interesse pubblico” e dovranno essere “trasparenti, tracciabili e garantire il controllo umano in settori sensibili come salute, polizia e trasporti”. La strategia sui dati intende creare un mercato unico dei dati in cui i dati personali e non, (inclusi quelli confidenziali e sensibili), siano sicuri e in cui imprese e pubbliche amministrazioni possano avere accesso per creare e innovare.

Siamo su un crinale, dove si interfacciano esigenze talora confliggenti: progresso scientifico e valori etici, fra cui il diritto alla privacy. Esempio sotto gli occhi di tutti è la tecnologia della IA a contrasto del Covid-19. Oggi tale esempio può rappresentare l’icona della relazione fra l’esigenza e l’emergenza di tutelare la salute collettiva e la tutela della sfera privata. Un video di Global China fa vedere un drone che invita un’anziana donna tibetana a indossare la mascherina per proteggersi dal coronavirus (Marino, 2020). L’utilizzo di tale drone pregiudica la privacy, attraverso il riconoscimento facciale, il tracciamento, la georeferenziazione, la profilazione. Da qui il trade-off, poiché gli algoritmi – nel profilare i soggetti colpiti –  permettono di individuare i soggetti che avranno una maggiore probabilità di essere prossime vittime dell’epidemia, mettendo in grado i sanitari di intervenire preventivamente e comprendere i comportamenti del virus per combatterlo più efficacemente.

Una predittività salvifica per la quale val la pena cedere pezzi di privacy.

Questa è la prima pandemia con cui la IA si confronta. E’ un caso pilota. Si tratta di segnare il confine tra tutela sociale contro rischi sistemici e tutela individuale alla privacy. Il Libro Bianco ne fornisce una chiave di lettura per l’Europa.

 

Le distorsioni cognitive nei child abusers

Come si possono spiegare la condotta criminosa di un pedofilo, la conservazione dell’immagine di sé da parte dell’autore di violenze sessuali su bambini, la minimizzazione della responsabilità penale e delle conseguenze per la vittima? 

 

Recentemente ci siamo imbattute in un video di un’inchiesta svolta da Fanpage relativa ai casi di abuso su minori sordomuti avvenuti all’Istituto Provolo di Verona.

Guardando il video ciò che più ci ha stupito non è stata tanto la denuncia delle vittime circa le atrocità subite, bensì la tendenza che gli abusatori mostravano nel minimizzare e giustificare l’accaduto. L’abusatore durante l’intera intervista non ha mai parlato di abusi, ma si riferiva ad essi come “scherzi di mano” perché “maschio con maschio è uno scherzo, un vizio, mentre con una donna è più grave”, inoltre era normale perché “a quel tempo (inizio anni ‘60) lo facevano tutti”. Un’altra cosa che ci ha stupito è la tendenza a screditare e colpevolizzare le stesse vittime, infatti l’intervistato ci tiene a sottolineare che “i sordomuti sono tutti corrotti e l’unico scherzo che ho fatto è stato con un ragazzo che veniva nella mia camera e mi mostrava di sua iniziativa il suo membro… è stato lui!”.

Queste affermazioni a prima vista insensate per la maggior parte delle persone possono essere comprese se lette alla luce di un modello che spieghi i processi cognitivi che intervengono nella razionalizzazione di un comportamento. In letteratura sono molti gli studiosi che si sono interrogati sul meccanismo che interviene nella giustificazione e minimizzazione degli abusi sessuali e la maggioranza concorda nell’affermare che le distorsioni cognitive hanno un ruolo fondamentale nella razionalizzazione dell’abuso (Pomilla, 2018).

I primi ad utilizzare il termine distorsioni cognitive in reati di natura sessuale furono Abel e coll. (1984; 1989) i quali utilizzarono il termine “cognitive” per riferirsi ai processi interni, comprese le giustificazioni, le percezioni e i giudizi utilizzati dal molestatore sessuale per razionalizzare il suo comportamento di molestia nei confronti di minori (Abel, Gore, Holland, Camp, Becker, Rathner, 1989). Gli autori riferendosi alla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura spiegano come in alcuni casi il “normale” percorso di sviluppo venga disatteso facendo sì che i soggetti mantengano, da adulti, ideali e pratiche sessuali inappropriate che solitamente si estinguono. Per Abel e coll. (1984; 1989) la distorsione cognitiva permette di affrontare la discrepanza tra i propri comportamenti sessuali inappropriati e le norme socialmente condivise sviluppando un insieme di credenze pro-offesa sessuale che riducano la discrepanza rendendo accettabili le loro azioni e i loro pensieri.

In un loro studio Abel, Becker e Cunningham-Rathner (1984) e Navathe Ward & Gannon (2008) hanno indicato le seguenti distorsioni cognitive:

  • la mancanza di resistenza fisica equivale al consenso;
  • gli adulti devono educare i bambini, (anche) attraverso contatti sessuali con loro;
  • i bambini non rivelano/denunciano i coinvolgimenti sessuali perché segretamente ne godono;
  • le generazioni future arriveranno ad accettare la validità dei rapporti sessuali adulto-bambino;
  • i toccamenti sessuali non sono dannosi per il bambino;
  • i bambini sono naturalmente curiosi delle attività sessuali;
  • le relazioni adulto-bambino sono valorizzate (anche) dalla sessualità.

Nonostante ad Abel e colleghi venga riconosciuto il merito di aver proposto un modello teorico che spiegasse tali comportamenti altri autori hanno mosso critiche circa i meccanismi responsabili dello sviluppo delle distorsioni cognitive.

A tal proposito Ward (2000) ha concettualizzato il modello delle teorie implicite, che permettono di comprendere i processi cognitivi attraverso cui i molestatori leggono e interpretano le informazioni del loro mondo sociale. Purtroppo il tema delle loro interpretazioni è essenzialmente orientato all’essere offensivo e poiché le teorie implicite si basano su esperienze soggettive e non hanno basi empiriche, sono relativamente radicate e resistenti al cambiamento (Ward e Keenan, 1999).

Ward e Keenan (1999) hanno revisionato una serie di studi da cui sono emerse cinque principali teorie implicite che si possono riscontrare nei child abuser:

  1. Child as a sexual being (bambini come esseri sessuali): ovvero la credenza che i bambini amano e ricercano le relazioni sessuali con gli adulti e non vengono danneggiati da questo tipo di contatto sessuale;
  2. Entitlement (diritto): secondo cui l’abusatore si sente superiore e più importante degli altri, di conseguenza si sente in diritto di fare sesso con chi vuole, quando vuole;
  3. Dangerous world (mondo pericoloso): per cui il sex offender crede che il mondo sia un posto pericoloso e ostile, le persone adulte sono essenzialmente inaffidabili, al contrario dei bambini;
  4. Uncontrollability (incontrollabilità): ovvero la credenza che il mondo, comprese le emozioni, i pensieri e gli eventi, sia incontrollabile e che quindi il comportamento accada al di fuori del controllo del soggetto;
  5. Nature of harm (natura del danno): si basa sulla credenza che il danno sia inserito all’interno di un continuum di gravità e che quindi l’attività sessuale sia innocua e non causi dolore, neanche ad un bambino.

Marziano e colleghi (2006) hanno effettuato uno studio per indentificare queste cinque teorie implicite in un campione composto da 22 maschi adulti, condannati per reati sessuali contro i bambini. I soggetti sono stati sottoposti ad un’intervista, nella prima parte venivano chieste informazioni demografiche, mentre nella seconda veniva effettuata un’intervista semi-strutturata. Ai soggetti venivano poste domande aperte relative al reato commesso e alle loro condizioni di vita prima di esso. A queste venivano poi aggiunte delle domande ricavate dai temi principali emersi nelle cinque teorie implicite, nello specifico veniva chiesto loro le credenze riguardo alla conoscenza sessuale della vittima; come hanno percepito la relazione di abuso; la loro percezione delle relazioni adulte; la loro percezione del danno commesso; e il livello di controllo che hanno esercitato durante il loro reato. Le domande sono state riferite a tre punti temporali specifici, la fase pre-reato, il momento del reato e la fase post-reato. Successivamente le risposte e le affermazioni emerse durante l’intervista sono state codificate in “unità di significato”, ovvero un’idea in grado di resistere da sola in grado di comunicare un significato nel contesto dello studio. Infine, ogni singola unità di significato è stata attribuita alla categoria della teoria implicita corrispondente.

Dai risultati di questo studio emerge che le distorsioni cognitive evidenziate all’interno del campione possono essere categorizzate all’interno delle cinque teorie implicite descritte da Ward e Keenan (1999). La categoria maggiormente legata alle distorsioni cognitive presentate dai soggetti è quella dei “bambini come esseri sessuali”. Nello specifico questa teoria implicita è più frequente negli abusatori di bambini maschi, questo potrebbe riflettere un framework di credenze e desideri che vede i bambini in grado di godere e desiderare il sesso con gli adulti.

Successivamente al modello delle teorie implicite sono stati aggiunti i concetti di credenze e valori per spiegare le condizioni che conducono il soggetto a commettere la violenza e a trovare un significato e delle giustificazioni all’azione commessa. Quindi credenze, valori ed azioni sono interconnesse tra loro e riflettono il contesto culturale, sociale e personale dell’individuo.

Howitt e Sheldon (2007) propongono una sintesi dei modelli esposti in precedenza, facendo riferimento ai concetti di distorsioni cognitive, credenze e valori connesse al reato e alla fase che precede e segue quest’ultimo. Ne risulta la seguente classificazione:

  • distorsioni cognitive quali set di credenze utilizzate per superare le inibizioni e gestire il senso di colpa: riferendosi alle distorsioni cognitive introdotte (Abel e coll.), fanno parte di questa categoria le distorsioni che portano all’azione e rappresentano una forma di negazione verso se stessi del possibile danno;
  • distorsioni cognitive quali set di razionalizzazioni utilizzate per creare scuse o giustificazioni quando gli aggressori vengono interrogati per rispondere delle proprie azioni (da agenti di polizia, psicologi, etc.): questo tipo di distorsioni invece vengono utilizzate dall’aggressore dopo il reato per giustificare a terzi la propria condotta;
  • distorsioni cognitive rivolte non alla rappresentazione degli altri e/o della propria condotta, bensì alle proprie esperienze di vita: in questa categoria rientrano le esperienze di vita, spesso avverse, che condizionano lo sviluppo del soggetto.

All’interno di questo articolo abbiamo visto come vi sono una serie di distorsioni cognitive che caratterizzano la pedofilia e che permettono di spiegare la condotta criminosa, la conservazione dell’immagine di sé da parte dell’autore, la minimizzazione della responsabilità penale e delle conseguenze per la vittima (Abel et al., 1984; Abel et al., 1989; Ward, Hudson et al., 1997). Comprendere i meccanismi utilizzati per superare le inibizioni o gestire il senso di colpa è un passo fondamentale all’interno del trattamento di questi soggetti, in quanto permette di lavorare sui processi che potrebbero portare a recidiva, date le rilevanti conseguenze psicologiche che queste condotte hanno sulle vittime.

 

ProAna e ProMia: siti nemici

Gli ormai diffusi siti ProAna (Pro Anoressia) e ProMia (Pro Bulimia) rappresentano una grave minaccia per la salute di tutte le persone con Disturbo del comportamento alimentare.

 

I DCA sono patologie caratterizzate da abitudini alimentari alterate associate ad una costante preoccupazione per il peso e la forma del corpo. I siti ProAna e ProMia rappresentano una sorta di decalogo da perseguire al fine di alimentare le preoccupazioni circa il peso e la forma del corpo suggerendo strategie atte al mantenimento della patologia stessa.

Il DSM-5 (2013) ha proposto una nuova classificazione dei Disturbi del comportamento alimentare. Troviamo 6 categorie diagnostiche principali più 2 residue:

Le due categorie diagnostiche residue raccolgono i disturbi sottosoglia o categorie di disturbi i quali presentano un rapporto problematico con il cibo:

  • Altro disturbo dell’alimentazione o della nutrizione specifico;
  • Disturbo dell’alimentazione e della nutrizione non specificato.

In questo articolo prederemo i considerazione due dei disturbi maggiori, l‘Anoressia e la Bulimia Nervosa, strettamente connessi all’insorgenza primordiale dei siti ProAna e ProMia.

Nell’anoressia nervosa (AN) si assiste a:

  • Restrizione alimentare che induce ad un basso peso in relazione all’età e al sesso;
  • Paura di ingrassare;
  • Inappropriata influenza del peso e delle forme del corpo sull’autostima e sulla capacità di valutare l’entità della perdita di peso.

Nella bulimia nervosa (BN) si verificano:

  • Abbuffate;
  • Condotte di eliminazione;
  • Preoccupazione per il peso e le forme del corpo.

In base al modello psicologico di Brunch (Brunch,1978) il grave disturbo dell’immagine corporea, l’incapacità di interpretare in maniera appropriata la fame e il profondo senso di inadeguatezza rappresenta il nucleo disfunzionale primario di questi disturbi.

Per il modello cognitivo, la preoccupazione per il peso, l’evitamento “fobico” della grassezza associata ad una eccessiva valutazione del sé basata solo sul proprio peso e le proprie forme corporee, rappresentano le componenti cognitive che caratterizzano il disturbo (Fairburn, 2002).

Per la teoria della personalità predisponente, i tratti di personalità quali la bassa autostima, il perfezionismo e il disagio interpersonale sono presenti in modo più frequente nei soggetti con DCA piuttosto che nella popolazione normale (Garner, Olmsted, Polivy e Garfinkel, 1984). Albina Perri in un testo intitolato Magre da morire (2008 – Aliberti editore) parla di circa trecentomila siti nel mondo che celebrano il corpo e la sua magrezza: spazi virtuali dove ragazze e ragazzi si incontrano per dare e ricevere suggerimenti circa metodi per perdere peso e trucchi per non sentire la fame (bevi molta acqua!, mastica e poi sputa!), modi per poter vomitare subito dopo i pasti (infilati lo spazzolino da denti in gola!), metodi per nascondere il cibo (metti tutto in un tovagliolo o nella manica del maglione!), tabelle con le calorie degli alimenti, condivisione di fotografie di corpi emaciati, con eccessiva magrezza.

Spesso viene chiesto alla persona iscritta ai blog di pubblicare con costanza foto che attestano la perdita di peso, obiettivo che viene, di volta in volta, incitato e incoraggiato dagli altri iscritti al blog.

Si è arrivati addirittura a stilare una serie di comandamenti della magrezza da seguire. Wykes e Gunter nel 2005 in un testo intitolato The Media and the body Image riportano i seguenti comandamenti:

  • Se non sei magra non sei bella;
  • Essere magri è molto più importante che stare bene di salute;
  • Per essere magra puoi comprare vestiti, tagliare i capelli, prendere lassativi, digiunare e fare qualsiasi cosa;
  • Potrai mangiare ma poi ti devi sentire in colpa;
  • Potrai mangiare cibi grassi ma poi ti devi punire;
  • Dovrai contare le calorie e limitare le calorie in maniera minuziosa;
  • Perdere peso è positivo, aumentare è negativo;
  • Non sarai mai troppo magra;
  • Essere magri e digiunare è sintomo di forza e trionfo.

Ciò che rende davvero pericolosi questi blog, community, etc, è l’aspetto empatico: ragazze/i con DCA che si sentono compresi dagli iscritti e ciò non fa altro che rinforzarne il legame e la fiducia considerando, invece, come “nemici” tutti coloro che cercano di allontanare la persona con DCA dalle pratiche alimentari disfunzionali per la loro salute.

 

 

Per i 50 anni di “La scoperta dell’inconscio” di Henri Ellenberger

Nel 1970 usciva il più importante libro mai pubblicato nel campo della storia della psicologia dinamica, ovvero La scoperta dell’inconscio. Il suo autore, Henri Ellenberger, acquisì con la pubblicazione un’immediata e meritata fama, per un lavoro che era il frutto di anni e anni di ricerche su materiale che non solo era inedito ma spesso era emerso da vere e proprie cacce al tesoro.

 

Il testo era suddiviso in una parte storica generale (i primi cinque capitoli e gli ultimi due) e in quattro ampie sezioni che costituiscono altrettante monografie tematiche sulle figure di Pierre Janet, Sigmund Freud, Alfred Adler e Carl Gustav Jung, articolate sia sul piano biografico che su quello teorico e documentate sia sui precedenti intellettuali che sulle successive influenze dei quattro padri fondatori della psicologia del profondo. Se tuttora ben pochi lavori su Freud e Jung possono essere considerati testi introduttivi di pari livello, non è azzardato affermare che non esistano a tutt’oggi né un libro su Janet, né un libro su Adler che siano minimamente avvicinabili per documentazione e completezza ai contributi di Ellenberger. Si noti peraltro che nessuno aveva mai redatto una biografia intellettuale di Janet prima di lui e tanto più il lavoro di Ellenberger appare quasi miracoloso nella sua documentazione. Per quanto Hacking (1996) abbia notato che La scoperta dell’inconscio fosse forse troppo attenta agli esordi di Janet rispetto agli scritti più tardi, è anche vero che sono stati i suoi primi interventi a donargli una notorietà internazionale. Nei suoi ultimi anni, invece, la “medicina psicologica” di Janet era stata in sostanza dimenticata, a favore della psicoanalisi.

Quello di Ellenberger non costituì un puro e semplice lavoro di scavo e ricostruzione storica ma anche una radicale reinterpretazione: la stessa immagine della psicologia del profondo ne è risultata cambiata in modo definitivo. Forse non è esagerato dire che la stessa storia della storiografia psicologica si può dividere in un “prima” e un “dopo” Ellenberger.

Una simile premessa potrebbe lasciare sconcertati i lettori, soprattutto i giovani psicologi, che non si sono formati, probabilmente, su quest’opera e non ne conoscono i meriti, che a 50 anni di distanza possono essere meno ovvi a chi la prenda in mano per la prima volta. Proviamo a tornare indietro nel tempo e a cercare di rievocare l’atmosfera culturale dell’epoca. Nello stesso anno in cui uscivano Let It Be dei Beatles e Bitches Brew di Miles Davis, mentre la guerra del Vietnam aveva raggiunto l’apice dell’escalation militare, il mondo della psicoterapia era ancora dominato in gran parte dalla psicoanalisi freudiana – Aaron Beck quasi si autodefiniva ancora uno psicoanalista. Freud era considerato un eroe senza macchia e senza paura che aveva scoperto l’inconscio da solo e aveva difeso la Verità nonostante i molteplici tradimenti di suoi infidi ex-allievi; nonostante l’incapacità (o meglio le resistenze) del mondo, di comprendere la portata rivoluzionaria della dottrina psicoanalitica. Questa almeno era l’immagine che Freud (1914, 1924) aveva propagandato di sé stesso e quella che emergeva dalla lettura della biografia agiografica scritta dal fido Ernest Jones (1953). Nessuno l’aveva di fatto messa in discussione: le storie della psichiatria più conosciute (Alexander, Selesnick, 1966; Zilboorg, Henry, 1941) vedevano in Freud il culmine insuperato e pressoché insuperabile degli sforzi umani in questo campo.

Ellenberger fu il primo a mettere in discussione molti aspetti della leggenda freudiana. In primo luogo, anche sulle tracce di Whyte (1960) chiarì che la “scoperta dell’inconscio” non era certo il frutto del genio (pur notevole) di un solo uomo e che la psicoanalisi non era nata da un giorno all’altro come Minerva secondo il mito era uscita già adulta e armata dalla testa di Giove. Tutta la prima metà del libro è dedicata a ricostruire la preistoria della psicoterapia dinamica, andando a scovarne le origini fin nell’antichità. Le idee paradigmatiche che fungevano da lanterne per illuminare il passato erano quelle di transfert e di suggestione. Ellenberger partiva dal corretto presupposto che la prima tecnica psicoterapeutica freudiana si basava sul rapporto speciale che si instaura tra curatore e curato e sulla possibilità che tale rapporto sia la necessaria premessa per indurre in quest’ultimo un miglioramento della propria condizione. Se Freud era stato costretto ad ammettere (almeno nei primissimi scritti) il proprio debito verso i pionieri dell’ipnosi clinica Charcot e Bernheim, Ellenberger va a esplorare specificamente i contributi di questi ultimi, illuminando in profondità i termini della disputa tra “Scuola della Salpêtrière” e “Scuola di Nancy”, delle quali appunto Charcot e Bernheim erano i rispettivi alfieri. Il suo percorso esplorativo, tuttavia, non si ferma a questo punto, ma ricostruisce le radici dell’impiego dell’ipnosi nella storia del cosiddetto mesmerismo, risalenti a più di un secolo prima. Era stato infatti Franz Anton Mesmer, con la teoria del “magnetismo animale” a operare quella secolarizzazione o laicizzazione dell’esorcismo che era all’origine di ciò che solo in seguito sarebbe stato chiamato ipnosi. Mesmer aveva infatti ottenuto con un’attrezzatura paradossale (ma fortemente suggestiva) e sulla base di una teoria di carattere fisico (o pseudo tale) gli stessi risultati in termini di guarigioni di malattie che il prete Johan Josef Gassner otteneva sulla base di riti religiosi volti a cacciare presunti demoni. Un simile passo, dal punto di vista storiografico, consentiva di affondare ancora le radici della ricerca, individuando appunto nei rituali di esorcismo (occidentali e non solo) le origini più lontane della psicoterapia.

Soprattutto, però, Ellenberger illuminava particolari assolutamente inediti della vita di Freud. Da un lato era riuscito a consultare materiale d’archivio inedito a proposito della suoi primi anni (fu il primo, per esempio, a utilizzare le giovanili lettere a Silberstein); dall’altro aveva modo di provare come diversi particolari della narrazione avallata da Jones erano artefatti. Alcuni peccati erano relativamente veniali: per esempio Freud si vantava di essere stato il primo a presentare ai colleghi medici viennesi, nel 1866, un caso di isteria maschile e di essere stato attaccato per la novità assoluta del suo contributo. Di fatto le cose andarono in senso opposto: proprio perché non si trattava di una novità, il suo intervento venne accolto freddamente: come pretendeva di presentare come inedito qualcosa che ormai tutti conoscevano? Altri elementi di autocelebrazione erano assai meno innocenti: Freud e Jones presentavano come veri e propri tradimenti da parte di indegni allievi le vicende legate alle rotture con Jung e Adler prima e con Rank e Ferenczi poi. Di fatto, al contrario, Freud fu almeno altrettanto responsabile quanto Adler della sua uscita dal movimento psicoanalitico, dato che lo accompagnò, per così dire, alla porta, non tollerando il dissenso sulla questione della libido, e manifestò grande soddisfazione per le sue dimissioni dalla società psicoanalitica. Lo stesso si può dire di Jung, in un primo momento considerato un possibile “principe ereditario” e poi attaccato con violenza (Freud, 1914) non appena osò mettere in discussione in pubblico l’idea che la libido avesse un carattere soltanto sessuale (Jung, 1912); e soprattutto avanzare l’idea che la teoria freudiana e quella adleriana potessero avere altrettanti elementi di legittimità (Jung, 1913). Rank, in seguito, ricevette una vera e propria scomunica per aver sostenuto una teoria (quella del “trauma della nascita”) che in un primo tempo Freud era incline ad accettare. Ferenczi venne anch’egli marginalizzato per idee originali in materia di psicoterapia. Si tratta peraltro di idee che di fatto anticipano la psicoanalisi relazionale, che oggi sembra la forma di psicoterapia dinamica più vivace dal punto di vista degli sviluppi teorico-clinici.

Va detto che, se Ellenberger e poi Sulloway (1979) avevano offerto di Freud un’immagine meno eroica e immacolata di prima ma certamente assai equilibrata, negli anni novanta del Novecento la revisione dell’immagine storica del padre della psicoanalisi aveva assunto contorni diversi e per certi versi quasi grotteschi. Autori come Crews (1995, 1998) Fuller-Torrey (1992), Macmillan (1991) e altri diedero origine a quello che è stato chiamato il Freud bashing, cioè una sorta di moda a chi attribuiva a Freud le peggiori nefandezze, si trattasse di aver creato la psicoanalisi sotto l’influsso della cocaina o aver corrotto i giovani americani con una teoria dannosa per il fisico e la psiche. Non è però Ellenberger a essere direttamente colpevole di tali eccessi, malgrado la circostanza che lo ha visto anche additato tra i “nemici di Freud”. Al contrario, parafrasando un detto latino, per Ellenberger “amicus Freud sed magis amica veritas”: se Freud è da considerare un “amico”, ancora più “amica” è la verità storica. Se Freud rimane la figura centrale nello sviluppo della psicologia dinamica, il ruolo di Adler, Jung e Janet doveva essere rivalutato. E in effetti, se per Jung è stato possibile riconoscere quanto la sua prospettiva fosse per molti aspetti assai più vicina di quella freudiana a quella della psicoanalisi odierna (Samuels, 1985), se Adler è stato riconosciuto come un anticipatore della psicoterapia cognitiva (cfr. Foschi, Innamorati, 2020), oggi sembra giunto il momento di rivalutare finalmente anche Janet, l’unico oggetto di attenzione di Ellenberger a lungo trascurato da storici e clinici (Craparo, Ortu, van der Hart, 2019).

La cura alla angoscia Covid-19: un percorso possibile?

Massimo Recalcati, in un intervento come sempre stimolante, rivolto al programma Atlantide, spiega bene come sia strutturata dentro ognuno di noi quella che potremmo definire una forma nuova di angoscia, l’angoscia Covid-19.

 

Perché una nuova forma di angoscia? Non tanto per i contenuti che porta (malattia, morte) quanto per la difficile possibilità riparativa, dettata dal difficile movimento oscillatorio tra stati psichici interni. Cerchiamo di capire con parole più semplici.

Recalcati cita un’importante teoria di Melanie Klein, che si rifà al concetto di posizioni psichiche evolutive:

Concettualizzando l’angoscia in relazione al dolore mentale ed ai fenomeni legati alla teorizzazione delle “posizioni”, l’autrice distingue l’angoscia persecutoria dall’angoscia depressiva. Il significato dell’angoscia per il soggetto può essere legato prevalentemente a vissuti di minaccia per l’Io (angoscia persecutoria o paranoide) o a vissuti di perdita e minaccia per l’oggetto d’amore (angosce depressive); queste ultime  sono, in un certo senso, comparabili all’angoscia di separazione di Freud, ma la Klein va oltre introducendo i sentimenti di colpa per gli impulsi distruttivi diretti all’oggetto e il desiderio di riparazione che ne deriva. (Giustino, 2013)

La Klein definisce dunque due posizioni: quella schizoparanoidea e quella depressiva, alle quali fanno riferimento due tipi di angoscia appunto “persecutoria” e “depressiva”. Che cos’è l’angoscia?

L’angoscia si distingue dalla paura (ansia) per il fatto di essere meno specifica o legata ad un oggetto che la genera. Può derivare da un conflitto interiore e non è una paura immediatamente individuabile. E’ un terrore senza nome che deriva dall’immaginazione catastrofica dell’individuo. (Giustino, 2013).

Recalcati dice che oggi siamo tutti in gabbia perché in preda a queste due forme di angoscia. La prima viene rappresentata fondamentalmente dalle paure persecutorie, determinate in questo momento da diversi oggetti del mondo esterno ed interno. Nel mondo esterno la materializzazione di questa persecuzione sta nel carabiniere, prima figura protettiva e che oggi ti multa se vai a passeggio, nella trasmissibilità del virus ad opera di persone a cui siamo legati affettivamente o obbligatoriamente come colleghi o amici, nella contaminazione di oggetti “sani” o essenziali che ci servono per sopravvivere come cibo o beni di consumo; ovvero vi è una identificazione del pericolo al di fuori di noi, in ciò che è noto ed era, prima del Covid-19, affidabile e protettivo. Questo meccanismo, supportato anche da oggettive dimensioni restrittive sancite dai decreti ministeriali, porta il soggetto a sentirsi indifeso di fronte a ciò che prima lo faceva sentire protetto e al sicuro, questo determina un senso di persecuzione.

Ma vi è una seconda forma, più potente, di angoscia persecutoria, quella interna: la dimensione più allarmante di angoscia persecutoria internalizzata è palesata nell’immaginario catastrofico di ammalarsi, di diventare “untore”, portatore di un virus la cui evoluzione risulta confusa. La paranoia di portare il virus nel proprio corpo non consente di proiettare all’esterno l’oggetto persecutorio e terrorizza in modo annichilente l’individuo, il quale verrà anche isolato e allontanato dal gruppo sociale. La reazione diretta a queste angosce persecutorie è il passaggio in una posizione difensiva detta depressiva, materializzata nella chiusura nel mondo domestico (voluta o subita come obbligo morale e legale). L’entrare in questo secondo contesto non riduce l’angoscia, semplicemente cambia il rapporto con l’oggetto angoscioso e alimenta un secondo tipo di angoscia detta depressiva; questa è legata al senso di perdita o rottura dell’oggetto di amore (la vita, gli hobby, gli amici, il lavoro, il corpo) sentiti ora come fonti di rischio. Si può alimentare l’assenza di una visione di futuro e di continuità identitaria.

Quello che non dice Recalcati è che in realtà in Klein il secondo tipo di posizione, quella depressiva, porta in sé anche un passaggio evolutivo.

Il termine «posizione», utilizzato dalla Klein, indica per l’appunto che la conquista dei sentimenti e della consapevolezza depressiva non è stabile ma soggetta a frequenti ritorni alla posizione schizoparanoide, sotto la spinta di angosce non altrimenti tollerabili. Sono proprio le fantasie e le attività riparative che risolvono le angosce della posizione depressiva (Segal 1964), in quanto la riparazione fantasmatica dell’oggetto materno esterno e interno consente all’Io del bambino un’identificazione stabile con l’oggetto buono riparato. (Battaglia, 2017)

Per la Klein l’angoscia depressiva produce un movimento di smacco dall’angoscia stessa, un desiderio di uscita e di riparazione, dunque una evoluzione dell’Io. La riparazione è dunque il nodo di questo processo di cura:

Il concetto di riparazione è, nella teorizzazione kleiniana, un processo che riguarda il mondo interno del soggetto ed è in genere rivolta ad oggetti del mondo esterno, che rappresentano (simboleggiano) l’oggetto danneggiato. Si realizza tramite una azione, reale o in fantasia, che tende a produrre un cambiamento sia nel soggetto  che nell’oggetto. (Battaglia, 2017)

La riparazione nasce dal senso di ambivalenza che è vissuto nella posizione depressiva, in cui da una parte aggrediamo l’oggetto d’amore e lo perdiamo e dall’altra desideriamo recuperarlo per paura di averlo distrutto. Quanti oggi pensano con nostalgia al lavoro, mentre nel momento in cui lo avevano si lamentavano? Quanti oggi pensano con malinconia alle passeggiate, quando magari si affaticavano all’idea di farle prima del Covid? Quanti oggi pensano con desiderio a tornare alle uscite con amici e parenti, quando nel momento in cui potevano non si rendevano conto del loro valore? Sostanzialmente questa situazione sta portando tutti noi a riparare le visioni depressive delle nostre dimensioni esistenziali. E come si ripara la posizione depressiva? Anche qui è molto interessante quello che ci dice Battaglia: identifica due stili di riparazione che possono descrivere anche i modi in cui ci stiamo muovendo per gestire questa forzata quarantena.

  • Stile ossessivo: “consiste nella ripetizione coatta di azioni che mirano, tramite l’annullamento, a placare l’angoscia in modo magico, senza nessun reale elemento di creatività” (Battaglia, 2017). Mi viene in mente a quante modalità stereotipate si stiano mettendo in atto quotidianamente per gestire il surplus di tempo libero che si ha in casa: esercizio fisico, lettura di libri, serie tv, cucinare dolci, pulire etc. Lo stile ossessivo ha una valenza sana solo se integrato ad elementi di creatività, poiché la mera spinta ossessiva è difensiva contro le dimensioni di aggressività costituzionale e di distruttività verso l’oggetto. Sostanzialmente usiamo modalità coatte e ripetute per lenire la rabbia verso il blocco depressivo, ma se mettiamo in queste stesse un margine di creatività esse possono accrescere l’Io e portare ad una reale riparazione dell’oggetto distrutto.
  • Stile maniacale: “ha lo scopo illusorio  di  ripristinare un oggetto integro , “come era prima”, che non porti quindi in sé i segni dell’attacco e della riparazione” (Battaglia, 2017). Questo stile è ancora più pericoloso perché denega la posizione depressiva, sostanzialmente denega il dolore. La posizione maniacale prevede tre rapporti con gli oggetti: dominio, trionfo, disprezzo. “Il dominio è un modo illusorio di negare la dipendenza e contemporaneamente assicurarsela, tramite un controllo onnipotente dell’oggetto; quindi ha anche a che fare con la manipolazione. Il trionfo è un diniego dei sentimenti depressivi ed è anch’esso in relazione all’onnipotenza. Se l’attacco all’oggetto primario era connotato da una forte invidia, il senso di trionfo onnipotente  sperimentato nello sconfiggere l’oggetto allontana, momentaneamente, la nostalgia per la sua mancanza, mentre ne  viene negata l’importanza. Anche il disprezzo nega il valore dell’oggetto che così, impoverito e svalutato, non è degno di suscitare sentimenti di colpa.” (ibidem.) Mi viene in mente, pensando a qualsiasi delle tre relazioni con l’oggetto, a quelle persone che in questi giorni sostengono di stare meglio di prima, o che ironizzano continuamente sulla situazione o che si trincerano in posizioni di negazione totale della gravità della situazione, o che continuano a lavorare come nulla fosse chiedendo ai dipendenti di mantenere la qualità precedente. Queste sono difese contro il dolore, ma sono anche difese che possono essere superate e consentire di accedere alla dimensione depressiva di perdita e dunque di riconoscimento di amore verso l’oggetto perduto.

Dunque come superare questo momento? Possiamo trarre delle ipotesi partendo dalla teoria kleiniana: in primo luogo prendendo consapevolezza del dolore che ci arreca l’aver perso l’oggetto d’amore (metafora delle cose che amiamo) prendendo anche dolorosa coscienza di come spesso siamo stati noi stessi a svilirle e aggredirle prima dell’emergenza Covid. Il fatto che ora ci manchino può consentire di cogliere il loro valore, dunque di accettare la malinconia per la loro assenza e di mettere in campo posizioni riparative.

Veniamo a quelle che sono le posizioni riparative. Il segreto è nella possibilità di usare la creatività. In questo momento l’ambiente non sostiene le dimensioni riparative, non fa holding direbbe Winnicott, e dunque sembra non consentire la riparazione. Possiamo però accedere a forme di creatività personale, anche appoggiandoci parzialmente a dimensioni difensive di tipo ossessivo o maniacale. Possiamo per esempio riparare il rapporto con il nostro corpo, prendendoci più cura di questo e aumentando la consapevolezza di ogni sua singola parte; possiamo riparare il legame che abbiamo con gli oggetti di casa, notando ad esempio un loro disuso, accumulo, o mancanza e cercando di ridare ordine agli stessi; possiamo riparare alla assenza di relazioni fisiche, con forme di relazione a distanza; possiamo consentirci di giocare con le cose, creare, ad esempio coltivare un terrazzo, sperimentarci in cucina o provare ad avvicinarci a una qualche forma di arte; possiamo accedere a una dimensione personale spirituale. Possiamo provare a sperimentarci laddove pensavamo di non avere possibilità riparativa con gli oggetti, dunque sentiti inconsciamente perduti o rotti, ed entrare in rapporto profondo con loro accettandone la caducità. E’ necessario “presentificare” la relazione riparativa: stare nel rapporto che ho oggi con le cose non nega il senso storico del passato o la spinta motivazionale al futuro, ma consente di percepire quel legame riparativo godendone nel momento presente.

In ultimo dobbiamo inevitabilmente fare i conti con la noia. Su questo tema hanno scritto molti psicoanalisti, i quali hanno spesso descritto la faticosa relazione uomo-noia. Correale (2006) sostiene che la noia sia uno stato psichico importante, difficile da vivere e spesso confuso con il vuoto; la noia non è infatti vuoto, che necessita un riempirsi e svuotarsi in modo maniacale allo scopo di evitare e anticipare la frustrazione che l’oggetto porta con sé. Bensì è uno stato che consente di produrre creativamente, è uno stato importante per lo sviluppo psichico, e potremmo dire, in termini kleiniani, ci consente di entrare in contatto con una dimensione depressiva e spinge alla riparazione.

 

COVID-19: cosa può succedere ai pazienti con grave sintomatologia?

Le persone con organizzazione psicotica della personalità hanno una modalità di pensare tendenzialmente sconnessa, irreale e distaccata e vivono in un mondo nel quale spesso cercano di ridurre al massimo i rapporti con l’altro. Quali effetti avrà avuto la condizione di isolamento per il Covid-19 su questi pazienti?

 

Nel presente articolo vi è l’intenzione di porre attenzione a una particolare fetta di pazienti che presentano uno specifico quadro psicopatologico: si fa riferimento alle persone con organizzazione psicotica della personalità e che, quindi, almeno una volta hanno presentato una profonda alterazione della personalità e un distacco della realtà. Il loro modo di pensare tende a essere sconnesso, irreale e distaccato: queste persone vivono in un mondo “proprio”, costruito su misura per se stessi, nel quale spesso cercano di ridurre al massimo i rapporti con l’Altro (PDM, 2006).

È possibile quindi, per alcuni, dedurre che una situazione come quella che l’esigenza sanitaria ci costringe a vivere, ossia di quasi totale isolamento, possa inficiare solo in parte queste persone; tuttavia, seppur la quarantena imposta dal Governo per limitare il contagio da COVID-19 riduca i rapporti sociali, la condizione attuale facilmente può sollecitare vissuti di onnipotenza o di persecuzione, basti pensare alle teorie complottiste ipotizzate da un notevole mole di persone, prive di alcuna diagnosi psichiatrica. In particolare, però, le persone con organizzazione psicotica di personalità hanno una maggiore probabilità di esperire tali vissuti, essendo spesso queste idee alla base della loro struttura di personalità.

Nozioni di base sull’organizzazione psicotica di personalità

Il quadro psicopatologico precedentemente descritto ha cause sia biologiche sia ambientali, ossia dipende da un disturbo del funzionamento cerebrale che rende più sensibili a situazioni di stress, che a loro volta influenzano lo stesso funzionamento, innescando così un ciclo vizioso.

Più precisamente, nel cervello vi sono delle particolari sostanze chimiche, chiamate neurotrasmettitori, che – in persone con organizzazione psicotica di personalità – sembrano funzionare in maniera alterata e determinare allucinazioni, deliri e disturbi del pensiero, i quali sembrano aggravarsi in condizione di stress (Habets P. et Al., 2012; Jones SR., Fernyhough C. 2007).

Inoltre, evidenze scientifiche dimostrano come la presenza di un quadro sintomatologico persistente nel tempo e ricadute peggiorino la prognosi della diagnosi e, a lungo termine, la qualità di vita del paziente (Huber, G., Gross, G., & Schuttler, R.,1975; Watt, D.C., Katz, K., Schepherd, M.,1983).

Ma cosa succede a questi pazienti con le restrizioni e le indicazioni del Governo?

Così come è noto, è stato chiesto di ridurre ai professionisti sanitari i contatti interpersonali e quindi, consigliato di ridurre, laddove fosse stato possibile, anche le visite psicologiche e psichiatriche. Ma come si valuta l’urgenza per tali pazienti? Qual è la condizione per cui questi pazienti possono non vedere i propri appuntamenti annullati o significativamente ridotti?

Il dolore intrapsichico di queste persone non è costante ma è soggetto a fluttuazione e tanto più questo diventa insopportabile tanto più si presenta un quadro sintomatologico (allucinazioni, deliri, e disturbi del pensiero): spesso la gravità, e conseguentemente l’urgenza, è valutata in base alla presenza o assenza di tali sintomi.

È certo che la presenza della sintomatologia precedentemente descritta richieda un immediato intervento, ma quanto – in questo specifico caso – intervenire sull’urgenza funge da misura di protezione per il contagio da COVID – 19 per gli operatori sanitari e per i pazienti stessi? Spesso, quando queste persone vivono un senso di angoscia e annichilimento tale da presentare un aggravamento dei sintomi, è impossibile rispettare il metro di distanza e il corretto uso degli DPI, Dispositivi di Protezione Individuali, proprio per la condizione estrema vissuta dai pazienti.

Inoltre, data la natura stessa di tale organizzazione di personalità, la quale è costituzionalmente più vulnerabile allo stress, è ipotizzabile che, in questo periodo di allarme, anziché ridurre le visite psicologiche e psichiatriche, queste vadano mantenute se non incrementate prima di un peggioramento, potendo – in situazioni meno compromesse – rispettare la distanza di sicurezza e le misure protettive.

In alcuni casi, è stato consigliato ai professionisti di cambiare il setting promuovendo colloqui psicologici e psichiatri telematici; tuttavia, è possibile che i Centri di Salute Mentale, presso i quali molti pazienti con organizzazione psicotica di personalità afferiscono, per motivi organizzativi, non riescono a fornire nell’immediato le suddette prestazioni sanitarie. Inoltre, questi pazienti non sono soliti possedere un elevato livello della consapevolezza del proprio disagio e, per tale ragione, tendono a essere poco complianti alle cure prestategli, e probabilmente – in alcuni casi – anche al cambiamento del setting terapeutico.

Infine, un ultimo aspetto che merita attenzione è la totale sospensione, promossa dalle Aziende Sanitarie, delle prestazioni effettuate da psicoterapeuti e psicologi, nelle vesti di volontari o tirocinanti, la quale ha determinato una brusca interruzione dei trattamenti in corso e, probabilmente, riattualizzato un trauma nei pazienti.

 

Tradimento e resilienza individuale: quando il fardello dell’infedeltà subita risulta più facile da superare

Il tradimento è uno degli eventi della vita di coppia più difficili da affrontare ed anche uno tra i più comuni. Una stima rileva che circa il 20-25% di questi episodi avviene durante il matrimonio (Laumann et al., 1994) e che una percentuale maggiore (75% dei casi) si osserva tuttavia nel corso della frequentazione romantica (Shackelford, LeBlanc & Drassn 2000).

 

La scoperta dell’infedeltà subita è vissuta comunemente come una dolorosa trasgressione al rapporto di fiducia instaurato nella coppia e porta la persona tradita a esperire sintomi ansiosi o depressivi (Bird, Butler, & Fife, 2007), in quanto è opinione diffusa reputare il tradimento come un evento altamente nocivo alla coppia e come segnale che la relazione romantica potrebbe non avere le basi per continuare (Shackelford et al., 2000). La consapevolezza di aver perso tempo in un rapporto non autentico e la pressione sociale alla realizzazione della famiglia, potrebbero incidere sulla salute mentale di questi soggetti, che vedono crollare le certezze e i progetti costruiti fino a quel momento.

Il presente studio (Shrout & Weigel, 2020) si propone quindi di esplorare la relazione tra le valutazioni cognitive negative vissute in seguito al tradimento e i livelli di stress connessi agli esiti sulla salute mentale dell’individuo, oltre al ruolo che l’autostima gioca in questa relazione. Per valutare le variabili oggetto di indagine sono stati somministrati dei questionari online agli individui che riferivano di essere stati traditi negli ultimi 3 mesi. Il campione, costituito da 148 soggetti prevalentemente di sesso femminile, ha quindi risposto ad una serie di domande che permettevano di valutare attraverso la Relationship Attribution Measure (Fincham & Bradbury, 1992) la causalità e la responsabilità percepita del partner infedele, attraverso la Break-Up Distress Scale (Field et al., 2009) lo stress esperito da chi ha subito il tradimento, attraverso la Center for Epidemiologic Studies Depression Scale-Revised (Eaton et al., 2004) i sintomi depressivi, attraverso la Generalized Anxiety Disorder Scale (Spitzer et al., 2006) i sintomi ansiosi, e infine attraverso la Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 1965) i livelli di autostima.

I risultati ottenuti mostrano che l’attribuzione al partner della causalità e responsabilità del tradimento è collegata allo stress vissuto in conseguenza dell’evento, il quale a sua volta risulta essere in grado di esacerbare i sintomi depressivi e ansiosi. Inoltre, si è trovato che l’autostima è in grado di moderare la relazione tra le valutazioni cognitive negative, lo stress associato all’infedeltà e in ultima analisi la salute mentale della persona.

In conclusione, i dati a nostra disposizione consentono di individuare una relazione indiretta tra le valutazioni negative cognitive e i sintomi depressivi e ansiosi esperiti successivamente, oltre a evidenziare un importante ruolo ricoperto dall’autostima. E’ stato infatti dimostrato che una percezione di sé stessi positiva può essere considerata un fattore protettivo, in grado di fornire all’individuo le risorse adeguate ad affrontare e superare le conseguenze che il tradimento può avere in termini di salute mentale, permettendo quindi di aumentare la capacità di resilienza dell’individuo.

 

Terapia metacognitiva nella riabilitazione cardiaca

Un modello evidence-based potenzialmente efficace e adatto al trattamento di ansia e depressione in pazienti cardiaci è la Terapia Metacognitiva (TMC). Tale modello, appartenente agli approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, sostiene che un maladattivo stile di pensiero e di coping sia responsabile del mantenimento nel tempo di stati emotivi disfunzionali (Wells., 2008).

Mirto Anna Maria – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Numerose sono le evidenze scientifiche che sostengono il ruolo cruciale dei fattori psicologici nell’insorgenza delle patologie cardiovascolari. È stato difatti dimostrato come i classici fattori di rischio, quali genetica (es. storia familiare di patologie cardiovascolari), comportanti non salutari (es. fumo, alimentazione non adeguata, inattività fisica), condizioni socioeconomiche di svantaggio, spieghino meno del 50% della varianza nell’insorgenza di disturbi cardiovascolari (Futterman e Lemberg, 1998). La restante varianza trova spiegazione nel legame individuato tra indici di salute cardiovascolare e fattori cognitivi-emotivi (Chida e Steptoe, 2009). In particolare è stato riscontrato come gli stati emotivi negativi (depressione, rabbia, ostilità e ansia) correlino con valori elevati di frequenza cardiaca, pressione sistolica e diastolica, rappresentando pertanto fattori di rischio soprattutto per le patologie coronariche (Suls, 2018; Haas e coll., 2005). Tra le variabili psicologiche si è visto come anche la ruminazione giochi un ruolo nell’amplificare la risposta cardiovascolare da stress (Gerin e coll., 2012). Secondo l’ipotesi dei processi cognitivi perseverativi, difatti, la ruminazione, così come gli altri stili di pensiero ripetitivi, mantiene nel tempo l’attivazione del sistema nervoso simpatico (Brosschot, Gerin e Thayer , 2006). Alcune ricerche suggeriscono come tale risposta fisiologica allo stress, se prolungata, abbia un impatto negativo sul sistema cardiovascolare maggiore rispetto a quello associato ai normali picchi di attivazione simpatica di breve durata (Glynn, Christenfeld e Gerin,  2002). Pertanto la ruminazione, se permane successivamente al recupero del problema cardiaco, potrebbe rappresentare un fattore di rischio per ulteriori complicanze cardiache maggiore rispetto alla riattivazione della risposta fisiologica acuta allo stress.

Tali dati hanno contribuito all’inclusione della figura dello psicologo all’interno delle equipe multidisciplinari nei reparti di riabilitazione cardiaca.

Da una recente meta-analisi (Biondi-Zoccai e coll., 2016) si è riscontrato come tra gli interventi psicoterapici più frequentemente impiegati coi pazienti affetti da patologie cardiache vi sia la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC), la quale ha dimostrato efficacia nel trattamento della sintomatologia ansiosa e depressiva. Tuttavia, non si è riscontrato un mantenimento nei follow-up degli effetti della TCC su tale sintomatologia (Writing Committe for ENRICHED Investigators, 2003). Ciò potrebbe essere imputato alla scarsa appropriatezza della TCC, e in particolare al richiamo al dato di realtà, nel contesto clinico con pazienti che vivono una realtà di disabilità, in cui il rischio di morte improvvisa e prematura è oggettivo (Taylor-Ford, 2014). Un altro modello evidence-based potenzialmente efficace e adatto al trattamento di ansia e depressione in pazienti cardiaci è la Terapia Metacognitiva (TMC). Tale modello, appartenente agli approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, sostiene che un maladattivo stile di pensiero e di coping, caratterizzato dai processi di (1) ripetitività, (2) focus attentivo rivolto a potenziali minacce (es. sensazioni fisiche), e (3) tentativi disadattavi di controllo dei pensieri indesiderati, sia responsabile del mantenimento nel tempo di stati emotivi disfunzionali (Wells., 2008). Pertanto, la TMC interviene modificando i processi che mantengono il distress emotivo (Wells, 2012). Tale approccio è stato riscontrato essere altamente efficace nel trattamento di ansia e depressione e aver effetti che si mantengono anche nei follow-up (Normann, Van Emmerik e Morina, 2014). Uno studio recente di McPhillps e collaboratori  (2019) ha eseguito un’analisi qualitativa sul distress emotivo in pazienti cardiaci, basandosi su quanto riportato dai soggetti in un’intervista strutturata ad hoc in cui si richiedeva di descrivere nel dettaglio il distress esperito, in particolare il contenuto dei pensieri disturbanti, la natura del distress emotivo, quando esperivano tali emozioni e pensieri e come reagivano ad essi.

Dai risultati è emerso che i contenuti delle preoccupazioni erano principalmente catastrofici e riguardavano il rischio continuo per le loro vite, la scarsa fiducia verso il recupero dell’energia, i vincoli legati alla riduzione dell’energia, il continuo trattamento e cure mediche cui sono sottoposti e le sfide attuali e future, anche non correlate alla salute fisica, che li attendono. Di fronte a tali preoccupazioni, associate a sintomi depressivi e ansiosi, i pazienti riportavo stili di pensiero ripetitivi, quali ruminazione e rimuginio, messi in atto con la credenza di utilità rispetto alla comprensione del perché abbiano esperito l’evento cardiaco e a come prepararsi in futuro per prevenire eventuali recidive. Successivamente all’analisi qualitativa, i ricercatori hanno messo a confronto la concettualizzazione del distress dei pazienti secondo le prospettiva cognitivo-comportamentale e metacognitiva. In particolare gli autori sostengono che sia difficile decidere quanto un pensiero disfunzionale, legato al problema cardiaco, sia realistico o meno, tenendo conto dell’oggettiva maggiore fragilità fisica che tali pazienti presentano. Pertanto la TCC, poiché focalizzata sulla messa in discussione dei contenuti dei pensieri disfunzionali sulla base del dato di realtà, risulterebbe essere poco efficace nel trattamento del distress emotivo nel pazienti cardiaci. Di contro, la TMC, essendo focalizzata sulle modificazione dei processi cognitivi, si ipotizza essere più efficace e adeguata in questa popolazione clinica.

In conclusione, stati emotivi di distress, come ansia, depressione, rabbia, e stili di pensiero ripetitivi sono frequenti in pazienti con patologie cardiache. Le linee guide raccomandano l’importanza dell’inclusione di attività psicologiche psicoterapiche nei contesti di riabilitazione cardiovascolare, al fine di migliorare la qualità della vita dei pazienti riducendo il rischio di recidive. La TMC si mostra come approccio adeguato a tale contesto in quanto, modificando i processi cognitivi ripetitivi, ha una ricaduta positiva a livello fisiologico poiché riduce la causa cognitiva responsabile del mantenimento nel tempo dell’attivazione simpatica, pertanto ridurrebbe uno dei fattori di rischio maggiori presenti nei pazienti affetti da patologie cardiache.

 

Primo Soccorso Psicologico: linee guida nazionali e internazionali

L’importanza di fornire un’assistenza psicologica adeguata nelle situazioni di emergenza e un Primo Soccorso Psicologico è sempre più riconosciuta sia a livello nazionale che internazionale. Nel 2011 l’OMS ha predisposto alcune linee guida per indirizzare i Paesi verso un approccio efficace nella tutela dei superstiti o di chi si trova in fase di shock.

 

Il presente articolo prende in considerazione tre modelli di intervento adottati dagli operatori di Primo Soccorso Psicologico. Esso costituisce il primo passo da compiere nel continuum di cure e deve essere tenuto da personale specificatamente formato, con lo scopo principale di mitigare il distress in fase acuta.

Il Primo Soccorso Psicologico (PSP), in inglese Psychological First Aid (PFA), nasce dall’esigenza di dare una risposta immediata, strutturata e coordinata in situazioni definite emergenziali e al correlato disagio socio-psicologico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo definisce come uno strumento applicabile sia su larga scala sia su casi singoli, durante e nelle fasi immediatamente successive ad un evento stressante e potenzialmente traumatico.

Più precisamente, il PFA fa riferimento ad una modalità di approccio compassionevole e supportiva messa in atto per mitigare sintomi di stress acuto appena insorti: naturalmente si tratta solamente del primo passo da compiere nel continuum di cure che seguiranno. Con la messa in atto di tali modalità di aiuto non ci si propone di curare patologie complesse come il PTSD o il disturbo acuto da stress, o di sostituire un percorso di cura psicologico o psicoterapeutico strutturato, ma di stabilizzare e mitigare il distress al fine di favorire una migliore elaborazione futura di quanto avvenuto. Non si tratta appunto di fare terapia, ma di supportare una persona che chiede aiuto in uno dei momenti più difficili della sua vita: l’operatore che offre assistenza deve perciò avere una formazione adeguata che gli permetta di riconoscere, comprendere e agire in funzione degli stati emotivi che gli vengono espressi.

Le prime ricerche sul primo soccorso psicologico sono state sviluppate dopo la Seconda Guerra Mondiale, per far fronte alle necessità psicologiche dei veterani. Alcuni studi successivi, come quelli in seguito all’attacco terroristico alle Torri Gemelle, evidenziano come gli interventi di primo soccorso psicologico immediatamente successivi all’evento traumatico, siano stati predittivi di minori conseguenze post traumatiche, rispetto a molte sedute di psicoterapia effettuate a posteriori in assenza di un adeguato primo intervento (Everly et al. 2014; 2017). Questo dato sottolinea l’importanza di un primo intervento ad hoc e consequenziale all’esposizione all’evento potenzialmente traumatico, per dare alla vittima le basi per poter elaborare in futuro quanto accaduto.

Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha messo a punto il manuale “Psychological First Aid: Guide for field workers” che costituisce sia uno strumento di lavoro sul campo che di formazione rivolto a operatori sanitari, sociali, della Protezione Civile e volontari.

In Italia, fianco di un riconoscimento legislativo, istituzionale e culturale e di un forte impegno da parte dell’Ordine Nazionale degli Psicologi e degli Ordini Regionali, gli interventi psicologici nelle grandi emergenze sono principalmente svolti da psicologi e psicoterapeuti a titolo volontario. Diversi attori del volontariato sociale hanno contribuito durante varie emergenze, come ad esempio l’associazione senza scopo di lucro SIPEM SoS (Società Italiana di Psicologia dell’emergenza Social Support Federazione).

Il programma CISM (Critical Incident Stress Management – Gestione dello Stress da Incidenti Critici) è un protocollo di intervento sviluppato specificamente per attenuare lo stress legato a eventi critici, che si articola in sette elementi chiave:

  • Istruzione/Immunizzazione prima dell’incidente
  • Smobilitazione
  • Intervento individuale durante la crisi
  • Defusing
  • Debriefing per lo stress da eventi critici (CISD)
  • Sostegno familiare
  • Reti per l’invio

Una tecnica ampiamente utilizzata nella psicologia dell’emergenza è appunto il Defusing, un intervento breve, non necessariamente gestito da un professionista della salute mentale, che prevede una conversazione tra i 20 e i 40 minuti da realizzarsi immediatamente dopo l’intervento critico, in una sorta di pronto soccorso psicologico in cui si raccolgono le emozioni a caldo e si cerca di dare una prima costruzione di significato ad eventi che spesso sono inspiegabili e fuori dal controllo. Il soccorritore deve in ogni caso aver ricevuto un’adeguata formazione per intervenire in questa fase.

Il Debriefing viene invece condotto da una squadra per i servizi di emergenza composta da professionisti qualificati della salute mentale (Psicologi o Psicoterapeuti) coadiuvato da colleghi dei membri del gruppo. Il Debriefing dovrebbe aver luogo 24-76 ore dopo l’evento critico e mai sulla scena dell’evento traumatizzante, ma in una struttura che offra una atmosfera di sicurezza.

Negli Stati Uniti i protocolli più diffusi sono invece il Seven-Stage Intervention Crisis Model di Roberts ed il RAPID Model della Johns Hopkins University di Everly. Nel concettualizzare i processi relativi all’intervento sulla crisi, Roberts nel 1991 ha identificato sette passaggi o fasi determinanti che terapisti e clienti si trovano solitamente ad affrontare lungo il percorso di stabilizzazione, risoluzione e controllo della crisi stessa. Tali passaggi, elencati a seguire, sono essenziali, sequenziali e, a volte, sovrapponibili nel processo di intervento sulla crisi.

  • Pianificare e condurre un’accurata valutazione biopsicosociale e del rischio
  • Stabilire rapidamente un contatto psicologico ed una relazione collaborativa
  • Identificare i problemi principali ed i fattori precipitanti
  • Incoraggiare un’esplorazione di sentimenti ed emozioni
  • Generare ed esplorare nuove alternative e strategie di coping
  • Ripristinare il funzionamento mediante l’attuazione di un piano di azione
  • Pianificare sessioni di follow-up

Il modello della Johns Hopskins University si articola invece in cinque passaggi, le cui iniziali compongono l’acronimo RAPID: Reflective listening, Assessment of need, Prioritization, Intervention, Disposition. Il modello RAPID fornisce importanti indicazioni di cui possono servirsi gli operatori che intervengono nelle situazioni di crisi. Esso è risultato efficace nel promuovere la resilienza personale e della comunità in seguito ad avvenimenti catastrofici, e si basa su un tipo di ascolto empatico e non giudicante unitamente all’utilizzo di diverse strategie di intervento. L’approccio si concentra anche su aspetti come il triage, ovvero lo stabilire una gerarchia dei più bisognosi in modo da assicurare loro la precedenza nella fruizione del servizio, e la compassion fatigue cioè la sofferenza che spesso sperimentano a propria volta gli operatori di primo soccorso, a causa del contatto ravvicinato e continuo con il dolore altrui.

Conclusione

Per quanto differenti per denominazione e procedure, tutti i modelli esaminati hanno lo scopo di tutelare i vissuti psicologici nei primi interventi rivolti a persone sopravvissute a catastrofi naturali, attacchi terroristici o altre situazioni definite emergenziali, come un lutto improvviso un incidente stradale. Le linee guida internazionali sono chiare nel determinare la necessità di un’adeguata formazione da parte degli operatori che intervengono nelle situazioni di emergenza, in modo da garantire un servizio in grado di supportare efficacemente coloro che si trovano coinvolti in una situazione di stress acuto. Empatia, riconoscimento del livello di rischio, esame dei bisogni e collegamento di reti sociali sono alcuni dei punti chiave che si riscontrano in ogni approccio, assieme alla consapevolezza che un primo soccorso psicologico non sostituisce il percorso di cura che verrà eventualmente intrapreso. Mitigare lo shock provocato dall’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico di cui si è appena fatta esperienza, e stabilire un primo contatto con i servizi assistenziali, risultano fattori determinanti nel favorire una ripresa emotiva adattiva e il ripristino di un buon funzionamento personologico.

Per un approfondimento sul modello RAPID è possibile seguire un corso online gratuitamente su www.coursera.com, dove oltre alla spiegazione teorica ed esempi pratici vengono fornite strategie per gli operatori su come proteggersi dalla compassion fatigue e dal burnout, che possono insorgere a causa del carico emotivo e cognitivo dato dall’assistenza a persone in stato di sofferenza acuta.

 

Psicoanalisi e sociologia del detenuto: gestire l’emergenza ai tempi del Coronavirus

All’interno delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

 

Il sistema detentivo dovrebbe consentire la tutela della dignità e della salute di ogni singolo cittadino, ma l’impegno fornito non sembra soddisfare la complessità dell’attuale stato di emergenza, in cui i problemi e i vissuti esistenti vengono oltremodo esasperati.

Il carcere è, per definizione, il luogo in cui viene rinchiuso chi viene privato della libertà personale, per ordine dell’autorità competente, in seguito ad aver commesso un reato. Simbolicamente potrebbe essere definito come un qualsiasi ambiente opprimente, tormentoso o dove sia impossibile uscire o scampare: quello che storicamente Dante rappresentava come l’Inferno. In una situazione di pandemia come quella che stiamo vivendo, in cui bisognerebbe garantire a ogni singolo cittadino quelle norme di sicurezza, igiene e contenimento che dovrebbero tutelarne la salute, i vissuti angoscianti dei detenuti vengono amplificati, e la condizione carceraria sembra rappresentare un’emergenza nell’emergenza.

Nell’intento di considerare una prospettiva prettamente civica, seguendo anche le linee guida dell’OMS in riferimento alla prevenzione e il contenimento del Covid nelle carceri, lo Stato dovrebbe garantire al cittadino in misura detentiva quei diritti che egli non è stato in grado di garantire alla comunità, riconoscendolo come persona e individuo, con le proprie esigenze, emotività e affetti, evitando ulteriori forme di vittimizzazione e tutelandone la dignità umana. Ciò risulta un’impresa ardua, in una realtà come quella penitenziaria caratterizzata di per sé da innumerevoli difficoltà quali ad esempio l’eterogeneità dei reclusi, la loro provenienza da contesti socio-culturali marginali e spesso disfunzionali, la tossicodipendenza e il rischio di suicidio, e in questo momento funestata dall’impossibilità di arginare il problema del sovraffollamento e di garantire un’adeguata distanza di sicurezza in un ambiente oltremodo promiscuo. A tutto ciò va aggiunto che chi sta scontando una pena viene privato, a causa delle norme anticontagio, degli affetti che rappresentavano l’unico contatto con il mondo esterno e bersagliato da notizie incerte che permeano dal di fuori. Si rischia, quindi, di sprofondare in un incubo di insicurezza e giustificati timori per la propria condizione fisica e psichica, alimentando il proprio vissuto di inaiutabilità e di mancanza di via di scampo (helplessness), dando il via alla dissociazione traumatica e causando reazioni difensive di aggressività e ipocondria.

Alla luce di quella che è la situazione carceraria appena descritta, potrebbe essere utile analizzare il fenomeno in una prospettiva psicoanalitica sulle dinamiche intrapsichiche che entrano in gioco e che modulano gli agiti e i vissuti in un contesto di sovraffollamento e continua disregolazione emotiva che tuttavia nasconde uno stato di deprivazione e isolamento profondo.

Rivolgendo lo sguardo allo sviluppo della personalità di ogni essere umano, l’aggressività stessa nasce da una forma, inevitabile e naturale, di deprivazione. Per Kohut questa non è una pulsione primaria: l’assertività aggressiva rappresenta quella naturale spinta volta a ristabilire l’equilibrio in seguito alla frustrazione di un bisogno – se il genitore ritarda a rispondere il bambino piange rabbiosamente – grazie alla quale il bambino inizia a differenziarsi, in quanto percepisce un altro da sé che non sempre è disponibile. Quando i fallimenti empatici rientrano entro certi limiti non traumatizzanti (frustrazione ottimale), ci saranno oscillazioni minori nell’equilibrio psichico del bambino, manifestate da un aumento dell’assertività aggressiva e della sua capacità di fare richieste sane. Se i fallimenti empatici sono traumatizzanti, la pulsione di tipo aggressivo-distruttivo e i comportamenti ad essa correlati risultano frutto di una disintegrazione strutturale. Per Kohut vi è una rabbia disperata di un sé che, a causa dei fallimenti empatici precoci, considera se stesso incapace di ottenere ciò che ha il diritto di ottenere. Ed ecco come, traslando questo concetto e applicandolo alla realtà delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

Gli agiti aggressivi successivi, auto o eterodiretti, sono ulteriormente enfatizzati da una disregolazione affettiva causata dalla cattività coatta con individui a loro volta altamente disregolati: le difficoltà personali e di personalità dei detenuti non permettono di mantenere la necessaria sintonizzazione per raggiungere il processo di regolazione affettiva ottimale o per effettuare la riparazione delle rotture di sintonizzazione modulate interattivamente, portando ad un’escalation di attivazione emotiva che può contagiare l’intera popolazione carceraria, portando, come abbiamo visto nel mese scorso, a rivolte ed episodi di acting-out.

Un altro aspetto da considerare, successivo alla frammentazione/dissociazione traumatica che su lunga scala sta caratterizzando a livelli diversi la psiche di ognuno, nonché allo stato di promiscuità, incertezza e perdita di controllo sulla propria salute, è l’ipocondria. Per i carcerati, costantemente a contatto e impossibilitati a mantenere una distanza di sicurezza tra di loro, la frammentazione dovuta alla frustrazione si acuisce sino a diventare una sorta di ossessione riguardante i propri sintomi e preoccupazioni per il proprio stato psico-fisico.

Nella visione kohutiana, l’ipocondria è già di per sé una delle tipiche manifestazioni dei disturbi narcisistici, dovuta a un’eccessiva attenzione verso il proprio sé, volta a contenere l’angoscia di frammentazione. Anche nei detenuti, avendo probabilmente sviluppato la propria personalità all’interno di un contesto socio-culturale molto spesso ai margini, fatto di privazioni, non riconoscimento, eventi di vita difficili, la scissione narcisistica si manifesta tramite la costante attenzione della mente vigile verso la parte della propria personalità che sente più vulnerabile, fragile, frammentata, e vi si rivolge in maniera preoccupata. In seguito poi a situazioni ulteriormente a rischio come quella che si sta verificando, questa preoccupazione assume ancor più il carattere di un vero e proprio rimuginio, in cui il bisogno frustrato sfocia in una ricerca costante di rassicurazioni sulla propria esistenza e continuità fisica.

Se si considera anche la visione ‘paranoica’ e oggettuale dell’ipocondria, condivisa dalla psicoanalisi classica e kleiniana, l’aggressività frammentata viene proiettata sull’esterno, e ci si percepisce come vulnerabili al ‘contagio’, proveniente da un altro inaffidabile e incontrollabile. In un contesto di pandemia, tale vissuto viene concretizzato e, oggettivamente giustificato, tramite l’altro che dall’esterno porta il virus, la malattia: ecco che l’aggressività e la fobia della malattia si concretizzano verso gli operatori e gli agenti di polizia penitenzaria che svolgono la propria vita ‘fuori’, e possono portare ‘dentro’ il virus, da cui essi sono impossibilitati a difendersi.

La psicoanalisi intersoggettiva (Stolorow, Atwood, 1992) coglie aspetti dei due modelli integrandoli nel più ampio spettro delle relazioni interpersonali, suggerendo che le ferite precoci suggerite da Kohut, andando a ledere la fiducia che l’individuo può riporre nel mondo esterno e negli altri, farebbero sì che la persona tenti di sottrarsi all’inevitabile interdipendenza con l’ambiente concettualizzando il proprio corpo come un’entità isolata e vulnerabile. Le emozioni sono così impossibilitate a esprimersi genuinamente tramite il contatto con l’altro, concretizzandosi nel sintomo che dà significato al proprio malessere e tuttavia causa un ripiegamento su sé stesso, verso cui tutta l’attenzione e le rimuginazioni ossessive sono riversate. Il permanere del dubbio su di sé si interseca così con una difficoltà ad avere fiducia nell’altro.

C’è da considerare, infine, che nell’immaginario collettivo il carcere è da sempre stato inteso come una forma di contenimento e rieducazione del detenuto, e questo dovrebbe rappresentare in realtà un’opportunità di sviluppare, tramite un supporto emotivo e una regolazione affettiva adeguata, una  nuova rappresentazione di sé come individuo capace di gestire le proprie emozioni e agiti, modificare i propri schemi e tollerare le frustrazioni, che possono emergere in seguito ad eventi imprevedibili e scarsamente controllabili come appunto l’epidemia. Alla prova dei fatti, tuttavia, ciò risulta utopico, difficile, in un luogo in cui si cronicizzano e si disregolano ulteriormente sentimenti quali rabbia, solitudine, sofferenza e dolore mentale, esasperati ed esasperanti per i detenuti e gli operatori, e fin troppo spesso strumentalizzati dal crimine organizzato, portando in effetti a uno stravolgimento dell’obiettivo e a una situazione contraria alla rieducazione. Se la società è intesa come una comunità fatta di persone, regole da rispettare e istituzioni, allora il carcere è una società: con soggetti fondanti lo stato di diritto, che richiedono incessantemente una giusta tutela e prevenzione, anche della salute, spettante ad ogni singolo cittadino libero e purtroppo non attuabile in un contesto di costante emergenza, che andrebbe quindi riformulato dalle fondamenta.

Citando il noto sociologo Nils Christie “è molto importante rendersi conto che la prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui; esiste per far soffrire le persone, che effettivamente soffrono”. E’ del tutto naturale che nelle strutture carcerarie la gente quindi ceda alla disperazione e all’irrequietezza, soprattutto in una circostanza di emergenza sanitaria come quella esplosa negli ultimi mesi. La società dovrebbe sviluppare una visione empatica e relazionale della sofferenza dei detenuti, troppo spesso reietti e abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati unicamente per il male commesso, in modo da creare nuovi modi di essere cittadini. Prendendosi carico dei vissuti sia di colpa che di sofferenza, attraverso il confronto e la relazione, si potrebbe dare la possibilità al colpevole di identificarsi con il dolore della vittima e alla vittima e alla società di vedere il colpevole nella sua condizione, spesso miserevole, e come dietro la facciata di uomo forte e terribile si nasconda, forse, un comunissimo essere umano, con le stesse incertezze e paure, prima tra tutte quella per la sua salute. Ma una cosa è pensare in astratto alla pena che uno merita, un’altra è vedere con i propri occhi il colpevole nella sua sofferenza. Onde evitare di cedere a una visione sadica e punitiva, è opportuno riflettere su come affrontare la devianza in un modo che tenga conto dei valori etici che ci contraddistinguono, in qualsiasi situazione, come società del diritto.

 

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