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L’effetto orso bianco

Confidandoci con gli amici o con i familiari spesso ci siamo sentiti rispondere “non pensarci!”. Tuttavia, gli esperimenti di Wegner sul famoso effetto orso bianco suggeriscono che questo sia il peggior consiglio che si possa dare: infatti, cercare di sopprimere i pensieri può essere effettivamente controproducente.

 

 Prova ad eseguire questo compito: non pensare ad un orso polare, e vedrai che la maledetta cosa ti verrà in mente ogni minuto.

È così che Fëdor Dostoevskij sfidò suo fratello, come riporta nel suo racconto del 1863 Note invernali su impressioni estive. Questa famosa citazione fu ripresa successivamente da Wegner, professore di  psicologia di Harvard, padre della ricerca sulla soppressione del pensiero, che incuriosito da questo aneddoto, nel 1987 decise di compiere un semplice esperimento (Wegner D.M., 1987) per capire se tale frase avesse un fondamento di verità. D’altronde è un’esperienza comune a tutti noi quella di tentare di allontanare i pensieri spiacevoli che affollano la nostra mente. Sia che si stia cercando di non pensare a un evento traumatico, sia che stia cercando di non pensare al nostro cibo preferito durante una dieta oppure a un amore perduto che ci sta facendo soffrire molto. La nostra esperienza quotidiana ci suggerisce continuamente che tentare di sopprimere un pensiero è una cosa non affatto facile.

L’esperimento di Wegner era molto semplice, un gruppo di volontari fu fatto sedere in una stanza e fu chiesto loro di pensare per cinque minuti a qualsiasi cosa, tranne che al famoso orso bianco di Dostoevskij. A ciascun partecipante fu dato poi il compito di suonare un campanello ogni volta che l’orso polare gli fosse venuto in mente. In brevissimo tempo un concerto di campanelli cominciò a risuonare nella stanza, evidenziando che nessuno dei volontari era in grado di sopprimere quel fastidioso pensiero proibito.

Successivamente Wegner diede istruzioni ai partecipanti di “provare a pensare a un orso bianco” per cinque minuti. A quel punto, i volontari pensarono a un orso bianco anche più spesso rispetto a un altro gruppo di controllo a cui era stato dato un compito inverso, ovvero di cercare prima di pensare a un orso bianco e poi tentare di non pensarci. I risultati suggerirono che il tentativo di soppressione del pensiero per i primi cinque minuti, aveva causato un “rimbalzo” nella mente dei partecipanti, spingendoli paradossalmente a pensare all’orso bianco ancora di più.

Nei decenni successivi Wegner sviluppò e ampliò la sua teoria sull’effetto orso bianco, detta teoria dei “processi ironici”. Constatò in maniera inequivocabile che quando proviamo a non pensare a qualcosa, una parte della nostra mente effettivamente evita il pensiero proibito, ma un’altra parte, tenta di controllare ogni tanto i nostri processi interni per assicurarsi che il pensiero non venga fuori, conducendoci quindi ironicamente a pensarci ancora di più.

Riguardo alle dipendenze ad esempio, uno studio più recente (Erskine J.A, Georgiou G.J, Kvavilashvili L., 2010) ha dimostrato come tentare di sopprimere i pensieri sul fumo porta dapprima a una riduzione del fumo, per poi assistere a un grave effetto di rimbalzo che induce a fumare molto di più.

Ma quali sono allora le strategie che possiamo mettere in atto per riuscire a diminuire la frequenza con cui si presenta un certo pensiero sgradevole?

Wegner ha descritto diversi metodi che lui e altri hanno trovato efficaci per aiutare a sopprimere i pensieri indesiderati:

  • Scegliere un distraente efficace e concentrarsi su quello: in un altro studio Wegner ha chiesto ai partecipanti di pensare a una Volkswagen rossa piuttosto che a un orso bianco. Avere un pensiero distraente ha aiutato i partecipanti a sopprimere il pensiero indesiderato. Quindi ad esempio, scegliere di rivolgere la nostra concentrazione su attività alternative piacevoli, può permetterci di riuscire a canalizzare con minor frequenza la nostra attenzione sui pensieri sgradevoli.
  • Rimandare il pensiero: delimitare uno spazio nella quotidianità della durata di mezz’ora dove potersi preoccupare, si è dimostrato efficace a evitare di rimuginare per il resto della giornata.
  • Riduzione del multitasking: essere oberati di impegni e sottoporsi a un notevole carico mentale facilita la comparsa di pensieri sgradevoli.
  • Esposizione e accettazione: permettersi di esporsi al pensiero che si vuole evitare in maniera consapevole e accettare che esso entri nel nostro flusso di coscienza, farà in modo che sia meno probabile che quel pensiero affolli la mente altre innumerevoli volte.
  • Meditazione e consapevolezza: le pratiche di meditazione come la Mindfulness, rafforzano il controllo mentale e aiutano le persone a evitare i pensieri indesiderati permettendo di distanziarsi da essi.

Gli esperimenti di Wegner sull’effetto orso bianco di fatto sembrano andare in direzione contraria rispetto a quella che è la nostra esperienza comune. Quante volte confidandoci con gli amici o con i familiari ci siamo sentiti rispondere: “non pensarci!”.

Stai cercando di smettere di fumare? Non pensarci. Stai cercando di non mangiare dolci? Non pensarci. Stai cercando di superare il dolore di una relazione finita? Non pensarci.

Gli esperimenti di Wegner suggeriscono che seppure animato da buone intenzioni, questo è il peggior consiglio che si possa dare. Cercare di sopprimere i pensieri può essere effettivamente controproducente. Nel tentativo costante di sopprimere i pensieri sgradevoli, la maggior parte delle persone si ricorda di pensare ad altro, ma ogni tanto si ricorda anche di pensare a quello che non sta pensando solo per assicurarsi di non pensarci: ecco che allora come per magia, prendono forma nella nostra mente il dannato pacchetto di sigarette, le gustose barrette di cioccolato, la tanto desiderata vecchia fiamma.

Quindi quando avete un pensiero di cui volete disfarvi, invece di evitarlo e far sì che diventi un ossessione, lasciate che arrivi e accettatelo con calma, distraete la mente con attività piacevoli, rilassatevi e affrontatelo con consapevolezza. Solo così il vostro orso bianco se ne andrà in letargo.

 

Cosa può cambiare nella vita del medico e di ogni operatore sanitario in una situazione di pandemia come quella attuale per COVID-19?

Il Dr. Paolo Pellegrino, medico specializzato in anestesia e rianimazione, psicoterapeuta e docente di psicologia, in questo video risponde alle domande del giornalista Romano Tripodi nel corso dell’intervista realizzata dall’Associazione Medicina e Frontiere, fondata dal prof. Michele Guarino. Durante l’intervista, il dott. Pellegrino, spiega come la pandemia stia avendo degli effetti psicologici non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su medici e operatori sanitari in generale, implicando alcuni cambiamenti (Ndr).

 

 Certamente la situazione che stiamo vivendo da quasi due mesi, ormai lo dicono tutti, sta inevitabilmente cambiando molti aspetti della nostra vita, della nostra esistenza. Ogni cambiamento significativo porta con sé cambiamenti nel modo di vedere e pensare noi stessi, di vedere il mondo e gli altri, cambiamenti nel nostro modo di sentire e di vivere la realtà, cambiamenti nei nostri comportamenti personali e sociali. E giustamente può valer la pena chiedersi: ci sono e quali possono essere questi cambiamenti a cui può andare incontro e probabilmente a cui sta andando incontro il medico e il personale sanitario in genere?

Mi azzardo a fare qualche riflessione in questo senso dato che nel mio percorso professionale ho conosciuto e vissuto gli aspetti impegnativi e drammatici di una terapia intensiva. Successivamente, dopo la specializzazione in psicoterapia, ho iniziato ad occuparmi, ormai da anni, di indagare, studiare e valutare gli effetti e le reazioni psicologiche di fronte a situazioni difficili o problematiche che la persona umana si può trovare a vivere.

E quindi cosa sta mutando? In primo luogo direi l’immagine di sé, a cui inevitabilmente e necessariamente fa riscontro un cambiamento nella percezione dell’altro e nel vissuto relazionale con l’altro. Questi mutamenti io direi che possono riguardare tre aspetti: la propria salute, la propria bontà, il proprio potere.

Riguardo alla propria salute, sottolineerei che il prendersi cura di persone malate o bisognose può significare postulare la propria salute o la propria sufficienza. Io posso curare perché sono sano. Proprio perché sono sano e ho le sufficienti difese dalle malattie, in particolare della malattia che sto curando, e so come affrontarla, mi percepisco e costruisco la mia capacità e possibilità di curare l’altro, il malato.

In questa linea l’assistere una persona bisognosa può offuscare la consapevolezza del proprio bisogno o del rischio a cui si va incontro. Forse molti nostri colleghi, all’inizio di questa drammatica pandemia, non hanno avuto modo di realizzare il proprio bisogno di autoprotezione. E il curare la salute degli altri, in questo caso, ha comportato la compromissione della propria salute (e in ogni caso rimane sempre il rischio di poterla compromettere). Ecco allora che in questa situazione la malattia dell’altro non postula più la mia salute, ma piuttosto la inficia, la mette a rischio: sottolinea quanto anche io, medico, infermiere, psicologo,… non sono immune dalla malattia, ma posso essere vulnerabile, fragile e debole.

Riguardo al secondo aspetto, la bontà, direi che l’essere e sentirsi benefattore o salvatore può contribuire a garantire una buona immagine di sé, come una persona buona, che sa essere accogliente, comprensivo, sa abbracciare e sostenere. In una situazione di pandemia come l’attuale, il malato, che è fonte di possibile contagio e quindi di malattia, diventa un nemico, una minaccia, diventa l’untore da cui bisogna tenersi lontano. In questo caso la mia bontà, la mia comprensione e accoglienza possono sbiadire; invece di sentirmi buono e accogliente mi posso sentire teso, ostile, oppure freddo, distante, o persino cinico: il paziente è guardato con sospetto, bisogna mantenere le distanze da lui! E potrei arrivare anche a provare sentimenti di rabbia verso di lui perché mi fa sentire cattivo, perché in qualche modo sta mettendo in crisi la mia bontà, l’immagine di me come buono e accogliente. In altre parole, la difficoltà o l’impossibilità di aiutare (perché mi devo tenere a debita distanza, perché non posso o non riesco ad avere tutte quelle accortezze e delicatezze e affettuosità che magari sono solito avere verso un paziente) facilita l’insorgenza del dubbio sulla mia bontà ed io posso arrivare addirittura a percepirmi come cinico o persino malvagio.

L’ultimo aspetto, il proprio potere. In generale il medico, o chiunque svolge una professione di care-giving, si può proporre come padre onnipotente, che è in grado di risolvere più o meno tutto e quindi in grado di avere un certo potere sulla malattia e sullo stato psicofisico del malato. Ma l’incontro con una patologia per la quale non è facile avere una terapia adeguata, con una malattia che pertanto non è facilmente risolvibile, attacca l’immagine del potente salvatore, generando nel professionista sentimenti d’impotenza e di depressione: la scoperta della propria impotenza può far vivere come insopportabile o persecutoria la malattia del paziente!

In sintesi mi sentirei di dire che questa pandemia sta avendo degli effetti non solo clinici ma anche psicologici, e non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su chi si prende cura di chi ne è affetto. Da una parte, quindi, ritengo che tutto ciò possa aiutare noi medici, e tutti gli operatori sanitari, a un’utile e forse opportuno ridimensionamento della visione idealizzata della nostra professione. Dall’altra mi sembra importante essere consapevoli del fatto che ci possono essere dei cambiamenti nella percezione dell’immagine di sé, dell’altro, della propria professione e del proprio ruolo.

Pertanto un’adeguata riflessione e consapevolezza sui cambiamenti che questa pandemia sta generando, penso possa aiutarci certamente a ridimensionare la tendenza a una visione idealizzata di sé, ma al contempo può metterci in guardia, proteggerci e preservarci da sensazioni di profonda frustrazione che potrebbero aprire le porte a fenomeni più seri e drammatici quali quelli del burnout.

 

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE:

 

Effetti secondari del COVID-19 – Risvolti psicologici della quarantena

Il presente contributo è stato scritto prima che iniziasse la Fase 2 dell’emergenza

Improvvisamente la nostra vita è cambiata: i diversi decreti che si sono succeduti ci hanno visto abbandonare le nostre abitudini, le nostre routines, la nostra libertà.

 

Quali sono gli effetti psicologici del COVID-19, o meglio della pandemia? Quando tutto sarà finito come reagirà la mente? Il rischio di un Disturbo da Stress Post Traumatico è reale! La parola chiave diventa: RESILIENZA.

Dichiarazione della pandemia

 Improvvisamente la vita di tutti noi è cambiata: da Febbraio si sono susseguiti una serie di Dpcm (Decreti ministeriali del presidente del consiglio) dal contenuto sempre più restringente, passando dall’epidemia alla pandemia: ci hanno detto di non recarci più a lavoro, di non andare più a scuola, gradualmente di non recarci più in palestra, di non andare più a correre, o al centro commerciale, ai giardinetti, di non incontrare più gli amici, né tantomeno i nostri cari. In questa escalation di privazioni ci è stato detto di AVER PAURA!

Per quale motivo? Per quale assurda ragione dobbiamo rinunciare alla nostra libertà?

Il motivo è invisibile, un virus che non possiamo percepire, ma che sta mietendo tante vittime in tutto il mondo.

E allora la priorità assoluta è divenuta preservare il bene primario, la vita. Restando chiusi in casa, uscendo solo per motivi strettamente necessari, e con le dovute cautele (mascherine e guanti entrati ormai a far parte del nostro abbigliamento), si riduce il rischio di essere contagiati.

Come recita l’art.13 della Costituzione Italiana

La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione […] se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

E l’art.16 prosegue

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.

Le limitazioni la legge le ha stabilite, non è possibile neppure uscire dal proprio comune e per circolare occorre portare con sé un modulo, un’autocertificazione, sì perché se non c’è un valido motivo che giustifica il nostro spostamento si va incontro ad un’ammenda e si diventa fuorilegge.

All’improvviso la tecnologia è diventata la nostra migliore alleata, non che prima non lo fosse, costringendo anche chi aveva poca dimestichezza con smartphone, tablet e pc a familiarizzare con essi, con lo scopo comune di restare “collegati” con il mondo. Ecco allora che si è iniziato a lavorare da casa con la formula dello smart working, gli studenti hanno iniziato a fare scuola in videoconferenza, tutti siamo ricorsi alle videochiamate per poter comunicare e restare in rete.

Persino le terapie psicologiche-psicoterapiche si svolgono online…

Effetti psicologici della quarantena

Gli occhi sono puntati sulla salute fisica ed è giusto in un momento di emergenza.

Ma guardiamo ora l’altra faccia della medaglia! Quali effetti comporta questa clausura obbligata? Quali sono gli effetti psicologici?

Ciascuno di noi “era” abituato a ritmi frenetici, tra lavoro, scuola, famiglia, impegni con gli amici, hobby…le giornate erano scandite da ritmi frenetici e 24 ore erano a volte anche poche per far fronte ai tanti impegni. All’improvviso tutti abbiamo dovuto rinunciare a tutto ciò: costretti a casa, a vivere h24 con i nostri familiari: niente più svaghi, niente più spazi propri, ma un unico spazio condiviso.

A breve termine c’è chi può aver beneficiato di questa spina staccata, sicuramente i bambini, finalmente a casa con mamma e papà e non più sbalzati tra nido, scuola e nonni. Gli stessi bambini che non riescono a spiegarsi e rappresentarsi questo cambiamento repentino, che relegati in casa non capiscono perché non possono più andare fuori a giocare, non possono più incontrare i compagni, o andare dai nonni.

Tutti siamo magari stati “contenti” di poterci riposare un po’…ma nessuno immaginava inizialmente tutto questo, nessuno immaginava la gravità della situazione e il suo perdurare così a lungo.

Ogni giorno veniamo bombardati da informazioni e la speranza è che ci venga detto che è tutto finito e possiamo finalmente riappropriarci della nostra vita. Invece no, tra informazioni spesso divergenti tra loro, la vecchia vita sembra ormai un ricordo lontano e tutti siamo chiamati a riformulare le nostre priorità e le nostre abitudini.

Allora ecco che si insinua la paura, perché la mente umana ha paura dell’ignoto, il non conosciuto: ci affidiamo a ciò che conosciamo perché ci fa sentire sicuri, tranquilli, protetti, perché ci permette di poter prevedere le conseguenze, rinunciando ad esplorare ciò che è posto in ombra, ciò che è sconosciuto o poco noto, proprio perché riduce la nostra capacità di predire, agire, reagire.

Come reagiremo una volta terminata la fase 1? Dal 4 maggio potremo di nuovo circolare e non vediamo l’ora che ciò succeda, siamo scalpitanti, contando i giorni e le ore che ci separano dalla rinascita, dalla riconquista dei nostri spazi.

Ma sin da ora quotidianamente i mezzi di informazione ci mettono in guardia sulle buone norme da seguire, sulle cose da evitare, sul come comportarci nel nuovo mondo “digitalizzato”: sono, infatti, al vaglio diverse ipotesi su app in grado di avvisarci se veniamo in contatto con possibili soggetti contagiati, il tutto nel rispetto della privacy.

Siamo pronti? Davvero non vediamo l’ora di riaccendere i motori?

Sicuramente c’è bisogno di ripartire, in primis per ragioni economiche, dato lo stallo nel quale siamo confinati.

Ma teniamoci pronti perché il mondo non sarà come lo abbiamo lasciato: la spensieratezza che fino a gennaio connotava ciascuno di noi, ha lasciato il posto alla paura. Si ha paura di andare al supermercato, si avrà paura di prendere un mezzo pubblico, si avrà paura di incontrare un amico, si avrà paura di fare qualsiasi cosa che prima era automatica. Nel prossimo futuro ogni nostra azione diverrà ragionata e dovremo imparare a convivere con emozioni quali l’ansia, l’angoscia, la tristezza.

La mente umana necessita di tempi adeguati per metabolizzare gli eventi, darvi un senso ed accettarli: il COVID-19 rappresenta sicuramente un trauma per ciascuno di noi, esso ha posto una frattura tra un prima e un dopo. Infatti nella vita che vivremo la memoria ci riporterà costantemente ai momenti pre-pandemia e non potremo non provare un senso di sopraffazione perché la nostra capacità di autodeterminazione verrà messa a dura prova!

In seguito all’esposizione a eventi del genere è possibile sviluppare un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS). Infatti, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione (DSM-5) riconosce tra i criteri per la diagnosi come la persona debba essere stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:

  1. la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri;
  2. la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore.

La parola d’ordine, allora, diventa RESILIENZA, intesa come capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e/o stressanti, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità, senza soccombere.

È imprescindibile non lasciarsi abbattere dal cambiamento, ma trarne insegnamento per la vita futura.

Ecco allora che lo slogan “ANDRA’ TUTTO BENE”, che ci siamo ripetuti come un mantra sortirà effetti benefici: bisogna crederci! Allora sì che andrà tutto bene!

 

Psicoterapia: per una prospettiva psicodinamica dell’intervento

La psicoterapia viene considerata, all’unanimità, come una modalità di intervento effettuato con mezzi prettamente psicologici che, pur attuati mediante procedure che differiscono tra loro per il diverso orientamento teorico a cui si rifanno, sono finalizzati ad aiutare le persone nella soluzione dei propri problemi affettivi, emotivi, comportamentali, interpersonali di vario genere e a incrementare la qualità della vita

L’attività psicoterapeutica: verso il processo di cambiamento

La legge del 18 febbraio 1989, n. 56, in Italia, decreta che l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia (D.M. 11 dicembre 1998, n.509).

Tale attività si rende utile in relazione alla “domanda” di cui il paziente si fa portatore e saranno il problema e gli obiettivi che il soggetto pone in essere ad orientare quest’ultimo verso un intervento psicologico-clinico o più propriamente psicoterapeutico (Cionini, 2001).

Per inciso, risulta utile distinguere tra domanda e committenza. Con il termine committenza s’intende l’interpretazione della situazione (il che cosa, il come e il perché); la domanda consiste, invece, nei significati generalizzati che fondano e rendono sensate tali teorie (Salvatore, 2015).

Per ciò che concerne lo sviluppo della psicoterapia, è interessante sottolineare che negli ultimi anni si sono sviluppati diversi orientamenti e la diversificazione di tali approcci ha favorito la possibilità di accedere a quadri teorici differenti, che si rendono utili ognuno in base ad ogni caso e richiesta specifici che il terapeuta dovrà accogliere.

Altresì, oltre alle differenze tra le varie scuole, la psicoterapia si è sviluppata diversamente nelle varie parti del mondo anche in relazione alle tradizioni politiche e culturali esistenti nei diversi paesi (Cionini, 2013).

Per fare soltanto alcuni esempi, la psicoanalisi ha avuto origine nella cultura mittel-europea e solo successivamente si è diffusa anche nei paesi di cultura anglosassone, mentre, al contrario, l’ottica comportamentista (e più recentemente quella cognitivo-razionalista) si è sviluppata in coerenza con lo spirito scientifico della cultura anglosassone, e solo in un secondo momento si è diffusa nel resto d’Europa (Cionini, 2013).

A tal proposito, in virtù della presenza fortemente eterogenea di modelli psicoterapeutici, ad oggi non è stato possibile ricondurre a una definizione univoca il concetto di psicoterapia (Cionini, 2013). Tuttavia, si colgono in modo evidente degli aspetti comuni ai diversi approcci, senza i quali l’intervento psicoterapeutico non si renderebbe possibile. Primo fra tutti, assume un ruolo fondamentale il concetto di relazione terapeutica, vale a dire una relazione interpersonale fra il terapeuta e il paziente che consenta l’instaurarsi di un’esperienza affettivamente ed emotivamente significativa e che comporti un’alleanza terapeutica benefica per il paziente e volta al raggiungimento di un cambiamento attraverso obiettivi sempre condivisi in uno spazio altamente collaborativo tra i due soggetti.

Tale relazione si svolgerà all’interno di uno spazio di cura definito setting, che dovrà essere riservato e adeguato alle esigenze terapeutiche.

Altresì, il processo di cambiamento viene coadiuvato dall’azione del terapeuta atta a garantire al paziente la conoscenza e l’acquisizione di nuovi punti di vista e prospettive con i quali, quest’ultimo, potrà ampliare il proprio range di azione con procedure che possano orientarlo verso un comportamento sempre maggiormente adattivo. Il paziente dovrà, dunque, essere supportato dal terapeuta, il quale, con un atteggiamento di contenimento, sostegno emotivo, comprensione, accettazione ed empatia, favorirà il cammino verso il cambiamento (Cionini, 2001).

Il cambiamento in psicoterapia deriva, quindi, dalle caratteristiche succitate che vengono orientate dalle procedure e dalle tecniche che caratterizzano la modalità di intervento del terapeuta.

Parallelamente alle comunanze testè esposte, le teorie epistemologiche di riferimento a cui ogni scuola di psicoterapia fa capo, oltre alle diverse modalità di pensare la definizione degli obiettivi, l’articolazione del setting, l’impostazione del contratto terapeutico, la modalità di valutazione clinica, il ruolo più o meno centrale attribuito alla relazione terapeutica e le tecniche e le procedure specifiche, rappresentano, all’opposto, gli aspetti difformi di ogni approccio.

In definitiva, la psicoterapia viene considerata, all’unanimità, come una modalità di intervento effettuato con mezzi prettamente psicologici che, pur attuati mediante procedure che differiscono tra loro per il diverso orientamento teorico a cui si rifanno, sono finalizzati ad aiutare le persone nella soluzione dei propri problemi affettivi, emotivi, comportamentali, interpersonali di vario genere e a incrementare la qualità della vita; quindi che la psicoterapia porti a cambiamenti personali che implicano uno sviluppo del modo di vedere, pensare, sentire, agire (Cionini, 2013). Tali cambiamenti permetteranno a chi ne usufruisce, di sperimentare nuove modalità con cui vivere la propria relazione col mondo.

Psicodinamica nella psicoterapia

Parlare di psicoterapie ad orientamento psicodinamico significa riferirsi a quelle tecniche derivanti dalla psicoanalisi, nata ad opera di Sigmund Freud (1856-1939) all’alba del Novecento. All’interno di questo paradigma si inseriscono diversi contributi quali quello della “Psicologia analitica” di C.G. Jung (1875-1961), della “Psicologia individuale” di Alfred Adler (1870-1937), degli “Psicologi dell’Io”, della “Scuola inglese” con Melanie Klein (1882-1960), della “Psicoanalisi interpersonale e relazionale”, della “Psicologia del sé” di Kohut (1913-1981), della “Teoria dell’attaccamento” di Bowlby (1907-1990) e la continuazione della sua opera a cura di Mary Ainsworth (1913-1999), di Jacques Lacan (1901-1981) e della “Scuola francese”  (Cionini, 2013). Tuttavia, il movimento psicoanalitico non esaurisce la sua portata alle scuole predette; queste ultime, infatti, rappresentano solo alcuni degli sviluppi e degli scenari teorici che hanno ospitato una vastissima varietà di altri autori.

L’approccio psicodinamico è dunque basato sui fondamenti della psicoanalisi ma si differenzia da quest’ultima per il numero di sedute e per il mancato utilizzo del lettino. Nella terapia psicoanalitica, infatti, il paziente è disteso e il numero di sedute è maggiore rispetto a quello della terapia psicodinamica, dove il paziente sarà, inoltre, seduto.

Altresì, all’interno della psicoterapia psicodinamica si distinguono un tipo di psicoterapia psicodinamica a lungo termine (più di ventiquattro sedute o della durata di oltre sei mesi) e una psicoterapia psicodinamica a breve termine (meno di ventiquattro sedute o sei mesi) (Gabbard, 2010).

Le terapie psicodinamiche, pur basandosi su differenti modelli teorici, presentano degli aspetti comuni che travalicano le specifiche cornici di riferimento e che riguardano i concetti di alleanza terapeutica, transfert, controtransfert, resistenza ed elaborazione e le modalità conclusive della terapia (Gabbard, 2010).

È interessante notare come un aspetto fondante la particolarità di questo approccio sia rappresentato dalla curiosità che il paziente mostra riguardo la conoscenza verso se stesso.

Il paziente che può beneficiare di un tale intervento è un soggetto interessato a conoscere e a comprendere quei modelli pregressi e inconsci che hanno tracciato, nella sua esperienza soggettiva di vita, un percorso più o meno consolidato che lo rende oggi intrappolato in schemi disfunzionali che gli causano sofferenza. Sono dunque il desiderio di comprendere se stessi, la volontà che si realizzi una certa consapevolezza del funzionamento del proprio sé e una significativa motivazione, a indicare al paziente la propria adeguatezza a un simil trattamento (Gabbard, 2010).

In questo senso, diventa importante durante l’intervento, che il terapeuta sappia cogliere la capacità di mentalizzazione del proprio paziente, ovvero la capacità di quest’ultimo di percepire i propri e gli altrui stati mentali come spiegazioni del comportamento e, pertanto, di comprendere che il proprio comportamento è guidato da punti di vista e credenze non sempre condivisi dall’altro da sé.

Tutto ciò richiede e implica la comprensione dei propri stati interni (Gabbard,  2010).

Altresì, l’intervento psicodinamico oscilla tra un atteggiamento più prettamente espressivo a uno maggiormente supportivo, che il terapeuta deve flessibilmente adottare in base ai bisogni del paziente (Gabbard, 2010).

Lo psicoterapeuta psicodinamico osserva, inoltre, le modalità con le quali il paziente è solito relazionarsi al mondo e all’altro da sé e, in questo caso, al terapeuta, manifestandole nella relazione con quest’ultimo.

Oltre all’osservazione delle caratteristiche succitate, il terapeuta dovrà saper cogliere se il paziente è in grado di gestire gli impulsi e di tollerare le frustrazioni mostrandosi resiliente davanti alle avversità; in questo caso ci si troverà davanti a un Io forte caratterizzato da buone risorse. Contrariamente, un soggetto che controlla con difficoltà gli impulsi e mostra problematiche relative all’esame di realtà o alla tolleranza di taluni stati affettivi, mostra un Io debole (Gabbard, 2010).

Fondamentale per risolvere il disagio psichico della persona è, altresì, saper comprendere il conflitto inconscio che anima e muove la sofferenza manifesta del paziente, ovvero quella difesa che si contrappone a un desiderio o a un impulso, creando disagio e dolore (Gabbard, 2010).

Tutti gli elementi sin qui presentati vengono colti ed elaborati in un’ottica di collaborazione costante tra il terapeuta ed il paziente, i quali, sin dai primi momenti della loro relazione comunicheranno l’un l’altro e stabiliranno sempre apertamente gli obiettivi da raggiungere e i momenti di esplorazione di alcune questioni.

In questo senso, anche la parte conclusiva della terapia può assumere diverse forme e verificarsi secondo diverse modalità in base al caso specifico e deve essere un momento altamente partecipato e condiviso tra paziente e terapeuta.

Conclusioni

In definitiva, la psicoterapia psicodinamica si pone l’obiettivo di comprendere un’altra persona in modo empatico e non giudicante, all’interno di una relazione significativa stabilita con quest’ultima. In questo modo è possibile favorire un processo di comprensione di sé stessi e delle proprie modalità di relazionarsi al mondo, facilitando il processo di apertura e di fiducia con e nell’altro da sé.

Il terapeuta che si mostra sensibilmente interessato ad accogliere e a comprendere la storia dell’altro, può sostenere la persona e aiutarla a liberare la propria esistenza dalla coltre di nebbia che ha oscurato, per forse gran parte del suo tempo, quelle risorse che spesso non si conoscono ma che si possiedono e che, dunque, devono essere individuate e riconosciute.

In questo modo, dopo essere stata accompagnata ed emotivamente sorretta, ogni persona può finalmente imparare a librarsi verso un volo autonomo e più consapevole della propria esistenza, libera di lasciare entrare dentro di sé nuovi mondi, nuovi spazi, per più ampi racconti di sé.

La conversazione nell’era digitale. Come la tecnologia sta plasmando il nostro cervello sociale (2019) di F. Fiorilli – Recensione

La conversazione nell’era digitale è un testo che fornisce in modo estremamente esauriente una serie di importanti nozioni sul funzionamento del cervello e della comunicazione, in particolare su come la tecnologia stia modificando le nostre competenze sociali.

 

Il titolo stesso ci fornisce un immediato spunto di riflessione, ovvero aiuta a comprendere che se da un lato la comunicazione grazie alle nuove tecnologie viene estremamente facilitata e semplificata, dall’altro il fenomeno della conversazione subisce una serie di sottrazioni paralinguistiche fondamentali per l’evoluzionismo filantropico.

Non è mia intenzione aprire l’ennesima polemica sugli aspetti negativi per la psiche umana di questo impoverimento comunicativo, mi propongo soltanto di attivare un forte pensiero critico rispetto al fenomeno. Per fare ciò è necessario avere accesso ad una serie di informazioni sul funzionamento della mente.

Con concetti semplici ed efficaci, fruibili anche ai “non addetti ai lavori”, ma utilissimo se adottato dai professionisti del settore, questo manuale fornisce una prima rassegna di teorie sullo sviluppo, filogenetico e ontogenetico, della psiche sociale e del cervello relazionale.

Una volta creato un framework teorico, il lettore avrà la possibilità di riflettere sui processi psicologici e le funzioni mentali che vengono attivati, o disattivati, dinanzi a questo nuovo adattamento (o disadattamento); ed è proprio nell’ultimo capitolo che l’Autrice si sofferma sulla necessità di recuperare quelle competenze sociali che costituiscono da sempre la base di uno dei bisogni primari dell’essere umano, quello della socializzazione: funzioni metacognitive e metaemotive, accudimento ed empatia, condivisione, trasmissione analogica delle emozioni e degli affetti.

L’interazione, in fisica, viene definita come

la reciproca azione fra le particelle, corpi o sistemi, che porta a una modifica del loro stato e della loro energia. (Vocabolario Treccani)

Il cervello, in psicologia, viene considerato come un sistema che per sopravvivere deve scambiare energia con gli altri sistemi, se questo non avviene si raggiungerebbe uno stato definito entropia della mente (Scrimali T., 2006).

Il libro spiega, quindi, la necessità di contrastare l’impoverimento dell’interazione, di recuperare le sue originali connotazioni non verbali.

L’argomento è estremamente attuale e si affianca ai numerosi progetti di psicoeducazione volti a prevenire e gestire non solo le dipendenze dalle nuove tecnologie, ma soprattutto a modificare l’aridità comunicativa che caratterizza le nuove generazioni nel rapporto con i pari e con le figure di attaccamento.

Un libro piacevole da leggere, interessante dal punto di vista teorico e accademico, di ispirazione dal punto di vista dell’intervento professionale.

 

Non di solo pane vive l’uomo: una riflessione amara sulle conseguenze emotive della quarantena

Il presente contributo è stato scritto prima che iniziasse la Fase 2 dell’emergenza

Mia figlia abita a Baggio. Da un mese non posso vederla. La legge è inflessibile. I virologi, che ogni giorno ci arringano dai media reali e virtuali non hanno dubbi: in questo periodo di diffusione del coronavirus ogni contatto umano è pericoloso.

 

Non voglio certo fare polemiche. Ho qualche dubbio che un tipico virus respiratorio possa essere controllato con le classiche misura della quarantena e della ricerca e dell’isolamento dei contatti. Non sono comunque un igienista e mi rimetto come ogni cittadino all’indicazione degli esperti. Del resto, come diceva Socrate, è nostro dovere obbedire sempre alle leggi (Platone, Critone).

Nel disperato tentativo di rallentare la marcia del virus le autorità hanno adottato misure di profilassi senza precedenti nella storia recente del nostro paese. Le libertà fondamentali garantite dalla costituzione sono state rapidamente sospese: libertà di movimento, libertà religiosa, libertà di manifestazione, libertà di riunione e di svolgere attività politica. Le elezioni sono rinviate sine die.

Questi provvedimenti davvero draconiani sono stati salutati con uno straordinario consenso, anzi sono stati in qualche modo invocati dai media e da vastissimi strati dell’opinione pubblica. Le trasgressioni sono relativamente infrequenti. Non si è manifestata alcuna forma di opposizione organizzata. Anzi in taluni casi le forze dell’ordine sono dovute intervenire per impedire improvvisati pogrom di cittadini ipoteticamente infetti da parte della maggioranza benpensante. Dobbiamo concludere che le attuali restrizioni della libertà personale rappresentano ed in qualche modo esprimono sentimenti ampiamente diffusi nella nostra società.

La formulazione delle misure restrittive viene presentata ai cittadini come espressione di asettici dati scientifici. In realtà le diverse strategie adottate nei vari paesi dell’unione europea dimostrano che la selezione delle misure di profilassi implica delle scelte. La società, la politica sono state chiamate a stabilire delle priorità, a identificare ciò che è veramente vitale per l’uomo contemporaneo. Questa gerarchia, squisitamente etica e politica, ha governato i tempi dei divieti e presto governerà le priorità nella progressiva liberalizzazione di attività e stili di vita, che seguirà inevitabilmente all’emergenza.

L’epidemia da coronavirus rappresenta quindi un test proiettivo molto potente. Ci informa sulla contemporaneità più che ogni inchiesta di popolazione o studio sociologico.

Al centro troviamo, anzitutto, la vita fisica, e non poteva che essere così. Le attività sanitarie sono state autorizzate tout court. Forze dell’ordine, protezione civile ed esercito svolgono quasi esclusivamente la funzione di garantire il rispetto delle misure profilattiche. La lotta contro l’epidemia non può fare a meno di loro. Viene poi evidentemente il settore alimentare. Il cibo è necessario alla sopravvivenza.

Ma oltre il corpo? La cultura, la religione, la politica? Soprattutto quale spazio dare alle forze motivazionali che legano gli umani gli uni agli altri?

Il governo, ma direi gli italiani, non hanno avuto dubbi. Le emozioni, gli affetti non hanno una realtà materiale. Anzi, nella prospettiva di un rigido riduzionismo materialista, non esistono affatto. Con coerenza il governo ha interrotto senza la minima esitazione qualsiasi visita agli ospiti degli istituti penitenziari. Ne è scaturita una serie di rivolte per le quali è costata la vita a 13 detenuti. Mentre è stata rispettata la famiglia nucleare, le coppie sposate o conviventi, i genitori con i loro bambini o ragazzi, le interazioni intergenerazionali sono state cancellate con un rigo di penna. Le visite ai figli adulti o ai nonni sono state messe al bando. All’amore tra l’uomo e la donna non è stata riconosciuta alcuna rilevanza sociale.

Un paradigma fortemente biologico governa poi la vita dei malati negli ospedali. La inevitabile paura di noi operatori, così come l’epistemologia che domina la cultura medica contemporanea, ha dettato indicazioni precise: nessun contatto umano.

Le interazioni con i malati sono ridotte al minimo, a quel minimo reso necessario dalla cura del corpo. Volti irriconoscibili avvolti da tute e mascherine fanno capolino brevemente oltre porte per il resto sempre chiuse. La scienza virologica, ci viene spiegato senza cessa dai media, non consente di accomiatarsi da chi ci lascia per sempre: madre padre, marito, moglie, figlio e figlia. Si muore soli. Non ci sono eccezioni: E i forni attendono i cadaveri senza quell’ultimo saluto che le civiltà umane hanno imparato a riconoscere anche ai peggiori nemici.

Confesso che sono rimasto sgomento ed ho qualche difficoltà a riconoscermi in una comunità nazionale così indifferente ai legami del sangue e del cuore. Ma non si tratta di romanticismo od idiosincrasia. Come psichiatri, e come psicoterapeuti, soprattutto come uomini, sappiamo bene che l’amore è necessario alla vita. Tanto quanto la farina che va a ruba nei supermercati.

Negli anni ‘30 nei reparti di pediatria era uso allontanare qualsiasi familiare dal bambino. Presenze troppo emotive rallentano il lavoro dei clinici e certo comportano potenziali rischi infettivologici.

Le conseguenze furono gravi. Presto i bambini si rattristavano, perdevano interessi e vitalità, peggioravano e talvolta morivano. René Spitz (1945) fu in grado interpretare la sindrome dell’ospedalismo come espressione della deprivazione dalla figura materna. Lo studio sperimentale ed etologico del legame madre-bambino ricevette poi un impulso straordinario degli studi di John Bowlby.

Lo psicologo britannico dimostrò che i legami parentali e di coppia hanno una specifica base nei comportamenti geneticamente determinati e sono un prerequisito per la sopravvivenza di tutti i mammiferi.

Del resto i nostri vecchi sapevano bene che di cuore, di crepacuore, si muore. E la moderna epidemiologia ci ha fornito precise conferme empiriche: i lutti, le separazioni, sono seguiti da un significativo incremento di decessi. L’isolamento sociale comporta un incremento della morbilità e della letalità di svariate malattie.

L’uomo ha bisogno di amore. L’uomo ha bisogno di amicizia. La salute psichica e fisica dipendono da una persistente rete di contatti umani e sociali. Quali danni sta producendo l’isolamento sociale che stiamo perseguendo con tanta pervicacia?

Le cronache dell’epidemia ci parlano ogni giorno di coniugi, fratelli e figli che muoiono a breve distanza da un congiunto. Banali coincidenze statistiche?

Temo proprio che la paura che ci attanaglia in questa fase così difficile ci stia portando fuoristrada. Forse scopriremo presto che alla paura abbiamo sacrificato ciò ci cui abbiamo più bisogno.

 

Religione e vita sessuale: un’analisi sul rapporto tra sessualità e religiosità in un campione di giovani adulti

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Sexuality & Culture ha indagato la correlazione esistente tra religiosità, etnia, vita sessuale e identità sessuale in un campione di studenti universitari (Hall et al., 2020).

 

Non c’è dubbio che nel corso dei secoli la religione abbia considerevolmente influenzato la concezione dell’amore e del sesso nella cultura occidentale e, più in generale, in tutte quelle culture che di religione sono intrise fino all’osso (es. Njus & Bane 2009; Soloski et al. 2013;). Naturalmente, non tutte le religioni sono uguali né lo sono tutti i religiosi; in questo studio gli autori si sono soffermati sull’analisi della religiosità (intesa qui come il sentimento di fede verso un’entità superiore, di devozione) in correlazione con l’etnia, il rapporto verso la sessualità e l’identità sessuale in un campione di giovani adulti iscritti all’università (Hall et al., 2020).

Come ormai è risaputo, la religiosità è spesso associata ad atteggiamenti tendenzialmente conservatori e alcune ricerche hanno dimostrato che queste attitudini potrebbero essere influenzate anche dall’etnia e dall’identità culturale (Ahrold & Meston 2010); per quanto riguarda la sfera sessuale, la religiosità sembra avere un impatto maggiore sulle donne che sugli uomini; le donne religiose, quindi, vedono la loro vita sessuale maggiormente influenzata dal credo religioso rispetto alla controparte maschile (Owen et al., 2010). Questo però, non ha lo stesso peso per tutte le etnie: infatti, sembra che una religiosità intrinseca sia associata a conservatorismo sessuale più nelle giovani donne asiatiche che in quelle europee, americane (Ahrold & Meston 2010) e afroamericane (es. Rostosky et al. 2003).

Il presente studio (Hall et al., 2020), partendo dal presupposto che la religiosità influenzi atteggiamenti e credenze riguardanti il romanticismo e la sessualità, si pone l’obiettivo di fare un passo avanti rispetto alla letteratura presente sull’argomento, esaminando valori e comportamenti relazionali che potenzialmente si associano all’essere religiosi.

Il campione preso in analisi, composto da 6068 studenti universitari sia maschi che femmine, ha dovuto inizialmente definirsi come molto religioso, moderatamente religioso, mediamente religioso, moderatamente non religioso e per nulla religioso seguendo una scala Likert a 5 punti. Ha inoltre dovuto specificare la propria etnia, la cultura attuale d’appartenenza, l’identità sessuale e la propria visione riguardo ad alcuni ambiti della sessualità e dei rapporti romantici (matrimonio, divorzio, aborto, convivenza pre-matrimoniale, friendship with benefit -ovvero quelle amicizie con frequenti rapporti sessuali che tuttavia non sono riconosciute come relazioni romantiche-, l’esistenza del “vero amore”, ecc.) per un totale di 100 domande.

I risultati hanno mostrato studenti con un punteggio più elevato nella religiosità, avevano più probabilità di credere nell’unico “vero amore” ed erano più tendenti a rimanere sposati anche nel caso di un tradimento del partner o di sentimenti verso altre persone; inoltre, un alto livello di religiosità era anche associato alla disapprovazione verso l’omosessualità e verso le friendship with benefit. Gli studenti religiosi hanno anche mostrato remore nella convivenza prematrimoniale, verso l’aborto e verso l’utilizzo di siti o applicazioni (meeting, Tinder…) per incontrare un potenziale partner.

Tuttavia, le analisi dei dati hanno anche suggerito una differenza significativa tra le varie etnie riguardo alla religiosità, suggerendo che le associazioni tra la religiosità e i risultati appena citati possano essere valide solo in alcuni casi (Hall et al., 2020).

 

La validità dell’ipotesi di automedicazione di Khantzian nelle new addictions

Le dipendenze patologiche e le new addictions hanno varie caratteristiche in comune. Le ricerche scientifiche indicano come sia sempre maggiormente credibile l’ipotesi che nelle dipendenze senza uso di sostanze, così come nelle tossicodipendenze, il comportamento messo in atto da chi ne soffre sia un tentativo di automedicamento.

Cosa hanno in comune le dipendenze da sostanze stupefacenti e le new addiction

L’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive il concetto di dipendenza patologica come quella

condizione psichica, e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i sui effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione.

Oggi il termine dipendenza patologica viene utilizzato anche per descrivere un gruppo di disturbi caratterizzati, non dall’abuso di sostanze, ma da una ricerca spasmodica di un comportamento o di un oggetto, senza il quale la vita della persona diviene problematica o insostenibile. Si fa riferimento alle così dette new addictions, legate alle nuove tecnologie, allo shopping compulsivo, alla dipendenza da gioco d’azzardo, o a quella da lavoro, o da cibo, o ancora a quella affettiva. Le tossicodipendenze e le addictions, colpiscono un gran numero di persone nel mondo e sono accomunate da diversi aspetti:

  • dal fatto che, chi ne è affetto, è costretto a reiterare lo stesso comportamento, in modo compulsivo, anche se questo è inadeguato e disfunzionale (craving);
  • sono tutte espressioni di una situazione di disagio;
  • le ricerche nel campo delle neuroscienze dimostrano come in tutte queste entità patologiche, ciascuna con una sua modalità peculiare di presentazione, siano presenti alterazioni dei meccanismi celebrali che controllano la gratificazione e la motivazione.

E’ allora lecito pensare che tossicodipendenze ed addictions abbiano un’eziologia comune, che siano determinate dalla medesima causa.

L’ipotesi dell’automedicamento di Edward Khantztian

Una delle ipotesi eziologiche per spiegare l’insorgenza delle dipendenze da sostanze è quella formulata, negli anni Settanta del secolo scorso, da Edward Khantzian e David F. Ducan e nota come ipotesi dell’automedicazione. Inizialmente Khantzian partì dall’idea che i tossicodipendenti fossero individui caratterizzati da un deficit nelle funzioni dell’Io e che la ricerca della droga rappresentasse un tentativo di potenziarne i meccanismi di difesa. Successivamente, considerando la casistica dei soggetti da lui trattati, si pose la domanda se la scelta della sostanza psicoattiva fosse casuale. Giunse alla conclusione che il tipo di droga era selezionato in modo tale che le proprietà farmacologiche della sostanza fossero idonee ad alleviare gli stati affettivi disturbanti del soggetto. Khantzian faceva particolarmente riferimento all’eroina ed alla cocaina.

La teoria dell’automedicamento e gli studi sperimentali

Esistono a supporto della teoria dell’automedicamento alcuni studi sperimentali, tra questi particolarmente interessante è quello condotto nel 1977 da Wusmer L. e Pecksnifr Mr. Si tratta di una ricerca in cui un gruppo di eroinomani è stato trattato con doxepina e paragonato ad un gruppo di controllo trattato con placebo. La doxepina ha provocato una significativa riduzione del craving. Gli autori hanno concluso che gli eroinomani fossero affetti da sindrome ansiosodepressiva che andava in remissione per effetto del trattamento con il farmaco antidepressivo. Come riportato, anche, da Rounsaville et al (1982), il disturbo da abuso di sostanze risponde ad appropriati trattamenti con psicofarmaci contro sindromi target come la fobia e la depressione.

Vi sono, infine, evidenze cliniche, a sostegno dell’ipotesi della self-medication, che riguardano gli individui dipendenti da oppiacei e farmaci sedativo-ipnotici.

Tutti questi dati confermano l’ipotesi di Khantzian secondo la quale i tossicodipendenti depressi usano gli oppiacei nel tentativo di curare uno stato di malessere psichico intollerabile.

Per quel che riguarda le new addictions è stato ipotizzato che, anche per queste dipendenze, possa essere valida la teoria di Khantzian.

Diversi studi suggeriscono che i meccanismi celebrali alla base dell’obesità siano simili a quelli della tossicodipendenza e di conseguenza l’obesità sia da considerare come il risultato di una dipendenza da cibo. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Granada, assieme ai ricercatori della Monash University australiana, hanno condotto uno studio per verificare quest’ipotesi. Sono state ricercate le differenze tra le connessioni funzionali nei sistemi di ricompensa nel cervello degli obesi e dei normopeso. La ricerca si è avvalsa di scansioni funzionali fatte con la risonanza magnetica che hanno mostrato che il desiderio di cibo è associato con l’attivazione di connessioni neuronali diverse, a seconda che la persona sia di peso normale o in sovrappeso. Una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori dell’University of Alabama at Birmingham (USA) e pubblicata sull’American Journal of Public Health ha individuato una correlazione tra depressione e obesità. I ricercatori hanno utilizzato i dati provenienti da uno studio, molto vasto, denominato CARDIA (Coronary Artery Risk Development in Young Adults), che ha monitorato  per 15 anni, un gruppo di giovani adulti, uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 30 anni. E’ stato dimostrato che coloro i quali manifestavano tendenze depressive (livelli misurati a 10, 15 e 20 anni), aumentavano di peso, accrescendo la propria circonferenza addominale più velocemente degli altri; mentre quelli che risultavano già essere in sovrappeso non manifestavano peggioramenti sull’equilibrio psichico.

Nel gioco d’azzardo patologico uno studio condotto da Gianni Savron et. al e pubblicato nel 2001 sulla Rivista di Psichiatria ha dimostrato come i giocatori patologici presentano, rispetto ai controlli, una maggiore sensibilità all’ansia e maggiore distress . Shinohara et al.(1999) hanno osservato un incremento di beta-endorfine, adrenalina e dopamina all’inizio del gioco e durante la partita.

I dati degli studi epidemiologici sulla dipendenza da internet mettono in evidenza come i fattori di rischio, nei giovani, siano rappresentati da problemi psicologici, psichiatrici o familiari preesistenti all’insorgenza del  disturbo. Marazziti et al. (2015) segnalano come tra i disturbi più frequenti vi siano disturbi dell’umore e ansia. Per gli adolescenti elementi di particolare vulnerabilità sono la bassa autostima che, diverse ricerche mettono in correlazione con una maggiore probabilità di sviluppare depressione, oltre all’identità insicura e alle competenze sociali deboli. Infine negli adulti, sono spesso presenti problemi di solitudine, insoddisfazione nel matrimonio, stress collegato al lavoro, depressione, insicurezza dovuta all’aspetto fisico ed ansia.

Esistono diversi motivi per poter pensare che lo shopping compulsivo possa essere una strategia per alleviare uno stato depressivo sottostante. Gli studi di Lejoyeux et al (1996) evidenziano che sentimenti negativi di tristezza, di solitudine, di frustrazione o di rabbia generano un aumento nella tendenza a fare acquisti. Lo shopping è invece associato ad emozioni piacevoli come felicità e senso di potere e competenza  (Alonso-Fernandez, 1999). Faber e O’Guinn (1992) hanno condotto una ricerca che ha evidenziato come gli acquirenti compulsivi hanno punteggi di autostima molto più bassi rispetto ai normali consumatori. Per questi soggetti patologici fare acquisti potrebbe essere un modo per innalzare la propria autostima e combattere frustrazione ed umore depresso. A conferma dell’ipotesi di un legame tra depressione e shopping compulsivo, ci sono i risultati dello studio di McElroy et al. (1994) in cui nove soggetti su tredici trattati con antidepressivi mostrano una completa o parziale remissione dei sintomi caratteristici dello shopping compulsivo.

I dati degli studi scientifici confermano come tossicodipendenze e addictions abbiamo molte caratteristiche comuni e come sia plausibile pensare che, anche per le dipendenze senza uso di sostanze, esista un legame tra comportamento compulsivo e sintomi di depressione ed ansia. Queste evidenze rendono la teoria dell’automedicamento molto probabile e applicabile ad ogni tipo di dipendenza.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del primo incontro “Coronavirus: emozioni e difficoltà nella quarantena”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. Continua il successo dei Dialoghi con Sandra. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del primo incontro col Dott. Gabriele Caselli.

 

I Dialoghi con Sandra sono un’occasione per confrontarsi, uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si apre a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno cadenza settimanale, ad ogni incontro è presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del primo incontro è stato il Dott. Gabriele Caselli, il quale ha affrontato l’argomento “Coronavirus: emozioni e difficoltà nella quarantena”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

 

 

 

Non perderti l’incontro di oggi mercoledì 6 maggio alle ore 14.00

Per partecipare è sufficiente registrarsi al webinar cliccare il link:

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Il legame e le emozioni tra lo psicoterapeuta e il paziente: il lavoro psicologico ai tempi del Covid-19

In questi giorni in cui abbiamo tanto tempo per riflettere, mi sono soffermato su di un pensiero legato al dolore, alle emozioni e alle dinamiche afferenti alla relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente ai tempi del Covid-19.

 

Mi sono chiesto se il legame e i connotati emotivi abbiano subito delle modificazioni. Inevitabilmente stiamo vivendo una tragedia di immani proporzioni e talvolta al dolore subentra lo scoraggiamento, l’arresa, mentre, in altri casi, la resilienza ci permette di adattarci alle nuove esigenze di vita.

Ed è nell’osservare la nostra fragilità e impotenza che emerge il lavoro psicologico, nello spazio di condivisione terapeutico, come dire che in ogni deserto può esserci la strada che conduce alla rinascita. Come non mai, la professionalità psicologica è chiamata a leggere in modo appropriato il contesto sociale all’interno del quale opera.

Per rimanere vicino ai nostri pazienti ci siamo fermati nelle nostre attività cliniche che prevedevano sedute “vis à vis” a favore di colloqui mediante altri strumenti, con interventi a distanza, da remoto (skype, videochiamate, ecc.). Ciò è stato necessario nell’ottica di una protezione verso sé stessi e gli altri e comunque anche per attenerci alle direttive legislative.

Rimanere accanto ai pazienti in un momento in cui viene meno lo spazio fisico, complesso, appare necessario non solo deontologicamente ed eticamente, ma anche moralmente per chi in questo momento aggiunge sofferenza a quella già preesistente.

È proprio nel momento in cui viene meno lo spazio fisico e concreto, dove è precluso lo spostamento, che la piattaforma digitale diviene rappresentativa, una risorsa importante per affermare la nostra presenza, per continuare a contribuire al benessere dei pazienti.

Il mezzo informatico ci permette di essere vicini e presenti anche in una distanza territoriale, una distanza che, però, protegge senza allontanare.

Ci siamo adeguati ad una nuova modalità di strutturare il setting del colloquio. Abbiamo perso la canonica, in base al modello di riferimento, strutturazione terapeutica.

Prima, abituati nel nostro studio, ci sentivamo protetti da uno spazio dove contenuto e contenitore interagivano, lasciando anche spazio alla rappresentazione mentale. Il paziente adesso conosce i nostri spazi più intimi e familiari. Adesso la nostra comunicazione passa in remoto. Si organizza tutto all’interno di quello spazio virtuale. Dietro uno schermo avviene il processo del cambiamento.

Ma siamo propri sicuri che così facendo riusciamo ad essere compassionevoli mantenendo inalterata la relazione? Un paziente in seduta attraverso skype mi dice: “dottore noto che lei ha molti quadri, le piace l’arte?”. E allora lì vi è l’ingresso nel tuo mondo. Il paziente conosce e si riconosce in alcune tue intimità familiari che prima venivano celate dietro il setting più ortodosso dello studio.

In questo spazio si riconfigura il rapporto, si assiste all’amplificazione ed inevitabile condivisione emotiva.

Il setting rimodellato ridetermina il significato affettivo dei vissuti del paziente poiché l’esposizione al disagio si amplifica. Avviene un cambiamento nella relazione poiché c’è uno spazio di dolore condiviso dove il paziente e lo psicoterapeuta si riconoscono e si leggono, nel momento attuale di difficoltà legata al Covid-19, abbattendo spazi che prima erano più conformi al setting tradizionale.

Le paure del paziente diventano quelle dello psicoterapeuta; in questo spazio-scenario potremmo scoprirci vulnerabili mettendo a nudo le nostre fragilità. Se questo può apparire deleterio perché la simbolizzazione del terapeuta subisce la vulnerabilità, penso però che d’altro canto possa dare uno spazio di riflessione al paziente.

Ritengo che lo psicoterapeuta, ammettendo le proprie fragilità all’interno dello scenario relazionale proposto dal paziente, eviti quella simbolizzazione che può essere d’ostacolo. Il contenuto affettivo che comunque permea il rapporto non è mai eliminabile, ma è parte del lavoro di psicoterapia.

Lo psicoterapeuta è investito di molte attese, di emozioni positive e/o negative a seconda del ruolo a cui viene associato. In questa simbolizzazione si mescolano agiti emozionali di fantasia, ma anche aspettative realistiche nei confronti del rapporto terapeutico.

Se rileggiamo e individuiamo le fantasie del paziente, esse diventano una finestra attraverso cui comprendere le altre relazioni e gli equilibri in cui è immerso.

Il buon terapeuta all’interno dell’interazione non può e non deve escludere la dimensione emotivo-affettiva. Già dall’analisi della domanda si costruisce quel patto di fiducia e di comprensione che, personalmente, chiamo “comunanza sinergica”.

Lo psicoterapeuta con la propria competenza e stabilità, solidifica il sostegno emotivo durante tutto il percorso di psicoterapia. Diviene una risorsa in grado di stimolare il cambiamento permettendo di raggiungere quella consapevolezza e dare voce e capacità di narrazione dei propri bisogni.

Non è presente solo il colloquio clinico nella relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente ma anche una connessione più profonda, nel corso della quale il terapeuta entra in contatto con le sensazioni del paziente essendo l’evocatore di emozioni e di arcaici pensieri.

Un bravo psicoterapeuta deve essere molto preparato e pronto ad intercettare le sensazioni che gli trasmette il paziente. Rimanere vicino a lui differenziandosi.

Ma ai tempi del covid-19, il lavoro terapeutico può subire un arresto, quasi una paralisi omeostatica. Non è da escludere che se il lavoro terapeutico non sta funzionando vuole dire che è subentrata una collusione, un tipo di relazione che si può creare tra lo psicoterapeuta e il paziente, a causa della quale tra i due si crea un’alleanza distorta che inevitabilmente porta a cristallizzare la situazione patogena impedendo ogni forma di cambiamento psicologico.

Ai giorni attuali, con i nostri pazienti, la metodologia ha subito un processo di ri-costruzione, di riformulazione, attenta al contesto sociale e al divenire dello sviluppo terapeutico.

Come uscirne fuori?

Sicuramente non imponiamo l’obiettivo pregresso del percorso in itinere ma riformuliamo l’analisi della domanda. In questa riformulazione c’è subito un cambiamento, un’attenzione in grado di analizzare i momentanei conflitti, fornendo uno spazio entro cui poterli esprimere e sperimentare, nella consapevolezza che ogni approccio psicoterapico ha un proprio punto di vista su dove orientarsi.

Ritengo che lo psicoterapeuta e il paziente debbano liberarsi delle proprie immagini, verbalizzarle e contestualizzarle in un tempo come questo.

I sentimenti e le emozioni espresse all’interno del setting terapeutico, se ben gestiti, rappresentano un ottimo indicatore della terapia.

In ogni seduta terapeutica ed in ogni momento della vita quotidiana il confronto con le emozioni diviene necessario.

All’interno del lavoro psicologico, lo psicoterapeuta si trova dinanzi ad alti livelli emozionali. E allora diviene necessario portare il paziente a modificare le proprie risposte emozionali in riferimento alle situazioni specifiche vissute.

Nell’importanza al presente, nel “qui ed ora“, lo psicoterapeuta utilizza gli strumenti e le procedure più idonee per la modificazione dei comportamenti e dei pensieri, più o meno espliciti e disadattivi, a favore di una regolazione emozionale più adattiva che contempli anche una accettazione della sofferenza attuale, poiché non c’è da gestire solo un pregresso emotivo ma anche quello che contemporaneamente accade nel contesto sociale.

Il lavoro sul “qui ed ora” include la capacità di essere nel momento presente, reale, accettandolo anche nel suo paradossale divenire. L’ancoraggio al futuro catastrofico e al passato idealizzato subisce una battuta d’arresto, di sospensione, a favore di uno spazio esperienziale condiviso anche nell’accettazione della vulnerabilità.

Ed è proprio in questo scenario che tra lo psicoterapeuta e il paziente si innesca un rapporto esclusivo ed irripetibile ma anche una difficoltà legata ad un rimodellamento relazionale.

Lo psicoterapeuta, frenando le proprie istanze narcisistiche, fa da specchio ed il paziente proietta su di lui una serie di emozioni contrastanti che comprendono apprezzamento, affetto, ma anche rancore per non essere in grado di sollevarlo.

Ma lo psicoterapeuta in questo momento potrà provare emozioni che potrebbero direttamente sollecitare ulteriormente il paziente?

Può accadere certamente che durante il percorso di psicoterapia il paziente possa intercettare le emozioni dello psicoterapeuta, rielaborandole attraverso il proprio patrimonio emozionale.

Il paziente potrebbe esplicitarle direttamente o portarle attraverso altri canali, il non verbale, i sogni, ecc. La psicoterapia è un incontro umano, e le parole e le emozioni possono allontanare dalla realtà, creare nuove immagini, fantasmi.

La psicoterapia, però, non può allontanarsi da tutto ciò, perché la psiche e l’essere umano vivono grazie ad esse e non lontano da esse. Bisogna accoglierle in modo da poter lavorare su quella trasformazione, su quel cambiamento.

Il benessere psicologico, come formulato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, viene inteso non solo come mero stato di assenza patologica o di disagio, ma come situazione nella quale ciascuno è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per riuscire ad adattarsi costruttivamente alle situazioni che, di momento in momento, si trova a vivere, siano esse caratterizzate da input interni o esterni.

Se riflettiamo, nel corso della nostra vita ognuno di noi ha sperimentato situazioni talmente diversificate e uniche. L’unica cosa che prima o poi ci accomuna è la propria morte o quella di una persona a noi cara. Adesso però abbiamo qualcosa che ci accomuna, stiamo vivendo in parallelo la stessa situazione drammatica legata al Covid-19. Vi è uno spazio emotivo di condivisione che è intimamente legato al significato. D’altronde anche noi come psicoterapeuti siamo pervasi da paure.

Come già detto, all’interno di questa esperienza possiamo permetterci di condividere con il nostro paziente la vulnerabilità e la fragilità.

Sicuramente il momento che noi tutti stiamo vivendo ci permetterà in un futuro, dopo la sofferenza, anche di essere maggiormente resilienti. In questo caso è importante sollecitare e analizzare la nostra capacità riflessiva e quella del paziente, cioè la capacità introspettiva di guardare sé e l’altro, oltre ad analizzare quali strategie si è in grado di mettere in campo per far fronte all’attuale disagio.

Siamo talmente sovra stimolati in modo diretto e indiretto dalla complessità della situazione da poterci sentire inadeguati come psicoterapeuti.

Essere attenti al nostro essere come psicoterapeuti ci permette di accogliere la nostra vulnerabilità e non dare adito alle eccessive richieste del paziente che in questo momento potrebbero essere eccessive. Essere attenti a noi, anche attraverso il costante monitoraggio di un supervisore esperto, ci permette di regolare la nostra emotività.

Il lavoro con questa emozione diviene una costante e costituisce un ingrediente centrale per la psicoterapia.

Quando portiamo il paziente a rivolgere l’attenzione verso ciò, in effetti lo aiutiamo ad accedere ad importanti bisogni e a creare un nuovo significato.

In questo spazio di condivisione, dove ad ogni seduta vicendevolmente lo psicoterapeuta e il paziente si chiedono “come sta?”, frase iniziale riservata prima quasi esclusivamente al terapeuta, ora diviene un comune terreno di condivisione emotiva, dove anche il paziente, paradossalmente e forse neanche tanto, si prende cura del proprio psicoterapeuta. In questo scenario il processo del paziente diviene quello dello psicoterapeuta e la terapia si indirizza ad attivare schemi condivisi.

Le emozioni ci forniscono dettagli sulle nostre reazioni agli eventi esterni e quindi è necessario esserne consapevoli. All’interno di questa consapevolezza risultano soddisfatti gli obiettivi terapeutici.

La capacità di essere consapevoli alle proprie emozioni e sentimenti divengono dei regolatori per parametrare la sofferenza. Una sorta di acquisizione di strategie per regolare le emozioni disfunzionali.

La sofferenza ci mette in allerta in una situazione di disagio; attraverso essa noi facciamo di tutto per evitare che si verifichi nuovamente.

Il rischio è quello che l’eccessivo controllo alle reazioni emotive possa portare ad elaborare strategie disfunzionali, non prestando più attenzione ai segnali emotivi della propria esperienza.

Quindi appare necessario anche intercettare quelle che sono le risposte emozionali attuate affinché avvenga una elaborazione adattiva e congruente.

In psicologia si parla spesso, giustamente, dell’importanza delle emozioni e come abbiamo già detto alla necessità di accettarle.

In questo scenario di preoccupazione condivisa, anche lo psicoterapeuta – essere umano, si trova ad affrontare una difficoltà. Certo noi tutti sappiamo che le stesse vanno portate all’interno del proprio percorso personale e di supervisione.

Ma siamo proprio sicuri che non ci sia dell’altro?

Consideriamo che noi tutti abbiamo subito almeno una volta nella vita un dolore e con i nostri strumenti, che ancor di più noi terapeuti che dovremmo possedere, siamo riusciti a superarlo. E anche se il paziente riproponesse lo stesso disagio/dolore da noi sperimentato, non sarà mai lo stesso poiché appartiene ad un “tempo” diverso, già elaborato (o almeno si spera).

Adesso, invece, stiamo assistendo ad una emozione riferita agli eventi attuali (Covid-19), in un “tempo” condiviso e con “parametri emozionali” condivisi o quasi vista la soggettività di ognuno.

Questo è il dilemma e forse anche, paradossalmente, il privilegio.

La risposta è che “Noi” proviamo quanto asserito dal paziente in un tempo “presente” e non legato o dovuto ad esperienze pregresse.

Potremmo non avere sperimentato la stessa esperienza del dolore portato da un paziente per la perdita ad esempio di un caro ma ciò che ci accomuna come non mai adesso diviene oggetto di uno spazio condiviso e condivisibile.

Questa parte umana ci permette di comprendere l’altro come non mai. Lo psicoterapeuta non resta indifferente alla realtà altrui e si emoziona di fronte alle parole del paziente, poiché in quelle parole si riconosce.

La nostra formazione ci ha permesso di prenderne le distanze, di analizzare le emozioni, ma ciò appare più complesso poiché entrambi siamo immersi in un comune denominatore: ”pandemia da coronavirus”. E forse è necessario recuperare nella psicoterapia quella umanità che a tratti è stata persa. Appare difficile immaginare che ciò sia stato recuperato grazie a delle sedute su un monitor, in un setting diverso; per quanto mi riguarda inimmaginabile fino a qualche tempo fa.

E per finire, forse, dobbiamo ammettere e dire che anche lo psicoterapeuta può legittimamente piangere. Può emozionarsi poiché gli eventi di vita non lo lasciano indifferente.

Lo psicoterapeuta, come ogni altra persona, di diritto affronta il proprio vissuto come quello dei propri pazienti.

Il confine tra lo psicoterapeuta ed il paziente è dato dalla separazione del silenzio, quel silenzio fatto di commozione, dove non c’è più spazio per le parole.

Il ruolo dello psicologo è quello di essere un chirurgo estetico delle emozioni (cit. Carmelo Dambone).

 

Moderni untori: invidia, rabbia e solitudine ai tempi del coronavirus

La diffusione di un’epidemia come quella di coronavirus ha colto la popolazione alla sprovvista, con conseguenze importanti sulla società contemporanea e lo sviluppo di sentimenti di rabbia, invidia e solitudine.

 

Per millenni l’umanità è stata del tutto impotente di fronte alla malattie infettive. Peste, colera, febbre gialla, malaria e tubercolosi hanno mietuto nei secoli milioni di vittime.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la salute pubblica ha conosciuto un’epoca d’oro senza precedenti. Con lo sviluppo degli antibiotici, la letalità della maggior parte delle malattie batteriche è stata drasticamente ridimensionata. I vaccini hanno neutralizzato quasi completamente le minacce delle malattie virali. I farmaci antivirali hanno dimostrato di poter tenere sotto controllo lo spettro dell’AIDS.

Per un attimo l’umanità ha intravisto la possibilità di potere completamente risolvere il problema delle malattie infettive come significativa causa di mortalità nelle popolazioni umane immunocompetenti. Il miglioramento della salute e dell’aspettativa di vita non è sembrato però sanare le angosce ipocondriache. Anzi negli ultimi anni il terrore della malattia e della morte ha raggiunto una rilevanza sociale sconosciuta ai nostri progenitori. Il trattamento di malattie banali (come le malattie esantematiche dell’infanzia) o molto rare è divenuta oggetto di dibattiti feroci. Quattro casi di meningite solo pochi mesi fa hanno scatenato una vera isteria collettiva con code agli uffici di vaccinazione.

La nostra comunità ha inseguito con esasperata determinazione il sogno di una longevità garantita. Si è affermata la convinzione che la morte sia un evento che riguarda solo la terza età. Oggi i media presentano abitualmente ogni decesso come espressione di un’imprudenza, una colpa, un disservizio da attribuire ora ai medici, ora agli amministratori, ora ad alcuni gruppi sociali arretrati e oscurantisti.

La nostra epoca ha creduto di mettere la morte alla porta. Ma è tornata. Da Wuhan la globalizzazione ci riporta indietro di un secolo. L’umanità sperimenta ancora una volta la propria impotenza di fronte a un agente patogeno. I morti si contano a migliaia. La vaccinazione è ancora lontana. Nessuna misura di profilassi è in grado garantire la salute, nessun presidio terapeutico garantisce la salvezza. E l’impotenza si trasforma in rabbia.

In questa epoca di quarantena i contatti umani sono pochi. Dobbiamo rivolgerci a canali virtuali per renderci conto del clima sociale. E qui, sui media, la rabbia impazza. Si percepisce la disperazione ma soprattutto la ricerca di un colpevole. Sono meccanismi proiettivi molto noti a chi si occupa di gruppi, comunità e istituzioni. Leggendo I promessi sposi di Alessandro Manzoni, abbiamo imparato che la caccia all’untore è una pratica gradita alle masse terrorizzate e ampiamente promossa dai governi autoritari.

La gogna mediatica punta il dito in direzioni precise. Dimostra un peculiare intuito nel selezionare i nemici del popolo. Su questo vorrei richiamare appunto la vostra attenzione. Mentre molte attività industriali più o meno essenziali proseguono, mentre le necessità alimentari muovono e concentrano milioni di persone ogni giorno, i social media, la stampa e la politica hanno allergie molto specifiche. In prima fila i runner, che serenamente si muovono in solitudine più o meno completa negli spazi vuoti. Poi i bambini, rinchiusi in casa da settimane ed evidentemente in sofferenza. Le coppie, costrette ad incontrarsi clandestinamente in prossimità dei supermercati o abbracciate sul sellino di una moto, non trovano maggiore comprensione.

Forse l’impatto epidemiologico di queste categorie di cittadini è particolarmente pericoloso per l’epidemia in corso? Lasciamo questa domanda agli esperti e cerchiamo invece di comprendere le informazioni che queste idiosincrasie possono offrirci rispetto alle forze consce ed inconsce che condizionano i funzionamenti dei gruppi.

Dobbiamo allora chiederci prima di tutto cosa accomuna i moderni untori, i bersagli preferiti dei media reali e virtuali. Giovani sportivi, coppie, genitori con figli rimandano tutti quanti ad una esperienza di godimento. Cercano e forse hanno trovato una felicità.

La nostra epoca ha ormai seppellito quasi completamente qualsiasi manifestazione del sacro. La quarantena attuale è solo l’ultima sciagura che affossa forse definitivamente comunità pastorali ormai al collasso. Anche senza coronavirus la quaresima rimane un nome quasi vuoto per indicare le settimane precedente alla Pasqua.

Per secoli gli europei hanno condiviso il dolore della vita attendendo comunitariamente nel digiuno la Croce Salvifica del Cristo. Oggi è il virus a portare il dolore, e come nell’Europa Ancien Régime è l‘autorità dello stato a chiudere i teatri, imporre coprifuoco e digiuni. Runner, amanti e bambini non sanno o non vogliono uniformarsi. Continuano a creare una felicità umana: il corpo, la vita, l’aria e il sole.

Melanie Klein e i suoi allievi ci hanno insegnato che l’invidia rappresenta una straordinaria forza motivazionale a livello individuale e sociale. Sigmund Freud ha scoperto che nulla genera una gelosia più intensa di un uomo e di una donna uniti dall’amore e capaci di generare un discendenza.

L’epidemia di coronavirus agisce come una cartina tornasole. Rivela tutta la disperazione, la rabbia e l’invidia che allignano nella società contemporanea. La dissoluzione dei simboli condivisi, la disintegrazione delle forme di aggregazione politica, sindacale, religiosa, il costante arretramento della cultura umanistica ci hanno lasciato soli. Mentre i nuclei familiari si restringono e il paradigma celibatario dilaga, la vita sociale è sempre più ampiamente sostituita dai contatti virtuali. Rimaniamo soli di fronte al computer. Con nessuno possiamo condividere la rabbia, il dolore e l’esperienza ormai quotidiana del lutto. E questo collasso sociale, purtroppo resterà con noi anche quando il virus non sarà che un triste ricordo.

 

Nel mare c’è la sete (2020) di Erica Mou – Recensione del libro

Nel mare c’è la sete è un romanzo sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Io sono una spiaggia che a un certo punto, a furia di
pressare e compattare e archiviare, si è ritrovata montagna.
Più alta persino di una giraffa.
Voglio tornare a essere mare, voglio tornare all’acqua certa che mi riconoscerà.

 Nel mare c’è la sete è il romanzo d’esordio della cantautrice Erica Mou, in cui al centro della narrazione c’è la complessità del mondo delle relazioni, in particolare quando un trauma passato condiziona pesantemente rapporti, affetti e scelte di vita.

Nel mare c’è la sete: quattro pasti

La vicenda si svolge apparentemente nell’arco di 24 ore, scandite da quattro pasti che cadenzano il libro come strofe di una canzone. In realtà, in questo lasso di tempo, ripercorriamo insieme a Maria, la protagonista e narratrice della storia, i suoi ultimi venticinque anni di vita, a partire dal momento in cui sostiene di aver ucciso sua sorella minore Estate.

Il libro inizia proprio con l’anniversario della sua morte.

Nel mare c’è la sete: vedersi attraverso gli altri

Maria è una ragazza di 32 anni, che ha messo su un bizzarro negozio, in cui la sua mansione è quella di pensare e confezionare regali per persone importanti, per conto di chi non riesce a farlo per insicurezza o per pigrizia. Un lavoro quindi rivolto alla soddisfazione dei desideri altrui, che è una costante nella vita di Maria. Le sue scelte personali infatti sembrano più sintonizzate su gusti, desideri e bisogni degli altri che su quelli propri (“E’ una vita che rubo vite”). La stessa idea del negozio era stata della sua cara amica Ruth, dei tempi del soggiorno a Londra, e in fondo a Maria nemmeno piace e cova l’intento di volersene disfare.

Maria convive con Nicola, un ragazzo molto diverso da lei. Maria si definisce imperfetta, una di quelle persone che nella borsa non trova mai niente. Nicola invece, pilota di aerei, è secondo sua madre il ragazzo perfetto: strutturato e preciso nelle sue abitudini, molto attento alla forma e alla superficie delle cose, senza andare in profondità, nemmeno degli stati mentali dolenti di Maria.

In questo rapporto, Maria sente di non aver costruito niente insieme a Nicola: vivono in una casa che a loro non piace, hanno una cane solamente immaginario e non riescono ad avere un dialogo autentico. La decisione di andare a vivere insieme era stata presa subito dopo essersi conosciuti

con la fretta che hanno i complici di un reato con il motore acceso, senza il tempo di pensare, con la rapidità di chi deve sopravvivere e dunque scappa. Io da una casa troppo vuota, lui da una sovraffollata.

Maria ha difficoltà a lasciare Nicola e, probabilmente, il suo non chiederle troppo dei suoi malesseri (lui stesso esprime l’ansia attraverso dolori fisici notturni) le rinforza la tendenza a non voler affrontare i propri temi dolorosi, ma piuttosto a evitarli e sfuggirne.

Nel mare c’è la sete: un trauma in famiglia

A segnare profondamente la vita di Maria e della sua famiglia è un evento tragico avvenuto quando aveva 7 anni: mentre stavano giocando insieme nella loro cameretta, un incidente domestico causa la morte della sorellina di 5 anni, Estate (titolo della canzone preferita dai suoi genitori).

Da quell’evento traumatico, si costruisce granitica in Maria la credenza di essere la responsabile della morte di Estate, come

un blocco di marmo in mezzo al petto, tra le costole e lo sterno.

Anche se le persone intorno a lei (tranne suo padre) cercano di rassicurarla, a parole, ripetendole che non è stata colpa sua, l’atteggiamento della sua famiglia le conferma, nei gesti e nel clima relazionale, questa convinzione profonda e dolorosa. Il padre cade in una profonda depressione e attua un serrato silenzio nei suoi confronti, interrotto solo da occasionali rimproveri; sua madre intrattiene con lei un rapporto meramente formale, dove non c’è spazio per l’ascolto dei bisogni emotivi di Maria, ma solo per preoccupazioni di carattere materiale, a partire da quella per il poco appetito mostrato da sua figlia.

Maria si sente incollata addosso l’etichetta della colpevole, dell’ “assassina” e sembra non sentirsi degna di desiderare e decidere il meglio per sé. Inoltre, l’abitudine costante a non essere vista, fa in modo che anche Maria stessa non veda, riconosca e accetti il suo mondo interiore. Filastrocche e giochi di parole composte nella sua mente l’aiutano, in certi momenti, a dissociarsi da un mondo percepito come non comprensivo, indifferente e giudicante.

Nel mare c’è la sete: riconoscersi

Le 24 ore, attraverso cui seguiamo Maria, la conducono a un altro momento cardine della sua vita: la decisione di continuare o meno la gravidanza, che ha scoperto poco più di una settimana prima. Maria, col suo profondo vissuto di indegnità, credeva di essere sterile, pensava che da lei non potesse nascere alcun essere umano e che la natura gliene avesse dato conferma fino a quel momento .

Maria è combattuta tra diversi scenari: c’è una parte di lei che vorrebbe conoscere la creatura che potrebbe dare alla luce e che, nella sua fantasia prevalente, è una bambina di nome Libertà, libera da nomi assegnati per tradizione di famiglia, da etichette, aspettative e condanne; allo stesso tempo, sente anche di non essere pronta a questo importante momento, pensa di non aver costruito nulla e di condannare la bambina o il bambino che nascerà ai condizionamenti del trauma vissuto. Teme infatti il rischio che possa diventare un gesto di espiazione per sé stessa e per la sua famiglia, una nuova nascita per simbolicamente assolverli dalla morte di Estate. D’altra parte, immaginando di dire a tutti di aver abortito, percepisce il loro sguardo critico e disprezzante e la conferma, una volta per tutte, che è davvero lei l’assassina e l’unica da condannare nel “processo”.

Tuttavia, di fronte all’immensità del mare (“spazi grandi, adatti alle decisioni grandi”), Maria percepisce dentro di sé una nuova voce che le dice:

Io non sono un’assassina. Io sono una bambina che stava giocando nella sua cameretta.

A poco a poco, prendendo contatto con la bimba che è stata e prendendosene finalmente cura, sente sgretolarsi dentro di sé quel “pregiatissimo” blocco di pietra al petto, al di sotto del quale c’è

una bussola, proprio come quella di Ruth, che trova il nord di dove voglio andare.

Finalmente libera, emerge in lei il pensiero che ci sia un’altra strada da percorrere: scegliere per la prima volta senza dover rendere conto agli altri e temere costantemente il loro giudizio, ma dando legittimità al proprio sentire.

Maria sceglie di interrompere la gravidanza e, insieme a questa importante decisione, inizia a sentire il bisogno di dare una svolta a quella patina piatta e apparentemente confortante che era diventata la sua vita: come un immenso e calmo mare, che tuttavia non può nutrire la sete perché la sua acqua non si può bere.

Nel mare c’è la sete è un romanzo, che ha il suono di “una lunghissima canzone”, sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

La nostra alimentazione può aumentare il rischio di demenza?

Lo studio pubblicato su Neurology si è concentrato sull’esaminare le reti alimentari e il loro legame con lo sviluppo di demenza.

 

Nel 2020 non è un segreto che una dieta sana possa portare giovamento oltre che al corpo in generale, anche al nostro cervello. Tuttavia, potrebbe non essere solo questione di quali alimenti mangiamo, ma piuttosto come combiniamo tra loro i cibi che assumiamo (Samieri et al., 2018).

Secondo un nuovo studio pubblicato sul giornale Neurology il 22 aprile 2020, la rivista medica dell’American Academy of Neurology, le persone la cui dieta consisteva principalmente in carni altamente elaborate, cibi amidacei come patate, snack, biscotti e torte, avevano maggiori probabilità di sviluppare una demenza negli anni successivi, rispetto alle persone che mangiavano una più ampia varietà di cibi sani (Samieri & Kimberly, 2020).

Quindi, secondo i ricercatori che hanno condotto il suddetto studio sperimentale, esiste una complessa interconnessione tra gli alimenti nella dieta di una persona, ed è importante capire come queste diverse connessioni, o reti alimentari, possano influenzare il cervello sottintendendo che la dieta potrebbe essere una strategia efficacie per prevenire la demenza (Samieri & Kimberly, 2020).

Numerosi studi hanno dimostrato che una dieta più sana, ad esempio una dieta ricca di verdure a foglia verde, bacche, noci, cereali integrali e pesce, può ridurre il rischio di demenza di una persona. Molti di questi studi si sono concentrati sulla quantità e sulla frequenza di ingestione di questi alimenti. Lo studio pubblicato su Neurology si è concentrato maggiormente sull’esaminare le reti alimentari e ha riscontrato importanti differenze nei modi in cui gli alimenti venivano consumati congiuntamente.

Lo studio ha coinvolto 209 persone con un’età media di 78 anni affette da demenza e 418 persone, bilanciate per età, sesso e livello di istruzione, sane (Samieri & Kimberly, 2020).

Cinque anni prima i partecipanti avevano compilato un questionario sull’alimentazione che descriveva quali tipi di alimenti consumavano durante l’anno e con quale frequenza, da meno di una volta al mese a più di quattro volte al giorno. Hanno anche fatto controlli medici ogni due o tre anni. I ricercatori hanno utilizzato i dati del questionario sugli alimenti per confrontare quali alimenti venivano spesso consumati (Samieri & Kimberly, 2020).

È emerso che le persone che hanno sviluppato la demenza tendevano a mangiare carni altamente elaborate come salsicce, salumi e patè con cibi ricchi di amido come patate, alcool, snack, biscotti e torte. Secondo i ricercatori questi dati suggeriscono che la frequenza con cui la carne ‘’elaborata’’ è combinata con altri insalubri alimenti, possa essere un importante fattore che concorre ad aumentare il rischio di sviluppare una demenza (Samieri & Kimberly, 2020).

Trattandosi di dati preliminari, si denota la necessità di condurre ulteriori studi prima di affermare con “certezza” che la dieta seguita da un individuo possa incidere sulla probabilità di sviluppare una demenza, si denota inoltre la necessità di comprendere, quali demenze siano più correlate al cibo, dato che il panorama di questa tipologia di disturbo è estremamente ampio e non è costituito unicamente dalla sindrome di Alzheimer (Samieri & Kimberly, 2020).

 

La gravidanza ai tempi del Covid-19

La gravidanza si presenta dunque come un momento di notevole complessità psicologica e quindi anche di potenziale vulnerabilità. Cosa implica affrontarla durante l’emergenza sanitaria da Covid-19?

 

Sono una psicoterapeuta e sono incinta. Non che questi siano privilegi di questi tempi, ma con questo articolo vorrei condividere alcune riflessioni su cosa vuol dire diventare mamma ai tempi del Covid19. Cercherò di dare il mio contributo personale e professionale, facendo luce sullo stato attuale della ricerca, sugli aspetti psicologici implicati nella gestazione e sulle opportunità presenti sul territorio nazionale.

La gravidanza costituisce di per sé un momento particolare della vita di una donna, in cui gli aspetti di cambiamento psicologico e somatico richiedono complesse capacità di adattamento.

Oltre alle trasformazioni fisiche, la gestazione implica nuovi ed importanti equilibri riguardo all’identità individuale, di coppia e sociale (Della Vedova, 2009). La donna in gravidanza deve confrontarsi contemporaneamente con le modificazioni corporee in atto e con l’assunzione del ruolo materno, processo che implica responsabilità e timori. Gli aspetti relativi alla costruzione dell’identità femminile-materna devono inoltre essere conciliati con i cambiamenti che il nuovo ruolo impone rispetto al contesto, all’identità lavorativa, culturale e sessuale della donna (Ibidem).

La gravidanza si presenta dunque come un momento di notevole complessità psicologica e quindi anche di potenziale vulnerabilità.

In questo periodo di cambiamento, la gestione delle emozioni diviene ancor più complessa se i nostri punti di riferimento sono distanti, se ci troviamo a combattere contro un nemico invisibile che non conosciamo, se non possiamo contare del tutto sui Servizi Sanitari.

Tuttavia, ciò che rende insopportabile tutto questo e ci fa sentire ancora più deboli e impotenti è il bisogno assoluto e irrinunciabile di avere risposte certe su come andranno le cose.

L’ansia deriva proprio dalla percezione di aver perso capacità predittiva rispetto a un certo dominio di fenomeni (Kelly, 1955; Lorenzini e Sassaroli, 1995). Improvvisamente il sistema sa di “non sapere”. Non è il semplice “non sapere” che genera ansia. Le molte cose che non conosciamo non ci danno alcuna preoccupazione. Quest’ultima subentra invece solo a seguito di un fallimento previsionale (Lorenzini e Scarinci, 2013). Fino a quel momento credevamo di sapere, poi una invalidazione ci convince che sbagliavamo. In un certo ambito conoscevamo e invece non conosciamo più. E più è ampio il campo in cui si resta senza prevedibilità, maggiore sarà l’ansia (Lorenzini e Sassaroli, 1995).

Ma non c’è solo l’ansia. Lo scoraggiamento è la sensazione che si ha di fronte alla necessità di compiere un lavoro faticoso, dall’esito incerto e del tutto inaspettato (ibidem). Infatti, di fronte a una invalidazione, il sistema deve compiere un lavoro di ristrutturazione complessivo dovendo aggiornare le mappe che si sono dimostrate imprecise (ibidem). Questo lavoro di ristrutturazione interna sarà tanto più faticoso, lungo e impegnativo tanto più l’invalidazione (o la previsione di essa) colpirà una credenza centrale del nostro essere al mondo (ibidem).

Pensiamo all’importanza che attribuiamo allo scopo “diventare una buona madre”: quanta più incertezza percepiamo intorno a noi e tanto più catastrofiche saranno le nostre previsioni per il futuro, molto più difficile sarà vivere nel momento presente per poter sfruttare tutte le possibili risorse disponibili e godere del benessere della dolce attesa.

C’è poi l’emozione della rabbia suscitata dalla percezione del senso di ingiustizia subito: di certo avevamo immaginato una gravidanza migliore, proprio ora doveva accadere?

Anche il senso di colpa fa la sua parte: il timore di poter contrarre il virus se non sufficientemente attente, anticipa uno scenario catastrofico che deve fare i conti con il nostro senso di responsabilità; la possibilità di non poter offrire al bambino la sicurezza che si auspicava, ci delinea come le artifici di un atto immorale.

Ma non tutto è perduto!

Diversi sono gli strumenti a disposizione che consentono di riacquisire una maggiore prevedibilità rispetto al futuro e che permettono di gestire il forte carico emotivo che le future mamme si trovano ad affrontare oggi.

Importante è la conoscenza scientifica dello stato della ricerca. Uno studio pubblicato pochi giorni fa sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology – Maternal Fetal Medicine (2020), riguarda l’analisi dei dati iniziali sugli esiti delle gravidanze nelle pazienti affette da Covid 19. L’analisi ha valutato i primi casi riportati in letteratura, provenienti dalla Cina, in attesa che vengano pubblicati anche i primi dati sull’esperienza italiana (Di Mascio et al.,2020). Dai risultati dello studio, emerge che nelle madri infette da infezioni da coronavirus, tra cui il COVID-19,> 90%, delle quali presentava anche polmonite, il parto pretermine è il più comune risultato negativo della gravidanza. Anche l’aborto spontaneo, la preeclampsia, il parto cesareo e la morte perinatale (7-11%) erano più comuni che nella popolazione generale (Ibidem). Un dato importante, però, è l’apparente assenza di evidenze di trasmissione verticale della malattia, ovvero di trasmissione dell’infezione dalla madre al feto in utero (Ibidem). In altre ricerche è stato rilevato che il liquido amniotico, il sangue del cordone, i tamponi nasofaringei dei neonati, i tamponi placentari e vaginali e i campioni di sangue di madri COVID positive erano infatti risultati sempre negativi alla ricerca del virus SARS-CoV-2 (Chen et al., 2020; Fan et al., 2020; Wang et al.,2020; Zhu et al.,2020; Li et al.,2020; Chen et al., 2020; Chen et al., 2020).

Queste analisi forniscono i primi strumenti per soddisfare l’urgente bisogno di numeri che possano orientare il counseling e il management delle gravidanze affette da Covid 19. L’analisi è certo limitata dalla scarsa presenza di dati sul primo trimestre di gravidanza, sul quale dovranno far luce i progetti di ricerca che però sono già in corso.

Altri strumenti a disposizione per combattere l’incertezza del futuro sono quelli che consentono alle neomamme di sentirsi “più preparate”, che in tempi più fortunati sarebbero stati forniti dai corsi di accompagnamento alla nascita. La tecnologia corre in aiuto: girando sul web è possibile trovare corsi di ogni tipo (anche gratuiti) che offrono la possibilità di ricevere un supporto ostetrico – ginecologico rispetto a vari aspetti della gestazione: la fase del travaglio, la fase espulsiva, la preparazione della valigia, l’allattamento. Molte Asl o Associazioni presenti sul territorio offrono la possibilità di conoscere da vicino gli ambulatori della sala parto del proprio ospedale e gli spazi appositamente riservati alle gravide positive al Covid19, nonché tutte le nuove procedure adottate per la degenza durante questa pandemia.

Ma non sempre le soluzioni pratiche rappresentano l’unica pillola da assumere per diminuire l’ansia e lo sconforto. Queste emozioni vengono alimentate anche dall’altra faccia della medaglia: l’incapacità di prevedere tutto e l’impossibilità di avere certezze sugli esiti futuri. Essere supportate su questo aspetto ha l’importante funzione di ridurre la vulnerabilità della donna in dolce attesa e il rischio di sviluppare psicopatologie a breve e a lungo termine.

Dagli sviluppi nello studio della salute mentale in gravidanza e nel puerperio emerge che circa il 40% delle donne che soffrono di depressione post-partum hanno ottenuto un analogo valore riferito al periodo gravidico (Heron et al., 2004). Ricerche recenti segnalano l’importanza dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) per il trasmettersi al feto degli effetti di una condizione di forte stress della madre. Un disturbo depressivo o di ansia può infatti non solo attivare l’asse HPA materno, ma può anche aumentare il rilascio di corticotropin releasing hormone (CRH) dalla placenta comportando un’interferenza sul parto stesso inducendolo. È inoltre ipotizzabile che una condizione depressiva possa alterare l’escrezione di ormoni vasoattivi con effetti vasocostrittivi sulla circolazione placentare e di conseguenza comportare un ridotto accrescimento fetale e basso peso alla nascita (Kurki et al., 2000).

La gravidanza, per i profondi cambiamenti biologici, psicologici e sociali che comporta, può così rappresentare un importante fattore di stress ed essere quindi considerata già di per sé un agente eziologico per l’insorgenza di disturbi psicologici in soggetti vulnerabili. In altre parole, lo stato emotivo con cui si affronta la gravidanza è un elemento favorente condizioni di scompenso psicopatologico in donne già vulnerabili.

I quadri clinici che più̀ frequentemente si riscontrano nel periodo gravidico sono i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore con i primi che si rilevano in circa il doppio dei casi rispetto ai secondi (Brockington et al., 2006).

Se a questa vulnerabilità aggiungiamo quella indotta dalla diffusione del Covid19, capiamo quanto risulta indispensabile una stretta collaborazione fra Psicologia e Ostetricia/Ginecologia ancor più in questi tempi.

È fondamentale affrontare la sofferenza emotiva fin dalle prime fase della gravidanza e legittimarsi il bisogno di sentire alcune emozioni, riconoscerle e condividerle anche attraverso un percorso di Psicoterapia. Su questo piano, sono diversi i professionisti che continuano a svolgere Psicoterapia on- line offrendo vari trattamenti che consentono di sentirsi meno sole, meno deboli, meno vulnerabili e più competenti, sia nel periodo della gestazione che nel postparto.

Se è vero che avremmo sperato di regalare ai nostri figli un mondo migliore, è pur vero che loro sono il simbolo della rinascita e la certezza che la Vita conosce bene la strada da percorrere.

Concludo facendo un augurio sincero e di cuore a tutte noi.

 

Attaccamento ansioso – evitante: caratteristiche, evoluzione e sintomatologia ansiosa

I bambini con attaccamento evitante sono soliti maturare un’immagine di sé priva della capacità di suscitare negli altri risposte positive e affettuose poiché la figura di attaccamento è indisponibile alle richieste di aiuto e vicinanza.

 

La tendenza delle persone a creare un legame è dovuta alla propensione innata degli umani di cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali per fatica, dolore, impotenza o malattia (Bowlby, 1979).

Come è stato notevolmente approfondito nella letteratura scientifica, ogni adulto – influenzato dalle relazioni avute con le proprie figure di riferimento durante l’infanzia – sviluppa uno specifico stile di attaccamento, ossia una peculiare modalità di relazionarsi agli altri.

Nonostante siano stati individuati quattro stili (pattern) di attaccamento (sicuro, ansioso – evitante, ansioso – ambivalente e disorganizzato), nel presente articolo si prenderà in esame solo lo stile di attaccamento ansioso – evitante. Quest’ultimo risultata essere alla base di molti conflitti e problematiche riguardanti le dinamiche relazionali, quali ad esempio la paura di creare una relazione, la difficoltà a fidarsi e il desiderio di una piena autonomia e indipendenza dall’altro.

Attaccamento ansioso – evitante nei bambini

I genitori dei bambini che sviluppano un attaccamento ansioso – evitante, spesso, non riescono a soddisfare il bisogno di vicinanza protettiva di cui questi necessitano per un adeguato sviluppo psico-emotivo. I bambini con attaccamento insicuro – evitante sono soliti maturare un’immagine di sé priva della capacità di suscitare negli altri risposte positive e affettuose poiché la figura di attaccamento è indisponibile alle richieste di aiuto e vicinanza: i bambini reagiscono a tale condizione alternando momenti di indipendenza e momenti di agitazione in cui cercano la figura di attaccamento.

Il “mancato contenimento” della figura di attaccamento non permette al bambino l’elaborazione dei sentimenti negativi nei suoi confronti, i quali si trovano scissi da quelli positivi. Questa situazione porta il bambino a incanalare i sentimenti negativi in ambito sociale (ribellione, contestazione, aggressione), oppure a rimuoverli per difesa (Stern, D., 1987).

Attaccamento ansioso – evitante negli adulti

Gli adulti che sviluppano il modello di attaccamento definito “ansioso-evitante” hanno paura della possibilità di farsi coinvolgere emotivamente nelle relazioni interpersonali; la vita tende a essere improntata sul desiderio di conquista di autonomia e autosufficienza personale che esclude – se necessario – il ricorso agli altri, considerati individui non affidabili e su cui non poter contare. Questa posizione difensiva verso la vita e le relazioni interpersonali è una misura di prevenzione contro il rischio di ulteriori delusioni dovute a esperienze di rifiuti continui.

Per non correre il rischio di essere rifiutati, tali individui tendono a sopprimere la loro emozionalità: la capacità di amare e di lasciarsi amare è costantemente frenata e bloccata dalla paura di poter incontrare nella vita la sofferenza già sperimentata durante l’infanzia.

Stile di attaccamento ansioso – evitante e sintomatologia ansiosa

Le persone con tale stile di attaccamento, e non consapevoli dei conflitti emotivi ad esso connesso, tendono a sperimentare vissuti di agitazione e ansia. Più precisamente, i conflitti intrapersonali – essendo per propria natura un fattore stressante – determinano un’attivazione fisiologica dell’organismo (arousal), la quale acquisisce sempre maggiore intensità se non riconosciuta. Tale attivazione corrisponde a ciò che le persone nel gergo comune definisco ansia e/o agitazione: essa si può manifestare mediante attacchi di ansia, sonno intermittente, difficoltà ad addormentarsi o risvegli anticipati, somatizzazione o preoccupazioni per la salute. Più precisamente, il conflitto emotivo, non trovando possibilità di esprimersi tramite un canale verbale, si manifesta attraverso il canale corporeo.

In tale dinamica psicologica, gioca un ruolo protettivo essenziale la mentalizzazione – ossia la capacità di comprendere i propri stati mentali – la quale permette di mantenere costante l’attivazione fisiologica determinata dal conflitto, modulando gli affetti derivanti dalle emozioni, e permette di affinare il pensiero verbale mediante la consapevolezza della capacità riflessiva, la quale è visibile nelle azioni e nei discorsi del soggetto (Lago, G., 2016).

La capacità di mentalizzazione (o funzione riflessiva) è determinata dalle esperienze avute con le persone di riferimento durante l’infanzia, anche se è possibile nel corso della vita incrementarla mediante esperienze emozionali correttive.

Trattandosi di processi inconsci, tendenzialmente, a queste persone sfugge la consapevolezza dei propri processi mentali e delle conseguenze che questi hanno sullo sviluppo della personalità e sulle relazioni interpersonali (Fonagy P., Leigh T., Steele M., Steele H., Kennedy R., Mattoon G., Target M. & Gerber A., 1996).

Fase 2 e fine del lockdown: considerazioni sugli aspetti psicologici

Il presente contributo è stato scritto prima dell’inizio della fase 2 legata all’emergenza da Covid-19

L’attuale andamento dell’epidemia da Covid-19 porta i soggetti istituzionali e i cittadini ad interrogarsi su come gestire l’inizio della fase 2, previsto per la giornata del 4 maggio, e la tanto attesa fine del lockdown

 

Si sa ancora poco sulla ripresa e, per adesso, è possibile solo spingersi in previsioni più o meno realistiche, ma sembra chiaro che fino alla creazione di un vaccino o di una terapia efficace l’idea di prudenza sarà al centro delle nostre giornate. Viste le molte incertezze viene spontaneo domandarsi quali saranno, a livello psicologico, gli elementi caratterizzanti il graduale quanto atteso ritorno alla vita.

Se fino ad oggi abbiamo conosciuto le emozioni dell’isolamento, seppur intervallato da veloci uscite nel mondo esterno, a breve scopriremo cosa significa convivere con l’epidemia e, probabilmente, vedremo che il confine dentro/fuori segnato dalla porta di casa sarà sempre più sfumato. Durante il lockdown abbiamo vissuto da vicino il vuoto, la noia, abbiamo sperimentato una convivenza non intervallata da attività lavorative o extrafamiliari, in una situazione che ha fatto da cassa di risonanza a emozioni spiacevoli. Tutto sommato, però, abbiamo goduto di una certa sensazione di sicurezza. Con la Fase 2, invece, il vissuto emotivo dominante potrebbe essere diverso.

Partiamo dalla paura, l’emozione vissuta in relazione ad una minaccia all’incolumità, che stimola uno stato di attivazione psicologica e fisica funzionale alla risposta difensiva. Tale stato di attivazione è fondamentale, perché permette di mantenere un elevato livello di attenzione, una migliore prontezza dei muscoli, minore percezione del dolore e così via (D’urso e Trentin, 2007). Ma è uno stato di tensione abbastanza faticoso da mantenere per troppo tempo e per fortuna, passata la minaccia, scampato il pericolo, il corpo va incontro a un graduale rilassamento (Plutchick, 1994). E’ la sensazione di sollievo che, ad esempio, in questo periodo abbiamo provato al rientro a casa, posando finalmente lo scudo e liberandoci delle fastidiose mascherine.

Se la paura è vissuta in relazione a una minaccia, in questo momento storico quella principale è rappresentata dal nuovo coronavirus, che veste i panni dell’altro, indistintamente: il passante, il collega, il coniuge. E’ una minaccia difficile da confinare perché mancano i cosiddetti segnali di pericolo, quegli elementi che permettono al nostro cervello di capire quando prestare attenzione e quando, invece, rilassarsi, col rischio di vivere in un costante stato di tensione emotiva.

Nel prossimo futuro torneremo progressivamente a calcare le strade e, sebbene eviteremo assembramenti e strette di mano, saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate in cui sarà inevitabile stabilire un maggior numero di contatti. Guadagneremo spazi di libertà a scapito della percezione di sicurezza. Il più frequente passaggio tra il fuori del mondo esterno e il dentro della nostra abitazione renderà più complicato delimitare il pericolo e la casa potrebbe perdere la sua importante funzione di “base sicura”. Se fino ad oggi hanno assunto un colore diverso i rapporti con il vicinato, possiamo aspettarci che accadrà qualcosa di simile anche nelle relazioni familiari. Cosa significherà sentirsi un potenziale veicolo di contagio per la propria famiglia? Cosa significherà tossire in stanza con i bambini? Lo sanno bene i lavoratori della sanità, che sono stati i primi a vivere da vicino una condizione difficilissima.

Come per l’isolamento, le emozioni possibili di questo nuovo modo di vivere nel mondo richiamano alla mente quelle caratteristiche di alcune psicopatologie. Pensiamo, ad esempio, ai disturbi da sintomi somatici, ai disturbi d’ansia, per arrivare alla dimensione del costante sospetto della personalità paranoide (DSM 5, 2013). Si tratta di condizioni cliniche, ma possiamo immaginare che il non sapere di essere sani o malati possa rendere ancor più sfumati anche i rassicuranti confini tra salute e patologia psichica, proprio a causa della maggiore esposizione ad angoscia e squilibri affettivi.

In questo difficile adattamento cui siamo tutti chiamati, basteranno il distanziamento sociale, le mascherine e il lavaggio delle mani, a tutelare spazi – intra ed extrapsichici – di sicurezza? Forse, ora più che mai, sarà fondamentale sforzarsi di mantenere una certa centratura, tenendo ben presente il limite oltre il quale la prudenza sconfina nel territorio dell’ansia, che può portare ad atteggiamenti davvero poco utili a proteggersi dall’infezione. Alcuni hanno utilizzato il termine resilienza, che dovrà sicuramente continuare ad essere sviluppata.

In conclusione, se fino ad ora abbiamo familiarizzato con i vissuti di un sicuro isolamento, a breve potremmo confrontarci con delle nuove forme di malessere a cui sarà necessario dare risposte adeguate. Tali questioni mettono ancora una volta al centro la necessità di prestare maggiore attenzione ai bisogni psicologici dei cittadini, abbandonando l’artificiosa distinzione tra salute del corpo e salute mentale.

 

Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni (2016) di Lorenzo Gasparrini – Recensione del libro

Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni è una lettura scorrevole e chiara, che denota la preparazione dell’autore sulle tematiche trattate e la profonda sensibilità nel cogliere gli aspetti culturali che possono ferire l’animo di alcuni gruppi di persone.

 

Uno dei più noti quotidiani sportivi, dove la presenza di spazio editoriale dedicato al gioco del calcio è la più importante, è colorato di rosa; la maglia rosa identifica invece in ciclismo italiano.

Calcio e ciclismo: ma sono sport maschili nelle rappresentazioni mentali della popolazione! Dunque qual è il motivo di caratterizzarli di rosa?

Il rosa è notoriamente il colore delle femmine!

Il fiocco rosa appeso davanti le abitazioni indica la nascita di una bambina, la quale, successivamente, indosserà probabilmente un vestitino rosa.

Sono esempi di concetti sessisti, trasversali nella società patriarcale; lo sport dei maschi e lo sport delle femmine. Così come rosa e azzurro.

Lorenzo Gasparrini, nel suo libro Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, aiuta a cogliere i meccanismi fini e le proposte antisessiste. Utilizza un approccio di scrittura dove le idee, le storie, la ragione ma anche la epistemologia, aiutano il lettore nella comprensione di concetti nuovi, non troppo complicati, ma spesso difficili da interiorizzare.

Così scopriamo che in origine il colore rosa era associato alla virilità, alla forza e al valore agonistico maschile. Ad alcuni potrebbe sembrare strano, irreale.

Nello specifico del mio lavoro quotidiano come psicoterapeuta e sessuologo mi imbatto spesso nell’ansia da prestazione, tematica più volte trattata nel testo; essa causa sofferenza e disagio nelle dimensioni di vita.

Sovente mi accorgo che il motore profondo e attivante è la prestazione, la competizione, la ricerca di perfezione, non poter sbagliare pena la sofferenza.

Nelle parole dell’autore trovo accordo rispetto una delle possibili, o la più probabile, tra le cause: l’educazione patriarcale; essa viene acquisita passivamente e contestualmente all’appartenenza alla società in cui si nasce, ci si sviluppa e si vive.

Difatti, nel capitolo sull’adolescenza, l’autore sostiene che il modello machista a cui aderire è quello virile del maschio eterosessuale vincente; così i rapporti che si definiscono non sono appoggiati su un pavimento di cooperazione, ma bensì in posizione antagonista gerarchica. Nulla è alla pari, i generi sono o sopra o sotto, non esiste reciprocità. Emerge la prestazione continua.

Il bullismo, il femminicidio e la “giustificazione del perpetratore” sono esempi di comportamenti rintracciabili attorno a noi, spesso guidano la nostra azione in modo automatico e inconsapevole. Su questo punto, nel libro l’autore propone un lavoro su se stessi per scoprire i piccoli errori che commettiamo, errori non sovrapponibili ai reati che coinvolgono la volontà. Emerge in tal senso la giustificazione espressa e spesso condivisa delle violenze, la cui lettura riporta al raptus del perpetratore, alla minigonna indossata dalla vittima per indurre nel violento/stupratore un comportamento sul quale non ha controllo, la gelosia, la sofferenza dell’abbandonato, ecc.

La pornografia viene trattata sempre nel capitolo dedicato all’adolescenza, anzi viene letta in chiave di industria della pornografia, che negli adolescenti trae maggior consenso.

Cosa ne pensa il “filosofo femminista”? Gasparrini sostiene che in Italia non viene raccontato che “chi consuma pornografia finanzia, in modo più o meno diretto, attività criminali e violenze di genere: è la constatazione di quanto accade in questa realtà economica.”

Il libro è composto da 170 pagine, la lettura è scorrevole e chiara, denota la preparazione dell’autore sulle tematiche trattate e la profonda sensibilità nel cogliere gli aspetti culturali che possono ferire l’animo di alcuni gruppi di persone. Il rischio è l’emarginazione di “minoranze” o il pregiudizievole accesso di esse in alcuni ambiti sociali e/o professionali.

Le minoranze di cui si fa riferimento vengono caratterizzate con parametri esclusivamente sessisti, dove quella del maschio eterosessuale rappresenta la classe che gode di maggior vantaggi e privilegi.

Cinque capitoli (quattro più l’introduzione) formano il testo.

Nell’introduzione possiamo leggere alcune definizioni e argomentazioni utili per la comprensione del seguito. Ma anche come arricchimento culturale personale!

Dopodiché tre capitoli narrano la formazione del sessismo rappresentato esso stesso come un percorso, come il viaggio che ognuno di noi percorre dall’infanzia fino all’età adulta, passando attraverso l’adolescenza, l’età definita come inventata.

La tematica in ogni tappa è descritta in modo approfondito.

La lettura termina col capitolo dal titolo evocativo su come “Ci sono molti modi diversi di essere uomini”.

Ma ahimè, le persone che ritengono ci siano modo diversi, dovrebbero essere a conoscenza che tali alternative comportamentali presentano un prezzo da pagare. “La normalità di milioni di uomini eterosessuali è intrisa di sessismi di ogni tipo, di forme di violenza esercitate verso altri generi e orientamenti sessuali e verso i suoi simili, uomini eterosessuali, che non sembrano aderire a quella normalità.”

E’ amplia la bibliografia presente nel libro! Essa è raccolta alla fine di ogni capitolo e permette di rintracciare le fonti. Le argomentazioni sono arricchite di validazione bibliografica, non espresse come dogmi ma attivatrici di riflessione su di sé e il mondo.

 

I suoni della mente in ambito rieducativo scolastico. Primi dati di un intervento di musicoterapia combinata con suite Brainwave Alpha (binaural-beat a 10Hz)

Uno studio preliminare si propone di verificare se la tecnica di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat (10 Hz) sia in grado di sostenere l’apprendimento, favorire le relazioni all’interno del gruppo degli studenti e migliorare l’atteggiamento generale riguardo le materie d’insegnamento.

 

Introduzione

In questo intervento a valenza rieducativa si è cercato di rispondere ad un disagio evidenziatosi in ambito scolastico. Sono messi a confronto i risultati ottenuti da due gruppi di allievi di scuola media che presentavano una condizione che abbiamo definito di “disaffezione scolastica”: ovvero presentavano uno scarso interesse alla scolarizzazione e livelli di apprendimento generale ai limiti della sufficienza, questo in assenza di una qualsiasi diagnosi di disturbo. Nel tentativo di creare una buona prassi che cercasse di conciliare l’esigenza di una pratica con metodologia non impegnativa e di rapida utilizzazione con le ridotte disponibilità economiche e di mezzi degli istituti scolastici si è puntato sull’applicazione della pratica di musicoterapia combinata con Brainwave che utilizza gli effetti positivi della musicoterapia e dei Binaural Beat. In tal senso un gruppo di 8 allievi ha eseguito una rieducazione canonica del programma scolastico basato sul recupero delle materie di insegnamento, un altro gruppo, 9 allievi, ha partecipato, in aggiunta al medesimo percorso di recupero scolastico, a 3 sessioni settimanali di 30m di Musicoterapia Conbinata con Brainwave Alpha (Binaural-Beat a 10Hz). Entrambi i gruppi sono stati seguiti per l’intera durata dell’anno scolastico 2011-2012.

Vengono esplicitate le caratteristiche e le tecniche della musicoterapia combinata con Brainwave Binaural-Beat. Vengono riportati i dati riguardanti le differenze nei rendimenti scolastici (recupero delle materie di insegnamento) e nella variazione del cambiamento di atteggiamento comportamentale verso la scolarità ottenuti dai due gruppi. Discussi i punti di forza e criticità dell’intervento.

Musicoterapia

La World Federation of Music Therapy (Federazione Mondiale di Musicoterapia) ha dato nel 1996 la seguente definizione di musicoterapia:

è l’uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo, melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un utente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione, la relazione, l’apprendimento, la motricità, l’espressione, l’organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell’individuo in modo tale che questi possa meglio realizzare l’integrazione intra- e interpersonale e consequenzialmente possa migliorare la qualità della vita grazie a un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico.

Brainwave Binaural Beat 10 Hz

Le frequenze determinate dai “Binaural Beat”, scoperte nel 1839 dal tedesco H. W. Dove e sperimentate sul cervello dal Dott. Gerald Oster nel 1973 al Mount Sinai school of Medicine di New York, sono prodotte dall’applicazione di differenti frequenze tra un orecchio e l’altro, in modo che il cervello ne venga stimolato positivamente. Se un tono costante di 400 Hz (1 Hertz = 1 impulso al secondo), viene applicato all’orecchio sinistro e un altro tono costante di 410 Hz viene applicato all’orecchio destro, la differenza di 10 Hz verrà percepita dal nostro cervello e solo da esso, perché è una frequenza che sta al di fuori dello spettro sonoro. L’ ipotesi è che il cervello è così stimolato ad entrare in risonanza con il ritmo biauricolare di 10 Hz (onde Alfa) di aumentarne la produzione e, di conseguenza, portare il soggetto nello stato di coscienza/psico-fisico dell’attività corrispondente: rilassamento, calma, tranquillità.

Musicoterapia Combinata Brainwave Binaural-beat 10 Hz.

La musicoterapia combinata con Brainwave Binaural Beat è una musicoterapia esclusiva composta da un musicoterapista esperto. La specificità sta nel fatto che il musicoterapista deve creare brani musicali realizzati secondo precisi paramertri di durata, lunghezza, timbro e scelte armoniche e melodiche, sintoniche, in questo caso, con la frequenza di 10Hz,  così da combinarsi ed equilibrarsi perfettamente con i toni necessari a produrre le Brainwave Binaural Beat (10Hz), potenziandosi vicevendevolmente negli effetti positivi.

Obiettivi

In accordo con la letteratura riguardo l’utilizzo di tecniche musicoterapiche in ambito scolastico e di Brainwave Binaural Beat quale ausilio per il miglioramento dello stato psicofisico con positive ricadute anche nei compiti di apprendimento, obbiettivo di questo lavoro preliminare è stato quello di verificare se la tecnica di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat (10 Hz) fosse in grado di sostenere l’apprendimento, favorire le relazioni all’interno del gruppo degli studenti e migliorare l’atteggiamento generale riguardo le materie d’insegnamento, questo in virtù della precisa richiesta di avere una procedura molto più semplice dal punto di vista tecnico e strumentale e meno dispendiosa dal punto di vista economico. Ovvero verificare in termini di efficienza e di efficacia questa metodologia nei confronti dei ragazzi descritti come portatori di una “disaffezione scolastica”.

Soggetti

Caratteristiche

I ragazzi, appartenenti alle classi medie, venivano descritti dagli insegnati come ragazzi normalmente intelligenti, ma svogliati e demotivati oltre modo, non prestavano interesse alle materie d’insegnamento e la frequenza a scuola era atipica con assenze sospette ma giustificate, tendenti a partecipare passivamente alle attività scolastiche ed extrascolastiche.

Cognitivamente validi ma con insufficienti prestazioni, con interrogazioni al limite della sufficienza e spesso senza produzione dei compiti per casa. Così gli elaborati in classe erano scarni nei contenuti e con errori tipici della scarsa scolarizzazione e distrazione. I rendimenti peggiori si riscontravano nell’italiano e in matematica. Si dimostravano indifferenti al giudizio degli insegnanti e ai loro suggerimenti o incoraggiamenti. Nessuno dei ragazzi poteva essere assistito a casa nello studio. Tutti dotati di tecnologie informatiche quali telefonini e computer, con conoscenze, frequentazioni e profili nei social-network.

Fascia sociale

I ragazzi appartenevano tutti ad una fascia sociale medio-bassa. Alcuni genitori avevano un titolo di studio di scuola media ed un lavoro giornaliero, la maggioranza di scuola superiore, pochi con un lavoro impiegatizio pubblico, per gli altri precario e/o non rispondente al titolo. Tutti i nuclei familiari lamentavano difficoltà economiche. Nel nucleo familiare erano presenti entrambi i genitori ed altri fratelli da uno a tre.

Strumenti

Prove di Ingresso: Batteria autocostruita classe I,II,III media (somministrazione iniziale); strumenti individuati/costruiti dai Professori per valutare  l’adeguatezza del livello scolastico del ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Prove di Verifica: Batteria autocostruita classe I,II,III media (somministrazione mensile); strumento individuato/costruito dai Professori per valutare qualitativamente/quantitativamente il miglioramento del livello scolastico del ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Valutazione della Condotta scolastica: Questionario a cura degli insegnanti per la valutazione del miglioramento della condotta/adesione scolastica (somministrazione mensile).

CPM: Coloured Progressive Matrices: per la valutazione del livello cognitivo generale (somministrazione unica). Per scongiurare un possibile deficit cognitivo nel ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Achenbach Child Behavior Chechlist: questionario versione Italiana forma per genitori anni 4-16 (somministrazione unica). Per scongiurare un possibile deficit emotivo/comportamentale nel ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Musicoterapia Combinata: Codice Bineurale progressivo ad onde Alfa a 10 Hz derivato da campionamento stereo tra le frequenze (toni puri) di 400 e 410 Hz, mascherato sotto base sonora  (AcusticaMente) e frangenti oceaniche. Durata riproduzione 30 min. Questo tipo di Binaural Beat era adattato e reso idoneo per ascolto con casse audio. Lettore digitale capacità di lettura 20-20.000 Hz. Amplificatore HI-FI in Classe T/D risposta in frequenza 20-2000 Hz. Diffusori acustici HI-FI con risposta in frequenza 40-20.000 Hz.

Procedure

Gli alunni partecipanti sono stati selezionati ed inseriti nell’intervento nell’arco di un anno e mezzo scolastico. Più precisamente: dal Gennaio 2011 al Giugno 2011 c’è stata la fase di selezione dei soggetti e successivamente, una volta garantita la loro continua frequenza all’intervento, dal Settembre 2011 al Giugno 2012 (un’intero anno scolastico) c’è stata la fase applicativa dell’intervento. I ragazzi svolgevano le attività di recupero e sostegno scolastico per 5 giorni alla settimana per almeno 3 ore al giorno.

Per la pratica di Musicoterapia Combinata:

La procedura ideata prevedeva di far ascoltare la intera traccia sonora (30 min) adattata per ascolto con casse audio e non solo con cuffie che, generalmente da risultati più rapidi ed ha una efficacia maggiore, per tre sedute settimanali a giorni alterni e di raccogliere e far verbalizzare le impressioni dello stato psico-fisico dei soggetti al termine di ogni ascolto. Di osservare le reazioni comportamentali o la comunicazione non verbale di riferimento a stati emotivi vissuti durante l’ascolto.

Per l’ascolto della traccia sonora i soggetti venivano posti in gruppo e distesi su singoli tappetini morbidi di spugna. La consegna per tutti era quella di concentrarsi senza sforzo nell’ascolto, di lasciarsi attraversare o immergersi nella sonorità, di lasciare la mente libera di pensare o non pensare e cercare di ascoltare l’intero brano senza fatica. Non venivano date ulteriori consegne.

Risultati

Legenda:

  • Gruppo MT-COMB indica il Gruppo che ha partecipato alla Musicoterapia Combinata;
  • Gruppo NO MT indica il Gruppo che non ha partecipato alla Musicoterapia Combinata.

Diagramma 1: Giorni di assenze – Valori Medi  dei 2 gruppi.

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati,  hanno riportato a loro carico, meno giorni di assenze a scuola.

Diagramma 1: Giorni di assenze – Valori Medi  dei 2 gruppi

Diagramma 2:  Questionario condotta ed adesione scolastica – Valori Medi dei 2 gruppi

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati, hanno riportato secondo le valutazioni ed i giudizi degli insegnanti un miglior comportamento di integrazione, di adesione e partecipazione al clima scolastico e alla scolarizzazione.

Diagramma 2:  Questionario condotta ed adesione scolastica – Valori Medi dei 2 gruppi

Come si vede la linea rossa, che riguarda la media delle prestazioni dei ragazzi che hanno partecipato anche all’intervento di Musicoterapia combinata, sovrasta quella del gruppo di ragazzi che non hanno usufruito della Musicoterapia combinata.

Diagramma 3: Recupero rendimento scolastico – Valori Medi dei 2 gruppi

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati,  hanno riportato secondo le valutazioni ed i giudizi degli insegnanti un miglioramento delle prestazioni e del rendimento scolastico.

Diagramma 3: Recupero rendimento scolastico – Valori Medi dei 2 gruppi

Come si vede la linea rossa, che riguarda la media delle prestazioni dei ragazzi che hanno partecipato anche all’intervento di Musicoterapia combinata, sovrasta quella del gruppo di ragazzi che non hanno usufruito della Musicoterapia combinata.

Discussione

I risultati sembrano dimostrare che i ragazzi che hanno partecipato alle sedute di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat 10 Hz, hanno avuto risultati migliori rispetto alla condizione di partenza e rispetto al gruppo di allievi non partecipanti all’intervento aggiuntivo di Musicoterapia Combinata. Sul piano pratico sembra raggiunto l’obbiettivo di aver qualificato in positivo l’adesione dei ragazzi alla scolarizzazione (Diagramma 1 e Diagramma 2) e sostenuto e migliorato il livello degli apprendimenti accademici (Diagramma 3).

Questi positivi risultati preliminari, sono da considerarsi da stimolo per una più ampia verifica. Attualmente, la musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat è da considerarsi una valida attività educativa-formativa tra le tante attivabili nella scuola anche perchè ha come punto di forza il fatto che tale pratica musicoterapica, dal punto di vista metodologico e strumentale, risponde a criteri di semplicità ed economicità ed è giudicata piacevole da parte dei ragazzi che riferiscono, generalmente, al termine della seduta, di uno stato di rilassamento e di benessere.

A nostro avviso, le criticità maggiori risiedono:

  • Nell’individuazione più rigorosa delle caratteristiche psico-sociali dei soggetti partecipanti;
  • Nell’individuazione di più precisi strumenti di analisi dei problemi e verifica dei risultati;
  • Nella comparazione della sua efficacia rispetto ad altre metodologie educative-formative, in ambito scolastico;
  • Nella verifica dei risultati dell’intervento direttamente nel contesto scolastico.

Tali osservazioni, quindi, possono essere considerate come impulso sia per quanto attiene la ricerca che l’applicazione ed hanno come proposito, per il futuro, di suscitare studi controllati che dovrebbero assumersi la responsabilità di poter meglio sistematizzare, sul piano teorico e metodologico questa procedura e di poterne meglio definire gli effetti e gli eventuali ambiti di applicazione.

 

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