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COVID-19 e Aderenza alle Cure in Oncologia: Studio Internazionale

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi ed in particolare delle persone maggiormente a rischio per un’eventuale infezione. Al fine di indagare l’impatto del lockdown e della Covid-19 sui pazienti oncologici, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da 13 nazioni, ha sviluppato uno studio per il quale abbiamo bisogno del vostro contributo.

Lo studio nasce dall’emergere progressivo di dati qualitativi legati a un ridotto accesso alle cure o comunque di una crescente preoccupazione da parte dei pazienti oncologici sia in trattamento che in follow-up. Al fine di raccogliere dati attendibili a livello mondiale si è cercato di concentrarci sugli effetti della COVID-19 in una fase post-lockdown in 13 paesi: Italia, Israele, Spagna, Francia, Svezia, Austria, Germania, Turchia, Messico, Giappone, Cina, India, Gran Bretagna. I responsabili della ricerca sono Simone Cheli, Università di Firenze, e Gili Goldzweig, Universitàdi Tel Aviv. Lo studio indagherà in particolare come la percezione del rischio legata alla COVID-19 incida sul vissuto psicologico e sull’aderenza alle cure oncologiche.

Se sei un paziente oncologico o se stai facendo dei controlli per una precedente diagnosi oncologica ti chiediamo di compilare un breve questionario totalmente anonimo.

Tramite il link sottostante potrai accedere ad un questionario online compilabile in circa 15 minuti che ci aiuterà a comprendere come aiutare i reparti oncologici a fronteggiare al meglio questa pandemia. Se per qualche ragione interrompi la compilazione potrai riprenderla successivamente utilizzando però lo stesso dispositivo (PC, cellulare, etc.) e cliccando sul solito link.

Per conoscere meglio lo studio: https://www.tagesonlus.org/covid/

 

Per compilare direttamente il questionario: https://mta.eu.qualtrics.com/jfe/form/SV_3pVTkmXJgiDJKVn?Q_Language=IT

Autismo ai tempi del Covid-19: alcune buone pratiche

I cambiamenti delle routine quotidiane, dovuti alle misure di contenimento del COVID-19, possono rappresentare un forte disagio per le persone con autismo e favorire l’incremento di condotte stereotipate, oppositive e aggressive verso se stessi e gli altri.

 

L’autismo, o recentemente meglio definito come Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD, APA 2013), si caratterizza per la presenza di diversi sintomi. Le principali difficoltà che possono vivere le persone con autismo riguardano deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale, difficoltà ad accettare i cambiamenti di routine, ridotto interesse nella condivisione delle emozioni, difficoltà nel regolare il proprio comportamento rispetto al contesto sociale e disabilità intellettiva.

Queste sono solo alcune delle problematicità che caratterizzano l’autismo. La quotidianità delle persone con autismo e delle loro famiglie è, dunque, una quotidianità complessa e caratterizzata da forte stress, come riportato da numerosi studi in cui viene dimostrato che i genitori di figli con disabilità e con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo mostrano elevati livelli di stress rispetto a famiglie con figli con un normale processo di sviluppo (Hastings, Honey e McConachie 2005; Dumas, 1991; Koegel, 1992; Konstantareas, 1992; Sanders e Morgan, 1997).

Questo particolare momento storico legato al COVID-19 rappresenta, dunque, un estremo disagio per tutto il mondo dell’autismo che si trova a dover affrontare un’ulteriore sfida che si aggiunge a quelle già presenti nella vita di tutti i giorni.

I cambiamenti delle routine quotidiane, dovuti alle misure di contenimento del COVID-19, possono rappresentare un forte disagio e possono favorire l’incremento di condotte stereotipate, oppositive e aggressive verso se stessi e gli altri.

Per prevenire e gestire l’insorgenza di tali problematiche, l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, alla luce del recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, ha elaborato un vademecum di riflessioni e di buone pratiche che possono essere utili a chi vive vicino al mondo dell’autismo.

Alcune di queste buone prassi suggeriscono di: 

  1. Favorire la comprensione del contesto

Ogni persona con autismo ha proprie capacità di comprendere ciò che realmente sta accadendo attorno a sé. È importante che le precauzioni attualmente in vigore (ad esempio il lavaggio frequente delle mani o le regole di distanziamento sociale) e le informazioni sulla natura e la diffusione del virus siano raccontate e spiegate in maniera coerente con le capacità cognitive della persona. È da privilegiare un linguaggio concreto, chiaro e diretto, evitando l’uso di metafore e termini astratti. A seconda delle risorse cognitive della persona è opportuno tenere in considerazione la possibilità di avvalersi di strumenti di comunicazione aumentativa, di storie sociali, di supporti visivi o supporti tecnologici.

  1. Scandire le giornate e il tempo

Le persone con autismo generalmente traggono beneficio nel vivere le proprie giornate organizzate secondo routine e regole ben precise. Ora, dal momento che non è possibile svolgere la maggior parte delle attività che si svolgevano prima dell’emergenza sanitaria, può risultare difficile accettare questo cambiamento di abitudini creando un forte disagio. Può essere utile riorganizzare la giornata creando una nuova routine giornaliera così da rendere prevedibile anche le nuove abitudini, recuperando il senso di controllo sulla propria giornata. Per scandire i momenti della giornata e le attività potrebbe essere utile utilizzare strumenti visivi, realizzando un supporto che renda tangibile alla persona cosa fare (ad esempio utilizzando un elenco con immagini da staccare e attaccare con raffigurate le attività da svolgere). Potrebbe essere opportuno, inoltre, visualizzare lo scorrere del tempo, utilizzando, per esempio, un calendario (mensile, settimanale o giornaliero) che consenta di tracciare il tempo trascorso. 

  1. Agevolare l’espressione del disagio

Le persone con autismo possono avere difficoltà ad esprimere in modo articolato le proprie emozioni e il proprio vissuto in relazione ai cambiamenti che stanno vivendo in questo periodo. Il disagio può essere espresso attraverso diverse modalità come il cambiamento del ritmo sonno/veglia, cambiamento dell’alimentazione, un aumento dei comportamenti stereotipati o dell’irritabilità e agitazione. I familiari, che conosco bene le abitudini dei propri cari, possono monitorare e rendersi conto dell’insorgere di alcuni di questi comportamenti. È importante coinvolgere gli operatori di riferimento nel decifrare questi segnali e nel valutare le più opportune strategie di supporto. Per favorire l’espressione del disagio può essere utile fornire alle persone con autismo la possibilità di esprimere con regolarità il proprio vissuto attraverso dialogo con i genitori, colloqui individuali con gli operatori di riferimento o attività ricreative (come ad esempio la musica, la scrittura, il gioco).

  1. Fornire supporto sociale

Nell’immaginario collettivo, le persone con autismo sono considerate come totalmente indifferenti alle relazioni sociali. Questo fraintendimento è probabilmente generato dal fatto che le persone nello spettro autistico hanno un modo differente di vivere, interpretare e gestire gli scambi e le relazioni sociali. Esse, esattamente come tutte le altre, sono suscettibili all’isolamento e questo può essere aggravato in un periodo di quarantena. È opportuno fornire loro un supporto sociale utilizzando i mezzi di comunicazione attualmente disponibili.

Queste sono alcune buone pratiche che possono essere messe in atto per aiutare le persone con autismo e le loro famiglie ad affrontare questo periodo di emergenza sanitaria. Non è detto che tali prassi siano valide per tutti, ogni persona con autismo ha infatti le sue specificità. Per questo motivo è importante che in questo periodo non venga mai interrotto, anche in modalità remota via internet, il contatto con medici, psicologi e operatori di riferimento.

 

Una proposta euristica sul Disturbo di Panico – Video-intervista al Professor Giampaolo Perna

Una prospettiva alternativa sul Disturbo di Panico suggerisce che i pazienti con PD abbiano un funzionamento anormale del corpo, che coinvolge principalmente i sistemi cardiorespiratorio e di equilibrio, portando a un declino della forma fisica globale.

Martina Spelta e Valentina Pozzesi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Nel video abbiamo intervistato il Professor Giampaolo Perna su una nuova proposta teorica sul Disturbo di Panico che si basa su alcuni studi scientifici (per approfondimenti si veda in Bibliografia). Il professore è al primo posto tra gli esperti per il Disturbo di Panico in Italia e in Europa e tra i primi tre nel Mondo.

Attualmente, il disturbo di panico (PD) è considerato un disturbo mentale basato sull’ipotesi che gli attacchi di panico (PA) siano “falsi allarmi” che derivano da sistemi di difesa anormalmente sensibili nel sistema nervoso centrale e che il PD viene trattato con terapie che agiscono specificamente sull’ansia o sui meccanismi della paura. Il professore presenta una prospettiva alternativa basata sui risultati di alcuni studi sperimentali. La proposta euristica suggerisce non solo che il Disturbo di Panico possa essere un disturbo mentale, ma anche che i pazienti con PD abbiano un funzionamento anormale del corpo, che coinvolge principalmente i sistemi cardiorespiratorio e di equilibrio, portando a un declino della forma fisica globale.

Gli attacchi di panico, così come i sintomi fisici o il disagio in alcune situazioni ambientali, possono essere “allarmi reali” che indicano che le risorse di adattamento di un organismo sono insufficienti per rispondere appropriatamente ad alcuni cambiamenti interni o esterni, rappresentando così la consapevolezza cosciente transitoria di uno squilibrio del funzionamento del corpo. I diversi trattamenti odierni per il Disturbo di Panico includono, tra i loro effetti, benefici sulle funzioni corporee.

Sebbene i meccanismi di ansia o paura siano evidentemente coinvolti nel Disturbo di Panico, questa teoria ipotizza che anomalie della forma fisica siano il “primum movens” del PD. L’ansia o la paura sono, invece, indotte e sostenute dai ripetuti segnali del funzionamento alterato del corpo. Questa teoria pertanto si propone di considerare il panico in una prospettiva più ampia dove il trattamento sia multidisciplinare e personalizzato, che comprenda la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la terapia farmacologica e trattamenti somatici.

 

DISTURBO DI PANICO – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AL PROF. GIAMPAOLO PERNA:

L’importanza del sostegno psicologico agli operatori sanitari ai tempi del coronavirus

Durante questa fase di emergenza sanitaria nazionale legata al diffondersi dell’epidemia di Covid-19, ciascun cittadino si trova a vivere una situazione di stress continuativo e prolungato o ad essere esposto ad eventi traumatici, i cui esiti psicologici tenderanno a manifestarsi sia nel breve che nel medio periodo. Questo è ancora più vero per gli operatori sanitari, che si trovano a dover gestire una situazione ogni giorno più complessa e difficile, sia da un punto di vista pratico che emotivo.

 

L’emergenza sanitaria si è diffusa in modo talmente repentino e inaspettato da impattare sulla salute di tutti i cittadini, sia a livello fisico sia a livello psicologico, ed in particolare ha gravato sugli operatori sanitari che si sono trovati costretti a far fronte ad un evento di questo tipo, che si è sommato a condizioni lavorative già spesso stressanti e precarie di base. Non è infatti una novità che spesso gli operatori siano costretti, già in situazioni ordinarie, a confrontarsi con una generale scarsità di risorse e condizioni di lavoro estreme, legate a disagi organizzativi, ad eccessivo sforzo fisico e mentale, al dover gestire emergenze ed urgenze, al dover effettuare turni lunghi e stressanti, alla carenza di personale, oltre ad essere costantemente esposti alla sofferenza legata alla malattia e alla morte.

Se dunque il lavoro dell’operatore sanitario è tra quelli già maggiormente esposti alla sindrome da burnout, caratterizzata da logorio psicofisico ed emotivo e da vissuti di ansia, insofferenza, demotivazione e disinvestimento emotivo per le motivazioni appena esposte, immaginiamo quanto tutto questo possa essersi aggravato nelle condizioni in cui medici e infermieri si sono trovati a far fronte all’epidemia di Covid-19. In particolare le condizioni che hanno influito maggiormente su un sovraccarico di stress negli operatori sanitari sono le seguenti:

  • Costante esposizione al pericolo di contrarre la malattia e di poter contagiare i propri cari. Tutto questo comporta il vivere in un costante stato di allarme e vigilanza, oltre all’essere spesso costretti a vivere fisicamente lontani dai propri familiari e senza dunque una base sicura che possa fornire supporto emotivo e vicinanza.
  • Esposizione continua alla malattia e alla morte non solo dei pazienti ma anche dei colleghi, essendo gli operatori sanitari la categoria difatti più esposta al pericolo di contagio. L’esito di ciò è l’esposizione ripetuta ad eventi traumatici che facilmente possono portare allo sviluppo di una sintomatologia da disturbo da stress post traumatico (ipervigilanza e ipersensibilità, irritabilità, agitazione, flashback, incubi, pensieri intrusivi, evitamento, distacco emotivo, dissociazione).
  • Un sovraccarico di lavoro legato al dover svolgere turni disumani e al doversi fare carico del paziente non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista più emotivo ed assistenziale, parte di cui di solito si occupano i familiari, i quali però in questa situazione non possono avere accesso alle strutture ospedaliere. Il dover fare le veci anche dei familiari comporta un maggiore impegno legato al dover fornire ai pazienti dei servizi supplementari, come una maggiore vicinanza emotiva, il farsi carico della loro paura e solitudine, il dover trattare con cura i loro effetti personali da restituire ai parenti dopo la loro eventuale morte, oltre al sovraccarico ulteriore che comporta il dover gestire costantemente il contatto con i familiari in modalità telefonica, cosa che rende la comunicazione decisamente più complessa e faticosa.

Per questa ragione, date le condizioni di estrema fatica e complessità in cui gli operatori sanitari lavorano, diventa importante essere solleciti nel fornire loro un adeguato e repentino sostegno.

Vediamo dunque nel dettaglio quali sono alcuni degli approcci scientifici ritenuti più efficaci come strumenti di supporto per il personale sanitario.

Psicoterapia Cognitivo Comportamentale (CBT)

La psicoterapia cognitivo comportamentale si focalizza sull’individuare con quali pensieri le persone interpretano gli eventi che accadono loro, in quanto da questo poi dipende la reazione emotiva e comportamentale che ne consegue, che può portare ad un livello più o meno elevato di sofferenza. L’obiettivo della cbt quindi è quello di aiutare la persona a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni (alfabetizzazione emotiva) e a sostituire i pensieri rigidi e disfunzionali con altri più razionali, meno catastrofici e meno totalizzanti: ne deriverà un grado minore di sofferenza emotiva e un maggiore senso di autoefficacia nella gestione delle situazioni stressanti.

Vediamo quali sono i pensieri ansiogeni che maggiormente si tendono a formulare in questo particolare periodo:

  • possibilità di essere stati contagiati;
  • possibilità di contagiare gli altri;
  • incapacità di tollerare l’isolamento conseguente alle misure restrittive;
  • difficoltà di adattamento o paura del cambiamento (impossibilità di accesso ad attività piacevoli fonti di regolazione emotiva, gratificazione o di gestione dello stress, come per esempio andare palestra o al cinema o uscire gli amici; oppure paura di ricominciare ad affacciarsi all’ordinaria quotidianità);
  • pensiero paranoico (sulla malattia, sui contaminatori, complottismo).

Per contrastare i pensieri disfunzionali ansiogeni la CBT utilizza una particolare tecnica, quella della ristrutturazione cognitiva, che consiste nel mettere in discussione dei pensieri disfunzionali o inefficaci attraverso il riconoscimento della categoria di appartenenza (per esempio doverizzazioni, catastrofizzazioni, terribilizzazioni, tendenza a sottoporre a giudizio se stessi e gli altri, visione dicotomica della realtà -tutto o niente, bianco o nero-), ma soprattutto sottoponendoli ad un esame obiettivo della realtà. Mettere in discussione un pensiero significa aiutare il paziente a ricercarne l’effettiva veridicità ponendosi una serie di domande:

  • Questo pensiero corrisponde alla realtà obiettiva dei fatti?
  • Questo modo di pensare serve a farmi raggiungere i miei obiettivi?
  • Quali prove esistono della veridicità del mio pensiero?
  • Quali prove esistono della falsità del mio pensiero?
  • Che probabilità ho che questo accada?
  • Sono davvero sicuro che quello che penso non sia errato?
  • Su cento persone quante penserebbero nel mio stesso modo?
  • Cosa direi ad una persona se pensasse quello che penso io?
  • Che modi alternativi ci sono di vedere le cose? Potrei interpretare diversamente la situazione?
  • Quali sono le conseguenze del mio modo di pensare?
  • Sto facendo errori di ragionamento?
  • Qualora dovesse capitare quanto temuto, posso tollerarlo? Quali risorse posso mettere in campo per affrontarlo?

I pensieri vengono discussi nel valore assoluto che assumono per l’individuo e sostituiti con altri più realistici e razionali; la ristrutturazione cognitiva pertanto non equivale all’assunzione di un pensiero positivo, ma consiste nell’aiutare le persone a formulare valutazioni più aderenti alla realtà.

Un altro aspetto su cui la CBT si sofferma è la consapevolezza delle emozioni, allenando il paziente a riconoscerle, verbalizzarle ed esprimerle.

E’ facile per esempio che in condizioni di stress prolungato, come probabilmente sta accadendo a causa del Coronavirus, le persone siano in ansia, cioè in uno stato di pressoché costante vigilanza e attivazione fisiologica per paura di contagiare o di essere contagiate; oppure percepiscano una tristezza e calo di energie più pervasive a causa dell’inattività, della solitudine o del confinamento; oppure si sentano arrabbiate a causa di un vissuto di ingiustizia subita o di deprivazione; o provino senso di colpa per aver, anche involontariamente, contagiato altre persone. Ed è anche facile che, secondo un processo inverso a quello precedentemente descritto, siano le emozioni ad influenzare i pensieri o il modo di interpretare gli eventi (banalmente se per esempio sono triste diventa più difficile vedere il bicchiere mezzo pieno).

Il terapeuta può offrire un ascolto empatico al paziente rispetto agli stati emotivi che creano sofferenza, provando a trovare delle strategie personalizzate al fine di renderli più tollerabili.

Naturalmente in pochi colloqui di supporto gratuito non si può effettuare un percorso completo di psicoterapia, ma si possono porre le basi per l’esplorazione e la conoscenza di alcune dinamiche di funzionamento senza escludere poi un’eventuale prosecuzione nel percorso.

MCT (Terapia Metacognitiva, Wells A. et Matthews G., 1994)

Il rimuginio è una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. È una forma di pensiero di tipo verbale caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati incontrollabili e intrusivi, aventi come oggetto i possibili scenari individuati come pericolosi. Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema.

Gli interventi più efficaci sul rimuginio prevedono l’uso di tecniche metacognitive.

Occorre quindi:

  • rendere il paziente consapevole del processo di rimuginio in atto (ad esempio mettendo in rilievo le caratteristiche di ripetitività dei pensieri o la loro pervasività ed incontrollabilità);
  • rendere il paziente consapevole del motivo per cui rimugina (come già detto, generalmente ha la percezione di poter controllare e risolvere il problema);
  • ragionare col paziente circa la veridicità del punto precedente (“E’ vero che se continuo a pensarci, mi proteggo maggiormente dalla minaccia?”);
  • individuare insieme al paziente i contro della ruminazione (può anche essere che ruminare dia l’impressione di essere più preparati quando si verificherà l’evento temuto, ma affatica, mantiene alto il livello di agitazione, fa percepire il pericolo come più vicino o elevato del reale);
  • se si suggerisce di abbassare il piano di controllo (rimuginio), occorre potenziare le risorse del paziente verso altre strategie: maggiore capacità di tollerare la frustrazione e il dubbio; rinforzare l’accettazione dell’imprevisto, rinforzare la credenza nelle risorse personali sia nel tollerare la situazione ansiosa sia eventualmente nel gestire il verificarsi di conseguenze negative.

EMDR (Eye Movemente Desensitization and Reprocessing, Shapiro F., 1989)

L’EMDR è un approccio terapeutico in grado di curare i sintomi nelle persone che hanno vissuto eventi traumatici. Possiamo definire un evento traumatico come una qualsiasi situazione che provoca un opprimente senso di vulnerabilità o di perdita di controllo e porta la persona a provare reazioni emotive particolarmente forti, tale da interferire con le normali capacità di funzionare.

Gli obiettivi principali dell’EMDR sono i seguenti:

  • Aiutare i pazienti a imparare dalle esperienze negative che hanno avuto in passato;
  • Desensibilizzare gli individui rispetto ai trigger attuali che esercitano un effetto indebitamente stressante;
  • Assimilare dei modelli per agire più appropriatamente in futuro, in modo tale da permettere ai pazienti di accedere a maggiori risorse sia a livello personale che a livello relazionale.

In sostanza l’EMDR serve a catalizzare l’apprendimento: questo trattamento fa in modo che le immagini, le convinzioni, e le emozioni negative associate ad un ricordo disturbante diventino sempre meno vivide e sempre meno potenti. Il ricordo target sembra man mano associarsi a informazioni più appropriate: i pazienti imparano a riconoscere gli elementi necessari e utili della loro esperienza passata e l’evento viene re-immagazzinato in memoria in forma adattiva, sana e non stressante (Shapiro, 2018).

E’ facile che, a causa della situazione Coronavirus, venga attivata o riattivata una componente traumatica dell’esperienza, trovandosi necessariamente a contatto con la malattia e con la morte, a rivivere esperienze di solitudine e lontananza dalle persone care, a gestire situazioni di emergenza improvvise e inaspettate.

L’EMDR è l’approccio psicoterapeutico che meglio si integra e si adatta ai contesti di post-emergenza, come quello del Covid-19, ed in particolare esiste un determinato protocollo (Gary Quinn, 2009), applicabile a distanza, in breve tempo e anche nella modalità online, particolarmente adatto proprio in ambito della Psicologia dell’Emergenza e, quindi, particolarmente indicato nel supporto di soccorritori e operatori sanitari.

Mindfulness

Mindfulness significa consapevolezza o presenza mentale e lo sviluppo di questa attitudine favorisce la riduzione dello stress e la messa in atto di comportamenti più consapevoli e più efficaci rispetto ai propri schemi abituali di reazione allo stress.

Capita a tutti di sentirsi “sotto stress”, cioè di provare preoccupazione, impotenza, ansia o sentirsi sotto pressione nell’affrontare le difficoltà che quotidianamente ci si presentano.

Ma capita anche di percepire forte stress e sofferenza in seguito ad eventi eccezionali, traumatici, non ordinari, inaspettati. E questo forse è particolarmente vero in questo determinato periodo storico e soprattutto per la categoria degli operatori sanitari.

Come siamo abituati a reagire agli eventi stressanti? Come ci relazioniamo con la sofferenza quando non possiamo evitarla? Evitando, procrastinando, respingendo con rabbia ciò che ci fa star male, diventando nervosi con chi è accanto a noi, fumando o bevendo, abbuffandoci, perdendo la percezione del tempo mentre scorriamo le bacheche dei social…

La pratica della mindfulness è molto efficace per imparare a relazionarsi in un modo nuovo con la sofferenza, in cui ci si allena a guardare in modo più distaccato i pensieri e le emozioni difficili senza farsi travolgere da essi. Questo porta ad una maggiore tolleranza degli stati emotivi dolorosi e ad una riduzione del livello di reattività automatica agli eventi negativi. Si impara infatti a lasciar andare i pensieri emotivamente pregnanti che portano alla sofferenza, il cui potere di assorbimento quindi si riduce.

Attraverso la pratica della mindfulness, cioè attraverso un attento e costante lavoro sul corpo, sul respiro, sull’osservazione e sull’accoglienza delle emozioni e dei pensieri, si diventa più coscienti delle risorse già potenzialmente disponibili in se stessi, si diventa più consapevoli e concentrati mentre si svolgono le varie attività quotidiane e si impara a mettere in atto comportamenti più consapevoli e più efficaci rispetto ai propri schemi abituali di reazione allo stress, portando ad un migliore equilibrio psicofisico e ad un innalzamento della qualità della vita.

 

A cosa può servire la psicologia nei contesti di lavoro?

Nel panorama attuale il cambiamento e la capacità di rispondere in modo innovativo alle nuove sfide che il mercato impone sono questioni di primaria importanza per le organizzazioni moderne. Come si inserisce in questo scenario lo psicologo del lavoro?

 

Partiamo da una piccola premessa: l’importanza del lavoro nella vita di ognuno.

E’ ormai riconosciuta dalla letteratura l’importanza che il lavoro detiene nella vita di un individuo, al punto tale da parlare di un Sé professionale (Fabbri & Rossi, 2008) come elemento importante di una creazione positiva dell’identità personale. Il lavoro acquisisce un ruolo centrale nella vita della persona poiché, oltre a definire il luogo che una persona e la sua famiglia occupano all’interno della società, definisce un’identificazione sociale e personale diversa da un altro uomo sociale. Per identità ci riferiamo ad una descrizione autoreferenziale che fornisce risposte alla domande “chi sono?” (Ashforth, Spencer, & Corley, 2008). Alcuni ricercatori suggeriscono che l’identità, di qualunque aspetto si parli, può essere vista come work-in-progress: instabile e mutevole. Sotto questo aspetto dinamico, l’identità lavorativa è un’attività in continua evoluzione (Boudreaua, Serranob, & Larsonc, 2014, p. 3). Per questo le persone non lavorano solo per guadagnarsi da vivere, ma apprezzano anche la qualità della vita lavorativa (Sirgy, Efraty, Siegel, & Lee, 2001).

Un’ulteriore premessa: i cambiamenti organizzativi e la loro gestione

La letteratura manageriale concorda, al di là delle diverse prospettive e correnti teoriche con cui si analizza il fenomeno, che gestire il cambiamento è una questione di primaria importanza per le organizzazioni moderne (Bouckenooghe, Devos &Van Den Broeck, 2009), così come la capacità di rispondere in modo innovativo alle nuove sfide che il mercato impone. Per raggiungere elevati livelli di innovazione e prestazione, le aziende devono fare affidamento sui propri lavoratori e sul modo in cui questi sperimentano l’organizzazione (Gundry, Muñoz-Fernandez, Ofstein & Ortega-Egea,2016). Per questo motivo, negli anni, vi è stato un cambio di rotta anche negli studi passando da un focus macro sul sistema aziendale, ad uno che mira a chiarire quali fattori individuali facilitano il cambiamento (Choi & Ruona,2010). Le ricerche hanno trovato nei comportamenti dei lavoratori la spiegazione al fallimento dei cambiamenti organizzativi, questi infatti possono reagire positivamente o negative con espressioni di resistenza (Armenakis & Bedein,1999). La rilevazione delle preoccupazioni sul cambiamento e delle predisposizioni dei lavoratori verso di esso diventa quindi una condicio sine qua non prima di avviare un processo di cambiamento (Ten Have & Ten Have,2004 in Bouckenooghe et al,2009).

Ultima premessa: siamo tutti d’accordo sui nuovi leader aziendali

Un ulteriore aspetto su cui la letteratura manageriale concorda è la necessità di formare una leadership capace di gestire i teams e di rispondere alle esigenze di cambiamento costante. Il leader diventano figure chiave delle aziende flessibili ed il loro ruolo è sempre più legato all’ incoraggiare l’accettazione degli obiettivi nel gruppo, all’incoraggiamento di comportamenti di cittadinanza organizzativa, a funzioni di supporto durante lo svolgimento dei compiti con costanti feedback sull’operato. I leader che ottengono i migliori risultati (Bass, Avolio, Jung & Berson, 2003) sono quelli maggiormente attenti agli individui, stimolando le persone ad usare le proprie risorse intellettive e creando un clima di lavoro favorevole.

Ma chi è lo psicologo del lavoro?

La psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane fa riferimento alla relazione tra persone, lavoro e contesti organizzativi, con riguardo ai fattori personali, interpersonali, psicosociali e situazionali. Lo psicologo del lavoro collabora allo svolgimento di funzioni in relazione alla carriera lavorativa delle persone e ai contesti di lavoro organizzativi; tra le principali attività vi sono: la selezione, la valutazione e l’orientamento delle persone, la formazione e lo sviluppo dei lavoratori, il marketing e i comportamenti di consumo, le condizioni di lavoro, salute e benessere sia individuali che organizzativi, il team work, la progettazione e la realizzazione di interventi per l’acquisizione, gestione e valutazione delle prestazioni, gli interventi di sviluppo. Inoltre, lo psicologo del lavoro si occupa dell’assessment del fabbisogno formativo a livello di gruppo o di parte dell’organizzazione, mediante tecniche di analisi del lavoro e analisi organizzativa (ad esempio, SWOT e Gap analysis) tese alla definizione degli obiettivi formativi e della progettazione formativa. Infine, un’altra importante funzione è quella concercente le valutazioni dei rischi psicosociali, con particolare riguardo allo stress lavorativo, agli interventi per la salute e sicurezza nei posti di lavoro anche in una prospettiva ergonomica,alla  formazione e apprendimento delle regole di sicurezza, sulle reazioni automatiche a specifiche situazioni di pericolo (Consiglio nazionale ordine degli psicologi).

Mettiamo insieme i pezzi:

I vantaggi di avere una figura professionale come lo psicologo aziendale per un’organizzazione anche di piccole-medie dimensioni sono:

  • Avere una figura che sia in grado di analizzare, comprendere e mediare tra i cambiamenti del personale, legati alla propria funzione identitaria ed i cambiamenti aziendali. Attraverso pratiche evidence based e strumenti tipici della professione che permettono un’analisi non superficiale delle esigenze del singolo, si può quindi avere un buon match tra l’identità personale, professionale e identità aziendale.
  • Avere un manager interno, non consulenziale, che sia in grado di cogliere il punto di vista individuale in ogni fase del cambiamento organizzativo pone le basi per un clima favorevole al continuo cambiamento, contribuendo a gestire le resistenze e le ansie all’interno dell’azienda.
  • Avere un formatore per i propri leader interni. Anche in questo caso, la possibilità di avere un formatore interno, rispetto al consulente esterno, permette di poter creare una leadership su misura alle esigenze aziendali. La capacità di acquisire buone pratiche dall’esterno e modellare sull’esigenza dei team di lavoro (che anche tra i diversi reparti di un’unica organizzazione possono variare) permette una maggiore aderenza fra leadership e team di lavoro.

Rivalutare il ruolo dell’ufficio HR implica, quindi, creare una figura professionale che non sia un mero gestore amministrativo del personale (buste paghe, cedole, ferie, richiami), ma un professionista strategico; lo psicologo del lavoro, infatti, diventa un manager innovativo in grado di fornire efficaci strumenti di gestione del cambiamento orientati al singolo, strumenti sviluppati per implementare attività di coaching aziendale nei propri responsabili e monitorare le esigenze del personale impiegato. Un modello di direzione del personale basato sulla valutazione, gestione e valorizzazione delle risorse umane non solo è coerente con l’obiettivo di miglioramento continuo delle organizzazioni, ma anche un modello che implica un cambio di visione rispetto all’importanza del singolo in azienda: non più “ se vai via ne trovo altri 100”, quanto piuttosto “curo la tua crescita e la tua formazione affinché tu possa portare un valore aggiunto alla mia azienda”. Naturalmente, ciò implica uno sforzo per le organizzazioni: azioni di valutazione del potenziale già dalle prima fasi di selezione, azioni di socializzazioni delle nuove reclute con un diretto coinvolgimento della dirigenza, un sistema di valutazione che guardi anche alla costante formazione del singolo. Ancora, a livello organizzativo, implica la possibilità di avere figure trasversali che semplifichino il dialogo non solo tra direzione, leader e lavoratori, ma che rendano positivo e uniforme il dialogo tra diverse aree aziendali. Tali competenze fanno parte della cassetta degli attrezzi di uno psicologo del lavoro, la cui formazione non si limita alla conocenza della psiche, ma riguarda anche aspetti economici, sociologici e manageriali.

Certo non stiamo affermando che lo psicologo del lavoro sia una sorta di supereroe in grado di far tutto e cambiare le sorti di ogni azienda, ma di certo è un professionista che possiede conoscenze e competenze tali da poter limitare la richiesta di consulenze e di formatori esterni, riuscendo ad offrire un valore aggiunto alla gestione aziendale.

 

Paura, panico, contagio. Vademecum per affrontare i pericoli (2020) di P. Legrenzi – Recensione del libro

Un libro che, seppur scritto all’inizio della diffusione del coronavirus, offre una panoramica completa della situazione attuale; un testo che ci consente di infondere sapere e conoscenza e che può contribuire a mantenere l’equilibrio per riuscire a superare questa impresa funambolica che sta coinvolgendo tutti.

 

Edito il 18 marzo 2020 dalla casa editrice Giunti, il testo è scritto dall’illustre Paolo Legrenzi, Professore di Psicologia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerose pubblicazioni di carattere scientifico, saggi e manuali di psicologia. Il Prof. Legrenzi illustra, in maniera equilibrata, proprio come l’omino in copertina impegnato nella sua impresa funambolica, come una situazione così importante quale quella scatenata dalla diffusione del Covid-19 e relative conseguenze, stia scatenando meccanismi di paura. Meccanismi che, se non gestiti con equilibrio, potrebbero da protettivi, diventare essi stessi nocivi. Il tutto è, da una parte, approfondito con completezza e ricchezza delle argomentazioni e, dall’altra, con semplicità di linguaggio per essere accessibile a tutti.

Il Professore spiega come la natura della nostra mente, il suo modo di lavorare, le risposte emotive, quali la paura, abbiano una natura istintiva che mobilita dei meccanismi protettivi tra cui l’evitamento, la fuga, il voler tenere il controllo; e fornisce un approfondimento su come questo si traduca nell’attuale situazione caratterizzata dall’emergenza coronavirus. Tutto ciò va aggiunto al contagio sociale, portato anche dalla diffusione di informazioni false, poco chiare o non approfondite che possono fungere da fertilizzante ulteriore alle nostre paure.

Ma la paura, ci spiega il Professore, non è negativa così come non lo è la percezione del pericolo, ma riprendendo la figura presente in copertina, dobbiamo riuscire a tenere un equilibrio fra i due termini, perché il sopravvalutare, così come il sottovalutare, uno dei due potrebbe risultare disfunzionale e pericoloso e l’autore del testo spiega in maniera dettagliata e chiara anche il perché. L’essere umano ha la tendenza a ridurre in schemi semplici la complessità del mondo, iniziamo a farlo fin da piccoli per imparare a dare un senso alle cose che ci circondano, a ordinarle in categorie; usiamo questo meccanismo per “risparmiare energie”, ma a volte dobbiamo imparare ad essere più saggi e sapienti e cercare di  “vaccinarci” intanto dai danni che l’eccesso di determinati meccanismi, così come della paura, possono comportare all’essere umano.

E come difenderci?

Il testo offre una serie di spiegazioni anche in tal senso. Imparare a distinguere un pericolo soggettivo da un pericolo oggettivo, valutare non soltanto la causa, ma anche le concause in modo da ampliare la conoscenza di un fenomeno, e riuscire a capire come muoversi, sviluppare un senso critico, imparando a filtrare anche le informazioni di un evento o fenomeno, coltivare la speranza riuscendo a mantenere un equilibrio tra paura e pericolo.

Ma come si traduce tutto ciò in riferimento all’emergenza Coronavirus?

Basta riflettere su ciò a cui in questi mesi abbiamo assistito: persone che da una parte hanno sottovalutato il pericolo contribuendo con comportamenti irresponsabili alla diffusione del virus e persone che hanno esasperato meccanismi di paura, paura per la propria salute e quella dei propri cari, paura del contagio, paura per la propria condizione economica, paura per la condizione economica e sanitaria a livello nazionale e rapidamente a livello mondiale, per citarne alcuni.

Ma la paura comunque va affrontata e superata con coraggio, coscienza e prudenza, riducendo anche il flusso delle informazioni che ci giungono dai media e social media, prestando attenzione ad esempio non soltanto al dato relativo al numero di contagi e morti, ma anche al numero di guariti, discriminare e capire il numero dei morti con/per il covid-19, saper distinguere le cause dalle concause, capendo che su quest’ultime possiamo dare un nostro contributo ed in questo caso siamo chiamati a darlo.

Un libro che, seppur scritto all’inizio della diffusione del virus covid-19, offre una panoramica completa della situazione che stiamo vivendo a tutt’oggi, un testo che ci consente di infondere sapere e conoscenza e che, per il lettore attento ed interessato, può contribuire a mantenere l’equilibrio per riuscire a superare questa impresa funambolica che sta coinvolgendo tutti.

 

Amore, non stasera: le motivazioni che portano le coppie a rifiutare il partner a letto

Uno studio recentemente pubblicato su The Journal of Sexual Medicine ha indagato le motivazioni che spingono gli individui, impegnati in una relazione stabile, a rifiutare i rapporti sessuali con i propri partner (Mark et al., 2020).

 

I rapporti sessuali sono senza dubbio una parte fondamentale delle relazioni romantiche e contribuiscono al benessere della coppia e dell’individuo. Di fatti, coloro che sono soddisfatti della propria vita sessuale, a prescindere dalla cultura e dall’etnia di provenienza, mostrano livelli più alti di soddisfazione all’interno di relazioni a lungo termine (Heiman et al., 2011).

Tuttavia, nelle relazioni di lunga durata, si assiste a una diminuzione della frequenza dei rapporti sessuali e, di conseguenza, si può assistere anche a una minore soddisfazione sessuale e relazionale (Karraker & DeLamater, 2013). Ma quali sono le ragioni principali per le quali uno dei due partner rifiuta di avere un rapporto sessuale? La risposta a questo interrogativo potrebbe essere d’aiuto nel caso in cui una coppia richiedesse l’intervento di uno specialista o, più semplicemente, per comprendere le ragioni del partner imparando a gestire le proprie reazioni negative al “rifiuto”.

In letteratura, sono presenti diversi studi che indagano le motivazioni che portano le coppie a diminuire la frequenza dei loro rapporti sessuali (es. Call et al., 1995): primo tra tutti il fatto che il desiderio sessuale cali con la durata della relazione e con l’età (Herbenick et al., 2014); in secondo luogo, entrano in gioco fattori come la gravidanza, il parto, lo stress lavorativo, sociale o familiare, i problemi economici, un desiderio sessuale scarso, il poco tempo a disposizione da passare insieme e così via (Fisher et al., 2015; Karraker et al., 2013; DeLamater & Moorman, 2007).

Il presente studio si pone l’obiettivo di comprendere le motivazioni che spingono uno dei due partner a rifiutare un rapporto sessuale, tramite un’osservazione quotidiana della durata di 30 giorni di 87 coppie eterosessuali (Mark et al., 2020). I quattro interrogativi ai quali gli autori hanno voluto trovare una risposta sono i seguenti: (1) quali sono le ragioni che spingono sia gli uomini che le donne a non impegnarsi in un rapporto sessuale? (2) Vi sono differenze di genere? (3) I motivi che spingono a non fare sesso sono collegati alla mancanza di desiderio, soddisfazione sessuale o soddisfazione relazionale? (4) Questi elementi predicono significativamente le ragioni riportate per non avere un rapporto? (Mark et al., 2020)

L’osservazione è avvenuta con la somministrazione del Sexual Desire Inventory e la Global Measure of Sexual Satisfaction prima di cominciare l’osservazione (baseline). Inoltre, i partecipanti hanno completato dei report quotidiani riguardo la loro vita sessuale.

Sia gli uomini che le donne hanno sostenuto di non avere rapporti sessuali per motivazioni comuni (es. “non è successo e basta”); per quanto riguarda le motivazioni delle donne, esse erano più portate, rispetto agli uomini, a dare risposte riguardanti loro stesse piuttosto che il partner (es. “non ne avevo voglia, non ero nello stato d’animo adatto, ero stanca, ecc.”) mentre gli uomini tendevano a riversare la responsabilità più sulle compagne che su di loro (es. “lei non aveva voglia, lei era stanca, ecc”). Sia per gli uomini che per le donne, le motivazioni per non avere un rapporto sessuale erano correlate, in frequenza, alla soddisfazione sessuale e relazionale e al desiderio sessuale quotidiano: una maggiore soddisfazione sessuale alla misurazione baseline era associata a una ridotta probabilità di riversare la responsabilità sul partner per i mancati rapporti (Mark et al., 2020).

I problemi sessuali sono la ragione principale per cui le coppie richiedono un intervento terapeutico ed essere a conoscenza delle motivazioni che spingono i due partner a rifiutare i rapporti può essere un buon punto di partenza.

 

Alimentazione ed emozioni: uno stretto legame – Il video di Psychoarea

Cos’è la fame “nervosa”? Perchè a volte mangiamo anche se non abbiamo fame o, piuttosto, digiuniamo? Cosa ci fa preferire degli alimenti rispetto ad altri? Perchè gli effetti di regimi alimentari fortemente restrittivi non sono destinati a durare nel tempo?

 

In occasione della IX Giornata del Fiocchetto Lilla, giornata istituita per la sensibilizzazione ai Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, l’Associazione Psychoarea aveva proposto una serata informativa gratuita, aperta a tutte le persone interessate, per parlare dello stretto legame tra alimentazione ed emozioni nella normalità della vita quotidiana e di come questo può sfociare in vere e proprie patologie.

Purtroppo, a causa dell’emergenza coronavirus, l’evento è stato annullato, ma abbiamo comunque deciso di caricare un video per divulgare i contenuti che sarebbero stati trattati durante la serata.

Capiremo cos’è la fame “nervosa”, perchè a volte mangiamo anche se non abbiamo fame o, piuttosto, digiuniamo, cosa ci fa preferire degli alimenti rispetto ad altri e perchè gli effetti di regimi alimentari fortemente restrittivi non sono destinati a durare nel tempo.

Impareremo, poi, cosa si intende per Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, quali sono alcuni dei fattori coinvolti nel loro sviluppo, quali sono le persone più a rischio di svilupparli, quali sono i segnali per riconoscerli e come aiutare le persone che ne sono affette a ricorrere alle cure. Tratteremo poi brevemente quali sono i protocolli di trattamento approvati dalle linee guida internazionali che possiamo applicare e come la famiglia può diventare una risorsa nell’affrontare le difficoltà.

Intervengono la dr.ssa Patrizia Todisco, medico chirugo specialista in medicina interna e psichiatria, psicoterapeuta e responsabile  del Centro per la cura dei DCA presso la Casa di Cura “Villa Margherita” e la dr.ssa Sylvia Schifano, psicologa e psicoterapeuta specializzata nel trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione.

Buona visione e…coloriamoci di Lilla!

 

GUARDA IL VIDEO INTEGRALE DELL’INTERVISTA:

Un incontro con una ragazza romana

Agnese una donna romana che non fu più una pedina dei traffici politici dei suoi tempi e sociali della sua famiglia, ma scelse il suo nome e un suo destino. La piccola Agnese non era una teenager dei nostri tempi impegnata nei suoi primi filarini amorosi, ma parte del grande gioco sociale della nobiltà romana.

 

Passeggiavo per Roma qualche settimana fa, quando era ancora possibile passeggiare e il Coronavirus ancora non ci confinava in casa, diretto a un’occasione di lavoro che ora non ricordo, quando mi imbattei in una chiesa. Una chiesa dedicata a Sant’Agnese, la Basilica di Sant’Agnese fuori le Mura. Mosso da curiosità consultai su wikipedia o sulla targa fuori dalla chiesa – anche questo non lo ricordo più bene – chi fosse questa santa e trovai la storia di una giovane donna martirizzata a 12 o forse 15 anni durante la persecuzione di Diocleziano.

Pur distrattamente interessato, non potei fare a meno di chiedermi cosa avesse potuto convincere una giovane ragazza romana di nobile famiglia a rinunciare ai piaceri della vita mondana per la castità. Pare che la ragazza fosse stata promessa in sposa dal figlio del prefetto di Roma e che lo avesse respinto preferendo la sua scelta religiosa e che poi il respinto l’avesse denunciata come devota al Cristo, religio illicita, all’autorità. La ragazza non abiurò la sua fede e il tribunale la fece giustiziare nonostante la tenera età.

Mi accompagnò subito una torma di pensieri, i più moderni e liberali, che deridevano questa scelta autopunitiva e repressiva della ragazza in base alle categorie moderne della libertà sessuale e del godimento terreno: perché non si era sposata con quel tipo che l’amava? E se anche non le piaceva perché non si era goduta la sua vita mondana invece di abbreviarla per una fede soprannaturale? Si presentarono però a controbattere altri pensieri che sostenevano che forse gli avvenimenti erano stati più complessi e che non si doveva giudicare una persona col metro moderno della repressione sessuale. Il che poteva essere vero: perché quella ragazza doveva sposare qualcuno che lei forse non desiderava? Probabilmente a quel tempo il parere della donna non era tenuto in gran conto e ritenere la vita matrimoniale di una donna di un’epoca così antica più libera di una scelta religiosa era forse un pregiudizio moderno.

Una sposa all’epoca era una persona con scarsi diritti, sottomessa al marito e destinata a un futuro di fattrice e di gestione della casa. Una religiosa, al contrario, poteva essere una donna autonoma e dotata di un ruolo pubblico. Rinunciava ai piaceri del mondo e della carne? Il mondo però le sarebbe stato precluso anche come donna sposata e anzi forse più precluso. Quanto alla carne, si tratta di un’ossessione dei nostri tempi, sempre un po’ adolescenziali e maschietti.

Anche questo però poteva essere a sua volta un giudizio astratto e superficiale. Non potevo escludere che Agnese potesse avere davvero agito anche per paura dell’impegno affettivo e sessuale e non per libera scelta. È possibile che a quei tempi l’idea della passione romantica fosse meno diffusa e idealizzata che nel presente, ma non era del tutto assente. Basti pensare a Catullo e altri. Epperò Catullo risaliva a tre o quattro secoli prima e i tempi di Agnese erano diversi, più attratti dal soprannaturale, non solo cristiano. E così via pensavo pigramente mentre i pensieri continuavano ad attormarsi.

La verità più semplice è che non sapevo nulla di questa Agnese, se non il suo nome. Mentre ero impegnato in queste inoperose speculazioni mi venne in mente però un particolare che poteva rendere la storia di Agnese più vissuta e concreta. Non sapevo quale fosse la famiglia nobile a cui apparteneva Agnese. Non so perché mi vennero in mente i Claudi, tra le famiglie più antiche e nobili. Poteva essere una Claudia? Nessuno mi può rispondere. In realtà non solo io, ma nemmeno wikipedia sembrava sapere a quale famiglia appartenesse Agnese.

Che fosse una Claudia o meno, però di certo Agnese come nobile romana non aveva un suo nome proprio. Cosa intendo dire? Che le donne a Roma non avevano un nome personale, ma portavano tutte indistintamente il cognome della famiglia. E così nella famiglia Claudia capitava che tutte le donne si chiamassero Claudia. E quando scrivo tutte, intendo tutte. Mentre i maschi di famiglia avevano tre nomi, di cui uno proprio e personale, ad esempio Appio Claudio Cieco il sui nome personale era Appio, nome appunto suo e solo suo, le donne di una famiglia si chiamavano tutte, ma proprio tutte, con lo stesso nome che era quello della famiglia: nel caso della famiglia dei Claudi, si chiamavano tutte Claudia.

Di colpo mi chiesi quali fossero le implicazioni pratiche di una simile situazione. Immaginai una riunione di famiglia in cui tutte le donne si chiamassero con lo stesso nome. Ad esempio, ancora nel caso della famiglia Claudia: Claudia la nonna, Claudia le figlie, Claudia le nipoti, Claudia le zie e le cugine e così via. Come facevano a chiamarsi tra loro, avendo tutte lo stesso nome? Probabilmente utilizzando nomignoli di cui è svanita la memoria. Un modo sottile per anonimizzarle, queste donne.

E così la figlia di Marcio Tullio Cicerone si chiamava Tullia, come Tullia si chiamava sua zia o sua nonna, le sue cugine e le sue figlie e nipoti. Solo la madre, provenendo da un’altra famiglia, aveva un altro nome, che però era in comune con un’altra torma di zie e cugine. Forse per questo il padre Cicerone chiamava sua figlia Tulliola, piccola Tullia, per distinguerla e darle una piccola individualità. E già, perché a pensarci bene, se tutte le donne di una famiglia si chiamavano allo stesso modo, nessuna di loro aveva una sua individualità, questo era chiaro.

Ed ecco che invece una di loro si converte al cristianesimo, fa voto di castità e assume un nome che non è quello della famiglia, sia pur nobile. Scelse di battezzarsi Agnese, forma latinizzata del nome greco antico Ἁγνή che significava pura, casta. Da casta, Agnese non fu più una pedina dei traffici politici e sociali della sua famiglia e scelse un suo destino. La piccola Agnese non era una teenager dei nostri tempi impegnata nei suoi primi filarini amorosi ma una pedina nel grande gioco sociale della nobiltà romana.

Di Agnese non sappiamo quale fosse il nome da ragazza pagana, il primo nome che in realtà era il cognome di famiglia come abbiamo già detto. Lo abbiamo dimenticato. E forse di questo Agnese sarebbe contenta. Finalmente con un nome tutto suo, forse accettò felice il martirio. E forse anche questa spiegazione, troppo sociologica, non rende giustizia ad Agnese, che nutriva un afflato spirituale più elevato delle nostre curiosità sessuali di eterni moderni teenager malcresciuti.

 

Morire per una foto: le selfie deaths – Psicologia Digitale

Le situazioni a rischio più frequenti che conducono alle cosiddette selfie deaths comprendono trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 10) Morire per una foto: le selfie deaths

 

La notizia è di pochi giorni fa: Olesya Suspitsyna, giovane guida turistica, è morta cadendo da un dirupo nel parco turco di Duhan, famoso per le sue cascate.

Lì con una amica, si era allontanata dalla recinzione di sicurezza per scattare un selfie che la ritraesse con lo sfondo spettacolare della scogliera ma è scivolata compiendo un volo di 35 metri, troppi perché potesse salvarsi.

Dall’autoscatto al selfie

Alzi la mano chi non ha mai scattato un selfie: non c’è nemmeno bisogno di spiegare che cos’è. Selfie è un termine giovane: nascita e prima definizione risalgono al 2005 quando il fotografo Jim Krause lo utilizza per la prima volta nel suo book Photo Idea Index. Nel 2012 l’Accademia della Crusca lo definisce ‘un autoscatto creato per essere condiviso sui social’, ponendo l’accento sulla condivisione e sull’unicità del termine, di cui non esiste infatti un corrispettivo italiano. L’anno successivo il termine ‘selfie’ diventa parola dell’anno per l’Oxford Dictionary che ne dà una definizione identica: ‘foto di sé (da soli o in compagnia) destinata alla condivisione’, riconoscendone in via definitiva la popolarità.

Il selfie come condotta a rischio: le selfie deaths

Le cosiddette ‘selfie deaths’ (dette anche killfies) sono decessi causati da una condotta a rischio attuata col preciso scopo di scattare un selfie; vanno incluse in questa triste numerica anche le persone morte per prestare soccorso o che erano con chi materialmente faceva lo scatto. Si tratta di morti che avrebbero potuto essere evitate se qualcuno non avesse spinto la voglia di un autoscatto social oltre i limiti. La maggior parte delle selfie deaths avvengono in India, seguite da Russia, USA e Pakistan; le situazioni a rischio più frequenti sono: trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati, come tigri (Lamba et al, 2017). Ad oggi sono state registrate ufficialmente 327 ‘selfie deaths’. Il numero totale di morti potrebbe essere molto più alto, dato che molti casi potrebbero non essere stati considerati selfie deaths.

Killfies: nuove teorie e aree di ricerca, dipendenza o narcisismo?

Del fenomeno ci siamo già occupati qualche mese fa, con la lente delle teorie di Daniel Kahneman secondo cui il processo decisionale ‘immediato’ è coinvolto nei comportamenti a rischio, inclusi quelli che possono portare alla morte per una foto. Ci sarebbero però anche altre spiegazioni.

Per Lodha e De Sousa (2019), rispettivamente psicologa clinica e psichiatra operativi in India, i selfie sono validi mezzi di definizione, rappresentazione ed espressione di sé e strumenti per rimanere in contatto con gli altri. Parte importante dell’identità personale, possono rappresentare un problema quando l’uso è disfunzionale e rivela fenomeni psicologici come scarsa fiducia in se stessi (da qui il bisogno di essere validati dal giudizio esterno, i like), o tendenze narcisistiche preesistenti (tesi esplorata a fondo da Maddox, 2017). Molti professionisti della salute mentale associano la compulsione a farsi selfie con altri disturbi mentali, come dismorfofobia e insoddisfazione corporea e in rari casi addirittura psicosi, oltre che con bassa autostima, FOMO (fear of missing out, la paura di essere esclusi dai social) e isolamento. Secondo Lodha e De Sousa possiamo parlare di ‘sindrome da selfie’ o ‘disturbo da dipendenza da selfie’, o, come lo definirebbe Bergum (2019), selfitis: compulsione clinicamente significativa, una vera e propria dipendenza, a scattare più volte al giorno foto di se stessi da pubblicare sui social.

Le selfie deaths sarebbero una delle conseguenze di questo disturbo, quella più tragica: l’impulso incontrollabile porta a comportamenti rischiosi, senza preoccupazione o comunque sottostimando il rischio in nome della foto perfetta.

Selfie vs killfie: guardami mentre mi mostro

Ogni giorno moltissimi selfie vengono scattati e condivisi senza alcuna conseguenza per l’incolumità delle persone. E’ chiaro che attira più l’attenzione dei media l’evento tragico, seppur per fortuna molto raro.

Per dare un senso a queste morti si ricorre spesso ad una narrativa che riconduce al mito di Narciso e del suo specchiarsi in se stesso, anche se un selfie non dice solo ‘guarda qua, qui, ora’ ma anche ‘guardami mentre mi mostro’: siamo più nell’ambito della micro celebrity, del creare di se stessi un brand. Secondo Maddox (2017) la lettura del sé patologicamente Narciso è anacronistica: per la Generation Me, quella dei nativi digitali, i social sono parte delle normali interazioni quotidiane; una generazione fortemente influenzata dai social e soprattutto dalla quantificazione: il ‘sé quantificato’ di cui parlano Lodha e De Sousa (2019), il cui valore dipende dal numero di like, commenti, follower.

Le selfie deaths, se pure un fenomeno di nicchia, hanno attirato l’attenzione di studiosi e portato alla nascita di un movimento, il Selfie to die for, che promuove la sensibilizzazione sui rischi di spingersi troppo oltre per fare una foto.

Fare selfie comunque ha anche molti aspetti positivi: espressione di sé, condivisione, attenzione e accettazione da parte degli altri; solo che, a volte, con un costo troppo alto.

 


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Gestione Documentale: di cosa si tratta?

Gestione Documentale: di cosa si tratta?

L’AgID (Agenzia per l’Italia digitale) dà questa definizione:
La gestione documentale dei procedimenti amministrativi garantisce la corretta amministrazione dei documenti dalla produzione alla conservazione.

Wikipedia fornisce queste informazioni:
Il Document management system (DMS), letteralmente Sistema di gestione dei documenti, è una categoria di sistemi software che serve a organizzare e facilitare la creazione collaborativa di documenti e di altri contenuti. Tecnicamente si tratta di un’applicazione lato server che si occupa di eseguire operazioni talvolta massive sui documenti, catalogandoli ed indicizzandoli secondo determinati algoritmi.

Ogni giorno le Aziende si trovano a fare i conti con enormi e continui flussi di lavoro che possono (e devono) essere migliorati per restar dal passo con i tempi. Ogni giorno le Amministrazioni devono raccogliere, ordinare, catalogare, organizzare, conservare, gestire dati e documenti che circolano in grandissima quantità e velocità. In tutto questo sistema, una corretta gestione documentale può risultare come strategia vincente da adottare.

Quali sono i documenti con i quali adottare la gestione documentale?
PEC, E-Mail, immagini, scansioni, fatture, documenti office, fatture e molto altro.

Document Management System (DMS)

Ovvero, un software di gestione documentale che agevola l’accesso alle informazioni conservate.
Questo permette di ridurre notevolmente i costi aziendali per archiviazione, ottimizzando anche il workflow documentale e garantendo l’operatività lavorativa.

I Vantaggi?

Ricerca: informazioni e documenti recuperabili in pochi istanti.

Accessibilità: possibilità di raggiungere le informazioni ovunque, sia da web che da client.

Eco – Friendly: particolare attenzione all’ambiente e alla riduzione di inquinamento, grazie all’eliminazione della carta.

Sicurezza: la personalizzazione degli accessi permette di accedere ai file solo a chi dispone degli permessi necessari per farlo. Inoltre, vengono rispettare le normative sulla privacy.

Valore ai documenti: la possibilità di valorizzare i propri documenti, grazie all’archiviazione, alla conservazione e rendendoli inalterabili nel tempo.

Riduzione dei costi: si abbattono costi di archiviazione, spedizione e gestione dei documenti. Inoltre, un buon sistema di gestione documentale permette di evitare inutili perdite di tempo e, di conseguenza, ottimizzare il lavoro.

Cyberchondria: googla un sintomo e ti dirò cos’hai

In questo momento storico in cui sembra che “dott. Google” sappia tutto, è sempre più frequente pensare o sentire da parenti e amici “sai quel mal di testa che ho?! Ho googolato e potrebbe essere un tumore al cervello, che ansia!”.

Marino Claudia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

La ricerca di informazioni online rispetto alla propria salute è un fenomeno in crescita in tutto il mondo. Le statistiche nazionali indicano che circa il 35% degli italiani che usano Internet cerca online informazioni relative alla salute (Eurostat, 2018). Da un lato le ricerche online sulla salute comportano una serie di vantaggi come l’anonimato nel cercare le informazioni imbarazzanti, la gratuità delle informazioni ricevute e, perché no, la sensazione di “saperne di più” sui propri sintomi (Starcevic & Berle, 2013). D’altra parte, però, le pericolose auto-diagnosi e la conseguente sfiducia nel nostro medico di base o nello specialista di turno risultanti dalla ricerca di sintomi su siti internet di varia natura sembra peggiorare i livelli di ansia per la salute (White & Horvitz, 2009). A questo riguardo, in una recente meta-analisi, McMullan e colleghi (2019) hanno trovato un’associazione “media” tra ansia per la salute e la frequenza nella ricerca di sintomi. In altre parole, sembra che cercare sintomi online abbia a che fare con la preoccupazione per il proprio stato di salute (Taylor & Asmundson, 2004), ma, allo stesso tempo, sembra che il comportamento di ricerca di informazioni online possa avere anche delle caratteristiche specifiche. Anche se attualmente non c’è consenso internazionale sul ritenere la ricerca online la causa o la conseguenza dell’ansia per la salute, i ricercatori sembrano essere concordi sul fatto che cercare i propri sintomi online possa contribuire in modo significativo al peggioramento di un’ansia per la salute che probabilmente è pre-esistente (Starcevic & Berle, 2015) o ad innescare l’ansia per la salute in persone che prima di cercare non avevano livelli problematici di distress.

Cos’è la Cyberchondria: definizione e correlati psicologici

Al di là della ricerca online di sintomi di per sé, il termine “cyberchondria” indica una ricerca eccessiva e il perseverare in tale attività compulsivamente nonostante l’aumento dell’ansia per la salute esperito e la compromissione del funzionamento della vita quotidiana (Starcevic & Berle, 2013). Quindi, i molteplici e diversi risultati delle ricerche online di un sintomo, spesso, rendono il quadro diagnostico molto confuso e le persone tendono a cercare rassicurazioni dai medici prenotando molte visite per avere più pareri, facendo quindi accesso con più frequenza ai servizi del sistema sanitario nazionale. In questo senso, oltre ad aumentare i costi della sanità pubblica, i pazienti sperimentano un distress tale da provare sfiducia nei medici a causa della probabile incongruenza delle diagnosi ricevute dai medici in persona e online.

La natura multidimensionale della cyberchondria è stata catturata in uno strumento proposto da McElroy e Shevlin (2014): la Cyberchondria Severity Scale (CSS). Questa scala è stata tradotta in diverse lingue ed esiste anche una versione italiana che sarà pubblicata nei prossimi mesi.

La versione originale della scala contiene 33 item divisi in 5 sottoscale:

  • Compulsion: indica come il comportamento di continuare a cercare sintomi online comprometta il normale funzionamento quotidiano (esempio di item: “Cercare online i sintomi o le condizioni mediche percepite interrompe le mie attività sociali offline (riduce il tempo che passo con amici e familiari)”).
  • Distress: indica l’ansia per la salute legata alle ricerche online (esempio di item: “Incomincio a farmi prendere dal panico quando leggo online che un sintomo che ho è associato a una malattia rara/grave”).
  • Excessiveness: indica il ricorso ripetuto ed eccessivo all’uso di Internet per cercare i sintomi percepiti (esempio di item: “Leggo pagine web diverse riguardo la stessa presunta condizione medica”).
  • Reassurance: indica la ricerca di rassicurazioni dal medico per la grave preoccupazione scaturita dalla consultazione di siti web sulla salute (esempio di item: “Discuto delle mie scoperte mediche online con il mio medico di base/lo specialista”).
  • Mistrust of medical professional (reversed): indica la (s)fiducia nella diagnosi del medico rispetto ai risultati delle ricerche online (esempio di item: “Mi fido più della diagnosi del mio medico di base/specialista che della mia auto-diagnosi online”).

Al di là delle proprietà psicometriche della scala, questa misura evidenzia come la cyberchondria sia caratterizzata sia da aspetti comportamentali (per esempio, cercare eccessivamente informazioni online) che emotivi (cioè, la preoccupazione per la propria salute) che cognitivi e relazionali. In questo senso, fino ad ora è stata il fulcro del dibattito scientifico internazionale sulla definizione del fenomeno e dei suoi correlati.

Infatti, sembra che la cyberchondria abbia delle caratteristiche in comune sia con l’ansia per la salute “tradizionale” (essendone la “forma online”) sia con il disturbo ossessivo-compulsivo (per la natura compulsiva delle ricerche online; Fergus & Russell, 2016). Ciononostante, la caratteristica distintiva di questo fenomeno consiste nel fatto che non solo gli ipocondriaci cerchino online (e finiscano per stare peggio) ma anche chi non ha ansia per la salute in partenza può poi provarla come conseguenza delle ricerche online su un sintomo più o meno banale. Quindi, l’escalation di ansia e le ricerche online sfociano nell’aumento del tempo speso a cercare sintomi online e portano, quindi, a una compromissione della vita quotidiana (McElroy, Kearney, Touhey, Evans, Cooke, & Shevlin, 2019).

Fergus and Dolan (2014) hanno, inoltre, evidenziato delle aree di sovrapposizione tra la cyberchondria e l’uso problematico di Internet (PIU). Sembra, infatti, che oltre ad “avvenire” su Internet, la cyberchondria, come PIU, sia caratterizzata dalla difficoltà nel controllare l’uso di Internet che porta a conseguenze negative nella vita quotidiana lavorativa e relazionale. Nello specifico, sembra che i cyberchondriaci abbiano alti livelli di intolleranza all’incertezza e sensibilità all’ansia (e.g., Fergus, 2015; Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015) e, al contrario, bassi livelli di qualità della vita (Mathes, Norr, Allan, Albanese, & Schmidt, 2018). Questa riflessione pone delle questioni fondamentali sul modello teorico di riferimento (PIU vs. ansia per la salute) e, quindi, sul tipo di trattamento psicoterapeutico più adeguato da adottare per trattare questo fenomeno (Fergus & Spada, 2017).

Un modello metacognitivo per la cyberchondria

In riferimento all’inquadramento teorico della cyberchondria, un contributo interessante è quello di Fergus e Spada (2017, 2018) i quali hanno proposto una concettualizzazione metacognitiva del problema. Vista la sovrapposizione della cyberchondria con altri disturbi (ansia per la salute, PIU, DOC), gli autori hanno dimostrato che alcuni correlati di tali disturbi possono avere un ruolo nella spiegazione della cyberchondria. Nello specifico, Fergus e Spada (2017) hanno evidenziato che le credenze metacognitive, che sembrano essere coinvolte in PIU (Spada, Langston, Nikčević, & Moneta, 2008), possono essere rilevanti anche per la cyberchondria. La cyberchondria sembra, infatti, essere associata alle tre credenze metacognitive relative alla salute (Bailey & Wells, 2015): biased thinking beliefs (“Pensare al peggio a proposito dei sintomi mi terrà al sicuro”), thought illness fusion beliefs (“Preoccuparmi delle malattie rende probabile che accadano”) e credenze su uncontrollability of thoughts (“Rimuginare sulla malattia è incontrollabile”). Relativamente all’associazione con il DOC, gli autori hanno suggerito il link con due costrutti del modello metacognitivo del DOC (Wells, 2000): credenze sui rituali (“Devo cercare online informazioni sulla salute altrimenti non sarei in grado di rilassarmi”) e segnali di stop (“Posso smettere di cercare i sintomi online solo quando ho un forte senso di certezza”).

Quindi, Fergus e Spada (2018) hanno disegnato un modello metacognitivo della cyberchondria sulla base del Self-Regulatory Executive Function (S-REF; Wells & Matthews, 1994; Figura 1).

Cyberchondria modello metacognitivo FIG1

Figura 1. Adattamento del modello teorico presentato in Fergus & Spada (2018).

Concretamente, un cyberchondriaco potrebbe avere un pensiero (o un’immagine, un ricordo, una sensazione) legato alla sua salute (trigger), per esempio “ho un forte mal di testa, sarà grave?!”. Questo trigger attiva le sue credenze metacognitive sulla salute e il cyberchondriaco potrebbe ritrovarsi a pensare qualcosa del tipo “pensare il peggio di questo mal di testa mi salverà” (biased thinking beliefs), oppure “non posso smettere di pensare al mio mal di testa, è più forte di me” (uncontrollability of thoughts), oppure, più raramente, “se non mi preoccupo del mal di testa finirà che è un tumore al cervello” (thought illness fusion beliefs). Queste credenze contribuiscono all’escalation di ansia per la salute in quanto, verosimilmente, indurranno il cyberchondriaco a rimuginare sulla condizione di salute percepita, come strategia solo apparentemente funzionale per affrontare l’evento attivante, cioè il mal di testa iniziale. Inoltre, le credenze metacognitive così attivate portano il cyberchondriaco a cercare online i sintomi del suo mal di testa spinto dall’ulteriore credenza che di aver bisogno di cercare online altrimenti “non avrei pace, non starei mai bene” (credenze sui rituali) e di dover continuare a cercare finché, per esempio, “ho una sensazione interiore che mi segnala che posso fermarmi” o finché si sente più calmo (segnali di stop). Le credenze metacognitive e le credenze sui rituali e i segnali di stop diventano quindi fattori di mantenimento per le ricerche eccessive e per l’aumento di ansia per il mal di testa. Infatti, i risultati delle ricerche online ripetute forniranno una lunga serie di possibili diagnosi di malattie più o meno gravi in cui il cyberchondriaco si riconoscerà, diventando, così, ancora più preoccupato di avere davvero un tumore al cervello. A questo punto, sarà ancora più convinto di non poter controllare i suoi pensieri catastrofici sul mal di testa (uncontrollability of thoughts) e di doversi preoccupare più che può per scongiurare il tumore (thought illness fusion beliefs), sperimentando sempre più ansia e continuando a guardare più siti web che può in cerca di rassicurazioni o possibili cure. Infine, verosimilmente, prenoterà una serie di esami e di visite, anche contro il parere del suo medico di base.

In conclusione, in questo modello, la presenza costante di una minaccia percepita in forma di probabile malattia con il distress provato di conseguenza amplifica la difficoltà nell’auto-regolazione proprio per la continua attivazione delle credenze metacognitive e su rituali e segnali di stop.

Dal punto di vista clinico, il modello metacognitivo della cyberchondria identifica alcuni degli aspetti preferenziali su cui lavorare con un cyberchondriaco: le credenze metacognitive sulla salute e le credenze sui segnali di stop e sui rituali. Infatti, la terapia metacognitiva, che sembra efficace per trattare il disturbo d’ansia per la salute (es., Bailey & Wells, 2014) e il DOC (Wells, 2000), potrebbe essere particolarmente appropriato in questo contesto.

Ritornando alle preoccupazioni di parenti e amici che si affidano al Dott. Google, una raccomandazione sensata potrebbe essere quella di confrontarsi con il proprio medico di base rispetto al dubbio di avere una malattia prima di ingaggiarsi in ricerche online compulsive e di fare lo sforzo, per quanto difficile, di riconoscere tempestivamente le nostre credenze metacognitive sulla salute evitando, così, di diventare dei cyberchondriaci a tutti gli effetti.

 

La Psicoterapia on line con gli Adolescenti

La cura degli adolescenti presuppone, nel clinico, una buona dose di pazienza e flessibilità. Si tratta di una modalità differente rispetto alla terapia con adulti. Cosa accade quando si tratta di terapia on line?

 

La consulenza on line agli adolescenti può essere difficile. Una forte resistenza può esistere quando si lavora con gli adolescenti a causa della loro transizione evolutiva da bambino ad adulto. Per combattere questo, i terapeuti devono dotarsi di una varietà di tecniche creative che promuovono sia l’espressione verbale che non verbale in un modo terapeutico. A maggior ragione nelle sessioni on line, tutto ciò si complica ulteriormente. Questo articolo fornisce spunti clinici appropriati per assistere i terapeuti nell’aumento del coinvolgimento dell’adolescente, consentendo nel contempo a questi ultimi di comunicare i loro pensieri, comportamenti e sentimenti in modo non tradizionale.

La cura degli adolescenti presuppone, nel clinico, una buona dose di pazienza e flessibilità. Si tratta di una modalità differente rispetto alla terapia con adulti.

In questa emergenza sanitaria da Covid-19 Skype o Whatsapp sono diventate le uniche alternative al setting vis à vis nel proprio studio professionale.

Nei casi più emergenziali, il supporto psicoterapico (Bellak, 1968) ha lo scopo di alleviare lo stato di sofferenza e di panico, nonché stati più acuti di sofferenza mentale. Anche le terapie brevi (Burke, 1978) sono spesso utilizzate per ridurre stati ansiosi, disturbi sessuali, comportamento suicidario in adolescenti e adulti.

Cosa accade, però, quando si tratta di condurre una terapia on line? E’ bene che il clinico abbia chiaro, con largo anticipo, se l’adolescente in questione è adatto ad un trattamento on line.

Le terapie dinamiche a breve termine, caratterizzate da lunghezze abbreviate (10–40 sessioni), sono diventate più diffuse negli ultimi tre decenni (Bellak, 1992). Le terapie a breve termine si basano su una rapida diagnosi psicodinamica, un focus terapeutico, un’alleanza terapeutica rapidamente formata, la consapevolezza dei processi di interruzione e separazione e la posizione direttiva del terapeuta. Molti adolescenti bisognosi di terapia sono resistenti all’attaccamento e al coinvolgimento a lungo termine in una relazione che può essere ambigua, che vivono come una minaccia al loro emergente senso di indipendenza e separazione. La terapia dinamica a breve termine può essere il trattamento di scelta per molti adolescenti perché minimizza queste minacce ed è più sensibile alle loro esigenze di sviluppo (Bellak, 1968).

In uno studio del 2016 su adolescenti in Australia si è scoperto che il 72% degli adolescenti ha dichiarato che avrebbero avuto accesso alla terapia online se avessero avuto un problema di salute mentale. Il 32% ha affermato che avrebbe scelto la terapia online rispetto agli incontri vis à vis (Sweeney et al. 2016).

Uno studio pubblicato nel Journal of Child and Adolescent Psychopharmacology nel 2016 ha scoperto che, mentre sono necessarie ulteriori ricerche in quest’area, la crescente gamma di programmi di e-terapia (utilizzo di piattaforme costruite appositamente), per bambini e adolescenti, mostra un incremento in fatto di utilizzo. Lo studio (Stasiak et al. 2016) ha infatti monitorato il processo di selezione, da parte dei teenager, dei portali presenti in rete per la richiesta di aiuto psicologico.

In uno studio recente (Fitzpatrick et al., 2017), i ricercatori hanno valutato l’efficacia di un app terapeutica cognitivo-comportamentale basata sul web chiamata Woebot nei giovani adulti con sintomi di depressione e ansia.

Molti dei partecipanti allo studio hanno riferito che l’uso quotidiano di Woebot ha comportato una significativa riduzione di sintomi di ansia e depressione già dopo due settimane, misurate attraverso la Patient Health Questionnaire (PHQ-9), la Generalized Anxiety Disorder 7-item scale (GAD-7) e la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS).

In termini di efficacia la terapia on line, rispetto a quella off line, conduce ai medesimi risultati in fatto di cura e di comprensione delle problematiche del paziente (Migone, 2003). Cambia il setting nel senso che in un contesto c’è la presenza di un Computer e nell’altro no.

Gli adolescenti visti in consultazione (con l’utilizzo di strumenti multimediali) in questo contesto legato al flusso pandemico, lamentano sintomi ricorrenti, come depressione e ansia. Avvertono un senso di costrizione legato al fatto di dover stare a casa e non mentalizzano in modo approfondito su quali possano essere i rischi reali della malattia.

Esistono numerose barriere che impediscono ai giovani di accedere ai servizi di salute mentale, tra cui lo stigma percepito (Gulliver et al., 2010), un’aspettativa o preferenza per l’autosufficienza, preoccupazioni relative alla riservatezza ( Gulliver et al., 2010) e mancanza di conoscenza e accessibilità dei servizi (Gulliver et al., 2010). Una delle strategie più recenti per aggirare tali ostacoli è stata la fornitura di servizi online.

In molti casi la terapia on line viene condotta alla stessa stregua di una terapia “vis à vis”. Il metodo e le tecniche terapeutiche rimangono le stesse. L’adolescente può, talvolta, avere bisogno di un accompagnamento verso la terapia on line. L’analista deve tener conto di questa possibilità in modo da rendere semplice il superamento delle suddette impasse. Allo stesso modo, dalla letteratura emerge (Marmor, 1979) che le terapie brevi trovano sempre più spazio all’interno della società. Ciò non esclude, però, che per alcuni pazienti si debba far ricorso a percorsi lunghi perché più adeguati per loro.

La ribellione dell’anima (2019) di M. V. Saccone – Recensione del libro

Che succede al nostro io quando rinunciamo a ciò che sogniamo o a quello che ci fa sentire vivi? Che succede quando conduciamo un’esistenza che non ci appartiene, ma che continuiamo per accontentare gli altri non ascoltando più la nostra essenza?

 

Sono questi gli interrogativi a cui risponde la scrittrice, appassionata di psicoanalisi, Maria Valentina Saccone, nel suo libro La ribellione dell’anima. Inserito dalla casa editrice Aracne nella sua collana di narrativa Istantanee, questo racconto affronta un tema molto delicato di cui raramente si sente parlare, quello della depersonalizzazione e lo affronta in modo semplice e diretto, dove “semplice” non sta per banale. L’autrice, attraverso le sue pagine scritte come un diario, riesce a far capire a chiunque cosa significhi soffrire di depersonalizzazione e come sia difficile, ma necessario, il percorso per uscire dalla depressione.

Chi è Sabina? Chi siamo tutti noi? Chi sei tu?

Questa domanda non trova una risposta immediata e forse per nessuno di noi può esserci una risposta univoca. Ma ancora di più: forse non c’è una vera risposta a “chi sono io”.

Nel corso degli otto capitoli del libro vediamo infatti come la protagonista Sabina, attraversa una vera e propria trasformazione di se stessa che non si concluderà di certo con la delineazione perfetta del proprio io. Noi siamo esseri in divenire, ma soprattutto, tutte le nostre scelte, tutte le nostre esperienze, aggiungono un particolare al nostro io rendendoci diversi da quello che eravamo nell’istante precedente.

Proprio per questo motivo il percorso alla scoperta della nostra essenza dura almeno quanto la nostra esistenza. Ciò che colpisce dalle prime righe del libro è proprio il sottolineare questo concetto attraverso la presentazione di Sabina come una ragazza alla “continua ricerca di se stessa”.

Apparentemente ha tutto ciò che si possa desiderare: bellezza, un lavoro e una storia d’amore nata da poco. Ciò non basta a preservarla da un trauma subito nell’infanzia a cui nemmeno lei credeva dover ancora farci i conti.

La quotidianità che rappresenta la gabbia del nostro io

Nel primo capitolo si racconta la routine di Sabina, proprio quella quotidianità che ha contribuito alla ribellione della sua anima. Sabina infatti non è contenta o soddisfatta della vita che sta conducendo e il rituale della sveglia, impostata alle 7:05, non fa altro che scandire il ritmo di una vita che non era quella che sognava. Aveva abbandonato le sue passioni per passare le giornate chiusa in un ufficio, con un lavoro che oltre a non rappresentarla, non faceva altro che procurarle un enorme stress. Si legge infatti:

Avevo abbandonato tutti i miei sogni per passare l’intera giornata nella più profonda solitudine alternata allo stress mentale che il mio lavoro implicava.

Questa vita diversa da quella desiderata era il frutto di quello che nel corso della sua adolescenza si era sentita dire dalla madre. Ciò che segna però più di tutto Sabina, sono le ansie trasmesse proprio da quella madre, la quale a sua volta era cresciuta in un clima simile. La casa per Sabina non è quindi un rifugio, ma è una “gabbia dorata” che annienta la sua personalità ricordandole costantemente tutto ciò che non aveva. Passò la maggior parte della sua infanzia e adolescenza da sola e la sua unica via di fuga era la scrittura.

All’età di ventotto anni, aveva finalmente trovato un uomo da cui non sentiva di dover fuggire, Mattia, eppure dopo qualche tempo lui si rivelò essere una persona superficiale e poco empatica. Questo porta la protagonista di La ribellione dell’anima a immaginare altro, nonostante ciò non riesce a fare a meno di lui. Anche in questa relazione, però, la madre di Sabina si intromette volendo conoscere i genitori del suo ragazzo, che nemmeno Sabina stessa conosceva. Si comincia già ad evincere da qui come l’io della ragazza protagonista del libro cominci a scricchiolare:

Il limite della mia sopportazione era ormai stato superato, eppure sforzavo la mia mente e il mio cuore ad accettare quella vita che non mi apparteneva, con un lavoro che mi stava stremando completamente, un uomo che sembrava un vegetale ambulante e una madre con tratti narcisistici […] e totalmente incapace di empatia.

L’unico appiglio alla realtà è il padre che la ama in modo genuino e questo sarà uno dei fattori positivi che la aiuterà nel difficile percorso che dovrà affrontare.

La depersonalizzazione: io non sono più io

Già nell’introduzione ci immedesimiamo in quello che sta succedendo a Sabina. Come dal titolo del libro, la sua anima si sta ribellando. Sabina si guarda allo specchio, ma non si riconosce. L’immagine che vede riflessa non sa a chi appartiene, le sue emozioni le sono estranee. Ogni cosa intorno a lei, tutti gli oggetti, è come se perdessero consistenza. Lei stessa perde consistenza, si sfiora un braccio, ma non sente nulla. Il velo tra immaginazione e realtà si è dilaniato condannando la protagonista a vivere una vita, la sua vita, come se ne fosse solo la spettatrice. Non riesce però a comprendere quanto le stia succedendo, perché al contempo riesce lucidamente a descrivere e scrivere le proprie sensazioni, anche se di suo ormai non sente più nulla.

In un giorno come un altro, nella sua solita routine, nella sua gabbia, qualche meccanismo si intoppa. Improvvisamente sente una pesantezza allo stomaco accompagnata da una sensazione di profondo terrore che le impedisce di vedere il futuro, inteso come l’attimo successivo rispetto a quello che sta vivendo.

La domanda che accompagna tutto il libro e quindi la sofferenza di Sabina è quale sia il senso della vita, nella misura in cui essa ha un termine: che senso ha tutto ciò che facciamo se siamo destinati a morire?

Una sua amica, Marta, psicoterapeuta, le dice che soffre di depersonalizzazione. Se ne parla poco di questo disturbo, eppure è un disturbo che aggredisce proprio l’io di un individuo e allo stesso tempo si manifesta come una difesa dell’individuo stesso. Dal momento in cui la mente si trova di fronte ad un dolore che sa di non poter sopportare è come se si distaccasse dal corpo. Non sono più io a vivere un incidente, un trauma, ma io sono lo spettatore. Così è come se la mente si mettesse al riparo.

Sabina, come la maggior parte delle persone, sente per la prima volta questa parola ed è spaventata perché non capisce cosa le stia capitando, si sente impazzire.

Nonostante la sua passione per la psicologia e la psicoanalisi, all’inizio è riluttante all’idea di dover rivolgersi ad uno specialista. Sarà proprio però l’inizio di questo percorso ad offrirle la possibilità di rialzarsi, unita alla sua voglia di tornare a stare bene.

La paura del giudizio: la “normalità” che non comprende

Nel corso dei capitoli successivi si entra sempre più nel vivo di ciò che sta accendendo a Sabina, o per meglio dire, dentro la sua anima. Superato l’iniziale spavento dovuto dall’idea di dover assumere dei farmaci, o anche semplicemente dall’entrare negli studi degli psicoterapeuti, comincia un percorso che la porterà a dover affrontare i traumi subiti all’infanzia, traumi che credeva aver rimosso, superato, ma che invece erano lì, nel proprio inconscio, aspettando il punto di rottura. I capitoli centrali del libro rendono senza filtri la sensazione di terrore e angoscia che caratterizzano le giornate di Sabina. Il suo dolore fisico e mentale è tangibile. Attraverso un linguaggio semplice e comune, la scrittrice Maria Valentina Saccone, oltre a farci sentire in prima persona il dolore di Sabina, ci delinea anche uno spaccato della società contemporanea: perché infatti la protagonista del libro mostra un’iniziale avversione al rivolgersi ad uno specialista? Da cosa nasce la paura di intraprendere un percorso che la porterebbe inizialmente ad un uso controllato di psicofarmaci teso alla guarigione? In semplici parole: la paura del giudizio.

La diffidenza di Sabina, nonostante – come già accennato – sia appassionata di psicologia, nasce dalla paura del giudizio delle persone che comunemente chiamiamo “normali”. Oltre a vivere un difficile momento di depressione, la protagonista del libro della Saccone, si trova a dover fuggire gli sguardi di tutti quelli che la vedono entrare nelle cliniche o negli studi degli psicoterapeuti.

È invece proprio grazie a questo percorso che cominciano a delinearsi le cause della depersonalizzazione prima e della depressione dopo che hanno colpito l’io di Sabina e che colpiscono molte persone. A seguito di quanto era accaduto, il livello di serotonina della protagonista si era notevolmente abbassato provocando l’impossibilità da parte del suo sistema nervoso di produrlo in modo autonomo. Gli antidepressivi servivano per riattivare un meccanismo che si era momentaneamente fermato, e successivamente si andava diminuendone l’assunzione fino ad arrivare alla totale sospensione.

Verso la guarigione Sabina si rende conto di come la paura del giudizio nasca dalla poca comprensione dei disturbi mentali. Le cosiddette “persone normali” relegano ai margini chi è affetto da patologie mentali, eppure siamo tutti esseri umani, tutti meritevoli di rispetto.

Questo racconto ci fa comprendere quanto ancora si sappia poco dei disturbi mentali, della depressione, e di come spesso se ne faccio un uso improprio nel linguaggio quotidiano. Ci sono molte realtà che non conosciamo, ma che nonostante questo, sbagliando, giudichiamo.

La ribellione dell’anima è un invito per chi soffre, a sentirsi meno solo, e a chi non soffre, a rendersi conto che siamo tutti esseri viventi, e tutti abbiamo una mente che a volte, per proteggersi, si ribella e così facendo ci mette di fronte ad un’unica scelta: iniziare a conoscere noi stessi.

 

Perché tradiamo? Quali sono le motivazioni che ci spingono al tradimento?

Una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Sex Research ha indagato le motivazioni sottostanti all’infedeltà verso il proprio partner.

 

Quando si parla di tradimento, si fa principalmente una distinzione tra il tradimento sessuale e quello emotivo, il primo consiste semplicemente nell’avere rapporti sessuali con persone differenti dal proprio partner, mentre il secondo, consiste nell’essere innamorati o catturati emotivamente da un individuo diverso dal nostro partern (Hackathorn & Ashdown, 2020).

Il campione dello studio era composto da 545 membri di AshleyMadison.com, un sito Web popolare per coloro che sono interessati ad avere relazioni extraconiugali, i partecipanti hanno completato un breve sondaggio online anonimo sulle motivazioni che li spingono a tradire il proprio partner.

La maggior parte dei partecipanti (81%) ha dichiarato di essere maschio e l’età media era di 48,89 anni (Hackathorn & Ashdown, 2020).

Non sorprende che coloro che hanno indicato che il loro partner principale non soddisfaceva adeguatamente i loro bisogni avevano maggiori probabilità di cercare un partner secondario, dato che la mancata soddisfazione di bisogni sessuali ed emotivi li portava a ‘’disinnamorarsi’’.

Il fattore principale alla base del tradimento, è l’insoddisfazione per la relazione primaria, mentre la soddisfazione verso il partner secondario si dimostra un fattore poco significativo nel motivare il tradimento (Hackathorn & Ashdown, 2020).

Ciò che comunemente pensiamo, è che l’infedeltà sia guidata dal fatto che incontriamo una persona che reputiamo ‘’migliore’’ rispetto al nostro partner, o per lo meno con cui ci sentiamo meglio; in realtà, stando ai risultati dello studio in questione, la conditio sine qua non alla base del tradimento non dipende dal partner secondario, ma dalla capacità del partner primario di soddisfare i nostri bisogni.

Gli uomini tendono di più ad attuare il tradimento sessuale rispetto alle donne, comportamento che sottende alla insoddisfazione sessuale (in termini di frequenza) con il partner primario; l’essere cristiani e la sociosessualità (essere a proprio agio con il sesso occasionale) si rivelano come fattori predisponenti al tradimento (Hackathorn & Ashdown, 2020).

Si tratta tuttavia di uno studio preliminare, i ricercatori, si stanno domandano perché molte persone tendono a portare avanti la relazione nonostante tradiscano il proprio partner; l’ipotesi che è stata avanzata riguarda la dissonanza cognitiva, che si verifica quando il nostro comportamento è incoerente con il nostro atteggiamento: “tradisco ma so che è sbagliato tradire”. Questa incoerenza genera angoscia, di conseguenza per rimediare a questo stato di malessere è necessario ristabilire la coerenza tra comportamento e atteggiamento; per farlo bisogna agire modificando uno dei due, quindi, in questo caso specifico, o non tradiamo o cambiamo atteggiamento. Tipicamente l’essere umano tende a modificare l’atteggiamento piuttosto che il comportamento, la motivazione principale è che quest’ultimo è molto più difficile da modificare dato che richiede più impegno, mentre è più facile cambiare il proprio atteggiamento ad esempio: “non c’è nulla di male nel tradire ogni tanto, ne beneficia la mia relazione primaria”.

I ricercatori sono quindi interessati a comprendere quali sono le modifiche di atteggiamento che gli individui infedeli attuano per giustificare il proprio comportamento e non cadere in dissonanza congitiva (Hackathorn & Ashdown, 2020).

La terapia cognitiva: breve prontuario

Non esiste una sola psicoterapia cognitivo comportamentale, ne esistono tante, esistono le psicoterapie cognitivo comportamentali.

 

Questa varietà esiste fin dalla nascita dei primi esempi di questi trattamenti, la terapia cognitivo comportamentale di Beck (CBT) e la terapia razionale emotiva comportamentale di Ellis (REBT) e si è accentuata con gli sviluppi degli ultimi 20 anni, che hanno visto la scena arricchirsi delle cosiddette psicoterapie cognitive di “terza onda“ o di processo in cui il trattamento non tenta più di modificare i contenuti cognitivi che creano disadattamento (ad esempio: “non sono all’altezza”) ma si focalizzano sugli atteggiamenti mentali dannosi (ad esempio: “faccio troppa attenzione alla mia ansia”).

Queste differenze a volte sono sottili e difficili da spiegare, soprattutto dal punto di vista pratico. L’infografica che pubblichiamo è un modo semplice e sintetico di rappresentare alcune di queste differenze. Speriamo che essa sia un aiuto per tutti, pazienti, studenti e colleghi

 

Ruggiero e Sarracino - INFOGRAFICA - Terapia cognitiva

Infografica realizzata dal Dott. Diego Sarracino e dal Dott. Giovanni Maria Ruggiero

 

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Sesso e social media: impatto e soluzioni

La visione di film ricchi di scene sessuali incide significativamente sui comportamenti degli adolescenti come, ad esempio, l’anticipazione dei primi rapporti sessuali, la tendenza ad avere più partner e la minore propensione ad usare il preservativo negli incontri casuali.

 

Uno degli aspetti fondamentali e più complessi nella vita dell’essere umano è senz’altro la sessualità.

La dimensione sessuale e gli atti ad essa correlati rappresentano, nella gerarchia dei bisogni, un elemento primario come Abraham Maslow (1954;1971) indicò nella celebre “Piramide dei Bisogni”. Si tratta infatti di un aspetto fisiologico, situato alla base delle necessità umane, strettamente legato al corretto compimento dell’individuo.

La sessualità riguarda sia le pratiche finalizzate al piacere e alla riproduzione, sia gli aspetti psico-sociali, fondamentali per la costruzione dell’identità, relativi al genere maschile e/o femminile, ivi comprese le modalità di espressione dei generi ed il vissuto interiore individuale, da cui possono derivare esperienze disforiche come quelle annoverate nei principali manuali diagnostici (ad esempio la “Disforia di genere” nel DSM-5).

L’ambito sessuale è stato oggetto di numerosi studi da parte di discipline quali biologia, psicologia, etologia e sociologia e concerne tutta la vita relazionale dell’individuo.

Ogni essere umano, sin dalla nascita, viene accolto ed accudito in base alla propria connotazione biologica ed al ruolo culturale relegato al genere e, crescendo, costruisce la propria identità sessuale, caratterizzata da una commistione di variabili quali i rapporti con l’ambiente familiare, la cultura in cui è inserito e l’interazione con l’altro.

Una divisione basata sull’identità di genere è più complicata di una basata sui meri comportamenti sessuali per almeno due ragioni: innanzitutto l’identità è un costrutto complesso da definire nella sua interezza, in secondo luogo, ogni essere umano ha una concezione diversa della propria identità sessuale e del ruolo di genere che può derivarne.

È utile ed altresì doveroso, differenziare il termine “sessualità” da “attività sessuale”: nel primo caso si fa riferimento specificatamente agli aspetti psicologici, sociali e culturali del comportamento sessuale umano, mentre col secondo termine ci si riferisce generalmente alla messa in atto del rapporto sessuale vero e proprio.

Questi due concetti, ampiamenti usati ed a volte confusi, sono intrinsecamente legati fra loro e sono l’uno il presupposto dell’altro; infatti, l’insieme degli aspetti psico-sociali legati alla concezione e all’espressione del sesso, inteso in senso lato, esercitano un’influenza sul comportamento e sulle attività sessuali.

In virtù di quanto detto il sesso può essere immaginato come un ampio contenitore di elementi positivi e negativi che concorrono a delineare il benessere psichico; basti pensare alle teorie freudiane principali e a come lo sviluppo psicosessuale in età evolutiva incida sull’investimento psichico nell’età adulta.

La scoperta dei propri organi riproduttivi e della loro utilità, la manipolazione, la fantasia sessuale, l’autoerotismo, il desiderio e la scoperta del piacere sono tutti aspetti positivi che dovrebbero essere normalizzati da parte degli adulti, piuttosto che censurati, per garantire un corretto raggiungimento della maturità.

La poca attenzione e la scarsa sensibilità al tema determinano una serie di outcomes negativi come la repressione, i disturbi legati alla sessualità, la concezione di un “sé” inadeguato rispetto alle aspettative sociali, le perversioni violente, l’astinenza, sino ad arrivare a ciò che oggi dilaga con esiti psicologici devastanti tra le comunità più giovani con l’avvento dell’era digitale: “slut shaming”, “body shaming”, “revenge porn”, bullismo, cyberbullismo, ecc…

Specialmente durante il periodo di quarantena forzata sono risultati ancora più influenti i messaggi veicolati dalle principali fonti di informazione come, ad esempio, smartphone, tablet, computer, televisione, ecc…

Non meno rilevanti sono gli effetti che la pornografia ha avuto ed ha tutt’ora sul comportamento dell’essere umano, soprattutto sui giovani.

A tal proposito, Martellozzo e colleghi (2016) hanno effettuato un interessantissimo studio per comprendere l’impatto della pornografia online sui ragazzi, attraverso un sondaggio che ha coinvolto circa 1000 preadolescenti e adolescenti, di età compresa tra gli 11 e i 16 anni.

I risultati hanno dimostrato come la visione ripetuta di contenuti pornografici può avere un effetto desensibilizzante rispetto all’impatto di immagini e/o video, portando i giovani a sperimentare meno ansia e disgusto rispetto a ciò che si sta osservando.

Il rischio maggiore è che questo accesso facilitato ed incontrollato a qualsiasi contenuto online possa condizionarli, specialmente quelli più introversi e sensibili, che molto spesso sperimentano difficoltà nella sfera sessuale (ad esempio ansia da prestazione, impotenza, insicurezza e vergogna legate alla percezione di sé stessi) inficiando pesantemente anche il concetto di intimità.

Pertanto, vista la rilevanza e la complessità del fenomeno in questione, risulta ancora più cruciale il ruolo dell’educazione sessuale, ossia quell’insieme di attività volte ad istruire individui di tutte le età circa l’importanza dell’essere informati sul sesso e le tematiche ad esso connesse (maturazione sessuale, anatomia e fisiologia dell’apparato genitale, i cambiamenti durante la fase di pubertà, la psicologia, le problematiche di tipo morale, la conoscenza delle abitudini legate al contesto di provenienza dei ragazzi) per sfatare i miti e ridurre le distorsioni cognitive.

Chiarite queste premesse, ora il focus si sposterà sull’impatto che il cinema e più in particolar modo i contenuti sessuali espliciti di film e serie, hanno sul comportamento dei giovani.

Contrariamente alla pornografia, i contenuti filmici o seriali non a “luci rosse” possono essere maggiormente filtrati in base ad un più corretto modo di intendere il sesso, in quanto atto sessuale.

Infatti, mentre nel primo caso la trasformazione dei contenuti sessuali in didattici comporta significative perdite economiche, nel secondo questo problema non si presenterebbe in egual misura poiché il sesso non è l’elemento centrale.

Molti attualmente sono i film o le serie tv, che presentano scene esplicite e/o eccessivamente enfatizzate; basti pensare ad un film cult degli anni Ottanta come 9 settimane e ½, alla più recente saga cinematografica Cinquanta sfumature o alla serie tv Game of Thrones.

Un’importante nonché preziosa eccezione nel panorama televisivo è costituita dalla serie Sex Education, un prodotto che raffigura molte delle difficoltà che derivano dai primi approcci sessuali (e le conseguenze che queste possono avere sul rapporto con sé stessi e con gli altri) in tutte le sfaccettature possibili, in modo naturale e concreto ma con leggerezza ed ironia.

Prima di entrare nel merito della disamina di alcuni studi scientifici legati all’impatto dei suddetti contenuti sui giovanissimi, è doveroso premettere che la tv ha descritto spesso gli adolescenti come individui introversi, tormentati, indecisi, quasi apparentemente disinteressati all’argomento per inerzia.

In effetti potrebbe anche essere così, tuttavia si sentiva il bisogno di una storia più rilassata, moderna ma ancora attenta alle problematiche dei più giovani e capace di comunicare loro senza troppi moralismi o patimenti.

Come già affermato precedentemente, la serie televisiva Sex Education rappresenta sia un’alternativa alle classiche serie adolescenziali che un’importante scommessa sul modo di affrontare l’argomento “sessualità”.

Parlano chiaro le sceneggiature che trattano non solo di sesso, ma anche di rapporti contorti, amori non corrisposti, scoperta di sé, bullismo e omosessualità.

Un caso emblematico è rappresentato dalla singolare storia di Otis, un adolescente britannico, figlio di una scrittrice e terapista sessuale di fama nazionale, con un problema ansiogeno che interferisce con la sua esposizione sociale e, più in particolar modo, con le pratiche di autoerotismo.

Egli non accetta l’aiuto di sua madre poiché infastidito dalla sua continua e pressante invadenza nella vita scolastica e intima; la sua storia rappresenta quella difficoltà che molti adolescenti sperimentano nel dialogo con i propri genitori, specialmente quando si affrontano argomenti delicati come la sessualità.

Sulla scorta di quanto detto, film, documentari e serie tv, costituiscono, dunque, una preziosa fonte di svago e divertimento, ma anche di conoscenza.

Che tali prodotti abbiano un forte impatto emotivo sugli spettatori, è argomento noto.

Oltre ciò è rilevante anche che esercitino una forte influenza sugli atteggiamenti e i comportamenti: ad esempio, diversi sono stati gli studi empirici che hanno indagato l’aumento dell’aggressività nei giovani a causa di una fruizione più ampia e poco censurata di scene violente in televisione o al cinema (Anderson e colleghi,2003).

Uno studio longitudinale condotto dallo psicologo americano dell’University of Missouri, Ross O’Hara, si è occupato del rapporto tra sesso e cinema, attraverso un quesito piuttosto interessante: le scene “bollenti” presenti e trasmesse sul grande schermo, hanno un’influenza sui giovani e, eventualmente, in che misura? 
A questa ricerca, durata complessivamente sei anni (2003-2009), hanno partecipato 1228 persone (di cui 611 maschi e 617 femmine) di provenienza principalmente europea.

Dallo studio è emerso come nel campione, la visione di film ricchi di scene piccanti, incida significativamente sui loro comportamenti come, ad esempio, l’anticipazione dei primi rapporti sessuali, la tendenza ad avere più partner e la minore propensione ad usare il preservativo negli incontri casuali.

I risultati suggeriscono che la limitazione di film a contenuto erotico negli adolescenti, ritarderebbe il loro debutto sessuale e ridurrebbe la sensation seeking, normalmente esperita durante questa fase evolutiva, e, dunque, anche il loro impegno in comportamenti sessuali rischiosi futuri.

Fare ciò può essere un compito estremamente arduo, date le abbondanti quantità di sesso (Gunasekera, Chapman & Campbell, 2005) e violenza esplicita (Nalkur, Jamieson & Romer, 2010) ritratte nei film; tuttavia un approccio promettente consisterebbe nell’educazione all’alfabetizzazione mediatica, ossia la capacità di accedere ai media, di riconoscere e valutare criticamente i loro diversi aspetti e contenuti.

Una ricerca condotta da Pinkleton e colleghi (2008) ha mostrato dei risultati importanti in merito alle condotte sessuali rischiose degli studenti statunitensi. Precisamente, è stato attivato un programma curriculare di alfabetizzazione mediatica su un ampio campione (N=532) di studenti di scuola media, confrontati con un gruppo di controllo, per verificare i cambiamenti rispetto ai miti ed alle aspettative sul sesso.

Gli esiti di questo quasi-esperimento sono stati estremamente positivi: si è registrato un aumento della responsabilizzazione e della self-efficacy nel resistere alla pressione dei pari circa le prime esperienze sessuali, riducendone la percezione della prevalenza “normativa” durante la pubertà e migliorando il loro atteggiamento verso l’astinenza.

Considerando i risultati di questi studi circa l’impatto, le conseguenze ed i possibili interventi sulle condotte a rischio, sorge spontaneo chiedersi in che termini gli adolescenti parlino di sesso.

Uno studio più recente, condotto da Rosita Maglie nel 2017, ha messo in evidenza degli aspetti interessanti circa la comunicazione CMC (computer-mediated communication) sul tema della salute sessuale e riproduttiva.

In particolare, sono stati osservati gli scambi comunicativi tra esperti in materia e adolescenti all’interno dei cosiddetti “Q&A Websites”, ossia piattaforme in cui si possono rivolgere delle domande ed ottenere delle risposte garantite da equipe di professionisti.

Dal punto di vista metodologico, questi dialoghi virtuali vengono collezionati in un grande corpus, suddiviso in domande (Q-posts) e risposte (A-posts), e sottoposti alla analisi linguistica, con il supporto di software che consentono di osservare con più fluidità i dati.

Il sito oggetto di questa indagine è Kinsey Confidential, ma ci sono altri studi che seguono la medesima direzione tematica e metodologica (Harvey, 2013; Maglie, 2015). Le domande rivolte dai giovani sono estremamente rappresentative della loro idea di sessualità e delle relative preoccupazioni e conoscenze.

Vengono annoverate diverse pratiche sessuali con una notevole ricorrenza, timori rispetto alle conseguenze dei loro comportamenti, malattie sessualmente trasmissibili, probabilità di gravidanza, orientamento sessuale, pregiudizi, stereotipi ecc…Oltre a questi contenuti, è stato dato rilievo alla forma espressiva, in quanto i ragazzi contrappongono ai loro dubbi una buona padronanza del lessico sessuale, dimostrando di saper adeguatamente utilizzare e destreggiarsi tra i termini tecnici del campo medico.

Gli esperti che provvedono a fornire le risposte hanno una grande responsabilità sulle proprie spalle, in quanto devono offrire una comunicazione accogliente, comprensiva, empatica e non giudicante, normalizzando le preoccupazioni, informando accuratamente sui rischi e su come prevenirli, evitando prescrizioni specifiche che solo delle visite mediche o degli esami approfonditi possono offrire.

In accordo con le conclusioni dello studio, questi dati sono rilevanti ai fini della pratica clinica e dovrebbero incoraggiare a migliorare due aspetti: in primis, gli stili comunicativi verbali, normalmente infruttuosi o inadeguati per la fase evolutiva, che implicano un dialogo esente dai filtri virtuali (es. l’anonimato, la scrittura e il contesto asincrono); in secondo luogo, la qualità delle informazioni fornite dagli adulti, per incrementare la consapevolezza e la responsabilità.

In aggiunta, è auspicabile promuovere il benessere e la salute sessuale in un’ottica di prevenzione primaria, piuttosto che di intervento.

In conclusione, considerato quanto sino ad ora è stato detto, è necessario che in futuro la sessualità, data la sua intrinseca delicatezza ed importanza per l’essere umano, si associ ad un filone educativo ad hoc, oltre a ben sperare che tutto ciò che arrivi, per vie dirette o indirette, allo sguardo degli inesperti e dei più piccoli, possa essere modulato e filtrato in maniera adeguata, a garanzia del benessere psicosessuale delle generazioni prossime all’età adulta.

 

L’ansia in un’ottica interdisciplinare: il corpo prigioniero della mente

Il Pilates, disciplina volta a stimolare il benessere, ha ripercussioni importanti sia sulla mente sia sull’organismo dell’individuo. Si dedica prevalentemente alla rieducazione della respirazione: questo rappresenta una grande risorsa negli stati d’ansia.

 

L’esperienza clinica fin qui accumulata mi ha insegnato che la valigia dello psicoterapeuta deve contenere tanti strumenti che coadiuvano gli interventi che ognuno di noi può mettere in campo come aiuto per i pazienti che incontriamo.

Nell’ottica della interdisciplinarietà e della lettura teorica, dove mente e corpo sono un’unità inscindibile, e nelle situazioni in cui i pazienti portano un carico di ansia riconoscibile nella mente, con fissazioni e pensieri ricorrenti, nel fisico, con blocchi muscolari, ho sempre pensato che la soluzione fosse, oltre ad un sostegno psicoterapeutico, anche un lavoro attraverso il corpo.

Non tutti i pazienti sono stati disponibili ad accedere allo stesso tipo di intervento sul corpo: per alcuni era assai complicato partecipare a delle sedute di training autogeno; per altri ancora era impensabile rilassarsi e concentrarsi sulla respirazione. Altri hanno addirittura raccontato di un’amplificazione dei sintomi in situazioni che avrebbero dovuto invece aiutarli nel cambiamento.

L’incontro con questi pazienti e l’uso delle indicazioni contenute nel libro di Greenberger, mi hanno permesso di identificare alcuni sintomi comuni alle persone ansiose. L’autore sostiene che ai pensieri che caratterizzano il paziente ansioso, si susseguono, come in una catena, specifici stati d’animo, funzioni fisiche e comportamenti.

I pensieri di cui i pazienti raccontano hanno dei contenuti dai quali si evincono convinzioni di una sopravvalutazione dei pericoli e\o al contrario una sottovalutazione della propria capacità di affrontarli, nelle più articolate situazioni; una predisposizione a leggere tutto o quasi in termini di preoccupazione e\o catastrofismo. Gli stati d’animo, che possono anche raggiungere un’elevata intensità, vanno su un continuum che va dal nervosismo, all’agitazione, passando per l’ansia fino a raggiungere situazioni di vero panico. A questo si aggiungono i campanelli fisici come le mani sudate, la tensione muscolare, l’accelerazione cardiaca, i capogiri che influiscono sia sui pensieri sia sugli stati d’animo in senso assolutamente peggiorativo, in un vortice senza via d’uscita.

Infine arrivano tutti quei comportamenti atti a evitare situazioni che generano ansia o ad abbandonarle, atteggiamenti di perfezionismo o di controllo e l’adozione di misure di protezione, come l’evitamento di situazioni di socialità.

Per i pensieri e gli stati d’animo, il lavoro psicoterapeutico si è centrato sulla loro identificazione e registrazione quotidiana anche attraverso un diario giornaliero. Si ritrovavano dal nervosismo generalizzato, fino al completo panico, passando per stati di agitazione. I pensieri più frequenti erano le preoccupazioni contenenti situazioni catastrofiche, come l’imminente infarto dopo aver salito le scale, o l’incapacità a fronteggiare “pericoli” vissuti come eccessivi rispetto alla realtà (un cane che sembra una tigre).

Veniamo ai comportamenti. Propri del soggetto ansioso sono quei comportamenti di evitamento delle situazioni e\o protezione dai presunti pericoli, in modo che il soggetto possa sentirsi al sicuro e stare apparentemente meglio.

Come dice Greenberger:

quando usiamo comportamenti protettivi, spesso crediamo di fronteggiare bene l’ansia ma, di solito i comportamenti protettivi ci fanno concentrare sul pericolo e rinforzano l’idea che le situazioni siano altamente rischiose anche quando in realtà non è detto che lo siano (Greenberger, D. Padesky, C.A. p. 290).

E allora i racconti dei pazienti erano di evitamento delle scale per salire, ma anche l’ascensore che mette ansia; non si pratica più attività fisica per non incorrere in malesseri tipo la tensione, i dolori e il bruciore ai muscoli, la facile stanchezza, la respirazione difficile, l’accelerazione cardiaca, il tremore, le palpitazioni e gli spasmi.

Tutto questo finisce per avere un peso anche in termini di socialità fortemente impedita: abolizione dei viaggi e degli incontri con gli amici; non si possono frequentare luoghi pubblici poiché sempre in “pericolo di vita”. In aggiunta a questo, anche l’impossibilità di trovare persone sempre disposte ad ascoltare i racconti di malesseri e guai che colpiscono questi soggetti.

I racconti dei pazienti sono centrati sulla chiusura sociale; a causa dei sintomi che si ritrova anche nell’impedimento, a volte, a svolgere qualsiasi attività fisica, anche in chi ne aveva sempre praticata. E’ così che anche il fisico, la muscolatura, la postura ne risente.

Il corpo vissuto e percepito come “malato” e non più fonte di benessere e i “sintomi” come unici compagni di vita: il corpo prigioniero della mente.

Ogni segnale è trasformato subito in sintomo e di lì s’inizia il percorso medico e specialistico. I medici spesso diventano amici, ai quali il paziente si rivolge per qualsiasi cosa, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Chiede indagini approfondite che portano alla scoperta dell’assenza di un qualsivoglia problema organico. Non basta, oggi internet consente alle persone un’autodiagnosi, che nel caso dei soggetti ansiosi funziona esattamente come uno di quei comportamenti che incidono amplificando, in senso negativo, pensieri, stati d’animo e azioni, intorno all’ansia.

Fortunatamente i pazienti che ho incontrato si sono poi imbattuti in medici e\o amici che, esclusa qualsiasi causa organica o individuata e curata, hanno invitato le persone a rivolgersi a uno psicologo.

Ma lo psicologo poco può fare se non si attiva anche un lavoro attraverso il corpo. Molti dei pazienti, refrattari a qualsiasi tecnica di rilassamento proposta, li ho inviati presso un personal trainer, per intraprendere con lui un percorso centrato sul corpo e sulla sua riscoperta come fonte di benessere, attraverso due discipline sportive, il pilates e la ginnastica posturale.

Il Pilates, disciplina volta a stimolare il benessere, ha ripercussioni importanti sia sulla mente sia sull’organismo dell’individuo. Si dedica prevalentemente alla rieducazione della respirazione: questo rappresenta una grande risorsa negli stati d’ansia. Si lavora sull’uso corretto del diaframma che oltre ad apportare una migliore ossigenazione al cervello, stimolando aree fino allora quiescenti, controlla anche le nostre paure e angosce. Sappiamo che di fronte ad un pericolo c’è un aumento dell’ansia, e che questo corrisponde anche a un aumento della respirazione: controllare la respirazione significa trasformarla da un sintomo passivo ad uno strumento per aiutare lo scioglimento dell’ansia stessa.

E’ una pratica fisica e mentale che aiuta a sviluppare consapevolezza di se stessi, del corpo e della mente, ma in termini di sano e piacevole, di potenziale da sviluppare e non come gabbia da cui dover fuggire.

Joseph Pilates affermava che la forma fisica era il primo requisito per la felicità, pensando che mente e corpo non potevano essere separati nel raggiungimento dell’obiettivo del benessere, poiché si influenzano a vicenda.

L’altra disciplina, cui si sono avvicinati molti dei pazienti con una sintomatologia ansiosa, è la ginnastica posturale. Tra gli obiettivi della ginnastica posturale c’è quello di migliorare la percezione del corpo per poterlo usare al meglio.

Durante le mie ricerche bibliografiche spesso ho sentito definire la ginnastica posturale come una disciplina dolce, dove gli esercizi sono eseguiti ponendo l’attenzione a ogni singolo movimento e la respirazione deve mantenere un ritmo regolare e continuo, scandendo tempi e pause per immaginare il corpo come fonte di benessere. Considerando che per molti pazienti la sintomatologia ansiosa porta alla percezione del proprio corpo come una prigione, la disciplina in sé li aiuta a modificare, passando attraverso l’esperienza del sentire, il costrutto mentale distorto.

Cosa i pazienti si sono portati via da questa esperienza e che li aiuta nella quotidiana gestione dell’ansia?

Sicuramente l’esercizio nella “rieducazione alla respirazione”. In entrambe le discipline è fondamentale, ma questo insegnamento è ciò che poi può essere applicato negli stati d’ansia, di paura e di stress, quando la nostra respirazione diventa più ampia del normale e può essere letta come un segnale di pericolo imminente per la nostra incolumità. La gestione dell’ansia passa anche attraverso il controllo della respirazione: un lungo respiro ci permette di calmarci, di non entrare in confusione, di ridimensionare quanto sta accadendo e prendere una decisione.

Altro elemento importante è il cambio di costrutto mentale circa il proprio corpo: da malato a fonte di benessere e soddisfazione. Questo aspetto, trattato in psicoterapia, ha permesso ai soggetti di migliorare l’idea ma anche l’immagine di se stessi, nella dimensione relazionale. Chi soffre d’ansia ha la tendenza a chiudersi, a limitare il più possibile i rapporti sociali: questa è una delle conseguenze più difficili da vincere.

Un modello di riferimento e di azioni centrato sul paziente e sull’interdisciplinarietà, e la possibilità per i pazienti di riprendere una vita dove sono padroni di se stessi e del loro corpo, deve necessariamente prevedere una sinergia d’incontri, che ha come obiettivo alleviare la sofferenza e le paure e allo stesso tempo imparare tecniche fruibili per la gestione quotidiana dell’ansia.

 

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