expand_lessAPRI WIDGET

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere (2020) di D. Lucangeli – Recensione del libro

Apprendere richiede costanza e impegno e l’errore fa parte di questo processo. L’errore è naturale e fisiologico quando si impara, allora perché è tanto temuto? Questa e altre tematiche vengono affrontate nel libro Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere.

 

È possibile favorire l’apprendimento nei bambini riducendone la fatica?

Che ruolo giocano le emozioni a scuola?

Si può pensare una didattica a misura di emozioni?

A queste e molte altre domande risponde Daniela Lucangeli nel suo ultimo libro Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, destinato a insegnanti e genitori e a chiunque abbia a cuore l’educazione dei più piccoli.

L’autrice è Daniela Lucangeli – Professore universitario di Psicologia dello Sviluppo a Padova e presidente dell’Associazione Nazionale per gli Insegnanti Specializzati (CNIS) –  e da tempo promuove in rete la diffusione di contenuti scientifici relativi alla didattica nelle scuole.

L’obiettivo è proporre una didattica che tenga conto di ciò che la psicologia spiega sui processi di apprendimento. Garantire benessere e gratificazione al bambino è prioritario.

Se un bambino impara con gioia,
la lezione si inciderà nella mente insieme alla gioia.
Nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva
che gli dirà: – Ti fa bene, continua a cercare! 

In cinque lezioni brevi e chiare sono sintetizzati i risultati di numerosi anni di ricerche universitarie.

Quali sono i processi psicologici che favoriscono e rendono più a “misura di bambino” l’apprendimento scolastico?

Lezione 1 – La scuola dell’abbraccio

Educare la mente senza educare il cuore significa non educare affatto.

Gli emisferi cerebrali sono strettamente connessi: le funzioni cognitive e le emozioni sono in rapporto di reciproca interdipendenza.

Si parla di “warm cognition” (trad: cognizione calda): cognizioni ed emozioni sono interconnesse; a ogni pensiero corrisponde un “sentire” emozionale del cervello.

Quando il cervello apprende sperimenta emozioni positive e crea una “traccia emozionale” che renderà piacevole il ricordo di quell’apprendimento. Come esseri umani siamo portati a ricercare e a ripetere ciò che ci procura benessere: pertanto se impariamo con piacere desideriamo continuare a farlo.

Viceversa, se imparare ci porta a sperimentare emozioni negative, come ansia o paura, allora quella situazione diventerà per noi una situazione di “pericolo”: si attivano risposte di allerta al posto di quelle piacevoli.

Per il bambino, imparare una nozione o un concetto sarà associato a sensazioni a cui desidera sottrarsi.

Si innesca un corto circuito emozionale: l’ansia ostacola l’apprendimento, generando paura e senso di inadeguatezza.

Come si può evitare che questo accada?

  • Riducendo la paura dell’errore e lasciando al bambino la possibilità di sbagliare
  • Infondendo coraggio e fiducia al piccolo allievo
  • Accendendo gli “interruttori emozionali” che generano emozioni piacevoli durante l’apprendimento:

L’abbraccio
La carezza
Il sorriso
La voce
L’allegria dell’insegnante

Lezione 2 – Sbagliando si impara

Apprendere richiede costanza e impegno e l’errore fa parte di questo processo.

L’errore è naturale e fisiologico quando si impara, allora perché è tanto temuto?

Quando il bambino sbaglia ci pone subito queste domande:

  • di chi è la colpa, dell’insegnante o del bambino?
  • c’è un problema o una patologia nel bambino?

Anche se l’errore è una preziosa fonte di informazioni, la connotazione che gli diamo è fortemente negativa.

Quali domande alternative possiamo porci per integrare in maniera più utile l’errore nel processo di apprendimento del bambino?

  • In che fase del processo di apprendimento il bambino ha trovato difficoltà?
  • Cosa ostacola il processo di assimilazione?
  • Quali strategie posso utilizzare per superare l’ostacolo?

L’errore da colpa o sintomo diventa allora bussola per orientare la didattica verso il bambino in difficoltà.

Cosa può fare la scuola?

  • Valutare per misurare e non per giudicare.
  • Esporre il bambino a un ambiente adatto alle sue esigenze di apprendimento.
  • Facilitare il compito rendendolo più semplice e quindi fattibile.
  • Insegnare strategie utili per affrontare la difficoltà, senza che essa rimanga un ostacolo insormontabile.
  • “Allearsi” con l’allievo e non con l’errore.

Lezione 3 – Verso il successo scolastico

Favorire il successo scolastico significa prima di tutto promuovere la motivazione nel bambino.

Le emozioni negative come paura o ansia da prestazione ingolfano la memoria di lavoro e rendono faticoso l’apprendimento.

Al contrario le emozioni piacevoli come la gratificazione e la gioia portano le informazioni a un livello più profondo di analisi. Le informazioni non rimangono in superficie come nozioni, ma si integrano a un livello più profondo con le conoscenze.

Quindi promuovere il successo scolastico significa sostenere le emozioni positive con azioni specifiche:

  • promuovere il senso di autoefficacia: il bambino, sperimentando successo in ciò che fa, aumenta la sua motivazione a ripetere l’esperienza dell’apprendimento
  • dosare il compito affinché l’impegno non sia troppo alto rispetto alle capacità del bambino (per evitare il senso di impotenza) ma allo stesso tempo nemmeno troppo facile perché non subentri il senso di noia
  • spostare l’accento dalla abilità (non sono capace) alla strategia (individuare il modo giusto per riuscirci)
  • ricordare che il cervello è plastico: l’impegno e la costanza creano nuove competenze che rendono meno faticoso l’apprendimento
  • porre richieste adeguate a nutrire nel bambino la fiducia di potercela fare

Lezione 4 – Stare male a scuola

Nel 2018 L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato un preoccupante aumento dei disturbi depressivi in età evolutiva. Umore instabile e disturbi della condotta hanno forti ripercussioni sui processi di apprendimento a scuola.

In questo momento storico è quanto mai necessario che si crei un ponte fra scuola e psicologia. Comprendere cosa fa stare bene o cosa crea disagio a un bambino è il primo passo per sostenerlo nella suo percorso di crescita, di cui la scuola rappresenta una fase fondamentale. Non solo per gli apprendimenti, ma anche per le relazioni coi coetanei, per la socialità e l’acquisizione delle competenze emozionali.

Sostenere l’apprendimento significa quindi sostenere anche il benessere a scuola:

  • evitando un eccessivo carico cognitivo che richieda l’assimilazione di troppe informazioni
  • promuovendo l’elaborazione creativa delle informazioni più che la loro memorizzazione
  • facilitando i processi di auto regolazione emotiva nei bambini affinché le emozioni di ansia, paura e stress siano controbilanciate dalla fiducia, il senso di sfida e l’interesse

Lezione 5 – Tutti bravi con i numeri

Nonostante l’intelligenza numerica sia dal punto di vista evolutivo la più antica (nasca cioè prima di quella linguistica), oggi nei primi sei anni di vita scarsa attenzione è data al potenziamento delle abilità numeriche.

Così come la facoltà linguistica ha bisogno di esposizione ed esercizio per essere affinata, anche le abilità di calcolo richiedono lo stesso impegno.

Le lettere dell’alfabeto hanno una natura fonologica, i numeri invece hanno una natura visuo-spaziale (è la posizione del numero all’interno di una cifra a determinare il valore di quel numero – in 123 e 321 il valore del 3 è diverso in funzione della sua posizione).

Abituare all’uso delle abilità numeriche significa abituare al calcolo mentale, senza ridurre l’apprendimento alla semplice assimilazione delle regole.

Imparare a nuotare e saperlo fare è cosa diversa dal saper elencare le azioni necessarie per farlo.

Da una dimensione descrittiva occorre passare una prassi che renda effettivo l’apprendimento. Nel nuoto come nella matematica.

Il libro di Daniela Lucangeli in poco più di 100 pagine offre spunti e apre spazi di riflessione su temi di interesse comune per insegnanti e genitori.

Le cinque lezioni che compongono il testo sono corredate da una ricca bibliografia che propone utili approfondimenti per chi desidera impegnarsi in una didattica a misura di bambino e ricca di emozioni positive.

 

 

Dopo un danno cerebrale, i neuroni danneggiati regrediscono ad uno stadio embrionale

La riparazione dei danni al cervello e al midollo spinale è una delle principali sfide della medicina moderna. Sembra che il processo di regressione ad uno stadio embrionale delle cellule, conseguente a un danno cerebrale, sia fondamentale per la compensazione del danno stesso.

 

Fino a qualche anno fa, si pensava che il cervello fosse ‘’statico’’ nel senso che, una volta persi neuroni a causa di un danno cerebrale, non ci fosse modo di averne altri, e che quei neuroni erano ormai persi per sempre, l’unica speranza del malcapitato era quella di riuscire a recuperare in parte le funzioni cognitive perse, grazie alla plasticità cerebrale che permette il formarsi di nuove connessioni (sinapsi) tra i neuroni, cosi che compensino (in parte) al danno subito (Daniel & Allison, 2019).

Secondo le nuove scoperte pubblicate su Nature il 15 aprile 2020 dai ricercatori dell’Università della California alla San Diego School of Medicine, quando le cellule cerebrali adulte vengono danneggiate ritornano allo stato embrionale. Gli scienziati riferiscono che, una volta regressi ad uno stadio embrionale, le cellule riacquistano la capacità di creare nuove connessioni, processo fondamentale per la compensazione del danno cerebrale (Gunnar & Mark, 2020).

Riparare i danni al cervello e al midollo spinale è una delle principali sfide della medicina moderna, fino a tempi relativamente recenti, era considerata una sfida impossibile; il nuovo studio delinea una “tabella di marcia trascrizionale della rigenerazione nel cervello adulto” (Gunnar & Mark, 2020).

Utilizzando gli incredibili strumenti delle neuroscienze e della genetica molecolare, i ricercatori sono stati in grado di identificare il modo in cui l’intero insieme di geni in una cellula cerebrale adulta si reimposta per rigenerarsi. Questo fornisce una visione fondamentale di come, a livello trascrizionale, avvenga la rigenerazione (Gunnar & Mark, 2020).

La rivoluzione paradigmatica è iniziata quando dei ricercatori hanno scoperto che nell’ippocampo e nella zona subventricolare vengono costantemente prodotte nuove cellule cerebrali che sono poi indirizzate nelle varie regioni del cervello per tutta la vita (Daniel & Allison, 2019).

Tuttavia, con il nuovo studio pubblicato su Nature, intitolato Injured adult neurons regress to an embryonic transcriptional growth state, si delinea che la capacità del cervello di riparare o sostituire se stesso non si limita solo a due aree, dato che quando una cellula cerebrale adulta della corteccia viene ferita, ritorna (a livello trascrizionale) ad essere un neurone embrionale corticale, il che le conferisce la capacità di riadattarsi e ricreare sinapsi per riprendere la sua funzione cerebrale. Ma la cellula non sempre attraversa questo processo di riacquisizione delle sue capacità di crescita, è necessario infatti un ambiente che ne favorisca il processo (Gunnar & Mark, 2020).

Alla luce di questa scoperta, quindi, si palesa di fronte ai ricercatori la sfida di trovare un modo per favorire l’ambiente in grado di stimolare il neurone embrionale a ripartire.

Sono già in corso delle sperimentazioni su topi, che tramite la modifica di specifici geni, tentano di riprodurre un ambiente consono alla crescita del neurone embrionale (Gunnar & Mark, 2020).

 

Il pensiero desiderante durante l’isolamento

Di per sé, il pensiero desiderante può avere delle ricadute positive perché sostiene la motivazione alla realizzazione di uno scopo raggiungibile e, lì dove esso non lo sia immediatamente, aiuta a tollerare attesa e frustrazione e, addirittura, a pianificare strategie (Castelfranchi, 2007). L’attività desiderante diventa disfunzionale, invece, nel momento in cui ci rinchiude in costruzioni di immagini o di azioni irrealizzabili e quando diventa pervasiva, rigida.

 

“Respira. E affronta questo giorno come se fosse il primo”.

“Fosse facile…” risponderebbe ogni essere umano nel momento storico che proviamo ad affrontare.

Esiste un sistema motivazionale che ci spinge a muoverci, a sperimentare, a lasciarci trasportare dalla curiosità. Si chiama “esplorazione” e “autonomia” (Liotti & Monticelli, 2008). Eppure ci è stata detta una cosa chiara e ben precisa: dobbiamo stare a casa. E una volta esplorati i meandri delle nostre già ben note dimore, ahimè, ci resta ben poco da fare. E qui, chi prima e chi dopo, sfoggia sul tavolo gli assi nella manica. Strategie, modi per gestire i tempi vuoti e piatti. Tentativi di fronteggiare le emozioni che derivano dal senso di costrizione che sono varie e personali: ansia, paura, tristezza, rabbia. Il ventaglio è vasto. Alcune di esse rappresentano risposte automatiche e procedurali, incarnate nel nostro corpo (Dimaggio et al., 2019). Appena lo scorso weekend, ho notato di aver investito almeno 3 ore della mia giornata in una attività falsamente efficace per allontanare l’ansia ma che, in fin dei conti, non mi ha portato assolutamente a niente. Alla fine, mi sono ritrovata ugualmente con un po’ di tachicardia e con i più disparati scenari futuri catastrofici. Eppure, vi giuro, all’inizio sembrava davvero funzionare: un’attività che non richiedeva nient’altro che restare seduti sul divano, o sul letto, o in piedi davanti al camino. Fantasticavo.

Il pensiero desiderante (PD) è una strategia di coping cognitiva perseverativa con cui spesso gestiamo l’attivazione dello schema maladattivo interpersonale e le conseguenti emozioni negative (Dimaggio et al., 2019). Il contenuto dei pensieri desideranti può essere uno stato o un’azione vera e propria (Salkovskis & Reynolds, 1994). Tale processo funziona perché simula, nel cervello, l’attivazione neurale dei circuiti deputati a provare piacere nello stesso modo in cui accade quando siamo davvero impegnati in attività soddisfacenti. In tal senso, la dopamina riveste un ruolo cruciale.

Di per sé, il PD può avere delle ricadute positive perché sostiene la motivazione alla realizzazione di uno scopo raggiungibile e, lì dove esso non lo sia immediatamente, aiuta a tollerare attesa e frustrazione e, addirittura, a pianificare strategie (Castelfranchi, 2007). L’attività desiderante diventa disfunzionale, invece, nel momento in cui ci rinchiude in costruzioni di immagini o di azioni irrealizzabili e quando diventa pervasiva, rigida. In questo caso il PD non spinge più all’azione ma si sostituisce totalmente ad essa, generando un circolo vizioso in cui si sopprimono, allontanano e inibiscono le emozioni. A livello emotivo, infatti, il PD ci fa subito sentire bene, appagati, felici. È l’antidolorifico di ogni male. Dopo pochi istanti però ritorna tutto. L’emozione spesso resta identica, l’intensità cambia. E non sempre in meglio.

Quindi il PD diviene una strategia disfunzionale che prova a gestire il gap tra lo stato attuale e quello desiderato ed è sostenuto dalle metacredenze positive (Wells, 2000) in merito alla funzione e alle conseguenze di esso. In breve, crediamo che funzioni! Invece, le emozioni belle si spengono alla chiusura del sipario della nostra mente; frustrazione, rabbia, senso di costrizione restano e se il focus attentivo resta su di esse, diventa davvero difficile sganciarsene.

Attraverso il pensiero desiderante ogni favola si realizza. Il debole si riscatta. Gli eventi si sovvertono come Biancaneve che sposa il principe azzurro e Jane che resta con Tarzan. Ma che succede se il principe non esiste o, guarda un po’, ci dimentichiamo che è indisponibile? Che succede se costruiamo nella nostra mente un cambiamento che è operativamente impossibile? Succede che pianifichiamo qualcosa di irrealizzabile e dopo, quando e se ce ne rendiamo conto, stiamo peggio.

In questo periodo di isolamento, in cui l’esplorazione è fisiologicamente bloccata, è molto semplice scivolare incautamente nel PD. Sicuramente ce ne è di tempo per sentirci felici e drogati di fantasie nei momenti vuoti, noiosi o dolorosi. Io per ora ho già immaginato di trascorrere Pasqua a Lisbona. Di concludere quello specifico progetto di lavoro. Ho ultimato gli arredamenti della mia casa e sono andata in concessionaria per l’acquisto della macchina dei miei sogni. Ah, ho anche cantato a squarciagola al concerto per cui ho acquistato un biglietto 6 mesi fa. Eppure…viaggiare è impossibile. Il mio studio è fisicamente chiuso e non posso vedere i miei colleghi. Concerti ne sono stati annullati a iosa.

Esistono due strumenti che fanno parte della cassetta degli attrezzi di una sopravvivenza efficace: accettazione e consapevolezza, provando a non considerare questi processi come rassegnazione passiva ai compromessi. La mindfulness ce lo insegna, con i suoi pilastri che ricordano l’importanza della pazienza, della sospensione del giudizio, della non azione, della possibilità di stare nel qui e ora, accettando il momento presente così com’è. Essa ci guida nella sospensione del rimuginio o della ruminazione mentale aprendoci all’esperienza del momento presente così come è, senza giudicarla perché è l’unica disponibile. Inoltre, in questo modo, non andiamo ad alimentare le emozioni negative che ci capita di provare. In questo modo, invece di impelagarci nel contenuto dei pensieri, modifichiamo il rapporto con essi (Kabat-Zinn, 2003).

Per chi è alle prime armi potrebbe andare bene una via di mezzo. Posso sognare di fare un viaggio romantico alle Maldive, ma magari non con L. che è felicemente sposato. Posso sognare di costruire una villa a tre piani con piscina, ma devo sentirmi pronta a chiedere quell’aumento che credo mi spetti. Posso voler pubblicare quel saggio, ma intanto so che devo studiare. Questo processo trasforma un pensiero desiderante in un piano di azione realizzabile. Oppure, permette di cercare soluzioni alternative ma adattive. Dall’altro lato, vi è la piena accettazione dello stato delle cose.

Ed è proprio in questo periodo che ne ho compreso l’utilità. È pur vero che l’elenco delle cose che non posso più fare mi provoca emozioni spiacevoli. Ma posso ricordarmi che è soltanto una fase momentanea. E che posso reinventare il tempo e i miei obiettivi in altri modi. E’ un po’ quello che succede quando desidero uno Spritz dopo lavoro al bar di fiducia, ma invece che dannarmi per il fatto che non posso andarci, chiamo degli amici per un aperitivo online. E se momentaneamente manca la tonica, beh posso brindare con un Martini. E se manca quello, ci sarà una birra o un bicchiere di vino. Alle brutte, ho scoperto che va bene anche un classico bicchiere d’acqua. Ghiaccio e limone possono fare la differenza.

In alterativa, portiamo l’attenzione al respiro, che rappresenta in ogni modo, l’essere nel momento presente. Osserviamolo con curiosità e senza giudicarlo. Provando a sospendere il pilota automatico che ci porta ad agire in maniera inconsapevole impedendoci di scegliere, laddove possibile, la cosa più funzionale per alleviare le nostre emozioni spiacevoli (e cambiare necessariamente lo stato delle cose).

Ora, come rispondereste a chi vi dice: “Respira. E affronta questo giorno come se fosse il primo”?

 

La Scrittura Espressiva ed i suoi effetti sul benessere psicofisico durante la quarantena o autoisolamento in relazione all’epidemia di COVID-19

Dall’inizio del 2020 molti stati hanno imposto misure di distanziamento sociale senza precedenti come quarantena ed autoisolamento, nel tentativo di ridurre la diffusione ed i contagi relativi al nuovo Coronavirus e all’epidemia di COVID-19. Queste necessarie misure di distanziamento sociale però rischiano di compromettere il benessere psicofisico di una grande fetta di popolazione, che si trova ad affrontare un prolungato periodo di isolamento.

Il nostro gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia dell’università di Manchester (Regno Unito) ha creato uno studio per esaminare gli effetti di un modello d’intervento psicologico, Expressive Writing o scrittura espressiva, sul benessere psicofisico durante il periodo di quarantena o autoisolamento a causa dell’epidemia di COVID-19.

Sarà in grado di prendere parte al nostro studio chiunque si trovi in quarantena o autoisolamento da almeno una settimana. Raccoglieremo informazioni inerenti alla vostra nazionalità, il vostro stato lavorativo attuale, il vostro periodo di autoisolamento o quarantena, nel totale rispetto della legge sulla riservatezza dei dati personali dei partecipanti. Ogni partecipante avrà un codice identificativo per garantire l’assoluta anonimità e dovrà compilare dei questionari durante le varie fasi dello studio. Sarà inoltre chiesto ai partecipanti di completare delle sessioni giornaliere di Expressive Writing (Scrittura Espressiva) per la durata complessiva di una settimana. Sarà successivamente necessario completare dei questionari   in più fasi, in maniera tale da permetterci di ottenere una panoramica generale dello stato psicofisico dei partecipanti.

Questo studio ha come scopo la raccolta ed analisi dei dati che emergeranno per permetterci di sviluppare un modello d’intervento che sia specifico per chi si trova ad affrontare un prolungato periodo di isolamento o distanziamento sociale. La scheda informativa per i partecipanti (PIS) è adesso disponibile attraverso il seguente link:

https://apps.mhs.manchester.ac.uk/surveys//TakeSurvey.aspx?SurveyID=l4KM9681I

 

Per informazioni:

Piersanti Gebbia

[email protected]

Il deficit cognitivo nella psicosi: un illustre sconosciuto

Un interessante lavoro dell’UCLA (McCleery et al., 2019) ha raccolto 47 studi clinici che hanno utilizzato la MCCB per valutare il deficit cognitivo nei disturbi psicotici considerando tre gruppi di soggetti: 1) individui con esordio psicotico recente; 2) soggetti ad elevato rischio genetico per lo sviluppo di un disturbo psicotico, rilevando ad esempio la presenza di familiari di primo grado probandi per la schizofrenia; 3) individui ad alto rischio clinico per la presenza di segni e sintomi prodromici di un disturbo psicotico.

 

Il DSM 5 (APA, 2013) definisce le caratteristiche chiave dei disturbi psicotici secondo cinque ambiti: deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato, comportamento motorio anormale e sintomi negativi. In generale il deficit cognitivo non compare tra i criteri diagnostici che concorrono alla diagnosi. Nonostante vari studi concordino nel definire il deficit cognitivo come uno dei primi segni clinici che emerge nei disturbi psicotici, esso è l’ultimo che viene diagnosticato e sovente non viene trattato. Si consideri che l’incidenza dei deficit cognitivi è stimata nel 80% dei soggetti psicotici, percentuale che sale al 98% nei soggetti con diagnosi di schizofrenia (Keefe et al., 2005).

L’effetto di questa lacuna diagnostica può essere determinante negli esiti della cura, poiché il deficit cognitivo può essere persistente anche dopo un miglioramento del quadro clinico generale e, di fatto, essere determinante nella disabilità del paziente. La compromissione cognitiva nei soggetti psicotici correla infatti con vari aspetti di funzionamento (quotidiano, lavorativo, sociale) e può contribuire ad esacerbare la sintomatologia, l’isolamento sociale, le difficoltà relazionali, con gravi ripercussioni nella qualità della vita (Tripathi et al., 2018).

La ricerca

Nel 2004, il National Institute of Mental Health (NIMH) ha sviluppato l’iniziativa MATRICS (Measurement and Treatment Research to Improve Cognition in Schizophrenia) al fine di giungere ad un generale consenso della comunità scientifica circa i criteri e le metodologie da utilizzare nella valutazione cognitiva del soggetto psicotico (Marder et al., 2004). Da questo lavoro è stata sviluppata la batteria MCCB – Matrics Consensus Cognitive Battery (Nuechterlein et al., 2006) attualmente tradotta in 20 lingue. La batteria esplora 7 domini: attenzione e vigilanza, working memory, velocità di esecuzione, apprendimento verbale, apprendimento visivo, ragionamento e problem solving, cognizione sociale.

Un interessante lavoro dell’UCLA (McCleery et al., 2019) ha raccolto 47 studi clinici che hanno utilizzato la MCCB per valutare il deficit cognitivo in tre gruppi di soggetti: 1) individui con esordio psicotico recente (-recent onset- RO), entro un anno dalla diagnosi; 2) soggetti ad elevato rischio genetico per lo sviluppo di un disturbo psicotico (-genetic high risk- GHR), rilevando ad esempio la presenza di familiari di primo grado probandi per la schizofrenia; 3) individui ad alto rischio clinico (-clinical high risk- CHR) per la presenza di segni e sintomi prodromici di un disturbo psicotico. Riguardo al peso e alla gravità della compromissione, i risultati mostrano un deficit cognitivo in ognuno dei domini valutati nel gruppo RO (da -.74 a -1.20 ds) con solo un lieve risparmio delle prestazioni in working memory e nella cognizione sociale rispetto ai soggetti con forme croniche di schizofrenia. Studi longitudinali sul deficit cognitivo nel gruppo GHR mostrano un quadro di compromissione attenuato e comunque coerente con lo sviluppo successivo di sintomi psicotici. All’interno del gruppo CHR, similmente a quanto osservato nel gruppo GHR, sono stati osservati deficit cognitivi solo all’interno del gruppo di soggetti che successivamente hanno sviluppato un disturbo psicotico (gruppo CHR+). Riguardo al decorso, i risultati derivati dagli studi longitudinali mostrano una stabilità dei profili cognitivi nel tempo sia nel gruppo CHR+ sia nel gruppo RO. E’ stata invece riscontrata una certa eterogeneità dei risultati durante la fase cronica dei disturbi psicotici. Specificatamente, considerando l’andamento del deficit cognitivo in uno studio longitudinale con soggetti schizofrenici, si è trovata una stabilità nel tempo nel 50% dei soggetti, un modesto declino nel 40% e una marcata compromissione nel rimanente 10% (Thompson et al., 2013). Un peggioramento del quadro è associato a vari fattori quali l’età di insorgenza del disturbo, la gravità dei sintomi negativi e le risorse residenziali (i più penalizzati sembra siano i soggetti che vivono da soli).

Riguardo al trattamento: la ricerca indica modesti benefici, e in alcuni casi dannosi, dei farmaci antipsicotici sulla performance cognitiva (Woodward et al., 2005; Hori et al., 2006). Inoltre i risultati degli studi che determinino le differenze tra antipsicotici tipici e atipici sono inconsistenti in relazione alla misurazione delle performance cognitive. Alcune ricerche hanno rilevato un modesto miglioramento del deficit cognitivo, soprattutto riguardo la working memory, attraverso un approccio glutammatergico e colinergico.

Rispetto al training cognitivo (TC), le analisi rilevano sostanzialmente un miglioramento della performance cognitiva, che però non sembra avere un elevato trasferimento ecologico nel funzionamento della vita quotidiana (Wykes et al., 2011). In altre parole, il TC funziona se è ripetuto a cicli continui e qualora sia inserito in programmi riabilitativi articolati.

L’aumento della performance cognitiva attraverso programmi di neurostimolazione (ad esempio la stimolazione elettrica transcranica) è per ora un interessante ambito di ricerca, ma la letteratura in merito è ancora piuttosto scarsa.

Considerazioni conclusive

Lo stato attuale della ricerca suggerisce che il deficit cognitivo: 1) è sempre presente in un disturbo psicotico ed è causa di disabilità, 2) in alcuni casi ne precede l’esordio, 3) investe molti domini cognitivi, 4) è relativamente stabile nel tempo se non trattato, 5) necessita di un approccio multidimensionale.

Poiché la performance cognitiva è legata all’efficienza e all’efficacia funzionale del soggetto in molti aspetti della propria vita, sarebbe opportuno includere il trattamento del deficit cognitivo tra gli obiettivi terapeutici principali nella cura dei disturbi psicotici.

 

Bruce Wayne: la battaglia contro il crimine e contro il proprio senso di impotenza – La LIBET nelle narrazioni

La serie Gotham narra in modo dettagliato la vita di Bruce Wayne: dopo l’omicidio dei genitori e la conseguente incapacità di ottenere giustizia, Bruce inizia la sua battaglia contro il senso di impotenza e debolezza, intraprendendo un percorso che lo porterà alla scelta di dedicare la sua vita a combattere il crimine.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 15) Bruce Wayne

 

Attenzione: l’articolo può contenere spoiler!

Bruce è l’unico figlio di Martha e Thomas Wayne, ricca famiglia di Gotham e unico erede del grande patrimonio della famiglia.

Una sera, una volta usciti da teatro, Bruce e i suoi genitori furono rapinati da un uomo mascherato. Sebbene sia Thomas che Martha avessero dato al rapinatore ciò che voleva, il malvivente, prima di fuggire, freddò entrambi i genitori davanti a Bruce, lasciando quest’ultimo indenne. Quando la polizia arrivò sulla scena, Bruce fu confortato dal detective Jim Gordon, che gli promise di trovare l’assassino. Bruce fu poi accompagnato a casa dal maggiordomo della sua famiglia, Alfred Pennyworth, che divenne in seguito suo tutore. Gordon e il suo compagno Harvey Bullock furono in grado di uccidere l’uomo che avrebbe freddato i Wayne, uomo che però non si dimostrò essere il vero killer.

Con l’omicidio dei genitori e l’incapacità di avere giustizia, Bruce iniziò probabilmente a provare un senso di impotenza e debolezza: i suoi genitori erano morti in sua presenza e lui non aveva potuto fare nulla. Iniziò allora a fortificare il proprio corpo, tentando di contrastare il senso di impotenza provato: tenendo una mano sopra ad una candela, imponendosi di non dormire. In quel periodo gli incubi erano una costante. Diede inoltre inizio a una spasmodica ricerca di qualsiasi cosa potesse aiutarlo a trovare l’identità dell’assassino dei suoi genitori. Nel ragazzo si insinuò inoltre la sfiducia riguardo l’intero funzionamento interno di Gotham.

Nelle stagioni successive Bruce trascorre le giornate tra tentati omicidi, rapimenti e ritirate forzate (costretto da Alfred) nella casa sulle montagne svizzere e tenta in diversi modi, durante tutta la serie, di stare lontano dal proprio tema doloroso di minaccia, così da non sentirsi impotente e in balia degli eventi. Ad esempio, nella seconda stagione, si mette alla prova abbandonando la sua villa per vivere in strada con Selina (amica e futura Cat Woman) nei vicoli malfamati di Gotham.

Sicuramente la vita di Bruce in quegli anni non si può certo definire tranquilla. Viene rapito da Theo Galavan, discendente della famiglia Dumas, tornato a Gotham per vendicarsi di coloro che avevano offeso la sua famiglia, in particolare appunto Bruce Wayne, e rivendicare il controllo della città; la vita dell’erede di casa Wayne viene minacciata inoltre da Jerome, assassino e pazzo criminale, che lo rapisce.

Bruce è anche sequestrato dalla Corte dei Gufi, isolamento in cui è costretto ad affrontare la morte dei genitori attraverso il lavaggio del cervello. È costretto ad affrontare la morte dei suoi genitori e a lasciarli andare, abbandonando anche emozioni e sentimenti. Arriva così ad un passo dal far detonare una bomba che avrebbe distrutto Gotham. Uccide anche Alfred (per poi riuscire a resuscitarlo una volta ripresosi dal lavaggio del cervello). Per combattere il senso di colpa inizia così ad adoperarsi per le strade della città per combattere il crimine.

Qualcosa cambia quando Bruce uccide un uomo, Ra’s Al Ghul, colui che aveva realmente tramato la morte dei genitori di Bruce. Improvvisamente, nonostante tutti i suoi sforzi, la rabbia prende il sopravvento e diventa ciò che ha sempre combattuto. Torna ad essere in balia degli eventi. Da questo momento in poi, il piano principalmente prescrittivo di Bruce, muta in immunizzante, prendendo forma in serate in discoteca, spese sconsiderate e alcool. Allontana anche Alfred, licenziandolo.

All’apice dello sbando, Bruce viene avvelenato, e, agonizzante, ha diverse allucinazioni in cui vede le persone conosciute durante la sua vita e una figura mascherata che lo porta nel passato alla morte dei suoi genitori e gli confesserà di essere nato in quel momento.

Inizia così un’altra fase, in cui il piano riprende la forma di combattere i cattivi.

La quarta stagione termina con la distruzione di Gotham, dove ormai erano rimasti solo criminali e Bruce, che antepone il combattere il crimine al seguire i proprio affetti. Sceglie di congelare le proprie emozioni, anteponendo ciò che crede essere i suoi doveri, alle persone a lui più care.

Bruce Wayne l analisi del personaggio e della sua vita in chiave LIBET

Immagine 1: LIBET del personaggio di Bruce Wayne nella serie TV Gotham

 

Ricerca preliminare quantitativa sulla relazione tra videogame, violenza ed aggressività

Al di là dei diversi studi, rimangono ancora sconosciuti i fattori per possono influenzare o sopprimere la relazione tra l’uso di videogiochi violenti e l’aggressività; le variabili interagiscono fra loro in modi che ancora non comprendiamo, rendendo difficile generalizzare molti dei risultati ottenuti.

 

La preoccupazione per le potenziali conseguenze negative date dall’interazione con i media non è un fenomeno nuovo: è prassi che lo sviluppo tecnologico arrivi accompagnato da ansia e allarmismo verso le potenziali conseguenze negative sugli utenti. I videogiochi, proprio per la loro natura interattiva, sono stati particolarmente al centro di questo tipo di controversie, anche per via dei contenuti di natura violenta presenti in moltissimi titoli. Per esempio, giochi estremamente popolari come Call of Duty o Grand Theft Auto (GTA), che sono riusciti a conquistare il grande pubblico raggiungendo vendite da record (Macy, 2017), sono distinti dalla presenza di scene violente (Saar, 2014). Proprio la presenza di tali contenuti ha suscitato i dubbi della comunità scientifica, la quale ha voluto indagarne la potenziale influenza sui giocatori, in particolare su quelli più giovani. Per poter meglio comprendere gli effetti dell’esposizione ad un medium violento, sia esso un videogioco o un film, la ricerca scientifica ha posto l’attenzione sulla distinzione fra il termine aggressione e il termine violenza, concetti erroneamente considerati sinonimi. L’aggressività viene definita come un’ampia varietà di comportamenti ostili (Allen & Anderson, 2017), innescati da stimoli ambientali o sociali particolari che si rifanno a comportamenti territoriali di avvicinamento ed esplorazione. Essa può esprimersi, dunque, con azioni benigne od ostili, in modo diretto o indiretto (Kirsh, 2012). La violenza (da Vis, che significa forza nelle lingue indoeuropee) rappresenta, invece, una delle dimensioni possibili che può assumere l’aggressività (Baron & Richardson, 1994), con forme maggiori di intensità e distruttività, svolta con l’intento di causare danni (Anderson & Bushman, 2001). La violenza è ascrivibile a un atteggiamento antisociale, intenzionale, organizzato e finalizzato al raggiungimento di uno scopo preciso (Ferguson, 2018). La violenza può, dunque, essere aggressiva, ma l’aggressività non è violenza (Ferguson, 2018). Questa distinzione risulta necessaria per comprendere gli effetti di un videogioco violento (VVG- Violent VideoGames), poiché anche in letteratura vi è confusione circa le conseguenze rilevabili post-gioco (Anderson & Bushman, 2002).

Ci sono ragioni teoriche plausibili per aspettarsi che giocare a VVG possa aumentare l’aggressività, ma ci sono altrettante motivazioni per credere che la relazione sia probabilmente più complessa. Bandura (2001) suggerisce che l’apprendimento per osservazione, concetto spesso utilizzato per confermare la relazione positiva fra contenuti violenti e comportamenti violenti, non è sinonimo di mimetismo, ma include anche l’apprendimento di regole sull’adeguatezza di particolari comportamenti in date circostanze. Allo stesso tempo, i VVG possono essere usati per indurre senso di rilassamento o per aiutare la gestione dell’umore, suggerendo, così, che il gioco possa essere associato a una ridotta ostilità e ad un aumento dell’umore positivo (Ferguson & Olson, 2013; Ferguson & Rueda, 2010).

Ancora, alcuni livelli maggiori di aggressività sono stati rilevati solo dopo l’esposizione al medium in questione, ma in modo limitato e circoscritto nel tempo. Tuttavia, è bene precisare che tale fenomeno viene definito pseudo-aggressività, o aggressività apparente, la quale viene manifestata per l’affermazione e la tutela della propria identità (Ferguson, 2018), con valore funzionale alla vittoria dell’attività ludica. Inoltre, è bene non dimenticare la componente competitiva che può accompagnare il giocatore. Un fenomeno analogo si potrebbe osservare, ad esempio, in un giocatore di calcio con livelli di aggressività più alti subito dopo aver sbagliato un goal importante, ma non per questo sarebbe capace di compiere azioni violenti nel lungo periodo.

Al di là dei diversi studi, rimangono ancora sconosciuti i fattori per possono influenzare o sopprimere la relazione tra l’uso del gioco violento e l’aggressività; le variabili interagiscono fra loro in modi che ancora non comprendiamo, rendendo difficile generalizzare molti dei risultati ottenuti.

Più recentemente, la ricerca si è concentrata sui videogiochi come potenziale fonte di dipendenza patologica e sulla possibilità di considerare tale dipendenza come un vero e proprio disturbo mentale (Griffiths et al., 2016). I ricercatori, a tal proposito, hanno sistematicamente sostenuto che tutte le dipendenze condividono caratteristiche e aspetti comuni simili. In questo contesto, è stato osservato come la dipendenza possa verificarsi indipendentemente dai mezzi (ad es. assunzione di sostanze o comportamento eccessivo) ogniqualvolta un individuo provi i sei componenti fondamentali della dipendenza (ad es. salienza, tolleranza, sintomi di astinenza, modificazione dell’umore, conflitto, e recidiva) (Griffiths, 2005). Diversi studi empirici sembrano supportare questa nozione, poiché i componenti principali delle dipendenze sono stati empiricamente testati e hanno dimostrato di applicarsi a una vasta gamma di comportamenti di dipendenza, come la dipendenza da gioco online (Pontes, Király, Demetrovics e Griffiths, 2014), dipendenza da Internet generalizzata (Kuss, Shorter, Van Rooij, Van de Mheen, & Griffiths, 2014), dipendenza da lavoro (Andreassen, Griffiths, Hetland e Pallesen, 2012), dipendenza da shopping (Andreassen et al., 2015) e persino dipendenza da studio (ad es. precursore della dipendenza da lavoro) (Atroszko, Andreassen, Griffiths e Pallesen, 2015). Alcune di queste forme specifiche di dipendenze (comportamentali) sono state definite “dipendenze tecnologiche” (Griffiths, 1995) da oltre due decenni. Le dipendenze tecnologiche sono state definite operativamente come dipendenze comportamentali non chimiche che implicano un’eccessiva interazione uomo-macchina (Griffiths, 1995). Inoltre, le dipendenze tecnologiche possono essere passive (ad esempio, guardare la televisione) o attive (ad esempio, giocare ai videogiochi) e di solito contengono elementi che inducono o possono contribuire alla promozione di tendenze che creano dipendenza (Griffiths, 1995). Sulla base di ciò, le dipendenze tecnologiche possono essere viste come un sottoinsieme di dipendenze comportamentali (Marks, 1990), con tutte e sei le componenti principali della dipendenza (cioè salienza, tolleranza, sintomi di astinenza, modificazione dell’umore, conflitto e ricaduta) per la prima volta descritto da Brown (1993) e successivamente modificato da Griffiths (1996, 2005)”.

Dal 1 gennaio 2022 il Gaming Disorder sarà riconosciuto come una patologia a tutti gli effetti da parte dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, avendo deciso di inserire la dipendenza da videogiochi nella prossima edizione dell’ICD-11 (International Classification of Desease). La stessa OMS definisce tale disturbo come caratterizzato da controllo alterato/indebolito sull’attività di gioco, che diventa la principale occupazione della propria vita a discapito delle altre, con una durata di minimo 12 mesi.

L’etichetta patologica del Gaming Disorder non vede in accordo tutta la comunità scientifica, infatti l’American Psychiatric Association ha ritenuto opportuno l’inserimento dell’internet gaming disorder (o dipendenza da videogiochi online) nella Sezione III del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, come condizione che necessita ulteriori ricerche cliniche prima di essere considerata formalmente un disturbo (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013).

In tale sede, l’internet gaming disorder viene definito come un disturbo da dipendenza che riflette un impegno persistente e ricorrente con i videogiochi, spesso con altri giocatori, con conseguente disagio clinicamente significativo come indicato da cinque (o più) dei seguenti nove criteri fondamentali su un periodo 12 mesi:

  1. consapevolezza che tali comportamenti stiano causando problematiche psicosociali;
  2. mentire in merito alla quantità di tempo passato a giocare o nascondere l’uso dei videogiochi;
  3. uso di videogiochi per sfuggire o alleviare gli stati di eccessiva preoccupazione per il gioco;
  4. sintomi di astinenza quando non si gioca o il gioco viene impedito;
  5. tolleranza, risultante nella necessità di dedicare quantità crescenti di tempo ai videogiochi;
  6. tentativi infruttuosi di controllare l’attività ludica;
  7. abbandono delle altre attività per dedicarsi esclusivamente al gioco;
  8. uso continuativo dei videogiochi nonostante stati d’animo negativi;
  9. mettere a repentaglio o perdere una relazione significativa, lavoro o istruzione o opportunità di carriera a causa dell’eccessivo uso dei videogiochi.

Tuttavia, la proposta dell’Internet Gaming Disorder ha portato con sé dubbi riguardo alla sua entità diagnostica. Più precisamente, l’inclusione del termine “Internet” è stata contestata in favore dell’uso del termine “Video Gaming Disorder” (o più semplicemente Gaming Disorder), suggerendo che l’eccessivo uso di Videogiochi possa non essere confinato esclusivamente a un contesto online (Griffiths & Pontes, 2014). Il termine internet addiction, è stato inoltre criticato dalla comunità scientifica per la sua mancanza di specificità, data l’eterogeneità di comportamenti potenzialmente problematici che possono avvenire in rete e dei diversi meccanismi eziologici sottostanti (Starcevic e Aboujaoude, 2016).

I videogiochi sono stati considerati dalla comunità scientifica non solo per gli eventuali effetti negativi associati, ma anche  per le loro potenzialità nel migliorare le funzioni cognitive, percettive e motorie (vedi Granic, Lobel, & Engels, 2013). Infatti, giocare ai videogiochi è associato ad una maggior coordinazione oculo motoria (Griffith, Voloschin, Gibb e Bailey, 1983), ad un incremento dell’attenzione (Howard, Wilding e Guest, 2016), a maggior capacità di rotazione mentale (Spence & Feng, 2010), e ad un miglioramento della working memory (Colzato, van den Wildenberg, Zmigrod, & Hommel, 2010). Per questo, i videogiochi possono rallentare il declino cognitivo associato con l’età, di deficit mnestici ed essere usati come strumenti riabilitativi nel post stroke o per una malattia neurodegenerativa, come il morbo di Alzheimer (Ballesteros & Reales, 2004).

L’obiettivo del presente studio sarà quello di analizzare la prima tra le diatribe scientifiche riguardanti l’uso dei videogiochi che abbiamo qui brevemente introdotto: la relazione che esiste tra videogiochi violenti e aggressività. Nello specifico, verrà analizzata e rilevata una statistica descrittiva del campione al fine di contribuire alla comprensione della relazione esistente fra videogiochi violenti ed eventuali comportamenti di aggressività e di rabbia.  L’ipotesi di partenza del presente studio è che esista una relazione significativamente elevata preesistente fra l’utilizzo di videogames e condotte devianti a livello socio-emotivo (quali, ad esempio, la violenza o la mancanza di controllo degli impulsi).

Per visionare la ricerca completa clicca qui

Discussioni

L’ipotesi di partenza del presente studio presupponeva l’esistenza di una relazione (significativamente elevata) preesistente fra l’utilizzo di videogames e condotte devianti a livello socio-emotivo (quali, ad esempio, la violenza o la mancanza di controllo degli impulsi). In relazione ai risultati emersi dalla nostra domanda di ricerca introduttiva, i test inseriti nell’indagine propongono delle evidenze che dovranno essere ulteriormente avallate da future indagini.

Come si denota dai risultati, il primo dato che emerge è un’assenza di significatività statistica elevata tra le ore di attività ludica dei videogiochi e la percezione di stati di tensione legati al controllo della rabbia o aggressività, come evidenziato in alcuni degli item inseriti ad hoc per la strutturazione delle relazioni emotive (quali il QAG e il IGDT9SF). Ulteriormente, non vi è una nessuna correlazione (significativamente elevata) tra l’utilizzo di videogiochi negli ultimi dodici mesi dal contenuto violento PEGI 18+ e le dinamiche di condotta violente o aggressive. Risulta interessante come l’insoddisfazione legata all’insuccesso di una missione o un obiettivo virtuale non sollevi alcuna conseguenza evidenziabile nella condotta quotidiana “offline” (così come si evince dalla tabella 4 e 5), nonostante il diverso tempo impiegato con dispositivi ludici, sia online che non. Da questi dati è possibile affermare che i VVG non sembrano esercitare alcuna influenza negativa significativamente elevata (ad esempio Ferguson, 2015). Infatti, come afferma Bandura (2001), l’apprendimento per osservazione non è sinonimo di mimetismo ma include l’apprendimento di regole sull’adeguatezza di comportamenti particolari per circostanze particolari.

Inoltre, non emerge significatività statistica elevata tra l’alterazione del tono dell’umore e la ricerca regolare di nuove skills e/o accessori di potenziamento e/o estetica utili per la costruzione del proprio avatar. Per cui si può ipotizzare che l’acquisto dei pacchetti di potenziamenti non vengano percepiti come fondamentali o uniche alternative per la buona esecuzione dell’esperienza ludica. Infatti, recenti ricerche (Rieger et al., 2015) hanno suggerito come l’utilizzo di un VVG possa essere associato non solo ad una ridotta ostilità ma a un aumento dell’umore positivo.

Un altro elemento di interesse che potrebbe essere ulteriormente esplorato è l’importanza delle relazioni instaurate online, tra videogiocatori e/o utenti delle piattaforme digitali. Come si riporta anche nei risultati, non vi è una rilevanza sulla totalità della dominanza di relazioni virtuali rispetto a quelle instaurate nella quotidianità. Infatti, il legame instaurato online è finalizzato ad un obiettivo comune o per instaurare un’alleanza a breve o lungo termine, che non influenza le relazioni strette sul piano reale. All’interno dell’indagine non si sono presentate correlazioni con l’uso di videogiochi e condotte perseguibili dal punto di vista giuridico (unica nota di rilevanza la detenzione di Hashish, che potrebbe essere associate a dinamiche non statisticamente significative alla nostra indagine sullo stato emotivo e uso di videogiochi).

Il campione è consapevole delle discrepanze tra il piano virtuale e reale, associato anche ad un range di livello culturale e sociale medio; si potrebbero produrre evidenze su una possibile differenza tra le componenti culturali e sociali e l’uso di videogames, tendenzialmente legate alle dinamiche socio-educative di provenienza.

Scopo di questa indagine è scomporre e ricomporre le illazioni e i luoghi comuni sulla condotta ludica, lo stato emotivo e la condotta della popolazione di utenti, al fine di approfondire evidenze e nuovi quesiti.

Il tempo e la tipologia di genere video-ludico non risultano quindi correlati a condotte devianti a livello emotivo e sociale né alla dipendenza da gioco da internet. Futuri studi dovranno approfondire le variabili individuali che possono innescare i comportamenti qui esaminati. Inoltre, anche il livello di istruzione e i comportamenti violenti sembrano essere non correlati tra di loro in modo significativo. Anche se questa ricerca pilota ha ottenuto dei risultati interessanti, non è priva di limiti. Infatti, il campione reclutato è di tipo non probabilistico e non è quindi necessariamente rappresentativo della popolazione generale di videogiocatori Italiani. Inoltre, non è stato possibile controllare la veridicità dei dati, in quanto, trattandosi di un questionario sottoposto online in forma anonima, gli autori dello studio non possono sapere se un soggetto ha risposto in modo sincero alle domande sottoposte. Inoltre, questa è una indagine quantitativa a scopo divulgativo e non scientifico e non può in nessun modo essere vista come tale. I partecipanti hanno prestato il loro consenso volontario alla partecipazione della ricerca stessa e dovevano essere maggiorenni per potervi partecipare. Inoltre, non è stato fornito nessun riscontro alla fine del questionario ed i dati sono stati conservati in forma anonima.

Questa ricerca non fa riferimento a nessuna Università né ad altre Istituzioni. Il suo scopo rimane di carattere divulgativo ed informativo. L’approvazione etica per la raccolta dati è stata data dall’AIPCCG.

 

LockDown Bites: raccomandazioni in pillole ai tempi del COVID-19

Le modalità di risposta al lockdown dipendono anche dal livello di salute mentale individuale. Paure, tristezza, senso di impotenza sono difficili da gestire e possono determinare nel tempo l’insorgenza di disturbi psicologi profondi. Proponiamo di seguito dieci raccomandazioni in ‘‘pillole’’ su come affrontare il lockdown promuovendo il nostro benessere psicologico.

 

L’emergenza a cui il mondo sta assistendo non è solo di tipo sanitario, ma anche economico, politico e nondimeno psicologico. Numerosi studi hanno esaminato le implicazioni psicologiche sulla popolazione a seguito dell’applicazione di misure governative restrittive per limitare i contagi da virus, individuando quelli che possono essere i maggiori fattori di rischio e protettivi, le conseguenze a breve e lungo termine, le possibilità di prevenzione e di intervento (Brooks et al. 2020, Johal 2009, Liu et al. 2012).

I risvolti psicofisici dovuti alle misure di contenimento si ripercuotono a diverse intensità su tutta la popolazione coinvolta, che affronta improvvisamente una drastica restrizione delle proprie libertà e diritti, fino a quel momento considerati imprescindibili. Un’attenzione particolare va riservata agli operatori sanitari, in prima linea nel contenere l’emergenza sanitaria, alle Forze dell’Ordine, ai volontari della Protezione Civile e a coloro che ogni giorno lavorano per garantire i beni e servizi di prima necessità (DiGiovanni, Conley, Chiu & Zaborski, 2004). L’esposizione rende queste figure particolarmente vulnerabili, ma in questa guerra di posizione, anche noi siamo tutti in trincea.

A fronte delle conoscenze sulle possibili conseguenze negative del lockdown sul benessere della popolazione, in un momento in cui le misure restrittive interessano circa 3 miliardi di cittadini a livello mondiale, si ritiene di fondamentale importanza la ricerca di strategie atte a prevenire e contenere i risvolti psicologici negativi della pandemia. Abbiamo così sintetizzato in dieci ‘‘pillole’’ alcune raccomandazioni allo scopo di promuovere comportamenti più resilienti per chi sta affrontando questa situazione da casa. Il costrutto psicologico della “resilienza” si riferisce alla capacità dell’individuo di resistere, fronteggiare e riorganizzare positivamente la propria vita dopo aver subito eventi avversi. Non si nasce resilienti, ma lo si diventa, attraverso l’utilizzo di strategie che possono essere apprese e implementate da ciascuno di noi. Ecco di seguito le nostre dieci ‘‘pillole’’:

  • #Restiamoacasa. Siamo abituati a combattere agendo attivamente, ma in questo periodo limitare gli spostamenti rappresenta il gesto più eroico che possiamo compiere per tutelare noi stessi, i nostri cari e coloro che sono più vulnerabili.
  • Aiutiamoci. Mettendo da parte l’individualismo a favore del collettivismo, aumenta il senso di appartenenza ad una realtà sociale più ampia. Anche durante il lockdown possiamo sentirci necessari per gli altri: offrire aiuto tramite iniziative prosociali, volontariato, donazioni o anche piccoli gesti contribuisce a sentirsi maggiormente interconnessi, favorendo un maggior senso di comunità. L’altruismo può rivelarsi un meccanismo sociale più vantaggioso per chi lo adotta rispetto chi ne beneficia: non solo sembra ridurre l’ansia, lo stress e migliorare lo stato di salute, ma pare addirittura che aiuti a vivere più a lungo (Post, 2005).
  • Social, ma non troppo. Nella comune incertezza e difficoltà, i social network possono diventare una preziosa fonte di integrazione anche attraverso la creazione di reti di supporto sociale nelle comunità. Videochiamate, telefonate o messaggi possono essere un buon modo per sentire più vicino chi è lontano. Ma non lasciamoci intrappolare nella rete: solo un uso consapevole dei dispositivi digitali potrà impedire al mondo virtuale di rimpiazzare quello reale.
  • Attenzione alle fake news. In questo momento così delicato, in cui siamo quotidianamente bombardati da informazioni inerenti il COVID-19, è fondamentale vagliare le notizie che circolano, soprattutto sul web. Accertarsi della credibilità e dell’ufficialità della fonte d’informazione limita la creazione di allarmismi o reazioni d’ansia ingiustificate. Per le stesse ragioni è auspicabile limitare la consultazione di statistiche o di informazioni inerenti il virus a massimo due volte al giorno.
  • Non temere la paura. Ogni emozione ha una sua funzione: quella della paura è di prepararci a reagire efficacemente a una minaccia. Una buona dose di paura quindi ci permette di far fronte ad essa, senza esserne sopraffatti. Esagerati allarmismi o minimizzazioni possono compromettere le nostre capacità di giudizio, esponendoci ad un maggior rischio di contagio.
  • Essere nel presente. La minaccia che ci troviamo a fronteggiare oggi non consiste solamente nel timore del contagio o nella paura di perdere i propri cari, ma comprende anche preoccupazioni per il futuro, come le ripercussioni economiche del lockdown. È importante rimanere ancorati al presente, gestendo le difficoltà una alla volta e al momento opportuno, senza sovraccaricare la mente di questioni che nel qui ed ora non possono essere affrontate.
  • Tollerare la noia. Spesso imprigionati tra scadenze e impegni, con difficoltà siamo disposti ad accogliere positivamente momenti vuoti e di inattività. E se la noia non fosse un nemico, ma un alleato prezioso per dar il via alla nostra creatività? Se sciogliessimo le briglie alla nostra mente lasciando vagare la nostra immaginazione, senza necessariamente far qualcosa con un preciso scopo? É proprio in questi momenti che impariamo a stare con noi stessi, ad ascoltare i nostri bisogni, abbandonandoci all’introspezione lasciando tutto il mondo fuori.
  • Cogliere l’opportunità. Svincolati dalla frenesia quotidiana e dalla smania della produttività, possiamo ora fermarci e dar valore a questo tempo che abbiamo a disposizione. Coloro che sono a casa possono riscoprire la libertà di scegliere come passare il proprio tempo, senza il senso di costrizione che spesso accompagna le nostre giornate. Dedicarci ai nostri affetti, rispolverare hobbies o impegnarci in nuovi progetti, prenderci cura del nostro corpo e della nostra mente, sono solo alcune delle possibilità.
  • Comunicare emozioni. La comunicazione delle emozioni è molto importante: evitare di esprimerle o condividerle può compromettere il nostro benessere psicofisico. Impariamo ad accettare anche le emozioni negative come parte della nostra vita cercando di non sopprimerle, ma piuttosto dando loro ascolto e voce. Esprimere le proprie emozioni non solo aumenta la forza psicologica e la capacità di fronteggiare momenti difficili come quello che stiamo vivendo, ma porta anche a un miglioramento delle relazioni interpersonali (Graham, Huang, Clark & Helgeson, 2008).
  • Non avere paura di chiedere aiuto. La tensione, la paura, la tristezza o l’eccessivo stress possono essere veramente difficili da gestire per chi è a casa o per chi è a lavoro, primi tra tutti gli operatori sanitari. A volte confrontarsi con le persone care non sembra la strada più giusta per alleviare il sovraccarico emotivo che, a lungo andare, può determinare conseguenze nocive per il proprio benessere psicofisico. Esistono per questo professionisti della salute mentale, pronti a supportare e ad aiutare a sviluppare modalità più efficaci di gestione dello stress e dell’ansia.

Quando si parla di salute si fa riferimento a una condizione di equilibrio tra benessere fisico, sociale e mentale. La Repubblica Italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, che deve essere garantito fornendo a tutti cure equitarie sia in termini medici che psico-sociali. A tal proposito, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) ha promosso #psicologicontrolapaura, un servizio di consulto psicologico gratuito a distanza. Affidarsi ad un professionista della saluta mentale significa darsi la possibilità di considerare questo momento difficile da un altro punto di vista, scoprendo che, anche dal disagio, può nascere qualcosa di positivo, come la riscoperta di sé e l’acquisizione di nuovi strumenti e strategie da riutilizzare poi nelle nuove sfide che la vita ci presenterà.

 

Narcisismo patologico e depressione: il ruolo mediatore dell’elaborazione emotiva

Il presente studio ha esaminato la possibilità che un’elaborazione emotiva compromessa mediasse la relazione tra narcisismo patologico e depressione e, in secondo luogo, ha indagato come questo effetto avrebbe portato al deterioramento nel funzionamento sociale.

 

Il narcisismo patologico è una sindrome della personalità complessa che contribuisce a notevoli difficoltà sia per i pazienti che per coloro che li circondano. Le dimensioni del comportamento arrogante, auto-esaltante e sfruttatore (grandiosità narcisistica) così come la propensione alla vergogna, il risentimento e l’ipersensibilità interpersonale (vulnerabilità narcisistica) possono fluttuare in risposta a fallimenti, rifiuti o mancanza di ammirazione da parte degli altri. Numerose ricerche hanno indagato il legame tra narcisismo patologico e depressione. Sebbene ancora oggi si sappia poco sulla depressione narcisistica, sembra che svolgano un importante contributo le difficoltà di elaborazione delle emozioni. Pertanto, gli individui con caratteristiche narcisistiche possono incontrare difficoltà ad integrare ed elaborare in modo costruttivo i sentimenti riguardo al loro senso di sé e alla loro relazione con gli altri; ciò rende i sentimenti negativi più fastidiosi e duraturi, contribuendo alla gravità depressiva. Inoltre, il narcisismo patologico e i deficit di elaborazione emotiva associati potrebbero contribuire alla percezione di un disturbo depressivo legato al funzionamento sociale, ossia gli individui narcisisti considerano l’esposizione sociale come un evento avverso.

Il presente studio ha esaminato la possibilità che un’elaborazione emotiva compromessa mediasse la relazione tra narcisismo patologico e sintomi depressivi e, in secondo luogo, ha indagato come questo effetto avrebbe portato al deterioramento nel funzionamento sociale percepito nel contesto della depressione. L’ipotesi specifica era che le caratteristiche narcisistiche sarebbero indirettamente collegate alla depressione attraverso i processi di elaborazione emotiva.

Il campione finale era costituito da 99 pazienti ambulatoriali psichiatrici tra i 12 e i 35 anni; la maggior parte dei soggetti era di sesso femminile. Gli strumenti utilizzati per l’indagine sono stati:

  • The Pathological Narcissism Inventory (PNI; Pincus et al., 2009; Wright et al., 2010), composto da 52 items che valutano la grandiosità e la vulnerabilità narcisistica;
  • The 25-item Emotional Processing Scale (EPS-25; Baker et al., 2010), che misura i cinque aspetti dell’elaborazione emotiva disadattiva: soppressione (espressione emotiva limitata), emozione non elaborata (emozioni indesiderate persistenti ed invadenti), disregolazione emotiva (reazioni emotive incontrollabili), evitamento di sentimenti spiacevoli ed esperienza emotiva impoverita;
  • The nine-item Patient Health Questionnaire (PHQ-9; Kroenke et al., 2001), che valuta la gravità dei sintomi depressivi, utilizzando come spazio temporale le ultime due settimane. Attraverso il PHQ-9 è stata indagata anche l’influenza dei sintomi sul funzionamento sociale, sulla valutazione della capacità di “svolgere il proprio lavoro, prendersi cura delle cose a casa e stare con le altre persone”.

Tra le variabili demografiche considerate, solo l’età era positivamente associata a sintomi depressivi. In relazione alle modalità di regolazione delle emozioni sono stati creati due modelli di mediazione: il modello che esamina la grandiosità narcisistica includeva come mediatori la disregolazione emotiva e l’impoverimento emotivo; mentre il modello che esamina la vulnerabilità narcisistica includeva la mancata elaborazione delle emozioni, la disregolazione emotiva e l’impoverimento emotivo come mediatori. La soppressione non è significativamente correlata ai sintomi depressivi.

La grandiosità narcisistica non è risultata significativamente associata alla depressione, ma è stato riscontrato un significativo effetto indiretto della vulnerabilità narcisistica sui sintomi depressivi, attraverso la mancata elaborazione emotiva come mediatore. I risultati suggeriscono che la vulnerabilità narcisistica causi sentimenti negativi persistenti ed invadenti, che a loro volta contribuiscono alla gravità dei sintomi depressivi. Di conseguenza, risulta alterato anche il funzionamento sociale. Gli individui con vulnerabilità narcisistica, infatti, prediligono la ruminazione e la preoccupazione costante piuttosto che il riconoscimento di un proprio stato d’animo; l’ipervigilanza e l’ipersensibilità implicate nella vulnerabilità narcisistica incrementano l’attenzione sulle esperienze negative e, di conseguenza, aumentano le probabilità di sviluppare sintomi depressivi. Allo stesso modo, l’ipersensibilità alla vergogna nelle relazioni interpersonali può precludere la richiesta di supporto sociale per alleviare le emozioni angoscianti.

Sebbene lo studio presenti dei limiti, quali un piccolo campione e un esclusivo utilizzo di strumenti self-report, lo studio dei deficit di elaborazione emotiva e della vulnerabilità narcisistica nel trattamento della depressione rimane un’area interessante per la ricerca futura, estendendo la valutazione anche agli individui con disturbo narcisistico di personalità.

In conclusione, i trattamenti sulle capacità di elaborazione emotiva possono essere il bersaglio fondamentale dell’intervento nei confronti di pazienti con depressione nel contesto della vulnerabilità narcisistica.

Covid19Rebt – un aiuto online per lo stress da Coronavirus

La pandemia da Covid19 ha in pochissimo tempo stravolto le nostre abitudini e le nostre vite, ci ha obbligato a ripensare a moltissime cose che davamo per scontate e a trovare forme di sopravvivenza psicologica e nuovi adattamenti. A prescindere da come proseguirà la pandemia, ci ritroveremo comunque una crescente domanda di intervento psicologico, a diversi livelli, per diversi target (es. operatori sanitari, per dirne uno) e per diversi tipi di problemi (es. disturbi post traumatici).

Contemporaneamente però, c’è da aspettarsi che la crisi economica inciderà in maniera rilevante sulla possibilità di accedere a forme di consulenza psicologica o psicoterapia da parte della popolazione generale. E non è nemmeno da escludere che continueranno ad essere necessarie misure di contenimento o distanziamento sociale anche dopo la fine della fase 1 (ad esempio per le categorie a rischio, o in caso di nuovo lockdown).

Tutto ciò mette in crisi il modello di consulenza psicologica e la psicoterapia tradizionali. Gran parte dei nuovi adattamenti a cui il nostro mondo professionale è stato costretto a causa del Covid-19 passano attraverso la rivalutazione degli strumenti tecnologici e dell’operatività smart, ma fino ad ora non abbiamo saputo dare altre risposte se non quella di mettere a disposizione consulenze telefoniche o via Skype, non discostandoci da una concezione uno a uno dell’intervento.

C’è bisogno di puntare con decisione verso forme più legate alla prevenzione primaria e secondaria, ad esempio sull’auto-aiuto, che siano contemporaneamente fruibili da un gran numero di persone, specifiche in relazione a target e problemi, agevoli, flessibili, strutturate ed infine anche economiche.

La nostra proposta ha come punto di forza quello di usare la REBT di Albert Ellis, una delle terapie più strutturate che ci siano nel panorama degli approcci esistenti. Abbiamo creato un percorso fruibile attraverso una serie di video integrati con moduli da scaricare. Un video iniziale spiega il metodo REBT, i video successivi servono a illustrare un metodo di lavoro sui singoli vissuti emotivi negativi che un fruitore potrebbe ritrovarsi ad avere, e sono integrati da moduli che possono essere scaricati e che servono come ausilio nel lavoro di elaborazione.

L’intero percorso può essere svolto in tre modalità diverse: 1) totalmente in forma di auto-aiuto; 2) come auto-aiuto parziale (auto-aiuto accompagnato da tre sessioni di monitoraggio aventi puro scopo motivazionale); 3) supportati da un professionista che accompagna nel lavoro con sessioni settimanali a distanza. Solo l’ultima di queste modalità è a pagamento.

Il materiale è anche utilizzabile (perché no?) per la conduzione di percorsi strutturati di supporto di gruppo a distanza (gruppi di utenti? associazioni?) che sono ancora tutti da inventare.

Abbiamo inteso il nostro lavoro come una sperimentazione iniziale, come un modello di intervento a disposizione di altri professionisti affinché possano adattarlo e riprogettarlo in funzione degli ambiti e delle necessità specifiche. La REBT ha ancora molto da dire. Noi intanto come professionisti, insieme all’Istituto REBT di Milano, restiamo a disposizione per collaborare a futuri sviluppi e applicazioni di questo lavoro.

VAI AL SITO none

 

 


Covi19Rebt è un progetto di: 

Felice Vecchione

Iscritto all’Ordine degli Psicologi della regione Marche. Psicoterapeuta cognitivo comportamentale esperto in CBT standard, REBT e terapia cognitivo evoluzionista. Si occupa di terapia individuale per adulti, adolescenti e bambini per ansia, panico e depressione, di coppie, sostegno genitoriale e parent training.

Carlo Dainelli

Iscritto all’Ordine degli Psicologi della regione Toscana.Psicoterapeuta cognitivo comportamentale.Advanced Certificate REBT. Esperto in terapia individuale adulti per ansia, panico e depressione, psicologia del lavoro e stress lavoro-correlato, tecniche di rilassamento e immaginazione guidata.

Roberta Cassetti

Iscritta all’Ordine degli Psicologi della regione Lazio. Psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Esperta in Training Autogeno, relazioni di coppia e genitori-figli, disagi legati al comportamento alimentare, alla sessualità, ansia e panico.

La percezione del tempo può essere influenzata dall’età, da fattori cognitivi, emotivi e culturali?

Il tempo è una dimensione fondamentale della quotidianità. Non possiamo vedere o toccare il tempo; tuttavia, possiamo inequivocabilmente percepire il suo passaggio e adattare il nostro comportamento di conseguenza. Il tempo è una dimensione particolarmente sfuggente delle esperienze giornaliere.

Sylvie Gobbis – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Cosa si nasconde dietro alla sensazione che il tempo voli mentre ascoltiamo una lezione particolarmente interessante? O dietro un tempo che non passa mai quando vorremo fuggire dalla situazione in cui ci troviamo? È diverso lo scorrere del tempo da ragazzi e da anziani? La percezione del tempo cambia non solo tra le diverse fasce di età, ma anche tra individui della stessa età. L’esperienza del tempo dipende anche dalla percezione soggettiva del tipo di attività che un individuo compie. Diversi studi hanno analizzato i correlati neurali della percezione del tempo e dell’attivazione comportamentale. La sorprendente diversità dei modelli psicologici e neurofisiologici della “percezione del tempo” caratterizza il dibattito su come e dove viene elaborato il tempo nel cervello.

Già nel 2009, in una sua recensione, dopo aver discusso criticamente i modelli più importanti della percezione del tempo, Wittmann concludeva che, nonostante il tempo sia un fattore essenziale per la comprensione del comportamento complesso, i processi che sottolineano l’esperienza del tempo e il momento o l’azione sono capiti in modo incompleto. Esistono troppe teorie contraddittorie, sia in psicologia che in neuroscienze, che mirano a spiegare come giudichiamo la durata.

Che ruolo ha l’età nella percezione del tempo?

La relazione tra tempo e funzioni psicologiche è la più importante soprattutto per quanto riguarda l’orientamento dell’essere umano attraverso il continuum spazio-temporale. Non si può analizzare il tempo senza discutere anche dello spazio. Esiste una forte relazione tra l’età e il tempo. Quando si discute delle caratteristiche di una certa “età” o di una fase della vita, si discute implicitamente del tempo trascorso tra due punti di riferimento chiamato “età”. Il sistema psicologico umano ha bisogno di un asse temporale direzionale (Vasile, 2015). Se partiamo dal presupposto che la psiche umana è un sistema logico e che un sistema logico è caratterizzato dall’ordine, allora possiamo comprendere il bisogno umano di ordine e il progresso logico degli eventi nel tempo. Le differenze, tra gli individui, nel giudicare il “passare del tempo” potrebbero avere origine nei parametri fisiologici e nei processi cognitivi. Negli anziani, alcuni dei principali processi cognitivi potrebbero diventare più lenti o più deboli (ad es. l’attenzione divisa, la memoria di lavoro ecc.). Un’altra osservazione importante è che un adulto più anziano potrebbe percepire il tempo in modo diverso rispetto a quello più giovane, in questo caso i principali fattori psicologici coinvolti sono l’esperienza di vita e la routine (Block, Zakay & Hancock, 1998). Per gli adulti il tempo è più veloce di quanto lo sia per i giovani, fenomeno che è definito “effetto telescopio”, ossia la tendenza a posizionare cronologicamente gli eventi in memoria, in modo che gli eventi recenti risultino più lontani nel tempo rispetto a ciò che erano veramente, e quelli più remoti più vicini. I giovani fissano lontano l’obiettivo che appare vicinissimo al telescopio, mentre i vecchi scrutano in modo ravvicinato anche le cose più lontane, perdendosi negli infiniti dettagli (Wittmann & Lenhoff, 2005).

La percezione del tempo e le neuroscienze

Il tempo è un elemento importante per i processi cognitivi. Mentre un numero crescente di prove evidenzia il contributo di molte diverse regioni del cervello ai calcoli temporali, i meccanismi neuronali alla base della nostra capacità di percepire il tempo rimangono in gran parte sconosciuti (Merchant, Harrington & Meck, 2013). Il tempo e la coscienza sono diventati intrinsecamente connessi con lo sviluppo di una nuova area di ricerca sul concetto di cronestesia, ovvero la “consapevolezza del tempo soggettivo” (Tulving, 2002). Tulving si riferisce alla cronestesia come a una forma di coscienza che consente a qualcuno di pensare al tempo soggettivo in cui vive e questa funzione aiuta l’individuo a “viaggiare mentalmente” nel suo tempo. La cronestesia è strettamente legata ad alcune funzioni neurocognitive come il ricordo (che è una funzione di memoria), pensando al passato e al futuro (pensare) e alla pianificazione (funzioni esecutive). La percezione temporale appare influenzata anche dalle condizioni biochimiche in cui il corpo e il cervello si trovano. La dopamina, in particolare, è uno dei principali neurotrasmettitori coinvolti e tende a produrre la sensazione che il tempo trascorra più velocemente. Lo stesso avviene quando si assumono sostanze, come la cocaina, che potenziano l’effetto della dopamina. Al contrario, i neurolettici – i farmaci usati per trattare malattie come la schizofrenia – ne inibiscono l’effetto, e dunque la percezione temporale è opposta, e il tempo si allunga. In aggiunta diverse zone cerebrali sono chiamate a rispondere a questi mediatori chimici: in sintesi, secondo questa teoria, la percezione del tempo è connaturata nel nostro sistema neuronale e invecchia man mano che invecchiamo, favorendo quel senso del tempus fugit. Altre ricerche nella psicologia confermano questa percezione dell’effetto telescopio del tempo (discusso precedentemente), con una piccola percentuale di anziani che si salvano dalla trappola dell’accelerazione temporale nel 10% dei casi (Wittmann & Lenhoff, 2005).

In quale struttura cerebrale viene elaborato il tempo?

In due esperimenti che prevedevano l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale ad altissimo campo (fMRI) a 7-Tesla (7T) alcuni autori (Protopapa, Hayashi, Kulashekhar, Van der Zwaag, Battistella, Murray, et al., 2019) hanno dimostrato che nella corteccia premotoria mediale (area motoria supplementare [SMA]) del cervello umano le unità neurali sintonizzate su diverse durate sono mappate in modo ordinato in porzioni contigue della superficie corticale in modo da formare dei chronomaps. La risposta di ciascuna porzione in un chronomap è migliorata dalle durate ravvicinate e soppressa dalle durate meno preferite (dai partecipanti) rappresentate in parti distanti della mappa. Questi risultati suggeriscono una sintonizzazione sensibile alla durata come un possibile meccanismo neurale alla base del riconoscimento del tempo e dimostrano, per la prima volta, che la rappresentazione di una caratteristica astratta come il tempo può essere istanziata da una disposizione topografica di una rete neuronale sensibile alla durata. In questi esperimenti è stato chiesto ai partecipanti di fare una discriminazione tra eventi visivi di varie durate mentre veniva loro misurata l’attività cerebrale tramite la risonanza magnetica funzionale (fMRI). I risultati mostrano che porzioni distinte dell’area motoria supplementare (SMA), una regione della corteccia cerebrale importante per la preparazione motoria e la percezione del tempo, rispondono preferenzialmente a durate diverse. Le porzioni di SMA che rispondono a durate simili sono in stretta prossimità spaziale sulla corteccia e la loro risposta è maggiore per le durate preferite (dai partecipanti) e ravvicinate mentre viene soppressa quando la durata degli stimoli visivi è più lunga. La disposizione spaziale delle porzioni selettive di durata della SMA potrebbe essere il meccanismo che ci consente di percepire in modo efficiente che è trascorsa una certa durata.

Le nostre emozioni influenzano la percezione del tempo?

Il tempo e la percezione del tempo sono stati studiati da neuroscienziati e psicologi per molti anni. È opinione ormai condivisa che le emozioni possano alterare la nostra esperienza del tempo. Precedenti studi sulla modulazione emotiva sulla percezione temporale si concentrano principalmente su esperimenti comportamentali e psicologici. Negli ultimi anni gli studi sui meccanismi neurofisiologici della percezione del tempo hanno fatto molti progressi (Lake, Labar & Meck, 2016).

Come altri sensi, la nostra percezione del tempo non è veridica, ma piuttosto è modulata dai cambiamenti nel contesto ambientale. Le esperienze aneddotiche suggeriscono che le emozioni possono essere potenti modulatori della percezione del tempo; tuttavia, i meccanismi funzionali e neurali sottostanti le distorsioni temporali indotte dalle emozioni rimangono poco chiari. Modelli ampiamente accettati di pacemaker-accumulator di percezione del tempo suggeriscono che i cambiamenti nell’eccitazione e nell’attenzione hanno influenze uniche sui giudizi temporali e contribuiscono alle distorsioni emotive della percezione del tempo.

I risultati di alcuni studi indicano che la percezione di espressioni corporee paurose aumenta il livello di eccitazione che, a sua volta, accelera il sistema di orologio interno alla base della rappresentazione del tempo. L’effetto delle espressioni corporee sulla percezione del tempo è quindi coerente con i risultati di altri stimoli emotivi altamente eccitanti, come le espressioni facciali emotive (Droit-Volet & Gil, 2016).

Alcune ricerche (Johnson & MacKay, 2019) suggeriscono che i processi di codifica della memoria legata alle emozioni possono causare una sottostima delle durate nei compiti a venire, ma una sovrastima nei compiti retrospettivi, come se l’emozione aumentasse il richiamo degli eventi in corso, ma causasse una sovrastima delle durate di tali eventi in retrospettiva.

Oggi, l’orologio e il calendario sono tra i principali simboli culturali della società industriale occidentale

I concetti culturali dell’invecchiamento sono strettamente correlati ai concetti culturali del tempo. Sono stati descritti molti concetti diversi di tempo come: – il tempo dello sviluppo umano, – il tempo del calendario che descrive la divisione dell’anno, – il tempo religioso legato ai giorni di festa o ai digiuni come Natale, Pasqua, Ramadan… o ancora – il tempo della relazione sociale che è legato agli eventi personali (la data di compleanno, matrimonio, ecc.,).

Nelle società agrarie più tradizionali, ad esempio, il tempo è spesso vissuto come ciclico o a spirale, poiché scorre lentamente ed è ripetitivo. In alcune parti dell’Asia, le religioni spesso incorporano questa visione ciclica dell’esperienza umana e possono includere concetti di reincarnazione, come il samsara: il ciclo infinito di nascita, morte e rinascita che si trova sia nel buddismo che nell’induismo. Al contrario, il concetto di tempo lineare del mondo occidentale è stato la base del pensiero intellettuale e religioso per molti secoli. Il tempo occidentale è stato concepito come direzionale, avanzante e non ripetitivo (Helman, 2005).

Nel 1983, l’antropologo Edward T. Hall descriveva la forma predominante del tempo occidentale moderno come tempo “monocronico”. In questa prospettiva, il tempo è concepito come un nastro o una strada che si estende dal passato al futuro, diviso in segmenti chiamati minuti, ore, giorni, mesi e anni. Quindi “il tempo è organizzazione”, essenziale per il buon funzionamento di una società industriale complessa, in cui le azioni di grandi gruppi di persone devono essere coordinate, in modo che le fabbriche, i negozi, le compagnie aeree, ecc. possano tutti operare su un orario identico.

Nonostante questo, molte persone vivono in gran parte al di fuori dell’orologio (ad esempio i bambini, le persone disoccupate o ancora le persone che soffrono di depressione ecc.) e spesso ci sono differenze tra il tempo accelerato della città e il tempo più lento della campagna. Il tempo nel mondo occidentale è anche visto come una forma di valuta o merce, che può essere “spesa”, “sprecata”, “salvata” o “data”. Può essere ‘gratuito’, ‘libero’, ‘extra’ o ‘straordinario’. Quanti di noi avranno pensato di fare qualcosa per se stessi nel tempo libero o ancora di aver pensato di aver “perso” del tempo nel compiere un’azione in modo inconcludente? Il tempo può essere convertito in denaro e il denaro in tempo, e questo processo può essere quantificato con precisione. Tempo e lavoro sono intimamente legati. Il tempo monocronico coesiste con il tempo “policronico”, che è meno lineare e meno tangibile. In questo caso, la vita viene vissuta come costantemente in flusso e non così rigida come nel tempo dell’orologio. È una visione comune in molte parti del mondo non occidentale: per esempio nel Buddhismo Zen “il tempo nasce dal sé e non è imposto”.

Nelle società occidentali, la maggior parte delle persone vive in realtà all’intersezione di diverse forme di tempo culturale, sia lineare che ciclico, che sono loro imposte (l’esposizione inizia alla nascita, con i tempi di alimentazione e pasti per i bambini, e poi continua per tutta la vita). Ognuno di questi tempi può avere effetti importanti sulla fisiologia e sulla psicologia di un individuo, nonché sul suo comportamento.

In conclusione, secondo gli studi presentati, la percezione del tempo è una funzione umana fondamentale coinvolta in tutte le attività degli individui.

Come potrebbe funzionare la nostra società attuale senza avere la consapevolezza della successione o della simultaneità degli eventi?

L’età, lo specifico delle attività, le emozioni associate alle attività, la cognizione e ancora la cultura, sono tutti in una relazione diretta con la percezione del tempo che a sua volta influenza tutti questi aspetti e funzioni.

La percezione del tempo potrebbe essere analizzata in termini di:

  • meccanismi e reti neuronali;
  • funzioni cognitive,
  • consapevolezza (che implica la cognizione);
  • inoltre, le emozioni che sono strettamente correlate alle cognizioni, svolgono un ruolo importante, ma soggettivo nella durata;
  • cultura.

La relatività del tempo psicologico è ben nota, a seconda dei fattori presentati sopra. La relazione del tempo con la rappresentazione interna soggettiva è sistemica, forte e complessa, di grande importanza per gli esseri umani.

 

La formazione del Sé nella prospettiva di Heinz Kohut

La sopravvivenza psicologica del bambino e poi dell’adulto richiede la presenza di oggetti-sé che rispondano empaticamente ai bisogni personali. Gli oggetti-sé si formano dalla relazione con gli altri significativi e sono capaci di strutturare il sé in modo coeso ed integrato.

Introduzione

Kohut (1971) elabora una teoria della mente che si allontana gradualmente dall’ambito pulsionale, la sua teoria considera come proprietà motivazionale la realizzazione e la coesione del Sé. Il Sé è concettualizzato come un centro di avvio, di organizzazione e di integrazione delle motivazioni umane.

La motivazione umana fondamentale per Kohut, è raggiungere l’equilibrio e l’autorealizzazione del Sé in termini di coesione interna. Le forze che sottostanno la realizzazione personale sono rappresentate da ideali, ambizioni, valori e talenti personali; affinché la personale identità o il Sé possa vivere l’esperienza della propria soggettività è necessario fare esperienza di rispecchiamento empatico da parte delle figure di riferimento, e al contempo è importante sentirsi appartenente al cosmo umano attraverso la funzione della gemellarità. L’esperienza relazionale con specifici oggetto- sé permette la formazione del personale nucleo strutturale. Ma andiamo a vedere nello specifico la sua teoria.

Le funzioni di oggetto-sé sono esplicitate da persone reali, non da rappresentazioni mentali, e riguardano le funzioni genitoriali di rispecchiamento, idealizzazione e, infine, la gemellarità vissute anche nelle traslazioni terapeutiche. La formazione del Sé nucleare è il perno su cui poi si realizzerà un Sé più maturo e coeso, ciò avviene attraverso un determinato processo chiamato interiorizzazione trasmutante che permette l’instaurarsi della formazione delle strutture psichiche e indica nel modo seguente le condizioni che lo rendono possibile:

  1. Una maturazione adeguata dell’apparato psichico;
  2. Un ritiro degli investimenti idealizzanti dovuto a piccole, non traumatiche, delusioni, che consenta una progressiva e graduale interiorizzazione di singoli aspetti dell’oggetto idealizzato. Quando la delusione è integrale e l’oggetto da onnipotente si rivela impotente, questa interiorizzazione risulta impossibile.
  3. Le qualità che vengono interiorizzate perdono il loro carattere di attributi personali dell’oggetto e assumono sempre più quello delle funzioni che l’oggetto era solito svolgere.

Sono i valori interni, i principi, gli ideali, le mete, le ambizioni e i talenti a strutturare l’identità; il sentire l’appartenenza al genere umano (gemellarità) ad attivarsi e a strutturare il Sé rendendo partecipe alla propria esistenza inserita con altre esistenze. Il tutto dipende dalle risposte affettive avute (oggetti-sé) che a volte continuano ad essere ridondanti  a irretirsi.

Nel 1977 Kohut prende le distanze da Freud, allontanandosi dal concetto di narcisismo primario inteso come investimento libidico del Sé, ma il narcisista secondo la sua prospettiva è colui che ha un esperienza di deficit strutturale e non raggiunge un equilibrio narcisistico adeguato in termini di autostima e accettazione di sé; e le modalità reattive emotive di rabbia, di grandiosità a volte di arroganza, la paura di frammentazione o alcuni disturbi psicosomatici caratterizzano la sua identità, sono squilibri narcisistici che portano alla difficoltà a decentrarsi con l’altro e alla impossibilità di condividerne l’esperienza in modo sano.

La psicologia del Sé: la teoria, la relazione con gli oggetti sé, i processi e la struttura

Kohut concepisce il Sé formato da una struttura interna in tre costituenti (non più bipolare come invece aveva considerato in Narcisismo e analisi del Sé nel 1971) che si formano in funzione alla relazione con i suoi oggetti sé:

  • L’oggetto speculare: ha la funzione di confermare il senso innato di vigore, grandezza e perfezione del bambino (conseguenza di un sano rispecchiamento empatico materno);
  • L’oggetto idealizzante: ha la funzione di farsi ammirare, per cui il bambino può confondersi nella fusionalità, come immagini di calma, infallibilità e onnipotenza (conseguenza dell’idealizzazione solitamente paterna).
  • L’oggetto gemellare: ha una funzione che subentra successivamente, permette un senso di appartenenza.

I tre costituenti del Sé si riferiscono a tre poli:

  1. Il polo delle ambizioni, che si struttura con la funzione oggetto sé rispecchiante o speculare;
  2. Il polo degli ideali, che si struttura con la funzione oggetto-sé idealizzante;
  3. Una zona intermedia dei talenti e delle capacità, che si struttura con la funzione oggetto sé gemellare, alter egoica;

Il Sé in relazione ai suoi oggetti – sé può presentare dei deficit e quindi può essere danneggiato in uno o più poli sopra decritti e vivere tre tipi di traslazioni di oggetti sé vissuti nella relazione terapeutica:

  1. Il Sé danneggiato nel polo delle ambizioni cerca di suscitare risposte di conferma e approvazione da parte dell’oggetto sé (traslazione speculare).
  2. Il Sé danneggiato nel polo degli ideali è alla ricerca di oggetti – sé che voglia accettare la sua idealizzazione (traslazione idealizzante).
  3. Il Sé danneggiato nel polo intermedio nel settore talenti e capacità cerca oggetti disponibili per garantire l’esperienza rassicurante di una sostanziale somiglianza (traslazione gemellare o di alter ego). Questa area nella prima teorizzazione era considerata un sottogruppo della traslazione speculare. E’ una similarità di funzione e di significato.

Il bisogno di sperimentare oggetti sé subisce una maturazione che dura per la vita. A tal proposito Kohut distingue gli “oggetti arcaici immaturi”, che rappresentano la normale esigenza della prima infanzia, oppure sono ricercati più tardi, in modo cronico, nei casi di difetti del Sé, o in modo passeggero, in periodi di particolari tensione da coloro che non manifestano una patologia con gli oggetti sé maturi di cui tutti noi abbiamo bisogno per la sopravvivenza psicologica.

Sono tre i bisogni che l’uomo ha per sostenere il suo Sé:

  1. Bisogno di rispecchiamento e accettazione, corrisponde alla possibilità di avere un oggetto – sé rispecchiante, empatico e speculare;
  2. Bisogno di fusione con la grandezza, la forza e la calma corrisponde alla possibilità che l’oggetto -sé si faccia ammirare;
  3. Bisogno di sperimentare una somiglianza sostanziale, corrisponde alla possibilità di trovare sostegno nella presenza di qualcuno abbastanza simile da comprenderla ed essere compresa.

Il bisogno arcaico dell’oggetto – sé non deriva necessariamente dalla perdita di un oggetto d’amore ma dalla perdita di un’esperienza d’oggetto più matura.

Se il Sé è carente in tutte le risposte di oggetti – sé, la condizione del sé si aggrava e risulta gravemente impoverito. Ecco perché è fondamentale nella concezione kohutiana il concetto di strutture compensatorie, che servono a  sopperire le carenze di oggetti-sé maturi con la possibilità di vitalizzarsi in una modalità non sana (esempio l’uso di sostanze di dipendenza).

La funzione empatica e il rispecchiamento

Una funzione indispensabile del caregiver o dell’oggetto Sé è la funzione empatica e di rispecchiamento, poiché in questo modo si avvia il processo di crescita e maturazione consono alla propria persona. L’empatia è l’immedesimarsi nel mondo dell’altro attraverso l’introspezione vicariante, ossia attraverso la risonanza affettiva che il mondo interno dell’altro suscita, ma per fare ciò è necessaria una grande capacità introspettiva e una rispondenza empatica; attraverso tale comprensione si costruisce una nuova relazione che fornisce esperienze rispecchianti e funzionali per il proprio sé e la propria identità. Kohut, spiega l’importanza funzionale degli “oggetti-Sé” indispensabili per tutta la vita e asserisce che a seconda delle qualità delle interazioni tra il Sé e i suoi oggetti nell’infanzia (relazioni Sé/oggetto Sé) esso emergerà come una struttura solida e sana oppure più o meno gravemente danneggiata (Kohut, 1978). Il primo “oggetto Sé” (oggetto speculare o rispecchiante) esperisce alla funzione empatica, solitamente materna, e al bisogno narcisistico di ricevere conferme alla propria onnipotenza esso struttura il senso di vigore e grandezza del bambino.

Identità e carenza idealizzante

L’“oggetto Sé” idealizzante (imago parentale idealizzata) esplica la funzione fusionale che il bambino ha solitamente  nei confronti del padre in particolar modo nella fase edipica. Tale fusione, si riferisce alla possibilità del bambino di confondersi e ammirare la figura paterna, attribuibile a immagini di calma e onnipotenza per costruire fiduciosi ideali- guida indispensabili per la propria sicurezza. Tramite la cosiddetta “interiorizzazione trasmutante” la funzione di tale oggetto contribuisce a creare struttura interna e serve a fornire il senso di fiducia e sicurezza interna per tutta la vita. In particolare, negli stati di angoscia diffusa, il Sé non ha avuto la possibilità di fondersi con il proprio “oggetto- Sé” onnipotente ed ha sofferto, afferma Kohut, il trauma dell’emotività condivisa.

Quando la relazione con l’oggetto idealizzato è stata disturbata molto precocemente, si determina una vulnerabilità narcisistica diffusa con l’incapacità di mantenere un adeguato equilibrio psico-fisico. Quando le vicende traumatiche nella relazione con l’oggetto sono intervenute successivamente, ma ancora nella fase pre-edipica, si ha difficoltà nell’incanalamento degli impulsi e la sintomatologia è spesso legata alla sfera sessuale (prime teorizzazioni). Quando le delusioni traumatiche sono intervenute nella fase edipica, si assiste ad un bisogno continuo di un oggetto da idealizzare e da cui ricevere approvazione. Nello sviluppo normale gli investimenti idealizzanti vengono progressivamente interiorizzati e si trasformano via via in una stabile idealizzazione del Super-Io, dei valori e dei principi che ne costituiscono i contenuti. Nei disturbi narcisistici le caratteristiche della traslazione idealizzante sono in qualche modo correlate al periodo in cui il processo di sviluppo del narcisismo idealizzante si è bloccato in seguito all’esperienza traumatica con l’oggetto-sé idealizzato. Anche gli “ideali” sono fonte di fiducia e sicurezza e calma. Durante l’infanzia il Sè angosciante cerca di fondersi con figure idealizzati (l’imago paterna) che servirà per favorire la tranquillità interna.

La vicinanza, il contatto ai corpi rilassati quando ci tenevano in braccio permettono un sostegno sano. Il bambino ha la possibilità di sperimentare il calore, la gioia condivisa, l’esibizione grandiosa e al contempo un atteggiamento realistico che tiene conto delle limitazioni del bambino attraverso la frustrazione ottimale, che non significa traumatica ma non empatica.

L’identità o il Sé nella sintomatologia, l’oggetto- sé arcaico caratterizzante un aspetto del Sé

I comportamenti sintomatici vanno ricondotti a quei bisogni arcaici non soddisfatti, droga e alcool sono probabilmente oggetti arcaici non separati da sé, fusi con esso per sopperire una carenza di oggetto- sé. Tali oggetti arcaici sottolineano il fallimento degli stessi, essi costituiscono la compensazione dei vuoti del Sé. La stigmatizzazione o il giudizio accentuano la rimozione dei bisogni che ne sono all’origine e, impedendone l’espressione, li rende così definitivamente non elaborabili. La comprensione della funzione protettiva della relazione con gli oggetti arcaici, riguarda la possibilità di evitare le angosce di disintegrazione. Le manifestazioni sintomatiche, permetteranno ai bisogni narcisistici di affiorare e di trovare nella relazione terapeutica una nuova possibilità di evoluzione. I deficit strutturali bloccano queste persone a configurazioni arcaiche del Sé grandioso oppure a oggetti arcaici sopravvalutati e investiti di libido narcisistica (fissati e non integrati). A differenza dello psicotico e dei casi limite, i pazienti narcisistici hanno raggiunto un Sé coeso e hanno costruito oggetti arcaici idealizzati coesivi, quindi la minaccia verso una disintegrazione del sé arcaico non è irreversibile come nei casi di psicosi.

L’identità, una seconda possibilità di esistenza: “Il Sé si esprime e matura nelle traslazioni analitiche”

Kohut, stimolato indubbiamente dalla conoscenza clinica del momento, amplia il concetto direi di persona, la umanizza, cerca di comprendere la soggettività e la formazione della sua struttura personale. Attraverso la sua esperienza personale e la sua acutezza clinica azzarda tale ambiziosa teoria che contribuisce a rendere più ottimistica la visione dell’uomo e a darli una nuova possibilità di esistenza.

Le traslazioni terapeutiche e l’empatia come strumento terapico, offrono alla persona una nuova possibilità esperienziale e relazionale. Nel contesto terapeutico il vivere nel qui ed ora i processi traslativi, attraverso il terapeuta come funzione di oggetto sé offre una nuova possibilità di strutturazione del sé.

Dalla Cura Psicoanalitica di Heinz Kohut: l’esperienza mi ha insegnato come sia errato guidare il paziente all’analisi di traumi precoci…il punto cruciale dello sviluppo successivo, quando per la seconda volta il Sé ha ricercato quelle risposte “da persone reali ” (o esperienze) che avrebbero rafforzato la sua coesione, viene rivissuto nelle decisive traslazioni che hanno luogo in analisi ed i processi di elaborazione così avviati determineranno la formazione di un Se’ strutturalmente completo e coeso. (Kohut, 1984)

La relazione terapeutica permette una nuova visione della propria identità, più strutturata e consapevole di chi siamo. Fondamentale al fine di costruire un sé sano è l’armonia di base tra il Sé e i suoi oggetti-sé. In secondo luogo devono verificarsi da parte dell’oggetto sé alcune carenze (che Kohut identifica  nelle risposte di empatia inadeguata) di grado non traumatico, la cosiddetta chiamata “frustrazione ottimale”. E’ in realtà questa una sequenza bifasica di eventi psicologici della prima infanzia che si ripetono un infinite di volte e comportano delle conseguenze:

  1. La formazione della struttura attraverso un processo chiamato interiorizzazione trasmutante;
  2. Prepara un cambiamento molto significativo nelle relazioni Sé/oggetto sé: si tratta del passaggio graduale da un sé che per sostenersi dipende da modelli arcaici di rapporto nella sfera narcisistica, in particolare da fusioni con l’oggetto sé speculare, fusioni con l’oggetto sé idealizzato e fusioni gemellari (fusioni con oggetto sé vissuto come alter ego del sé) ad un sé che diviene gradualmente capace di essere sostenuto, per la maggior parte del tempo, attraverso la risonanza empatica da oggetti sé presenti anche nella vita adulta. Per poter guarire con la psicoanalisi il paziente deve essere capace di assumere dentro di sé l’analista come oggetto – sé, riattivando quel gruppo di esperienze interiori chiamate “traslazioni oggetto- Sé”.

Il Sé che soffre di una nevrosi da conflitto, o di un disturbo narcisistico della personalità o del comportamento, è un individuo cui il sé residuo è ancora potenzialmente alla ricerca di oggetti sé che li diano risposte adeguate. La parte del sé residua può essere rimossa o scissa e può essere alla ricerca di oggetti sé che rispondano in modo adeguato.

Secondo la psicologia del sé quindi l’essenza della guarigione psicoanalitica risiede nella nuova capacità del paziente di identificare e trovare oggetti – sé appropriati, sia speculari che idealizzabili, quando essi si presentano nel suo ambiente reale e di essere sostenuto da essi. L’analisi quindi permette l’acquisizione di una struttura psicologica più solida; questo però non la rende indipendente dagli oggetti sé ma accresce la capacità del Sé di usare oggetti – sé per sostenersi, nonché la libertà di ricercare oggetti sé più maturi. Quindi durante la traslazione terapeutica si ha una riattivazione delle strutture arcaiche che Kohut chiama regressione, senza il pericolo di una frammentazione (come invece avviene nei casi di psicosi).

E’ un lavoro delicato in cui si attivano processi che si alternano a volte si confondono, ma il fine ultimo è la coesione e il sentirsi in diritto di esistere come persone in un contesto appartenente al genere umano di persone se pur diverse.

L’obiettivo del trattamento è la riabilitazione delle strutture imperfette o indebolite del Sé. Questo è possibile solo mobilitando i bisogni arcaici, rimasti insoddisfatti perché rimasti privi di risposta e per questo profondamente rimossi o scissi dal settore centrale della psiche.

E’ questo un tentativo di Kohut di dare delle risposte concettuali che partono dalla clinica e ciò che avviene nel processo analitico in cui per l’appunto si attivano delle traslazioni che vanno comprese e supportate. E’ una psicologia che si integra con altre psicologie, “la relazionale” e “l’intersoggettiva in cui viene ripresa ed ampliata la dinamica inconscia che spesso irrigidisce i processi mentali”.

Conclusioni

La sopravvivenza psicologica del bambino e poi adulto richiede un ambiente psicologico specifico, la presenza di oggetti sé che rispondano empaticamente ai bisogni personali. Gli oggetti sé si formano dalla relazione con gli altri significativi, sono funzioni esterne e reali capaci di strutturare il proprio sé in modo coeso ed integrato in termini di equilibrio narcisistico e autostima e struttura coesa. Gli “altri” reali sono necessari per creare un senso di onnipotenza sana e conferma della propria autoefficacia (tramite il rispecchiamento) per rafforzare  un senso di sicurezza per affrontare la vita con fiducia e creatività. Tale processo di integrazione comincia sin dalla nascita e gli oggetti sé servono per costruire strutture interne per un equilibrio narcisistico in termini di autostima e accettazione di Sé. Il Sé autonomo, tuttavia non è una replica di oggetti Sé, ma da una possibilità di avvio e autorealizzazione per la propria identità alla ricerca di oggetti sé maturi.

 

Le origini della teoria dell’attaccamento

Bowlby nelle sue teorizzazioni parla della fame del bambino per l’amore e la presenza della madre e definisce il comportamento di attaccamento come un modo di agire che si presenta in un individuo che consegue o mantiene una vicinanza nei confronti di un’altra persona, identificata chiaramente e ritenuta in grado di riuscire ad affrontare le diverse situazioni ambientali in modo adeguato.

 

I primi studi di Bowlby furono sull’esperienza di separazione e sulla privazione della madre nei bambini e mostrarono come questi ultimi sperimentavano un intenso dolore rispetto alle separazioni e che, a lungo termine, potevano portare alle nevrosi ed alla delinquenza, sia nei bambini che negli adolescenti, ed alla malattia mentale negli adulti (Holmes, 1994). La teorizzazione di Bowlby, che parla di fame nel bambino per l’amore e la presenza della madre, si discosta dalle descrizioni psicanalitiche della relazione madre-bambino del suo tempo, che vedevano in questo legame un tipo d’amore interessato e volto al soddisfacimento pulsionale (ibidem). Proprio dalla critica di Bowlby alla psicanalisi e dalle scoperte in ambito etologico, prende le mosse la teoria dell’attaccamento.

L’importanza dell’attaccamento deriva sia dagli esperimenti di Lorenz (1989) sui piccoli di oca, dove il legame tra piccolo e madre, o il surrogato della madre, era indipendente dal cibo e prescindeva dal nutrimento, sia dagli esperimenti di Harlow (1958) sui piccoli di scimmie Rhesus che, separati dalle loro madri, vengono allevati da due “madri fantoccio”, una dotata di biberon, l’altra senza biberon ma fatta di stoffa morbida: i piccoli primati mostrarono una preferenza per la madre di stoffa con la quale passavano gran parte del giorno e dalla quale si allontanavano solo per andare a mangiare da quella dotata di biberon. Se l’esperimento di Lorenz aveva dimostrato che il legame è svincolato dal nutrimento, Harlow dimostrò che è possibile nutrirsi senza stabilire un legame (Holmes, 1994).

Grazie all’influenza degli studi sopracitati a lui contemporanei e di molti altri, Bowlby ipotizza una predisposizione biologica nei neonati nei confronti di una persona, basata su una motivazione intrinseca e che, fin dalla nascita, il bambino sia dotato di sistemi motivazionali specie-specifici, ovvero di una serie di comportamenti innati slegati da apprendimenti precedenti attivati da fattori esterni, come l’assenza e il ritorno della figura di attaccamento, e da fattori interni, come la fatica e la sofferenza. Per Bowlby il comportamento di attaccamento risulta essere, dunque, un modo di agire che si presenta in un individuo che consegue o mantiene una vicinanza nei confronti di un’altra persona, identificata chiaramente e ritenuta in grado di riuscire ad affrontare le diverse situazioni ambientali in modo adeguato. Questo comportamento si fa esplicito ogni volta che l’individuo è spaventato, affaticato o malato, e si affievolisce quando si ricevono conforto e cure (Bowlby, 1995). L’attaccamento riveste una specifica funzione biologica che è quella della protezione: esso permette di rimanere nelle vicinanze di una persona che si reputa familiare, pronta e disponibile per venire in aiuto in caso di pericolo (ibidem).

C’è una distinzione da fare, però, tra concetti strettamente connessi tra di loro che sono: attaccamento, comportamento d’attaccamento e sistema dei comportamenti di attaccamento. L’attaccamento è un termine generico che fa riferimento

allo stato e all’attualità degli attaccamenti di un individuo che possono essere divisi in attaccamenti sicuri e insicuri (Holmes, 1994, p.72).

Per comportamento di attaccamento intendiamo una qualsiasi condotta che si manifesta in un individuo per ottenere o mantenere la vicinanza a qualcun altro differenziato o preferito; questo comportamento è attivato dalla minaccia, dalla reale separazione o dall’allontanamento dalla figura d’accudimento e diminuisce attraverso la vicinanza a quest’ultima. I concetti sopracitati, di attaccamento e comportamento d’attaccamento, si basano sul sistema dei comportamenti di attaccamento, dove vengono rappresentati il sé, gli altri significativi e la loro relazione e che codifica lo specifico pattern di attaccamento mostrato.

Una relazione di attaccamento può essere definita sulla base di tre caratteristiche fondamentali (ivi):

  • la ricerca di vicinanza a una figura preferita: il grado di vicinanza dipenderà dalle circostanze e da diversi fattori individuali. Nel cercare la vicinanza, però, si predilige una figura discriminata o un piccolo gruppo di figure;
  • l’effetto “base sicura”: Mary Ainsworth fu la prima a parlare di base sicura per descrivere la sensazione creata dal caregiver per la persona che le si attacca. La base sicura diventa, a sua volta, un trampolino per iniziare l’esplorazione e, quando un pericolo diventa incombente, si ritorna e si cerca nuovamente la vicinanza delle figure di accadimento (Holmes, 1994);
  • protesta per la separazione: Bowlby identificò la protesta come la prima risposta nei bambini alla separazione dai genitori e come la migliore prova per identificare un legame d’attaccamento (ibidem).

Bowlby usa la nozione di modelli operativi interni non funzionali per descrivere i differenti pattern di attaccamento nevrotico (Holmes, 1994). Infatti, oltre ad un tipo di attaccamento sicuro, che deriva dall’interiorizzazione da parte del bambino di un modello operativo interno che comprende una persona che si prende cura di lui, sensibile e affidabile e una rappresentazione di sé come degno di amore, esiste anche un tipo di attaccamento insicuro che porta il bambino a vedere il mondo come un posto pericoloso e a considerare se stesso come non degno di amore (ibidem). Questo tipo di attaccamento insicuro deriva da un tipo di caregiver rifiutante o imprevedibile e le due strategie di base utilizzate in questo caso sono l’evitamento o l’adesione, che porteranno ad un tipo di attaccamento insicuro evitante o insicuro ambivalente.

Sarà, però, la Ainsworth a descrivere queste categorie per la prima volta, arricchite poi dalla Main (Main, Kaplan & Cassidy, 1985) e altri autori come Sroufe (1983). Mary Ainsworth, allieva di Bowlby, partendo da alcune ricerche svolte negli Stati Uniti e in Uganda sulle interazioni tra madre e bambino, ideò la Strange Situation, una tecnica che serve a misurare l’attaccamento del bambino, basata sull’osservazione sistematica dell’interazione del bambino con il caregiver in un ambiente strutturato. La Strange Situation si pone come obiettivo quello di intensificare, oltre che attivare, i comportamenti di attaccamento nel bambino, mettendolo in una condizione di stress moderato, che aumenta nel corso dell’osservazione. L’aggettivo attribuito alla prova “strange” sta proprio a significare che l’ambiente non risulta essere familiare (si tratta di un laboratorio) e che, in aggiunta, il bambino si trova in presenza di una persona a lui estranea; la situazione prevede nel corso dell’esperimento una serie di separazioni e ricongiungimenti durante otto episodi in un ordine prestabilito (Santrock, 2013). Grazie all’osservazione in questo specifico setting, è possibile arrivare alla classificazione dei diversi tipi di attaccamento, prendendo come riferimento la funzione della base sicura di aprire il bambino all’esplorazione, le risposte del bambino all’estraneo e alle continue separazioni e riunioni e, infine, la qualità del gioco e dell’esplorazione. Si rilevano, in questa maniera, tre tipi diversi di attaccamento: quello sicuro, quello insicuro evitante e quello insicuro resistente (Main, 2008; Santrock, 2013). Solo successivamente la Main aggiunse un quarto tipo di attaccamento denominato disorganizzato (Main & Salomon, 1990).

 

Il setting terapeutico negli interventi di tele-psicologia durante l’emergenza covid19

L’emergenza coronavirus ha inevitabilmente compromesso la pratica con la quale le normali attività psicologiche si pongono nei confronti degli utenti. Che si parli di realtà lavorative, associative, pratiche mediche o ludiche, il distanziamento sociale imposto dalla diffusione del virus e prescritto dalle autorità ha portato alla luce tutti i limiti di una gestione basata sulla vicinanza e sul rapporto umano, gestione particolarmente affine a determinate pratiche psicologiche.

 

Quando si parla di psicologia, che ci si riferisca alla psicoterapia o a colloqui di supporto psicologico, ci si approccia ad un mondo fondato sul rapporto con il paziente / utente e sull’alleanza terapeutica. Questi aspetti sono fondamentali per la buona riuscita di un qualsivoglia intervento che sia esso di breve o lunga durata. L’ alleanza terapeutica è legata indissolubilmente alla buona pratica psicologica e, a prescindere dai differenti approcci e dalle varie forme di intervento, il distanziamento sociale pare creare un vero e proprio muro tra le parti in gioco.

A fronte di questa condizione e considerando la situazione di estrema difficoltà gli operatori del settore si sono trovati a dover somministrare interventi di psicologia d’emergenza. La richiesta attuale è la seguente: squadre di soccorritori e/o lavoratori del campo sanitario o di pubblica sicurezza o di gestione di protezione civile si trovano sovraccarichi emotivamente e psicologicamente. Il personale è ridotto e la richiesta è molta quindi tali squadre sono impegnate al massimo delle possibilità per far fronte alla pandemia. Alla quotidianità degli interventi di soccorso e aiuto si somma il crescente numero di interventi per Covid19, che per la loro natura innovativa e imprevedibile aumentano sensibilmente la soglia di stress individuale incrementando il rischio per i soccorritori di sviluppare problematiche psicologiche con conseguenze drammatiche per il loro futuro. Come rispondere a tali richieste mantenendo il distanziamento sociale? In questo caso l’unica soluzione è attuare interventi da remoto, utilizzando piattaforme online o tramite telefonata. Nel caso specifico in cui mi sono trovato ad operare la piattaforma online è risultata particolarmente versatile e adattabile al contesto dell’intervento.

Quando si opera in psicologia d’emergenza solitamente non vengono forniti servizi di psicoterapia e terapia a medio o lungo termine, ma si attuano singoli interventi specifici che servono ad abbassare la soglia di stress e aiutano a metabolizzare l’accaduto. Questi interventi solitamente comprendono un incontro con un’utenza massima di 4/5 persone per una durata media di 2 ore e mezzo e servono ad abbassare sensibilmente l’opportunità di sviluppare in futuro episodi di stress acuto o patologie correlate allo stress quali per esempio il DSPT. Chi opera nel campo della psicologia conosce l’importanza di un fattore essenziale: il setting terapeutico. Trovandosi ad operare da remoto si ha il controllo su quasi tutta la procedura e per alcuni aspetti, quali la capacità di dialogo tra psicologo-assistente e la possibilità di condurre l’intervento, il setting a distanza diventa quasi uno strumento sorprendentemente migliorativo, se non essenziale della pratica. Il problema però rimane lo stesso, come gestire a distanza un setting terapeutico casalingo o improvvisato? Abbandoniamo l’idea del safe-place dove discutere senza venire interrotti, senza distrazioni o rumori; l’intero ambiente è sicuro proprio perché controllato nei minimi dettagli dai conduttori, il cui unico scopo è indagare il vissuto dell’utente e aiutarlo in questo difficile momento. Tutto questo scompare e ci si trova improvvisamente ad avere a che fare con le persone nell’intimità della loro abitazione (il più delle volte) o in luoghi pubblici improvvisati (per fortuna più raramente). Questo limita non solo la capacità dei conduttori di svolgere l’intervento ma pone un limite altrettanto rilevante al raggiungimento di quella condizione di safe-place che è requisito basilare per una corretta fruizione di un intervento psicologico da parte degli utenti. Essi si trovano infatti nel salotto di casa, accanto le fotografie di famiglia, oppure in camera da letto, luogo intimo per eccellenza, con la costante minaccia di essere disturbati dal telefono, dai figli o da altri parenti che passeggiano nell’abitazione. Perché non dimentichiamo che, se la maggior parte degli utenti sono operatori costretti al lavoro, in questi giorni di isolamento forzato, molto spesso i loro famigliari invece sono costretti tra le mura domestiche e quindi si moltiplicano le probabilità di essere disturbati anche involontariamente dai coinquilini che condividono volenti o nolenti l’abitazione con la persona sottoposta all’intervento psicologico a distanza.

Come gestire il setting? Quali sono i limiti e/o le possibilità di tale situazione? Il limite più manifesto di questo setting è l’impossibilità da parte dei conduttori di gestire completamente l’ambiente in cui l’intervento viene somministrato, di conseguenza viene perso parte del controllo che solitamente viene attuato al fine di costruire e co-costruire con l’utente un luogo sicuro e privo di distrazioni che permetta di scorrere indisturbati, concentrandosi completamente sugli individui e sull’andamento dell’intervento stesso. Vero, si tratta di un limite importante ma la psicologia deve adattarsi e trovare nuove soluzioni anche a costo di cambiare la sua pratica e di accettare di cedere parte del controllo alla casualità degli eventi. Una possibilità emersa durante questi interventi di tele-psicologia è l’eventualità che la persona riesca a trovarsi maggiormente a suo agio proprio perché tra le mura domestiche. L’eliminazione del setting terapeutico da un certo punto di vista diluisce l’immagine pregiudiziale dell’intervento psicologico che solitamente accompagna il soggetto e lo scoraggia dal partecipare attivamente (o dal non partecipare proprio) all’intervento. Da questo punto di vista quindi si può affermare che le persone si sentono più motivate a partecipare sia in termini numerici che qualitativi. Parlare e discutere a distanza, dalla propria casa, per alcuni è un incentivo alla partecipazione e questo spesso risulta in un sensibile aumento del tempo trascorso durante gli interventi. Questo chiaramente non vale per tutti: chi opera nel campo psicologico sa benissimo che ogni persona reagisce e si comporta in modo diverso sulla base dei propri vissuti e dei costrutti biografici quindi per alcuni un “setting disturbato” o comunque non asettico può creare dei problemi.

Come risolvere in questi casi tale problema? Se è vero che alcune persone si sentono a proprio agio tra le mura domestiche, è vero anche che l’importanza di un luogo neutro e condotto da professionisti trascende dal semplice “sentirsi a proprio agio” e permette di attuare l’intervento in un modo standardizzato (per quanto possibile) ed efficiente. In questo momento, come già detto, è necessario attuare un piano organizzativo che permetta la fruizione di interventi di psicologia d’emergenza al personale che si trova a lavorare quotidianamente nell’emergenza Covid19. Stiamo parlando principalmente di soccorritori e personale sanitario, forze di polizia, forze armate e personale di protezione civile nonché lavoratori di settori specifici (spesso dimenticati) che si trovano ad operare nel settore. Facendo queste persone parte di organizzazioni / istituzioni potrebbe essere interessante riuscire a stabilire un luogo idoneo da parte di tali organizzazioni / istituzioni adibito al setting terapeutico. Tramite il consiglio di esperti sarebbe utile creare una stanza-setting all’interno delle varie strutture sanitarie, governative o associative dove il personale, collegandosi da remoto, possa fruire liberamente del servizio. In questo modo le persone potranno scegliere, anche sulla base della disponibilità personale, quale setting preferiscono. Chi possiede una abitazione grande o tranquilla potrà usufruire del servizio direttamente tra le mura domestiche, chi invece non è in grado di permettersi un setting di questo tipo potrà fare affidamento sulla stanza-setting predisposta dalle autorità / organizzazioni. Per quanto riguarda la pratica psicologica, e non solo, dobbiamo fare i conti con la possibilità che questa emergenza si prolunghi (magari con modalità di restrizione diverse) per un periodo di mesi se non addirittura di anni e sarebbe da irresponsabili evitare di prepararsi per interventi da remoto a lungo termine. Istituire un luogo e adibirlo a setting a distanza credo sia un punto necessario per iniziare a fornire un servizio al personale coinvolto nell’emergenza che sia il più democratico possibile. Sotto le indicazioni dei professionisti del settore, si può arredare in modo semplice e funzionale un safe-place che abiliti la somministrazione di interventi di psicologia d’emergenza, pratica necessaria per permettere al personale impiegato di continuare a lavorare in sicurezza fisica e psicologica, promuovendo al tempo stesso la cura del benessere mentale.

 

Discriminazione sessuale e abuso di sostanze

Sembra che chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali. A cosa è dovuto? La teoria del minority stress.

 

I Disturbi da Uso di Sostanze interessano circa 20 milioni di adulti negli Stati Uniti (Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2018) e includono i disturbi da uso di alcol (AUD), da uso di sostanze (DUD) e da uso di tabacco (TUD; APA, 2013). Questo genere di disturbi ha un impatto significativo sulla mortalità negli Stati Uniti, nonché dei costi elevati per i familiari, costretti il più delle volte a pagare cure dispendiose, centri di recupero ed essere soggetti a furti da parte del parente con una dipendenza (Whiteford et al., 2015).

Chi ha un orientamento sessuale o un’identità di genere non maggioritario, ovvero le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender – o transessuali –, queer, intersessuali e asessuali) ha un rischio significativamente maggiore di fare uso o di abusare di alcol e sostanze stupefacenti rispetto agli eterosessuali, anche nel caso in cui le caratteristiche socioculturali e demografiche siano le medesime (Kerridge et al., 2017). In particolare, chi fa parte di una cosiddetta “minoranza sessuale” ha maggiori probabilità di avere una diagnosi di AUD (Allen & Mowbray, 2016), una di TUD (McCabe et al., 2018) e una di disturbo da uso di marijuana (McCabe et al., 2009).

Il minority stress è la motivazione più scientificamente fondata a sostegno di questa differenza nell’abuso di sostanze tra le minoranze sessuali; questo è dovuto principalmente al fatto che le minoranze sessuali sono sottoposte a un numero significativamente maggiore di fattori di stress cronici nel corso della vita. I fattori di stress cronici comprendono pregiudizio, discriminazione, stigma relativo all’orientamento e/o all’identità di genere o la paura di subire discriminazioni dalla società (Meyer, 2003).

Alcune ricerche condotte di recente, hanno evidenziato che l’abuso di sostanze, correlato a un orientamento sessuale e/o un’identità sessuale non maggioritaria, varia anche in base all’età anagrafica: le esperienze di discriminazione di individui appartenenti a minoranze sessuali giovani possono infatti essere differenti da quelle dei soggetti più anziani (Hammack et al., 2018).

A questo proposito, il presente studio (Evan-Polce et al., 2020), si è posto l’obiettivo di indagare la correlazione esistente tra età anagrafica, orientamento e/o identità sessuale e AUD, TUD e DUD. Il campione, composto da 2375 soggetti, includeva individui eterosessuali, omosessuali e bisessuali.

I risultati hanno mostrato che la discriminazione sessuale era più evidente durante la prima infanzia, ma riportava un’associazione statisticamente significativamente con AUD, TUD e DUD solamente in età più avanzata. Le correlazioni più significative tra abuso di sostanze e orientamento sessuale sono state riscontrate tra i 24 e i 40 anni per l’AUD, tra i 32,5 e i 42,9 anni per il DUD e tra i 39,3 e i 43,2 anni per il TUD. Coloro che venivano discriminati per il loro orientamento sessuale intorno ai 30 anni di età avevano una possibilità 2,1 volte superiore di abusare di alcolici rispetto a coloro che non venivano discriminati e agli eterosessuali (Evan-Polce et al., 2020).

In conclusione, lo studio condotto dimostra che è tuttora presente una forte correlazione tra discriminazione sessuale e abuso di sostanze e di alcolici, in particolare per i giovani adulti, sottolineando il rischio psicologico dello stigma sociale, purtroppo ancora duro a morire.

 

Gli effetti della ruminazione depressiva

Quali sono gli effetti che la continua ruminazione produce sull’individuo? L’attenzione tende a focalizzarsi sulle perdite passate e sugli errori commessi portando a fare paragoni e confronti negativi tra sé e gli altri e ad emettere giudizi svalutativi nei propri riguardi. Si verificano difficoltà nella presa di decisioni e nel problem solving, domina il pessimismo, si riscontrano scarsa flessibilità cognitiva e difficoltà interpersonali e tutto ciò concorre a mantenere ed incrementare l’umore negativo.  

 

Una volta attivata, la ruminazione depressiva produce conseguenze sia a livello cognitivo che emotivo e comportamentale. L’individuo è indotto in uno stato emotivo negativo caratterizzato da senso di scoraggiamento, persistente evitamento delle situazioni ed utilizzo di domande afinalistiche come “perché mi accadono solo cose negative? Perché mi sento sempre così triste? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” (Watkins, 2016).

Livello cognitivo

A livello cognitivo la ruminazione comporta: scarse capacità di problem solving, riduzione della concentrazione, distorsione degli schemi di giudizio, indebolimento della performance cognitiva ed aumento dello stress (Lyubomirsky e Tkach, 2004).

Riguardo la capacità di problem solving, nella ruminazione si è indotti a porsi domande generali ed astratte piuttosto che quesiti specifici e concreti e ciò, oltre a ridurre la facoltà di trovare soluzioni pratiche, aumenta la percezione di senso di impotenza e la sensazione di essere “senza speranza” (Watkins e Barcaia, 2001).

Rispetto all’abbassamento della performance cognitiva, collegata alla ridotta capacità di concentrazione, questa può interferire con lo svolgimento di prestazioni lavorative e più in generale con lo svolgimento di attività quotidiane. Ciò avviene in quanto i pensieri ruminativi tendono ad intrudere nelle occupazioni che si stanno svolgendo, comportando sia una riduzione della quantità di informazioni che possono essere elaborate in parallelo sia una riduzione nella velocità del compito che ha, come conseguenza, il depauperamento delle risorse attenzionali dirette verso il compito specifico e la diminuzione delle prestazioni cognitive (Baddley e Hitch, 1994).

Passiamo ora alla distorsione degli schemi di giudizio cognitivi (Lyubomirsky e Tkach, 2004) caratterizzati da aumento del ricordo di episodi autobiografici negativi (Lyubomirsky, Caldwell e Nolen-Hoeksema, 1998), intensificazione del pensiero negativo riguardo al futuro (Lavender e Watkins, 2004) e accrescimento delle interpretazioni negative in termini di valutazione globale di sé (Rimes e Watkins, 2005). Il soggetto è portato ad incolparsi per i problemi, si considera incapace, sfortunato e/o mancante di alcune abilità normali. Tali schemi di giudizio, agendo come chiavi di lettura della realtà, hanno l’effetto di produrre costanti esperienze di deflessione del tono dell’umore che riattivano la ruminazione in un ciclo auto-perpetrantesi.

Infine un ultimo effetto del pensiero ripetitivo a livello cognitivo è l’aumento dello stress, a sua volta correlato a problemi di salute fisica. Prolungando infatti l’arousal psicologico e fisiologico che accompagna lo stress si produce un’elevata attivazione del sistema autonomo, in particolare della pressione arteriosa, che, prolungando le emozioni negative, incide sul livello di stress (Gerin et al., 2006).

Livello emotivo

A livello emotivo la ruminazione depressiva comporta un peggioramento dell’umore, della tristezza, del senso di disperazione ed anche di altre emozioni, come vergogna, colpa e rabbia, soprattutto indirizzate verso sé stessi. La persona tende a sentirsi maggiormente impotente, incompresa e sola ed a questo si associa un peggioramento delle convinzioni negative di sé, del mondo e del futuro, la cosiddetta “triade cognitiva” di Beck.

Piano comportamentale

Sul piano comportamentale l’individuo tende maggiormente ad isolarsi, a procrastinare e ad essere inattivo (Rainone e Mancini, 2018).

L’evitamento nasce dalla volontà di voler meditare sui propri problemi al fine di trovarvi soluzione. In realtà ciò che accade è che, oltre a non intraprendere azioni concrete per la risoluzione di problemi, la ruminazione riduce al minimo gli stimoli distrattori che potrebbero portare ad interrompere tale processo. Ciò ha l’effetto paradossale di portare la persona a concentrare l’attenzione su di sé, mantenendo l’umore depresso ed incrementando la ruminazione che diviene una potenziale causa e conseguenza dell’evitamento (Carver e Scheier, 1981).

Riguardo la riduzione della motivazione e l’inibizione del comportamento strumentale, l’individuo a seguito della focalizzazione sui sintomi depressivi è portato a pensare di non disporre di strategie utili alla risoluzione dei problemi o di non riuscire più a provare piacere nello svolgimento delle attività quotidiane e ciò, di conseguenza, lo spinge a non impegnarsi in attività costruttive ed adattive (Lyubomirski e Tkach, 2004).

Rispetto alle relazioni sociali, la ruminazione può associarsi sia alla tendenza a dimenticare impegni amicali e professionali sia alla difficoltà a prendersi adeguatamente cura della propria persona, con il risultato, in entrambi i casi, di un peggioramento delle abilità di coping e di un aumento del rischio di fallimento che mantiene e peggiora lo stato depressivo (Seligman, 1975). Chi rumina infatti può faticare a rimanere attento in uno scambio relazionale a causa della costante interferenza prodotta dalla ruminazione stessa o può, tramite il suo stile pessimista e lamentoso, generare risposte negative di allontanamento e rifiuto da parte delle altre persone (Papageorgiou e Wells, 2008). Inoltre il timore di essere abbandonati porta a cercare di evitare situazioni sociali, creando un effetto paradosso, per cui si avvera proprio ciò che si teme. Infine la persona, tendendo a sentirsi più responsabile del tono emotivo delle sue reazioni (Nolen-Hoeksema e Jackson, 2001) e prestando molta attenzione ad ogni sfumatura del suo rapporto interpersonale rispetto a possibili pericoli, alimenta la ruminazione stessa.

L’insieme di questi risultati sembra quindi confermare come la ruminazione depressiva sia una strategia disfunzionale di regolazione delle emozioni associata a disfunzioni cognitive, emotive e comportamentali che contribuiscono al mantenimento e all’inasprimento di sentimenti negativi (Daches et al., 2010).

 

Il disturbo dissociativo e l’attaccamento disorganizzato: una possibile relazione

Recenti studi hanno identificato l’esistenza di una possibile relazione tra attaccamento disorganizzato infantile e sintomi dissociativi in età adulta, fondando questa ipotesi a partire dalle analogie riscontrabili tra i due aspetti patologici.

 

Per comprendere la natura di questo legame è necessario definire il concetto di dissociazione come uno stato psichico la cui presenza causa una totale disconnessione tra memoria, attenzione, identità, aspetti che in condizioni non patologiche funzionano a livello sintetico e collaborativo. Freud (1920; 1925)  definiva l’episodio di dissociazione come un meccanismo di difesa che intercorre dopo un evento di particolare impatto emotivo, identificabile, nella maggioranza dei casi, con un trauma che spinge l’Io a distanziarsi dall’evento disgregante per non doverlo affrontare né rielaborare, fin tanto da non riconoscerlo come proprio (negazione) o da ritenere che lo stesso sia mai accaduto (diniego).

Janet dà invece una definizione diversa di trauma, che ben poco ha a che vedere col meccanismo di difesa ipotizzato da Freud. La dissociazione che consegue al trauma viene in questo caso definita come un fallimento della sintesi personale, intesa come adattamento funzionale all’ambiente, che costituisce l’obiettivo principale dell’attività mentale (1889; 1907). Questo fallimento non può venir causato solo dal trauma, ma da qualunque altra situazione ad impatto emotivo particolarmente disgregante, come emozioni violente, malattie, lutti: in ogni caso in cui il meccanismo dissociativo viene messo in azione, ad ogni modo, non si tratta di un meccanismo di difesa dell’Io, quanto di una conseguenza del trauma stesso, quel trauma che provoca il crollo della coerenza dei processi mentali adattivi in grado di garantire il mantenimento di un Sé integrato. La memoria dell’evento traumatico assume in questo frangente uno stato subconscio, e non perché la mente la rimuove in un tentativo di autoconservazione, come sostenuto dalla teoria freudiana, bensì perché la memoria stessa non riesce mai a raggiungere una rappresentazione pienamente conscia, verbalizzata, traducibile in elemento narrativo, rimanendo al contrario imprigionata in una serie di memorie implicite non accessibili alla coscienza (1889; 1907). D’altro canto la possibilità di narrare un episodio occorso in un determinato luogo e momento esplicita il maggior successo della sintesi personale teorizzata da Janet, funzione che proprio dal trauma viene impedita. La mente deve creare ordine e coerenza tra i suoi contenuti: ove fallisca in quest’impresa a causa del trauma anche la sintesi personale vedrà il proprio fallimento, e l’elaborazione mentale resterà allo stato confusionale della dimensione subconscia.

Analogie tra disturbo dissociativo e attaccamento disorganizzato

Le caratteristiche del disturbo dissociativo sono afferenti ad esperienze incongruenti, disorganizzate, spesso instabili, confabulatorie a livello cognitivo, anamnestico. Le medesime caratteristiche si riscontrano nei soggetti con attaccamento disorganizzato, tanto che tra i disturbi è stato possibile parlare di una somiglianza fenotipica. Ciò non significa che alla base dei due disturbi ci siano i medesimi processi eziologici, ma la somiglianza tra attaccamento disorganizzato e disturbo dissociativo rende plausibile l’ipotesi che il concetto di Janet, relativo all’esperienza dissociativa come ad un fallimento della sintesi personale, possa risultare applicabile a processi mentali dissociati osservati nei soggetti adulti sottoposti all’AAI e nei bambini considerati disorganizzati nella Strange Situation (Main e Morgan, 1996). In entrambi i casi si sono infatti rilevati aggressività agita e comportamenti incoerenti con il contesto, e per quanto riguarda gli adulti anche deficit metacognitivi nel monitoraggio del ragionamento e del discorso.

Questo aspetto di mancata integrazione, incoerenza e imprevedibilità potrebbe essere dovuto alla mancata verbalizzazione dell’esperienza traumatica che ne impedisce anche la riorganizzazione e la rievocazione mnestica, la cui origine può venir identificata, sia per la dissociazione sia per l’attaccamento disorganizzato, in un mancato coordinamento integrativo tra memoria implicita e memoria esplicita, relativo a ricordi semantici ed episodi (Liotti, 1999). I bambini con attaccamento disorganizzato, esattamente come i soggetti dissociati di fronte al ricordo dell’esperienza traumatica, sono incapaci di sintetizzare in una struttura mnestica coesa la loro esperienza complessiva con la figura di accudimento, e formano al contrario una serie di ricordi composti da significati separati e inconciliabili (Putnam, 1995). Tale incongruenza mnestica a livello verbale e cognitivo non rappresenta un vero e proprio meccanismo di difesa, quanto un meccanismo di sopravvivenza cui il bambino ricorre per evitare la realtà traumatica, e che si traduce immancabilmente in una rottura primaria dei processi intersoggettivi da cui deriverebbe una vera e propria assenza mentale, una dissociazione dal Sé (Stolorow et al., 1992).

Nel caso dei soggetti con attaccamento disorganizzato vediamo come questo possa essere causato altresì dall’incongruenza dei MOI che il bambino sperimenta attraverso un’interazione genitoriale connotata da aspetti incoerenti e contraddittori: così, se il bambino con attaccamento evitante riesce a predire il rifiuto del genitore e quello con attaccamento ansioso riesce a predirne l’ambivalenza e l’insicurezza, al bambino con attaccamento disorganizzato tale possibilità di previsione è negata dalla presenza di una figura genitoriale disconnessa e instabile. È infatti probabile che in un’occasione il comportamento del caregiver risulti eccessivamente intrusivo o controllante, e in una situazione completamente analoga esso mostri aspetti comportamentali totalmente antitetici. Il bambino, disorientato e confuso da tali cambiamenti, impara così a non fare affidamento sul comportamento del genitore, del quale riflette l’instabilità in una serie di comportamenti contraddittori, scissi e inconciliabili che lo rendono talvolta controllante e iperprotettivo verso il caregiver, e altre volte ostile, scontroso, evitante. Nei casi di maltrattamento la situazione appare ancora più disastrosa: i bambini che ne risultano oggetto non possono esplicitare ricordi in cui stati d’animo come la paura, l’angoscia, la rabbia e il sollievo si succedono drammaticamente sia nel Sé che nella percezione della figura di attaccamento, e le strutture di significato che derivano da queste esperienze sono ancora più incomprensibili e polisemiche (Liotti, 1992; Main e Morgan 1996).

Nello specifico i bambini che non riescono a spiegarsi il comportamento abusante del genitore, si risolvono ad una serie di interpretazioni patologiche che condizionano il loro sviluppo emotivo e cognitivo: così possono, simultaneamente e con la stessa probabilità, ritenersi colpevoli di certi atteggiamenti del genitore, e dunque di meritarli, oppure possono considerare la figura di attaccamento come causa diretta della loro paura, o al contrario possono ritenere se stessi in grado di salvare la figura genitoriale da un pericolo esterno. I MOI tipici di tali contesti evolutivi, anziché apparire coesi ed integrati, sono dunque frammentati in una serie di interpretazioni polisemiche e sconnesse che rendono il bambino vittima, salvatore o aggressore, nel c.d. triangolo drammatico, in grado di ostacolare gravemente la sintesi mentale di un Sé unitario (Liotti, 1999). Questo aspetto della disorganizzazione infantile ha corroborato l’ipotesi che considera l’attaccamento disorganizzato nella prima infanzia come predittore dello sviluppo dissociativo in adolescenza e nell’età adulta. Così il bambino che si sente contemporaneamente vittima e carnefice del genitore potrebbe risultare un adulto il cui Sé appare inconsapevolmente collegato ad aspetti altalenanti tra punizione e accudimento, tra persecuzione e cura: da qui l’origine di microdissociazioni incontrollabili, di esperienze del Sé e del Sé con l’altro non integrate che si sublimano nel disturbo dissociativo (Main e Cassidy, 1988).

Tanto premesso è tuttavia doveroso precisare come il legame tra attaccamento disorganizzato in età infantile e disturbo dissociativo in età adulta non costituisce un automatismo: molti fattori protettivi sono infatti in grado di escludere questa infausta relazione, quali la presenza di una figura familiare di attaccamento diversa e più sicura di quella genitoriale, rapporti extra-familiari funzionali, una comunicazione relativamente libera e sincera con una figura disponibile, la tempestiva presa in cura del caregiver che consenta un recupero dalla disfunzionalità del trauma e della sua sofferenza irrisolta. Questo e altri fattori protettivi sarebbero dunque in grado di consentire, anche in situazioni disorganizzate, un livello di sintesi personale capace di impedire a sua volta la formazione di significati del Sé contraddittori, e dunque dissociati, nell’adulto (Gilbert, 1989; Liotti, 1999).

Conclusioni

Effettuate le dovute precisazioni, sembra che l’attaccamento disorganizzato sia la via prototipica, sebbene non la sola, per la costruzione di ricordi incongruenti che impediscono la sintesi personale del Sé come intesa da Janet, e quindi il legame tra emozioni dolorose e trauma non deve essere considerato necessariamente come una difesa da emozioni dolorose, ma anche e soprattutto come la riaffermazione di significati polisemici e incongruenti concernenti la separazione del Sé con l’altro. Proprio le rappresentazioni del Sé con l’altro che derivano da questo processo si mostrano precoci, instabili, incongruenti, congelate, inflessibili o sin troppo mutevoli, e non alternativamente, bensì contemporaneamente, dando vita a quell’instabilità e a quella mutevolezza patologica tipica dello stato dissociativo.

Secondo questa teoria, le esperienze dissociative quali flashback, depersonalizzazione, amnesia, esperienze extracorporali e vissuti di trance, potrebbero venir intese sia come il risultato di emozioni dolorose e non rielaborate, sia come il fallimento di una sintesi mnestica e cognitiva, quindi della coscienza personale stessa, derivante dalla disfunzione dei processi impliciti nella costruzione dei modelli operativi di attaccamento (Liotti, 1999).

 

Cognitivismo Clinico: proposte di intervento clinico e nuove prospettive in terapia cognitiva- Editoriale

Il 2019 di Cognitivismo Clinico si chiude con un numero che comprende interessanti rassegne, proproste di intervento clinico e nuove prospettive.

 

Il numero si apre con due lavori che si focalizzano sull’efficacia di due noti approcci terapeutici su specifiche patologie. Il primo lavoro di Somma e colleghi, del gruppo del San Raffaele di Milano coordinato dal Prof. Fossati, è una approfondita e accurata metanalisi sull’efficacia della Schema Focused Therapy (SFT) nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). L’articolo utilizza le caratteristiche del DBP come indicatore di outcome primario e la sintomatologia acuta come indicatore di outcome secondario. Nonostante una significativa eterogeneità dei dati viene rilevata un’efficacia elevata della SFT su entrambi gli outcome, supportandone l’utilità clinica per il trattamento del DBP.

Cosentino e Mancini prendono invece in esame l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) come protocollo da utilizzare nel trattamento del disturbo ossessivo- compulsivo (DOC). Gli autori dopo una rassegna della letteratura evidenziano che i dati ad oggi disponibili non sono sufficienti per considerare l’EMDR, utilizzato come intervento unico, un protocollo efficace nel trattamento di tale disturbo. Pertanto essi propongono come integrare l’EMDR nel protocollo di trattamento per il DOC descritto da Mancini (2016) per il quale sono già disponibili dati di efficacia. In particolare gli autori ritengono che l’EMDR può essere utile per desensibilizzare e rielaborare i ricordi delle esperienze legate alla sensibilità alla colpa caratteristica di questi pazienti. L’articolo è supportato da due chiare e interessanti esemplificazioni cliniche.

Perdighe et al. presentano un intervento di dodici sedute basato sulla terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), rivolto a caregiver di pazienti con malattia di Alzheimer, allo scopo di supportare e ridurre il loro disagio emotivo legato allo svolgimento di questo specifico ruolo. Il lavoro nasce da una collaborazione tra la Scuola di Psicoterapia Cognitiva e l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e cerca di favorire l’accettazione della malattia e l’investimento su valori e scopi personali per migliorare la qualità della vita dei caregiver.

Nel lavoro successivo Toso illustra con chiarezza espositiva i recenti progressi raggiunti nelle aree di apprendimento ed estinzione della paura che hanno portato alla formulazione di un nuovo modello concettuale della terapia di esposizione. Tale modello si basa su due punti chiave: 1) l’efficacia è legata alla creazione di nuove memorie antagoniste e inibitorie, piuttosto che, come riportato da vecchi modelli, dalla cancellazione dei ricordi eccitatori di paura. Di conseguenza, 2) la riduzione della paura, all’interno di ogni singola seduta di esposizione, non è di per sé un indice di successo terapeutico, se non associata alla forza e alla recuperabilità delle nuove associazioni inibitorie che si formano e all’efficacia della regolazione neurale sottostante. L’autore illustra, quindi, le caratteristiche del nuovo modello concettuale e come mettere a punto strategie finalizzate a consolidare l’apprendimento inibitorio mediante interventi di tipo comportamentale, farmacologico e di neuromodulazione.

Bisogno et al. dedicano il loro lavoro a sottolineare l’importanza di attuare interventi precoci per il trattamento delle psicosi. È noto, infatti, come la durata di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis, DUP) influenza l’esito del trattamento e quindi, eventualmente, si lega alla cronicizzazione del disturbo. Gli autori descrivono la necessità di un intervento multidimensionale specifico e immediato, illustrando i punti chiave della procedura di ingaggio e assessment rivolta ai pazienti all’esordio, basandosi sull’esperienza italiana di progetti capostipite che mettono in evidenza quanto sia essenziale dotare i servizi di salute mentale di un’équipe multidisciplinare dedicata agli esordi.

Il numero si chiude con un articolo di Mancuso che affronta un argomento attuale, spesso oggetto di dibattiti, legato all’uso della tecnologia nel contesto di cura. In particolare l’articolo affronta il tema della terapia online, come modalità di assistenza psicologica remota che sempre di più si sta diffondendo anche in Italia. L’uso di tecnologie di comunicazione virtuale può essere particolarmente utile per il trattamento di pazienti ritirati o che vivono in situazioni geografiche disagiate, ma presenta evidentemente nette differenze con la terapia tradizionale. L’autore illustra la recente letteratura che descrive i campi di efficacia di tale modalità di intervento, analizza limiti e benefici di esso ed espone anche le problematiche di tipo legislativo che possono ostacolare la fruizione del servizio di terapia a distanza.

 

cancel