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Dialoghi con Sandra – VIDEO del secondo incontro “Motivare il paziente al trattamento”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. Continua il successo dei Dialoghi con Sandra. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del secondo incontro con la Dott.ssa Sonia Marino.

 

I Dialoghi con Sandra sono un’occasione per confrontarsi, uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si apre a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno cadenza settimanale, ad ogni incontro è presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del secondo incontro è stata la Dott.ssa Sonia Marino, la quale ha affrontato l’argomento “Motivare il paziente al trattamento”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

Metodo LabGDR, un manuale operativo per l’utilizzo del gioco di ruolo in clinica, educazione e formazione (2019), a cura di Marco Scicchitano- Recensione del libro

Il libro Metodo LabGDR è pensato per essere uno strumento pronto all’uso, destinato a psicologi, educatori e formatori che vogliono addentrasi nell’affascinate mondo del gioco di ruolo.

 

Nato dalla collaborazione di un formato team di esperti, il primo LabGDR venne sperimentato con un gruppo di ragazzi Asperger, per poi diffondersi in studi clinici, comunità e centri di formazione. Il cuore centrale di questo metodo è “Imparare divertendosi”. L’utilizzo dell’immaginazione infatti può diventare uno strumento molto potente, per diversi motivi: aiuta ad allenare le capacità di mentalizzazione, stimola la relazione tra i partecipanti e soprattutto motiva l’apprendimento attraverso il divertimento e il coinvolgimento emotivo. In altre parole, permette di sperimentare nuovi stili di pensiero e di comportamento attraverso la personificazione di ruoli diversi, uscendo dal proprio punto di vista e spaziando in contesti relazionali nuovi.

A chi si rivolge il LabGDR? A chiunque possa godere dei suoi benefici, senza distinzione di età o livello cognitivo. Gli autori però si raccomandano di calibrare bene il gruppo in modo che sia omogeneo, al fine di evitare che qualche componente possa sentirsi escluso o meno coinvolto nelle dinamiche di gioco.

Il libro è diviso in due parti, la prima più esplicativa e teorica, la seconda pratica ed esperienziale, nella quale vengono presentati passo a passo alcuni progetti LabGDR che possono essere riprodotti.

Il primo capitolo offre spunti interessanti sulle principali caratteristiche del gioco di ruolo, a partire dall’esperienza decennale come master di Marco Modugno.

Gli ambiti applicativi del LabGDR sono principalmente 4: ludico, didattico, formativo e terapeutico.

Nel secondo capitolo troviamo le caratteristiche di ciascun ambito e i punti chiave a cui porre attenzione per garantirne la corretta applicazione.

Il terzo capitolo invece entra nel cuore del LabGDR, approfondendo in particolare gli aspetti clinici che riguardano l’apprendimento metacognitivo, come gestire il vissuto emotivo al termine della sessione di gioco e come incentivare lo sviluppo delle abilità relazionali.

Gli ultimi 3 capitoli sono destinati alla presentazione di progetti realizzati dagli autori, con la descrizione dettagliata degli strumenti utilizzati e dove reperirli, l’utenza di riferimento e le finalità del gioco.

Il GDR è stato ampiamente utilizzato all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi svolti in ambiente naturale, sia in Italia che all’estero, ed esiste numerosa ricerca scientifica a supporto della sua efficacia nell’incentivare il benessere fisico, psicologico e relazionale.

E’ difficile, se non impossibile, trovare difetti a questo libro. E’ diretto, semplice e strutturato in modo da dare al lettore la sensazione di avere in mano uno strumento di immediata applicabilità, anche per i neofiti del gioco di ruolo e del mondo fantasy. Ogni capitolo espone gli obiettivi che si prefigge e le competenze che si andranno ad approfondire, permettendo di ritrovare facilmente i concetti a una seconda lettura.

 

Sessismo e disparità nella cura dei figli: il gatekeeping

Il gatekeeping è un insieme di credenze e comportamenti che porta le madri ad assumersi quasi tutta la responsabilità per la cura dei figli e origina in parte da un’ideologia che rimanda al sessismo.

 

In Italia, per via di fattori culturali e per la scarsa disponibilità di servizi di assistenza per l’infanzia, le madri hanno maggiori responsabilità nella cura dei figli rispetto ai padri (Cutillo & Centra, 2017).

Glick e Fiske (2001) sostengono che le ideologie sessiste contribuiscano a legittimare una gerarchia nei ruoli di genere. In questo modo, le ideologie sessiste permettono di mantenere una società organizzata in base alla distinzione tradizionale dei ruoli di genere.

Ma in che modo, concretamente e praticamente, le ideologie sessiste modellano i nostri comportamenti e, di conseguenza, la struttura della nostra società?

Gaunt e Pinho (2018) hanno provato a rispondere a questa domanda, analizzando i comportamenti adottati dalle donne nella gestione delle incombenze relative alla crescita dei figli.

Le autrici hanno svolto uno studio che ha coinvolto 207 donne britanniche. Le partecipanti dovevano provenire da famiglie in cui c’era almeno un bambino di 6 anni o più piccolo e in cui entrambi i genitori biologici vivevano con il figlio.

Le partecipanti hanno risposto a un questionario indicando per quante ore al giorno si occupavano da sole della cura dei figli e per quante ore se ne occupavano invece i padri da soli. Dovevano poi indicare chi svolgesse più frequentemente alcuni compiti relativi alla cura dei figli, ad esempio chi gioca con il figlio, chi prepara lo zaino per la scuola, chi mette il figlio a letto, chi lo consola.

Alle partecipanti erano inoltre somministrate la scala di Sessismo Ambivalente (Glick & Fiske, 1996) e la scala di Atteggiamento Ambivalente verso gli Uomini (Glick & Fiske, 1999) per valutare quanto, complessivamente, il loro atteggiamento fosse sessista verso le donne e verso gli uomini.

Tramite la scala elaborata da Hallen e Hawkins (1999), le autrici hanno misurato la tendenza verso il gatekeeping materno. Il gatekeeping è un insieme di credenze e comportamenti che porta le madri ad assumersi quasi tutta la responsabilità per la cura dei figli. Il gatekeeping mina la collaborazione paritaria tra i genitori nella gestione dei figli. Infatti, la madre tende ad occuparsi della pianificazione e decisione di tutte le attività che riguardano il figlio (ad esempio cosa e a che ora mangia, come si veste, chi lo accompagna a scuola) e spesso lei stessa si occupa di queste attività. Il padre risulta escluso dalla pianificazione e relegato al ruolo di aiutante che deve rispettare gli standard di cura decisi dalla madre. Il padre perde così la possibilità di sviluppare lui stesso le abilità per occuparsi adeguatamente dei figli.

Da questa descrizione, il gatekeeping sembra svantaggioso per tutti. Perché allora le madri mantengono questo tipo di comportamento? Non è possibile dare una spiegazione esauriente in questa sede: si può però affermare che anche il gatekeeping stesso dipende da fattori culturali di stampo sessista.

Tornando allo studio di Gaunt e Pinho (2018), i risultati indicano che un atteggiamento più sessista correlava con una maggior tendenza al gatekeeping da parte delle madri. In particolare, le donne con un più alto grado di sessismo ostile verso gli uomini, che ad esempio giudicavano gli uomini come caregiver incompetenti, tendevano a mantenere su di sé la responsabilità per le attività di cura dei figli, con una maggior differenziazione dei ruoli entro la famiglia.

Inoltre, più era alta la tendenza al gatekeeping nelle madri, più tempo queste trascorrevano ad occuparsi dei figli e, al contrario, meno tempo ne trascorrevano i padri. In aggiunta, erano più coinvolte in tutte le attività di cura dei figli rispetto ai padri.

Per rispondere alla domanda iniziale, ossia come le ideologie sessiste si traducono in comportamenti effettivi, le autrici hanno riscontrato che le donne che condividono un’ideologia sessista tendevano ad avere maggiori comportamenti di gatekeeping, che a loro volta le conducevano a trascorrere più tempo ad occuparsi dei figli e ad assumersi maggiori impegni in ogni attività relativa alla loro cura.

Le autrici suggeriscono infine che sarebbe opportuno, per poter trarre generalizzazioni più ampie, ripetere un simile studio con un campione più numeroso e che includa un maggior numero di donne con un basso livello di istruzione. Sarebbe anche utile somministrare gli stessi questionari ai padri, per avere una rappresentazione più omogenea della distribuzione dei compiti in famiglia.

Una limitazione di questo studio è che, coinvolgendo solo partecipanti donne, trascura il fatto che le ideologie sessiste sono proprie sia delle donne sia degli uomini. Perciò, sebbene sia vero che le donne sono responsabili delle proprie ideologie sessiste, dei propri comportamenti di gatekeeping e della risultante iniquità di genere, viene da chiedersi: qual è il ruolo dei padri in tutto questo?

Per avere una comprensione più chiara e realistica del fenomeno, è necessario interrogarsi su come le ideologie sessiste nei padri possano renderli poco disponibili ad assumersi attivamente la propria parte di responsabilità nella cura dei figli.

Forse, siamo talmente immersi in una cultura sessista che anche quando cerchiamo di evidenziare le conseguenze negative del sessismo, ci ritroviamo a responsabilizzare/colpevolizzare solo le donne, evitando di chiamare in causa gli uomini e mettere in discussione le loro credenze e comportamenti. Vale la pena ribadire che il sessismo ha conseguenze negative per tutti ed è responsabilità di tutti.

In conclusione, quando si progettano interventi per aiutare madri e padri a bilanciare le responsabilità nella cura dei figli, bisognerebbe tenere a mente che l’atteggiamento delle madri potrebbe dipendere in parte dalle loro convinzioni sui ruoli di genere: lavorare sulle ideologie sessiste delle madri (ma anche dei padri) potrebbe aiutarli a collaborare nel prendersi cura dei propri figli.

Neuroscienze, neuromarkenting e studi sul decision-making – Intervista al Prof. Davide Rigoni

Qualsiasi elemento dell’ambiente potenzialmente può influenzare le nostre scelte. Il neuromarketing si dimostra efficace perché permette di intercettare alcuni processi decisionali e di orientare i consumatori.

 

Davide Rigoni, Ph.D., è fondatore di ICENSE, società di neuroscienze applicate al business ed è docente di Neuromarketing e Management Psychology alla Hult International Business School London, UK e Marketing e Strategic Marketing alla Vrij Universiteit Brussel in Belgio. Ha precedentemente lavorato come ricercatore in Francia, all’Università di Aix-Marseille, e in Belgio, all’Università di Gent. I risultati delle sue ricerche nel campo delle basi neurali del decision-making sono stati presentati ad importanti conferenze internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati in prestigiose riviste scientifiche. E’ responsabile delle attività didattiche e dei laboratori del primo master in neuromarketing in Italia che si svolge a Milano.

Federico Frosoni – intervistatore (I): Prof. Rigoni può dirci che cosa è il neuromarketing e quali sono i campi di applicazione di questa disciplina?

Prof. Davide Rigoni (R): Premetto che “neuro marketing”, a mio avviso, è un termine che viene usato spesso in maniera un po’ superficiale, nel senso che identifica una tipologia di marketing che tiene in considerazione come funziona il cervello del consumatore, ma che non necessariamente va a misurare direttamente l’attività cerebrale. In realtà sarebbe utile fare una distinzione tra i due aspetti fondamentali del neuromarketing: uno legato ai metodi, cioè alle metodologie che possono essere utilizzate per strutturare delle strategie di marketing più efficaci e l’altro è l’aspetto diciamo più legato alle conoscenze, cioè sulla base di quello che negli ultimi decenni ha permesso alle neuroscienze di scoprire aspetti più approfonditi del cervello umano e come si possono utilizzare queste conoscenze nell’ambito del marketing.

(I): Quindi il neuro marketing sarebbe una sorta di fusione tra le ultime scoperte delle neuroscienze e gli applicativi del marketing classico o di una forma di marketing specifico tipo quello che utilizza la profilazione del consumatore attraverso la raccolta dei dati?

(R): Questa è una buona domanda, in realtà esistono diverse visioni ed io espongo la mia. Credo che sia possibile che le conoscenze del neuromarketing si possano applicare agli stessi ambiti del marketing in generale e specie a quello che ha che fare con le strategie di pricing, advertising il posizionamento di un prodotto ecc. Diciamo nel settore del marketing c’è spazio per l’applicazione delle neuroscienze non ovunque, ma in buona parte delle sue varianti.

(I): Prof.Rigoni tra le sue ricerche scientifiche grande spazio è stato riservato al decision-making, può dirci che cosa è e che cosa significa dal punto di vista del cervello?

(R): Diciamo che nel marketing per decision-making ci si riferisce a quell’insieme di processi psicologici coinvolti nella decisione di un consumatore relativamente all’acquisto di un prodotto o di un servizio. Questi processi psicologici possono ovviamente subire diversi tipi di interferenza e condizionamento. Per semplificare possiamo dire che noi subiamo continuamente influenze interne al nostro cervello legate a ricordi, ai nostri valori, legati alle nostre emozioni cosiddette intrinseche e relative alle nostre intenzioni e da una parte ci sono delle influenze che vengono dell’ambiente esterno. Questi due fattori sono distinti solo in maniera teorica molto spesso interagiscono e quindi a me piace pensare al processo decisionale come ad un processo che è una specie di filtro in cui vengono soppesate le varie opzioni, in maniera molto veloce e spesso inconscia, e sulla base di queste computazioni si arriva ad un’azione che di fatto è la nostra scelta. L’aspetto del decision- making è interessante perché quello che il marketing cerca di fare in generale è di inserirsi all’interno di quei fattori che influenzano il processo decisionale e portare a casa il proprio interesse, cioè se voglio venderti un prodotto è chiaro che devo trovare il modo migliore per influenzare il decision-making a mio favore.

(I): Quindi il neuro marketing può realmente condizionare attraverso il fattore decision making la scelta dei consumatori?

(R): Certo. Diciamo che qualsiasi elemento dell’ambiente potenzialmente può influenzare le nostre scelte e il neuromarketing è efficace perché permette di intercettare alcuni processi decisionali e di orientare i consumatori.

(I): Prof.Rigoni dal punto di vista pratico l’impatto reale del neuromarketing fuori dai laboratori di ricerca universitari qual è? Come funziona il suo lavoro, avvengono delle consulenze aziendali e di che tipo?

(R): Direi che molto spesso nel nostro lavoro ci contattano delle aziende, che possono essere istituti bancari, società che operano nel settore alimentare o qualsiasi tipo di società che vende un servizio o un prodotto. Spesso ci viene chiesto di valutare l’efficacia degli spot commerciali. Il problema del cliente è quello di capire quale sia il messaggio giusto da veicolare, qual è lo spot commerciale che garantisce un impatto emotivo maggiore, ecco in questo senso il neuromarketing è l’ideale perché misura la reazione emotiva inconscia del consumatore. Grazie all’esperienza maturata negli anni possiamo anche fare una consulenza senza dover fare la ricerca di testare i soggetti e riusciamo a dare delle indicazioni delle linee guida ai clienti avendo un costo per loro inferiore.

(I): Come si può spendere una professionalità nel campo del neuro marketing  e quale preparazione è necessaria?

(R): Può essere spendibile dal singolo professionista che fa una ricerca applicata per i clienti privati (e questo è l’aspetto legato alla parte commerciale) e poi c’è la ricerca vera nei laboratori, che richiede una formazione più specifica e capacità di analisi statistica dei dati e competenze molto tecniche come la misurazione del segnale neurofisiologico, quindi bisogna sapere che cosa si sta facendo ed è preferibile avere alle spalle un dottorato di ricerca in ambiti psicologici e neuroscinetifici. Un altro sviluppo professionale è quello legato alla consulenza commerciale: è necessario comprendere i dati che emergono da una ricerca di neuroscienze e saperli interpretare. Ci siamo resi conto che gli iscritti al master di neuromarketing  sono di fatto soggetti con delle conoscenze trasversali, ci sono molte persone che si occupano di digital marketing e con il Master riescono ad acquisire o arricchire strumenti concettuali che gli permettono di essere applicati poi nel proprio ambito lavorativo. Quindi non è che formiamo consulenti in neuro marketing, ma piuttosto sono gli strumenti concettuali che possono essere applicati in molti settori del marketing.

 (I): Abbiamo detto che il neuro marketing può inserirsi nel processo di decision-making di un soggetto e quindi questo dal punto di vista etico che cosa significa?

(R): Confesso che quando ho lasciato l’università e la ricerca puramente accademica per iniziare a lavorare per una start up qui in Belgio ho dovuto affrontare alcuni dubbi personali legati all’etica professionale. Tuttavia, lavorando ho capito che in realtà non c’è niente di immorale nel neuromarketing. Direi che dipende sempre da come uno professionista lavora e credo che ci sia un po’ troppa enfasi in senso negativo sul neuromarketing, oltre che a mancanza di conoscenza specifica, perché il neuromarketing ha lo stesso obiettivo del marketing ed è semplicemente un po’ più efficace grazie a strumenti più precisi. Alla fine come per ogni altro settore sta tutto all’etica personale.

(I): Quindi dal punto di vista pratico il neuromarketing come opera nell’orientare gli acquisti?

(R): In questa epoca, forse più delle altre, gli esseri umani sono dei consumatori e molto spesso i consumatori  non sono consapevoli di quali sono i fattori che influenzano le proprie scelte d’acquisto e il  neuro marketing va a identificare il target e i motivi del comportamento non razionale per produrre strategie di marketing per le aziende.

(I): Lei crede che il neuromarketing avrà uno sviluppo formativo importante negli anni a venire magari anche dal punto di vista accademico? Saranno istituiti dei corsi di laurea specifici?

(R): Direi di sì ma secondo me c’è un rischio, che poi rappresenta uno dei motivi per cui di fatto questa disciplina non è mai decollata, non solo in Italia ma anche qui in Belgio, o comunque nel nord Europa. Qui il neuromarketing è molto più attivo rispetto all’Italia, però non ha avuto quell’impennata che 10 anni fa era stata prevista ed uno dei motivi è legato a questa cattiva reputazione che gira tra i non addetti, ma soprattutto all’inquinamento dei così detti operatori di marketing che hanno utilizzato senza le giuste competenze il termine neuromarketing .Il neuromarketing ha avuto fondamentalmente due nascite, uno a  livello accademico, dove è nato e si è sviluppato nei laboratori di neuroscienze e psicologia, e un altro a livello di business privato commerciale; quest’ultimo è più figlio del marketing che ha preso degli elementi della letteratura delle neuroscienze e li ha aggiunti al marketing.

(I): Come viene svolto il lavoro di ricerca e consulenza di società come la sua quando viene conferito un incarico da parte di terzi?

(R): Chi ha visitato siti di società che operano con il neuro marketing o ha visionato riviste o documentari, pone molto spesso l’accento su strumenti di misura dell’attività elettrica del cervello, segnale elettroencefalografico o addirittura parla di risonanza magnetica funzionale quindi strumenti che vengono utilizzati nelle neuroscienze in ambito accademico. Questi strumenti sono molto accurati e permettono una misurazione diretta dell’attività cerebrale. Tuttavia, nel 99% dei progetti tali strumenti non vengono utilizzati, da una parte per i costi elevati, dall’altra perché esistono degli strumenti ugualmente efficaci ad un costo relativamente più basso. Molto spesso i clienti sono insoddisfatti del marketing tradizionale e dei loro strumenti, tipo i questionari, e vogliono scoprire  quali emozioni prova il potenziale consumatore di fronte ad uno stimolo, e questo è un lavoro che può essere fatto senza ricorrere a strumenti di indagine neurotecnologica. Gli strumenti che sono maggiormente utilizzati sono l’eye-Tracker, dove si misura indirettamente un’attività del cervello perché misura i movimenti oculari, la conduttanza cutanea, che misura i livelli di sudorazione della pelle che sono legati al sistema nervoso autonomo, e metodi di psicologia sperimentale basata sui tempi di reazione del cervello. Quindi tutto questo non prevede di fatto l’indagine diretta del cervello. Non posso parlare per tutte le società che operano in questo settore, ma la maggior parte degli studi di consulenza usano questa metodologia, anche per questione di contenimento dei costi. In questo senso secondo me ci può essere un futuro anche a livello di formazione accademica.

 

Il Family Based Treatment: trattare i disturbi alimentari in adolescenza

Firenze. Inizi di ottobre. Due giornate formative tenute dal dott. Armando Cotugno sul trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione in adolescenza attraverso il protocollo Family Based Treatment (FBT; Lock, Le Grange, 2018; Treasure, 2010, 2017).

 

I Disturbi Alimentari (DA) possono essere definiti come persistenti comportamenti finalizzati al controllo delle forme corporee e del peso, che danneggiano la salute fisica o il funzionamento psicologico e che non sono secondari a nessuna condizione medica o psichiatrica conosciuta (Fairburn et al., 2003).

Funzionamento

In generale, i fattori di mantenimento sono molteplici e relativi a: comportamento alimentare e alterazioni del Sistema Nervoso Centrale, in particolare riduzione della sostanza grigia e alterata modulazione del sistema fame-sazietà (Kalivas& Volkov, 2005), distorsione dell’immagine corporea, stile cognitivo, stile emotivo, stile interpersonale. I pazienti non percepiscono azioni, pensieri ed emozioni come originati da sé, i bisogni sono quindi eteroderminati e vi è una difficoltà ad identificare sensazioni interne e stati mentali. In una fase adolescenziale, 13-15 anni circa, i cambiamenti corporei modulano la percezione di chi siamo, di come siamo accettati, del nostro sé nel mondo.

Il Family Based Treatment ritiene che questi cambiamenti possono aumentare, anche in relazione alle risposte dell’ambiente, il nostro senso di inefficacia, di vulnerabilità percepita. Nel periodo adolescenziale c’è un’attenzione particolare all’immagine percepita e all’immagine sociale, se la percezione dell’autoimmagine non è congrua con l’immagine di noi nel mondo aumenta la sensazione di vulnerabilità e quando viene sperimentato un senso di incertezza di solito la risposta comportamentale è aumentare il controllo. Ma come arriva l’adolescente a prediligere il controllo sul cibo rispetto a tante altre risposte disfunzionali? Treasure e colleghi sostengono che se lo schema nucleare del sé è basato sul costrutto efficace-competente/inefficace-incompetente e il dominio nel quale tale aspetto del sé si sviluppa è quello dell’immagine corporea, allora vi è un’ipervalutazione del peso e delle forme corporee ed è plausibile sviluppare un Disturbo dell’Alimentazione. Se le mie forme rispettano determinati canoni sociali di magrezza allora il mio sé è efficace, senza questa equazione percepisco un senso di incertezza, mi sento vulnerabile, ho paura, aumento la sensazione di incertezza nel mondo, devo controllare la mia alimentazione per ridurre il senso di vulnerabilità/pericolo. Nel caso della Bulimia Nervosa o del Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI) la vulnerabilità percepita attiverebbe la disregolazione emotiva che porta alla perdita di controllo. È importante sottolineare che la sensazione di efficacia/inefficacia cambia nel corso della vita. Quando i domini di vita vengono ristretti nel tempo, a fronte di un aumento della complessità dei contesti di vita, è possibile che si instauri una patologia. La patologia che si instaura dipende dal rapporto tra l’immagine del sé e il dominio di vita, o i domini, di riferimento.

A livello sociale, una vulnerabilità di base temperamentale è accentuata da un ambiente di vita invalidante creando il circolo vizioso descritto in precedenza. Per quanto riguarda l’aspetto comportamentale, l’ipercontrollo è collegato con una scarsa capacità di agency (Fassino et al., 2002; Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore, 2019). In relazione all’aspetto medico, un DA causa notevoli conseguenze somatiche e fisiche che mettono seriamente a rischio la salute di chi ne soffre e rende questi disturbi molto gravi e pericolosi.

Nei DA l’esperienza corporea è alterata, il corpo vissuto è percepito in modo egodistonico quindi compiti multitasking mettono questi pazienti in difficoltà poiché li rendono meno consapevoli dato che la loro attenzione è focalizzata: non hanno la capacità di auto percepirsi e di prestare attenzione a più cose contemporaneamente. Utilizzare misure oggettive (bilancia, taglia, centimetro, tazza, cucchiaino, ecc…) aiuta questa tipologia di pazienti a creare un ponte tra il proprio corpo e la realtà percepita amplificando la consapevolezza della loro connessione col il mondo intorno.

Il trattamento FBT

L’FBT (Lock, Le Grange, 2018; Treasure, 2010, 2017) è un modello anglosassone e si basa sul fatto che davanti a un adolescente con disturbo alimentare i genitori, e la famiglia in genere, sono una possibile fonte di sostegno e di aiuto alla gestione. Le dinamiche che si creano nell’ambito familiare, nella vita quotidiana e in particolare durante i pasti, non sarebbero tanto causa del disturbo, ma contribuiscono al loro mantenimento. L’ipercriticismo e l’ipercoinvolgimento della modalità genitoriale peggiora la malattia poiché non vi è la funzione di contenimento, ma è presente l’evitamento delle problematiche (Lock, Le Grange, 2018). L’FBT fornisce inizialmente sostegno alle figure genitoriali che vengono investite del ripristino del peso dell’adolescente con disturbo alimentare. I genitori possono contare, da parte dell’equipe terapeutica, su un intervento di educazione, di sostegno e di validazione per la loro fatica. L’equipe quindi comprende psichiatra, nutrizionista e terapeuta FBT. L’accordo tra queste tre figure è un punto di forza, ma anche una potenziale debolezza. Di forza poiché più l’equipe è coesa, guidata dagli stessi principi, più la prognosi è favorevole. Di debolezza perché lo stesso accordo spesso non è facile mantenerlo, richiede molti incontri congiunti di discussione dei casi clinici, spazi e tempistiche idonee.

Vengono coinvolti i genitori per ragazzi al di sotto dei 18 anni. Nella prima fase si pone l’attenzione agli aspetti specifici del DA e alla distorsione dell’immagine corporea. Nella seconda fase del trattamento si lavora sulle difficoltà interpersonali, sul perfezionismo clinico, sulla bassa autostima, sull’intolleranza alle emozioni. L’obiettivo primario è quello di ripristinare il peso, e di questo se ne fanno carico i genitori, e solo secondariamente migliorare il processo di autonomia e svincolo dell’adolescente.

Le sedute di FBT, secondo il modello anglosassone (Lock, Le Grange, 2018; Treasure, 2010, 2017) si svolgono sempre in un setting familiare se siamo di fronte ad un minore di 18 anni. Il trattamento dura 6-12 mesi, circa 10-20 sedute. Vi sono principalmente tre fasi:

  • Fase 1 (seduta 1-10). I genitori si assumono la responsabilità del ripristino del peso del paziente.
  • Fase 2 (seduta 11-16). I genitori restituiscono il controllo alimentare al paziente.
  • Fase 3 (seduta 7-20). Si discute sui compiti specifici dello sviluppo dell’adolescente.

Il trattamento è preceduto da una fase di assessment di circa 1 mese, dove vengono prescritti esami medici, vengono somministrati i test psicologici e si effettuano i primi colloqui (con il paziente e separatamente con i genitori). Successivamente, ogni seduta del trattamento si apre con il prendere nota del peso e si fa un grafico aggiornato di settimana in settimana. La prima seduta è focalizzata sulla psicoeducazione e sullo stabilire gli obiettivi primari (uscire dalla malattia) e secondari del trattamento (cambiamento cognitivo e autonomia). La gestione di tutto ciò che riguarda il cibo passa nelle mani genitoriali. Si dà il compito di fare almeno un pasto al giorno condiviso (anche in presenza di separazione tra i genitori) con tutta la famiglia. La seconda seduta è dedicata al pasto condiviso. Si lavora su chi prepara i pasti, chi decide cosa mangiare, chi fa le porzioni, di solito deve essere sempre uno dei due genitori. La famiglia deve portare tutto l’occorrente per il pasto, dalle vettovaglie, alle varie portate fino alle bevande. Vengono forniti tavolo e sedie. Il pasto condiviso è videoregistrato e nelle sedute successive è possibile visionare insieme degli spezzoni al fine di migliorare il funzionamento e condividere insieme momenti di difficoltà, che si verificheranno anche a casa, e momenti di risoluzione delle problematiche. Viene osservata la capacità dei genitori di aiutare il paziente. Alla fine della portata si chiede ad uno dei due genitori di chiedere al paziente di “mangiare un cucchiaio in più” e si osservano le dinamiche e i comportamenti di tutti i membri della famiglia, le difficoltà a gestire l’eventuale rifiuto del paziente, si inizia a costruire una bozza di schema relazionale familiare. Se c’è qualche membro in disparte, soprattutto nelle situazioni di difficoltà, si chiede di provare a dire qualcosa per aiutare gli altri familiari. A volte i fratelli sono un’ottima risorsa. Alla fine della seduta si validano tutti i membri della famiglia per lo sforzo fatto e i risultati raggiunti. Nelle sedute successive si lavora sul materiale emerso e su quello che porta la famiglia in relazione a ciò che avviene a casa durante i pasti e nella vita quotidiana, si aiuta il paziente a liberarsi delle credenze sul proprio corpo gradualmente anche attraverso l’utilizzo dello specchio in seduta, fino ad arrivare alla restituzione del controllo alimentare al paziente e a poter lavorare su tutto ciò che emerge di rilevante.

Le basi teoriche di riferimento provengono da varie teorie di riferimento come DBT (Linehan, 2011; Swenson, 2018), CBT (Beck, 1984), CBT-E (Dalle Grave, 2012), Control Mastery Theory (Weiss, Sampson, 1999; Gazzillo, 2016) utilizzando tecniche comportamentali e tecniche di mindfulness. L’FBT ha 5 fondamentali assunti di base:

  • Prospettiva non colpevolizzante.
  • Atteggiamento cooperativo con la famiglia.
  • Empowerment genitoriale. I genitori si fanno carico del ripristino del peso.
  • Separazione del paziente dalla malattia.
  • Focus iniziale sui sintomi.

L’atteggiamento del terapeuta è attivo, non controllante. Il terapeuta è un consulente esperto, sostiene l’autonomia dei genitori, è cooperativo.

I vantaggi del trattamento FBT sono molteplici tra cui: evitare il ricovero residenziale, riconsiderare il ruolo socio-affettivo della famiglia come una priorità clinica e adottare un protocollo validato scientificamente. Gli svantaggi risiedono soprattutto nell’applicazione fedele del protocollo anglosassone con tutte le difficoltà inerenti eventuali differenze culturali.

Il paziente, secondo gli autori, può attuare prevalentemente due comportamenti: supplica o minaccia. Di fronte ad un paziente che supplica, la famiglia risulta invischiata, ipercoinvolta, inibisce lo svincolo e infantilizza. Vengono definite “famiglie canguro”. Quando il paziente attua la minaccia la famiglia risulta avere atteggiamenti di critica, è disimpegnata sulle regole, è presente coercizione e una forte conflittualità: vengono definite “famiglie rinoceronte”. In queste difficili situazioni il sistema di protezione o attacco va in tilt e la cura si disorganizza. Il genitore si trova nel circolo dell’impotenza fatto di colpa, rabbia, paura, vergogna, ipercoinvolgimento ansioso e criticismo ostile. L’obiettivo dell’FBT è aiutare il genitore, validandolo, ad aiutare il proprio figlio nell’acquisizione di un’autonomia funzionale.

Si utilizzano tecniche mindful come osservare, descrivere e stare senza giudicare, trovare ciò che è efficace in quel momento, non ciò che è giusto. L’FBT non è una terapia fondata prevalentemente sulle dinamiche familiari che hanno portato al disturbo, ma primariamente e gerarchicamente si esce dal DA e solo successivamente si lavora sulle dinamiche connesse al disturbo. È importante cogliere e annotare, per un momento successivo, le eventuali colpevolizzazioni, l’accudimento invertito, tutte le dinamiche presenti. L’atteggiamento attivo, metacognitivo e mindful del terapeuta, l’esternalizzazione e il dialogo condiviso, modulano la paura e il criticismo della famiglia. Il DA viene visto come un deficit dell’esame di realtà, la paziente è malata e bisogna uscire dallo stato di pericolo.

I sintomi alimentari sono segni di ansie profonde,e tentativi disfunzionali di curarle, soprattutto di curare un senso pervasivo di inefficacia personale (Lock, Le Grange, 2018; Treasure, 2010, 2017). Questo senso di inefficacia personale porta il paziente a sentirsi vulnerabile, a sperimentare incertezza, ansia, paura e di conseguenza ad attuare strategie di coping, come il controllo sul peso e le forme corporee e la conseguente restrizione alimentare. Il controllo sul cibo ridurrebbe la vulnerabilità percepita, ma di fatto è una fonte di mantenimento. Per esempio dice la paziente G., 15 anni da poco compiuti, BMI di 15. “…a scuola non mi sento mai la vera me, lì devi a volte essere qualcun’altra per essere accettata, vedo le altre sempre con una marcia in più, faccio fatica e poi mi viene un peso che spesso diventa più forte tipo pugno allo stomaco. Le altre sono tutte magre, truccate, vestite alla moda e stanno avanti, io no… se mangio meno e sto attenta sarò come loro…

Di fronte a un’adolescente con indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI) inferiore a 17, in alcuni casi molto gravi arriva anche a 15, ci si focalizza sulla condizione medica in primis. La malnutrizione interferisce con i processi di maturazione e frontalizzazione dell’encefalo: regolazione emotiva, auto riflessività, metacognizione sono tutte capacità che in un cervello in crescita vengono compromesse e quindi diventa molto pericoloso. Fin dalle ricerche degli anni ’40 (Minnesota Study, 1944) a oggi si è visto che la malnutrizione modifica l’assetto psicologico dell’individuo ed ha anche effetti comportamentali e fisici. Se con un paziente che soffre di DA, il terapeuta lavora direttamente sulla malnutrizione, che è una strategia di coping, per recuperare lo stato di benessere, il paziente sentirà venir meno la sua percezione di controllo, sentirà inefficacia, vulnerabilità, aumenterà la paura, aumenterà anche il controllo e la rigidità e avrà maggiore restrizione alimentare. Con i DA è importante quindi lavorare in primis non sulle strategie di coping, ma sulla motivazione sottostante che spinge quel paziente a mettere in atto la restrizione alimentare. La malnutrizione crea infatti di base dei meccanismi di mantenimento comportamentale, fisico e psicologico con effetti sociali, quello che i pazienti con DA cercano di ottenere, mantiene il disturbo stesso. Le strategie di cambiamento devono partire dalla consapevolezza che se il paziente è costretto ad abbandonare uno schema che in quel momento, seppur disfunzionale, è fonte di sicurezza, allora parallelamente bisogna costruire un’altra strada alternativa più funzionale. L’intervento è mirato ad una desensibilizzazione sistematica dove il cibo (stimolo ansiogeno) viene presentato gradualmente e in contemporanea a stimoli che elicitano risposte emotive antagoniste all’ansia e alla paura. Attraverso l’aiuto del nutrizionista si cerca di ristabilire un più naturale accesso al cibo e contemporaneamente vengono insegnate le abilità per muoversi all’interno di contesti “difficili” come pasticcerie, supermercati, ristoranti e si lavora su come alimentarsi in contesti sociali. Parallelamente l’attenzione è posta sulla riduzione del pensiero fisso e pervasivo per il cibo e sull’aumento dell’autoefficacia e dell’autostima. Le tecniche utilizzate sono prevalentemente cognitive-comportamentali e tecniche di mindfulness. Mentre si lavora sulla costruzione di parti sane, desideri sani che emergono nelle sedute, come ad esempio leggere, ascoltare la musica, camminare nei boschi, alternative a quelle disfunzionali, si deve tener conto che la regolazione emotiva ha necessità di maggior tempo per migliorare, rispetto alla flessibilità e alla coerenza centrale. Infatti, il livello di interferenza emotiva è maggiore in chi soffre di AN pura (Kaye et al., 2009; Tchanturia et al., 2004; Fassino et al., 2002; Green et al., 1996).

Conclusione

L’obiettivo ultimo del trattamento FBT è promuovere l’autonomia del paziente che soffre di DA. Nel momento in cui il paziente è in uno stato di pericolo per la sua malattia, è considerato impossibilitato a provvedere momentaneamente a sé stesso. Tutta la gestione di contenimento, le decisioni su come, cosa e quanto mangiare passa nelle mani delle figure genitoriali, che proprio per questo oneroso compito devono essere grandemente supportate e validate. Il compito dell’adolescente è seguire le indicazioni dei genitori per uscire dallo stato di malattia e ripristinare il peso corporeo. Deve essere fatto uno sforzo metacognitivo per comprendere il genitore che in questo momento si trova in una combinazione di emozioni quali impotenza, colpa, paura, fallimento ed oscilla tra la protezione e l’attacco alla fonte del pericolo. In questi casi l’agente e la vittima della minaccia percepita coincidono, i genitori tendono infatti a vedere il proprio figlio come colui che fa i “capricci” non come malato, oscillando appunto tra l’iperprotezione (“dai su se non hai fame non fa nulla… dai prova un altro po’ fallo per me…”), all’attacco (“e su da però se fai così non la finiamo più, ti rendi conto di quello che stai creando?…”). Per fare una similitudine, è come se avessimo di fronte un paziente che soffre di asma e lo esortassimo continuamente a respirare bene. Il protocollo FBT aiuta il genitore a sostenere le emozioni negative, aiutandolo a regolarle per agire in modo congruo e sano verso i bisogni di cura della figlia.

Il fine settimana formativo è stato stimolante e ha sollevato molti spunti di riflessione. Mi chiedo quanto e come un tale protocollo sia applicabile alla clinica privata. Sicuramente un limite è da ricercare nel costo che il paziente si troverebbe ad affrontare nonché nelle tempistiche degli incontri con le diverse figure dell’equipe, sia da parte del paziente stesso, che da parte dei professionisti. Probabilmente con un’ottima fase di progettazione iniziale, ipotizzando un pacchetto generale dell’intervento, tali limiti potrebbero essere superati. Un’ulteriore riflessione è sul coinvolgimento del paziente che, nelle prime fasi del trattamento, sembrerebbe nullo. L’adolescente, in realtà, porta i suoi stati emotivi che vengono sempre trattati in un’ottica familiare e la famiglia stessa si prende in carico la gestione delle dinamiche. Gli incontri sono finalizzati al sostegno e alla validazione familiare in primis, all’acquisizione di strategie di gestione, alla comprensione del funzionamento, sempre tenendo in considerazione la famiglia tutta e solo in una seconda fase al lavoro verso l’autonomia del paziente.

 


 

La collaborazione tra Psicologi e Medici di Medicina Generale: riflessioni ed esperienze a confronto

Negli ultimi anni la formazione dei Medici di Medicina Generale ha posto maggiore attenzione ai problemi psico-sociali dei pazienti, aprendo per gli psicologi nuove opportunità occupazionali nella collaborazione con i servizi medici

 

Nell’ultimo decennio la formazione dei Medici di Medicina Generale ha incluso una maggiore attenzione ai problemi psico-sociali dei pazienti, aprendo per gli psicologi nuove opportunità occupazionali nella collaborazione con i servizi medici e nella strutturazione di piani di intervento integrato per i pazienti e i loro familiari (McDaniel, 1995).

Da diverso tempo, oramai, la letteratura scientifica di settore ha messo in evidenza che almeno il 50% delle richieste che pervengono ai Medici di Medicina Generale, dietro la domanda di attenzione ad un sintomo somatico, esprimono disagi e problematiche di natura sociale ed esistenziale (Balint, 1957; Katon, 1985; Magill e Garrett, 1988). Questo 50% può diventare il 100% in un’ottica di unità corpo/mente che ha trovato sostegno in una vastissima mole di ricerche nell’ambito della salute, che mostrano come anche il disagio che prende forme somatiche (organiche), nella maggior parte dei casi, può essere diagnosticamente ancorato anche a cause/concause psicosociali: relazionali, intrapsichiche, storico/traumatiche, legate al ciclo di vita (Falanga & Pillot, 2014).

Le più recenti tendenze della psicologia della salute e della psicosomatica stanno inoltre ad indicare che qualunque tipo di problema venga portato al medico, può trovare migliore soluzione se, oltre ad essere considerato in termini biologici, viene inquadrato nel contesto relazionale, nel ciclo di vita del paziente e secondo un’ottica di tipo biopsicosociale (Bertini, 1988; Solano, 2001; Solano et.al 2010). Ciò che accade, di fatto, è che in molti casi il medico, non essendo in grado di soddisfare la domanda complessa del paziente, tenta di fornire una risposta ricorrendo all’effettuazione di analisi e alla somministrazione di farmaci di cui per primo riconosce la dubbia utilità.

L’interesse contemporaneo per la psicosomatica è molto alto, per motivi che vanno dalle politiche sanitarie mondiali, determinate dalla mutata prevalenza di alcune malattie, alla diffusione dei disturbi di somatizzazione in vari setting clinici, all’interesse per i temi del corpo e della salute da parte del servizio sanitario pubblico (Porcelli, 2009). La prevalenza di pazienti che soffrono di sintomi somatici spesso cronici, di cui però non si riescono a trovare plausibili cause mediche (i cosiddetti Medically Unexplained Symptoms, MUS), è molto elevata negli ambulatori medici e della medicina di base. Si stima, infatti, che da un terzo alla metà dei soggetti afferenti alla medicina di base siano pazienti con MUS (Kroenke, 2003) e che circa il 40% abbia sindromi psichiatriche non riconosciute o disturbi psichici subclinici (Ansseau et al., 2004).

In uno studio condotto su un campione italiano (Lega & Gigantesco, 2008) che ha individuato persone che dichiaravano di aver cercato aiuto e sostegno per un disturbo di natura psicologica nell’ultimo anno, il 38% affermava di essersi rivolto al medico di medicina generale, il 28% sia al medico di medicina generale che a un professionista della salute mentale. Tuttavia, al dì là dei dati a nostra disposizione sui disturbi mentali conclamati, è oramai noto che le forme somatiche funzionali (comprese quelle organiche) possono avere in larga parte origini di natura psicosociale, essere legate a vissuti traumatici e, più in generale, a problemi di relazione con il mondo circostante che, a loro volta, determinano una “difettazione” della funzione riflessiva e della capacità di regolazione affettiva rispetto all’esperienza stessa (Solano, 2013; Bucci, 1997b; Bion, 1962b; Mc Dougall, 1998; Caretti & La Barbera, 2005). Affrontare questo genere di problematiche mediante il tradizionale invio ad uno psicologo da parte del medico potrebbe risultare del tutto inutile: se da un lato la malattia fisica è considerata fondamentalmente inevitabile, le forme di disagio psichico sono considerate, al contrario, come problematiche appartenenti a persone specifiche, da trattare in servizi appositi nei quali si accede tramite esplicita richiesta degli interessati e che nulla hanno a che vedere con i luoghi nei quali il diritto alla salute (fisica) è invece universalmente riconosciuto e tutelato (Falanga & Pillot, 2014). Un problema specifico deriva dalla difficoltà del medico a notare e prendere in considerazione le caratteristiche personali che più spesso determinano un fattore di rischio per i disturbi o le malattie somatiche, quali ad esempio la scarsa capacità a identificare, esprimere e regolare le emozioni (Carretti & La Barbera, 2005). In tal senso, una risposta tardiva e non adeguata al problema psicologico del paziente comporta spesso la persistenza e il peggioramento dei sintomi, con un aumento del disagio della persona e con una spesa maggiore per il servizio sanitario (Bianco, 2018).

Secondo Luigi Solano (2010), l’introduzione di uno Psicologo di Base in una dimensione di collaborazione congiunta a fianco del medico di famiglia permette di offrire un approccio globale alle richieste dei pazienti, senza la necessità né di un invio né di una specifica domanda psicologica. Una assistenza così organizzata può quindi permettere di:

  • intervenire in una fase del disagio iniziale, in cui non si sono organizzate malattie gravi e croniche sul piano somatico fortemente limitanti una realizzazione ottimale della persona;
  • garantire accesso diretto ad uno psicologo per tutta la popolazione, evitando il filtro della valutazione medica che dal canto suo può indurre al rischio (o la certezza) di essere etichettati come “disagiati psichici”;
  • offrire un ascolto che prenda in esame, oltre alla condizione biologica, anche la situazione relazionale, intrapsichica, di ciclo di vita del paziente;
  • effettuare correttamente, ove la situazione lo richieda, degli invii a specialisti della Salute Mentale;
  • favorire l’integrazione di competenze tra Medicina e Psicologia, con arricchimento culturale di entrambe le figure professionali;
  • limitare la spesa per analisi cliniche e visite specialistiche, nella misura in cui queste derivino da un tentativo di lettura di ogni tipo di disagio all’interno di un modello esclusivamente biologico o, per meglio dire, strettamente biomedico.

Nell’ambito delle politiche di inserimento della figura psicologica all’interno del sistema della medicina di base e della collaborazione con i Medici di Medicina Generale, una delle iniziative più note, è stata l’introduzione ufficiale del Primary Care Psychologist (Psicologo delle Cure Primarie) nei Paesi Bassi (humantrainer.com, 2014). Questa figura, presente da più di trent’anni e che ha raggiunto nei Paesi Bassi le 6000 unità, lavora in media per il 60% su invio del medico di base, per il 40% su richiesta spontanea dei pazienti; viene retribuito con fondi pubblici fino ad un numero di 12 colloqui; realizza un’assistenza psicologica di primo livello per ogni età e condizione; utilizza l’approccio terapeutico che ritiene più utile nel caso specifico; si sforza di adottare un’ottica di promozione della salute e organizza, quando necessario, invii di secondo livello (14% circa dei casi) ad un’assistenza psicologica o di tipo psichiatrico (Solano, 2013). A ben riflettere, nonostante l’innegabile bontà di una simile iniziativa, la maggior parte delle persone che si recano da questi colleghi, risultano portatori di disturbi ben definibili in termini psicodiagnostici; persone che, contrariamente a quanto non accada nei disturbi somatici caratterizzati da sintomatologia medica/psichiatrica inspiegabile (MUS), sono riuscite ad esprimere con una certa chiarezza un disagio, a se stessi e al loro medico, in termini di disturbo psichico (Derksen 2009; cit.in Solano, 2013).

Nel nostro Paese, un tentativo di istituire la figura dello Psicologo di Base è stato realizzato, a partire dal 2009, mediante l’iniziativa del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano (cattolica.it, 2009). Il progetto mira a promuovere il benessere individuale e collettivo e si sviluppa come una ricerca-intervento che ha la finalità di accogliere il disagio psichico delle persone; alleggerire di “richieste non appropriate” il servizio sanitario pubblico in ambito psicologico (con conseguente risparmio delle strutture socio-sanitarie); offrire a persone di tutte le fasce di reddito, a cominciare dai quartieri periferici della città, la possibilità di una consulenza psicologica gratuita di base per una possibile risoluzione del problema o un eventuale invio ai servizi specialistici del territorio. Nello specifico, è stata prevista l’attivazione di un servizio di consultazione psicologica presso alcune farmacie per un numero di sei sedute gratuite. L’ambito di intervento è comunque apparso meno limitato al disagio psichico esplicito, che sottende soltanto il 50% circa degli interventi effettuati (Molinari et.al, 2011; cit.in Solano, 2013). Anche in questa prassi, tuttavia, l’onere di decidere di consultare il professionista, per quanto più a “portata di mano”, resta a carico dell’utenza. Oltre che per ragioni legate a questioni di puro buon senso, alla luce dell’importante ruolo della psicologia nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) − definito dal DPCM del 12 gennaio 2017 (panoramasanita.it, 2017) − sembra chiaro come una collocazione dello Psicologo di Base che sia ampiamente separata dell’assistenza sanitaria di base, rischia comunque di non essere utilizzata da coloro che potrebbero averne maggiore bisogno. Simili iniziative, se pur articolate e sistematizzate in maniera del tutto differente, sono state attivate anche in altre aree d’Italia.

A partire dal 2000, inizialmente nella città di Orvieto, poi in diverse località di Roma e del Lazio, la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della “Sapienza” Università di Roma, ha organizzato la presenza di uno psicologo specializzando nello studio di 10 Medici di Medicina Generale come percorso di tirocinio formativo (Solano, 2011). L’attività dello psicologo si è svolta tendenzialmente nelle seguenti modalità:

  • osservazione delle richieste e delle modalità di strutturazione della relazione con il medico, da parte di ciascun paziente;
  • inquadramento psicosociale dei casi osservati;
  • discussione e confronto con il medico sui casi osservati;
  • eventuale intervento esplorativo nei confronti del paziente, nell’ambito della visita ambulatoriale o con appuntamenti specifici al di fuori dell’orario di visita del Medico;
  • invio ad operatori della Salute Mentale, ove richiesto e previa accurata valutazione.

L’iniziativa di copresenza Psicologo di Base/Medico di Medicina Generale, oltre che del tutto fattibile, ha riscontrato il gradimento della grandissima maggioranza dei pazienti e ha comportato un ridotto numero di invii ad operatori della Salute Mentale, dissolvendo in buona parte il timore di un incremento di richieste ai servizi specialistici, con conseguente aumento di spesa sanitaria. Ogni psicologo nel corso di 3 anni ha incontrato circa 700 pazienti, è intervenuto in circa 120 casi, in modo più approfondito in circa 15. In un caso in cui è stato possibile conoscere la spesa farmaceutica relativa allo studio medico prima e dopo l’ingresso dello psicologo si è riscontrato un risparmio del 17%, pari a 75.000 euro in un anno.

Nonostante la frammentarietà territoriale delle esperienze qui descritte, e delle molte altre che per ragioni di sintesi e praticità non sono state riportate, sembra essere indubbia la possibilità di uno sviluppo della professione nella più ampia dimensione del riconoscimento sociale, istituzionale e delle politiche sanitarie del nostro Paese (cosa che tuttavia non ha ancora avuto luogo!).

Ma cosa è necessario fare/pensare affinché questo si realizzi nel migliore dei modi e nel più breve tempo possibile? Ai fini del riconoscimento istituzionale della figura dello Psicologo di Base, quanto potrebbe risultare utile la pensabilità e la promozione di una colleganza interprofessionale (tra medici e psicologi) che possa svilupparsi, almeno inizialmente, anche al di fuori degli studi dei Medici di Medicina Generale (associazioni culturali, di volontariato, di prevenzione, promozione della salute etc.)? In che misura potrebbe essere accettabile e utile una negoziazione della propria specificità professionale senza cadere nella trappola del “servilismo” alla biomedicina, ma tuttavia ponendo le basi per uno sviluppo della professione basato sulla strutturazione di percorsi collaborativi e di copresenza?

Senza alcuna ombra di dubbio il tema discusso porta con sé una enorme mole di quesiti, molti dei quali probabilmente non troveranno risposta entro breve tempo. Ciò che tuttavia risulta chiaro è che il tema dello “Psicologo di Base” mette in luce, ancora una volta, la necessità di lavorare sulla comprensione delle rappresentazioni sociali legate alla nostra professione e, non di meno, sul riverbero che possono avere nella strutturazione di nuovi percorsi di sviluppo per la psicologia, nei diversi ambiti e campi di applicazione.

 

 

Scarsa autostima e ansia di tratto: una battaglia da vincere

Nel mondo della psicologia sono state condotte numerose ricerche sul costrutto dell’autostima, in quanto essa risulta di fondamentale importanza sia nei processi psichici individuali, sia nei rapporti interpersonali. Il benessere mentale è imprescindibile dalla costruzione di una sana autostima.

 

Tuttavia, molte situazioni di disagio psicologico sono caratterizzate proprio da problematiche inerenti la stima di sé, che risulta spesso carente, inadeguata e connotata negativamente. Frequentemente, tali casi si accompagnano ad un altro fenomeno di rilievo clinico, ossia l’ansia di tratto, dando vita ad un binomio pericoloso in cui le due componenti si rafforzano vicendevolmente. L’intervento psicologico, può risultare molto utile per sciogliere questo binomio, ricostruendo una storia personale più armoniosa ed integrata.

Nell’attuale contesto globale, risulta sempre più difficile avere una percezione positiva delle proprie qualità e competenze. Non tutti riescono a far fronte alle continue richieste di miglioramento e ampliamento del proprio curriculum professionale, umano ed esperienziale. Soddisfare le richieste di perfezione che provengono dalla realtà esterna è un arduo compito che pone molti individui in una condizione di conflitto tra la valutazione delle proprie capacità ed il timore di non poter raggiungere e/o sviluppare le qualità sperate e desiderate. I requisiti di accesso nei contesti relazionali sembrano diventare sempre più specifici e circoscritti, escludendo di conseguenza tutti coloro che non rispondono a determinati target e stereotipi sociali. La difficoltà di accedere ad alcune delle più importanti dimensioni della vita umana, come quella sociale e quella lavorativa, sembra essere particolarmente accentuata nelle persone che sono dotate di una negativa e scarsa autostima. Le persone che tendono a svalutarsi, generalmente, estendono ad ogni ambito della vita quotidiana la loro fragile e scarsa autostima, reputandosi sostanzialmente incapaci di saper fare e saper essere.

Probabilmente, le origini delle problematiche inerenti la scarsa autostima, vanno ritrovate nell’infanzia e nelle successive fasi evolutive. I caregivers svolgono un ruolo di primaria importanza nel processo di costruzione di una sana e armoniosa immagine di sé. Il bambino, fin dalla sua nascita è soggetto ad una prima e fondamentale valutazione, poiché durante tutta la gravidanza i suoi genitori lo hanno immaginato e sognato, dandogli forma e vita come il loro bambino ideale. Pertanto, alla nascita il bambino reale viene giudicato in base alla sua corrispondenza o meno al bambino immaginato e ideale. Dunque, l’ansia di essere valutati, approvati ed accettati, è un tipo di emozione che nasce insieme all’essere umano. È l’esperienza ambientale che può offrire all’uomo la possibilità di non sentirsi oppresso da queste forme di giudizio. I genitori, insieme a tutti gli altri individui che ruotano intorno alla vita del fanciullo, hanno il compito di favorire una crescita sicura, soddisfacendo i principali bisogni emotivi che strutturano le prime fasi evolutive del bambino. È molto importante convalidare le richieste di approvazione e di accettazione dei bambini, poiché, se questi ultimi non vengono valorizzati dalle loro principali figure di riferimento, è molto difficile che riescano a farlo autonomamente. Come spesso accade, i bambini hanno bisogno di imitare gli adulti per apprendere la conoscenza del mondo ed il suo funzionamento. Dunque, se i caregivers riescono ad apprezzare il valore del bambino, è probabile che quest’ultimo farà lo stesso perché si sentirà in grado di meritare quella valutazione positiva e quindi cercherà di mantenerla nel corso del tempo, anche se suscettibile delle ulteriori e progressive influenze ambientali.

L’importanza dell’autostima è stata riconosciuta da numerosi studiosi, tra cui Maslow, il quale teorizzò la famosa “piramide dei bisogni”, indicando l’insieme delle principali esigenze che andrebbero corrisposte nel processo evolutivo di ogni individuo. Secondo tale concettualizzazione teorica, ci sarebbe innanzitutto il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, a seguire quelli di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione (A.H. Maslow, 2010). La stima di sé, costituisce un processo il cui inizio e la cui fine non possono essere stabiliti con esattezza, in quanto è una dimensione che può variare nel tempo e risente notevolmente delle esperienze ambientali che vengono vissute progressivamente e che hanno il potere di confermare o disconfermare alcuni schemi cognitivi di autovalutazione.

Dunque, se nel corso del tempo vengono collezionati prevalentemente eventi disfunzionali per la costruzione di una sana autostima, l’effetto finale sarà quello di sentirsi incapaci, inadeguati e mai all’altezza. In questi casi, la svalutazione delle proprie abilità e del proprio modo d’essere, può favorire la diffusione di timori e di preoccupazioni, a partire dal confronto con gli altri, i quali vengono considerati sempre migliori e brillanti. Tutto ciò può innescare una serie di dinamiche problematiche, che spesso riguardano l’ansia, soprattutto quella anticipatoria o di prestazione.

Le persone che hanno difficoltà con la propria autostima, sono costantemente insoddisfatte perché non riescono (o credono di non riuscire) a raggiungere gli obiettivi prefissati, o perché si considerano incapaci di raggiungerli a priori, senza neanche averci provato. Spesso, costoro cadono vittime della “profezia che si autoavvera”, per cui assumono un atteggiamento pessimistico e danno per certo il loro fallimento in un determinato ambito, e alla fine, credendo fortemente di essere incapaci, falliscono realmente (R. K. Merton, 1968). Ad esempio, nel caso di un colloquio di lavoro, prende forma la convinzione assoluta dell’esito negativo dell’opportunità presentatasi, si scatena l’ansia anticipatoria che incrementa il livello di tensione, e per ridurre il carico di pressione ci si convince del fallimento del colloquio, con la conseguente illustrazione parziale delle proprie competenze effettive, le quali vengono oscurate dalla stessa convinzione illusoria di non possederle. Prende atto, in questo modo, un circolo vizioso che spinge l’individuo a mostrare le parti più deboli di sé, perché pensa di avere solo quelle, e mostrando unicamente i propri limiti (immaginari) colleziona continue conferme del suo scarso valore.

La fragilità di chi ha queste difficoltà, si manifesta non solo nei contesti più strutturati ed esigenti come quelli lavorativi, ma anche nei rapporti sociali ed affettivi. La socialità è una delle aree della vita umana che risente notevolmente degli effetti di una scarsa autostima. Avere una sfavorevole stima di sé stessi spesso può tradursi nella difficoltà di instaurare sani rapporti interpersonali. “Non sono un buon amico”, “Non sono una buona madre”, “Non sono una moglie all’altezza”, “Non sono il figlio che i miei genitori volevano”, “Non valgo nulla”, sono tutte espressioni frequentemente utilizzate da chi tende a svalutarsi.

D’altra parte, vivere accanto a chi ha problemi di questo genere, non è un’esperienza facile da gestire, in quanto le persone che hanno una scarsa autostima, oltre a risultare frustrate, caricano i propri compagni di vita, amici e/o parenti di continue richieste di approvazione e di accettazione, ma nonostante le continue rassicurazioni ricevute, spesso permangono quegli schemi cognitivi disfunzionali che si basano su una convinzione erronea del proprio valore. L’ansia, generalmente, è un tratto tipico di queste personalità e non è quasi mai funzionale.

Come evidenziato da Cattell e Scheier nel 1961, si possono riconoscere due tipi di ansia: l’ansia di stato e l’ansia di tratto (R. B. Cattell, I. H. Scheier, 1961). Nel primo caso, l’ansia può avere una connotazione positiva, in quanto essa è circoscritta ad una determinata situazione e si manifesta attraverso un’attivazione psicofisica che comporta un incremento di tensione utile e funzionale per lo svolgimento di un compito. Nel secondo caso, invece, l’ansia costituisce un tratto stabile della personalità e condiziona negativamente ogni pensiero e/o azione dell’individuo. L’ansia di tratto porta ad amplificare il valore ed il peso degli eventi della vita quotidiana, i quali vengono considerati tutti ingestibili e faticosi, a prescindere dalla loro portata reale ed effettiva. La scarsa autostima e l’ansia di tratto sono spesso unite e tra di loro c’è un’influenza reciproca. Chi crede di non valere nulla, manifesta abitualmente una sorta di ansia da prestazione che deriva dalla convinzione di non essere capaci. Viceversa, chi vive in una continua condizione di ansia, difficilmente potrà fornire una performance eccellente, confermando in tal modo la sua incapacità e, quindi, il suo scarso valore.

La sofferenza che si nasconde dietro queste contorte dinamiche è immensa e necessita di un complesso lavoro psicologico volto a ristrutturare l’identità generale della persona. Di fatti, chi ha poca stima di sé stesso può presentare un’identità frammentata, incerta e lacunosa. È proprio la sensazione di essere incompleti in qualcosa, in questo caso nell’autostima, che favorisce quel vissuto di perenne insoddisfazione e di continua ricerca negli altri delle parti di cui ci si considera privi. In realtà, ogni individuo è già completo singolarmente e possiede una propria unicità, inimitabile e irripetibile, che deriva dalla storia personale. Pertanto, in questi casi, l’intervento psicologico dovrebbe puntare a trasformare i limiti del proprio vissuto privato, in punti di forza capaci di accrescere la stima nelle proprie potenzialità e abilità. Risulta necessario, dunque, un lavoro di rielaborazione della propria storia personale, al fine di attribuire nuovi significati a quegli eventi che hanno contribuito a gettare le basi di una scarsa autostima, fragile e vacillante, intervenendo di conseguenza anche sui tratti ansiosi. D’altra parte, uno degli aspetti più importanti della vita umana è proprio quello di creare continue possibilità per modificare e migliorare la propria condizione, specialmente laddove questa sia fonte di sofferenza e di repressione del proprio valore personale.

 

Oltre la risposta emozionale all’emergenza pandemica. Il COVID-19 come vaccino semiotico – Parte II: La promozione del capitale semiotico come obiettivo strategico per il governo della fase 2

In questo periodo di emergenza legato al Covid-19 i cittadini sono stati riconosciuti, nel migliore dei casi, come bisognosi di supporto rispetto all’impatto psicologico prodotto in loro dalla crisi, piuttosto che una risorsa per affrontare la crisi, e quindi un target strategico da potenziare.

Il testo è una versione breve e rielaborata dell’articolo: Venuleo, C., Gelo, O., Salvatore, S. (2020). Fear affective semiosis, and management of the pandemic crisis: covid-19 as semiotic vaccine. Clinical Neuropsychiatry, 17(2), 117-130.

 

Abstract: Il capitale semiotico può essere visto come una sorta di “antibiotico semiotico” della risposta emozionale alla crisi. Promuoverlo presso i cittadini significa promuovere risorse culturali innovative, che riconoscano nel bene comune un regolatore saliente del proprio modo di sentire, pensare, e agire.

Nella prima parte del presente contributo abbiamo proposto un’analisi dello scenario aperto dall’attuale situazione di emergenza sanitaria e delle condizioni sociali che hanno alimentato le risposte emozionali alla crisi pandemica; abbiamo altresì suggerito che, se da un lato, le emozioni di paura ed ansia hanno favorito – nella prima fase di lockdown – un certo grado di compliance rispetto alle misure restrittive decise dal Governo per contenere la diffusione del contagio, esse rischiano di essere insufficienti e inefficaci nel passaggio alla cosiddetta “fase 2”; con il rallentamento delle misure restrittive rispetto alla mobilità individuale e alla ripresa, almeno parziale, delle attività produttive, le persone dovranno confrontarsi infatti con il compito socio-cognitivo di integrare nel loro assetto mentale il riferimento al bene comune come regolatore saliente del loro modo di sentire, pensare, e agire; un passaggio complesso, non scontato, che necessita l’attivazione di strategie istituzionali in grado di sostenerlo.

I cittadini come potenziale driver del governo della crisi

Le istituzioni stanno facendo un grande sforzo per procurare e sviluppare le risorse strutturali e tecniche necessarie per maneggiare la crisi da un punto di vista medico-sanitario e affrontare l’impatto sociale ed economico del lockdown (ad es., assunzione di nuovi medici e di nuovi infermieri, creazione di nuovi posti letto negli ospedali, disponibilità di credito e supporto finanziario, piattaforme per lo smart working, formats amministrativi e cornici normative, ecc.); sembrano tuttavia mettere sostanzialmente in secondo piano la promozione delle risorse psicosociali (visioni del mondo, cornici interpretative, credenze, modi di sentire, pensare e agire) necessarie a sostenere e motivare il comportamento sociale e individuale e quindi la capacità di affrontare la crisi: i cittadini sono visti, nel migliore dei casi, come bisognosi di supporto rispetto all’impatto soggettivo prodotto in loro dalla crisi (stress, stati depressivi e ansiosi), piuttosto che un potenziale driver del governo della crisi, una risorsa, da riconoscere per il contributo che può portare alla comunità, e quindi un target strategico da potenziare.

Lavorare a questo obiettivo significa, dal nostro punto di vista, lavorare alla promozione del capitale semiotico.

Promuovere capitale semiotico

Possiamo definire in termini di capitale semiotico le componenti di significato (abiti impliciti, visioni del mondo, valori, rappresentazioni sociali, modelli cognitivi, sacche di conoscenza implicita ed esplicita) che alimentano la capacità degli individui di interiorizzare la dimensione collettiva della vita e, così facendo, di assumere il bene comune quale componente regolativa soggettivamente significativa della propria identità (Salvatore, Fini et al., 2018). Grazie al capitale semiotico, le persone possono sentire l’interesse collettivo come qualcosa che conta, riconoscere il valore delle “regole del gioco” alla base della convivenza e l’interdipendenza tra punti di vista – perciò il bisogno di strutture e istituzioni che permettono la cooperazione e il coordinamento richiesto per l’azione collettiva; possono, altresì, usare il bene comune come una cornice sovra-ordinata di senso alla base degli atteggiamenti contingenti e delle azioni nelle situazioni concrete. Da questa prospettiva, il capitale semiotico può essere visto come una sorta di “antibiotico semiotico” della cornice culturale e soggettiva che dà forma all’attuale interpretazione emozionale di affrontare la crisi. Come promuoverlo?

Seguendo Andriola e colleghi (2019), è utile distinguere tra due complementari linee di azione. Primo, la promozione del capitale semiotico richiede politiche sistemiche strutturali volte alla riduzione globale dell’incertezza. Il basso livello di capitale semiotico, infatti, è strettamente connesso allo stato di radicale incertezza esistenziale che costituisce la partecipazione alla vita sociale in un vasto segmento della popolazione – i cosiddetti “perdenti” della globalizzazione (Teney, Lacewell & De Wilde, 2014; Williamson, 2005) ma non solo. Questo perché la salienza di modi fortemente emozionati di interpretare la realtà – che nell’attuale milieu culturale si esprimono nei termini dello schema amico-nemico – è il modo con cui le persone danno senso al loro mondo quando esso si presenta troppo complesso, incerto, opaco, al di fuori non solo del proprio governo, ma anche della possibilità di rappresentarlo (Salvatore, Mannarini et al., 2019; Salvatore, Palmieri et al., 2019). La rappresentazione emozionale dell’Altro come nemico, pericolo, untore, restituisce senso, sia pure fittizio all’esperienza; al contempo, è evidentemente incompatibile il compito di assumere il bene comune, e quindi il “Noi”, come regolatore delle proprie valutazioni e dei propri comportamenti (Di Maria, 2005; Montesarchio & Venuleo, 2008).

Gli interventi strutturali richiesti per ridurre l’incertezza implicano nuove politiche economiche volte ad esempio a ridurre l’inuguaglianza e l’insicurezza economica, a limitare l’opacità e l’auto-referenzialità del sistema finanziario, e la sua separazione rispetto ai sistemi produttivi, a potenziare una cornice regolativa nazionale e sovra-nazionale e, in questo modo, creare una barriera protettiva dall’aggressione delle dinamiche di globalizzazione. Inoltre, la riduzione dell’incertezza passa attraverso un nuovo patto istituzionale che inverte l’attuale trend che caratterizza molte società, dove le istituzioni sono percepite dai cittadini come parte dei problemi piuttosto che come una risorsa. Devono essere fatti sforzi per potenziare le istituzioni, e questo non solo nella loro efficacia tecnica e amministrativa, ma anche e soprattutto nella visione e mission: nella loro capacità di entrare in sintonia e di promuovere il modo delle persone di sentire e di pensare. Ancora, è necessario un ripristino della vision delle pratiche del sistema welfare system, con una radicale inversione delle politiche neoliberali di smantellamento. Il sistema di welfare è infatti sia il buffer diretto dell’incertezza che il setting entro il quale gli individui possono avere esperienza concreta – in domini chiave della vita come la salute e l’educazione – della valenza significativa e promozionale del legame con la società e le istituzioni.

Secondo, la promozione del capitale semiotico è una questione di promozione di risorse culturali innovative, come anche di processi psicosociali tramite i quali tali risorse sono interiorizzate. Questo livello di intervento richiede investimento nelle infrastrutture sociali e di comunità che promuovono tali processi di innovazione civica e socio-culturale. Se si vogliono promuovere nuovi significati per le relazioni, e quindi nuovi modelli di relazioni occorre infatti promuovere pratiche sociali fondate da tale significato. In altre parole, per promuovere il valore della cooperazione (così come della non violenza, della solidarietà, ecc.), non è sufficiente invocarlo; occorre, piuttosto, implementare pratiche sociali fondate sulla rappresentazione dell’altro come risorsa. Prima viene l’azione, poi il significato. Il capitale semiotico emerge quindi dalla generalizzazione delle strutture di setting di azione: veicolato attraverso la progettazione e l’attivazione di setting di pratiche sociali che incapsulano le visioni del mondo, le credenze e la visione dell’alterità che costituisce il capitale semiotico.

In questa prospettiva, un ruolo strategico possono giocare i corpi sociali intermedi (ad es. ONG, gruppi ad hoc, associazioni, forme organizzate di partecipazione civica alle istituzioni locali). Questo perché i corpi intermedi rappresentano il luogo dove i mondi vitali delle persone e la loro soggettività incontrano la dimensione astratta e universalistica della cornice istituzionale e possono fondersi con essa. In questo senso, i corpi sociali intermedi sono il laboratorio naturale del capitale semiotico. D’altro canto, i corpi intermedi hanno progressivamente perduto la loro rilevanza, almeno nelle società occidentali, e questo può essere interpretato come la causa maggiore della mancanza di capitale semiotico e un chiaro indicatore dell’attuale crisi socio-politica (Russo, Mannarini & Salvatore, 2020).

Covid-19 come vaccino semiotico?

Il mantra del “niente sarà come prima” accompagna questi giorni di pandemia, sia come modo di rimarcare l’impatto distruttivo della crisi, che come modo di esprimere la speranza che la crisi solleciterà un ripensamento radicale dei principi e dei criteri che hanno orientato decisioni politiche ed investimenti.

Probabilmente, è più realistico pensare che qualcosa cambierà se le istituzioni e la società saranno capaci di apprendere qualcosa dalla crisi. Tuttavia, il mantra escatologico contiene una verità: dopo decadi dominate dalla retorica della fine della storia (Fukuyama, 1992) e a disconoscere la dimensione temporale della vita sociale – come se vivessimo nell’eterno presente regolato da norme sociali ed economiche invarianti, immanenti alla realtà dei fatti – il profondo sconvolgimento della pandemia ha fatto in modo di aprire le nostre routine ad una riappropriazione semiotica del nostro futuro collettivo. Il futuro è ancora un oggetto pensabile, che regola il nostro presente e ci aiuta a renderlo significativo.

La pandemia ci offre la possibilità di ripristinare la rappresentabilità del tempo – la possibilità di sviluppare la vision del mondo sociale – sia a livello locale che sistemico – come una realtà dove le persone e le istituzioni possono apprendere e cambiare, e perciò dove è significativo investire sforzi e competenze per rendere migliore il luogo in cui viviamo.

Naturalmente questo passaggio è complesso e assolutamente non scontato. Tuttavia, tale consapevolezza non deve impedirci di riconoscere la potenziale innovazione che la “pandemia” ha rispetto ad altri fenomeni che sono stati usati e che vengono usati per motivare lo sviluppo sociale (ad es., i rischi associati al cambiamento climatico, l’inuguaglianza economica, il riferimento a valori e cornici etiche). Infatti, rispetto ad altri, sia pure rilevanti problemi, la pandemia ha quattro caratteristiche che la rendono una risorsa semiotica potenzialmente molto importante per motivare lo sviluppo psicosociale:

  • è globale: sia pure con un’estensione variabile tra i paesi, la pandemia – e lo sconvolgimento delle routine connesse allo sforzo di contenerla – coinvolge tutti i domini della vita sociale e rende ciascuno simile agli altri – star del cinema, giocatori, ministri di Gabinetto, condividono tutti le stesse procedure e condizioni della gente comune;
  • è trasversale: comprende domini individuali concreti dell’esperienza (ad es. la restrizione del movimento, l’esperienza di vedere l’ambiente urbano deserto), livelli più astratti e mediati della vita sociale (ad es. le nuove forme di smart working, l’interruzione degli eventi sportivi, i discorsi mediatici), così come il livello più astratto e globale della salute e del governo istituzionale della crisi (ad es. i modelli matematici dei trend epidemici, il processo decisionale istituzionale);
  • è costitutiva dell’identità: è vissuta come qualcosa concernente, nel qui ed ora, il cuore dell’esistenza individuale, la salute propria e degli altri significativi, così come i modi di esercizio dei legami interpersonali;
  • è transizionale: implica setting, esperienze, discorsi e pratiche dove istituzioni e individui sono chiaramente reciprocamente identificabili come risorse e condizioni di possibilità – ad es., gli individui hanno la possibilità di esperire il processo decisionale istituzionale nei termini del suo effetto diretto e quasi immediato sulla loro vita, così come le istituzioni dipendono nelle loro iniziative da come le persone sentono e si comportano.

In ragione di queste caratteristiche, la pandemia potrà lavorare come il catalizzatore di setting sociali e di pratiche tramite le quali le persone potrebbero agire e, quindi interiorizzare la reciproca immanenza della dimensione individuale e sistemica dell’esperienza. É in questo senso che abbiamo proposto di pensare al COVID-19 come un vaccino semiotico (Venuleo, Gelo & Salvatore, 2020): un destabilizzatore del mondo sociale, potente e sufficientemente esteso e tuttavia non pienamente distruttivo, che catalizza la risposta del milieu culturale, alimentando la produzione degli antibiotici semiotici richiesti per potenziare gli sforzi individuali e istituzionali per governare la crisi odierna e apprendere da essa come costruire un domani migliore.

La storia di Nadia Murad: un simbolo di resilienza, in chiave psicoanalitica

La storia di Nadia Murad, giovane attivista e pacifista yazida, scampata al genocidio del popolo Yazida per mano dell’ISIS, simbolo estremo di resilienza, letta in chiave psicoanalitica.

 

Nadia Murad è una giovane donna yazida del Sinjar, nell’Iraq settentrionale, oggi diventata famosa perché ha avuto il coraggio di denunciare il genocidio terribile che il suo popolo ha vissuto a partire dal 2014, per mano dell’ISIS, e tutte le angherie brutali e disumane che ha dovuto sopportare sulla sua pelle. La pelle di una giovane ragazza di 21 anni, che nel giro di pochi attimi, si trova sradicata dalla vita tranquilla di studentessa, dal suo sogno di diventare truccatrice, dalla quotidianità nei campi, per aiutare e supportare la sua famiglia. Nadia dopo essere stata imprigionata e venduta come schiava sessuale riesce a scappare e a raggiungere Baghdad, e da lì ad arrivare in Germania, dove finalmente la sua vita può ricominciare, ma portando nel cuore e sul corpo il terrore ed il dolore della prigionia, dell’aver visto uccidere tutti gli uomini del suo villaggio, dell’aver visto tutte le sue compagne violentate e vendute come schiave di meschini e animaleschi compratori. Porta con sé il dolore della perdita di una madre, dei suoi fratelli, di sua nipote Kathrine, ma anche il rammarico di non essere riuscita a salvarli.

Nonostante ciò, Nadia oggi si batte per i diritti umani, ha parlato a Ginevra, raccontando alle Nazione Unite il terribile massacro di cui è stata testimone, la vita che tante e tanti yazedi sopravvissuti non sapevano recuperare, sparsi per il mondo e senza nessuno che gli accogliesse. Da quel novembre 2015, numerose nazioni hanno deciso di aprire le loro frontiere ai profughi yazidi, donando loro rifugio e sostegno.

Ma ciò che spesso mi chiedo, dopo aver letto ogni minimo istante della vita di Nadia da lei raccontata nella sua biografia, è come abbia fatto a rialzarsi. Come può avere la forza di raccontare la sua storia disumana e di combattere per un mondo migliore, fatto di integrazione e rispetto?

La mia risposta è nella parola resilienza, un termine che deriva dal mondo fisico e che fa riferimento alle capacità di un materiale di subire una certa forza senza rompersi. Esso è stato poi traslato nel mondo psicologico, a indicare la capacità di una persona di affrontare e superare un evento traumatico, un periodo di estrema difficoltà, riuscendo a riorganizzare la propria esistenza, in maniera attiva e dinamica.

Ma la resilienza da dove nasce? Cosa ha fatto sì che Nadia Murad ne fosse dotata?

Innanzitutto, potremmo credere che la forza e il coraggio di Nadia siano derivabili dall’interiorizzazione di un buon “oggetto Sé”, detto in termini Kohutiani, l’interiorizzazione di oggetti che abbiano soddisfatto il bisogno di specularità e di idealizzazione del bambino, che gli abbiano permesso di sviluppare talenti e potenzialità .Questi oggetti di cui parla lo psicanalista austriaco Heinz Kohut negli anni ’70 del secolo scorso, non sono altro che il frutto delle relazioni tra genitore e bambino che hanno permesso a quest’utltimo di crearsi un’identità, una stima di sé e la capacità di istaurare le relazioni.

Sicuramente, dalla storia di Nadia, si evince il ruolo di rispecchiamento svolto dai genitori ed in particolare dalla madre Shami. Ella è per Nadia l’emblema della forza e del coraggio, poiché nonostante la povertà e l’abbandono del marito, ha cercato in tutti i modi di far sì che i suoi figli fossero “sazi e ottimisti” (citazione direttamente dalla biografia) con grande dignità e spirito di sacrificio.

Nadia racconta nella sua biografia anche le attenzioni ricevute dalla madre, la loro sintonizzazione, fatta di sguardi e sorrisi, che confermano un probabile attaccamento sicuro con lei: l’attaccamento, introdotto dallo psicanalista inglese John Bowlby negli anni ‘50, non solo permette di ricevere le cure fondamentali per la sopravvivenza e la crescita, ma conferisce la capacità di istaurare e mantenere le relazioni solide e sane, fatte di reciprocità, comunicazione e fiducia; un buon attaccamento è anche quello che, in momenti di grandi crisi, permette all’individuo di restare in vita e di non abbandonarsi alla morte, proprio come Nadia ha fatto quando era in mano ad i suoi aguzzini ed è riuscita ad avere la forza di scappare.

La capacità di aggrapparsi alla vita che Nadia ha avuto ricalca la presenza di un “buon oggetto interno”, in termini kleiniani. Melanie Klein, anche lei psicoanalista austriaca, operante negli anni ’30, parla, infatti, di Seno Buono e Seno Cattivo, in relazione al primo trimestre di vita del bambino, in cui lo stesso, in posizione schizo-paranoide, percepisce il seno della madre in maniera ambivalente (buono e cattivo al contempo), e non riesce a comprendere che appartengono alla madre stessa.

Solo successivamente, in quelle che la psicanalista chiama “fase depressiva” il bambino riesce a comprendere l’appartenenza alla madre del seno buono e del seno cattivo e provare sensi di colpa. Questo complesso sistema permette al bambino di creare una visione del mondo fatta di relazioni oggettuali e fantasie ad esse relegate.

Infine, si potrebbe affermare che in Nadia Murad il principio di Eros, quello vitale che spinge all’amore e al piacere, in tutte le sue forme compreso il piacere spirituale, è forse più forte del principio mortifero del Thanatos, descritto da Freud, e permette a milioni di persone, proprio come lei, testimone di genocidio o di stragi, di lottare perché ciò non avvenga più e di continuare a confidare nel bene dell’umano e dell’uomo. Anche il credere nella bontà di un Dio supremo, guidato dal principio del Bene, non fa che conferire coraggio agli scoraggiati e forza ai vinti.

La Schema Therapy per il disturbo borderline di personalità (2011) di Arntz e van Genderen- Recensione del libro

La Schema Therapy per il disturbo borderline di personalità affronta diverse tematiche tra cui la centralità della relazione terapeutica come strumento di cambiamento e di “parziale reparenting”.

 

La recente ricerca empirica ha dimostrato che la Schema Therapy (ST) può garantire risultati significativamente positivi nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (BPD), con la riduzione dei sintomi, cambiamenti duraturi e miglioramento clinico.

Questo volume è dedicato ai principi di questo metodo e propone un ampio ventaglio di tecniche diverse utilizzabili durante le sedute, arricchito da esempi clinici.

BPD e ST: significato e trattamento

In prima istanza, per comprendere la natura del funzionamento di questi pazienti e l’intreccio con la ST, c’è bisogno di una descrizione dello sviluppo di questo disturbo. La maggior parte dei pazienti BPD durante l’infanzia ha vissuto esperienze difficili, che spesso rimangono celate “per senso di lealtà nei confronti dei genitori” oppure non vengono nemmeno riconosciute dal paziente stesso dato che non ha avuto “modo di acquisire alcuna conoscenza su quali siano le caratteristiche di un’infanzia sana”; queste esperienze dolorose, in combinazione con il temperamento, l’insoddisfazione dei bisogni basilari e l’attaccamento insicuro sono i precursori per lo sviluppo di rappresentazioni disfunzionali su se stessi e sul mondo.

Avendo presente questa premessa si comprende l’intreccio con la tecnica oggetto: la ST lavora proprio con questi schemi sviluppati durante l’infanzia, emergenti dalla storia di vita e dalle modalità di interazione del paziente, chiarendo i fattori che hanno influenzato lo sviluppo delle modalità, dando loro nome e significato, per l’identificazione e l’applicazione di strategie funzionali.

La ST non adotta un protocollo prefissato che descrive seduta per seduta, ma si descrivono fasi essenziali quali la formulazione del caso, il trattamento dei sintomi, la gestione delle crisi, l’intervento terapeutico sulle modalità degli schemi, il trattamento dei traumi infantili e la modificazione dei modelli comportamentali. Il terapeuta aiuta il paziente a diventare consapevole dei propri atteggiamenti e scoprire il collegamento con le proprie modalità: “Il modello della modalità espressiva dello schema tenta di promuovere l’insight dei pazienti a proposito dei loro cambiamenti di umore e discontinuità comportamentale.”

La relazione terapeutica

“La relazione terapeutica non è solo un porto sicuro per la paziente, ma deve anche svolgere la funzione di occasione di cambiamento.”

Tema strategico della ST è la concettualizzazione della relazione terapeutica come strumento di cambiamento e di “parziale reparenting”, in cui il ritratto genitoriale vissuto contemporaneamente come minaccia e “potenziale porto sicuro”, viene compensato da “una forma artificiosa di genitorialità” plasmata dalla relazione terapeutica sana e sicura in cui l’ascolto della voce del terapeuta è mezzo di cura e d’aiuto nell’imminenza di una crisi. È facilmente comprensibile come in una relazione terapeutica di questo tipo sia richiesto un coinvolgimento superiore alla media, in cui le aspettative del paziente sono elevate e il terapeuta deve saper comunicare il limite del setting per non creare la ripetizione di un modello di abbandono, ben conosciuto dal paziente, ma inviare messaggi chiari e porre l’attenzione sul comportamento, insegnare un modello che rappresenti un esempio funzionale, mantenendo un atteggiamento determinato ma amichevole.

La ST richiede una relazione a lungo termine con pazienti che non solo fanno esperienza di fortissime emozioni, ma ne suscitano altrettante in coloro che li circondano. Per questo motivo è importante che “il terapeuta sia dotato di una buona capacità di insight e sia consapevole delle situazioni nelle quali i comportamenti altrui possono attivare gli schemi.”

Le tecniche esperienziali

“Quando ero una bambina, mi spaventavo facilmente, ma ora questo non è più necessario. La reazione di mia madre alla mia paura era inappropriata, perché era stressata..”

In questo capitolo gli autori descrivono le principali tecniche esperienziali orientate a modificare le percezioni del paziente, modificando il significato delle rappresentazioni schematiche derivate dalle esperienze passate. Il terapeuta spiega che pur non essendo possibile cambiare il passato è però possibile cambiare le conclusioni tratte dalle esperienze.

“La sensazione di sicurezza è uno dei traguardi fondamentali di questo esercizio.”

Il terapeuta crea le condizioni che faranno sentire il paziente in un luogo sicuro e aiuta il paziente a formulare un’interpretazione alternativa in modo che possa provare sentimenti più funzionali verso se stesso e una maggiore consapevolezza del modo in cui sentimenti, pensieri e comportamenti sono influenzati dalle differenti modalità.

“La paziente si rende conto di non aver sbagliato e che non meritava di essere maltrattata: invece era una bambina piccola bisognosa di cure… – Non ero colpevole della situazione… (ora) mi sento rilassata e non sono spaventata-“.

Uno dei più grandi traguardi dell’esercizio viene raggiunto quando il paziente scopre che era sbagliata la situazione in cui si è trovato a crescere anziché pensare di essere sbagliato lui stesso. L’esercizio favorisce la consapevolezza dei propri sentimenti e dei propri bisogni e lo sviluppo di schemi più funzionali.

Un altro importante traguardo è costituito dall’elaborazione emotiva degli avvenimenti traumatici.

Le tecniche cognitive, comportamentali e specifiche

Quando la terapia è progredita al punto che il paziente è in grado di fronteggiare le proprie cognizioni disfunzionali senza essere travolto da emozioni negative ed è in grado di far ricorso alla propria modalità funzionale, il terapeuta può cominciare a insegnargli come riconoscere le varie sfumature dei pensieri usando le tecniche cognitive e come applicare nuovi comportamenti.

Nel libro vengono elencate e spiegate le tecniche principali per sviluppare punti di vista più funzionali (es. la scala visiva analogica, il grafico a torta, la tecnica del palazzo di giustizia, il test storico, il diario positivo).

Spesso questi pazienti sono cresciuti senza un supporto educativo, quindi è necessario spiegare loro quale sia il comportamento adeguato, quali quelli dannosi e impostare un’impalcatura per la costruzione di alternative positive che possono essere a disposizione del paziente al bisogno.

“Pensare in modo diverso e sentire in modo diverso, non sempre si traduce automaticamente nel comportarsi diversamente.”

Il terapeuta deve dedicare attenzione al fatto che i pazienti BPD hanno la tendenza a essere selettivi nei loro ricordi e confermare i vecchi sistemi disfunzionali, quindi è importante tenere allenata la modifica dei comportamenti con esercizi pratici e homework, applicarsi quotidianamente in esercizi di meditazione e rilassamento che costituiscono una forma alternativa di coping nei confronti di emozioni molto intense, non per distaccarsene ma per accettarle, al fine di imparare a provare intense emozioni negative senza mettere in atto i vecchi meccanismi nocivi.

Il libro è arricchito dagli autori con pillole di gestione delle crisi e l’elaborazione dei traumi, tematiche considerate importanti dalla ST.

“Una partita a scacchi giocata contro più avversari simultaneamente, all’interno di un flipper”.

In questa parte gli autori spiegano il trattamento e la gestione delle diverse modalità che si presentano nel paziente all’improvviso senza controllo. In questo flipper le azioni del terapeuta sono volte a creare una certa tranquillità e ogni volta che una nuova modalità compare è compito del terapeuta individuare questo cambiamento, dargli un nome e modificare la propria strategia in termini di relazione terapeutica, gestione dei sentimenti e dei pensieri.

Questo libro può essere un compendio per i terapeuti interessati a una prospettiva che si fonda su una combinazione di terapia cognitivo comportamentale e tecniche esperienziali, come strumento di cambiamento comportamentale ed elaborazione emotiva di esperienze dolorose, con un’attenzione al trattamento, non solo ai problemi connessi ai criteri del DSM, ma anche agli aspetti psicopatologici della personalità sottesi.

Stimoli visivi e desiderio sessuale

Il desiderio sessuale può essere scatenato da stimoli esterni, ossia stimoli visivi, tattili, uditivi e olfattivi, oppure da stimoli interni, come ricordi o fantasie.

 

Tuttavia, pochi sono gli studi che hanno esaminato queste componenti del desiderio sessuale. Esso è caratterizzato da un aumento della frequenza e dell’intensità dei pensieri / fantasie sessuali verso un bersaglio (Basson, 2005, 2006, 2008), un aumento della volontà di raggiungere un obiettivo potenzialmente piacevole, ma a breve termine (Bianchi – Demicheli et al., 2016). Esso può essere innescato da un’ampia varietà di situazioni: parlare con una persona attraente, guardare immagini sensuali, fantasticare, annusare alcuni odori (Basson, 2005,2006; Kaplan, 1995; Ortigue e Bianchi – Demicheli, 2007, 2008). Ad eccezione di pazienti che soffrono di disturbo da desiderio sessuale ipoattivo (HSDD), che è definito, secondo il DSM IV, come “carenza persistente o ricorrente (o assente) di fantasie sessuali e desiderio sessuale”, che causa “marcata angoscia o difficoltà interpersonali”, ogni essere umano lo ha sperimentato nella sua vita. Pertanto, è interessato scoprire quali parti di una persona suscitano questo desiderio.

La presente indagine si è focalizzata, nello specifico, sugli stimoli visivi, con l’obiettivo di stabilire se esiste o meno un modello specifico di elaborazione visiva legato all’esplorazione sessuale di uomo e donna. In altre parole, gli autori volevano indagare quali parti del corpo sono più rilevanti nello stimolare il desiderio sessuale. A tal fine, la ricerca è stata condotta utilizzando il metodo eye –tracking mentre i partecipanti esprimevano un giudizio sul desiderio sessuale, durante la visualizzazione di stimoli visivi espliciti. I partecipanti alla ricerca sono stati 44 volontari eterosessuali single (22 uomini e 22 donne), con età media 25 anni.

Gli stimoli consistevano in 120 fotografie non erotiche di individui eterosessuali: esse raffiguravano figure femminili e maschili, della stessa fascia d’età dei partecipanti, attraenti in costume da bagno. Ciascuno doveva segnalare se sentiva o meno, per ogni stimolo presentato, il desiderio sessuale, ovvero la presenza di interesse sessuale e di pensieri sessuali o fantasie legate all’immagine rappresentata nella foto. Attraverso l’eye – tracker sono stati misurati due elementi: il numero medio di fissazioni e la durata totale di tutte le fissazioni (in secondi).

Dai risultati è emerso che il 54.7% delle fotografie ha suscitato il desiderio sessuale negli uomini, i quali osservano il corpo più a lungo. Nello specifico il torace è stato fissato più a lungo rispetto alle zone genitali e addominali. Pertanto è stato possibile concludere che il corpo sembra essere, per gli uomini, più rilevante, rispetto al viso, per l’insorgenza di desiderio sessuale. Per quanto concerne le donne, nel 29.5% dei casi, le fotografie hanno suscitato il loro desiderio sessuale. Anche per loro, il corpo sembra essere più influente nello sviluppo del desiderio sessuale, precisamente l’addome viene osservato più a lungo rispetto al torace e all’area genitale. Tuttavia, emerge che gli uomini osservano l’area genitale con maggiore frequenza rispetto alle donne, le quali, al contrario, fissano l’addome più frequentemente rispetto agli uomini. Infine, per entrambi i sessi è ugualmente rilevante l’area toracica ai fini del desiderio sessuale.

In futuro, di grande interesse sarebbe, non soltanto approfondire questo tema per soggetti omosessuali, ma indagare come il desiderio sessuale si attivi di fronte a stimoli visivi raffiguranti delle coppie.

Compassion Focused Therapy: come la compassione può aiutarci di fronte all’emergenza coronavirus – Intervista al grande Paul Gilbert

Con immenso onore, emozione e gratitudine ho intervistato il grande Paul Gilbert in tema di Compassion Focused Therapy (CFT) approfittando anche per chiedere, in vista del delicato momento comportato dalla pandemia da Covid-19, se ed in che modo la CFT può esserci di aiuto.

 

Paul Gilbert, Psicologo e Psicoterapeuta, Professore di Psicologia Clinica all’Università di Derby e fondatore della Terapia Focalizzata sulla Compassione, prova a spiegarci cosa intendere con il termine compassione.

La compassione è una motivazione e come tale necessita di uno stimolo per essere attivata a fare qualcosa, spiega il Prof. Gilbert, ricordandoci anche che lo scopo della compassione è quello di prendersi cura tanto degli altri quanto di se stessi.

Partendo dal ricordare come la funzione del nostro cervello sia quella di preservarci e difenderci da un pericolo o da una minaccia, il Prof. Gilbert continua spiegando che ogni volta che il nostro cervello percepisce uno stimolo di stress, cerca di eliminarlo o di reagire attivando un sistema di protezione (safety system) da quella che viene percepita come minaccia, con risposte ad esempio di attacco o fuga, ma anche attraverso il sistema calmante (soothing system) strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi in connessione con qualcuno. All’interno di quest’ultimo sistema ritroviamo le qualità di una mente compassionevole che, come in altre occasioni è stato approfondito, è da distinguere dai comportamenti visibili ad esempio nell’accudimento della mamma nei confronti del proprio figlio e che ci accomuna ai mammiferi, in quanto la compassione per essere tale, a differenza dell’accudimento, deve rivolgersi all’altro quanto a se stessi.

Questa premessa ci accompagna nel vivo dell’intervista dove il Prof. Gilbert ci spiega accuratamente, ma con un linguaggio chiaro ed accessibile anche ai non addetti ai lavori, il significato del termine compassione.

Definendola come “la sensibilità nel sentire e diminuire o eliminare la sofferenza in se stessi  e negli altri”, il Prof. Gilbert sottolinea come la compassione includa in sé due qualità essenziali ossia il coraggio e la sapienza. Il Prof. Gilbert ci riporta l’esempio dei pompieri che devono intervenire per spegnere un incendio, oppure ai nostri medici e personale sanitario che in questo momento stanno lavorando negli ospedali. Ciò che li aiuta nel loro lavoro e li guida, continua il Prof. Gilbert, è il coraggio perché solo la motivazione a voler aiutare non sarebbe sufficiente; serve il coraggio, ma anche la sapienza perché devono sapere cosa fare.

Ma come sviluppiamo queste due qualità?

Il Prof. Gilbert partendo dal coraggio, ci spiega anche in che modo possiamo lavorare per svilupparlo. Un primo suggerimento è quello di iniziare con il porci la domanda: che cosa ci potrebbe essere di aiuto ad affrontare le nostre difficoltà o paure?

Sappiamo che i nostri pazienti tante volte si allontanano dall’affrontare paure e sofferenza. Dunque la prima cosa è prestare attenzione e riconoscere quello che sentiamo e pensiamo, per sviluppare la consapevolezza. Sviluppare la consapevolezza, sottolinea il Prof. Gilbert, è la prima cosa da fare.

Lo step successivo invece, diventa riuscire a tollerare questa sofferenza, guardando e cercando di comprendere cosa genera sofferenza e l’ultima cosa da fare in questa fase è di accettare quello che si sente (in termini di emozioni, sensazioni, pensieri) e non giudicare.

Ed ora vediamo la parte della sapienza.

In questo caso il Prof. Gilbert, suggerisce che dovremmo chiederci: qual è la cosa che penso possa essere utile per me?

Dunque la mente deve riuscire a focalizzarsi su ciò che può servirci veramente, su ciò che può essere utile anche ad affrontare le nostre difficoltà. Anche in questo caso, ci ricorda il Prof. Gilbert spesso tendiamo all’autocritica, la colpa, la vergogna, ma tutto ciò non è di aiuto.

La CFT invece, attraverso una serie di tecniche ed esercizi, aiuta le persona a sviluppare una mente compassionevole, che possa rivelarsi più di aiuto, supporto, che in modo gentile e non giudicante infonda calma, invitando a fare un passo alla volta. Tutto ciò, ci suggerisce il Prof. Gilbert, può contribuire al nostro benessere ed alla nostra serenità.

Viene sottolineato spesso dal Prof. Gilbert che abbiamo bisogno di farci alleati il nostro corpo e la nostra mente. In tal senso, potrebbe essere utile rappresentarci una figura compassionevole, con qualità compassionevoli ed immaginarcela, immedesimarci e provare a sentire le sensazioni che nascono in noi, che percepiamo sul nostro corpo e soprattutto la differenza che percepiamo riuscendo a spostarci da una mente in stress ad una mente compassionevole.

Una mente compassionevole infatti, non ci spinge a scappare, ad attaccare, a difenderci come quando abbiamo paura, ma ci consente di chiederci ad esempio: quali sono le azioni da intraprendere di fronte a questo problema? Quali sono le azioni che mi aiuterebbero in questo momento? Come posso aiutare il mio corpo per aiutare la mia mente?

Un altro esercizio utile in tal senso potrebbe essere anche allenarsi sulla respirazione.

Imparare a respirare in modo calmo, profondo e rallentato, spiega il Prof. Gilbert, con una adeguata postura del corpo, che si predisponga con un atteggiamento di apertura, inspirando, trattenendo per qualche secondo e ed espirando cercando di essere consapevoli di che cosa il nostro corpo sta provando, diventa molto utile per infondere calma alla nostra mente ed a nostro corpo quando proviamo ad esempio paura o stress.

Questo esercizio, ci suggerisce il Prof. Gilbert, svolto per circa due minuti, consente pian piano di percepire un corpo più rilassato. A tale esercizio, continua a spiegarci, può essere utile portare attenzione alla sensazione dei nostri piedi ben ancorati per terra, nel qui ed ora, ed assumere l’espressione di un sorriso sul nostro viso.

Il nostro cervello è molto complesso nel suo funzionamento e comprenderlo non è semplice. In riferimento ad esempio alle emozioni, la mente è capace di sperimentarne di diverse “e non c’è nulla di sbagliato in questo”, sottolinea il Prof. Gilbert durante la nostra intervista, anche se spesso emozioni come paura, rabbia, tristezza non vengono accettate cercando di opporci ed evitarle, sviluppando a volte anche senso di colpa, vergogna ed un atteggiamento critico verso se stessi.

Una mente compassionevole invece, è un mente gentile, sapiente, coraggiosa, non giudicante, paziente che non critica e non si dà colpe per come si è o per ciò che si sente.

Pensiamo di nuovo ad esempio al vigile del fuoco, ci suggerisce il Prof Gilbert, o al personale sanitario che lavora in ospedale specie in questo momento e che sente la paura. Ma quello che loro fanno è concentrasi su quello che devono fare, sul loro compito. Utilizzano le loro abilità per arrivare al loro obiettivo corrispondente a “come posso essere di aiuto?”. Questo riescono a farlo, sottolinea il Prof Gilbert, perché agiscono sapientemente e con coraggio.

 

Immagine 1 – Il Professor Paul Gilbert

A partire dal riferimento nel suo esempio ai medici e personale sanitario che si trovano a lavorare negli ospedali e rispondere in prima linea a quanto causato dalla diffusione e gravità del virus covid-19,  ed in riferimento ai suoi lavori circa i tre sistemi di regolazione emotiva ho voluto chiedere al Prof. Gilbert, quale dei tre sistemi da lui elaborati stesse lavorando di più in queste persone in questa condizione di emergenza coronavirus.

Per consentire anche a chi non conoscesse l’argomento, si riporta di seguito una sintetica descrizione dei tre sistemi di regolazione emotiva di cui si fa riferimento sopra:

  • Sistema di protezione dalla minaccia (Threat System), che opera attraverso l’attivazione di particolari strutture cerebrali, come l’amigdala e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile del sistema attacco-fuga, volto a garantirci la sopravvivenza, mobilitandoci di fronte a una possibile minaccia, al fine di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza. Responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna.
  • Sistema di ricerca di stimoli e risorse (Drive System) modulato dall’eccitamento, legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al circuito dopaminergico che ci consente di sperimentare sensazione di benessere e piacere; il soggetto è più propenso a credere che la sensazione di benessere sia legata al fare. Un sistema attivante che spinge alla realizzazione di scopi.
  • Sistema calmante, appagamento e sicurezza (Soothing System), un sistema che genera in noi sollievo, quiete e serenità. Caratterizzato da stati emotivi come la calma, la tranquillità, l’appagamento ed il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo in pericolo, ci sentiamo apprezzati, accuditi; sembrerebbe strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi connessi agli altri, ed inoltre connesso anche a un maggior rilascio nell’organismo dell’ossitocina, una sostanza in grado di produrre sensazioni appaganti e calmanti.

Per saperne di più è consigliata la lettura dell’articolo La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive (2018) di P. Gilbert – Recensione del libro.

Alla domanda se nei medici o nel personale sanitario in questo momento stia lavorando più il drive system oppure il soothing system, il Prof. Gilbert giustamente ci spiega che non è o/o ma lavorano tutti e tre insieme.

Il sistema di protezione percepisce il pericolo, il drive system ci aiuta a lavorare e fare il più presto possibile per uscire dalla minaccia ed il sistema calmante, invece, interviene quando cominciamo ad essere nervosi, agitati e per evitare che tali risposte emotive diventino eccessive e disfunzionali.

In tal senso può esserci utile respirare in modo lento e profondo, altro modo ci suggerisce il Prof Gilbert, è quello di sentirsi connessi agli altri, sentirsi di fare parte di una squadra.

Riprendendo l’esempio dei nostri medici e del personale sanitario, potrebbe essere utile ad esempio a fine turno prendere un the o un caffè tra colleghi, parlare di ciò che si sta vivendo e condividere le proprie paure, sofferenze, pensieri con persone che stanno vivendo le stesse cose. Ciò può aiutarli a recuperare tempo per calmarsi, tranquillizzarsi dallo stress al quale sono esposti, continuando a perseguire i loro obiettivi rimanendo compassionevoli.

L’ultima domanda che ho voluto sottoporre all’attenzione del Prof. Gilbert, in riferimento alle possibili conseguenze che da un punto di vista psicologico a seguito dell’emergenza coronavirus le persone potrebbero presentare (come aumento di ansia, paura della contaminazione, disturbo post traumatico da stress o condotte suicidarie), è se la CFT potrebbe essere utile non soltanto in termini curativi ma anche preventivi.

Il Prof. Gilbert ci spiega che potrebbe essere molto utile in quanto ci consente di spostarci da una mente stressata ad una mente compassionevole. Ci tiene però a sottolineare che all’interno della CFT non si parla di disturbi, ma di reazioni emotive normali e questo serve rimandarlo anche ai nostri pazienti, perché la persona che pensa di avere un disturbo potrebbe sentirsi ancora più ansiosa.

Il Prof. Gilbert invece, sottolinea che è utile far capire alle persone che ad esempio avere difficoltà del sonno, essere agitati, sentirsi non capaci di fare certe cose durante la giornata, sono effetti normali che si verificano quando si ha un momento di stress; ed ancora che la cosa più importante sapere che non si è mai soli, che ci sono altre persone che provano la stessa cosa, ed infine lavorare sui sintomi in modo compassionevole, e ciò rimanda a quanto descritto sopra.

L’intervista si conclude con una serie di esempi e suggerimenti che il Prof. Gilbert ci offre in riferimento all’emergenza coronavirus e che vi elenco di seguito:

  • Allenarci nella respirazione profonda e calmante;
  • Scrivere una lettera compassionevole a se stessi;
  • Evitare di rimuginare sullo stesso problema e criticarsi per quello che si prova, ma vedere tutto ciò come una risposta normale da parte della nostra mente, alla situazione che si stanno vivendo;
  • Ricordarsi di non essere i soli ma tantissima gente sta vivendo le nostre stesse esperienze;
  • Fermarsi provando a chiedersi e rispondere a cosa può servirci, cosa può esserci di aiuto in questo momento e provarlo a fare a piccoli passi;
  • Parlare con amici;
  • Trovare persone che hanno avuto esperienza simili e condividere.

Ed infine ricordandosi di trattarsi in modo compassionevole, muovendo i nostri passi con coraggio e saggezza.

 

Guarda il video dell’intervista:

 

 

Scuola Futuro Lavoro: la prima scuola italiana per ragazzi Asperger. Intervista a Eleonora Boneschi e a Lucio Moderato

Lo scorso settembre 2019 Massimo Montini, imprenditore milanese e papà di un ragazzo Asperger, con la sua fondazione Un futuro per l’Asperger, inaugura a Milano Scuola Futuro Lavoro, la prima scuola italiana pensata per chi vive questa condizione di neurodiversità.

 

Abbiamo chiesto a Eleonora Boneschi, Dirigente Coordinamento Scolastico, e a Lucio Moderato, Responsabile Scientifico, direttore dei “Servizi Innovativi per l’autismo” di Fondazione Sacra Famiglia a Cesano Boscone, di parlarci di questo ambizioso progetto.

SOM: Scuola Futuro Lavoro è una realtà unica su tutto il territorio italiano. Perché nasce e perché proprio a Milano?

LM: Questa scuola è in verità unica in tutto il continente europeo e nasce per rispondere ai bisogni degli autistici ad alto funzionamento (Asperger) che dopo i 18 anni non sono più riconosciuti come tali dai servizi. Questo è un errore scientifico di cui ci si comincia ad occupare ma, mancando ad oggi la categoria diagnostica di “autismo adulto”, viene a mancare anche il riconoscimento dei loro specifici bisogni. Accade che la diagnosi di autismo, che accompagna un bambino lungo il suo percorso di sviluppo, garantendogli l’accesso a servizi di supporto, si perda con la maggiore età, sostituita da diagnosi “fritto misto” che non solo non descrivono la loro condizione ma interrompono l’erogazione di opportunità di sostegno, proprio nel momento critico di ingresso nell’età adulta.
I ragazzi autistici ad alto funzionamento, cioè con quoziente intellettivo nella norma o superiore, hanno spesso un ottimo potenziale di sviluppo che merita di essere sostenuto e indirizzato verso un inserimento lavorativo, componente essenziale di un progetto di vita autonoma. Sono infatti spesso abili nell’utilizzo della tecnologia e delle immagini, hanno un pensiero visivo e per questo si è pensato ad una scuola che facesse ampio uso di strumenti tecnologici e immagini per sviluppare le loro attitudini. Nasce a Milano perchè è la città italiana più “europea” ma c’è la speranza di trasferire questa iniziativa anche in altre città.

SOM: Quali sono i requisiti indispensabili per accedere a questa scuola e in che modo viene gestita la selezione dei potenziali alunni?

LM: Il requisito indispensabile è la maggiore età e l’attestazione di frequenza di una Scuola Superiore. La presenza della condizione di “Disturbo dello Spettro Autistico Lieve” non rappresenta un attributo essenziale. Sicuri della ricchezza derivata dalla prospettiva multiculturale, la scuola sceglie infatti di essere fortemente inclusiva assumendo la diversità come modello di identità e favorendo il confronto, la coesione sociale e la permeabilità fra i differenti mondi rappresentati nell’aula scolastica. Il processo di orientamento prevede un colloquio conoscitivo e la somministrazione di un questionario che oltre alle abilità tecniche, logiche e matematiche, indaga anche gli interessi dei candidati e le conoscenze di base delle materie dei corsi in partenza così da permettere l’organizzazione di gruppi classe compatibili ed omogenei.

Lontano dal rappresentare una valutazione psicometrica o diagnostica, il questionario rappresenta solo un primo approccio utile ad orientare l’alunno verso il progetto formativo più idoneo.

Il colloquio iniziale, condotto dalla coordinatrice didattica della scuola affiancata da personale qualificato e specializzato dei Servizi Innovativi per l’Autismo di Fondazione Sacra Famiglia, consente di costruire una sorta di carta d’identità dell’alunno contenente l’indicazione dei suoi punti di forza e delle fragilità insieme a informazioni circa il percorso umano e didattico pregresso.

In questa fase molto spazio viene dato anche al dialogo con la famiglia capace di restituire un quadro ancora più preciso dell’alunno. Lo scambio con la famiglia perdurerà, a seconda delle situazioni e delle necessità, tutto l’anno attraverso la condivisione periodica delle azioni formative volte a salvaguardare la continuità operativa.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Scuola Futuro Lavoro la prima scuola per ragazzi Asperger Intervista Imm 1

Scuola Futuro Lavoro la prima scuola per ragazzi Asperger Intervista Imm 2

Scuola Futuro Lavoro la prima scuola per ragazzi Asperger Intervista Imm 3

 

SOM: Immagino che le caratteristiche dei vostri alunni comportino una metodologia didattica basata sui loro punti di forza e mirata alla promozione delle competenze più deficitarie. Come si traduce questa ambizione in termini pratici?

LM: i ragazzi autistici presentano spesso un profilo sensoriale peculiare. L’ipersensorialità che spesso li caratterizza rende i tradizionali ambienti scolastici troppo disturbanti. In questa scuola l’ambiente fisico è stato progettato per avere il minimo impatto sul sistema sensoriale degli alunni così da ridurre al minimo lo stress che ne deriverebbe e che inciderebbe negativamente sulle possibilità di concentrazione.

Anche l’apprendimento autistico presenta delle caratteristiche peculiari che la scuola rispetta attraverso l’offerta di contenuti che soddisfano i criteri di essenzialità e serialità, senza sacrificare la qualità.

Ovviamente ogni classe ha un basso numero di alunni per permettere le condizioni utili all’apprendimento ed è presente una stanza “di riposo” dove gli alunni possono recarsi ogni volta che si sentono sopraffatti da un eccesso di stimolazione sensoriale.

La promozione delle competenze sociali, spesso deficitarie, è garantita da una didattica che prevede la condivisione di obiettivi all’interno del piccolo gruppo, simulando il lavoro in team presente in molte realtà aziendali.

SOM: La Scuola mostra, già dal suo nome, un grande interesse per l’inserimento lavorativo dei suoi alunni. In che modo questo obiettivo si traduce nella quotidianità della vita scolastica?

EB: Lontano dall’adottare una didattica statica basata su lezioni frontali, la classe viene vissuta come una comunità di pratica, dove ognuno svolge un ruolo attivo per contribuire alla costruzione dell’apprendimento.

Viene posta molta attenzione alla creazione di un clima positivo e adeguato al lavoro cooperativo.

Distinguendosi dall’insegnamento individualistico o competitivo, il cooperative learning fa sì che gli alunni lavorino in gruppo, sentendosi reciprocamente corresponsabili dell’esito di un progetto e incoraggiandone fortemente l’interdipendenza positiva.

Oltre a migliorare le abilità sociali, tale metodologia di insegnamento promuove un’interazione costruttiva e incoraggia ad esercitare quelle capacità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno di un piccolo gruppo.

In questo modo ci si avvicina fortemente alla simulazione delle dinamiche lavorative, dove ognuno deve dimostrare buone abilità interpersonali indispensabili per sviluppare e mantenere un livello di cooperazione qualitativamente alto.

Viene inoltre pianificata l’erogazione di corsi integrativi tesi a migliorare le soft skills tanto ricercate in ambito lavorativo: autonomia, capacità di organizzazione, adattabilità.

La parte conclusiva di ogni corso è dedicata a ciò che viene definito “Workshop di sintesi”, durante il quale lo studente è impegnato nell’elaborazione di un progetto finale capace di tradurre la complessità delle competenze acquisite durante il percorso didattico. L’espressione del Workshop suddetto è un progetto apprezzabile, tangibile e funzionante che gli studenti possono includere nel personale portfolio formativo.

SOM: L’Asperger è una condizione poco nota nel mondo del lavoro e rischia forse di essere ridotta a pregiudizi che rendono difficile l’inserimento lavorativo anche di quei ragazzi autistici in possesso di ottime competenze “tecniche”. In che modo cercate di diffondere una buona cultura dell’autismo nel mondo delle aziende con cui collaborate per renderle davvero inclusive?

LM: offrire supporto ad un autistico “costa” circa 1000000 di euro fino alla maggiore età, un investimento enorme di risorse economiche che rischia di essere a fondo perduto se le competenze apprese non si traducono in possibilità di autonomia e capacità lavorativa.

Un adulto in un centro diurno costa inoltre circa 100 euro al giorno, mentre un autistico che lavora produce reddito e paga le tasse.

Queste sono considerazioni puramente economiche che si aggiungono all’importanza per ogni adulto di riconoscersi capace di badare a se stesso e di sentirsi valorizzato nell’espressione delle proprie specificità.

È ovviamente importante che le aziende che accolgono un lavoratore autistico conoscano le caratteristiche di questa condizione e si adoperino per garantire un ambiente di lavoro che faciliti la loro produttività nell’interesse di tutti. È quindi importante che i colleghi neurotipici mantengano un appropriato distanziamento sociale e si sforzino di parlare in modo chiaro ed essenziale.

La scuola ovviamente si fa carico di promuovere il compromesso culturale tra lavoratore autistico ed azienda, traducendo per esempio l’intero ciclo produttivo in un algoritmo in immagini così da rendere comprensibile il compito lavorativo a lui richiesto.

Non è escluso che qualche criticità possa emergere con il tempo, pertanto la Scuola offre un supporto online alle aziende per aiutarle ad affrontare qualsiasi problematica che possa minare l’integrazione lavorativa.

SOM: Come si concretizza il passaggio dalla scuola al mondo del lavoro per gli alunni?

LM: la Scuola ha già creato una rete utile a garantire un collegamento stretto tra formazione e mondo del lavoro: sono attive collaborazioni con università, centri di ricerca e con la Fondazione Adecco per le Pari Opportunità.
Una buona garanzia di riuscita di inserimento lavorativo è data da un accurato bilancio delle competenze dell’alunno, che poi verranno confrontate con le richieste dell’azienda al fine di trovare “il posto giusto per la persona giusta” prima della fine del percorso di formazione. Questa tempistica permette di adattare la didattica alle richieste specifiche del mondo del lavoro e di personalizzare ulteriormente il percorso di crescita del ragazzo.

 

Il digiuno delle Sante e della moderna anoressia: perfezionismo e disgusto

Nelle sue forme medievali e moderne l’Anoressia Nervosa è un modo di affermare la propria identità mentale rispetto a quella fisica, la manifestazione di una mentalità perfezionista bloccata in una dimensione di esperienza che penetra il nucleo stesso dell’essere umano, ossia il corpo. Le risorse mentali sono schierate per la battaglia contro il corpo e il disgusto per sé è la motivazione.

 

Il rapporto uomo-cibo è stato caratterizzato da modalità peculiari in epoche e società differenti: dagli antichi Greci che, secondo Euripide, si dedicavano ai più severi digiuni per ingraziarsi gli Dei, ai mistici del Medioevo che praticavano il digiuno come strumento ascetico per giungere a Dio, come documentato nel noto caso di Santa Caterina da Siena. Per secoli il tema del digiuno è stato oggetto di discussione tra psicologi, sociologi, neurofisiologi e filosofi, interessati all’elaborazione di modelli eziologici. In particolare, una questione che desta interesse, suscitando riflessioni ancora oggi, riguarda la possibilità o meno che i mistici nel Medioevo soffrissero di Anoressia Nervosa (AN), nel tentativo di accertare la presenza della patologia già in tempi passati, di identificare il valore del digiuno, di cogliere analogie e differenze e, soprattutto, comprendere il mindset per orientare il trattamento dell’AN.

Attualmente una riflessione sul tema del digiuno, a mio avviso, può quindi contribuire sia a ragionare sull’eziopatogenesi alla base del digiuno volontario, sia ad apportare ulteriori contributi sul piano della pratica clinica.

Ripercorrendo alcuni confronti effettuati tra il digiuno mistico del Medioevo e il digiuno anoressico dei tempi moderni, troviamo l’ipotesi del Prof. R. M. Bell (2002) secondo la quale esiste una connessione tra la forma medievale e quella moderna di AN.  Attraverso una spiegazione sociologica, Bell sostiene che entrambi i tipi di AN possono essere intesi come forme di autocontrollo e di autoaffermazione esercitate da giovani donne intrappolate in strutture sociali patriarcali oppressive, al fine di liberarsi di un mondo intollerabilmente soffocante attraverso il rifiuto della società, della vita e del proprio corpo.

In accordo con questa tesi, Sassaroli, Ruggiero e Fiore (2016) sostengono che il digiuno delle Sante e il digiuno dell’AN moderna potrebbero condividere lo stesso meccanismo psicologico connesso a un ambiente sociale oppressivo. Inoltre, gli autori evidenziano degli aspetti differenti riguardo al valore del digiuno, agli obiettivi dello stesso, alle conseguenze che derivano dal praticarlo. Pertanto, il valore del digiuno per le Sante è legato alla rinuncia, alla mortificazione e all’autodisciplina, invece per l’AN moderna è la magrezza che diviene un valore in sé. L’obiettivo alla base del digiuno nelle Sante è legato alla santità o forse all’affermazione sociale, mentre nell’AN moderna è legato all’autoaffermazione e all’incremento di autostima. Infine, le conseguenze della pratica del digiuno sono positive nelle Sante, infatti il digiuno rappresenta per loro uno strumento impiegato lungo un percorso felice e efficace, in quanto esse diventano davvero personalità di spicco, invece nell’AN moderna il digiuno fa parte di una percorso autodistruttivo in cui l’obiettivo iniziale di poter essere accettati e piacere agli altri, è presto sostituito dal valore individualistico della magrezza.

Paul Broks (2020), neuropsicologo inglese, propone un’affascinante interpretazione dei significati e delle condotte anoressiche in chiave cartesiana, paragonando l’AN medievale e l’AN moderna e considerando la prima come precursore della seconda. L’interrogativo che muove l’analisi effettuata dall’autore è: “questo bizzarro disturbo, in qualche modo, potrebbe essere legato a quelle preoccupazioni cartesiane. Potrebbe essere interpretato come una battaglia tra corpo e anima?”. Attraverso una disamina delle analogie e delle differenze tra AN medievale e AN moderna, l’autore giunge ad identificare – in entrambe le forme- il digiuno come uno strumento di controllo finalizzato al raggiungimento di standard elevati nel perseguire un ideale (purezza spirituale vs. magrezza), caratteristiche personologiche di perfezionismo, emozione di base del disgusto come conseguenza del fatto di non riuscire a mantenere determinati standard culturali, che metterebbe così in conflitto corpo e mente e alimenterebbe il disprezzo di sé e la vergogna. In altre parole, secondo l’autore, nelle sue forme medievali e moderne, l’AN è un modo di affermare la propria identità mentale rispetto a quella fisica, un’espressione autodistruttiva della ‘mente sulla materia’, la manifestazione di una mentalità perfezionista bloccata in una dimensione di esperienza che penetra il nucleo stesso dell’essere umano, ossia il corpo. Le esperienze sono alimentate, in un modo e nell’altro, dall’emozione di base del disgusto: dalle più grossolane sensazioni di repulsione fisica ai più elevati sentimenti di spiritualità e timore reverenziale. In sintesi, le risorse mentali sono schierate per la battaglia contro il corpo e il disgusto per sé è la motivazione.

Riprendendo i concetti di perfezionismo e di disgusto evidenziati dal Prof. Broks, è interessante il contributo di una recente meta-analisi  (Dahlenburg, Gleaves, Hutchinson; 2019) dove è stato evidenziato che soggetti con AN mostrano livelli più elevati di perfezionismo rispetto ad un campione non clinico e ad un campione con altra diagnosi psichiatrica; insieme a quello di uno studio condotto da Bell (2017) in cui si è riscontrato che i soggetti con Disturbi Alimentari manifestano tassi significativamente più elevati di disgusto per sé rispetto a persone che non soffrono di tali disturbi, anche se non è ancora del tutto chiaro il ruolo del disgusto nell’esordio e nel mantenimento del Disturbo Alimentare.

In conclusione, in termini eziopatogenetici, le diverse analisi esposte confermano la validità del modello multi-fattoriale che tiene conto di diversi aspetti (biologici, psicologici e socio-culturali), come fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento dell’AN. Si rivelerebbe utile condurre studi longitudinali sull’approfondimento del ruolo del perfezionismo: è un fattore di rischio, un fattore di mantenimento o una conseguenza del disturbo?

In termini di implicazioni cliniche, invece, le diverse analisi presentate sembrano supportare il lavoro terapeutico rivolto al perfezionismo (CBT-E, Fairburn; 2003), in quanto esso si dimostra – seppur con interrogativi ancora aperti – fattore principale associato all’AN e anche fattore di rischio per lo sviluppo di AN. Mentre, riguardo al disgusto sembrerebbe che il trattamento di questa emozione mostri dei limiti, dal momento che il disgusto differisce dalla paura e dall’ansia, in quanto recluta il ramo parasimpatico piuttosto che il ramo simpatico del Sistema Nervoso Autonomo, e potrebbe – per questo motivo – dimostrarsi più resistente ai metodi comportamentali standard basati sull’esposizione (per approfondimenti si veda Teoria Polivagale).

 


 

Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti (2020) di M. Lancini – Recensione

Quando l’adolescente esce dall’ambiente protetto familiare sarà in grado di fronteggiare la frustrazione che il confronto con il mondo esterno comporta? Come possiamo favorire l’elaborazione dei compiti evolutivi ineludibili dell’adolescenza e le sue ricadute sul piano psichico e affettivo?

 

Il tema dell’adolescenza è da sempre sull’agenda degli addetti ai lavori, insegnanti, “psi” di tutti i generi, genitori, educatori vari da sempre si interrogano su come affrontare al meglio questa fase critica dello sviluppo di ogni ragazzo e ragazza e gli stessi adolescenti cercano risposte alle numerose domande che il particolare momento della loro vita gli sollecita. Matteo Lancini se ne occupa prendendo in considerazione vecchi e nuovi rituali giocati dalle varie figure che ruotano intorno all’educazione.

Siamo passati da una comunità educante diffusa dove i figli erano di tutti e i modelli educativi non esitavano a interrompere la relazione affettiva in assenza di sottomissione alla norma e al volere degli adulti, ad oggi dove il mantenimento della relazione affettiva è il fine ultimo dell’intervento educativo.

Solo che il passaggio dall’infanzia all’adolescenza prevede un salto. L’infanzia è caratterizzata dalla precocizzazione delle esperienze con la madre, grande regista della vita dei figli, che in modo più o meno consapevole tenta disperatamente di eliminare qualsiasi ostacolo dalla strada della crescita del bambino o della bambina. I genitori cercano di rimuovere qualsiasi inciampo e ostacolo, forse perché, sostiene l’autore, il dolore e il fallimento sono intollerabili più per i genitori che per i figli.

Promuovono una sorta di sparizione del bambino reale a favore di un bambino ideale. I bambini relazionali e psicologizzati crescono in un contesto in cui popolarità e successo vengono prima di tutto, al punto che la società dei like e dei follower nasce non con l’accesso a internet ma con quello nella scuola materna. (Lancini, 2020)

Se l’importante è esserci, far parlare di sé in qualsiasi modo, quando l’adolescente esce dall’ambiente protetto familiare sarà in grado di fronteggiare la frustrazione che il confronto con il mondo esterno comporta e gli educatori saranno in grado di farsi carico educativamente e affettivamente di quello che rappresenta tutto ciò?

Vi è l’interesse per la comprensione del funzionamento affettivo e relazionale dei nostri ragazzi che crescono in una società così complessa, in cui nuovi fenomeni necessariamente li coinvolgono (internet, “genere fluido”, fecondazione artificiale e procreazione assistita, accettazione di un nuovo corpo, riorganizzazione delle relazioni, aspettative ideali elevate)?

Come possiamo favorire l’elaborazione dei compiti evolutivi ineludibili dell’adolescenza e le sue ricadute sul piano psichico e affettivo?

A dire il vero nel rispondere l’autore non offre soluzioni dettagliate e ben confezionate, ma si adopera a mettere in evidenza l’influenza dei contesti e delle situazioni specifiche e uniche dei singoli, rimarcando ammonimenti che sembrerebbero anche ovvi e di buon senso, ma che forse proprio per le trasformazioni del contesto in cui si è chiamati ad agire rappresentano elementi essenziali, dimenticati e trascurati che necessitano di essere decisamente riaffermati.

In primis la coerenza. Se si valorizza l’espressività, la socializzazione, il successo, le esperienze del bambino è necessario accettarne le conseguenze e non cambiare completamente registro. Non si può con l’arrivo dell’adolescenza fare riferimento a un modello normativo, limitante in cui il devi obbedire e prima il dovere riconquistano il ruolo principale.

Nella società dell’individualismo, del narcisismo e di internet nessuno rinuncia a niente. Perciò, una funzione regolatrice e contenitiva nella fase evolutiva adolescenziale è irrinunciabile ma deve essere declinata tenendo in considerazione il contesto.

La perdita di autorevolezza degli educatori e la facilità di superarla delegando responsabilità alimentano rotture che si esplicitano a differenza degli anni passati non tanto sul piano dei conflitti e dei contrasti, quanto sul piano del ritiro e dell’evitamento (hikikomori), o con sostituzioni (internet, coetanei). Il tema doloroso dell’adolescente attuale è la delusione legata alle aspettative ideali su di sé eccessivamente elevate e sollecitate da una società che propone di interiorizzare modelli che richiedono il riconoscimento, il successo, la popolarità. Ricchi e famosi costi quel che costi. Da qui la sovraesposizione pur di raggiungere questi obiettivi con le conseguenze (sexting e cyberbullismo) spesso tragiche che riempiono le pagine dei quotidiani e delle riviste con domande che chiedono risposte: “Come mai?  Cosa fare?”.

Lancini sottolinea l’importanza di sapere, di conoscere le dinamiche evolutive degli adolescenti del terzo millennio, altra indicazione da non considerare scontata.

Fenomeni quali il ritiro sociale, la dipendenza da video­game, ma anche erotismo, sessualità, virilità, prevari­cazione, seduttività, manifestazioni del proprio corpo e della propria identità, giochi più o meno d’azzardo, abuso di sostanze, self-cutting che oggi trovano espressione onlife, rendono sem­pre più complessa la distinzione tra nuove normalità e nuove forme di sofferenza e disagio giovanile.

L’adolescente cerca e trova strade diverse, percorsi individuali personali di fronte alla sofferenza evolutiva che si manifesta con rabbia, tristezza, vergogna, noia.

Persino la sessualità molto più narcisista ha un linguaggio nuovo:

eterosessualità, bises­sualità, omosessualità, pansessualità, asessualità e al­tri fenomeni come il crossdressing, l’indossare abiti usualmente associati al genere opposto, hanno oggi una declinazione molto diversa dal passato, per gran parte della popolazione giovanile. (Lancini, 2020)

L’ultima indicazione di questo libro la cui lettura scorre liscia, dato l’interesse che suscita, riguarda la capacità dei genitori e degli insegnanti, ma potrebbe essere rivolta a tutti i soggetti che interagiscono con ragazzi e ragazze, di diventare influencer. Gli adolescenti hanno bisogno e ricercano punti di riferimento autorevoli e percorsi che senza escludere le potenzialità dell’utilizzo di internet consentano la comprensione dell’esperienza di una fase di vita evolutiva particolarmente critica e forniscano strumenti sintonici con la crescita delle nuove generazioni. Sono necessari modelli cultura­li e operativi che contrastino il predominio odierno della proposta massmediatica e di internet e lo stra­potere imperante di individualismo e competizione. La scuola e le famiglie possono recitare un ruolo importante in questa sfida se si svilupperà un riconoscimento e rispecchiamento reciproco tra i protagonisti del processo educativo con una partecipazione più attiva, condivisa che sostenga processi di co-costruzione dei saperi e degli apprendimenti, un po’ secondo l’autore quello che avviene nelle scuole di specializzazione in psicoterapia dove insegna.

Lancini conclude con un ultimo monito:

È arrivato il momento di tornare a essere adulti influencer e amare i propri figli per quello che sono.

 

Il carcere: breve excursus storico e la sua evoluzione in Italia

La situazione delle carceri italiane sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie, ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

 Il carcere nasce nel momento in cui si sente la necessità di allontanare dalla comunità individui che violavano l’ordine della società. In realtà anticamente aveva principalmente la funzione di custodire il reo in attesa della pena prevista per il suo stesso crimine. Il sistema punitivo romano era caratterizzato principalmente da pene private, di tipo pecuniario, o da pene pubbliche, come la fustigazione. In entrambi i casi il carcere fungeva da contenimento per il reo e non come misura coercitiva. Nella società feudale la situazione non muta: la prigione, infatti, rimane un passaggio temporaneo del colpevole in attesa dell’applicazione della “pena del Signore”, unico vero tribunale di quel periodo (Neppi Madona, 1976). In seguito si andranno sviluppando in Inghilterra le prime “workhouse” o “house of correction”, luoghi in cui i reietti della società, venivano rieducati invece che essere sottoposti alle comuni sanzioni dell’epoca.

In realtà bisognerà aspettare il XIX secolo per considerare la reclusione come strumento sanzionatorio principale (Neppi Madona, 1976). Il processo di industrializzazione, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, porta con sé una trasformazione non solo economica, ma anche politica e sociale. In questo periodo la crescente richiesta di manodopera unita alla nuova sensibilità pubblica inducono un superamento di forme obsolete di punizione che non utilizzano la forza lavoro del condannato. Inoltre questo periodo è caratterizzato da quattro grandi cambiamenti, come riportato da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012): il maggiore coinvolgimento dello Stato nel controllo della devianza; lo sviluppo di conoscenze scientifiche legate alla criminalità, che permette la differenziazione dei devianti in diverse categorie; lo sviluppo di istituzioni volte alla segregazione; la percezione di una pena non più volta al corpo ma anche alla mente, che cerca di modificare la personalità del criminale. In questo clima di riforme e di progresso umano e sociale, si inserisce l’evoluzione del penitenziario. Il cambiamento viene favorito anche da pensatori illuministi, tra cui l’italiano Cesare Beccaria, con il suo Dei delitti e delle pene, che permettono il passaggio da un’idea di pena, ormai barbara e antiquata, ad una più umana e moderna, organizzata e centralizzata. Questo passaggio, però, non risulta così lineare ed uniforme; infatti per molto tempo, per mancanza di risorse, e non solo, il carcere rimane un luogo di trascuratezza e squallore (Neppi Madona, 1976). Bisognerà aspettare la seconda metà del XIX secolo per vedere emergere una forma moderna di penitenziario.

Per comprendere questo cambiamento così sostanziale troviamo tre modelli di spiegazione storica individuati da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012):

  1. Il modello idealista interpreta la storia come una serie ininterrotta di riforme che, partendo da un mutamento di idee, permettono un progresso. In quest’ottica lo sviluppo di una forma di penitenziario moderna è da ascrivere al cambiamento di sensibilità di quel periodo e alle nuove conoscenze criminologiche sviluppatesi durante l’illuminismo. Iniziano, dunque, ad esserci maggiori conoscenze riguardo la devianza e il comportamento criminale e una nuova visione della giustizia penale, caratterizzata da maggiore razionalità, uniformità e certezza.
  2. Il modello strutturalista vede il mutamento storico legato all’economia politica. In quest’ottica il penitenziario moderno nasce in relazione alla rivoluzione industriale, che comporta una diminuzione di manodopera; questo causa un aumento della disoccupazione e induce grandi masse ridotte in povertà verso il crimine, visto ormai come unica forma di sussistenza. In più lo sviluppo del penitenziario moderno viene anche letto alla luce degli interessi delle classi dominanti che ricercano una soluzione efficace al disordine dilagante. Questa necessità si unisce magistralmente con le idee dei riformatori di quel periodo che ricercano un nuovo modo di “punire”. Il modello strutturalista, dunque, ascrive la nascita del penitenziario moderno alla trasformazione dell’ordine sociale e alle nuove necessità di controllo da parte delle classi dirigenti.
  3. Il modello disciplinare vede la nascita del penitenziario moderno come una risposta al disordine sociale crescente. La prigione diviene una risorsa per mantenere un assetto sociale funzionante. Il carcere, attraverso l’isolamento, permette la correzione del deviante che riesce a re-inserirsi nel contesto sociale e ad essere, dunque, di nuovo accettato da parte della società. Questo mutamento avviene anche grazie alle crescenti conoscenze concernenti la criminalità e la devianza. Nonostante la visione di questo modello, la realtà dei fatti è ben diversa; il carcere, infatti, rimane per lungo tempo una macchina mal funzionante che non riesce nell’intento prefissatosi.

Nonostante i cambiamenti di questo periodo, a cui seguono innovativi obiettivi legati alla funzione della pena, il carcere rimane un’istituzione inefficiente, sovraffollata e spesso violenta, che non riesce ad assolvere i fini rieducativi prefissati (Neppi Madona, 1976). Il mutamento sostanziale, seppur parziale, avverrà nel corso del XX secolo in cui, grazie all’introduzione del welfare state e di programmi riabilitativi, l’istituto penitenziario diviene più flessibile e umano (Vianello, 2012). In linea con questo cambiamento ritroviamo le “regole minime”, indicate dalla Risoluzione ONU nel 1955, che attuano l’articolo 10 del Patto delle Nazioni Unite, il quale sostiene che ogni

individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana (Vianello, 2012).

Il naturale sviluppo di queste regole si ritrova nelle Regole Penitenziari Europee del 1987, che sottolineano ulteriormente il fatto che la privazione della libertà non deve implicare la privazione della dignità umana. Tutte le persone detenute devono essere trattate con rispetto per i diritti dell’uomo; le condizioni detentive devono avvicinarsi alle condizioni di vita nella società libera; bisogna promuovere il reinserimento dei detenuti nella società e favorire la cooperazione con i servizi sociali esterni (Vianello, 2012). Questi sono solo alcuni dei principi, che hanno come fine ultimo quello di rendere la detenzione una vera e propria riabilitazione e non una mera coercizione di corpi.

Questo breve excursus storico si applica anche al nostro Paese che, dopo l’Unità del 1861, inizia un lungo percorso di umanizzazione della pena. Un grande impedimento alla modernizzazione del carcere è rappresentato dal periodo fascista e dal Codice Rocco del 1930 (Neppi Madona, 1976). Il regolamento Rocco è caratterizzato da una netta separazione tra il mondo carcerario e il mondo esterno ed i detenuti vengono isolati e identificati con il numero di matricola. Il carcere si ripropone ancora una volta come un’istituzione chiusa all’esterno, isolata dal resto del mondo, in cui non si punta alla ri-educazione, ma unicamente alla segregazione. Questa situazione inizia lentamente a cambiare dopo la seconda guerra mondiale, anche grazie alle regole minime imposte dall’ONU nel 1955 finché non si giungerà alla riforma penitenziaria del 1975 (Vianello, 2012). La legge del 26 luglio 1975 n. 354, composta da novantuno articoli, è suddivisa in due parti, una relativa al trattamento penitenziario e una riguardante l’organizzazione carceraria. Nel settembre del 2000 è entrata in vigore la legge 230/2000 come disciplina esecutiva del regolamento del 1975 (Vianello, 2012). Questo nuovo regolamento presta grande attenzione ai diritti dei detenuti, soprattutto quelli di tipo affettivo, ma anche alle condizioni igienico-sanitarie e all’attività lavorativa con il coinvolgimento di strutture esterne. Nonostante il regolamento penitenziario italiano sia estremamente positivo, questa legge rimane, purtroppo, una legge manifesto: nella realtà difficilmente queste regole vengono applicate. Si nota spesso una grande incongruenza all’interno delle carceri italiane in quanto, nonostante il regolamento cerchi di umanizzare le strutture penitenziarie, ci ritroviamo di fronte a istituti detentivi che puntano ad attuare una rieducazione del reo o all’utilizzo di percorsi alternativi alla detenzione in maniera solo parziale (Vianello, 2012).

Il regolamento penitenziario italiano, approvato nel settembre del 2000, si apre con l’articolo 1, che al comma 1, afferma che

il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali,

e continua, nel comma 2 affermando che

il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (Legge 230, 2000).

Nonostante l’ottima impostazione della legge, almeno dal punto di vista degli ideali, la situazione in Italia risulta estremamente problematica e questo viene bene evidenziato dal XV rapporto dell’Associazione Antigone (Associazione Antigone, 2019). L’associazione sottolinea come uno dei problemi principali delle carceri italiane rimanga il sovraffollamento, tanto che, nel 2019, i detenuti erano ben 60.439, per un tasso di sovraffollamento pari al 120%, uno dei più alti in Europa, nonostante vi sia stato un calo dei reati.

Un’altra problematica dell’Italia è legata ai detenuti in custodia cautelare che continuano a crescere negli anni, fino ad un totale di 9.565 al 31 dicembre 2018, ovvero il 32,8% dei detenuti risulta in attesa di una sentenza definitiva. È importante sottolineare come nel 2017 nel 60,4% dei casi di suicidio il soggetto era privo di una condanna (Associazione Antigone, 2019). Un dato sicuramente eclatante è quello legato ai suicidi, il 2018, infatti, si è chiuso con 67 suicidi; era dal 2009 che non si registrava un dato simile. In concomitanza con questo dato bisogna considerare come altri eventi critici, quali il malessere, atti di autolesionismo, atti di contenimento, tentati suicidi, manifestazioni di protesta individuale e collettive, sono in aumento dal 2015. Sono in aumento, inoltre, anche gli atti di aggressione tra detenuti e contro il personale di polizia penitenziaria, le infrazioni disciplinari e l’isolamento disciplinare. In date 31 dicembre 2017, i detenuti tossicodipendenti erano 14.706 su una popolazione di 57.608, ovvero un 25,53%.

Infine, risulta opportuno sottolineare le richieste d’aiuto fatte dai detenuti al Difensore Civico di Antigone. Le segnalazioni sono relative alla mancanza di vari diritti, tra cui alla salute, alla territorialità, al lavoro, alla formazione, alla studio e così via. Altre problematiche sono ovviamente legate al sovraffollamento degli spazi detentivi ma anche alle violenze da parte della polizia penitenziaria (Associazione Antigone, 2019). La situazione italiana sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

Mindful eating e consumo di cioccolata: come fare a mangiare in modo consapevole gli alimenti più golosi

Con mindful eating si indica l’essere consapevoli nel momento presente in cui si sta mangiando, soffermandosi sulle caratteristiche del cibo, ponendo attenzione alle sensazioni fisiche ed emotive del corpo, ed aumentando la  capacità di percezione della sazietà.

 

L’atto del mangiare è spesso descritto come un comportamento automatico, che conduce l’individuo a continuare a mangiare, senza essere consapevole della quantità di cibo che si sta assumendo (Cohen & Farley, 2008). Il consumo degli alimenti può in questo modo diventare superiore alle reali necessità del soggetto, che però non è in grado di ascoltare il proprio corpo e capire quando questo manda segnali riguardanti la sazietà (Papies, Stroebe, & Aarts, 2007).

A conferma di ciò, uno studio (Painter, Wansink, & Hieggelke, 2002) ha rilevato che il consumo medio di cioccolata degli impiegati in ufficio durante l’orario di lavoro, era superiore quando il cibo era collocato sulla loro scrivania rispetto a quando veniva posto in un ambiente diverso dalla propria postazione, ad indicare che presi dalla frenesia della propria attività lavorativa e dai pensieri e preoccupazioni ad essa collegati, il mangiare diventava un gesto automatico e lontano dalla consapevolezza riguardo a quanto effettivamente il corpo avesse bisogno di ricevere quel cibo.

La mindfulness, essendo descritta come la consapevolezza che emerge dal porre attenzione intenzionalmente ed in maniera non giudicante all’esperienza nel momento presente (Kabat-Zinn, 2003), propone di applicare questi principi al consumo di cibo, in modo da ridurre le abbuffate ed incentivare un’alimentazione equilibrata.

Nello specifico, la mindful eating può essere concettualizzata come l’essere consapevoli nel momento presente in cui il soggetto sta mangiando, soffermandosi sull’aspetto, l’odore, il colore e il sapore del cibo, ponendo attenzione alle sensazioni fisiche ed emotive provenienti dal corpo, ed aumentando la propria capacità di percezione della sazietà (Albers, 2008). Questi accorgimenti hanno lo scopo di sviluppare la fiducia dell’individuo nell’abilità del corpo di segnalare quando e quanto mangiare, minimizzando le reazioni impulsive di fronte al cibo (Hendrickson & Rasmussnen, 2013).

A partire da queste premesse, il presente studio (Mantzios, Skillett, & Egan, 2019) si propone di indagare l’impatto della mindfulness sulla soddisfazione e sul desiderio della cioccolata, oltre che sul consumo reale della stessa. Dopo aver considerato i criteri di esclusione quali l’allergia alla cioccolata, un forte disgusto per la stessa, il seguire una dieta che abolisce il suo consumo o l’avere un disturbo alimentare diagnosticato, 121 partecipanti sono stati selezionati e assegnati casualmente ad una delle tre condizioni: l’esercizio mindful dell’uva passa, modificato ed adattato per il consumo di cioccolata, e costituito da un audio di 4 minuti, in cui un narratore suggerisce di focalizzarsi sul colore, la texture ed il sapore della cioccolata; il diario costruttivo consapevole (MCD) in cui si chiede di considerare attraverso sei items basati sulla mindfulness e sull’autocompassione, il bisogno reale di cibo nel momento presente; ed il gruppo di controllo non sottoposto a nessun esercizio di mindfulness.

Dopo aver contato i pezzi di cioccolata mangiati e valutato il grado di soddisfazione e il desiderio di mangiarne ancora, i risultati hanno rilevato una diminuzione del consumo di cioccolata nel gruppo sottoposto agli esercizi mindful, ma non hanno riportato differenze significative nella soddisfazione e desiderio per essa, probabilmente perché il grado di preferenza per questo alimento era così alto, che gli esercizi di mindfulness non sono riusciti a diminuire la voglia di consumarlo.

In conclusione, possiamo dire che la mindful eating si basa sull’apprendimento della capacità di considerare il mangiare come un’esperienza sensoriale da vivere pienamente, e che entrambi gli esercizi utilizzati nello studio sono efficaci nel ridurre il consumo di cibi calorici e utili per coloro che vogliono regolamentare la propria alimentazione in modo consapevole, permettendo all’individuo di continuare a mangiare anche quegli alimenti che sono di solito sconsigliati, ma assumendosi la responsabilità di monitorare quando e quanto farlo.

 

Tutti si preoccupano per il coronavirus ma io un po’ più degli altri

Il caso di Alessia, una ex paziente che si ritrova in difficoltà durante l’emergenza da Covid-19: il rescripting delle memorie traumatiche associate alle paure attuali, tramite Video Imagery Rescripting e Self Mirroring Therapy in Terapia Metacognitiva Interpersonale. 

 

Sono tutti un po’ spaventati per ‘sto coronavirus, ma io esagero, possiamo parlarne? Vengo in studio perché online non ho privacy”

mi scrive una mia ex paziente: è evidentemente un’urgenza. Si siede a debita distanza, disinfetta le mani, è molto allarmata e critica verso sé stessa per questa paura.

“Che succede?”
“Ci penso in continuazione, sono sempre in cerca di informazioni, non dormo, vivo tra casa e lavoro”.

Conosco molto bene la paziente, Alessia: la terapia nel passato ha avuto buoni esiti, perché oggi lei non riesce a superare da sola questa impasse?

Probabilmente la quantità di informazioni contrastanti sul CoVid-19 e la paura diffusa fanno sì che lei non si conceda di esplorare a fondo le sue emozioni, che una parte di sé dia per scontato che la propria storia personale non c’entri nulla e che si senta totalmente impotente rispetto al controllo dell’ansia al punto da esserne schiacciata. Quasi si vergogna di chiedere aiuto, tanto è vero che, quando la rassicuro “è normale avere paura in questo momento, un po’ ne abbiamo tutti” e poi le chiedo “cosa la spaventa del coronavirus?”, lei mi risponde “ma come? con tutto quello che si sente in giro?!”. Avevo normalizzato la sua paura, ma l’idea stessa che ci fosse un residuo di paura più legata ad aspetti personali era per lei inaccettabile.

Un’affermazione cosi generalizzata non mi permette di avere accesso alle cognizioni antecedenti all’ansia, costituendo un ostacolo alla formulazione del caso. In questi casi è indicato utilizzare tecniche specifiche volte a migliorare il monitoraggio metacognitivo.

Decido di indagare, riprendendo la concettualizzazione del caso già ricostruita con la Terapia Metacognitiva Interpersonale nella precedente terapia. Nei nostri incontri Alessia era arrivata a comprendere il proprio funzionamento problematico di fronte a determinate situazioni ed aveva iniziato a modificarlo.

Lo schema interpersonale emerso spesso con lei a partire dagli episodi autobiografici recenti e collegati ad esperienze passate è questo:

Il wish (desiderio sano ed universale) è di appartenenza. A partire da questa motivazione, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: in questo caso “se provo ad avvicinarmi all’altro, a un gruppo, l’altro mi rifiuterà, e mi umilierà, mi escluderanno”). La risposta dell’altro (immaginata, o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una “risposta del sé alla risposta dell’altro” di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale. Nel caso di  Alessia: “se l’altro mi umilia ha ragione perché sono scema”, ansia, tristezza, evitamento della relazione; questo porta a scoprire l’immagine nucleare negativa di sé che in Alessia è: “diversa, esclusa, inadeguata”. A questo punto, come strategia di coping, Alessia ha una transizione da un sistema motivazionale ad un altro: passa al dominio del rango. Sostituisce il desiderio di appartenere e condividere a quello agonistico di prevalere.

In queste sue prime narrazioni al rientro in terapia, la parte sana dello schema non affiora. Nella terapia precedente avevo aiutato Alessia ad accedere all’idea nucleare positiva di sé come uguale agli altri e degna di essere parte di un gruppo, ma qui non riesce più a rievocarla.

Decido di esplorare lo schema attivo nei suoi timori relativi al CoVid-19 per capire se è qualcosa di già noto riferibile ai suoi schemi precedenti e per condividerlo con lei.

“Cosa può succedere se lei si ammala?”

“Non sono preoccupata per me, sono giovane e sana, così come mia sorella e tutto sommato anche i miei genitori. Stare chiusa in casa per la quarantena è quasi un piacere: per me è sempre stato più difficile stare in compagnia che da sola, almeno non devo inventarmi scuse per non uscire.

Il problema è che poi si guarisce! Magari vado in ufficio per una settimana con il coronavirus senza sintomi, senza saperlo, contagio qualcuno, poi mi ammalo e quando torno sarò allontanata dai colleghi ed additata come l’untrice”

Il tono concitato, è spaventata, si interrompe.

In questo momento non riusciamo ad accedere alla parte sana, per facilitarla decido quindi di utilizzare una tecnica esperienziale.

Scelgo la Self Mirroring Therapy, nella versione di Video Imagery Rescripting per aiutarla a comprendere le proprie emozioni “dall’interno”, tramite i neuroni specchio.

La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e preriflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Occorre una relazione forte con il Terapeuta, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, sottolinea gli insight e li rafforza.

“Mi racconti cosa immagina che accadrà quando tornerà in ufficio, dopo la malattia.”

“Entrerò, i colleghi mi chiederanno come sto perché hanno paura, ma non gliene frega niente di come sto davvero, e alle spalle e magari anche davanti mi diranno che sono un’untrice, che sono scema perché ho preso l’autobus e mi sono beccata il virus, la prima dell’ufficio che si è ammalata, la più scema di tutti”

L’emozione è intensa.

Decido di chiederle altri esempi di memorie autobiografiche specifiche, per riformulare e condividere lo schema interpersonale disfunzionale

 “Si ricorda quella famosa cena di Natale di cui avevamo già parlato in terapia? È la stessa emozione che avevo provato lì.”.

Me la ricordo molto bene, l’avevamo già analizzata insieme: i colleghi la invitano a cena per Natale, lei si forza di andare ma vorrebbe tanto evitare. Cerca di partecipare alla conversazione, ma nel momento in cui gli altri parlano delle loro relazioni di coppia lei immagina di dover rivelare di essere single da sempre e che sarà vittima di battutine sarcastiche e pettegolezzi così, colta dall’ansia, fugge in bagno e piange.

“L’ho provata tante volte nella mia vita, anche a scuola!”

Scegliamo un ricordo significativo della scuola per lavorarci in imagery

Chiedo quindi ad Alessia il permesso di accendere la webcam e registro il “video 1”

“Con gli occhi chiusi torni alla sua classe delle elementari, al momento in cui ha provato quelle emozioni”.

La accompagno ad immergersi nella scena fino a rivivere l’emozione e risentirla nel suo corpo.

La scrivania lascia spazio a un banco della scuola media, È verde, scrostato, con i nomi dei ragazzi e di tutte le generazioni precedenti incisi sopra con la punta del compasso, una stanza vecchia, il bosco oltre le finestre “dove vorrei nascondermi!”.

“Io sono Quellascema, parole dette così tanto spesso da diventare il mio nome.

Rientro in classe dopo qualche giorno di assenza. I banchi sono stati spostati. Sono tutti in cerchio intorno alla cattedra. Tutti tranne il mio, abbandonato in un angolo. Sono smarrita, iniziano le risatine degli altri, che presto diventano prese in giro esplicite. Non provo nemmeno a rimettere il banco vicino agli altri, me lo impedirebbero ridendo. La vergogna mi congela.”

E’ sufficiente. Qualche respiro, piedi ben poggiati a terra, torniamo nello studio e guardiamo insieme la parte del video in cui la Paziente descrive la scena della scuola. Le chiedo di guardarsi come se guardasse un’amica in difficoltà, per favorire l’accudimento.

La webcam è sempre accesa e inquadra il suo viso. Con la Self Mirroring Therapy è importante videoregistrare il viso della Paziente mentre guarda sé stessa sofferente, per cogliere il momento in cui emerge l’empatia e l’accudimento verso di sé (“video 2”). In questo caso, ho utilizzato la Self Mirroring Therapy per riscrivere le memorie traumatiche (Video Imagery Rescripting).

Nel primo video si vede una donna adulta, forte, con l’espressione della bambina spaventata. Il contrasto è molto netto per me che la osservo, a maggior ragione per lei che guarda sé stessa. Infatti si commuove e dice fra sé e sé : “forza, dai”, poi tace, ma è tutto registrato in questo secondo video.

Guardiamo insieme il video 2, per aiutarla ad approfondire quell’esortazione che si è data spontaneamente, e la registro ancora (video 3). Vedersi empatica ed amichevole nei confronti di sé stessa spaventata attiva un ulteriore cambiamento.

“I colleghi oggi non possono farmi male più di tanto, non sono quegli adolescenti crudeli, sono adulti e spesso sono stati gentili con me. Anch’io non sono più quella ragazzina impaurita, ora sono adulta, siamo tutti nella stessa situazione, sono come loro”.

Il rescripting ha permesso alla Paziente di accedere ad una parte sana, un’altra idea di sé e dell’altro, di differenziare ed assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni disfunzionali.

Durante la Self Mirroring Therapy il sé osservante, Alessia che guarda sé stessa sofferente, diventa un nuovo “altro”, incarnato nella stessa persona. Alessia si osserva e si sente benevola nei confronti di sé stessa fragile e vulnerabile.

In questo caso la Video Imagery Rescripting ha dato maggior potenza all’esperienza, perché nel video 1 Alessia ha potuto osservare sé stessa completamente immersa in un ricordo doloroso, sofferenza che ha espresso spontaneamente ed intensamente con il proprio viso. Rivedendosi, tramite il sistema dei neuroni specchio, si attiva un “altro” diverso da quello rifiutante tipico del suo schema. Alessia diventa accudente nei confronti di sé stessa e questa esperienza appare molto più incisiva rispetto al solo ricordo narrativo. Il sistema mirror ha favorito l’empatia e le mie indicazioni e il fatto di trovarsi in una relazione di aiuto forte e stabile con me hanno aiutato Alessia a guardarsi con tenerezza e incoraggiato in lei l’autoaccudimento. La webcam ha permesso così di imprimere nel video e nell’esperienza della paziente questo importante momento (video 3).

Le lascio questa parte di video da vedere a casa, per memorizzare il contatto che ha avuto con la sua parte sana ed aiutarla a generalizzare l’esperienza.

Alla fine della seduta appare nettamente più sollevata e serena.

In questo colloquio siamo riuscite ad offrire una chiave di lettura diversa per le paure attuali, a ricostruire lo schema interpersonale attivo e ad agganciarlo alle esperienze passate della paziente, ad operare un rescripting vivo ed esperienziale, in un clima collaborativo che ha rafforzato la relazione terapeutica. Inoltre, la “testimonianza video” della propria parte sana, che le lascio da rivedere a casa, sarà una buona base di partenza per le sedute successive, più intensa e significativa del solo schema scritto.

Lo “schema incarnato”, ricostruito e messo in discussione in un’esperienza così intensa in terapia, diventa un  momento importante di condivisione e un riferimento per il futuro. Alessia ha conosciuto in seduta un cambiamento profondo nel suo modo di rapportarsi a sé stessa e agli altri, che è stato fissato nella memoria e nella webcam: l’obiettivo ora non è più scoprire un’altra sé, più sana, ma rendere stabile e generalizzare un progresso già esperito.

 

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