expand_lessAPRI WIDGET

Comportamento alimentare: nella scelta di cosa mangiare contano il gusto, l’olfatto e…forse qualcosa in più

L’alimentazione è un requisito imprescindibile per la sopravvivenza di ogni essere vivente; eppure, l’atto del mangiare ha assunto nel corso della nostra evoluzione molteplici significati, superando la semplice funzione di nutrimento per la macchina-corpo.

 

Possiamo citare, ad esempio, la dimensione sociale, che entra in gioco nel momento conviviale della condivisione dei pasti nel quotidiano familiare oppure come rituale comunitario durante le festività, il significato simbolico di accudimento secondo il quale cucinare per qualcuno è un gesto che esprime affetto, vicinanza, intimità, o ancora può essere visto come un “farmaco emotivo”; si pensi ad esempio al comfort food, ovvero quei cibi ai quali ciascuno di noi si rivolge per coccolarsi nei momenti di sconforto. Eppure, il cibo può essere anche un elemento di disuguaglianza sociale: secondo il Rapporto annuale 2019 della FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations) nel mondo vi sono infatti circa 800 milioni di persone denutrite (1 su 9), di cui 513,9 milioni in Asia e 256,1 milioni in Africa, con più di 49 milioni di bambini sotto i cinque anni in stato di deperimento; al contempo, 672 milioni di individui vivono una condizione di obesità (1 su 8) e sono nel mondo 338 milioni i bambini e adolescenti in sovrappeso.

Ad oggi l’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile ed è considerata una delle principali criticità nella salute pubblica del XXI secolo (Barness et al., 2007), “pesando” sulle spese sanitarie nazionali in una percentuale tra il 4 e il 10% del totale annuale (Allender & Rayner, 2007; Tsai et al., 2010) e alimentando un commercio di prodotti mirati alla perdita di peso che solo negli Stati Uniti ha superato i 72 miliardi di dollari nel 2018: mantenere il peso forma nelle cosiddette “società del benessere” sembra essere più difficile che mai.

Il comportamento appetitivo rivolto al cibo è quindi un complesso processo multifattoriale, che coinvolge emozioni, aspetti psicologici, fisiologici, ambientali, ma soprattutto sensoriali; in particolare il gusto e l’olfatto, ovvero i sensi chimici, sono i mezzi attraverso cui apprezziamo le proprietà organolettiche dei diversi cibi, contribuendo allo sviluppo di preferenze e di idiosincrasie alimentari. Tuttavia, gli studi che si sono proposti di indagare il rapporto tra questi sensi e lo sviluppo di una condizione di sovrappeso si sono rivelati inconcludenti, sia per quanto riguarda gli adulti che per i bambini. Alcune ricerche sembrano rintracciare una minore sensibilità ai gusti (dolce, salato, aspro, amaro, umami) negli individui sovrappeso o obesi rispetto agli individui normopeso (Proserpio et al., 2016; Sartor et al., 2011; per i bambini Feeney et al, 2017; Overberg et al., 2012), altre hanno riscontrato l’inverso (Hardikar et al., 2017; Pasquet et al., 2007), altre ancora non hanno riscontrato alcun effetto (Thompson et al., 1976; Grinker et al., 1972). Altrettanto controversi sono i risultati degli studi che hanno indagato il ruolo dell’olfatto. Anche in questo caso alcuni risultati sostengono la tesi di una minore acuità olfattiva negli individui sovrappeso o obesi rispetto alla controparte normopeso (Fernandez-Aranda et al., 2016; Fernandez-Garcia et al., 2017; Skrandies & Zschieschang, 2015; per i bambini Obrebowski et al, 2000), altre che riscontrano invece una maggiore sensibilità olfattiva (Patel et al., 2015; Stafford & Welbeck, 2011), in particolare verso l’odore del cioccolato (Stafford & Whittle, 2015), altri ancora non hanno riferito alcuna differenza a fronte di diversi BMI (Trellakis et al., 2011).

Alcuni ricercatori hanno tuttavia suggerito come sia importante distinguere infanzia e adolescenza nella ricerca rivolta ai sensi chimici, in quanto i profondi cambiamenti ormonali che avvengono in questa fase di sviluppo possono influenzare in maniera determinante la percezione del gusto e degli odori (Martin et al., 2009; Loper et al., 2015).

Herz e colleghi (2020) hanno di recente condotto una ricerca coinvolgendo solo adolescenti tra i 12 e i 16 anni e sottoponendoli a dei test di sensibilità olfattiva e gustativa mediante l’utilizzo di apposite strisce create in laboratorio e denominate “sniffin’ sticks” e “tasting sticks” (Burghart GmbH, Wedel, Germany), contenenti degli agenti chimici in diverse concentrazioni che vengono interpretati come i gusti principali (dolce, salato, amare, aspro) o sapori di uso comune (es. cannella, limone, menta) se posti sulla lingua e come sentori di odori più o meno spiccati, se annusate. L’obbiettivo era quello di testare non soltanto la capacità di discriminazione tra diversi gusti, ma anche la soglia di sensibilità, motivo per cui è stato impiegato il PROP (6-n-propylthiouracil), che consente di distinguere tra non-taster, normal-taster e i cosiddetti super-taster.

Gli adolescenti con un BMI più alto, e quindi più sovrappeso, hanno riportato in media una soglia olfattiva inferiore, risultando quindi più sensibili; questo risultava particolarmente vero per gli adolescenti in età più precoce rispetto a quelli che volgevano al fine del loro sviluppo. Gli autori sottolineano a questo punto come nelle ricerche precedenti che avevano ottenuto risultati contrari, si fosse impiegato una versione precedente delle sniffin’ stick: questa informazione diventa particolarmente rilevante poiché l’agente utilizzato vedeva il coinvolgimento del sistema trigeminale, che raccoglie le componenti nocicettive, di calore e tattili legate agli odori, riflettendo quindi potenzialmente una minore suscettibilità trigeminale e non una minore sensibilità olfattiva. A supportare questa ipotesi vi è lo studio di Stafford e Whittle (2015) sulla maggiore sensibilità all’odore del cioccolato, aroma che infatti non attiva il sistema trigeminale. Ipotizzando una maggiore sensibilità verso odori che mancano di questa componente, tipicamente gli aromi dei cibi dolci, questo motiverebbe un comportamento appetitivo verso cibi altamente calorici; conversamente una minore sensibilità trigeminale, attivata dai cibi salati o saporiti, li renderebbe di gusto meno intenso, potenzialmente promuovendone un maggiore consumo per raggiungere la sazietà.

Riguardo al gusto, gli autori non hanno riscontrato effetti significativi. Tuttavia, la suggestione di una componente trigeminale che possa coinvolgere anche questo tipo di esplorazione è supportata dal fatto che le tasting stick utilizzate non permettono di valutare tale effetto. L’utilizzo ad esempio di capsaicina, l’elemento del piccante negli alimenti, potrebbe fornire un mezzo per testare questa ipotesi in studi futuri.

 

dCBT: la digital cognitive behavioural therapy nel trattamento dell’insonnia – Psicologia Digitale

La CBT, riconosciuta come terapia d’elezione per i disturbi del sonno, ha il suo corrispettivo digitale: la Digital Cognitive Behavioural Therapy (dCBT). 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 9) dCBT: la digital cognitive behavioural therapy nel trattamento dell’insonnia

 

Tipologie di Digital Cognitive Behavioural Therapy

In letteratura è possibile trovare diversi modi per riferirsi alla CBT via web o mobile: Internet CBT (iCBT), CBT computerizzata (cCBT), CBT elettronica (eCBT) o CBT online (oCBT); il termine più utilizzato nelle pubblicazioni più recenti è digital CBT, termine che include i precedenti e fa riferimento a tutte le nuove tecnologie.

Luik e colleghi (2017) descrivono i tre tipi di Digital Cognitive Behavioural Therapy (dCBT) che differiscono per tempo speso dal clinico, livello di automatizzazione, costi e scalabilità, quindi la possibilità di un uso estensivo. Nella dCBT come supporto, la tecnologia è uno degli strumenti attraverso cui il clinico fornisce la terapia o parti di essa, come app per monitorare i sintomi o proporre esercizi, diari del sonno ecc. Abbiamo poi la dCBT guidata in cui al paziente vengono forniti programmi preimpostati con diverse modalità e sessioni che vengono supervisionati a distanza dal clinico, il quale ha un livello di coinvolgimento limitato poiché una parte del processo terapeutico viene automatizzata. Infine, la dCBT completamente automatizzata che non prevede alcuna forma di supporto da parte del clinico ma solo programmi e contenuti preimpostati, come testi interattivi con video o chatbot con terapeuti virtuali (per vedere un esempio: www.sleepio.com).

La dCBT: effetti e adesione al trattamento

Miglioramenti nelle prestazioni cognitive, nella sintomatologia di altre condizioni pregresse, diminuita assunzione di farmaci, aumento di tempo totale e qualità del sonno: la dCBT per l’insonnia ha dato prova di efficacia nel medio e lungo termine (Luik et al., 2017; 2019; Zachariae et al., 2016). van der Zweerde e colleghi (2019) evidenziano alcuni fattori che mediano l’adozione e l’efficacia del trattamento online, prima di tutto: le caratteristiche del singolo. La Digital Cognitive Behavioural Therapy non è adatta a tutti per svariati motivi: è necessario ci sia una forte motivazione personale e autodisciplina; alcuni pazienti possono non sentirsi a proprio agio e preferire un setting e un trattamento ‘classici’, in studio. Ancora, molti sollevano dubbi circa i dati condivisi e la privacy, dato che è necessario inserire dati personali e sensibili. Vanno considerati poi i casi in cui si ha la presenza di un quadro diagnostico complesso che richiede necessariamente un supporto face-to-face.

Il fattore U: uomo vs macchina

Quanto è centrale il coinvolgimento del clinico? Alcuni studi confrontano gli esiti del trattamento faccia a faccia con quello digitale (Luik et al., 2017; 2019) mostrando, come intuibile, che essere seguiti da un terapeuta ha un effetto maggiore su aderenza ed esito del trattamento anche quando il supporto avviene solo via mail, chat, forum. La presenza del clinico è indubbiamente un fattore fondamentale, ma va considerato che la maggior parte dei programmi dCBT finora utilizzati non sfrutta appieno le possibilità che le soluzioni digitali possono offrire, per cui a fare la differenza potrebbe non essere il supporto umano di per sé quanto flessibilità e facilità di utilizzo dello strumento.

Le sfide future

La digitalizzazione delle terapie le rende più economiche, disponibili 24/7 ovunque e per chiunque, personalizzabili: tipologia di trattamento, intensità, durata, promemoria e strumenti di monitoraggio delle attività, tutto viene pianificato su misura.

Tra le sfide future abbiamo la raccolta di ulteriori evidenze scientifiche e una espansione dell’utilizzo: rimane tanto da fare perché questi strumenti siano compresi e promossi dagli operatori sanitari e siano diffusi standard globali di controllo qualità.

La CBT saprà adattarsi e svilupparsi stando al passo con l’innovazione digitale, mettendo insieme tecnologia, creatività, ricerca e competenza clinica.


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

Vero come la finzione: l’accettazione e il disturbo ossessivo-compulsivo

Nel film Vero come la finzione non viene specificato se il protagonista soffra effettivamente di un disturbo ossessivo-compulsivo ma sicuramente i meccanismi della sua mente svelano una moderata rigidità mentale che nel tempo diviene parte integrante del suo modo di essere.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Vero come la finzione è un film del 2016 che racconta la storia di Harold Crick, un esattore delle tasse. È ossessionato dai numeri e per questo, già dai primi minuti della pellicola, ci proietta all’interno della sua modalità di vivere le situazioni quotidiane: conta perfettamente le spazzolate che dà ai suoi denti al mattino, i passi per raggiungere la fermata del pullman che lo porta al lavoro ed esegue diverse volte dei calcoli mentali faticosi. Ad un certo punto, questa “normalità” viene interrotta da un evento inusuale. Una mattina, appena sveglio e pronto per recarsi in ufficio, inizia a sentire una voce femminile. La voce descrive esattamente tutte le azioni che Harold compie e tutte le modalità mentali che lui assume nel momento in cui fa un semplice gesto, come quello di lavarsi i denti. I maggiori intenditori di psicologia e gli esperti del settore potrebbero pensare ad un crollo psicotico di Harold, dovuto alla fatica di perpetrare a lungo tutti quei processi mentali faticosi che mette in atto ogni giorno, oppure, ad un aggravamento dei sintomi di un disturbo ossessivo-compulsivo. In realtà, si scopre che la voce nella testa del signor Crick è la voce di una famosa scrittrice di romanzi drammatici che sta raccontando la storia di un uomo qualunque, ossessionato da numeri, rigido mentalmente e nelle sue relazioni. Harold cerca in tutti i modi di scoprire la provenienza di questa voce, fino ad arrivare a conoscere di persona l’autrice di romanzi che sta raccontando in quel momento la sua storia. La voce ha finalmente un volto, la finzione diviene realtà e l’autrice e lo stesso Harold rimangono sotto shock. L’unico modo per far scomparire la voce nella testa del protagonista è quella di terminare il romanzo, ma nella mente della scrittrice l’unica fine possibile per Harold è estremamente drammatica. Nel frattempo il nostro esattore delle tasse si innamora di una pasticcera che riesce a fargli osservare, riconoscendo i suoi difetti ma anche i suoi pregi, le rigidità mentali che si era sempre imposto e a renderlo più empatico e meno egocentrato. Harold comprende cosa significa rimanere ancorato alle proprie emozioni, e che forse le modalità mentali che metteva in atto lo tenevano lontano dal provare determinate angosce, ma erano proprio quelle a determinare il suo distacco dalla vita relazionale e la sua sofferenza.

Non viene specificato se il protagonista soffra effettivamente di un disturbo ossessivo-compulsivo ma sicuramente i meccanismi della sua mente svelano una moderata rigidità mentale che nel tempo diviene parte integrante del suo modo di essere.

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una patologia largamente diffusa. Ha come sintomi la nascita di pensieri, impulsi o immagini mentali che vengono percepite come intrusive e sgradevoli; per tenersi lontani da tali ossessioni, i pazienti sviluppano delle compulsioni, ovvero, comportamenti ripetitivi o azioni mentali che allontanano momentaneamente la persona dal disagio e dall’angoscia causate delle ossessioni.

Il trattamento elettivo per tali disturbi è la terapia cognitivo-comportamentale, ma attualmente si utilizzano approcci improntati sull’accettazione, come la Mindfulness. Tali approcci cercano spesso di combinare i protocolli da Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) con le tecniche di Mindfulness.

Harold durante il film compie inconsapevolmente delle esposizioni alle situazioni stressanti sperimentando un’ansia reattiva all’assenza delle sue modalità protettive e prudenziali: le compulsioni. Rileggendo il romanzo della scrittrice e concentrandosi sulla sua voce e i suoi racconti, inizia ad osservare le sue modalità disfunzionali e prenderne sempre più consapevolezza. Arriva alla conclusione che non tutto necessita costantemente di essere controllato; gli esseri umani sono sempre esposti all’incertezza e al dubbio, in quanto esseri mortali e sottoposti a ciò che è imprevedibile. Da una parte sviluppa delle abilità osservative riconducibili alla Mindfulness e dall’altra diviene consapevole dei suoi processi mentali e dei suoi pensieri automatici che alimentano la sua sofferenza. Ridefinire e osservare in modo non giudicante le sue credenze disfunzionali è stato un fattore determinante per il signor Crick. La Mindfulness, infatti, può essere definita come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2003).

L’utilizzo della Mindfulness e del protocollo ERP sembrerebbe una svolta nel trattamento dei DOC. Esistono già in letteratura alcuni studi pilota effettuati da Strauss e colleghi (2015) condotti su una popolazione di pazienti con disturbo ossessivo compulsivo con lo scopo di definire i parametri per un trattamento definitivo che coniuga l’utilizzo di tecniche Mindfulness-based (MB) in associazione ad un protocollo di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP). Nel protocollo di MB-ERP la terapia porta i pazienti a lavorare sull’astensione dal giudizio verso i pensieri intrusivi, incrementando l’accettazione nei confronti delle sensazioni fisiche e corporee provocate dall’ansia e porta ad osservare in modo consapevole i comportamenti impulsivi; come detto in precedenza, se osserviamo bene il percorso di cambiamento di Harold possiamo azzardare una sorta di fusione tra consapevolezza ed esposizione alle situazioni stressanti che il protagonista mette in atto.

Dopo un’attenta analisi della situazione, Harold diviene consapevole che il finale che la scrittrice aveva immaginato per lui fosse quello più adatto per terminare la sua storia, lasciando nel lettore un modo diverso per rileggere la sofferenza e porsi delle domande esistenziali, rimanendo conscio del fatto che non tutto possa essere spiegato e razionalizzato.

Decide così di accettare la sua sorte. Riconosce la tristezza, la paura e la rabbia relative all’ingiustizia di morire ancor prima di aver vissuto veramente la sua vita.

Il finale del film lascia nello spettatore diversi spunti di riflessione. Non posso svelarlo in questa recensione poiché si perderebbe tutta la sorpresa e il pathos che tale conclusione suscita, per cui invito voi lettori a vedere questo film e tirare le vostre conclusioni, solo dopo averlo visto. Sicuramente il tema più importante di questo film è l’accettazione e l’auto-osservazione come capacità intrinseca nell’essere umano. L’accettazione di cui parla il film non è rassegnazione. Jon Kabat Zinn, fondatore della Mindfulness, sostiene che accettare significa che prima o poi abbiamo bisogno di renderci disponibili a vedere le cose così come sono. È l’atteggiamento che pone i presupposti per un’azione più appropriata nella nostra vita, qualsiasi cosa stia avvenendo ora. Secondo l’autore diviene molto più facile agire con convinzione e con efficacia quando si ha una chiara immagine di come stanno le cose, di come funzioniamo, di cosa proviamo. Al contrario, diviene più difficile nel momento in cui la nostra visione viene influenzata da giudizi e desideri, timori e pensieri disfunzionali. Harold, con la sua storia, ci insegna proprio questo.

Vero come la finzione ci proietta all’interno di situazioni esilaranti, con umorismo, ma allo stesso tempo ci aiuta a riflettere su alcuni temi importanti come l’amore, l’accettazione e il significato della vita stessa.

 

gameChange – Un progetto su psicosi e l’uso delle nuove tecnologie da parte del professor Daniel Freeman

Molti pazienti con psicosi vivono situazioni sociali quotidiane con una forte ansia, evitano situazioni e tale isolamento conduce ad un ciclo di peggioramento. Perché sia possibile interrompere questo ciclo è stato creato un programma di trattamento VR gameChange.

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University.

 

Negli ultimi anni la realtà virtuale (VR) è stata applicata con risultati promettenti per la comprensione e il trattamento di disturbi mentali. Continuando ad esplorare i progetti di Daniel Freeman e dell’Oxford VR (di cui abbiamo già parlato nei precedenti articoli: Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di OxfordDaniel Freeman e l’Oxford VR. Un impegno virtuale per la salute mentale del Regno UnitoDaniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie), ci soffermeremo su uno degli ultimi lavori del gruppo: Automated virtual reality (VR) cognitive therapy for patients with psychosis: study protocol for a single-blind parallel group randomised controlled trial (gameChange), pubblicato nel 2019 su BMJ open.

Molti pazienti con esperienza di psicosi vivono situazioni sociali quotidiane con una forte ansia, a causa di possibili allucinazioni, paranoie, convinzioni negative su se stessi e così via. Di conseguenza i pazienti con psicosi evitano situazioni e tale isolamento conduce ad un ciclo di peggioramento. Perché sia possibile interrompere questo ciclo è stato creato un programma di trattamento automatizzato in realtà virtuale (VR).

432 partecipanti con psicosi saranno reclutati tramite il servizio sanitario nazionale inglese (NHS). Saranno esclusi i partecipanti con epilessia fotosensibile, patologie organiche specifiche, una diagnosi di abuso di sostanze e disturbo di personalità, un disturbo dell’apprendimento severo e coloro con ideazione suicidaria al momento dello studio. Il 50% dei partecipanti parteciperà al training VR, mentre il restante 50% farà da gruppo di controllo. Valutazioni di follow up a sei settimane e a sei mesi dal trattamento verranno raccolte.

Il trattamento VR gameChange è un’applicazione di realtà virtuale per adulti con psicosi che soffrono di disturbi d’ansia in situazioni sociali quotidiane, perché i pazienti possano sentirsi più sicuri in mezzo alla gente. Il trattamento è stato programmato da Oxford VR (Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di Oxford) in conformità ai requisiti essenziali e alle disposizioni della direttiva CE93/42/CEE (dispositivi medici). Durante la somministrazione del trattamento VR sarà presente uno psicologo nella stanza come supporto tecnico per il partecipante e per incoraggiare i partecipanti ad applicare ciò che hanno imparato nella VR nel mondo reale tra un incontro ed il successivo.

Specifiche sul training in VR:

La terapia cognitiva VR ha lo scopo di mettere alla prova le aspettative di paura dei pazienti in sei sessioni di 30 minuti. Il partecipante, usando un visore VIVE, ha la possibilità di stare in piedi, camminando leggermente negli scenari. Durante l’immersione in virtuale, il coach virtuale spiega innanzitutto ai partecipanti la base del trattamento, prima di condurre il paziente nelle sei situazioni di VR: un bar, una sala d’attesa di un medico di base, un pub, un autobus, una strada ed un negozio. Per ogni situazione ci sono cinque livelli di difficoltà (es. numero e vicinanza delle persone, una maggiore richiesta di interazione). Per ogni livello ci sono degli esercizi volti all’abbandono dei comportamenti di difesa in vista di un nuovo apprendimento. Il partecipante, al termine di ogni scenario, può decidere di ripetere una precedente situazione o di svolgere la successiva/il successivo livello.

 

 

La sperimentazione ha iniziato il reclutamento dei pazienti a Luglio 2019. Il reclutamento durerà fino a Luglio 2020, con termine del progetto a Gennaio 2021. Si invitano pertanto le persone interessate a partecipare alla conferenza sulle nuove tecnologie che si terrà a Milano il 19-20 febbraio 2021 “European Conference of Digital Psychology“, la quale verrà aperta da una lectio magistralis dello stesso Daniel Freeman sulla realtà virtuale.


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

Per informazioni scrivere a[email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

Meditazione mindfulness ai tempi del coronavirus: come può tornarci utile in questo momento? Intervista al Dott. Andrea Paschetto

Da anni la mindfulness sta prendendo sempre più piede, in quanto si è dimostrata una valida pratica in grado di contribuire al nostro benessere psico-fisico. Considerato il delicato momento storico causato dall’emergenza coronavirus ho desiderato intervistare e confrontarmi con il collega Andrea Paschetto.

 

Andrea Paschetto è cultore della Materia in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Udine, da molti anni impegnato nell’ambito della ricerca scientifica e della formazione sulla “meditazione orientata alla mindfulness” (MOM) insieme al Prof. Franco Fabbro. Quest’ultimo è ideatore e fondatore del gruppo MOM, un gruppo nato in Friuli Venezia Giulia, con l’obiettivo per l’appunto di portare avanti, a livello nazionale, attività di ricerca, formazione e pratica sulla meditazione di consapevolezza.

Il metodo MOM

Il metodo di meditazione orientata alla mindfulness (MOM) è stato messo a punto più di dieci anni fa da Franco Fabbro. Si tratta di un programma simile alla MBSR (Mindfulness-based stress reduction) sviluppata da Kabat-Zinn. Il programma infatti è strutturato in otto incontri a cadenza settimanale, durante i quali i partecipanti praticheranno 30 minuti di meditazione, distribuita in 10 minuti di attenzione al respiro (anapanasati), 10 minuti di attenzione al corpo e gli ultimi 10 minuti di osservazione degli stati o contenuti della mente (in termini di pensieri, immagini, ricordi). È previsto per ogni incontro una parte iniziale durante la quale si affronterà un tema attinente alla mindfulness ed una parte finale a seguito della pratica esperienziale che consente ai partecipanti di confrontarsi su quanto è accaduto.

Il gruppo è molto attivo non soltanto nell’ambito della formazione ma anche in quello della ricerca scientifica circa la validità del metodo.

Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito ufficiale dello stesso, all’interno del quale è possibile reperire materiale bibliografico, pubblicazioni, ricerche scientifiche e audio guida.

Emergenza Coronavirus: la mindfulness in questo momento può tornarci utile?

Andrea Paschetto parte dal fare una breve premessa su cosa sia la mindfulness, e dunque ci ricorda che essa rappresenta una delle tante pratiche meditative esistenti. Il termine mindfulness infatti, è intraducibile in italiano e lo si fa corrispondere convenzionalmente al concetto di meditazione di consapevolezza.

Tale pratica viene ripresa da un metodo di cura scoperto più di 2500 anni fa dal Principe Gautama Buddha che aveva elaborato questo percorso di cura chiamato ottuplice sentiero e la mindfulness per l’appunto è un componente di tale percorso. L’obiettivo è quello di aumentare il livello di consapevolezza delle persone.

Il Buddha aveva capito con acuta chiarezza che la mente è il mezzo attraverso cui si attua la nostra sofferenza. La liberazione dalla sofferenza significa innanzitutto la liberazione dai condizionamenti mentali. (F. Fabbro, 2019).

Può in questo momento la mindfulness contribuire al nostro benessere?

Il dott. Paschetto ritiene che forse iniziare a praticare la mindfulness in questo delicato momento potrebbe non essere molto funzionale in quanto aumentando il livello di consapevolezza, se è presente disagio, si percepirebbe ancor più disagio, “sarebbe come imparare a nuotare intanto che una nave sta imbarcando acqua”.

In generale però, tale pratica, continua a spiegare il dott. Paschetto, ci potrebbe aiutare in questo momento sotto due aspetti interessanti. La sua originaria funzione infatti era quella di ridurre la sofferenza ed oggi anche la ricerca scientifica ci dice che la mindfulness contribuisce ad abbassare livelli di risposte emotive come paura, rabbia, tristezza e dunque un primo aspetto funzionale in questo momento potrebbe essere rappresentato dal limitare il dolore percepito dall’essere immersi nel dramma di questa situazione. Attraverso la pratica infatti, le persone possono riuscire a diventare osservatori esterni di ciò che avviene in termini di reazioni emotive, sensazioni corporee e pensieri, molti di questi divenuti automatizzati. Un secondo interessante aspetto che potrebbe tornarci utile in questo momento potrebbe essere rappresentato dall’opportunità di fare una sorta di bilancio e distinzione tra ciò che è essenziale nella nostra vita e ciò che è importante e dunque avere l’opportunità di rivedere il nostro sistema di valori.

Riuscendo ad essere meno sopraffatti dalla sofferenza, ci spiega il dott. Paschetto, abbiamo più possibilità di reagire ad essa.

Non Giudizio e atteggiamento gentile: quale ruolo nella mindfulness?

Ci spiega e chiarisce il dott. Paschetto che l’atteggiamento gentile e non giudicante non deve essere frainteso con il valutare che “vada tutto bene”, in quando per cambiare serve necessariamente diventare per l’appunto consapevoli di ciò che “non va bene”. Sarebbe più corretto parlare di quello che nel gruppo MOM viene chiamato atteggiamento equanime, che non va frainteso come atteggiamento distaccato dall’esperienza ma anzi va considerato come atteggiamento mentale che va coltivato e sviluppato, che osserva, si interroga ma che non giudica. Una mente equilibrata dunque, dall’essere vicino all’esperienza, qualunque essa sia, ma non estremamente coinvolta e travolta, una mente presente, vigile e attenta, in un armonico equilibrio tra soggetto che osserva e oggetto osservato (in termini di pensieri, emozioni, sensazioni).

E visto che ogni viaggio, percorso, obiettivo, inizia sempre da un primo passo, ho chiesto al dottore di offrirci una breve dimostrazione della pratica, che per chiarezza di informazione ricordiamo che è stata ridotta in questa sede e per tale intervista a solamente cinque minuti di esercizio del respiro (Anapanasati: consapevolezza del respiro). Si ricorda infatti, che la mindfulness nella sua completezza prevede un tempo di circa trenta minuti distribuito in tre fasi come già accennato sopra.

 

Guarda l’intervista integrale:

 

 

 

 

Taekwondo: l’arte marziale che aumenta le prestazioni cognitive

Esiste una correlazione ormai accertata tra aumento della performance cognitiva e arti marziali (Douris, 2015; Johnstone, 2018; Origua Rios, 2018). Le ricerche hanno evidenziato in particolare come la pratica del taekwondo sia in grado di ottimizzare alcune funzioni cognitive e incrementare la neuroplasticità, non solo nei soggetti in età giovane e adulta, ma anche tra individui al di sopra dei 70 anni.

 

Il taekwondo è un’arte marziale nata in Corea. Diffusa dal paese di origine a partire dal 1972, è divenuta disciplina olimpica dall’edizione dei Giochi di Sidney del 2000. Attualmente coinvolge 80 milioni di atleti in circa 200 paesi nel mondo.

La motivazione che spinge la ricerca ad indagare sulla relazione tra capacità cognitive e pratica del taekwondo sembra giustificata dalle particolari caratteristiche di questa disciplina sportiva. In generale l’esercizio di questo sport coinvolge l’atleta in un comportamento che enfatizza il controllo, il rispetto, l’integrità, la perseveranza, e varie funzioni cognitive quali l’attenzione sostenuta, la velocità di elaborazione, la pianificazione e il problem solving. La complessità cognitiva nella pratica del taekwondo è esemplificata dalle “poomse” (forme) che sono una serie di movimenti coreografici attuati con precisione tecnica in un determinato ordine, in un processo di apprendimento a complessità crescente che coinvolge il soggetto per molti anni.

Le ricerche che hanno esaminato gli atleti più giovani hanno mostrato un aumento significativo nei valori plasmatici dei fattori neurotrofici maggiormente correlati con i processi di plasticità cerebrale. In particolare, una serie di studi coreani (Cho et al., 20171; Cho et al., 20172; Kim, 2015) ha verificato che un training in taekwondo di sole 16 settimane, con soggetti tra 10 e 12 anni di età, è in grado di produrre un aumento significativo del livello plasmatico di BDNF (Brain-derived neurotrophic factor), IGF-1(Insulin-like growth factor-1) e VEGF (Vascular endothelial growth factor). BDNF è una neurotrofina che contribuisce alla sopravvivenza e alla differenziazione neuronale. L’IGF-1, quale mediatore dell’azione della somatotropina, promuove lo sviluppo somatico e la crescita dell’organismo. Il VEGF è un indice importante di angiogenesi. Le medesime ricerche hanno misurato le funzioni cognitive dei giovani atleti, attraverso la versione per l’età evolutiva del Test di Stroop (Golden et al., 2003) rilevando un significativo aumento della prestazione rispetto alle misurazioni nel gruppo di controllo. Il test di Stroop, che fornisce una misura della capacità inibitoria, dell’attenzione sostenuta e divisa, della velocità percettiva e di elaborazione, è generalmente un test utilizzato nell’assessment cognitivo degli atleti praticanti le arti marziali.

Una ricerca dell’Università della California (Lakes et al., 2013) ha coinvolto 600 studenti dai 12 ai 14 anni e ha rilevato, nel gruppo sottoposto a training di taekwondo rispetto al gruppo di controllo, un aumento delle prestazioni nella working memory, controllo inibitorio e flessibilità cognitiva utilizzando il Hearts & Flowers Task (Davidson, 2006). La medesima ricerca ha potuto evidenziare inoltre che gli studenti partecipanti al gruppo di training hanno esteso le capacità acquisite di controllo comportamentale e attenzionale anche al contesto scolastico e quotidiano. In accordo con questa evidenza, un altro studio (Roh et al., 2018) ha dimostrato come la pratica del taekwondo sia in grado di ottimizzare le abilità di socializzazione in giovane età.

Una ricerca recente (Kadri et al., 2019) ha evidenziato come la pratica di questo sport concorra all’aumento dell’attenzione sostenuta in soggetti giovani con ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività).

Tutti questi dati possono indicare che i miglioramenti nelle capacità cognitive e sociali promossi dal taekwondo in età evolutiva possiedano un alto valore ecologico e possano essere generalizzati ad altri contesti di vita quotidiana.

Una ricerca dell’University Hospital di Maastricht (Pons van Dijk, 2013) ha esaminato 24 soggetti tra i 41 e i 71 anni. I volontari, tutti in buona salute, hanno aderito ad un training in taekwondo della durata di 15 mesi, impegnandosi in un allenamento settimanale della durata di 1 ora. I risultati della ricerca hanno mostrato un incremento significativo delle prestazioni cognitive, rilevate all’inizio e al termine del programma. Un miglioramento significativo è stato evidenziato soprattutto nella velocità di elaborazione in relazione a compiti di controllo inibitorio.

Un altro studio (Cho et al., 2019) ha coinvolto 40 donne con un’età media di 69 anni. Il campione è stato suddiviso in un gruppo di training di taekwondo della durata di 16 settimane e in un gruppo di controllo. I risultati emersi sono in linea con quelli osservati nei bambini: un significativo aumento dei livelli plasmatici dei già citati fattori neurotrofici (BDNF, VEGF e IGN-1) e un incremento della prestazione cognitiva allo Stroop Test.

Lo stato della ricerca è ancora in una fase iniziale, tuttavia i risultati sono promettenti. Sembra che la pratica del taekwondo lavori su un piano multidimensionale: neuroplastico (incremento degli indicatori neurotrofici), cognitivo (capacità di concentrazione e controllo), fisico (flessibilità, forza e precisione), emozionale (mediazione, controllo delle emozioni) e sociale (rispetto reciproco e responsabilità individuale). Tutte queste caratteristiche rendono il taekwondo uno sport che può ritenersi indicato per rallentare i processi di neurodegenerazione fisiologica in età avanzata e per migliorare la performance cognitiva soprattutto nei soggetti più giovani.

 

La pubblicità basata sulle emozioni: il marketing ai tempi del Covid-19

La lotta al Covid-19 prosegue, nel contesto italiano, utilizzando nuovi canali comunicativi, come quello degli spot pubblicitari.

 

Esplicativo è il caso dello spot del brand Barilla che risulta essere un inno all’Italia che resiste. Nello spot pubblicitario, si nota immediatamente come il prodotto Barilla assuma un ruolo di secondo piano, essendo presente in pochi frammenti relativi alle aziende che resistono e producono, nonostante lo stato di emergenza.

In primo piano, invece, c’è l’Italia con il suo patrimonio artistico e culturale, con i flashmob sui balconi durante la quarantena, con il personale sanitario in prima linea e le categorie lavorative “più a rischio”. Si tratta di uno spot che commuove e che sta affascinando tutta l’Italia. Il caso Barilla, infatti, è riconducibile ad un esempio prototipico di “emotional advertising” (Eckler & Bolls, 2011). Si tratta di una strategia di marketing e comunicazione molto potente, perché basata su messaggi solitamente costruiti con immagini che evocano forti stati emotivi, come paura, rabbia, passione…(Eckler & Bolls, 2011). In questi spot non sono fornite molte informazioni sul prodotto, ma si predilige l’immagine alla comunicazione sul prodotto. Sfruttando l’aspetto visivo, l’inserzionista giunge prima agli obiettivi di vendita: ecco perché il marketing basato su comunicazione emotiva diventa una vera e propria rivoluzione. Invero, da uno studio condotto sulla percezione dell’emotional advertising (Chan, 1996), i risultati mostrano che la pubblicità emozionale incrementa le vendite e la fiducia nel marchio.

Ma oltre alle immagini, quali altri elementi contribuiscono a creare uno spot pubblicitario basato su una comunicazione emotiva? Altri elementi possono essere la musica di sottofondo e la scelta di una voce riconoscibile nell’immaginario comune. Nel caso della musica, la letteratura scientifica propone studi con risultati contrastanti, dove si mettono in evidenza posizioni favorevoli o sfavorevoli dell’importanza della musica come fattore “scatenante” dell’emotività. Uno studio che sintetizza le due posizioni dimostra come di per sé la musica attiva risposte fisiologiche emotive (arousal), ma deve essere combinata ad altri fattori e deve essere scelta accuratamente attraverso studi pilota, monitorando i cambiamenti emotivi in un piccolo campione di persone (Morris & Boone, 1998). La scelta della canzone dello spot Barilla 2020, ad esempio, non è casuale, in quanto si tratta di Hymne del compositore Vangelis. Già dal titolo della canzone scelta vi è un chiaro riferimento all’intento dello spot che si comprende solo al termine, ovvero quello di ringraziare l’Italia che lotta. La melodia è, inoltre, accompagnata dalla voce narrante di Sophia Loren, personaggio noto sulla scena mediale. Anche la scelta dell’opinion leader e della strategia retorica della narrazione mirano a costruire un effetto di multisensorialità (Di Fuccio et al., 2016). La forza, infatti, di questa forma di comunicazione è proprio la grande opportunità che offre per “raccontare” il brand, per trasformare lo spot in pura suggestione e intrattenimento, volendosi allontanare da obiettivi puramente commerciali, anche se solo apparentemente (Buffo, 2017). La narrazione affidata a personaggi noti sulla scena mediale, insieme alle immagini e alla musica, mirano a generare un senso di “immedesimazione” che fidelizza e genera il comportamento d’acquisto. Tutti noi, infatti, ci riconosciamo nella narrazione della pubblicità della Barilla:

A questo silenzio che protegge le nostre strade e alla vita che grida dai balconi. A chi è fermo ma si muove e a chi dà tutto senza chiedere nulla. A chi è stremato ma ci dà forza per sperare e alla bellezza che non smette mai di ricordarci chi siamo. Alla paura che risveglia il coraggio e al sorriso che dà senso a ogni fatica. A chi è stanco ma non molla. A chi è lontano ma sa starci vicino e a chi è spaesato ma si sente ancora un paese. All’Italia che ancora una volta resiste.

 

L’Alzheimer altera la capacità dell’intestino di assorbire il principio attivo di un farmaco

L’Alzheimer è considerata una malattia del sistema nervoso centrale. Si tratta di una condizione clinica che ad oggi non conosce cura: è possibile rallentarne il decorso, ma non è ancora raggiungibile una completa guarigione. Quali sono le nuove scoperte riguardanti le terapie farmacologiche?

 

 Ai pazienti con malattia di Alzheimer (AD) vengono spesso prescritti farmaci per altre condizioni, tra cui diabete o ipertensione, allo stesso dosaggio di quelle che vengono somministrare ai pazienti senza demenza (Jin & Tran, 2020). Potrebbe essere necessario riesaminare tale pratica, sulla base dei nuovi studi condotti su topi e riportati sulla rivista Molecular PharmaceuticsI risultati suggeriscono che l’AD potrebbe alterare l’assorbimento dei farmaci nel tratto digestivo, di conseguenza, potrebbe essere necessario modificarne il dosaggio per questi pazienti (Jin & Tran, 2020).

L’Alzheimer è considerata una malattia del sistema nervoso centrale, è caratterizzata dalla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari nel cervello, purtroppo si tratta di una condizione clinica che ad oggi non conosce cura, è possibile rallentarne il decorso, tuttavia non è ancora raggiungibile una completa guarigione, si tratta inoltre della demenza più comune e frequente tra gli over 65 (Hardy & Higgins, 1992).

Gli scienziati si sono concentrati principalmente sullo studio di farmaci in grado di attraversare la barriera emato-encefalica (BEE). La loro ricerca ha rivelato che la quantità e la funzione delle proteine ​​che trasportano i farmaci attraverso la BEE sono alterate nelle persone con AD. E’ stata però posta meno attenzione sulle altre barriere biologiche, come il rivestimento dell’intestino, attraverso il quale i farmaci orali passano nel flusso sanguigno. I pochi studi pubblicati su questo argomento, tuttavia, suggeriscono che questo processo di assorbimento potrebbe essere interrotto dal Morbo di Azlheimer (Jin & Tran, 2020).

Tramite sperimentazione su topi, i ricercatori hanno misurato l’assorbimento dei composti che si spostano dall’intestino tenue al flusso sanguigno. Ad esempio, i livelli plasmatici di diazepam, che si diffonde passivamente attraverso le cellule intestinali per raggiungere il flusso sanguigno, erano simili sia nei topi appartenenti al gruppo AD che nei topi di controllo (senza AD). Tuttavia si riscontrano delle differenze da farmaco a farmaco, infatti la replica della stessa sperimentazione, fatta questa volta utilizzando il valsartan, ha rilevato che i topi appartenenti al gruppo AD avevano meno concentrazione del principio attivo del farmaco nel plasma, rispetto ai topi facenti parte del gruppo di controllo (Jin & Tran, 2020).

Il passaggio di questi farmaci attraverso le cellule intestinali è controllato da trasportatori che potrebbero essere interrotti dall’AD (Jin & Tran, 2020).

I risultati sono indicativi della probabile necessità di dover modificare l’approccio farmacologico al paziente con morbo di Alzheimer, sono tuttavia da replicare sull’essere umano (dato che la suddetta ricerca è stata condotta su topi), se i risultati dovessero essere analoghi allora si delineerà l’assoluta necessita di ridimensionare le dosi farmacologiche dei pazienti con morbo di Alzheimer (Jin & Tran, 2020).

 

Aborto e disturbi della sfera emotiva

Le donne con storia di aborto spontaneo vivono spesso un dolore che, sia a livello affettivo che comportamentale, si avvicina all’intensità di una vera e propria perdita. Tale dolore solitamente si allevia spontaneamente dopo circa 6 mesi, oppure con l’arrivo di una nuova gravidanza. Cosa accade quando questo non avviene?

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM 5) ha inserito come specifica di molte patologie psichiatriche l’esordio nel “peripartum” a significare la crescente importanza di tutti i nove mesi di gravidanza dal concepimento e fino alle quattro settimane successive al parto.

Una delle condizioni che più frequentemente si verifica nell’arco di tale periodo è l’aborto spontaneo. Esso è definito come l’interruzione spontanea della gravidanza nel periodo gestazionale precedente alla vitalità del feto, prima dello sviluppo della capacità di vita autonoma, corrispondente circa al periodo di 23 settimane.

Le donne che hanno un aborto spontaneo, pur presentando inizialmente uno stress mentale superiore rispetto alle donne che hanno interrotto volontariamente la gravidanza (IGV), vanno incontro ad un miglioramento dei disturbi psicologici iniziali statisticamente significativo più veloce rispetto a quelle che hanno abortito volontariamente. Dunque, la risposta psicologica all’aborto spontaneo e all’aborto volontario è diversa ed è possibile attribuire questa differenza alle caratteristiche dei due tipi di aborto.

Nell’ordinamento italiano, l’aborto procurato deve avvenire prima dei tre mesi dal presunto concepimento e può essere attuato se sussiste pericolo fisico o psichico per la salute della madre. L’I.V.G., dopo i primi 90 giorni, può essere praticata quando: la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Le donne con storia di aborto spontaneo vivono spesso un dolore che, sia a livello affettivo che comportamentale, si avvicina all’intensità di una vera e propria perdita; tale dolore solitamente si allevia spontaneamente dopo circa 6 mesi, oppure con l’arrivo di una nuova gravidanza. Inizialmente compaiono sintomi di una generica sofferenza caratterizzata da shock e incredulità, conseguentemente si esperiscono sentimenti di tristezza, sensi di colpa, di vergogna e di impotenza, spesso associati a sintomi somatici.

Le reazioni da lutto sembrano rappresentare la forma più comune di sofferenza psichica conseguente ad un aborto, soprattutto se spontaneo; esso assume verosimilmente le stesse forme, durata e fasi di altre forme di lutto conseguente a perdite significative (Brier, 2008).

Negli anni, una letteratura sempre più ampia ha evidenziato l’importanza dell’aborto nella patogenesi di disturbi psicopatologici. La letteratura sembra dimostrare come l’interruzione di gravidanza sia certamente correlata, sebbene con frequenza estremamente variabile da caso a caso, a manifestazioni di sofferenza soggettiva, generalmente costituite da reazioni di lutto o da manifestazioni ansiose e/o depressive minori  (Iles, 1989; Rosenfeld, 1992; Bianchi-DeMicheli, 2007; Romans-Clarkson, 1989; Shadmi et al, 2002).

Il rischio di sofferenza psichica sembra generalmente più elevato nel caso dell’aborto spontaneo (Friedman & Gath, 1989; Lapelle, 1991; Frost & Condon, 1996; Lee & Slade, 1996; Klier et al,2002; Geller et al, 2004; Brier, 2004; Lok & Neugebauer, 2007; Brier, 2008). Meno problematica sembra essere, in generale, l’interruzione volontaria di gravidanza, la quale sembra associarsi nella maggioranza dei casi ad un’attenuazione delle condizioni di disagio emotivo pre-esistenti all’interruzione di gravidanza stessa (Greer et al, 1976; Payne et al, 1976; Romans-Clarkson, 1990, Teichman et al,1993; Rosenfeld, 1992, Schleiss et al, 1997; Bradhaw & Slade, 2003; Bianchi-DeMicheli, 2007).

In ogni caso, anche l’interruzione volontaria di gravidanza non è necessariamente esente da significative conseguenze in termini di salute mentale. Infatti, uno studio, svolto su donne che avevano abortito volontariamente 8 settimane prima, ha rilevato che il 44% presentava disturbi mentali, il 36% disturbi del sonno, il 31% si era pentito e l’11% si era fatto prescrivere psicofarmaci dal proprio medico di famiglia. Un altro studio ha rilevato che il 25% delle donne che abortiscono esegue visite psichiatriche, in confronto al 3% del gruppo di controllo, e che le donne che abortiscono hanno una probabilità molto più alta, rispetto alle altre, di essere ricoverate successivamente in un reparto psichiatrico. Bradshaw et al. (2003) hanno esaminato il livello di stress psicologico presente immediatamente prima dell’interruzione di gravidanza ed hanno riscontrato che nel  45% delle donne è presente un elevato livello di ansia. Subito dopo l’intervento, invece, c’è una riduzione dei livelli di stress, ma una minoranza di donne continua ad avere importanti disturbi psicologici, che frequentemente consistono in un’ansia molto elevata.

Lo stress causato dall’aborto, può evolvere in un vissuto ancor di più doloroso che può condurre a incremento o inizio di assunzione di droghe e alcool, cambiamenti del comportamento alimentare, ritiro sociale, scarsa stima di sé, fino all’ideazione suicidaria e tentativi di suicidio. Inoltre, si è visto che l’aborto è correlato con il Disturbo da Stress Post Traumatico. In una ricerca su donne che avevano praticato l’interruzione volontaria di gravidanza, il 46% delle partecipanti manifestava sintomi da stress quali disturbi del sonno, stati dissociativi, ricordi ricorrenti ed intrusivi dell’evento, evitamento degli stimoli che richiamavano l’aborto.

L’aborto aumenta il rischio di suicidio, come atto impulsivo di disperazione. Uno studio finlandese ha messo in evidenza che, di tutti i suicidi commessi, il 5.4% sono associati alla gravidanza. Di questi il 5.9% è associato alla nascita del bambino, il 18.1% all’aborto spontaneo, mentre il 34.7% all’aborto volontario.

In conclusione, l’aborto rappresenta uno stressor per la donna che inizialmente non viene elaborato ed integrato nella struttura di personalità, poiché si trova in uno stato di vulnerabilità causando la comparsa di una serie di disturbi della sfera emotiva: ansia, disturbo post – traumatico da stress, depressione, abuso di sostanze e alcool e comportamenti estremi quali il suicidio.

COVID-19: le linee guida internazionali per il benessere psicologico e la gestione dello stress

Il coronavirus ci ha costretti quasi tutti a stare a casa ed è sempre più comune sentire associare questa esperienza di limitazione di mobilità a quella di quarantena ed isolamento. Quali possano essere le ricadute psicologiche di questa pandemia è ancora presto per dirlo, ma sulla base di esperienze simili passate forse è possibile essere preparati e applicare alcuni utili suggerimenti forniti dagli esperti per migliorare il nostro benessere.

 

La diffusione pandemica del COVID-19 ha costretto numerosi governi ad intervenire con misure di contenimento particolarmente restrittive che rientrano nella definizione di “distanziamento sociale”. Con distanziamento sociale si fa riferimento a un insieme estremamente variegato di azioni volte a ridurre il contatto tra gli individui, quali ad esempio la cancellazione degli eventi di massa, la chiusura delle scuole e dei luoghi di lavoro (Centers for Disease Control and Prevention, 2017; European Centre for Disease Prevention and Control, 2020). Ci sono alcune misure di distanziamento sociale che riguardano non tanto i gruppi, ma i singoli individui, che possono essere categorizzate in: Isolamento, Quarantena, e Limitazione degli spostamenti (raccomandazione di restare a casa). Sebbene queste tre misure abbiano caratteristiche estremamente differenti, nel linguaggio comune sono state spesso utilizzate come sinonimi creando molta confusione.

Per fare chiarezza, la prima cosa da fare è descrivere questi tre concetti (European Centre for Disease Prevention and Control, 2020):

  • Isolamento – L’isolamento fa riferimento a quelle azioni volte a separare un individuo che ha già contratto il coronavirus (o in generale qualsiasi patologia infettiva) da tutti gli altri individui con l’intento di evitare che possa contagiare altre persone. L’isolamento è quindi una precauzione che viene applicata nei casi di persone confermate positive al virus o con sintomi tali da sospettare di essere stati contagiati. L’isolamento comporta generalmente una separazione fisica della persona in ospedale (quando le condizioni di salute sono gravi o moderate) o in una struttura domiciliare (per situazioni meno gravi) fino alla completa guarigione.
  • Quarantena – La quarantena è un periodo di distacco e restrizione di una persona che non risulta positiva o con sintomatologia evidente della patologia, ma che è stata esposta al virus o che abbia avuto contatti stretti con casi confermati di coronavirus. Il periodo da trascorrere in quarantena varia a seconda dalla tipologia di malattia infettiva, ma per il coronavirus il tempo di quarantena è stato fissato a quattordici giorni. I soggetti in quarantena hanno generalmente il divieto di uscire fino alla conclusione del periodo indicato.
  • Limitazione degli spostamenti (raccomandazione di restare a casa) – La limitazione degli spostamenti è una misura rivolta all’intera popolazione con la raccomandazione di restare a casa per evitare gli incontri fisici e la creazione di aggregazioni di persone. È una misura che viene applicata per periodi di tempo estremamente variabili e che dipendono da numerosi fattori, ma che per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità permette di uscire di casa.

Le tre misure, sebbene condividano la necessità di distanziamento fisico, hanno proprietà specifiche che le rendono chiaramente diverse nelle caratteristiche, ma anche nelle ricadute sulla quotidianità. Basti pensare come non sia permesso uscire di casa a tutti coloro che si trovano in quarantena o in isolamento neanche per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità, concesse invece nei casi di limitazione degli spostamenti. Proprio sull’esperienza di quarantena è stata pubblicata recentemente sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet una review di studi (Brooks, et al., 2020) che basandosi su esperienze di quarantene e isolamento di altre malattie (quali Sars, influenza H1N1, Ebola, influenza equina e MERS) ne ha descritto i possibili rischi psicologici.

Quello che emerge da questa revisione di studi è che in generale le persone sottoposte a quarantena tendono a riportare maggiori condizioni di stress rispetto a chi non ha ricevuto questa misura restrittiva, ma ad emergere in modo particolarmente evidente sono problematiche emotive quali la paura e la preoccupazione di poter contrarre la patologia o di poterla trasmettere ad altri, ma anche l’ansia di non riuscire a svolgere attività importanti come acquistare cibo e generi di prima necessità. Gli studi hanno messo in evidenza che l’agitazione può anche essere legata a problematiche di natura lavorativa, economica o familiare dovute all’incertezza della situazione in cui si sta vivendo. La noia e la solitudine legate al cambio di stile di vita ed ai lunghi periodi passati a casa, insieme all’interruzione così repentina della quotidianità, potrebbe anche portare a maggiore tristezza ed umore depresso, ma anche frustrazione ed irritabilità legate all’assenza di libertà di movimento e l’impossibilità di poter svolgere delle attività a cui si tiene. A tutte queste problematiche possono anche aggiungersi difficoltà del sonno e a svolgere le attività quotidiane, ma anche il rischio di stigma ed emarginazione sociale.

Come detto in precedenza, le problematiche descritte in questo studio fanno riferimento alle conseguenze di condizioni di vero e proprio isolamento o quarantena. Tuttavia c’è una crescente attenzione da parte delle istituzioni per gli effetti sulla popolazione dello stress generato da questo stato di crisi (World Health Organization, 2020a). Come sottolineato dall’American Psychological Association (APA, 2020), il passare molto tempo a casa con stimoli e contatti sociali limitati potrebbe comunque essere considerato rischioso per il benessere psicologico degli individui. Infatti nonostante le problematiche psicologiche legate alla “limitazione degli spostamenti” (raccomandazione di restare a casa) non siano equiparabili a quelle vissute in quarantena o in isolamento, e nonostante a livello globale le influenze negative per la salute mentale degli individui sembrino essere ancora sotto controllo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020a) ha comunque espresso preoccupazione i livelli di stress che sta generando questa crisi globale. Per questo motivo, sebbene, non ci siano ancora ricerche che possano dimostrare le conseguenze psicologiche delle restrizioni di mobilità causate dal COVID-19, precedenti studi condotti su esperienze stressanti e condizioni ambientali limitanti ed ostili hanno permesso a numerosi enti, organizzazioni, ordini ed associazioni scientifiche nazionali ed internazionali (Australian Psychological Society, 2020; Berufsverband Österreichischer PsychologInnen, 2020; Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, 2020a; 2020b; Centers for Disease Control and Prevention, 2020; European Federation of Psychologists Associations, 2020; Ordem dos Psicólogos Portugueses, 2020), di sintetizzare, in ottica di prevenzione, alcuni consigli da applicare per supportare il benessere psicologico e la salute mentale durante l’epidemia di COVID-19. In linea con l’infografica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020b) le principali indicazioni alla popolazione sono:

  • Evita la visione eccessiva e la ricerca compulsiva di notizie sul coronavirus che potrebbero causare ansia e stress. Quando siamo preoccupati tendiamo a valutare le cose in modo peggiore di quello che sono. Avere informazioni accurate su tematiche di salute pubblica è importante, ma fai riferimento e condividi solo fonti ufficiali ed affidabili.
  • Mantieni uno stile vita salutare, mangia sano ed in modo equilibrato, e cerca di dormire bene e con regolarità. Se sei in grado di svolgere attività fisica in casa, non perdere l’occasione di restare in forma. Evita il consumo di alcool, tabacco o di altre sostanze quando sei stressato e che potrebbero limitare la tua lucidità. Trova dei momenti per te e presta attenzione ad i tuoi bisogni, alle tue emozioni ed ai tuoi sentimenti.
  • Conserva buone relazioni sociali e continua a comunicare con i tuoi amici ed i tuoi familiari. Nonostante non sia possibile incontrare fisicamente le persone, prova a mantenere i contatti attraverso le telefonate, i messaggi e le chat. Le nuove tecnologie permettono di mantenere una rete sociale attraverso il mondo virtuale, usa anche video-chiamate ed i social network per restare in contatto con le persone intorno a te in questo momento di limitazione della mobilità.
  • Imposta le tue giornate creando e seguendo routine quotidiane. Svolgere attività regolari e organizzare il tempo della tua giornata può facilitare l’adattamento in una situazione nuova come questa. Togli il pigiama quando inizi la giornata e cerca di strutturare momenti specifici per il lavoro, per lo studio, per rilassarti e per divertirti. Definisci degli orari per i pasti e se è possibile prova a creare una distinzione fisica degli spazi per attività diverse.
  • Utilizza le strategie che hai già applicato in passato per superare situazioni difficili. Prova a ricordare come hai gestito in precedenza le tue emozioni durante delle avversità. Focalizzati sul positivo, prova a pensare al “distanziamento sociale” come un atto altruistico che stai mettendo in atto per proteggere le persone che sono più vulnerabili riducendo la possibilità di diffusione del virus.
  • Cerca ulteriore supporto se lo ritieni necessario. Se credi che lo stress, la paura o l’agitazione stiano influenzando negativamente la tua quotidianità creandoti una situazione di malessere, il supporto di uno psicologo può aiutarti. Gli psicologi sono professionisti altamente qualificati ed esperti che possono aiutarti ad affrontare le difficoltà. Vai sul sito del Ministero della Salute per trovate l’elenco delle iniziative di supporto psicologico in tutte le regioni.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 2020a) ha chiaramente espresso la necessità di affiancare alle misure di contenimento del COVID-19 azioni di supporto del benessere psicologico per aiutare la popolazione ad affrontare lo stress generato da questa crisi. Per riuscire a prevenire e fronteggiare adeguatamente le difficoltà che potrebbero insorgere risulta quindi indispensabile seguire le linee guida internazionali e del Ministero della Salute affidandosi al supporto degli psicologi.

 

L’abuso sessuale sui minori: tra fragilità e indifferenza

L’abuso sessuale a danno di minori è una delle forme di violenza più estreme della nostra società. Danneggia lo sviluppo fisico, psicologico, emozionale e sociale dei bambini.

 

È un fenomeno di proporzioni enormi: secondo le Nazioni Unite circa il 10% dei minori europei è o è stato vittima di qualche forma di abuso sessuale. Eppure ancora si fa fatica a riconoscere l’effetto devastante che questo può generare, anche a distanza di molti anni. Spesso non si comprende davvero cosa succede a un bimbo abusato e gli adulti, profondamente toccati dai racconti della vittima, tendono a non ascoltare con attenzione, a dubitare.

La base per sradicare questo fenomeno è migliorarne lo studio e la comprensione, assistere i minori vittime di abuso. Invece spesso capita che gli adulti dubitino delle parole di un bambino, mentre la vittima fatica a esprimere quello che sente e ha vissuto.

Le cinque fasi dell’adattamento all’abuso

Una delle teorie che può aiutarci a capire cosa succede a questi minori è la Sindrome di Adattamento all’Abuso, sviluppata dallo psichiatra statunitense Roland Summit (1987). L’autore divide questa sindrome in cinque fasi. Si comincia per quella della “segretezza”, in cui il minore viene manipolato emozionalmente. Prima dell’abuso, si crea un contesto oscuro dove il bambino può percepire che qualcosa non va, ma nondimeno si fida della parola dell’adulto. L’abusatore ottiene la sottomissione fisica ed emozionale del minore, che si trova in una situazione di paura e insicurezza. Spesso le vittime raccontano che chi gli ha inflitto violenza “era buono” e di non aver denunciato perché gli “veniva chiesto di non dire niente”.

La seconda fase è il “sentimento di impotenza”. Il minore vittima di abuso, si trova in uno stato di vulnerabilità e di mancanza di riferimenti. Soffre l’abbandono e l’assenza di protezione. Di questo può approfittare l’abusatore, traendo vantaggio della necessità di affetto da parte del bambino.

In una situazione di abuso sessuale cronico e ripetuto il minore cerca disperatamente un equilibrio, si adatta al dolore e alla violenza. Di fatto si dissocia. Prova a isolare le emozioni causate dall’abuso perché questo non invada anche il resto della sua vita. Così il minore mantiene una facciata di normalità, senza mostrare la sua sofferenza. Si adatta al trauma. Questa è la terza fase, che Summit chiama “intrappolamento e adattamento”, e spiega come molto spesso gli altri adulti che circondano il minore abusato non si rendano conto di quello che gli sta succedendo.

La fase successiva è quella della “rivelazione ritardata, conflittuale e poco convincente”. Sprofondato nella paura e la manipolazione da parte dell’adulto, è poco probabile che il minore possa denunciarlo spontaneamente, meno ancora al di fuori della famiglia. Può però succedere che la violenza venga scoperta in maniera accidentale o un professionista medico se ne renda conto. Oppure, il minore trova l’opportunità di denunciare in un momento di crisi all’interno della famiglia. Ma la denuncia stessa porta a una nuova crisi e alla reazione della famiglia e questo spesso causa nella vittima un sentimento di colpa, altre paure, vergogna. Il minore può sentirsi responsabile per la reazione degli adulti, pentirsi di aver parlato e di conseguenza – questa è l’ultima fase che Summit chiama “ritrattazione” – arrivare a dire di essersi sbagliato, di non ricordare bene.

La responsabilità degli adulti

Spostiamo ora l’attenzione sugli adulti. Spesso non sanno né ascoltare le richieste di aiuto dei minori né come intervenire. Sono ostacoli legati a miti e pregiudizi erronei: si crede per esempio che gli abusi sessuali su minori capitino solo fra le classi socioeconomiche più basse, o che i bambini mentano o esagerino il loro racconti, oppure che queste cose riguardino solo le bambine e comunque siano molto rare. Molti sono ancora convinti che gli abusi avvengano solo fuori di casa e che siano gravi solo se includono il coito. O ancora che i minori stessi provochino o seducano gli adulti e che quindi siano essi stessi responsabili attivi dell’abuso.

Ma chi lavora in questo campo sa fin troppo bene che tutto questo è falso: gli abusi avvengono a tutti i livelli della società, ai danni di maschi e femmine. È poco probabile che un bambino inventi di sana pianta un episodio di abuso. Abusi che sono in gran parte operati all’interno della famiglia o da conoscenti: in generale esiste fra abusato e abusatore una relazione di fiducia o affetto preesistente.

Inoltre, è necessario ampliare il nostro concetto di abuso sessuale: questo non si limita alla penetrazione. Per il minore possono avere effetti devastanti anche episodi di esibizionismo, masturbazione, contatti con genitali. Ed è un errore pericoloso pensare che i minori abbiano qualche responsabilità per aver cercato affetto e contatto fisico. Sono innocenti, pur avendo bisogno di vicinanza, carezze, abbracci adatti alla loro età. Colpevolizzarli per questo non è altro che un modo subdolo per togliere responsabilità agli adulti.

L’abuso sessuale sui minori si origina da vari fattori. Per combatterlo bisogna partir dal punto centrale della questione, cioè il conflitto tra l’esperienza del bambino e l’indifferenza del mondo adulto. Dobbiamo promuovere una maggiore consapevolezza dei rischi a cui i minori sono esposti, oltre a sradicare miti e convinzioni sbagliate sul fenomeno che impediscono la prevenzione e un’assistenza corretta alle vittime. Soprattutto, l’adulto che sa di un bambino che soffre di abusi sessuali ha sempre la responsabilità di denunciare e fare tutto quello che è in suo potere per interrompere le violenze. Questo non vuol dire credere a tutto quello che un bambino dice, bensì allargare lo sguardo per evitare cadere nella disattenzione o pregiudizi che possono essere dannosi.

 

Aspetti neuropatologici e neuropsicologici nella variante comportamentale della demenza frontotemporale (bvFTD)

L’articolo propone un approfondimento circa le caratteristiche neuropatologiche della variante comportamentale della Demenza Frontotemporale, in rapporto agli specifici deficit cognitivi e segni clinici che la sindrome comporta.

 

 La Demenza Frontotemporale descrive un gruppo di sindromi che presentano deficit nelle funzioni esecutive, modificazioni nel comportamento e problemi di linguaggio. Ne esistono due sottotipi, comportamentale e linguistica, quest’ultima suddivisa nei tipi non-fluente e semantica. Il tipo comportamentale della demenza frontotemporale costituisce la forma più comune all’interno dell’ampio cluster delle sindromi da degenerazione frontotemporale, la quale include la paralisi supranucleare progressiva, la sindrome corticobasale e appunto la demenza frontotemporale (Murley et al., 2018).

La variante comportamentale della Demenza Frontotemporale (bvFTD – behavioural variant frontotemporal dementia) è attualmente considerata la seconda causa più comune di demenza dopo quella di Alzheimer (Young et al., 2018; Rascovsky et al., 2011; Harciarek et al., 2013) e rappresenta soprattutto in fase di esordio e a ragione dell’eterogeneità sintomatologica, una sfida diagnostica per il clinico.

I cambiamenti nella personalità, nel comportamento e nelle facoltà cognitive caratteristici della bvFTD riflettono disfunzioni a carico delle connessioni reciproche tra le cortecce orbitofrontale, prefrontale dorsolaterale e prefrontale mediale e i nuclei della base ed il talamo. Questi circuiti sono a loro volta influenzati da afferenze corticali dai lobi temporale e parietale (Lanata et al., 2016).

Una normale attività nella corteccia prefrontale mediale, inclusa la corteccia cingolata anteriore, è associata con la motivazione. Lesioni in queste aree determinano una riduzione del comportamento motorio spontaneo che include l’avvio della comunicazione. Esse determinano inoltre un deficit del comportamento finalizzato in generale. La corteccia cingolata anteriore è spesso compromessa da processi neurodegenerativi nella bvFTD, particolarmente nel lobo destro, e causa apatia e inerzia. Pazienti con una forma apatica di bvFTD occupano molte ore guardando la televisione, non si occupano della propria igiene personale o delle loro responsabilità sociali. Non iniziano una conversazione e parlano solo se interrogati. La bvFTD è caratterizzata da una precoce e pervasiva modificazione cerebrale nelle regioni che sono state considerate critiche per i processi di cognizione sociale: corteccia orbitofrontale, corteccia prefrontale ventromediale, insula e il lobo temporale anteriore.

Se da un lato è lecito supporre che i deficit di cognizione sociale possano riflettere più generalmente una disfunzione esecutiva (a titolo di esempio, per la risoluzione di un dilemma sociale, correlato con l’empatia, occorrono capacità di flessibilità cognitiva), ci sono evidenze che dimostrano che nella bvFTD i cambiamenti nella cognizione sociale precedano e superino le disfunzioni esecutive, in relazione alla precoce compromissione della corteccia prefrontale ventromediale e orbitofrontale e del lobo temporale, piuttosto che i cambiamenti nella corteccia prefrontale dorsolaterale (Harciarek et al., 2013).

Anche altri studi confermano che relativamente ai deficit di cognizione sociale, la perdita dell’abilità di interpretare gli stati emotivi altrui, la perdita di consapevolezza e di empatia sembra siano dovuti ad una disfunzione della corteccia orbitofrontale mediale destra e dell’insula anteriore (Lanata et al., 2016).

I deficit nelle funzioni esecutive che comunemente sono osservati nella bvFTD, a carico della working memory, flessibilità mentale, controllo inibitorio e pianificazione, non sono così comuni nella prima fase della malattia.

Uno studio di meta-analisi sulle funzioni esecutive nella bvFTD ( Lough et al., 2001) ha evidenziato una preservata abilità esecutiva in un contesto di alterazione comportamentale e di deficit nella cognizione sociale quale risultato di una primaria compromissione nella corteccia orbitofrontale, prefrontale ventromediale e temporale anteriore, e non nella regione della corteccia prefrontale dorsolaterale. Gli autori hanno descritto casi in cui si evidenziavano cambiamenti significativi nel comportamento e nella personalità, con un deficit nella fluenza verbale ma con una performance nella norma nel Wisconsin (WCST). Il medesimo studio ha indicato nei risultati delle prove di Theory of Mind il deficit più evidente in test formali, confermando che nella bvFTD vi è una grande difficoltà nell’abilità di prendere la prospettiva dell’altro ed interpretarne i segnali sociali.

Rahman e colleghi (Rahman et al., 1999) hanno trovato una dissociazione tra le funzioni esecutive in pazienti con bvFTD, con un deficit di decision-making, mentre la working memory spaziale e la programmazione erano preservate. Risultati che anche altri studi più recenti sembrano confermare. In particolare Vijverberg e collaboratori (Vijverberg et al., 2017), nella comparazione del profilo neuropsicologico nella bvFTD e i disturbi psichiatrici più comuni, hanno evidenziato un deficit significativo nei compiti di fluenza verbale (soprattutto per i nomi di animali) e risultati migliori in attenzione, working memory e memoria verbale rispetto al gruppo dei soggetti schizofrenici o con disturbo bipolare.

Un altro studio (Ranasinghe et al., 2016) ha rilevato differenti pattern di deficit cognitivo nei diversi stadi della bvFTD. In particolare si è osservato che nelle prime fasi della malattia sono più evidenti i disturbi neuropsichiatrici, insensibilità agli errori, lenti tempi di risposta, deficit di denominazione, mentre sono preservate memoria, attenzione e denominazione degli stati affettivi altrui. Progressivamente il declino si estende alla rievocazione libera, shifting, abilità visuospaziali, fluenza semantica, denominazione delle emozioni, calcolo e comprensione sintattica. Dalla meta-analisi effettuata nello studio emerge una capacità di controllo inibitorio al di sotto della media (z=-1.4/-1.6) ma non così compromessa come ci si aspetterebbe viste le caratteristiche del disturbo.

Correlata al controllo inibitorio, è proprio la disinibizione il segno più eclatante di bvFTD. Un grande ruolo nei sistemi di controllo cognitivo è giocato dalla corteccia orbitofrontale (OFC), che può essere definita come una stazione di collegamento nella corteccia frontale, perché ha un ruolo inibitorio in relazione alla corteccia limbica. La OFC gioca anche un ruolo critico nella modificazione del comportamento in relazione a premi e punizioni. Una disfunzione della OFC è comunemente associata con la disinibizione e la labilità emotiva, le quali possono manifestarsi anche con impulsività (guida spericolata, gioco d’azzardo, abuso di sostanze, acquisto compulsivo, comportamento criminale, binge eating) (Christidi et al., 2018).

Sembra invece che una disfunzione fronto-sottocorticale possa essere responsabile dei movimenti ripetitivi (ritualistici e compulsivi) e dell’espressività verbale stereotipata.

Anche le disfunzioni neurochimiche sembra giochino un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi della bvFTD. In particolare si osserva una diminuzione di densità dei neuroni serotoninergici e dopaminergici, mentre le vie noradrenergiche e colinergiche risultano preservate. Si è documentata una perdita fino al 40% dei neuroni serotoninergici nei nuclei del Rafe e una disfunzionalità dei recettori 5HT1 e 5HT2A nelle regioni fronto-orbitale, cingolata, frontale mediale e temporale. E’ stata osservata una perdita di neuroni glutammatergici e GABAergici, ma la conseguenza funzionale di questa perdita non è ancora chiara, in parte a ragione della complessità delle dinamiche di interazione tra neuroni glutammatergici e GABAergici nei circuiti corticali (Murley et al., 2018; Hughes et al., 2015).

Allo stato attuale della ricerca, sembra che la bvFTD rifletta un profilo di deficit neuropsicologico multi-dominio correlato ad una generale disfunzionalità corticale e sottocorticale. La rilevazione del quadro è resa ancora più complessa dall’eterogeneità dei segni clinici nelle fasi di esordio, i quali possono apparire simili a quelli osservati in un disturbo psicotico. Inoltre le modificazioni cerebrali strutturali, evidenti nelle fasi avanzate della sindrome, possono non essere documentate fino ad alcuni anni dall’esordio sintomatologico. Ai fini di una diagnosi precoce di bvFTD, la letteratura è concorde nel raccomandare un assessment che tenga in considerazione i segni clinici, i sintomi comportamentali e psicologici, così come una misura della performance neuropsicologica.

 

Capire le adolescenti. Le sette tappe per passare dall’infanzia all’adolescenza (2019) di L. Damour – Recensione del libro

Lisa Damour in Capire le adolescenti parla delle donne e delle tappe che devono intraprendere per passare dall’infanzia all’adolescenza. Ogni tappa è ben descritta e arricchita da aneddoti realmente accaduti, episodi che hanno vissuto le pazienti dell’autrice, pazienti figlie o pazienti madri.

 

Di questo libro colpisce il titolo: Le adolescenti. Come mai l’autrice dice LE e non GLI adolescenti? Basta leggere qualche pagina di Capire le adolescenti per avere la risposta a questa domanda.

Si parla di donne, e la prima donna che viene citata nel testo è a dir poco nota: Anna Freud. La prima a parlare di “linee evolutive”, la psicanalista che ha ipotizzato che la crescita dall’infanzia all’adolescenza avvenga su fronti multipli attraversando una serie di stati. Lisa Damour più volte nel suo testo riconosce dei meriti ad Anna Freud, la definisce una delle prime professioniste ad aver normalizzato molte delle sfide che si verificano in adolescenza. Lisa Damour non parla di stadi evoluivi, bensì di “tappe”, sette tappe attraverso cui viaggia l’adolescente, ma soprattutto il genitore che si rapporta a lei.

Sette tappe e sette capitoli di un libro. Ogni capitolo si apre con un aneddoto realmente accaduto, episodi caratterizzanti le vite di pazienti dell’autrice, pazienti figlie o pazienti madri.

Prima tappa: un’inevitabile distacco dell’adolescente dal suo nido familiare. Il capitolo del libro ci mette di fronte a madri confuse, con difficoltà a interpretare il comportamento della propria figlia, quella figlia che fino a poco tempo fa era affettuosa, complice, e invece adesso è una figlia che si isola, che risponde a tono, indecifrabile. Ma la Damour aiuta le madri in questione a decifrare le proprie figlie, talvolta utilizzando anche delle metafore: una figlia adolescente nuotatrice e una madre piscina. La nuotatrice prende il largo, si diverte, sguazza libera, ma sempre sente l’esigenza di aggrapparsi al bordo della piscina.

Che ruolo hanno le relazioni con i pari in età adolescenziale? Tappa 2: l’adolescente si unisce a una nuova tribù. La Damour racconta di aver avuto non poche pazienti adolescenti che le hanno fatto varie richieste di aiuto: essere accettata dal gruppo, non essere esclusa, essere popolare, essere vista. Perché è di questo ciò di cui un’adolescente ha bisogno: l’inserimento in un gruppo di pari. Talvolta non è semplice, richiede un conformarsi, anche quando ci si sente diversi. L’adolescente senza amiche si sente persa. Anche in questo capitolo non mancano le linee guide per il genitore, il quale potrebbe avere motivo di preoccuparsi o no. Riconoscere i campanelli d’allarme come isolamento, bullismo, sconforto. Perché prevenire è meglio che curare.

Da brava psicologa la Damour dedica un capitolo alle emozioni: la terza tappa. L’adolescenza è caratterizzata da emozioni estreme, al punto che devono essere scaricate su qualcun altro: il genitore. Il genitore però spesso si limita a “sopportare” le lamentele della propria figlia, quando invece quest’ultima sta facendo una richiesta d’aiuto. Le linee guida per relazionarsi a dovere con le emozioni di un’adolescente sono ben esplicate dall’autrice. Talvolta genitori e figlie si trovano di fronte a semplici problemi comunicativi, risolvibili. A volte ci si relaziona a disturbi dell’umore, i quali richiedono un percorso più complesso, ma riconoscere i primi segnali o richieste d’aiuto non è difficile.

Talvolta l’autorità del genitore viene messa in discussione: tappa 4. Di fronte a una tappa simile il genitore è sconcertato. Fino a poco tempo prima la propria figlia era obbediente, facilmente gestibile, adesso scatta una certa ribellione, che tra l’altro è positiva. L’adolescente cerca i suoi spazi, rompe l’attaccamento morboso con la figura genitoriale. Ciò non sarà semplice per il genitore che vuole tenere la propria figlia al suo posto, ma non ci riesce. Talvolta alzare la voce non serve, tuttavia è opportuno riconoscere i pericoli veri e le linee guida per far ciò sono ben esplicate dalla Damour.

Le ultime cinque tappe ci mettono di fronte a quelli che potrebbero essere i problemi più concreti e frequenti dell’adolescenza.

Tappa 5: incertezza per il futuro. Cosa l’adolescente vuole essere? Qual è il suo punto d’arrivo? Spesso i modelli di riferimento adolescenziali provengono dalla rete. È quindi opportuno che il genitore stia ben attento ciò con cui si rapporta il proprio figlio in internet, ma non solo. L’incertezza per ciò che sarà proviene anche dal contesto scolastico. L’adolescente attribuisce importanza alla scuola, ma forse non nelle dovute misure. Per tale motivo che il genitore dovrebbe adoperarsi al fine di assistere la propria figlia e mostrarsi attento anche verso i suoi impegni scolastici, naturalmente senza invadenza, ma come una guida.

E le relazioni sentimentali? È proprio in adolescenza che fanno la prima vera comparsa. Questa è la tappa 6, alquanto difficile per il genitore, perché l’adolescente è spesso molto riservata su questa tematica, quindi ci si è spesso all’oscuro di tante cose. Forse il genitore si è dimenticato di essere stato adolescente a sua volta, per cui non sempre darà al proprio figlio i consigli giusti. L’adolescente seguirà sempre la propria bussola interiore, scoprendo gradualmente anche la propria sessualità.

L’ultima tappa riguarda il proprio aspetto e l’accettazione corporea. Inulte dire che a quest’età sarà piuttosto frequente non accettarsi fisicamente, ricorrendo anche ad un pessimo rapporto con il cibo e diete sbagliate.

Diciamo che l’intento dell’autrice è quello di far rimembrare alle madri di oggi cosa significa essere adolescenti. Ciò sarà molto utile al fine di relazionarsi alle proprie figlie riconoscendo segnali non costruttivi; e una volta terminato il libro, credo che il lettore possa sentirsi davvero proiettato nella sua adolescenza, rendendosi conto che forse non era un’età poi così terribile ma tutt’altro: un’età carica di emozioni ed esperienze indimenticabili.

 

“Voglio che tu mi voglia!”: come il desiderio sessuale cambia nel corso della relazione

Uno studio recentemente pubblicato su Archives of Sexual Behavior ha indagato la correlazione esistente tra desiderio sessuale e soddisfazione di coppia, in particolare sull’oscillazione del desiderio maschile e femminile nel corso del tempo (McNulty et al., 2019).

 

È ormai risaputo quanto il desiderio sessuale e l’intesa in camera da letto siano importanti per la riuscita di una relazione stabile e duratura. A questo proposito, gli autori si sono prefissati l’obiettivo di indagare una particolare area di interesse per le relazioni di lunga durata: come il desiderio, nel corso del tempo, cambia negli uomini e nelle donne all’interno di un rapporto esclusivo (McNulty et al., 2019).

L’intesa e il comportamento sessuale sono caratteristiche distintive delle relazioni romantiche (Hazan & Zeifman, 1994) ed è proprio per la loro importanza che hanno numerose implicazioni critiche per il benessere della coppia (Maxwell & McNulty, 2019; McNulty, 2016). Uno studio condotto da McNulty e colleghi (2016) ha evidenziato come la soddisfazione sessuale sia in grado di predire significativamente i cambiamenti nella soddisfazione relazionale; individui soddisfatti a livello sessuale, infatti, sono più disposti a rimanere a lungo all’interno di una relazione monogama esclusiva (Day et al., 2015).

Nonostante l’importanza della soddisfazione sessuale all’interno della coppia, è abbastanza raro che entrambi i partner mantengano i medesimi livelli di desiderio nel corso degli anni ed è comune che uno dei partner abbia un maggior desiderio rispetto all’altro (es. Risch et al., 2003).

Nei rapporti di lunga durata, diversi studi hanno dimostrato che la frequenza dei rapporti sessuali cala drasticamente man mano che gli anni passano (Ard, 1977; McNulty et al., 2016); esistono alcune prove scientifiche che sembrano sostenere l’ipotesi che siano le donne a mostrare un calo più marcato del desiderio sessuale rispetto ai partner maschili (es. Arndt, 2009; Graham et al., 2017; Murray & Milhausen, 2012).

In uno studio condotto da Byers e Lewis (1988), gli autori hanno evidenziato che il 50% dei soggetti appartenenti al loro campione, almeno una volta, si è mostrato in disaccordo col partner sull’avere un rapporto sessuale;disaccordi riguardavano in particolar modo le donne che rifiutavano un atto sessuale desiderato dal loro compagno. Inoltre, le donne sembrano riportare un minor livello generale di desiderio sessuale rispetto agli uomini (es. Murray & Milhausen, 2012).

Il presente studio si è posto l’obiettivo di indagare, all’interno di un campione composto da 314 soggetti (tutti implicati in una relazione stabile), se le coppie esperissero tassi differenti di desiderio sessuale rispetto ai propri partner. Sono state prese in considerazioni due ulteriori variabili, ovvero la gestazione e la maternità, in rapporto a quanto influissero sul desiderio femminile (McNulty et al., 2019).

I risultati hanno mostrato che nelle donne il desiderio sessuale tendeva a diminuire più rapidamente nel tempo rispetto al desiderio della controparte maschile; gli uomini infatti non riportavano una diminuzione significativa del desiderio. Inoltre, la gestazione e il parto diminuivano ulteriormente il desiderio femminile (ma non quello maschile), accentuando la già presente differenziazione tra i sessi. Infine, il declino del desiderio sessuale femminile era in grado di predire significativamente il declino della soddisfazione relazionale della coppia (McNulty et al., 2019).

 

Covid-19: vademecum comportamentale rivolto al personale sanitario per la gestione delle comunicazioni con i pazienti

Un vademecum comportamentale rivolto al personale sanitario della Continuità Assistenziale (CA) e delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA), per la gestione delle comunicazioni con i pazienti e i loro famigliari, nell’ambito dell’emergenza COVID-19.

 

La pandemia da SARS-CoV-2 sta mettendo a dura prova non solo il personale sanitario ospedaliero ma anche territoriale, a causa sia dell’incremento dei flussi di chiamate e richieste di intervento, sia degli aspetti psico-sociali correlati: isolamento, ansia, paura, panico, lutto.

Lo scopo del presente fascicolo è fornire al personale sanitario della Continuità Assistenziale e delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale delle indicazioni per migliorare la gestione degli aspetti comunicativi e relazionali, particolarmente cruciali in questa fase storica del Sistema Sanitario Nazionale.

I contesti considerati sono quelli tipici dell’attività di CA: valutazione telefonica, visita domiciliare e visita ambulatoriale. I comportamenti indicati sono finalizzati a migliorare l’interazione del sanitario con il paziente e con i famigliari.

I vantaggi attesi per il paziente e per i famigliari sono: miglioramento della comprensione delle indicazioni e delle informazioni ricevute; riduzione dell’ansia e di altri aspetti psicologici disfunzionali; miglioramento dei comportamenti funzionali ad una corretta gestione della malattia. I vantaggi che ne derivano per il sanitario sono: miglioramento dell’efficacia nella gestione dei problemi clinici; incremento di self-confidence; riduzione dello stress psico-fisico lavoro correlato.

Consulta il vademecum cliccando qui

 

Il lutto perinatale e le sue ripercussioni sulla coppia

A seguito del lutto perinatale ci si trova ad affrontare sofferenza, emozioni e cambiamenti che hanno ripercussioni anche sul funzionamento della coppia.

 

La perdita durante la gravidanza è un evento traumatico, ambiguo e paradossale, che va a toccare non solo la donna e il partner nelle loro individualità, ma anche la comunicazione, le dinamiche relazionali e, infine, la sfera della sessualità e dell’intimità di coppia.

Quando una gravidanza termina prima del tempo, la coppia genitoriale si trova a dover integrare le precedenti emozioni di gioia che derivano dall’attesa della nuova vita, a vissuti di profonda sofferenza, che si manifestano come conseguenza del lutto. La nascita di un figlio spesso rappresenta il coronamento del sogno di genitorialità e di generatività della diade, e la sua morte comporta non solo la perdita del figlio stesso, ma anche la privazione, almeno temporanea, delle speranze e dei sogni che i genitori avevano creato intorno alla nascita (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). In seguito all’evento inaspettato, e qualora il lutto venga a incistarsi, tra i partner possono emergere alcune problematiche coniugali che talvolta conducono alla deriva del rapporto (Shreffler, Wonch Hill, Cacciatore, 2012).

La letteratura scientifica evidenzia come inevitabilmente la coppia faccia esperienza di alcuni cambiamenti che possono riguardare la comunicazione, la dinamica relazionale o l’intimità e la sessualità.

Per quanto concerne i cambiamenti nella comunicazione sono state osservate due differenti modalità di espressione del lutto: quella istintiva, prevalentemente femminile e caratterizzata da manifestazioni affettive intense, e quella pratica, contraddistinta da strategie di elaborazione più concrete e orientate al fare, per lo più tipica degli uomini (Martin, Doka, 2000). Quando queste diversità non si incontrano, possono generare dei conflitti e limitare il supporto che i partner sono in grado di offrirsi reciprocamente (Hutti, Armstrong, Myers, Hall, 2015). I differenti modi di affrontare ed esprimere il lutto, se non sono supportati da una buona comunicazione, possono porsi come limite alla continuità del legame.

Sul piano delle dinamiche di coppia è emerso che i partner non sempre hanno la possibilità di elaborare il lutto in maniera congiunta. Infatti, può accadere che quando uno di loro ricerca l’apertura e la condivisione, l’altro non desideri parlare della perdita; viceversa quando quest’ultimo ricerca la prossimità, può accadere che l’altro preferisca ritirarsi nelle proprie attività (Hooghe, Neimeyer, Rober, 2012). Quando la coppia fa esperienza di lutto, si viene a creare un movimento interno alla diade equiparabile a una danza tra prossimità e lontananza: la ricerca di vicinanza e l’apertura verso l’altro si alternano all’evitamento e al ritiro relazionale (Rosenblatt, Barner, 2006).

Il lutto perinatale è un evento in grado di influenzare anche la sfera sessuale della coppia, sia per quanto riguarda la frequenza dell’attività sessuale, sia per la percezione del piacere a esso connesso. La diade può percepire un’ambivalenza riguardo a due desideri contraddittori: quello di ritrovare il piacere intimo condiviso e quello di evitare la sessualità stessa, in quanto connessa alla perdita (Dyregrov, Gjestad, 2012). Inoltre, cercare il piacere in un periodo di lutto può suscitare sensi di colpa, vergogna e inadeguatezza, soprattutto se un partner non è in linea con il desiderio dell’altro.

In conclusione, la perdita perinatale si configura come un evento paradossale e in quanto tale possiede delle conseguenze che anch’esse mostrano carattere di ambiguità sul piano della comunicazione, delle dinamiche di coppia e, infine, della sessualità. La diade, “come in una danza”, negozia le difficoltà e le diversità, talvolta in maniera maldestra, calpestandosi i piedi, e talvolta con modalità armoniose. Quando nella coppia ciascuno si adatta ai movimenti dell’altro, si possono mettere in atto delle strategie congiunte e più adattive rispetto all’elaborazione del lutto e al superamento della perdita; viceversa, emergono degli attriti quando i bisogni individuali entrano in opposizione e si tramutano in movimenti relazionali non compatibili con quelli del partner. Questa danza è in continuo cambiamento e, pertanto, non esiste una posizione in cui la coppia possa stabilirsi e in cui possa mantenere immutate le distanze (Rosenblatt, Barner, 2006). Per aiutare i partner a ricomporsi tra loro in modo armonico, il contesto in cui la coppia è inserita, a partire dal personale sanitario ospedaliero fino a giungere all’entourage familiare e amicale, può fare molto. In primo luogo, può comprendere il significato che la perdita assume per i partner e legittimare l’espressione emotiva connessa all’evento, che si esprimerà con la modalità che in quel momento è consona e possibile a ciascuno di essi (Gandino, Sensi, Vanni, 2019).

 

Vulnerabilità psicologica in soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore (o unipolare) nel periodo di quarantena

Nelle persone con depressione l’emergenza sanitaria da Covid-19 non fa altro che acuire il senso di inadeguatezza e di chiusura verso il mondo. Come possono essere aiutati questi pazienti a superare il periodo di quarantena?

 

L’Italia, il nostro paese, oramai funge da svariati mesi da emblema e da monito riguardo le conseguenze che uno Stato potrebbe, e nel nostro caso è costretto, affrontare per fronteggiare i problemi di natura organica, economica e psicologica dei quali il virus in questione, il Covid-19, ne è la causa. Tra le tante patologie di natura psicologica i disturbi del tono dell’umore sono estremamente diffusi. Questi consistono in alterazioni emotive, di entità tale da causare, al soggetto che le esperisce, gravi problemi e persistenti disfunzioni, accompagnate da un marcato disadattamento alle normali condizioni ambientali di vita. La perdita delle minime e semplici incombenze della quotidianità, aggravata dalla situazione contingente, fanno del disturbo depressivo una condizione atroce. Ma cos’è la depressione?

Il termine depressione viene utilizzato in modo generico ed estensivo nel linguaggio colloquiale in riferimento ad una sensazione di lieve sconforto o di tristezza momentanea scatenata da un evento o da un pensiero capace di provocare, nel soggetto che lo esperisce, uno stato di malessere transitorio. Tuttavia, volendo uscire dalle imprecisioni di uso comune, è bene sapere che il disturbo unipolare fa riferimento ad uno stato di malinconia di tipo patologico, della durata all’incirca di più di due settimane. Sebbene i principali sintomi identificativi appaiono ben chiari, non lo sono altrettanto le cause, ancora imperfettamente note. Come si fa a fare una diagnosi del disturbo?

I criteri diagnostici maggiormente utilizzati sono quelli che fanno riferimento al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), redatto dall’American Psychiatric Association e ormai giunto alla quinta edizione (DSM 5 – APA, 2013). Secondo i criteri dell’attuale DSM 5, per fare diagnosi di Depressione Maggiore il paziente deve presentare almeno cinque o più tra i seguenti sintomi per un periodo di almeno due settimane (criterio A di diagnosi). Nei cinque o più sintomi devono comparire “umore depresso” o “perdita di interesse o piacere”. I sintomi elencati nel DSM 5 comprendono:

  1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
  2. Marcata diminuzione di interesse o piacere (anedonia) per tutte, o quasi tutte le attività, per la maggior parte del giorno.
  3. Perdita di peso significativa in assenza di diete o aumento di peso (ad esempio, può essere significativa una variazione del peso corporeo superiore al 5% nell’arco di un mese), oppure riduzione/aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
  4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
  5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
  6. Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno.
  7. Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi ogni giorno.
  8. Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione quasi ogni giorno.
  9. Pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ideazione suicidaria senza un piano specifico, oppure tentato suicidio o piano specifico per suicidarsi.

Sempre facendo riferimento al DSM 5, gli altri due criteri che necessitano di essere soddisfatti al fine di porre diagnosi sono:

  • CRITERIO B: I sintomi devono causare disagio o compromissione clinicamente significative in ambito sociale, occupazionale o in altro ambito funzionale importante.
  • CRITERIO C: l’episodio depressivo maggiore non deve essere attribuibile all’uso di particolari sostanze o ad altra condizione patologica.

Quindi i soggetti affetti da disturbo depressivo come possono essere aiutati in questo periodo di quarantena?

Come già detto in precedenza, non sono chiare le cause alla base dell’origine del disturbo; le teorie più recenti propendono verso un modello eziologico che considera l’interazione di alcuni elementi quali la vulnerabilità biologica e quella caratteriale assieme ad eventi di vita stressanti, come ad esempio la presenza di eventi traumatici multipli nel corso della vita. A tal proposito il malcontento generale dovuto allo stato obbligatorio di quarantena non fa altro che acuire il senso di inadeguatezza e la chiusura in soggetti depressi, che sovrapponendosi alla già conclamata patologia crea una sorta di doppio trauma.

Inoltre, la mancanza di lavoro, soprattutto per alcune categorie di cittadini che sono impossibilitati a svolgere le loro mansioni abituali anche da casa, e il basso livello socio-economico rappresentano altri fattori di malessere. In situazioni del genere, diviene pertanto necessaria la presenza della figura del terapeuta, seppur a distanza, ma non solo, poiché di fondamentale importanza sono anche l’avere adeguate relazioni sociali, nonché il supporto di quei familiari che vivono all’interno dello stesso nucleo del soggetto depresso, che ora più che mai ha bisogno di dover ricevere il giusto incoraggiamento, il sostegno e l’aiuto da parte delle persone a lui più vicine.

L’impegno e la costanza dei propri cari nel fornire un supporto è molto importante, poiché rappresenta una fonte di speranza verso una possibile guarigione e un senso di utilità per i parenti dell’affetto. Questo perché lo scompenso depressivo non causa unicamente sofferenza e malessere al soggetto che ne soffre, ma solitamente presenta delle conseguenze negative anche nei confronti dei familiari e di chi gli sta attorno. In effetti è esperienza comune dei soggetti vicini alla persona depressa quella di essere “contagiati” dal suo cattivo umore.

Purtroppo bisogna dire anche che molti individui affetti dalla patologia provano un profondo senso di vergogna che spesso porta ad avere difficoltà nell’ammettere di esserne colpiti, acuendo maggiormente la propria situazione in una sorta di circolo vizioso infernale. Pertanto il primo passo alla base della ripresa consiste proprio nell’accettare la patologia, considerandola come un problema ormai diffuso e comune. Colui che accetta la propria condizione, riesce più facilmente a trovare i meccanismi e le soluzioni più adeguate, atte ad affrontarla e a porvi fine.

 

Il narcisismo espresso nei social network: tra selfie e autostima

Il narcisista vede la propria immagine come qualcosa di idealizzato, proprio perché non sarebbe in grado di accettare l’immagine di Sé reale, quella fallibile, quella per certi versi patetica di un soggetto incapace di riconoscersi e accettarsi.

 

La parola narcisismo è stata coniata da uno studioso inglese, sessuologo, che alla fine dell’Ottocento la utilizzò per indicare chi era dedito in maniera eccessiva all’autoerotismo. Nel corso dell’ultimo secolo, al narcisismo sono stati dati contenuti allineati a tale prima definizione, ma sicuramente non limitati alla sfera sessuale. Diversi autori si sono occupati di provare a definire il narcisismo, soprattutto nell’ambito della psico-patologia uno di questi, che ne ha dato una lettura invero originale, è stato Alexander Lowen, secondo cui lui il narcisista è una persona che nega i sentimenti.

Andiamo con ordine. Lowen inizia il proprio ragionamento sulle attitudini narcisistiche delle persone osservando come esse siano integralmente assorbite dalla propria immagine di sé. La parola immagine già può aiutarci a comprendere come il mondo attuale, così pieno di immagini con le quali veniamo costantemente bombardati, sia una sorta di ambiente ideale per lo sviluppo di tali tendenze. L’autore però va oltre: il narcisista non solo è assorbito dalla propria immagine, ma non riesce a distinguere fra l’immagine di chi effettivamente è e l’immagine di chi crede di essere. Quindi, l’immagine di sé che assorbe il narcisista, non è quella che viene chiamata del sé reale, ma è un’immagine idealizzata, in quanto la prima gli risulta inaccettabile. Lowen identifica il sé con il corpo vivente, quindi all’interno della concezione del sé vi è sia il corpo, sia la mente. L’immagine del sé reale contempla sia le percezioni e le espressioni meramente corporee, sia le percezioni e le espressioni più profonde, più radicate e che si fondono con il corpo per mezzo della mente. In ciò, Lowen identifica i sentimenti. La perdita dell’immagine reale del sé, quindi, è una perdita della possibilità di sperimentare il sentimento, sia dal punto di vista del “sentire”, sia dal punto di vista dell’”esprimere”: il narcisista nega il proprio sé, proprio perché ne nega una parte costitutiva, la parte emotiva, investendo la sua intera esistenza su un’immagine che potremmo definire più esteriore che estetica.

Quanto precede, spiega molto bene un’altra caratteristica che viene unanimemente ascritta al narcisista: la mancanza di empatia. Non essendo in grado di sperimentare i propri sentimenti, ancor meno sarà in grado di riconoscere quelli altrui. Il fatto che i suoi comportamenti, mirati esclusivamente a esaltare la propria grandiosità attribuendosi presuntuosamente meriti e capacità che spesso non ha, facciano soffrire gli altri è una sorta di effetto collaterale del quale egli non ha nemmeno consapevolezza (o, più spesso, nel quale egli non ha proprio interesse). Il suo obiettivo primario non è indurre sofferenza, il narcisista infatti non è necessariamente un sadico, ma riuscire a suscitare negli altri attenzione e ammirazione smisurate.

Non è tutto oro quello che luccica, però, e chi ha tendenze narcisistiche incarna perfettamente questo proverbio. L’immagine di sé che questi soggetti hanno è distorta in due direzioni: verso l’esterno, in quanto si è detto che è un’immagine che vuole essere al centro dell’attenzione altrui, priva di difetti e oggetto di lusinghe; verso l’interno, verso se stessi, in quanto essi sono tremendamente insicuri, permalosi, estremamente sensibili alle critiche e, in apparenza sorprendentemente, dotati di una bassa autostima.

Quest’ultima caratteristica può generare stupore in quanto ci si aspetterebbe che una persona che ritiene di essere più meritevole e smart di chiunque altro, abbia un’elevata autostima. Tuttavia, il significato di autostima è diverso da quello di ego, inoltre non bisogna commettere l’errore di considerare il narcisista come una persona che vede la realtà. Il narcisista vede la propria immagine di sé come qualcosa di idealizzato, proprio perché non sarebbe in grado di accettare la propria immagine di sé reale, quella fallibile, quella per certi versi patetica di un soggetto incapace di riconoscersi e accettarsi. Si può comprendere, allora, perché quando si parla di narcisismo, entra in gioco anche l’autostima, in quanto essa si può declinare come la consapevolezza: di possedere gli strumenti per affrontare la vita e le sue richieste; di saper usare questi strumenti; di meritare di raggiungere i propri obiettivi (o, in senso più ampio, di meritare la felicità). Se una persona vive l’ambiente in cui è immersa, quindi anche le persone che la circondano, esclusivamente come fonte di approvazione, è evidente che non possiede alcun tipo di consapevolezza sulle proprie capacità e sulla possibilità di meritare o meno il raggiungimento degli obiettivi che si prefigge. Come si è visto, infatti, questa stessa persona non ha altro obiettivo che vedere celebrata la propria immagine.

Ci troviamo di fronte, dunque, a qualcuno che ha escluso i sentimenti dalla propria vita, che tendenzialmente ha poca consapevolezza di sé, che ha una bassa autostima e che riesce a vedere solamente un’immagine esteriore di ciò che è. A questo punto, è legittimo ipotizzare che il narcisista sia una sorta di selfie di sé stesso ed è proprio ai selfie che si rivolge la ricerca esplorativa presentata di seguito.

Per indagare la relazione tra autostima, social media e narcisismo in modo del tutto esplorativo, abbiamo condotto una ricerca anonima su un campione di n=84 partecipanti residenti in Italia, maggiorenni e che vi hanno partecipato volontariamente. I dati sono stati raccolti in maniera anonima, senza richiedere alcun dato sensibile, come ad esempio indirizzo email, indirizzo ip o altro. Inoltre, è stato richiesto e ottenuto il consenso informato a tutti i partecipanti. Sono stati utilizzati test volti a misurare la dipendenza da social network, l’autostima e il narcisismo. Si presentano di seguito i risultati ottenuti.

Strumenti Utilizzati:

  • Rosenberg Self-Esteem Scale, per misurare l’autostima: La Scala di Autovalutazione dell’Autostima di Rosenberg, realizzata nel 1985 è oggi una delle più utilizzate a livello mondiale per la valutazione dell’autostima da parte del soggetto esaminato. Come tutte le Scale di Autovalutazione consente di ottenere una risposta di massima che aiuta il soggetto che la compila a comprendere il proprio livello di autostima e se è opportuno intervenire nel caso l’autostima sia bassa. Non sostituisce assolutamente il parere di un professionista esperto ma consente di porsi domande ed eventualmente cercare risposte in caso di bassa autostima.
  • SB-PNI inventory: Il PNI è stato uno dei primi test a valutare il narcisismo patologico a livello multidimensionale. Il PNI a 28 item ha buone capacità psicometriche. Successivamente è stato elaborato un test molto breve, l’SB-PNI composto da 12 item che indaga in particolare la “grandiosità” e la “vulnerabilità” ed è quello qui utilizzato. Lo scopo del test è quello di ridurre i tempi di compilazione pur conservando le caratteristiche della scala principale in sole dodici domande.

Preliminarmente, va specificato che l’82.8% del campione è composto da donne con un livello di istruzione così suddiviso: 50% ha un titolo universitario, il 41% scuola superiore. Il 62.8% dei soggetti è fidanzato/sposato mentre il 31% si è dichiarato single. Inoltre, l’età media dei partecipanti è di 27 anni con una deviazione standard di 6.

Il 52.8% dei soggetti utilizza applicazioni per smartphone (giornalmente) molto spesso (misurato su scala likert da 1 a 5, dove 1 è molto poco e 5 è molto spesso) e, analogamente, il 36.6% utilizza i social network molto spesso, sempre su base giornaliera.

Per quanto riguarda i selfie, il 63.6% dei soggetti pubblica i suoi selfie su Instagram, il 33.6% su Facebook.

Narcisismo espresso nei social network tra selfie e autostima Psicologia Fig 1

Fig, 1 Utilizzo giornaliero dei social network

Per quanto riguarda i selfie, in media, nel campione considerato, i partecipanti scattano 1.3 selfie al giorno, con una deviazione standard di 2.4 mentre ne vengono pubblicati in media 0.5 con una deviazione standard di 1.44.

Narcisismo espresso nei social network tra selfie e autostima Psicologia Fig 2

Fig. 2 Caratteristiche dei selfie scattati

Oltre alle caratteristiche demografiche abbiamo utilizzato le correlazioni per indagare la relazione tra alcune delle principali variabili di questa ricerca. Abbiamo trovato che: il test della dipendenza da social network è correlato positivamente con il test del narcisismo (r = .730): ciò significa che maggiore è l’utilizzo dei social network, più elevata è la propensione narcisistica degli individui che si sono sottoposti al test. Questo non ci sorprende molto, in quanto i social network sono il “luogo” prediletto per condividere i propri selfie scattati.

Un altro dato che non sorprende è il legame di correlazione negativa emerso fra il test del narcisismo e il test dell’autostima (r=-481), il che non fa che confermare quanto emerso nelle premesse del presente lavoro: una persona narcisista ha una bassa autostima.

Un risultato che desta interesse è quello relativo alla variabile età. Infatti, nel nostro studio, l’età è correlata in maniera debole al test della dipendenza dai social (r = -.039) e al test del narcisismo (r = -.112), ma positivamente correlata al test dell’autostima (r = .237): quindi, più l’età dei soggetti aumenta, più l’autostima tende ad aumentare. Abbiamo inoltre chiesto ai partecipanti quanto siano soddisfatti dalla propria vita (soddisfazione misurata con una scala likert da 1 a 5, dove 1 è molto poco e 5 è moltissimo). I risultati sono i stati i seguenti: la soddisfazione per la propria vita è correlata debolmente al test della dipendenza dai social network (r = .088) e al test del narcisismo (r = -.041) ma vi è correlazione positiva più significativa con il test dell’autostima (r = .309). Pertanto, emergerebbe che le persone soddisfatte della propria vita hanno anche un adeguato livello di autostima.

In conclusione, anche se questa ha ricerca ha prodotto esiti potenzialmente interessanti, bisogna specificare che la medesima non può avere valenza scientifica, ma è stata condotta a scopi esplorativi e divulgativi. Inoltre, essendo la ricerca basata su un questionario pubblicato online tramite campionamento di convenienza, non è possibile sapere se una persona abbia compilato più volte il questionario. Infine, ci preme sottolineare che ai soggetti non è stato restituito alcun risultato, pertanto in esito alla compilazione dei questionari non vi è stata alcuna considerazione di qualsivoglia genere sotto il profilo diagnostico.

 

cancel