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La validità dell’ipotesi di automedicazione di Khantzian nelle new addictions

Le dipendenze patologiche e le new addictions hanno varie caratteristiche in comune. Le ricerche scientifiche indicano come sia sempre maggiormente credibile l’ipotesi che nelle dipendenze senza uso di sostanze, così come nelle tossicodipendenze, il comportamento messo in atto da chi ne soffre sia un tentativo di automedicamento.

Cosa hanno in comune le dipendenze da sostanze stupefacenti e le new addiction

L’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive il concetto di dipendenza patologica come quella

condizione psichica, e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i sui effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione.

Oggi il termine dipendenza patologica viene utilizzato anche per descrivere un gruppo di disturbi caratterizzati, non dall’abuso di sostanze, ma da una ricerca spasmodica di un comportamento o di un oggetto, senza il quale la vita della persona diviene problematica o insostenibile. Si fa riferimento alle così dette new addictions, legate alle nuove tecnologie, allo shopping compulsivo, alla dipendenza da gioco d’azzardo, o a quella da lavoro, o da cibo, o ancora a quella affettiva. Le tossicodipendenze e le addictions, colpiscono un gran numero di persone nel mondo e sono accomunate da diversi aspetti:

  • dal fatto che, chi ne è affetto, è costretto a reiterare lo stesso comportamento, in modo compulsivo, anche se questo è inadeguato e disfunzionale (craving);
  • sono tutte espressioni di una situazione di disagio;
  • le ricerche nel campo delle neuroscienze dimostrano come in tutte queste entità patologiche, ciascuna con una sua modalità peculiare di presentazione, siano presenti alterazioni dei meccanismi celebrali che controllano la gratificazione e la motivazione.

E’ allora lecito pensare che tossicodipendenze ed addictions abbiano un’eziologia comune, che siano determinate dalla medesima causa.

L’ipotesi dell’automedicamento di Edward Khantztian

Una delle ipotesi eziologiche per spiegare l’insorgenza delle dipendenze da sostanze è quella formulata, negli anni Settanta del secolo scorso, da Edward Khantzian e David F. Ducan e nota come ipotesi dell’automedicazione. Inizialmente Khantzian partì dall’idea che i tossicodipendenti fossero individui caratterizzati da un deficit nelle funzioni dell’Io e che la ricerca della droga rappresentasse un tentativo di potenziarne i meccanismi di difesa. Successivamente, considerando la casistica dei soggetti da lui trattati, si pose la domanda se la scelta della sostanza psicoattiva fosse casuale. Giunse alla conclusione che il tipo di droga era selezionato in modo tale che le proprietà farmacologiche della sostanza fossero idonee ad alleviare gli stati affettivi disturbanti del soggetto. Khantzian faceva particolarmente riferimento all’eroina ed alla cocaina.

La teoria dell’automedicamento e gli studi sperimentali

Esistono a supporto della teoria dell’automedicamento alcuni studi sperimentali, tra questi particolarmente interessante è quello condotto nel 1977 da Wusmer L. e Pecksnifr Mr. Si tratta di una ricerca in cui un gruppo di eroinomani è stato trattato con doxepina e paragonato ad un gruppo di controllo trattato con placebo. La doxepina ha provocato una significativa riduzione del craving. Gli autori hanno concluso che gli eroinomani fossero affetti da sindrome ansiosodepressiva che andava in remissione per effetto del trattamento con il farmaco antidepressivo. Come riportato, anche, da Rounsaville et al (1982), il disturbo da abuso di sostanze risponde ad appropriati trattamenti con psicofarmaci contro sindromi target come la fobia e la depressione.

Vi sono, infine, evidenze cliniche, a sostegno dell’ipotesi della self-medication, che riguardano gli individui dipendenti da oppiacei e farmaci sedativo-ipnotici.

Tutti questi dati confermano l’ipotesi di Khantzian secondo la quale i tossicodipendenti depressi usano gli oppiacei nel tentativo di curare uno stato di malessere psichico intollerabile.

Per quel che riguarda le new addictions è stato ipotizzato che, anche per queste dipendenze, possa essere valida la teoria di Khantzian.

Diversi studi suggeriscono che i meccanismi celebrali alla base dell’obesità siano simili a quelli della tossicodipendenza e di conseguenza l’obesità sia da considerare come il risultato di una dipendenza da cibo. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Granada, assieme ai ricercatori della Monash University australiana, hanno condotto uno studio per verificare quest’ipotesi. Sono state ricercate le differenze tra le connessioni funzionali nei sistemi di ricompensa nel cervello degli obesi e dei normopeso. La ricerca si è avvalsa di scansioni funzionali fatte con la risonanza magnetica che hanno mostrato che il desiderio di cibo è associato con l’attivazione di connessioni neuronali diverse, a seconda che la persona sia di peso normale o in sovrappeso. Una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori dell’University of Alabama at Birmingham (USA) e pubblicata sull’American Journal of Public Health ha individuato una correlazione tra depressione e obesità. I ricercatori hanno utilizzato i dati provenienti da uno studio, molto vasto, denominato CARDIA (Coronary Artery Risk Development in Young Adults), che ha monitorato  per 15 anni, un gruppo di giovani adulti, uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 30 anni. E’ stato dimostrato che coloro i quali manifestavano tendenze depressive (livelli misurati a 10, 15 e 20 anni), aumentavano di peso, accrescendo la propria circonferenza addominale più velocemente degli altri; mentre quelli che risultavano già essere in sovrappeso non manifestavano peggioramenti sull’equilibrio psichico.

Nel gioco d’azzardo patologico uno studio condotto da Gianni Savron et. al e pubblicato nel 2001 sulla Rivista di Psichiatria ha dimostrato come i giocatori patologici presentano, rispetto ai controlli, una maggiore sensibilità all’ansia e maggiore distress . Shinohara et al.(1999) hanno osservato un incremento di beta-endorfine, adrenalina e dopamina all’inizio del gioco e durante la partita.

I dati degli studi epidemiologici sulla dipendenza da internet mettono in evidenza come i fattori di rischio, nei giovani, siano rappresentati da problemi psicologici, psichiatrici o familiari preesistenti all’insorgenza del  disturbo. Marazziti et al. (2015) segnalano come tra i disturbi più frequenti vi siano disturbi dell’umore e ansia. Per gli adolescenti elementi di particolare vulnerabilità sono la bassa autostima che, diverse ricerche mettono in correlazione con una maggiore probabilità di sviluppare depressione, oltre all’identità insicura e alle competenze sociali deboli. Infine negli adulti, sono spesso presenti problemi di solitudine, insoddisfazione nel matrimonio, stress collegato al lavoro, depressione, insicurezza dovuta all’aspetto fisico ed ansia.

Esistono diversi motivi per poter pensare che lo shopping compulsivo possa essere una strategia per alleviare uno stato depressivo sottostante. Gli studi di Lejoyeux et al (1996) evidenziano che sentimenti negativi di tristezza, di solitudine, di frustrazione o di rabbia generano un aumento nella tendenza a fare acquisti. Lo shopping è invece associato ad emozioni piacevoli come felicità e senso di potere e competenza  (Alonso-Fernandez, 1999). Faber e O’Guinn (1992) hanno condotto una ricerca che ha evidenziato come gli acquirenti compulsivi hanno punteggi di autostima molto più bassi rispetto ai normali consumatori. Per questi soggetti patologici fare acquisti potrebbe essere un modo per innalzare la propria autostima e combattere frustrazione ed umore depresso. A conferma dell’ipotesi di un legame tra depressione e shopping compulsivo, ci sono i risultati dello studio di McElroy et al. (1994) in cui nove soggetti su tredici trattati con antidepressivi mostrano una completa o parziale remissione dei sintomi caratteristici dello shopping compulsivo.

I dati degli studi scientifici confermano come tossicodipendenze e addictions abbiamo molte caratteristiche comuni e come sia plausibile pensare che, anche per le dipendenze senza uso di sostanze, esista un legame tra comportamento compulsivo e sintomi di depressione ed ansia. Queste evidenze rendono la teoria dell’automedicamento molto probabile e applicabile ad ogni tipo di dipendenza.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del primo incontro “Coronavirus: emozioni e difficoltà nella quarantena”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. Continua il successo dei Dialoghi con Sandra. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del primo incontro col Dott. Gabriele Caselli.

 

I Dialoghi con Sandra sono un’occasione per confrontarsi, uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si apre a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno cadenza settimanale, ad ogni incontro è presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del primo incontro è stato il Dott. Gabriele Caselli, il quale ha affrontato l’argomento “Coronavirus: emozioni e difficoltà nella quarantena”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

 

 

 

Non perderti l’incontro di oggi mercoledì 6 maggio alle ore 14.00

Per partecipare è sufficiente registrarsi al webinar cliccare il link:

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Il legame e le emozioni tra lo psicoterapeuta e il paziente: il lavoro psicologico ai tempi del Covid-19

In questi giorni in cui abbiamo tanto tempo per riflettere, mi sono soffermato su di un pensiero legato al dolore, alle emozioni e alle dinamiche afferenti alla relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente ai tempi del Covid-19.

 

Mi sono chiesto se il legame e i connotati emotivi abbiano subito delle modificazioni. Inevitabilmente stiamo vivendo una tragedia di immani proporzioni e talvolta al dolore subentra lo scoraggiamento, l’arresa, mentre, in altri casi, la resilienza ci permette di adattarci alle nuove esigenze di vita.

Ed è nell’osservare la nostra fragilità e impotenza che emerge il lavoro psicologico, nello spazio di condivisione terapeutico, come dire che in ogni deserto può esserci la strada che conduce alla rinascita. Come non mai, la professionalità psicologica è chiamata a leggere in modo appropriato il contesto sociale all’interno del quale opera.

Per rimanere vicino ai nostri pazienti ci siamo fermati nelle nostre attività cliniche che prevedevano sedute “vis à vis” a favore di colloqui mediante altri strumenti, con interventi a distanza, da remoto (skype, videochiamate, ecc.). Ciò è stato necessario nell’ottica di una protezione verso sé stessi e gli altri e comunque anche per attenerci alle direttive legislative.

Rimanere accanto ai pazienti in un momento in cui viene meno lo spazio fisico, complesso, appare necessario non solo deontologicamente ed eticamente, ma anche moralmente per chi in questo momento aggiunge sofferenza a quella già preesistente.

È proprio nel momento in cui viene meno lo spazio fisico e concreto, dove è precluso lo spostamento, che la piattaforma digitale diviene rappresentativa, una risorsa importante per affermare la nostra presenza, per continuare a contribuire al benessere dei pazienti.

Il mezzo informatico ci permette di essere vicini e presenti anche in una distanza territoriale, una distanza che, però, protegge senza allontanare.

Ci siamo adeguati ad una nuova modalità di strutturare il setting del colloquio. Abbiamo perso la canonica, in base al modello di riferimento, strutturazione terapeutica.

Prima, abituati nel nostro studio, ci sentivamo protetti da uno spazio dove contenuto e contenitore interagivano, lasciando anche spazio alla rappresentazione mentale. Il paziente adesso conosce i nostri spazi più intimi e familiari. Adesso la nostra comunicazione passa in remoto. Si organizza tutto all’interno di quello spazio virtuale. Dietro uno schermo avviene il processo del cambiamento.

Ma siamo propri sicuri che così facendo riusciamo ad essere compassionevoli mantenendo inalterata la relazione? Un paziente in seduta attraverso skype mi dice: “dottore noto che lei ha molti quadri, le piace l’arte?”. E allora lì vi è l’ingresso nel tuo mondo. Il paziente conosce e si riconosce in alcune tue intimità familiari che prima venivano celate dietro il setting più ortodosso dello studio.

In questo spazio si riconfigura il rapporto, si assiste all’amplificazione ed inevitabile condivisione emotiva.

Il setting rimodellato ridetermina il significato affettivo dei vissuti del paziente poiché l’esposizione al disagio si amplifica. Avviene un cambiamento nella relazione poiché c’è uno spazio di dolore condiviso dove il paziente e lo psicoterapeuta si riconoscono e si leggono, nel momento attuale di difficoltà legata al Covid-19, abbattendo spazi che prima erano più conformi al setting tradizionale.

Le paure del paziente diventano quelle dello psicoterapeuta; in questo spazio-scenario potremmo scoprirci vulnerabili mettendo a nudo le nostre fragilità. Se questo può apparire deleterio perché la simbolizzazione del terapeuta subisce la vulnerabilità, penso però che d’altro canto possa dare uno spazio di riflessione al paziente.

Ritengo che lo psicoterapeuta, ammettendo le proprie fragilità all’interno dello scenario relazionale proposto dal paziente, eviti quella simbolizzazione che può essere d’ostacolo. Il contenuto affettivo che comunque permea il rapporto non è mai eliminabile, ma è parte del lavoro di psicoterapia.

Lo psicoterapeuta è investito di molte attese, di emozioni positive e/o negative a seconda del ruolo a cui viene associato. In questa simbolizzazione si mescolano agiti emozionali di fantasia, ma anche aspettative realistiche nei confronti del rapporto terapeutico.

Se rileggiamo e individuiamo le fantasie del paziente, esse diventano una finestra attraverso cui comprendere le altre relazioni e gli equilibri in cui è immerso.

Il buon terapeuta all’interno dell’interazione non può e non deve escludere la dimensione emotivo-affettiva. Già dall’analisi della domanda si costruisce quel patto di fiducia e di comprensione che, personalmente, chiamo “comunanza sinergica”.

Lo psicoterapeuta con la propria competenza e stabilità, solidifica il sostegno emotivo durante tutto il percorso di psicoterapia. Diviene una risorsa in grado di stimolare il cambiamento permettendo di raggiungere quella consapevolezza e dare voce e capacità di narrazione dei propri bisogni.

Non è presente solo il colloquio clinico nella relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente ma anche una connessione più profonda, nel corso della quale il terapeuta entra in contatto con le sensazioni del paziente essendo l’evocatore di emozioni e di arcaici pensieri.

Un bravo psicoterapeuta deve essere molto preparato e pronto ad intercettare le sensazioni che gli trasmette il paziente. Rimanere vicino a lui differenziandosi.

Ma ai tempi del covid-19, il lavoro terapeutico può subire un arresto, quasi una paralisi omeostatica. Non è da escludere che se il lavoro terapeutico non sta funzionando vuole dire che è subentrata una collusione, un tipo di relazione che si può creare tra lo psicoterapeuta e il paziente, a causa della quale tra i due si crea un’alleanza distorta che inevitabilmente porta a cristallizzare la situazione patogena impedendo ogni forma di cambiamento psicologico.

Ai giorni attuali, con i nostri pazienti, la metodologia ha subito un processo di ri-costruzione, di riformulazione, attenta al contesto sociale e al divenire dello sviluppo terapeutico.

Come uscirne fuori?

Sicuramente non imponiamo l’obiettivo pregresso del percorso in itinere ma riformuliamo l’analisi della domanda. In questa riformulazione c’è subito un cambiamento, un’attenzione in grado di analizzare i momentanei conflitti, fornendo uno spazio entro cui poterli esprimere e sperimentare, nella consapevolezza che ogni approccio psicoterapico ha un proprio punto di vista su dove orientarsi.

Ritengo che lo psicoterapeuta e il paziente debbano liberarsi delle proprie immagini, verbalizzarle e contestualizzarle in un tempo come questo.

I sentimenti e le emozioni espresse all’interno del setting terapeutico, se ben gestiti, rappresentano un ottimo indicatore della terapia.

In ogni seduta terapeutica ed in ogni momento della vita quotidiana il confronto con le emozioni diviene necessario.

All’interno del lavoro psicologico, lo psicoterapeuta si trova dinanzi ad alti livelli emozionali. E allora diviene necessario portare il paziente a modificare le proprie risposte emozionali in riferimento alle situazioni specifiche vissute.

Nell’importanza al presente, nel “qui ed ora“, lo psicoterapeuta utilizza gli strumenti e le procedure più idonee per la modificazione dei comportamenti e dei pensieri, più o meno espliciti e disadattivi, a favore di una regolazione emozionale più adattiva che contempli anche una accettazione della sofferenza attuale, poiché non c’è da gestire solo un pregresso emotivo ma anche quello che contemporaneamente accade nel contesto sociale.

Il lavoro sul “qui ed ora” include la capacità di essere nel momento presente, reale, accettandolo anche nel suo paradossale divenire. L’ancoraggio al futuro catastrofico e al passato idealizzato subisce una battuta d’arresto, di sospensione, a favore di uno spazio esperienziale condiviso anche nell’accettazione della vulnerabilità.

Ed è proprio in questo scenario che tra lo psicoterapeuta e il paziente si innesca un rapporto esclusivo ed irripetibile ma anche una difficoltà legata ad un rimodellamento relazionale.

Lo psicoterapeuta, frenando le proprie istanze narcisistiche, fa da specchio ed il paziente proietta su di lui una serie di emozioni contrastanti che comprendono apprezzamento, affetto, ma anche rancore per non essere in grado di sollevarlo.

Ma lo psicoterapeuta in questo momento potrà provare emozioni che potrebbero direttamente sollecitare ulteriormente il paziente?

Può accadere certamente che durante il percorso di psicoterapia il paziente possa intercettare le emozioni dello psicoterapeuta, rielaborandole attraverso il proprio patrimonio emozionale.

Il paziente potrebbe esplicitarle direttamente o portarle attraverso altri canali, il non verbale, i sogni, ecc. La psicoterapia è un incontro umano, e le parole e le emozioni possono allontanare dalla realtà, creare nuove immagini, fantasmi.

La psicoterapia, però, non può allontanarsi da tutto ciò, perché la psiche e l’essere umano vivono grazie ad esse e non lontano da esse. Bisogna accoglierle in modo da poter lavorare su quella trasformazione, su quel cambiamento.

Il benessere psicologico, come formulato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, viene inteso non solo come mero stato di assenza patologica o di disagio, ma come situazione nella quale ciascuno è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per riuscire ad adattarsi costruttivamente alle situazioni che, di momento in momento, si trova a vivere, siano esse caratterizzate da input interni o esterni.

Se riflettiamo, nel corso della nostra vita ognuno di noi ha sperimentato situazioni talmente diversificate e uniche. L’unica cosa che prima o poi ci accomuna è la propria morte o quella di una persona a noi cara. Adesso però abbiamo qualcosa che ci accomuna, stiamo vivendo in parallelo la stessa situazione drammatica legata al Covid-19. Vi è uno spazio emotivo di condivisione che è intimamente legato al significato. D’altronde anche noi come psicoterapeuti siamo pervasi da paure.

Come già detto, all’interno di questa esperienza possiamo permetterci di condividere con il nostro paziente la vulnerabilità e la fragilità.

Sicuramente il momento che noi tutti stiamo vivendo ci permetterà in un futuro, dopo la sofferenza, anche di essere maggiormente resilienti. In questo caso è importante sollecitare e analizzare la nostra capacità riflessiva e quella del paziente, cioè la capacità introspettiva di guardare sé e l’altro, oltre ad analizzare quali strategie si è in grado di mettere in campo per far fronte all’attuale disagio.

Siamo talmente sovra stimolati in modo diretto e indiretto dalla complessità della situazione da poterci sentire inadeguati come psicoterapeuti.

Essere attenti al nostro essere come psicoterapeuti ci permette di accogliere la nostra vulnerabilità e non dare adito alle eccessive richieste del paziente che in questo momento potrebbero essere eccessive. Essere attenti a noi, anche attraverso il costante monitoraggio di un supervisore esperto, ci permette di regolare la nostra emotività.

Il lavoro con questa emozione diviene una costante e costituisce un ingrediente centrale per la psicoterapia.

Quando portiamo il paziente a rivolgere l’attenzione verso ciò, in effetti lo aiutiamo ad accedere ad importanti bisogni e a creare un nuovo significato.

In questo spazio di condivisione, dove ad ogni seduta vicendevolmente lo psicoterapeuta e il paziente si chiedono “come sta?”, frase iniziale riservata prima quasi esclusivamente al terapeuta, ora diviene un comune terreno di condivisione emotiva, dove anche il paziente, paradossalmente e forse neanche tanto, si prende cura del proprio psicoterapeuta. In questo scenario il processo del paziente diviene quello dello psicoterapeuta e la terapia si indirizza ad attivare schemi condivisi.

Le emozioni ci forniscono dettagli sulle nostre reazioni agli eventi esterni e quindi è necessario esserne consapevoli. All’interno di questa consapevolezza risultano soddisfatti gli obiettivi terapeutici.

La capacità di essere consapevoli alle proprie emozioni e sentimenti divengono dei regolatori per parametrare la sofferenza. Una sorta di acquisizione di strategie per regolare le emozioni disfunzionali.

La sofferenza ci mette in allerta in una situazione di disagio; attraverso essa noi facciamo di tutto per evitare che si verifichi nuovamente.

Il rischio è quello che l’eccessivo controllo alle reazioni emotive possa portare ad elaborare strategie disfunzionali, non prestando più attenzione ai segnali emotivi della propria esperienza.

Quindi appare necessario anche intercettare quelle che sono le risposte emozionali attuate affinché avvenga una elaborazione adattiva e congruente.

In psicologia si parla spesso, giustamente, dell’importanza delle emozioni e come abbiamo già detto alla necessità di accettarle.

In questo scenario di preoccupazione condivisa, anche lo psicoterapeuta – essere umano, si trova ad affrontare una difficoltà. Certo noi tutti sappiamo che le stesse vanno portate all’interno del proprio percorso personale e di supervisione.

Ma siamo proprio sicuri che non ci sia dell’altro?

Consideriamo che noi tutti abbiamo subito almeno una volta nella vita un dolore e con i nostri strumenti, che ancor di più noi terapeuti che dovremmo possedere, siamo riusciti a superarlo. E anche se il paziente riproponesse lo stesso disagio/dolore da noi sperimentato, non sarà mai lo stesso poiché appartiene ad un “tempo” diverso, già elaborato (o almeno si spera).

Adesso, invece, stiamo assistendo ad una emozione riferita agli eventi attuali (Covid-19), in un “tempo” condiviso e con “parametri emozionali” condivisi o quasi vista la soggettività di ognuno.

Questo è il dilemma e forse anche, paradossalmente, il privilegio.

La risposta è che “Noi” proviamo quanto asserito dal paziente in un tempo “presente” e non legato o dovuto ad esperienze pregresse.

Potremmo non avere sperimentato la stessa esperienza del dolore portato da un paziente per la perdita ad esempio di un caro ma ciò che ci accomuna come non mai adesso diviene oggetto di uno spazio condiviso e condivisibile.

Questa parte umana ci permette di comprendere l’altro come non mai. Lo psicoterapeuta non resta indifferente alla realtà altrui e si emoziona di fronte alle parole del paziente, poiché in quelle parole si riconosce.

La nostra formazione ci ha permesso di prenderne le distanze, di analizzare le emozioni, ma ciò appare più complesso poiché entrambi siamo immersi in un comune denominatore: ”pandemia da coronavirus”. E forse è necessario recuperare nella psicoterapia quella umanità che a tratti è stata persa. Appare difficile immaginare che ciò sia stato recuperato grazie a delle sedute su un monitor, in un setting diverso; per quanto mi riguarda inimmaginabile fino a qualche tempo fa.

E per finire, forse, dobbiamo ammettere e dire che anche lo psicoterapeuta può legittimamente piangere. Può emozionarsi poiché gli eventi di vita non lo lasciano indifferente.

Lo psicoterapeuta, come ogni altra persona, di diritto affronta il proprio vissuto come quello dei propri pazienti.

Il confine tra lo psicoterapeuta ed il paziente è dato dalla separazione del silenzio, quel silenzio fatto di commozione, dove non c’è più spazio per le parole.

Il ruolo dello psicologo è quello di essere un chirurgo estetico delle emozioni (cit. Carmelo Dambone).

 

Moderni untori: invidia, rabbia e solitudine ai tempi del coronavirus

La diffusione di un’epidemia come quella di coronavirus ha colto la popolazione alla sprovvista, con conseguenze importanti sulla società contemporanea e lo sviluppo di sentimenti di rabbia, invidia e solitudine.

 

Per millenni l’umanità è stata del tutto impotente di fronte alla malattie infettive. Peste, colera, febbre gialla, malaria e tubercolosi hanno mietuto nei secoli milioni di vittime.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la salute pubblica ha conosciuto un’epoca d’oro senza precedenti. Con lo sviluppo degli antibiotici, la letalità della maggior parte delle malattie batteriche è stata drasticamente ridimensionata. I vaccini hanno neutralizzato quasi completamente le minacce delle malattie virali. I farmaci antivirali hanno dimostrato di poter tenere sotto controllo lo spettro dell’AIDS.

Per un attimo l’umanità ha intravisto la possibilità di potere completamente risolvere il problema delle malattie infettive come significativa causa di mortalità nelle popolazioni umane immunocompetenti. Il miglioramento della salute e dell’aspettativa di vita non è sembrato però sanare le angosce ipocondriache. Anzi negli ultimi anni il terrore della malattia e della morte ha raggiunto una rilevanza sociale sconosciuta ai nostri progenitori. Il trattamento di malattie banali (come le malattie esantematiche dell’infanzia) o molto rare è divenuta oggetto di dibattiti feroci. Quattro casi di meningite solo pochi mesi fa hanno scatenato una vera isteria collettiva con code agli uffici di vaccinazione.

La nostra comunità ha inseguito con esasperata determinazione il sogno di una longevità garantita. Si è affermata la convinzione che la morte sia un evento che riguarda solo la terza età. Oggi i media presentano abitualmente ogni decesso come espressione di un’imprudenza, una colpa, un disservizio da attribuire ora ai medici, ora agli amministratori, ora ad alcuni gruppi sociali arretrati e oscurantisti.

La nostra epoca ha creduto di mettere la morte alla porta. Ma è tornata. Da Wuhan la globalizzazione ci riporta indietro di un secolo. L’umanità sperimenta ancora una volta la propria impotenza di fronte a un agente patogeno. I morti si contano a migliaia. La vaccinazione è ancora lontana. Nessuna misura di profilassi è in grado garantire la salute, nessun presidio terapeutico garantisce la salvezza. E l’impotenza si trasforma in rabbia.

In questa epoca di quarantena i contatti umani sono pochi. Dobbiamo rivolgerci a canali virtuali per renderci conto del clima sociale. E qui, sui media, la rabbia impazza. Si percepisce la disperazione ma soprattutto la ricerca di un colpevole. Sono meccanismi proiettivi molto noti a chi si occupa di gruppi, comunità e istituzioni. Leggendo I promessi sposi di Alessandro Manzoni, abbiamo imparato che la caccia all’untore è una pratica gradita alle masse terrorizzate e ampiamente promossa dai governi autoritari.

La gogna mediatica punta il dito in direzioni precise. Dimostra un peculiare intuito nel selezionare i nemici del popolo. Su questo vorrei richiamare appunto la vostra attenzione. Mentre molte attività industriali più o meno essenziali proseguono, mentre le necessità alimentari muovono e concentrano milioni di persone ogni giorno, i social media, la stampa e la politica hanno allergie molto specifiche. In prima fila i runner, che serenamente si muovono in solitudine più o meno completa negli spazi vuoti. Poi i bambini, rinchiusi in casa da settimane ed evidentemente in sofferenza. Le coppie, costrette ad incontrarsi clandestinamente in prossimità dei supermercati o abbracciate sul sellino di una moto, non trovano maggiore comprensione.

Forse l’impatto epidemiologico di queste categorie di cittadini è particolarmente pericoloso per l’epidemia in corso? Lasciamo questa domanda agli esperti e cerchiamo invece di comprendere le informazioni che queste idiosincrasie possono offrirci rispetto alle forze consce ed inconsce che condizionano i funzionamenti dei gruppi.

Dobbiamo allora chiederci prima di tutto cosa accomuna i moderni untori, i bersagli preferiti dei media reali e virtuali. Giovani sportivi, coppie, genitori con figli rimandano tutti quanti ad una esperienza di godimento. Cercano e forse hanno trovato una felicità.

La nostra epoca ha ormai seppellito quasi completamente qualsiasi manifestazione del sacro. La quarantena attuale è solo l’ultima sciagura che affossa forse definitivamente comunità pastorali ormai al collasso. Anche senza coronavirus la quaresima rimane un nome quasi vuoto per indicare le settimane precedente alla Pasqua.

Per secoli gli europei hanno condiviso il dolore della vita attendendo comunitariamente nel digiuno la Croce Salvifica del Cristo. Oggi è il virus a portare il dolore, e come nell’Europa Ancien Régime è l‘autorità dello stato a chiudere i teatri, imporre coprifuoco e digiuni. Runner, amanti e bambini non sanno o non vogliono uniformarsi. Continuano a creare una felicità umana: il corpo, la vita, l’aria e il sole.

Melanie Klein e i suoi allievi ci hanno insegnato che l’invidia rappresenta una straordinaria forza motivazionale a livello individuale e sociale. Sigmund Freud ha scoperto che nulla genera una gelosia più intensa di un uomo e di una donna uniti dall’amore e capaci di generare un discendenza.

L’epidemia di coronavirus agisce come una cartina tornasole. Rivela tutta la disperazione, la rabbia e l’invidia che allignano nella società contemporanea. La dissoluzione dei simboli condivisi, la disintegrazione delle forme di aggregazione politica, sindacale, religiosa, il costante arretramento della cultura umanistica ci hanno lasciato soli. Mentre i nuclei familiari si restringono e il paradigma celibatario dilaga, la vita sociale è sempre più ampiamente sostituita dai contatti virtuali. Rimaniamo soli di fronte al computer. Con nessuno possiamo condividere la rabbia, il dolore e l’esperienza ormai quotidiana del lutto. E questo collasso sociale, purtroppo resterà con noi anche quando il virus non sarà che un triste ricordo.

 

Nel mare c’è la sete (2020) di Erica Mou – Recensione del libro

Nel mare c’è la sete è un romanzo sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Io sono una spiaggia che a un certo punto, a furia di
pressare e compattare e archiviare, si è ritrovata montagna.
Più alta persino di una giraffa.
Voglio tornare a essere mare, voglio tornare all’acqua certa che mi riconoscerà.

 Nel mare c’è la sete è il romanzo d’esordio della cantautrice Erica Mou, in cui al centro della narrazione c’è la complessità del mondo delle relazioni, in particolare quando un trauma passato condiziona pesantemente rapporti, affetti e scelte di vita.

Nel mare c’è la sete: quattro pasti

La vicenda si svolge apparentemente nell’arco di 24 ore, scandite da quattro pasti che cadenzano il libro come strofe di una canzone. In realtà, in questo lasso di tempo, ripercorriamo insieme a Maria, la protagonista e narratrice della storia, i suoi ultimi venticinque anni di vita, a partire dal momento in cui sostiene di aver ucciso sua sorella minore Estate.

Il libro inizia proprio con l’anniversario della sua morte.

Nel mare c’è la sete: vedersi attraverso gli altri

Maria è una ragazza di 32 anni, che ha messo su un bizzarro negozio, in cui la sua mansione è quella di pensare e confezionare regali per persone importanti, per conto di chi non riesce a farlo per insicurezza o per pigrizia. Un lavoro quindi rivolto alla soddisfazione dei desideri altrui, che è una costante nella vita di Maria. Le sue scelte personali infatti sembrano più sintonizzate su gusti, desideri e bisogni degli altri che su quelli propri (“E’ una vita che rubo vite”). La stessa idea del negozio era stata della sua cara amica Ruth, dei tempi del soggiorno a Londra, e in fondo a Maria nemmeno piace e cova l’intento di volersene disfare.

Maria convive con Nicola, un ragazzo molto diverso da lei. Maria si definisce imperfetta, una di quelle persone che nella borsa non trova mai niente. Nicola invece, pilota di aerei, è secondo sua madre il ragazzo perfetto: strutturato e preciso nelle sue abitudini, molto attento alla forma e alla superficie delle cose, senza andare in profondità, nemmeno degli stati mentali dolenti di Maria.

In questo rapporto, Maria sente di non aver costruito niente insieme a Nicola: vivono in una casa che a loro non piace, hanno una cane solamente immaginario e non riescono ad avere un dialogo autentico. La decisione di andare a vivere insieme era stata presa subito dopo essersi conosciuti

con la fretta che hanno i complici di un reato con il motore acceso, senza il tempo di pensare, con la rapidità di chi deve sopravvivere e dunque scappa. Io da una casa troppo vuota, lui da una sovraffollata.

Maria ha difficoltà a lasciare Nicola e, probabilmente, il suo non chiederle troppo dei suoi malesseri (lui stesso esprime l’ansia attraverso dolori fisici notturni) le rinforza la tendenza a non voler affrontare i propri temi dolorosi, ma piuttosto a evitarli e sfuggirne.

Nel mare c’è la sete: un trauma in famiglia

A segnare profondamente la vita di Maria e della sua famiglia è un evento tragico avvenuto quando aveva 7 anni: mentre stavano giocando insieme nella loro cameretta, un incidente domestico causa la morte della sorellina di 5 anni, Estate (titolo della canzone preferita dai suoi genitori).

Da quell’evento traumatico, si costruisce granitica in Maria la credenza di essere la responsabile della morte di Estate, come

un blocco di marmo in mezzo al petto, tra le costole e lo sterno.

Anche se le persone intorno a lei (tranne suo padre) cercano di rassicurarla, a parole, ripetendole che non è stata colpa sua, l’atteggiamento della sua famiglia le conferma, nei gesti e nel clima relazionale, questa convinzione profonda e dolorosa. Il padre cade in una profonda depressione e attua un serrato silenzio nei suoi confronti, interrotto solo da occasionali rimproveri; sua madre intrattiene con lei un rapporto meramente formale, dove non c’è spazio per l’ascolto dei bisogni emotivi di Maria, ma solo per preoccupazioni di carattere materiale, a partire da quella per il poco appetito mostrato da sua figlia.

Maria si sente incollata addosso l’etichetta della colpevole, dell’ “assassina” e sembra non sentirsi degna di desiderare e decidere il meglio per sé. Inoltre, l’abitudine costante a non essere vista, fa in modo che anche Maria stessa non veda, riconosca e accetti il suo mondo interiore. Filastrocche e giochi di parole composte nella sua mente l’aiutano, in certi momenti, a dissociarsi da un mondo percepito come non comprensivo, indifferente e giudicante.

Nel mare c’è la sete: riconoscersi

Le 24 ore, attraverso cui seguiamo Maria, la conducono a un altro momento cardine della sua vita: la decisione di continuare o meno la gravidanza, che ha scoperto poco più di una settimana prima. Maria, col suo profondo vissuto di indegnità, credeva di essere sterile, pensava che da lei non potesse nascere alcun essere umano e che la natura gliene avesse dato conferma fino a quel momento .

Maria è combattuta tra diversi scenari: c’è una parte di lei che vorrebbe conoscere la creatura che potrebbe dare alla luce e che, nella sua fantasia prevalente, è una bambina di nome Libertà, libera da nomi assegnati per tradizione di famiglia, da etichette, aspettative e condanne; allo stesso tempo, sente anche di non essere pronta a questo importante momento, pensa di non aver costruito nulla e di condannare la bambina o il bambino che nascerà ai condizionamenti del trauma vissuto. Teme infatti il rischio che possa diventare un gesto di espiazione per sé stessa e per la sua famiglia, una nuova nascita per simbolicamente assolverli dalla morte di Estate. D’altra parte, immaginando di dire a tutti di aver abortito, percepisce il loro sguardo critico e disprezzante e la conferma, una volta per tutte, che è davvero lei l’assassina e l’unica da condannare nel “processo”.

Tuttavia, di fronte all’immensità del mare (“spazi grandi, adatti alle decisioni grandi”), Maria percepisce dentro di sé una nuova voce che le dice:

Io non sono un’assassina. Io sono una bambina che stava giocando nella sua cameretta.

A poco a poco, prendendo contatto con la bimba che è stata e prendendosene finalmente cura, sente sgretolarsi dentro di sé quel “pregiatissimo” blocco di pietra al petto, al di sotto del quale c’è

una bussola, proprio come quella di Ruth, che trova il nord di dove voglio andare.

Finalmente libera, emerge in lei il pensiero che ci sia un’altra strada da percorrere: scegliere per la prima volta senza dover rendere conto agli altri e temere costantemente il loro giudizio, ma dando legittimità al proprio sentire.

Maria sceglie di interrompere la gravidanza e, insieme a questa importante decisione, inizia a sentire il bisogno di dare una svolta a quella patina piatta e apparentemente confortante che era diventata la sua vita: come un immenso e calmo mare, che tuttavia non può nutrire la sete perché la sua acqua non si può bere.

Nel mare c’è la sete è un romanzo, che ha il suono di “una lunghissima canzone”, sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

La nostra alimentazione può aumentare il rischio di demenza?

Lo studio pubblicato su Neurology si è concentrato sull’esaminare le reti alimentari e il loro legame con lo sviluppo di demenza.

 

Nel 2020 non è un segreto che una dieta sana possa portare giovamento oltre che al corpo in generale, anche al nostro cervello. Tuttavia, potrebbe non essere solo questione di quali alimenti mangiamo, ma piuttosto come combiniamo tra loro i cibi che assumiamo (Samieri et al., 2018).

Secondo un nuovo studio pubblicato sul giornale Neurology il 22 aprile 2020, la rivista medica dell’American Academy of Neurology, le persone la cui dieta consisteva principalmente in carni altamente elaborate, cibi amidacei come patate, snack, biscotti e torte, avevano maggiori probabilità di sviluppare una demenza negli anni successivi, rispetto alle persone che mangiavano una più ampia varietà di cibi sani (Samieri & Kimberly, 2020).

Quindi, secondo i ricercatori che hanno condotto il suddetto studio sperimentale, esiste una complessa interconnessione tra gli alimenti nella dieta di una persona, ed è importante capire come queste diverse connessioni, o reti alimentari, possano influenzare il cervello sottintendendo che la dieta potrebbe essere una strategia efficacie per prevenire la demenza (Samieri & Kimberly, 2020).

Numerosi studi hanno dimostrato che una dieta più sana, ad esempio una dieta ricca di verdure a foglia verde, bacche, noci, cereali integrali e pesce, può ridurre il rischio di demenza di una persona. Molti di questi studi si sono concentrati sulla quantità e sulla frequenza di ingestione di questi alimenti. Lo studio pubblicato su Neurology si è concentrato maggiormente sull’esaminare le reti alimentari e ha riscontrato importanti differenze nei modi in cui gli alimenti venivano consumati congiuntamente.

Lo studio ha coinvolto 209 persone con un’età media di 78 anni affette da demenza e 418 persone, bilanciate per età, sesso e livello di istruzione, sane (Samieri & Kimberly, 2020).

Cinque anni prima i partecipanti avevano compilato un questionario sull’alimentazione che descriveva quali tipi di alimenti consumavano durante l’anno e con quale frequenza, da meno di una volta al mese a più di quattro volte al giorno. Hanno anche fatto controlli medici ogni due o tre anni. I ricercatori hanno utilizzato i dati del questionario sugli alimenti per confrontare quali alimenti venivano spesso consumati (Samieri & Kimberly, 2020).

È emerso che le persone che hanno sviluppato la demenza tendevano a mangiare carni altamente elaborate come salsicce, salumi e patè con cibi ricchi di amido come patate, alcool, snack, biscotti e torte. Secondo i ricercatori questi dati suggeriscono che la frequenza con cui la carne ‘’elaborata’’ è combinata con altri insalubri alimenti, possa essere un importante fattore che concorre ad aumentare il rischio di sviluppare una demenza (Samieri & Kimberly, 2020).

Trattandosi di dati preliminari, si denota la necessità di condurre ulteriori studi prima di affermare con “certezza” che la dieta seguita da un individuo possa incidere sulla probabilità di sviluppare una demenza, si denota inoltre la necessità di comprendere, quali demenze siano più correlate al cibo, dato che il panorama di questa tipologia di disturbo è estremamente ampio e non è costituito unicamente dalla sindrome di Alzheimer (Samieri & Kimberly, 2020).

 

La gravidanza ai tempi del Covid-19

La gravidanza si presenta dunque come un momento di notevole complessità psicologica e quindi anche di potenziale vulnerabilità. Cosa implica affrontarla durante l’emergenza sanitaria da Covid-19?

 

Sono una psicoterapeuta e sono incinta. Non che questi siano privilegi di questi tempi, ma con questo articolo vorrei condividere alcune riflessioni su cosa vuol dire diventare mamma ai tempi del Covid19. Cercherò di dare il mio contributo personale e professionale, facendo luce sullo stato attuale della ricerca, sugli aspetti psicologici implicati nella gestazione e sulle opportunità presenti sul territorio nazionale.

La gravidanza costituisce di per sé un momento particolare della vita di una donna, in cui gli aspetti di cambiamento psicologico e somatico richiedono complesse capacità di adattamento.

Oltre alle trasformazioni fisiche, la gestazione implica nuovi ed importanti equilibri riguardo all’identità individuale, di coppia e sociale (Della Vedova, 2009). La donna in gravidanza deve confrontarsi contemporaneamente con le modificazioni corporee in atto e con l’assunzione del ruolo materno, processo che implica responsabilità e timori. Gli aspetti relativi alla costruzione dell’identità femminile-materna devono inoltre essere conciliati con i cambiamenti che il nuovo ruolo impone rispetto al contesto, all’identità lavorativa, culturale e sessuale della donna (Ibidem).

La gravidanza si presenta dunque come un momento di notevole complessità psicologica e quindi anche di potenziale vulnerabilità.

In questo periodo di cambiamento, la gestione delle emozioni diviene ancor più complessa se i nostri punti di riferimento sono distanti, se ci troviamo a combattere contro un nemico invisibile che non conosciamo, se non possiamo contare del tutto sui Servizi Sanitari.

Tuttavia, ciò che rende insopportabile tutto questo e ci fa sentire ancora più deboli e impotenti è il bisogno assoluto e irrinunciabile di avere risposte certe su come andranno le cose.

L’ansia deriva proprio dalla percezione di aver perso capacità predittiva rispetto a un certo dominio di fenomeni (Kelly, 1955; Lorenzini e Sassaroli, 1995). Improvvisamente il sistema sa di “non sapere”. Non è il semplice “non sapere” che genera ansia. Le molte cose che non conosciamo non ci danno alcuna preoccupazione. Quest’ultima subentra invece solo a seguito di un fallimento previsionale (Lorenzini e Scarinci, 2013). Fino a quel momento credevamo di sapere, poi una invalidazione ci convince che sbagliavamo. In un certo ambito conoscevamo e invece non conosciamo più. E più è ampio il campo in cui si resta senza prevedibilità, maggiore sarà l’ansia (Lorenzini e Sassaroli, 1995).

Ma non c’è solo l’ansia. Lo scoraggiamento è la sensazione che si ha di fronte alla necessità di compiere un lavoro faticoso, dall’esito incerto e del tutto inaspettato (ibidem). Infatti, di fronte a una invalidazione, il sistema deve compiere un lavoro di ristrutturazione complessivo dovendo aggiornare le mappe che si sono dimostrate imprecise (ibidem). Questo lavoro di ristrutturazione interna sarà tanto più faticoso, lungo e impegnativo tanto più l’invalidazione (o la previsione di essa) colpirà una credenza centrale del nostro essere al mondo (ibidem).

Pensiamo all’importanza che attribuiamo allo scopo “diventare una buona madre”: quanta più incertezza percepiamo intorno a noi e tanto più catastrofiche saranno le nostre previsioni per il futuro, molto più difficile sarà vivere nel momento presente per poter sfruttare tutte le possibili risorse disponibili e godere del benessere della dolce attesa.

C’è poi l’emozione della rabbia suscitata dalla percezione del senso di ingiustizia subito: di certo avevamo immaginato una gravidanza migliore, proprio ora doveva accadere?

Anche il senso di colpa fa la sua parte: il timore di poter contrarre il virus se non sufficientemente attente, anticipa uno scenario catastrofico che deve fare i conti con il nostro senso di responsabilità; la possibilità di non poter offrire al bambino la sicurezza che si auspicava, ci delinea come le artifici di un atto immorale.

Ma non tutto è perduto!

Diversi sono gli strumenti a disposizione che consentono di riacquisire una maggiore prevedibilità rispetto al futuro e che permettono di gestire il forte carico emotivo che le future mamme si trovano ad affrontare oggi.

Importante è la conoscenza scientifica dello stato della ricerca. Uno studio pubblicato pochi giorni fa sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology – Maternal Fetal Medicine (2020), riguarda l’analisi dei dati iniziali sugli esiti delle gravidanze nelle pazienti affette da Covid 19. L’analisi ha valutato i primi casi riportati in letteratura, provenienti dalla Cina, in attesa che vengano pubblicati anche i primi dati sull’esperienza italiana (Di Mascio et al.,2020). Dai risultati dello studio, emerge che nelle madri infette da infezioni da coronavirus, tra cui il COVID-19,> 90%, delle quali presentava anche polmonite, il parto pretermine è il più comune risultato negativo della gravidanza. Anche l’aborto spontaneo, la preeclampsia, il parto cesareo e la morte perinatale (7-11%) erano più comuni che nella popolazione generale (Ibidem). Un dato importante, però, è l’apparente assenza di evidenze di trasmissione verticale della malattia, ovvero di trasmissione dell’infezione dalla madre al feto in utero (Ibidem). In altre ricerche è stato rilevato che il liquido amniotico, il sangue del cordone, i tamponi nasofaringei dei neonati, i tamponi placentari e vaginali e i campioni di sangue di madri COVID positive erano infatti risultati sempre negativi alla ricerca del virus SARS-CoV-2 (Chen et al., 2020; Fan et al., 2020; Wang et al.,2020; Zhu et al.,2020; Li et al.,2020; Chen et al., 2020; Chen et al., 2020).

Queste analisi forniscono i primi strumenti per soddisfare l’urgente bisogno di numeri che possano orientare il counseling e il management delle gravidanze affette da Covid 19. L’analisi è certo limitata dalla scarsa presenza di dati sul primo trimestre di gravidanza, sul quale dovranno far luce i progetti di ricerca che però sono già in corso.

Altri strumenti a disposizione per combattere l’incertezza del futuro sono quelli che consentono alle neomamme di sentirsi “più preparate”, che in tempi più fortunati sarebbero stati forniti dai corsi di accompagnamento alla nascita. La tecnologia corre in aiuto: girando sul web è possibile trovare corsi di ogni tipo (anche gratuiti) che offrono la possibilità di ricevere un supporto ostetrico – ginecologico rispetto a vari aspetti della gestazione: la fase del travaglio, la fase espulsiva, la preparazione della valigia, l’allattamento. Molte Asl o Associazioni presenti sul territorio offrono la possibilità di conoscere da vicino gli ambulatori della sala parto del proprio ospedale e gli spazi appositamente riservati alle gravide positive al Covid19, nonché tutte le nuove procedure adottate per la degenza durante questa pandemia.

Ma non sempre le soluzioni pratiche rappresentano l’unica pillola da assumere per diminuire l’ansia e lo sconforto. Queste emozioni vengono alimentate anche dall’altra faccia della medaglia: l’incapacità di prevedere tutto e l’impossibilità di avere certezze sugli esiti futuri. Essere supportate su questo aspetto ha l’importante funzione di ridurre la vulnerabilità della donna in dolce attesa e il rischio di sviluppare psicopatologie a breve e a lungo termine.

Dagli sviluppi nello studio della salute mentale in gravidanza e nel puerperio emerge che circa il 40% delle donne che soffrono di depressione post-partum hanno ottenuto un analogo valore riferito al periodo gravidico (Heron et al., 2004). Ricerche recenti segnalano l’importanza dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) per il trasmettersi al feto degli effetti di una condizione di forte stress della madre. Un disturbo depressivo o di ansia può infatti non solo attivare l’asse HPA materno, ma può anche aumentare il rilascio di corticotropin releasing hormone (CRH) dalla placenta comportando un’interferenza sul parto stesso inducendolo. È inoltre ipotizzabile che una condizione depressiva possa alterare l’escrezione di ormoni vasoattivi con effetti vasocostrittivi sulla circolazione placentare e di conseguenza comportare un ridotto accrescimento fetale e basso peso alla nascita (Kurki et al., 2000).

La gravidanza, per i profondi cambiamenti biologici, psicologici e sociali che comporta, può così rappresentare un importante fattore di stress ed essere quindi considerata già di per sé un agente eziologico per l’insorgenza di disturbi psicologici in soggetti vulnerabili. In altre parole, lo stato emotivo con cui si affronta la gravidanza è un elemento favorente condizioni di scompenso psicopatologico in donne già vulnerabili.

I quadri clinici che più̀ frequentemente si riscontrano nel periodo gravidico sono i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore con i primi che si rilevano in circa il doppio dei casi rispetto ai secondi (Brockington et al., 2006).

Se a questa vulnerabilità aggiungiamo quella indotta dalla diffusione del Covid19, capiamo quanto risulta indispensabile una stretta collaborazione fra Psicologia e Ostetricia/Ginecologia ancor più in questi tempi.

È fondamentale affrontare la sofferenza emotiva fin dalle prime fase della gravidanza e legittimarsi il bisogno di sentire alcune emozioni, riconoscerle e condividerle anche attraverso un percorso di Psicoterapia. Su questo piano, sono diversi i professionisti che continuano a svolgere Psicoterapia on- line offrendo vari trattamenti che consentono di sentirsi meno sole, meno deboli, meno vulnerabili e più competenti, sia nel periodo della gestazione che nel postparto.

Se è vero che avremmo sperato di regalare ai nostri figli un mondo migliore, è pur vero che loro sono il simbolo della rinascita e la certezza che la Vita conosce bene la strada da percorrere.

Concludo facendo un augurio sincero e di cuore a tutte noi.

 

Attaccamento ansioso – evitante: caratteristiche, evoluzione e sintomatologia ansiosa

I bambini con attaccamento evitante sono soliti maturare un’immagine di sé priva della capacità di suscitare negli altri risposte positive e affettuose poiché la figura di attaccamento è indisponibile alle richieste di aiuto e vicinanza.

 

La tendenza delle persone a creare un legame è dovuta alla propensione innata degli umani di cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali per fatica, dolore, impotenza o malattia (Bowlby, 1979).

Come è stato notevolmente approfondito nella letteratura scientifica, ogni adulto – influenzato dalle relazioni avute con le proprie figure di riferimento durante l’infanzia – sviluppa uno specifico stile di attaccamento, ossia una peculiare modalità di relazionarsi agli altri.

Nonostante siano stati individuati quattro stili (pattern) di attaccamento (sicuro, ansioso – evitante, ansioso – ambivalente e disorganizzato), nel presente articolo si prenderà in esame solo lo stile di attaccamento ansioso – evitante. Quest’ultimo risultata essere alla base di molti conflitti e problematiche riguardanti le dinamiche relazionali, quali ad esempio la paura di creare una relazione, la difficoltà a fidarsi e il desiderio di una piena autonomia e indipendenza dall’altro.

Attaccamento ansioso – evitante nei bambini

I genitori dei bambini che sviluppano un attaccamento ansioso – evitante, spesso, non riescono a soddisfare il bisogno di vicinanza protettiva di cui questi necessitano per un adeguato sviluppo psico-emotivo. I bambini con attaccamento insicuro – evitante sono soliti maturare un’immagine di sé priva della capacità di suscitare negli altri risposte positive e affettuose poiché la figura di attaccamento è indisponibile alle richieste di aiuto e vicinanza: i bambini reagiscono a tale condizione alternando momenti di indipendenza e momenti di agitazione in cui cercano la figura di attaccamento.

Il “mancato contenimento” della figura di attaccamento non permette al bambino l’elaborazione dei sentimenti negativi nei suoi confronti, i quali si trovano scissi da quelli positivi. Questa situazione porta il bambino a incanalare i sentimenti negativi in ambito sociale (ribellione, contestazione, aggressione), oppure a rimuoverli per difesa (Stern, D., 1987).

Attaccamento ansioso – evitante negli adulti

Gli adulti che sviluppano il modello di attaccamento definito “ansioso-evitante” hanno paura della possibilità di farsi coinvolgere emotivamente nelle relazioni interpersonali; la vita tende a essere improntata sul desiderio di conquista di autonomia e autosufficienza personale che esclude – se necessario – il ricorso agli altri, considerati individui non affidabili e su cui non poter contare. Questa posizione difensiva verso la vita e le relazioni interpersonali è una misura di prevenzione contro il rischio di ulteriori delusioni dovute a esperienze di rifiuti continui.

Per non correre il rischio di essere rifiutati, tali individui tendono a sopprimere la loro emozionalità: la capacità di amare e di lasciarsi amare è costantemente frenata e bloccata dalla paura di poter incontrare nella vita la sofferenza già sperimentata durante l’infanzia.

Stile di attaccamento ansioso – evitante e sintomatologia ansiosa

Le persone con tale stile di attaccamento, e non consapevoli dei conflitti emotivi ad esso connesso, tendono a sperimentare vissuti di agitazione e ansia. Più precisamente, i conflitti intrapersonali – essendo per propria natura un fattore stressante – determinano un’attivazione fisiologica dell’organismo (arousal), la quale acquisisce sempre maggiore intensità se non riconosciuta. Tale attivazione corrisponde a ciò che le persone nel gergo comune definisco ansia e/o agitazione: essa si può manifestare mediante attacchi di ansia, sonno intermittente, difficoltà ad addormentarsi o risvegli anticipati, somatizzazione o preoccupazioni per la salute. Più precisamente, il conflitto emotivo, non trovando possibilità di esprimersi tramite un canale verbale, si manifesta attraverso il canale corporeo.

In tale dinamica psicologica, gioca un ruolo protettivo essenziale la mentalizzazione – ossia la capacità di comprendere i propri stati mentali – la quale permette di mantenere costante l’attivazione fisiologica determinata dal conflitto, modulando gli affetti derivanti dalle emozioni, e permette di affinare il pensiero verbale mediante la consapevolezza della capacità riflessiva, la quale è visibile nelle azioni e nei discorsi del soggetto (Lago, G., 2016).

La capacità di mentalizzazione (o funzione riflessiva) è determinata dalle esperienze avute con le persone di riferimento durante l’infanzia, anche se è possibile nel corso della vita incrementarla mediante esperienze emozionali correttive.

Trattandosi di processi inconsci, tendenzialmente, a queste persone sfugge la consapevolezza dei propri processi mentali e delle conseguenze che questi hanno sullo sviluppo della personalità e sulle relazioni interpersonali (Fonagy P., Leigh T., Steele M., Steele H., Kennedy R., Mattoon G., Target M. & Gerber A., 1996).

Fase 2 e fine del lockdown: considerazioni sugli aspetti psicologici

Il presente contributo è stato scritto prima dell’inizio della fase 2 legata all’emergenza da Covid-19

L’attuale andamento dell’epidemia da Covid-19 porta i soggetti istituzionali e i cittadini ad interrogarsi su come gestire l’inizio della fase 2, previsto per la giornata del 4 maggio, e la tanto attesa fine del lockdown

 

Si sa ancora poco sulla ripresa e, per adesso, è possibile solo spingersi in previsioni più o meno realistiche, ma sembra chiaro che fino alla creazione di un vaccino o di una terapia efficace l’idea di prudenza sarà al centro delle nostre giornate. Viste le molte incertezze viene spontaneo domandarsi quali saranno, a livello psicologico, gli elementi caratterizzanti il graduale quanto atteso ritorno alla vita.

Se fino ad oggi abbiamo conosciuto le emozioni dell’isolamento, seppur intervallato da veloci uscite nel mondo esterno, a breve scopriremo cosa significa convivere con l’epidemia e, probabilmente, vedremo che il confine dentro/fuori segnato dalla porta di casa sarà sempre più sfumato. Durante il lockdown abbiamo vissuto da vicino il vuoto, la noia, abbiamo sperimentato una convivenza non intervallata da attività lavorative o extrafamiliari, in una situazione che ha fatto da cassa di risonanza a emozioni spiacevoli. Tutto sommato, però, abbiamo goduto di una certa sensazione di sicurezza. Con la Fase 2, invece, il vissuto emotivo dominante potrebbe essere diverso.

Partiamo dalla paura, l’emozione vissuta in relazione ad una minaccia all’incolumità, che stimola uno stato di attivazione psicologica e fisica funzionale alla risposta difensiva. Tale stato di attivazione è fondamentale, perché permette di mantenere un elevato livello di attenzione, una migliore prontezza dei muscoli, minore percezione del dolore e così via (D’urso e Trentin, 2007). Ma è uno stato di tensione abbastanza faticoso da mantenere per troppo tempo e per fortuna, passata la minaccia, scampato il pericolo, il corpo va incontro a un graduale rilassamento (Plutchick, 1994). E’ la sensazione di sollievo che, ad esempio, in questo periodo abbiamo provato al rientro a casa, posando finalmente lo scudo e liberandoci delle fastidiose mascherine.

Se la paura è vissuta in relazione a una minaccia, in questo momento storico quella principale è rappresentata dal nuovo coronavirus, che veste i panni dell’altro, indistintamente: il passante, il collega, il coniuge. E’ una minaccia difficile da confinare perché mancano i cosiddetti segnali di pericolo, quegli elementi che permettono al nostro cervello di capire quando prestare attenzione e quando, invece, rilassarsi, col rischio di vivere in un costante stato di tensione emotiva.

Nel prossimo futuro torneremo progressivamente a calcare le strade e, sebbene eviteremo assembramenti e strette di mano, saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate in cui sarà inevitabile stabilire un maggior numero di contatti. Guadagneremo spazi di libertà a scapito della percezione di sicurezza. Il più frequente passaggio tra il fuori del mondo esterno e il dentro della nostra abitazione renderà più complicato delimitare il pericolo e la casa potrebbe perdere la sua importante funzione di “base sicura”. Se fino ad oggi hanno assunto un colore diverso i rapporti con il vicinato, possiamo aspettarci che accadrà qualcosa di simile anche nelle relazioni familiari. Cosa significherà sentirsi un potenziale veicolo di contagio per la propria famiglia? Cosa significherà tossire in stanza con i bambini? Lo sanno bene i lavoratori della sanità, che sono stati i primi a vivere da vicino una condizione difficilissima.

Come per l’isolamento, le emozioni possibili di questo nuovo modo di vivere nel mondo richiamano alla mente quelle caratteristiche di alcune psicopatologie. Pensiamo, ad esempio, ai disturbi da sintomi somatici, ai disturbi d’ansia, per arrivare alla dimensione del costante sospetto della personalità paranoide (DSM 5, 2013). Si tratta di condizioni cliniche, ma possiamo immaginare che il non sapere di essere sani o malati possa rendere ancor più sfumati anche i rassicuranti confini tra salute e patologia psichica, proprio a causa della maggiore esposizione ad angoscia e squilibri affettivi.

In questo difficile adattamento cui siamo tutti chiamati, basteranno il distanziamento sociale, le mascherine e il lavaggio delle mani, a tutelare spazi – intra ed extrapsichici – di sicurezza? Forse, ora più che mai, sarà fondamentale sforzarsi di mantenere una certa centratura, tenendo ben presente il limite oltre il quale la prudenza sconfina nel territorio dell’ansia, che può portare ad atteggiamenti davvero poco utili a proteggersi dall’infezione. Alcuni hanno utilizzato il termine resilienza, che dovrà sicuramente continuare ad essere sviluppata.

In conclusione, se fino ad ora abbiamo familiarizzato con i vissuti di un sicuro isolamento, a breve potremmo confrontarci con delle nuove forme di malessere a cui sarà necessario dare risposte adeguate. Tali questioni mettono ancora una volta al centro la necessità di prestare maggiore attenzione ai bisogni psicologici dei cittadini, abbandonando l’artificiosa distinzione tra salute del corpo e salute mentale.

 

Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni (2016) di Lorenzo Gasparrini – Recensione del libro

Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni è una lettura scorrevole e chiara, che denota la preparazione dell’autore sulle tematiche trattate e la profonda sensibilità nel cogliere gli aspetti culturali che possono ferire l’animo di alcuni gruppi di persone.

 

Uno dei più noti quotidiani sportivi, dove la presenza di spazio editoriale dedicato al gioco del calcio è la più importante, è colorato di rosa; la maglia rosa identifica invece in ciclismo italiano.

Calcio e ciclismo: ma sono sport maschili nelle rappresentazioni mentali della popolazione! Dunque qual è il motivo di caratterizzarli di rosa?

Il rosa è notoriamente il colore delle femmine!

Il fiocco rosa appeso davanti le abitazioni indica la nascita di una bambina, la quale, successivamente, indosserà probabilmente un vestitino rosa.

Sono esempi di concetti sessisti, trasversali nella società patriarcale; lo sport dei maschi e lo sport delle femmine. Così come rosa e azzurro.

Lorenzo Gasparrini, nel suo libro Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, aiuta a cogliere i meccanismi fini e le proposte antisessiste. Utilizza un approccio di scrittura dove le idee, le storie, la ragione ma anche la epistemologia, aiutano il lettore nella comprensione di concetti nuovi, non troppo complicati, ma spesso difficili da interiorizzare.

Così scopriamo che in origine il colore rosa era associato alla virilità, alla forza e al valore agonistico maschile. Ad alcuni potrebbe sembrare strano, irreale.

Nello specifico del mio lavoro quotidiano come psicoterapeuta e sessuologo mi imbatto spesso nell’ansia da prestazione, tematica più volte trattata nel testo; essa causa sofferenza e disagio nelle dimensioni di vita.

Sovente mi accorgo che il motore profondo e attivante è la prestazione, la competizione, la ricerca di perfezione, non poter sbagliare pena la sofferenza.

Nelle parole dell’autore trovo accordo rispetto una delle possibili, o la più probabile, tra le cause: l’educazione patriarcale; essa viene acquisita passivamente e contestualmente all’appartenenza alla società in cui si nasce, ci si sviluppa e si vive.

Difatti, nel capitolo sull’adolescenza, l’autore sostiene che il modello machista a cui aderire è quello virile del maschio eterosessuale vincente; così i rapporti che si definiscono non sono appoggiati su un pavimento di cooperazione, ma bensì in posizione antagonista gerarchica. Nulla è alla pari, i generi sono o sopra o sotto, non esiste reciprocità. Emerge la prestazione continua.

Il bullismo, il femminicidio e la “giustificazione del perpetratore” sono esempi di comportamenti rintracciabili attorno a noi, spesso guidano la nostra azione in modo automatico e inconsapevole. Su questo punto, nel libro l’autore propone un lavoro su se stessi per scoprire i piccoli errori che commettiamo, errori non sovrapponibili ai reati che coinvolgono la volontà. Emerge in tal senso la giustificazione espressa e spesso condivisa delle violenze, la cui lettura riporta al raptus del perpetratore, alla minigonna indossata dalla vittima per indurre nel violento/stupratore un comportamento sul quale non ha controllo, la gelosia, la sofferenza dell’abbandonato, ecc.

La pornografia viene trattata sempre nel capitolo dedicato all’adolescenza, anzi viene letta in chiave di industria della pornografia, che negli adolescenti trae maggior consenso.

Cosa ne pensa il “filosofo femminista”? Gasparrini sostiene che in Italia non viene raccontato che “chi consuma pornografia finanzia, in modo più o meno diretto, attività criminali e violenze di genere: è la constatazione di quanto accade in questa realtà economica.”

Il libro è composto da 170 pagine, la lettura è scorrevole e chiara, denota la preparazione dell’autore sulle tematiche trattate e la profonda sensibilità nel cogliere gli aspetti culturali che possono ferire l’animo di alcuni gruppi di persone. Il rischio è l’emarginazione di “minoranze” o il pregiudizievole accesso di esse in alcuni ambiti sociali e/o professionali.

Le minoranze di cui si fa riferimento vengono caratterizzate con parametri esclusivamente sessisti, dove quella del maschio eterosessuale rappresenta la classe che gode di maggior vantaggi e privilegi.

Cinque capitoli (quattro più l’introduzione) formano il testo.

Nell’introduzione possiamo leggere alcune definizioni e argomentazioni utili per la comprensione del seguito. Ma anche come arricchimento culturale personale!

Dopodiché tre capitoli narrano la formazione del sessismo rappresentato esso stesso come un percorso, come il viaggio che ognuno di noi percorre dall’infanzia fino all’età adulta, passando attraverso l’adolescenza, l’età definita come inventata.

La tematica in ogni tappa è descritta in modo approfondito.

La lettura termina col capitolo dal titolo evocativo su come “Ci sono molti modi diversi di essere uomini”.

Ma ahimè, le persone che ritengono ci siano modo diversi, dovrebbero essere a conoscenza che tali alternative comportamentali presentano un prezzo da pagare. “La normalità di milioni di uomini eterosessuali è intrisa di sessismi di ogni tipo, di forme di violenza esercitate verso altri generi e orientamenti sessuali e verso i suoi simili, uomini eterosessuali, che non sembrano aderire a quella normalità.”

E’ amplia la bibliografia presente nel libro! Essa è raccolta alla fine di ogni capitolo e permette di rintracciare le fonti. Le argomentazioni sono arricchite di validazione bibliografica, non espresse come dogmi ma attivatrici di riflessione su di sé e il mondo.

 

I suoni della mente in ambito rieducativo scolastico. Primi dati di un intervento di musicoterapia combinata con suite Brainwave Alpha (binaural-beat a 10Hz)

Uno studio preliminare si propone di verificare se la tecnica di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat (10 Hz) sia in grado di sostenere l’apprendimento, favorire le relazioni all’interno del gruppo degli studenti e migliorare l’atteggiamento generale riguardo le materie d’insegnamento.

 

Introduzione

In questo intervento a valenza rieducativa si è cercato di rispondere ad un disagio evidenziatosi in ambito scolastico. Sono messi a confronto i risultati ottenuti da due gruppi di allievi di scuola media che presentavano una condizione che abbiamo definito di “disaffezione scolastica”: ovvero presentavano uno scarso interesse alla scolarizzazione e livelli di apprendimento generale ai limiti della sufficienza, questo in assenza di una qualsiasi diagnosi di disturbo. Nel tentativo di creare una buona prassi che cercasse di conciliare l’esigenza di una pratica con metodologia non impegnativa e di rapida utilizzazione con le ridotte disponibilità economiche e di mezzi degli istituti scolastici si è puntato sull’applicazione della pratica di musicoterapia combinata con Brainwave che utilizza gli effetti positivi della musicoterapia e dei Binaural Beat. In tal senso un gruppo di 8 allievi ha eseguito una rieducazione canonica del programma scolastico basato sul recupero delle materie di insegnamento, un altro gruppo, 9 allievi, ha partecipato, in aggiunta al medesimo percorso di recupero scolastico, a 3 sessioni settimanali di 30m di Musicoterapia Conbinata con Brainwave Alpha (Binaural-Beat a 10Hz). Entrambi i gruppi sono stati seguiti per l’intera durata dell’anno scolastico 2011-2012.

Vengono esplicitate le caratteristiche e le tecniche della musicoterapia combinata con Brainwave Binaural-Beat. Vengono riportati i dati riguardanti le differenze nei rendimenti scolastici (recupero delle materie di insegnamento) e nella variazione del cambiamento di atteggiamento comportamentale verso la scolarità ottenuti dai due gruppi. Discussi i punti di forza e criticità dell’intervento.

Musicoterapia

La World Federation of Music Therapy (Federazione Mondiale di Musicoterapia) ha dato nel 1996 la seguente definizione di musicoterapia:

è l’uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo, melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un utente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione, la relazione, l’apprendimento, la motricità, l’espressione, l’organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell’individuo in modo tale che questi possa meglio realizzare l’integrazione intra- e interpersonale e consequenzialmente possa migliorare la qualità della vita grazie a un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico.

Brainwave Binaural Beat 10 Hz

Le frequenze determinate dai “Binaural Beat”, scoperte nel 1839 dal tedesco H. W. Dove e sperimentate sul cervello dal Dott. Gerald Oster nel 1973 al Mount Sinai school of Medicine di New York, sono prodotte dall’applicazione di differenti frequenze tra un orecchio e l’altro, in modo che il cervello ne venga stimolato positivamente. Se un tono costante di 400 Hz (1 Hertz = 1 impulso al secondo), viene applicato all’orecchio sinistro e un altro tono costante di 410 Hz viene applicato all’orecchio destro, la differenza di 10 Hz verrà percepita dal nostro cervello e solo da esso, perché è una frequenza che sta al di fuori dello spettro sonoro. L’ ipotesi è che il cervello è così stimolato ad entrare in risonanza con il ritmo biauricolare di 10 Hz (onde Alfa) di aumentarne la produzione e, di conseguenza, portare il soggetto nello stato di coscienza/psico-fisico dell’attività corrispondente: rilassamento, calma, tranquillità.

Musicoterapia Combinata Brainwave Binaural-beat 10 Hz.

La musicoterapia combinata con Brainwave Binaural Beat è una musicoterapia esclusiva composta da un musicoterapista esperto. La specificità sta nel fatto che il musicoterapista deve creare brani musicali realizzati secondo precisi paramertri di durata, lunghezza, timbro e scelte armoniche e melodiche, sintoniche, in questo caso, con la frequenza di 10Hz,  così da combinarsi ed equilibrarsi perfettamente con i toni necessari a produrre le Brainwave Binaural Beat (10Hz), potenziandosi vicevendevolmente negli effetti positivi.

Obiettivi

In accordo con la letteratura riguardo l’utilizzo di tecniche musicoterapiche in ambito scolastico e di Brainwave Binaural Beat quale ausilio per il miglioramento dello stato psicofisico con positive ricadute anche nei compiti di apprendimento, obbiettivo di questo lavoro preliminare è stato quello di verificare se la tecnica di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat (10 Hz) fosse in grado di sostenere l’apprendimento, favorire le relazioni all’interno del gruppo degli studenti e migliorare l’atteggiamento generale riguardo le materie d’insegnamento, questo in virtù della precisa richiesta di avere una procedura molto più semplice dal punto di vista tecnico e strumentale e meno dispendiosa dal punto di vista economico. Ovvero verificare in termini di efficienza e di efficacia questa metodologia nei confronti dei ragazzi descritti come portatori di una “disaffezione scolastica”.

Soggetti

Caratteristiche

I ragazzi, appartenenti alle classi medie, venivano descritti dagli insegnati come ragazzi normalmente intelligenti, ma svogliati e demotivati oltre modo, non prestavano interesse alle materie d’insegnamento e la frequenza a scuola era atipica con assenze sospette ma giustificate, tendenti a partecipare passivamente alle attività scolastiche ed extrascolastiche.

Cognitivamente validi ma con insufficienti prestazioni, con interrogazioni al limite della sufficienza e spesso senza produzione dei compiti per casa. Così gli elaborati in classe erano scarni nei contenuti e con errori tipici della scarsa scolarizzazione e distrazione. I rendimenti peggiori si riscontravano nell’italiano e in matematica. Si dimostravano indifferenti al giudizio degli insegnanti e ai loro suggerimenti o incoraggiamenti. Nessuno dei ragazzi poteva essere assistito a casa nello studio. Tutti dotati di tecnologie informatiche quali telefonini e computer, con conoscenze, frequentazioni e profili nei social-network.

Fascia sociale

I ragazzi appartenevano tutti ad una fascia sociale medio-bassa. Alcuni genitori avevano un titolo di studio di scuola media ed un lavoro giornaliero, la maggioranza di scuola superiore, pochi con un lavoro impiegatizio pubblico, per gli altri precario e/o non rispondente al titolo. Tutti i nuclei familiari lamentavano difficoltà economiche. Nel nucleo familiare erano presenti entrambi i genitori ed altri fratelli da uno a tre.

Strumenti

Prove di Ingresso: Batteria autocostruita classe I,II,III media (somministrazione iniziale); strumenti individuati/costruiti dai Professori per valutare  l’adeguatezza del livello scolastico del ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Prove di Verifica: Batteria autocostruita classe I,II,III media (somministrazione mensile); strumento individuato/costruito dai Professori per valutare qualitativamente/quantitativamente il miglioramento del livello scolastico del ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Valutazione della Condotta scolastica: Questionario a cura degli insegnanti per la valutazione del miglioramento della condotta/adesione scolastica (somministrazione mensile).

CPM: Coloured Progressive Matrices: per la valutazione del livello cognitivo generale (somministrazione unica). Per scongiurare un possibile deficit cognitivo nel ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Achenbach Child Behavior Chechlist: questionario versione Italiana forma per genitori anni 4-16 (somministrazione unica). Per scongiurare un possibile deficit emotivo/comportamentale nel ragazzo inserito nel Programma di rieducazione.

Musicoterapia Combinata: Codice Bineurale progressivo ad onde Alfa a 10 Hz derivato da campionamento stereo tra le frequenze (toni puri) di 400 e 410 Hz, mascherato sotto base sonora  (AcusticaMente) e frangenti oceaniche. Durata riproduzione 30 min. Questo tipo di Binaural Beat era adattato e reso idoneo per ascolto con casse audio. Lettore digitale capacità di lettura 20-20.000 Hz. Amplificatore HI-FI in Classe T/D risposta in frequenza 20-2000 Hz. Diffusori acustici HI-FI con risposta in frequenza 40-20.000 Hz.

Procedure

Gli alunni partecipanti sono stati selezionati ed inseriti nell’intervento nell’arco di un anno e mezzo scolastico. Più precisamente: dal Gennaio 2011 al Giugno 2011 c’è stata la fase di selezione dei soggetti e successivamente, una volta garantita la loro continua frequenza all’intervento, dal Settembre 2011 al Giugno 2012 (un’intero anno scolastico) c’è stata la fase applicativa dell’intervento. I ragazzi svolgevano le attività di recupero e sostegno scolastico per 5 giorni alla settimana per almeno 3 ore al giorno.

Per la pratica di Musicoterapia Combinata:

La procedura ideata prevedeva di far ascoltare la intera traccia sonora (30 min) adattata per ascolto con casse audio e non solo con cuffie che, generalmente da risultati più rapidi ed ha una efficacia maggiore, per tre sedute settimanali a giorni alterni e di raccogliere e far verbalizzare le impressioni dello stato psico-fisico dei soggetti al termine di ogni ascolto. Di osservare le reazioni comportamentali o la comunicazione non verbale di riferimento a stati emotivi vissuti durante l’ascolto.

Per l’ascolto della traccia sonora i soggetti venivano posti in gruppo e distesi su singoli tappetini morbidi di spugna. La consegna per tutti era quella di concentrarsi senza sforzo nell’ascolto, di lasciarsi attraversare o immergersi nella sonorità, di lasciare la mente libera di pensare o non pensare e cercare di ascoltare l’intero brano senza fatica. Non venivano date ulteriori consegne.

Risultati

Legenda:

  • Gruppo MT-COMB indica il Gruppo che ha partecipato alla Musicoterapia Combinata;
  • Gruppo NO MT indica il Gruppo che non ha partecipato alla Musicoterapia Combinata.

Diagramma 1: Giorni di assenze – Valori Medi  dei 2 gruppi.

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati,  hanno riportato a loro carico, meno giorni di assenze a scuola.

Diagramma 1: Giorni di assenze – Valori Medi  dei 2 gruppi

Diagramma 2:  Questionario condotta ed adesione scolastica – Valori Medi dei 2 gruppi

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati, hanno riportato secondo le valutazioni ed i giudizi degli insegnanti un miglior comportamento di integrazione, di adesione e partecipazione al clima scolastico e alla scolarizzazione.

Diagramma 2:  Questionario condotta ed adesione scolastica – Valori Medi dei 2 gruppi

Come si vede la linea rossa, che riguarda la media delle prestazioni dei ragazzi che hanno partecipato anche all’intervento di Musicoterapia combinata, sovrasta quella del gruppo di ragazzi che non hanno usufruito della Musicoterapia combinata.

Diagramma 3: Recupero rendimento scolastico – Valori Medi dei 2 gruppi

I risultati documentano che il gruppo dei ragazzi che hanno partecipato, in aggiunta al trattamento di rieducazione dei disturbi dell’apprendimento accademico, anche all’intervento di Musicoterapia combinata, nella media dei risultati,  hanno riportato secondo le valutazioni ed i giudizi degli insegnanti un miglioramento delle prestazioni e del rendimento scolastico.

Diagramma 3: Recupero rendimento scolastico – Valori Medi dei 2 gruppi

Come si vede la linea rossa, che riguarda la media delle prestazioni dei ragazzi che hanno partecipato anche all’intervento di Musicoterapia combinata, sovrasta quella del gruppo di ragazzi che non hanno usufruito della Musicoterapia combinata.

Discussione

I risultati sembrano dimostrare che i ragazzi che hanno partecipato alle sedute di musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat 10 Hz, hanno avuto risultati migliori rispetto alla condizione di partenza e rispetto al gruppo di allievi non partecipanti all’intervento aggiuntivo di Musicoterapia Combinata. Sul piano pratico sembra raggiunto l’obbiettivo di aver qualificato in positivo l’adesione dei ragazzi alla scolarizzazione (Diagramma 1 e Diagramma 2) e sostenuto e migliorato il livello degli apprendimenti accademici (Diagramma 3).

Questi positivi risultati preliminari, sono da considerarsi da stimolo per una più ampia verifica. Attualmente, la musicoterapia combinata Brainwave Binaural Beat è da considerarsi una valida attività educativa-formativa tra le tante attivabili nella scuola anche perchè ha come punto di forza il fatto che tale pratica musicoterapica, dal punto di vista metodologico e strumentale, risponde a criteri di semplicità ed economicità ed è giudicata piacevole da parte dei ragazzi che riferiscono, generalmente, al termine della seduta, di uno stato di rilassamento e di benessere.

A nostro avviso, le criticità maggiori risiedono:

  • Nell’individuazione più rigorosa delle caratteristiche psico-sociali dei soggetti partecipanti;
  • Nell’individuazione di più precisi strumenti di analisi dei problemi e verifica dei risultati;
  • Nella comparazione della sua efficacia rispetto ad altre metodologie educative-formative, in ambito scolastico;
  • Nella verifica dei risultati dell’intervento direttamente nel contesto scolastico.

Tali osservazioni, quindi, possono essere considerate come impulso sia per quanto attiene la ricerca che l’applicazione ed hanno come proposito, per il futuro, di suscitare studi controllati che dovrebbero assumersi la responsabilità di poter meglio sistematizzare, sul piano teorico e metodologico questa procedura e di poterne meglio definire gli effetti e gli eventuali ambiti di applicazione.

 

Nel silenzio e nella natura – Gli effetti sul benessere psicologico

Uno studio cerca di indagare se un momento di silenzio in due condizioni differenti, in un ambiente naturale o in un palazzo, può produrre risultati diversi su rilassamento, noia, percezione del sé, dello spazio e del tempo.

 

Il silenzio e l’ambiente naturale sono concetti unitamente ancora poco approfonditi in letteratura scientifica (Pfeifer et al., 2020).

In musicoterapia il silenzio è considerato un aspetto importante per la struttura del discorso musicale (De Backer, 2008) e può rappresentare non solo una difesa, uno scudo protettivo (Sutton & De Backer, 2009), ma anche un momento da sfruttare a livello creativo (Wakao, 2002). A livello biologico è stato dimostrato come il silenzio sia associato a un abbassamento della pressione arteriosa diastolica e della frequenza cardiaca – oltre che dei livelli di cortisolo (Trappe & Voit, 2016). Inoltre, un periodo di silenzio di 6:30 minuti seguito da un quarto d’ora di Depth Relaxation Music Therapy (DRMT)/ Hypnomusictherapy (HMT) ha un’efficacia sensibile nel promuovere il rilassamento, affievolire la percezione dello spazio e del tempo e ridurre la tendenza a orientare il pensiero al futuro (Decker-Voigt, 2007).

Questi risultati possono rivelarsi utili anche in ambito psicopatologico – si pensi alla sintomatologia ansiosa o a quella depressiva – per via degli effetti benefici che il metodo DRMT/HMT, combinato con il silenzio, ha sulla capacità di rilassamento e sulla diminuzione della ruminazione e del rimuginio (Pfeifer et al., 2016). Tuttavia, non sembra esserci un tipo di silenzio per definizione (Sutton & De Backer, 2009): a livello fenomenologico questo può manifestarsi in varie forme e condizioni.

Uno studio recente (Pfeifer et al., 2020) ha voluto indagare se l’esperienza dello stesso momento di silenzio in due condizioni differenti – un’aula universitaria e un parco cittadino – producesse risultati diversi sul rilassamento, sulla noia, nella percezione del sé, dello spazio e del tempo.

Quarantasei studenti dell’Università Cattolica di Scienze Applicate di Friburgo sono stati reclutati a questo scopo. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi e hanno sperimentato entrambe condizioni di silenzio (di 6:30 minuti) in ordine inverso a una settimana di distanza – sempre sotto l’istruzione di un musicoterapeuta. Gli studenti – prima e dopo il periodo di silenzio – hanno completato i seguenti questionari: l’Inventory on Subjective Time, Self, Space (STSS, Pfeifer et al., 2016) per la percezione del sé, del tempo e dello spazio; due Visual Analogue Scale (VAS) per misurare il rilassamento e la noia; lo Zimbardo Time Perspective Inventory (ZTPI) (Zimbardo & Boyd, 1999) per misurare l’orientamento nel tempo e la Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11) (Barratt et al., 1999) per la valutazione dell’impulsività.

Dai risultati dello studio si evince come il momento di silenzio abbia portato a un effettivo aumento del rilassamento in entrambe le condizioni; tuttavia, nella condizione all’aria aperta gli studenti hanno sperimentato un maggiore rilassamento – oltre che livelli inferiori di noia – rispetto alla condizione dell’aula universitaria. Inoltre, nella condizione di silenzio outdoor il senso di vivere il momento presente era maggiore, mentre erano minori i pensieri riguardanti il passato, rispetto alla condizione indoor. Nella condizione dell’aula universitaria, più gli studenti erano rilassati, meno erano consapevoli dello scorrere del tempo.

Questi risultati confermano che già solo sperimentare una condizione di silenzio abbia effetti positivi sul benessere psicologico dell’individuo, specialmente se si è circondati da un ambiente naturale. I risultati sono in linea con la letteratura scientifica che enfatizza gli effetti rilassanti e salutari dell’essere circondati da un ambiente naturale, oltre che la sperimentazione di una minor sensazione di noia (Berger & Lahad, 2013; Berry et al., 2015; Ulrich, 1979). Ciò supporta la teoria sulla possibilità di affidare all’ambiente naturale un ruolo attivo di co-terapeuta – evidentemente utile all’interno dello stesso processo terapeutico (Pfeifer, 2017).

 

Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus: ansia e tristezza da sana a malsana – Intervista alla grande Sandra Sassaroli

Paura, tristezza ed ansia, alcune delle emozioni legate al contesto di emergenza da COVID-19 che è necessario accettare, ma che non devono governare le nostre giornate.

 

 Continuano le interviste a grandi professionisti in merito al tema “Emozioni e Ragione ai tempi del Coronavirus”. Nella presente intervista sentiremo il punto di vista ed il suggerimento della grande Sandra Sassaroli, che ci spiegherà come approcciarci alle emozioni predominanti di questo momento come ansia e tristezza e soprattutto come utilizzarle a nostro vantaggio.

La Prof.ssa Sandra Sassaroli, Psichiatra e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, Direttore di Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, Direttore del dipartimento di Psicologia alla Sigmund Freud University di Milano e Socio Didatta SITCC – Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, parte con il fare una breve premessa su che cosa siano le emozioni.

Le emozioni non sono altro che informazioni urgenti sul mondo.

La paura, ci spiega la Prof. Sassaroli, ci informa e ci mette in guardia di fronte ad un possibile pericolo o difficoltà e tale emozione ci aiuta a scegliere in modo rapido una strategia che permette di salvarci la vita o uscire da quella situazione, mediante risposte come quella di attacco o fuga.

Le emozioni sono informazioni che servono per organizzarci nel mondo, sottolineando dunque il forte carattere adattivo delle stesse. La paura è infatti un’emozione di base che nella storia dell’uomo ne ha garantito la sopravvivenza nei momenti di minaccia ed incertezza. La Prof.ssa Sassaroli riprende l’esempio di questo preciso momento ossia l’arrivo di questo nemico di cui conosciamo solo il nome: Coronavirus.

In questo caso non possiamo pensare di non provare paura o ansia, ma diventa importante usare queste emozioni a nostro vantaggio.

L’ansia adattiva in questo caso, ci spinge a mettere in atto comportamenti prudenziali per salvaguardarci e non infettarci come ad esempio, mantenere la distanza dagli altri, lavarci spesso le mani, usare la mascherina…

L’ansia disadattiva invece, è un’ansia talmente alta che coinvolge la nostra mente in pensieri catastrofici e rimuginii, del tipo non finirà mai, non ne uscirò mai, moriremo tutti, che ci distraggono e non aiuta a mettere in atto strategie funzionali ed anzi potrebbe esporci ad ulteriore rischio. Quando ciò si verifica, ci suggerisce la Prof.ssa Sassaroli, dobbiamo riportare l’ansia in modo realistico a comportamenti prudenziali.

Immagine 1 – Prof.ssa Sandra Sassaroli

Ma abbiamo parlato anche della tristezza.

In merito alla tristezza, la Prof. Sassaroli, ancora una volta parte con il sottolineare la natura essenziale ed il ruolo adattivo di tale emozione, anch’essa molto presente in questo delicato momento.

Anche la tristezza ci serve. Ci è servita da sempre ad elaborare le perdite.

Anche la tristezza ci è sempre servita, ci ricorda la Prof.ssa Sassaroli, ci consente di elaborare le perdite, elaborare i lutti, ci serve per fare i conti con ciò che avevamo e che non abbiamo più.

Un’emozione anch’essa essenziale e di base, non solo nostra ma presente anche nei mammiferi.

Essere tristi in questo momento non deve preoccuparci, ci suggerisce la Prof.ssa Sassaroli, perché può esserci un uso utile della tristezza.

Pertanto il suo consiglio è quello di fare i conti con la nostra tristezza, imparare a starci dentro, accettarla sapendo che possiamo aver perso un amico, una persona cara, aver perso uno stile di vita che avevamo prima dell’emergenza del coronavirus e che di fronte a tali vissuti o pensieri non possiamo non sperimentare tristezza. Avere pensieri tristi e nostalgici è per così dire “normale”, ma anch’essi devono essere utilizzati per guidarci verso comportamenti prudenziali. Importante non caderci dentro, soprattutto per chi può avere una certa vulnerabilità a tali stati emotivi. Ciò che potrebbe divenire pericoloso è sprofondare in una situazione di tristezza assoluta, mettendo in atto comportamenti disfunzionali come mettersi al letto, smettere di nutrirsi…

Dunque ciò che sembra voler evidenziare la Prof.ssa Sassaroli è che non sono le emozioni in sé ad essere malsane, ma può esserlo l’uso che si fa delle stesse. Le emozioni vanno accolte, ascoltate e indirizzate in senso costruttivo.

Accettiamo la tristezza, usiamo l’ansia, ma non facciamoci governare dalla tristezza e dall’ansia ma mettiamola al servizio di ciò che ci serve adesso per uscirne fuori nel modo migliore possibile!

 

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE ALLA PROF.SSA SANDRA SASSAROLI:

 

NON PERDERTI GLI INCONTRI DEL CICLO “DIALOGHI CON SANDRA”:

DIALOGHI CON SANDRA – TERZO INCONTRO 9733

 

La tecnica ABC per esercitare l’ottimismo

Secondo la cultura popolare gli ottimisti sono caratterizzati da una visione della vita positiva, orientata al futuro, piuttosto che al passato; spesso si immaginano le persone ottimiste come più felici, più sorridenti, più gioiose. Ma è davvero così?

Giulia Marton e Laura Vergani – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

L’ottimismo, il profumo della vita

…l’ottimismo è il profumo della vita!

Così recitava in un famoso spot televisivo il poeta, scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra, dando voce ad una frase che sarebbe risuonata per anni in ogni angolo dell’Italia. Entrate di fatto nella cultura popolare italiana, queste sette parole sono diventate il motto di tutti coloro che amano vedere il bicchiere mezzo pieno. E se la frase di Tonino Guerra è datata 2001, tanti altri sono i tormentoni e i personaggi caratteristici simbolo dell’ottimismo, di quello stile di vita colorato di positività, che spera sempre nell’arcobaleno anche quando ci si trova zuppi sotto la pioggia.

Alzi la mano chi non si è mai trovato a fischiettare insieme a Baloo e Mowgli la canzone più famosa del Libro della Giungla, targato Walt Disney.

Ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar. In fondo basta il minimo, sapessi quanto è facile, trovar quel po’ che occorre per campar.

Cos’è questa canzone – cantata nella versione tricolore da Tony De Falco e Luigi Palma – se non un inno all’ottimismo?

Per moltissimi, invece, l’ottimismo avrà i capelli rossi e le lentiggini di Pollyanna, personaggio protagonista dell’omonimo romanzo nato dalla penna di Eleanor Hodgman Porter e base per tante trasposizioni cinematografiche e cartoni animati. Oppure la barba bianca di Gongolo, il nano sorridente e felice di Biancaneve, il suono del “Salve salvino” di Ned Flanders dell’universo dei Simpson, o quello della risata di Pippo, il migliore amico sorridente di Topolino.

Ancora, gli amanti del genere fantasy ricorderanno il personaggio di Sam, del Signore degli Anelli, o il consiglio dato da Albus Silente ad Harry Potter:

La felicità la si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo uno si ricorda … di accendere la luce.

Gli appassionati di storia apprezzeranno la frase attribuita a Sir Winston Churchill:

L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.

Mentre gli amanti della musica, almeno una volta, avranno canticchiato Don’t worry, be happy di Bobby McFerrin. Forse, anche Einstein preferiva l’ottimismo; in una frase attribuita a lui si legge:

è meglio essere ottimisti ed avere torto, piuttosto che pessimisti ed avere ragione.

Secondo la cultura popolare, dunque, gli ottimisti sono caratterizzati da una visione della vita positiva, orientata al futuro, piuttosto che al passato; spesso, poi, ci immaginiamo le persone ottimiste come più felici, più sorridenti, più gioiose.

Ma è davvero così?

Davvero le persone con un livello più alto di ottimismo hanno una marcia in più nell’affrontare le sfide della quotidianità? Davvero l’ottimismo è il profumo della vita? E si può imparare?

Prima di cercare di rispondere a queste domande, facciamo un passo indietro per scoprire cos’è davvero l’ottimismo e per vedere se corrisponde a quanto ci immaginiamo nella cultura popolare.

Ottimisti per disposizione

L’ottimismo è un tratto di personalità.

In psicologia, lo studio della personalità è stata una costante negli anni, passando per diversi approcci, autori, teorie. Prendendo in prestito le parole di Roberts (2009), possiamo definire la personalità come

uno schema relativamente duraturo di pensieri, sentimenti e comportamenti che riflettono la tendenza a rispondere in certi modi in determinate circostanze. (Roberts, 2009, p. 140)

In quest’ottica, tra questi pensieri, sentimenti e comportamenti duraturi che caratterizzano o meno ogni individuo, si inserisce anche l’ottimismo. Appunto, inteso come tratto di personalità, o disposizione, l’ottimismo assume anche nome di ottimismo disposizionale.

Lo studio dell’ottimismo come tratto di personalità affonda le sue radici solo negli ultimi decenni, quando, appunto, la cultura popolare, da un lato, e la ricerca scientifica, dall’altro, hanno iniziato ad interessarsi sempre di più a caratteristiche e correlati nascosti nel famoso bicchiere mezzo pieno.

Tra i primi a darne una definizione scientifica sono due ricercatori statunitensi, Micheal Scheier e Charles Carver. Oggi professori di psicologia rispettivamente alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh e presso l’University of Miami, nel 1985 scrissero insieme un articolo pubblicato su Health Psychology con il titolo Optimism, coping, and health: assessment and implications of generalized outcome expectancies (Scheier & Carver, 1985). Oltre a discutere le proprietà psicometriche di una scala pensata per misurare l’ottimismo, i due studiosi diedero proprio una definizione di ottimismo disposizionale come di

tratto relativamente stabile che determina l’aspettativa generalizzata di risultati positivi in situazioni di vita rilevanti.

L’ottimismo disposizionale è dunque un tratto stabile di personalità, in grado di portare ad avere un’aspettativa generalizzata, cioè in diversi aspetti di vita dell’individuo, di risultati positivi. Si tratta di una definizione in cui è possibile ritrovare alcune delle caratteristiche viste prima presenti nella cultura popolare del bicchiere mezzo pieno, e del colore di positività che caratterizza la visione, in particolare, del futuro.

Ottimismo ed effetti positivi

Quali effetti può avere l’ottimismo sulle nostre performance, sugli stili decisionali, sulla nostra salute? Davvero non farsi abbattere dalla pioggia e pregustare la bellezza dell’arcobaleno può avere alcuni vantaggi per la nostra vita?

Sono numerosi gli studi condotti sulle persone con alto – e basso – livello di ottimismo e sui correlati che questo può avere nella vita quotidiana. Ad esempio, gli ottimisti ottengono performance migliori. Ma come?

Gli individui ottimisti – che, come ricordato prima, si aspettano un futuro più roseo – sono più perseveranti e persistenti per il raggiungimento degli obiettivi e accumulano più facilmente risorse nel tempo. Tutto ciò faciliterebbe una migliore performance in diversi compiti.

A concentrarsi sulla relazione tra ottimismo e performance è stata, in particolare, Suzanne Segerstrom (2007), oggi professore di psicologia presso l’University of Kentucky. Sono stati 61 gli studenti di giurisprudenza arruolati, per uno studio longitudinale durato ben dieci anni, con lo scopo di osservare ottimismo disposizionale, risorse e performance. Il risultato? Gli studenti che, al primo anno di studi, registravano livelli più alti di ottimismo erano anche quelli che, invecchiati di dieci anni, guadagnavano più denaro.

È un gruppo di ricerca tutto italiano, invece, quello che ha esaminato la relazione tra ottimismo e stili decisionali: Magnano, dell’università Kore di Enna, e Paolillo e Giacominelli – dell’università di Verona. L’ottimismo disposizionale rende le persone più fiduciose sulla possibilità di risolvere un problema. Quindi, come prendono decisioni gli ottimisti? Le persone con alti livelli di ottimismo, in genere, presentano stili decisionali razionali e logici, caratterizzati da una forte capacità di ricerca di informazioni, una maggiore definizione degli obiettivi, una maggiore pianificazione di azioni con definizione di piani alternativi. E chi vede tutto nero? Livelli più bassi di ottimismo, essendo associati a strategie di coping evitanti, possono portare ad uno stile decisionale più inefficace, con procrastinazione, presenza di dubbi e maggiore propensione alla delega (Carver, Scheier, & Segerstrom, 2010; Magnano, Paolillo, & Giacominelli, 2015).

Risultati simili sono stati ritrovati anche in uno studio condotto in Australia, da Creed, Patton e Bartrum (2002). In particolare, i tre ricercatori della Griffith University -Creed e Bartrum- e della Queensland University of Technology -Patton-, si sono occupati di ottimismo, pessimismo e scelta professionale. Ancora, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è in grado di influenzare il modo in cui scegliamo il nostro futuro professionale? I risultati hanno dimostrato che un alto livello di ottimismo disposizionale è associato ad una migliore pianificazione della carriera; inoltre, gli ottimisti sono più concentrati sui loro obiettivi. I pessimisti, invece, sono più indecisi e meno consapevoli delle loro possibili scelte.

Ma l’ottimismo ha anche dei rischi?

In effetti, alcuni studi hanno dimostrato un legame tra ottimismo disposizionale e tendenza al rischio. Nello studio di Gibson (2004), le persone con un alto livello di ottimismo disposizionale dimostrano di avere aspettative di vittoria più alte nel gioco d’azzardo e continuano a scommettere anche dopo aver registrato un risultato negativo (Gibson & Sanbonmatsu, 2004).

Come già accennato sopra, e come spiegato anche in un articolo pubblicato su State of Mind dal titolo Le strategie di Coping e l’ottimismo – Psicologia, gli individui con alti e bassi livelli di ottimismo differiscono anche nell’utilizzo delle strategie di coping.

L’ottimismo porta a una più frequente focalizzazione sul problema, con un impegno prevalente di strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused. (Ascolese, 2013)

Gli ottimisti sono infatti più inclini ad utilizzare strategie di coping, cioè modalità per fronteggiare i problemi, proattive. Queste strategie sono attuate ancora prima di sperimentare l’evento stressante. Al contrario, chi vede il bicchiere mezzo vuoto tende a mettere in atto strategie di coping incentrate sull’evitamento, cioè fuga o evitamento della situazione stressante.

E riguardo la salute fisica?

Un legame tra ottimismo e visite dal dottore sembrerebbe essere caratterizzato proprio dagli stili di coping. Reckel e Wong nel 1983 sono tra i primi a proporre uno studio a riguardo. Il campione? Un gruppo di soggetti anziani, istituzionalizzati e non. A loro è stato chiesto quali eventi si aspettavano nell’immediato futuro. Due anni dopo, furono indagati anche i sintomi fisici di alcuni di loro. Il risultato? Gli anziani più ottimisti riportarono meno sintomi fisici e anche una condizione fisica e psicologica migliore.

Insomma, ottimismi e pessimisti hanno modalità diverse di approcciarsi alla vita quotidiana. Davanti a momenti particolari e situazioni difficili, i primi sembrerebbero trovare le risorse necessarie per affrontare i fallimenti, senza arrendersi e con una visione più rosea del futuro.

L’ottimismo si impara?

A rispondere a questa domanda è stato Martin Seligman. Nato a New York nel 1942, Seligman è professore di psicologia presso l’University of Pennsylvania, ha ricoperto la carica di presidente dell’American Psychological Association dal 1998 ed è oggi considerato il fondatore della psicologia positiva e uno tra gli psicologi più eminenti del ventesimo secolo. Tra la sua produzione scientifica, si inserisce anche un libro edito nel 1990, dal titolo Learning Optimism.

L’ottimismo, dunque, può essere appreso e imparato (Peters, Flink, Boersma, & Linton, 2010; Seligman, 1990) da tutti noi. Anche dai più pessimisti. Tutti possono imparare a vivere in modo più ottimistico, con tutti gli effetti del caso. Cioè le nostre scelte, la nostra qualità di vita e la nostra salute fisica, potrebbero migliorare di conseguenza.

Le scoperte di Seligman e degli altri studiosi in questo ambito hanno avuto e stanno avendo enormi implicazioni, anche dal punto di vista clinico. Ma come si fa a pensare all’arcobaleno quando si è sotto la pioggia?

Una delle tecniche descritte da Seligman per esercitarsi con il pensiero positivo è la tecnica dell’ABCD (Seligman, 1990). Questa tecnica si basa sulla presa di coscienza dello sviluppo dei propri pensieri e le emozioni che ne derivano; si divide in quattro sezioni, partendo proprio dall’A, un evento accaduto nel qui ed ora.

Come descritto in un articolo precedentemente pubblicato qui su State of Mind, dal titolo La tecnica ABC, sono descritti i passi principali dell’ABCD, che riportiamo qui sotto.

  • A – Activating event (Avversità) – sono gli eventi antecedenti.
  • B – Belief system (cosa hai pensato?) – sono i pensieri.
  • C – Consequences (come hai reagito?) – sono le emozioni e i comportamenti che seguono i pensieri (De Silvestri 1981).
  • D – Disputa (discuti con le tue idee) – un rimedio per i pensieri negativi che accompagnano le avversità. Mette in discussione le convinzioni (i pensieri, B).

Dopo una presa di consapevolezza del legame tra le emozioni di disagio (C) e i pensieri (B), il passo successivo è semplice. Modificando le idee, si può cambiare anche lo stato d’animo.

Nell’esercitazione sull’ottimismo disposizionale, Seligman (1990) spiega questi concetti come segue:

A – si tratta generalmente di una avversità, una qualsiasi anche la più semplice. Deve essere però descritta con imparzialità. Parte degli esempi proposti da Seligman sono: un rubinetto che perde, accorgersi del cipiglio di un amico, un bambino che non smette di piangere, una grossa spesa, una disattenzione da parte del partner.

B – si tratta dei pensieri immediatamente dopo l’avversità, che rappresentano la modalità secondo la quale si interpreta l’evento. Degli esempi possono essere: “il mio amico è sicuramente arrabbiato con me” e “il rubinetto perde per colpa mia”.

C – sono le conseguenze dei pensieri; questa sezione indaga come si è sentito il soggetto, e cosa ha fatto, come conseguenza del pensiero. Parte degli esempi da lui proposti sono: “non avevo energia”, “l’ho fatto/a scusare”, “sono tornato a letto”.

D – è la disputa, vista come un rimedio per i pensieri negativi che accompagnano le avversità. Il ruolo della disputa è quello di mettere in discussione le convinzioni, cioè i pensieri, B. Questo passaggio può avvenire solo in seguito ad una presa consapevolezza del legame tra le emozioni di disagio (C) e i pensieri (B). Ciò che viene richiesto all’individuo è di contestare in modo deciso le convinzioni che seguono le avversità. Seligman, impostando l’esercitazione sull’ottimismo disposizionale, propone quattro modi per rendere convincenti le contestazioni:

  • Prove – Che prove ho che giustificano il mio pensiero?
  • Alternative – Ci sono delle spiegazioni alternative?
  • Implicazioni – Anche se i miei pensieri sono corretti, quali sono le implicazioni?
  • Utilità – Mi è utile soffermarmi su questi pensieri?

L’esercitazione impostata da Seligman richiede che l’individuo, una volta compresi questi concetti, prenda nota su un foglio, per sette giorni consecutivi, delle avversità che ha affrontato durate la giornata. Poi, occorre compilare le sezioni B e C collegate all’A iniziale, facendo attenzione a cercare il collegamento tra pensiero e sua conseguenza.

Viene spiegato quindi ai soggetti di fare attenzione al fatto che le spiegazioni pessimistiche scatenano la passività e lo sconforto, mentre le spiegazioni ottimistiche generano energia.

E quindi? Non ci resta che provare!

 

La psiche e il crimine

Con il termine criminologia si intende la scienza che studia i reati, gli autori, le vittime, la condotta criminale e come è possibile prevenire e controllare i crimini.

 

Si tratta di una disciplina completa che prevede una parte teorica ed una pratica e che rientra nelle scienze criminali assieme ad altre discipline come la vittimologia, la politica criminale, il diritto penale, ecc. La criminologia studia la personalità della vittima e dei fenomeni di devianza, anche nelle manifestazioni non criminose. Il campo d’azione del criminologo è molto vasto, per questo motivo egli deve conoscere e saper utilizzare metodi propri di altre discipline (psichiatria, medicina, antropologia, sociologia, pedagogia, statistica), materie che sono interconnesse con la criminologia e fra loro stesse.

La criminologia diviene quindi una scienza multidisciplinare poiché studia sotto varie sfaccettature e prospettive il fenomeno criminale, integrando le varie tecniche e conoscenze provenienti da altre discipline. La criminologia viene annoverata come scienza, poiché risponde ai criteri di sistematicità che devono essere sempre presenti in una disciplina per essere considerata scientifica. Come tutte le scienze, anche la criminologia si basa sull’osservazione del reale. Fra le altre caratteristiche che fanno della criminologia una scienza vi è la controllabilità, cioè gli enunciati possono essere sottoposti a un controllo senza perdere di veridicità; presenta una capacità teoretica, ossia è in grado di riassumere molteplici informazioni e dati in preposizione astratte e unite da nessi logici. La criminologia ha una funzione descrittiva dato che descrive i fatti, classifica e differenzia tassonomicamente i delitti e i loro autori, ma ha anche una funzione applicativa dato che il compito del criminologo è quello di intervenire in maniera pratica nei casi delittuosi ricercandone le cause. L’eziologia, ossia la ricerca delle cause, differenzia la criminologia dalle altre scienze criminali che spesso hanno funzione normativa o preventiva. Le cause che determinano il comportamento deviante possono essere unifattoriali, quando vi è una causa principale rispetto alle altre, oppure multifattoriali quando vi sono diverse cause che si equivalgono per importanza.

Altra importate caratteristica della criminologia che la diversifica è l’ampiezza del campo di indagine dato che non viene preso in considerazione solo il crimine, ma anche tutto ciò che gira attorno ad esso (autore del reato, fattori ambientali, reazione sociale, le vittime, i fenomeni di devianza, ecc.). In alcuni casi la criminologia viene considerata come scienza prettamente teorica poiché riassume osservazioni complesse in teorie astratte; in altri casi viene considerata come scienza teorica e pratica allo stesso tempo, poiché si pone come obiettivo la ricerca di rapporti causali, correlazioni e variabili nella sua osservazione. Inoltre la criminologia è in continua evoluzione, presenta un sapere cumulativo in cui le vecchie teorie e osservazioni vengono sostituite da quelle più recenti che correggono, modificano e amplificano quelle precedentemente elaborate. La criminologia si è talmente evoluta che diviene sempre più utile nella formulazione delle previsioni sulla pericolosità di un soggetto come anche su quali e quanti delitti verranno commessi in uno specifico arco di tempo in relazione al contesto sociale. Si tratta comunque di analisi probabilistiche che non possono essere considerate veritiere con assoluta certezza, ma permettono di prendere precauzioni e attuare modifiche ai codici penali.

Le scienze criminali possono essere suddivise in due branche, ossia le scienze criminali vere e proprie, che studiano il problema della criminalità, e le scienze che sono collegate alla criminologia ma che non studiano esclusivamente l’aspetto criminale ma ciò che ne scaturisce e ciò che lo ha scaturito. Al primo gruppo, oltre alla criminologia, appartengono:

  • Vittimologia: studio dell’incidenza della vittima nel delitto. Essa è stata ufficialmente separata dalla criminologia e studia le relazioni che si creano fra la vittima e chi commette il reato.
  • Politica criminale: la politica criminale pone gli obiettivi che dovranno essere perseguiti dal diritto penale, come ad esempio la depenalizzazione di alcuni reati e l’introduzione della pena in altri, ha quindi lo scopo di prevenire la criminalità.
  • Diritto penale: è il mezzo di attuazione della politica criminale. Definisce inoltre quali sono i reati sui quali la criminologia deve indirizzare la sua ricerca
  • Diritto penitenziario: regola la fase esecutiva, il trattamento, la risocializzazione del procedimento giudiziario penale.
  • Psicologia giudiziaria: la psicologia giudiziaria studia le interrelazioni psicologiche fra gli individui protagonisti del procedimento giudiziario (dall’imputato al magistrato, dalla vittima al testimone, all’operatore amministrativo).
  • Psicologia giuridica: la psicologia giuridica è una branca della psicologia applicata al diritto.
  • Criminalistica: non bisogna confondere la criminologia con la criminalistica, essa si avvale di numerose discipline, fra cui la medicina legale, per ovviare ai problemi legati all’investigazione.

Le discipline facenti parte del secondo gruppo comprendono invece:

  • Antropologia criminale: studio biologico e deterministico del criminale.
  • Criminologia clinica: criminologia generale applicata al singolo individuo.
  • Psicologia criminale: studio del criminale, del delitto e dell’ambiente esterno.
  • Psichiatria forense: accertamenti che escludono o diminuiscono l’imputabilità.
  • Sociologia criminale: criminalità intesa come fenomeno sociale.

La criminologia si avvale degli studi antropologici e sociologici ai fini di identificare le cause del crimine. Gli studi antropologici riguardano i fattori organici, psicologici, motivazionali, psicosociali che possono aver indotto il comportamento di chi ha commesso il crimine, prendendo in considerazione anche i fattori microsociali nei quali la personalità si è sviluppata. Nel campo della sociologia invece vengono valutati i fattori macrosociali capaci di influenzare lo scaturire del crimine. Possiamo affermare che la criminogenesi si attua secondo tre metodi:

  • Biologico-deterministico: rivolto agli elementi fisici che determinano la condotta criminale.
  • Psicologico: rivolto alla mente per individuare le cause del comportamento.
  • Sociologico-deterministico: considera i fenomeni sociali che hanno influenzato la mente criminale.

La criminologia clinica impiega le conoscenze della criminologia generale ad ogni delinquente in modo da individuare i fattori ambientali microsociali che lo hanno influenzato ed è utile per stabilire gli interventi da attuare per la risocializzazione. La criminologia clinica intende reinserire nella società il delinquente, a differenza dell’antropologia criminale il cui obiettivo è quello di difendere la società. Anche la psicologia criminale si basa sul medesimo approccio di queste due discipline appena descritte; analizza infatti il modo di essere, di sentire, di agire, del criminale. Le condizioni morbose di rilevanza giuridica, vengono accertate della psichiatria forense, grazie ad essa è possibile, ad esempio, determinare l’imputabilità o la pericolosità del criminale, l’incapacità, l’interdizione o l’inabilitazione in diritto civile. La sociologia criminale nasce da un approccio sociologico e non antropologico della criminalità. Essa viene considerata come fenomeno sociale e verifica l’influenza che ha l’ambiente sulle caratteristiche individuali, come l’età, il sesso, l’occupazione, la razza, e così via.

Il criminal profiling è un’attività che permette di stabilire il profilo psicologico e comportamentale di un criminale. Gli elementi necessari a tale funzione corrispondono al tipo di crimine commesso, al modus operandi, la scena del crimine, la  tipologia  della  vittima e la possibile firma, ossia quei rituali che possono essere svolti dal criminale ogni volta che commette l’atto. L’applicazione del criminal profiling si ebbe per la prima volta negli USA nel 1980, una delle primissime classificazioni eseguite dal FBI fu la distinzione fra omicidio organizzato, in cui solitamente il cadavere veniva occultato e il criminale non lasciava tracce ed indizi del suo operato nella scena del crimine (in scene del genere si presuppone che il criminale sia dotato di intelligenza e capacità di controllo), e omicidio disorganizzato,  in  cui  la  scena  del  crimine  racconta  tutto  l’opposto rispetto alla precedente e il criminale spesso presenta problemi psicopatologici. Proprio considerando tale distinzione, un delitto viene valutato normale o anormale in base al profilo psichiatrico di chi lo ha commesso. Tra i delitti anormali si annoverano quelli compiuti da criminali che presentano un ritardo mentale, da tossicomani, cerebropatici, alcolisti, da chi è affetto da disturbi della personalità, ecc., i criminali normali, che corrispondono alla percentuale più consistente, sono invece rappresentati da tutti i soggetti che non presentano deficienze psichiche. Analizzando le scene del crimine con il metodo del criminal profiling, ci si è accorti che i casi di omicidio, nella maggior parte dei casi, non corrispondono né all’omicidio organizzato né a quello disorganizzato, ma prendono alcuni caratteri dell’uno e dell’altro. Oggi il profilo criminale viene applicato nei casi di omicidio e attentati, è stato riscontrato che, anche se ogni individuo viene considerato unico e irripetibile, vi sono tratti psicologici che compaiono più di frequente nei criminali: instabilità, immaturità, impulsività, frustrazione, scarsa tolleranza e scarso autocontrollo, ecc. Non è comunque possibile standardizzare la delinquenza poiché esistono troppe variabili e i criminali sono troppo vari. Ciò che differenzia un criminale da un non criminale è la sua condotta, che non si relaziona alla persona che è ma a ciò che fa. Il più delle volte, i delitti sono da considerarsi programmati, ossia la conseguenza di una scelta prodotta prima di commettere il fatto.

La criminalità non programmata è dovuta a raptus dove la responsabilità morale è minore. La legge fa una distinzione fra i criminali recidivi e quelli primari, questi ultimi non hanno precedenti penali a loro carico, mentre i recidivi generici sono coloro che commettono delitti più volte indipendentemente dalla loro natura, e i recidivi specifici sono individui che commettono reati caratterizzata dalla stessa indole. La maggior parte dei reati vengono commessi da recidivi, poiché si riscontra una permanenza delle motivazioni e degli aspetti della personalità che determinano la scelta di delinquere. I fattori che incentivano la recidività comprendono le situazioni ambientali, l’interesse economico, l’inefficienza della pena giudiziaria, gli effetti della carcerazione e dell’etichettamento e infine gli aspetti psicologici (disturbi, aggressività, ecc.).

Un modello statunitense per la costruzione dei profili è stato elaborato da Ronald Holmes, professore ordinario al Louiseville, e da Stephen Holmes, professore associato presso l’Università della Florida centrale. Insieme i due autori hanno sviluppato un nuovo modello di Criminal Profiling differente dall’approccio inteso nel FBI. Per R. Holmes e S. Holmes l’Offender Profiling deve provvedere:

  • alla valutazione psicologica e sociologica dell’Offender;
  • alla valutazione psicologica degli oggetti personali trovati in possesso del presunto colpevole;
  • al suggerimento sulle strategie di interrogatorio dell’arrestato.

R. Holmes e S. Holmes ritengono che i casi in cui l’offender profiling rivesta maggiore utilità sono quelli connotati da esistenza di torture alle vittime nei casi di aggressione sessuale, di eviscerazione della vittima, di attività sessuali o mutilazioni post-mortem, di inneschi di incendi senza apparente motivo, di stupri, di crimini seriali rituali o satanici e di pedofilia.

Il modello sviluppato da questi autori si basa sui seguenti paradigmi:

  • la personalità di un individuo non cambia mai radicalmente nel corso del tempo;
  • il comportamento riflette la personalità;
  • le persone diverse con personalità “similari” si comportano in maniera simile.

Da questi principi, gli autori deducono le seguenti conseguenze, che portano poi a commettere un delitto:

  • i crimini compiuti da un individuo non sono soggetti a cambiamenti nel corso del tempo;
  • la scena del crimine riflette la personalità dell’autore di reato;
  • i criminali diversi con personalità “similare” sono portati a compiere crimini simili.

Una delle tecniche che si è sviluppata nell’ambito del profilo psicologico è l’autopsia psicologica, ossia una perizia psicologica che si attua post mortem. Si parla di autopsia psicologica quando l’identità della vittima è nota ma risulta necessario stabilire le dinamiche e le cause del decesso, anche nei casi incerti. L’obiettivo è quello di ricostruire la retrospettiva di una persona ormai scomparsa e le cause e le dinamiche che hanno portato alla sua morte, in modo da restringere il cerchio degli ipotetici colpevoli. Con la ricostruzione dello stato mentale della vittima, si possono acquisire informazioni sulla stessa, inoltre si possono rilevare elementi che possano indicare eventuali atti suicidi. L’autopsia psicologica prevede diversi ambiti di indagine retrospettiva che hanno la funzione di ricostruire la vita della vittima, le sue abitudini, la sua condizione sociale:

  • Storia del consumo alcolico.
  • Note sul suicidio.
  • Scritti e diari.
  • Libri.
  • Valutazione delle relazioni interpersonali nel giorno prima della morte.
  • Valutazione del rapporto coniugale.
  • Umore, stato d’animo.
  • Fattori di stress psico-sociali.
  • Comportamenti pre-suicidi.
  • Lingua.
  • Storia del consumo di droghe.
  • Storia medica.
  • Esame riflessivo dello stato mentale, della condizione del deceduto prima della sua morte.
  • Storia psicologica.
  • Studi ed analisi di laboratorio.
  • Rapporto medico legale.
  • Valutazione delle motivazioni.
  • Ricostruzione degli eventi
  • Pensieri e sentimenti riguardanti la morte (preoccupazioni, fantasie).
  • Storia militare.
  • Storia delle morti familiari.
  • Storia familiare.
  • Storia lavorativa
  • Storia scolastica.
  • Familiarità del deceduto con i metodi di morte.
  • Rapporti di polizia.

In Italia la Unità per l’Analisi del Crimine Violento (UACV) della polizia utilizza una tecnica particolare di profilo psicologico (in analogia con il profilo psicologico esiste anche il profilo geografico, ideato da David Canter, per cercare di localizzare l’area geografica di appartenenza dell’offender).

Il profilo psicologico ha natura probabilistica, quindi non può formare una prova (cosa che in Italia avviene nel dibattimento processuale). Esso inizia e si consuma nella fase delle indagini, non entra nel processo.

Per risolvere un delitto violento gli inquirenti devono avere in mano almeno: una confessione oppure un testimone oppure una prova materiale. Il profilo serve per indirizzare le indagini al fine di ottenere almeno uno di questi elementi.

 

Nati per calcolare? Abilità matematiche innate e le loro evidenze

E’ possibile che il bambino possegga, ben prima di andare a scuola, delle abilità matematiche di origine innata? E se il neonato fosse già capace di interpretare la realtà attraverso i numeri?

 

La matematica accompagna l’individuo per tutto l’arco della vita, presentandosi, tuttavia, con forme e modalità differenti. Per molti anni, si è ritenuto che il primo incontro che il bambino avesse con la matematica fosse tra i banchi di scuola, dove effettivamente viene posto nelle condizioni di sperimentare e conoscere il mondo del calcolo e la sua complessità.

Ma se il bambino avesse, ben prima di andare a scuola, delle abilità matematiche di origine innata? Se il neonato fosse già capace di interpretare la realtà attraverso i numeri?

E’ quello che ha sostenuto Butterworth (1999, 2005) elaborando la tesi innatista del “cervello matematico” in cui afferma che alcune capacità matematiche sarebbero presenti sin dalla nascita. Nei suoi studi, infatti, l’autore definisce “Modulo numerico” quel nucleo di abilità innate attraverso cui si percepisce, in modo veloce ed automatico, il mondo in termini numerici. Spiegando, ad esempio, che l’individuo sarebbe in grado di riconoscere la differenza tra due insiemi che presentano una diversa numerosità di oggetti senza che ciò gli venga insegnato. Persino i neonati nei primi giorni di vita sarebbero capaci di discriminare tra loro insiemi di 2 o 3 elementi (Antell e Keating, 1983).

Ulteriori studi hanno dimostrato la presenza di altre abilità innate e preverbali, come il “subitizing”, o immediatizzazione. Quest’ultima consiste in un processo specializzato di percezione visiva che permette di cogliere la dimensione numerica di un insieme di massimo quattro elementi in modo immediato, senza alcuna necessità di contare (Atkinson, Campbell e Francis, 1976).

Emerge, inoltre, la capacità innata del bambino di avere delle aspettative numeriche sulle possibili variazioni di oggetti dovute alla loro sottrazione o aggiunta all’interno di un insieme (Lucangeli, Iannitti, Vettore, 2007). Secondo Wynn (1992), ciò sarebbe possibile già all’età di 5 o 6 mesi.

Alla luce di quanto detto, l’intelligenza numerica è considerata la capacità innata che ogni individuo ha di pensare e comprendere la realtà in termini di numeri e quantità (Lucangeli et al., 2007). Come ogni altra abilità essa necessita di essere allenata ed affinata attraverso l’istruzione la quale permette lo svolgimento di calcoli sempre più complessi e la loro applicazione in contesti pratici. In questo senso, imparare a contare rappresenta il primo incontro tra natura e cultura dove la prima fornisce competenze generali (come memoria a breve termine e abilità spaziali) e specificamente matematiche, mentre la seconda offre strumenti culturali condivisi (es. simboli numerici).

Da questi studi nascono nuove riflessioni: si possono, dunque, considerare i bambini dei piccoli matematici e potenziare le loro abilità prima dell’ingresso a scuola? Se c’è una predisposizione innata al calcolo, le differenze interindividuali nei compiti matematici come si spiegano?

Rispetto al primo interrogativo, è possibile potenziare le abilità matematiche di un bambino in età prescolare adeguando il livello di difficoltà alle sue reali possibilità. Compiti troppo sofisticati non produrrebbero alcun potenziamento, compiti eccessivamente semplici non risulterebbero interessanti agli occhi di un bambino. Sarebbe, quindi, necessario utilizzare mezzi che stimolino l’interesse e che favoriscano lo sviluppo di queste abilità.

Rispetto al secondo interrogativo, Butterworth spiega che le differenze interindividuali riscontrabili nei compiti matematici siano da attribuire agli effetti dell’apprendimento e della cultura in quanto sia la presenza di strutture cerebrali specializzate sia la predisposizione innata ad interpretare matematicamente la realtà sono comuni a tutti gli individui. Sicuramente, però, va tenuto conto della presenza di numerose altre variabili (l’ansia, la memoria a breve termine, la difficoltà del compito, l’esercizio continuo, ecc…) che insieme determinano differenze prestazionali.

 

Vedere la musica, sentire la musica. Le associazioni mentali tra musica, emozioni e colori

I brani percepiti come più allegri e vivaci sono associati a colori brillanti e luminosi, mentre le melodie a carattere maggiormente meditativo e malinconico sono spesso collegate a colori grigi o appartenenti a tonalità più fredde e spente.

 

Suono e colore. La vista è uno dei sensi maggiormente utilizzato per esplorare la realtà che ci circonda. Per questo motivo, molto spesso si tende a ricercare un’associazione tra gli stimoli sonori e quelli visivi. In numerose attività in ambito educativo, artistico e di marketing, si sperimentano collegamenti tra suoni e strutture sonore e stimoli di tipo visivo. Un esempio artistico tra i più noti e recenti è sicuramente contenuto nel film di animazione Fantasia (Disney, 1940): in alcune scene, la presentazione di alcuni estratti di famose composizioni di musica classica è accompagnata dalla visione di particolari immagini e colori. Ma i meccanismi che regolano l’associazione tra suono e colore sono sicuramente molto complessi.

Vedere la musica a colori. È questa la sensazione prodotta da un fenomeno legato alla percezione sensoriale, ovvero una delle forme di sinestesia più diffuse, la combinazione mentale tra stimoli provenienti dalla modalità uditiva e la rievocazione, involontaria, di percezioni derivanti da un’altra modalità sensoriale, quella visiva (Cytowic, 2002). Tale forma di associazione sinestetica tra percezioni sensoriali è stata ampiamente descritta da Oliver Sacks nel suo saggio Musicofilia (2007). Un suono, una particolare tonalità, un accordo, percepito da una persona con tale forma di sinestesia, possono suscitare, in modo immediato, un’associazione con una caratteristica di tipo visivo (un colore, una luce più o meno intensa..). Gli esempi riportati dal famoso neurologo mostrano come tale forma di sinestesia possa assumere modalità differenti, coinvolgendo diversi aspetti visivi (colore, ma anche grado di luminosità) e sonori specifici (suono singolo, tonalità musicale, modo maggiore o minore della scala, tipo di strumento musicale). La particolarità di questo fenomeno ha influenzato alcuni recenti studi, i quali hanno cercato di comprendere i meccanismi neuronali coinvolti in questo tipo di sinestesia. Ad esempio, la ricerca condotta da Zamm e colleghi (2013) ha mostrato come le persone che manifestano forme di sinestesia del tipo musica-colore sembrano possedere, a livello neurologico, una maggiore connettività tra il lobo frontale e le aree del cervello deputate alle associazioni visive e uditive. Questa particolare attivazione neuronale potenziata permette loro di percepire un’esperienza sensoriale multimodale, che, nella sua affascinante peculiarità, può essere semplificata nell’espressione “vedere i suoni colorati”.

Le associazioni prodotte tra colori e suoni sono molto variabili, sia nel fenomeno della sinestesia, che in relazione alla creazione di associazioni a carattere artistico, e il codice associativo sembra, in parte, variare da individuo a individuo. Quali possono essere, allora, gli aspetti che influenzano la combinazione tra un dato suono (o gruppo di suoni) e uno specifico colore? Alcune ricerche hanno evidenziato come, in generale, le emozioni possono essere un fattore in grado di influenzare l’associazione tra una melodia e un determinato colore. La ricerca di Barbiere, Vidal e Zellner (2007) ha coinvolto studenti universitari che non presentavano specificatamente forme di sinestesia. Ai partecipanti sono state presentate delle brevi melodie, chiedendo loro di associarle ad uno specifico colore, scelto da una lista di 11 tonalità, e successivamente, di definire l’emozione che il brano musicale comunicava loro. I risultati hanno mostrato come la scelta del colore fosse collegata all’emozione percepita: i brani che comunicavano un’emozione positiva sono stati più frequentemente associati ad un colore primario (blu, rosso, giallo) o al verde, mentre le composizioni che suscitavano una sensazione di malinconia erano più frequentemente associate al colore grigio o ad altre tonalità fredde. Il ruolo di mediatore che le emozioni possono avere nell’associazione tra musica e colore è stato confermato anche da una serie di ricerche condotte da Palmer e colleghi (2013), che hanno studiato l’associazione tra musica-emozioni-colore in individui che non presentavano sinestesia. Anche in questo caso, i brani percepiti come più allegri e vivaci (caratterizzati da tonalità musicali maggiori, tempo veloce) sono stati associati a colori brillanti e luminosi, mentre le melodie a carattere maggiormente meditativo e malinconico (tonalità musicali minori, tempo più lento) venivano spesso collegate a colori grigi o appartenenti a tonalità più fredde e spente.

Questi studi sembrano quindi confermare lo stretto legame che si può riscontrare tra il modo in cui musica, emozioni e colore vengono messi in relazione nella percezione della realtà esterna. I risultati potrebbero costituire un fondamentale punto di partenza per approfondire la ricerca sulle associazioni suono-colore anche nel fenomeno della sinestesia. Va, tuttavia, sottolineata, una rilevante limitazione delle ricerche citate: i partecipanti possedevano un background culturale occidentale, e i brani musicali proposti si riferivano ad alcune tra le opere più famose della musica classica occidentale. Inoltre, i disegni sperimentali sono stati costruiti basandosi su alcuni aspetti culturalmente determinati, il più evidente dei quali è rappresentato dalle associazioni, tipiche della musica occidentale, tra modo minore della scala musicale -tono emotivo nostalgico e modo maggiore-tono emotivo allegro (Virtala e Tervaniemi, 2017). E, in aggiunta a ciò, tracce di influenze culturali possono essere identificate anche nell’associazione emozione-colore. Proprio per questi motivi, sarebbe opportuno comprendere se questa tendenza ad associare suoni-emozioni-colori sia presente anche in individui appartenenti a culture differenti rispetto a quella occidentale.

L’associazione mentale tra musica e colore rappresenta quindi un fenomeno affascinante e complesso, non ancora del tutto esplorato, all’interno del quale sembrano avere un ruolo rilevante anche la percezione delle emozioni legate allo stimolo sonoro. Tali aspetti si fondono in un’esperienza percettiva di tipo multimodale, arricchendo l’esperienza individuale con la realtà esterna e offrendo nuovi e significativi spunti di espressione anche in ambito artistico, culturale ed educativo.

Comportamento alimentare: nella scelta di cosa mangiare contano il gusto, l’olfatto e…forse qualcosa in più

L’alimentazione è un requisito imprescindibile per la sopravvivenza di ogni essere vivente; eppure, l’atto del mangiare ha assunto nel corso della nostra evoluzione molteplici significati, superando la semplice funzione di nutrimento per la macchina-corpo.

 

Possiamo citare, ad esempio, la dimensione sociale, che entra in gioco nel momento conviviale della condivisione dei pasti nel quotidiano familiare oppure come rituale comunitario durante le festività, il significato simbolico di accudimento secondo il quale cucinare per qualcuno è un gesto che esprime affetto, vicinanza, intimità, o ancora può essere visto come un “farmaco emotivo”; si pensi ad esempio al comfort food, ovvero quei cibi ai quali ciascuno di noi si rivolge per coccolarsi nei momenti di sconforto. Eppure, il cibo può essere anche un elemento di disuguaglianza sociale: secondo il Rapporto annuale 2019 della FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations) nel mondo vi sono infatti circa 800 milioni di persone denutrite (1 su 9), di cui 513,9 milioni in Asia e 256,1 milioni in Africa, con più di 49 milioni di bambini sotto i cinque anni in stato di deperimento; al contempo, 672 milioni di individui vivono una condizione di obesità (1 su 8) e sono nel mondo 338 milioni i bambini e adolescenti in sovrappeso.

Ad oggi l’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile ed è considerata una delle principali criticità nella salute pubblica del XXI secolo (Barness et al., 2007), “pesando” sulle spese sanitarie nazionali in una percentuale tra il 4 e il 10% del totale annuale (Allender & Rayner, 2007; Tsai et al., 2010) e alimentando un commercio di prodotti mirati alla perdita di peso che solo negli Stati Uniti ha superato i 72 miliardi di dollari nel 2018: mantenere il peso forma nelle cosiddette “società del benessere” sembra essere più difficile che mai.

Il comportamento appetitivo rivolto al cibo è quindi un complesso processo multifattoriale, che coinvolge emozioni, aspetti psicologici, fisiologici, ambientali, ma soprattutto sensoriali; in particolare il gusto e l’olfatto, ovvero i sensi chimici, sono i mezzi attraverso cui apprezziamo le proprietà organolettiche dei diversi cibi, contribuendo allo sviluppo di preferenze e di idiosincrasie alimentari. Tuttavia, gli studi che si sono proposti di indagare il rapporto tra questi sensi e lo sviluppo di una condizione di sovrappeso si sono rivelati inconcludenti, sia per quanto riguarda gli adulti che per i bambini. Alcune ricerche sembrano rintracciare una minore sensibilità ai gusti (dolce, salato, aspro, amaro, umami) negli individui sovrappeso o obesi rispetto agli individui normopeso (Proserpio et al., 2016; Sartor et al., 2011; per i bambini Feeney et al, 2017; Overberg et al., 2012), altre hanno riscontrato l’inverso (Hardikar et al., 2017; Pasquet et al., 2007), altre ancora non hanno riscontrato alcun effetto (Thompson et al., 1976; Grinker et al., 1972). Altrettanto controversi sono i risultati degli studi che hanno indagato il ruolo dell’olfatto. Anche in questo caso alcuni risultati sostengono la tesi di una minore acuità olfattiva negli individui sovrappeso o obesi rispetto alla controparte normopeso (Fernandez-Aranda et al., 2016; Fernandez-Garcia et al., 2017; Skrandies & Zschieschang, 2015; per i bambini Obrebowski et al, 2000), altre che riscontrano invece una maggiore sensibilità olfattiva (Patel et al., 2015; Stafford & Welbeck, 2011), in particolare verso l’odore del cioccolato (Stafford & Whittle, 2015), altri ancora non hanno riferito alcuna differenza a fronte di diversi BMI (Trellakis et al., 2011).

Alcuni ricercatori hanno tuttavia suggerito come sia importante distinguere infanzia e adolescenza nella ricerca rivolta ai sensi chimici, in quanto i profondi cambiamenti ormonali che avvengono in questa fase di sviluppo possono influenzare in maniera determinante la percezione del gusto e degli odori (Martin et al., 2009; Loper et al., 2015).

Herz e colleghi (2020) hanno di recente condotto una ricerca coinvolgendo solo adolescenti tra i 12 e i 16 anni e sottoponendoli a dei test di sensibilità olfattiva e gustativa mediante l’utilizzo di apposite strisce create in laboratorio e denominate “sniffin’ sticks” e “tasting sticks” (Burghart GmbH, Wedel, Germany), contenenti degli agenti chimici in diverse concentrazioni che vengono interpretati come i gusti principali (dolce, salato, amare, aspro) o sapori di uso comune (es. cannella, limone, menta) se posti sulla lingua e come sentori di odori più o meno spiccati, se annusate. L’obbiettivo era quello di testare non soltanto la capacità di discriminazione tra diversi gusti, ma anche la soglia di sensibilità, motivo per cui è stato impiegato il PROP (6-n-propylthiouracil), che consente di distinguere tra non-taster, normal-taster e i cosiddetti super-taster.

Gli adolescenti con un BMI più alto, e quindi più sovrappeso, hanno riportato in media una soglia olfattiva inferiore, risultando quindi più sensibili; questo risultava particolarmente vero per gli adolescenti in età più precoce rispetto a quelli che volgevano al fine del loro sviluppo. Gli autori sottolineano a questo punto come nelle ricerche precedenti che avevano ottenuto risultati contrari, si fosse impiegato una versione precedente delle sniffin’ stick: questa informazione diventa particolarmente rilevante poiché l’agente utilizzato vedeva il coinvolgimento del sistema trigeminale, che raccoglie le componenti nocicettive, di calore e tattili legate agli odori, riflettendo quindi potenzialmente una minore suscettibilità trigeminale e non una minore sensibilità olfattiva. A supportare questa ipotesi vi è lo studio di Stafford e Whittle (2015) sulla maggiore sensibilità all’odore del cioccolato, aroma che infatti non attiva il sistema trigeminale. Ipotizzando una maggiore sensibilità verso odori che mancano di questa componente, tipicamente gli aromi dei cibi dolci, questo motiverebbe un comportamento appetitivo verso cibi altamente calorici; conversamente una minore sensibilità trigeminale, attivata dai cibi salati o saporiti, li renderebbe di gusto meno intenso, potenzialmente promuovendone un maggiore consumo per raggiungere la sazietà.

Riguardo al gusto, gli autori non hanno riscontrato effetti significativi. Tuttavia, la suggestione di una componente trigeminale che possa coinvolgere anche questo tipo di esplorazione è supportata dal fatto che le tasting stick utilizzate non permettono di valutare tale effetto. L’utilizzo ad esempio di capsaicina, l’elemento del piccante negli alimenti, potrebbe fornire un mezzo per testare questa ipotesi in studi futuri.

 

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