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Stimolazione Cognitiva nella Schizofrenia

La scarsa sensibilità dei farmaci sul potenziamento delle funzioni cognitive ha spinto ricercatori e clinici a porre enfasi sull’introduzione di tecniche e strategie non farmacologiche di stimolazione cognitiva rivolte a persone con schizofrenia.

Mirto Anna Maria – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Negli ultimi anni è divenuta crescente l’attenzione posta dai clinici sull’importanza della riabilitazione cognitiva nel trattamento dei deficit cognitivi nelle patologie neurodegenerative, come la Malattia di Alzheimer, in particolare, e le altre forme di demenza. Anche le recenti linee guida dell’Organizzazione della Sanità (OMS) (2019) raccomandano la riabilitazione e/o la stimolazione cognitiva al fine di prevenire il decadimento cognitivo e/o rallentare il declino nel tempo nei casi in cui la patologia dementigena sia già insorta.

Nondimeno, occorre sottolineare come i deficit cognitivi non rappresentino un rischio solo per la popolazione anziana o un problema che riguarda unicamente le persone affetta da demenza, ictus o traumi cranici. Essi interessano anche altri disturbi mentali, tra cui le psicosi, andando così a rappresentare una sfida soprattutto per i giovani adulti che ne sono affetti. Benché gli attuali sistemi diagnostici non includano il deficit cognitivo tra i criteri diagnostici della schizofrenia, che rappresenta la principale sindrome psicotica, in letteratura è confermata e comprovata la centralità di questo deficit nella malattia (Carcione e coll., 2012)

Non a caso, difatti, la prima classificazione della schizofrenia, risalente agli inizi del 900 e attribuita ad Emil Kraepelin, fu “dementia praecox” proprio in virtù della presenza di alterazioni della sfera cognitiva, che venivano quindi incluse tra le caratteristiche nucleari della malattia (Kraepelin, 1917).

Una volta riconosciuta la presenza di deficit cognitivi anche nella patologie psichiatriche, risulta fondamentale non incappare nell’errore di generalizzare e applicare in maniera indistinta gli interventi cognitivi dimostrati efficaci nei trattamenti dei disturbi neuropsicologici conseguenti a eventi traumatici, cerebrovascolari e neurodegenerativi nell’ambito della riabilitazione di pazienti affetti da patologie psichiatriche.

I deficit cognitivi nella schizofrenia

Le alterazioni cognitive dei pazienti affetti da schizofrenia sono diverse da quelle riscontrate in altre patologie neurologiche e hanno una loro specificità. Esse hanno un’elevata prevalenza ma non sono universali: difatti circa il 27% di questi pazienti non risulta deficitario alla valutazione neuropsicologica; inoltre si manifestano con variabilità interindividuale, per cui il livello e la gravità delle compromissione neurocognitiva differisce tra i pazienti (Carcione e coll., 2012).

I domini cognitivi che risultano compressi sono: velocità di elaborazione, attenzione, funzioni esecutive, memoria di lavoro, apprendimento e memoria verbale, apprendimento e memoria visiva, ragionamento, linguaggio, abilità visuo-spaziali e cognitività sociale  (Reichenberg e Harvey, 2007; Heinrichs e Zakzanis, 1998). Tali deficit, seppur in forma più lieve, sono già presenti in fase premorbosa, prima della manifestazione conclamata della malattia e persistono nel tempo anche quando la sintomatologia, positiva e negativa, va incontro a remissione (Carcione e coll., 2012). Pertanto, tali alterazioni cognitive, poiché presenti precedentemente all’esordio e per l’intera durata della malattia, impattano significativamente sull’autonomia del soggetto, andando così a rappresentare un fattore predittivo negativo del funzionamento sociale e lavorativo per l’individuo stesso (Milev e coll., 2005). Ciò ha comportato la necessità di sviluppare interventi finalizzati al rimedio dei deficit cognitivi.

Trattamento

Per lungo tempo si è tentato di trovare trattamenti psicofarmacologici che tuttavia si sono mostrati inefficaci nel favorire il miglioramento della capacità neuropsicologiche nei pazienti psichiatrici. In particolare, si è mostrato come gli antipsicotici di prima generazione abbiano un impatto negativo soprattutto sulle performance psicomotorie, mentre gli antipsicotici di seconda generazione hanno dimostrato solo lievi miglioramenti sul funzionamento neurocognitivo (Davidson e coll., 2009; Woodward e coll., 2005).

La scarsa sensibilità dei farmaci sul potenziamento delle funzioni cognitive ha spinto ricercatori e clinici a porre enfasi sull’introduzione di tecniche e strategie non farmacologiche di training cognitivo, finalizzate al miglioramento della performance cognitiva e quindi, indirettamente, anche del funzionamento psicosociale dell’individuo (Velligan e coll., 2006).

Il trattamento riconosciuto a livello internazionale come più efficace nella riabilitazione cognitiva nei pazienti con schizofrenia è il Cognitive Remediation (CR).

Trattamento di Cognitive Remediation

Si tratta di un intervento cognitivo comportamentale specificatamente disegnato per la riabilitazione dei processi cognitivi nei disturbi psichiatrici, come il disturbo bipolare, la schizofrenia e altre forme di psicosi (Franza e coll., 2018). Al Cognitive Remediation Expert Workshop, tenutosi a Firenze nel 2010, è stato definito “a behavioral training-based intervention that aims to improve cognitive processes (attention, memory, executive functions, social cognition or metacognition) with the goal durability and generalization” (Wykes e Spaulding, 2011). Ciò per rimarcare come il miglioramento della performance cognitiva rappresenti, per la CR, un obiettivo primario, che tuttavia è strumentale al raggiungimento dell’obiettivo principale di incrementare e potenziare il funzionamento globale e la qualità di vita del paziente (Vita e Barlati, 2013) .

Esistono due principali modelli di CR: compensatorio e ripartivo/ristoratore. Il primo mira a far apprendere al paziente nuove abilità facendo leva su quelle residue e sulle risorse ambientali, modificando e adattando anche il contesto in cui la persona vive, al fine di aiutarla a superare le sue disabilità. Vengono pertanto utilizzati ausili ambientali esterni, come calendari, contenitori personalizzati per le medicine, o insegnate strategie mnemoniche per ricordare compiti/oggetti (Vita e Barlati, 2013). Risulta evidente, dunque, come il modello compensatorio abbia forti implicazioni sul miglioramento funzionale dell’individuo. Il modello ripartivo, invece, essendo focalizzato particolarmente sulla performance neurocognitiva, mira a sviluppare abilità cognitive specifiche attraverso la pratica ripetuta di un compito di modo da favorirne il ricordo, oppure a stimolare l’implementazione di nuove strategie di apprendimento attraverso l’esecuzione di diversi esercizi accumunati dall’utilizzo di strategie simili (Medali e Choi, 2009).

Gli interventi CR differiscono tra loro in funzione della modalità individuale/di gruppo e del tipo di materiali utilizzati (carta-matita/programmi computerizzati). Questi, assieme alle frequenza e alla durata delle sedute e alla motivazione del paziente nel seguire la terapia CR, costituiscono i fattori che mediano l’effetto e l’efficacia dell’intervento (Wykes e Spaulding, 2011).

Nella definizione del programma di CR è importante tenere a mente come alcune tecniche di apprendimento abbiano dimostrato una maggiore efficacia sia a livello cognitivo che funzionale. In particolare, diversi studi di Kern (2005, 2008) condotti con pazienti con schizofrenia, hanno mostrato come l’apprendimento senza errori (errorless learing), sviluppato da Baddeley e Wilson (1994), migliorasse la loro capacità di risoluzione dei problemi in contesti sociali e la performance lavorativa, oltre che migliorare anche le capacità mnesiche (Mulholland, 2008). Modificare la difficoltà di un compito in funzione della abilità del paziente, garantendo che quelle neoapprese possano consentirgli di svilupparne di nuove (tecnica scaffolding), si è dimostrata una strategia di apprendimento efficace sia per il miglioramento del ragionamento astratto che per il rafforzamento e l’incremento del livello di autostima in pazienti con schizofrenia  (Young e coll., 200). Altre tecniche utili riguardano la pratica ripetuta di un compito (massed practice), la quale favorisce la memorizzazione; il rinforzo, che aumenta o riduce la comparsa di un comportamento, fornendo così informazioni riguardo all’avvenuto o meno miglioramento e indirizzando la motivazione della persona a raggiungere quel miglioramento; il chuncking, ossia la semplificazione e suddivisione di un compito in più step al fine di ridurre la quantità di informazioni da elaborare (Vita e Barlati, 2013).

Negli ultimi trent’anni diversi e molteplici sono stati i protocolli di rimedio cognitivo strutturati specificatamente per la schizofrenia, di cui è stata proposta una descrizione dettagliata da Vita e Barlati (2013), i quali che hanno fornito trattazione esaustiva delle diverse tecniche di rimedio cognitivo, a partire dai programmi che utilizzano supporti e materiali cartacei, a quelli computerizzati fino ai software multimediali di riabilitazione cognitiva.

Conclusioni

Diverse sono le meta-analisi che concludono verso l’efficacia della CR nella riabilitazione cognitiva della schizofrenia (Wykes e coll., 2011; McGurk e coll., 2007). Tuttavia, risulta ancora scarso l’impiego di questo intervento nella pratica clinica quotidiana, probabilmente a causa delle poche conoscenze riguardo ai predittori (fattori biologici, socio-demografici, clinici e cognitivi), e alla loro interazione, di risposta positiva o negativa al trattamento CR (Wykes, 2018). In riposta a tale mancanza di conoscenze, arriva la recente recensione di Barlati e collaboratori (2019), in cui si è tentata una prima identificazione dei fattori che meglio predicono l’esito della CR nella schizofrenia, tenendo conto del risvolto sia sulla performance cognitiva che sul funzionamento sociale. In particolare, si è riscontrata una maggiore efficacia della CR nei pazienti con schizofrenia con le seguenti caratteristiche: giovane età, storia della malattia breve, pochi sintomi disorganizzati, alta riserva cognitive al pre-trattamento, maggiore miglioramento al post-trattamento CR, basso dosaggio di antipsicotici durante il trattamento. Inoltre, si sono riscontrati maggiori effetti quando la CR costitutiva una parte di trattamento implementata all’interno di un intervento riabilitativo psicosociali. Occorre precisare, tuttavia, come gli studiosi sottolineino l’importanza di lavorare ancora per identificare meglio i predittori potenziali di esito che favorisco lo sviluppo di interventi personalizzati sulle caratteristiche dei pazienti.

Alimentazione e pandemia: il rapporto col cibo durante la quarantena

L’alimentazione diventa una strategia di gestione delle nostre emozioni. E siccome la situazione in cui siamo sta mettendo a dura prova molti di noi, secondo diversi psicologi e psicoterapeuti lo stress di questo periodo diventa un forte rischio per una slatentizzazione di dinamiche disfunzionali rispetto all’uso del cibo, o per un’accentuazione di difficoltà e disturbi già esistenti.

 

E’ già da diversi mesi che le vite di tutti sono state travolte da questa pandemia; le restrizioni a cui siamo obbligati hanno portato grossi cambiamenti e avuto conseguenze importanti sullo stato d’animo delle persone per via dell’incertezza e delle preoccupazioni costanti; mai come in questo periodo sta emergendo la necessità di tutelare lo stato di salute mentale della popolazione.

Questa emergenza ci ha costretti ad un riadattamento della routine quotidiana, con non poche difficoltà, che se anche ci appare ormai un tantino superata visti i primi segnali di riapertura del nostro Paese, siamo lontani dall’esserne effettivamente fuori. Anzi, sicuramente questa nuova fase comporterà un ulteriore riadattamento, porterà con sé ancora tanta incertezza e preoccupazione, così come nuove possibilità da esplorare (in positivo si spera!).

E in tutto questo, ci si è chiesti: “l’Alimentazione che ruolo ha giocato e continua a giocare?”. Il cibo in effetti ha sempre un ruolo importante nella vita degli esseri umani e, soprattutto in questo periodo, ne è stato protagonista. Basta farsi un giro sui più importanti social per renderci conto che la “saggezza popolare” (in modalità perlopiù ironiche) già da subito ha intercettato il legame tra questa situazione, fonte di nuovi stress e fatiche emotive, e il ruolo che il cibo può giocare (soprattutto in termini di iperalimentazione); ed infatti, uno degli aspetti che ci spingono ad assumerlo è proprio il nostro stato emotivo. “Mangiate per consolarvi o per distrarvi” (Beck J., 2013). Questa frase di Judith Beck racchiude proprio il significato di quella che solitamente viene chiamata Fame nervosa o emotiva: ovvero quando si mangia anche se non si ha davvero bisogno di cibo (nutrirsi), ma a causa di stimoli emotivi, così, in questo caso, il cibo diventa una strategia di gestione delle nostre emozioni. E siccome la situazione in cui siamo sta mettendo a dura prova molti di noi, secondo diversi psicologi e psicoterapeuti lo stress di questo periodo diventa un forte rischio per una slatentizzazione di dinamiche disfunzionali rispetto all’uso del cibo, o per un’accentuazione di difficoltà e disturbi già esistenti.

Spesso, nella nostra nuova quotidianità, stiamo provando emozioni negative come tristezza, ansia e irritabilità, o ancora, solitudine, confusione e frustrazione, possiamo avere paura di queste emozioni e sentirci impotenti o vulnerabili. In questo caso ecco che il cibo assume la funzione consolatoria o di valvola di sfogo. Si mangia per placare un’emozione indesiderata, per distrarsi dai pensieri sull’incertezza lavorativa o sulla paura di contagiarsi, per interrompere la noia o la frustrazione di dover stare in casa, per soffocare il senso di solitudine o riempire il vuoto di certe giornate. Si può arrivare fino ad abbuffarsi, a mangiare e continuare a spizzicare per tutto il giorno in modo automatico e solitamente lo si fa con cibi ad “alto gradimento”, i cibi preferiti, dolci o salati, o meglio ancora molto grassi, perché inducono un certo grado di piacere quando li assumiamo e per un po’ ci fanno dimenticare di cosa ci disturba interiormente. Usare il cibo in questo modo effettivamente ci fa evitare di affrontare una difficoltà o qualcosa di indesiderato perché il cibo, come già detto, ci dà piacere immediato e poi è più facile da tenere sotto controllo, ad esempio, quando oscilliamo tra l’abbuffata e il reprimerci; in quel caso è più facile spendere energie mentali, emotive e comportamentali sul controllo del peso, delle calorie, delle quantità di cibo e dell’attività fisica per compensare, piuttosto che ad esempio, sull’insoddisfazione e l’incertezza lavorativa che si sta vivendo, o sulla crisi coniugale che durante l’emergenza e la convivenza forzata si è acutizzata, o sul sentirsi non in grado di gestire i propri figli in casa, che sembrano fare più capricci del solito.

Chiaramente concedersi delle volte qualcosa in più per il gusto di assaporarlo e avere un momento di piacere (proprio perché stiamo vivendo un periodo particolare e difficile) non è di per sé sbagliato o pericoloso, anzi, ma quando questa diventa una sorta di abitudine, magari fuori controllo e automatica, allora un problema può insidiarsi. E dunque anche in questi tempi può essere utile cominciare a riflettere sul ruolo che il cibo e le emozioni stanno avendo nella nostra vita e attrezzarsi.

Ecco alcuni spunti da cui cominciare: da un punto di vista della gestione quotidiana del cibo, alcuni ricercatori dell’ISS e del CREA (2020) ribadiscono l’attenzione a cibi grassi, ad alimenti e bevande zuccherate e a un eccesso di carboidrati in favore di quegli alimenti importanti per il nutrimento; l’attenzione agli eccessi e quindi al tenere d’occhio le porzioni in vista anche del minor movimento fisico; l’attenzione a non riempire eccessivamente frigo e dispensa e non far diventare il tavolo di lavoro un luogo pieno di snack vari aumentando così il rischio di spizzicare continuamente. Auspicano inoltre, di poter “cogliere l’occasione per trasformare questa situazione in una nuova opportunità di salute, modificando in meglio le nostre abitudini alimentari e limitando gli eccessi e i comportamenti alimentari errati che possono influire negativamente sulla salute”.

Da un punto di vista di gestione emotiva del nostro rapporto col cibo invece, ecco delle indicazioni su cui riflettere:

  • allenare la consapevolezza e la presenza mentale per imparare a portare l’attenzione al momento presente intenzionalmente e non in modo automatico, per riconoscere cosa scatena la nostra fame e cosa davvero ci sta rendendo inquieti;
  • imparare a riconoscere e gestire i propri pensieri e il dialogo con se stessi, soprattutto quando sono sabotanti e non supportivi, quando sono catastrofizzanti e non ci aiutano a trovare possibili soluzioni alternative per tranquillizzarci finendo quindi per ricorrere principalmente al cibo. “L’arte di tranquillizzare e confortare se stessi è una capacità fondamentale della nostra vita” (Goleman, 2012)
  • imparare a riconoscere e conoscere le proprie emozioni (che è frutto della consapevolezza) e cosa eventualmente ci vogliono dire; è importante poterle normalizzare e comprendere al fine di renderle appropriate e gestirle al meglio. Attraverso queste possiamo individuare i nostri reali bisogni e darci così la possibilità di trovare una strada per soddisfarli, (anche durante una pandemia che ci chiede di rivedere la nostra vita, di ridefinire e rinegoziare i nostri bisogni per adattarci nel modo più realistico e significativo possibile);

Infine, qualora si riconosca di avere estrema difficoltà in questa fase, e di non riuscire da soli a gestire il proprio rapporto col cibo, sono tanti gli enti, le associazioni e i professionisti della salute mentale che si sono attrezzati per continuare a dare supporto in questo periodo nel rispetto delle disposizioni imposte; chiedere aiuto potrà dunque essere un regalo davvero importante da fare a se stessi.

 

 

Gelosia: la mancata “costanza dell’oggetto”

La gelosia è spesso un auto rifiuto distruttivo, un’avversione rivolta a parti di sé che non verranno elaborate poiché la responsabilità di ogni dolore sarà attribuita al partner. Come in ogni profezia che si autoavvera, il partner potrebbe scegliere di rompere il legame per un’altra relazione, il che da un lato solleverà il soggetto geloso dal confronto con quelle parti di sé, dall’altro rafforzerà, davanti al fallimento, il suo odio per se stesso.

 

Paola è esasperata: vede rivali dappertutto. Viene da me in studio con l’obiettivo di guarire con la psicoterapia dalla sua gelosia divorante, che sta allontanando da lei il suo amato.

Ha 31 anni, lavora in uno studio di commercialisti e convive con Massimo, avvocato. Mi appare devastata e profondamente addolorata. Mi racconta di essere sempre stata gelosa, ma mai come col fidanzato attuale (che ama moltissimo). Attraversa stati di ansia insostenibili se Massimo non le risponde in tempi brevi al telefono, o se dai resoconti emerge della giornata che lui ha interagito con colleghe o clienti donne. A quel punto l’angoscia è così forte che Paola lo sottopone ad interrogatori lunghi ed estenuanti sul tipo di interazione, sulla bellezza di queste presunte “rivali”e su eventuali percezioni o vissuti del compagno. Massimo la rincuora su quanto la ama e sull’irrazionalità delle sue illazioni, ma non sembra mai abbastanza per placarla. Paola ha anche creato un finto account Instagram tramite cui monitora le ragazze che hanno espresso apprezzamenti alle foto del suo compagno e controlla ossessivamente i contenuti pubblicati da tali ragazze alla ricerca di indizi di possibili scambi tra queste e Massimo (come apprezzamenti da parte di lui alle loro foto o commenti). Negli ultimi tempi Massimo ha cominciato ad arrabbiarsi per quelle che lui ritiene “aggressioni e paranoie inutili” e le appare più distante e stanco. Ovviamente, questo rende Paola sempre più insicura e spaventata dall’idea di una possibile donna a cui lui si potrebbe avvicinare in questo momento di delusione, non realizzando che l’unica “nemica” del loro rapporto in questo momento è lei stessa, o meglio, la parte di lei così profondamente insicura e gelosa. Come obiettivo non ci poniamo tanto l’eliminazione dell’aggressività verso il partner, quanto di lavorare su quella che nutre verso se stessa. Perché la gelosia è spesso un auto rifiuto distruttivo, un’avversione rivolta a parti di sé che non verranno elaborate poiché la responsabilità di ogni dolore sarà attribuita al partner. Come in ogni profezia che si autoavvera, il partner sceglierà probabilmente di rompere il legame per un’altra relazione, il che da un lato solleverà il soggetto geloso dal confronto con quelle parti di sé, dall’altro rafforzerà, davanti al fallimento, il suo odio per se stesso.

Sulla gelosia si è interrogato già Freud (1923), che rintracciava questo sentimento nella fase edipica del bambino, che anela all’attenzione e all’amore del genitore del sesso opposto e vive l’altro genitore come “rivale”.

Secondo la Klein (1969), il neonato sviluppa due immagini della madre: quella idealizzata che lo soddisfa (il “seno buono”) e che vorrebbe possedere, e quella odiata che non risponde ai suoi bisogni (il “seno cattivo”) e che si vorrebbe distruggere. Successivamente, il bambino impara a riunificare le due parti in un “oggetto intero” e, volendolo avere tutto per sè, diviene geloso. Secondo Klein e Riviere (1969), la gelosia è collegata al bisogno di accumulare prove e rassicurazione d’amore contro il vuoto interno e gli impulsi distruttivi.

La gelosia sembrerebbe collegata anche al processo che la Mahler (1978) descrive come differenziazione dalla madre: il bambino attraversa 4 fasi per arrivare alla separazione e individuazione che gli consentono di percepire la sua indipendenza come individuo. L’ultima fase, la “costanza dell’oggetto” (intorno ai 3 anni), è quella grazie a cui il bambino si sente veramente separato dalla madre perchè ha di lei una rappresentazione stabile e interna che gli permette di sopportarne la lontananza. La gelosia quindi potrebbe essere letta come un mancato raggiungimento di questo quarto stadio, che consentirebbe di acquisire la percezione della “costanza” dell’oggetto d’amore dentro di sè (quindi la consapevolezza che il caregiver esiste e tornerà, anche se al momento può essere assente fisicamente). La persona gelosa si sente infatti in pericolo se l’oggetto del desiderio è lontano e non controllabile.

Diversi studi (Buunk, B.P., 1997; Kirkpatrick D.J. e L.A., 1997) confermano che la gelosia dell’adulto è correlata a un attaccamento insicuro nell’infanzia. Tale costrutto (Bowlby, 1989) si riferisce a bambini che non hanno avuto un attaccamento sicuro con la figura di accudimento, ovvero sentivano che i loro bisogni non erano del tutto considerati o soddisfatti. Questo comporta che il bambino diverrà un adulto costantemente preoccupato dall’idea di non essere importante o di subire un abbandono. Questo perchè questo adulto non è in grado di separarsi da ciò di cui ha ancora bisogno, ovvero dell’accettazione incondizionata che non ha mai sperimentato.

Paola talvolta sembra una bambina che ha paura che il suo adorato giocattolo le venga rubato da un momento all’altro da un bambino prepotente. Andando alle origini della sua storia, emerge un forte vissuto di rivalità verso il fratello, Ruggero, ai suoi occhi il “preferito” di entrambi i genitori. Di 5 anni più grande, sembra essere stato un bambino particolarmente brillante (molto bravo e popolare a scuola) e parecchio rinforzato e ammirato dai genitori. Paola descrive Ruggero come “un uomo di successo a cui non manca nulla”: lavora in banca ricoprendo un ruolo di grande responsabilità, colleziona macchine sportive e proprietà immobiliari. Tendenzialmente non ha relazioni stabili ma frequentazioni saltuarie e leggere. Servendoci anche dell’EMDR, lo strumento psicoterapico che favorisce l’elaborazione di eventi dolorosi attraverso la stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali, rintracciamo una serie di eventi del passato di Paola che sembrerebbero aver avuto forti ripercussioni sulla sua crescita e dunque sul suo presente.

In particolare un ricordo mi colpisce: ha 8 anni, i suoi genitori devono accompagnarla a una festa pomeridiana con i compagni. Paola, felice di essere stata invitata, si addormenta dopo pranzo e, quando si sveglia, ormai è tardi: la festa è finita. I suoi avevano dimenticato di accompagnarla perchè erano troppo coinvolti da uno spettacolino che aveva improvvisato Ruggero, allora di 13 anni. La cognizione negativa che Paola associa a tale protocollo EMDR è “io non sono abbastanza”. L’immagine che mi arriva dritta al cuore è quella di una bambina non vista.

Dalla sua storia emerge anche una forte conflittualità col padre. Quello che inizialmente mi descrive come un “cattivo rapporto” si rivelerà nel corso della terapia un grande amore che non ha mai sentito ricambiato e che ha sepolto sotto chili di rabbia e dietro un apparente “buon rapporto” con la madre. Ma il vero oggetto d’amore conteso (soprattutto col fratello) mi appare sempre più lui, il papà.

Con Paola lavoriamo sul vissuto di inadeguatezza e sul darsi valore, quello che non ha sentito riconosciuto dai suoi genitori (in un quadro più ampio di attaccamento insicuro). Per vivere la vita che vuole, non quella che si è ritagliata rassegnandosi alla presunta inferiorità nei confronti del fratello. Valutando anche che, forse, quella del fratello non è neppure la vita che Paola vorrebbe. Lavorando su questo, durante una seduta mi dirà: “ho passato così tanto tempo a odiare mio fratello, a sognare di essere come lui e di avere quello che ha lui, che non mi ero mai chiesta se veramente il suo modo di essere e di fare mi piace”.  Il modo di vedere Riccardo cambierà e riuscirà a sentirlo come una persona che ha eccessivamente subìto pressioni e proiezioni dei genitori, probabilmente non vivendo nemmeno lui la vita che voleva. Questo porterà a un loro lieve avvicinamento.

Durante la terapia lavoriamo sulla sopracitata “costanza dell’oggetto”, ovvero sul percepire l’Altro come oggetto separato da sé, all’interno di una relazione che rimane integra anche quando la persona è lontana. Per abbandonare la scissione in “parte buona” (che soddisfa il bisogno di conferme) e “parte cattiva” (che non risponde immediatamente o frustra i bisogni di gratificazione) e abbracciare l'”intero”.

Sciogliendo nodo dopo nodo, Paola sarà sempre più libera dalle ansie che lei investiva sul compagno, ma che in realtà riguardavano lei, il suo mondo interno e il suo modo di vivere la relazione. Tanto che, a un certo punto, si licenzia dallo studio di commercialisti (branca probabilmente scelta per assomigliare un po’ al fratello) e diventa educatrice cinofila: un lavoro che la appassiona. Paola finalmente si sente adeguata, rispetto al suo lavoro e non solo. L’ansia dirottata sul compagno, i suoi sospetti irrazionali e la sua fame insaziabile di conferme sono notevolmente diminuiti, con conseguente miglioramento della relazione con Massimo. Ad oggi la vedo per un follow up ogni 1-2 mesi attraverso sedute di terapia online (via Skype).

Una delle sessioni di ipnosi fatte insieme che più restituisce il senso del nostro intenso e soddisfacente lavoro nel riparare ai suoi “buchi di identità” è quella in cui Paola ha immaginato di trovarsi nella sua cameretta da bambina (nella casa in campagna): pettinava una bambola e le cuciva un vestitino grazioso togliendole i vestiti vecchi che indossava. Nel corso di questa fantasia guidata, ha immaginato la bambola così felice da prendere vita e partire, uscendo dalla porta di casa per addentrarsi libera e spensierata nella bellissima campagna intorno alla casa.

Anche Paola adesso è libera e lontane mi suonano le parole di disperazione con cui si confrontava con le sue presunte “rivali” in amore. Parole che mi ricordano i versi tristi e potenti di Anne Sexton (nella poesia Al mio amante che torna da sua moglie), che meravigliosamente esprimono il dramma della gelosia e del paragone, del sentirsi fragili e invisibili.

Lei è così nuda, è unica.
È la somma di te e dei tuoi sogni.
Lei è solida.
Quanto a me, io sono un acquerello.
Mi dissolvo.

 

“Developmental technologies – Evoluzione tecnologica e sviluppo umano” di Elvis Mazzoni e Martina Benvenuti – Recensione del libro

Realtà virtuale, robotica, intelligenza artificiale: non dovremmo più interrogarci su rischi o opportunità delle nuove tecnologie ma finalmente considerarle alleate. Con la lente della psicologia (con particolare riferimento agli ambiti dello sviluppo e dell’educazione), il libro Developmental technologies – Evoluzione tecnologica e sviluppo umano ci aiuta a guardare in modo consapevole ai loro effetti e potenzialità.

Essere onlife

Viviamo costantemente immersi nella tecnologia, ce ne serviamo ogni giorno per molteplici attività e non potremmo più fare altrimenti. Più che online, potremmo definirci onlife poiché esperienza online e offline sono integrate e non nettamente distinte. Guardare lo smartphone è la prima cosa che facciamo al mattino e l’ultima la sera; nel mezzo, c’è una giornata in cui computer, tablet, smartwatch, assistenti digitali ci hanno supportato in molte attività. Ha senso ragionare ancora in termini netti, distinguendo rischi e opportunità? Forse no, ormai siamo già alla seconda generazione di nativi digitali, adulti di domani che sono nati circondati da device. Sarebbe allora più opportuno fare dei distinguo su come le tecnologie vengono utilizzate perché è il come che determina l’esito, positivo o negativo che sia: l’utilizzo funzionale o disfunzionale è strettamente collegato a compito e tipologia di sfida/cambiamento che un individuo si trova ad affrontare lungo il ciclo di vita.

Effetti e potenzialità: apprendimento e cambiamenti

Due sono i possibili effetti delle tecnologie: da un lato un potenziamento delle capacità, dall’altro un potenziale restringimento dato dal fatto che ogni artefatto, essendo caratterizzato da specifiche modalità di utilizzo, ne circoscrive le modalità di uso. Possiamo però parlare anche di apprendimento espansivo, quando un ventaglio nuovo di opportunità deriva da una riconcettualizzazione di un oggetto e delle motivazioni iniziali che ne hanno portato la creazione; senza contare tutti i processi cognitivi implicati nell’elaborazione e memorizzazione delle informazioni, col continuo spostamento dell’attenzione su più stimoli e sorgenti di informazione differenti (si parla di interaction overload, il carico di interazioni in cui siamo contemporaneamente coinvolti). Come sostenuto dai grandi classici Vygotskij e Piaget, l’apprendimento è qualcosa di dinamico che avviene tramite dei continui aggiustamenti. Analogamente alla zona di sviluppo prossimale, gli artefatti rappresentano estensioni fisiche e/o mentali del corpo e delle abilità umane, che in alcuni casi rappresentano una continuità con strumenti già esistenti (assimilazione) mentre in altri casi sono un punto di rottura e implicano attività inedite (accomodamento). Per esempio, l’avvento del cellulare ha rappresentato una evoluzione di alcune caratteristiche di uno strumento già presente e il cui uso era radicato da molti anni, mentre per altri strumenti, come la stampa, l’uomo si è trovato a fronteggiare cambiamenti del tutto inediti.

Tecnologia, alleata e partner

Il rapporto ancora controverso con la tecnologia si deve in parte anche a timori e paure difficili da estirpare. Quelli più in là con gli anni sono preoccupati di essere tagliati fuori se non si tengono aggiornati, viceversa i più giovani temono che molti lavori verranno rimpiazzati da macchine sempre più raffinate. Per questo si parla di knowledge economy, l’economia della conoscenza, perché i paesi più sviluppati richiedono sempre più competenze meno operative e più concettuali, che richiedono maggiori livelli di istruzione e formazione. Ma se ci fermiamo a riflettere, comprendiamo quanto la tecnologia sia una risorsa e un aiuto. Senza escludere utilizzi negativi (basti pensare a fake news, phubbing, flaming, tra i fenomeni più studiati), i campi in cui le tecnologie vengono applicate con successo sono molteplici: intrattenimento e svago, terapia e supporto, educazione e formazione, analisi di dati.

Questo libro ci aiuta a rispondere ad alcune domande con riferimenti alla letteratura e con esempi concreti, ricordandoci che la tecnologia non è un nemico ma un nostro partner. Con particolare attenzione al ruolo di affordance nei processi di acquisizione e ampliamento di nuove competenze, il testo approfondisce e offre spunti di riflessione su aspetti funzionali e disfunzionali e sul ruolo dell’evoluzione tecnologica.

Coronavirus: perchè le persone non riescono a stare in casa?

Cosa spinge le persone a non rispettare l’isolamento e le norme che sono state stabilite a tutela della salute di tutti per ridurre i contagi da coronavirus?

 

Proviamo a darne una spiegazione

Diversi sono i fattori che possono indurre le persone a non stare in casa nonostante le ordinanze ministeriali, gli accorati appelli televisivi e radio-televisivi, notizie di persone conosciute in isolamento a scopo precauzionale o, ancora peggio, perchè infette.

I motivi possono essere ricondotti a tre ordini di fattori.

Il coronavirus è un nemico invisibile

Il fatto di non toccare con mano l’elemento dannoso per la nostra salute, induce, irrazionalmente, le persone a pensare che in realtà non si possa trovare in mezzo a noi. E allora si tende a sottovalutare la portata dell’evento in quanto, per definizione, l’essere umano sostanzialmente crede in ciò che vede. L’illustre teoria della coerenza cognitiva, alla base della psicologia sociale, potrebbe aiutarci a capirne meglio il meccanismo: l‘uomo tende ad essere coerente con se stesso nel modo di pensare e di agire. Il bisogno umano di mantenere un’immagine di sé coerente è infatti un fattore molto potente che guida e motiva il nostro comportamento e le nostre scelte.

Quando manca uno stato di coerenza l’uomo vive un disagio che cerca, in qualche modo, di superare, eliminare o ridurre mettendo in atto una ristrutturazione cognitiva.

Leon Festinger (1957) descrive i principi cardine sui quali si basa questa teoria:

  • L’uomo sperimenta una dissonanza in concomitanza ad una decisione;
  • Il disagio rappresenta la spinta a cercare una modalità per eliminarlo;
  • Queste modalità possono essere realizzate o con il cambiamento del comportamento o con una ristrutturazione cognitiva.

Il coronavirus è una probabilità

L’uomo tende, erroneamente, a pensare “non è certo che io possa ammalarmi”. Se in una popolazione, di 30.000 persone solo 5  sono ammalate allora la probabilità di io possa infettarmi è davvero minima. Di fatto si sta solamente sottostimando la probabilità di venire contagiato. La teoria dei bias cognitivi (Kahneman & Tversky, 2002) spiega come questi falsi ragionamenti siano alla base di credenze disfunzionali che possono generare comportamenti disadattivi. Nel caso specifico, per spiegare il comportamento di uscire di casa nonostante i divieti ci viene in aiuto l’euristica della disponibilità la quale viene usata per stimare la probabilità che avvenga un fatto, basandosi sulle informazioni in nostro possesso.

Aristotele in “Politica” descrive l‘uomo come animale sociale

Le persone, per natura, sono portate all’aggregazione, alla condivisione. Per istinto l’uomo non riesce a tollerare la solitudine e ad andare contro alla sua vera natura di animale sociale. In questo particolare periodo di semi-clausura le persone sentono più che mai il bisogno di condivisione di emozioni, sensazioni, paure, condivisione di notizie, di pensieri, di pareri e opinioni come spinta verso la comprensione e il sostegno morale e psicologico. Senza aggregazione non può esserci dunque conoscenza, stimolo, scambio, emotività, tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per sentirsi vivo.

In casi emergenziali come questo, la parole d’ordine sono razionalità e rispetto delle regole, tralasciando, di fatto, il nostro istinto e il nostro lato irrazionale che, per natura, prevalgono in caso di pericolo.

L’invito per affrontare in modo sereno e meno traumatico possibile questo periodo di clausura forzata è quello di seguire alcuni semplici suggerimenti:

  • Cerchiamo di sfruttare al meglio tutto il tempo che abbiamo a nostra disposizione;
  • Godiamoci i nostri affetti;
  • Trasformiamo le difficoltà in occasione di crescita;
  • Impariamo ad ascoltare i nostri pensieri e le nostre emozioni;
  • Mettiamo in atto comportamenti responsabili.
  • Affrontiamo con ottimismo il futuro.

Scacchi e sistema nervoso autonomo: il ruolo dell’HRV

Sembra che al diminuire dell’HRV (Heart Rate Variability) sia associato un peggioramento nei risultati dei compiti cognitivi in cui è coinvolta l’area prefrontale. Può essere quindi considerato l’HRV come un parametro predittore della performance cognitiva?

 

Tutti conoscono il gioco degli scacchi. Non forse tutti però sanno che questo gioco è utilizzato per lo studio di alcuni processi cognitivi (come memoria e problem solving) (Amidzic et al., 2006; Troubat et al., 2009). Nel corso degli anni si è accertato in particolare di come la corteccia prefrontale, legata alla pianificazione delle decisioni, sia importante in questo gioco (Koechlin & Hyafil, 2007).

La corteccia prefrontale è associata con la funzione vagale (regolatrice del sistema nervoso autonomo), che può essere misurata attraverso l’Heart Rate Variability (HRV) – la variazione dell’intervallo tra due battiti (Thayer et al., 2012).

Nel sistema nervoso autonomo troviamo un bilancio dinamico tra il sistema simpatico e quello parasimpatico (Shaffer et al., 2014): l’attività parasimpatica, che porta a un incremento dell’HRV, è attiva durante il riposo e le situazioni legate al rilassamento. L’attività simpatica è associata a situazioni stressanti e porta a una riduzione dell’HRV.

L’HRV è considerata una misura dell’interazione cuore-cervello (Shaffer et al., 2014) e si modifica nei compiti cognitivi e attenzionali, oltre che nella risposta ansiogena alle situazioni (Porges & Raskin, 1969): quando l’attività cognitiva si fa più intensa, c’è un aumento dell’attività simpatica (con relativo diminuzione dell’indice HRV) (Mukherjee et al., 2011; Luque-Casado et al., 2013). Si è inoltre visto che, al diminuire dell’HRV, è associato un peggioramento nei risultati dei compiti cognitivi in cui è coinvolta l’area prefrontale. Questi risultati potrebbero indicare l’HRV come un parametro predittore della performance cognitiva (Muthukrishnan et al., 2017).

In uno studio recente (Fuentes-García et al., 2019) si è voluto verificare se la performance negli scacchi fosse associata a delle differenze nell’HRV, nella percezione soggettiva di difficoltà, stress e complessità.

Le ipotesi iniziali erano che:

  • l’indice HRV sarebbe stato ridotto e gli indici di difficoltà, stress e complessità soggettivi sarebbero aumentati al crescere della difficoltà degli esercizi;
  • i giocatori più abili avrebbero riportato valori più alti di HRV e percepito meno difficoltà, stress e complessità durante gli esercizi rispetto ai giocatori meno abili.

Per questo studio sono stati reclutati 16 giocatori di scacchi – tutti maschi, età media 35 anni e punteggio ELO medio superiore a 1900. A questi giocatori sono stati sottoposti sei esercizi scacchistici di livello crescente (due facili, due medi, due difficili), avendo mezzo minuto per risolverne ognuno. I giocatori sono stati divisi in due gruppi di performance (alta e bassa) in base ai risultati ottenuti. L’indice HRV è stato preso alla baseline e durante gli esercizi; dopo ogni livello di difficoltà sono stati registrati gli indici di difficoltà, stress e complessità soggettivi con una Visual Analogue Scale (VAS).

I risultati hanno mostrato come – in entrambi i gruppi – ci fosse un decremento dell’indice HRV all’aumentare della difficoltà degli esercizi. Inoltre, durante gli esercizi l’HRV era significativamente più alto nel gruppo ad alta performance rispetto a quello a bassa performance. Il gruppo a bassa performance ha infine percepito i problemi scacchistici in maniera più complessa rispetto a quello ad alta performance.

In linea con le ipotesi iniziali e con la letteratura in materia, questi risultati hanno evidenziato che in effetti è presente una modulazione del sistema nervoso autonomo (la diminuzione dell’HRV) all’aumentare dello sforzo cognitivo anche nel gioco degli scacchi e che questa modulazione sembrerebbe essere associata con la performance dei giocatori. Ciò potrebbe aprire una nuova finestra che veda nell’HRV un interessante e utile strumento nell’allenamento dei giocatori, riuscendo a stimarne gli sforzi cognitivi e le capacità.

 

Coronavirus: pensare positivo, è possibile?

Ognuno di noi ha dentro di sé tutte le capacità necessarie per superare qualsiasi situazione della propria vita, non tutti però ne sono consapevoli. Il pensiero positivo è un compagno che ci guida costantemente e ci fornisce un rinforzo quotidiano, facendoci pensare: “ce la posso fare”.

 

Ogni giorno, quando ti svegli pensa: oggi sono fortunato perché mi sono svegliato, sono vivo, ho una preziosa vita umana, non la sprecherò. Userò tutte le mie energie per migliorarmi, per aprire il mio cuore agli altri, avrò per gli altri parole gentili e non pensieri cattivi e non mi arrabbierò, ma cercherò di far più bene che posso. (Dalai Lama)

Introduzione

In questi giorni, in cui siamo costretti a rimanere in casa, molti di noi avranno pensato che ogni qualvolta ci troviamo a dover affrontare un ostacolo, il nostro modo di pensare può portarci alla imminente speranza che questo possa essere affrontato e superato. Questo accade in ogni ambito di vita: familiare, relazionale, lavorativo ed amicale. E’ questo nostro pensare positivo che ci aiuta ad imparare ed a gestire le nostre paure e/o emozioni. Ognuno di noi ha dentro di sé tutte le capacità necessarie per superare qualsiasi situazione della propria vita, non tutti però ne sono consapevoli. Alcune persone hanno convinzioni orientate sul “tanto è inutile”, “tanto non ce la farò comunque”, “tanto le cose andranno male”. Cerchiamo di capire nel dettaglio che cosa si intende. Pensare positivamente non vuol dire credere ciecamente che le cose vadano bene, non vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle sfide o alle difficoltà, non vuol dire vivere la propria vita come se le situazioni negative e spiacevoli non esistessero. Il pensiero positivo è un compagno che ci guida costantemente nella nostra vita e ci fornisce il rinforzo quotidiano, facendoci pensare: “ce la posso fare” (Delle Fave, 2010). Ciò non vuol dire che una persona possa riuscirci ad ogni costo. E’ un pensiero che ci orienta rispetto i nostri obiettivi, favorendone il raggiungimento e permettendo il superamento delle difficoltà. Ed anche quando ci troviamo di fronte ad un insuccesso, grazie al pensiero positivo potremmo dirci: “cosa ho imparato da questa situazione?”, “cosa posso fare di diverso la prossima volta per avere successo?”.

Il nostro modo di pensare influisce sui nostri comportamenti

Il nostro modo di pensare va ad influire sui nostri comportamenti più di quanto si possa immaginare. Molti indicano quanto la gestione dei pensieri possa essere la chiave attraverso cui controllare le proprie emozioni e raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge nella vita (Beck, 2008). Si soffre di più pensando che qualcosa possa avere effetti negativi e questa sofferenza diventa, così, la spinta per cercare il coraggio sufficiente ad affrontare la situazione spaventosa. Ad esempio, una persona con la paura degli aghi soffrirà molto più per l’ansia legata alla sua fobia che per il piccolo pizzicore che crea la puntura. La potenza del pensiero predittivo risiede nella profezia autoavverante: a furia di pensare negativamente, questi pensieri diventano reali comportamenti. In pratica, secondo la definizione del sociologo statunitense Robert K. Merton (1948), una supposizione o profezia che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità. Non ha nulla a che vedere con il pensiero magico, che, invece, consiste nello stabilire una relazione irrazionale tra i nostri pensieri e gli eventi della nostra vita. I nostri pensieri influenzano correttamente la nostra condotta (Beck, 2008). Ad esempio, se iniziassi un nuovo progetto e pensassi, fin da subito, che non andrà a buon fine, la mia motivazione, energia e chiarezza mentale per cercare soluzioni, idee e risorse, non sarebbero molto efficaci. Oppure, se credessi che il mio partner sia infedele, la mia fiducia, la mia gelosia e il mio elevato livello di dipendenza emozionale sicuramente deturperebbero la relazione. Questo è ciò che si verifica quando una profezia si autoavvera e ricade più o meno consciamente sul comportamento di tutti attraverso l’Effetto Pigmalione riferendosi al potere che hanno le aspettative di un individuo sugli altri (genitori, figli, insegnanti, alunni, dipendenti, ecc…). In particolare, si tratta di una forma di suggestione psicologica: le persone tendono a conformarsi all’immagine che altri individui hanno di loro, sia essa un’immagine positiva sia negativa. Per fare un esempio pratico, basta citare l’esperimento condotto dallo stesso Robert Rosenthal (1968) e dalla sua equipe, i quali sottoposero alcuni bambini di una scuola elementare ad un test d’intelligenza. Dopo il test, in modo casuale, vennero selezionati alcuni bambini ai cui insegnanti fu fatto credere che avessero un’intelligenza sopra la media. La suggestione fu tale che, quando l’anno successivo Rosenthal si recò presso la medesima scuola elementare, dovette constatare che, in effetti, il rendimento dei bambini selezionati era molto migliorato e questo solo perché gli insegnanti li avevano influenzati positivamente con il loro atteggiamento, inconsapevoli del fatto che fosse tutto legato alla suggestione. Dati tali argomentazioni risulta essere importante nei contesti educativi, familiari ed anche lavorativi dire ai figli, alunni o dipendenti che si crede nelle loro potenzialità e nella realizzazione dei loro obiettivi se si vuole orientare questi attori sociali verso il successo.

Il contributo della psicoterapia cognitiva sull’autoefficacia emotiva e interpersonale

La psicoterapia cognitiva e cognitiva-comportamentale è un trattamento indicato per affrontare i disagi psicopatologici, come l’ansia, gli attacchi di panico e le fobie. Questa tipologia d’intervento si basa sul presupposto che esiste una stretta relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti. Infatti, i problemi emotivi sono influenzati dalle azioni e dalle esperienze del vissuto. Il piano di trattamento è avviato da uno psicoterapeuta e si pone l’obiettivo di fornire al paziente gli strumenti per sapere gestire l’ansia e per modificare le convinzioni negative. In questo caso, verrà chiesto al paziente di praticare l’esercizio della visualizzazione (Beck, 1971): immaginare noi stessi mentre ci approcciamo all’idea di mettere in atto una nuova sfida, come un esame, un discorso pubblico, una partita di calcio, un appuntamento, un nuovo lavoro e pensare che questa possa ottenere un successo. Per applicare questa tecnica, è necessario seguire uno psicoterapeuta che ci possa allenare a questo tipo di pensieri e alla successiva fase della visualizzazione. E’ utile seguire alcuni consigli pratici: immaginare in maniera vivida ciò che vorremmo si realizzasse, prestare attenzione ai dettagli, ricreare le sensazioni che proveremmo nel caso di un eventuale successo, come le conseguenze positive, le lodi degli altri, la soddisfazione personale. L’importante è “non dimenticarsi di immaginare se stessi sempre in un’ottica di successo”. Non pensare a ciò che potrebbe succedere, ma pensare a ciò che desideriamo che succeda.

Silenziare i pensieri disfunzionali per poter sperimentare un senso di benessere: come si fa?

Nel nostro vivere quotidiano, capita spesso di essere assaliti da migliaia di pensieri “automatici” di cui non siamo consapevoli, ma ce ne rendiamo conto nel momento in cui sperimentiamo gli effetti emotivi in termini di preoccupazione, tristezza, ansia, paura e così via (Beck, 2013). Emozioni che turbano il nostro agire e che ci impediscono di godere a pieno del momento presente. Facciamo un esempio nell’attualità: una famiglia non esce a fare la spesa, a causa della probabile diffusione del “virus cattivo” e della possibilità che vengano contagiati tutti in maniera immediata. I pensieri che iniziano a rincorrersi ad effetto domino saranno “Non ho latte necessario per la colazione”, “Se provassi ad uscire per andare al supermercato, di sicuro ci sarà molta gente come me che non ha sufficiente latte per la colazione”, “Probabilmente mi potrà contagiare”, “E se non sapesse di essere positivo e mi contagia?”. Lo stato emotivo che, inevitabilmente, questa famiglia proverà sarà legato a ansia, tristezza e rabbia che sfoceranno in una conversazione dai toni particolarmente aggressivi e/o ansiosi nel momento in cui metteranno piede dentro un supermercato. Cosa è accaduto? Semplice: dubbi, insicurezze e paure remote hanno generato ed alimentato un dialogo interno negativo, da cui sono scaturiti emozioni e comportamenti disfunzionali, replicando un copione fallimentare che abbiamo già attuato in esperienze precedenti. Quello che accade quando pensiamo negativamente circa la probabilità che un evento si possa verificare è una “fusione pensiero – azione”, ossia si esercita un’equivalenza data per certa tra i contenuti dei nostri pensieri e la realtà che sicuramente ci si proporrà (Caprara, 2007). Qualora si sperimentasse questo errore cognitivo, che cosa si potrebbe fare in termini pratici? I nostri pensieri sono così immediati, il più delle volte quello che avvertiamo sono emozioni negative a cui non riusciamo a dare una spiegazione. E’ proprio in questo caso che dobbiamo fermarci per ascoltare il nostro dialogo interno. Cosa ci stiamo dicendo? “E se i bambini non hanno il latte, come sarà possibile per loro fare colazione?”, “Magari possiamo andare una volta ciascuno e parlare al telefono mentre siamo al supermercato per fare in modo che nessuno si avvicini”, “Possiamo metterci i guanti e la mascherina ed essere protetti dal possibile contagio”. Questi pensieri automatici compaiono all’improvviso e l’unico modo che abbiamo per riconoscerli è sentire ciò che proviamo. E’ importante anche imparare a mettere in discussione ciò che pensiamo, come ad esempio attraverso la tecnica della ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e si valutano le situazioni che si vivono. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le distorsioni cognitive per sostituirli con altri più realistici e adattivi (Beck, Clark, 2010). Proviamo a creare punti di vista più vicini alla realtà. Alcune domande che potrebbero aiutarci in tal senso sono: “Che prove ho che qualcuno si sia contagiato stando ad una distanza di un metro l’uno dall’altro?”, “Ho la certezza che quello affianco a me sia contagiato?”, “Continuare a credere in un probabile contagio, quali effetti ha?”, “Cosa consiglierei ad un nostro amico che ha le stesse nostre ansie e/o paure di poter essere contagiato?”. Queste domande permettono di formulare una risposta adattiva, al fine di ottenere emozioni positive e comportamenti più funzionali rispetto al passato. Fondamentale è la costanza. La sostituzione di pensieri disadattivi richiede impegno continuo, poiché si cerca, consapevolmente, di destrutturare una modalità di pensiero consolidata nel tempo, per costruirne una più funzionale e resistente agli “attacchi” da parte degli schemi del passato. Nel tempo, il dialogo interno diventerà funzionale e, così, la ristrutturazione sarà essa stessa automatica. La ristrutturazione cognitiva permette di differenziare “ciò che si pensa” da “ciò che è reale”, creando una visione più flessibile, pronta a fronteggiare imprevisti e divenendo fonte inesauribile di resilienza. Una volta che si inizia a essere consapevolmente al legame tra le emozioni spiacevoli e i pensieri disadattivi, il passo successivo è semplice. Il paziente può iniziare a sperare che, modificando le sue idee, possa cambiare anche il suo stato d’animo.

Conclusioni

Queste giornate passano lentamente, dunque, pensare positivo ci permette di vivere meglio e di godere di un adeguato equilibrio interiore. All’improvviso, sentiamo l’esigenza di viaggiare, di scoprire e di accogliere ciò che ci circonda. Ci troviamo a domandarci: quanto apprezziamo ciò che viviamo realmente? Questa quarantena ci ha portato proprio ad una sosta: una pausa forzata dalla nostra vita. Osserviamo ciò che accade all’esterno in modo ovattato, non concependo realmente cosa stia succedendo, un evento simile è difficile da metabolizzare. Questo richiede un profondo lavoro personale. Dobbiamo riconciliarci con il nostro dialogo interno e saperlo ascoltare attentamente, al fine di sentirci degni di qualcosa di meglio. Solo allora il nostro stato emotivo riuscirà a mutare, diventando, così, più forte, più solido e più duraturo nel tempo.

 

Kintsugi: l’arte di riparare le ferite

Analogamente al lavoro di cesello svolto dall’artigiano esperto di Kintsugi che ricostruisce un oggetto assemblando le parti rotte, evidenziando le incrinature e creando una nuova forma ancora più forte della precedente, l’individuo può compiere un lavoro su se stesso sviluppando la propria capacità di resilienza e trasformando le proprie ferite in punti di forza in un percorso di superamento.

 

 Il Kintsugi è un’antica arte giapponese di riparazione degli oggetti che hanno subito una rottura con una lacca (urushi) per saldarne i frammenti e la successiva copertura e messa in rilievo delle crepe con polvere d’oro. I termini “kin” (oro) e “tsugi” (riparazione) indicano pertanto la tecnica di “riparare con l’oro”; un procedimento lungo e complesso che si svolge in più fasi e che richiede estrema precisione, un vero e proprio lavoro di cesello. L’oggetto sottoposto al restauro risulta impreziosito e assume un carattere di unicità divenendo una vera e propria opera d’arte nella quale le crepe, che in precedenza erano punti fragili da nascondere, vengono invece valorizzate con l’oro.

Solitamente quando si rompe un oggetto il primo impulso è quello di disfarsene. L’arte del Kintsugi ci insegna invece a cambiare il punto di vista, ossia accettare le spaccature addirittura esaltandole, seguendo una forma di pensiero creativo che ci porti ad abbracciare soluzioni nuove, diverse, al di fuori dell’usuale area di comfort. Il risultato è che l’intervento di riparazione non sminuisce il valore dell’oggetto, ma lo rende addirittura più prezioso.

L’arte del Kintsugi risale al quindicesimo secolo ed è associata alla figura storica di Ashigaka Yoshimasa (1435-1490), ottavo shogun dell’epoca Muromachi. Durante il suo governo il Giappone vide la nascita di un movimento culturale ispirato alla filosofia zen, alle cui origini risale anche la cerimonia del tè. Narra la leggenda che durante il cerimoniale del tè si ruppe la preziosa tazza utilizzata da Yoshimasa il quale incaricò i suoi artigiani di ripararla in modo che mantenesse inalterata la sua bellezza. Gli artigiani decisero allora di dare risalto alle crepe della tazza con resina e polvere d’oro anziché nasconderle e il loro intervento di riparazione diede origine all’arte del Kintsugi. Tale forma di arte si inserisce nella concezione giapponese del Wabi-Sabi:

Wabi = la meraviglia di fronte alla natura e Sabi = l’accettazione della transitorietà delle cose.

Il Wabi-Sabi ci invita ad assumere un atteggiamento contemplativo, ad apprezzare la bellezza delle cose semplici, transitorie e imperfette, rese uniche dal segno lasciato dal tempo.

Il Kintsugi non è semplicemente una tecnica di restauro. Esso ci rimanda un forte valore simbolico nella misura in cui rappresenta la metafora delle fratture e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare nel corso della propria esistenza. Così come il Kintsugi consente il recupero e la valorizzazione di un oggetto rotto, analogamente l’individuo può compiere un percorso di superamento e di guarigione delle proprie ferite interne, divenendo orgoglioso di mostrare le cicatrici che testimoniano il suo vissuto in un processo di rinascita.

Tale metafora è descritta sapientemente da Massimo Recalcati in relazione all’esperienza del perdono nel suo libro Mantieni il bacio:

Nell’arte del Kintsugi vediamo in atto una straordinaria operazione: il vaso è ancora quello di prima anche se non è più quello di prima. Ha cambiato immagine, è un altro vaso, eppure è costruito sui resti del vaso rotto. Nonostante il trauma della sua rottura, grazie alle mani sapienti del vecchio artigiano è divenuto l’occasione per una nuova creazione. I punti di rottura sono stati dipinti d’oro; le cicatrici sono divenute poesie. In questo senso l’esperienza del perdono è un’esperienza di resurrezione. L’amore che pareva morto, finito, gettato nella polvere, senza speranza, ritorna in vita, ricomincia, riparte.

Il Kintsugi può rappresentare la metafora di un percorso psicoterapeutico: l’individuo che può sentirsi letteralmente “a pezzi” riesce ad acquisire gradualmente consapevolezza delle proprie ferite interne, inizia ad accettarle e se ne prende cura, sviluppando nuovi significati da attribuire agli eventi. La rielaborazione del proprio vissuto che avviene durante questo percorso può essere usata come punto di partenza per un nuovo ciclo.

Analogamente al lavoro di cesello svolto dall’artigiano esperto di Kintsugi che ricostruisce un oggetto assemblando le parti rotte, evidenziando le incrinature e creando una nuova forma ancora più forte della precedente, l’individuo può compiere un lavoro su se stesso sviluppando la propria capacità di resilienza e trasformando le proprie ferite in punti di forza in un percorso di superamento.

La presa di coscienza del dolore è il primo passo per prendersi cura delle proprie ferite perchè se ci si limita a mascherarle o a nasconderle potrebbero prima o poi riaprirsi. La scelta di guarire richiede tempo e impegno e il risultato, strato dopo strato, assume gradualmente forma.

Scegliere di aggiustare un oggetto danneggiato non implica solo il riconoscimento del suo valore, ma significa anche sviluppare un atteggiamento di cura e di attenzione verso se stessi. Analogamente quando si decide di riprendere in mano la propria vita dopo che ci si è sentiti “spezzati” dal dolore, la propria autostima ne risulta accresciuta poiché si è consapevoli di aver superato delle prove, delle difficoltà, di aver raggiunto un obiettivo, di avercela fatta. Le ferite esibite diventano una sorta di “medaglia d’oro” con cui celebrare il proprio percorso fatto anche di fratture, di dolori e di cambiamenti che inevitabilmente fanno parte dell’esistenza di ognuno.

L’arte del Kintsugi richiede grande pazienza: la riparazione, passo dopo passo, prende lentamente forma. Anche nella vita sono necessari numerosi passaggi per imparare la lezione, spesso risulta necessario ricominciare daccapo e avere il coraggio di variare gli schemi ricorrenti. Può risultare un processo lungo, lento e talvolta scoraggiante, ma attraverso le prove e i tentativi si va comunque avanti, anche quando si ha l’impressione di essere rimasti fermi al punto di partenza.

Poi un giorno tutto assume una connotazione di maggiore chiarezza, si iniziano ad intravedere dei progressi, dei risultati, tutto alla fine diventa più chiaro e si inizia a concepire una rinnovata visione delle cose.

In conclusione: il Kintsugi è una lezione di vita. Ci insegna ad abbracciare le nostre ferite anziché rimuoverle, a trasformarle in punti di forza “ricoprendole d’oro” poiché esse rappresentano una testimonianza del nostro passato e delle prove superate, in un percorso che ci narra di storie di rinascita, di resilienza e di esperienze che possono alimentare la crescita personale.

Solo quando ci rompiamo, scopriamo di cosa siamo fatti. (Ziad K. Abdelnour)

 

La Mindfulness a supporto della Didattica a Distanza

Con la straordinaria ed improvvisa sospensione delle attività didattiche in tutte le scuole d’Italia a seguito dell’emergenza Covid-19, docenti, alunni e studenti si sono trovati ad affrontare una situazione senza precedenti, che li ha totalmente proiettati nell’uso della Didattica a Distanza (DaD).

 

Un uso a cui la stragrande maggioranza del personale impegnato e degli studenti interessati non era preparata e che si trova a far fronte da una parte all’urgenza ed all’emergenza di dare continuità alla didattica, in rispetto di un alienabile diritto costituzionale allo studio e, dall’altra, a far fronte alle insicurezze, all’impreparazione, al disorientamento che in alcuni casi questa situazione sta determinando. Una condizione di difficoltà che va ad aggiungersi alle già presenti situazioni di stress che intere famiglie stanno vivendo a causa dell’emergenza; isolamento sociale, paura, difficoltà economiche, e in alcuni casi, anche malattia o lutti in famiglia sono solo alcune delle preoccupazioni e delle difficoltà che stanno attanagliando le famiglie in questa condizione di emergenza.

La DaD, in alcuni casi, può arrivare a rappresentare un’ulteriore fonte di stress in aggiunta allo stress post traumatico che comincia a percepirsi nelle famiglie italiane (e non solo). In uno scenario come quello appena descritto, diventa indispensabile fare i conti con un’idea di alunni e studenti che sono probabilmente differenti da quelli con cui ciascun docente era abituato ad interfacciarsi fino a poco tempo fa. In queste settimane studenti e studentesse, alunni ed alunne sono stati catapultati in una dimensione di solitudine, di smarrimento e, in molti casi, di perdita e stravolgimento della propria normale routine quotidiana. Ulteriore angoscia e paura di non essere in grado di rispettare le scadenze date dai propri docenti, di non avere un computer funzionante o magari libero, perché utilizzato da un altro componente della famiglia, di non avere una connessione dati attiva, rischiano di inficiare maggiormente le capacità di concentrazione e attenzione già fortemente minate dalle difficoltà date dal caso. Se già nella didattica in presenza la relazione educativa poteva essere considerata base essenziale su cui poter innestare ogni processo di apprendimento, ora più che mai ogni docente è chiamato a supportare e sostenere i propri studenti ed alunni in uno dei periodi più difficili e complessi della storia contemporanea. E’ importante, quindi, privilegiare la relazione empatica per favorire il processo di costruzione dei saperi e di sviluppo di abilità e competenze, attraverso la comprensione degli stati mentali che giovani, ragazzi e bambini stanno esperendo in questo periodo di emergenza. In questa prospettiva l’utilizzo della mindfulness può essere considerato di notevole supporto alla DaD. Una pratica di consapevolezza all’inizio di una video-lezione, ad esempio, può certamente favorire una dimensione di concentrazione e di attenzione consapevole sia negli studenti che nei docenti e promuovere il clima relazionale di condivisione utile al raggiungimento di obiettivi di vicinanza (oltre che di apprendimento) da parte di entrambi gli attori della relazione. Con molta probabilità, infatti, in questo periodo di totale o parziale isolamento l’attenzione è verosimilmente orientata verso il passato e connotata dalla malinconia di quei “pezzi di vita” da cui siamo stati improvvisamente strappati, e verso il futuro, in termini di incertezza e paura di quel che potrà essere.

La mindfulness, come pratica di ancoraggio al qui ed ora, ad ogni singolo istante, può accompagnare verso una maggiore capacità di vivere il presente, indebolendo quella ruminazione data, nella nostra mente, da ricordi, emozioni, sensazioni e pensieri che ritornano ossessivamente. Contemporaneamente, favorisce una visione più attenta e compassionevole verso le proprie emozioni e, attraverso la condivisione, anche verso le emozioni degli altri. In questo modo, la pratica meditativa, viene a rappresentare uno strumento molto efficace alla (ri)costruzione di un gruppo di lavoro, di una classe, che, nonostante la lontananza, può essere in grado di ristabilire (e migliorare) le proprie connessioni relazionali ed emotive, favorendo anche un processo di mutuo supporto e sostegno, attraverso la condivisione e l’accoglienza compassionevole di quegli stati mentali verso cui è stata orientata la propria attenzione consapevole durante la pratica meditativa.

In questo prospettiva, la mindfulness diventa quindi una “buona prassi” per sostenere la DaD, favorendo la condizione di benessere, l’ottimismo e la resilienza, alleviando ansia e depressione.

Quando bambini ed adolescenti si “concentrano” su un’esperienza nel presente (la respirazione, ad esempio), la loro mente tende a calmarsi e si apre uno spazio mentale che permette loro di vedere più chiaramente ciò che sta accadendo (Kaiser Greenland, 2018, pag. 7).

 

Attaccamento e self-compassion: proteggono gli adolescenti dal NSSI?

L’adolescenza è una fase evolutiva caratterizzata da rapidi cambiamenti fisici e psicologici; essa si accompagna ad un’elevata attenzione sulle relazioni interpersonali ed emotive con le figure significative della propria vita.

 

Questi cambiamenti potrebbero accrescere la vulnerabilità dell’adolescente nei confronti dell’insorgenza di disturbi psicologici, come ad esempio il disturbo d’ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare e depressione (Lerner &Steinberg, 2009), e il non suicidal self-injury (NSSI).

NSSI fa riferimento alla distruzione diretta, volontaria e socialmente non accettabile, del proprio tessuto corporeo, in assenza di un intento letale (Nock, 2010), sebbene incrementi il rischio di futuri tentativi di suicidio (You&Lin, 2015). Secondo una meta-analisi condotta da Swannelle colleghi nel 2014, l’NSSI ha una prevalenza del 17.2% durante l’adolescenza (Swannell, Martin, Page, Hasking, & St. John, 2014). Servendosi di dati self-report di 658 studenti della scuola secondaria, il presente studio esamina, nello specifico, due potenziali fattori interpersonali protettivi per gli adolescenti con NSSI: la qualità dell’attaccamento dell’adolescente con gli altri significativi e la sua autocompassione (Mikulincer&Shaver, 2007; van Vliet&Kalnins, 2011). Infine, è stato esplorato l’effetto di mediazione dell’autocompassione nella relazione tra NSSI e attaccamento alle figure significative.

Innanzitutto, la teoria dell’attaccamento si occupa di interpretare i legami affettivi degli individui in interazione con altri. Gli schemi relazionali ed emotivi che si sviluppano con le figure di accudimento primario, andranno a costituire dei prototipi per le relazioni interpersonali future. Precisamente, ricerche precedenti hanno identificato l’assenza di attaccamento sicuro come un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento di condotte autolesive prive di intenti fatali (Tatnell, Kelada, Hasking, & Martin, 2014).

L’autocompassione può essere considerata una strategia di coping basata sulle emozioni. Essa si definisce come la capacità di essere compassionevoli nei confronti di se stessi e, a sua volta, include la capacità di comprendere e accettare con atteggiamento non giudicante i propri fallimenti o la propria sofferenza (self – kindness), la capacità di riconoscere che gli errori e i fallimenti sono parte integrante dell’esperienza umane (sense of common humanity) e la capacità di essere consapevoli dei propri pensieri e sentimenti dolorosi, senza ricorrere a ruminazione, evitamento o negazione di essi (Neff, 2016). Infine, sulla base dei “modelli operativi interni” della teoria dell’attaccamento (Pietromonaco&Barrett, 2000), l’autocompassione può fungere da meccanismo sottostante attraverso cui la qualità della relazione di attaccamento protegge l’individuo dalle condotte legate al NSSI. Gli individui con attaccamento sicuro percepiscono l’altro come benevolo e considerano se stessi come degni di essere amati, pertanto il loro senso di valore e di connessione sicura all’altro facilitano lo sviluppo di auto compassione (Pepping, Davis, O’Donovan, &Pal, 2015).

I risultati della presente ricerca hanno rivelato che il 13.8% del campione hanno avuto esperienze di NSSI durante l’anno precedente e che le ragazze ricorrono a tali comportamenti più frequentemente rispetto ai ragazzi. Inoltre, confrontando il gruppo dei minori che hanno avuto esperienze di NSSI e il gruppo che non ha mai avuto esperienze di questo tipo, è emerso che differiscono significativamente rispetto all’attaccamento con la madre, con il padre e rispetto al costrutto dell’autocompassione, mentre non sono emerse differenze circa l’attaccamento con i coetanei. Infine, per quanto concerne gli effetti di mediazione, la ricerca ha rilevato che l’autocompassione funge da mediatore tra la vicinanza dell’adolescente ad entrambi i genitori e ai pari con l’insorgenza di NSSI. In aggiunta, l’autocompassione media la qualità della comunicazione con i pari e NSSI.

Nello specifico, i minori del gruppo “non – NSSI” hanno rivelato un attaccamento ai genitori caratterizzato da maggiore fiducia, comunicazione e vicinanza rispetto all’altro gruppo, così come hanno riportato livelli più alti di compassione verso se stessi.

In primo luogo, ciò permette di guardare alla capacità di autocompassione come un fattore di protezione nei confronti dell’attivazione di schemi negativi sul sé, responsabili dell’insorgenza di condotte inadeguate come quelle del non suicidal self-injury. Infatti, individui dotati di self-kindness tenderanno ad astenersi dal punire se stessi (Nock, 2010), così come i soggetti che possiedono un senso comune di umanità non avranno sentimenti di isolamento sociale, spesso correlati a condotte autolesive (Nock, 2010) e, infine, coloro che hanno consapevolezza dei propri pensieri negativi e li accettano in quanto tali, saranno protetti dal ricorrere al NSSI come strategia di regolazione delle emozioni (Heath et al., 2016).

In secondo luogo, appare evidente come le esperienze di attaccamento negative con i propri genitori, aumentino la probabilità di insorgenza e di mantenimento di condotte tipiche di NSSI.

Da un punto di vista clinico, tali risultati suggeriscono l’estrema importanza di intervenire, da un lato sulla relazione genitore-bambino, al fine di migliorarne la qualità e prevenire l’autolesionismo, dall’altro sull’implementazione e sul miglioramento della capacità di essere compassionevoli verso se stessi. A tali scopi, di grande utilità saranno le terapie familiari basate sull’attaccamento, così come è auspicabile, in ambito scolastico, la promozione di progetti che vedano un maggiore coinvolgimento dei genitori e che, al contempo, favoriscono opportunità di interazioni positive tra pari.

 

I sistemi multiagente nell’intelligenza artificiale e una loro interpretazione in chiave di teoria dei giochi

Il sistema multiagente è un ambiente operativo in cui interagiscono due o più agenti razionali; è anche detto sistema con agenti multipli.

 

L’ambito dei sistemi multiagente è sempre più collegato all’ambito applicativo dell’intelligenza artificiale (IA). Diventa di conseguenza rilevante la questione di come affrontare e governare situazioni in cui diversi sistemi di intelligenza artificiale si trovano a operare nello stesso ambiente. Si citano tre esempi: a) il trading autonomo, vari sistemi computazionali indipendenti – generalmente operanti per conto di organizzazioni diverse – decidono autonomamente il volume da acquistare o vendere all’interno di un certo mercato; b) le automobili autonome che, per conto di utenti diversi, percorrono le stesse strade per raggiungere le proprie destinazioni secondo un criterio sicuro ed efficiente; c) i robot autonomi utilizzati nella logistica per la movimentazione di merci che operano all’interno di un magazzino, con l’obiettivo di aumentare la produttività dell’impresa che se ne avvale (Amigoni, 2020).

Sorge così l’interrogativo su come possa un insieme di agenti IA autonomi operare simultaneamente in uno stesso contesto (fisico o virtuale). Possono sorgere interazioni affatto spiacevoli: ad esempio, nel caso di automobili autonome simultaneamente in circolazione in una città, ciascuna di esse cercherà di occupare lo spazio comune; arrivare a destinazioni percorrendo le medesime strade secondo un criterio di sicurezza ed efficienza; ecc.

Per semplificare l’analisi, ipotizziamo che il sistema multiagente sia costituito da due soli soggetti IA autonomi, che indichiamo rispettivamente come A e B.

Circa la natura delle interazioni fra i due agenti IA, consideriamo tipicamente due strategie: “Non Cooperare” e “Cooperare”. Se la strategia è quella di non cooperare, come nell’esempio precedente, si genera un risultato inefficiente: ingorghi (costi transazionali in termini di tempo perso), incidenti, sovraffollamento negli spazi comuni, ecc.

In una mappa a due dimensioni, ipotizziamo che si muovano due agenti robot che perseguono lo stesso obiettivo. Ipotizziamo che i due agenti autonomi siano razionali, secondo la teoria economica neoclassica, cioè perseguano il fine di ottimizzare la propria funzione obiettivo (massimizzazione dell’utilità, massimizzazione dei profitti, minimizzazione dei costi, e così via).

I fattori di contesto, alcuni dei quali istituzionali e/o stabiliti dal legislatore/regolatore sono determinanti. Tipicamente, c’è un vincolo di privacy (GDPR, Regolamento (UE) 2016/679): ciò fa sì che i due agenti autonomi IA non possano rivelare i propri dati, cioè non possano comunicare. Ne consegue che essi non possano accordarsi su una strategia congiunta da seguire che porterebbe al risultato ottimale (cioè la migliore per entrambi, che ha la caratteristica di essere Pareto-efficiente).

Attraverso una cross-fartilization fra discipline, ci troviamo in una classica situazione di “dilemma del prigioniero”, nell’ambito della Teoria dei Giochi. Seguendo la metodologia, i due agenti razionali e autonomi della IA vengono chiamati giocatore A e B, e i risultati ottenuti da ciascuno – indicati con un valore numerico, generalmente un valore monetario o un livello di utilità (nella Teoria dell’utilità cardinale) – sono denominati payoff. Il tipo di interazione fra loro genera uno specifico payoff.

Ipotizziamo inoltre che i due giocatori facciano le proprie mosse – cioè, interagiscano – simultaneamente (“one-shot game”) e non possano comunicare fra loro.

Nel “dilemma del prigioniero”, la storia con i relativi payoff proposti dalla polizia, è nota. La polizia non ha sufficienti prove per condannare i due soggetti di un certo reato che hanno commesso, e quindi – chiudendoli in due celle separate in modo che essi non possano comunicare – propone loro le seguenti strategie alternative (dove i payoff sono gli anni di prigione):

  • se solo uno dei due Non Confessa accusando l’altro, chi Non Confessa evita la pena (il suo payoff è quindi 0); mentre all’altro è inflitta una condanna a 6 anni di reclusione;
  • se Non Confessano, entrambi vengono condannati solo a 1 anno, perché colpevoli di porto abusivo di armi;
  • se Confessano, entrambi saranno condannati a 5 anni di reclusione.

Le due strategie sono quindi: C = Confessare, che è la strategia non cooperativa nei confronti del complice; NC = Non Confessare, che è la strategia cooperativa fra i due reclusi.

Il gioco viene rappresentato in forma normale o strategica tramite una matrice (2×2) il cui numero di righe e di colonne è dato dal numero di strategie disponibili al giocatore. In ciascuna cella, il primo payoff fa riferimento al giocatore A, il secondo a B.

Sistemi multiagente nell intelligenza artificiale e loro interpretazione Fig 1

Per ognuno dei due lo scopo è minimizzare la propria condanna, cioè la strategia ottimizzante. Di conseguenza, la strategia razionale di questo gioco per entrambi è Confessare (C, C) perché ciascun prigioniero non sa quale strategia sceglierà il complice. Essi saranno condannati a 5 anni di reclusione.

La Teoria dei Giochi predice che c’è un solo equilibrio. Quello in cui i due complici Non Cooperano fra loro, e quindi confessano (C, C). Poiché la coppia di payoff che scaturisce dalla loro interazione è di conseguenza (5, 5), la soluzione è inefficiente, benché razionale dal punto di vista di ciascuno.

Infatti, entrambi sarebbero stati meglio se avessero adottato una strategia cooperativa, Non Confessando (NC, NC): avrebbero avuto solo 1 anno di reclusione per porto d’armi.

Dal punto di vista della progettazione e realizzazione dei sistemi di IA, la soluzione più semplice – ma anche la più inefficiente – sarebbe lasciare le interazioni fra i questi sistemi non coordinate e non governate, con ovvie conseguenze sulla affidabilità e sulle prestazioni (Amigoni, 2020). Vale a dire, adottare una strategia non cooperativa.

Forme di coordinamento che portino alla cooperazione fra sistemi di IA operanti in uno stesso ambiente appaiono quindi necessarie (Amigoni, 2020).

Per arrivare a ciò, vengono introdotti elementi aggiuntivi, che nei sistemi multiagente di IA sono chiamati multiagent path planning oppure multiagent path finding.

Tra i numerosi approcci proposti per affrontare il multiagent path finding, di seguito viene utilizzato un meccanismo esogeno, quale l’introduzione di “convenzioni sociali”, vale a dire “regole” di coordinamento.

Nel caso delle automobili autonome, il problema è quindi quello di pianificare i percorsi per tutti gli agenti in modo tale che, quando le automobili autonome seguono tali percorsi, tutti raggiungano le loro destinazioni partendo dalle rispettive posizioni iniziali, senza che ci siano collisioni e che una determinata funzione obiettivo sia ottimizzata, come per esempio utilizzare il tragitto più breve (Amigoni, 2020).

Anche questa volta, l’introduzione e il risultato di regole di comportamento possono avvalersi della Teoria dei Giochi come metodologia di analisi. Il gioco viene di nuovo rappresentato in forma normale o strategica tramite una matrice (2×2).

Secondo le regole, cioè il Codice della strada, il giocatore che viene da destra (D) ha la precedenza: nel nostro esempio, il giocatore B.

Le strategie a disposizione di ciascun giocatore sono: F = Fermarsi; P = Passare.

La convenzione, se le regole della strada sono rispettate da ciascun giocatore/automobilista, è che ha la precedenza l’agente che viene da destra. Il relativo payoff è di conseguenza (-2, 0).

Sistemi multiagente nell intelligenza artificiale e loro interpretazione Fig 2

E’ interessante notare che il meccanismo di coordinamento utilizzato nella Teoria dei Giochi spiega il rationale (in ambito filosofico, economico ed evoluzionista) della nascita delle istituzioni sociali e, oggi – con la pervasività nel nostro quotidiano dell’intelligenza artificiale – anche una delle soluzioni del multiagent path planning nell’ambito sempre più diffuso dei sistemi multiagente nel campo della IA.

Dal Nyotaimori al Body Sushi

Nyotaimori rappresenta un esempio esplicito di correlazione tra alimentazione e sessualità che assume significato diverso a seconda del periodo e del contesto storico.

 

Il termine Nyotaimori (女体盛り), letteralmente “servire (i cibi) sul corpo femminile”, indica la pratica di mangiare sashimi o sushi dal corpo di una donna, tipicamente nuda. Prima di trasformarsi in un vassoio vivente di pesce crudo, la “geisha” viene sottoposta ad un severo addestramento durante il quale deve restare sdraiata per molte ore senza muoversi, sopportando l’esposizione prolungata all’alimento freddo sul corpo. I peli della donna, soprattutto quelli pubici, vengono completamente rasati per ragioni igieniche, ma anche al fine di evitare qualsiasi riferimento sessuale. La donna si prepara al servizio seguendo una precisa liturgia che prevede un bagno per mezzo di un sapone neutro speciale ed una veloce doccia fredda che oltre a tonificare il corpo favorisce il consumo ottimale del cibo. Nel frattempo la temperatura del sushi o del sashimi serviti sulla pelle della modella raggiunge più o meno quella corporea (Nihon Japan: La terra del sol levante; Aroma, 2011).

Poco si sa delle radici storiche del Nyotaimori eppure in occidente se ne parla come un esempio tradizionale di ‘perversione’ giapponese, negli ultimi anni spesso correlata alla pratica della sitofilia una forma di feticismo legata al cibo in cui viene raggiunta l’eccitazione sessuale mangiando dal corpo di un’altra persona oppure usando il cibo come stimolo sessuale. Simile comportamento dal punto di vista psicoanalitico verrebbe spiegato attraverso la teoria dell’attaccamento secondo cui l’attaccamento alla madre durante i primi anni di vita del bambino è strettamente legato alla funzione vitale della nutrizione a cui assolve la madre stessa.

Diffusasi fino ad oggi nei ristoranti di lusso di tutto il mondo dagli Stati Uniti d’America all’Europa: in lingua inglese è meglio conosciuto come body sushi o naked sushi.

Tale pratica ha ricevuto numerose critiche per il suo carattere ritenuto da alcuni “vergognosamente sessista” e per le norme igieniche non sempre rispettate, tuttavia il Nyotaimori, con il passare del tempo ha subito certamente un’evoluzione, da pratica legata alla tradizione giapponese è diventato fenomeno di costume nella società occidentale mutando così il suo significato dal punto di vista simbolico-relazionale (Mayukh Sen, 2017)

Un’importante modifica, forse la più comune, è stato l’uso prima di indumenti intimi (slip e reggiseno) da parte della modella fin poi alla completa sostituzione del corpo femminile con bambole gonfiabili.

Questa evoluzione ha portato da una parte ad un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e ad una minor ‘mercificazione‘ della figura femminile ma dall’altro ha compromesso in maniera significativa l’aspetto ritualistico di questa pratica.

L’uso di indumenti intimi ha creato una barriera: cibo e genitalità perdono il loro legame più diretto e ne assumono uno mediato da un qualcosa che si frappone al loro rapporto.

L’uso di bambole gonfiabili fa sì che il materiale umano di per sé portatore di calore corporeo e dunque di energia vitale venga sostituito dalla plastica, materiale freddo e sterile: il sushi ed il sushimi che prima si caricavano di calore ed energia grazie al contatto con la pelle adesso giacciono su freddo materiale di plastica.

L’intero pasto prima giacente su un corpo immobile ma vivo adesso viene consumato su un qualcosa di inanimato.

L’evoluzione del costume descrive la trasformazione da una sessualità sicuramente più diretta e viva ad una forse più moralmente corretta, rispettosa, ma soprattutto descrittiva dei costumi della nostra società occidentale, in cui si esalta la dicotomia mente/corpo ma forse viene meno quel concetto di olismo che caratterizza il pensiero orientale.


Infine la descrizione di altre varianti di Nyotaimori: alcune prevedono la partecipazione sia del soggetto maschile che di quello femminile in quella che sembra essere una ‘pratica delle pari opportunità fino ad arrivare a pratiche aliene alla tradizione nipponica, ma di interesse dal punto di descrittivo nei giorni nostri, in cui il corpo femminile viene completamente sostituito da un quello maschile: un uomo nudo coperto da cibo giapponese viene servito come pasto.

Nyotaimori può assumere una forte connotazione di tipo ritualistico, è una pratica che si presta bene ad essere esplicata in luoghi chiusi alla presenza di un numero limitato di persone. Il corpo diviene oggetto ed assume un significato quasi metafisico, intorno a lui si radunano persone per condividere attraverso il cibo un qualcosa che va ben oltre il semplice mangiare. Sushi e sushimi sono sì cibo ma diventano anche mezzo di decorazione del corpo un po’ come le pratiche purificatorie e di igiene personale che precedono il pasto preludono ad un qualcosa che va ben oltre il terreno, cosicchè, a seconda del contesto, sembra quasi di assistere ad un sacrificio o ad un atto liturgico, lo stesso corpo femminile diventa sacro e dunque venerabile, chissà che possa esser ravvisabile in questo comportamento una ritualità ancestrale propiziatoria alla fecondità.

 

 

Cybercondria e iCBT: patologia nuova, nuovo intervento?

Uno studio recente (Newby & McElroy, 2020) ha indagato per la prima volta se una terapia cognitivo-comportamentale via internet (iCBT) per problemi legati all’ansia da malattia portasse a miglioramenti nei self-report sulla cybercondria e se questi ultimi fossero associati a miglioramenti sull’ansia da malattia.

 

Avere un po’ di ansia legata alle condizioni di salute è normale e adattivo, ma quando questa diventa persistente ed eccessiva può avere un impatto negativo sulla vita dell’individuo, dei suoi cari e anche sugli operatori sanitari (Tyrer et al., 2016), oltre che sulla società in generale (Bobevski et al., 2016; Tyrer, 2018).

Le persone con un’eccessiva ansia legata alla salute – per cui il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) prevede le diagnosi di Disturbo da ansia da malattia (IAD) o Disturbo da sintomi somatici (SSD) – hanno una costante paura di avere o di potere avere in futuro patologie invalidanti. Come conseguenza di ciò, queste si impegnano spesso nella ricerca di eccessive auto-rassicurazioni da parte di altre persone (familiari o sanitari) sulle proprie condizioni di salute: in un primo momento ciò riesce ad allontanare le loro paure; nel lungo periodo, tuttavia, la preoccupazione si cronicizza e aumenta (Warwick&Salkovskis, 1990).

Nei tempi della digitalizzazione, è diventata una pericolosa abitudine esporsi alle informazioni delle ricerche online, spesso allarmanti, inaccurate o fuorvianti sulle varie malattie: questo comportamento può esacerbare le preoccupazioni già presenti sulla salute e produrne di nuove, in un circolo vizioso di ulteriori ricerche legate alle condizioni di salute che prende il nome di ”cybercondria” (Starcevic& Berle, 2013).

Sebbene le ricerche più recenti abbiano trovato una forte correlazione tra l’ansia sulle condizioni di salute e la cybercondria (McMullan et al., 2019), le analisi psicometriche hanno evidenziato che esiste una differenza significativa tra le due (Fergus & Russell, 2016), portando a considerare la cybercondria come un pattern di particolari comportamenti e ansie che devono essere considerate come un nuovo target specifico a livello terapeutico.

Uno studio recente (Newby & McElroy, 2020) ha indagato per la prima volta se una terapia cognitivo-comportamentale via internet (iCBT) per problemi legati all’ansia da malattia portasse a miglioramenti nei self-report sulla cybercondria e se questi ultimi fossero associati a miglioramenti sull’ansia da malattia.

Sono stati analizzati i dati secondari di uno studio randomizzato controllato (RCT) confrontando un gruppo iCBT (n = 41) – che ha seguito lo specifico corso online Health Anxiety Course (strutturato in sei lezioni) – con un gruppo di controllo che ha ricevuto psicoeducazione, monitoraggio e supporto clinico (n = 41) in pazienti con diagnosi di IAD e/o SSD (DSM-5, 2013).

Due questionari sono stati utilizzati in questa ricerca (pre e post intervento): lo Short Health Anxiety Inventory (SHAI) (Salkovskis et al., 2002) per la valutazione dell’ansia da malattia e la Cyberchondria Severity Scale (McElroy & Shevlin, 2014) per la valutazione relativa alla cybercondria.

Dai risultati si è evinto che il gruppo iCBT ha mostrato – dopo l’intervento – una maggiore riduzione della cybercondria rispetto al gruppo di controllo, con grandi differenze soprattutto nelle sottoscale della CSS relative alle compulsioni, al distress e all’eccessività.

Inoltre, tutti i miglioramenti legati ai sintomi sull’ansia da malattia erano mediati dai miglioramenti nelle sottoscale della CSS (tranne quella legata alla diffidenza nei confronti dei medici).

Pur essendo legati a un primo studio sull’argomento (e a un ambito ancora da approfondire), questi risultati hanno importanti implicazioni per l’assessment e per il trattamento della cybercondria: innanzitutto confermano che un trattamento più specifico legato anche a un intervento che va a minare gli aspetti problematici legati alla ricerca online sulle condizioni di salute può migliorare i sintomi della cybercondria.

Tuttavia, ancora non è chiaro quanto il miglioramento sia stato dovuto alla co-presenza di tecniche cognitivo-comportamentali standard (essendo questo intervento stato strutturato per l’ansia da malattia più che per la cybercondria).

In questo senso, si auspica che in futuro la ricerca si preoccupi di capire quali siano gli aspetti critici più specifici per ottenere migliori risultati sulla cybercondria, anche integrando un assessment che incorpori moduli per la cybercondria e l’ansia da malattia.

Io, tu e gli altri: la gelosia nel poliamore

Nelle relazioni consensualmente non monogame (CNM) esiste un accordo aperto sul fatto che uno, entrambi o tutti gli individui coinvolti possano avere anche altri partner sessuali e/o romantici. C’è spazio per la gelosia nel poliamore?

 

Il termine poliamore viene utilizzato per descrivere una forma di non-monogamia etica o consensuale (Anapol, 1997; Easton & Liszt, 1997) che prevede la possibilità di avere contemporaneamente più di una relazione intima, sessuale o sentimentale (Haritaworn, Lin & Klesse, 2006) con il consenso di tutti i partner attuali e potenziali (Sheff, 2005; Borys, 2006). Da questa descrizione, in accordo con Anapol (2010), il poliamore appare come un orientamento relazionale per il fatto che designa una specifica modalità di costruire una relazione. Nelle relazioni consensualmente non monogame (CNM) esiste un accordo aperto sul fatto che uno, entrambi o tutti gli individui coinvolti in una relazione romantica possano avere anche altri partner sessuali e / o romantici. La ricerca sulla non monogamia consensuale è cresciuta di recente, ma ha appena iniziato a determinare in che modo possono variare le relazioni tra i partner in accordi consensualmente non monogami.

Sebbene il termine poliamore indichi il permesso di impegnarsi in relazioni sessuali o romantiche con più di un partner, la natura di queste relazioni e il modo in cui gli individui si avvicinano possono variare da una persona che si relaziona con più persone, ai membri di una coppia che si relazionano con un terzo, a due coppie in una relazione reciproca, a reti di persone coinvolte tra loro in varie configurazioni (Sheff, 2013; Pines & Aronson, 1981). Il poliamore comprende molti stili diversi di coinvolgimento intimo, tuttavia, la maggior parte degli individui identificati come poliamorosi riferisce di avere due partner (Wosick-Correa, 2010) e una delle configurazioni di relazioni poliamorose più comunemente discusse è caratterizzata da una distinzione tra relazioni primarie e secondarie (Veaux, 2016; Veaux, Hardy & Gill, 2014). In questa configurazione, esiste una relazione primaria tra due partner che in genere condividono una famiglia (vivono insieme) e le finanze, che sono sposati (se il matrimonio è desiderato) e/o che hanno o stanno crescendo figli (se i bambini sono desiderati) (Klesse, 2006). Una relazione secondaria è spesso costituita da partner che vivono in famiglie separate e non condividono le finanze (Klesse, 2006). In generale, ai partner secondari viene concesso relativamente meno tempo, energia e priorità nella vita di una persona rispetto ai partner primari. È importante sottolineare che non tutti i soggetti poliamorosi hanno relazioni primarie con altri partner secondari e alcuni rifiutano categoricamente le distinzioni gerarchiche implicate nelle relazioni primarie-secondarie (Sheff, 2013).

Una domanda comune che gli individui poliamorosi ricevono da coetanei monogami riguardo la loro identità e le loro relazioni è: “Non sei geloso?” (Deri, 2015). In risposta al concetto negativo della gelosia perpetuata dalla cultura monogama (Ritchie & Barker, 2006), le comunità poliamorose sviluppano risposte e insegnano ai loro membri come affrontare la gelosia all’interno delle loro relazioni (Wolfe, 2003). La comunità poliamorosa insegna strategie di gestione relazionale prosociale (Conley & Moors, 2014) e il modo in cui gli individui poliamorosi concettualizzano e comunicano la gelosia può anche rivelare metodi produttivi per gestire sentimenti di gelosia in contesti relazionali.

La gelosia è un’emozione, spesso ritenuta negativa, che un individuo prova quando percepisce che la propria relazione amorosa è minacciata da altri individui (VadenBos, 2007; D’Urso, 2013). La gelosia è un costrutto complesso che comprende molteplici vissuti emotivi, pensieri, valutazioni, manifestazioni psicologiche e comportamentali (Zammuner & Zorzi, 2012). La gelosia è un’emozione composta da più emozioni primarie come paura, tristezza e rabbia, ma è costituita anche da molti altri vissuti emotivi come vergogna, insicurezza, ansia per la perdita, umiliazione, odio per il rivale (Zammuner & Fischer, 1995). Una ricerca sulle emozioni primarie della gelosia afferma che la paura derivi dall’incertezza, la tristezza dalla perdita dei benefici della relazione e dalla diminuzione dell’autostima, mentre la rabbia sia causata principalmente dalla perdita del possesso e dalle eventuali bugie ed inganni (Mathes, Adams & Davies, 1985). I pensieri che accompagnano i vissuti della gelosia possono essere ruminazioni generate dal dubbio e dal sospetto oppure dall’autocommiserazione (D’Urso, 2013). Pfeiffer e Wong (1989) hanno suddiviso la gelosia in tre componenti: la gelosia cognitiva che si riferisce ai dubbi ed ai sospetti di una possibile infedeltà del partner; la gelosia emotiva che comprende sentimenti che suscitano le situazioni in cui il partner mette in atto comportamenti che potrebbero minacciare la relazione; la gelosia comportamentale che include le reazioni ad una possibile infedeltà del partner.

In un’interessante ricerca qualitativa, Rubinsky (2018) ha indagato le strategie che gli individui poliamorosi utilizzano nella gestione della gelosia. Le comunità poliamorose definiscono coerentemente la comunicazione aperta e onesta non solo come una pratica comune di base (Barker, 2005), ma la situano al centro dell’identità poliamorosa (Wosick-Correa, 2010). Un fenomeno comunicativo particolarmente rilevante per gli individui poliamorosi è la gelosia. La gelosia è importante da studiare perché l’esperienza emotiva e l’espressione comunicativa della gelosia romantica incidono sulla qualità relazionale. All’interno delle relazioni eterosessuali e gay e lesbiche monogame, la gelosia cognitiva ed emotiva sono associate negativamente alla qualità relazionale. Poiché le relazioni poliamorose enfatizzano la comunicazione (Barker, 2005), il modo in cui gli individui poliamorosi esprimono gelosia può influenzare positivamente o negativamente le loro relazioni. Nelle relazioni romantiche, la gelosia è una minaccia percepita all’esclusiva natura romantica della relazione (Bringle & Boebinger, 1990). Per gli individui poliamorosi, in cui la natura della loro relazione è spesso non esclusiva e l’altra terza parte può o meno costituire una minaccia, potrebbero essere necessarie ulteriori ricerche per comprendere la loro concettualizzazione della gelosia romantica. In particolare, per le persone poliamorose, potrebbe essere necessario contestualizzare il concetto della gelosia romantica attraverso la comprensione della compersione. La compersione, un termine che è emerso nella comunità poliamorosa per descrivere i sentimenti positivi a seguito della felicità di un partner derivata da un altro partner, può influire sul grado in cui gli individui poliamorosi provano la sensazione di ansia tipicamente associata alla gelosia (Wolfe, 2003). Gli individui poliamorosi sperimentano la gelosia in modalità che possono essere diverse dagli individui monogami e gestiscono sfide diverse nel concettualizzare e comunicare la gelosia ai loro partner. Aumer e colleghi (2014) sostengono che gli obiettivi relazionali possono essere importanti nel dare un senso ad emozioni come la gelosia che avranno un impatto positivo o negativo su una relazione. L’intimità e la fedeltà influiscono anche sul modo in cui gli individui comprendono la gelosia e possono operare in modo diverso nelle relazioni poliamorose.

Wosick-Correa (2010) sostiene che la fedeltà genuina, una certa forma di impegno tra le persone che si identificano come poliamorose, potrebbe caratterizzare il modo in cui gli individui poliamorosi esprimono bisogni e confini. Rispetto agli uomini e alle donne monoamorosi, gli individui poliamorosi sembrano mostrare livelli di intimità maggiori (Morrison, Beaulieu, Brockman & Beaglaoich, 2013).

In particolare, Conley and Moors (2014) affrontano il ruolo della comunicazione nel poliamore, la natura della negoziazione del soddisfacimento dei bisogni e l’aumento del capitale sociale. Il loro studio dimostra che le persone con più partner sessuali consensuali potrebbero anche aver bisogno di gestire in modo discorsivo l’esperienza emotiva della gelosia in modi che considerano costruttivi per le loro relazioni. La letteratura sulla gelosia, la compersione e l’intimità poliamorosa identifica la gelosia come un’esperienza emotiva potenzialmente carica di identità che può esistere in una tensione con l’ideale della compersione. La gelosia è quindi presentata come difficile e stimolante, ma gestibile (Deri, 2015), tuttavia è ancora da esplorare la modalità con la quale la comunità poliamorosa concettualizza la gelosia. L’obiettivo finale non deve essere quello di cambiare il comportamento del proprio partner, ma di sentirsi validati così da poter ottenere supporto nella sua gestione, attraverso una probabile rinegoziazione dei confini relazionali in base ai bisogni espressi. Infatti, la comunicazione al partner della propria gelosia correla positivamente con la soddisfazione relazionale anche nelle relazioni monogame (Guerrero et al., 1995).

 

Il mondo evaporato e l’isolamento sociale nel Covid-19. Una riflessione empatico-esperienziale ispirata a Dissipatio H.G.

L’isolamento sociale, la lontananza dalle proprie figure di attaccamento e la conseguente impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse dovute al lockdown antipandemico si potrebbero tradurre in una più marcata incapacità di elaborare gli eventi traumatici

 

E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo,
è  un  silenzio  che  non scorre.  Si  accumula
(Morselli, 2012, p.51)

Introduzione

Negli ultimi mesi, in riferimento al Covid-19, tanto nella letteratura specialistica, quanto in quella generale è stata posta molta attenzione sul trauma e sul periodo post- traumatico (ad es. Chen, Liang et al, 2020; Van Bavel, Baggio, Capraro et al, 2020; Li, Wang et al, 2020).

Eventi quale quelli sopracitati richiedono, da parte del clinico, una particolare formazione e una capacità empatica molto raffinata (Van Der Kolk, 2006). Tale articolo, a partire da una recensione di Dissipatio H.G. (Morselli, 2012), vorrebbe allora proporsi quale tecnica immaginativa guidata (Erickson, 1991; Dimaggio, 2019). L’assunto di fondo troverebbe base consolidata nel costrutto di introspezione vicariante avanzato da Kohut (2014). L’obiettivo dell’articolo sarà quello di porsi quale tecnica immaginativa guidata, a partire dal romanzo Dissipatio H.G. (2012), per evocare nel lettore spunti emotivi con cui sintonizzarsi in merito ai vissuti d’isolamento sociale connessi al lockdown antipandemico (Verdesca, 2018a).

Isolamento sociale, empatia e trauma

Negli ultimi mesi, in riferimento al Covid-19, tanto nella letteratura specialistica, quanto in quella generale è stata posta molta attenzione sul trauma e sul periodo post-traumatico (ad es. Chen, Liang et al, 2020; Van Bavel, Baggio, Capraro et al, 2020; Li, Wang et al, 2020). Da una breve disamina delle ultime evidenze scientifiche si evince come, a seguito di periodi pandemici, sia lecito aspettarsi il loro effetto di ritorno sulla psiche: il contraccolpo post-traumatico che, parafrasando Van Der Kolk (2006), i corpi accuserebbero o, nelle parole di Bromberg (2012), l’ombra dello tsunami.

I professionisti della salute mentale con i propri pazienti si ritroveranno presumibilmente a fronteggiare depressioni, lutti complicati, disturbi psicosomatici – data la natura preverbale e marcatamente asociale del trauma – e, più in generale, le manifestazioni sintomatiche riconducibili al PTSD.

In soggetti traumatizzati – in accordo con Panksepp (2004), Liotti (Liotti e Monticelli, 2008; Liotti e Migone, 2018;), Porges (2011), Le Doux (2004),– gli stati del corpo (Damasio, 2006) tendono ad assumere solitamente organizzazioni rettiliane e sottocorticali (attacco-fuga), a discapito, dunque, di sistemi motivazionali pro-sociali e interpersonali (ad es. attaccamento). Questi ultimi, infatti, in quanto inibiti, chiuderebbero alla dimensione intersoggettiva, precludendo la condivisione e l’elaborazione simbolica di accadimenti potenzialmente traumatici (Onnis, 2016).

Il razionale di tale supposizione muove dalle intuizioni – largamente dimostrate – dall’infant research, dalla teoria dell’attaccamento e dalla neurobiologia intersoggettiva (Beebe & Lachmann, 2013), secondo le quali, la costruzione della realtà sarebbe mediata, come già anticipato, da aspetti sociali e simbolici basati sulla condivisione intersoggettiva.

L’ipotesi di chi scrive, nel dettaglio, è che l’isolamento sociale, la lontananza dalle proprie figure di attaccamento e la conseguente impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse – caratteristiche, queste ultime, intrinseche al lockdown antipandemico – si traducano in una più marcata incapacità di elaborare gli eventi traumatici nei soggetti coinvolti.

L’organizzazione emergente venutasi a costituire nel lockdown da Covid-19, potrebbe leggersi anche come una sorta di sincronizzazione sistemica complessa basata su un gioco a somma zero (Watzlawick et al, 1971). La stessa, seppur parzialmente imposta, ha chiamato le persone coinvolte ad assumere un alto senso di responsabilità e solidarietà (senso di comunità), talvolta percependo – paradossalmente – un bonding prima d’ora impalpabile (Verdesca, 2018a, 2018b).

Tale solidarietà potrebbe, in maniera diametralmente opposta a quanto qui descritto, assumersi potenzialmente come esperienza emozionale collettiva (parafrasando ironicamente Alexander, 1980), portando anche verso traiettorie di crescita post-traumatica teorizzate da Seligman nel 2012 (tuttavia, esula dall’interesse dell’autore affrontare tali interessanti aspetti in questa sede).

L’isolamento sociale, la lontananza dalle figure di attaccamento e l’impossibilità di sintonizzarsi emotivamente con esse richiedono, da parte del clinico, tanto una particolare formazione quanto una capacità empatica molto raffinata (Van Der Kolk, 2006).

Tale articolo vorrebbe allora proporsi quale tecnica immaginativa guidata (Erickson, 1991; Dimaggio, 2019). L’assunto di fondo troverebbe base consolidata nel costrutto di introspezione vicariante esposto da Kohut (2014).

Introspezione vicariante significa che l’analista ascolta il paziente e cerca di ricordare proprie esperienze personali analoghe, o d’immaginarle, se non le trova nel repertorio dei propri ricordi. (Lorenzini, 2004, p.3).

Banalmente, tentare di calarsi nei panni dell’altro.

D’altro canto, la capacità di condividere, rispecchiare ed empatizzare con le emozioni altrui ha ritrovato riscontro tanto microscopicamente (ad es. neuroni specchio), quanto macroscopicamente (ad es. terapie basate sulla mentalizzazione). Non a caso, l’empatia stessa, è riconosciuta alla base dell’alleanza terapeutica, a sua volta fattore a-specifico ritenuto unanimemente efficace nelle psicoterapie (Gabbard, 2010; Gallese, Migone & Eagle, 2006).

Utilizzando come ambientazione di partenza il romanzo Dissipatio H.G. (Morselli, 2012) si tenterà di delineare, per mezzo del suo potenziale suggestivo, un esercizio esperenziale di introspezione vicariante (Verdesca, 2018a; 2018b).

L’obiettivo sarà quello di delineare ed evocare nel lettore un contesto viscerale tramite cui empatizzare e sintonizzarsi, più efficacemente, con quella popolazione di clienti traumatizzati da eventi struggenti che li hanno segnati; ad es. lavorando in prima linea in quarantena e/o imponendo una distanza siderale dai propri cari in ospedale e/o, nei casi peggiori, rendendo impossibile piangerne il lutto all’interno di una dimensione condivisa che funga da contenitore semiotico o da rito liminale, di passaggio – ad es. funerali (Van Gennep, 2019; Bruner, 2009).

Una costellazione emotiva caotica che, passando dalle forme post-traumatiche, a volte giunge all’attenzione clinica oramai in forma mutata (ad es. depressiva) in grado di rendere a prima vista invisibile il trauma che vi sottende.

È difficile e faticoso, soprattutto per chi non vi è passato attraverso – clinici compresi! – sintonizzarsi adeguatamente con queste frequenze cognitivo-emotive profonde e colme d’ombra, di vertigini e silenzio.

Per chi avesse voglia di comprendere meglio cosa si prova, affacciandosi nei moti e nei pensieri connessi a un isolamento sociale e interiore, allora si consiglia la lettura di Dissipatio H.G., un romanzo onirico-narrativo in cerca di regista, in grado di porsi come una triste testimonianza simbolica – in merito a quanto sopra è stato scritto – soprattutto alla luce della morte suicida che l’autore stesso scelse nel lontano luglio del ’73.

Un romanzo, che descrive l’oblio del contatto, il fallimento e il disuso dell’umana partecipazione, relegandone i protagonisti a singhiozzi interrotti nei quali, mentre lo spazio e il tempo regnano, l’Altro evapora.

Dissipatio H.G. di G. Morselli – Recensione vicariante

Karpinsky mi raccontava un episodio della corrispondenza Freud-Jung.
Jung scrisse a Freud, su semplice cartolina:
«Le propongo di sintetizzare la nostra esperienza di psicologi in quattro parole.
Di dentro e di fuori, l’uomo è l’abitudine».
Freud rispose: «D’accordo! – Io potrei aggiungere una notazione:
più sconvolgenti sono le stimolazioni,
più urgente, più vitale, è il bisogno di adattarsi.» ” (Morselli, 2012, p.23)

Il protagonista, il cui il nome non è dato sapere, narra in prima persona lo scontro dei suoi pensieri alla vista di una Crisopoli insolita e spettrale.

Il romanzo – che a tratti pare un saggio per alcune perle nichiliste che lo pervadono – si apre in medias res: un antieroe tenta e pianifica, previa attenta analisi dei pro e dei contro, il suicidio. Per farlo si allontana di notte dalla città, per l’appunto da Crisopoli, tuttavia, prima esita e poi desiste nel gesto, non togliendosi difatti più la vita.

Non ho agito. Sono stato agito dal senso organico, che è quanto dire: 85 chilogrammi di sostanza  vivente non ubbidivano. Consci, a modo loro, della sentenza secondo cui  morire è cambiare materia,  non erano disposti a cambiare materia. (ibidem, p.38)

Un senso organico fra sé e non-sé che, tempestivamente, porta lo stesso protagonista ad abbandonare la macabra idea suicida; causa deformazione professionale del presente scrittore, si potrebbe qui intravedere un riferimento alla modalità incarnata/embodied di elaborazione inconscia della mente (Gallese, Migone & Eagle, 2006; Salvatore, 2015).

Digressioni a parte, l’uomo, sulla strada del ritorno intravede nella città lontana dei fari d’auto puntati verso il cielo; pensando si possa trattare di un incidente, il protagonista, telefona in cerca di soccorsi. Tentativo vano, così, a seguito di mancata risposta si reca in centro.

Ecco.

Qui la bizzarra scoperta: la Dissipatio Humani Generis, ossia, la dissipazione del genere umano che pare essere, per l’appunto, evaporato – d’un tratto – lasciando la quotidianità completamente congelata, sacralmente intatta.

Me ne sono stato seduto alla macchina da scrivere un pomeriggio, senza toccarla. Il ticchettio dei tasti mi avrebbe sconvolto. O era come un superstizioso dovere, non rompere il silenzio. In cucina, per riscaldarmi il caffè, in punta di piedi. Fuori, sul selciato, la pioggia batteva sonoramente, ma io non  dovevo fare rumore. (Morselli, 2012, p.26)

La vita delle cose è in pausa. Pronta a riprendere o forse a restare. Destinata ad esistere. Il protagonista, girovagando, realizza progressivamente come sia rimasto solo, come durante la sua breve assenza sia successo qualcosa di inspiegabile al mondo intero. Nessuno – eccetto lui – escluso. Suddetto evento, pone il protagonista di fronte a un dubbio amletico: è stato l’unico incluso – cioè il condannato – a patire un destino spietato oppure, al contrario, l’unico privilegiato ad esserne escluso?

Io sopravvivo. Dunque sono stat prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me  interpretare, questo  sì. Concluderò che sono il  prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno  l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se  suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il  dannato. Con la curiosa  caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida. (Morselli, 2012, p.147)

Pare qui di scorgere quella sorta di senso di colpa del sopravvissuto (Weiss et al, 2014).

Gli oggetti, ciò che l’autore definisce relitti audiovisivi (G. Morselli, 2012, p.5), sono ciò che più s’incarnano d’umana presenza. Non sono la poesia o l’arte – secondo la penna di Morselli – che sopravvivranno all’uomo ma sono la natura, la terra coi suoi moti, gli oggetti e le voci registrate su nastro; i quali continueranno a popolare con gli animali gli echi di quel mondo desolato. Ciò che rende l’uomo eterno sono le relazioni che intreccia, le memorie che in esse – come sinapsi – stabilisce e/o che ripone nella fede-in (in senso lato). Il protagonista che prende vita dalla penna di Morselli, invece, pare privo di speranza, privo di qualcosa in cui credere, dimostrandosi dotato di un auto-referenzialità forclusa da qualsiasi progettualità. A questo punto, dunque, il suo metro di paragone diviene l’anima spicciola delle macchine che, curiosamente conservano, in tal senso, più umanità di lui.

Ciò che si ha la sensazione di leggere fra le righe di questo testo è il senso di frattura, di dis-integrazione – tipica dei traumi incondivisibili. Quello, che gli psicologi, definiscono come esordio del trauma: l’alterazione della regolarità. Ogni giorno si vivono milioni di esperienze diverse che, tuttavia, essendo più o meno prevedibili e coerenti nella loro media aritmetica, continuano a restare possibilità possibili. Tendenzialmente l’uomo generalizza i suoi modelli, dando giustamente per assodato che domani il sole continuerà a sorgere come previsto.

E’ ciò che devia da questi script, da queste credenze o da questi modelli co-costruiti sotto forma di aspettative, a porsi in definitiva come trauma (Fingert Chused, 2007; Beebe & Lachmann, 2013).

Le illusioni ci sono gradite poiché ci preservano dal dolore, permettendoci di provare piacere. Dobbiamo dunque accettare se delle volte vanno in pezzi scontrandosi contro un pezzo di realtà. (Freud, 1921, p.5)

Le regolarità cui si è fatto cenno infondono sicurezza, garanzia, eternità del qui ed ora.

E’ la loro alterazione che conduce alla perdita d’un desiderato senso d’agency. Quel beato controllo che, illusoriamente ed onnipotentemente, si crede di possedere sul corso degli eventi quotidiani:

Sto scoprendo  che  l’eterno,  per  me  che  lo  guardo  da  un’orbita  di  parcheggio, è  la  permanenza  del  provvisorio. (…)  Fuori,  la  natura  continua.  Con  le  sue  manifestazioni  solite:  la pioggia,  che  ora  si  sta  trasformando  in  nevischio,  e  la  strada  principia  a imbiancarsi. (Morselli, 2012, p.36)

Curioso come a tratti rientri il tema dell’intersoggettività, quando l’autore del romanzo scrive:

Io  sono  ormai l’Umanità,  io  sono  la  Società  (U  e  S  maiuscole).  Potrei,  senza  enfasi, parlare  in  terza  persona:  «  l’Uomo  ha  detto  così,  ha  fatto  così…  ».  A parte  che,  dal  2  giugno,  la  terza  persona  e  qualunque  altra  persona, esistenziale  o  grammaticale,  s’identificano  necessariamente  con  la  mia. Non  c’è  più  che  l’Io,  e  l’Io  non  è  più  che  il  mio.  Sono  io. (ibidem, p.51)

Esiste un motto popolare che recita “si nasce soli e si muore soli”, ciò, lascia pensare che nelle esperienze limitrofe alla morte, nel loro luttuoso distacco, emerga come le vite psichiche siano destinate incommensurabilmente ad essere separate dai confini-pelle, che, per definizione, seguiranno traiettorie temporali diverse. Per le soggettività umane non è mai possibile incontrarsi realmente nello spazio (alla stregua di due rette parallele) ma solo, talvolta, co-esistere e co-incidere in anfratti temporali circoscritti: essere-con. È in quegli incontri, in quei momenti presenti (Beebe & Lachmann, 2013) che gli individui sperimentano il ritmo vitale (Stern, 2011; Verdesca, 2018c), l’apparente regolarità di essere realmente insieme con-l’Altro (Beebe & Lachmann, 2013). Tornando al punto: l’autore, secondo il parer di chi scrive, svela come l’intero romanzo si svolga presso sé stesso, senza capacità di fuga dalla propria interiorità psichica.

Il mondo delineato in Dissipatio H.G. potrebbe essere il mondo interno del protagonista.

Un personaggio, dunque, destinato a riferirsi costantemente al proprio io, privato della possibilità di diffondersi e difendersi psichicamente e a cui, in assenza di una Alterità, risulta inaccessibile proiettare, sublimare, negare, ecc. – termini cari all’autore che lascia trasparire una certa confidenza con il linguaggio psicoanalitico a lui contemporaneo (Gabbard, 2010; Verdesca, 2018a; Verdesca, 2018b).

Eppure  il  silenzio  gravava  e  io  lo  registravo  con  un  senso  diverso  da  quello  uditivo,  forse  emozionale,  forse  riflesso  e  ragionante. Ciò  che  fa’  il  silenzio  e  il  suo  contrario,  in  ultima  analisi  è  la  presenza umana,  gradita  o  sgradita;  e  la  sua  mancanza.  Nulla  le  sostituisce,  in questo  loro  effetto. E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo,  è  un  silenzio  che  non scorre.  Si  accumula. (Morselli, 2012; p.51)

E’ qui, secondo chi scrive, che il silenzio a cui Morselli si riferisce viene vissuto come apocalisse emozionale: l’impossibilità di essere pensiero d’un pensatore, e ancora, l’impossibilità di mancare a qualcuno Altro, a un mondo o a un qualsivoglia contesto posto lì: al di fuori da sé. Nei pensieri depressivi – per utilizzare un ossimoro – è questa, di pari passo al tema dell’incomunicabilità, l’assenza maggiormente presente: un senso di costante incomprensibilità reciproca.

Parliamo  pure  di  dinamismo  vitale  dell’individuo,  di  molteplicità virtualmente  infinita  di  relazioni,  o  di  esperienze.  Ma  rendiamoci  conto che  è  retorica.  Ognuno  è  vincolato  a  un  suo  minuscolo  frammento  di realtà,  e,  di  fatto,  non  ne  esce.  La  retorica  opposta,  quella  della incomunicabilità,  solo  in  questo  senso  si  giustifica.  Non  soltanto  l’agire ma  anche  l’apprendere,  il  sentire,  sono  funzioni  per  cui  ci  aggiriamo  in tondo.  E,  lei  noti,  siamo  individui,  manteniamo  una  coerenza  e  una stabilità  (anche  organica),  proprio  in  grazie  di  questo.  Intorno  c’è  il possibile,  che  non  diventa  quasi  mai  reale  (per  noi),  e  a  quella immensità  siamo  chiusi  e  remoti:  per  fortuna  nostra,  poiché  altrimenti ci  disperderemmo.  Determinazione è  negazione,  il  nostro  status d’individui  richiede  questi  stretti  confini,  noi  siamo  fatti  di  esclusioni,  di occlusioni.  Ma questo  fa  sì  che  alla  vita,  perlomeno  la  nostra,  ciò  che chiamiamo  il  suo  contrario  le  assomigli  molto. (Morselli, 2012, p.133 )

Conclusioni

Il finale di questa opera colpisce profondamente:

Rivoli  d’acqua  piovana  (saranno  guasti  gli  scoli nella  parte  alta  della  città)  confluiscono  nel  viale,  e  hanno  steso sull’asfalto,  giorno  dopo  giorno,  uno  strato  leggero  di  terriccio.  Poco più di un  velo,  eppure  qualche  cosa  verdeggia  e  cresce,  e  non  la  solita erbetta  municipale;  sono  piantine  selvatiche. (ibidem, p.152)

E’ un caso che finisca così Dissipatio H. G.? Non è dato sapere neanche questo, tuttavia, a parer di chi si è accinto a recensire quest’opera proponendola come spunto introspettivo, si potrebbe scorgere nella conclusione dell’opera uno spiraglio di speranza: la vita che, tuttavia, continua a imporsi sulla morte. La natura che si riappropria, con eleganza e pazienza, dei propri spazi, conferendo al romanzo un’aria un po’ più fresca e colorata; la rinascita delle emozioni asfaltate o, in gergo specialistico, la crescita post-traumatica (Seligman, 2012).

Un romanzo consigliato ai clinici e non, un testo che insegna a empatizzare e fare i conti con l’assenza più presente, con l’ombra dei traumi concreti. Un omaggio dovuto a uno scrittore, Morselli, che aveva tanta esigenza d’esprimere nel mondo la propria soggettività. Una possibilità, attuale, di permetterglielo a posteriori tramite un piccolo esercizio di introspezione vicariante.

 

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere – Recensione

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere intende offrire al lettore una sintesi del lavoro di studio e di ricerca che la professoressa Daniela Lucangeli svolge da anni, nell’ambito dei meccanismi di apprendimento in età evolutiva.

 

L’autrice, tra i suoi numerosi incarichi (professore ordinario in Psicologia dello sviluppo e prorettore dell’Università di Padova), è anche presidente dell’Associazione per il Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati (CNIS). Tale Associazione opera, a livello nazionale, con lo scopo di favorire la diffusione di informazioni, conoscenze scientifiche e tecniche nel settore della psicologia dell’apprendimento e della psicopedagogia nelle situazioni di handicap.

Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere rappresenta un primo tentativo di sintesi del lavoro di divulgazione scientifica che la professoressa Lucangeli svolge nell’ambito di numerosi convegni. Le lezioni, trascritte con un linguaggio accessibile a tutti, sono rivolte a insegnanti e operatori che lavorano in ambito scolastico, ma anche a genitori e studenti che intendono approfondire il vasto argomento dei processi cognitivi ed emotivi che accompagnano l’apprendimento.

Lezione 1: la scuola dell’abbraccio

Questa lezione si focalizza sull’ampia gamma di emozioni che accompagnano l’apprendimento. Partendo dal presupposto teorico che “nel nostro cervello nessuna funzione è silente a tutte le altre”, si spiegano i fondamenti della warm cognition, un nuovo filone di ricerca scientifica che si è focalizzato proprio sullo studio fra cognizioni ed emozioni e le sue ripercussioni, in termini pratici ed operativi, per la didattica. Le emozioni sono così spiegate come flussi di corrente neuroelettrica che lasciano una traccia indelebile nelle nostre memorie. Per questo motivo è necessario che ogni insegnante conosca bene le emozioni che “transitano” nell’apprendimento: “ci si può occupare di apprendimento se, e solo se, si comprende la potenza della sincronicità fra le informazioni e le memorie emozionali”.

Lezione 2: sbagliando si impara

Essere alleati degli studenti “contro” gli errori: in questo modo l’errore diventa una chiave di lettura del percorso cognitivo ed emotivo di ogni singolo studente, perché ci aiuta a capire dove ha incontrato difficoltà nel suo percorso di apprendimento. L’insegnante, in questo senso, dovrebbe passare “dal ruolo di giudice a quello di alleato”.

Le evidenze scientifiche confermano la teoria secondo la quale l’esperienza interviene direttamente sul nostro cervello: l’apprendimento “scolpisce” le strutture neurali, creando continuamente nuove connessioni. Se pensiamo che bastino pochi millesimi di secondo per tracciare le nostre memorie, la scuola ha un enorme potere, in termini di tempo, sull’insieme delle reti neurali che può modificare.

La professoressa Lucangeli invita, pertanto, tutti gli insegnanti a diventare consapevoli della loro funzione di facilitatori: non maestri che ingozzano di nozioni e giudicano gli studenti, ma alleati degli allievi, che cercano, insieme a loro, di capire il perché degli errori e come si possono risolvere.

Lezione 3: verso il successo scolastico

Le emozioni che accompagnano il successo scolastico, come “l’intuizione, la creatività nella soluzione dei problemi e una disposizione ottimistica verso l’impegno che si deve affrontare” dovrebbero essere sostenute, con l’obiettivo di promuovere il benessere scolastico di tutti.

Come sostenere queste emozioni positive? In questa lezione vengono sottolineate alcune posizioni pedagogiche, che trovano un ampio consenso all’interno della letteratura scientifica di riferimento, come: promuovere la percezione di autoefficacia dello studente, ovvero la capacità di sentirsi in grado di far bene; aiutare lo studente a sperimentare il successo, soprattutto nelle prime fasi dell’apprendimento, “momento in cui i pensieri su di sé sono in fase di costruzione”; offrire dei modelli positivi e incoraggiare. L’autrice, anche in questa lezione, sottolinea l’importanza dell’errore come strumento educativo, quando cioè permette allo studente di attribuire l’insuccesso a strategie di apprendimento inadeguate e non ad una sua assenza di abilità.

Lezione 4: stare male a scuola

In questa lezione sono riportati i dati di un’indagine condotta in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, in cui si rileva che il 73% degli studenti intervistati dichiara di stare male a scuola. Tra le motivazioni, emerge che il carico di lavoro è vissuto come particolarmente inadeguato: “I nostri ragazzi vengono ingozzati di prestazioni. Intendo dire che ai ragazzi viene chiesto di memorizzare procedure e regole in grande quantità, anziché di fare proprie delle conoscenze, che servano loro per sviluppare delle competenze utili per il futuro”. Inoltre gli studenti hanno dichiarato di vivere a scuola uno stato di “continuo alert fatto di ansia, senso di colpa e noia”.

Oltre agli studenti, anche gli insegnanti, caricati di responsabilità, che non vengono valutate come pertinenti alla loro professione, dichiarano di stare male a scuola, perché poco gratificati e non riconosciuti come figure di riferimento del mondo scolastico.

Di fronte a questo malessere diffuso, è importante promuovere la possibilità di stare bene fin dai primi anni di scolarizzazione.

Lezione 5: tutti bravi con i numeri

L’ultima lezione riguarda uno degli ambiti di specializzazione dell’autrice: l’intelligenza numerica. Partendo dal presupposto scientifico che “la forma più antica di intelligenza che noi possediamo, la prima che compare, è proprio l’intelligenza numerica di quantità”, Daniela Lucangeli offre preziose indicazioni per tutti coloro che intendano promuovere l’intelligenza, fin dai primi anni di vita. Il potenziamento delle funzioni di cui il nostro cervello dispone, per apprendere i meccanismi di base del calcolo, dovrebbe essere svolto in modo corretto e costante nei primi sei anni di vita, quindi prima della formale istruzione della matematica.

É importante che genitori e docenti sappiano riconoscere “le abilità che sostengono la capacità di lavorare con i numeri, di eseguire i calcoli e di tutto ciò che concerne l’aritmetica, in modo da sostenere, fin da subito, lo sviluppo e di accompagnare la maturazione funzionale di questa forma dell’intelligere”.

 

Mindcooking: mente e corpo in comunicazione attraverso la scoperta dei sapori

Ricordi, immagini, sensazioni, pensieri ed emozioni, tutta questa sensorialità, a partire per esempio da un semplice stimolo olfattivo, è in grado di evocare un soggettivo stato di benessere e di raccontare tanto di noi e della nostra storia personale. Ma è possibile rendere questo processo, spontaneo e naturale, un qualcosa di ripetibile?

 

Immaginiamo di camminare per le strade piovose della nostra città. La giornata è grigia come ormai le precedenti dell’ultima settimana. Il nostro umore non è dei migliori dopo aver dedicato una fetta importante della nostra mattinata libera a trovare un parcheggio in centro per andare a sbrigare una pratica in comune. Stiamo consapevolmente o inconsapevolmente ruminando sul traffico affrontato, sulla prepotenza degli altri guidatori, sul perché non sia possibile ancora al giorno d’oggi sbrigare pratiche burocratiche così banali on-line. “Ecco, ma dimmi tu se è questo il modo di tenere una strada!”. Giriamo in un vicolo cercando di recuperare minuti, così forse riusciremo ad arrivare giusto in tempo per prendere i bambini da scuola. “Cavolo ma è oggi che devo accompagnarli a nuoto?”

Qualcosa però irrompe in questo flusso negativo. È familiare, diretto, intenso, ma soprattutto buono. Dal retro di un panificio che stiamo affiancando si affaccia il profumo del pane appena sfornato. Nella nostra mente vi sono due possibili strade da percorrere. Nella prima un’immagine ci trasforma il pensiero, le emozioni. Tutto è un po’ meno grigio. Per qualche secondo il nostro stato mentale è mutato. Possiamo esserne consapevoli o inconsapevoli, ma è innegabile che qualcosa in noi stia accadendo. Nella seconda strada, ci perdiamo il momento e torniamo dopo poche pozzanghere progressivamente alla grigia mattinata pronti per rimbalzare tra gli sportelli del comune. Se la nostra mente riesce a trattenere quel momento, allora qualcosa continua a modificarsi. I nostri passi potrebbero cambiare ritmo. L’attenzione si focalizzerebbe immediatamente sul presente e mentre solleviamo il naso il nostro respiro si fa più profondo assecondando il bisogno di restare il più possibile su quel profumo. Ognuno di noi immerso in una simile esperienza avrà uno stato mentale interno del tutto soggettivo, un’esperienza che Marcel Proust descrive cosi:

…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio. (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)

Ricordi, immagini, sensazioni, pensieri ed emozioni, tutta questa sensorialità si sprigiona nella nostra corteccia secondaria sensoriale (Sacco , Sacchetti , 2010) evocando un soggettivo stato di benessere che è in grado di raccontare tanto di noi e della nostra storia personale. Una porta di accesso ai nostri stati interni è aperta, la chiave? Un modesto stimolo olfattivo.

Le domande sono semplici ed essenziali: cosa è possibile fare per rendere questo processo, spontaneo e naturale, un qualcosa di ripetibile? Come possiamo richiamarlo in un momento di necessità? Essere più consapevoli di questo fenomeno ci permetterebbe di imparare qualcosa di più su noi stessi?

Da queste domande scaturiscono riflessioni condivise tra colleghi, uniti probabilmente anche dalla passione per il cibo, abbiamo iniziato a sviluppare un’idea: il Mindcooking. La psicoterapia offre un repertorio di strumenti e domande generoso. Lo sdoganamento di queste da un contesto puramente clinico ci ha permesso di mettere a punto una procedura in grado di creare un’esperienza sensoriale interattiva con il cibo alla quale chiunque può partecipare.

Il nostro tentativo è stato quello di cercare di creare una situazione esperienziale dove fosse possibile provare a incrementare la nostra consapevolezza attraverso il cibo. Creare una procedura che sia ri-evocabile, intensa e profonda utilizzando delle semplici tecniche. L’obiettivo è di creare un arricchimento alla propria esperienza interna dove i partecipanti possano scoprire come agiscono le proprie memorie e come gli stati sensoriali vissuti siano collegati ad esse, considerando tanto gli aspetti piacevoli e positivi quanto quelli negativi che ne possono scaturire.

Il passaggio iniziale attraverso il quale può essere avviato un simile processo è fondamentalmente uno: la consapevolezza.

Quando diciamo di essere presenti e consapevoli nel qui e ora in pratica stiamo descrivendo uno stato di mindfulness. Tutti siamo potenzialmente in grado di transitare in uno stato simile, può avvenire più volte durante il giorno, ma portare la nostra mente con intenzione e farla restare sulla consapevolezza è ben altra cosa. Essere presenti con un’attenzione consapevole su ciò che accade in noi, nella nostra mente e nel nostro corpo e fuori di noi, nell’ambiente che ci circonda è una conquista che si ottiene e che migliora con la pratica.

Nella clinica la pratica della mindfulness è sempre più diffusa. Nel corso degli anni sono stati improntati diversi protocolli di applicazione che hanno sfruttato le potenzialità della mindfulness su problematiche cliniche (Kabat-Zinn, Lipworth, Burney, 1985) e su problematiche specifiche legate ai disturbi alimentari (Epstein, 1995; Ray,1981), (Kristeller & Hallett, 1999). Da quest’ultime si sviluppa il panorama del Mindful Eating. Diversi sono gli studi di efficacia (Mason, Epel, Kristeller, et al., 2016; Mason, Jhaveri, Cohn, Brewer, Testing, 2018). Uno degli scopi principali è quello di arrivare a ottenere una consapevolezza non giudicante delle sensazioni fisiche ed emotive associate al mangiare. Da qui la nostra scelta di estrapolare da tali programmi alcune tecniche da inserire nella costruzione della nostra esperienza Mindcooking.

Le nostre idee si ispirano alla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013; 2019) e hanno il fine di guidare gradualmente il soggetto a esplorare il suo mondo interiore e prendere sempre maggiore consapevolezza di se stesso, in particolare di alcuni nessi tra stimoli sensoriali (che provengono dal cibo), cognizioni e affetti. Nel Mindcooking non abbiamo la pretesa di portare i partecipanti a livelli alti di metacognizione, ma utilizziamo alcune tecniche al fine di rendere alcune ore di esperienza con il cibo più intense e incrementare la consapevolezza del proprio mondo interiore.

Mindcooking può essere un momento in cui aumentare il contatto con i nostri stati positivi, andando a nutrire la nostra percezione positiva di noi. Allo stesso modo però è possibile anche che in tale esperienza si elicitino anche degli stati mentali negativi; in tal caso nell’esperienza è previsto un breve intervento dove è possibile comprendere come gestire simili sensazioni.

A  tal proposito ciò che tentiamo di fare nella prima ipotesi, attraverso una consapevolezza mindful, è cercare di tenere la nostra mente sul presente provando a individuare o rievocare sensazioni positive, allo scopo di alimentare quella che definiamo la nostra parte sana. Diversamente, in caso di attivazione di sensazioni negative o spiacevoli proveremo a guidare il soggetto all’accettazione di tali sensazioni al fine di provare a comprendere poi come “lasciarle andare”.

Questo rappresenta un modo per prendere distanza da eventuali stati negativi presenti in noi che ci dicono “No questo non puoi averlo” oppure “Questo piacere non puoi provarlo” cercando di tornare a nutrire invece il “Mi piace!” o “Questo mi dà benessere”.

Mindcooking è un’esperienza in cui è possibile tentare un piccolo arricchimento della propria consapevolezza anche provando a rievocare sensazioni legate al cibo nel nostro passato. Naturalmente non si tratta di quel tipo di consapevolezza ricca e capace di portare a un cambiamento strutturale, quella resta tipica della psicoterapia. Col Mindcooking vogliamo aumentare la conoscenza di sé e la scoperta della capacità di potere agire sui propri stati mentali.

L’obiettivo è quello di creare di questo processo una traccia un po’ più chiara e marcata di se stessi, al fine di portarsela a casa e conservarla per poi utilizzarla come strumento consapevole e pratico ogni qualvolta si desideri evocare uno stato positivo e di benessere oppure quel pizzico di consapevolezza in più sull’ipotesi che una sensazione negativa può anche dissiparsi se impariamo a non nutrirla.

L’esperienza Mindcooking può essenzialmente essere svolta in due modalità: “mani in pasta” o “degustazione”. Gli elementi comuni a entrambe sono che: uno chef prepara le diverse portate, i partecipanti prima le degustano e poi segue un momento di riflessione condivisa. Il cibo e l’individuo sono interconnessi attraverso l’integrazione delle esperienze sensoriali. La differenza tra le due situazioni è che in “mani in pasta” vi sono anche delle postazioni per cucinare seguendo lo chef, mettendosi così in prima linea nella preparazione di ciò che si andrà poi a mangiare. La scelta della modalità dipende molto dalla disponibilità dello Chef e della sala, poiché non sempre si hanno 12 postazioni singole disponibili e attrezzate con utensili e ingredienti necessari, stile Masterchef per così dire. Sicuramente la modalità “degustazione” è più semplice e fruibile.

Nella pratica, l’esperienza Mindcooking consta di quattro portate: antipasto, primo piatto, secondo piatto, dolce. Lo chef terrà in considerazione il fatto che i cinque sensi debbano essere coinvolti in ognuna delle quattro portate; ad esempio, nella degustazione dell’antipasto si potrà portare maggiore attenzione a ciò che la vista ci suggerisce e alle percezioni che ci suscita in termini di emozioni, sensazioni, immagini e pensieri. Dopo l’attenzione alla vista, l’assaggio si concentra sul gusto, e questo porterà a cercare eventuali differenze percettive.

La stessa esperienza potrà essere fatta con l’olfatto, i partecipanti annuseranno la pietanza tenendo gli occhi chiusi. Successivamente si passa all’esplorazione aprendo gli occhi e assaggiando (olfatto integrato al gusto). L’olfatto è un senso particolarmente importante nell’esperienza Mindcooking perché le aree cerebrali dedicate al processamento delle informazioni olfattive hanno connessioni con le aree dedicate alle emozioni e alla memoria autobiografica (Gottfried et al. 2004). In queste situazioni l’esperienza Mindcooking aiuta a rimanere sul presente connettendosi con tutte le sensazioni ed emozioni elicitate dal ricordo, se positivo, potenziandole attraverso l’integrazione dei vari sensi; si crea così un circolo virtuoso in cui gli elementi sensoriali evocano emozioni e immagini e a loro volta queste elicitano un ricordo che arricchisce l’esperienza di nuove immagini, emozioni e sensazioni. Mente e corpo iniziano a comunicare consapevolmente tra loro.

Il partecipante può quindi raggiungere la consapevolezza che l’integrazione di più sensi apre la mente e il corpo ad un’esperienza, soprattutto emotiva, più allargata. Quello che affiora confrontando le immagini, idee, emozioni, emerse esplorando coi cinque sensi, sarà poi condiviso nel momento di discussione successivo.

E’ possibile che, nel corso dell’esperienza, i partecipanti entrino in contatto principalmente con due tipologie di immagini mentali: a contenuto positivo e a contenuto negativo.

Quando l’immagine che emerge è positiva i conduttori invitano il partecipante a soffermarsi su di essa e ad integrare le sensazioni ed emozioni sperimentate, facendole proprie e registrandole, mettendo in comunicazione la parte sensoriale, emotiva e cognitiva.

Qualora l’immagine elicitata fosse a contenuto negativo, con emozioni e sensazioni spiacevoli, è importante lavorare verso la focalizzazione sul presente (Garland et al. 2015; 2016). L’immagine negativa e le emozioni connesse vengono notate, ma si invitano i partecipanti a lasciare andare queste attivazioni negative senza critiche né giudizi, invitandoli invece a esplorare in modo curioso ciò che hanno di fronte. I conduttori per esempio li possono invitare ad aprire gli occhi e assaggiare la pietanza concentrandosi sulle diversità dei sapori, delle consistenze, degli odori. L’esplorazione curiosa e non giudicante sul presente, soprattutto partendo da un’immagine a contenuto negativo, offre la possibilità di regolare le emozioni negative, di integrare mente e corpo finché il partecipante non scopre che può sì sperimentare sensazioni spiacevoli, ma padroneggiarle nel qui ed ora attraverso l’esercizio mindful abbinato al cibo. Di solito a questo punto, l’immagine e le sensazioni precedenti diventano più sbiadite per lasciare spazio all’integrazione sensoriale, dando vita alla consapevolezza di gestire le emozioni spiacevoli.

Nella riflessione condivisa successiva si rende esplicito tutto il percorso a partire dall’emersione di un’emozione negativa. L’obiettivo, riassumiamo, è di rendere consapevole l’individuo della possibile gestione di stati negativi/dolorosi attraverso la focalizzazione sul presente e soprattutto attraverso l’integrazione di diverse vie di percezione sensoriale, attivando allo stesso tempo una curiosa esplorazione del presente.

Quando invece l’esperienza evocata è positiva, il lavoro mira a permettere alla persona di goderne appieno, amplificando la connessione mente/corpo e integrando le diverse informazioni provenienti dai 5 sensi per imparare a soffermarsi sulle percezioni a contatto con la realtà immediata della portata assaggiata .

Nel complesso, questa esplorazione curiosa e consapevole attraverso il cibo è uno strumento in più che aiuta l’individuo in due modi: a capire che sensazioni, immagini o ricordi negativi, possono essere lasciati andar via, focalizzandosi sul qui ed ora della percezione in un’esplorazione curiosa integrando le informazioni provenienti dai 5 sensi per essere consapevoli di poter agire recuperando uno stato di benessere e soprattutto essere capaci a farlo.

Allo stesso tempo Mindcooking può insegnare a potenziare eventi piacevoli e a recuperarli quando occorre. Alcuni hanno proposto tecniche comportamentali e di allocazione dell’attenzione per favorire il persistere di stati positivi: il cosiddetto “savoring”, “assaporare” consiste nel soffermarsi su stati positivi di esperienze passate, presenti e immaginate nel futuro (Bryant, 2003-2007). Molte ricerche confermano che gli affetti positivi hanno un ruolo attivo sullo stato di benessere dell’individuo (Langston, 1994). Quindi, padroneggiare una strategia di recupero di uno stato positivo aumenta la motivazione e ha effetti positivi sul comportamento in relazione a una maggiore percezione di soddisfazione nella propria vita (Smith & Bryant, 2016; Smith & Hollinger-Smith, 2015), maggiore percezione di buona salute (Geiger, Morey, & Segerstrom, 2017), benessere generale e felicità (Smith & Hollinger-Smith, 2015), bassa percezione di depressione e stati emotivi negativi (Garland et al., 2017; Hou et al., 2017; Smith & Hollinger-Smith, 2015). Si delinea quindi un percorso di cambiamento consapevole dell’individuo che parte dalla promozione di stati positivi e dal mantenerli nella coscienza. “Assaporare” permette agli individui di massimizzare il piacere e la soddisfazione creando dei pensieri ripetitivi adattivi (Segerstrom et al., 2010). Possiamo evocarli attraverso un lavoro sul corpo, di spostamento dell’attenzione oppure adottando specifici comportamenti, come ad esempio l’esperienza Mindcooking. I processi cognitivi e motivazionali beneficiano dello stato positivo che l’individuo ha contattato e diventa più semplice farlo accedere a ulteriori riflessioni positive, affrontare compiti con più motivazione e pianificare attività benefiche a lungo termine. Sarà anche più semplice favorire un punto di vista sovraordinato, più distaccato da cui osservare le parti di sé sofferenti (Dimaggio et al., 2013; 2019).

Raccontiamo un’esperienza di Mindcooking, realizzata grazie a uno Chef che ha avuto voglia di sperimentare e mettersi in gioco in modo creativo, partecipando attivamente anche alle discussioni sulle portate.

In questa occasione, caso ha voluto che Lorenzo, lo Chef esploratore curioso, fosse uno dei due proprietari dello splendido bistrot dove avremmo svolto l’esperienza Mindcooking. L’altro proprietario, Riccardo, si è occupato della gestione in sala per tutta la durata dell’evento. L’evento è stato del tipo degustazione.

Il menù è stato scelto dallo Chef a seguito di un briefing con i due terapeuti che hanno poi condotto l’esperienza: quattro portate  bilanciate in tutte le loro parti per permettere un’esplorazione sensoriale completa. Il briefing sostanzialmente ha avuto l’obiettivo di comunicare allo Chef, per ogni portata, i sensi che andavano maggiormente stimolati e, in base a queste istruzioni lui ha preparato i piatti. A quel punto i due conduttori hanno costruito degli esercizi mirati insieme ai commensali per poi ritrovarsi tutti nella fase di discussione alla fine della portata.

Il menù scelto appositamente da Chef Lorenzo è stato questo:

  • Antipasto: “Ingannevole alla vista”. Cannolo ripieno di gamberi su crema di topinambur.
  • Primo piatto: “Gioco di consistenze”. Gnocchetto di farro, tartara di baccalà, carciofi in crema di chips.
  • Secondo piatto: “Gusto e Olfatto”. Manzo al fumo di faggio, nido di cicoria e tuorlo fondente.
  • Dolce: “Dolce e salato”. Salame di cioccolato con mousse al mango e terra di cacao.

L’atmosfera del bistrot è calda e familiare. Oggetti vintage come il telefono della nonna e lampade di rame decorano il locale. Un grande tavolo per 12 persone è pronto per i partecipanti all’evento in un angolo dedicato vicino al grande bancone di legno dove Riccardo ci attende. Dopo che tutti abbiamo preso posto l’esperienza Mindcooking può iniziare.

Una breve introduzione con le istruzioni da seguire durante la degustazione esperienziale, così come descritto in precedenza, e un successivo momento per prendere contatto con il proprio corpo e la propria sensorialità, lasciano il posto alla prima portata: l’antipasto.

Durante la degustazione dell’antipasto la focalizzazione sensoriale è sulla vista cercando di osservare emozioni, pensieri ed immagini che il piatto suscita. Successivamente lo Chef Lorenzo presenta il piatto e dopo l’assaggio (gusto) si osservano nuovamente emozioni, sensazioni, pensieri ed immagini. I partecipanti prendono tutti nota delle variazioni per poi discuterne insieme. Emergono emozioni e immagini diverse. “Ho provato colpa perché ho immaginato che il cannolo fosse una pelle di porchetta arrotolata, ma quando l’ho assaggiato la colpa ha lasciato spazio alla sorpresa per poi assaporare con piacevolezza…”, “Sorpresa perché avevo immaginato fosse dolce, ma dopo l’assaggio la mia percezione è cambiata…”.

Il primo piatto viene servito mentre lo Chef presenta la portata e ci focalizziamo tutti, al primo impatto, sull’esplorazione tattile e uditiva della pietanza. Solitamente l’attenzione consapevole al tatto e all’udito, mentre si degusta un piatto, non è assolutamente automatica: è importante allenare questi due sensi alle percezioni che ci rimandano. Successivamente osserviamo le differenze tra esperienza visiva, in termini di emozioni, sensazioni, pensieri e immagini suscitate, ed esperienza gustativa. Anche qui i partecipanti prendono nota delle differenze, di ciò che notano e ne discutiamo insieme. Le prime impressioni che emergono sono legate all’esplorazione curiosa: “ho giocato con i miei sensi e ho scoperto che assaggiando poi il piatto tutto quello che avevo precedentemente esplorato, l’ho messo insieme e sentivo tutti i sensi collegati, ma nello stesso momento distinguevo le singole percezioni. I sapori poi li riconoscevo separatamente, ma anche insieme, funzionava tutto…”.

È il momento di chiudere gli occhi per lasciare entrare in sala il secondo piatto. Viene servito a i partecipanti che rimangono ad occhi chiusi. Quando l’affumicatura al fumo di faggio viene liberata, prendono vita immagini, emozioni, sensazioni e pensieri con un’immediatezza fulminea. Il senso dell’olfatto rimanda istantaneamente a vissuti emotivi, a volte dolorosi. Si procede allora con un momento di mindfulness dove ci si concentra tutti sul qui ed ora dell’esperienza, si prende consapevolezza dei punti di contatto del nostro corpo con il tavolo, il pavimento, la sedia, accettiamo con benevolenza le sensazioni e le emozioni che ci pervadono, stendiamo loro un tappeto rosso per lasciarle dimorare nella nostra locanda, stringiamo i pugni per aumentare l’agency e l’autoefficacia percepita. Successivamente si aprono gli occhi per svolgere l’esperienza olfattiva ad occhi aperti e, dopo la presentazione dello Chef, procedere all’assaggio, annotando le differenze percettive e cosa l’esperienza ha suscitato in noi, per poi discuterne insieme.“E’ stato immediato il collegamento con un’immagine della mia infanzia molto nitida, piacevole nel passato, dolorosa nel presente, nel ricordarla ho sentito tristezza. L’esercizio di mindfulness con ancora presenti tutti quegli odori, mi ha invece riportato alla piacevolezza di quel vissuto, ho sentito di nuovo quel ricordo come tale ma piacevole, l’assaggio poi ha confermato tutto questo, mi è rimasta una sensazione di nostalgia, ma ho recuperato insieme anche il piacere di quei momenti…”.

L’esperienza Mindcooking si conclude con il dolce, grande atteso della serata. Dopo una breve premessa sulla focalizzazione della nostra attenzione sui contrasti, lo Chef Lorenzo presenta il piatto e possiamo passare all’assaggio. I contrasti dominano la portata e l’attenzione viene posta sulla risonanza che i contrasti di sapore, dolce e salato, ci danno: fisica o emotiva? Entrambe? La discussione sarà animata. Emerge, come per l’antipasto, molto stupore e la conferma che le percezioni cambiano aggiungendo all’esperienza una focalizzazione sensoriale più ampia: “sembrava il classico salame di cioccolato, invece la parte salata, la consistenza del biscotto che era rimasto croccante, l’amaro del cacao e il dolce della mousse al mango, mi hanno stupito, le sentivo tutte insieme, ma distinte, mi sono immaginato steso sotto una palma in una spiaggia tropicale…”.

In conclusione, nelle diverse discussioni emergono svariate emozioni collegate sempre a immagini chiare e nitide. I partecipanti hanno preso consapevolezza di avere la tendenza a ricercare attivamente la conferma alle proprie percezioni iniziali, cambiata dopo l’introduzione di altri canali percettivi. Questi esercizi esplorativi consapevoli aiutano a cambiare il nostro iniziale punto di vista, a non rimanere affezionati ai propri pregiudizi e a comprendere come ciò che pensiamo, ad un primo impatto, della realtà non sempre vi corrisponde dopo un’analisi consapevolmente esplorativa ed integrata. Questo è ciò che in Terapia Metacognitiva Interpersonale chiamiamo differenziazione (Dimaggio et al., 2013; 2019) e attraverso il corpo possiamo allenare la nostra mente ad essere più attenta e flessibile.

Il risultato di queste riflessioni può essere sintetizzato da una frase, condivisa da una partecipante alla fine dell’esperienza Mindcooking: “sono andata sui divanetti fuori per una sigaretta prima dell’inizio dell’esperienza e poi sono andata ora, alla fine dell’esperienza, ed ho fatto caso ad un centrotavola sul tavolino, peraltro bellissimo e grande, che prima non avevo per niente notato. Ho sicuramente ampliato la mia esperienza del mondo, a regolare anche le immagini negative e a vivere in maniera insolita i sensi. Ho capito che li utilizziamo molto poco in modo completo e che spesso ci ingannano se non li integriamo tra loro. Quando la mente si crea un’aspettativa è difficile sganciarsi da essa, è importante soffermarsi”.

Gli spunti di riflessione confermano la difficoltà generale che le persone hanno a distaccarsi da una prima impressione percettiva, negativa o positiva che sia, ma anche la possibilità di andare oltre quello che è, alla lettera un pre-giudizio, e aprirsi alla novità dell’esperienza. In questo aiutano l’attenzione e l’integrazione delle percezioni provenienti dai cinque sensi, oltre che, con l’esercitazione mindfulness. Quest’ultima è di fondamentale aiuto nei momenti percettivi negativi ed il cibo può essere un valido mezzo per recuperare uno stato mentale, fisico ed emotivo positivo ma soprattutto un elemento che ci allena ad esplorare con curiosità osservativa. Mindcooking è un’esperienza percettiva e sensoriale che allena mente e corpo a comunicare tra loro.

 

La scia dietro di noi: profumo e dati

Muovendoci lasciamo una scia. Una volta era di un profumo, oggi vi si aggiunge un alone di dati, un corteo che non ci abbandona mai, dal risveglio al sonno notturno. Un furto di privacy h24.

 

L’editorialista Noonan del Wall Street Journal ha osservato:

La privacy è legata alla nostra persona. Ha a che fare con aspetti intimi — i meccanismi della nostra testa e del nostro cuore, il funzionamento della nostra mente — e il confine tra queste cose e il mondo esterno (2013).

Eppure, muovendoci, lasciamo una scia. Una volta era di un profumo; oggi vi si aggiunge un alone di dati. Un corteo – quello dei dati – che non ci abbandona mai, dal risveglio al sonno notturno. Un furto di privacy h24.

Bersagli sono molte categorie di soggetti, tra cui tipicamente consumatori, lavoratori, giovani. Nel 2018, le società statunitensi hanno speso circa 19 miliardi di dollari per acquisire e interpretare i dati riguardanti i consumatori (Matsakis, 2019).

I dati sono dual use:

  • cibo per nutrire algoritmi;
  • cibo per mercato, politica, sanità, sicurezza, giustizia, ambiente, ricerca, ecc.

Le piattaforme social forniscono un enorme patrimonio di dati personali. Ci si può illudere che esse siano gratuite. Invece è uno scambio in cui stiamo cedendo informazioni personali a fronte di un servizio. Com’è noto, “se non stai pagando un prodotto, tu sei il prodotto”. Non esistono free lunch: quanto viene postato sui social viene usato per profilare e mirare efficientemente la messaggistica. Se possiamo considerare positiva la circostanza di ricevere annunci e post che ci interessano, è pure necessario essere consapevoli di cosa viene fatto dei nostri dati personali e controllare il loro uso tramite un consenso informato (Rossi, 2019).

Ma ecco che sorge un’altra questione spinosa. Verosimilmente è stato accordato il proprio consenso nel momento della sottoscrizione delle condizioni di un’app. Ma le informative sono complesse. Secondo il Time, per leggere tutte le condizioni d’uso, una persona impiegherebbe 76 ore ogni anno. Il New York Times, quando ne lesse 150, le definì “un disastro incomprensibile” (Pasley, 2020).

L’agenda della nostra giornata trasmuta per le tecno-compagnie in agenda di dati.

Al risveglio, se si vorrà dare un’occhiata alle notizie tramite smartphone, rimarranno le tracce.E se ci accadesse quanto capitato a Geoffrey Fowler del Washington Post? Ha scoperto che il suo iPhone inviava dati a decine di aziende nella notte (Pasley, 2020).

Per andare al lavoro, ci serviamo di ciò che il New York Times ha definito “essenzialmente uno smartphone con le ruote”. Chi noleggia d’abitudine un’automobile di una compagnia tramite app sarà accolto, entrato nell’autoveicolo, dal proprio genere di musica preferito trasmesso dalla radio. E’ stato registrato in memoria e appreso. Il tragitto all’interno di una comfort area. E’ stata acquistata un’auto? Essa è in grado di registrare il peso dell’automobilista, il numero dei passeggeri, la velocità, le strade percorse.

Arrivati in ufficio, ecco cosa può accadere… Avere la brutta sorpresa di essere stati profilati dall’azienda o, quanto meno, essere assaliti dal timore di subire la sorte di dipendenti di altre società. Ad esempio, della catena di moda svedese H&M, con i suoi presunti trattamenti illeciti dei dati dei propri dipendenti per mezzo di registrazioni occulte. Le informazioni riguarderebbero aspetti sensibili, quali la loro salute e vita privata.Come afferma l’Autorità per la protezione dei dati di Amburgo – che ha avviato un procedimento nei confronti dell’H&M- l’ampiezza quantitativa e qualitativa del trattamento dei dati dei dipendenti, accessibili a tutto il management dell’azienda, mostra una profilazione completa dei dipendenti non paragonabile a nessun’altra (Domenici, 2020).

Questo orrifico episodio ci fa tornare in mente un altro scabroso scandalo, anch’esso recente. Secondo quanto riportato dal The Wall Street Journal (Copeland, 2019), negli USA il progetto Nightingale ha visto Google, insieme all’operatore sanitario Ascension, raccogliere segretamente i dati (di laboratorio, diagnosi mediche, con nomi e data di nascita) relativi a cartelle cliniche di pazienti appartenenti a 21 Stati USA: la loro storia medica al completo. Il ruolo di Google è stato mettere a disposizione sistemi di intelligenza artificiale (IA) per leggere le cartelle cliniche elettroniche e identificare più rapidamente le condizioni di un paziente. Scopo, una più efficiente interoperabilità nella rete ospedaliera americana (Porro, 2019). Efficienza vs. etica.

Raccogliamo poi lo sfogo di un’amica il cui figlio sta facendo domanda di iscrizione a università statunitensi, ma – dice – la email etiquette potrebbe venire controllata. Infatti, le università americane si servono dei dati, quali la quantità di tempo su cui resta aperta una mail e i link cliccati, per valutare il grado di motivazione del candidato (Pasley, 2020).

Uno studio della Northeastern University (Renet al., 2019) – il più esteso sulle smart tv – ha illustrato che i televisori connessi di nuova generazione trasferiscono dati sensibili degli utenti a società quali Google, Netflix e Facebook, persino se non abbonati ad alcun servizio. Nel caso di Netflix, i dati vengono spediti anche quando l’app non è attiva. Fra le numerose implicazioni: terze parti sono in grado di sapere se siamo in casa; in base alle preferenze scelte sul dispositivo, possiamo essere targettizzati con una pubblicità mirata ed efficace. Sicurezza e privacy a rischio, dal quale pure l’FBI allerta per evitare di essere spiati e finire nella rete della cyber criminalità (Lavalle, 2019).

La violazione dei dati personali è una neverending story: ToTok, simile nel nome alla più famosa (e altrettanto problematica) TikTok, sebbene si presentasse come app di messaggistica – tipo WhatsApp, Telegram, Signal –sarebbe stato strumento di spionaggio gestito dal Governo degli Emirati Arabi Uniti (Rijtano, 2019). Dietro l’app, infatti, ci sarebbe stata Pax AI, azienda specializzata nel data mining, a sua volta, collegata a DarkMatter, una società di Abu Dhabi che si occupa di white e black hacking: protegge la sicurezza e la privacy dei suoi clienti, mentre spia i loro concorrenti. ToTok era uno strumento di sorveglianza molto efficace, perché tracciava conversazioni, spostamenti, contatti, appuntamenti, il suono registrato dal microfono e le immagini catturate dalla fotocamera dello smartphone su cui era installato. In febbraio Google l’ha rimosso (Martiradonna, 2020; HDBLOG.it, 2020).

Il tema della privacy – la tutela di informazioni personali, il valore e il costo di tale tutela – può rientrare nel solco nella letteratura dell’economia dell’informazione. In tale prospettiva, la privacy non ha esclusivamente valenza giuridica, ma anche economica.

Nel 2010 Zuckerberg aveva tentato di abbassare il valore e il costo della tutela dei dati personali, affermando che

Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così è anche per la privacy (Bruno, 2010).

E’ il tecno-capitalista che parlava poiché massimizzare i suoi profitti significa sfruttare l’innata socialità dell’uomo e la tendenza alla esposizione di sé; i dati personali (cioè la vita degli utenti) si trasformano in risorsa economica da estrarre attraverso la surrettizia offerta di una vita user-fliendly, attraverso la retorica della condivisione e la componente ludica, il make-up di tale strategia. Ma sbagliava Zuckerberg nelle sue dichiarazioni pro condivisione a tutto tondo: tale (artato) ottimismo sperimenta oggi un totale viraggio a favore della privacy. Ed egli stesso – a meno di dieci anni da quella dichiarazione forte – attua un viraggio della medesima portata, quando nel 2019 a San Jose, dal palco del Congresso F8 (la Convention per gli sviluppatori dei social network), si è presentato con una scritta altrettanto forte e a lettere cubitali “The future is private” (Fiocca, 2019). Tra i buoni propositi a favore della privacy per il 2020 c’è la tutela degli utenti introducendo la nuova funzione “Off-Facebook Activity”, che consente di limitare le informazioni condivise con siti e app di terze parti. A conferma del new deal, in gennaio Facebook ha festeggiato il “Data Privacy Day” per rassicurare i cittadini quanto il tecno-capitalismo sia sensibile al tema della privacy. Peccato che ai festeggiamenti si sia messo di traverso lo scandalo Avast, antivirus disponibile gratuitamente sul mercato: l’applicazione memorizzava le attività degli utenti registrati e trasferiva le informazioni a una società controllata di Avast -la Jumpshot – per confezionare pacchetti di dati da vendere a colossi quali Google, Yelp, Microsoft, McKinsey, Pepsi, Home Depot e varie società di marketing. Naturalmente, per potenziare i canali di vendita, profilare il mercato in segmenti, ottimizzare i servizi, ecc. (D’Elia, 2020).

Particolarmente incisivo, anche per l’autorevolezza dei soggetti – il Vaticano, promotore della “Rome Call for AI Etichs” e la Commissione europea, con la pubblicazione in febbraio del Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale – l’attuale battage sull’etica e l’allineamento ai valori umani della IA.

Termini come Trasparency, Inclusion, Accountability, Responsability, Impartiality, Reliability, Security, Privacy, devono diventare patrimonio di tutti e non solo degli esperti dell’etica dell’Intelligenza Artificiale (V. Paglia in RaiNews, 2020).

Aspetti fondanti, questi, di fronte a pratiche sempre più pervasive della IA, tra cui il tanto dibattuto riconoscimento facciale – ormai diffusamente applicato, anche in paesi con governi non autoritari.

La UE già possiede normative adeguate sulla privacy: il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr – Regolamento UE 2016/679) ha consentito di mettere la protezione dei dati al centro del dibattito anche per l’IA (art. 22). Preoccupazione e indicazioni inerenti aspetti etici sono emerse nel giugno 2019 pure da un rapporto del Gruppo di alto livello della Commissione europea sulla IA: l’UE dovrebbe regolamentare pratiche invasive quali identificazione biometrica (come il riconoscimento facciale), uso di sistemi autonomi di armi letali (come i robot militari), profilazione dei bambini. Poco dopo, appena insediata, la Presidente della Commissione fissò tra le sue priorità la regolamentazione della IA in Europa. Le proposte sono contenute nel Libro Bianco sull’intelligenza artificiale e una strategia europea sui dati. La Commissione punta a un approccio “umanocentrico”, secondo cui i sistemi di IA vengano utilizzati in modo da rispettare le leggi UE e i diritti fondamentali. L’identificazione biometrica in remoto e altri sistemi di IA ad alto rischio sono consentiti solo per motivi di “sostanziale interesse pubblico” e dovranno essere “trasparenti, tracciabili e garantire il controllo umano in settori sensibili come salute, polizia e trasporti”. La strategia sui dati intende creare un mercato unico dei dati in cui i dati personali e non, (inclusi quelli confidenziali e sensibili), siano sicuri e in cui imprese e pubbliche amministrazioni possano avere accesso per creare e innovare.

Siamo su un crinale, dove si interfacciano esigenze talora confliggenti: progresso scientifico e valori etici, fra cui il diritto alla privacy. Esempio sotto gli occhi di tutti è la tecnologia della IA a contrasto del Covid-19. Oggi tale esempio può rappresentare l’icona della relazione fra l’esigenza e l’emergenza di tutelare la salute collettiva e la tutela della sfera privata. Un video di Global China fa vedere un drone che invita un’anziana donna tibetana a indossare la mascherina per proteggersi dal coronavirus (Marino, 2020). L’utilizzo di tale drone pregiudica la privacy, attraverso il riconoscimento facciale, il tracciamento, la georeferenziazione, la profilazione. Da qui il trade-off, poiché gli algoritmi – nel profilare i soggetti colpiti –  permettono di individuare i soggetti che avranno una maggiore probabilità di essere prossime vittime dell’epidemia, mettendo in grado i sanitari di intervenire preventivamente e comprendere i comportamenti del virus per combatterlo più efficacemente.

Una predittività salvifica per la quale val la pena cedere pezzi di privacy.

Questa è la prima pandemia con cui la IA si confronta. E’ un caso pilota. Si tratta di segnare il confine tra tutela sociale contro rischi sistemici e tutela individuale alla privacy. Il Libro Bianco ne fornisce una chiave di lettura per l’Europa.

 

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