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Terapia metacognitiva nella riabilitazione cardiaca

Un modello evidence-based potenzialmente efficace e adatto al trattamento di ansia e depressione in pazienti cardiaci è la Terapia Metacognitiva (TMC). Tale modello, appartenente agli approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, sostiene che un maladattivo stile di pensiero e di coping sia responsabile del mantenimento nel tempo di stati emotivi disfunzionali (Wells., 2008).

Mirto Anna Maria – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Numerose sono le evidenze scientifiche che sostengono il ruolo cruciale dei fattori psicologici nell’insorgenza delle patologie cardiovascolari. È stato difatti dimostrato come i classici fattori di rischio, quali genetica (es. storia familiare di patologie cardiovascolari), comportanti non salutari (es. fumo, alimentazione non adeguata, inattività fisica), condizioni socioeconomiche di svantaggio, spieghino meno del 50% della varianza nell’insorgenza di disturbi cardiovascolari (Futterman e Lemberg, 1998). La restante varianza trova spiegazione nel legame individuato tra indici di salute cardiovascolare e fattori cognitivi-emotivi (Chida e Steptoe, 2009). In particolare è stato riscontrato come gli stati emotivi negativi (depressione, rabbia, ostilità e ansia) correlino con valori elevati di frequenza cardiaca, pressione sistolica e diastolica, rappresentando pertanto fattori di rischio soprattutto per le patologie coronariche (Suls, 2018; Haas e coll., 2005). Tra le variabili psicologiche si è visto come anche la ruminazione giochi un ruolo nell’amplificare la risposta cardiovascolare da stress (Gerin e coll., 2012). Secondo l’ipotesi dei processi cognitivi perseverativi, difatti, la ruminazione, così come gli altri stili di pensiero ripetitivi, mantiene nel tempo l’attivazione del sistema nervoso simpatico (Brosschot, Gerin e Thayer , 2006). Alcune ricerche suggeriscono come tale risposta fisiologica allo stress, se prolungata, abbia un impatto negativo sul sistema cardiovascolare maggiore rispetto a quello associato ai normali picchi di attivazione simpatica di breve durata (Glynn, Christenfeld e Gerin,  2002). Pertanto la ruminazione, se permane successivamente al recupero del problema cardiaco, potrebbe rappresentare un fattore di rischio per ulteriori complicanze cardiache maggiore rispetto alla riattivazione della risposta fisiologica acuta allo stress.

Tali dati hanno contribuito all’inclusione della figura dello psicologo all’interno delle equipe multidisciplinari nei reparti di riabilitazione cardiaca.

Da una recente meta-analisi (Biondi-Zoccai e coll., 2016) si è riscontrato come tra gli interventi psicoterapici più frequentemente impiegati coi pazienti affetti da patologie cardiache vi sia la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC), la quale ha dimostrato efficacia nel trattamento della sintomatologia ansiosa e depressiva. Tuttavia, non si è riscontrato un mantenimento nei follow-up degli effetti della TCC su tale sintomatologia (Writing Committe for ENRICHED Investigators, 2003). Ciò potrebbe essere imputato alla scarsa appropriatezza della TCC, e in particolare al richiamo al dato di realtà, nel contesto clinico con pazienti che vivono una realtà di disabilità, in cui il rischio di morte improvvisa e prematura è oggettivo (Taylor-Ford, 2014). Un altro modello evidence-based potenzialmente efficace e adatto al trattamento di ansia e depressione in pazienti cardiaci è la Terapia Metacognitiva (TMC). Tale modello, appartenente agli approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, sostiene che un maladattivo stile di pensiero e di coping, caratterizzato dai processi di (1) ripetitività, (2) focus attentivo rivolto a potenziali minacce (es. sensazioni fisiche), e (3) tentativi disadattavi di controllo dei pensieri indesiderati, sia responsabile del mantenimento nel tempo di stati emotivi disfunzionali (Wells., 2008). Pertanto, la TMC interviene modificando i processi che mantengono il distress emotivo (Wells, 2012). Tale approccio è stato riscontrato essere altamente efficace nel trattamento di ansia e depressione e aver effetti che si mantengono anche nei follow-up (Normann, Van Emmerik e Morina, 2014). Uno studio recente di McPhillps e collaboratori  (2019) ha eseguito un’analisi qualitativa sul distress emotivo in pazienti cardiaci, basandosi su quanto riportato dai soggetti in un’intervista strutturata ad hoc in cui si richiedeva di descrivere nel dettaglio il distress esperito, in particolare il contenuto dei pensieri disturbanti, la natura del distress emotivo, quando esperivano tali emozioni e pensieri e come reagivano ad essi.

Dai risultati è emerso che i contenuti delle preoccupazioni erano principalmente catastrofici e riguardavano il rischio continuo per le loro vite, la scarsa fiducia verso il recupero dell’energia, i vincoli legati alla riduzione dell’energia, il continuo trattamento e cure mediche cui sono sottoposti e le sfide attuali e future, anche non correlate alla salute fisica, che li attendono. Di fronte a tali preoccupazioni, associate a sintomi depressivi e ansiosi, i pazienti riportavo stili di pensiero ripetitivi, quali ruminazione e rimuginio, messi in atto con la credenza di utilità rispetto alla comprensione del perché abbiano esperito l’evento cardiaco e a come prepararsi in futuro per prevenire eventuali recidive. Successivamente all’analisi qualitativa, i ricercatori hanno messo a confronto la concettualizzazione del distress dei pazienti secondo le prospettiva cognitivo-comportamentale e metacognitiva. In particolare gli autori sostengono che sia difficile decidere quanto un pensiero disfunzionale, legato al problema cardiaco, sia realistico o meno, tenendo conto dell’oggettiva maggiore fragilità fisica che tali pazienti presentano. Pertanto la TCC, poiché focalizzata sulla messa in discussione dei contenuti dei pensieri disfunzionali sulla base del dato di realtà, risulterebbe essere poco efficace nel trattamento del distress emotivo nel pazienti cardiaci. Di contro, la TMC, essendo focalizzata sulle modificazione dei processi cognitivi, si ipotizza essere più efficace e adeguata in questa popolazione clinica.

In conclusione, stati emotivi di distress, come ansia, depressione, rabbia, e stili di pensiero ripetitivi sono frequenti in pazienti con patologie cardiache. Le linee guide raccomandano l’importanza dell’inclusione di attività psicologiche psicoterapiche nei contesti di riabilitazione cardiovascolare, al fine di migliorare la qualità della vita dei pazienti riducendo il rischio di recidive. La TMC si mostra come approccio adeguato a tale contesto in quanto, modificando i processi cognitivi ripetitivi, ha una ricaduta positiva a livello fisiologico poiché riduce la causa cognitiva responsabile del mantenimento nel tempo dell’attivazione simpatica, pertanto ridurrebbe uno dei fattori di rischio maggiori presenti nei pazienti affetti da patologie cardiache.

 

Primo Soccorso Psicologico: linee guida nazionali e internazionali

L’importanza di fornire un’assistenza psicologica adeguata nelle situazioni di emergenza e un Primo Soccorso Psicologico è sempre più riconosciuta sia a livello nazionale che internazionale. Nel 2011 l’OMS ha predisposto alcune linee guida per indirizzare i Paesi verso un approccio efficace nella tutela dei superstiti o di chi si trova in fase di shock.

 

Il presente articolo prende in considerazione tre modelli di intervento adottati dagli operatori di Primo Soccorso Psicologico. Esso costituisce il primo passo da compiere nel continuum di cure e deve essere tenuto da personale specificatamente formato, con lo scopo principale di mitigare il distress in fase acuta.

Il Primo Soccorso Psicologico (PSP), in inglese Psychological First Aid (PFA), nasce dall’esigenza di dare una risposta immediata, strutturata e coordinata in situazioni definite emergenziali e al correlato disagio socio-psicologico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo definisce come uno strumento applicabile sia su larga scala sia su casi singoli, durante e nelle fasi immediatamente successive ad un evento stressante e potenzialmente traumatico.

Più precisamente, il PFA fa riferimento ad una modalità di approccio compassionevole e supportiva messa in atto per mitigare sintomi di stress acuto appena insorti: naturalmente si tratta solamente del primo passo da compiere nel continuum di cure che seguiranno. Con la messa in atto di tali modalità di aiuto non ci si propone di curare patologie complesse come il PTSD o il disturbo acuto da stress, o di sostituire un percorso di cura psicologico o psicoterapeutico strutturato, ma di stabilizzare e mitigare il distress al fine di favorire una migliore elaborazione futura di quanto avvenuto. Non si tratta appunto di fare terapia, ma di supportare una persona che chiede aiuto in uno dei momenti più difficili della sua vita: l’operatore che offre assistenza deve perciò avere una formazione adeguata che gli permetta di riconoscere, comprendere e agire in funzione degli stati emotivi che gli vengono espressi.

Le prime ricerche sul primo soccorso psicologico sono state sviluppate dopo la Seconda Guerra Mondiale, per far fronte alle necessità psicologiche dei veterani. Alcuni studi successivi, come quelli in seguito all’attacco terroristico alle Torri Gemelle, evidenziano come gli interventi di primo soccorso psicologico immediatamente successivi all’evento traumatico, siano stati predittivi di minori conseguenze post traumatiche, rispetto a molte sedute di psicoterapia effettuate a posteriori in assenza di un adeguato primo intervento (Everly et al. 2014; 2017). Questo dato sottolinea l’importanza di un primo intervento ad hoc e consequenziale all’esposizione all’evento potenzialmente traumatico, per dare alla vittima le basi per poter elaborare in futuro quanto accaduto.

Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha messo a punto il manuale “Psychological First Aid: Guide for field workers” che costituisce sia uno strumento di lavoro sul campo che di formazione rivolto a operatori sanitari, sociali, della Protezione Civile e volontari.

In Italia, fianco di un riconoscimento legislativo, istituzionale e culturale e di un forte impegno da parte dell’Ordine Nazionale degli Psicologi e degli Ordini Regionali, gli interventi psicologici nelle grandi emergenze sono principalmente svolti da psicologi e psicoterapeuti a titolo volontario. Diversi attori del volontariato sociale hanno contribuito durante varie emergenze, come ad esempio l’associazione senza scopo di lucro SIPEM SoS (Società Italiana di Psicologia dell’emergenza Social Support Federazione).

Il programma CISM (Critical Incident Stress Management – Gestione dello Stress da Incidenti Critici) è un protocollo di intervento sviluppato specificamente per attenuare lo stress legato a eventi critici, che si articola in sette elementi chiave:

  • Istruzione/Immunizzazione prima dell’incidente
  • Smobilitazione
  • Intervento individuale durante la crisi
  • Defusing
  • Debriefing per lo stress da eventi critici (CISD)
  • Sostegno familiare
  • Reti per l’invio

Una tecnica ampiamente utilizzata nella psicologia dell’emergenza è appunto il Defusing, un intervento breve, non necessariamente gestito da un professionista della salute mentale, che prevede una conversazione tra i 20 e i 40 minuti da realizzarsi immediatamente dopo l’intervento critico, in una sorta di pronto soccorso psicologico in cui si raccolgono le emozioni a caldo e si cerca di dare una prima costruzione di significato ad eventi che spesso sono inspiegabili e fuori dal controllo. Il soccorritore deve in ogni caso aver ricevuto un’adeguata formazione per intervenire in questa fase.

Il Debriefing viene invece condotto da una squadra per i servizi di emergenza composta da professionisti qualificati della salute mentale (Psicologi o Psicoterapeuti) coadiuvato da colleghi dei membri del gruppo. Il Debriefing dovrebbe aver luogo 24-76 ore dopo l’evento critico e mai sulla scena dell’evento traumatizzante, ma in una struttura che offra una atmosfera di sicurezza.

Negli Stati Uniti i protocolli più diffusi sono invece il Seven-Stage Intervention Crisis Model di Roberts ed il RAPID Model della Johns Hopkins University di Everly. Nel concettualizzare i processi relativi all’intervento sulla crisi, Roberts nel 1991 ha identificato sette passaggi o fasi determinanti che terapisti e clienti si trovano solitamente ad affrontare lungo il percorso di stabilizzazione, risoluzione e controllo della crisi stessa. Tali passaggi, elencati a seguire, sono essenziali, sequenziali e, a volte, sovrapponibili nel processo di intervento sulla crisi.

  • Pianificare e condurre un’accurata valutazione biopsicosociale e del rischio
  • Stabilire rapidamente un contatto psicologico ed una relazione collaborativa
  • Identificare i problemi principali ed i fattori precipitanti
  • Incoraggiare un’esplorazione di sentimenti ed emozioni
  • Generare ed esplorare nuove alternative e strategie di coping
  • Ripristinare il funzionamento mediante l’attuazione di un piano di azione
  • Pianificare sessioni di follow-up

Il modello della Johns Hopskins University si articola invece in cinque passaggi, le cui iniziali compongono l’acronimo RAPID: Reflective listening, Assessment of need, Prioritization, Intervention, Disposition. Il modello RAPID fornisce importanti indicazioni di cui possono servirsi gli operatori che intervengono nelle situazioni di crisi. Esso è risultato efficace nel promuovere la resilienza personale e della comunità in seguito ad avvenimenti catastrofici, e si basa su un tipo di ascolto empatico e non giudicante unitamente all’utilizzo di diverse strategie di intervento. L’approccio si concentra anche su aspetti come il triage, ovvero lo stabilire una gerarchia dei più bisognosi in modo da assicurare loro la precedenza nella fruizione del servizio, e la compassion fatigue cioè la sofferenza che spesso sperimentano a propria volta gli operatori di primo soccorso, a causa del contatto ravvicinato e continuo con il dolore altrui.

Conclusione

Per quanto differenti per denominazione e procedure, tutti i modelli esaminati hanno lo scopo di tutelare i vissuti psicologici nei primi interventi rivolti a persone sopravvissute a catastrofi naturali, attacchi terroristici o altre situazioni definite emergenziali, come un lutto improvviso un incidente stradale. Le linee guida internazionali sono chiare nel determinare la necessità di un’adeguata formazione da parte degli operatori che intervengono nelle situazioni di emergenza, in modo da garantire un servizio in grado di supportare efficacemente coloro che si trovano coinvolti in una situazione di stress acuto. Empatia, riconoscimento del livello di rischio, esame dei bisogni e collegamento di reti sociali sono alcuni dei punti chiave che si riscontrano in ogni approccio, assieme alla consapevolezza che un primo soccorso psicologico non sostituisce il percorso di cura che verrà eventualmente intrapreso. Mitigare lo shock provocato dall’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico di cui si è appena fatta esperienza, e stabilire un primo contatto con i servizi assistenziali, risultano fattori determinanti nel favorire una ripresa emotiva adattiva e il ripristino di un buon funzionamento personologico.

Per un approfondimento sul modello RAPID è possibile seguire un corso online gratuitamente su www.coursera.com, dove oltre alla spiegazione teorica ed esempi pratici vengono fornite strategie per gli operatori su come proteggersi dalla compassion fatigue e dal burnout, che possono insorgere a causa del carico emotivo e cognitivo dato dall’assistenza a persone in stato di sofferenza acuta.

 

Psicoanalisi e sociologia del detenuto: gestire l’emergenza ai tempi del Coronavirus

All’interno delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

 

Il sistema detentivo dovrebbe consentire la tutela della dignità e della salute di ogni singolo cittadino, ma l’impegno fornito non sembra soddisfare la complessità dell’attuale stato di emergenza, in cui i problemi e i vissuti esistenti vengono oltremodo esasperati.

Il carcere è, per definizione, il luogo in cui viene rinchiuso chi viene privato della libertà personale, per ordine dell’autorità competente, in seguito ad aver commesso un reato. Simbolicamente potrebbe essere definito come un qualsiasi ambiente opprimente, tormentoso o dove sia impossibile uscire o scampare: quello che storicamente Dante rappresentava come l’Inferno. In una situazione di pandemia come quella che stiamo vivendo, in cui bisognerebbe garantire a ogni singolo cittadino quelle norme di sicurezza, igiene e contenimento che dovrebbero tutelarne la salute, i vissuti angoscianti dei detenuti vengono amplificati, e la condizione carceraria sembra rappresentare un’emergenza nell’emergenza.

Nell’intento di considerare una prospettiva prettamente civica, seguendo anche le linee guida dell’OMS in riferimento alla prevenzione e il contenimento del Covid nelle carceri, lo Stato dovrebbe garantire al cittadino in misura detentiva quei diritti che egli non è stato in grado di garantire alla comunità, riconoscendolo come persona e individuo, con le proprie esigenze, emotività e affetti, evitando ulteriori forme di vittimizzazione e tutelandone la dignità umana. Ciò risulta un’impresa ardua, in una realtà come quella penitenziaria caratterizzata di per sé da innumerevoli difficoltà quali ad esempio l’eterogeneità dei reclusi, la loro provenienza da contesti socio-culturali marginali e spesso disfunzionali, la tossicodipendenza e il rischio di suicidio, e in questo momento funestata dall’impossibilità di arginare il problema del sovraffollamento e di garantire un’adeguata distanza di sicurezza in un ambiente oltremodo promiscuo. A tutto ciò va aggiunto che chi sta scontando una pena viene privato, a causa delle norme anticontagio, degli affetti che rappresentavano l’unico contatto con il mondo esterno e bersagliato da notizie incerte che permeano dal di fuori. Si rischia, quindi, di sprofondare in un incubo di insicurezza e giustificati timori per la propria condizione fisica e psichica, alimentando il proprio vissuto di inaiutabilità e di mancanza di via di scampo (helplessness), dando il via alla dissociazione traumatica e causando reazioni difensive di aggressività e ipocondria.

Alla luce di quella che è la situazione carceraria appena descritta, potrebbe essere utile analizzare il fenomeno in una prospettiva psicoanalitica sulle dinamiche intrapsichiche che entrano in gioco e che modulano gli agiti e i vissuti in un contesto di sovraffollamento e continua disregolazione emotiva che tuttavia nasconde uno stato di deprivazione e isolamento profondo.

Rivolgendo lo sguardo allo sviluppo della personalità di ogni essere umano, l’aggressività stessa nasce da una forma, inevitabile e naturale, di deprivazione. Per Kohut questa non è una pulsione primaria: l’assertività aggressiva rappresenta quella naturale spinta volta a ristabilire l’equilibrio in seguito alla frustrazione di un bisogno – se il genitore ritarda a rispondere il bambino piange rabbiosamente – grazie alla quale il bambino inizia a differenziarsi, in quanto percepisce un altro da sé che non sempre è disponibile. Quando i fallimenti empatici rientrano entro certi limiti non traumatizzanti (frustrazione ottimale), ci saranno oscillazioni minori nell’equilibrio psichico del bambino, manifestate da un aumento dell’assertività aggressiva e della sua capacità di fare richieste sane. Se i fallimenti empatici sono traumatizzanti, la pulsione di tipo aggressivo-distruttivo e i comportamenti ad essa correlati risultano frutto di una disintegrazione strutturale. Per Kohut vi è una rabbia disperata di un sé che, a causa dei fallimenti empatici precoci, considera se stesso incapace di ottenere ciò che ha il diritto di ottenere. Ed ecco come, traslando questo concetto e applicandolo alla realtà delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

Gli agiti aggressivi successivi, auto o eterodiretti, sono ulteriormente enfatizzati da una disregolazione affettiva causata dalla cattività coatta con individui a loro volta altamente disregolati: le difficoltà personali e di personalità dei detenuti non permettono di mantenere la necessaria sintonizzazione per raggiungere il processo di regolazione affettiva ottimale o per effettuare la riparazione delle rotture di sintonizzazione modulate interattivamente, portando ad un’escalation di attivazione emotiva che può contagiare l’intera popolazione carceraria, portando, come abbiamo visto nel mese scorso, a rivolte ed episodi di acting-out.

Un altro aspetto da considerare, successivo alla frammentazione/dissociazione traumatica che su lunga scala sta caratterizzando a livelli diversi la psiche di ognuno, nonché allo stato di promiscuità, incertezza e perdita di controllo sulla propria salute, è l’ipocondria. Per i carcerati, costantemente a contatto e impossibilitati a mantenere una distanza di sicurezza tra di loro, la frammentazione dovuta alla frustrazione si acuisce sino a diventare una sorta di ossessione riguardante i propri sintomi e preoccupazioni per il proprio stato psico-fisico.

Nella visione kohutiana, l’ipocondria è già di per sé una delle tipiche manifestazioni dei disturbi narcisistici, dovuta a un’eccessiva attenzione verso il proprio sé, volta a contenere l’angoscia di frammentazione. Anche nei detenuti, avendo probabilmente sviluppato la propria personalità all’interno di un contesto socio-culturale molto spesso ai margini, fatto di privazioni, non riconoscimento, eventi di vita difficili, la scissione narcisistica si manifesta tramite la costante attenzione della mente vigile verso la parte della propria personalità che sente più vulnerabile, fragile, frammentata, e vi si rivolge in maniera preoccupata. In seguito poi a situazioni ulteriormente a rischio come quella che si sta verificando, questa preoccupazione assume ancor più il carattere di un vero e proprio rimuginio, in cui il bisogno frustrato sfocia in una ricerca costante di rassicurazioni sulla propria esistenza e continuità fisica.

Se si considera anche la visione ‘paranoica’ e oggettuale dell’ipocondria, condivisa dalla psicoanalisi classica e kleiniana, l’aggressività frammentata viene proiettata sull’esterno, e ci si percepisce come vulnerabili al ‘contagio’, proveniente da un altro inaffidabile e incontrollabile. In un contesto di pandemia, tale vissuto viene concretizzato e, oggettivamente giustificato, tramite l’altro che dall’esterno porta il virus, la malattia: ecco che l’aggressività e la fobia della malattia si concretizzano verso gli operatori e gli agenti di polizia penitenzaria che svolgono la propria vita ‘fuori’, e possono portare ‘dentro’ il virus, da cui essi sono impossibilitati a difendersi.

La psicoanalisi intersoggettiva (Stolorow, Atwood, 1992) coglie aspetti dei due modelli integrandoli nel più ampio spettro delle relazioni interpersonali, suggerendo che le ferite precoci suggerite da Kohut, andando a ledere la fiducia che l’individuo può riporre nel mondo esterno e negli altri, farebbero sì che la persona tenti di sottrarsi all’inevitabile interdipendenza con l’ambiente concettualizzando il proprio corpo come un’entità isolata e vulnerabile. Le emozioni sono così impossibilitate a esprimersi genuinamente tramite il contatto con l’altro, concretizzandosi nel sintomo che dà significato al proprio malessere e tuttavia causa un ripiegamento su sé stesso, verso cui tutta l’attenzione e le rimuginazioni ossessive sono riversate. Il permanere del dubbio su di sé si interseca così con una difficoltà ad avere fiducia nell’altro.

C’è da considerare, infine, che nell’immaginario collettivo il carcere è da sempre stato inteso come una forma di contenimento e rieducazione del detenuto, e questo dovrebbe rappresentare in realtà un’opportunità di sviluppare, tramite un supporto emotivo e una regolazione affettiva adeguata, una  nuova rappresentazione di sé come individuo capace di gestire le proprie emozioni e agiti, modificare i propri schemi e tollerare le frustrazioni, che possono emergere in seguito ad eventi imprevedibili e scarsamente controllabili come appunto l’epidemia. Alla prova dei fatti, tuttavia, ciò risulta utopico, difficile, in un luogo in cui si cronicizzano e si disregolano ulteriormente sentimenti quali rabbia, solitudine, sofferenza e dolore mentale, esasperati ed esasperanti per i detenuti e gli operatori, e fin troppo spesso strumentalizzati dal crimine organizzato, portando in effetti a uno stravolgimento dell’obiettivo e a una situazione contraria alla rieducazione. Se la società è intesa come una comunità fatta di persone, regole da rispettare e istituzioni, allora il carcere è una società: con soggetti fondanti lo stato di diritto, che richiedono incessantemente una giusta tutela e prevenzione, anche della salute, spettante ad ogni singolo cittadino libero e purtroppo non attuabile in un contesto di costante emergenza, che andrebbe quindi riformulato dalle fondamenta.

Citando il noto sociologo Nils Christie “è molto importante rendersi conto che la prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui; esiste per far soffrire le persone, che effettivamente soffrono”. E’ del tutto naturale che nelle strutture carcerarie la gente quindi ceda alla disperazione e all’irrequietezza, soprattutto in una circostanza di emergenza sanitaria come quella esplosa negli ultimi mesi. La società dovrebbe sviluppare una visione empatica e relazionale della sofferenza dei detenuti, troppo spesso reietti e abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati unicamente per il male commesso, in modo da creare nuovi modi di essere cittadini. Prendendosi carico dei vissuti sia di colpa che di sofferenza, attraverso il confronto e la relazione, si potrebbe dare la possibilità al colpevole di identificarsi con il dolore della vittima e alla vittima e alla società di vedere il colpevole nella sua condizione, spesso miserevole, e come dietro la facciata di uomo forte e terribile si nasconda, forse, un comunissimo essere umano, con le stesse incertezze e paure, prima tra tutte quella per la sua salute. Ma una cosa è pensare in astratto alla pena che uno merita, un’altra è vedere con i propri occhi il colpevole nella sua sofferenza. Onde evitare di cedere a una visione sadica e punitiva, è opportuno riflettere su come affrontare la devianza in un modo che tenga conto dei valori etici che ci contraddistinguono, in qualsiasi situazione, come società del diritto.

 

Dalla teoria dell’attaccamento e dalla psicologia evoluzionista, un test proiettivo per l’età scolare: il Coffy Test

Il Coffy Test (Cardi et al., 2019) è un nuovo test proiettivo che indaga la personalità del bambino, le risorse emotive, i contenuti del suo inconscio.

 

Il test è nato in un ambito clinico, con l’obiettivo di realizzare un mezzo psicodiagnostico ad ampio spettro, adattabile a molteplici problematiche e a fasce d’età non troppo ristrette.

La sua ideazione è stata spinta dall’esigenza di procedure diagnostiche basate su teorie più moderne di quelle cui si rifanno molti test proiettivi ancora utilizzati nei servizi di psicologia e neuropsichiatria infantile, tra l’altro manchevoli di dati di supporto statistico-scientifici (Pedrabissi & Tressoldi; 2002).

È stato sviluppato partendo dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby e dalla Psicologia Evoluzionista, ma facendone confluire i costrutti teorici nella concreta pratica clinica, per cui invece dell’assetto generale dell’attaccamento, si è scelto di considerare quello relativo alle Rappresentazioni Mentali, al fine di rendere operativi gli interventi rispetto alle problematiche riscontrate nello sviluppo psichico del bambino.

Per rappresentazioni mentali si intende il modo del bambino di processare le informazioni con forte contenuto emotivo: pericoli, difficoltà, divieti educativi, autonomia esplorativa, condivisione con i coetanei, affettuosità e separazione dai genitori.

Pertanto il test è utilizzabile anche dai professionisti della salute mentale infantile che fanno riferimento alle teorie psicoanalitiche delle relazioni oggettuali.

In particolar modo le informazioni che vengono rilevate dal test sono:

  • Aspettativa del bambino di una presenza affettuosa e comprensiva da parte dei genitori;
  • Ruolo protettivo dei genitori, piuttosto che un’eventuale inversione dei ruoli;
  • Aspettativa di una consolazione materna (“il rifugio sicuro” di Bowlby) e di un incoraggiamento all’autonomia da parte della figura paterna (“la base sicura”);
  • Ruolo normativo svolto dalle figure genitoriali e comprensione da parte del bambino dei limiti normativi;
  • Ansia da separazione dai genitori;
  • Propensione all’attività esplorativa o invece al timore dell’ignoto;
  • Rapporto con i coetanei, caratterizzato da condivisione piuttosto che da competizione/ostilità.

Un buon monitoraggio cognitivo di queste emozioni, è considerato indice di buon funzionamento mentale (oltre che di un probabile attaccamento sicuro). Al contrario, distorsioni nel processo delle informazioni proposte, indicano aspetti preoccupanti della relazione genitori/figlio, che può essere opportuno approfondire (con altri strumenti clinici) sia a fini diagnostici che terapeutici, in quanto, come afferma Crittenden (Crittenden et al., 1999) “queste distorsioni possono essere di notevole importanza clinica; in effetti, esse possono essere considerate il mezzo di sviluppo e di mantenimento della psicopatologia”.

Le esperienze vissute dal minore e consolidate come modelli mentali hanno un peso fondamentale nella percezione che il bambino avrà degli Altri, di Sé e di Sé con l’Altro: come sostiene Bowlby (1999) la funzione dell’attaccamento è quella di garantire una base di sicurezza su cui l’individuo può costruire se stesso ed esplorare l’ambiente e le relazioni. Pertanto il test si focalizza in particolar modo sulla protezione ossia come il bambino percepisce le figure di attaccamento; e sulla propensione all’esplorazione, considerata come una consolidata percezione integra di Sé che permette al bambino di sentirsi fiducioso nell’esplorazione dell’Altro.

Il Coffy Test, ha anche un altro campo d’indagine: le attese del bambino riguardo i comportamenti delle figure genitoriali.

Vengono esplorati non solo i comportamenti protettivi o consolatori (che si presume siano attesi dal bambino in quanto già sperimentati) da parte figure genitoriali in situazioni di pericolo, ma anche la funzione di stimolo o, al contrario, d’interferenza delle figure genitoriali (sempre secondo le attese del bambino) di fronte a situazioni di autonomia esplorativa o di gioco.

Questi ambiti sono evocati nelle 12 tavole che vengono mostrate al soggetto esaminato, a cui poi vengono poste alcune domande prestabilite. La natura “ecologica” del test fa sì che il materiale proiettivo così ricavato sia facilmente interpretabile dal clinico. Inoltre, terminata la somministrazione (che dura una ventina di minuti), le risposte possono essere classificate utilizzando un’apposita scheda o tramite la codifica online, ottenendo così un punteggio.

E’ anche possibile una “lettura” dei risultati secondo i sistemi motivazionali (Liotti et al., 2017), che evidenzia eventuali aspetti problematici.

Dopo la sua prima pubblicazione (Leonardi & Cardi, 2012) e successivi dieci anni di sperimentazione clinica, cui abbiamo partecipato insieme ad un centinaio di specialisti, il test è stato standardizzato per i minori di età scolare, di entrambi i sessi, e dispone ora di diversi campioni clinici, con cui è possibile confrontare i risultati ottenuti.

Seguono due tavole del Coffy Test:

Coffy Test un test proiettivo per l eta scolare descrizione dello strumento Fig 1

Coffy Test un test proiettivo per l eta scolare descrizione dello strumento Fig 2

 

 

Gli effetti benefici dello yoga sulla sindrome premestruale

La sindrome premestruale è l’insieme dei sintomi emotivi, fisici e comportamentali che si manifestano nella donna 5 giorni prima dell’arrivo delle mestruazioni e che terminano generalmente quando queste hanno inizio (Kamalifard et al., 2017).

 

Solitamente la sindrome premestruale comporta nelle donne la comparsa di depressione con aumento di sintomi ansiosi, appetito, problemi del ritmo sonno-veglia e fragilità emotiva, e difatti soddisfano gli stessi criteri di solito utilizzati per diagnosticare un disturbo di depressione maggiore in soggetti che presentano i medesimi sintomi per un periodo di tempo superiore alle due settimane (Padhy et al., 2015). Considerando che possono esserci delle differenze da soggetto a soggetto, riguardanti la presenza o assenza dei sintomi depressivi associati alla sindrome premestruale, nonché variazioni nella severità di tali sintomi, è bene considerare il ruolo assunto da fattori sia esterni che interni, che possono influenzare la pressione sanguigna durante la seconda metà della fase luteinica. A tal proposito varie strategie sono state individuate per favorire la diminuzione di tale pressione sanguigna e quindi di conseguenza ridurre i sintomi depressivi associati alla sindrome premestruale (Yen et al., 2018) e tra questi gli accorgimenti comunemente utilizzati includono l’utilizzo di un determinato regime alimentare, rimedi medici, esercizi fisici e altri cambiamenti riguardanti lo stile di vita del soggetto (Maddineshat et al., 2016). Recentemente sono stati messi in luce anche i vantaggi in termini di salute derivati dalla pratica dello yoga e per questo motivo il presente studio si propone di indagare gli effetti dello yoga sulla diminuzione dei sintomi depressivi legati alla sindrome premestruale.

Dopo aver completato un questionario self-report in grado di misurare la severità dei sintomi depressivi, il Beck Depression Inventory-Second Edition Questionnaire (BDI-II; Smarr  &Keefer, 2011), le partecipanti sono state assegnate casualmente al gruppo di controllo e a quello scelto per seguire gli esercizi di yoga. Dopo che il secondo gruppo ha frequentato lezioni di yoga di 60 minuti, 3 volte alla settimana, per la durata di 3 mesi, a tutte è stato chiesto di completare nuovamente il questionario self-report per valutare i sintomi depressivi, oltre all’essere sottoposte alla misurazione dei livelli di pressione sanguigna.

I risultati mostrano che lo yoga ha effetti benefici sulla sindrome premestruale, influenzando la diminuzione dei sintomi depressivi oltre che la riduzione della pressione sanguigna, in linea con gli studi secondo i quali allo yoga sono riconosciuti numerosi effetti benefici che ne comportano l’utilizzo nel trattamento di donne che soffrono di sindrome premestruale (Ghaffarilaleh et al., 2018), di pazienti a cui è stato diagnosticato un tumore al seno (Porter et al., 2017) e di quelle che presentano depressione durante la gravidanza (Davis et al., 2015).

In conclusione possiamo affermare che lo yoga, focalizzando pensieri, sensazioni e reazioni corporee nel momento presente all’interno di un’atmosfera non giudicante, permette di ridurre i sintomi depressivi e la pressione sanguigna collegati alla sindrome premestruale, consentendo quindi di ottenere un miglioramento in termini di salute mentale e benessere individuale (Hofmann & Gómez, 2017).

 

“C’era una volta…” Il rescripting e il cinema di Tarantino

 Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Quando uno scenario doloroso si modifica tramite imagery rescripting, il corpo si riorganizza e lo stesso accade a me mentre vedo che dopo tanto dolore, sofferenze ed ingiustizie, finalmente i protagonisti dei film di Tarantino ottengono il loro riscatto.

Si suggerisce l’ascolto di Son of a Preacher Man (Dusty Springfield, 1969) durante la lettura.

 

Recentemente ho visto “C’era una volta a… Hollywood”, l’ultimo lavoro di Quentin Tarantino. Racconta, seppur indirettamente, della tragedia di Cielo Drive ad opera della Manson Family avvenuta nel 1969. Sharon Tate (all’ottavo mese di gravidanza) più altre 4 persone vennero brutalmente trucidate nella sua abitazione da 3 membri della setta guidata da Charles Manson. Nel film le cose vanno diversamente rispetto alla realtà (spoiler alert). Quando il film è finito, grazie al finale diverso, mi sono sentito meglio, anche nei giorni successivi quando ci ripensavo. Poi ho notato che sensazioni simili le ho provate anche con altri film di Tarantino. Nei suoi film, al di là degli aspetti registici, tecnici e di sceneggiatura, un tema che ricorre spesso è quello della rivalsa, intesa come rivincita o riscatto. In “Pulp Fiction” c’è la storia di un pugile mancato, vittima di un’infanzia difficile per via del padre morto in guerra. In “Kill Bill” abbiamo il riscatto della sposa, in “Grindhouse” la rivincita di 4 ragazze vittime di un serial killer feticista psicopatico. Ancora, in “Bastardi senza gloria”, si tratta del riscatto dell’umanità nei confronti di Hitler e dei nazisti, in “Django” è la popolazione nera che, grazie al protagonista, ottiene la sua consolazione e infine, in “C’era una volta a… Hollywood”, sono i parenti e gli amici delle vittime del massacro di Cielo Drive a trovare la loro giustizia. Anche se la storia non si cambia, perché nella realtà i nazisti non sono stati inceneriti in un cinema, nessuno schiavo nero (forse) ha mai compiuto le gesta di Django, le donne continuano a rimanere le vittime preferite di narcisisti psicopatici travestiti da gentiluomini (riferimento a Kill Bill e Grindhouse) e Roman Polanski ogni tanto ancora versa qualche lacrima per la moglie Sharon Tate e il figlio quasi nato, immaginare di poterlo fare mi ha fatto riflettere su cosa accade dentro me.

La mia mente è andata a quello che succede spesso in seduta con i pazienti, quando raccontano episodi narrativi molto dolorosi e ancora iscritti nel corpo. In seduta cerchiamo di alleviare questo dolore, a volte semplicemente offrendo la nostra presenza calda e attenta, sintonizzandoci ed empatizzando. Altre volte agiamo sull’aspetto corporeo, sul “Sé corporeo” incarnato (Ferri et al., 2012), modificando gli automatismi mantenuti dalle memorie procedurali implicite, proviamo a mutare gli schemi corporei (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Possiamo utilizzare al riguardo attivazioni bottom-up oppure agire su sequenze relazionali delle varie situazioni con role playing o tecniche drammaturgiche.

In particolare, nell’assistere a film come “C’era una volta a… Hollywood” mi sono entusiasmato per le imprese di Cliff Booth (Brad Pitt): come agisce quando visita il ranch in cui dimora la Manson Family, come gestisce la situazione con un Bruce Lee spocchioso e soprattutto come risolve eroicamente (grazie all’aiuto dell’addestratissimo pitbull Brandy) la tragedia finale.

Ho inoltre associato le mie sensazioni piacevoli alla procedura terapeutica del rescripting. L’Imagery Rescripting è risultato utile per ansia sociale (Norton & Abbott, 2016; Romano et al., 2020), ansia da malattia (Nilsson et al., 2019), DOC (Maloney et al., 2019), PTSD da abusi infantili (Raabe et al., 2015), depressione (Moritz et al., 2018), ricordi intrusivi post traumatici (Rijkeboer et al., 2020), incubi notturni (Kunze et al., 2019), disturbi di personalità (Arntz, 2011; Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Durante il rescripting un’esperienza dolorosa si modifica in immaginazione per soddisfare i bisogni attivi del soggetto nella situazione difficile reale. La procedura può riguardare episodi avvenuti nel passato ma anche eventi temuti del futuro (Arntz, Jacob, 2013). Le esperienze interne: immagini, odori, suoni, colori e sapori vengono rievocati e integrati in nuove narrazioni (Damasio, 1994). Alleviare stati di sofferenza vuol dire modificare stati del corpo e della mente. Prenderne consapevolezza o cercare di modificare le cognizioni non è sufficiente, è necessario sperimentare nuovi stati corporei, agendo sul corpo direttamente o in immaginazione. Mentre si ricorda un evento e si rivive una scena emotivamente intensa, le aree premotorie si attivano preparando il corpo all’azione. L’azione è bloccata spesso da anni (ad es. un bambino che cercava contatto o attenzioni mai ricevute, che avrebbe voluto proteggersi o scappare da un adulto violento, oppure muoversi sostenuto nel gioco e nell’esplorazione libera), quello che non si è potuto fare all’epoca, il movimento interrotto, viene attuato nel presente in seduta. Cerchiamo di aiutare i pazienti a completare il gesto represso da anni, gli “atti di trionfo” li chiamava Janet. Anche solo muovendo diversamente il corpo o immaginando di farlo. Si costruiscono nuove narrazioni di sé e di quello che è accaduto, modificandone le sensazioni fisiche (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Riscrivere una scena permette la creazione di nuovi schemi mentali e corporei che aiutano il paziente ad affrontare le esperienze di vita in modo più adattivo e soddisfacente. Il rescripting in Imagery non è la semplice rievocazione di un evento che risolleva l’umore del paziente. Il paziente si trova a rivivere ciò che ha passato, con tutte le sensazioni, come se stesse accadendo nel momento presente, come se fosse reale. Il rescripting non mira a cambiare il passato, questo non è possibile, tuttavia permette di dare origine a uno schema diverso per fronteggiare il mondo relazionale (Centonze, Inchausti, MacBeth, Dimaggio, 2020). Quando uno scenario doloroso si modifica in immaginazione, il corpo del paziente si comporta in modo diverso, si riorganizza per soddisfare i bisogni del paziente in modo più adattivo. Lo stesso accade a me, sulla poltrona del cinema o sul divano di casa mia, mentre vedo che dopo tanto dolore, sofferenze ed ingiustizie, finalmente la sposa sistema tutta la gang di Bill, Django vince una guerra da solo, Brad Pitt castiga il colonnello Landa, Hitler e i nazisti e, sempre lui, rende giustizia alle vittime di Cielo Drive. Il mio corpo cambia davanti al film, si attiva e non riesce a stare fermo, entro in uno stato di iperarousal benefico, mi sento più sciolto, contento, soddisfatto.

Imagery with rescripting

Si propone al paziente la tecnica spiegandogli le modalità e le finalità: c’è una fase di preparazione preliminare con focalizzazione sensoriale sul respiro, sul corpo o un esercizio di grounding. Arriva poi la fase centrale, l’esecuzione vera e propria, si va su qualche episodio ancora doloroso in cui nel passato uno o più bisogni (di cure, sicurezza, autonomia, apprezzamento o altro) non sono stati soddisfatti (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). E’ in questa fase che, a seconda di ciò che emerge, si può agire con il rescripting. Il paziente deve muoversi nella scena rievocata in modo diverso rispetto a quanto accaduto nella realtà, agire, parlare, sperimentare stati mentali e corporei in direzione dei suoi bisogni o desideri, intesi come sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, Monticelli, 2014) attivi nel preciso momento dell’evento narrativo rievocato. La scena prima si rivive e poi si riscrive, il terapeuta non dice cosa deve fare il paziente ma gli propone creativamente delle alternative, gli suggerisce delle frasi, delle azioni o dei comportamenti diversi rispetto allo schema disfunzionale, proattivi nel soddisfare i suoi bisogni (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Spesso è il paziente stesso a decidere cosa dire al padre invalidante o come comportarsi nella situazione dolorosa in cui si è visto manchevole, escluso, colpevole o altro. Alla riapertura degli occhi, abbiamo la fase di riflessione condivisa. Il paziente acquisisce maggiore consapevolezza dei propri vissuti e dei suoi schemi, ha maggiore agency sui propri stati mentali. Comprende che il nocciolo del problema è localizzato maggiormente nel suo mondo interno piuttosto che nel mondo esterno (Centonze, Inchausti, MacBeth, Dimaggio, 2020). Sulla base di questa nuova consapevolezza si possono negoziare esposizioni comportamentali, relazionali, rivedere il contratto terapeutico, riformulare gli obiettivi e i compiti (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019).

Il rescripting di Davide

Davide ha 25 anni, nucleo borderline non grave e funzionamento narcisistico. Riporta un episodio in cui mentre passeggia con la fidanzata, sente il desiderio di abbracciarla ma non ci riesce, si irrigidisce, si inibisce e prova tristezza. Invito Davide ad esplorare assieme quanto accaduto. Lo invito a focalizzarsi su tutti i dettagli, il luogo dove si trovano, il volto della ragazza, cosa si dicono, come si sente lui. Desidera abbracciare la ragazza, ma avverte ansia e paura. Si sente bloccato nelle spalle e nelle braccia, lo invito a stare su queste sensazioni, a respirarci sopra. Mi dice che si vede debole e indegno. Mentre lo dice il suo volto cambia, si incupisce, il corpo si affloscia e si commuove un poco. Lo invito a rimanere su questi stati interni ancorandosi al respiro e a non fare nulla, gentilmente gli domando se arrivano altri ricordi, scene, immagini o sensazioni che in qualche modo sono associate a ciò che sta provando adesso. Rievoca una singola immagine, gli propongo di vederla in immaginativo, a occhi chiusi. Lui è piccolo, all’asilo, la madre è appena andata via e lui piange per questo, una maestra gli urla contro di stare al suo posto. Durante la terapia sono emersi molti episodi narrativi traumatici legati alla scuola dell’infanzia. Riviviamo questo piccolo frammento parlandone al presente, come se stesse accadendo in diretta. Davide si vede piccolo, impotente e schiacciato, il corpo è immobilizzato, prova terrore e non c’è nessuno che lo consoli per il distacco dalla madre. Dopo qualche istante di focusing su queste emozioni e sensazioni lo invito ad aprire lentamente gli occhi. Facciamo qualche piccola attivazione corporea rivitalizzante, questo gli permette di modificare lo stato corporeo schema correlato in cui si trova, di acquisire mastery sulle sensazioni e di entrare in contatto con una parte di sé più vitale. Facciamo qualche piccolo esercizio di attivazione e di scarico preso in prestito dalla bioenergetica di Lowen. Dopo qualche minuto emerge una parte sana di Davide, quella che pratica da 10 anni arti marziali, si sente tranquillo, energico, forte, vitale, atletico. Lo invito a sedersi e a chiudere di nuovo gli occhi. A questo punto tentiamo un rescripting. Ritorniamo all’asilo, davanti alla maestra. Invito Davide a richiamare quel frammento, quell’immagine della maestra che gli urla contro, mantenendo però l’immagine di forza e vitalità acquisita prima con gli esercizi. Gli chiedo che cosa potrebbe essere utile a quel bambino per gestire quella situazione, se c’è qualcosa che può dire o fare quel bambino, seppur molto piccolo, ma più forte di prima. Mi dice che vorrebbe urlarle contro delle parolacce ma che forse sarebbe meglio andarsene a giocare con gli altri bimbi cercando la loro compagnia. Lo invito a farlo in immaginazione. Immagina se stesso con gli altri bambini a giocare con le costruzioni e dei robot, sente la loro vicinanza e anche la loro protezione. Immagina anche di ricorrere a delle mosse di Taekwondo contro la maestra nel caso ce ne fosse il bisogno. Questa possibilità lo fa sentire forte, come se avesse una chance, sente la parte alta del torace più ampia, ariosa e dilatata. Lo invito a stare per qualche istante in queste sensazioni e a riconoscere come è fatto questo Davide, lo vede competente, coraggioso, meritevole di considerazione e riconoscimento. Dopo questo torniamo gradualmente alla realtà e discutiamo brevemente su quello che abbiamo fatto. La seduta successiva, cerchiamo di richiamare questo assetto mentale e corporeo, sempre in Imagery, lo invito a tornare sul corso, a passeggio con la ragazza. Ritorniamo sul desiderio di abbracciarla, immagina di farlo, visualizza il gesto che fa, la sua mano e il suo braccio dietro le spalle e il collo di lei, il volto di lei sorridente mentre lo guarda e cede al suo abbraccio, lei si lascia guidare come in una danza dai movimenti di lui e si danno un bacio veloce. Davide sente il contatto e il calore del corpo di lei, percepisce la sua vicinanza, è commosso e contento. Dopo un feedback e un confronto su quanto eseguito, ricostruiamo assieme lo schema secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale. Il suo bisogno è quello di vicinanza, intimità sentimentale e affettiva, l’idea è che se prova ad avvicinarsi l’altro non soddisfa quel bisogno causandogli uno stato di sofferenza e la riattivazione di un’immagine di sé non amabile. Questo lo porta a shiftare immediatamente su un’altra immagine negativa di Sé, quella di una persona manchevole, inadatta, non all’altezza. Automaticamente per proteggersi mette in atto un coping di evitamento e di inibizione emotiva (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Lo invito a esporsi a tutto ciò, a provare realmente ad avvicinarsi alla ragazza, prima magari anche tramite un messaggio, in seguito pure fisicamente, richiamando la parte vitale e positiva di Sé e le sensazioni associate.

Conclusioni

Il rescripting quindi, è una procedura potentissima se attuata nel momento, nel contesto e con le finalità adeguate. Al di là di come la viviamo noi terapeuti o di come la vivono i pazienti, è sorprendente riscontrare queste forme di riscrittura benefiche anche nella vita quotidiana. A me è capitato col finale del film che dà il titolo a questo articolo. Il massacro di Cielo Drive è uno di quei fatti di cronaca avvolti in una sorta di mito culturale. Avvicina tra loro i Beatles, i Beach Boys, Roman Polanski, Sharon Tate, Hollywood, la cultura Hippie e un banale serial killer (un bluff vivente) che ha plagiato decine di adolescenti grazie a banalità filosofiche e spirituali lette in carcere, grazie a riti sessuali orgiastici sotto effetto costante di droga e alcool. Quando nel finale del film i membri della family entrano in casa di Rick Dalton, convinti di essere a casa dei Polanski, ma vi trovano Cliff e Brandy, sul mio viso appare già un sorriso e penso: “Poveri voi dove siete capitati”. La mia angoscia si trasforma in disprezzo sarcastico, in scherno divertito. Quando poi Cliff lancia il segnale di attacco a Brandy tutto diventa velocissimo e prevedibile. La family è in un mare di guai. Da quel momento in poi comincio a divertirmi davvero. Sono curioso, mi gusto la sorpresa, ho una leggera tachicardia e il mio corpo è teso. Nonostante la scena cruenta sono rallegrato, soddisfatto, appagato e fiero di Cliff. Giustizia è fatta per la signora Polanski e la altre vittime, giusta fine per la family. Insomma, l’atto di rivivere, con l’immaginazione, con il corpo e con i sensi un episodio doloroso, modificandone l’esito o il nostro modo di starci dentro, cambia non solo il nostro stato mentale, le nostre emozioni ma, soprattutto in un percorso di psicoterapia individuale, anche le convinzioni profonde e l’immagine negativa dolorosa profondamente radicata che da anni abbiamo di noi stessi.

 

Dal trauma individuale al trauma sociale massivo. Prevenzione, sostegno, comunità nel lutto complicato e nel disagio psicologico ai tempi della pandemia

In un periodo di incertezza come quello in cui ci troviamo a vivere, sia i professionisti della salute mentale che l’intera comunità sono chiamati a prendersi carico del dolore e del lutto del singolo, per elaborare insieme il trauma sociale che l’epidemia porta con sé e non perdere la speranza.

 

Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembrava che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa. (Sofocle)

Celebri questi versi di Sofocle, che descrive il dolore tragico di Antigone a cui viene negato di seppellire il corpo del fratello Polinice, per editto del re Creonte, fin quasi a desiderare la propria morte. Attuali più che mai, in un periodo che per ‘editto’, per quanto giusto che sia, purtroppo non può avere luogo un rito che segna l’inizio di quel processo che è l’elaborazione del lutto.

Ognuno, nel suo piccolo, è chiamato oggi a elaborare il proprio lutto personale. Chi per la scomparsa atipica delle persone care, spentesi spesso in solitudine in un letto di ospedale, chi per la propria stessa vita che si conosceva e che si è costretti bruscamente a interrompere, per la perdita del proprio senso di sicurezza, di un lavoro, delle abitudini, talvolta dell’integrità fisica e psichica, tanto che nuovi scenari di urgenza psicologica si vanno ridisegnando: aumentano le difficoltà di adattamento e i suicidi tra svariate fette della popolazione mondiale di qualsiasi ceto sociale, a partire dal ministro delle finanze dell’Assia in Germania, toccando molti adolescenti che non riescono a gestire la quarantena, chi vive problemi economici, le persone risultate positive e quelle a rischio contagio, chi non riesce a vivere nell’incertezza e usa l’ultimo disperato tentativo di controllo su se stessi, gli stessi operatori impegnati in prima linea, come medici, infermieri, forze dell’ordine, ma schiacciati dalle pressioni sul fronte contro il coronavirus. Una cosa è certa: il trauma personale e sociale che ognuno singolarmente si trova a vivere durante l’epidemia ha acuito la sofferenza e il dolore mentale, resosi insopportabile per taluni tanto da giungere alla fine più funesta.

Gli studiosi identificano il trauma da evento critico in qualsiasi situazione che provochi un senso opprimente di vulnerabilità o di perdita di controllo (Roger M. Solomon, Ph.D.) e che porti le persone a provare reazioni emotive particolarmente forti, tali da interferire con le loro capacità di funzionare sia al momento che in seguito (Jeff Mitchell, Ph.D.). L’elaborazione avviene tramite una prima fase di normale allarme generale, seguita a una reazione di shock, di confusione, poi dall’impatto emotivo con tempi estremamente diversi da persona a persona. Sussegue la fase del ‘coping‘: la persona affronta, comprende elabora a livello emotivo l’accaduto, infine lo accetta e modifica l’idea di sé in funzione dell’accaduto. Tuttavia, sia la vulnerabilità individuale, causata dagli eventi di vita precedenti e dall’assetto psicologico pre-trauma, che la presenza di reti di sostegno e supporto sociale, possono inficiare sulla risposta psicologica dei soggetti agli eventi esterni. Intuitivo pensare alla difficoltà di elaborazione, quindi, in una situazione il cui il leitmotiv è l’isolamento.

L’esempio più recente di una pandemia a livello mondiale, ossia l’influenza spagnola del 1918, ha lasciato, a causa della censura volta a contenere l’isteria di massa, poche ma importanti testimonianze che riguardano lo stress traumatico dei sopravvissuti e la salute mentale. Anche in questo caso, la quarantena consisteva nel divieto di assembramento in ogni circostanza, inclusi i funerali. I ricoveri psichiatrici settuplicarono, anche in stati che non erano stati coinvolti dalla grande guerra, e tra la popolazione si era sviluppato un insolito stato d’ansia che pervadeva molti pazienti dopo la fase acuta della malattia e talvolta perdurava per anni. Molti dei contagiati dalla spagnola manifestavano successivamente sintomi somatoformi simili alla “sindrome da fatica cronica”, altri furono diagnosticati come “schizofrenici”, tuttavia la maggior parte di questi si rimise nel giro di cinque anni: ciò probabilmente richiama i sintomi dissociativi di origine traumatica e non meramente psichiatrica.

Al giorno d’oggi, il trauma collettivo si esplica attraverso quei carri militari che portano fuori dalle città decine e decine di feretri, corpi nudi, spogliati dalle circostanze e dalla malattia dei propri oggetti personali, ma soprattutto degli affetti e della propria identità. Immaginate le costellazioni familiari e amicali che circondavano la vita di quei defunti, che ora li piangono sommessamente, barricati anch’essi nelle proprie gabbie dorate o meno, privati della comunità che in simili eventi si stringe fisicamente intorno a loro, e che con le mani, le carezze, gli abbracci, lenisce le ferite e asciuga le lacrime, dando anche la possibilità di poter esternare sentimenti, ricordi ed emozioni sulla persona amata.

La cultura, la storia umana, la civiltà, sono nate quando il primo uomo venne seppellito dalla comunità, che attraverso un rituale pubblico rende onore al defunto ed esorcizza nei presenti il dolore, la sofferenza, la paura, tutte le emozioni che rivestono la morte, e che vengono regolate attraverso l’emotività condivisa. Oggi questo viene negato: non si può accompagnare il proprio caro fino allo spegnersi della vita, non si può piangere sul suo corpo ancora caldo, dargli sepoltura o per lo meno assistere e mettere ‘in scena’ quel rituale che è il funerale, fatto di affetti e consolazione. Vissuti di colpa si alternano a dolore funesto, a rabbia cieca, certamente a impotenza. Lutti atipici come quelli che ci si trova a vivere oggi, probabilmente sfoceranno in lutti irrisolti, in cui la sofferenza non si placa o si cronicizza, interferendo con la capacità di funzionare nella vita quotidiana. Il lutto irrisolto o complicato può portare a depressione, oltre che ad altri problemi di salute fisica e mentale. Come affrontare la morte e il lutto in simili condizioni?

Da al tuo dolore le parole che esige. Il dolore che non parla, sussurra bensì a un cuore troppo affranto l’ordine di schiantarsi

diceva il buon Shakespeare, e dopo lunghi secoli questo è sicuramente il primo passo per affrontare il trauma. Dare parole al dolore, simbolizzare l’angoscia e la sofferenza è sicuramente indispensabile per elaborare il lutto in una situazione di emergenza di tale portata, cercando di ristabilire un certo senso di controllo e direzione nella quotidianità della vita. Lasciare andare il senso di colpa, per non aver potuto far nulla, per non esserci stato ‘fisicamente’, per non aver detto addio con parole e con gesti. Concentrarsi sui bei ricordi e sul rapporto che si aveva con la persona amata, più che sulla perdita, anche dedicandole una lettera, scrivendole ciò che non si è riuscito a dirle a voce. Piccoli riti personali possono servire a metabolizzare la perdita, come accendere una candela alla finestra.

Ma soprattutto, bisogna esserci l’uno per l’altro, sebbene il tema della morte risulti spesso un tabù. Le fasi tipiche del trauma e del lutto, come accennato in precedenza, hanno bisogno dell’“altro” per potersi compiere, dell’altro che ascolta, che consola. La tendenza a chiudersi e estraniarsi, il disadattamento, la dissociazione traumatica fatta di sentimenti di vuoto e irrealtà, possono essere superati sicuramente attraverso un adeguato sostegno psicologico, ma anche attraverso la comunità, che deve continuare a ‘stringersi’ attorno a chi soffre, attraverso gli strumenti che sono concessi, organizzando commemorazioni o funerali online per i defunti, videochiamate in cui la regolazione emotiva viene comunque facilitata nonostante la distanza fisica. E, se possibile, accompagnare alla fine con compassione anche chi sta morendo, regalando un ultimo saluto, tramite tablet e videochat, come molti professionisti della salute stanno già facendo in questi giorni.

La comunità, l’empatia e la socialità sono indispensabili anche per gestire il ‘lutto da quarantena’, l’incapacità di fermarsi e lasciare andare la vita di prima, che forse tornerà o forse cambierà definitivamente quando l’epidemia sarà finalmente contenuta. Certo, non aiutano la paura del contagio, la noia, l’isolamento o l’invischiamento in relazioni disfunzionali che possono acuire i vissuti depressivi e l’aggressività auto-eterodiretta. Anche in quest’altro tipo di lutto sono indispensabili le parole, il riconoscere e dare un nome alle emozioni e ai sentimenti di perdita provati, il non sentirsi lasciato solo con il proprio dolore mentale, o con la propria malattia, nel caso di contagio. Il non sentirsi reietto, emarginato, ‘contagioso’. Nei casi più a rischio è bene intervenire tempestivamente: in seguito ad un evento traumatico o a una difficoltà di adattamento possono manifestarsi oltre a vissuti depressivi sintomi di dissociazione e depersonalizzazione, in cui la persona stessa si identifica con il dolore provato, e drammaticamente la fine della vita sembra l’unica soluzione per porre fine a tali emozioni negative.

Un insegnamento dall’esperienza indiscussa sul campo viene dal Prof. Maurizio Pompili, suicidologo di fama internazionale e responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Citando le sue parole:

I soggetti in crisi non vogliono morire piuttosto vivere se riusciamo nel dare loro una prospettiva di sollievo.

È su ciò che bisogna lavorare, e che il Servizio Sanitario Nazionale stesso dovrebbe garantire: prevenire e riconoscere le urgenze psichiatriche, aumentare i servizi di sostegno psicologico al cittadino, prendere in carico il suo dolore mentale, dando sollievo, speranza, una prospettiva nell’incertezza, prima che questa raggiunga livelli catastrofici, poiché egli stesso desideri tornare a vivere. Nello specifico, l’operatore dovrebbe partecipare emotivamente a quel dolore, saper ascoltare e simbolizzare, fungere, per dirla con Bion, da contenitore: aiutare a metabolizzare i vissuti inaccettabili, tutte quelle sensazioni presimboliche e viscerali che l’ansia e il dolore portano con sé, trasformandole in parole ed emozioni in ogni caso tollerabili e degne di essere provate. Far sentire compresa la persona, offrendo assistenza e conforto, ma al tempo stesso accrescendo in lei la consapevolezza sulla propria identità e le proprie risorse, stimolando nuove strategie di coping e aiutandola a sentirsi autoefficace, finalmente in grado di gestire la situazione. In ultimo, intervenire sull’intera comunità dando un senso agli eventi e aiutandola a non perdere la speranza, a vedere, seppur lentamente, una via d’uscita: alimentando la speranza, tramite piccole rassicurazioni, tenui spiragli di riapertura e rinascita che tuttavia non ne mettano a rischio l’incolumità.

In tale contesto bisognerebbe certamente attivare risorse di rete che supportino la salute mentale e creino un contesto di ‘inclusione nonostante la distanza dei cittadini, come già avvenuto in Cina, in termini di sanità pubblica e non solo a livello di volontariato. Seguendo il modello cinese, bisognerebbe precocemente svolgere un primo intervento di assistenza psicologica online da remoto volta ad identificare e aiutare i gruppi target che necessitano di supporto (i contagiati, le famiglie, i gruppi vulnerabili, gli operatori sanitari, agenti di polizia) susseguito a una fase di riabilitazione, sino a raggiungere le urgenze psichiatriche e psicologiche (rischio suicidario, violenza intrafamiliare, ecc.), attraverso una configurazione piramidale che coinvolga tutta la popolazione: alla base c’è la comunità, e man mano che si sale alla sommità si incontrano le varie èquipe operative (operatori sanitari, della comunità, polizia) fino ad arrivare al gruppo supervisori, che fornisce agli operatori competenze psicologiche e un addestramento allo stress pre-evento incentrato sull’impatto psicosociale dell’emergenza, al fine di sviluppare competenze di resilienza per gestire lo stress. Sicuramente, l’emergenza psicologica sarà più urgente una volta contenuta l’epidemia, tuttavia non è mai troppo presto per giocare d’anticipo, fornire nuovi servizi di supporto e ‘inclusione’ nonostante la distanza e permettere la presa in carico ‘comunitaria’ di un disagio, traumatico e luttuoso, che dall’intimo delle case potrebbe cronicizzarsi e causare ancora più danni.

 

Rap, trap ed espressione della rabbia

Sappiamo che la musica rappresenta la colonna sonora di un’epoca, il linguaggio attraverso cui le nuove generazioni definiscono la propria appartenenza collettiva e la propria identità personale. Che funzione hanno Rap e Trap nel far esprimere la rabbia ai giovani?

Michela Scinto e Angela Turco – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Una musica può fare… salvarti sull’orlo del precipizio… 

Così canta Max Gazzè.

Ma cos’è che la musica può realmente fare?

Il seguitissimo Psicologo del Rock in un articolo della sua pagina Facebook afferma che la musica ha sempre avuto la capacità di alleggerire lo spirito favorendo la comunicazione tra mente, corpo e anima, aiutando la persona a esprimere correttamente i sentimenti e a relazionarsi con gli altri, l’ambiente, il proprio Io interiore (Lippi 2017). E’ stato infatti dimostrato che la musica può avere un effetto molto potente sulle nostre emozioni: può rendere felici o aiutare a superare le proprie paure, scatenando sensazioni e ormoni che hanno un effetto diretto e immediato sul nostro umore. Partendo da questo presupposto Spotify dal 2014 sceglie una canzone per ogni emozione. Questo servizio musicale digitale, grazie a Jacob Jolij, professore di psicologia cognitiva e neuroscienze all’università di Groningen, ha potuto individuare le canzoni che suscitano una risposta emotiva più immediata. La playlist contiene le tracce più efficaci per passare dalla tristezza alla felicità o dalla rabbia all’ottimismo (La Stampa 2014).

Questi sono solo degli esempi moderni e contemporanei di successo che trattano i benefici che le canzoni hanno nell’espressione delle emozioni, ma per rendercene conto possiamo pensare a tutte quelle volte che abbiamo cercato di aiutare un amico regalandogli un album musicale o consigliandogli di ascoltare una canzone su Youtube.

Date queste premesse possiamo immaginare che la musica potrebbe essere uno strumento molto utile da utilizzare anche nel setting terapeutico.

Ci concentreremo, in particolar modo, sulla funzione che Rap e Trap potrebbero avere nell’espressione della rabbia. Per farlo però, dobbiamo prima comprendere a cosa ci riferiamo quando parliamo di questi due generi musicali.

Il Rap si basa sulla ricerca di rime, assonanze, metafore e figure retoriche cantate o parlate su basi musicali contraddistinte da ritmi uniformi. Le prime forme di questo genere musicale possono essere rintracciate già verso gli anni ’50 e ‘60 nella cultura afroamericana statunitense, ma la vera musica Rap si sviluppa intorno agli anni ’70 e ‘80 nel clima urbano del South Bronx, un quartiere di New York contraddistinto dalla presenza di differenti etnie e da un contesto socio-economico particolarmente difficile. Le diverse etnie utilizzavano quindi questa forma musicale come strumento di denuncia di discriminazioni e di ingiustizie, identificandosi con il suo messaggio di fondo, con lo stile e con l’intera cultura Hip-Hop. Inizia così a delinearsi un vero e proprio movimento anticonformista capace di esprimersi attraverso uno strumento molto potente: l’arte (Rose, 1994). I rapper, provenienti quasi sempre da contesti sociali disagiati, esibiscono un’immagine particolarmente virilizzata, ribelle e aggressiva; infatti, si mostrano con un abbigliamento e un atteggiamento simile ai gangster degli anni ’20 e con un’ostentazione della ricchezza ottenuta attraverso la musica, sfoggiando gioielli e beni di lusso sia per le strade, che nei loro concerti e video musicali.

Nel suo passaggio in Europa, la musica Rap perde solo una parte di questa immagine violenta e rimane comunque un genere musicale che esprime soprattutto rabbia e denuncia da parte dei più deboli (Miscioscia, 2019).

La Trap, invece, prende il nome dalle trap house: edifici abbandonati di Atlanta in cui i tossicodipendenti, negli anni ’90, andavano a comprare le sostanze stupefacenti. Questi erano luoghi di perdizione, segnati dal degrado, che però hanno contribuito a influenzare l’immaginario di molti giovanissimi degli anni Duemila. Iniziava l’epoca dei Millennials, ragazzi che amavano il rap, ma che hanno deciso di rompere con quella tradizione– pur essendone figli – e che hanno quindi inventato un nuovo genere musicale, la Trap. Questa non nasce tra le mura delle trap house di Atlanta, ma da esse riprende i suoi temi: osanna la droga e una vita fatta di agi e ricchezze, non combatte il degrado e non è antisistema. (Dall’hip hop alla trap: la metamorfosi del “rapping” nella storia, 2018).

A nostro avviso, uno degli elementi che accomuna le canzoni Trap e Rap è la voglia di riscatto sociale e personale manifestati spesso attraverso parole cariche di rabbia. Entrambi i generi hanno qualcosa da raccontare, nascono dal cemento delle strade e spesso dalla sofferenza.

Poiché eccedere è la parola d’ordine dei due generi musicali, che raccontano la vita di strada tra criminalità e disagio, la bella vita e le belle cose, la violenza, lo spaccio di sostanze stupefacenti e le dure esperienze che gli artisti hanno affrontato nelle città, sono spesso generi demonizzati dai genitori. Ma se andassimo oltre la superficie? Sappiamo che la musica rappresenta la colonna sonora di un’epoca, ovvero il primo più importante linguaggio attraverso cui le nuove generazioni definiscono la propria appartenenza collettiva e la propria identità (Miscioscia, 2019) personale e che, più in generale, l’adolescenza è un periodo in cui la rabbia è spesso la risposta ad un conflitto (con se stessi, con i genitori e con il mondo). Con questa consapevolezza potremmo entrare in relazione con loro, come genitori o terapeuti, utilizzando proprio la musica che ascoltano? A nostro parere in terapia potrebbe essere uno strumento prezioso, poiché per i ragazzi rappresenterebbe un modo più funzionale per esprimere e contenere la rabbia e allo stesso tempo la modalità con la quale poter entrare in contatto e comunicare i propri conflitti e tutto ciò che sta accadendo nel loro mondo interno. In parole povere un mezzo attraverso il quale i giovani riescano a riconoscersi, condividere, interpretare ed elaborare la propria vita.

Un esempio dell’utilizzo della musica Rap in terapia è riportato dai colleghi Arianna Ferretti e Luca Pelusi (2017) su State of Mind. Scrivono dell’utilizzo della Group Rap Therapy, ovvero una pratica di intervento creata in America che utilizza la musica Rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza. Riportano che alcuni studi che hanno approfondito la relazione tra musica Rap e comportamento criminale hanno riscontrato che i testi Rap vanno ad influenzare le emozioni e i sentimenti delle persone senza, tuttavia, portare a condotte problematiche (Gardstrom, 1999).

Riteniamo che sarebbe interessante l’utilizzo del Rap e della Trap anche in setting individuali con adolescenti e giovani adulti con disregolazione emotiva. Se è vero che questi generi musicali possono essere utili a pazienti impulsivi, che spesso utilizzano agiti violenti in risposta all’emozione della rabbia, per switchare da una modalità disfunzionale ad una più funzionale; da essi possono trarre giovamento anche giovani, che al contrario, non si autorizzano ad esprimerla permettendo loro di sentirsi liberi di iniziare a familiarizzare con essa in una modalità protetta.

Con fantasia il terapeuta potrebbe rintracciare tantissimi modi in cui utilizzare questi generi musicali attuali sia in seduta che attraverso l’uso di homework. Al ragazzo, ad esempio, potrebbe essere richiesto di associare una determinata canzone a lui emozionalmente vicina ad ogni ABC avente come emozione sottostante la rabbia così da incanalarla positivamente; o ancora, di comporre un testo in cui racconta le situazioni per lui problematiche in rima, rappando o trappando, così da avere una giusta distanza emotiva, dando sfogo alle frustrazioni e sperimentando esperienze di creatività, fiducia e controllo. Attraverso i testi e gli atteggiamenti dei rapper e dei trapper possiamo entrare in contatto con le caratteristiche e le difficoltà che i giovani incontrano lungo la strada della propria nascita sociale come dolore, rabbia, voglia di ribellarsi, disperazione e impotenza e capire così, come aiutarli a canalizzare tali forze.

In generale in adolescenza le emozioni sono intensissime e possono prendere il controllo: con conseguente impulsività, sbalzi d’umore, irritabilità improvvisa ed è utile che questa energia, quindi, possa essere raccolta e racchiusa in attività a forte impatto emozionale, ma a basso rischio come la musica. In questa ottica, potrebbe essere utile ai genitori abbassare i pregiudizi e le difese, per iniziare ad utilizzare questi generi musicali in voga come strumento per comprendere a pieno i figli ed avere con loro un condiviso canale di comunicazione.

Quindi, per dirlo con le parole dello Psicologo del Rock, armiamoci di pazienza e di una playlist Rap (o Trap) per entrare in contatto con i ragazzi di oggi: invece di essere disgustati dalle loro scelte, cerchiamo di comprenderle per creare un dialogo costruttivo.

 

I complessi sintomi della fame: l’esempio del Minnesota Starvation Experiment

Ormai molti anni fa Ancel Keys mise in piedi uno studio per osservare durante sei mesi, quali fossero gli effetti fisiologici e psicologici di una dieta con una forte restrizione calorica e sul modo migliore di nutrire e riabilitare chi aveva sofferto condizioni di fame e malnutrizione estrema.

 

Il 19 novembre 1944, con la seconda guerra mondiale che stava per concludersi e le forze alleate che si facevano strada tra la distruzione e la miseria di un Europa devastata dalle bombe, negli Stati Uniti iniziava un controverso ed estenuante esperimento che, per quanto datato, ancora oggi suscita un notevole interesse clinico. L’avanzata dei soldati americani verso Berlino faceva incontrare ogni giorno civili, che in fuga dalla furia della battaglia, erano riusciti a sopravvivere con pane, patate e poco più, sopportando ogni tipo di privazione psicofisica.

Ancora relativamente poco la scienza si era occupata della fame umana e sugli effetti globali che essa poteva avere sull’organismo umano. Così Ancel Keys, un giovane professore dell’Università del Minnesota e consulente del dipartimento di guerra, mise in piedi uno studio per osservare durante sei mesi, quali fossero gli effetti fisiologici e psicologici di una dieta con una forte restrizione calorica e sul modo migliore di nutrire e riabilitare chi aveva sofferto condizioni di fame e malnutrizione estrema.

Per lo studio, che successivamente prese il nome di “Minnesota Starvation Experiment”, furono selezionati 36 giovani obiettori di coscienza normopeso e in piena salute, che si erano offerti volontari rispondendo a uno strano volantino che chiedeva: Will you starved that they be better fed? (Morirai di fame affinché vengano nutriti meglio?).

Durante lo studio i vari partecipanti erano liberi di frequentare i loro corsi universitari, ma avevano l’obbligo di dormire nel laboratorio di igiene dell’università e di assolvere a diversi compiti durante la settimana, quali percorrere almeno 35 chilometri a piedi e consumare circa tremila calorie al dì con attività varie, a fronte di un apporto calorico giornaliero dalla dieta di solo 1800 calorie. L’obbiettivo era di perdere almeno 1 Kg a settimana, fino a raggiungere una riduzione di peso del 25% alla fine del periodo di digiuno. La quantità di cibo che ogni uomo riceveva durante i pasti dipendeva da quanto veloce stesse progredendo verso il suo obbiettivo settimanale.

Man mano che l’esperimento andava avanti, i partecipanti cominciarono a essere più affamati, l’entusiasmo iniziale cominciò a scemare e il potente effetto della limitazione del cibo iniziò a fare effetto.

Gli uomini riportarono numerose modificazioni fisiologiche come: ridotta tolleranza alle basse temperature, vertigini, stanchezza estrema, indolenzimento muscolare, dolori addominali, scomparsa del desiderio sessuale, perdita di capelli, ridotta coordinazione, ipersensibilità al rumore e alla luce e ronzii nelle orecchie. Oltre a questi sintomi furono rilevati anche importanti cambiamenti psicologici: depressione, irritabilità, apatia, ansia, sbalzi del tono dell’umore.

Molti lasciarono le lezioni universitarie perché semplicemente non avevano più energie e motivazioni necessarie per frequentare con costanza e concentrarsi.

Questa inedia prolungata pian piano alimentò ideazioni ossessive riguardo il nutrirsi, un atto che ben presto divenne ritualizzato, al fine di alleviare l’enorme sofferenza data dal digiuno forzato. Molti diluivano il loro cibo con acqua per farlo sembrare di più, altri sminuzzavano gli alimenti in piccolissimi pezzetti, altri ancora tenevano il boccone a lungo in bocca per assaporarlo meglio. Tutti quanti cominciarono a mangiare più lentamente nel tentativo di allungare il tempo passato a contatto con il cibo e la maggior parte arrivò a masticare una moltitudine esagerata di chewing-gum e a bere una gran quantità di tè e caffè per attenuare la sensazione di fame.

Molti uomini cominciarono a collezionare libri di cucina e di ricette. Ormai il cibo era diventato un pensiero fisso e assillante che non riuscivano più a togliersi dalla testa. Parecchi fra gli obiettori non riuscirono ad aderire alla dieta e manifestarono episodi bulimici, seguiti da rimproveri a se stessi e sensi di colpa. Un partecipante passando davanti a un fornaio, fu attirato così tanto dall’odore dei dolciumi all’interno, che addirittura comprò una dozzina di ciambelle per poi distribuirle a dei bambini in strada, con il solo intento di poterli guardare mentre si abbuffavano davanti a lui.

Una volta finito l’esperimento, la maggior parte dei partecipanti, non avendo più restrizioni riguardo la dieta, non riuscì per molti mesi a tornare a un regime alimentare normale, mangiando in maniera smoderata e arrivando a essere sovrappeso. Alcuni in seguito alle frequenti abbuffate, furono costretti a rivolgersi al pronto soccorso per farsi sottoporre a lavanda gastrica.

Questo esperimento, come già detto, seppur concluso da quasi ottanta anni, ha ancora una grande importanza dal punto di vista clinico e diagnostico. I sintomi che accusarono i giovani infatti, sono quelli che comunemente vengono riscontrati in un disturbo alimentare, nello specifico l’anoressia nervosa.

Le alterazioni emotive, sociali, cognitive, fisiche e del comportamento alimentare osservate negli obiettori di coscienza sono le stesse che, di fatto, si riscontrano nelle persone affette da anoressia nervosa e possono, per molti aspetti, essere considerate conseguenze dirette del digiuno.

Nella pratica clinica quindi, un aspetto fondamentale da chiarire dal punto di vista psicoeducativo, sta nel comprendere come i complessi sintomi emotivi e cognitivi che si pensava fossero esclusivi dell’anoressia nervosa, sono da ritenersi causati in realtà dal repentino calo ponderale e dalle condizioni di estremo sottopeso in cui molto spesso versano le pazienti che presentano tale disturbo.

 

Riflessione aperta: vivere la gravidanza durante l’emergenza Coronavirus

Oggi viviamo un momento storico difficile ed estremamente complesso che merita di essere osservato con cautela. Ai tempi del Coronavirus, appare fondamentale valutare i fattori di vulnerabilità materna e di coppia durante la gravidanza e fornire, se necessario, interventi psicologici di sostegno.

 

Generalmente la ricerca di un figlio è caratterizzata da un insieme multifattoriale di processi che si sviluppano contemporaneamente su più livelli: psichico, fisico e sociale. In tale percorso entrano una serie di desideri, aspettative e investimenti emotivi che sono del singolo, della coppia, della famiglia e del sistema socioculturale in cui si vive .

Nel momento in cui si raggiunge la gravidanza, si verificano profondi cambiamenti fisiologici e psichici, non solo il corpo si prepara per fare spazio ad un altro diverso da sé, ma in stretta connessione con se stessa, ma avvengono trasformazioni emotive che scavano così internamente all’individuo che si prepara a sviluppare la propria identità materna o paterna. L’arrivo di un figlio richiede anche una stretta collaborazione nella coppia nel tentativo di strutturare uno spazio fisico e mentale che accolga il figlio, è uno spazio di condivisione affettiva che mette in sintonia le aspettative di entrambe le componenti coinvolte.

Sappiamo dalla letteratura che nelle diverse fasi della gravidanza possono esserci situazioni di elevato stress, per il concepimento, per la tipologia di gravidanza, il timore del cambiamento, le variazioni ormonali e tante altre (solo per citarne alcune).

Oggi viviamo un momento storico difficile ed estremamente complesso che merita di essere osservato con cautela. Appare fondamentale valutare i fattori di vulnerabilità materna e di coppia durante la gravidanza ai tempi del coronavirus e valutare la possibilità di fornire interventi psicologici adeguati a sostegno delle future madri e padri che possano andare a ristrutturare eventuali situazioni creatasi in questa epoca di Pandemia (che possano aiutare la coppia a ristrutturare configurazioni di vissuto e di assistenza o cura creatasi..). Il Coronavirus e la sua rapida diffusione hanno messo sotto forte pressione il sistema sanitario italiano che, oltre a gestire i ricoveri dell’epidemia, deve garantire alle donne in gravidanza i servizi di assistenza e di gestione della gravidanza stessa. La presenza di così tanti casi positivi negli ospedali ha reso necessaria l’adozione di nuove precauzioni per tutelare le donne incinte e i loro figli, riducendo inoltre il rischio che il coronavirus sia trasmesso ai nuovi nati anche nel caso in cui la madre sia risultata infetta. Questo ha comportato nuove norme e procedure come ad esempio l’impossibilità di essere accompagnate alle visite dal proprio partner, l’accesso attraverso percorsi specifici agli ambulatori, la distanza tra operatori e pazienti che ha reso per molti la percezione dell’ambiente meno accogliente. Fino ad ora non abbiamo numerose ricerche che spiegano il funzionamento del virus nelle donne in gravidanza, o nei neonati, sappiamo da alcune ricerche fatte in Cina che il virus (SARS-CoV-2) non sembra passare nel sangue del cordone ombelicale, nel liquido amniotico e nel latte materno. Non ci sono casi di trasmissione dalla madre al feto durante la gravidanza e sembra essere che il contagio possa eventualmente avvenire dopo la nascita, in seguito ai contatti tra madre e figlio (se la madre ha contratto il virus). Il rapporto tra madre e neonato nei 9 mesi di gravidanza e nei primi giorni dopo il parto è molto importante, sarebbe preferibile, quindi, mantenere invariata la vicinanza madre-figlio alla nascita dove possibile.

Tuttavia, nonostante tutte le premesse, dal racconto narrativo di alcune testimonianze di donne in gravidanza raccolte e dalle paure e rappresentazioni del loro vissuto, è stato possibile capire che si è creato un contesto nuovo di “accoglienza” che sembra rispecchiare paure profonde in tema di responsabilità genitoriale e un contesto relazionale in cui vengono veicolate informazioni diverse dagli operatori connesse anche esse alla paura del contagio. Si è costituito un contesto virtuale di accoglienza della gravidanza e del bambino che ha permesso la creazione di uno spazio immaginario costituito da gioie e paure condivisibili attraverso il cyberspazio, che funge da surrogato di abbracci, baci, e carezze che avrebbero invece avuto un impatto di nutrimento immediato attraverso il corpo.

Il timore del contagio sembra veicolare informazioni che si depositano in primis attraverso il corpo e in secondo luogo emotivamente vengono trasformate in segni o sintomi. Emerge una solitudine emotiva inattesa rispetto alle aspettative immaginarie del “diventare madre” determinata dal distanziamento sociale nel quale viviamo a causa del coronavirus che ha trasformato i rituali di festa attorno alla gravidanza da parte di parenti, amici e conoscenti.

In virtù di tutte le narrazioni raccolte e del pericolo di “ trasmissibilità” alla nascita, abbiamo ritenuto necessario interrogarci sulle possibili reazioni emotive a questo da parte delle donne in gravidanza e sulle trasformazioni relazionali nella relazione madre-figlio/a. Cosa provano le donne che scoprono la gravidanza oggi? Quali sono gli stati emotivi? Cosa provano invece le donne che partoriscono in questo periodo? Cosa narrano? Quali effetti psicologici può avere questo nella rappresentazione della gravidanza, nella formazione di un identità materna e nella rappresentazione delle responsabilità connesse alla figura di genitore? Quali emozioni più ricorrenti possiamo rintracciare nei loro vissuti? Di cosa hanno bisogno?

Sarà necessario comprendere come queste variazioni di contesto sociale abbiano influito durante la gravidanza e come il distanziamento sociale avrà influito sui bambini appena nati che magari per molto tempo non potranno essere accolti tra le braccia dei nonni o ancora peggio tra quelle di mamme che hanno contratto il virus, che non potranno interagire con un volto neutro, ma con un volto “mascherato”.  Sappiamo che il primo strumento con cui un neonato/una neonata viene al Mondo è il suo cervello somatico ed è proprio il corpo il primo magazzino di raccolta informazioni sull’ambiente circostante, ne consegue che sarà importante tener presente le variabili che influenzeranno la relazione del nuovo nato/a con l’ambiente. Dice la dottoressa Anna La Mesa “il suono del vagito di un bimbo squarcia emozioni profonde”, l’importante è che le mani che accolgono siano forse mani serrate di paura ma non vuote.

A tal proposito in questo clima di timore e di preoccupazioni con l’equipe dell’Associazione Idee di Salute abbiamo costruito un questionario con il fine di indagare alcune aree scegliendo come campione donne che scoprono la gravidanza durante la quarantena e a donne che partoriscono in questa quarantena, di rintracciare i vissuti emotivi delle donne in gravidanza, l’insorgere di disturbi legati all’umore, all’ansia o al sonno, e di osservare le loro risposte e le loro richieste con l’obiettivo di accogliere le necessità  di queste mamme e di questi bimbi che avranno il compito di risvegliare una profonda speranza di vita in coloro che avranno la fortuna di ascoltare il suono del loro primo pianto.

 

Sei una donna in gravidanza o che ha partorito durante questo periodo? Puoi aiutare la ricerca compilando un questionario. Clicca QUI.

Grazie Infinite

Let me take a selfie: nell’epoca dei social media l’autostima narcisistica è in grado di spiegare il comportamento online di promozione del Sé?

Uno studio si propone di indagare alcuni aspetti del comportamento di postare selfie in relazione ai sottotipi del narcisismo adattivo, all’autostima e al ruolo che l’interazione tra l’autostima individuale e i sottotipi del narcisismo hanno nel predirlo.

 

Il narcisismo è conosciuto per l’essere caratterizzato da una forte tendenza alla promozione del Sé, oltre che da una spiccata inclinazione al voler apparire affascinanti agli occhi degli altri (Lee, Ahn, & Kim, 2014) e questo ha spinto la letteratura a studiare la relazione tra il narcisismo e il comportamento di postare selfies, considerando quest’ultimo come il risultato dell’intento di promuovere la propria immagine sui social media (Fox & Rooney, 2015; Weiser, 2015). Vari studi hanno infatti confermato che il numero di selfies pubblicato giornalmente è molto alto (Sorokowski et al, 2015), che le donne più degli uomini tendono ad utilizzarli come strumenti per ottenere ammirazione (Carpenter, 2012) e che è presente una relazione circolare tra il narcisismo ed il postare selfies (Fox & Rooney, 2015). Sembrerebbe infatti che alti livelli di narcisismo siano associati ad un elevato numero di selfies scattati e che tale comportamento aumenterebbe a sua volta i livelli di narcisismo dell’individuo.

Tuttavia essendo poche le ricerche che trattano il rapporto tra il narcisismo ed il comportamento di postare i selfies, il presente studio (March & McBean, 2018) si propone di indagare alcuni aspetti: la relazione tra i sottotipi del narcisismo adattivo e il comportamento di postare selfies, la relazione tra l’autostima e il comportamento di postare selfies e il ruolo che l’interazione tra l’autostima individuale e i sottotipi del narcisismo hanno nel predire il comportamento di postare i selfies.

Sono stati somministrati a 227 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 73 anni dei questionari online, includendo oltre alle informazioni sul genere e l’età, il Narcissistic Personality Questionnaire (NPI; Ackermann et al., 2011), che misura il narcisismo attraverso le sottoscale Leadership/Autorità, Esibizionismo Grandioso e Senso di diritto/ Sfruttamento, il Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 1965), che misura i livelli di autostima utilizzando una scala Likert a 4 punti, e la valutazione del numero di selfies pubblicati in una settimana attraverso una scala Likert a 7 punti (Fox & Rooney, 2015).

I risultati hanno mostrato che la sottoscala dell’Esibizionismo Grandioso risulta essere l’unica ad essere associata positivamente con il comportamento indagato, in linea con i risultati dei precedenti studi (Moon et al., 2016; Weiser, 2015). È stata inoltre trovata un’associazione positiva tra i livelli di autostima e il numero di selfies postati. Nello specifico, bassi livelli di autostima sono associati a un’elevata presenza del comportamento di promozione del Sé online, come indicato dai risultati di studi precedenti (Mehdizadeh, 2010). Infine, è stato rilevato che l’interazione tra la sottoscala dell’Esibizionismo Grandioso e la bassa autostima è in grado di predire il comportamento di postare selfies, corroborando le precedenti ricerche secondo le quali l’autostima è in grado di moderare la relazione tra il narcisismo ed altri comportamenti (Barry e al, 2010).

I risultati complessivamente confermano l’esistenza di una relazione tra il narcisismo e il comportamento di postare selfies e sottolineano come la bassa autostima sia un importante moderatore in questa relazione. Tuttavia, il presente studio ha il limite di non considerare altri fattori che potrebbero intervenire nel determinare il comportamento online degli individui. Nello specifico, è necessario considerare le tendenze in voga nelle nuove generazioni e la possibilità che il comportamento di postare i selfies sia il risultato di una moda anziché l’esito di un determinato tratto di personalità (Bergman et al, 2011). Il presente studio ha infatti considerato un campione con un range di età molto ampio (18-73 anni), ma è auspicabile per il futuro indagare il rapporto caratteristico tra ciascuna categoria rientrante nelle nuove generazioni (es. Baby Boomers, Generation X e Millenials) ed il comportamento di postare selfies.

 

L’effetto orso bianco

Confidandoci con gli amici o con i familiari spesso ci siamo sentiti rispondere “non pensarci!”. Tuttavia, gli esperimenti di Wegner sul famoso effetto orso bianco suggeriscono che questo sia il peggior consiglio che si possa dare: infatti, cercare di sopprimere i pensieri può essere effettivamente controproducente.

 

 Prova ad eseguire questo compito: non pensare ad un orso polare, e vedrai che la maledetta cosa ti verrà in mente ogni minuto.

È così che Fëdor Dostoevskij sfidò suo fratello, come riporta nel suo racconto del 1863 Note invernali su impressioni estive. Questa famosa citazione fu ripresa successivamente da Wegner, professore di  psicologia di Harvard, padre della ricerca sulla soppressione del pensiero, che incuriosito da questo aneddoto, nel 1987 decise di compiere un semplice esperimento (Wegner D.M., 1987) per capire se tale frase avesse un fondamento di verità. D’altronde è un’esperienza comune a tutti noi quella di tentare di allontanare i pensieri spiacevoli che affollano la nostra mente. Sia che si stia cercando di non pensare a un evento traumatico, sia che stia cercando di non pensare al nostro cibo preferito durante una dieta oppure a un amore perduto che ci sta facendo soffrire molto. La nostra esperienza quotidiana ci suggerisce continuamente che tentare di sopprimere un pensiero è una cosa non affatto facile.

L’esperimento di Wegner era molto semplice, un gruppo di volontari fu fatto sedere in una stanza e fu chiesto loro di pensare per cinque minuti a qualsiasi cosa, tranne che al famoso orso bianco di Dostoevskij. A ciascun partecipante fu dato poi il compito di suonare un campanello ogni volta che l’orso polare gli fosse venuto in mente. In brevissimo tempo un concerto di campanelli cominciò a risuonare nella stanza, evidenziando che nessuno dei volontari era in grado di sopprimere quel fastidioso pensiero proibito.

Successivamente Wegner diede istruzioni ai partecipanti di “provare a pensare a un orso bianco” per cinque minuti. A quel punto, i volontari pensarono a un orso bianco anche più spesso rispetto a un altro gruppo di controllo a cui era stato dato un compito inverso, ovvero di cercare prima di pensare a un orso bianco e poi tentare di non pensarci. I risultati suggerirono che il tentativo di soppressione del pensiero per i primi cinque minuti, aveva causato un “rimbalzo” nella mente dei partecipanti, spingendoli paradossalmente a pensare all’orso bianco ancora di più.

Nei decenni successivi Wegner sviluppò e ampliò la sua teoria sull’effetto orso bianco, detta teoria dei “processi ironici”. Constatò in maniera inequivocabile che quando proviamo a non pensare a qualcosa, una parte della nostra mente effettivamente evita il pensiero proibito, ma un’altra parte, tenta di controllare ogni tanto i nostri processi interni per assicurarsi che il pensiero non venga fuori, conducendoci quindi ironicamente a pensarci ancora di più.

Riguardo alle dipendenze ad esempio, uno studio più recente (Erskine J.A, Georgiou G.J, Kvavilashvili L., 2010) ha dimostrato come tentare di sopprimere i pensieri sul fumo porta dapprima a una riduzione del fumo, per poi assistere a un grave effetto di rimbalzo che induce a fumare molto di più.

Ma quali sono allora le strategie che possiamo mettere in atto per riuscire a diminuire la frequenza con cui si presenta un certo pensiero sgradevole?

Wegner ha descritto diversi metodi che lui e altri hanno trovato efficaci per aiutare a sopprimere i pensieri indesiderati:

  • Scegliere un distraente efficace e concentrarsi su quello: in un altro studio Wegner ha chiesto ai partecipanti di pensare a una Volkswagen rossa piuttosto che a un orso bianco. Avere un pensiero distraente ha aiutato i partecipanti a sopprimere il pensiero indesiderato. Quindi ad esempio, scegliere di rivolgere la nostra concentrazione su attività alternative piacevoli, può permetterci di riuscire a canalizzare con minor frequenza la nostra attenzione sui pensieri sgradevoli.
  • Rimandare il pensiero: delimitare uno spazio nella quotidianità della durata di mezz’ora dove potersi preoccupare, si è dimostrato efficace a evitare di rimuginare per il resto della giornata.
  • Riduzione del multitasking: essere oberati di impegni e sottoporsi a un notevole carico mentale facilita la comparsa di pensieri sgradevoli.
  • Esposizione e accettazione: permettersi di esporsi al pensiero che si vuole evitare in maniera consapevole e accettare che esso entri nel nostro flusso di coscienza, farà in modo che sia meno probabile che quel pensiero affolli la mente altre innumerevoli volte.
  • Meditazione e consapevolezza: le pratiche di meditazione come la Mindfulness, rafforzano il controllo mentale e aiutano le persone a evitare i pensieri indesiderati permettendo di distanziarsi da essi.

Gli esperimenti di Wegner sull’effetto orso bianco di fatto sembrano andare in direzione contraria rispetto a quella che è la nostra esperienza comune. Quante volte confidandoci con gli amici o con i familiari ci siamo sentiti rispondere: “non pensarci!”.

Stai cercando di smettere di fumare? Non pensarci. Stai cercando di non mangiare dolci? Non pensarci. Stai cercando di superare il dolore di una relazione finita? Non pensarci.

Gli esperimenti di Wegner suggeriscono che seppure animato da buone intenzioni, questo è il peggior consiglio che si possa dare. Cercare di sopprimere i pensieri può essere effettivamente controproducente. Nel tentativo costante di sopprimere i pensieri sgradevoli, la maggior parte delle persone si ricorda di pensare ad altro, ma ogni tanto si ricorda anche di pensare a quello che non sta pensando solo per assicurarsi di non pensarci: ecco che allora come per magia, prendono forma nella nostra mente il dannato pacchetto di sigarette, le gustose barrette di cioccolato, la tanto desiderata vecchia fiamma.

Quindi quando avete un pensiero di cui volete disfarvi, invece di evitarlo e far sì che diventi un ossessione, lasciate che arrivi e accettatelo con calma, distraete la mente con attività piacevoli, rilassatevi e affrontatelo con consapevolezza. Solo così il vostro orso bianco se ne andrà in letargo.

 

Cosa può cambiare nella vita del medico e di ogni operatore sanitario in una situazione di pandemia come quella attuale per COVID-19?

Il Dr. Paolo Pellegrino, medico specializzato in anestesia e rianimazione, psicoterapeuta e docente di psicologia, in questo video risponde alle domande del giornalista Romano Tripodi nel corso dell’intervista realizzata dall’Associazione Medicina e Frontiere, fondata dal prof. Michele Guarino. Durante l’intervista, il dott. Pellegrino, spiega come la pandemia stia avendo degli effetti psicologici non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su medici e operatori sanitari in generale, implicando alcuni cambiamenti (Ndr).

 

 Certamente la situazione che stiamo vivendo da quasi due mesi, ormai lo dicono tutti, sta inevitabilmente cambiando molti aspetti della nostra vita, della nostra esistenza. Ogni cambiamento significativo porta con sé cambiamenti nel modo di vedere e pensare noi stessi, di vedere il mondo e gli altri, cambiamenti nel nostro modo di sentire e di vivere la realtà, cambiamenti nei nostri comportamenti personali e sociali. E giustamente può valer la pena chiedersi: ci sono e quali possono essere questi cambiamenti a cui può andare incontro e probabilmente a cui sta andando incontro il medico e il personale sanitario in genere?

Mi azzardo a fare qualche riflessione in questo senso dato che nel mio percorso professionale ho conosciuto e vissuto gli aspetti impegnativi e drammatici di una terapia intensiva. Successivamente, dopo la specializzazione in psicoterapia, ho iniziato ad occuparmi, ormai da anni, di indagare, studiare e valutare gli effetti e le reazioni psicologiche di fronte a situazioni difficili o problematiche che la persona umana si può trovare a vivere.

E quindi cosa sta mutando? In primo luogo direi l’immagine di sé, a cui inevitabilmente e necessariamente fa riscontro un cambiamento nella percezione dell’altro e nel vissuto relazionale con l’altro. Questi mutamenti io direi che possono riguardare tre aspetti: la propria salute, la propria bontà, il proprio potere.

Riguardo alla propria salute, sottolineerei che il prendersi cura di persone malate o bisognose può significare postulare la propria salute o la propria sufficienza. Io posso curare perché sono sano. Proprio perché sono sano e ho le sufficienti difese dalle malattie, in particolare della malattia che sto curando, e so come affrontarla, mi percepisco e costruisco la mia capacità e possibilità di curare l’altro, il malato.

In questa linea l’assistere una persona bisognosa può offuscare la consapevolezza del proprio bisogno o del rischio a cui si va incontro. Forse molti nostri colleghi, all’inizio di questa drammatica pandemia, non hanno avuto modo di realizzare il proprio bisogno di autoprotezione. E il curare la salute degli altri, in questo caso, ha comportato la compromissione della propria salute (e in ogni caso rimane sempre il rischio di poterla compromettere). Ecco allora che in questa situazione la malattia dell’altro non postula più la mia salute, ma piuttosto la inficia, la mette a rischio: sottolinea quanto anche io, medico, infermiere, psicologo,… non sono immune dalla malattia, ma posso essere vulnerabile, fragile e debole.

Riguardo al secondo aspetto, la bontà, direi che l’essere e sentirsi benefattore o salvatore può contribuire a garantire una buona immagine di sé, come una persona buona, che sa essere accogliente, comprensivo, sa abbracciare e sostenere. In una situazione di pandemia come l’attuale, il malato, che è fonte di possibile contagio e quindi di malattia, diventa un nemico, una minaccia, diventa l’untore da cui bisogna tenersi lontano. In questo caso la mia bontà, la mia comprensione e accoglienza possono sbiadire; invece di sentirmi buono e accogliente mi posso sentire teso, ostile, oppure freddo, distante, o persino cinico: il paziente è guardato con sospetto, bisogna mantenere le distanze da lui! E potrei arrivare anche a provare sentimenti di rabbia verso di lui perché mi fa sentire cattivo, perché in qualche modo sta mettendo in crisi la mia bontà, l’immagine di me come buono e accogliente. In altre parole, la difficoltà o l’impossibilità di aiutare (perché mi devo tenere a debita distanza, perché non posso o non riesco ad avere tutte quelle accortezze e delicatezze e affettuosità che magari sono solito avere verso un paziente) facilita l’insorgenza del dubbio sulla mia bontà ed io posso arrivare addirittura a percepirmi come cinico o persino malvagio.

L’ultimo aspetto, il proprio potere. In generale il medico, o chiunque svolge una professione di care-giving, si può proporre come padre onnipotente, che è in grado di risolvere più o meno tutto e quindi in grado di avere un certo potere sulla malattia e sullo stato psicofisico del malato. Ma l’incontro con una patologia per la quale non è facile avere una terapia adeguata, con una malattia che pertanto non è facilmente risolvibile, attacca l’immagine del potente salvatore, generando nel professionista sentimenti d’impotenza e di depressione: la scoperta della propria impotenza può far vivere come insopportabile o persecutoria la malattia del paziente!

In sintesi mi sentirei di dire che questa pandemia sta avendo degli effetti non solo clinici ma anche psicologici, e non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su chi si prende cura di chi ne è affetto. Da una parte, quindi, ritengo che tutto ciò possa aiutare noi medici, e tutti gli operatori sanitari, a un’utile e forse opportuno ridimensionamento della visione idealizzata della nostra professione. Dall’altra mi sembra importante essere consapevoli del fatto che ci possono essere dei cambiamenti nella percezione dell’immagine di sé, dell’altro, della propria professione e del proprio ruolo.

Pertanto un’adeguata riflessione e consapevolezza sui cambiamenti che questa pandemia sta generando, penso possa aiutarci certamente a ridimensionare la tendenza a una visione idealizzata di sé, ma al contempo può metterci in guardia, proteggerci e preservarci da sensazioni di profonda frustrazione che potrebbero aprire le porte a fenomeni più seri e drammatici quali quelli del burnout.

 

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE:

 

Effetti secondari del COVID-19 – Risvolti psicologici della quarantena

Il presente contributo è stato scritto prima che iniziasse la Fase 2 dell’emergenza

Improvvisamente la nostra vita è cambiata: i diversi decreti che si sono succeduti ci hanno visto abbandonare le nostre abitudini, le nostre routines, la nostra libertà.

 

Quali sono gli effetti psicologici del COVID-19, o meglio della pandemia? Quando tutto sarà finito come reagirà la mente? Il rischio di un Disturbo da Stress Post Traumatico è reale! La parola chiave diventa: RESILIENZA.

Dichiarazione della pandemia

 Improvvisamente la vita di tutti noi è cambiata: da Febbraio si sono susseguiti una serie di Dpcm (Decreti ministeriali del presidente del consiglio) dal contenuto sempre più restringente, passando dall’epidemia alla pandemia: ci hanno detto di non recarci più a lavoro, di non andare più a scuola, gradualmente di non recarci più in palestra, di non andare più a correre, o al centro commerciale, ai giardinetti, di non incontrare più gli amici, né tantomeno i nostri cari. In questa escalation di privazioni ci è stato detto di AVER PAURA!

Per quale motivo? Per quale assurda ragione dobbiamo rinunciare alla nostra libertà?

Il motivo è invisibile, un virus che non possiamo percepire, ma che sta mietendo tante vittime in tutto il mondo.

E allora la priorità assoluta è divenuta preservare il bene primario, la vita. Restando chiusi in casa, uscendo solo per motivi strettamente necessari, e con le dovute cautele (mascherine e guanti entrati ormai a far parte del nostro abbigliamento), si riduce il rischio di essere contagiati.

Come recita l’art.13 della Costituzione Italiana

La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione […] se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

E l’art.16 prosegue

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.

Le limitazioni la legge le ha stabilite, non è possibile neppure uscire dal proprio comune e per circolare occorre portare con sé un modulo, un’autocertificazione, sì perché se non c’è un valido motivo che giustifica il nostro spostamento si va incontro ad un’ammenda e si diventa fuorilegge.

All’improvviso la tecnologia è diventata la nostra migliore alleata, non che prima non lo fosse, costringendo anche chi aveva poca dimestichezza con smartphone, tablet e pc a familiarizzare con essi, con lo scopo comune di restare “collegati” con il mondo. Ecco allora che si è iniziato a lavorare da casa con la formula dello smart working, gli studenti hanno iniziato a fare scuola in videoconferenza, tutti siamo ricorsi alle videochiamate per poter comunicare e restare in rete.

Persino le terapie psicologiche-psicoterapiche si svolgono online…

Effetti psicologici della quarantena

Gli occhi sono puntati sulla salute fisica ed è giusto in un momento di emergenza.

Ma guardiamo ora l’altra faccia della medaglia! Quali effetti comporta questa clausura obbligata? Quali sono gli effetti psicologici?

Ciascuno di noi “era” abituato a ritmi frenetici, tra lavoro, scuola, famiglia, impegni con gli amici, hobby…le giornate erano scandite da ritmi frenetici e 24 ore erano a volte anche poche per far fronte ai tanti impegni. All’improvviso tutti abbiamo dovuto rinunciare a tutto ciò: costretti a casa, a vivere h24 con i nostri familiari: niente più svaghi, niente più spazi propri, ma un unico spazio condiviso.

A breve termine c’è chi può aver beneficiato di questa spina staccata, sicuramente i bambini, finalmente a casa con mamma e papà e non più sbalzati tra nido, scuola e nonni. Gli stessi bambini che non riescono a spiegarsi e rappresentarsi questo cambiamento repentino, che relegati in casa non capiscono perché non possono più andare fuori a giocare, non possono più incontrare i compagni, o andare dai nonni.

Tutti siamo magari stati “contenti” di poterci riposare un po’…ma nessuno immaginava inizialmente tutto questo, nessuno immaginava la gravità della situazione e il suo perdurare così a lungo.

Ogni giorno veniamo bombardati da informazioni e la speranza è che ci venga detto che è tutto finito e possiamo finalmente riappropriarci della nostra vita. Invece no, tra informazioni spesso divergenti tra loro, la vecchia vita sembra ormai un ricordo lontano e tutti siamo chiamati a riformulare le nostre priorità e le nostre abitudini.

Allora ecco che si insinua la paura, perché la mente umana ha paura dell’ignoto, il non conosciuto: ci affidiamo a ciò che conosciamo perché ci fa sentire sicuri, tranquilli, protetti, perché ci permette di poter prevedere le conseguenze, rinunciando ad esplorare ciò che è posto in ombra, ciò che è sconosciuto o poco noto, proprio perché riduce la nostra capacità di predire, agire, reagire.

Come reagiremo una volta terminata la fase 1? Dal 4 maggio potremo di nuovo circolare e non vediamo l’ora che ciò succeda, siamo scalpitanti, contando i giorni e le ore che ci separano dalla rinascita, dalla riconquista dei nostri spazi.

Ma sin da ora quotidianamente i mezzi di informazione ci mettono in guardia sulle buone norme da seguire, sulle cose da evitare, sul come comportarci nel nuovo mondo “digitalizzato”: sono, infatti, al vaglio diverse ipotesi su app in grado di avvisarci se veniamo in contatto con possibili soggetti contagiati, il tutto nel rispetto della privacy.

Siamo pronti? Davvero non vediamo l’ora di riaccendere i motori?

Sicuramente c’è bisogno di ripartire, in primis per ragioni economiche, dato lo stallo nel quale siamo confinati.

Ma teniamoci pronti perché il mondo non sarà come lo abbiamo lasciato: la spensieratezza che fino a gennaio connotava ciascuno di noi, ha lasciato il posto alla paura. Si ha paura di andare al supermercato, si avrà paura di prendere un mezzo pubblico, si avrà paura di incontrare un amico, si avrà paura di fare qualsiasi cosa che prima era automatica. Nel prossimo futuro ogni nostra azione diverrà ragionata e dovremo imparare a convivere con emozioni quali l’ansia, l’angoscia, la tristezza.

La mente umana necessita di tempi adeguati per metabolizzare gli eventi, darvi un senso ed accettarli: il COVID-19 rappresenta sicuramente un trauma per ciascuno di noi, esso ha posto una frattura tra un prima e un dopo. Infatti nella vita che vivremo la memoria ci riporterà costantemente ai momenti pre-pandemia e non potremo non provare un senso di sopraffazione perché la nostra capacità di autodeterminazione verrà messa a dura prova!

In seguito all’esposizione a eventi del genere è possibile sviluppare un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS). Infatti, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione (DSM-5) riconosce tra i criteri per la diagnosi come la persona debba essere stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:

  1. la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri;
  2. la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore.

La parola d’ordine, allora, diventa RESILIENZA, intesa come capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e/o stressanti, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità, senza soccombere.

È imprescindibile non lasciarsi abbattere dal cambiamento, ma trarne insegnamento per la vita futura.

Ecco allora che lo slogan “ANDRA’ TUTTO BENE”, che ci siamo ripetuti come un mantra sortirà effetti benefici: bisogna crederci! Allora sì che andrà tutto bene!

 

Psicoterapia: per una prospettiva psicodinamica dell’intervento

La psicoterapia viene considerata, all’unanimità, come una modalità di intervento effettuato con mezzi prettamente psicologici che, pur attuati mediante procedure che differiscono tra loro per il diverso orientamento teorico a cui si rifanno, sono finalizzati ad aiutare le persone nella soluzione dei propri problemi affettivi, emotivi, comportamentali, interpersonali di vario genere e a incrementare la qualità della vita

L’attività psicoterapeutica: verso il processo di cambiamento

La legge del 18 febbraio 1989, n. 56, in Italia, decreta che l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia (D.M. 11 dicembre 1998, n.509).

Tale attività si rende utile in relazione alla “domanda” di cui il paziente si fa portatore e saranno il problema e gli obiettivi che il soggetto pone in essere ad orientare quest’ultimo verso un intervento psicologico-clinico o più propriamente psicoterapeutico (Cionini, 2001).

Per inciso, risulta utile distinguere tra domanda e committenza. Con il termine committenza s’intende l’interpretazione della situazione (il che cosa, il come e il perché); la domanda consiste, invece, nei significati generalizzati che fondano e rendono sensate tali teorie (Salvatore, 2015).

Per ciò che concerne lo sviluppo della psicoterapia, è interessante sottolineare che negli ultimi anni si sono sviluppati diversi orientamenti e la diversificazione di tali approcci ha favorito la possibilità di accedere a quadri teorici differenti, che si rendono utili ognuno in base ad ogni caso e richiesta specifici che il terapeuta dovrà accogliere.

Altresì, oltre alle differenze tra le varie scuole, la psicoterapia si è sviluppata diversamente nelle varie parti del mondo anche in relazione alle tradizioni politiche e culturali esistenti nei diversi paesi (Cionini, 2013).

Per fare soltanto alcuni esempi, la psicoanalisi ha avuto origine nella cultura mittel-europea e solo successivamente si è diffusa anche nei paesi di cultura anglosassone, mentre, al contrario, l’ottica comportamentista (e più recentemente quella cognitivo-razionalista) si è sviluppata in coerenza con lo spirito scientifico della cultura anglosassone, e solo in un secondo momento si è diffusa nel resto d’Europa (Cionini, 2013).

A tal proposito, in virtù della presenza fortemente eterogenea di modelli psicoterapeutici, ad oggi non è stato possibile ricondurre a una definizione univoca il concetto di psicoterapia (Cionini, 2013). Tuttavia, si colgono in modo evidente degli aspetti comuni ai diversi approcci, senza i quali l’intervento psicoterapeutico non si renderebbe possibile. Primo fra tutti, assume un ruolo fondamentale il concetto di relazione terapeutica, vale a dire una relazione interpersonale fra il terapeuta e il paziente che consenta l’instaurarsi di un’esperienza affettivamente ed emotivamente significativa e che comporti un’alleanza terapeutica benefica per il paziente e volta al raggiungimento di un cambiamento attraverso obiettivi sempre condivisi in uno spazio altamente collaborativo tra i due soggetti.

Tale relazione si svolgerà all’interno di uno spazio di cura definito setting, che dovrà essere riservato e adeguato alle esigenze terapeutiche.

Altresì, il processo di cambiamento viene coadiuvato dall’azione del terapeuta atta a garantire al paziente la conoscenza e l’acquisizione di nuovi punti di vista e prospettive con i quali, quest’ultimo, potrà ampliare il proprio range di azione con procedure che possano orientarlo verso un comportamento sempre maggiormente adattivo. Il paziente dovrà, dunque, essere supportato dal terapeuta, il quale, con un atteggiamento di contenimento, sostegno emotivo, comprensione, accettazione ed empatia, favorirà il cammino verso il cambiamento (Cionini, 2001).

Il cambiamento in psicoterapia deriva, quindi, dalle caratteristiche succitate che vengono orientate dalle procedure e dalle tecniche che caratterizzano la modalità di intervento del terapeuta.

Parallelamente alle comunanze testè esposte, le teorie epistemologiche di riferimento a cui ogni scuola di psicoterapia fa capo, oltre alle diverse modalità di pensare la definizione degli obiettivi, l’articolazione del setting, l’impostazione del contratto terapeutico, la modalità di valutazione clinica, il ruolo più o meno centrale attribuito alla relazione terapeutica e le tecniche e le procedure specifiche, rappresentano, all’opposto, gli aspetti difformi di ogni approccio.

In definitiva, la psicoterapia viene considerata, all’unanimità, come una modalità di intervento effettuato con mezzi prettamente psicologici che, pur attuati mediante procedure che differiscono tra loro per il diverso orientamento teorico a cui si rifanno, sono finalizzati ad aiutare le persone nella soluzione dei propri problemi affettivi, emotivi, comportamentali, interpersonali di vario genere e a incrementare la qualità della vita; quindi che la psicoterapia porti a cambiamenti personali che implicano uno sviluppo del modo di vedere, pensare, sentire, agire (Cionini, 2013). Tali cambiamenti permetteranno a chi ne usufruisce, di sperimentare nuove modalità con cui vivere la propria relazione col mondo.

Psicodinamica nella psicoterapia

Parlare di psicoterapie ad orientamento psicodinamico significa riferirsi a quelle tecniche derivanti dalla psicoanalisi, nata ad opera di Sigmund Freud (1856-1939) all’alba del Novecento. All’interno di questo paradigma si inseriscono diversi contributi quali quello della “Psicologia analitica” di C.G. Jung (1875-1961), della “Psicologia individuale” di Alfred Adler (1870-1937), degli “Psicologi dell’Io”, della “Scuola inglese” con Melanie Klein (1882-1960), della “Psicoanalisi interpersonale e relazionale”, della “Psicologia del sé” di Kohut (1913-1981), della “Teoria dell’attaccamento” di Bowlby (1907-1990) e la continuazione della sua opera a cura di Mary Ainsworth (1913-1999), di Jacques Lacan (1901-1981) e della “Scuola francese”  (Cionini, 2013). Tuttavia, il movimento psicoanalitico non esaurisce la sua portata alle scuole predette; queste ultime, infatti, rappresentano solo alcuni degli sviluppi e degli scenari teorici che hanno ospitato una vastissima varietà di altri autori.

L’approccio psicodinamico è dunque basato sui fondamenti della psicoanalisi ma si differenzia da quest’ultima per il numero di sedute e per il mancato utilizzo del lettino. Nella terapia psicoanalitica, infatti, il paziente è disteso e il numero di sedute è maggiore rispetto a quello della terapia psicodinamica, dove il paziente sarà, inoltre, seduto.

Altresì, all’interno della psicoterapia psicodinamica si distinguono un tipo di psicoterapia psicodinamica a lungo termine (più di ventiquattro sedute o della durata di oltre sei mesi) e una psicoterapia psicodinamica a breve termine (meno di ventiquattro sedute o sei mesi) (Gabbard, 2010).

Le terapie psicodinamiche, pur basandosi su differenti modelli teorici, presentano degli aspetti comuni che travalicano le specifiche cornici di riferimento e che riguardano i concetti di alleanza terapeutica, transfert, controtransfert, resistenza ed elaborazione e le modalità conclusive della terapia (Gabbard, 2010).

È interessante notare come un aspetto fondante la particolarità di questo approccio sia rappresentato dalla curiosità che il paziente mostra riguardo la conoscenza verso se stesso.

Il paziente che può beneficiare di un tale intervento è un soggetto interessato a conoscere e a comprendere quei modelli pregressi e inconsci che hanno tracciato, nella sua esperienza soggettiva di vita, un percorso più o meno consolidato che lo rende oggi intrappolato in schemi disfunzionali che gli causano sofferenza. Sono dunque il desiderio di comprendere se stessi, la volontà che si realizzi una certa consapevolezza del funzionamento del proprio sé e una significativa motivazione, a indicare al paziente la propria adeguatezza a un simil trattamento (Gabbard, 2010).

In questo senso, diventa importante durante l’intervento, che il terapeuta sappia cogliere la capacità di mentalizzazione del proprio paziente, ovvero la capacità di quest’ultimo di percepire i propri e gli altrui stati mentali come spiegazioni del comportamento e, pertanto, di comprendere che il proprio comportamento è guidato da punti di vista e credenze non sempre condivisi dall’altro da sé.

Tutto ciò richiede e implica la comprensione dei propri stati interni (Gabbard,  2010).

Altresì, l’intervento psicodinamico oscilla tra un atteggiamento più prettamente espressivo a uno maggiormente supportivo, che il terapeuta deve flessibilmente adottare in base ai bisogni del paziente (Gabbard, 2010).

Lo psicoterapeuta psicodinamico osserva, inoltre, le modalità con le quali il paziente è solito relazionarsi al mondo e all’altro da sé e, in questo caso, al terapeuta, manifestandole nella relazione con quest’ultimo.

Oltre all’osservazione delle caratteristiche succitate, il terapeuta dovrà saper cogliere se il paziente è in grado di gestire gli impulsi e di tollerare le frustrazioni mostrandosi resiliente davanti alle avversità; in questo caso ci si troverà davanti a un Io forte caratterizzato da buone risorse. Contrariamente, un soggetto che controlla con difficoltà gli impulsi e mostra problematiche relative all’esame di realtà o alla tolleranza di taluni stati affettivi, mostra un Io debole (Gabbard, 2010).

Fondamentale per risolvere il disagio psichico della persona è, altresì, saper comprendere il conflitto inconscio che anima e muove la sofferenza manifesta del paziente, ovvero quella difesa che si contrappone a un desiderio o a un impulso, creando disagio e dolore (Gabbard, 2010).

Tutti gli elementi sin qui presentati vengono colti ed elaborati in un’ottica di collaborazione costante tra il terapeuta ed il paziente, i quali, sin dai primi momenti della loro relazione comunicheranno l’un l’altro e stabiliranno sempre apertamente gli obiettivi da raggiungere e i momenti di esplorazione di alcune questioni.

In questo senso, anche la parte conclusiva della terapia può assumere diverse forme e verificarsi secondo diverse modalità in base al caso specifico e deve essere un momento altamente partecipato e condiviso tra paziente e terapeuta.

Conclusioni

In definitiva, la psicoterapia psicodinamica si pone l’obiettivo di comprendere un’altra persona in modo empatico e non giudicante, all’interno di una relazione significativa stabilita con quest’ultima. In questo modo è possibile favorire un processo di comprensione di sé stessi e delle proprie modalità di relazionarsi al mondo, facilitando il processo di apertura e di fiducia con e nell’altro da sé.

Il terapeuta che si mostra sensibilmente interessato ad accogliere e a comprendere la storia dell’altro, può sostenere la persona e aiutarla a liberare la propria esistenza dalla coltre di nebbia che ha oscurato, per forse gran parte del suo tempo, quelle risorse che spesso non si conoscono ma che si possiedono e che, dunque, devono essere individuate e riconosciute.

In questo modo, dopo essere stata accompagnata ed emotivamente sorretta, ogni persona può finalmente imparare a librarsi verso un volo autonomo e più consapevole della propria esistenza, libera di lasciare entrare dentro di sé nuovi mondi, nuovi spazi, per più ampi racconti di sé.

La conversazione nell’era digitale. Come la tecnologia sta plasmando il nostro cervello sociale (2019) di F. Fiorilli – Recensione

La conversazione nell’era digitale è un testo che fornisce in modo estremamente esauriente una serie di importanti nozioni sul funzionamento del cervello e della comunicazione, in particolare su come la tecnologia stia modificando le nostre competenze sociali.

 

Il titolo stesso ci fornisce un immediato spunto di riflessione, ovvero aiuta a comprendere che se da un lato la comunicazione grazie alle nuove tecnologie viene estremamente facilitata e semplificata, dall’altro il fenomeno della conversazione subisce una serie di sottrazioni paralinguistiche fondamentali per l’evoluzionismo filantropico.

Non è mia intenzione aprire l’ennesima polemica sugli aspetti negativi per la psiche umana di questo impoverimento comunicativo, mi propongo soltanto di attivare un forte pensiero critico rispetto al fenomeno. Per fare ciò è necessario avere accesso ad una serie di informazioni sul funzionamento della mente.

Con concetti semplici ed efficaci, fruibili anche ai “non addetti ai lavori”, ma utilissimo se adottato dai professionisti del settore, questo manuale fornisce una prima rassegna di teorie sullo sviluppo, filogenetico e ontogenetico, della psiche sociale e del cervello relazionale.

Una volta creato un framework teorico, il lettore avrà la possibilità di riflettere sui processi psicologici e le funzioni mentali che vengono attivati, o disattivati, dinanzi a questo nuovo adattamento (o disadattamento); ed è proprio nell’ultimo capitolo che l’Autrice si sofferma sulla necessità di recuperare quelle competenze sociali che costituiscono da sempre la base di uno dei bisogni primari dell’essere umano, quello della socializzazione: funzioni metacognitive e metaemotive, accudimento ed empatia, condivisione, trasmissione analogica delle emozioni e degli affetti.

L’interazione, in fisica, viene definita come

la reciproca azione fra le particelle, corpi o sistemi, che porta a una modifica del loro stato e della loro energia. (Vocabolario Treccani)

Il cervello, in psicologia, viene considerato come un sistema che per sopravvivere deve scambiare energia con gli altri sistemi, se questo non avviene si raggiungerebbe uno stato definito entropia della mente (Scrimali T., 2006).

Il libro spiega, quindi, la necessità di contrastare l’impoverimento dell’interazione, di recuperare le sue originali connotazioni non verbali.

L’argomento è estremamente attuale e si affianca ai numerosi progetti di psicoeducazione volti a prevenire e gestire non solo le dipendenze dalle nuove tecnologie, ma soprattutto a modificare l’aridità comunicativa che caratterizza le nuove generazioni nel rapporto con i pari e con le figure di attaccamento.

Un libro piacevole da leggere, interessante dal punto di vista teorico e accademico, di ispirazione dal punto di vista dell’intervento professionale.

 

Non di solo pane vive l’uomo: una riflessione amara sulle conseguenze emotive della quarantena

Il presente contributo è stato scritto prima che iniziasse la Fase 2 dell’emergenza

Mia figlia abita a Baggio. Da un mese non posso vederla. La legge è inflessibile. I virologi, che ogni giorno ci arringano dai media reali e virtuali non hanno dubbi: in questo periodo di diffusione del coronavirus ogni contatto umano è pericoloso.

 

Non voglio certo fare polemiche. Ho qualche dubbio che un tipico virus respiratorio possa essere controllato con le classiche misura della quarantena e della ricerca e dell’isolamento dei contatti. Non sono comunque un igienista e mi rimetto come ogni cittadino all’indicazione degli esperti. Del resto, come diceva Socrate, è nostro dovere obbedire sempre alle leggi (Platone, Critone).

Nel disperato tentativo di rallentare la marcia del virus le autorità hanno adottato misure di profilassi senza precedenti nella storia recente del nostro paese. Le libertà fondamentali garantite dalla costituzione sono state rapidamente sospese: libertà di movimento, libertà religiosa, libertà di manifestazione, libertà di riunione e di svolgere attività politica. Le elezioni sono rinviate sine die.

Questi provvedimenti davvero draconiani sono stati salutati con uno straordinario consenso, anzi sono stati in qualche modo invocati dai media e da vastissimi strati dell’opinione pubblica. Le trasgressioni sono relativamente infrequenti. Non si è manifestata alcuna forma di opposizione organizzata. Anzi in taluni casi le forze dell’ordine sono dovute intervenire per impedire improvvisati pogrom di cittadini ipoteticamente infetti da parte della maggioranza benpensante. Dobbiamo concludere che le attuali restrizioni della libertà personale rappresentano ed in qualche modo esprimono sentimenti ampiamente diffusi nella nostra società.

La formulazione delle misure restrittive viene presentata ai cittadini come espressione di asettici dati scientifici. In realtà le diverse strategie adottate nei vari paesi dell’unione europea dimostrano che la selezione delle misure di profilassi implica delle scelte. La società, la politica sono state chiamate a stabilire delle priorità, a identificare ciò che è veramente vitale per l’uomo contemporaneo. Questa gerarchia, squisitamente etica e politica, ha governato i tempi dei divieti e presto governerà le priorità nella progressiva liberalizzazione di attività e stili di vita, che seguirà inevitabilmente all’emergenza.

L’epidemia da coronavirus rappresenta quindi un test proiettivo molto potente. Ci informa sulla contemporaneità più che ogni inchiesta di popolazione o studio sociologico.

Al centro troviamo, anzitutto, la vita fisica, e non poteva che essere così. Le attività sanitarie sono state autorizzate tout court. Forze dell’ordine, protezione civile ed esercito svolgono quasi esclusivamente la funzione di garantire il rispetto delle misure profilattiche. La lotta contro l’epidemia non può fare a meno di loro. Viene poi evidentemente il settore alimentare. Il cibo è necessario alla sopravvivenza.

Ma oltre il corpo? La cultura, la religione, la politica? Soprattutto quale spazio dare alle forze motivazionali che legano gli umani gli uni agli altri?

Il governo, ma direi gli italiani, non hanno avuto dubbi. Le emozioni, gli affetti non hanno una realtà materiale. Anzi, nella prospettiva di un rigido riduzionismo materialista, non esistono affatto. Con coerenza il governo ha interrotto senza la minima esitazione qualsiasi visita agli ospiti degli istituti penitenziari. Ne è scaturita una serie di rivolte per le quali è costata la vita a 13 detenuti. Mentre è stata rispettata la famiglia nucleare, le coppie sposate o conviventi, i genitori con i loro bambini o ragazzi, le interazioni intergenerazionali sono state cancellate con un rigo di penna. Le visite ai figli adulti o ai nonni sono state messe al bando. All’amore tra l’uomo e la donna non è stata riconosciuta alcuna rilevanza sociale.

Un paradigma fortemente biologico governa poi la vita dei malati negli ospedali. La inevitabile paura di noi operatori, così come l’epistemologia che domina la cultura medica contemporanea, ha dettato indicazioni precise: nessun contatto umano.

Le interazioni con i malati sono ridotte al minimo, a quel minimo reso necessario dalla cura del corpo. Volti irriconoscibili avvolti da tute e mascherine fanno capolino brevemente oltre porte per il resto sempre chiuse. La scienza virologica, ci viene spiegato senza cessa dai media, non consente di accomiatarsi da chi ci lascia per sempre: madre padre, marito, moglie, figlio e figlia. Si muore soli. Non ci sono eccezioni: E i forni attendono i cadaveri senza quell’ultimo saluto che le civiltà umane hanno imparato a riconoscere anche ai peggiori nemici.

Confesso che sono rimasto sgomento ed ho qualche difficoltà a riconoscermi in una comunità nazionale così indifferente ai legami del sangue e del cuore. Ma non si tratta di romanticismo od idiosincrasia. Come psichiatri, e come psicoterapeuti, soprattutto come uomini, sappiamo bene che l’amore è necessario alla vita. Tanto quanto la farina che va a ruba nei supermercati.

Negli anni ‘30 nei reparti di pediatria era uso allontanare qualsiasi familiare dal bambino. Presenze troppo emotive rallentano il lavoro dei clinici e certo comportano potenziali rischi infettivologici.

Le conseguenze furono gravi. Presto i bambini si rattristavano, perdevano interessi e vitalità, peggioravano e talvolta morivano. René Spitz (1945) fu in grado interpretare la sindrome dell’ospedalismo come espressione della deprivazione dalla figura materna. Lo studio sperimentale ed etologico del legame madre-bambino ricevette poi un impulso straordinario degli studi di John Bowlby.

Lo psicologo britannico dimostrò che i legami parentali e di coppia hanno una specifica base nei comportamenti geneticamente determinati e sono un prerequisito per la sopravvivenza di tutti i mammiferi.

Del resto i nostri vecchi sapevano bene che di cuore, di crepacuore, si muore. E la moderna epidemiologia ci ha fornito precise conferme empiriche: i lutti, le separazioni, sono seguiti da un significativo incremento di decessi. L’isolamento sociale comporta un incremento della morbilità e della letalità di svariate malattie.

L’uomo ha bisogno di amore. L’uomo ha bisogno di amicizia. La salute psichica e fisica dipendono da una persistente rete di contatti umani e sociali. Quali danni sta producendo l’isolamento sociale che stiamo perseguendo con tanta pervicacia?

Le cronache dell’epidemia ci parlano ogni giorno di coniugi, fratelli e figli che muoiono a breve distanza da un congiunto. Banali coincidenze statistiche?

Temo proprio che la paura che ci attanaglia in questa fase così difficile ci stia portando fuoristrada. Forse scopriremo presto che alla paura abbiamo sacrificato ciò ci cui abbiamo più bisogno.

 

Religione e vita sessuale: un’analisi sul rapporto tra sessualità e religiosità in un campione di giovani adulti

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Sexuality & Culture ha indagato la correlazione esistente tra religiosità, etnia, vita sessuale e identità sessuale in un campione di studenti universitari (Hall et al., 2020).

 

Non c’è dubbio che nel corso dei secoli la religione abbia considerevolmente influenzato la concezione dell’amore e del sesso nella cultura occidentale e, più in generale, in tutte quelle culture che di religione sono intrise fino all’osso (es. Njus & Bane 2009; Soloski et al. 2013;). Naturalmente, non tutte le religioni sono uguali né lo sono tutti i religiosi; in questo studio gli autori si sono soffermati sull’analisi della religiosità (intesa qui come il sentimento di fede verso un’entità superiore, di devozione) in correlazione con l’etnia, il rapporto verso la sessualità e l’identità sessuale in un campione di giovani adulti iscritti all’università (Hall et al., 2020).

Come ormai è risaputo, la religiosità è spesso associata ad atteggiamenti tendenzialmente conservatori e alcune ricerche hanno dimostrato che queste attitudini potrebbero essere influenzate anche dall’etnia e dall’identità culturale (Ahrold & Meston 2010); per quanto riguarda la sfera sessuale, la religiosità sembra avere un impatto maggiore sulle donne che sugli uomini; le donne religiose, quindi, vedono la loro vita sessuale maggiormente influenzata dal credo religioso rispetto alla controparte maschile (Owen et al., 2010). Questo però, non ha lo stesso peso per tutte le etnie: infatti, sembra che una religiosità intrinseca sia associata a conservatorismo sessuale più nelle giovani donne asiatiche che in quelle europee, americane (Ahrold & Meston 2010) e afroamericane (es. Rostosky et al. 2003).

Il presente studio (Hall et al., 2020), partendo dal presupposto che la religiosità influenzi atteggiamenti e credenze riguardanti il romanticismo e la sessualità, si pone l’obiettivo di fare un passo avanti rispetto alla letteratura presente sull’argomento, esaminando valori e comportamenti relazionali che potenzialmente si associano all’essere religiosi.

Il campione preso in analisi, composto da 6068 studenti universitari sia maschi che femmine, ha dovuto inizialmente definirsi come molto religioso, moderatamente religioso, mediamente religioso, moderatamente non religioso e per nulla religioso seguendo una scala Likert a 5 punti. Ha inoltre dovuto specificare la propria etnia, la cultura attuale d’appartenenza, l’identità sessuale e la propria visione riguardo ad alcuni ambiti della sessualità e dei rapporti romantici (matrimonio, divorzio, aborto, convivenza pre-matrimoniale, friendship with benefit -ovvero quelle amicizie con frequenti rapporti sessuali che tuttavia non sono riconosciute come relazioni romantiche-, l’esistenza del “vero amore”, ecc.) per un totale di 100 domande.

I risultati hanno mostrato studenti con un punteggio più elevato nella religiosità, avevano più probabilità di credere nell’unico “vero amore” ed erano più tendenti a rimanere sposati anche nel caso di un tradimento del partner o di sentimenti verso altre persone; inoltre, un alto livello di religiosità era anche associato alla disapprovazione verso l’omosessualità e verso le friendship with benefit. Gli studenti religiosi hanno anche mostrato remore nella convivenza prematrimoniale, verso l’aborto e verso l’utilizzo di siti o applicazioni (meeting, Tinder…) per incontrare un potenziale partner.

Tuttavia, le analisi dei dati hanno anche suggerito una differenza significativa tra le varie etnie riguardo alla religiosità, suggerendo che le associazioni tra la religiosità e i risultati appena citati possano essere valide solo in alcuni casi (Hall et al., 2020).

 

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