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Bambini e Adolescenti confinati in casa. Come prevenire i rischi psico-fisici?

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento alla situazione attuale legata al covid-19 e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento. Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

 

 In risposta alla pandemia da coronavirus (COVID-19) il governo italiano ha ordinato la chiusura delle scuole a livello nazionale allo scopo di limitarne la diffusione. Questo radicale cambiamento della quotidianità, i limiti imposti e l’incertezza riguardo al presente e al futuro hanno generato un forte disorientamento in ogni soggetto, dal più grande al piccolo. Ma fermiamoci a riflettere sui vissuti di bambini e adolescenti.

Sono circa 8 milioni gli studenti che dai banchi di scuola si sono ritrovati di colpo confinati nelle loro case. La misura straordinaria ha costretto alla ricerca di un’alternativa alla frequenza scolastica, optando per una didattica a distanza, in cui mezzi telematici da computer a tablet a connessioni internet sono le principali risorse. Non è stato e non è tuttora semplice interfacciarsi con una realtà così diversa. Videochiamate, meeting, messaggi non bastano per parlare di “scuola”. Ogni giorno si apprezza e si riconosce la preziosità della tecnologia, si imparano nuove cose e ci si riconosce capaci di fare qualcosa che sembrava così difficile. Ma come è stare dietro ad un schermo? Non poter abbracciare un compagno, guardarlo negli occhi, giocare, chiacchierare con lui, condividere le proprie giornate con quella classe che oramai è una famiglia. Nonostante si cerchi di garantire il diritto all’istruzione, sostenendo le famiglie, garantendo uguali diritti anche ai più deboli, andando incontro ai bisogni dei singoli studenti garantendone l’integrazione, la prolungata chiusura scolastica, l’isolamento nelle mura domestiche e la limitata socializzazione con i coetanei potrebbe avere importanti conseguenze negative sulla salute psicofisica di bambini e adolescenti.

Sono numerosi i fattori di stress in gioco:

  • tempi lunghi
  • paure connesse al virus e alla possibilità di infezione
  • continue informazioni, spesso inadeguate e forte allarmismo
  • mancanza di contatti sociali con compagni, amici e insegnati
  • assenza di spazio personale in casa
  • difficoltà economiche familiari
  • stati d’animo negativi

L’impatto del COVID-19, tuttavia, non è uniforme tra le varie famiglie e il contrasto è spesso netto. Alcune hanno perso i propri cari e vivono l’infezione molto da vicino, altre si trovano in regioni con una minore diffusione. Alcuni bambini hanno genitori che svolgono un lavoro in prima linea con i contesti COVID-19, altri hanno sospeso il lavoro o lavorano in casa. Il filo comune che attraversa ogni casa, ogni famiglia, è sicuramente un vissuto ricco di paura ma ciò che è ritenuto di fondamentale importanza, soprattutto quando parliamo dei più piccoli, è il vivere il proprio ambiente familiare come confortante.

La comunità scientifica riconosce tra i rischi maggiori, la possibilità di sviluppare varie psicopatologie: disturbi d’ansia, depressione, ossessioni, fobie, psicosi, disturbi alimentari, disturbi del sonno e disturbi post-traumatici. Parliamo di reazioni da parte del corpo e della mente in risposta ad una situazione particolarmente difficile. Ad entrare in gioco sono numerosi fattori, dalla vulnerabilità personale al contesto di vita, considerando la realtà individuale prima del virus. E’ chiaro che, la stessa situazione può avere un significato differente per il singolo individuo, perciò è necessario tener conto dell’elaborazione soggettiva operata da ognuno. Il momento attuale, non è altro che un fattore di invalidazione, ossia una situazione stressante che espone la persona ad una minaccia. Hans Seley, medico austriaco, ha descritto come l’organismo reagisce agli eventi stressanti, parlando di Sindrome generale di adattamento. A tal proposito, è possibile distinguere tre fasi:

  • una prima fase di allarme con l’attivazione del sistema nervoso autonomo
  • una seconda fase di resistenza, caratterizzata da adattamento allo stress
  • una terza fase di esaurimento nel caso in cui lo stress permanga e l’organismo non metta in atto risposte adeguate per fronteggiarlo.

In questa situazione di emergenza ogni soggetto avrà attraversato allo stesso modo la prima fase di carattere fisiologico mentre le successive risposte emotive e comportamentali dipendono da percezione e immaginazione individuale. Ad assumere un ruolo centrale è il significato che la persona attribuisce all’evento e quindi i pensieri con cui si ritrova a fare i conti.

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento.

Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

Tra i fattori che hanno un forte impatto sulla salute psicofisica di bambini e ragazzi, vi è in prima linea l’assenza di una routine quotidiana che contribuisce ad aumento del tempo libero, maggiore sedentarietà, spostamento dei ritmi sonno-veglia, isolamento sociale e alimentazione disordinata.

Ne conseguono nuove abitudini poco salutari che a lungo termine possono avere effetti dannosi.

Cosa fare?

Evitare tutto ciò partendo con un’accurata informazione.

Mantenere le giornate strutturate organizzando attività che possano riempire la quotidianità. Ciò non significa essere rigidi ma dare ordine e diffondere uno stato di sicurezza almeno in quella che è la propria zona confort.

Tra queste prediligere attività che tengono a bada lo stress e che permettono l’emergere del cocktail emotivo associato all’attuale situazione di emergenza da COVID-19.

Al primo posto troviamo l’espressione artistica e creativa grazie alla quale bambini e ragazzi riescono a dare significato alla confusione e alla paura.

Arte e gioco rappresentano modalità per connettersi attraverso simboli e metafore permettendo loro di prendere il controllo del loro ambiente caotico.

Creatività e immaginazione, tipiche dei più piccoli, hanno un ruolo preziosissimo: permettono l’espressione di ciò che è più difficile, sono la chiave d’accesso al loro mondo così spontaneo e ingenuo.

Di seguito riporto le parole di M. un bambino di 10 anni con diagnosi di ritardo cognitivo durante una video lezione nel periodo di quarantena. Di fronte a semplici domande, nonostante si trovasse dietro allo schermo con la sua educatrice, riesce a dire quello che prova attraverso il gioco, parlando di emozioni, del dolore e la fatica connessi all’emergenza. Un esempio di libera espressione.

Mi viene da urlare: ‘basta corona virus!’. Mi mancano i miei amici. Mi sento nervoso, ho la rabbia nella pancia che si lamenta e anche lei dice: ‘basta corona virus, stai zitto!’
Vorrei combattere con questo mostro verde e brutto, mi servirebbe una spada magica che trasforma il mostro in un coniglio buono.
Con un’esplosione vorrei distruggere questo virus, proprio come fa lady bug con il suo yo-yo
che trasforma un’acuma cattiva in un’acuma buona. Così la mia rabbia si trasformerebbe anche lei in felicita’.
Felicita’ nel cuore che mi farebbe saltare in alto come un simpatico canguro e arrivare fino alle mie maestre, alle nonne e ai miei amici per riabbracciare tutti.
Ma il posto che raggiungerei prima di tutti è il mare per nuotare libero nell’acqua azzurra.
Il virus diventato un coniglio buono e goloso di carotine, guarisce tutti quando si trasforma in un dottore speciale.

A ciò segue, l’importanza del movimento. Fare sport o semplicemente giocare dinamicamente, oltre a favorire la crescita cognitiva, emotiva e sociale, è utile a modulare le emozioni, a combattere lo stress, a scaricare le tensioni accumulate aumentando le energie e uno stato generale di benessere.

Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della sanità indicano raccomandazioni differenziate per ogni fasce d’età, secondo tempi e modalità distinte.

In questo periodo, giochi o attività di movimento svolti in casa, possono avere un duplice beneficio: essere un modo per esprimere emozioni più o meno spiacevoli e allo stesso tempo contribuire positivamente alla propria salute psico-fisica.

La combinazione tra libertà di espressione, movimento, ascolto, attenzione e valorizzazione sono punti fondamentali nella relazione genitori-figli. Inoltre, condividere la situazione di emergenza presuppone un confronto intimo, un’opportunità nella relazione. Il tempo a disposizione, gli spazi a volte troppo ristretti “costringono a stare insieme”. Quanto questo può unire o dall’altra parte separare?

L’adulto in tutto ciò, mettendo a disposizione un modello sano, senza riversare le sue angosce, senza soffocare emozioni e l’espressione della propria identità, funge da fattore protettivo in questa situazione d’incertezza.

Per mitigare le conseguenze del confinamento domestico, il governo, le organizzazioni non governative (ONG), la comunità, la scuola e i genitori devono essere consapevoli del lato negativo della situazione e fare di più per affrontare immediatamente le difficoltà. Le esperienze apprese dai precedenti focolai possono essere utili per la progettazione di un nuovo programma per affrontare le problematiche.

Ritrovandosi oggi in quella che è definita “la seconda fase”, si iniziano a fare progetti futuri, a fantasticare sulla realizzazione di desideri emersi durante la quarantena proprio per l’impossibilità di poter fare ciò che prima d’ora era spesso considerato ‘scontato’. Non bisogna però escludere la presenza di vissuti di paura all’idea di uscire dall’uscio di casa. In questa fase, ancora ricca di incertezza e timori sarebbe auspicabile fare piccoli passi verso il ritorno di una vita senza la pandemia. Prepararsi alle nuove disposizioni che dopo l’estate hanno come obiettivo quello di un graduale rientro a scuola e a tutte quelle attività che appartengono alla quotidianità di ognuno.

In attesa che esca il sole, attuando le varie strategie d’azione più adeguate, ci si ripara da questa pioggia sottile e pungente.

 

Intimate touch: l’importanza del tocco del partner nelle relazioni sentimentali

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Social and Personal Relationships ha indagato l’importanza all’interno delle relazioni sentimentali dell’intimate touch (letteralmente “tocco intimo”, tutto ciò che riguarda il contatto fisico non visto come approccio sessuale) correlato con lo stile di attaccamento adulto (Wagner et al., 2020). 

 

L’intimate touch, costituisce un aspetto fondamentale all’interno delle relazioni intime (Brennan, Wu, & Love, 1998). Nonostante vi sia una gran mole di ricerche su come il contatto fisico influenzi i rapporti intimi fin dalla nascita (basti pensare alla relazione genitore-figlio; Ainsworth & Bell, 1969), il suo impatto all’interno delle relazioni sentimentali non è mai stato adeguatamente indagato.

Alcune ricerche mostrano una correlazione positiva tra intimate touch e soddisfazione relazionale (Gulledge et al., 2003), alcune il suo impatto nel migliorare gli stati d’animo nei partner (Sbarra & Hazan, 2008). Nonostante questo, non tutti sono soddisfatti, all’interno delle loro relazioni, dell’intimate touch del proprio partner (McNulty et al., 2016).

Sebbene i fattori che determinano la soddisfazione dell’intimate touch non siano ancora del tutto chiari, alcuni studiosi tendono a metterlo in correlazione con lo stile di attaccamento adulto della coppia (Ozolins & Sandberg, 2009). Infatti, valutare lo stile di attaccamento dell’individuo può aiutare a comprendere il motivo per il quale alcune persone cercano una maggior frequenza di intimate touch rispetto ad altre (Debrot et al., 2013), necessitando, per esempio, di più carezze e abbracci.

Gli autori del presente studio (Wagner et al., 2020) si sono posti l’obiettivo di comprendere come la soddisfazione rispetto all’intimate touch del proprio partner all’interno del matrimonio si associ agli stili di attaccamento nell’età adulta. Tra le ipotesi della ricerca, troviamo l’idea che un attaccamento insicuro porti a una minor soddisfazione per le manifestazioni di affetto del partner e, di conseguenza, per l’intimate touch e che individui con attaccamento ansioso siano più tendenti a interpretare in maniera catastrofica la mancanza di gesti di affetto quotidiani, e quelli con uno stile di attaccamento evitante preferiscano una maggior distanza interpersonale; infine, gli autori hanno ipotizzato che una minor soddisfazione verso l’intimate touch causi minor soddisfazione relazionale in generale e una valutazione negativa del matrimonio.

Il campione dello studio era composto da 180 coppie eterosessuali sposate e ognuno dei partecipanti ha dovuto completare un’intervista self-report online.

I risultati hanno mostrato che mariti con uno stile di attaccamento ansioso erano tendenzialmente meno soddisfatti dell’intimate touch; inoltre, un minor numero di dimostrazioni di affetto quotidiano causava una minor soddisfazione verso l’intimate touch anche nelle coppie che non mostravano stili di attaccamento ansioso o evitante. Tuttavia, nel campione femminile che mostrava un attaccamento maggiormente evitante, questo effetto appariva moderato; lo stesso campione femminile evitante causava nei mariti una minor soddisfazione riguardo al contatto fisico e alle dimostrazioni di affetto. Per quanto riguarda la correlazione tra intimate touch e soddisfazione relazionale, le ipotesi iniziali sono state confermate: i due costrutti mostravano una correlazione positiva statisticamente significativa (Wagner et al., 2020).

In conclusione, questo studio dimostra come il contatto fisico, anche se non a scopo sessuale, sia di fondamentale importanza all’interno delle relazioni, specialmente quando lo stile di attaccamento dei due partner può intaccare negativamente la capacità di dimostrare affetto all’altro, diminuendo così la soddisfazione generale della coppia.

Coronavirus Anxiety Scale (CAS) versione italiana: i risultati

Un’indagine volta a profilare una prima fotografia delle condizioni psicofisiologiche degli Italiani all’uscita dalla “fase 1” dell’emergenza, promossa dal gruppo di ricerca indipendente Brainfactor Research.

 

All’indagine vi hanno partecipato 130 soggetti in tutta Italia, compilando un agile questionario online relativo allo stato di salute nelle ultime due settimane.

Il questionario utilizzato è la versione italiana (curata da Marco Mozzoni e Elena Franzot) della Coronavirus Anxiety Scale (CAS), il primo test di screening per “ansia disfunzionale associata alla crisi Covid-19”,  messo a punto recentemente dal Dipartimento di Psicologia della Newport University, negli USA. I punteggi attribuiti ai 5 item che compongono la scala variano in funzione della frequenza del sintomo, da 0 (mai) a 4 (quasi tutti i giorni). Il cut-off diagnostico è 9.

Oltre l’80% del campione ha riferito di avere sofferto, nelle ultime due settimane, di almeno un disordine di natura ansiosa correlato alla pandemia, ovvero stati di confusione, sensazione di essere “paralizzato” o “bloccato”, disturbi del sonno, perdita di appetito, nausea o fastidi allo stomaco, se posto a contatto con pensieri o notizie relative al coronavirus. Il 23% ha dichiarato di aver sperimentato tutti e cinque i sintomi insieme, con frequenza variabile.

Dai risultati del test clinico emerge che il 22% della popolazione censita (con percentuali più alte per il sesso femminile, 24%) avrebbe in corso un disordine specifico di natura ansiosa collegato alla pandemia, di cui i cinque sintomi rilevati rappresentano i fattori principali. La percentuale varia sensibilmente anche per area geografica, con Centro e Sud Italia che superano la media, ottenendo complessivamente il 34%. Rispetto alle fasce di età, i più colpiti dalla crisi risultano i giovanissimi: oltre il 39% degli under 20 è risultato infatti “patologico” alla CAS. L’indicatore scende progressivamente all’aumentare dell’età.

Il sintomo più diffuso risulta lo stato di confusione (sentirsi frastornati, confusi, indeboliti), sperimentato almeno una volta nel periodo dal 77% dei soggetti; seguono l’immobilismo tonico (sentirsi “paralizzati” o “bloccati”) al 57%, i disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, insonnia) al 56%, lo stress addominale (nausea e problemi allo stomaco) al 38% e la perdita di appetito (che ha riguardato il 33% della popolazione censita).

I dati di questa indagine confermano quello che riscontro in questi giorni anche nella mia pratica clinica: le richieste di consulto da parte di ragazzi sono aumentate notevolmente; inoltre ritornano in studio con ‘ricadute’ anche giovani che in passato avevano già affrontato con successo disagi psicologici di vario genere” – così commenta i risultati Elena Franzot, psicologa e psicoterapeuta.

Prima nel suo genere, l’indagine ha messo nero su bianco lo stato reale nel quale ci avviamo alla normalizzazione. È infatti proprio nel momento della ripresa che vengono a galla i disordini sedimentati nella fase protratta di privazione delle libertà fondamentali – sottolinea Marco Mozzoni, neuropsicologo e direttore di Brainfactor.

L’individuo e le relazioni ai tempi del Covid-19

Attualmente, la situazione di emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato a risvegliare nella popolazione diverse paure, segnando significativamente la vita e le abitudini di ciascuno di noi.

 

A livello psicologico sono state riscontrate diverse condizioni psicopatologiche non indifferenti, in particolare la situazione di isolamento dalle relazioni interpersonali significative ha prodotto l’insorgenza di: disturbi d’ansia, nello specifico l’ipocondria, ovvero, la paura di contrarre il virus e, oltre a questa paura, è emersa anche la paura di diffonderlo alle persone che ci circondano; depressione, in quanto la situazione di isolamento sociale sembrerebbe produrre l’incremento di ruminazioni e pensieri negativi che potrebbero sfociare in sintomi depressivi o potrebbero esacerbare i sintomi depressivi (qualora fossero già presenti nei soggetti); insonnia, che potrebbe essere ricondotta o alla presenza di disturbi d’ansia e/o depressivi o alla condizione di cambiamento dello stile di vita.

A livello relazionale si assiste ad un aspetto piuttosto ambivalente, se da un lato si assiste ad un isolamento forzato, dettato dalla condizione di emergenza, dall’altro si assiste ad un cambiamento radicale delle dinamiche relazionali e della rete sociale, infatti ci si relaziona in modo molto più semplice attraverso i social, ad esempio vengono fatte delle video conferenze tramite Skype, Duo, Facebook, etc.. Quest’ultimo aspetto riguarda anche le persone con particolari problematiche nella gestione di relazioni al di fuori delle mura della propria stanza, i quali hanno trovato nel monitor di un pc, un mezzo perfetto per poter entrare a contatto con l’Altro.

Queste considerazioni sono state fatte dal Dottor Emanuele Ruggeri, il quale dichiara che per lo più sono gli studenti universitari, il personale sanitario (soprattutto specializzandi) e gli studenti che si trovano all’estero a chiedere sostegno psicologico, per una migliore gestione dell’ansia e della paura. Inoltre, egli afferma

…l’epidemia di Covid-19 sta segnando la vita di tutti noi. Non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale. Quando torneremo alla normalità, sarà fondamentale un sostegno psicologico, forse ancor più di ora.

Proprio per questa ragione, insieme a Camilla Vizzotto e Daniele Busatta, è stata data vita al progetto “Diamoci una mano”, in cui ci sono medici e psicologi provenienti da tutta Italia, che hanno uno scopo comune: quello di aiutare la popolazione in questo momento difficile.

Il gruppo di professionisti, ha creato un portale per poter avviare quest’iniziativa, dando sostegno e supporto a distanza e gratuito della durata di circa 30 minuti. Il servizio funziona collegandosi ad internet, digitando www.diamociunamano.com nella barra di ricerca e si entra nel sito; qui si trova uno spazio dedicato alle domande di colloquio. Ciascun utente può inviare la propria richiesta, indicando il giorno che preferisce, l’orario e il suo contatto Skype. A quel punto, la domanda arriva al team e si procede con gli incontri.

Un dato piuttosto importante che è emerso e che è stato dichiarato dal dottor Ruggeri è che: “Nei primi dieci giorni dopo il lancio del progetto abbiamo superato le cento richieste. Abbiamo svolto 150 colloqui telematici. Si rivolgono a noi persone di ogni fascia d’età, abbiamo sia giovani che adulti. Nei colloqui i più giovani dimostrano preoccupazione per le loro relazioni sociali, quindi le amicizie, ma anche il rapporto con i familiari. Spesso, infatti, i ragazzi sono studenti fuorisede, che a causa del lockdown sono rimasti bloccati nella città dove studiano. Ma c’è un altro dato importante: riceviamo molte richieste da ragazzi all’estero, giovani che si trovano in Erasmus o dottorandi che stanno frequentando gli studi in altri Paesi.

Tra gli utenti dei colloqui a distanza non mancano però gli adulti. In questo caso oltre allo smarrimento per la situazione eccezionale gli adulti hanno una maggiore preoccupazione di contrarre la malattia, e temono anche per i loro cari.

Guardando al futuro, coloro che si rivolgono a “Diamoci una mano” sembrano non pensare più di tanto a quando questa emergenza finirà. Le persone che ci chiamano si preoccupano più dell’immediato, di quello che vivono nella vita di tutti i giorni, non vedo grande inquietudine per quello che accadrà dopo. Tuttavia ritengo che quando l’emergenza Coronavirus terminerà, dovremo essere pronti ad affrontarne le ricadute, anche psicologiche, non solo fisiche.

In Italia c’è sempre stata diffidenza nei confronti del disagio psichico, dobbiamo invece capire che la salute mentale è importante quanto quella fisica.

La formula dei colloqui a distanza potrebbe essere una soluzione innovativa per il futuro. Al di là dell’emergenza Covid-19, il metodo del colloquio via Skype potrebbe essere una delle possibili strade per ridurre il timore di molte persone nel chiedere aiuto.

C’è, infine, un altro aspetto, molto importante, che vorrei sottolineare: “le persone si sono fidate di noi nonostante la distanza, nonostante non ci si conoscesse, è un buon punto di partenza e un messaggio di speranza per tutti”.

 

SURVEY: Compassione, connessione sociale e resilienza ai traumi durante la pandemia da Covid-19, uno studio multidimensionale – Partecipa alla ricerca

Un team di ricercatori internazionale ha messo a punto un questionario con lo scopo di comprendere come fronteggiare al meglio la pandemia che ha colpito tutto il mondo. 

 

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi. Le nostre relazioni e le nostre abitudini sono state fortemente modificate. Al fine di indagare l’impatto del lockdown sul nostro senso di sicurezza e sul supporto reciproco tra le persone, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da 18 nazioni, ha sviluppato uno studio al quale ognuno può contribuire.

E’ importante avere dati attendibili pertanto sono stati previsti 2 follow-up a 3 e 6 mesi. Lo studio interessa tutta la popolazione, in modo da comprendere l’impatto psicologico della Covid-19 su tutte le fasce di età.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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Perizie e test: quanto il contesto influenza la valutazione delle capacità genitoriali?

E’ stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta al Test di Rorschach forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale.

 

All’interno di una Consulenza Tecnica d’Ufficio, è chiesto spesso allo psicodiagnosta di prospettare un quadro di personalità preciso e accurato, che gli permetta di valutare la presenza e la tipologia di risorse psico-affettive individuali e di comprendere in quale misura, le risorse individuate, possano influenzare le capacità genitoriali dei periziandi.

Affinché sia possibile effettuare un valutazione è, dunque, necessario integrare informazioni raccolte mediante strumenti qualitativi (es. colloquio, esame obiettivo) e strumenti quantitativi (es. tests) poiché solo in questo modo è possibile ottenere una visione d’insieme ampia, e al contempo analitica, dei fatti di un oggetto (Fielding & Fieldinf, 1986).

Nel presente articolo, vi è l’intenzione di evidenziare quali sono gli indici del Test di Rorschach che favoriscono e permettono l’analisi delle capacità genitoriali e quali sono le differenze tra lo stile di risposta dei periziandi, in contesto di separazione, e quello della popolazione di riferimento, non soggetta ad alcuna valutazione da parte del tribunale.

ll test di Rorschach

Il Test di Rorschach rientra a far parte della grande famiglia delle tecniche proiettive. Lo stimolo percettivo è rappresentato da dieci “macchie” di inchiostro bilateralmente simmetriche, dinnanzi alle quali il soggetto è invitato a dire ciò che vede.

La letteratura internazionale lo definisce da sempre un metodo proiettivo, volto a promuovere un’analisi dell’organizzazione della personalità che tenga conto del ruolo di tutte le funzioni e dei processi psicologici operanti nel contesto della personalità totale. Seppur questo strumento non sia un test psicometrico nell’accezione più stretta del termine, essendo le risposte codificate dai somministratori mediante una specifica siglatura, il Test di Rorschach è largamente usato nei contesti peritali poiché consente di esplorare strategie di difesa volte a modificare l’immagine da rimandare all’esterno.

Indici Rorschach e funzioni genitoriali

Nella letteratura scientifica, per la valutazione delle competenze genitoriali, sono state individuate specifiche capacità da analizzare, quali l’assenza di grave psicopatologia psichiatrica tale da compromettere il funzionamento e l’equilibrio adattivo del genitori sul piano cognitivo adattivo e sociale; la maturazione di doti riflessive ed empatiche; grado di interesse e reattività in risposta alle sollecitazioni affettive presenti nell’ambiente; la capacità di adattarsi con modalità adeguate alle richieste dei figli; la capacità di tollerare le frustrazioni (Camerini G.B., De Leo G, Sergio, G. & Volpini L., 2007; Fonagy P., Target M., 2001; Rizzolati G., Gallese V., 1998; Fabiani M.E., 2000; Azar S.T., Cote L.R., 2002).

Più precisamente, è possibile rintracciare informazioni inerenti tali capacità nell’interpretazione degli indici Rorschach, tra questi, il numero di Risposte con adeguata bontà formale (R+%); il numero di risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma (F+%); la presenza non significativa di manifestazioni particolari di II e III livello; l’indice di autocontrollo nella norma o superiore alla norma (I.Aut); la presenza della rappresentazione dell’altro (H%), il numero di movimenti primari e secondari (M; m), la presenza di determinanti colori, il tipo di Comprensione (T.C.), l’indice di Autocontrollo e di Impulsività (I.Aut.; IMP), il rendimento omogeneo tra prima e seconda metà della prova.

Stili di risposta al test Rorschach in funzione del contesto peritale

Dallo studio condotto da Roberto Cicioni, Tommaso Caravelli, Floriana Loggia, Maria Elisa Maiolo (2012) è stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale: sono state riscontrare lievi differenze relative ad alcuni indici precedentemente elencati, mentre sono state messe in luce differenze – maggiormente significative –riguardanti la capacità di controllo degli affetti e degli impulsi.

Più precisamente, dal suddetto studio, è emerso – contrariamente da quanto in letteratura è stato spesso intuitivamente ipotizzato – come il numero di risposte dei periziandi rientra nel range normativo: è probabile che il bisogno di dare una buona impressione prevalga sul bisogno di mascheramento. Coerentemente con questa ipotesi si registra tra i periziandi un basso numero di rifiuti alle Tavole.

È emerso, inoltre, un minimo incremento – nel contesto peritale – della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale e della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma: esso è dovuto ad un “normale” innalzamento dello schermo difensivo nel senso del controllo.

Per quanto riguarda il tipo di comprensione, l’indice che fornisce informazioni sulla modalità con cui una persona affronta i problemi, è stata osservata una sensibile differenza tra il campione peritale e i dati normativi: si evidenzia un aumento delle risposte che riflettono capacità di sintesi, di astrazione e di visione di insieme a discapito di quelle indicative di processi analitici di analisi e di orientamento al concreto. Tale differenza potrebbe essere imputata alla presenza di processi rimuginativi sui contenuti conflittuali della separazione, necessariamente ritualizzati dal procedimento giuridico: se presente tale pattern di risposta, è possibile facilitare l’interpretazione dello stesso valutando, qualitativamente, il grado in cui il periziando investe le proprie energie nel processo di separazione dall’ex-coniuge.

Non sono state individuate, invece, minime differenze circa gli indici riguardanti lo stile relazionale.

Infine, come anticipato, le differenze maggiori – tra i due campioni in esame – riguardano gli indici relativi alla capacità di controllo degli affetti e degli impulsi, i quali permettono di compiere inferenze sulle spinte impulsive che orientano verso il mondo e le relazioni interpersonali, e la forza e la tipologia degli schemi difensivi implicati invece nella loro gestione: nel contesto peritale, l’indice di impulsività è stato rilevato molto più levato e l’indice di autocontrollo più rigido. Tale dato è stato spiegato riconducendo la differenza alla particolare rabbia e impotenza che spesso le persone, nel contesto di separazione, vivono. Tuttavia, tali vissuti emotivi non giustificherebbero alterazioni sugli elementi qualitativi del test, quali ad esempio le risposte, i movimenti e le determinanti Colore.

Violazione della privacy mentale: il neuromarketing politico e la manipolazione dei processi democratici

Lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018, in cui è avvenuta la raccolta di alcuni dati personali degli utenti con scopi manipolativi, invita a riflettere su numerosi temi di rilevanza etica, oggi sempre più rilevanti.

 

 Lo scandalo del 2018 di Cambridge Analytica, azienda Britannica di data analysis, è senz’altro una tra le recenti vicende giornalistiche che ha avuto una eco di portata globale. Un contributo per la diffusione del caso è dovuto a The Great Hack, documentario di Jehane Noujaim e Karim Amer e prodotto da Netflix. La narrativa del documentario si struttura attorno ai contributi di alcuni degli attori direttamente coinvolti nel caso ed esemplifica la possibilità di utilizzare i dati personali online per prevedere e influenzare il comportamento umano senza che le persone ne siano consapevoli. I dati sono stati raccolti attraverso un’app chiamata thisisyourdigitallife, sviluppata da l’accademico Aleksandr Kogan attraverso la sua società Global Science Research (GSR). In collaborazione con Cambridge Analytica, centinaia di migliaia di utenti sono stati pagati per fare un test sulla personalità e hanno accettato di raccogliere i loro dati per uso accademico. Tuttavia, l’app ha anche raccolto le informazioni degli amici di Facebook dei testisti, portando all’accumulo di dati di decine di milioni di persone. Cambridge Analytica, utilizzando l’analisi dei big data, ha creato dei profili psicografici al fine di indirizzare successivamente gli utenti con annunci digitali personalizzati e altre informazioni manipolative. Secondo gli autori, questa profilazione e targetizzazione è stata utilizzata per far oscillare intenzionalmente campagne elettorali in tutto il mondo.

La rilevanza neuroetica del caso CA

La vicenda raccontata da The Great Hack, più che una narrazione approfondita di un fatto di cronaca, assomiglia ad un racconto distopico Huxleyano. Alcuni autori infatti sostengono che, in un contesto sperimentale, le metodologie utilizzate da Cambridge Analytica non mostrino effetti tanto significativi da trovare un così chiaro riscontro nella realtà (Gibney, 2018). Ciò nonostante, il caso Cambridge Analytica suggerisce numerosi temi di rilevanza etica che meritano di essere approfonditi.

Centinaia di migliaia di americani hanno risposto al sondaggio, abbiamo costruito un modello composto da quasi 5000 data point con cui possiamo simulare la personalità di ogni adulto negli Stati Uniti. Il comportamento dipende dalla personalità e ovviamente influenza il voto. [..] Se possiamo trarre un insegnamento da questi eventi, è che la tecnologia può davvero fare la differenza e continuerà a farla per molti anni. (Alexander Nix, CEO di Cambridge Analytica)

Ciò che ha reso realizzabile quanto dichiarato da Alexander Nix è stato l’impiego di metodi e tecniche provenienti dagli ambiti di Neuromarketing – nella sua declinazione politica – e marketing politico 2.0. Il neuromarketing è un campo di studi che si occupa dell’applicazione di metodi neuroscientifici per analizzare e comprendere il comportamento umano, in relazione al mercato e alla sua interazione con esso (Lee et. al, 2007). Il marketing politico 2.0 invece, si avvale di tecniche di big data analysis, come il “behaviour-reading”, per identificare e analizzare le preferenze e le attitudini politiche degli elettori e successivamente influenzarne il voto (Islam, 2019). Un metodo che esemplifica la tecnica del “behaviour-reading” è stato sviluppato da due accademici dell’Università di Cambridge, David Stillwell and Michal Kosinski. Nel loro studio (Kosinski et. al, 2013), i due psicologi riportano la possibilità di predire con elevata accuratezza informazioni quali l’orientamento sessuale e tratti di personalità esaminando l’attività online degli utenti. Inizialmente i ricercatori hanno sottoposto a 58000 utenti un test di personalità conosciuto come Big Five, che misura cinque scale di personalità: estroversione, apertura mentale, coscienziosità, nevroticismo e amicalità. I tratti di personalità di ogni utente sono stati correlati, tramite algoritmi di machine-learning, ai likes apposti ai contenuti di Facebook, creando così un modello che rappresenta dei profili di personalità. Questi, chiamati profili psicografici, sono utilizzati dagli esperti di marketing politico per compiere operazioni di micro-targeting, una tecnica di comunicazione politica che consiste nell’inviare specifici messaggi mediante diversi canali ad un determinato sottogruppo di individui. Lo scopo è quello di creare una relazione tra il potenziale elettore e il partito politico che possa influenzarne il voto (Bodó et. al, 2017).

La privacy nell’era dei Big Data

In uno tra i momenti più significativi del documentario, la giornalista Carol Cadwalladr, durante un’intervista chiede a Christopher Whyle, ex dipendente di Cambridge Analytica, se i dati da loro utilizzati fossero stati sfruttati ad insaputa degli amici degli utilizzatori di thisisyourdigitallife.

Sì, la storia è piena di casi di esperimenti profondamente immorali, giocavamo con la psicologia di una nazione intera senza il loro consenso ma non solo, lo stavamo facendo nell’ambito di un processo democratico.

Il tema della privacy e del trattamento dei dati nell’ambito del behaviour-reading è stato ampiamente discusso. In questo contesto si parla di “privacy mentale”, che può essere definita come l’abilità di determinare quali informazioni rispetto al nostro pensiero possono essere condivise con altri (Westin,1967). In Europa ad esempio, il GDPR considera illegale l’elaborazione di dati comportamentali – compresa l’attività online – da parte di terzi, senza previo consenso informato degli utenti (McCarthy,2019). La violazione della privacy mentale dell’individuo, come mostrato dal caso in esame, può provocare conseguenze lesive sia per il singolo sia a livello sociale.

Violazione della privacy mentale e libertà cognitiva

Ricordate quei quiz per creare modelli di personalità degli elettori? […] Il grosso delle risorse era per quelli a cui pensavamo di poter far cambiare idea. Li chiamavamo i persuadibili. […] Abbiamo progettato contenuti personalizzati per colpire quegli individui […] li bombardavamo di video, articoli, immagini finché non vedevano il mondo come lo volevamo noi. (Brittany Kaiser, dipendente di Cambridge Analytica)

Il caso Cambridge Analytica si annovera tra i possibili scenari causati dalla violazione della privacy mentale. L’ex dipendente, infatti, afferma che Cambridge Analytica abbia utilizzato i dati personali degli utenti per interferire con il processo democratico minando al nucleo morale stesso del sistema politico: la libertà e l’autonomia dell’individuo di decidere. In senso più ampio, è stata esercitata una influenza sul diritto di autodeterminazione degli elettori, ovvero il diritto fondamentale di pensare liberamente e autonomamente. (Center for Cognitive Liberty and Ethics). Nonostante questo diritto sia incluso in trattati come l’ International Covenant on Civil and Political Rights o l’European Convention on Human Rights, Bublitz (2011) fa notare che non ci sono definizioni riguardo al significato, agli scopi o le possibili (e pratiche) violazioni. Questo perché la mente non è stata tradizionalmente considerata come una entità vulnerabile o passibile di intrusioni esterne o interferenze (Bublitz and Merkel, 2014; McCarthy,2019).

Una possibile spiegazione di questa credenza è attribuibile ai metodi di indagine di cui la ricerca nell’ambito del neuromarketing e del decision-making si avvale e ai risultati che questa ha fino ad ora fornito. Alcuni autori, attraverso studi fMRI, affermano di poter identificare e prevedere le scelte dei consumatori, costituendo quindi uno strumento di behaviour-reading. Altri neuroeticisti argomentano che, anche se così fosse, la paura che un utilizzo improprio di questi strumenti sarebbe infondata. Infatti, l’accesso ai dati di brain imaging sarebbe limitato ai soli partecipanti delle ricerche, spesso un campione scarsamente numeroso. Siccome nel contesto accademico i dati sono raccolti previo consenso informato dei partecipanti, l’accesso a questi dati non costituirebbe una violazione della privacy mentale (SJ Stanton et. al 2017). E’ noto anche che le tecniche di brain imaging permettono solo inferenze di tipo correlazionale rispetto ai compiti indagati e l’attività osservata. Si tratta di fatto di metodi probabilistici che non forniscono informazioni dirette dei contenuti mentali indagati, spesso relativi a compiti fittizi creati ad hoc dagli sperimentatori. Le informazioni ottenute da metodi di behaviour-reading basate sui big data si riferiscono invece alla reale e spontanea attività degli individui. Neil Levy (2007) afferma che la mente non è solo contenuta nel cervello, ma si estende oltre questo, nel mondo, e ogni sua posizione ha una diretta rilevanza etica. L’attività online, e i dati ricavati da questa, costituiscono proprio una estensione della mente dell’individuo. Per questo, l’uso improprio della big data analysis può costituire una paura fondata, come testimoniato dal caso Cambridge Analytica.

Sarà chiaro al lettore che la determinante di tutti gli scenari supposti riguardi in primis l’accesso ad informazioni strettamente personali. La ricerca in ambito accademico si impegna a seguire specifici standard etici rispetto al trattamento dei dati e ciò garantisce il rispetto dei diritti degli individui coinvolti. Questi standard dovrebbero essere estesi a chiunque raccolga o elabori dati personali, anche in ambito privato-aziendale. Ciò nonostante è possibile, come si è visto, che l’accesso e l’uso improprio avvengano per mezzo di azioni illegali. Per mantenere la privacy mentale quindi dovremmo

alzare mura difensive rispetto ad intrusioni indesiderate. (Bublitz e Merkel, 2014)

Nella pratica, potrebbe rendersi necessario l’obbligo dei provider internet di fornire l’opzione di una navigazione totalmente anonima che impedisca la profilazione delle attività online.

Dovete essere consapevoli di come i vostri dati influenzano la vostra vita. C’è in ballo la dignità di essere umani. (David Carroll, colui che ha denunciato Cambridge Analytica)

 

Disturbo Affettivo Stagionale e Disturbo Disforico Premestruale un continuum psicopatologico: il ruolo della serotonina

Gli studi di cronobiologia in ambito psichiatrico hanno evidenziano numerosi aspetti che accomunano il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale. Oggi esiste l’ipotesi che questi due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

 

Fin dall’antichità è stato osservato che le variazioni climatiche influenzano lo stato di salute e l’umore. Ippocrate nel 400 a. C. descriveva una depressione legata alle stagioni. I suoi scritti e quelli di Plinio e di Aristotele nel periodo classico, testimoniano che erano anche noti una serie di sintomi che affliggevano le donne nel periodo premestruale. Attualmente la cronobiologia studia i fenomeni periodici negli organismi viventi e descrive i meccanismi molecolari legati ai cicli buio-luce, all’alternarsi delle stagioni e delle fasi lunari. E’ ormai dimostrato che la produzione di numerosi ormoni e di vari neurotrasmettitori è influenzata da questi fatti. Negli ultimi venti anni sono stati effettuati numerosi studi psichiatrici ad impronta cronobiologica.

Vi sono due disturbi dell’umore, il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale, che oltre ad avere in comune la periodicità nel manifestarsi, sembrano condividere alcuni aspetti eziopatogenetici.

Disturbo affettivo stagionale (SAD)

Il Disturbo Affettivo Stagionale è un disturbo depressivo cronico atipico i cui sintomi possono manifestarsi con una periodicità invernale, con esordio nella stagione autunnale, o estiva con esordio primaverile. Dal punto di vista clinico l’atipicità del disturbo è legata al fatto che l’umore è depresso ma reattivo. Questo vuol dire che i soggetti che ne soffrono hanno una flessione del tono dell’umore, ma sono in grado di gioire di fronte ad eventi positivi. Altri sintomi sono l’iperfagia, con la preferenza per l’ingestione di carboidrati, l’astenia, l’ipersonnia e l’aumento ponderale. Esistono diverse ipotesi eziopatogenetiche per il SAD, tutte hanno un comune denominatore rappresentato dalla durata dell’esposizione alla luce solare. La quantità di luce influisce sulla produzione endogena di melatonina e serotonina. La melatonina, detta anche ormone del sonno, potrebbe essere prodotta in eccesso in mancanza di luce solare. I livelli troppo elevati generano ipersonnia e potrebbero predisporre alla depressione. Secondo i risultati di uno studio dei ricercatori dell’Università di Copenhagen, presentati alla XII International Conference on Neuropsychopharmacology di Londra (2014), le persone che sviluppano il SAD hanno alterati livelli SERT, che è la molecola trasportatrice della serotonina.

Il disturbo disforico premestruale (PMS)

E’ un disturbo dell’umore che si manifesta tra i sintomi della sindrome premestruale. E’ caratterizzato, oltre che da umore depresso, da irritabilità e labilità emotiva. L’intensità di questi sintomi può essere tale da influenzare significativamente l’attività lavorativa e le interazioni sociali. Sono diversi i fattori eziologici chiamati in causa per spiegare l’origine di questo disturbo. Rojanski et al. (1991) in uno studio hanno registrato una riduzione complessiva dei livelli plasmatici di serotonina nella fase luteinica del ciclo ovarico in donne con PMS. Il convolgimento della serotonina è inoltre dimostrato dal il criterio ex-juvantibus, infatti nel 60% delle donne con PMS, i sintomi regrediscono con la somministrazione di antidepressivi serotoninergici (Steiner M. et al. 1995, Freeman Ew.2005).

Nel 2006, sul Giornale Italiano di Psicopatologia, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che si proponeva di valutare la prevalenza del SAD e della PMS in una popolazione di donne non affette da disturbi psichiatrici e di determinare la prevalenza di PMS in donne che presentavano una diagnosi di SAD. I risultati dello studio permettono di affermare che SAD e PMS presentano un profilo epidemiologico sovrapponibile e una sintomatologia analoga. Per entrambi i disturbi è riconosciuta l’efficacia terapeutica degli antidepressivi serotoninergici. Nella popolazione femminile italiana SAD e PMS si presentano frequentemente in associazione. Tutti questi dati portano a supporre una base neurobiologica comune, i due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

Rischi della sindrome da burnout nei marittimi della marina mercantile

La popolazione dei marittimi, in particolar modo degli ufficiali di marina mercantile, è una delle più esposte allo sviluppo della sindrome da burnout.

 

La sindrome da burnout viene definita come un complesso fenomeno psico-fisiologico, caratterizzato da esaurimento fisico, emotivo e psicologico, causato da stress emotivo prolungato. I sintomi principali sono cinismo, depersonalizzazione, diminuzione dell’entusiasmo e del senso di efficacia in ambito lavorativo, distacco dal proprio lavoro. Inoltre il burnout viene considerato come una reazione soggettiva allo stress correlato al lavoro, con lo scopo di adattarsi o proteggere sé stesso (Oldenburg, M., Jensen,  H. J., Wegner R., 2013). Pertanto, la persona è incline a sviluppare il burnout se presenta un estremo coinvolgimento emotivo nel lavoro e non ha adeguate strategie di coping.

La condizione lavorativa degli ufficiali di marina mercantile, è già di per sé fonte di stress, la stessa International Maritime Health Association ha stabilito che “la professione di marittimi è una delle più impegnative fisicamente ed emotivamente, e viene svolta in uno degli ambienti più pericolosi, il mare.”

I maggiori fattori di rischio sono stati descritti nelle “Linee guida per l’assistenza mentale sulle Navi Mercantili” e comprendono:

  • Solitudine e separazione dalla famiglia: numerose ricerche, anche non relative all’ambito marittimo, sottolineano come il supporto sociale rappresenti uno dei fattori protettivi principali, soprattutto quando il soggetto si trova ad affrontare un evento stressante. La separazione dalla propria famiglia non avviene solo fisicamente, ma è accentuata anche dall’impossibilità o dalla difficoltà di comunicare quotidianamente con i propri cari. In Australia, nello Stato del Victoria, è stato osservato che una delle prime cose che i marittimi fanno quando è concesso loro il congedo a terra, è raggiungere uno dei centri marittimi, provvisti di numerosi computer, che di solito usano per contattare e comunicare con le famiglia, ad esempio attraverso Skype (Robert T.B.I., 2012). Pertanto il supporto sociale è un importante mediatore che può svolgere un “effetto tampone” rispetto allo sviluppo di sintomi legati al burnout, aumentando anche i livelli della Qualità di Vita (QoL) (Xiao, J. et al., 2017).
  • Stress: “Guidelines for Mental Care Onboard Merchant Ships”, l’opuscolo stilato dall’International Committee on Seafarers’ Welfare, dedica un capitolo intero ai problemi di stress legati ai marittimi, ed elenca i seguenti sintomi: insonnia, perdita di concentrazione, ansia, abuso di sostanze, estrema rabbia e frustrazione, problemi familiari, insorgenza di malattie croniche cardiovascolari. A tal proposito sono state individuate 6 aree legate allo stress lavorativo a bordo: il tipo di richieste legate al lavoro, il livello di controllo che i marittimi hanno sul loro lavoro, il supporto ricevuto dai colleghi e dal management, le relazioni lavorative, il ruolo del marittimo all’interno dell’organizzazione, il cambiamento e come questo viene gestito.
  • Per quanto riguarda le richieste legate al lavoro, uno dei problemi principali è l’accumulo delle mansioni durante i soggiorni in porto, soprattutto se tra un porto e l’altro vi sono poche ore di navigazione e quindi poco tempo per il disbrigo delle pratiche legate alla dogana, la pianificazione delle rotte, il monitoraggio delle operazioni di carico/scarico merce. A tutto ciò si aggiunge lo svolgimento dei quotidiani compiti lavorativi, come il monitoraggio del traffico marittimo. La varietà di questi compiti richiede grande responsabilità e alti livelli di organizzazione del lavoro, tuttavia ciò può portare gli ufficiali a percepire maggiormente lo stress, il quale a sua volta influirà in maniera bidirezionale sul processo decisionale del soggetto, in particolar modo sulla sua capacità di prendere decisioni chiare e lucide, in un momento di emergenza e forte stress. Pertanto lo stress può contribuire all’insorgenza del burnout, riducendo il mantenimento di adeguati livelli di allerta e performance, prerequisiti fondamentali per la sicurezza della nave.
  • Talvolta, la mole di lavoro influisce inevitabilmente sul tempo dedicato al sonno, che negli ufficiali della Marina Mercantile risulta essere notevolmente ridotto, esponendo i soggetti ad un disturbo del sonno frammentato e lo sviluppo di un profilo non-dippers. Ciò, oltre ad un calo cognitivo prestazionale dovuto al mancato assolvimento della funzione ristorativa del sonno, può esporre a rischi cardiovascolari, sindromi metaboliche e diabete (Andruskiene , J., Barseviciene, S., Varoneckas, G.,  2016).
  • Per quanto concerne le relazioni lavorative, queste sono perlopiù caratterizzate da un sistema gerarchico e multiculturale. La ricerca di M. Oldenburg et al. (2013) ha evidenziato come il rischio di burnout negli ufficiali fosse correlato a mancate abilità di leadership e comunicazione da parte dei superiori. Per questo motivo, al fine di prevenire il burnout negli ufficiali, sarebbe utile istituire programmi educativi per implementare le abilità comunicative e di leadership, combinati anche ad esercizi di role-playing.
  • Criminalizzazione e pirateria: per criminalizzazione dei marittimi si intende il trattamento degli incidenti marittimi, soprattutto quelli relativi all’inquinamento da idrocarburi, come dei veri e propri crimini. E’ un termine usato anche per descrivere la negazione dei diritti procedurali e umani nel perseguimento di tali incidenti. Talvolta questi marittimi, perseguiti penalmente, sono detenuti a tempo indeterminato all’interno del Paese in cui è stato commesso il reato, senza un’adeguata assistenza legale e la possibilità di ritornare in patria. Tutto ciò ha degli effetti negativi sulla salute degli ufficiali, inducendo quest’ultimi a rinunciare alla carriera marittima (Robert T.B.I., 2012).
  • Altre possibili cause elencate sono la mancanza di congedo a terra, i brevi tempi di sosta della nave in porto e le norme di sicurezza sul lavoro.

Prevenire e valutare il burnout è un aspetto fondamentale, in quanto i soggetti potrebbero non possedere le strategie di coping adeguate e mettere in atto comportamenti a rischio come l’abuso di alcol, droghe o sviluppare altri disturbi internalizzanti quali la depressione. A tal proposito Kemalova & Nikonorova (2019) hanno proposto un training per la prevenzione del burnout professionale nei marittimi, con lo scopo di insegnare le principali abilità di coping e di autoregolazione emotiva. Il training è composto da 20 ore e si articola in 4 moduli:

  • Definizione del concetto di burnout professionale.
  • Identificazione ed analisi delle principali cause del burnout.
  • Analisi del concetto di readiness come mezzo di prevenzione del burnout e formazione riguardo le principali tecniche e metodi per fronteggiare lo stress.
  • Analisi dei fattori relativi al meso e micro sistema, al fine di prevenire il burnout. Per quando riguarda il microsistema si fa riferimento alle caratteristiche di personalità, livelli di comunicazione, strategie di coping, livelli di autoregolazione emotiva, mentre il mesosistema comprende gli insufficienti incentivi morali e materiali, stress fisico ed emotivo, organizzazione e condizioni di lavoro, qualità delle relazioni interpersonali nel team.

Sebbene non riguardi direttamente il burnout, sono state proposte altre soluzioni utili per la prevenzione, ma soprattutto il riconoscimento dei disturbi mentali nei marittimi. Ad esempio l’International Committee on Seafarers Welfare (ICSW) ha prodotto degli opuscoli, ad esempio “Guidelines for the Mental Care of Seafarers on board Merchant Ships”. Quest’ultimo è composto da 12 illustrazioni umoristiche a cartone che riguardano i seguenti temi: rischi per i marittimi, stress, molestie e bullismo, ansia, depressione, pensieri e comportamenti dirompenti, dipendenza da alcol e droghe, salute mentale bordo, suggerimenti per la corretta attuazione di una campagna di assistenza mentale.

Un altro progetto interessante è stato creato dal Rotary Club di Melbourne, che ha proposto di stampare degli opuscoli, su un unico argomento, la depressione. Gli opuscoli sono stati distribuiti a più di 2000 navi che attraccarono nei porti dello Stato del Victoria, con lo scopo di aiutare i membri dell’equipaggio ad identificare i soggetti con depressione ed aiutarli. Ogni opuscolo, tradotto in inglese, cinese e russo, contiene una checklist per identificare una persona con depressione, delle linee guida su come poterla aiutare ed un numero di emergenza da contattare, operativo h24.

 

Perfezionismo e credenze disadattive contribuiscono al mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione?

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste è presente il Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione (Relationship Obssessive-Compulsive Disorder; RDOC) che si manifesta nel contesto delle relazioni intime.

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni, ossia pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e intrusivi, che l’individuo tenta di contrastare o neutralizzare attraverso le compulsioni, cioè comportamenti ripetitivi o rituali mentali. Le compulsioni servirebbero a prevenire o ridurre l’ansia, o le conseguenze indesiderate che accadrebbero se non si mettessero in atto tali rituali. La connessione tra la preoccupazione ossessiva e la compulsione tende ad essere irrealistica o illogica (American Psychiatric Association, 2013).

Il DOC si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste, è presente il disturbo ossessivo-compulsivo da relazione (relationship obssessive-compulsive disorder; RDOC), un’espressione del DOC in cui i sintomi si manifestano nel contesto delle relazioni intime (Doron, Derby, & Szepsenwol, 2014). In particolare, i sintomi possono essere orientati alla relazione (relationship-centered) o centrati sul partner (partner-focused). Queste due manifestazioni sintomatologiche di DOC possono coesistere e rinforzarsi a vicenda.

Nel ROCD centrato sulla relazione, la persona si interroga su quanto sia “giusta” la propria relazione e ha dubbi sui propri sentimenti verso il partner o viceversa, sui sentimenti del partner verso di sé (Doron, Derby, Szepsenwol, & Talmor, 2012a). Le compulsioni consistono nel monitorare continuamente i propri stati interni (“Lo amo davvero? Quanto sono realmente attratto?”), nel formulare pensieri neutralizzanti (es. immaginarsi felici insieme), nel cercare rassicurazioni o nel controllare ripetutamente la qualità della propria relazione (Doron & Derby, 2017; Doron, Derby, Szepsenwol, &Talmor, 2012b).

Nel DOC da relazione centrato sul partner invece, le ossessioni consistono in preoccupazioni eccessive rispetto a difetti percepiti nel proprio partner in vari ambiti: intelligenza, moralità, socievolezza e aspetto (Doron e colleghi, 2012a). Le compulsioni invece riguardano paragoni continui delle caratteristiche del proprio partner con quelle di altri ipotetici partner, controllare i comportamenti del partner o le sue capacità e analizzare ripetutamente le sue qualità e difetti.

Melli, Bulli, Doron e Carraresi (2018) hanno effettuato uno studio per verificare il contributo relativo di alcune credenze disadattive sul mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione. In particolare, gli autori hanno considerato gli effetti di credenze relative al DOC, del perfezionismo e di credenze riguardanti le relazioni, valutando separatamente gli effetti sui due sottotipi di DOC da relazione.

Lo studio ha coinvolto 124 partecipanti con diagnosi di RDOC, a cui è stata somministrata online una batteria di questionari. Tra questi vi sono: la versione italiana del Relationship Obsessive-Compulsive Inventory (ROCI; Melli e colleghi), per misurare la presenza di sintomi di RDOC orientato alle relazioni, e la versione italiana del Partner-Related Obsessive-Compulsive Symptoms Inventory (PROCSI; Melli e colleghi), per misurare i sintomi del RDOC centrato sul partner.

È stata somministrata la versione italiana della Frost Multidimensional Perfectionism Scale (FMPS; Lombardo, 2008), che misura sei aspetti del perfezionismo: 1) standard personali elevati, 2) preoccupazione per gli errori, 3) dubbi sulle azioni, 4) aspettative genitoriali elevate, 5) critiche genitoriali, 6) tendenza all’organizzazione e all’ordine.

Nella batteria di questionari è presente anche l’Obsessive Beliefs Questionnaire-20 (OBQ-20; versione italiana di Melli, Ghisi, Bottesi. & Sica, 2014), che misura credenze legate al DOC tra cui sovrastima della minaccia e della propria responsabilità, intolleranza all’incertezza e importanza dei pensieri e di riuscire a controllarli.

Infine, i partecipanti hanno risposto alla Relationship Catastrophization Scale (RECATS; Doron et al., 2016), che misura la sovrastima delle conseguenze negative di essere soli, di terminare una relazione e di trovarsi in una relazione sbagliata; e alla versione ridotta della Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS; Clara et al., 2001), che misura depressione, ansia e stress.

I risultati indicano che il perfezionismo, in particolare preoccuparsi continuamente dei propri errori e dubitare costantemente delle proprie azioni, sono fattori che contribuiscono a mantenere i sintomi del ROCD centrato sulle relazioni. Una persona con ROCD per esempio potrebbe interpretare un litigio non come un normale aspetto di una relazione, ma come un errore inaccettabile, un fallimento. Anche le credenze catastrofiche di essere in una relazione sbagliata o di rimanere soli risultano correlati al ROCD orientato alle relazioni. In questo caso, la persona da un lato si preoccupa continuamente di non stare con il partner giusto, dall’altro pensa che sarebbe terribile ritrovarsi sola. Di conseguenza, si sente intrappolata nella relazione.

La paura di essere nella relazione sbagliata risulta associata al ROCD focalizzato sul partner. In questo caso, la persona si chiede ossessivamente (oltre un normale dubbio) se il partner con cui sta sia davvero “l’amore della sua vita” o se non vi sia là fuori un partner migliore dell’attuale. Il timore è che ciascuna delle due opzioni possa portare a rimpianto.

Le credenze disadattive che accomunano il pensiero di chi soffre di DOC in generale invece sembrerebbero influire indirettamente sul ROCD, aumentando stress, ansia e depressione.

Sebbene questi risultati siano interessanti e utili a livello clinico, per poter trarre conclusioni più solide gli autori suggeriscono che i fattori predittivi di ROCD, orientato alle relazioni e centrato sul partner, vengano studiati attraverso studi longitudinali, con un criterio di inclusione dei pazienti diagnosticati con ROCD più rigido e con un gruppo di controllo di individui sani.

La ricerca sul ROCD è infatti necessaria per individuare i fattori specifici su cui agire a livello clinico quando si incontrano pazienti con DOC da relazioni.

 

Mascherine e un metro di distanza: che ricadute interpersonali?

Quali conseguenze avranno le misure di prevenzione adottate per contenere il Covid-19 sul modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e l’intimità? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Si capirà che sotto la mascherina c’è un sorriso?

 

In piena emergenza covid-19, soffriamo in modo assolutamente personale e soggettivo, per vari aspetti. Chi lamenta la costrizione, chi l’isolamento, chi la perdita di controllo, e così via. Anche le ricadute emotive sono diverse. Chi percepisce maggiormente l’ansia, chi la paura, chi la tristezza, ecc.. Una sera, durante una telefonata di conforto reciproco, un mio amico neurologo mi racconta del suo tallone d’Achille: “Se qualcuno voleva punirci, ha trovato il modo migliore costringendoci ad evitare il contatto fisico”. Soffriva all’idea di non poter abbracciare, baciare, accarezzare una persona cara nel momento in cui l’avrebbe rivista, magari dopo mesi.

Come non averci pensato? È così lampante.

Proprio quella mattina, infatti, osservavo con curiosità i comportamenti delle persone in fila al supermercato. Erano tutti distanti e in un silenzio quasi funereo. Alcune persone, pur riconoscendosi grazie alle piccole parti di volto scoperte, si erano salutate con un gesto timido, da lontano, senza scambiarsi alcuna parola. Mi son detta che va bene la prudenza e la distanza di un metro, ma qualcosina ce la possiamo ugualmente dire, no? Ho subito pensato alle conseguenze di tutto questo in futuro, al modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e, non in ultimo, l’intimità. Non dovremo abbracciarci per mantenere la famosa distanza di un metro. Potremo toccarci, ma avremo i guanti e questo impedirà di sentire per davvero la pelle dell’altro. Ci sorrideremo con la bocca coperta dalla mascherina. Si capirà che c’è un sorriso? Gli occhi saranno sufficienti per essere riconosciuti?

Per gli esseri umani, determinate azioni implicite della comunicazione non verbale attraversano un sistema di riconoscimento automatico e velocissimo che permette di comprendere lo stato interno dell’altro, le emozioni e le intenzioni. Questo sistema comprende i “neuroni mirror” (Rizzolatti et al., 1996) collocati nelle aree premotorie della corteccia cerebrale (ma sono presenti anche in altre zone, come nella corteccia parietale inferiore) che si attivano quando compiamo un’azione e quando vediamo la stessa azione svolta da altri. Questo processo di simulazione è velocissimo, pre-verbale, immediato ed è alla base di alcuni processi legati all’empatia, alla comprensione, al rispecchiamento nell’altro (perfino all’apprendimento), tutti elementi alla base dell’intersoggettività. È possibile riconoscere l’emozione altrui nell’ordine di pochi momenti perché, come ben spiegato da Paul Ekman, le espressioni facciali delle emozioni sono universali e disegnano, ogni volta, una specifica e armonica configurazione a cui partecipano occhi, bocca e muscoli del volto. Proprio Ekman, infatti, ha sviluppato un sistema di codifica (Facial Action Coding System o FACS) (Ekman, 1997) che fornisce informazioni sulle emozioni e sullo stato interno della persona, fatto di pensieri e motivazioni alla base delle azioni, con cui ci costruiamo una vera e propria teoria della mente altrui. Tutto ciò è realizzabile, perché l’informazione passa dal sistema visivo alle aree corticali e sottocorticali specificatamente deputate alla comprensione emotiva. Gli studi mostrano che, quando questo meccanismo è deficitario, come ad esempio nei pazienti schizofrenici, psicotici, con gravi malattie mentali o con sindromi dello spettro autistico, è più difficile leggere le emozioni altrui con conseguenze significative a livello interpersonale. Il sistema di decodifica delle emozioni può, quindi, essere un processo poco funzionale, a volte perfino strutturalmente danneggiato, come nei pazienti neurologici che falliscono al test di riconoscimento delle emozioni “Reading the mind in the eyes test” (Baron-Choen et al., 2001). Ma cosa succede quando è proprio il volto, o parti di esso, a mancare? Per esempio i pazienti parkinsoniani, a causa del deficit dopaminergico, sono ipomimici: i muscoli del volto sono rigidi ed è più difficile intuire gli stati interni emotivi.

Proprio questo insieme di evidenze mi fa riflettere e chiedere cosa accadrà quando usciremo solo e soltanto con mascherine per coprire il volto. Ci vorrà davvero più tempo per decodificare l’espressività dell’altro? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Metà del volto coperto, ostacolerà la percezione immediata degli elementi complessivi: sarà proprio impossibile o solo più difficile, vago? Per riconoscere la gioia, abbiamo bisogno di cogliere l’espressione coerente, in cui gli occhi si stringono e lo zigomatico maggiore spinge gli angoli della bocca all’insù. Pensiamo alla paura, alla sua forte valenza evolutiva. Potremo vedere le sopracciglia sollevate, gli occhi sgranati, ma non la bocca socchiusa né le labbra tese. E il disgusto, caratterizzato dal naso arricciato, dal labbro superiore sollevato e quello inferiore abbassato, come faremo a rintracciarlo? Una espressione di dolore, attiva in chi guarda, nell’ordine di una manciata di attimi, una serie di risposte, ad esempio di accudimento, ma solo perché bocca, occhi e tutti i muscoli facciali avranno disegnato armonicamente l’espressione del dolore.

Come mai tutto questo è importante? Perché il riconoscimento delle emozioni ha delle funzioni, connesse alla loro intrinseca valenza evolutiva, alla base dei rapporti umani, dell’attaccamento e della condivisione, del rispecchiamento, ma anche della protezione, della cura e perfino della regolazione emotiva. Pensiamo infatti alla vicinanza fisica tra chi è triste e chi vuole consolare con una carezza, all’abbraccio tra chi è felice e vuol condividere, alla spinta tra due litiganti e a tutti quei gesti che svolgono una funzione calmante o attivante, ricca di significati interpersonali. La distanza peripersonale, che aumenta o diminuisce fornendoci un parametro interno della intimità, che trasformazione subirà? Questa distanza, supportata da una comprensibile paura di contagio personale e degli altri, ci sta abituando a conversare di meno, a intrattenerci il minimo indispensabile con gli altri, a chiedere il permesso o a scusarci se per sbaglio ci accostiamo troppo. Si perché, quando ho rivisto un’amica dopo quasi due mesi, d’istinto stavo per abbracciarla eppure mi sono bloccata chiedendomi se fosse il caso, se lei volesse. Le ho dovuto chiedere il permesso per sentirmi autorizzata ad andarle incontro e queste operazioni interne hanno affievolito quel moto di gioia iniziale, snaturandolo quasi.

In conclusione, cosa accadrà quando potremo di nuovo viaggiare in mezzi di trasporto affollati, sederci vicino ad uno sconosciuto in villa? Allenarci in palestra o andare a cinema? Ballare o flirtare con qualcuno?

Tutte queste domande che ci ruotano nella mente, non hanno una risposta! Non sapremo in che modo le nostre strutture interpersonali resteranno condizionate da tutto questo fin quando questo futuro prossimo non sarà diventato presente. Mi auguro solo che quando rivedrò le persone che amo le vorrò abbracciare forte, prima ancora di sentire di poterlo fare. Mi auguro che, se quel mio amico neurologo sarà ancora triste, o spaventato, o arrabbiato o, perché no, felice, potrò leggerglielo in volto e potrò sintonizzarmi emotivamente con lui. E forse sì, sarà importante poterlo abbracciare!

 

SURVEY – Coronavirus e stress: come gestisco le emozioni negative – Partecipa alla ricerca

L’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia e le misure per contenerla hanno comportato grandi cambiamenti e causato un profondo disagio in gran parte della popolazione.

 

Tutte le persone che hanno vissuto questo difficile periodo riportano le stesse conseguenze?

Il progetto di ricerca è finalizzato a comprendere quali caratteristiche della nostra personalità ci proteggono dall’insorgenza di sintomi psicopatologici in seguito alla difficile situazione che stiamo vivendo (emergenza Covid-19).

Lo studio viene condotto tramite un questionario anonimo riguardante diversi aspetti legati al periodo recente ed alla personalità in genere.

 

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Fattori di vulnerabilità nella depressione post-mastectomia

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il tumore della mammella rappresenta in Italia e in molti paesi di tipo occidentale la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. La chirurgia è il trattamento più frequente proposto alla maggior parte delle pazienti per l’asportazione del tumore. Si tratta di tecniche di chirurgia conservativa (si salva il seno, ma si asporta la parte tumorale) o di tecniche di chirurgia demolitiva come la mastectomia (asportazione dell’intero seno).

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Secondo Shuterland (1953), i cambiamenti nella funzione in generale coinvolgono due aspetti diversi ma inseparabili: le limitazioni realistiche imposte e le limitazioni imposte dall’interpretazione del significato che le pazienti attribuiscono al cambiamento fisico. Quindi, il tumore al seno e la chirurgia impongono problemi reali molto specifici a causa della funzione effettiva della parte del corpo o dell’organo coinvolto e del suo significato nell’adattamento totale del singolo paziente.

Il disturbo depressivo maggiore risulta, quindi, determinato dall’aspettativa della paziente della quantità e del tipo di interruzione della prestazione che la perdita di un organo comporta. La perdita della funzione, anche temporanea, è destabilizzante per le pazienti se compromette attività vitali, quando queste sono minacciate o interrotte dall’esperienza chirurgica stessa o dalle sue conseguenze.

Quando non si riesce a far riferimento a difese compensative, la depressione persiste fino a quando non è in grado di riprendere l’attività valutata compromessa. Tuttavia, alcune pazienti, a causa di limitazioni reali o di convinzioni riguardo a limitazioni che non trovano conferma nella realtà, trovano difficoltà a riprendere l’attività sacrificata e di conseguenza permane la sintomatologia depressiva. Tale sintomatologia può persistere per un periodo indefinito.

L’ impatto dell’esperienza chirurgica e della perdita del seno è altamente individuale; ciò che lo differenzia è il significato di tali eventi nell’adattamento totale della vita di ogni paziente. Durante la fase post-operatoria le pazienti esprimono frequentemente sentimenti di ostilità verso il personale medico. Inoltre, vi è un senso di vitalità corporea diminuito e sentimenti di debolezza o fragilità del corpo.

L’inaccettabilità della perdita dell’organo e l’isolamento sociale che ne consegue possono essere fattori scatenanti per l’insorgenza della depressione rispetto alla paura di recidive, infatti alcune pazienti preferirebbero morire di cancro.

Adsett, tra le diverse reazioni emotive dopo l’asportazione totale del seno, osservava la depressione come

risultante del senso di perdita dell’organo e del suo significato, percepito come base per il valore dell’individuo e accettazione da parte degli altri; quando si associa il senso di colpa la depressione appare più severa.

Le pazienti tendono ad esprimere idee di inutilità e di scarso valore riferito al Sé. Perdono il loro interesse per l’ambiente e sperimentano fatica e difficoltà a concentrarsi. Depressione e sentimenti di inutilità possono essere presenti soprattutto in pazienti il cui senso di valore dipende dalla loro capacità di essere presenti per gli altri e da una rigida negazione del sé. La loro mancata presenza nei confronti degli altri comprometterebbe la loro autostima.

Golden-Kreutz e Andersen condussero uno studio su 210 donne di cui il 59% con mastectomia e il 41% con asportazione nodulare. Attraverso questo studio, essi cercarono di stabilire il rapporto tra gli stressor subiti da queste donne e i sintomi depressivi conseguenti la malattia e l’intervento chirurgico. I risultati furono: la maggior parte delle partecipanti aveva sperimentato almeno un evento traumatico importante nella vita l’anno precedente la diagnosi. L’evento più comune riportato è stato la morte o la malattia grave di un partner/coniuge; importanti difficoltà finanziarie; il divorzio o un’altra interruzione di relazione con il partner/coniuge, familiari, o amici.

Gli autori conclusero che

elevati livelli di stress globale uniti a pensieri intrusivi legati al cancro, problemi finanziari e la tendenza alla negatività possono cospirare per aumentare il rischio di sintomi depressivi nelle donne con cancro al seno.

Inoltre, un altro aspetto di notevole interesse è l’analisi dello stile di attaccamento nelle donne sottoposte a intervento di mastectomia e la sua correlazione eventuale con l’insorgenza di un disturbo depressivo maggiore post intervento. L’attaccamento di tipo insicuro-resistente viene indicato come fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo depressivo maggiore.

In un lavoro di Koziinska (2012), sono stati confrontati due gruppi di donne: le prime con cancro alla mammella, le seconde sane. È stato osservato come nel primo gruppo lo stile di attaccamento insicuro fosse molto più frequente rispetto al gruppo di donne sane; inoltre la salute, il benessere fisico e psichico erano significativamente ad un livello inferiore nel gruppo delle donne con cancro alla mammella rispetto al gruppo delle donne sane. Infine, le donne con uno stile di attaccamento sicuro avevano una percezione soggettiva del proprio benessere fisico e psichico decisamente superiore rispetto alle donne con attaccamento insicuro, indipendentemente dalla presenza o meno di cancro al seno.

Si evince che, un attaccamento di tipo sicuro è un fattore protettivo nei confronti della depressione in tutte le donne che devono affrontare il difficile percorso terapeutico del cancro alla mammella. Inoltre, la relazione tra uno “stressor” importante come una mastectomia e uno stile di attaccamento insicuro concorrono in modo sinergico a determinare l’insorgenza della depressione.

Considerando che il cancro alla mammella e la mastectomia incidono su tutti gli aspetti della vita psichica e sociale della donna, una presa in carico della paziente da un punto di vista multidisciplinare, che veda quindi la collaborazione tra chirurgo, oncologo, psichiatra e psicoterapeuta, è molto importante, dal momento della diagnosi fino al post-intervento per individuare laddove vi siano fattori di rischio anche psicologici e per garantire alle pazienti un percorso di cura che assicuri un elevato livello di salute fisica, psichica e sociale.

 

“Perchè non, si ma”: l’applicazione del gioco Berniano alla resistenza della critica alle proprie credenze

L’accademia scientifica sta analizzando in questo periodo la resistenza alla analisi critica nei confronti delle proprie credenze. In questo articolo sono identificate le varie tipologie di bias legate alla resistenza usando come base l’Analisi dei Giochi dello psichiatra Eric Berne.

 

Come indica Francesca Pasinelli nel suo articolo pubblicato sull’Huffpost (2014), l’assenza in quel periodo di persone colpite da malattie infettive come la poliomielite (come si può notare, l’articolo appartiene al periodo storico antecedente alla diffusione del Sars-Covid-2) è un grande insegnamento per quanto riguarda il rapporto da avere con la scienza: infatti, senza di essa, l’Umanità non sarebbe arrivata a questi livelli di conoscenza tecnica e medica. Tuttavia, come è stato indicato sia dalla stampa generale (Bucchi, 2019), che dalla stampa di settore (Villa, 2019) e scientifica (Hamby, Ecker, Bringberg, 2019), in questo decennio si è verificato un declino della fiducia della popolazione occidentale nei confronti della Scienza e del Metodo Scientifico.

Di fatto, è stato sottolineato che in questi anni del ventunesimo secolo, la popolazione occidentale sta assumendo una posizione di sfiducia nei confronti del metodo scientifico, soprattutto quando riguarda l’analisi critica nei confronti delle credenze che portano certezze e sicurezza (Tsipursky, 2018).

Questa resistenza accanita nei confronti del metodo scientifico sta minacciando l’ipotetica morte della conoscenza in materia (“death of expertise”), invero dove l’opinione e l’esperienza personale è ritenuta esser allo stesso livello dell’analisi scientifica (Nichols, 2017). Tale fenomeno di resistenza culturale sta creando preoccupazione nel mondo accademico e sociale, tanto da creare figure di contrattacco come il virologo Roberto Burioni (2020).

Questa reazione al risultato ottenuto dal processo di falsificabilità di Popper (2002) e dal processo empirico, ovvero due delle basi fondamentali del Metodo di Ricerca, può essere analizzata seguendo il gioco del “Perché non….Sì ma” contestualizzato dal medico psichiatra e psicoterapeuta Eric Berne (1919 – 1970). Seguendo ciò che lo psichiatra americano identifica nel suo libro “A Che Gioco Giochiamo?” (1964), manuale considerato esser il caposaldo della analisi transazionale, il “Perché non….sì ma” è un gioco, ovvero un incontro fra due o più persone dove avviene una transazione di significati psicologici, sociali e biologici, attuato dall’attore Bianco (ovvero l’agente) nei confronti dell’attore Nero (ovvero il ricevente) con l’obiettivo di esser rassicurato circa le sue posizioni.

Di fatto, l’attore Bianco polemizza con l’attore Nero circa una situazione, indicando le varie problematiche che gli recano disturbo: tuttavia, mentre il Nero sottopone al Bianco delle soluzioni concrete a queste problematiche, il Bianco le declina in toto, con l’obiettivo di mantenere lo status quo della situazione in cui si trova. In poche parole, l’attore Bianco ha solo l’intenzione di sfogarsi con l’attore Nero circa una serie di situazioni senza però attuare delle soluzioni nei confronti di queste, poiché perderebbe il ruolo di potere che pensa di aver assunto, autoconvincendosi di trovare le proprie credenze confermate a priori, senza tener conto di ciò che propone l’attore Nero.

Questa situazione è assai simile alla resistenza che i vari scettici della Scienza assumono nei confronti della Metodologia Sperimentale: infatti, essi espongono le proprie tesi basate su letture e su esperienze proprie altamente influenzate dalle proprie credenze, annullando così la differenza di esse con la risposta basata su dati empirici e percependo di aver il diritto scientifico di rimanere sulle proprie posizioni.

La visione transazionale berniana di questo fenomeno può essere collegata coerentemente con gli ultimi risultati della ricerca cognitiva. Difatti, seguendo il processo di transazione appena descritto attraverso l’ottica neurocognitiva, l’attore Bianco inizia lo scambio con l’attore Nero già cristallizzato nei confronti delle proprie idee, attuando il “My – Side Bias” (Jarret, 2018) in maniera aprioristica, sottoponendosi così ad un ennesimo bias, il “continued influenced effect” (Willmot, 2019). Alla fine, tutti gli scambi con il soggetto Nero sono annullati dalla credenza auto-illusoria e di difesa che gli altri soggetti siano meno oggettivi e influenzati nel loro percorso di ricerca, attuando così il “bias blind spot” (Warren, 2019).

Come dice Atul Gawande, rifacendosi alle parole di Hubble del 1938, “a scientist has a healthy skepticism, suspended judgement, and disciplined imagination—not only about other people’s ideas but also about his or her own. The scientist has an experimental mind, not a litigious one” (2016).

Tuttavia, sembra tristemente più attuale rifarsi alle parole di Umberto Eco prima che morisse (2015).

La sottile linea di confine tra alimentazione sana e patologica

Nell’attuale “società del benessere” in cui predomina l’abbondanza di cibo, sempre più attenzione è posta al nutrirsi in maniera consapevole ed equilibrata. Ma esiste una sottile linea di demarcazione tra alimentazione salutare e patologia, come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

 

Il cibo, fin dall’antichità, ha ricoperto un ruolo di primo piano nella vita dell’individuo, rivestendo un insieme di funzioni legate alla sopravvivenza, al bisogno di appagamento, all’appartenenza ad un gruppo, all’identità ed alla socialità.

Si mangia infatti per festeggiare compleanni, matrimoni e lauree o semplicemente per condividere a tavola momenti gradevoli con amici e parenti. Si mangia per trovare un posto nella società e per definire la propria identità sentendosi parte di una comunità con cui si condividono delle regole. Si mangia per mettere a tacere emozioni negative come ansia e stress, per consolarsi quando si è tristi, per occupare il tempo nei momenti di noia o per concedersi un’esperienza piacevole come premio. Infine, si mangia per introdurre gli alimenti necessari a garantire il giusto apporto nutritivo all’organismo.

L’ossessione di mangiare sano

Nella cosiddetta attuale “società del benessere”, caratterizzata dall’abbondanza di diversi tipi di alimenti, la possibilità di mangiare in modo continuativo, eccedendo in quantità maggiori del necessario, unitamente al perseguimento di modelli di bellezza e perfezione fisica, ha prodotto un’iperfocalizzazione dell’attenzione sul cibo quale “nemico da evitare”.

A questo si aggiunge il bombardamento mediatico e pubblicitario presente in rete che, offrendo consigli e protocolli alimentari, oltre a creare un contesto di maggior informazione e conoscenza, ha l’effetto paradossale di produrre false credenze e miti sulla nutrizione, non basati su fondamenti scientifici (Garano et al, 2016).

Tale meccanismo che ha avuto da una parte l’effetto di accrescere l’ossessione per un’alimentazione basata su pietanze “giuste” e sulla suddivisione di cibi in “buoni e cattivi” e dall’altra ha portato al diffondersi, a partire dagli anni ottanta del novecento, di pratiche alimentari restrittive come la “dieta chetogenica” a basso contenuto di carboidrati, la “dieta ipocalorica” che prevede un apporto energetico quotidiano inferiore a quello richiesto dall’organismo, come ad esempio nella Weight Watchers e nel metodo Alimentare a Zona, la “dieta macrobiotica” a basso contenuto di grassi, la “dieta crudista” che prevede il consumo di alimenti non lavorati, spesso provenienti da alimentazione biologica, la “dieta dissociata” che si basa su una rigida associazione di vari alimenti, la “Dukan” ad elevato contenuto di proteine fino ad arrivare al “digiuno intermittente”.

Perdersi all’interno di questo labirinto è davvero facile, soprattutto se non si è degli specialisti del settore e, all’interno di questo contesto, la linea di confine tra regimi alimentari sani e patologici, diventa sempre più sfumata come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

Ortoressia e vigoressia

Entrambi i disturbi si sviluppano all’interno in un contesto ambientale che rinforza l’idea del mangiare sano e che culturalmente accetta il perseguimento di un’ideale di bellezza che può portare a scambiare inizialmente l’insorgenza di tale patologia con una maniera per migliorare la propria salute e correggere comportamenti alimentari errati.

Sia l’ortoressia che la vigoressia si basano infatti su uno stile di vita improntato al perseguimento di un rigido regime nutrizionale ma, mentre l’ortoressia poggia sull’ossessione per il mangiare sano che conduce il soggetto a spendere molto tempo a pensare al cibo, a quali alimenti evitare, a selezionarli e a prepararli al fine di mantenere una buona condizione di salute, la vigoressia riguarda l’ossessione per la perfetta forma fisica raggiunta tramite l’uso di un’alimentazione iper-proteica e lo svolgimento di esercizi fisici, al fine di ottenere una muscolatura ipertrofica.

In entrambe le patologie, il cibo e le pratiche sportive vengono utilizzate per definire un senso di identità e di appartenenza al gruppo, per dare consistenza al sé ma allo stesso tempo, per via dell’autocontrollo e della rigida disciplina alimentare che richiedono, tendono ad allontanare l’individuo dalla collettività conducendolo ad isolamento sociale e compromettendone la vita lavorativa. L’autostima diviene così secondaria al mantenimento della forma fisica o del regime alimentare che, se seguito correttamente, porta a provare un senso di superiorità rispetto agli altri ma ha come rovescio della medaglia, l’acuirsi di sentimenti di colpa e disagio quando si “fallisce”. E mentre nell’ortoressia tali emozioni portano la persona a seguire diete sempre più ristrette come gesto autopunitivo, nella vigoressia conducono ad estenuanti allenamenti in palestra e spesso all’uso di sostanze anabolizzanti per lo sviluppo di un corpo che non è mai ritenuto sufficientemente muscoloso.

Alcuni hanno definito tali atteggiamenti una forma di “fanatismo alimentare” che, portando a focalizzare l’attenzione unicamente sull’alimentazione, impoveriscono la complessità della realtà, comportano la fuga dai problemi reali e conducono a trovare rifugio in un unico scopo perseguibile: il cibo. L’alimento diviene così un elemento “sacro”, scelto non per il gusto che produce al palato ma sulla base delle qualità e dei benefici che può apportare in base a ideali etico-diatetici. La nutrizione assume una forma di “religiosità” divenendo una guida di precetti e comportamenti da seguire al fine di mettere a tacere paure ed insicurezze. Tale integralismo, che evidenzia l’importanza degli alimenti puri ed incontaminati, permette di concentrare le ansie riguardo il futuro nel piatto e nel cibo, ritenuto unico aspetto della vita che è possibile controllare (Garano et al, 2016; Niola, 2015).

Si arriva così al grande paradosso di tali rigidi e restrittivi regimi alimentari che, partendo dall’idea di voler preservare la salute, tramite l’utilizzo di cibi sani e di attività fisica, arrivano a depauperarla Ortocomportando squilibri nutrizionali e complicazioni mediche le cui conseguenze, troppo spesso, vengono sottostimate dalla “new age of food”.

L’insegnamento che si può trarre è quello che avevano già imparato gli antichi e che Aristotele spiega bene nell’Etica Nicomachia “supponendo che eccesso e difetto rovinano la perfezione, la via di mezzo la salvaguarda” che tradotto in un linguaggio più psicologico consiste nell’avere un approccio flessibile in tutti i contesti di vita, compresa l’alimentazione, perché l’eccessiva rigidità è uno dei campanelli di allarme della patologia.

 

 

 

Covid19 e amanti

Esiste un fenomeno che, a somiglianza del lavoro in nero, è grandemente sottostimato e i cui protagonisti, appunto perché negati e sconosciuti, stanno pagando un prezzo altissimo per la attuale pandemia: quello degli amanti.

 

Se il paese tutto va in sofferenza sono soprattutto le fasce deboli a subirne le conseguenze e si allarga la forbice tra ricchi e poveri. Quando la ricchezza complessiva aumenta è soprattutto la media e alta borghesia ad avvantaggiarsene e si allarga la forbice tra ricchi e poveri il che mi riporta alla memoria un detto scarsamente raffinato sulla destinazione finale di un certo cetriolo di un non meglio identificato ortolano (cosa analoga avviene con il prezzo del petrolio: sia che l’OPEC lo aumenti, sia che crolli ai minimi storici l’effetto è sempre un aumento del prezzo dei carburanti alla pompa). Solo la morte pare essere davvero una imparziale “livella” quantunque le cure che la precedono nel tentativo di rimandarla o renderla più dolce non siano affatto livellate. Il governo ha preso e prenderà ulteriori provvedimenti per i più colpiti dalla frenata dell’economia, i piccoli lavoratori autonomi, i giovani precari, le partite IVA che rischiano di non poter fare la spesa nonostante i negozi di alimentari siano aperti. Ancora più in difficoltà sono i cosiddetti “lavoratori in nero” che rappresentano una grossa fetta del PIL del paese ma non risultano da nessuna parte e dunque non sono nemmeno facilmente raggiungibili da eventuali sussidi perché per lo Stato e per l’INPS semplicemente non esistono. Forse sarà l’occasione per un ennesimo condono fiscale ma ben venga se finalmente emergerà dal nulla questo enorme e rimosso problema del lavoro in nero, enorme ammortizzatore tra il lavoro riconosciuto e tassato e la disoccupazione. Esiste un altro fenomeno che, a somiglianza del lavoro in nero, è grandemente sottostimato e i cui protagonisti, appunto perché negati e sconosciuti, stanno pagando un prezzo altissimo per la attuale pandemia. Il fenomeno è quello dell’adulterio e i suoi lavoratori in nero senza diritti e riconoscimenti sono “gli amanti” improvvisamente separati, alienati dai loro consueti luoghi di incontro (specialmente il lavoro) e rinchiusi in una cattività domestica dove anche gli strumenti di comunicazione sul web sono requisiti a vantaggio dei più piccoli per le lezioni scolastiche o per i più istituzionali auguri e contatti con nonni soli e parenti lontani. Potreste obiettare che il fenomeno sia quantitativamente irrilevante invece è esattamente come per il COVID19 dove i positivi accertati sono un minuscolo sottoinsieme dei positivi reali che dunque sono potenzialmente e inconsapevolmente vettori di contagio. Sarà utile fornire dunque, prima di proseguire, alcuni dati epidemiologici sul fenomeno nella nostra cara vecchia Europa.

Cenni di epidemiologia:

Per la Corte di cassazione francese l’infedeltà non è più un atto contro la morale, in quanto scrive nel 2015: “con l’evolversi delle abitudini così come dei concetti morali, ad oggi non è più possibile considerare l’infedeltà coniugale come in contrasto con la comune rappresentazione della moralità nella società contemporanea”. L’infedeltà non è quindi diversa da qualsiasi altra forma di libertà di espressione e presto non sarà più considerata una delle cause che giustificano un divorzio.

Contemporaneamente i dati diffusi da “Gleeden.com”, il più grande sito di incontri dedicato a donne sposate in cerca di incontri, ci dice che in Italia nel corso dell’intera esistenza di coppia: il 30% resta per sempre fedele, nel 40% dei casi uno dei due partner tradisce mentre nel restante 30% entrambi tradiscono e dunque nel 70% dei casi le coppie vivono una situazione di tradimento singolo o doppio.

Secondo i dati raccolti su base europea dall’IFOP (istituto francese di opinione pubblica) il 45% degli italiani ha dichiarato di aver tradito il partner almeno una volta contro il 43% della Francia, il 39% della Spagna e il 36% della Gran Bretagna. Ancora più interessanti dei fatti per noi psicologi sono le opinioni che si hanno sui fatti e la ricerca ci dice che alla domanda “ti sei pentito/a di aver tradito il partner?” solo un 27% di italiani ha risposto sì contro il 73% di no. E anche stavolta la percentuale è la più alta d’Europa (Francia e Germania 28%, Spagna 36% e Gran Bretagna 50%). Ma quale valore morale danno gli italiani all’infedeltà? Quello che appare particolarmente interessante non è solo l’intensa pratica dell’adulterio ma il fatto che sia in corso un mutamento della comune morale per cui si tende sempre più a ritenerlo accettabile. Secondo una ricerca condotta su scala mondiale dall’americana Pew Research il nostro Paese appare molto più laico di quello che si pensa: se è vero che il 64% degli italiani pensa che l’infedeltà sia moralmente inaccettabile, la percentuale risulta comunque tra le più basse del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, ben l’84% condanna pubblicamente il tradimento, così come il 76% dei Britannici e solo il 47% dei francesi e il 60% dei tedeschi.

Ancora dati IFOP ci dicono che per il 56% degli italiani si può essere innamorati del proprio partner e comunque tradirlo. Un approfondimento dello studio tutto dedicato all’Italia in quanto patria del cattolicesimo ha rivelato che per il 63% degli italiani è del tutto possibile amare due persone contemporaneamente, con un 21% degli intervistati che ha rivelato una stabile e duratura relazione con l’amante contro un 41% di avventure occasionali; il 43% degli infedeli si aspetta di essere perdonato dal partner qualora venga scoperto.

Rispetto ai tempi del tradimento il sondaggio IPSOS afferma che il 35% degli intervistati dichiara di aver ceduto al tradimento dopo il 5° anno di matrimonio, il 30% tra il 2° e il 5° anno. Per un 20% un anno di fedeltà è stato più che sufficiente, mentre un 15% ha resistito solo 3 mesi.

Ad essere intervistati sulle proprie relazioni extraconiugali sono stati 1565 italiani, uomini e donne, sposati e di età compresa tra i 24 e i 64 anni. Questi i risultati dettagliati:

Nel primo anno di matrimonio: il tasso di infedeltà è del 27% per gli uomini e del 21% delle donne. C’è però da considerare che tra coloro che tradiscono già al primo anno c’è un 35% che era stato infedele almeno una volta anche negli anni del fidanzamento.

Nel 2° e 3° anno di matrimonio: il divario tra l’infedeltà maschile e quella femminile aumenta. Il 36% degli uomini contro l’11% delle donne. Generalmente questo è il periodo in cui nasce il primo figlio, nuova situazione vissuta in maniera spesso diametralmente opposta dai due partner: le donne, prese del nuovo arrivato, trascurano un po’ il marito che così è costretto a rifugiarsi nelle braccia di qualcun’altra (o almeno questo è il luogo comune e la classica scusa utilizzata per giustificarsi!).

Tra il 3° e il 9° anno di matrimonio: il tasso di infedeltà cresce esponenzialmente e non si registrano più grandi differenze tra uomini e donne. Il 58% degli intervistati uomini ha confessato uno o più tradimenti, per le donne invece la percentuale è del 46%.

Dal 9° al 25° anno, l’infedeltà si fa “seriale”: il tradimento è ormai una routine per il 49% degli intervistati uomini e per il 36% delle donne.

Dopo il 25° anno di matrimonio: il tasso di infedeltà è solo del 13%. Ovviamente il fatto è probabilmente da imputare ad un fattore di età.

L’Italia presenta forti contraddizioni tra la pratica, che la vede come il paese più infedele d’Europa, e la teoria, mostrandosi ancora in bilico tra rivendicazioni laiche ed un eredità ancora fortemente cattolica.

Il 76% degli Italiani ha infatti dichiarato che rimanere fedeli per tutta la vita è possibile e la risposta è trasversale a qualsiasi fascia d’età, religione e orientamento politico.

E’ evidente la contraddizione tra ciò che si fa e ciò che si dice di credere. Meglio sarebbe dire “tra ciò che si dice di fare e ciò che si dice di credere”.

Quello che gli italiani non riescono ad accettare quando si parla di infedeltà è la manifestazione del suo lato puramente sessuale: tra gli atti che costituiscono fonte di tradimento infatti figurano baciare alla francese una persona diversa dal partner (77%), avere rapporti orali (89%), fino al rapporto sessuale vero e proprio, sia che si tratti di un episodio momentaneo (89%) che di una pratica regolare (92%). Innamorarsi di un’altra persona ve bene quindi, basta che l’amore rimanga platonico e non si traduca in qualcosa di più fisico.

Un dato incontrovertibile sia per gli Stati Uniti che per l’Europa è che le donne hanno raggiunto e molto spesso superato gli uomini nella tendenza a tradire e che le differenze precedenti che volevano gli uomini tradire per motivi sessuali e per relazioni occasionali mentre le donne per motivi sentimentali e per relazioni più profonde e prolungate, non sono più attuali e le differenze nel tipo di tradimento non riguardano il genere ma la singola personalità. Un importante stereotipo che voleva gli uomini interessati ad una cosa sola sembra dunque superato in nome di una raggiunta parità di genere. Tutte queste ricerche si basano su interviste degli interessati che possono comunque mentire e tendenzialmente in un’unica direzione, quella negazionista. Dati più oggettivi ci giungono da quella che in ambito giuridico è diventata ormai “la prova regina” ovvero il test del DNA utilizzato per l’accertamento di paternità in continuo aumento in Italia dove dice l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione dei matrimonialisti italiani:

Secondo le stime ricavabili dai dati statistici, il 15% dei secondi figli è di un padre diverso da quello ufficiale e la percentuale arriva al 25% nel caso dei terzi figli. Sono in aumento vertiginoso le perizie che i tribunali dispongono per accertare la paternità. Inoltre, è aumentata di circa il 30% la vendita online di kit per l’accertamento ‘fai da te’ della paternità. Tali stime dimostrano che le infedeltà coniugali sono in netto aumento nel nostro Paese o almeno il livello del sospetto degli uomini di non essere padri dei propri figli oggi è particolarmente elevato e preoccupante.

In conclusione un figlio su 5 (il 20%) non è del padre legittimo. Credo sia ragionevole ipotizzare che tale percentuale sia molto superiore tra gli aborti in quanto tale esito, volontario o meno, è un rischio molto maggiore in una gravidanza adulterina. Se infine consideriamo che non tutti i rapporti sessuali comportano una gravidanza, soprattutto se si tratta di rapporti sessuali non consentiti, si può avere una stima di quanti coiti avvengano in coppie non istituzionali. Nel mondo omosessuale poi, sia maschile, come si è sempre affermato in nome del pregiudizio succitato che vedeva come il maschio sempre sex-oriented, sia femminile, entrambi liberi dal rischio gravidanza, la percentuale dei tradimenti occasionali o prolungati è certamente maggiore. La vita da amante benché, parrebbe, scelta da molti per periodi più o meno brevi è tutt’altro che semplice.

Per gli amanti le feste comandate ed in generale le vacanze sono sempre stati periodi neri perché predominano le esigenze delle famiglie d’origine, i pranzi a cui non si può mancare, la condivisione assoluta delle 24 ore con coniugi, generazioni precedenti e progenie e persino la ricerca di silenziosa solitudine senza scopi reconditi è stigmatizzata come colpevole diserzione dal festoso regolamentare ritrovarsi. Ora siamo in un momento dolorosissimo in cui la serrata amorosa da pandemia rischia, non trattandosi di attività produttiva essenziale senza neppure la difesa di Renzi, di trapassare direttamente nelle vacanze estive su cui, da buoni italiani motivati a far ripartire il turismo almeno interno, investiremo fino all’ultimo euro. A parziale conferma di quanto detto sopra, dall’inizio dei provvedimenti di lockdown le farmacie segnalano un crollo nella vendita di preservativi compensato da un incremento del consumo di ansiolitici. Le associazioni di “amanti anonimi”, di concerto con le varie rappresentanze LGBT, che unite radunano circa l’85% del mondo dell’amore in nero (restano escluse le potentissime ma ancor più segrete congreghe e confraternite per il cosiddetto “amore disordinato” in tonaca che comunque hanno modo di far valere la loro pressione nelle sedi giuste sensibili all’appoggio ecclesiale) hanno proposto al governo una serie di misure urgenti (un decalogo) perché il mondo dell’amore in nero non si fermi del tutto con drammatiche conseguenze anche sull’indotto (fiorai, regali di lusso, alberghetti, motel e localini fuori porta):

  • Sconto del 50% sull’acquisto di telefoni satellitari in grado di connettersi da qualsiasi esotica località di vacanza con inclusi programmi di crittografia che abbiano superato il test “enigma” della macchina di Alan Turing che concorse alla vittoria alleata nella seconda guerra mondiale.
  • Voucher spendibili per un soggiorno di un week end in qualsiasi albergo, pensione, bed and breakfast e agriturismo italiano.
  • Accesso gratuito a totale carico dello Stato a tutti gli alberghi con servizio a ore diurno.
  • Sconto del 70% sui programmi di computer per un sexting avanzato e multisensoriale (in linea con gli analoghi provvedimenti per lo smart-working).
  • Aggiunta al modello di autocertificazione per l’allontanamento da casa della motivazione “impellenti e improrogabile esigenze affettivo/sessuale”
  • Libero accesso alle seconde case, garconierre e similari.
  • Transitoria sospensione del reato di “atti osceni in luogo pubblico” per chi dimostri di non avere altro luogo possibile che la propria vettura.
  • Riservare a loro, quando avverrà la riapertura e per i successivi tre mesi dell’ultima fila di posti in cinema e teatri.
  • Esenzione del pagamento di qualsiasi prodotto sanitario e parasanitario connesso all’attività sessuale o alle sue conseguenze.
  • Riscatto agevolato ai fini pensionistici del periodo di astinenza dovuto al distanziamento sociale da COVID19.

PS: è del tutto evidente, spero, che la maggior parte delle cose soprascritte siano delle bischerate, ma non i dati epidemiologici. Ammesso che di malattia si tratti, perché in tal caso dovremo parlare di una ulteriore nascosta pandemia. Meditiamoci.

Naturalmente, figuriamoci! Tutto ciò non riguarda certamente la vostra bella famigliola. Semmai, al massimo, quella del vostro vicino di casa. Peccato che lui pensi esattamente la stessa cosa ed è forse per questo che quando vi incontrate vi guarda con quel sorrisetto da demente che però la sa lunga.

Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) di F. Neziroglu e K. Donnelly – Recensione del libro

Fuori da me non si presenta come un manuale di auto aiuto, ma si propone come uno strumento informativo che possa consentire a chi soffre di depersonalizzazione di riconoscere il proprio problema ed avere indicazioni operative a riguardo

 

Benché la depersonalizzazione/ derealizzazione, sia come sintomo che ancor di più come disturbo psichiatrico in sé, sia raro, diventa importante conoscerlo per sapere come risolverlo. In quest’ottica le autrici del testo, attraverso un linguaggio semplice e scorrevole, per favorire l’approccio allo stesso ai non addetti ai lavori, forniscono chiare informazioni circa cosa si intende per depersonalizzazione e, ancor di più, come orientarsi nella risoluzione del problema.

All’interno di Fuori da me le autrici forniscono una descrizione di tutta una serie di sintomi, sia da un punto emotivo che cognitivo e comportamentale, che consentono al lettore di riconoscere e dare un nome a ciò che possibilmente sta vivendo.

Ne sono esempio: il senso di vuoto, la sensazione di non riconoscersi più, di osservarsi dall’esterno, di essere insensibile o di non provare più le emozioni come si dovrebbero provare o come si provavano in passato, la sensazione di avere mente e corpo disconnessi, passare del tempo ad interrogarsi su questioni filosofiche e/o religiose come, ad esempio “perché esistiamo?”, “esistiamo veramente?”, “chi è che sta parlando in realtà?”.

Ne segue una descrizione in merito alla diagnosi differenziale (disturbo di panico, disturbo post-traumatico da stress, disturbo ossessivo-compulsivo) e a possibili cause che possono determinare tale disturbo.

Le autrici inoltre mettono in risalto come in vista di queste sensazioni anomale la persona tenderebbe a voler agire un controllo, nel tentativo paradossale di non perderlo, e a focalizzarsi su i vari sintomi, aspetti che in realtà ne esasperano e mantengono il meccanismo.

Cosa fare dunque?

Il testo, che non si presenta come un manuale di auto aiuto, si propone come uno strumento informativo che possa consentire a chi ne soffre di riconoscere il proprio problema ed avere indicazioni operative al riguardo. Fuori da me, ovviamente, non si sostituisce all’intervento di un professionista e, in merito a ciò, le stesse autrici sottolineano l’importanza di chiedere aiuto e come sia preferibile orientare la propria scelta verso una terapista cognitivo-comportamentale in quanto tale approccio, anche grazie contributi della terapia di terza generazione, consente di fornire i giusti strumenti utili alla risoluzione del problema in merito. In tal senso, un’ulteriore nota interessante all’interno del testo, è l’approfondimento e l’integrazione di diversi contributi provenienti dalla ACT (Acceptance and Commitment Therapy) della DBT (Terapia Dialettico- Comportamentale). Attraverso i contributi di tali approcci, sottolineano le autrici, il paziente potrà essere aiutato a: comprendere cosa diventa più funzionale alla risoluzione del problema, sviluppare l’accettazione e la disponibilità ad entrare in contatto con ciò che sta accadendo, riuscire attraverso la mindfulness a sviluppare la capacità di osservarsi in modo distaccato rispetto a ciò che avviene dentro di sé in termini emotivi, cercando di non identificarsi con i propri pensieri o stati d’animo, individuare i propri valori e usarli come una bussola che orienta i nostri comportamenti, comprendere l’esistenza della mente razionale ed emozionale e riuscire a creare un rapporto armonico tra le due, sviluppando anche una tolleranza alla sofferenza.

Esercizi e schede operative presenti all’interno del testo consentono al lettore di mettersi in gioco attivamente nel tentativo di rompere quel circuito ossessivo di cui spesso diventa vittima chi sperimenta tale disagio.

Un valido testo che consente di avere informazioni su un disturbo poco conosciuto; sicuramente utile a chi ne soffre, ma non per questo meno utile al professionista.

 

L’impatto del covid sulla salute mentale in Spagna, Italia e Regno Unito

Uno studio internazionale, condotto dalla Open Evidence, spin-off dell’Universitat Oberta de Catalunya (Spagna), ha rivelato che la salute mentale del 41% della popolazione del Regno Unito è a rischio a causa della crisi del coronavirus.

 

Il progetto di ricerca ha visto la partecipazione di ricercatori dell’Università di Glasgow, dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università degli Studi di Trento, dell’Università di Tilburg e dell’Universidad Nacional de Colombia (Codagnone & Gomez, 2020).

Lo studio consisteva in tre sondaggi, i dati sono stati raccolti in Italia, in Spagna e nel Regno Unito, nel corso di tre settimane consecutive, dal 24 aprile al 17 maggio. Lo scopo era analizzare i cambiamenti comportamentali legati allo stress e al trauma all’interno delle popolazioni interessate nel contesto della pandemia, nonché misurare l’opinione pubblica in merito alle informazioni fornite dal governo e alla sua risposta in relazione alla crisi sanitaria (Codagnone & Gomez, 2020).

I dati raccolti nel primo sondaggio, che ha campionato 10.551 persone (3.523 nel Regno Unito, 3.524 in Spagna e 3.504 in Italia) tra il 24 aprile e il 1 maggio, mostrano che la maggior parte della popolazione tra i 18 e i 75 anni riferisce di essersi sentita depressa o senza speranza per il futuro ad un certo punto durante questo periodo: 57% nel Regno Unito, 67% in Spagna e 59% in Italia. I ricercatori sottolineano che i dati forniscono un quadro sull’impatto del lockdown e dobbiamo essere preparati per le conseguenze sociali e sanitarie associate ad esso (Codagnone & Gomez, 2020).

L’analisi dei dati è stata effettuata considerando fattori aggiuntivi quali: il tipo di alloggio (piena proprietà, proprietà ipotecata, affitto, ecc.), condizioni di vita (metri quadrati di alloggio, numero di persone che vi abitano, presenza di bambini in età scolare), perdita di occupazione, la chiusura della propria attività, la perdita di reddito e l’accesso ai test COVID-19; la considerazione di queste variabili ha fornito un indicatore generale in relazione allo stato di salute mentale delle persone nei tre paesi. I risultati rivelano che la salute mentale del 41% delle persone nel Regno Unito è a rischio, con dati del 46% e del 42% registrati per la Spagna e l’Italia, sottolineando che, per salute mentale, si intende la presenza di sintomi legati allo stress e al trauma (Codagnone & Gomez, 2020).

La ricerca sta tutt’ora continuando, i risultati sopra riportati si riferiscono al primo studio, cioè quello condotto tra il 24 aprile e il primo maggio (Codagnone & Gomez, 2020).

Il secondo studio, volto a valutare l’impatto della situazione sulle capacità cognitive dei partecipanti, sulla percezione del rischio, sulla fiducia e sull’altruismo, è stato condotto tra il 2 e il 9 maggio e si prevede che i risultati saranno rilasciati nella settimana che inizia il 18 maggio.

Infine, la terza ricerca, che verrà effettuata tra il 10 e il 17 maggio, si concentrerà sull’incertezza e sui conflitti relativi alla privacy e al bene comune, agli interessi individuali e collettivi relativi alla distribuzione delle risorse, con i risultati che saranno pubblicati nella settimana del 25 maggio (Codagnone & Gomez, 2020).

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