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Dialoghi con Sandra – VIDEO del settimo incontro “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del settimo incontro con la Dott.ssa Sara Novero.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del settimo incontro è stata la Dott.ssa Sara Novero, la quale ha affrontato l’argomento “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici (2020) di D. Baroni – Recensione del libro

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici, suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare la rottura di una relazione sentimentale.

 

La fine di una relazione è un evento doloroso molto comune nella vita delle persone. Siamo biologicamente predisposti a ricercare e costruire relazioni, che diventano quindi un aspetto molto importante della nostra esistenza. Pertanto è normale che, quando un rapporto significativo termina, ciò procuri una sofferenza che può incidere fortemente su vari ambiti della vita.

Come poter superare un momento così difficile e far in modo che diventi anche un’occasione per ripartire su basi migliori?

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare questo momento critico.

Non propone un “protocollo” specifico, consapevole che una procedura ben precisa che valga per tutti non esiste, bensì suggerisce un percorso con passaggi da attraversare e riattraversare, all’insegna dell’accettazione delle normali reazioni emotive che possono emergere e dell’impegno a mettere in atto le strategie indicate, assumendosi ognuno la responsabilità del proprio percorso di cambiamento.

L’arte di riparare un cuore: le fasi di elaborazione della rottura

Il processo di elaborazione della fine di una relazione è un percorso composto da tre fasi dai confini sfumati: possono esserci oscillazioni tra una fase e un’altra, ma ogni volta che una fase viene rivissuta, ciò avviene con meno dolore e ci si resta per minor tempo. Per questo è un percorso che assomiglia più a una spirale, che a una linea retta:

Fase 1: Lo shock. E’ la fase dell’incredulità, dell’incapacità di rendersi conto della perdita che si sta attraversando, una perdita che va oltre la persona fisica, ma che riguarda anche le energie e le aspettative investite nella relazione, l’identità di coppia, le abitudini e gli amici comuni. Permette di non essere sommersi da emozioni che pensiamo di non poter gestire e, di solito, si risolve naturalmente, dandoci il tempo di adattarci alla nuova situazione e di prepararci a iniziare l’elaborazione.

Fase 2: La tempesta. E’ la fase delle tempeste emotive, in cui diventa importante mettere in atto strategie per poter gestire le reazioni che più caratterizzano questo momento (tristezza, ansia, ruminazione, rabbia, colpa e rimorso, senso di fallimento, speranza).

Fase 3: Comprensione, accettazione e integrazione. Il punto centrale di questa fase è l’accettazione di quanto è accaduto e del fatto che non può essere cambiato. Non è un passo semplice, in quanto ci si ritroverà a oscillare spesso tra accettazione e rifiuto. Tuttavia, con il tempo e l’impegno, i periodi di calma saranno sempre più lunghi e si andrà verso una profonda riorganizzazione della propria vita, con una maggiore attenzione alla cura dei propri bisogni e desideri. Ci si darà il permesso di tornare a vivere e ad amare.

Per aiutare nella buona riuscita di questo percorso, nel libro vengono proposti dei passaggi da seguire secondo l’ordine proposto, accompagnati da esercizi che aiutino la persona nel raggiungimento dei vari step.

Un concetto centrale che viene ribadito è che il tempo non basta per la riparazione di un cuore, ma che fondamentale sia l’uso che viene fatto di questo tempo.

L’arte di riparare un cuore: gestire l’emergenza

Nei primi quattro capitoli vengono presentate, in dettaglio e con apposite schede, strategie per affrontare l’emergenza emotiva e imparare a regolare l’intensità delle emozioni spiacevoli (esercizi di rilassamento, grounding/radicamento, uso di vari tipi di diario).

Un paio di capitoli vengono dedicati all’importanza di creare una rete di supporto e di prendersi cura del proprio corpo (alimentazione sana, esercizio fisico, cura del sonno) e della propria mente (meditazione, contrastare i pensieri autocritici, scrivere giornalmente un diario, attività rigeneranti).

Un raccomandazione necessaria viene fatta per i casi in cui, dopo circa un mese, non si abbia una leggera diminuzione in frequenza o intensità degli episodi di forte dolore: per queste specifiche situazioni, si consiglia di rivolgersi all’aiuto di una figura professionale.

L’arte di riparare un cuore: elaborare la fine di una relazione

Una volta raggiunti gli obiettivi e le competenze necessarie nella gestione delle forti emozioni provate, dai capitoli quinto all’ottavo vengono presentati i passi per l’elaborazione della fine della relazione, in cui diventa importante comprendere le cause della rottura, i propri schemi relazionali per non esserne più schiavi, dare un significato a ciò che è stato, lasciare andare il passato e perdonare sé stessi e l’altro (da non confondere con ignorare o dimenticare quanto successo).

Il processo di riparazione del cuore implica tempo e, soprattutto, il rispetto dei tempi della propria mente: l’elaborazione richiede circa dai sei ai diciotto mesi e comporta lo sviluppo della capacità di stare soli, per poter decidere chi avere accanto ed essere, di conseguenza, felici anche in coppia.

L’arte di riparare un cuore: verso una nuova vita

Gli ultimi due capitoli forniscono utili suggerimenti per la ripresa di una nuova vita e l’apertura a una possibile nuova relazione di coppia, dove elemento principale rimane l’assumersi la responsabilità del proprio benessere emotivo facendo scelte che proteggano dalla sofferenza.

I passi presentati in questo libro-vademecum, pur focalizzati sul superamento della rottura di una relazione, in realtà vanno nella direzione più ampia di una riconquista della fiducia in sé stessi e di un procedere verso un’esistenza in linea con i propri desideri, in equilibrio tra la cura di sé e la cura dell’altro.

Rispettando te stesso, le tue emozioni e i tuoi valori, ti esorto a esplorare il mondo non per trovare la persona «giusta», ma per aprirti a ciò che troverai sul cammino che ogni giorno sceglierai.

 

Ansia sociale e consumo di sigarette

Nonostante i rischi associati al consumo di sigarette siano spesso ben noti, intraprendere e mantenere nel tempo la decisione di smettere di fumare può essere difficile.

 

Ciò può essere ancor più difficile per le persone che soffrono di ansia sociale, le quali mostrano maggiori livelli di dipendenza da nicotina e riportano un maggior numero di tentativi falliti di smettere di fumare (Cougle, Zvolensky, Fitch, & Sachs-Ericsson, 2010).

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno ipotizzato che le persone con ansia sociale possano fumare sigarette per cercare di regolare le loro emozioni negative. Le sigarette rappresenterebbero quindi una modalità inefficace di gestire sensazioni negative.

Nelle persone con disturbi d’ansia, è frequente l’uso di strategie poco efficaci per ridurre l’ansia, ossia i falsi comportamenti di sicurezza (false safety behavior, FSB). Un FSB è un comportamento che fa sentire l’individuo protetto dallo stimolo che causa ansia. Tuttavia, sebbene i falsi comportamenti di sicurezza permettano di sperimentare un’immediata riduzione dell’ansia, a lungo termine possono costituire un fattore di mantenimento del disturbo ansioso.

Gli autori hanno quindi verificato se più alti livelli di ansia sociale aumentassero la tendenza ad usare FSB frequentemente, e se questo a sua volta comportasse un maggior consumo di sigarette al giorno.

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno coinvolto un campione di 71 studenti universitari, a cui hanno chiesto quante sigarette fumassero al giorno. Inoltre hanno raccolto informazioni circa i livelli di ansia sociale negli studenti e la tendenza ad utilizzare vari tipi di FSB quando si sentivano nervosi, preoccupati o ansiosi. Attraverso la Safety Aid Scale (SAS; Korte & Schmidt, 2014), hanno misurato la presenza di falsi comportamenti di sicurezza, tra cui: cercare continue rassicurazioni; farsi accompagnare da un amico quando si deve affrontare una situazione sociale; evitare situazioni in cui si incontreranno altre persone, ad esempio una festa; controllare mentalmente che vi sia la possibilità di uscire dalla stanza; o ancora prepararsi eccessivamente prima di un evento sociale.

I risultati indicano che maggiori livelli di ansia sociale si associano a un maggior numero di sigarette fumate al giorno e a un maggior uso di evitamento come FSB. Quest’ultimo tipo di FSB risulta associato a sua volta al numero di sigarette fumate al giorno. Il modello di mediazione ipotizzato è quindi confermato dai dati: l’ansia sociale agisce indirettamente sul consumo di sicurezza attraverso i FSB.

Questo studio presenta diverse limitazioni: innanzitutto coinvolge un campione di studenti universitari prevalentemente femminile, pertanto sarebbe opportuno replicare lo studio su un campione più inclusivo, che coinvolga anche fumatori che hanno intenzione di smettere di fumare. Inoltre sarebbe utile valutare come altri tipi di ansia siano connessi con i FSB e di conseguenza con il consumo di sigarette. Infine, bisognerebbe approfondire ulteriormente la relazione specifica tra FSB e uso di sigarette.

Sebbene quindi lo studio sia da considerare un punto di partenza per comprendere la relazione tra ansia sociale e fumo, un’importante implicazione clinica è che i fumatori potrebbero trarre beneficio dall’insegnamento di modalità più adattive di gestire le emozioni negative.

 

Resilienza: un’abilità verso il cambiamento

Il termine resilienza è un termine specifico che appartiene al campo della metallurgia e si riferisce alla capacità dei materiali che ne fanno parte, di resistere agli urti senza danneggiarsi, mantenendo le loro qualità adattive nonostante gli agenti esterni aggressivi.

 

In tal senso, potremmo pensare la resilienza in psicologia, sostanzialmente, come la capacità di saper trasformare un’esperienza dolorosa in un’esperienza positiva.

Il termine resilienza deriva dal verbo latino resilio, che significa rimbalzare, saltare indietro. Indica, in generale, l’essere resistenti e forti ai traumi, quindi la capacità di affrontare le avversità e superare le fratture che comportano.

Logicamente, il termine resiliente si estende sia ai singoli individui che ad un gruppo esteso di persone. Esso s’impiega spesso per indicare un soggetto in grado di dare uno slancio positivo alla propria vita, raggiungendo obbiettivi importanti, malgrado le circostanze; invece, se applichiamo il termine resilienza ad un gruppo di persone, esso indica la capacità di un gruppo sociale di far fronte collettivamente ad eventi traumatici o catastrofi naturali, adottando linee guida che consentano la sopravvivenza della comunità. In entrambi i casi, sicuramente, vengono utilizzate le abilità di ciascuno in una versione multi-tasking per poter dare un risultato ottimale alla situazione da affrontare.

L’uomo reagisce, in questi casi, attraverso una risposta adattativa, cioè lo stress, che consiste in un insieme di risposte sia psichiche che fisiche agli eventi.

Spesso, come sinonimo di resilienza, viene utilizzato il termine resistenza, ma in realtà viene impiegato in maniera impropria, poiché il primo si riferisce a una qualità aggiunta al proprio modo di vivere, ovvero trovare soluzioni agli squilibri, seppur non previsti, facendone una forza personale; invece si parla di resistenza, quando s’insiste su qualcosa che non ci porta ad un miglioramento, perciò ci arrochiamo a prendere le stesse strade per sentirsi rassicurati ma non per evolvere ed esplorare le proprie risorse. Proprio nel momento in cui attingiamo dalle risorse che non sapevamo di avere, si attivano le nostre capacità resilienti, tracciando un’alternativa a quella che si sarebbe rivelata il nostro unico dolore. In fin dei conti, nel corso del nostro ciclo di vita, gli eventi non sono sempre positivi, né essi sono compatibili con i nostri stati emotivi, né con le nostre situazioni di base.

I fattori che fanno parte delle persone resilienti, sono molteplici. Fra questi, potremo elencare:

  • l’ottimismo inteso come la capacità di prendere il lato buono di ogni cosa. Questa visione, favorisce il benessere individuale e difende dalla sofferenza perché dona lucidità;
  • l’autostima, indice di un’equilibrata considerazione del sé che consente di sopportare meglio le critiche, senza subirne gli effetti amari, riducendo la possibilità sviluppare sintomi depressivi;
  • l’inclinazione propositiva delle componenti quali il controllo, l’impegno e la sfida, ovvero la predisposizione a considerare i cambiamenti come opportunità piuttosto che come minacce;
  • le emozioni positive, ovvero la capacità di concentrarsi su ciò che si possiede anziché su quel che ci manca.

Allora, come possiamo fare per essere resilienti senza farci assorbire del tutto dalle avversità?

Dovremmo apprendere ogni giorno che questa abilità, pur essendo una capacità innata in alcune persone, va coltivata ogni giorno; si comprende che la quotidianità è un’arma a doppio taglio, la quale si rivela la nostra comfort zone ma, allo stesso tempo, un frame troppo rigido per far emergere le nostre vere competenze. Questa cornice è valida per tutti quegli eventi che comportano un trauma al soggetto, come i lutti e gli abbandoni, i quali richiedono un lavoro di elaborazione e di ristrutturazione del sé di enorme portata.

Migliorare la comunicazione, i nostri valori interpersonali e l’empatia può essere una risposta efficace per fronteggiare le situazioni ostili, perché la scelta è solo nostra, se apprendere una lezione definitiva, per allenare nuove strategie di coping o abbandonarci a noi stessi, per poi magari ritrovarci a fare le stesse domande. Per questo è importante avere una nostra guida, per non sprofondare in patologie più serie, come i disturbi d’ansia, il panico o la depressione.

Le angosce sono, in prima linea, delle spie che ci comunicano il senso d’inquietudine e la vita alternativa, forse più adatta alle nostre necessità in quel determinato momento. Questo segnale va ascoltato anche tramite l’educazione affettiva, il buon uso della lettura dei social media, che è possedere diverse chiavi di lettura, e non solamente leggere il punto di vista dello scrittore.

La resilienza va costruita proprio grazie alle diverse opportunità che ci offre la vita ma per impararla sulla nostra pelle ed insegnarla ai nostri figli, bisogna sempre che qualcuno ci dia il buon esempio.

 

Immaginazione guidata e video-terapia

Siamo a inizio marzo, si inizia a parlare di distanza sociale, quarantena, lockdown. Il pensiero corre velocemente ai miei pazienti: dovremo interrompere le terapie? Quanti di loro accetteranno di continuare online?

 

Riusciremo a sentirci a nostro agio con uno schermo che ci separa (col senno di poi, direi più “che ci unisce”)? Ma soprattutto, la video-terapia sarà ugualmente efficace e potremo ottenere benefici da questo nuovo setting? L’isolamento sociale a cui siamo stati chiamati ha richiesto alla psicoterapia un adattamento importante a condizioni, oserei dire, uniche.

Prima dell’8 marzo di quest’anno, mi era capitato di fare delle sedute Skype solamente con una paziente e solo per 4 o 5 volte. Non mi allettava particolarmente l’idea della video-terapia, più che altro perché non ero sicura di esserne in grado, in realtà senza nemmeno averci mai provato realmente.

Ora però la faccenda della video-terapia si fa più pressante, andare in studio mette a rischio me e gli altri: decido di non voler interrompere le sedute perché alcune terapie sono in pieno assessment e stiamo gettando le basi per la ricostruzione degli schemi interpersonali, altre sono nel pieno della condivisione del funzionamento, altre ancora sono in una fase avanzata di promozione del cambiamento. Decido quindi di proporlo a tutti i pazienti, ma per alcuni in particolare sentivo ancor più opprimenti le domande che mi ponevo.

Tecniche esperienziali in psicoterapia: a quale scopo?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) negli anni si è sempre più arricchita di tecniche esperienziali includendo tecniche corporee, drammaturgiche e meditative (Dimaggio et. al., 2019). Nell’utilizzare questi strumenti, possiamo perseguire differenti scopi a seconda della fase di terapia e, più nello specifico, della procedura decisionale che stiamo seguendo (Dimaggio et al., 2013). In TMI, se ci troviamo nella macrosezione iniziale di formulazione condivisa del funzionamento, con l’utilizzo delle tecniche esperienziali puntiamo a migliorare l’accesso al mondo interno del paziente ed accrescere il suo senso di agency su di esso, a migliorare le capacità metariflessive, a ricostruire gli schemi interpersonali, a promuovere la differenziazione. In una fase più avanzata, di promozione del cambiamento, ci porremo gli obiettivi di ampliare la differenziazione, adottare nuovi punti di vista e accedere alle parti sane, costruendo una visione di sé integrata (Dimaggio et. al., 2019). Fondamentale è l’utilizzo di queste tecniche prestando costante attenzione alla formulazione del caso e delle procedure decisionali, cercando sempre di lavorare nella zona terapeutica di sviluppo prossimale (Leiman, Stiles, 2001).

Quello che emerge dalla pratica clinica e dalla ricerca è che l’utilizzo di tecniche esperienziali e corporee quali immaginazione guidata, role-play, gioco delle due sedie, mindfulness migliora l’accesso al mondo interno ed accelera il cambiamento, coadiuvando senza dubbio le tecniche puramente cognitive (Arntz, 2012; Brewin et al., 2009; Lee & Kwon, 2013; Morina, Lancee, & Arntz, 2017; Norton & Abbott, 2016; Reimer & Moscovitch, 2015).

Tecniche esperienziali in video-terapia: immaginazione guidata

La quarantena mi ha costretta a fare ricorso alla costruzione di una massiccia dose di auto-regolazione del mio assetto mentale riguardo i miei timori sull’efficacia della video-terapia, ma soprattutto sull’essere personalmente in grado di lavorare in questo nuovo setting. Mi sono riallineata quindi con gli scopi delle terapie in corso che sarebbero proseguite online. In parole povere, ho deciso di sperimentare insieme ai miei pazienti ciò che avevamo già/non avevamo ancora provato in seduta dal vivo.

L’immaginazione guidata mi ha sempre affascinata ed ho deciso di approfondirne lo studio. Si ripete spesso che il terapeuta dovrebbe utilizzare strumenti che ben padroneggi e che – soprattutto – gli piacciano e lo facciano sentire a proprio agio, no? Ed è ciò che ho voluto fare.

Inizialmente mi sono domandata se lo schermo di un PC potesse rendere più difficile l’utilizzo di questa tecnica. Poi ho pensato anche che in fondo nell’immaginazione guidata il terapeuta non viene propriamente incluso, è una sorta di voce fuori campo, il paziente ha gli occhi chiusi ed è immerso nel ricordo. Lo vedremo tra poco, mi dico.

Immaginazione guidata in video-terapia: la storia di Mirko

Piuttosto che descriverne la teoria rischiando di annoiare (e annoiarmi), ho preferito snocciolare l’applicazione dell’immaginazione guidata attraverso il racconto di un paziente. Insieme abbiamo deciso di rivivere un ricordo emerso nelle ultime due settimane di terapia su Skype ed identificato da lui stesso come elemento centrale dei suoi problemi relazionali attuali: se esprimo le mie emozioni e i miei bisogni, oppure se perseguo i miei piani, l’altro soffre ed io mi sento in colpa perché faccio male alle persone che amo.

Mirko è un ragazzo di 27 anni. Evitare la critica dell’altro per paura del rifiuto e dell’abbandono è sempre stata una costante nella sua esistenza, la profonda convinzione di valere meno degli altri e di essere intellettualmente limitato lo bloccano da tempo, il resto del mondo è descritto come “capace” e dominante rispetto a lui. Dopo una vita vissuta all’insegna dell’evitamento cognitivo ed emotivo, entrare in contatto con le proprie emozioni sembra una vera sfida.

Regolazione della relazione terapeutica

Per prima cosa condivido con Mirko l’utilità ed il possibile beneficio dell’esercizio che gli sto proponendo. Gli anticipo anche che con tutta probabilità ciò evocherà dolore psicologico, ma che saremo in grado di regolarlo insieme, anche attraverso lo schermo. E’ la prima volta che torniamo su questa scena, perciò spiego al paziente che il nostro obiettivo primario è l’incremento dell’esperienza emotiva. In realtà per lui anche solo entrare in contatto con un’emozione sarebbe un ottimo risultato, quindi l’obiettivo è impegnativo. Ma entrambi ne siamo consapevoli perché la condivisione del funzionamento ormai è assodata da un bel pezzo. Mirko dice di essere curioso di quello che accadrà. L’alleanza terapeutica è solida ed entrambi siamo pronti ad intraprendere questo viaggio nel passato.

Evocare una scena definita nello spazio e nel tempo

Il racconto strutturato dell’episodio lo abbiamo dalla seduta precedente, perciò propongo un breve riassunto per entrambi, facendo attenzione ad includere chi era presente nella scena, dove e quando si è svolto l’episodio e tenendo a mente la struttura dello schema interpersonale di Mirko.

Brevi istruzioni

Spiego al paziente che dovrà raccontare la scena utilizzando la prima persona e l’indicativo presente, descrivendo suoni, colori, voci delle persone presenti, tutto ciò che lo aiuti a rivivere il ricordo come se fosse lì in quel momento, nel qui e ora, evitando di commentarla per bypassare l’io narrante. Preparo Mirko alla possibilità che io possa intervenire per farlo tornare nella scena e rimandando ad un secondo momento qualsiasi riflessione emergesse. Questo previene la possibilità che possa sentirsi invalidato se dovesse uscire momentaneamente dal ricordo per pensare, invece che rivivere (nota: lui stesso aveva precedentemente riconosciuto il suo meccanismo di evitamento “inizio a ragionare per non sentire emotivamente”, quindi è stato più facile condividere con lui l’intento di bypassare la narrazione).

Ingresso attraverso tecniche di grounding e mindfulness

Mirko è seduto sulla sedia in cucina, con le gambe rannicchiate al petto. Gli propongo un breve esercizio di grounding e mindfulness. Gli chiedo di provare a sistemare l’inquadratura in modo che possa vedere il busto per intero, per monitorare il più possibile buona parte del corpo (posizione delle spalle e del busto, velocità della respirazione, movimenti delle mani). Assume una posizione più composta, con i piedi che toccano il pavimento, la schiena dritta ma non rigida, le mani morbidamente sulle gambe. Gli chiedo di chiudere gli occhi, se gli va. Li chiude. Sente il contatto del corpo con la sedia. Immagina che dalle piante dei piedi fuoriescano radici che lo ancorano saldamente al pavimento. Porta l’attenzione sul respiro, senza modificarlo. Si sente rilassato e connesso. Possiamo cominciare.

Esecuzione dell’immaginazione guidata

Mirko ha 7 anni ed è nella sua cameretta con il fratello minore di 4. I genitori stanno litigando violentemente nella stanza accanto, urlano, lanciano oggetti, spostano mobili. I due bambini sono dietro la porta socchiusa ad ascoltare ciò che accade. Mi accorgo che Mirko sta raccontando, più che rivivendo il ricordo, perché descrive tutto in modo neutro, con il suo tipico distacco emotivo, il volto inespressivo, utilizza espressioni come “Penso di provare paura”. L’io narrante è attivo. Per aiutarlo ad entrare nella scena, faccio domande mirate su dettagli sensoriali: “Cosa vedi intorno a te?” “Il letto, i giocattoli”; “Com’è la luce che entra dalla finestra?” “Calda, arancione, sta tramontando il sole, è tardo pomeriggio”; “Guarda tuo fratello e nota che espressione ha” “E’ spaventato, sta per piangere, la sua faccia chiede aiuto, è come se dicesse “ho paura, aiutami””.

Proseguo. “Cosa stai pensando mentre guardi il volto di tuo fratello che chiede aiuto?” “Non devo mostrargli che ho paura anche io, altrimenti si spaventa ancora di più, non posso piangere”. “Guarda la sua faccia che ti chiede aiuto. Cosa provi?” “Sento come una doppia paura: i miei genitori stanno per separarsi e mio fratello è spaventato, come faccio a tranquillizzarlo?”

Mirko si muove nervosamente sulla sedia, appare agitato. “Cosa senti ora?” “Ansia, devo tenere il controllo. E’ un mio dovere non far peggiorare la situazione. Se mi ci metto pure io… Non so gestire la situazione”. Dal video noto che l’espressione di Mirko cambia, gli chiedo cosa prova. “Tanta tristezza per mio fratello che ha paura e per i miei genitori che stanno per separarsi”.

Noto nuovamente che Mirko è tornato a raccontare una storia, non sta sperimentando le emozioni dolorose che riporta. Decido di utilizzare la tecnica della ripetizione di frasi emotivamente cariche con marcatura, dando enfasi emotiva ed accentuandone le sfumature negative dello schema: “E’ sbagliato mostrare ciò che provo, Se mostro ciò che provo, l’altro soffre, Se mi lascio andare emotivamente, perdo il controllo sulla situazione e l’altro soffre, E’ più importante quello che provano gli altri rispetto a ciò che provo io, Non posso chiedere supporto, sono io a dover dare supporto”.

“Vorrei tornare al giorno prima, fare come se nulla fosse successo. Ora finisce, ora finisce, ora finisce. Più lo ripeto, più l’ansia aumenta. Sto mostrando a mio fratello che sono spaventato. Sì, ma non in modo volontario eh, comunque non gli faccio vedere che sto per piangere, quello no!” Sta di nuovo ragionando, quindi gli chiedo di ripetere a voce alta quelle frasi, prestando attenzione a come si sente.

Mirko inizia a ripetere, ma con scarsa convinzione nel tono della voce e con un’espressione del volto che leggo come vergogna. Gli chiedo un feedback su cosa stia provando. Ride imbarazzato. “Una sensazione stranissima. Mi vergogno a dire queste cose. Ma non di te. E’ che mi rendo conto che è la verità, ma io non la voglio dire a voce alta.” Gli chiedo di ripetere con un tono più deciso, il volume della voce più alto. Mirko appare agitato, il volto contratto dalla vergogna, le mani si muovono nervosamente. Ci riprova. “E’ fortissima questa cosa, mamma mia.” Fa un profondo sospiro, la voce trema, sembra che gli venga da piangere. Non era mai successo che si attivasse in questo modo in seduta. Lascio che sperimenti ancora per qualche secondo le emozioni dolorose, poi decido di interrompere l’immaginazione. Torniamo al respiro e all’ancoraggio al terreno tramite i piedi. Quando si sente pronto, riapre gli occhi.

Discussione sull’esperienza

Siamo tornati ad oggi, lui nella sua cucina, io nello studio di casa. Mirko cerca subito di distaccarsi dalle emozioni che fino a poco prima stava sperimentando, e ridendo mi dice: “Mamma mia, ho le mani sudatissime e mi lacrimano gli occhi”. Gli chiedo se stesse piangendo, provocandolo volutamente. Ride. “Non ti darò mai questa soddisfazione!” Ridiamo insieme. “Scherzi a parte, l’emozione è stata molto forte. Che strano…”. Procedo chiedendo un feedback sull’esperienza appena vissuta, prima di condividere le mie osservazioni con lui. Dice di aver provato forte ansia e gli chiedo di specificarmi dove l’abbia sentita nel corpo. Mi riporta la sensazione di spiazzamento e sorpresa alla mia proposta di ripetere le frasi che suggerivo, sottolineando la fatica nel ripeterle ed ammettendo di aver cercato di controllarsi mentre lo faceva la prima volta. Mi spiega come la vergogna provata durante l’immaginazione fosse legata al fatto di impedirsi di sentire ed esprimere ciò che prova, “è una cosa brutta da fare a me stesso”. Insieme notiamo come non importasse che anche lui fosse un bambino di soli 7 anni che sente i genitori litigare, che teme possano abbandonarlo (altro suo schema) e che ha bisogno di conforto, perché in quel momento aveva preso il sopravvento la paura di spaventare il fratello, il dover tenere tutto sotto controllo, il prendersi cura dell’altro a scapito delle proprie emozioni e dei propri bisogni. La sua storia era ricca di ricordi nei quali Mirko non doveva piangere perché era il fratello maggiore, Mirko non doveva fare i capricci perché c’era già il fratello a farli, Mirko doveva prendersi cura del padre che si era ammalato gravemente. Ne avevamo già parlato altre volte, ma ora abbiamo avuto l’opportunità di incarnare la forza dello schema. Noto che Mirko è ancora attivato emotivamente (e ne sono “terapeuticamente” felice), gli chiedo nuovamente cosa stia provando. E’ positivamente scosso perché non aveva mai provato nulla di così forte, è come se gli stesse “scorrendo davanti agli occhi tutta la vita, vissuta pensando sempre a cosa pensa l’altro, a come sta l’altro, a come reagisce l’altro. Mi sono dimenticato di me”. Valido la fatica di Mirko nell’esporsi alle emozioni dolorose di quel ricordo, rimandandogli come fossero state visibili dal suo non verbale, particolarmente evidente grazie all’inquadratura della webcam. Mi soffermo quindi sull’importanza dell’esperienza emotiva appena vissuta, che era riuscita ad interrompere l’evitamento.

Benefici dell’immaginazione guidata: agire le nuove consapevolezze

Nei giorni seguenti, Mirko ripensa a tutte le volte in cui nella sua vita ha soppresso i propri bisogni, desideri, propensioni, piani anteponendo la felicità altrui alla propria. Il giorno precedente la nostra seduta, decide spontaneamente di mettere alla prova lo schema e di interrompere il coping. Comunica a due cari colleghi la sua scelta di cambiare lavoro (desiderio emerso nell’ultimo mese e che gli stava creando grandi preoccupazioni non tanto per sé e per il cambio di vita repentino, quanto per le reazioni altrui). Nonostante il dispiacere e la sofferenza dell’altro – un collega si è messo a piangere – dopo uno o due minuti in cui avrebbe voluto ritrattare per evitare i sensi di colpa, Mirko si è poi detto che il suo futuro e la sua soddisfazione professionale fossero la cosa prioritaria alle quali prestare attenzione e cura. Nelle prossime settimane, la sfida più grande sarà comunicarlo ai suoi genitori.

 

Gruppi di culto: caratteristiche dei membri e difficoltà ad uscirne

Jonestown, Heaven’s Gate, Aum Shinrikyo, cosa hanno in comune? Sono tutti gruppi di culto finiti sulle pagine di cronaca degli anni settanta per aver indotto alla morte numerose persone. Partendo da tale fenomeno psicologi, psichiatri e sociologi si sono posti alcune domande a cui hanno cercato di dare spiegazione: quali motivazioni spingono una persona ad entrare in un gruppo di culto? Alla base vi è la presenza di un disturbo psichiatrico? Come mai una volta entrati nei gruppi di culto è così difficile uscirne?

 

Partiamo dalla definizione di culto. Per West (1980) un culto è un gruppo di persone o un movimento che viene riunito attorno ad un’idea o ad un leader carismatico tramite l’utilizzo di tecniche persuasive e manipolative che inducono a promuovere gli scopi del leader, verso cui si mostra devozione, anche a discapito degli obiettivi personali dei membri.

Caratteristiche dei culti

I gruppi di culto si costruiscono sia attorno ad un “manifesto” come un libro o una dottrina che disciplina il comportamento dei membri della cerchia sia attorno alla figura di un leader carismatico, solitamente investito di “poteri mistici” (Appel, 1983) e capace di offrire al gruppo una sorta di “ricompensa” che può riguardare la salvezza eterna così come gratificazioni materiali.

Alla base dei gruppi di culto vi è una struttura di potere organizzata gerarchicamente con precise e rigide norme di comportamento da seguire ed una condivisione di un sistema di credenze e valori, una sorta di “verità assoluta”, capace di dare risposta ai problemi della vita, di semplificare la complessità della realtà, di generare uno scopo da perseguire per cui valga la pena impegnarsi e di attribuire un significato spirituale all’esistenza rispetto a quello puramente materiale che persegue chiunque non sia parte del gruppo. Tali elementi se da una parte contribuiscono allo sviluppo di un sentimento di superiorità, di “specialità”, offrendo la sensazione di far parte di un’élite, dall’altra hanno la funzione di accrescere un senso di coesione interno, rispetto ad un fuori nemico che ha lo scopo di isolare gradualmente l’individuo dal mondo esterno e che perseguito anche attraverso l’uso di rituali catartici ed esperienze extrasensoriali provocate da droghe, ipnosi e canti; l’utilizzo di luoghi fissi di incontro in cui la comunità si riunisce per lo svolgimento di attività quotidiane e la condivisione di un linguaggio proprio e caratteristico del gruppo (Levine, 1989).

Peculiarità delle persone che si avvicinano ai culti

Studi di Levine (1989) hanno individuato alcune caratteristiche presentate dagli individui che fanno parte dei gruppi di culto come la giovane età (circa 22 anni), il genere sia femminile sia maschile, il trovarsi a vivere situazioni di stress e sofferenza psicologica, la presenza di vuoti da riempire, il bisogno di perseguire nuovi obiettivi, una cerchia ristretta di legami, la bassa autostima e la facile suggestionabilità. Tale condizione costituirebbe un fattore di vulnerabilità, su cui il gruppo farebbe leva per avvicinare l’individuo a sé, fornendo un’immagine della cerchia accogliente, promettendo salvezza e procurando uno scopo superiore da perseguire.

Motivazioni che rendono difficile abbandonare un culto

Ma veniamo ora alle quattro principali ragioni che portano una persona a restare nel culto una volta entrato a farne parte: il bisogno di appartenenza, il brainwashing, la dissonanza cognitiva e le tecniche di controllo.

Il bisogno emotivo di appartenenza ed identificazione è un bisogno innato e comune ad ogni essere umano che riguarda il sentirsi supportati e l’essere vicini emotivamente a qualcuno con cui si condividono dei valori. L’individuo che entra a far parte di un gruppo di culto sente di trovarsi in un ambiente protetto, solidale e sperimenta una sensazione di benessere psicologico e di sollievo dalle emozioni negative che rinforza la conformità alle regole del gruppo (Galanter, 1999). Tutto questo però avrebbe un prezzo: la persona viene sottoposta inconsapevolmente a un processo di persuasione graduale. Tale fenomeno fa riferimento al controverso concetto di brainwashing, che comporterebbe:

  • alterazioni della coscienza dovute all’uso di esperienze meditative, rituali di guarigione e droghe;
  • manipolazione, filtraggio o censura delle notizie;
  • mancanza di privacy in favore dell’autorità del leader;
  • induzione dello sviluppo di un tipo di pensiero bianco-nero e buono-cattivo;
  • soppressione delle risposte emotive di paura o colpa, regolatori della moralità e di ciò che è giusto o sbagliato (Zablocki 2001).

Tale processo di cambiamento che conduce ad un collasso del pensiero critico e indipendente (Lifton 1961), che elimina la tendenza al dubbio e all’incredulità e che porta a reinterpretare la propria storia di vita alterando la visione del mondo (Singer 2003), avviene facendo sì che l’individuo sperimenti la sensazione di essere uscito da un tunnel e di essere rinato spiritualmente grazie ad una propria scelta.

Conway e Siegelman (2005) a questo proposito parlano di “disturbo dell’informazione” e cioè di uno stato continuo di consapevolezza alterata frutto sia del controllo e dalla manipolazione esercitati a lungo termine sia della mancanza di sonno e di una dieta povera che ha come conseguenza una distorsione della capacità di processare informazioni, ricordare e pensare.

Oltre tali fattori, ciò che rende difficile abbandonare un gruppo di culto, anche quando l’immagine positiva di questo si è incrinata, è la dissonanza cognitiva (Festinger 1964) e cioè il bisogno di coerenza interna dell’individuo che lo porta sia ad occultare o minimizzare qualsiasi disconferma proveniente dalla realtà esterna circa la capacità salvifica del gruppo sia ad accettare qualsiasi spiegazione, anche lacunosa, capace di proteggere il culto. Tale operazione è compiuta sulla base di una valutazione costi-benefici in cui il prezzo dovuto all’abbandono del gruppo è considerato superiore del vantaggio, tenuto conto del tempo e delle energie investite e dei problemi finanziari e relazionali che ne seguirebbero (Zablocki 1998).

Infine le tecniche di controllo esercitate dai leader dei gruppi di culto inducono le persone a credere che sia sbagliato e pericoloso abbandonare il gruppo in quanto unico detentore di “verità” ed instillano il timore, per chi non rispetta le norme, di essere punito o scomunicato incrementando il senso di “impotenza appresa” e cioè la percezione di non avere controllo e potere sulla situazione (Enroth 1982).

L’insieme di questi meccanismi psicologici, unitamente alla solitudine causata dall’aver tagliato i ponti con famiglia ed affetti, impedisce all’individuo di lasciare il gruppo di culto anche quando improvvisamente, sembra risvegliarsi da un lungo sonno ed acquisisce consapevolezza delle incongruenze e delle ipocrisie del gruppo.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del sesto incontro “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del sesto incontro con la Dott.ssa Daniela Rebecchi.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del sesto incontro è stata la Dott.ssa Daniela Rebecchi, la quale ha affrontato l’argomento “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

Un viaggio chiamato psicoterapia. Storia di un percorso difficile, emozionante e a tratti ironico (2019) di A. Parentela e M. Longo – Recensione del libro

Un libro che parla di relazioni umane, di come affrontare i problemi della vita, della consapevolezza di sé, della psicoterapia.

 

Questo libro è per tutti. Perché tutti dovrebbero interrogarsi su chi sono, per darsi l’opportunità di vivere l’unica vita che hanno nel miglior modo possibile. E il modo migliore lo si conquista soprattutto con la consapevolezza di sé. Per chi ha fatto un percorso di psicoterapia. Per chi sta pensando di intraprenderlo. E anche per chi vuole solo conoscere un po’ di più della psicoterapia. Per chiunque consideri le relazioni umane pietra miliare della propria esistenza. Perché questo libro parla di psicoterapia, e di una relazione tanto difficile quanto profonda, di quelle che tutti dovrebbero provare, ma che forse non tutti hanno la fortuna di sperimentare nella propria vita.

  Le autrici del libro sono due, Alessandra Parentela, psicoterapeuta, e Michela Longo, una sua paziente; due donne che si sono incontrate per caso e che hanno deciso di condividere il loro percorso raccontandolo ognuna dal suo punto di vista.

Nella prima parte Alessandra Parentela ci introduce nel mondo della psicoterapia, raccontandoci in modo semplice e chiaro che cos’è, illustrandoci perché è importante iniziare un percorso di questo tipo e quali sono i suoi obiettivi. Se, infatti, vi siete mai chiesti “Perché iniziare una psicoterapia?”, in questo testo sono tante le risposte a questa domanda.

La psicoterapia, alla luce di quello che oggi stiamo attraversando, è un cammino molto importante e, se paragonato a un viaggio, è forse il più importante della nostra vita.

Nel libro viene inoltre affrontato il tema del pregiudizio che, purtroppo, è ancora oggi presente nei confronti delle persone che vanno dallo psicoterapeuta, considerate deboli o inadeguate. Attraverso la storia di Michela però, si capisce l’importanza che ha questo percorso nella comprensione di ciò che siamo e desideriamo realmente.

Nella seconda parte del libro, infatti, viene raccontato questo viaggio attraverso gli occhi di Michela Longo, che durante tutta la terapia ha appuntato i suoi pensieri e le sue emozioni; è proprio dalle sue parole che si riesce a capire l’importanza della figura del terapeuta e della relazione tra quest’ultimo e il paziente. Se infatti le relazioni rappresentano il fulcro della nostra esistenza, quale miglior “luogo” se non quello della relazione terapeutica per scoprire noi stessi?

Il terapeuta mette a disposizione dei pazienti tecniche, strategie ed empatia per accompagnarli nel percorso di scoperta di loro stessi e di esplorazione degli angoli più bui e dolorosi della loro vita. Attraverso l’aiuto della psicoterapeuta, Michela, passo dopo passo riesce a comprendere l’importanza che ha l’accettazione di se stessi, degli avvenimenti che non possiamo cambiare e il riconoscimento delle proprie emozioni nella svolta della propria vita.

Accettare rende il pensiero più positivo, predispone in modo migliore verso gli altri e distende l’animo.

Pregio di questo libro è il duplice punto di vista, il parere della specialista da una parte e le riflessioni della paziente dall’altra; un libro che può incoraggiare chi ha dei dubbi sull’intraprendere un percorso di psicoterapia e che può arricchire tutti coloro che vogliono approfondire questo argomento.

Buona lettura!

Le parole hanno un potere? – Linguaggio e consapevolezza: la responsabilità comunicazionale delle parole

Le parole hanno un potere? Qual è il modo migliore di usare le parole in un percorso di crescita personale? Che cos’è il linguaggio consapevole?

 

In che modo, la risposta a queste domande, dovrebbe interessarci?

Sin da sempre le parole in ogni loro forma hanno reso possibile la concretizzazione simbolica dell’immaginario, l’espressione percettibile dei segni dell’anima, di fantasie individuali e collettive di bene e di male, di ignoto, di paura e di speranza.

Le parole raccontano di noi, delle nostre memorie, dei nostri ricordi, sono uno strumento incredibilmente utile che ci aiuta a capire meglio noi stessi ed il mondo.

Secondo il saggista Igor Sibaldi, le parole hanno prima di tutto il potere di:

  • Fare esistere le cose. Ad esempio, se vi dicessi: – una casa dello stesso colore delle rose – ecco che, un secondo fa, questa casa nella vostra mente non c’era, adesso c’è.
  • La parola però ha un secondo potere limitante, non fa esistere tutto. La parola appartiene ad una lingua, la lingua appartiene ad un popolo e questo popolo ha una storia culturale e linguistica.

Pensiamo alla parola “crisantemo”. Da noi, nella cultura occidentale questa parola fa esistere un fiore associato alla morte, in altri popoli, con altre storie culturali, rappresenta un fiore di vita.

Ogni lingua fa esistere qualcosa e non un qualcos’altro e impone dei limiti.

Adesso, se io vi chiedessi: – Di cosa sa una pesca? –

Lo riuscite ad esprimere? No, vero? Potete provare a descrivere se dolce, amara. Ma il suo sapore? Si può dire solo che una pesca sa di pesca.

Quindi la nostra lingua non ha la capacità di descrivere il sapore che ha una pesca, figuratevi, quindi, quante cose la nostra lingua non è capace di descrivere!

Tu conosci tanti sapori, li hai dentro, ma non puoi farli esistere perché non hai le parole per farlo.

Il linguaggio, quindi, è un modo di costruire immagini per riconoscersi, di amplificare contesti per poter finalmente toccare ciò che in noi sembra sfuggente per renderlo manifesto.

La lingua tenta di descrivere la realtà e si trasforma rapidamente come il contesto temporale in cui viviamo.

La parola descrive qualcosa di me, mi identifica (origini, usi e costumi, influenze, tipo di professione, ecc.), descrive, oltre al mondo di provenienza e appartenenza, anche la mia personalità e la mia identità: per questo una maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo consente di comprendere meglio l’altro e di instaurare relazioni e “conversazioni” consapevoli.

Nello sviluppo evolutivo, da quando cresciamo, ci formiamo delle idee, delle credenze e dei concetti su ogni cosa con cui entriamo in contatto, fino a che da adulto ti ritrovi a dire “io sono fatto così, la penso così, le mamme sono così, le donne sono così, avevano ragione a dire così di tizio, secondo me le cose sono così e basta! E’ come dico io e tu hai torto!”

Questi sono modi di definirci e rappresentano il modo in cui organizziamo, strutturiamo la nostra vita, è ciò che insieme a quello che è scritto sui documenti identificativi viene chiamato identità. Infatti, rappresentano chi crediamo di essere, cosa sappiamo del mondo, i nostri valori, e noi agiamo, ci muoviamo nel mondo e scegliamo in base a queste idee.

Ma ci siamo mai chiesti se queste idee, credenze e concetti sono davvero assoluti?

E come le esprimiamo queste idee? Proprio con le parole, ed il linguaggio.

P.D.Ouspensky, citando Gurdjieff dice:

Il linguaggio è pieno di concetti falsi, di classificazioni false, di associazioni false.  Le persone non si accorgono quanto il loro linguaggio sia soggettivo e quanto le parole che dicono siano diverse, benché impieghino tutte le stesse parole. Non vedono che ognuno parla una lingua sua propria, non comprendendo affatto o solo in modo vago quella degli altri, e non avendo la minima idea del fatto che gli altri parlano sempre in una lingua a loro sconosciuta. Le persone sono assolutamente convinte di avere una lingua comune e di comprendersi reciprocamente, ma, in realtà, questa convinzione non ha il minimo fondamento. Le parole delle quali fanno uso sono adattate ai bisogni della vita pratica; possono in tal modo scambiarsi delle informazioni di carattere pratico, ma non appena passano in un campo un po’ più complesso, si smarriscono e cessano di comprendersi, benché non se ne rendano conto.

Qual è il campo complesso di cui parla Gurdjieff? Per rispondere a questa domanda riprendiamo il potere delle parole di far esistere e non far esistere le cose.

Alla domanda che sapore ha una pesca di solito si tentenna perché si ha una difficolta ad esprimere un qualcosa, un sapore che è ma non esiste a parole.

Il sapore degli eventi che viviamo e gli stati d’animo che sentiamo restano inespressi, nel nostro vocabolario non esistono, ma non per questo non ci sono.

Se pensate che noi costruiamo la vita e ci aggrappiamo solo alle cose che possiamo esprimere a parole, dove va a finire il sentire di quello che viviamo? Non ne permettiamo l’esistenza a parole e quindi non ce ne serviamo e tendiamo a dimenticarlo e rimuoverlo nella nostra vita. E allora come non fai esistere il sapore di una pesca non fai esistere il sentire, il sapore di te stesso e del mondo intersoggettivo. Ed è questo è il campo complesso! La nostra soggettività!

Dietro ogni parola e comunicazione c’è sempre un intento che viene prima.

Quale il vostro intento nel chiedere ad una persona come sta? E quando viene chiesto a voi come rispondete? – Bene, grazie! – ma dentro lo sai solo tu come ti senti, e quando pronunci la parola: bene, senti dentro che il sapore di quel bene stona con la verità.

E allora che senso ha usare parole vuote, mentire e non essere autentici senza rendersi conto che le contraddizioni nel linguaggio e nella coerenza interna sono fattori che hanno conseguenze sul nostro stato di salute psico-fisica? Le contraddizioni producono dissonanze cognitive ed hanno come effetti la separazione della coscienza del sé.

Lucina Landolfi parla di responsabilità energetica comunicazionale, ovvero: ciò che dico crea campo energetico e questo campo energetico coinvolge, anche a insaputa del soggetto in ascolto, un mutamento delle funzioni fisiche, somatiche in senso ampio, nell’interlocutore, modificando ritmo respiratorio e postura. Ad esempio, quando usiamo l’espressione “tu mi togli il fiato”, questo accade davvero. Quando dici: “Tu mi abbatti”, la tua colonna vertebrale si piega. L’espressione, per esempio “mi ha pugnalato alle spalle” non solo non ci porterà a sentire la colonna vertebrale forte e fluida, ma potrebbe, nella sua continua ripetizione, invitare il corpo a rappresentarla con dolori di tipo acuto e pungente!

Allora responsabilmente possiamo decidere di prenderci cura di noi e della nostra salute anche attraverso la consapevolezza delle parole.

Il modo più semplice di cambiare il mondo è scoprire il vero senso delle parole con cui ne parli, ogni parola ha un potere evocativo intrinseco, quindi impariamo a usarle consapevolmente, dosandole e ritmandole nel modo più funzionale.

Possiamo agire per fare in modo che quando alla domanda “come stai?” rispondiamo “bene”, quel bene sia davvero bene, abbia sapore di autentico bene. Ma perché non stiamo bene?

Ci siamo mai chiesti se questo sottofondo che ci fa stare così malinconici e soli, quel senso di vuoto come se ci mancasse sempre qualcosa è una conseguenza del fatto che abbiamo fondato la nostra vita e il nostro mondo senza prendere in considerazione l’aspetto del sapore del sentire la realtà?

Non stiamo bene perché non ci sentiamo più autenticamente e non abbiamo un linguaggio consapevole e comune per esprimere autenticamente i nostri stati emotivi.

Noi non ci forniamo delle informazioni della componente del sentire per valutare la realtà. Questi sono dati necessari per valutare ogni cosa con cui entriamo in contatto. Io ragiono e mi rapporto alle cose, alle persone alle situazioni in base a come le definisco e le definisco con le parole con cui mi posso far capire.

Ma non potendo esprimere il sapore delle cose non le racconterò e non facendole esistere con le parole non porterò nella realtà fisica la mia soggettività! Escludendo il sentire, affronterò la vita in modo razionale e limitante non risolvendo conflitti e traumi che si celano nel campo complesso e non espresso!

Iniziare a dare la giusta attenzione al linguaggio, modificando il nostro vocabolario, si dimostra efficace per ridurre un disagio. Piuttosto che dire: – Mi sento bloccato in un disagio e devo sbloccarmi – , usa la formula: – Questa situazione è da fluidificare.. – userai solo una parola ad alta risonanza che non ispira immobilità, muri, ma movimento attivo e responsabile.

Quando in un percorso di guarigione si chiede ad un soggetto di riportare uno stato di disagio, facendogli cambiare lessico, l’informazione mnemonica non è più mantenuta nel cervello e nel corpo con lo stesso livello di energia e si amplia la percezione limitata di quello stato.

Se cambi le parole, insomma, cambi il modo in cui stai, ed anche il corpo reagisce in modo diverso, mutando repentinamente tono e umore a seconda delle parole ascoltate o lette e delle immagini che esse costruiscono nella mente.

L’autenticità, la coerenza interna e la felicità diventano così una scelta consapevole, sia fisica che linguistica che consente di accorgersi che, attraverso nuove coscienti parole, si può far esistere oltre una casa color delle rose anche il sapore unico e autentico di una pesca.

Tu sei quella pesca!

 

Il paziente espressivo e il terapeuta curioso: acceleratori interattivi della comprensione terapeutica

Da una parte c’è il paziente che arriva in terapia con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento; dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!); ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.

 

Questo lavoro ha lo scopo di chiarire come la naturale tendenza del paziente all’espressività e la spontanea controtendenza del terapeuta alla curiosità clinica catalizzino un’accelerazione interattiva del processo comprensivo e terapeutico già durante il primo incontro. Mi sono prevalentemente ispirato, a tal fine, al pensiero dello psicologo psicoanalista Theodor Reik. Il presente articolo fa seguito ad uno precedente in cui avevo affrontato, in un’ottica ancora prevalentemente centrata sul terapeuta, il suo processo mentale duale di congettura e comprensione (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola, prendendo spunto sempre da Reik. Il paziente tende spontaneamente ad aprirsi, confidarsi, confessarsi, auto-tradirsi col terapeuta che, a sua volta, ha una sana curiosità (né narcisistica né epistemofilica) a recepire l’essenza dell’interlocutore. Da questa base scaturisce una dinamica interattiva a vari livelli (conscio, preconscio ed inconscio). In modo particolare, l’intersoggettività inconscia primaria può portare ad una profonda comprensione e cura del caso anche al primo incontro.

Introduzione

Nel corso degli ultimi anni, partendo da una riflessione sulla prima visita psichiatrica e psicoterapica, sono arrivato a concepire e a praticare clinicamente una consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS) (Gherardi, 2019). I pazienti vengono spesso da noi una o due volte in tutto e quindi, la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione, perché è finalizzata anche a stimolare l’auto-analisi e le risorse auto-terapeutiche del paziente. E’ bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, è sistematico-analitica ed intuitiva nelle modalità d’indagine e di cura. Come sosteneva Reik (1933, 1936, 1948), l’essenza della tecnica psicoanalitica è il raggiungimento e la chiarificazione della verità interiore del paziente. L’intersoggettività primaria inconscia tra paziente e terapeuta ci permette di riuscire, in meno tempo e più facilmente, a cogliere l’essenza del primo, a formulare e ad adottare terapeuticamente un’ipotesi esplicativa profonda anche nel primo e spesso unico incontro. Nel mio precedente articolo (2019) mi sono maggiormente focalizzato sul lavoro congetturale e comprensivo del terapeuta, sul suo “ascoltare col terzo orecchio” (Reik, 1948). Nel presente lavoro vorrei porre più l’accento sul carattere interattivo della relazione terapeutica, dando più spazio alla soggettività ed alle motivazioni del paziente. Nel mio piccolo, in realtà, ho fatto il contrario di ciò che ha fatto Reik. Negli anni ’20, si è occupato prevalentemente dell’espressività del paziente, della formazione dei sintomi e della tendenza impulsiva a confessarsi (1967). Poi, negli anni ’30 e ’40, si è maggiormente dedicato a riflettere sull’ascolto e sulla comprensione del terapeuta (1933, 1936, 1948). Purtroppo, non ha mai integrato la sua teoria dell’illuminazione reciproca con il suo precedente lavoro sullo sviluppo dell’espressione e della compulsione a confessare, come già evidenziato da  Kyle Arnold (2006). Quindi, da una parte c’è il paziente che arriva da te con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento. Dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!). Espressività e curiosità si attraggono reciprocamente. Ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.

Il paziente espressivo

Il Super-io gioca un ruolo decisivo nel determinare come e se un particolare pensiero sarà espresso (Reik, 1967). Il Super-io induce l’Io a rigettare le espressioni dell’Es e lo fa producendo colpa. Colpa intesa come ansietà sociale internalizzata, inseparabile dalle relazioni interpersonali. Reik, a differenza di Freud, collega la rimozione al Super-io, sottolineando il ruolo della colpa nel motivare la rimozione. Quindi, il Super-io è il “sine qua non” della rimozione stessa. L’Autore offre così una teoria che sottolinea la relazione tra la rimozione e le risposte internalizzate dei caregivers. Per Reik, come per Freud, i sintomi iniziano con un impulso vietato. Ma mentre per Freud l’impulso proibito è una spinta mono-personale per la scarica sessuale o aggressiva, per Reik l’impulso proibito è un bisogno bi-personale di comunicare. Per entrambi, l’impulso proibito è bloccato dalla rimozione. Per Reik, la rimozione avviene quando il Super-io produce colpa per le comunicazioni proibite, inducendo l’Io a censurare queste comunicazioni. Ma la rimozione delle espressioni rinforza il bisogno di esprimersi. La “conoscenza segreta” strepita per essere rivelata. Siccome il bisogno rimosso di esprimersi rimane attivo nonostante la proibizione del Super-io, è modificato dalla colpa e dal bisogno di punizione. La colpa inibisce la libera espressione e motiva anche la compulsione a confessare. La colpa inconscia porta con sé il bisogno di punizione. Il bisogno di alleviare la colpa provocando la punizione da parte degli altri aggiunge una qualità compulsiva alla confessione. I sintomi nevrotici ed altri tipi di confessione sono compositi del bisogno di punizione e del rinforzato impulso ad esprimersi. Reik definisce la compulsione a confessare come la tendenza inconscia verso l’espressione degli impulsi rimossi istintuali che è modificata dall’influenza del bisogno di punizione. I sintomi prendono la forma di compositi tra l’auto-espressione e l’auto-punizione perché tali compositi forniscono la massima gratificazione attraverso il rinforzo reattivo. Il fine di ogni confessione non è solo l’espressione e l’auto-punizione, ma anche il perdono. La “riconquista” dell’oggetto è una delle funzioni essenziali della confessione che tende a riguadagnare l’amore dell’altro.

Il terapeuta curioso

Il terapeuta curioso deve esercitare l’arte della maieutica, l’arte della levatrice alla quale Socrate paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi. La maieutica è quindi una ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in se stesso e a tirarla fuori in modo attivo e partecipe. Come faccio, durante la CTBS, a favorire l’espressività, l’apertura, la confidenza, la confessione e l’auto-tradimento del paziente nel breve arco temporale a mia disposizione? Lo posso certamente stimolare con domande sistematiche (strumenti tipici della curiosità), sempre più mirate. Ma ci vuole anche una mia massima espressività, apertura, disponibilità all’ascolto ed alla comprensione. Devo essere “pronto all’introiezione” del paziente (Reik, 1948), senza un atteggiamento critico o pregiudiziale da parte soprattutto del mio Super-io. Ci vuole una sana curiosità, né narcisistica, né epistemofilica. La curiosità è infatti il desiderio di rendersi conto di qualcosa, in modo sollecito, attento e diligente. Deriva dal latino “curiosus”, che significa cura, premura, sollecitudine. E, come dice Reik (1948), ci vuole un grande “coraggio morale” per scoprire e fronteggiare la veracità interna del paziente e la propria.

La comprensione terapeutica

Per una visione generale sull’argomento rimando il Lettore al mio precedente lavoro (2019). In questa sede mi soffermo sugli aspetti interattivi dell’espressività. Ci viene ricordato da Freud che i mortali non sono fatti per trattenere i segreti e che quindi, l’auto-tradimento schizza fuori da tutti i nostri pori. Noi reagiamo all’inconscio altrui con tutti i nostri organi, con tutti i nostri vari strumenti di ricezione e comprensione. Ogni mia espressione presuppone una forma di identificazione primaria per comunicare efficacemente con l’altro. Io devo cogliere qualche parte della sua vita mentale. La ricezione delle espressioni che mi vengono date dall’altro diventa decisiva per il loro successivo sviluppo. Tali espressioni portano il segno della loro ricezione da parte dell’altro, internalizzate con l’identificazione primaria. La visione di Reik della relazione tra espressione ed identificazione primaria ha un’influenza considerevole sulla sua concettualizzazione del Super-io. Il Super-io origina dalle risposte del mondo sociale del bambino, che sono perpetuate nell’istituzione del Super-io. Ogni espressione ha quindi un nocciolo di identificazione primaria. Io non posso comunicare con successo con un’altra persona senza afferrare, cogliere il suo stato mentale così che io possa anticipare la sua risposta. Il tipo di identificazione primaria nella comunicazione è una identificazione con la ricezione dell’altro della nostra espressione. Io non posso parlare con un’altra persona senza prenderlo dentro di me. Reik intende l’identificazione primaria come un’illuminazione reciproca tra le due menti. Con l’aiuto del concetto di Freud di identificazione primaria, Reik colloca quindi lo sviluppo del Super-io e la rimozione in un contesto interpersonale.

Conclusioni

Spesso noi non riusciamo nemmeno a confessarci internamente attraverso il nostro dialogo interiore. Come ci riusciamo allora a farlo con un estraneo, in questo caso il terapeuta, e soprattutto nell’arco di una prima e forse ultima seduta? Il paziente ed il terapeuta si attraggono perché sono motivati da forze che confluiscono nello stesso scopo. Il dialogo interiore del paziente deve essere rapidamente facilitato dal terapeuta a diventare un dialogo interiore a voce alta, un dialogo esteriore. Come se il terapeuta non ci fosse, grazie all’eclissi temporanea del suo Io e soprattutto del suo Super-io ed al suo trasformarsi immediatamente in specchio. Così anche il Super-io del paziente può scomparire temporaneamente e permettergli una notevole e precoce apertura. E’ come se il paziente, da “solo”, nel setting terapeutico, si confessasse a se stesso ad alta voce davanti ad uno specchio. Io sono per un attimo l’altro e l’altro è me stesso. C’è un rispecchiamento, una riflessione reciproca ricorrente, un’identificazione inconscia primaria. Solo indirettamente è possibile conoscere la nostra mente e quella altrui. Noi vediamo noi stessi attraverso il riflesso nell’altro e viceversa. Come dice Reik (1948), ci illuminiamo reciprocamente con la nostra soggettività. Il terapeuta è come uno specchio che fa domande al paziente, l’esatto contrario dello specchio a cui vengono fatte domande narcisistiche da parte della strega della favola di Biancaneve e i sette nani. E’ come se la “response” del terapeuta ci fosse prima dello stimolo del paziente, il controtransfert avvenisse prima del transfert, con una sorta di “anticipazione” (Reik, 1948): se riesco ad anticipare e a guidare opportunamente la mia “response” al paziente, favorisco fin dall’inizio la sua confessione esterna. Il segreto interiore viene mantenuto come segreto esteriore, perché è come se lo confidassi a me stesso e il cosìddetto “rispetto del segreto professionale” influenza ben poco tale dinamica interpersonale. Se l’inconscio del paziente non si fida di quello del terapeuta, con cui comunica in maniera diretta ed inconsapevole, non si confesserà mai a quel terapeuta. Il paziente poi, prima di giungere in rapporto con noi, ha praticato spesso un’auto-analisi, ma, nonostante ciò, ha sentito il bisogno di farsi aiutare da una figura terapeutica esterna e neutrale. Ma l’auto-analisi non è altro che una forma di dialogo interiore, che comprende anche l’auto-confidenza dei propri segreti, e che viene successivamente esternalizzata in etero-analisi? Nonostante tutto ciò, paziente e terapeuta continuano spesso a sorprendersi dei livelli di confidenza raggiunti tra estranei in così poco tempo.

 

Intervista ad Anna Porta, psicoterapeuta sistemico-relazionale che lavora presso l’Hospice della LILT di Biella

Lavorando in Hospice lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe

 

Anna Porta è psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia sistemico-relazionale presso l’EIST di Milano. Dal 2005 lavora presso l’Hospice della LILT di Biella e dal 2008 è parte del Gruppo “Geode”, gruppo di ricerca in cure palliative. Dal 2014 al 2019 ha fatto parte di gruppi di ricerca monoprofessionali per la SICP (Società Italiana di Cure Palliative), finalizzati alla individuazione degli interventi di supporto alle équipe in cure palliative e alla ricerca delle buone pratiche psicologiche in cure palliative. Dal 2019 è coordinatrice del gruppo di lavoro sulle cure palliative presso l’Ordine Psicologi del Piemonte in collaborazione e la SICP Piemonte.

Edoardo Perini (E): Anna, lavori in HOSPICE da 15 anni, abbinando alla clinica anche la ricerca, che svolgi in collaborazione con altri colleghi sistemici, che, come te, si sono formati all’EIST, di Milano.

Anna Porta (A): E’ dal 2008 che io e Federica Azzetta ci occupiamo di ricerca sulla psicologia nelle cure palliative. Questa attività ha avuto origine dall’iniziativa di Federica di connettere i colleghi che lavoravano nel settore, dando vita al gruppo “Geode”. La figura dello psicologo delle cure palliative non era ben delineata, per questo ci interessammo ad approfondire il suo operato in un contesto multidisciplinare dove il sistema è la base di partenza. Un sistema che incontra altri sistemi, ed essendo noi sistemiche non potevamo che rimanere affascinate.

E: Ci puoi descrivere cos’è un Hospice e quali sono le mansioni e le specificità degli psicologi che lavorano in questa realtà?

A: L’Hospice è una struttura residenziale per malati terminali. Nasce in Inghilterra ed ha una storia abbastanza antica ma anche profondamente recente: inizialmente indirizzato alle patologie oncologiche, l’Hospice è andato progressivamente comprendendo un’altra patologia che all’epoca portava a terminalità, ovvero l’AIDS, per poi successivamente aprirsi alla cronicità complessa, nella quale rientrano malattie cardio-vascolari, malattie nefrologiche, le demenze, ecc.. Dunque lo spettro si sta ampliando.

L’équipe di cure palliative ha trovato una sua precisa definizione e composizione nella Legge 38 del 2010: essa comprende il medico, l’infermiere, l’operatore socio-sanitario e lo psicologo. Possono poi essere presenti anche un fisioterapista o altre figure a seconda delle necessità della singola situazione, in quanto l’obiettivo delle cure palliative è andare incontro al paziente e alle sue esigenze per migliorarne la qualità di vita.

Lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe (mantenendo con essa uno strettissimo coordinamento). Ciò perché la Legge 38 stabilisce che al centro dell’intervento ci sia non solo il paziente ma anche la famiglia.

E: Veniamo ora alle domande più specifiche che riguardano questo periodo, nel quale la pandemia del coronavirus coinvolge tutte le realtà. Quale eco ritieni che stia avendo il coronavirus presso la struttura nella quale lavori?

A: Vi sono stati sicuramente dei cambiamenti significativi, anche se l’Hospice non è dedicato ai pazienti affetti da coronavirus, in quanto le strutture preposte al trattamento di questa patologia hanno caratteristiche specifiche e richiedono presidi sanitari che l’Hospice non può offrire.

Per entrare presso la nostra struttura in questo momento, gli ospiti devono aver prima fatto il tampone, tuttavia sappiamo dagli organi di stampa che questo strumento non possiede una validità del 100%; ciò comporta che i nostri ospiti possano vivere il timore di contrarre il coronavirus, oltre alla patologia dalla quale sono già affetti. È risaputo che gli individui con una precedente patologia sono più a rischio di altri nel caso contraggano il virus, quindi è comprensibile che gli ospiti possano preoccuparsi: pur essendo in una fase terminale, essi sperano di potersi godere appieno i giorni della propria vita fino alla fine.

Va detto poi che ci sono alcuni pazienti che non desiderano ricevere informazioni relative al proprio stato di salute e delegano ad altri la gestione di queste informazioni; per questi pazienti la consapevolezza dei rischi connessi al coronavirus è diventata un’ulteriore fonte di angoscia e preoccupazione, la quale coinvolge naturalmente anche i familiari. A proposito di quest’ultimi, l’Hospice è da sempre una struttura aperta, senza orari o vincoli specifici, nella quale i parenti possono accedere liberamente per poter accompagnare i loro cari nel percorso di terminalità. Naturalmente, in presenza del coronavirus, per tutelare i malati, i familiari e gli stessi operatori, abbiamo dovuto adeguarci alle vigenti norme di sicurezza, cambiando il nostro modus operandi: ciò nonostante, abbiamo mantenuto la possibilità dell’accesso di un familiare al giorno per ogni ospite, permettendo di restare accanto al proprio caro per tutto il tempo desiderato, in modo da potergli stare vicino nei suoi ultimi momenti di vita. Sentiamo di tante storie di malati di coronavirus che muoiono in solitudine e l’assenza di contatto è straziante, sia per chi viene a mancare, che non può salutare i propri cari, sia per i familiari, che in questo modo non possono essere accompagnati in un percorso di elaborazione del tempo del lutto nella sua fase anticipatoria. Ciò a livello prognostico non è positivo.

E: Un primo elemento che emerge dalle tue riflessioni riguarda l’importanza per l’Hospice di mantenere una propria flessibilità anche in una situazione come questa. Ora vorrei chiederti come stanno vivendo questa situazione gli operatori, i medici e gli infermieri che collaborano con te. Come stanno affrontando il paradosso di essere curanti ma allo stesso tempo anche potenziali veicoli del virus?

A: Con consapevolezza: gli operatori non soltanto possono portare il virus, ma possono anche prenderlo. Il senso di responsabilità e il grande spirito di gruppo dimostrato dai miei colleghi dell’Hospice della LILT di Biella, hanno permesso di non cambiare la qualità del servizio, anche se non è semplice: noi abbiamo solo delle protezioni base previste dalle linee guida, con tutti i rischi annessi e connessi.

Anche la mancanza di contatto fisico può tramutarsi in un problema. Quando la parola viene meno, la comunicazione con i familiari passa attraverso una carezza, una mano appoggiata sulla spalla: la pandemia fa venire a mancare questa comunicazione naturale, spontanea e fondamentale, tanto che a volte ci si trova a doversi frenare per non ritrovarsi in un abbraccio.

Un elogio va ai nostri infermieri, che in alcuni casi non frequentano neanche i familiari per ridurre i rischi di contagio. Può essere un’esperienza complicata e la paura è comune a tutti in questo periodo, nonostante il desiderio di mantenere un servizio di alta qualità. Come sempre, sono molto importanti i momenti di équipe nei quali si può parlare delle proprie paure: in questi frangenti si comprende appieno il senso della presenza dello psicologo all’interno della squadra. La morte è un’esperienza difficile e a volte è importante rielaborare i vissuti insieme a qualcuno per trovare “la via giusta”.

E: Veniamo ora alla parte relativa alla clinica psicologica. Come ti stai occupando dei pazienti terminali e dei loro familiari in questa situazione? E come stanno reagendo i pazienti e le loro famiglie al coronavirus?

A: Io non ho cambiato più di tanto il mio modo di lavorare, a parte il fatto che uso la mascherina. Non ho infatti alterato la mia presenza in struttura, in accordo con il presidente della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Biella, l’ente che si occupa dell’Hospice di Biella.

Ciò che faccio è valutare insieme all’equipe, al paziente e ai familiari i bisogni rilevati. Facendo un esempio, stamattina quando sono arrivata in struttura, la dottoressa mi ha riferito di una paziente che voleva parlarmi perché aveva chiesto di tornare a casa, anche se era molto titubante ed ambivalente: abbiamo lavorato insieme sul significato di quanto mi raccontava rispetto al suo desiderio di tornare a casa. Mi ha descritto, associati alla casa nella quale voleva tornare, bellissimi ricordi della sua giovinezza, momenti molto vitali ma anche ricordi del marito con cui ha vissuto per molti anni e che è venuto a mancare. Abbiamo parlato di quanto difficile fosse fare i conti con l’assenza del marito, perché stare in Hospice le permetteva di non prenderne contatto con la quotidianità e di quanto invece l’ipotesi di tornare a casa muovesse in lei tutto quel dolore con cui non aveva ancora fatto i conti; abbiamo quindi ragionato insieme e le ho restituito dei significati relativi proprio al tema delle cure palliative e alla terminalità della vita.

Noi psicologi e psicoterapeuti spesso abbiamo a che fare con situazioni stagnanti, dove riuscire a smuovere dei cambiamenti può essere complicato; in una situazione di terminalità i cambiamenti sono invece inevitabili, quindi il compito è quello di accompagnare le persone nel cambiamento, evitando che si creino delle empasse, e aiutando le persone ad affrontare degli irrisolti.

E: Ciò che dici coglie secondo me un punto molto significativo: la realtà totalizzante del coronavirus sembra entrare relativamente nelle storie di vita dei pazienti che attraversano un momento così cruciale come quello di cui ci parli. La loro storia, che affrontano in modo così vitale, supera le difficoltà contingenti con cui tutti noi viviamo l’attuale quotidianità.

A: Certo. In queste situazioni la malattia è venuta prima ed è quella che porta alla morte, mentre per quanto riguarda il coronavirus potrebbe essere qualcosa in più che si va a declinare all’interno della storia di ognuno, assumendo forme differenti e significati differenti, dipendenti dalla propria storia di vita.

E: Passerei all’ultima domanda: rispetto alla tua esperienza professionale con il tema della morte, cosa ti sentiresti di suggerire agli operatori, penso ad esempio a coloro che lavorano attualmente nei reparti di pneumologia? Che suggerimenti daresti a chi si trova a fare i conti con la morte in questo periodo?

A: Mi sentirei superba a dare suggerimenti a loro, tuttavia è vero che coloro che lavorano in reparti in cui si fanno terapie attive spesso non hanno a che fare con la cura palliativa: il coronavirus, così come tutte le altre malattie che possono portare alla morte, suscita negli operatori un grande senso di impotenza rispetto alla malattia. Io sono una fervente sostenitrice del fatto che il modello formativo delle cure palliative debba diventare paradigmatico in tutti i reparti che hanno in cura dei pazienti, non necessariamente terminali. In particolare per l’operatore avere una competenza dal punto di vista della comunicazione, punto cardine della legge 219/17, e in particolar maniera della “comunicazione delle cattive notizie” è protettivo: la comunicazione rende l’operatore più “forte” e una formazione nell’ambito delle cure palliative aumenta la consapevolezza del clinico circa il fatto che la persona che si ha di fronte può morire, e che questo non è indice di incompetenza, bensì del normale fluire della vita. In diversi studi studi specifici a riguardo, è percezione diffusa tra i tecnici, emerge che il tasso di burnout tra gli operatori delle cure palliative è sensibilmente inferiore rispetto a quello degli operatori che lavorano in altri reparti. Riflettendo sulle differenze che ci sono con le altre équipe che operano in situazioni pur sempre complicate, due sono le differenze che emergono: una formazione specifica degli operatori sulle tematiche delle cure palliative e la presenza di uno psicologo integrato nell’équipe e che ne conosce bene le dinamiche.

Un imperdonabile vulnus delle università è la mancanza di una formazione specifica rispetto alla comunicazione e alle tematiche specifiche delle cure palliative. La nostra società, la SICP, in collaborazione con la FCP (Federazione Cure Palliative) sta portando avanti una battaglia importante legata anche alla Legge 38 e alle sue evoluzioni, per fare in modo che esistano all’interno delle università dei moduli formativi sulle cure palliative, nello specifico in tutte le facoltà che formano alle professioni di aiuto, quindi psicologia, medicina, scienze infermieristiche etc…. la legge Gelli ha dato un ulteriore impulso positivo in questo senso.

 

La nostra personalità influenza il nostro atteggiamento verso l’ambiente?

Sebbene il COVID-19 in questo momento sia al centro della nostra attenzione, il cambiamento climatico resta una delle più grandi minacce per l’umanità.

 

Svariate ricerche hanno indagato come coinvolgere le persone affinché si impegnino nella lotta al cambiamento climatico. Una meta-analisi, pubblicata su Psychological Science, ha rivelato che particolari tratti della personalità si associano a più o meno atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Lo scopo di questo lavoro è quello di rinnovare le campagne a favore dell’ambiente con il fine di sensibilizzare le persone che solitamente fanno fatica ad attuare un cambiamento comportamentale a favore dell’ambiente. Studiare i tratti di personalità risulta quindi imperativo per comprendere il motivo per cui certi individui sono resistenti al cambiamento (Soutter & Mottus, 2020).

Alistair Raymond Bryce Soutter dell’Università di Edimburgo ha analizzato i dati di 38 articoli, tra cui 44.993 partecipanti provenienti da 19 paesi di quattro continenti. Tutti gli articoli presi in esame utilizzavano un test di personalità, nello specifico il Big Five (estroversione, nevroticismo, gradevolezza, coscienziosità e apertura).

Negli articoli considerati per la meta-analisi, oltre che ad utilizzare il test di personalità venivano anche utilizzate una serie di scale per misurare gli atteggiamenti e i comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Dalla analisi dei dati, è stato dimostrato che il tratto di personalità ‘’apertura all’esperienza’’ mostrava la più forte associazione con atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali. Secondo i ricercatori, questo dato ha un razionale, cioè le persone più aperte tendono ad essere più intelligenti e meglio informate, e quindi possono avere una maggiore conoscenza delle conseguenze delle azioni umane sull’ambiente, che a loro volta motiva il loro ambientalismo. Le persone molto aperte sono anche più disponibili ad adottare nuove idee, quindi potrebbero avere maggiori probabilità di acquistare un’auto elettrica, o installare pannelli solari.

Un altro tratto della personalità altrettanto associato all’ambientalismo è l’onestà-umiltà che sarebbe la tendenza a cooperare e non a sfruttare gli altri, sembrerebbe quindi che individui con questa caratteristica personologica potrebbero avere una naturale sensibilità verso l’ambiente.

Anche i tratti gradevolezza e coscienziosità risultano associati in modo significativo ai comportamenti pro-ambientali, tuttavia in misura minore (Soutter & Mottus, 2020).

Un’interessante considerazione emersa da questa ricerca è che le persone che sono spinte a seguire le norme sociali possono in alcuni casi essere scoraggiate a mettere in atto comportamenti pro-ambientali. Ad esempio, un obiettivo sociale spesso desiderabile è riuscire a viaggiare o possedere una grande casa. Tuttavia, entrambi questi comportamenti non sono spesso rispettosi verso l’ambiente (Soutter & Mottus, 2020).

I risultati di questa meta-analisi, potrebbero risultare utili per progettare interventi più efficaci, atti a sensibilizzare le persone insensibili verso il cambiamento climatico.

Una strategia efficacie sembra essere quella di far passare messaggi che enfatizzano i guadagni personali, ad esempio i risparmi sui costi dell’utilizzo dell’elettricità piuttosto che della benzina (nel caso delle automobili). Tuttavia quando si affrontano queste tematiche, oltre alla personalità dell’individuo, è necessario tenere conto di età, cultura, esperienze dell’infanzia con la natura, ideologia politica, società in cui si vive ecc, tutte queste variabili sono infatti associate agli atteggiamenti e ai comportamenti ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

 

Un’analisi in chiave psicoanalitica di Berlino de La Casa de Papel

La diagnosi di Berlino, uno dei protagonisti de La Casa di Carta, potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare.

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

 

La Casa di Carta è una serie tv di successo di produzione spagnola, distribuita da Netflix, giunta alla quarta stagione e in procinto di proseguire con quinta e sesta. Nella sua assurdità dei fatti di rapine al limite dell’immaginabile, ha generato relazioni particolari e personaggi ben caratterizzati, facendo affezionare il pubblico puntata dopo puntata. Berlino è uno dei personaggi principali, che un episodio si ama e quello dopo si odia, ma che alla fine si è obbligati ad amare.

Berlino, la morte non è un limite

Berlino è un badass, un personaggio determinato, un leader autoritario a tratti anche carismatico, che viene a mancare al concludersi della prima rapina cioè della seconda stagione ma che sopravvive sullo schermo grazie a continui flashback del Professore.

Il personaggio di Berlino fin dalla prima serie è però già condannato a morte a causa di una malattia degenerativa e questo è uno dei primi elementi che rivela il suo rapporto con la vita ma soprattutto con la morte.

Andrés de Fonollosa, questo il suo vero nome all’interno della serie, appare come uno psicotico, un soggetto che non può desiderare, può solo godere, senza così tollerare i limiti e le castrazioni che la dinamica del desiderio implica (Freud, 1989; Lacan, 1974). La consapevolezza della morte incombente è il limite ultimo che non viene simbolizzato, dolore e paura divengono oggetto del meccanismo che contraddistingue la struttura psicotica, la forclusione (Recalcati, 2012). Angoscia e sofferenza non vengono metaforizzate, vengono annullate e non rimosse, diventando l’ennesima ed ultima occasione per godersela fino alla fine.

Tutti dobbiamo morire. È a questo che brindo: al fatto che siamo vivi. E al fatto che il piano funziona che è una meraviglia. Alla vita!

Ma verso quale deriva psicotica potrebbe tendere Berlino?

Andrés: o lo ami o lo ami

La diagnosi di Berlino potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare. Le caratteristiche del delirio erotico sono definite da Esquirol come: la certezza di essere amati, comportamenti affettivi paradossali e contraddittori e una sostenuta libertà sentimentale.

Freud (1989) successivamente intende l’erotomania all’interno delle psicosi e Lacan (1974) poi specifica che la certezza di questo folle amore ricevuto dall’Altro è il delirio psicotico nell’erotomania, cioè l’essere certi di essere amati e quindi poi agire senza possibilità di simbolizzare la mancanza dell’Altro e, di conseguenza, amarlo.

Berlino svela molte di queste caratteristiche nell’arco delle quattro stagioni.

Il delirio erotico più plateale di Berlino si svela nei confronti di Ariadna, il suo ostaggio che per paura nei suoi confronti propone e acconsente dei favori sessuali. Il favore sessuale va così ad infiammare, senza poi più possibilità di spegnimento, la convinzione di Berlino che lei sia effettivamente innamorata di lui e che il sesso non sia solo una via per garantirsi più possibilità di sopravvivenza. Berlino quindi si convince che a rapina conclusa si sposerà con Ariadna, confermando la sua assoluta prospettiva egoica, cioè che l’importante sia il suo godimento fino alla fine.

Berlino dimostra però comportamenti anche contraddittori. Nonostante la sua vita sia dedita all’essere riconosciuto e all’essere amato, è estremamente misogino, irrispettoso nei confronti delle donne, proiezione della dolce paranoia di essere amato da chi vuole lui, agendo questa coazione a ripetere (Freud, 1920) contradditoria con la dichiarazione di aver alle spalle ben quattro matrimoni.

Le donne ti garantiscono il sesso perché sono programmate per irretirti e farsi fecondare, poi non esisti più e lo capisci durante il parto

Il sacrificio egoistico

La diagnosi di Berlino non è però limitata solo a quella di una struttura psicotica, ma come è definito anche dalla sua cartella clinica svelata dalla polizia nella prima stagione, possiede una personalità narcisistica (McWilliams, 2012), è maniaco di grandezza, mancante di empatia e ha un imponente senso dell’onore. Dipendenza dalla propria immagine, che lo obbliga alla costante ricerca di riconoscimento, accettazione, apprezzamento e rispetto.

Per Andrés di fatti la ferita più sofferta durante la rapina è la diffamazione pubblica, subita da una falsa dichiarazione della polizia attraverso i media, di essere uno sfruttatore di prostitute e ragazze minorenni. L’essere riconosciuto e apprezzato è anche evidente su come si mostri un cultore dell’estetica con una particolare ricercatezza nel vestire e un distinto savoir faire che lo eleva nel gruppo a intellettuale dal buon gusto.

Ma l’atto psicotico erotico più eclatante e che ben si sovrappone al narcisismo di Berlino coincide con il suo sacrificio finale. Berlino, ostruendo l’irruzione della polizia con la propria vita e permettendo ai suoi compagni di scappare, compie un suicidio narcisitico (Kernberg, 2004) dalla connotazione eroica con cui celebra un debito d’amore eterno che la banda, ma anche noi spettatori, avremo sempre nei suoi confronti.

 

L’anosognosia e la malattia di Alzheimer: qual è il legame?

L’anosognosia è stata da sempre riconosciuta come uno dei sintomi tipici della malattia di Alzheimer. Recentemente è anche considerata un indicatore dell’evoluzione della demenza.

 

I pazienti non consapevoli dei propri limiti tendono a sopravvalutare le proprie capacità e creano maggiori difficoltà a chi deve assisterli e monitorali.

La mancanza di consapevolezza dei propri deficit cognitivi è molto comune nelle persone con demenza. L’anosognosia riguarda circa l’81% dei malati di Alzheimer conclamato e fino al 60% delle persone con lieve declino cognitivo, che potrebbe rappresentare il primo stadio della malattia. Le conseguenze di questa inconsapevolezza si riflettono non solo sulla persona malata, ma anche sui suoi familiari e sui caregivers che cercano di aiutare qualcuno che, sostanzialmente, non riconosce di avere un problema e rifiuta quindi di essere aiutato.

L’anosognosia

L’anosognosia è un fenomeno descritto da Babinski e generato da una lesione all’emisfero cerebrale destro. Il termine deriva infatti dal greco e sta a significare che il paziente non è in grado di accorgersi di avere un deficit fisico o mentale.

Il paziente anosognosico è incapace di riconoscere e di riferire il suo stato di malattia. Manifesta, invece, la convinzione di possedere ancora le capacità che aveva prima del danno neurologico. Se messo a confronto con i suoi deficit, fornisce spiegazioni incoerenti e si perde in confabulazioni.

La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa, progressiva e irreversibile che porta ad una perdita delle funzioni cognitive a cominciare dalla memoria. Il processo patologico inizia molto prima delle manifestazioni dei sintomi. Caratteristica tipica di questa malattia è la presenza delle placche senili, costituite da depositi di beta-amiloide extra-cellulare, e la presenza di grovigli neurofibrillari intracellulari. Lo svilupparsi di placche senili porta alla perdita di sinapsi e neuroni, che si traduce in un’atrofia grossolana delle zone cerebrali colpite, in genere a partire dal lobo temporale.

La relazione tra anosognosia e malattia di Alzheimer

L’anosognosia riguardo alla compromissione della memoria è un fenomeno storicamente noto nella malattia di Alzheimer. Recentemente l’associazione tra anosognosia e Alzheimer è stata studiata utilizzando diverse metodologie: cognitive, psicologiche e di neuroimaging.

Una delle ipotesi che le ricerche hanno provato a verificare è se la mancata consapevolezza per i disturbi della memoria si associ ad una maggiore rapidità del declino cognitivo e quindi ad un aumentato rischio di comparsa di demenza.

Nel 2018 Joseph Therriault ha guidato una studio basato sui dati raccolti dall’Alzheimer Disease Neuroimagining Initiative (Adni), un centro di ricerca globale a cui partecipano pazienti che accettano di consegnare le loro valutazioni cliniche e gli esami di immaginig. I risultati della ricerca si possono così sintetizzare: coloro che presentano anosognosia per i disturbi della memoria, hanno una funzione metabolica cerebrale compromessa e più alti livelli di depositi di beta-amiloide rispetto a chi ha ancora consapevolezza del proprio deficit. La disfunzione metabolica cerebrale si manifesta nelle aree tipicamente colpite nell’Alzheimer.

Hanseeuw Bj et al, in uno studio pubblicato nel 2019 su Annals of Neurology, hanno analizzato il legame tra l’alterazione nella consapevolezza delle capacità di memoria e la beta-amiloide. Gli autori hanno stratificato 468 pazienti con lieve deficit cognitivo di tipo amnesico, in gruppi con e senza consapevolezza del loro danno. Hanno valutato così l’associazione tra lo stato di autocoscienza e il carico di beta- amiloide, nonché la relazione tra questo stato e il metabolismo cerebrale di glucosio basale e dopo 24 mesi di follow-up. I risultati della ricerca hanno confermato un legame del carico di beta-amiloide e la riduzione progressiva dell’autocoscienza dei deficit della memoria. L’anosognosia era presente nei pazienti tre anni prima della diagnosi di demenza.

In conclusione l’anosognosia, in pazienti con iniziale declino cognitivo, predice l’imminente riduzione del metabolismo nelle regioni cerebrali coinvolte nell’Alzheimer ed è un indicatore della successiva evoluzione della demenza.

L’anosognosia nella gestione del paziente con Alzheimer

L’anosognosia nell’Alzheimer, oltre ad essere rilevante nell’ambito clinico lo è in quello assistenziale. Il fatto che i pazienti non siano consapevoli dei loro deficit, rende più difficile coinvolgerli nelle attività necessarie per rallentare il decadimento cognitivo. Inoltre, la mancata coscienza dei propri limiti, fa sì che le persone con demenza possano mettere a rischio la propria vita e quella altrui. Chi si occupa di questi pazienti, oltre a far fronte al carico assistenziale, deve vincere le resistenze di chi, non riconoscendosi malato, rifiuta l’aiuto. Nei malati di Alzheimer comportamenti agitati e aggressivi possono essere innescati da relazioni interpersonali non serene che s’instaurano tra i pazienti e i caregivers. Se chi assiste un paziente anosognosico sottolinea i suoi fallimenti, la persona malata potrebbe sentirsi criticata irragionevolmente. In queste circostanze, a causa del declino cognitivo e della scarsa capacità nel controllo emotivo, il paziente potrebbe essere turbato e ricorrere all’aggressione fisica. Per prevenire o ridurre l’agitazione e l’aggressività, i caregivers debbono riuscire a capire come si sentono i pazienti e a percepire i deficit dalla loro prospettiva. Pertanto, la valutazione dell’anosognosia è un requisito essenziale per una cura efficace.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del quinto incontro “Sono in psicoterapia: ho bisogno di farmaci? “

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del quinto incontro con il Dott. Filippo Turchi.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del quinto incontro è stato il Dott. Flippo Turchi, il quale ha affrontato l’argomento “Sono in psicoterapia: ho bisogno di farmaci? “.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

La reazione genitoriale alla diagnosi patologica e la sua influenza nell’attaccamento del bambino

Sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi infantile di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi.

 

La malattia è un viaggio nell’ignoto, nello sconosciuto, è l’abbandono di una dimensione di sicurezza per approdare in una realtà colma di dubbi e timori, che molto spesso si tramutano in esperienze di dolore e solitudine. Ma accettare che tutto ciò debba accadere al proprio bambino dissesta l’omeostasi emotiva del genitore, costringendolo a confrontarsi con una realtà innegabile quanto inattesa: di colpo si spezzano le aspettative positive e appaganti che il genitore tende a proiettare sul figlio, si interrompono i sogni di positività che per lui si ipotizzavano, così come viene reciso il senso di esistenza che in lui i genitori credevano di poter proiettare.

L’immagine del bambino nella mente si trasforma. La sua malattia finisce col perturbare l’equilibrio dell’intera famiglia, che, nel tentativo di mantenere l’omeostasi si sforza di adattarsi alla malattia attraverso un processo emotivo che implica l’attraversamento dei seguenti stadi (Doka, 2003): fase di shock, subito dopo la diagnosi, in cui si verifica un’angoscia paralizzante che blocca i meccanismi di difesa, unita ad uno stato confusionale e di disorientamento che paralizza qualsiasi reazione funzionale; fase di negazione, in cui l’accaduto comincia a venir realizzato, e si cercano possibili soluzioni volte a mitigare il dolore o a trovare alternative come la ricerca di altre diagnosi e il consulto nuovi medici; fase di depressione, in cui a dominare sono sentimenti di perdita e disperazione, il flusso temporale è immobilizzato così come ogni possibile reazione attiva, i genitori avvertono che tutto è perduto, e iniziano processi di colpevolizzazione auto o etero diretta; fase di rielaborazione, in cui prende forma la modalità relazionale che intercorre tra paziente e famiglia, declinabile o in un atteggiamento iperprotettivo ed eccessivamente coinvolto che comporta livelli maggiori di ansia e apprensione da parte dei genitori, o in un opposto atteggiamento distanziante e negazionista, che vede la delegazione della cura del bambino a soggetti esterni alla famiglia (negazione dell’evento traumatico), o ancora in un comportamento sublimante, che vede la possibilità di pensare alla malattia come ad un’esperienza di crescita interiore; infine la fase di accettazione, che implica la morte del figlio idealizzato e la presa di coscienza di realtà su di lui e sulla sua situazione oggettiva; si tratta della reazione più adattiva, che vede i genitori impegnati a fronteggiare l’evento malattia abbandonando ogni investimento narcisistico sul bambino, al fine di raggiungere una stabilità emotiva che sia capace di tradursi in comportamenti funzionali.

D’altro canto il bambino si rispecchia nel genitore, che, in qualità di adulto della situazione, deve riuscire a contenere le ansie del piccolo malato per restituirgliele in una modalità più accessibile, più accettabile, meno disintegrante, evitando le difese arcaiche e meno produttive per affrontare consapevolmente le eventuali fasi di regressione che in questa dimensione si verificheranno in tutti i soggetti coinvolti (Bonichini, Tremolada, 2013).

Reaction to diagnosis interview: studi comparativi

Marvin e Pianta hanno ipotizzato l’esistenza di un collegamento tra reazione alla malattia e attaccamento, affermando che un’accettazione funzionale e rielaborativa della diagnosi da parte dei genitori consenta lo sviluppo di emozionalità positive nel contesto familiare, in grado di offrire al bambino sostegno contro l’insorgenza di eventuali disturbi psicopatologici al disagio collegati.

Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per l’indagine dell’effetto della malattia sui genitori, subito dopo una diagnosi, è la Reaction to Diagnosis Interview (RDI, Marvin e Pianta, 1996), ideata nella cornice della teoria dell’attaccamento e simile nella metodica alla AAI (Main e Goldwyn, 1985-1998), eccezion fatta per l’impiego di videoregistrazioni che nella AAI non sono previste.

L’obiettivo dello strumento è quello di valutare il grado di rielaborazione del trauma associato all’esperienza di dover allevare un figlio gravemente malato, e di rievocare nello specifico lo stato d’animo e mentale che il genitore ha sperimentato nel momento della ricezione della diagnosi, i cambiamenti intercorsi da quel momento, la ricerca del senso di questa esperienza (Gattinari e Pallini, 2015). Al genitore viene chiesto di ricordare il momento in cui ha scoperto che suo figlio aveva dei problemi di salute in grado di modificare l’intero corso della sua vita, quali riflessioni ha fatto, cosa ha pensato in merito alla natura e alla possibile evoluzione della malattia, se i suoi pensieri hanno subito una modifica da allora. Indici di interpretazione vengono considerati non soltanto i messaggi esplicitati verbalmente dai soggetti, ma anche la comunicazione non verbale, la mimica facciale, le espressioni affettive, il pianto.

Al termine dell’intervista i dati raccolti vengo organizzati all’interno di due categorie, risolta e irrisolta. La prima dimensione indica soggetti che si mostrano in grado di fronteggiare la diagnosi patologica, accettando i rischi e la negatività della stessa in un atteggiamento di coerenza e accettazione che non escluda tuttavia la possibilità della ripresa e della guarigione. Le aspettative del soggetto appaiono realistiche, l’atteggiamento verso il figlio è responsivo e al contempo non limitante della sua libertà: vengono riconosciuti i bisogni del bambino e mantenuti al contempo quelli dell’intera famiglia, in una prospettiva di adattamento omeostatico che consente l’equilibrio e il benessere del nucleo malgrado la patologia. Al contrario i soggetti irrisolti non hanno elaborato il trauma, e considerano la malattia come un vero e proprio lutto, la perdita definitiva dell’immagine del bambino nella mente. Le loro interviste sono caratterizzate da aspettative irrealistiche, ricerca di una diagnosi alternativa, diniego e disperazione. Le emozioni negative paralizzano in una stagnazione rielaborativa il contesto emotivo dell’intera famiglia, che non può evolvere in una dimensione adattativa e incoerente rispetto al trauma. Proprio quest’incoerenza può generare risvolti patologici nella psiche del bambino, causando l’insorgenza di attaccamento disorganizzato e psicopatologie.

Sulla base della intergenerazionalità dei MOI si può ipotizzare che anche il genitore disorganizzato sia a sua volta portatore di un disturbo dell’attaccamento infantile, e che la sopravvenienza della diagnosi patologica comporti la rievocazione di vissuti traumatici mai rielaborati perché mai giunti alla coscienza né rielaborati in una prospettiva funzionale.

Due tipologie patologiche: epilessia e paralisi cerebrale

Validata l’ipotesi di Martin e Pianta, si suppone tuttavia che la tipologia della reazione genitoriale alla malattia del bambino non sia l’unica causa dell’instaurazione di un attaccamento infantile disorganizzato, essendo rilevante, a tal proposito, anche la tipologia della malattia diagnosticata e le sue caratteristiche intrinseche.

Studi sulle reazioni dei genitori alla patologia dei figli sono state praticate per quanto riguarda lo spettro autistico (Oppenheim et al., 2012), la fenilchetonuria (Lord et al. 2008), l’epilessia (Marvin e Pianta, 1996), la paralisi cerebrale (Marvin e Pianta 1996; 1999), il ritardo evolutivo (Barak-Levy e Atzaba- Poria, 2013). In tutti questi casi una risoluzione della diagnosi è risultata positivamente correlata all’insightfullness e alla sicurezza dell’attaccamento ( Oppenheim et al., 2012), ma studi ulteriori hanno consentito di rilevare come le stesse connotazioni delle patologie possano avere un’influenza sulla reazione del genitore e quindi su quella del bambino. Quindi ad una malattia diversa potrebbero correlarsi una reazione genitoriale diversa e un differente stile di attaccamento da parte del bambino, aspetto che dipenderebbe dalle diverse sfide psicologiche e comportamentali richieste dalle varie patologie esistenti.

Sulla base di questa ipotesi sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi (Martin, Pianta, 1999). Le indagini sono state effettuate mediante la somministrazione di RDI ad un gruppo di genitori di bambini affetti da paralisi cerebrale e ad un gruppo di genitori di bambini epilettici, con risultati di evidente differenziazione: i primi sono apparsi molto più propensi ad un accudimento organizzato e coerente rispetto ai secondi, per quanto la reazione alla diagnosi sia risultata per entrambi di difficile rielaborazione.

L’atteggiamento maggiormente organizzato e meno imprevedibile del primo gruppo sembra dovuto alle conseguenze create nel contesto familiare dall’insorgenza della paralisi cerebrale, e alla diretta presa in carico del figlio conseguente alla diagnosi. Si tratta, nello specifico, di una malattia che colpisce lo sviluppo motorio, linguistico e cognitivo del bambino, rendendolo bisognoso di assistenza nell’espletamento delle normali funzioni vitali, e oggetto di frequenti blocchi e rallentamenti, specie in ambito motorio, durante il percorso evolutivo. Ma si tratta di bambini che, fatta salva tale importante difficoltà, tendono a mostrare una dimensione emotiva e comportamentale piuttosto stabile, prevedibile, senza cambiamenti repentini. Questo consente ai genitori una migliore gestione della malattia e dei disagi ad essa conseguenti, una più agevole regolazione dello stress e una più stabile organizzazione delle attività quotidiane del bambino, che di tale stabilità risente positivamente.

I bambini epilettici tendono invece a condurre un processo evolutivo piuttosto normale, e non necessitano di particolari aiuti esterni, ma al contempo sono soggetti ad attacchi improvvisi, imprevedibili, non gestibili, che disorientano e spiazzano i genitori. Il bambino può subire un attacco epilettico in qualsiasi situazione, senza alcun preavviso, e questa impossibilità di pianificazione e in un certo senso di organizzazione dell’attacco, pone i genitori in una situazione di ansiosa impotenza, costringendoli a vivere nella continua attesa di un nuovo episodio: fatto questo che tende ad impedire una focalizzazione chiara e diretta sulla condizione attuale del bambino (Pianta, Marvin, Morog, 1992; 1999), e a mettere gravemente in discussione la percezione che il caregiver può avere di sé come figura protettiva. Inoltre i bambini epilettici tendono a manifestare disturbi della regolazione, oltre a tremori motori e mancanza di coordinamento, e questo rende la loro gestualità particolarmente imprevedibile, incoerente e scollegata ai loro reali bisogni. Questo non consente ai genitori di identificare attivamente i segnali dell’attivarsi della crisi, né di mostrarsi responsivi all’attivazione del sistema di attaccamento che alla stessa consegue. Chiaro come in queste circostanze possa mostrarsi meno agevole la conduzione di un accudimento coerente e organizzato da parte dei genitori, e come il bambino, di fronte a tale disorganizzazione e insicurezza, possa rispondere con analoghi stati d’animo.

In questo frangente è stato dunque riscontrato che l’elaborazione della condizione della malattia del bambino da parte del genitore, e dunque la reazione alla diagnosi, è maggiormente correlata alla sicurezza che non all’organizzazione dell’attaccamento, aspetto nel quale la prevedibilità e la possibilità di gestione della malattia sembrano giocare un ruolo decisivo.

In conclusione, al termine degli studi svolti sull’argomento, è emersa la chiara presenza di un legame generale tra risoluzione di un evento traumatico (malattia del bambino) e sviluppo di una modalità di attaccamento organizzata, fattore che può essere ulteriormente collegato alla natura dell’attaccamento del genitore alle proprie figure genitoriali e alle caratteristiche intrinseche della malattia oggetto della diagnosi: questo apre alla possibilità di intendere in modo nuovo il rispettivo valore che la risoluzione di eventi passati e presenti gioca nello sviluppo dell’attaccamento, condizionandolo fortemente.

 

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico, di Mardi J. Horowitz – Recensione del libro

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico di Mardi J. Horowitz è una riedizione aggiornata del testo del 1997. Il razionale su cui si fonda l’opera è che la pianificazione del trattamento deve adattarsi al paziente e non il contrario.

 

Il prof. Horowitz insegna psichiatria all’Università della California, San Francisco, UCSF. Autore di numerosi libri e pubblicazioni, ha contribuito all’aggiornamento del DSM 5. Nel suo lavoro Horowitz si occupa dell’intersezione tra le esperienze traumatiche, lo sviluppo della personalità e il cambiamento, in ambito psichiatrico e psicoanalitico.

Il razionale su cui si fonda l’opera è che la pianificazione del trattamento deve adattarsi al paziente e non il contrario. È fondamentale, quindi, per il clinico prendersi del tempo per conoscere l’origine del problema della persona che chiede aiuto e capire quale sia il modo migliore di affrontarlo. Una particolare attenzione va, inoltre, riservata a rilevare le idiosincrasie e le resistenze che potrebbero essere di ostacolo al percorso terapeutico.

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico ha un impianto teorico che attinge a differenti orientamenti psicoterapeutici, a partire da quello psicodinamico.

 È diviso in sette sezioni. Si parte dal prendere in esame le 5 fasi dell’analisi configurazionale, termine che Horowitz utilizza per sottolineare la complessità del compito.

L’analisi della complessità è composta dalla raccolta dei “fenomeni” ovvero i sintomi e i problemi portati dal paziente. Si procede, poi, con all’approfondimento degli “Stati della mente” che predispongono i pattern dei fenomeni: modi di pensare e di sentire disadattativi. Il professore descrive, successivamente, gli “Argomenti e ostacoli” ovvero le tematiche caratteristiche degli stati della mente e che sono gestiti dalla persona in esame in modo disfunzionale. Un’altra parte dell’analisi configurazionale di Horowitz è quella che riguarda il “Sé e le relazioni”. In questa sezione dell’indagine vengono descritti i ruoli, le credenze e i copioni relazionali che contribuiscono alla produzione e al mantenimento degli atteggiamenti disfunzionali e che sono in relazione con il tipo di attaccamento instaurato con il caregiver e i traumi passati. L’ultima parte dell’analisi prevede la pianificazione del lavoro terapeutico e il tipo di tecniche che verrano utilizzate. 

Dopo aver illustrato l’analisi configurazionale dettagliatamente, l’opera approfondisce i diversi aspetti collegati alle varie fasi, come il modo migliore per definire segni, sintomi e problemi, come aggregare in modo ottimale le informazioni o la presentazione degli strumenti terapeutici da usare nella pratica clinica.

Lo scopo dell’opera è aiutare il clinico nella scelta consapevole e programmata dei passi da compiere in una terapia, creando un sistema che consenta di condensare le informazioni e riesaminarle nelle diverse fasi della terapia in maniera schematica. 

Il metodo consiste in uno schema fisso, appunto, che l’autore consiglia di tenere sempre a portata di mano, durante le sedute, per segnare i vari aspetti all’occorrenza.

L’osservazione, la formulazione e le informazioni che abitualmente vengono raccolte nella fase di assessment vengono combinate insieme in modo sintetico. Ne risulta un modello di comprensione della persona bio – psico -sociale. Una volta che la formulazione del caso è conclusa va condivisa e discussa con il paziente. Il modello personalizzato costituirà la guida del percorso di terapia, secondo tre direttive: osservazione, formulazione e azione.

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico ha il pregio di offrire un modello facile da seguire durante tutto il trattamento, ma offre anche un approfondimento generale sul funzionamento dei pazienti, gli aspetti di personalità e gli schemi relazionali che possono aiutare il clinico ad individuare velocemente i parametri per una corretta valutazione del caso. 

Inoltre, vengono presentati gli indicatori specifici da osservare in seduta, aspetti come la regolazione emotiva o la qualità della relazione terapeutica, ognuno dei quali deve essere valutato, effettuando un calcolo secondo un punteggio su scala Likert. In questa maniera sarà anche più semplice avere un’idea della complessità del lavoro da organizzare. Per facilitare la comprensione Horowitz affianca quanto enunciato con l’esempio di casi clinici, lungo tutto il corpo dell’opera.

Un’attenzione ulteriore per il lettore viene riservata alla fine del testo, con la presenza di un glossario dei termini utilizzati in Case Formulation – Pianificare il trattamento psicoterapeutico, utile supporto anche per chi non ha una formazione di orientamento psicodinamico.

Che cosa spinge gli utenti ad utilizzare Tinder? Le motivazioni sottostanti potrebbero andare al di là delle nostre aspettative?

Tinder è considerata l’app di incontri più conosciuta da scaricare sul proprio smartphone. Molto spesso Tinder è stata definita come una “sex app” per via della frequenza con la quale gli utenti ricorrono ad essa per avere dei rapporti occasionali

 

Quest’app, con oltre 10 milioni di utenti attivi ogni giorno, permette di creare in modo facile il proprio profilo personale e, dopo aver selezionato le preferenze riguardo il genere, l’età e la geolocalizzazione dei potenziali partners, consente di esprimere un giudizio positivo verso i profili presentati scorrendo verso sinistra “like” o di passare all’utente successivo scorrendo verso destra “pass” e laddove i due utenti mostrino un reciproco interesse si realizza il “match” e la possibilità che i due individui comincino a conoscersi in chat.

Molto spesso Tinder è stato definito come una “sex app” per via della frequenza con la quale gli utenti ricorrono ad essa per avere dei rapporti occasionali (Mitchell et al, 2008). Tuttavia, i motivi che spingono all’utilizzo di un’app di incontri come Tinder potrebbero essere molteplici e non ridursi alla facilità con la quale è possibile ottenere un’esperienza da una notte. Lo studio di Sumter e collaboratori (2017), condotto su un campione di 163 utenti Tinder di età compresa tra i 18 e i 30 anni ha confermato ciò, rilevando come il desiderio di trovare l’amore sia superiore a quello di ottenere dei rapporti occasionali, estendendo il numero delle motivazioni legate al suo utilizzo ed individuando differenze riguardanti il genere e l’età.

Le motivazioni trovate sono risultate essere sei: il voler trovare l’amore, il voler avere rapporti occasionali, la facilità con la quale lo strumento consente di entrare in contatto con gli altri e conoscere persone nuove, la validazione del proprio valore personale, il voler provare il brivido dell’eccitazione, oltre al fatto che è un’app di tendenza tra gli adulti.

Sebbene il volere dei rapporti occasionali non sia la motivazione principale in assoluto tra gli utenti di Tinder, le differenze di genere hanno rilevato una maggior tendenza negli uomini rispetto alle donne ad indicare questa come ragione predominante nella scelta di utilizzo dell’app, in linea con le ricerche secondo le quali gli uomini attribuiscono un grande valore alla gratificazione sessuale e ritengono di poterla perseguire attraverso l’uso dei social media (Baumgartner et al., 2010; Clemens et al., 2015; Tolman et al., 2003).

Per completare i dati a nostra disposizione, risulta dallo studio che le motivazioni possono modificarsi con l’età, conformemente al cambiamento dei propri bisogni individuali con il trascorrere del tempo (Stephure et al, 2009).
In conclusione possiamo dire che, al di là dei limiti di questo studio, i risultati ottenuti permettono di rilevare un quadro complesso rispetto all’utilizzo di Tinder. I dati infatti hanno rilevato che solo una minoranza di coloro che hanno sperimentato un incontro offline, hanno avuto un rapporto occasionale, avvalorando l’ipotesi iniziale dello studio secondo cui questa non sia la motivazione cardine dell’utilizzo dell’app, e portando a riflettere su cosa spinga realmente così tante persone ad iscriversi e a conoscere persone in questo modo.

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