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L’autismo tra i banchi di scuola: strategie per l’intervento

Con il termine Autismo si intende un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da una sindrome comportamentale causata da un disordine biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita.

 

Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri. L’Autismo, pertanto, si configura con delle caratteristiche “permanenti” che accompagnano la persona nel suo ciclo vitale, seppur presentino un’espressività variabile nel tempo e cambino da soggetto a soggetto (Linee Guida per l’Autismo, L. 134/2015).

ll DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) definisce i Disturbi dello Spettro dell’Autismo secondo due principali criteri:

  • deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione sociale
  • pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi

In questo scenario, si pone enfasi sul concetto di spettro come di un continuum che va da deficit più gravi a meno gravi, pertanto si tratta di uno spettro variabile, che può comprendere sia persone con alto quoziente intellettivo che con ritardo mentale. All’interno dello spettro autistico, infatti, troviamo diverse diagnosi, che vanno dalla Sindrome di Asperger, che definisce persone ad “alto funzionamento”, al Disturbo autistico, che descrive invece persone a “basso funzionamento”, con grave disabilità verbale ed intellettuale.

Attualmente non sono state ancora individuate le cause certe dell’autismo: la comunità scientifica internazionale, però, tende a riconoscere un’origine multifattoriale, in cui le alterazioni genetiche avrebbero un ruolo principale, accompagnate da altri fattori ambientali, sia di tipo biologico, esperienziale, che psicologico, con grande variabilità da una persona all’altra. Tale interazione darebbe luogo ad alterazioni strutturali e funzionali del sistema nervoso centrale a partire dalla vita intrauterina e con evoluzione più o meno rapida e marcata.

Non sembra esserci nemmeno una prevalenza geografica ed etnica, in quanto è stato delineato in tutto il mondo, in ogni popolazione e ambiente sociale; presenta invece una prevalenza di genere, poiché viene diagnosticato maggiormente nei maschi (da 2,5 a 4 volte di più) rispetto alle femmine.

Autismo e scuola

Vari studi e ricerche dimostrano che la prevalenza dell’autismo tra gli alunni delle scuole italiane, e non solo, è in continuo aumento, attestandosi ormai intorno all’1% della popolazione scolare totale. Il dato è confermato dall’Osservatorio Nazionale per il Monitoraggio dei Disturbi dello Spettro Autistico, il quale sottolinea come si tratti di disturbi ad elevata complessità, che accompagnano l’individuo per tutta la vita e che, per questo, mettono alla prova tutto il sistema di assistenza (sanitario, educativo, economico).

In tutto questo, la scuola svolge un ruolo molto delicato e talvolta determinante: infatti, proprio all’ingresso della scuola dell’infanzia possono essere notati i primi segnali di “qualcosa che non va”. Si osserva, ad esempio, come i bambini fatichino a interagire con gli altri oppure a separarsi dalle loro attività solitarie per integrarsi nel gruppo. Non di rado gli insegnanti faticano ad affrontare questa situazione con i genitori, non sapendo cosa dire e soprattutto come dirlo. E’ possibile che nei genitori nascano dei sentimenti di negazione e rifiuto, per questo è importante che sia insegnanti che genitori siano accompagnati in questi delicati momenti da personale esperto, come può essere lo Psicologo Scolastico. E’ bene sottolineare come questi timori e questi dubbi spesso non facciano altro che ritardare la presa in carico di questi bambini, mentre l’Istituto Superiore di Sanità, nelle sue Linee Guida, pone proprio l’accento sulla necessità di un intervento precoce, in modo da aumentare l’efficacia dell’intervento stesso. Nei gradi scolastici superiori, invece, il problema non diventa più riconoscere e affrontare la presenza di autismo, quanto creare un percorso di studi e di inclusione che permetta a ogni bambino e ragazzo con Disturbo dello Spettro Autistico di svilupparsi e di apprendere al meglio delle sue potenzialità e di aumentare la qualità della sua vita, soprattutto in un’ottica di crescita dell’autonomia, anche in una prospettiva a lungo termine.

In Italia gli alunni con diagnosi di autismo frequentano regolarmente la scuola e sono seguiti da un insegnante di sostegno e, in alcuni casi, anche da altre figure professionali, come educatori, psicologi o assistenti alla comunicazione, che offrono assistenza scolastica specialistica. Ma questo non basta: un opportuno trattamento di questo disturbo, infatti, spesso prevede la conoscenza e la padronanza di tecniche specifiche e il problema che spesso si riscontra nelle scuole è la mancanza di personale adeguatamente formato. Ad esempio, uno dei metodi maggiormente usati ed efficaci, soprattutto nei casi di basso funzionamento, è quello ABA (Applied Behavior Analysis), ovvero l’analisi applicata al comportamento per la modificazione dei comportamenti disadattivi, metodo complesso che richiede una formazione specifica. Esso si focalizza su comportamenti significativi dal punto di vista sociale, consentendo così una reale crescita del soggetto e l’incremento dei comportamenti adattivi che sono presenti nei soggetti della stessa età cronologica e gruppo sociale di riferimento. I bambini e i ragazzi con autismo frequentemente non riescono ad imparare dall’ambiente naturale e per superare questo problema la terapia ABA si avvale di prove discrete (the discrete trial) in cui competenze e componenti sono suddivise in piccole parti più facilmente insegnabili. Si avvale, quindi, di programmi basati sui rinforzi, sfruttando la loro motivazione, e si struttura attraverso il raggiungimento di obiettivi chiari e precisi. Anni di ricerca internazionale hanno dimostrato l’efficacia dei trattamenti comportamentali nella riduzione di comportamenti impropri e nell’incremento della comunicazione, dell’apprendimento e di comportamenti adeguati nei soggetti con autismo.

Il bambino o ragazzo con autismo solitamente è seguito da un terapista debitamente formato e segue lo stesso protocollo anche a casa, per cui diventa fondamentale sviluppare una stretta collaborazione e una sinergia tra scuola-famiglia-specialista, in modo che tutti contribuiscano positivamente al buon esito del trattamento.

E’ però innegabile che la scuola costituisca di per sé un ambiente particolare: ci sono molte persone e molti stimoli a volte incontrollabili, spesso possono accadere imprevisti che rompono la routine (così basilare per i soggetti dotati di questo disturbo) e molto altro, per cui, se da una parte agli insegnanti è chiesto di aderire ai consigli di terapisti e genitori, dall’altra devono costantemente mostrare una grande capacità di anticipazione, adattamento ed inventiva. In classe vanno presentate strategie ad hoc.

Alcune strategie

Questi bambini e ragazzi, a causa dei deficit delle competenze relazionali, hanno bisogno di strumenti adeguati per interagire con gli altri, pertanto risulta importante:

  • incoraggiare a salutare appena il bambino o il ragazzo entra in classe, sia i compagni che il corpo docenti;
  • aiutare il bambino o il ragazzo ad attirare l’attenzione degli altri toccandoli o chiamandoli;
  • insegnare a chiedere aiuto quando ne ha bisogno, toccando e/o chiamando oppure con l’ausilio di immagini (Pecs – Picture Exchange Comunication System) se necessario;
  • incoraggiare a condividere le proprie cose con gli altri;
  • promuovere l’inclusione nel contesto classe proponendo delle attività e dei giochi da poter fare insieme.

Altro aspetto importante da considerare, a causa delle abitudini e dei rituali molto rigidi, è l’eventualità che si verifichino crisi o scoppi di collera, non riuscendo a reagire in modo funzionale alle rotture o forzature di tali rigidità. E’ pertanto auspicabile non forzarli bruscamente a cambiare le proprie abitudini, ma osservare il comportamento per imparare ad anticipare e gestire al meglio i problemi comportamentali. Ed è proprio nell’anticipare che si può cercare di insegnare ai bambini e ai ragazzi nuovi comportamenti adattivi e nuove abitudini più funzionali. Per fare ciò, a scuola, si potrebbe:

  • utilizzare l’analisi funzionale per individuare gli elementi che favoriscono i comportamenti problematici e in questo modo anticiparli e/o evitarli. L’analisi funzionale aiuta a sviluppare ipotesi circa lo scopo del comportamento messo in atto e la relazione tra il comportamento e l’ambiente, secondo un modello ABC basato sugli antecedenti, comportamento e conseguenze.
  • rispettare i suoi tempi;
  • strutturare la sua giornata in classe pianificando in anticipo le attività da svolgere (Agenda Visiva);
  • organizzare il materiale didattico e di gioco in modo ordinato così che sappia prendere autonomamente le sue cose;
  • incoraggiare l’imitazione dei pari;
  • assicurarsi che il bambino o il ragazzo rimanga in classe e con i compagni il più a lungo possibile, cercando di coinvolgerlo nelle attività. Risulta infatti di fondamentale importanza strutturare l’ambiente scolastico in modo adatto e favorevole.
  • insegnargli a riferire il suo stato/emozione anche attraverso le pecs;
  • scrittura/lettura di Storie sociali che descrivono, attraverso le immagini, una situazione sociale semplice. Ciò aiuta a capire i comportamenti propri ed altrui in modo chiaro e semplice;
  • utilizzare un programma di rinforzi per favorire e stabilizzare i comportamenti positivi e funzionali. Un esempio potrebbe essere la Token Economy, tecnica basata sull’erogazione di rinforzatori simbolici (token/gettoni) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino al raggiungimento di punti (stabiliti precedentemente) che permetterà l’accesso al premio finale (il rinforzatore vero e proprio).

Alla luce delle varie difficoltà di un bambino o ragazzo con autismo è necessaria un’alleanza tra i vari professionisti (Insegnante, Terapista, Educatore, Psicologo Scolastico, Logopedista, Psicomotricista e Neuropsichiatra Infantile) che mettano in campo metodologie, tecniche e strategie volte a favorire l’acquisizione o il potenziamento di abilità funzionali alla crescita della persona nei vari gradi scolastici e in tutti i contesti di vita. Altrettanto importante è la famiglia, coinvolta insieme ai professionisti stessi nell’azione di cura e progettazione di un percorso caratterizzato da un impegno condiviso per realizzare un efficace e reale inclusione sociale e per promuovere un progetto di vita declinato sulla persona, che va accompagnata e sostenuta nel diritto di autodeterminarsi e di raggiungere la maggiore autonomia possibile.

L’esito più evidente di tale alleanza è la stesura del PEI (Piano Educativo Individualizzato), documento che la scuola redige in collaborazione con tutti i servizi che seguono questi bambini e ragazzi, e che deve essere approvato anche dalla famiglia. Il PEI non è solo un “pezzo di carta”, come purtroppo spesso viene svalutato, ma una colonna portante del percorso di crescita degli alunni con disabilità; esso viene stilato sulla base della Diagnosi Funzionale scritta dal Neuropsichiatra Infantile e sul Profilo Dinamico Funzionale compilato dagli insegnanti proprio a partire da questa Diagnosi. La caratteristica di questi documenti è di valutare il funzionamento di ogni bambino per tutte le aree personali, sociali e scolastiche, evidenziando non solo le criticità, ma anche i punti di forza (è bene ricordare, infatti, che accanto a molti deficit, spesso sono presenti delle abilità, specie percettive e visuo-spaziali, attenzione per i dettagli e meticolosità). In questo modo viene costruito un iter scolastico che permette al singolo soggetto di raggiungere i propri obiettivi, tarati sulle sue potenzialità e sui suoi margini di miglioramento.

In conclusione, la scuola italiana ha una grande vocazione per l’inclusione, ma ciò non basta. Spesso, infatti, ci si scontra con dei limiti strutturali e logistici degli istituti (mancanza di spazi e materiali, scarsa formazione del personale docente sulle dinamiche specifiche proprie dell’autismo, difficoltà dei contatti tra i servizi…) che impediscono di mettere davvero in pratica tutte le buone intenzioni.

Se lasciata sola, la scuola può arrivare solo fino ad un certo punto, per questo è importante sottolineare come la presa in carico degli alunni con autismo (ma anche con disabilità in generale) debba necessariamente prevedere la partecipazione attiva e costante di tutti gli attori chiamati in causa: famiglie, scuola, servizi territoriali e specialisti. Solo in questo modo si può garantire ai nostri bambini e ragazzi un percorso di vita coerente, lineare e positivo.

 

Essere un carattere (2020) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Il testo di Bollas, Essere un carattere, non è semplicemente un libro, bensì un insieme di finestre che si aprono sul nostro mondo inconscio e sulla pratica psicoanalitica.

 

L’opera è una raccolta di saggi scritti sul finire degli Anni ‘80, e ci consente di ripercorrere quasi tutti i temi caldi del suo pensiero, che non sempre è semplice da comprendere o “metabolizzare”.

Il titolo originale (Being a Character: Psychoanalysis and Self Experience) forse aiuta a cogliere meglio lo spirito di questo testo e il filo conduttore che lo cuce.

Chi, infatti, non dovesse avere familiarità con la psicoanalisi “contemporanea”, potrebbe non aver mai sentito nominare un concetto introdotto da Bollas e che – paradossalmente – troviamo ben rappresentato persino in una canzone dei Pearl Jam: il conosciuto non pensato (“Unthought Known”, espressione che ritroviamo nel titolo di un suo precedente libro, per l’appunto). Ma proviamo ad andare con ordine.

Essere un carattere cerca di rispondere ad una cruciale domanda: qual è l’impatto degli oggetti sul Sé?

Non stiamo parlando solo di oggetti “interni” (ossia rappresentazioni del mondo e delle persone reali che noi interiorizziamo e che influenzano il nostro modo di essere e di agire), bensì – e soprattutto – anche di oggetti fisici, concreti, che investiamo di significato e che usiamo e ri-usiamo per definirci nel mondo.

Domanda e riflessione quanto mai attuale, in un periodo che ci ha visti costretti/ci costringe più che mai tra gli oggetti (mentali e reali) delle mura domestiche.

Gli oggetti non solo contengono le proiezioni del soggetto, bensì lo plasmano e parlano “con” lui tramite un discorso inconscio continuo e “per” lui, mostrando cioè al mondo (e a se stesso) parti di questo dialogo interno continuo.

Bollas si spinge un passo avanti rispetto alla classica “Teoria dei rapporti oggettuali”, ed è come se cercasse di cambiare prospettiva, non per confutare la visione psicoanalitica, ma per proporne una più ampia.

Se siamo abituati a pensare agli oggetti come “recipienti” nei quali “lasciamo” parti di noi, cosa accade quando riprendiamo in mano questi oggetti?

Con un esempio concreto: se decido di leggere un romanzo invece di ascoltare una canzone o di vedere un film, sto parlando a me stessa e sto – soprattutto – oniricamente (quindi: inconsciamente) ricercando qualcosa che ho “lasciato” in quel determinato oggetto (una parte di me, uno stato del mio Sé, una memoria, un ricordo etc).

Per chi conosce la saga di Harry Potter, gli Horcrux possono fungere da similitudine per il concetto. Voldemort, infatti, “spezzetta” la propria anima e la lascia custodita all’interno di determinati oggetti concreti, che hanno un significato preciso, non solo per lui, ma per l’intero mondo magico (Bollas, infatti, parla anche di oggetti generazionali e storici, non solo cari al singolo).

Quindi, quando decidiamo di riprendere in mano proprio quel determinato oggetto, incontreremo anche quella parte del nostro Sé che si è legata all’oggetto.

Ne deriva che la nostra scelta non è mai casuale, e riflettere su di essa potrebbe aiutarci a conoscere qualcosa in più rispetto alla nostra mente.

Naturalmente “essere nel mondo” significa anche esporsi all’incontro con oggetti casuali e/o fortuiti, nei quali e grazie ai quali ci formeremo rappresentazioni mentali e da lì partirà nuovamente un ciclo di rapporti soggetto-oggetto.

Come anticipato, il libro di Bollas contiene tantissimi riferimenti e spunti di riflessione e di rilettura dei principali concetti psicoanalitici, e “risuona” del vasto bagaglio culturale dell’autore. Non è certamente un volume semplice per i non addetti ai lavori, nonostante lo stile sia scorrevole e il talento dell’autore evidente.

Gli oggetti, e l’influenza che giocano sul Soggetto, risuonano anche nella stanza d’analisi, che vede analista e analizzando impegnati in un lavoro che è al contempo un gioco (di Winnicottiana memoria) e che consente la produzione di nuovi stati psichici che consentono ad entrambi di evolvere.

Nessuno, infatti, è indifferente “al tocco degli oggetti”, siano essi – come già abbiamo detto – reali (un libro, una sinfonia, un museo, una persona) o fantasmatici (la rappresentazione/idea che io ho di mio padre o di mia madre, che non corrisponde mai al 100% alla realtà di chi siano i miei genitori in quanto esseri umani).

Il trauma è ciò che rende il soggetto indifferente all’oggetto, nel senso che impedisce all’essere umano di evolvere, perché lo costringe in una dinamica ripetitiva e svuotante.

Partendo da questa linea di pensiero, nella seconda parte del libro, Bollas delinea magistralmente alcuni racconti di diversi “Stati mentali del Sé”, che toccano diverse angolazioni della sofferenza umana: una donna che si taglia, la complessità della spinta di alcuni omosessuali alla ricerca di rapporti occasionali (“Cruising”, in Inglese), lo stato mentale fascista, che impedisce la messa in discussione del Sé, l’innocenza violenta che costringe l’altro alla confusione mentale ed emotiva, ed infine la coscienza generazionale, che vede il singolo come parte di un discorso storico molto più ampio.

Non è forse un caso che questo testo sia un insieme di frammenti, talvolta anche criptici, che aprono (come detto) porte e finestre ad ulteriori riflessioni e invitano non solo alla scoperta del nuovo, ma anche alla ri-scoperta di qualcosa che nel profondo sappiamo, ma a cui non riuscivamo a dare un nome o uno spazio.

Il conosciuto non pensato, appunto, citato in apertura.

Sogni connotati da emozioni di paura e attività cerebrali coinvolte: esiste un collegamento tra attività onirica e situazioni di vita reale?

Vari studi confermano l’ipotesi secondo cui l’attività fisiologica del sonno offre al soggetto la possibilità di riprocessare e riorganizzare le informazioni cariche emotivamente.

 

Infatti, la teoria della simulazione della minaccia afferma che il sogno svolge una funzione neurobiologica, consentendo una simulazione offline dell’incombere di eventi minacciosi e promuovendo risposte comportamentali più adattive nelle situazioni di vita reale (Valli & Revonsuo, 2009). In altre parole, il dover affrontare delle circostanze problematiche durante la notte, fornirebbe gli strumenti per essere in grado di meglio superare le difficoltà anche di giorno (Valli et al, 2005). Questo però non è l’unico modello presente ed altri si focalizzano sulla capacità del sogno di facilitare la risoluzione di attuali conflitti emotivi (Cartwright et al., 2006), la riduzione dell’umore negativo il giorno successivo (Schredl, 2010), e l’apprendimento del comportamento di estinzione (Nielsen & Levin, 2007). Sebbene con delle differenze riguardo agli aspetti considerati, tutti questi modelli concordano nel suggerire che i sogni portano a risposte più adattive ai segnali di minaccia che si presentano durante l’attività diurna (Scarpelli et al, 2019), in quanto l’ambiente virtuale ed altamente sicuro del sogno permette di mettere in scena gli eventi di vita della storia personale dell’individuo e consente di elaborare ed organizzare nuovamente quello che è precedentemente accaduto e che non era stato adeguatamente compreso (Perogamvros & Schwartz, 2012).

A partire da queste considerazioni il presente studio (Sterpenich et al., 2019) si propone di indagare le regioni cerebrali attivate durante il giorno e durante la notte in conseguenza di situazioni emotive che evocano emozioni di paura, oltre che il collegamento tra l’attività cerebrale durante la veglia e quella esperita durante il sonno.

Nello specifico, nel primo step sono stati selezionati 18 partecipanti non aventi problemi di tipo neurologico o psichiatrico, che sono stati sottoposti al metodo del “risveglio seriale”, in cui gli individui sono stati svegliati molte volte per rispondere a domande in grado di evidenziare la presenza o l’assenza di emozioni di paura o ansia nel momento presente. Parallelamente, a questi soggetti è stata misurata l’attività cerebrale attraverso l’elettroencelografia (EEG), in modo da rilevare le aree cerebrali più coinvolte nelle situazioni minacciose.

Nel secondo step, invece, 89 partecipanti hanno compilato un diario sull’attività del sonno e onirica, in cui è stato chiesto di riportare il contenuto dei sogni avuti la notte precedente e la presenza o assenza di specifiche emozioni durante i sogni, prima di essere sottoposti alla sessione di risonanza magnetica funzionale (fMRI) ed alla misurazione del movimento degli occhi e del diametro pupillare.

I risultati hanno evidenziato che la corteccia insulare e la corteccia cingolata anteriore sono attive entrambe nei sogni che evocano paura e nelle situazioni minacciose di vita reale, in linea con le conclusioni rilevate da precedenti ricerche (Alves et al., 2013; Casanova et al., 2016; Pereira et al., 2010), e che gli individui con un’alta propensione a sperimentare paura nei sogni aumentano l’attivazione della corteccia prefrontale mediale quando affrontano stimoli minacciosi da svegli e mostrano una diminuzione dell’attività dell’amigdala, dell’insula e della corteccia cingolata anteriore.

In conclusione, possiamo dire che in entrambi gli step, le metodologie utilizzate e i risultati ottenuti forniscono informazioni complementari riguardo ai processi cerebrali e ai collegamenti tra aree cerebrali coinvolte in situazioni minacciose durante la veglia e durante l’attività onirica, supportando l’ipotesi secondo cui l’attività del sognare migliorerebbe le funzioni di regolazione emotiva del soggetto e lo preparerebbe ad affrontare le evenienze del giorno successivo.

 

Intelligenza artificiale e evoluzionismo darwiniano

Le ultime innovazioni nel campo dell’intelligenza artificiale sono programmi come AutoML-Zero, che permette di far competere fra loro una popolazione di algoritmi generati casualmente e individuare il migliore in ciascun ciclo o iterazione o “fase evolutiva”.

 

L’essere umano occupa un posto rilevante nel ciclo di produzione dell’intelligenza artificiale (“Human-in-the-loop Artificial Intelligence” – HitAI). Ne risulta che l’output è ancora condizionato dalla creatività e dai progressi dei data scientists, nonché inficiato dai loro pregiudizi (Gent, 2020). Tuttavia, nella ricerca di frontiera nell’ambito dell’intelligenza artificiale (IA), il “fattore produttivo uomo” tende a svanire e a essere progressivamente rimpiazzato dalla macchina. L’input uomo, in tale contesto, diventa obsoleto rispetto ad altri fattori produttivi.

Lungo tale direzione, un nuovo promettente campo di applicazione è costituito dalla biologia evoluzionistica di tipo darwiniano: la IA può essere istruita per evolversi da sola, cioè senza l’apporto umano.

La teoria evoluzionistica della selezione naturale, elaborata all’inizio della seconda metà del ‘800 da Charles Darwin, potrebbe così rappresentare un punto di partenza per la realizzazione di IA più avanzate, capaci di evolversi da sole per arrivare a risultati finora mai raggiunti.

In generale, è noto come la costruzione di un algoritmo richieda parecchio tempo. Consideriamo, ad esempio, un tipo di machine learning usato per lo sviluppo di tecniche di guida autonoma. Le reti neurali imitano in maniera elementare la struttura del cervello umano e imparano cosa fare tramite i dati “di allenamento”, rafforzando così le connessioni tra i loro neuroni artificiali. Di regola si procede progettando “sotto-reti” neurali dedicate a compiti specifici – per esempio comprendere la segnaletica stradale – che poi vengono connesse insieme per collaborare evitando – è il caso di dire – incidenti di percorso. Ma la strada è lunga…

Uno scienziato informatico di Google, Quoc V. Le, insieme ad altri ricercatori, ha provato a individuare una strada più rapida ed efficiente per realizzare gli algoritmi. Il programma di IA chiamato AutoML-Zero – con zero “input umani” – è riuscito a replicare decenni di ricerche sulla IA in soli pochi giorni (Gent, 2020). Grazie a meccanismi di variazione, eredità e selezione ispirati all’evoluzione biologica, l’AutoML-Zero di Le è in grado di automigliorarsi, replicandosi di generazione in generazione in versioni sempre più adatte a svolgere un determinato compito che gli è stato assegnato – ad esempio, distinguere un gatto da un camion (Sabato, 2020). Il programma AutoML-Zero seleziona gli algoritmi attraverso un’approssimazione del processo evolutivo in natura. In termini darwiniani, sopravvivono gli algoritmi capaci di adattarsi meglio all’ambiente esterno grazie a progressive mutazioni (“survival of the fittest”). L’ambiente è complesso, incerto, carente di informazioni, evolve nel tempo, è soggetto a shock, è subordinato al complesso delle condizioni geoclimatiche, dipende dall’insieme degli altri esseri con cui ognuno entra in contatto e interagisce. Le mutazioni genetiche hanno messo in condizione gli esseri umani – e più in generale tutte le forme di vita – di sopravvivere a shock come siccità, carestie, malattie e a calamità di varia natura, vale a dire a quanto Darwin chiamava “condizioni di vita”. Un esempio attualissimo è offerto dallo studio (2020) condotto dal Cnr, insieme ad altre istituzioni, e pubblicato su Scienze Advances. Esso mostra come i nostri organismi abbiano evoluto i processi cellulari innati di immunizzazione in grado di “hackerare” il codice genetico del Sars-CoV-2 attraverso un particolare processo noto come “editing” dell’RNA (in chimica esso è l’acronimo dell’acido ribonucleico, un enzima implicato in vari ruoli biologici di codifica, decodifica, regolazione e espressione dei geni. In biologia molecolare, l’editing costituisce un insieme di processi molecolari che danno come risultato una modificazione chimica dell’RNA, adattandolo a nuovi sopravvenuti eventi). Dunque, l’essere vivente cerca di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente esterno attraverso un lungo e faticoso processo di “groping”, “trial and errors” che hanno come risultato mutazioni genetiche. Quando l’idea di Darwin viene trasposta nel campo dell’IA, la “fitness” non si applica più all’essere biologico, bensì all’algoritmo.

L’idea è quella di far competere fra loro una popolazione di algoritmi generati casualmente e individuare il migliore in ciscun ciclo o iterazione o “fase evolutiva”.

In particolare, attraverso operazioni matematiche molto semplici, il software inizia creando una popolazione di 100 algoritmi candidati a evolversi. AutoML-Zero li verifica facendo loro compiere attività elementari, come ad esempio riconoscere se una certa immagine corrisponde a quella di un topo o di un camion (Gent, 2020). Tale processo si dipana per cicli, analoghi alle varie fasi del processo evolutivo biologico o, in termini di Teoria dei Giochi, ai vari rounds di un gioco ripetuto. I primi test basati sul riconoscimento di alcune immagini sembrano confermare l’effettivo funzionamento del nuovo sistema.

Per ogni ciclo, il programma AutoML-Zero confronta le prestazioni di questi algoritimi rispetto alla performance di algoritmi progettati a mano e seleziona all’interno del primo gruppo quelli più performanti. Attraverso mutazioni aleatorie (random), il programma realizza delle copie di questi ultimi. I nuovi algoritmi che scaturiscono da tale processo – vale a dire quelli appartenenti alla generazione successiva – vanno ad alimentare la popolazione di partenza, a scapito degli algoritmi più obsoleti di detta popolazione. Tale processo iterativo continua quindi con un nuovo ciclo – proprio come in un processo evolutivo di società – che seguirà il medesimo pattern e con una popolazione che muta continuamente. I programmi di IA migliorano così di generazione in generazione senza istruzioni esterne umane. Alla lunga l’algoritmo autogenerantisi può diventare il migliore disponibile, superando quelli progettati a mano. Tale successione di generazioni evolve quindi verso una soluzione ottima del problema assegnato.

Lo stesso Le ammette che oggi questo approccio si comporta in modo incerto su una serie di tecniche di machine learning classiche. Le soluzioni che egli individua sono semplici rispetto agli algoritmi più avanzati già esistenti, ma il suo studio (Real et al., 2020, presente sull’archivio on line arXiv, che raccoglie gli studi in attesa di approvazione e pubblicazione da parte della comunità scientifica) intende essere una dimostrazione concettuale, prodromica a nuove IA più complesse che possono svilupparsi lungo due direzioni: la prima è quella di focalizzarsi su problemi più piccoli invece che su un intero algoritmo, la seconda è quella di ampliare la batteria di operazioni matematiche e di dedicare più risorse di calcolo per AutoML-Zero.

E’ una direzione che ci interessa molto. E’ la scoperta di qualcosa di davvero fondamentale che richiederebbe all’uomo molto tempo anche solo per immaginarlo”, suggerisce Le. “Il nostro obiettivo finale è quello di sviluppare effettivamente nuovi concetti di apprendimento automatico che nemmeno i ricercatori potrebbero trovare (Gent, 2020).

I potenziali risultati al momento sono difficili da prevedere, ma senz’altro si può affermare che siamo spettatori di rapidi avanzamenti che sollevano riflessioni etiche, filosofiche e antropologiche sempre più pressanti. Si ravvede infatti un trade-off: i progressi sull’“human-in-the-loop”, con la scomparsa dell’uomo nel processo, se possono costituire un indicatore di un guadagno in termini di efficienza della IA, potrebbero sfuggire di mano, surclassando le nostre stesse capacità intellettive e con effetti imprevedibili. E quanto tempo occorrerà per arrivare a tutto ciò? Al di là delle controversie attuali e future su questo tema essenziale, ancora più urgente è la risposta all’interrogativo: se apparisse una IA superumana, sarebbe una buona cosa? Di qui una analisi affascinante dei possibili scenari: una superintelligenza che conviva con gli umani; ovvero che li sostituisca del tutto (Tegmark, 2018). A quali interazioni e dinamiche porterà tale convivenza? Anche in questo caso, attraverso un processo iterativo di adattamento del fattore umano, l’evoluzione darwiniana potrà dare una risposta.

 

Il cervello adolescente: tra fragilità e potenzialità

Il sistema di ricompensa degli adolescenti è meno attivo, quindi hanno bisogno di esperienze più forti perché si sentano pienamente gratificati, questo li predispone ad adottare comportamenti a rischio.

Pierantoni Serena – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

I tratti distintivi dell’adolescenza, che possono essere un dono e allo stesso tempo una sfida, sono proprio ciò di cui abbiamo bisogno da adulti per mantenere la carica vitale nella nostra esistenza. (D. Siegel)

Introduzione

L’adolescenza è quel periodo lungo, complesso e, allo stesso tempo, straordinario, di transizione dall’infanzia all’età adulta, caratterizzato da numerosi cambiamenti in diversi ambiti.

Questa fase di vita è ancora circondata da miti che la descrivono come un periodo oscuro e incontrollabile a causa degli ormoni impazziti e dell’assenza di maturità.

Gli adolescenti, è vero, spesso sono lunatici, si comportano in modo bizzarro, apparentemente inadeguato, tendono ad adottare comportamenti rischiosi e si lasciano trascinare dal gruppo dei pari. Le scienze psicologiche e sociali hanno ricercato le cause di questi comportamenti nei cambiamenti ormonali e nel contesto culturale; per molti anni l’adolescente è stato descritto come sofferente, violento, antisociale, sollecitato dai media e dalla televisione.

Oggi è possibile dare al fenomeno dell’adolescenza una spiegazione più complessa e completa, che tiene conto anche delle modifiche che avvengono a livello cerebrale. Le recenti acquisizioni in ambito neurofisiologico e neuroscientifico sullo sviluppo cerebrale mostrano che alla base dei comportamenti tipici dell’adolescenza vi sono precise ragioni neurologiche.

Considerare questi aspetti della crescita adolescenziale consente di non stigmatizzare gli adolescenti, di costruire con essi relazioni efficaci e di investire sui loro cervelli, dal momento che in questa fase sono particolarmente recettivi e plastici.

Solo avventurandosi alla scoperta del cervello è dunque possibile comprendere a pieno le ragioni dei comportamenti adolescenziali e riuscire a leggerli in modo più funzionale.

Caratteristiche mentali dell’adolescente

I cambiamenti cerebrali determinano la comparsa di quattro caratteristiche mentali: esplorazione creativa, maggiore intensità emotiva, coinvolgimento sociale, ricerca di novità.

  • Esplorazione creativa: in adolescenza la conquista del pensiero formale consente al ragazzo di ragionare in modo astratto, queste nuove capacità di pensiero e di ragionamento permettono agli adolescenti di essere innovativi e creativi.
  • Maggiore intensità emotiva: contemporaneamente si assiste all’intensificarsi di emozioni che regalano all’adolescente la vitalità tipica di questa fascia di età, ma che può mantenersi per tutta la vita.
  • Coinvolgimento sociale: i giovani si sperimentano in abilità e relazioni. Il gruppo dei pari diventa fondamentale: l’adolescente crea la sua identità tramite l’altro che diventa uno specchio in cui rivedere le proprie paure e perplessità. I legami che si creano a questa età potrebbero diventare una rete di sostegno per tutto il corso di vita, allo stesso tempo però, il ragazzo potrebbe assumere decisioni e comportamenti pericolosi solo per ottenere l’approvazione degli altri.
  • Ricerca di novità: in adolescenza inoltre, diventa forte la spinta verso la gratificazione, quindi verso la scoperta di nuove esperienze che non escludono anche comportamenti a rischio.

Ciascuna di queste caratteristiche presenta aspetti positivi e aspetti negativi e può comportare rischi o benefici nella vita dell’adolescente.

Modifiche neurologiche e comportamenti adolescenziali

Pruning, Mielinizzazione e Neuroplasticità

Durante l’adolescenza il cervello si prepara ad una profonda rivoluzione. Si verificano modifiche strutturali e funzionali a carico di aree cerebrali corticali e sottocorticali tramite due fenomeni: pruning sinaptico o potatura sinaptica e mielinizzazione. Questi processi migliorano l’efficienza di elaborazione delle informazioni e la velocità di comunicazione dei neuroni.

L’essere umano adulto ha circa 85 miliardi di neuroni nel suo cervello, queste cellule si formano e si disfano continuamente, così come le cosiddette sinapsi, ovvero le connessioni tra di esse. Dalla nascita in poi la materia grigia e il volume cerebrale aumentano raggiungendo un picco di densità alla fine dell’infanzia. Il cervello in questa fase è ricco di neuroni e di sinapsi, che però sono disordinate e in eccesso rispetto a quanto serva veramente. Per mantenere la rete cerebrale organizzata ed efficiente, a partire dalla preadolescenza fino ai vent’anni inizia un processo detto pruning o potatura sinaptica che rimuove, entro la fine dell’adolescenza, il 50% delle sinapsi che si son formate durante l’infanzia, lasciando le connessioni più importanti ed eliminando quelle che non sembrano più necessarie. Il cervello reagisce al modo in cui focalizziamo l’attenzione sulle attività che svolgiamo, selezionando le sinapsi che utilizziamo maggiormente. Più i circuiti vengono usati, quindi attivati, più si rafforzeranno, meno saranno usati e maggiori saranno le probabilità che vengano eliminati in adolescenza. Il risultato è che tra i 20 e i 25 anni il volume della materia grigia è diminuito, il numero delle sinapsi è quasi dimezzato, ma esse sono più robuste, ordinate e quindi funzionali.

Sembrerebbe una contraddizione che proprio nel momento in cui la persona ha bisogno del massimo della sua potenza cerebrale, si trovi a subire una riduzione così drastica delle connessioni nervose.

In realtà è un fenomeno che serve a migliorare l’efficienza, il trambusto che si crea nel cervello dell’adolescente è finalizzato al passaggio da un cervello con molti neuroni poco connessi, ad uno con meno neuroni, integrati in circuiti ben collegati. È un po’ quello che succede quando si pota un rosaio, vengono tagliati i rami più deboli, così quelli più importanti possono crescere più forti.

Parallelamente, nel cervello dell’adolescente si completa lo sviluppo della sostanza bianca, formata da fibre che collegano le aree del cervello e che si arricchiscono di mielina.

La mielina è una guaina isolante che ricopre gli assoni (vie di comunicazione) dei neuroni e che migliora l’efficienza della conduttività neurale rendendo la trasmissione dei messaggi più rapida. Durante l’adolescenza la quantità di mielina quasi raddoppia in alcune regioni cerebrali rendendo ancora più rapida la propagazione dei messaggi nervosi, come un treno ad alta velocità. Questi processi che coinvolgono la sostanza grigia e la sostanza bianca permettono un incremento cognitivo rapido. Queste conoscenze hanno ripercussioni importanti sull’educazione, la prevenzione e l’intervento.

In questo periodo di vita dunque, il cervello è sottoposto ad un lavoro profondo di ristrutturazione che lo rende particolarmente adattabile e malleabile, per questo l’adolescenza viene definita seconda finestra di opportunità. Si tratta di un momento dello sviluppo in cui il cervello è massimamente plastico, pronto a ricevere stimoli e a rispondere in modo ottimale.

Gli adolescenti hanno un’opportunità fantastica per imparare e dovrebbe essere indispensabile per loro frequentare la scuola secondaria in modo da poter sfruttare a pieno le potenzialità del cervello.

Allo stesso tempo e per gli stessi meccanismi di sviluppo cerebrale, il cervello adolescente è più fragile e vulnerabile. L’esposizione a fattori traumatici o tossici può facilmente avere effetti negativi in questa fase di vita. Alcuni studi mostrano, ad esempio, un assottigliamento della corteccia cerebrale tra gli adolescenti che abusano di alcol. Un dato che potrebbe indicare un pruning non favorevole o un’inibizione della moltiplicazione cellulare.

Corteccia Prefrontale e Sistema Limbico

Le diverse parti del cervello umano hanno differenti ritmi di sviluppo durante la crescita. La corteccia prefrontale e in particolare la dorsolaterale è l’ultima area corticale a raggiungere lo spessore definitivo, intorno ai 30 anni.

Il lobo frontale è la porzione più anteriore del cervello, è molto più grande nell’uomo rispetto alle altre specie e si occupa di una serie di funzioni cognitive di alto livello, le funzioni esecutive: consente di ragionare in modo critico e con giudizio, controllare gli impulsi e inibire atteggiamenti inappropriati, pianificare gli eventi, prendere decisioni ponderate, definire priorità e organizzare i pensieri, comprendere le intenzioni e il punto di vista altrui. Tutte capacità che appaiono carenti negli adolescenti.

Anche le competenze sociali si affinano in adolescenza. Circuiti specifici della corteccia prefrontale sottendono all’empatia, ovvero la capacità di sentire e riconoscere le emozioni altrui, che permette di predire il comportamento dell’altro e tenerne conto nella relazione interpersonale. Allo stesso modo, in via di sviluppo è anche l’abilità di mettersi nei panni dell’altro e considerare la prospettiva altrui. Par tali motivi, gli adolescenti hanno difficoltà a prendere decisioni basandosi sulle emozioni altrui e considerando punti di vista diversi dai loro. In sostanza l’ultima parte del cervello a maturare è quella coinvolta in quelle competenze considerate più “mature e razionali” utili in particolare in situazioni nuove nelle quali l’utilizzo di comportamenti e abilità di routine non è più sufficiente.

Di contro, nelle aree limbiche si verifica una maggiore attività. Il sistema limbico comprende una serie di strutture sottocorticali, tra cui l’amigdala, situate nella parte più profonda e antica del telencefalo ed è responsabile della regolazione emotiva e delle reazioni primitive ed istintuali. Queste evidenze spiegano gli scoppi d’ira, i comportamenti impulsivi e le montagne russe emotive da cui sono pervasi gli adolescenti.

Nella filosofia platonica veniva già descritta la complessa relazione tra emozione e ragione. Platone paragonava l’anima ad un carro trainato da due cavalli: uno bianco che simboleggiava la parte spirituale, e uno nero, che rappresentava la parte più corporea e legata ai sensi. La ragione è simboleggiata dall’auriga che ha il compito di guidare la biga alata trovando il modo di mantenere l’equilibrio tra le spinte contrapposte dei due cavalli. Ma durante l’adolescenza lo sviluppo cerebrale non è ancora completo e non c’è una comunicazione efficacie tra le varie regioni cerebrali, che possa consentire di prendere decisioni ponderando emozione e ragione.

Di conseguenza accade che le emozioni possano emergere in maniera rapida e intensa, senza che le funzioni esecutive (corteccia prefrontale), ancora in via di sviluppo, riescano a “frenare” e fungere da regolatori. Ecco perché gli adolescenti sembrano essere governati dall’azione più che dalla riflessione e dall’emozione più che dalla ragione.

Alla luce di ciò, l’adulto potrebbe rimandare al ragazzo feedback onesti ma rispettosi, aiutarlo ad esaminare ciò che ha fatto per migliorare la volta successiva, ragionare insieme a lui sulle possibili alternative di risoluzione di un problema, contribuendo allo sviluppo e all’evoluzione delle abilità frontali.

L’adulto dovrebbe aiutare il ragazzo a guidare la biga alata, finché non sarà in grado di farlo da solo, quando le aree prefrontali e limbiche saranno ben integrate e coordinate tra loro. Non sempre questo processo di integrazione va a buon fine, a volte porta alla luce vulnerabilità dell’individuo che fino a quel momento sono state latenti. La mancanza di integrazione del cervello ha come naturale conseguenza una riduzione della flessibilità mentale e della resilienza, ossia della capacità di resistere e riprendersi da condizioni di stress e difficoltà.

Dopamina e sistema di ricompensa

Il sistema limbico è inoltre connesso con il Nucleo Accumbens e riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo, partecipando quindi al sistema di ricompensa.

Il sistema di ricompensa dal punto di vista anatomo-funzionale è una struttura complessa che si origina nei nuclei profondi dell’encefalo ed è distribuita nei centri cerebrali preposti al comportamento motivazionale ed emozionale.

Ogni qual volta si prova gratificazione, sia di tipo fisico che di tipo psicologico, il sistema di ricompensa rilascia dopamina, un neurotrasmettitore molto potente che funge da rinforzo.

Il circuito di ricompensa spinge ad adottare e ripetere quei comportamenti che hanno dato piacere e innesca il noto meccanismo della dipendenza.

Durante l’adolescenza il livello di base della dopamina è inferiore a quello caratteristico di altre età mentre il suo rilascio in relazione alle esperienze compiute è maggiore. Gli adolescenti, pertanto, si sentono facilmente “annoiati” e cercano esperienze nuove, stimolanti, eccitanti, spesso connesse a comportamenti a rischio e capaci di dare forti sensazioni.

Una situazione pericolosa o proibita è altamente desiderabile per gli adolescenti, perché la gratificazione ad essa connessa viene percepita come più alta. È questo il motivo per cui i ragazzi, specialmente prima dei 16 anni, adottano condotte a rischio e comportamenti insensati. Contrariamente a ciò che si pensa, i ragazzi conoscono i rischi ma hanno bisogno che gli vengano ricordate le conseguenze di certi comportamenti perché non riescono a resistere davanti ad un comportamento che può condurre ad una forte gratificazione.

Ciò che muove il comportamento dei ragazzi non è solo l’aspettativa di ricompensa ma anche l’immediatezza, sono guidati dalla ricerca di piacere ma anche dall’impulsività.

Gli studi conosciuti come Marshmallow Test dimostrano come il sistema di auto-regolazione si sviluppi lentamente dall’infanzia all’età adulta. Da questi studi si evince come tra una gratificazione piccola e immediata, ed una più grande ma posticipata, i bambini scelgono quasi certamente la prima, mentre gli adolescenti scelgono sicuramente la prima.

Gli adolescenti quindi non decidono in base a ciò che è giusto, ma in base a ciò che è più gratificante nell’immediato.

L’approvazione del gruppo dei pari è ovviamente quanto di più soddisfacente ci possa essere, per questo le decisioni più pericolose vengono assunte in presenza di coetanei (effetto coetanei).

La sola presenza dei coetanei provoca scariche di dopamina paragonabili a quelle procurate da piaceri più concreti come sesso, alcol e droga.

Perciò quando l’adolescente intraprende azioni pericolose sa che sta superando il limite, ma tenta comunque per ottenere il plauso dei coetanei che ha un valore nettamente superiore al rischio.

Gli adolescenti sono dunque predisposti all’eccitazione del rischio, sono particolarmente emotivi, maggiormente portati all’aggressività e all’impulsività, con un sistema frenante non ancora sviluppato. La corteccia prefrontale permette di elaborare un giudizio e prendere una decisione valutando il rapporto costi/benefici, ma nell’adolescente quest’area cerebrale è ancora in fase di costruzione, per questo in loro prevale l’azione alla riflessione.

Quando capita che il ragazzo dica “non ci avevo pensato”, non mente, frequentemente non ci ha pensato davvero!

L’adolescente ha la sensazione di dominare il mondo; il piacere di rischiare, la guida pericolosa, le frequentazioni a rischio, l’assunzione di sostanze stupefacenti sono comportamenti estremamente attraenti. Una droga, assunta per pura curiosità, per il bisogno di riconoscimento, per impulsività, per pura ricerca di sensazioni emotivamente forti, induce nel cervello dell’adolescente un rilascio di dopamina in quantità notevoli. A causa dei processi descritti e della neuroplasticità di cui è dotato, il cervello dell’adolescente è molto fragile e vulnerabile e questo lo predispone allo sviluppo di dipendenze. Si può quasi parlare di paradosso, il sistema di ricompensa degli adolescenti di base è meno attivo, quindi hanno bisogno di esperienze più forti perché si sentano pienamente gratificati, questo li predispone ad adottare comportamenti a rischio che consentono un rilascio di dopamina maggiore. Il rilascio di dopamina funge però da potente rinforzo e può determinare il bisogno irrefrenabile di mettere di nuovo in atto il comportamento pericoloso.

È rassicurante sapere che con la maturazione della corteccia prefrontale si sviluppa una nuova competenza, la capacità di controllo cognitivo che permette di controbilanciare il sistema di ricompensa e crea uno spazio mentale di riflessione tra impulso e azione.

Conclusioni

Grazie anche al contributo delle neuroscienze il fenomeno dell’adolescenza sta diventando più comprensibile.

I processi di maturazione cerebrale fanno sì che nel cervello adolescente prenda il sopravvento il sistema limbico, responsabile dell’elaborazione della gratificazione, del piacere e degli stati emotivi, a fronte di una corteccia prefrontale (il sistema esecutivo, di controllo e regolazione) ancora immatura che si trova ad affrontare, proprio in adolescenza, un processo di profonda ristrutturazione. A causa dei processi di pruning sinaptico e mielinizzazione, l’adolescente ha enormi potenzialità e la neuroplasticità di cui è dotato il suo cervello gli permette di imparare ed essere creativo ai massimi livelli. Allo stesso tempo, egli è come se vivesse in una sorta di turbine emotivo, in cui nulla è relativo e tutto è percepito in modo assoluto. Qualsiasi situazione vissuta come un pericolo, uno shock o un forte stress, determina reazioni emotive istintive che bypassano la valutazione razionale della situazione. La rabbia è di tipo esplosivo, la tristezza diventa disperazione, la gioia è euforia pura.

Il processo decisionale degli adolescenti è guidato dalla ricerca di gratificazione immediata, senza capacità di valutare alternative e prevedere conseguenze future.

È come se gli adolescenti si trovassero a condurre una macchina emotiva potente e veloce con impianto frenante piccolo e con i pezzi non uniti tra loro.

Questo spiega la loro elevata reattività emozionale, l’impulsività, la sottovalutazione dei rischi, la ricerca del piacere a breve termine e la vulnerabilità alle sostanze psicoattive.

Per il fatto che il cervello dell’adolescente è ancora in progress, le esperienze che fa lasciano conseguenze: l’adolescente va quindi responsabilizzato. Gli errori che commette, da una parte, non vanno eccessivamente colpevolizzati perché necessari al raggiungimento della maturità, dall’altra parte, vanno interpretati seriamente. Se un adolescente si espone a dei rischi, deve sapere che non si tratta di un’avventura, ma di un evento che agisce sul su cervello per il resto della sua vita.

L’immaturità dei controlli cognitivi e l’ipersensibilità per le ricompense costituiscono una vulnerabilità verso i comportamenti rischiosi; tuttavia, questi due tratti, possono rappresentare potenti leve per agire sullo sviluppo delle capacità di controllo del comportamento.

In tale direzione, nei contesti educativi e sociali, l’uso intelligente delle ricompense può prevenire la ricerca del piacere offerto dalle sostanze e dagli altri comportamenti a rischio e può promuovere la capacità di controllo e di regolazione del rapporto con le sostanze stesse. Bisognerebbe lavorare su questa capacità, piuttosto che investire in via esclusiva sull’ideale della distanza dalle sostanze psicoattive, del rifiuto all’uso.

Lo sport può avere a questo proposito un ruolo fondamentale, fonte di piacere a basso costo, è capace di attivare il sistema di ricompensa cerebrale, sviluppare le funzioni cognitive ed esecutive, ma anche coinvolgere in relazioni sociali con i pari in un contesto meno rigido di quello scolastico: è in grado di offrire gli elementi che più concorrono ad incrementare le capacità adattive e di autoregolazione.

Comprendere le cause, anche cerebrali, del fatto che l’adolescente improvvisamente inizi a comportarsi in maniera diversa rispetto al passato, aiuta a non spaventarsi ed evita di adottare interventi autoritari che rinforzano la ribellione.

Non solo, consente anche di considerare gli aspetti positivi dell’adolescente che, pieno di energia e dotato di un cervello così plastico, va assolutamente incoraggiato a ricercare la genialità, la creatività, anche l’impulsività, in quanto fonte di esperienza, guidandolo e restandogli vicini senza opporsi.

Strategie di coping e sintomi somatici

Pochi sono gli studi che hanno esaminato la relazione tra strategie di coping e sintomi somatici. In generale, dalla letteratura emerge che il coping ricopre un ruolo importante nell’influenzare i comportamenti legati alla salute e gli esiti di disturbi con sintomi psicologici e fisici come i disturbi somatoformi (Rasmussen et al. 2010).

 

La ricerca ha mostrato che i sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico sono associati ad alti livelli di disagio psicologico, povertà, bassa scolarizzazione, difficoltà sul piano interpersonale, disoccupazione ed elevati costi sanitari a causa delle frequenti visite mediche (Shaw e Creed, 1991; Burton, 2003; Terluin et al. 2001; Kroenke, 2003; Mai, 2004; Barsky et al. 2005; So, 2008; Grabe et al. 2009).

Diversi autori sostengono che alcune strategie di coping possono favorire il mantenimento o il peggioramento dei sintomi non spiegabili dal punto di vista medico (De Gucht e Maes 2006; Panayiotou et al. 2014). Il modo in cui una persona fronteggia le difficoltà quotidiane potrebbe innescare il manifestarsi di sintomi somatici e psicologici, e successivamente, influenzarne la durata e la gravità (Nezu et al. 2001; SeiffgeKrenke, 2000).

Uno studio condotto da Beasley et al. (2003) ha riportato che l’utilizzo di strategie di coping emotion focused, come il distanziamento o il rifiuto, che mirano ad evitare le emozioni e i pensieri sgradevoli è associato con livelli più alti di sintomi somatici e sofferenza.

Alcuni studi (Rachman, 2012; Van De Heuvel et al. 2014) hanno sottolineato la similarità tra i disturbi caratterizzati da sintomi somatici senza una spiegazione esauriente dal punto di vista medico e i disturbi d’ansia, enfatizzando il ruolo della ricerca di rassicurazioni e dell’evitamento come fattori di mantenimento dei sintomi. Kashdan et al. (2006) hanno identificato il coping centrato sull’evitamento come un fattore generale di vulnerabilità psicologica chiamata evitamento esperienziale. Questo è risultato essere di impedimento al miglioramento del benessere psicologico in soggetti con disturbi depressivi, ansiosi, e di somatizzazione (Hayes et al. 2006; Tull et al. 2004). Dalla ricerca è emerso che l’ansia per la salute e le preoccupazioni ipocondriache correlano positivamente con l’evitamento cognitivo (Fergus e Valentiner, 2010), il rimuginio e la ruminazione, la catastrofizzazione (Bailey e Wells, 2015; Görgen et al. 2013; Marcus et al. 2008), i sensi di colpa e l’inibizione dell’espressione delle emozioni (Görgen et al. 2013; Hall et al. 2011; Rasmussen et al. 2010): tutti fenomeni orientati alla riduzione delle emozioni negative, piuttosto che a cercare di agire per modificare la causa dello stress (Penley et al. 2002).

Le strategie di coping disengagement possono ridurre il disagio nel breve termine, ma si traducono in un numero maggiore di sintomi psicologici, compromissione del funzionamento e minore qualità di vita nel lungo termine (Eftekhari et al. 2009; Gross e John, 2003; Saxena et al. 2011; Sempertegui et al. 2016). Modalità di coping engagement, che mirano invece ad affrontare la situazione stressante, come il problem solving e la rivalutazione cognitiva, sono associate ad una migliore qualità di vita, benessere e minore intensità della sintomatologia sia nei disturbi d’ansia sia nei soggetti con sintomi di somatizzazione (Fergus e Valentiner, 2010; Görgen et al. 2013; Sempertegui et al. 2016).

Circa la metà dei pazienti con disturbo depressivo maggiore presenta sintomi somatici e disturbi somatoformi (Ohayon, 2004). La letteratura ha mostrato che i fenomeni depressivi possono intensificare i sintomi somatici ma anche che questi ultimi possono portare alla depressione (Hotopf et al. 1998; Magni et al. 1994; Ohayon, 2004; Schatzberg, 2004). I soggetti depressi utilizzano frequentemente strategie di coping come la ruminazione o incolpare sé stessi per la situazione stressante, che possono mantenere o peggiorare i sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico (Garnefski et al. 2001; 2004; Kraaij et al. 2002; Ravindran et al. 2002). In un altro studio è emerso che una minor tendenza alla ruminazione e un maggiore senso di controllo sulla situazione sono associati a livelli bassi di sintomatologia somatica e depressiva (Jensen et al. 2001; 2006). Contrariamente a queste ricerche, Ruiter et al. (2008) sostengono che, sebbene sia evidente la relazione tra sintomi depressivi e somatici, nei pazienti depressi la messa in atto di strategie di coping problem e emotion focused non sembra avere nessuna influenza sui sintomi somatici.

Il costrutto di flessibilità psicologica ha origine dalla terapia ACT e descrive l’abilità di vivere coscientemente il momento presente, con consapevolezza e apertura e di agire guidati dai propri valori (Hayes et al. 2012; Kashdan e Rottenberg, 2010). Studi recenti hanno suggerito che anche la flessibilità psicologica, che comprende la capacità di usare specifiche strategie di coping in relazione alla situazione, è benefica per il benessere (Bonanno et al. 2004; Karekla e Panayiotou, 2011; Panayiotou et al. 2014; Thompson, 1994). La flessibilità nelle risposte di coping infatti è associata ad un funzionamento più adattivo, migliore salute mentale e fisica e maggiore soddisfazione con la propria vita (Eftekhari et al. 2009; Haga et al. 2009; Hu et al. 2014) ed a più bassi livelli di emozioni negative, ansia e sintomi somatici (Masuda e Tully, 2012).

Diverse ricerche hanno approfondito la relazione tra coping e sintomi non spiegabili dal punto di vista medico nei bambini in età scolare e negli adolescenti. Si ritiene che tra il 2 e il 4% di tutte le visite pediatriche riguardi la presenza di sintomi non spiegabili dal punto di vista medico (Campo e Reich, 1999). Questo comporta non solo elevati costi per la famiglia e per la sanità, ma può tradursi in procedure mediche non necessarie (Campo e Fritsch, 1994; Campo e Reich, 1999). Come per gli adulti, la presenza di sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico è associata a compromissione del funzionamento e a sintomi ansiosi e depressivi (Garber et al. 1990; Walker e Greene, 1989). Evidenze empiriche suggeriscono che bambini e adolescenti con questi sintomi prediligono strategie di coping meno adattive e più centrate sull’emozione rispetto a bambini con malattie organiche e a bambini sani (Aromaa et al. 2000; Bandell-Hoekstra et al. 2002; Rauste-von Wright et al. 1981; Rocha et al. 2003; Ruchkin et al. 2000; Thomsen et al. 2002; Walker et al. 1997). Esse includono diverse forme di disengagement coping, ruminazione riguardo al dolore, evitamento e reazioni di rabbia.

 

Psiconcologia: tra aspetti psicologici nel malato oncologico e richiesta di supporto

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up e sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

 

Assistiamo oggi alla crescente capacità di cronicizzazione delle malattie mortali grazie alle innovazioni farmacologiche che permettono al paziente di convivere con la malattia per molti anni (Taylor, 2014) ed assume un valore crescente il concetto di “qualità di vita”. Diventa sempre più importante conoscere ed identificare l’impatto e le ripercussioni emotive della malattia per assicurare un sostegno psicologico ed uno spazio di contenimento emotivo al paziente oncologico ed ai familiari (Moreno-Smith et al., 2010; Lim et al., 2013), in una cornice comunicativa efficace tra l’operatore sanitario ed il paziente (Stamataki et al., 2015).

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up ed sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

In uno studio longitudinale (Williams et al., 2016) è stato indagato l’impatto della diagnosi di cancro sull’aspetto psicologico del paziente, dividendo il campione in tre categorie: due anni prima della diagnosi, entro i due anni dalla diagnosi e i successivi quattro. La ricerca ha considerato variabili quali la qualità di vita, le difficoltà quotidiane, l’ansia e la depressione. Come si può immaginare, l’impatto della diagnosi ha comportato un maggior declino della salute percepita, maggiori difficoltà quotidiane riportate e punteggi di ansia e depressione considerevolmente superiori al gruppo di controllo.

Il punto cardine dello studio consiste nell’aver dimostrato che questi punteggi non tornano, sebbene si attenuino con il tempo, ai livelli pre-diagnosi, rimanendo significativamente più bassi rispetto ai soggetti sani; suggerendo che la patologia impatti sul funzionamento psico-fisico a lungo termine e confermando l’importanza di un sostegno psicologico che accompagni il paziente lungo l’evento malattia nelle sue fasi e nel follow-up.

In una ricerca del 2014 (Nikbakhsh et al.) è stato esaminato un campione  di 150 soggetti  con cancro ed è emerso come il 40% mostrasse livelli subclinici di depressione, mentre il 32% arrivasse a punteggi indicativi di depressione clinica. Per quanto concerne la percentuale di ansia, i relativi punteggi subclinici e clinici indagati con l’HADS (Hospital Depression Anxiety Scale) erano rispettivamente di 44% e 22%.

Mentre in uno studio del 2012 (Linden et al.) che ha coinvolto 10153 pazienti oncologici è stata altresì riportata una percentuale di depressione e ansia subclinica rispettivamente del 17% e 23%, raggiungendo livelli clinici nel 13% e 19% dei casi. Possiamo affermare quindi che

Continuous screening for anxiety and depression is recommended as a necessary approach for good cancer care; on the other hand, after diagnosis of clinically important psychological disorder, proper treatment interventions must be performed to improve the quality of life (Nikbakhsh et al., 2014).

Tali dati sembrano essere confermati anche in studi qualitativi, ad esempio attraverso intervista ermeneutica (Stamataki et al., 2015) sono state indagate quattro aree: area emozionale, effetti sulle relazioni, effetti funzionali e sistema di salute in pazienti con melanoma. Alcuni temi emersi sono l’incertezza per il futuro ed il sentimento di impotenza, derivante probabilmente dal percepirsi solo passivo nell’affrontare la malattia e non proattivo nella guarigione; l’immagine corporea alterata, data dall’esito cicatriziale dell’intervento di rimozione chirurgica del melanoma, che contribuirebbe a compromettere la percezione di integrità fisica ed estetica. Vi sono state ripercussioni sulle relazioni familiari, desiderio di non gravare sulla famiglia, di mantenere un’autonomia funzionale e di proteggere i parenti da paure connesse alla malattia e da sentimenti negativi. Sono stati riportati molti problemi funzionali come dolore, stanchezza e spossatezza che influiscono sul portare a termine il lavoro, sugli hobby, sulle attività quotidiane e sul partecipare alle relazioni sociali. È stato riportato come molto frequente il sentimento di riorganizzazione della propria vita intorno al sintomo.

Riassumendo, emerge evidente come l’evento cancro comporti un susseguirsi di emozioni che si ripercuotono sul soggetto stesso, sulla famiglia, sugli amici e sugli operatori sanitari, portando ad una reciproca influenza che riguarda sia il paziente sia l’ambiente a lui vicino.

Esistono fasi nella elaborazione della malattia oncologica?

Un contributo importante dato all’ambito psiconcologico è rappresentato dal lavoro pionieristico di Elizabeth Kluber-Ross (1969), l’autrice ha infatti descritto le cinque fasi che il paziente percorre nella malattia terminale. Le cinque fasi riportate rappresentano in maniera chiara le reazioni del paziente alla patologia e costituiscono un punto cardine nella realtà clinica poiché, anche se non è evidente che si susseguano in un ordine specifico, permettono di identificare i bisogni sottostanti del malato e di favorire un adeguato sostegno e intervento dove richiesto e opportuno. Le fasi riportate dall’autrice sono:

1) La negazione: questa fase è frequente nel momento della diagnosi e rappresenta un meccanismo di difesa attraverso il quale le persone cercano di proteggersi dagli effetti di una malattia. La persona può comportarsi come se la patologia non fosse grave o, nei casi più estremi, come se non fosse successo; il paziente può infatti negare di avere una malattia malgrado i risultati diagnostici. La negazione rappresenta una fase normale attraverso la quale il soggetto prende inizialmente distanza dalla possibile prospettiva della propria morte, tuttavia se persiste e si irrigidisce può necessitare di un intervento psicologico.

2) La rabbia: questa è la seconda reazione che il paziente può avere di fronte alla prospettiva della propria morte. La rabbia può essere espressa direttamente verso le persone che lo circondano come il personale sanitario, la famiglia ed amici, poiché in salute ad esempio, o indirettamente esprimendo amarezza. Si può frequentemente ironizzare sul fatto che molte cose non  si potranno più fare, sul deterioramento fisico o fare battute pungenti sul tema della morte. Non è infrequente che il paziente si chieda come mai sia capitato a lui e sperimenti un’invidia verso persone che siano in salute o che siano guarite da malattie. La rabbia può essere rivolta verso i familiari ed è importante che il clinico normalizzi e contestualizzi tali emozioni.

3) La trattativa: il paziente può abbandonare la rabbia in favore della trattativa, ovvero la convinzione che se eseguirà atti moralmente giusti ed etici avrà in cambio la salute. Eventi come doni di beneficenza o comportamenti insolitamente piacevoli possono essere un indizio di questa fase, perciò si ha una negoziazione tra buona condotta in cambio di buona salute.

4) La depressione: in questa fase il paziente riconosce che può fare ben poco per tenere sotto controllo la malattia. Questa realizzazione coincide con un brusco calo di umore, peggioramento dei sintomi, aumento della stanchezza, fatica e dolore. È difficile distinguere tra i sintomi derivanti dalla depressione e quelli derivanti dal trattamento farmacologico o dalla malattia, perciò è importante un’adeguata distinzione clinica tra le due. Kluber-Ross (1969) identifica questa fase come la fase del “lutto anticipatorio”, dove i pazienti “piangono” la prospettiva della loro morte, anticipano la perdita di relazioni e di attività future.

5) L’accettazione: ultima fase degli stadi riportati dalla Kluber-Ross, rappresenta una presa di coscienza globale della propria morte, dove il paziente può essere troppo stanco per essere arrabbiato e troppo abituato alla malattia per essere depresso.

L’accettazione non è detto che sia pacifica e comprenda uno stato di calma, ma alcuni pazienti usano questo tempo per fare preparativi, decidere come suddividere i loro beni e come passare il tempo rimasto con i familiari.

La malattia oncologica può essere considerata una malattia sistemica, coinvolgendo il paziente stesso, la famiglia e la rete sociale in cui è inserito

Le reazioni e le mutue influenze che si possono verificare all’interno della famiglia sono molteplici: può avvenire per esempio che con l’avanzare della malattia e il conseguente declino fisico e psicologico il paziente decida di allontanarsi dalla famiglia e dalle interazioni sociali (Taylor, 2014); può avvenire che il paziente scelga di non parlare della malattia con i familiari ed amici al fine di non gravare su di essi (Stamataki, 2015). La famiglia a sua volta può andare incontro a una riorganizzazione dei ruoli in funzione del malato, con ripercussioni sul lavoro o su altre relazioni familiari.

In una rassegna del 2010 (Stenberg et al.) su un campione di quasi 20.000 caregivers familiari, i principali problemi riportati da questi sono stati: depressione, stanchezza, ansia, incertezza, paura, difficoltà nel dormire, perdita di peso e appetito.

Come suggeriscono gli autori, la malattia di una persona sconvolge i ruoli familiari, i quali possono divenire iperprotettivi ed imporsi standard elevati nella cura del paziente, assumendo un’elevata responsabilità nei suoi confronti; se il lavoro non è flessibile possono prendere giorni di ferie o di malattia, riorganizzandosi in funzione del malato. Identificare i familiari “assistenti” che sono in difficoltà ed integrarli nel percorso di sostegno  psiconcologico rappresenta un punto fondamentale della presa in carico globale del paziente, in quanto supportare i familiari è di notevole importanza per il paziente e per un percorso di cura più efficace/efficiente e meno doloroso.

Verso la presa in carico del paziente oncologico…

Nonostante le evidenze a favore del sostegno sociale nel ridurre lo stress e nell’incrementare il benessere psicologico percepito (Kiecolt-Glaser et al., 2002), è bassa la percentuale di pazienti oncologici che ricercano supporto psicologico e vi è un numero elevato di operatori sanitari che sottostimano le difficoltà emotive riportate da questo target. È stata presa in esame (Merckaert et al., 2009) la percentuale di pazienti affetti da cancro che ricercavano supporto: su 381 pazienti, solo il 25% delle donne ha espresso il desiderio di un sostegno psicologico, mentre elevati livelli di ansia e depressione erano sperimentati dal 70% del campione femminile; per quanto riguarda il campione maschile il 10% ricercava aiuto su una percentuale di 50% che riportava punteggi significativi di ansia e depressione. La maggior richiesta da parte delle donne può essere spiegata dalla loro tendenza ad adottare un maggior coping attivo, volto alla ricerca di sostegno. Secondo gli autori la percentuale bassa di pazienti che richiedevano aiuto può essere spiegata dalla loro sottostima dei benefici derivanti dal supporto psicologico e dal considerare ansia e depressione come conseguenze normali dell’impatto del cancro e del trattamento.

A tal proposito, Butow e collaboratori (2002) hanno esaminato i pattern di risposta dei medici e le informazioni richieste in reparto oncologico ed è stato riportato che i medici rispondono maggiormente a richieste di informazioni sulla prognosi, trattamento etc., piuttosto che a richieste di supporto emotivo. Di contro i pazienti sono più propensi a richiedere informazioni di carattere medico, in quanto percepiscono i medici e operatori come “indaffarati” e non ritengono opportuno coinvolgerli nelle loro paure ed ansie. Come riportano gli autori

if doctors do not recognise and acknowledge patient’s cues for emotional support, patients will be discouraged from seeking that support during the consultation.

Si può quindi sostenere che il dare informazioni ritagliate sulla persona con sensibilità, il coinvolgere il paziente nel trattamento e nelle decisioni affinché abbia un ruolo attivo ed il riconoscere il disagio emotivo, siano fattori che contribuiscono alla riduzione della morbilità psicopatologica nei pazienti affetti da cancro (Butow et al., 2002).

Tuttavia, è doveroso specificare che la presenza di risposte emotive dipende anche dalla capacità dell’équipe di far emergere i “bisogni psicologici” e di rispondere con congruenza a questi, sottolineando la necessità di sensibilizzare il personale sanitario verso il distress esperito dal paziente oncologico; quindi l’importanza di porre attenzione a tali segnali ed interpretare i bisogni sottostanti alle reazioni emotive elicitate dalla malattia oncologica nelle sue diverse fasi, così come nelle fasi del trattamento. Lavorare in un’ottica biopsicosociale comprende dare il giusto peso alle variabili psicologiche, sociali e biologiche che, interagendo tra loro, possono contribuire nella riuscita di un trattamento; essendo in stretta interazione tali variabili è necessario sia informare il paziente circa gli aspetti medici della malattia, sia informare circa sentimenti, paure e angosce comuni nell’iter oncologico, assicurando l’opportunità di essere seguiti in un percorso psicologico. L’aspetto emotivo della malattia, soprattutto se mortale, è sempre più importante e degno di essere monitorato al fine di garantire un’accettabile e soddisfacente qualità di vita esperita dal paziente, ribadendo il fatto che al giorno d’oggi si assiste ad una sempre più frequente cronicizzazione della malattia (Matarazzo, 1980) ed a una esigenza crescente di convivenza con questa.

 

Pandemic Shaming: stigmatizzazione e ostilità nella storia delle epidemie

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Parliamo di pandemic shaming, ma perché tutto questo?

 

Non posso controllare chi si ammala di Covid e come o quando torneremo alla normalità. Ma c’è una cosa che posso controllare: individuare chi non rispetta le misure preventive, smascherarlo e severamente ammonirlo”. È questo l’assunto alla base del pandemic shaming, fenomeno di attacco e calunnia mediatica e non, diffusosi dall’inizio della pandemia in Italia e nel mondo. Il pretesto attorno al quale si sviluppa la contestazione e che genera l’ira funesta è l’utilizzo adeguato di una delle primarie misure di protezione e prevenzione contro il virus: la mascherina.

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero e spesso attuato anche consapevolmente, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Ma perché tutto questo?

Dinanzi alla paura e alla rabbia di non riuscire a combattere o comprendere un nemico invisibile, inaspettato e subdolo come il Covid, la gente reagisce spesso esternalizzando i propri sentimenti e proiettando frustrazioni e paure sugli altri, denigrandoli e scagliandovisi contro. Per dirla con il ciclo del dolore di Kubler-Ross, siamo nella fase della rabbia, fronteggiando un dolore collettivo dato dal senso di perdita che il virus sta causando: perdita di sicurezza, certezze e incolumità. La rabbia, che è una manifestazione della paura, diventa strategia di coping svolgendo una funzione “empowering”, potenziante, che conferisce forza e controllo. Dinanzi alla paura e all’impotenza a cui il virus ci soggioga, la rabbia ci dà l’impressione, o l’illusione, di avere ancora un controllo sulla situazione. Scagliarsi sul primo malcapitato che non rispetta le norme ministeriali, in rete o dalla propria finestra che sia, diventa allora una malsana seppure efficace modalità per fronteggiare quel disagio interiore fatto di paura, incertezza e frustrazione che si sente dentro. Ciò si verifica anche perché, a seguito della negazione iniziale, quando ci si convince che il problema è reale e se ne realizza la gravità, scatta un secondo meccanismo: la ricerca del colpevole a cui attribuire la responsabilità di quanto avvenuto. Lo abbiamo visto in Italia con i diversi capri espiatori o meglio gli untori: prima i runners, dopo gli asintomatici, colpevoli di essere immuni alla malattia pur avendo inoculato e trasmesso il virus; poi i bambini, i più bisognosi di aria aperta ma i più abbandonati e trascurati da tutti, persino dai decreti; i lavoratori che non hanno mai smesso di lavorare per permettere al resto della popolazione di stare noi a casa; e infine il personale sanitario, lo stesso che mette a rischio ogni giorno la sua e dei propri cari vita, per salvarne di migliaia, ma è visto come un pericoloso untore per i condomini.

La stigmatizzazione nella storia delle epidemie

Eppure questo non è il primo episodio di stigma e colpevolizzazione nella storia delle pandemie. Ne fa un’analisi approfondita David Barnet, professore associato di medicina e salute pubblica a Penn, cultore della relazione tra stigma e pandemie. Storicamente le malattie si sono prestate all’associazione con gli stranieri e quindi con le stigmatizzazioni, si pensi al modo in cui apprendiamo di “malattie che vengono da altrove e che si stanno diffondendo da qualche altra parte”. Ne consegue che, nel momento in cui queste malattie toccano noi, ci si sente invasi, contagiati. È quello che successe con la peste di Milano, di cui narra Manzoni ne I Promessi Sposi e in cui si possono ritrovare tante analogie con il Covid. In primis, la diffusione del contagio, ora come allora, pochi contagi sparsi nel territorio, voci lontane di quel che avveniva altrove, corredate da un frequente sottovalutare o ridicolizzare dell’allarme. Poi la ricerca del paziente zero:

Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso

si legge nel romanzo a proposito della peste bubbonica. Di lì al rintracciare la categoria di untore su cui far ricadere la colpa, il passo è breve. Tuttavia, Barnet evidenzia come ciò che ha permesso che nella fase iniziale del Covid non si scatenasse il “panico da malattia” consiste proprio nei sintomi del virus, spesso sovrapponibili a quelli di una comune influenza. Qualcosa di familiare che si ripete ogni anno; non qualcosa di fatale, con sintomi drammatici e che viene da lontano in termini non solo geografici ma anche culturali. Come accade per l’Ebola o la Febbre Gialla.

Il fenomeno del pandemic shaming

In Italia, il pandemic shaming si è concentrato relativamente attorno al proprio quartiere anche a causa della ferrea circoscrizione attuata che limitava al minimo gli spostamenti: urla dal balcone per chi era in strada o non indossava la mascherina, foto e chiamate alla polizia e minacce intimidatorie affisse all’uscio di casa o nelle scale del palazzo. Gli attacchi mediatici non sono mancati, si pensi alle reazioni verso le onde migratorie che hanno attraversato la penisola prima del lockdown. Tuttavia, essendo poi stato un fermo totale e nazionale, non vi erano molti modi e soprattutto appigli per accanirsi con qualcuno. Ma come si sarà potuto reagire in assenza di un lockdown imposto, né di precise misure preventive e tutele messe in atto da parte del governo?

È il caso di UK e USA, dove l’ondata di pandemic shaming mediatico ha assunto dimensioni tanto virali quanto letali. Gli effetti sono stati borse di studio minacciate, profili social rimossi, minacce di morte moltiplicati per cento se non mille a partire dalla metà di marzo con conseguente impatto psicologico e sociale altissimo. È accaduto che, alla comunicazione del governo di attuare misure di autoisolamento per contenere la diffusione del virus, sia proliferata, soprattutto in America, una frenesia per la gogna pubblica verso tutti coloro che assumevano pratiche improprie a proteggersi e proteggere dal contagio. La gogna si è consumata prevalentemente sui social media e la piattaforma più utilizzata come patibolo è stata Twitter. Si pensi che lo slang “covidiot” decodificato dall’Urban Dictionary come “colui che ignora avvertimenti in materia di salute pubblica e sicurezza” ha visto una impennata di quasi 3000 tweet nell’arco di pochi giorni. Target principali erano i pendolari che tossivano sui mezzi pubblici, tutti coloro che hanno partecipato a party in spiaggia e parchi specie durante il Miami spring break e i venditori di rose. Premesso che l’accanimento alle manifestazioni pubbliche di grandi dimensioni è comprensibile visto che sono proprio gli assembramenti il veicolo primo di contagio del virus, questo non giustifica la modalità aggressiva.

Gli effetti della vergogna

Gli psicologi sono scesi in campo sulla tematica, disincentivando tali comportamenti ed evidenziandone non solo gli effetti lesivi, ma anche inefficaci e controproducenti. Non è, infatti, inducendo la vergogna nella gente che si indurrà un cambio di comportamento. I bersagliati della gogna pubblica non solo non cambieranno idea a seguito dell’ondata di scherno sociale ma anzi potrebbero opporvi resistenza. La vergogna, a differenza di quanto si possa pensare, non è produttiva bensì controproducente. La psicologa June Tangney assume come, quando si vergognano, le persone tendono a diventare molto difensive, ad incolpare gli altri piuttosto che assumersi la responsabilità e riflettere sul possibile comportamento da cambiare. Di fatto nel far vergognare pubblicamente le persone, ancor più se non vi è relazione alcuna con queste, si incoraggia l’effetto contrario. A chiunque sia deciso a cambiare il comportamento di qualcun altro, la Dott.ssa Lindsey, direttrice del Behavioral Health Services at Legacy Health, raccomanda di approcciarvisi con la stessa premura e preoccupazione che si avrebbe nel vedere qualcuno poco coperto in pieno inverno. Evitando di farlo vergognare del suo stato, ma piuttosto cercando di aiutarlo o fargli comprendere il rischio in cui incorre. Del resto non è puntando il dito contro o assumendo un atteggiamento inquisitorio che si aiuterà il povero sprovveduto a non patire più il freddo. È bene ricordare che, incrementare l’ostilità in un ambiente già di per sé fragile e instabile, non fa altro che promuovere la norma dell’aggressione e dell’ostilità come tecnica di coping per fronteggiare la situazione stessa. E ricorrere a tali modalità non porta mai a nulla di costruttivo e duraturo.

In conclusione, che se ne abbiano valide ragioni o meno e pur nel mezzo di una pandemia globale, sta nell’umiliare, attaccare gratuitamente e minacciare qualcuno per un comportamento ritenuto improprio, la vera vergogna. Atto non solo sbagliato ma persino inutile; la vergogna non giova né all’accusato, né al giudicante: il primo non modificherà quel comportamento e il secondo non verrà ricompensato nel nome del senso civico e comunitario, semmai fossero quelle le ragioni. Alla luce di quanto visto finora, verrebbe piuttosto da pensare che non sia il senso di responsabilità e protezione verso la comunità a motivare tali reazioni, quanto il bisogno di avere un bersaglio contro cui scagliarsi e su cui riversare le proprie paure e frustrazioni. Il sentirsi autorizzati e legittimati ad odiare, e ancor peggio avere la serenità di esserne assolti, come del resto avveniva anche prima del Covid19.

 

Depressione – MCT vs CBT

La depressione è la seconda causa di disabilità a livello mondiale e comporta sofferenza personale, perdita di qualità della vita e rischio di suicidio (Ferrari et al., 2013).

 

Per quanto riguarda il trattamento della depressione, tra le terapie psicologiche disponibili la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è la più utilizzata e studiata, con un’efficacia simile agli antidepressivi nel breve periodo e maggiore nei follow-up (Vittengl et al., 2007).

In uno studio recentissimo (Callesen et al., 2020) si è ipotizzato che la Terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) – che ha come target i processi di controllo mentale che contribuiscono al mantenimento della sintomatologia depressiva – potesse essere più efficace della CBT nel trattamento della depressione.

Per fare ciò 155 pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore (DSM-5, 2013) sono stati coinvolti nello studio: 73 assegnati alla MCT, 82 alla CBT. I trattamenti sono durati fino a 24 sedute da 60 minuti ciascuna, effettuati da psicologi clinici addestrati allo scopo.

Diversi test sono stati sottoposti ai pazienti in tre momenti diversi: prima del trattamento, dopo il trattamento e in un follow-up a 6 mesi dalla fine del trattamento. L’Hamilton Depression Rating Scale (HDRS; Hamilton, 1960), compilato direttamente dal terapeuta, e il Beck Depression Inventory II (BDI-II; Beck et al., 1996), autosomministrato, sono stati utilizzati per la valutazione della gravità della sintomatologia depressiva; il Beck Anxiety Inventory (BAI; Beck et al., 1988) per la misurazione della gravità dell’ansia; il Metacognitive Questionnaire-30 (MCQ-30; Wells & Cartwright-Hatton, 2004), la Negative Beliefs about Rumination Scale (NBRS; Papageorgiou & Wells, 2004), la Positive Beliefs about Rumination Scale (PBRS; Papageorgiou & Wells, 2001) (26), la Dysfunctional Attitude Scale (DAS; Weissman % Beck, 1979) e il Young’s Schema Questionnaire (YSQ; Young, 1998) per la misurazione dei processi di pensiero.

Dai risultati si è riscontrato che non ci sono state differenze post-trattamento nei punteggi dell’HDRS tra MCT e CBT. Differenze che invece si sono presentate nei punteggi del BDI-II, dimostrando la superiorità dell’MCT per quanto riguarda i punteggi sulla sintomatologia depressiva, sia nel momento appena successivo al trattamento, sia nel follow-up di 6 mesi dopo.

I due gruppi MCT e CBT non hanno mostrato differenze per quanto riguarda l’ansia esperita, né nel post-trattmento, né nel follow-up.

L’MCT si è inoltre dimostrata più efficace della CBT in entrambi i checkpoint post-trattamento e follow-up nei punteggi riguardanti gli aspetti processuali e le credenze metacognitive (MCQ, NBRS, PBRS, DAS), a eccezione della YSQ, per la quale non si sono evidenziate differenze significative.

Altro dato importante a livello clinico è che il 74% dei pazienti sottoposti alla MCT soddisfaceva i criteri per un recupero sintomatologico (basato sulla BDI-II) sia nel post-trattamento, sia nel follow-up; i pazienti sottoposti alla CBT si sono fermati al 52% (nel post-trattamento) e al 56% nel follow-up. Questi ultimi dati, in linea con la letteratura (Wells et al., 2009; Jordan et al., 2014; Jarrett & Vittengl, 2016), sottolineano la maggiore efficacia della MCT rispetto alla CBT nel trattamento della depressione e riaprono il dibattito sulla miglior efficacia terapeutica per quanto riguarda questo disturbo.

 

Covid-19 e resilienza: uno studio su bambini dai 5 ai 10 anni – Partecipa alla ricerca

La ricerca è destinata a genitori di bambini di età compresa tra i 5 e i 10 anni, la Sua partecipazione è preziosissima per noi e per la ricerca scientifica.

Lo studio è promosso dalla Sigmund Freud University ed è stato approvato dal Comitato Etico di Ateneo (Prot. nr. JBPEM6ZIAODL5Y87968 del 2 giugno 2020).

 

Le famiglie sono state chiamate in questo periodo a supportare i bambini, aiutandoli ad adattarsi ai tanti cambiamenti di vita ed eventi stressanti che questo periodo ha comportato e comporta, dalla chiusura delle scuole, all’impossibilità di giocare con i coetanei, dalla malattia di familiari, ai lutti. Il nostro interesse è comprendere meglio la reazione dei bambini da un punto di vista psicologico indagando l’impatto che questa situazione di emergenza ha nel presente e che potrebbe continuare ad avere, a distanza di un anno da questa prima rilevazione, nella vita dei bambini. L’obiettivo è quello di sviluppare interventi sempre più efficaci per sostenere le famiglie e i bambini stessi, in particolare promuovendo la resilienza, ossia la capacità di adattarsi positivamente alle difficoltà che la vita ci presenta.

La compilazione del questionario richiede circa 20 minuti e il questionario sarà disponibile online fino al 30 giugno 2020. Qualora avesse più di un figlio nella fascia di età 5-10 anni può compilare il questionario più volte (una per ciascun figlio).


Il “negazionismo psicologico” nella gestione della pandemia da Covid-19

Investire risorse nel settore sanitario e biomedico includendovi anche quello psicologico non solo risulta essere la migliore soluzione per limitare la vulnerabilità dell’attuale pandemia, ma anche come misura preventiva per altri possibili scenari emergenziali (e non) che la nostra società fortemente interdipendente potrebbe affrontare nel prossimo futuro.

 

In questo periodo in Italia siamo stati testimoni della formale transizione delle misure di contenimento adottate per gestire la pandemia dalla “fase 1” di emergenza sanitaria alla “fase 2” di semi-emergenza psicosociale ed economica destinata a perdurare almeno nel breve e medio termine.

Come sappiamo la pandemia è un complesso fenomeno biopsicosociale che cambia nel tempo caratterizzato dalla finalità (tecnicamente denominata teleonomia) strettamente biologica del virus che necessita di un ospite umano interagendo direttamente o meno con le finalità biologiche, psicologiche e socioculturali peculiari della nostra specie (Agnoletti, 2020).

La “fase 1” della pandemia ha dovuto considerare, oltre all’aspetto strettamente biologico e fisiologico dell’interazione del virus (vedi i reparti di cura intensiva come esempio paradigmatico), anche l’amministrazione coercitiva dei comportamenti sociali che ne impediscono la diffusione attraverso politiche finalizzate alla realizzazione di una parziale quarantena (o distanziamento sociale). La quarantena è infatti uno strumento funzionale al contenimento della pandemia ma, come è ormai noto, produce una serie di problematiche psicofisiche rilevanti e diffuse (Brooks et al, 2020).

Già nella “fase 1” l’aspetto delle politiche sociali avrebbe potuto beneficiare grandemente dall’applicazione delle conoscenze scientifiche della psicologia sociale, in particolare della Prospettiva Temporale e della Persuasione (Agnoletti & Zimbardo, 2020a; Agnoletti & Zimbardo, 2020b), oltre naturalmente allo specifico supporto psicologico dedicato alle categorie sociali più colpite dallo stato emergenziale.

Nella “fase 2” delle misure di contenimento (intrinsecamente caratterizzate dalle priorità delle dimensioni psicosociali ed economiche della gestione della pandemia) dove vi è un massiccio e diffuso trasferimento di responsabilità dalle regole di quarantena imposte dalle autorità alle scelte individuali e sociali prese quotidianamente dai cittadini all’interno della loro maggiore grado di libertà ed autonomia acquisita, il contributo della psicologia (in particolare della psicologia clinica e sociale) dovrebbe essere considerato ancor più importante rispetto la “fase 1” se non ritenuto addirittura indispensabile per un’efficace gestione della pandemia.

È triste invece constatare che le recenti politiche italiane adottate dal governo per fronteggiare e gestire la “fase 2” non abbiano sostanzialmente previsto alcuna risorsa al comparto psicologico negando la solida letteratura scientifica e le prevedibili conseguenze economiche negative derivanti dal mancato investimento in questo settore.

Purtroppo infatti non è difficile prevedere che se non si correggerà velocemente questo deficit culturale, che ho soprannominato “negazionismo psicologico”, i danni psicologici, sociali ed economici saranno rilevanti, ampliando il divario socio-economico del nostro paese peggiorando ulteriormente la già incerta situazione italiana.

Riscontrare che il cosiddetto Decreto Rilancio non investe nessuna risorsa dei 3,25 miliardi previsti per il Servizio Sanitario agli psicologi purtroppo conferma quanto arretrato culturalmente sia il nostro paese in questo settore e quanto questa arretratezza sia potenzialmente rischiosa per i cittadini italiani.

Poter investire risorse nel settore sanitario e biomedico includendovi anche quello psicologico non solo risulta essere la migliore soluzione per limitare la vulnerabilità dell’attuale pandemia, ma anche come misura preventiva per altri possibili scenari emergenziali (e non) che la nostra società fortemente interdipendente potrebbe affrontare nel prossimo futuro.

Se da una parte l’Italia ha effettuato nella “fase 1” della pandemia delle scelte politiche lungimiranti e condivisibili che hanno dato la priorità alla futura salute pubblica sacrificando giustamente aspetti economici nel breve termine, la gestione iniziale della “fase 2” sembra essere di segno opposto per il fatto che irrazionalmente sottostima grandemente l’impatto futuro delle dinamiche psicologiche e sociali.

Le cause di questo “negazionismo psicologico” realizzato dal governo italiano non possono essere unicamente attribuibili alla scarsa “visibilità” delle scienze psicologiche proposta in passato dalle istituzioni psicologiche italiane stesse per il semplice fatto che in un mondo culturalmente globalizzato come quello attuale, l’importanza di includere le conoscenze ed i servizi psicologici all’interno delle politiche istituzionali non è più né pensabile né concepibile.

È auspicabile quindi correggere velocemente questo errore della politica italiana dando maggiore importanza al settore del benessere psicologico così fondamentale quanto strategico sia per la salute che per l’economia del nostro paese.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità e Il Disturbo da Uso di Sostanze: evidenze scientifiche di efficacia del trattamento DBT

Numerosi studi hanno mostrato una comorbilità tra disturbo da uso di sostanze e disturbo borderline di personalità. Quale sarà con questi pazienti l’efficacia del trattamento DBT e DBT-DUS, un adattamento del trattamento DBT standard?

Ornella Lastrina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La DBT e il modello bio sociale

La DBT (Dialectical Behavior Therapy, DBT), è un trattamento cognitivo-comportamentale originariamente sviluppato per soggetti a grave rischio suicidario che soffrono di disturbo borderline di personalità.

La DBT basa il suo fondamento teorico sulla teoria biosociale della personalità, marcando il ruolo della disregolazione emotiva sia nei comportamenti suicidari, in generale, sia come fattore eziopatogenetico, nello specifico, del disturbo di personalità borderline (Linehan M., 1993).

Secondo tale formulazione teorica, l’individuo si trova in una condizione di interdipendenza e mutua reciprocità con l’ambiente che lo circonda, l’ambiente e l’individuo si adattano reciprocamente e si influenzano. L’esistenza di una relazione bidirezionale tra disfunzione biologica del sistema di regolazione emotiva e disfunzionalità della comunicazione con l’ambiente sociale di riferimento, definita invalidazione, viene individuata come responsabile della caratteristica disregolazione emotiva di questi pazienti (Linehan M., 2015).

L’ambiente invalidante può infatti contribuire all’insorgenza della disregolazione emotiva: il bambino in tali condizioni, sperimenta maggiore difficoltà a regolare le risposte emotive e spesso tende ad autoinvalidarle perché le percepisce come inappropriate.

Per disregolazione emotiva si intende perciò l’incapacità, malgrado gli sforzi, di regolare o riportare entro la norma le reazioni emotive ai trigger emotigeni.

Alcune delle caratteristiche principali della disregolazione emotiva sono un’incapacità di controllare intensi stati di attivazione emotiva, un eccesso di esperienze emotivamente dolorose, scarso controllo degli impulsi comportamentali, difficoltà a organizzare obiettivi in modo indipendente dal proprio stato emotivo, difficoltà a concentrarsi (LinehanM.,&Dimeff, 1997).

La disregolazione emotiva viene considerato come un importante costrutto transdiagnostico (Gratz et al., 2015); è individuabile, infatti, alla base di diversi comportamenti disfunzionali, quali i comportamenti aggressivi auto e etero diretti, l’uso di sostanze, i comportamenti sessuali a rischio, e presente in differenti forme di psicopatologia.

Comorbilità tra DBP e disturbo da uso di sostanze

Numerosi studi hanno mostrato una comorbilità tra disturbo da uso di sostanze e disturbo borderline di personalità (Akiskal, Chen, & Davis, 1985; Dulit, Fyer, Haas, Sullivan, & Frances, 1990; Links, Heslegrave, Mitton, & van Reekum, Patric, 1995; Loranger & Tulis, 1985; Oldham et al., 1995; Trull, Sher, Minks-Brown, Durbin, & Burr, 2000; Zanarini, Gunderson,Frankenburg, & Chauncey, 1989; Zimmerman & Coryell, 1989).

Alcuni autori hanno ipotizzato una comune eziologia tra il DBP e il disturbo da uso di sostanze, individuando come fattore comune la disregolazione emotiva (Linehan M., 1993) o il discontrollo degli impulsi (Siever & Davis, 1991; Zanarini, 1993). Molti autori considerano, inoltre, il disturbo da uso di sostanze come una manifestazione dell’impulsività che è anche una delle caratteristiche centrali del DBP (Links, Heslegrave, & van Reekum, 1999). Uno studio del 2004 (Darke et al., 2004), condotto in Australia, ha rilevato il 42 per cento di prevalenza del DBP in un campione di 615 abusatori di eroina. Al contrario, una review del 2000 (Trull et al., 2000) ha esaminato gli studi pubblicati dal 1986 al 1997, mostrando una percentuale di disturbo da uso di sostanze, tra il 26 e l’84 per cento, nei pazienti che ricevevano un trattamento per il DBP.

Il Trattamento DBT dei pazienti con comorbilità tra DBP e disturbo da uso di sostanze

Il trattamento DBT prevede una strutturazione gerarchica dei comportamenti target della terapia, dove al primo posto troviamo la diminuzione dei comportamenti suicidari, successivamente la diminuzione dei comportamenti che interferiscono con la terapia, seguiti dai comportamenti che interferiscono con la qualità di vita del paziente, per proseguire con l’incremento delle abilità comportamentali, la diminuzione dello stress-postraumatico, l’incremento del rispetto per se stessi ed infine, il raggiungimento degli obiettivi individuali.

In questa organizzazione gerarchica, l’uso problematico di sostanze si colloca nei comportamenti che interferiscono con la qualità di vita e che quindi ostacolano il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta.

Gli obiettivi che il trattamento DBT si pone per agire sul comportamento di dipendenza sono (Linehan, & Dimeff, 2002):

  • ridurre l’uso della sostanza, compreso l’uso di sostanze illegali e di farmaci non prescritti;
  • diminuire la sofferenza fisica data dall’astinenza dalla sostanza e/o dalle crisi di astinenza;
  • diminuire il craving e il desiderio di uso della sostanza;
  • evitare le circostanze e i trigger che sono collegati all’abuso, per esempio, nello specifico viene utilizzata la tecnica del “bruciare i ponti” con persone, posti e oggetti associati con la sostanza di cui si è fatto abuso (si raccomanda anche il cambio di numero di telefono e l’eliminare tutti i contatti telefonici delle persone con cui solitamente si abusava ed eliminare tutti gli strumenti che venivano utilizzati per l’uso della sostanza);
  • ridurre tutti i comportamenti che conducono all’uso della sostanza, come per esempio momentanei ripensamenti rispetto all’obiettivo di astinenza e il credere che non sia possibile evitare l’uso della sostanza;
  • incrementare comportamenti salutari e di supporto, come allargare la rete di amicizie, iniziare nuove attività e privilegiare ambienti che supportano l’astinenza dalla sostanza, piuttosto che ambienti che ne favoriscono l’uso.

Il trattamento DBT prevede come obiettivo l’astinenza dialettica, questa è una sintesi tra: astinenza, ovvero l’abbandono completo dei comportamenti di dipendenza e la riduzione del danno, cioè riconoscere che ci saranno dei cedimenti e riduzione al minimo dei danni. Nel trattamento con il paziente ci si pone come obiettivo il mettere in atto tutte le abilità per rimanere astinenti, ma contemplando la possibilità che ci saranno cedimenti che saranno gestiti insieme con specifiche skills.

L’astinenza dialettica è un processo suddiviso in tre fasi: in prima fase, i pazienti devono trovare un modo per impegnarsi fortemente nell’astinenza. In secondo luogo, l’obiettivo è individuare le modalità per rimanere astinenti e in terza fase, devono avere un piano per la riduzione del danno in caso di ricaduta occasionale.

E’ utile stilare già in prima fase un piano ben strutturato e condiviso che indichi cosa fare nel momento in cui si potrà verificare una ricaduta occasionale.

Il paziente è introdotto ad uno stato di “mente chiara” che è una modalità intermedia tra “mente dipendente” in cui quello che ci governa è la dipendenza e “mente pulita”, condizione nella quale non è più presente la preoccupazione e la dipendenza dalla sostanza. Essere in mente chiara significa perciò non fare più uso della sostanza, ma essere comunque consapevoli dei pericoli di recidiva, per questo si mettono in atto strategie per prevenire una possibile ricaduta occasionale o una recidiva.

Alcune strategie di prevenzione sono:

  • fare surf sull’impulso (Marlatt, Witkiewitz,et al., 2004), ovvero osservare in modo mindful impulsi, craving e preoccupazioni, senza reagire, giudicarli e agire in base ad essi.
  • ribellione alternativa (Safer, Telch, Chen, 2009), il comportamento di dipendenza può essere, a volte, una modalità di ribellione, è utile perciò individuare modalità alternative per ribellarsi in modo efficace e non distruttivo.

Nel trattamento DBT la ricaduta occasionale è considerata come un problema da risolvere, piuttosto che come un’evidenza di inadeguatezza del paziente o di scarsa efficacia del trattamento. Si impara perciò ad analizzare insieme la ricaduta attraverso la catena comportamentale per individuare i fattori di vulnerabilità in quella circostanza, gli eventi che hanno preceduto e seguito l’uso della sostanza ed esplorare quindi quali sono gli elementi che potranno essere utili per prevenire o affrontare le eventuali successive ricadute (Dimeff & Linehan, 2008).

Le strategie strutturali del trattamento DBT si bilanciano tra strategie di cambiamento (problem solving) e strategie di accettazione. In quest’ottica, il trattamento DBT prevede l’insegnamento di skills per la regolazione emotiva e tolleranza della sofferenza che risultano essere particolarmente efficaci per il comportamento target di abuso di sostanze. Spesso, infatti, i pazienti con disturbo da uso di sostanze hanno difficoltà a individuare i trigger del comportamento di abuso e le conseguenze negative di quest’ultimo, il trattamento DBT prevede un modulo di mindfulness che può essere dunque un utile strumento per una maggiore consapevolezza e per avere una modalità di reazione diversa agli stimoli trigger (Stotts, 2015).

Inoltre, il trattamento DBT non si focalizza solo sul ridurre il comportamento di abuso e gestire il craving, ma anche sull’individuare insieme al paziente i valori e le caratteristiche di una vita che per lui sia degna di essere vissuta. Questo permette di ampliare il trattamento non solo ad una gestione contingente del comportamento problematico, ma di fornire al paziente un più ampio repertorio di strategie e strumenti per facilitare comportamenti più funzionali (Dufrene T. e Wilson K., 2012).

Efficacia del trattamento DBT per pazienti con comorbilità con disturbo da uso di sostanze

Il primo studio che ha esplorato se vi fosse una minore efficacia del trattamento DBT, per pazienti con comorbilità con disturbo da uso di sostanze è quello di van den Bosch e colleghi, del 2002. Lo studio RCT ha messo infatti in evidenza che sia nei pazienti che presentavano comorbilità con disturbo da uso di sostanze che nei pazienti senza tale comorbilità, il trattamento DBT aveva la stessa efficacia. Gli autori suggeriscono inoltre un’implementazione dei programmi DBT con focus specifico su ciascun comportamento target, in particolare quello dell’abuso di sostanze, soprattutto considerando i risultati del trattamento DBT-SUD, un adattamento del trattamento DBT standard per pazienti con disturbo da uso di sostanze. Gli esiti di tale trattamento (Koerner & Linehan, 2000), mettono in evidenza come il trattamento DBT abbia avuto risultati significativi nella riduzione dell’uso di sostanze, in corso di trattamento e ad un follow-up a 16 mesi, questi risultati erano, inoltre, migliori, se confrontati con un gruppo di pazienti sottoposti a trattamento standard.

Le principali modifiche apportate al trattamento standard DBT erano le seguenti:

  • aggiunta di target specifici per l’uso di sostanze;
  • incremento di strategie per favorire l’aderenza del paziente al trattamento individuale e a quello in team;
  • un programma di sostituzione per la sostanza:
  • analisi delle urine tre volte a settimana;
  • case management (Linehan & Dimeff, 1997).

Uno studio di follow-up (Linehan et al., 2002) ha comparato un gruppo di pazienti con diagnosi BPD e dipendenza da oppiacei con un gruppo di controllo sottoposto a differente trattamento, i risultati hanno messo in evidenza che in entrambi i gruppi si verificava una riduzione dell’uso di sostanza, sebbene il gruppo di controllo avesse una migliore risposta al trattamento (64% vs 100%). Ulteriori risultati dimostrano come il trattamento DBT-SUD fosse più efficace a lungo termine nella riduzione dell’uso della sostanza, comparandolo ai risultati ottenuti con counseling di gruppo o individuale, focalizzato sulla dipendenza da sostanza (Mercer D. & Woody G., 2000). Ulteriori evidenze di effetti a lungo termine nella riduzione dell’uso della sostanza sono stati individuati in pazienti sottoposti al trattamento DBT-SUD, considerando gli ultimi 4 mesi di trattamento (Linehan et al., 2002).

E’ indicato utilizzare il trattamento DBT per pazienti che hanno un disturbo da uso di sostanze, ma non una diagnosi di DBP? In linea generale, viene consigliato di utilizzare un trattamento meno complesso di quello DBT come scelta di primo trattamento e soprattutto considerare quanto per il caso singolo del paziente, la disregolazione emotiva abbia peso nel disturbo da uso di sostanza, (Dimeff & Linehan, 2008). Il trattamento DBT è stato infatti pensato e strutturato soprattutto per pazienti che presentano una pervasiva disregolazione emotiva e sarebbe perciò indicato per coloro che presentano un disturbo da uso di sostanze fortemente correlato ad un discontrollo di tipo affettivo.

 

Le più famose dittature della storia e il fenomeno della psicologia delle folle 

Nella folla il tono emotivo è accentuato dai suggerimenti dei leader, dall’uso di simboli verbali e di altri simboli, dai gesti eccitati dei membri della folla e da altre circostanze dell’occasione. Sulla base di queste caratteristiche emotive, la folla è facilmente guidata.

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La psicologia della folla è l’ampio studio di come il comportamento individuale venga influenzato quando grandi folle si raggruppano insieme. 
II primo contributo decisivo allo studio di questo fenomeno deriva dal pensatore francese Le Bon con la sua opera Psicologia delle Folle del 1895. Le Bon era rimasto estremamente colpito dal comportamento delle folle specialmente durante la rivoluzione francese nel 1789 e nelle rivoluzioni degli anni successivi. Le Bon aveva notato come nei gruppi fosse presente una grossa suggestionabilità reciproca con una forte esasperazione dei sentimenti. Egli aveva descritto come le folle fossero capaci di commettere azioni che i singoli individui non sarebbero stati in grado di compiere soli, con la presenza di agiti irrazionali, impulsivi e connotati da forte aggressività. Insieme a Le Bon anche Gabriel Tarde aveva suggerito come all’origine della folla e dei suoi processi ci fossero degli istinti e l’imitazione di massa.

Le opere di Le Bon e Tarde evidenziavano e proponevano le tecniche adatte per guidare e controllare le folle, per questo motivo furono lette e studiate dai più grandi dittatori del Novecento. Uomini come Hitler o Mussolini basarono tutto il loro successo e potere sulla capacità di controllare e manipolare le folle.

Secondo Le Bon, l’individuo cede agli istinti che, se fosse stato solo, avrebbe potuto tenere sotto controllo. Come la persona ipnotizzata, “non è più consapevole dei suoi atti …. Allo stesso tempo in cui certe facoltà vengono distrutte, altre possono essere portate ad un alto grado di esaltazione…Non è più sé stesso, ma è diventato un automa che ha smesso di essere guidato dalla sua volontà … Nella folla è barbaro. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche l’entusiasmo e l’eroismo degli esseri primitivi” (Le Bon,1985).

Mentre spiegava il comportamento della folla, Le Bon sviluppò la sua più importante nozione di “mente di gruppo”. La mente di gruppo fa sentire, pensare e agire in un modo completamente diverso da quello in cui ogni individuo si sentirebbe, penserebbe e agirebbe se si trovasse in uno stato di isolamento.

La mente di gruppo non è una semplice somma delle menti di tutti i singoli membri di un gruppo. È una mente distinta dalle menti che lavorano su diversi livelli. Il suo funzionamento si basa su emozioni, appelli, suggerimenti e slogan.

I suoi atti sono meno razionali e più emotivi. È una mente irresponsabile che focalizza la sua attenzione su un oggetto immediato. Il suo livello mentale è molto basso, diventa facilmente eccitata e agisce in modo ipnotico. È su questa premessa che le persone si comportano in modo irrazionale in una folla rispetto a quando sono da sole.

Le idee di Le Bon possono essere riassunte come segue:

  • Le folle emergono attraverso l’esistenza dell’anonimato (che consente un declino della responsabilità personale);
  • Le folle emergono in contagio (idee che si muovono rapidamente attraverso un Gruppo)
  • Le folle si formano attraverso il fenomeno della suggestionabilità. Nella folla, la psicologia individuale è subordinata a una “mentalità collettiva” che trasforma radicalmente il comportamento individuale. Le Bon ha illustrato come in periodi di declino sociale e disintegrazione, la società sia stata minacciata dal dominio delle folle.

La teoria dello psicologo William McDougall sul comportamento di gruppi non organizzati, è praticamente la stessa di Le Bon. Egli spiega che i due fenomeni centrali del comportamento della folla sono l’intensificazione dell’emozione e l’abbassamento del livello intellettuale.

McDougall spiega che maggiore è il numero di persone in cui le stesse emozioni possono essere osservate simultaneamente, maggiore è il contagio emotivo. L’individuo sotto l’influenza dell’emozione perde il potere di essere critico per sperimentare e sentire la stessa emozione.

L’emozione collettiva viene intensificata ulteriormente dall’interazione reciproca. L’intensificazione dell’emozione e il non essere preparati ad opporsi all’autorità della folla, a loro volta, inibiscono i processi intellettuali e determinano l’abbassamento del livello intellettivo della folla.

McDougall ha descritto il comportamento della folla con le seguenti parole:

Una folla è “eccessivamente emotiva, impulsiva, volubile, incoerente, irresoluta ed estrema nell’azione, mostrando solo le emozioni più grossolane e i sentimenti meno raffinati; estremamente suggestionabile, incurante nella deliberazione, frettolosa nel giudizio, incapace di qualsiasi altra forma di ragionamento più semplice e imperfetta; facilmente influenzata e guidata, priva di autocoscienza, priva di rispetto di sé e di senso di responsabilità …. Quindi il suo comportamento è come quello di un bambino indisciplinato o è come una bestia selvaggia”.

La teoria di McDougall sull’induzione simpatica per spiegare l’intensificazione delle emozioni non è stata accettata da tutti gli studiosi. Sigmund Freud nel suo saggio Psicologia di gruppo e analisi dell’Io suggeriva che ciò che tiene insieme qualsiasi gruppo è una relazione d’amore, cioè il possedere dei legami emotivi. Questo riteneva essere “il principale fenomeno della psicologia di gruppo”.

Attraverso una folla, le restrizioni di un Super-Io sono rilassate ed entrano in gioco gli impulsi dell’Io primitivo. Il “censore” all’interno dell’individuo viene messo da parte nella folla e gli “istinti” o impulsi di base, che sono normalmente confinati nelle profondità interiori della personalità, vengono alla superficie. La folla fornisce quindi un rilascio momentaneo di unità altrimenti represse.

La teoria freudiana è utile per spiegare il comportamento della folla, anche se non è supportata da osservazioni fattuali. A volte il comportamento della folla può essere l’espressione di unità represse, ma potrebbe non essere vero per tutte le folle. Inoltre, la sua teoria non è in grado di spiegare tutte le caratteristiche del comportamento della folla.

F. H. Allport ha proposto una spiegazione alternativa del comportamento della folla delineando due principi, di cui uno è il principio della facilitazione sociale.

Secondo questo principio, uno stimolo comune prepara due individui alla stessa risposta e vedere uno dei due individui attuare quella risposta aumenterebbe la probabilità della stessa risposta nell’altro.

Il sociologo Ralf Turner ha superato la spiegazione inadeguata del comportamento della folla e ha sviluppato una prospettiva nuova per spiegare il fenomeno. La tesi centrale di questa prospettiva è che anche nelle folle più violente e pericolose esiste una interazione sociale, in cui viene definita una situazione, emergono le norme per il comportamento sanzionatorio e le linee d’azione sono giustificate e concordate.

Tuttavia, tutte le spiegazioni delineate sopra non riescono a spiegare completamente il complesso fenomeno del comportamento della folla. Ci sono inoltre molteplici fattori che vanno considerati quando si parla di folle, come l’anonimato, la stimolazione, l’emotività, la suggestionabilità, l’iniziazione, il contagio, la mancanza di volontà, la forza degli impulsi inconsci, ecc., che sono altrettanto responsabili dell’emergere del comportamento tipico della folla.

La teoria del comportamento della folla attualmente si è allontanata dalla prospettiva più antica (McDougall, Le Bon, ecc.) che considerava l’individuo come sotto l’influenza della folla e che perdeva la sua capacità di giudizio razionale prima del dilagare di un travolgente contagio emotivo. Invece, i sociologi ora spiegano il comportamento della folla secondo gli stessi concetti sociologici che spiegano il comportamento dei gruppi sociali.

I sociologi hanno dimostrato con ricerche che il comportamento nelle folle è molto più consapevole, razionale e socialmente organizzato di quanto Le Bon credesse. Non solo questo, hanno ampliato il campo e hanno coniato il nuovo termine “comportamento collettivo” per includere sommossa, panico e mania, voci, pubblico, movimenti pubblici e di massa (sociali), insieme alla folla.

Molte teorie sono state proposte da vari psicologi e sociologi per spiegare perché la folla si comporta in un modo particolare. Quello che è importante sottolineare, è che il comportamento della folla è sempre determinato emotivamente.

Le cose che accomunano tutte le persone sono emozioni così fondamentali come paura, rabbia e collera. Con queste emozioni in comune, le folle si formano, interagiscono e agiscono.

Nella folla il tono emotivo è accentuato dai suggerimenti dei leader, dall’uso di simboli verbali e di altri simboli, dai gesti eccitati dei membri della folla e da altre circostanze dell’occasione. Sulla base di queste caratteristiche emotive, la folla è facilmente guidata. Nella folla, le facoltà per lo più critiche restano in sospeso. Gli individui accettano come vere le dichiarazioni più improbabili.

Sulla base di queste notizioni, capiamo come diventa facile spiegare anche il fenomeno delle dittature.

Adolf Hitler per esempio, nel suo Mein Kampf parla della propaganda efficace: “.. i suoi effetti devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla cosiddetta ragione. …la prudenza di evitare qualsiasi presupposto spiritualmente troppo elevato non sarà mai abbastanza grande. (…) La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre, e grande la sua smemoratezza. Da ciò ne segue che una propaganda efficace deve limitarsi a pochissimi punti, ma questi deve poi ribatterli continuamente, finché anche i più infelici siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi”.

In Italia allo stesso modo, Mussolini prese il potere e fece della sua oratoria lo strumento principale di manipolazione delle masse. Mussolini giudicava le masse come “stupide e pigre” e il suo compito era quello di supportarle ma anche di punirle. Mussolini, nei suoi discorsi al popolo, utilizzava un linguaggio molto semplice, con parole chiave e regalava forti immagini visive, parlando spesso dal suo balcone a Palazzo Venezia. Mussolini aveva letto il libro di Le Bon più volte, e utilizzava le tecniche del pensatore francese mentre parlava alla folla. Per esempio, invitava il popolo a rispondere alle sue domande e creava nella folla sentimenti di patriottismo in cui le emozioni venivano risvegliate e si diffondevano tra i vari componenti.

Da allora le folle sono diventate oggetto di studio di varie scienze. Oggi gli studi di psicologi e sociologi si concentrano sulla manipolazione mediatica e sui cambiamenti che il web ha determinato nella manipolazione della comunicazione.

 

C’è differenza tra un qualunque sistema familiare e la comunità ebraica ortodossa descritta in “Unorthodox”?

Il percorso della protagonista di Unorthodox prevede uno svincolo dalla mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé.

 

Il presente articolo, riprendendo riassuntivamente la descrizione della comunità ebraica ortodossa della serie Unorthodox, ricalca le similitudini nelle caratteristiche e nel processo di svincolo che intercorrono in questo tipo di comunità e in un qualsiasi altro sistema familiare, attraverso la citazione degli autori sistemici – relazionali Murray Bowen e Salvador Minuchin.

Una delle ultime serie prodotte da Netflix ha il titolo di Unorthodox ed è basata sull’autobiografia di Deborah Feldman. La regia si sofferma sulla descrizione di alcune delle usanze tipiche nella comunità ebrea ortodossa a New York.

Da quel che si evince attraverso il telefilm, questa comunità è come se fosse una grande famiglia dove tutti i componenti sono indifferenziati gli uni dagli altri, riprendendo Bowen, autore d’impronta sistemica – relazionale del libro Dalla famiglia all’individuo.

È interessante la descrizione di passaggi della storia della coppia nella comunità, a partire dalla scelta del partner fino al matrimonio e al concepimento dei figli. Già dalla scelta del coniuge la decisione diventa di tutta la famiglia: la madre del ragazzo deve approvare la nuora prima che diventi tale; la cerimonia matrimoniale coinvolge tutti i membri della comunità nelle diverse fasi; gli stessi rapporti sessuali non godono di libertà di movimento, in quanto necessitano di seguire un protocollo che preservi l’autostima del marito e al contempo abbia unicamente l’obiettivo del concepimento, e non viene rispettata neanche la privacy, poiché tutti i familiari sono al corrente di quello che accade o accadrà nella stanza da letto.

L’indifferenziazione, intesa da Bowen come un’unica mente comune appartenente a tutti i membri della famiglia, è riscontrabile non solo nella storia della coppia, ma anche in valori, miti e pensieri di ogni componente della comunità ortodossa, poiché inequivocabili, accettati ed assorbiti da ognuno, tanto da soffocare i propri bisogni individuali.

La differenza tra una famiglia ortodossa e qualsiasi altra famiglia sembrerebbe quasi nulla se notiamo che in entrambi i casi il Sé si annulla per mantenere la stabilità della massa indifferenziata dell’Io familiare.

Anche nella storia della coppia sono riscontrabili caratteristiche simili a quelle di molte altre coppie, in quanto nella scelta del partner inconsciamente convergono motivazioni, credenze, ideali e aspettative che appartengono alla massa indifferenziata dell’Io familiare e che permettono di rispettare vincoli di lealtà con le relazioni nella famiglia d’origine; la cerimonia matrimoniale spesso vede la partecipazione attiva degli altri familiari che non siano la coppia stessa; infine capita che la stessa vita sessuale non venga vissuta liberamente, ma sempre in funzione delle convinzioni appartenenti alla massa indifferenziata dell’Io.

Il percorso della protagonista prevede uno svincolo da questa mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé e di rinunciare, dunque, al suo ruolo sacrificale, che permetteva la stabilità del sistema. Lo stesso processo di svincolo avviene per ogni individuo che si permette di affrontare l’adolescenza nella propria famiglia.

Ogni famiglia è caratterizzata da proprie convinzioni, valori, aspettative e vincoli di lealtà impliciti che legano i componenti in una rete difficile da districare ma non impossibile, seppure nel momento in cui si tira un filo, è imprevedibile il destino dei vari incastri. Allo stesso modo, nel momento in cui la protagonista della serie, o un qualunque adolescente, inizia lo svincolo dalla massa dell’Io indifferenziata, alla scoperta del proprio Sé, non sa cosa accadrà alle proprie relazioni familiari. Alcune famiglie accetteranno a piccoli passi questo processo, mentre altre, con confini più rigidi, come le descriverebbe Minuchin in Famiglie e terapia della famiglia, non riusciranno ad accettarlo e l’individuo rischierà di essere espulso, al fine di mantenere l’omeostasi del sistema. La comunità descritta in Unorthodox sembra essere una grande famiglia con confini rigidi.

Pertanto, la comunità ortodossa non è poi tanto diversa da molte altre famiglie o comunità,che fondano la propria stabilità e continuità su credenze, usanze, valori e vincoli di lealtà impliciti o espliciti, chiedendo ai membri di sacrificare il proprio Sé, e di conseguenza i propri bisogni, al fine di non incorrere in un imprevedibile cambiamento.

 

Il ruolo dell’immaginazione motoria nei processi di apprendimento

Grazie all’immaginazione motoria, dall’inglese “motor imagery”, l’atleta riesce a rappresentarsi mentalmente un movimento senza implementare una risposta motoria. La motor imagery può essere suddivisa in visual imagery e kinaesthetic imagery.

 

L’immaginazione motoria dall’inglese “motor imagery” consiste dal punto di vista dell’atleta di formare una rappresentazione di un movimento senza implementare una risposta motoria. Oggetto di studio e di approfondimento sono state in particolare le varie articolazioni di questo costrutto nel campo dell’apprendimento e del perfezionamento di un atto motorio. La motor imagery (MI) infatti può essere suddivisa, così emerge dalla letteratura, in visual imagery e kinaesthetic imagery.

La prima riguarda la composizione all’interno dell’encefalo, di un’immagine di un gesto motorio che sintetizza gli aspetti visivi della percezione (forma, colore, dimensione, posizione nello spazio, coordinate durante il movimento), la seconda invece riguarda la costituzione di una rappresentazione non visiva sintetizzando aspetti propriocettivi, tattili, viscerali (es. temperatura corporea, battiti cardiaci, sensazione di pesantezza o leggerezza di un arto, contrazione muscolare). Se si va ad indagare e a scavare in profondità, si può notare come i processi di immaginazione così distinti non seguano due vie neuronali completamente svincolate tra loro. E’ vero che nel caso della visual imagery vi è un coinvolgimento maggiore delle aree occipitali e nella kinaesthetic imagery delle aree somatosensoriali, ma diversi studi hanno dimostrato la compresenza di questi due processi in un network in comune. In particolar modo si fa riferimento alla corteccia supplementare motoria e alla corteccia pre-frontale. Questo significa che diverse modalità di rappresentazione di un atto motorio condividono dei network in comune.

Tale risultato è stato il punto di partenza per un’altra serie di ricerche che hanno indagato sulla comparazione tra i meccanismi neuro-fisiologici coinvolti nella MI e su quelli coinvolti durante l’osservazione di un atto motorio. Da queste ricerche emerge come osservazione e immaginazione di un atto motorio coinvolgano aree pressoché sovrapponibili. Questi dati hanno potenzialmente un valore importante per chi si occupa di apprendimento, se si assume poi, come si deduce dalla teoria piagetiana che la base di tutti gli apprendimenti è di natura motoria. Non si può prescindere, quindi, dalla conoscenza delle tappe dello sviluppo dell’immaginazione motoria se si vuole parlare di apprendimento cioè di come utilizzare questo costrutto in maniera fruttifera.

In particolare Mizuguchi (2016) ha perfezionato uno strumento di facile somministrazione nella scuola elementare per i processi di immaginazione motoria nella prima infanzia e in adolescenza. Tale studio prevedeva che alcuni bambini delle scuole elementari dovessero osservare delle immagini ritraenti alcune mani secondo diversi orientamenti (dorsale, palmare) e secondo diverse angolazioni (0°,90°,180°), e in un secondo momento dichiarare se l’immagine ritraeva una mano destra o una mano sinistra. Tale compito, come ha spiegato il ricercatore, presuppone abilità di rotazione mentale di oggetti e quindi la costituzione di veri e propri tracciati del percorso effettuato dalla mano nello spostamento. I risultati hanno dimostrato che prima degli 8 anni di età i bambini effettuavano molti più errori rispetto a quelli di 11 anni di età. Questa fase di pre-adolescenza sembrerebbe il crocevia per lo sviluppo di abilità di immaginazione motoria. L’abilità di immaginazione motoria segue una parabola discendente dopo i 60 anni di età e questo è supportato dalla vasta gamma di studi sull’effetto di accoppiamento bimanuale, in cui viene chiesto di eseguire un gesto con una mano e di immaginare di eseguire un gesto con l’altra mano in maniera sincronizzata, l’incapacità di eseguire il compito si traduce in un’interferenza dei meccanismi di immaginazione sui meccanismi di esecuzione. In particolare i bambini sviluppano precocemente abilità di visual imagery a dispetto della kineasthetic imagery. La seconda abilità immaginativa è strettamente correlata allo sviluppo del sistema limbico e quindi intorno ai 17 anni di età.

Tenendo conto di queste premesse lo studio dell’apprendimento e del perfezionamento di abilità di immaginazione motoria ha trovato terreno fertile soprattutto nel campo della psicologia dello sport. Nel settore sportivo riprendendo i concetti precedentemente esposti, la visual imagery, ovvero la visualizzazione di un atto motorio, è stata suddivisa in Visual Internal Imagery e in Visual External Imagery.

La visual internal imagery fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in prima persona, quindi l’atleta immagina/visualizza le parti del suo corpo muoversi come se avesse una telecamera sul capo, mantenendo quindi delle coordinate spaziali di tipo egocentrico. La visual external imagery invece fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in terza persona, quindi l’atleta immagina sé stesso da fuori nell’esecuzione di un atto motorio. Nel secondo caso quindi l’atleta è spettatore di sé stesso. Questa suddivisione è stata innovativa nel campo della ricerca in ambito sportivo, perché i risultati descrivono come gli atleti principianti (e spesso più giovani) siano inclini e più propensi ad utilizzare immagini in terza persona nelle fasi di apprendimento di un nuovo atto motorio e immagini in prima persona nella fase di perfezionamento o consolidamento di un atto motorio. Risultati che sono opposti a quelli dei professionisti che sembrano più concentrati sul “sentire” o percepire quelle sensazioni viscerali e tattili legate ad un atto motorio nelle fasi di apprendimento, quindi utilizzando immagini in prima persona, e viceversa sembrano utilizzare immagini motorie in terza persona nella fase di consolidamento o perfezionamento di un atto motorio. Questo significa che l’atleta più giovane è nelle fasi iniziali concentrato prevalentemente sugli aspetti ecologici dell’apprendimento, per poi familiarizzare e prendere consapevolezza dei cambiamenti personali che intercorrono mentre esegue un gesto. L’atleta professionista, data la vasta gamma di esperienze a cui ha preso parte, conosce alla perfezione il proprio corpo e le sue reazioni e ha imparato a spostare il focus prima su sé stesso nelle fasi di apprendimento, per migliorare la prestazione del gesto singolo, e poi a concentrarsi sugli aspetti ecologici che prevedono l’articolazione dei vari gesti in relazione allo spostamento dell’avversario e/o compagni di squadra.

Sulla base di questi risultati Holmes e Collins (2007) hanno sviluppato il modello PETTLEP per progettare un allenamento basato sull’immaginazione motoria. L’acronimo PETTLEP si riferisce ad alcune caratteristiche che un un allenamento basato sull’immaginazione motoria dovrebbe avere ovvero:

  • Fisica: l’immagine è più efficace quando include tutti i sensi che sarebbero coinvolti e le sensazioni cinestetiche che potrebbero essere vissute durante le prestazioni effettive.
  • Ambientale: è importante che l’ambiente in cui si svolge il processo di immaginazione sia simile all’ambiente reale di esecuzione.
  • Attività: l’attività immaginata deve essere strettamente correlata all’attività effettiva. I partecipanti dovrebbero essere incoraggiati a riportare verbalmente il coinvolgimento fisiologico e comportamentale.
  • Tempistica: l’equivalenza temporale tra movimento immaginato ed eseguito è importante, i tempi di immaginazione e i tempi di esecuzione dovrebbero essere simili per poter accedere alla stessa rappresentazione motoria durante l’immaginazione.
  • Apprendimento: il contenuto delle immagini deve essere adattato alla fase di apprendimento in cui si trova attualmente l’atleta. Per prima cosa quindi un esecutore non esperto dovrà pensare di più alla tecnica, ma nelle fasi successive dell’apprendimento potrà focalizzarsi maggiormente sulla “sensazione” del movimento.
  • Emozione: la persona dovrebbe provare e sperimentare le stesse emozioni associate alla performance, le risposte emotive del performer devono quindi essere incluse nelle immagini.
  • Prospettiva: le immagini in prima persona, soprattutto nelle fasi iniziali, sono preferibili perché sono più simili a ciò che l’atleta vede quando esegue il movimento.

Tale training, se supportato dalla pratica fisica e dall’osservazione costante, rende l’allenamento completo perché va a stimolare tutte le componenti coinvolte in qualsiasi performance sportiva: Immaginazione, Osservazione, Esecuzione.

L’immaginazione motoria consente quindi di apprendere nuovi atti motori e di perfezionare quelli precedentemente appresi ed è alla base della creatività, cioè di quella capacità di formare e combinare rappresentazioni diverse di uno stesso gesto.

 

Disturbo bipolare: i benefici di una buona alleanza di lavoro

Nonostante il trattamento, molti pazienti affetti da disturbo bipolare soffrono di una compromissione del funzionamento e di una diminuzione della qualità della vita. Una buona collaborazione tra paziente e figure professionali potrebbe certamente influenzare positivamente gli esiti del trattamento.

 

Il disturbo bipolare è un disturbo cronico dell’umore, caratterizzato da ricorrenti episodi depressivi e maniacali o ipomaniacali (AAI, 2000). La prevalenza a vita per questo tipo di disturbo va dall’ 1.5% al 2.4% (De Graaf, Ten Have, Van Gool,& Van Dorsselaer, 2011), comportando un funzionamento marcatamente alterato ed una diminuzione della qualità della vita. Inoltre, i pazienti considerano i sintomi depressivi più pesanti e debilitanti rispetto a quelli maniacali (IsHak et al., 2012).

Nello specifico, è stato sviluppato un programma di assistenza collaborativa (Collaborative Care Program) per questa tipologia di pazienti, il quale pone una forte enfasi sulla qualità dell’alleanza di lavoro. Le ricerche sugli effetti dell’alleanza di lavoro, tra professionista della salute mentale e pazienti con disturbo bipolare, sugli esiti dei trattamenti è limitata, sebbene rivelino che una buona alleanza si associa ad una diminuzione del tempo trascorso nella fase depressiva (Gaudiano & Miller, 2006), ad una diminuzione dei pensieri suicidari (Ilgen et al., 2009) e ad una migliore aderenza al trattamento (Perrone et al., 2009). Pertanto, questo studio si focalizza sui benefici dell’alleanza di lavoro terapeutico e su quali aspetti del terapeuta contribuiscono positivamente o negativamente al recupero da un episodio depressivo.

I partecipanti alla ricerca sono stati reclutanti per mezzo di dati LCM (Life Chart Method) raccolti dagli esaminatori attraverso i colloqui telefonici. Esso è uno strumento di autovalutazione per pazienti con disturbo bipolare, che si propone di indagare la gravità dei sintomi. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: presenza di mania o depressione molto grave, un decorso stabile della malattia nell’ultimo anno, non in grado o disposto a dare il consenso informato.

Tutti i pazienti ritenuti idonei (N=18) sono stati invitati, a loro volta, a partecipare allo studio attuale. Di questi, quattro hanno interrotto il colloquio e non hanno completato la ricerca. A questo punto, a ciascun partecipante è stata somministrata un’intervista semi-strutturata basata su una lista di temi fondamentali. L’intervista è iniziata, in primo luogo, con la raccolta delle caratteristiche di background e della malattia; successivamente è stato valutato il quadro depressivo attuale, esplorando, in particolare, l’ultimo episodio depressivo sperimentato dal paziente, a partire dalla domanda: “Può dirmi di più su come ha vissuto quell’episodio?”; infine, è stato approfondito il tema dell’alleanza di lavoro con il terapeuta durante l’episodio depressivo. Nello specifico, gli argomenti si sono basati su due fonti: (1) gli items del Working Alliance Iventory Scale, basate sulle tre dimensioni di Bordin (obiettivi, compiti e legami), per misurare la qualità dell’alleanza (Horvath & Greenberg,1989), e (2) le caratteristiche tipiche dell’alleanza di lavoro secondo il programma Collaborative Care , come la natura specifica della collaborazione tra paziente e clinico, l’identificazione strutturata e la valutazione degli obiettivi del trattamento.

Il terapeuta di riferimento crea un “ambiente di accoglienza” (“Holding Environment” di Winnicott, 1965), è affidabile, presente, empatico, accoglie e accetta con atteggiamento non giudicante (Meyer, 1993; Winnicott, 1965). In questo modo egli permette al paziente di comprendere quanto sta accadendo nella sua vita, riducendone lo stato di confusione. Così facendo, inoltre, il paziente viene incoraggiato ad assumere un atteggiamento attivo nel processo di riabilitazione. Per costruire una buona e forte alleanza di lavoro, i pazienti devono sentire che il clinico si prende del tempo per conoscerli come persone, al di là della malattia (Kirsh & Tate,2006).

Inoltre, il programma di assistenza collaborativa (CC) sottolinea l’importanza di collaborare e di creare buone alleanze all’interno del team (Van der Voort et al., 2015).  Nello specifico, i pazienti dello studio hanno confermato i principali elementi del programma CC, in relazione all’alleanza di lavoro: gli sforzi attivi del terapeuta di adattare il trattamento alle esigenze del paziente, la posizione del clinico come responsabile dell’assistenza, del suo coordinamento e della sua continuità, ma al contempo a disposizione del paziente. Uno dei moduli di intervento più apprezzato del programma CC, da parte dei pazienti dello studio, è quello relativo al problem solving: operatore e paziente hanno l’opportunità di collaborare alla soluzione di problemi personali, stimolando il ritrovamento del senso di controllo e, al contempo, promuovendo una buona alleanza di lavoro.

In conclusione, i risultati rivelano che i temi fondamentali che hanno caratterizzato il supporto che gli operatori della salute mentale hanno offerto ai pazienti durante la convalescenza sono: la creazione di un ambiente sicuro e di supporto e il fornire chiarimenti circa il disturbo.

 

Stravolti da webinar, videocall, videolezioni e aperitivi telematici? Ecco qui la Zoom Fatigue e come porvi rimedio

Durante le videocall il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale. Questo è uno dei fattori che contribuiscono alla cosiddetta Zoom Fatigue.

 

La pandemia che ci ha colpito ha mutato radicalmente le nostre abitudini e senz’altro abbiamo trovato molto confortante che la tecnologia ci permettesse di mantenere un legame con chi non potevamo più abbracciare.

Anche la scuola si è trasferita online, così come le riunioni, i colloqui di lavoro, le sessioni di laurea e anche gli aperitivi o le cene tra fidanzati sono diventati telematici.

Abbiamo cercato di tenerci compagnia con video divertenti ed emozionanti, rilanciato post, abbiamo approfittato di questo tempo sospeso per aggiornarci mediante webinar o per trovare forme innovative per le nostre professioni e attività.

E qualcuno di noi si è anche perso nei meandri di videogiochi, scommesse online, shopping senza limite, alla ricerca compulsiva di contatto virtuale, dell’anima gemella o di sesso online: un mondo dei balocchi di cui troverà purtroppo il conto da pagare all’uscita. Ma forse non saranno gli unici.

Tutti noi abbiamo aumentato esponenzialmente il nostro tempo di connessione per svago, per fuga, per studio, per lavoro. E forse mai come prima, abbiamo la possibilità oggi di sentire sulla nostra pelle ciò di cui molti autori, rimasti nell’ombra fino a poco tempo fa, ci avvisavano: internet e lo smartphone hanno anche pesanti effetti collaterali.

Sapevamo già dalle ricerche riportate da Jean Twenge (2018) che l’attività a schermo prolungata oltre le due ore quotidiane correla con aumenti significativi di percezione di infelicità, solitudine, depressione e, addirittura, ideazioni suicidali nelle nostre ultime generazioni (Millennial e iGen) e, dalla lettura dei libri di Manfred Spitzer (2015, 2018, 2019), trasalivamo nel costatare che la presenza continua dello smartphone incide davvero su attenzione, memoria, sicurezza stradale, capacità di lettura e calcolo, sonno, salute, stati ansiosi e depressivi.

Così come era chiaro, a chiunque si permettesse di osservarsi, che lo smartphone è diventato il nostro migliore amico, cui diamo da mangiare, per il quale ci preoccupiamo quando sta per morire, che vestiamo con protezioni colorate o glitterate quasi fosse un cucciolo: un oggetto ormai animato che condivide tutto il tempo con noi, veglia su di noi di notte, il primo ad essere guardato al mattino e a cui affidiamo sempre più la nostra memoria e possibilità di controllo degli altri (Valorzi e Berti, 2019).

Ma mai come adesso abbiamo anche la possibilità di sentire quanto possano essere stancanti e/o invasive le videocall, tanto che ricercatori e stampa internazionale stanno già parlando di Zoom Fatigue.

Ma perché ne usciamo così a pezzi?

Intanto, perché il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale.

Così come innaturale è essere deprivati di tutta una serie di comunicazioni non verbali che in presenza avvengono in modo automatico e che ora possiamo solo provare a ricostruire (faticosamente). Sempre che almeno si possano notare le espressioni sottili del viso che, visto la qualità della connessione, spesso si freezano, si quadrettano, si offuscano.

L’attenzione alle parole deve rimanere altissima e altissimo è il rischio di “perdere” l’altro o di essere interrotti anche solo perché la carica di un device è insufficiente o perché c’è una chiamata altrui in entrata.

Lo sguardo è continuo, sebbene disallineato (chi mai guarda solo l’obiettivo e non lo schermo?), perché guardare lo schermo sembra essere il modo con cui comunichiamo silenziosamente la nostra attenzione a chi sta parlando (i microfoni si attivano solo all’occorrenza e non per sussurrare un empatico “mhmm”) e il viso dell’altro appare a una distanza (reale) dai nostri occhi che mai terremo dal vivo (troppo vicini).

Dato non da poco: avete notato come si abbia la sensazione di essere guardati da tutti? Un po’ come nei peggiori incubi dei ragazzi che a scuola soffrono di ansia sociale immaginando che tutti (anche i compagni delle file dietro e davanti) li stiano guardando con aria giudicante.

Sì, giudicante, perché sembra che quando il piccolo ritardo nel suono, dovuto al mezzo imperfetto, supera i 1200 ms (Schoenenberg, Raake, Koeppe, 2014) aumenti la sensazione di avere un interlocutore meno amichevole. Come parlare dal vivo con qualcuno che ha un viso tirato e che lascia scorrere il tempo prima di esprimersi lasciandoci il tempo di pensare “Oddio, avrò detto una cosa intelligente?”. Innaturale.

Non parliamo del fatto che la nostra attenzione, già messa a dura prova dall’attrazione del guardare gli scorci delle abitazioni di ogni partecipante, si trova spesso nella tentazione di osservare e controllare la nostra stessa immagine nel riquadro anziché rimanere in quel flusso comunicativo, nel ballo del dialogo sintonizzato.

Le emozioni sono più faticose da lasciar emergere (i nostri neuroni specchio funzionano meglio a distanza reale ravvicinata) e non possiamo neppure fare un commento simpatico al nostro virtuale compagno di banco, fosse anche solo per chiedergli di ripeterci l’ultima parola che ci è sfuggita.

Ecco, avessimo avuto bisogno di capire quanto la comunicazione tecnologicamemte mediata possa incidere sulla nostra mente e sul nostro corpo, ora non possiamo non notarlo.

Eppure siamo qui e l’alternativa è non poter comunicare (o lavorare) o farlo a distanza con la mascherina. Niente di molto attraente.

Così, come le scimmiette di Harlow (1958) dovevano accontentarsi di una madre di stoffa piuttosto di quella di freddo metallo per non cadere nella depressione anaclitica osservata nei bambini degli orfanotrofi di Spitz (1965), dobbiamo accontentarci di questo in assenza di una madre di carne e ossa.

Cosa possiamo fare allora per non soffrire massicciamente di questa alterazione (speriamo meno prolungata possibile) di piano comunicativo, visto che nel nostro DNA è inciso i nostro bisogno di contatto?

  • Intanto possiamo già lasciare spazio al desiderio di ricongiungimento reale e non confonderci illudendoci che sia la stessa cosa.
  • Potremmo anche comunicare che non è necessario avere sempre la videocamera accesa, anzi, senza possiamo concentrarci meglio sui contenuti che possono piuttosto essere proposti in slide che tutti potremmo guardare senza distrazioni.
  • Possiamo ridurre le videocall a quelle davvero necessarie alla nostra operatività e al nostro cuore che sente tanto nostalgia senza avere alternative.
  • Lasciarci spazio per muoverci, bere dell’acqua, dare acqua alle piante (giusto per ricordarci che anche noi facciamo parte della natura) durante pause più ravvicinate, e sottolineare che stiamo tutti facendo uno sforzo importante e che ci meriteremo poi una attività piacevole (noi psicoterapeuti potremmo consigliare anche una visualizzazione compassionevole o di un luogo sicuro, ma ci starebbe bene anche una bella canzone o un abbraccio forte alla persona con cui conviviamo).
  • Possiamo declinare gentilmente gli inviti alle videoconferenze non preventivamente concordate e invadenti della privacy ricordando che sarebbe più sano non esporsi al sovraffaticamento e che una telefonata in cui si cammina sembra attivare più facilmente la creatività.

Il fatto che abbiamo tutti scoperto che ci si può anche “incontrare” su Zoom, su Skype, WhatsApp o FeceTime in condizione di crisi non vuol dire che dovremmo tenerlo come abitudine quando potremo finalmente uscire.

 

La perdita ambigua, l’impatto sul sistema familiare e il legame con il Covid-19

É andato via per sempre? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni. La perdita ambigua ai tempi del Covid-19.

 

Da sempre gli esseri umani hanno mostrato la necessità psicologica di sancire in qualche modo la definitiva perdita di una persona cara, arrivando così a creare forme ritualistiche di diversa natura attraverso cui comunicare, a sé stessi e agli altri, che il cambiamento (la perdita) è immutabile. Queste forme di comunicazione sociale non determinano solamente l’ufficialità della morte e la perdita, ma permettono ai sopravvissuti di avviarsi verso il doloroso, ma naturale, processo di elaborazione del lutto, alla fine del quale l’individuo si scoprirà riorganizzato nella sue funzioni psicologiche, cognitive ed emotive e in grado di muoversi ancora all’interno del mondo, pur in assenza della persona cara (Boss, 2009).

Vi sono però delle situazioni in cui la messa in atto dei classici rituali di passaggio non è possibile. Sono quei casi in cui la perdita della persona cara non può essere dichiarata con certezza o in modo chiaro e definito. In questa categoria rientrano i rapimenti, i dispersi di guerra, le morti senza corpo, ma anche tutti coloro che pur essendo presenti fisicamente sono estremamente distanti cognitivamente ed emotivamente. Ecco quindi che i confini della perdita si fanno sfuocati e confusi e la perdita diventa ambigua.

La teoria della perdita ambigua compare in letteratura grazie ai lavori di Pauline Boss, e viene descritta come una perdita sfuggente, confusa, non chiara, in qualche modo sospesa nel tempo e nello spazio (Boss, 1999).

Essere in presenza di un perdita ambigua, secondo Boss (1999), congela il processo di elaborazione del dolore, impedisce la riflessione cognitiva e quindi le strategie di coping adattive, arrivando a configurare la perdita come traumatica, proprio a causa dell’incertezza che la circonda. È questa incertezza che, secondo l’autrice, alimenta nell’individuo una posizione ambivalente e contraddittoria, destinata per sua natura ad essere irrisolvibile. In tale senso, non è solo l’ambiguità a diventare la fonte di stress traumatica, ma anche l’angoscia derivante dalla conseguente costante ricerca di coerenza. É andato via per sempre o solo per un po’? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni, così da poter fronteggiare l’assenza e ridefinire il proprio ruolo.

Nella teoria della perdita ambigua Boss (1999) individua due tipi di perdite: la presenza fisica della persona che risulta psicologicamente assente (good-bye without leaving) e la presenza psicologica della persona fisicamente assente (leaving without good-bye). Se nel primo tipo di perdita la persona è presente fisicamente, ma il suo stato cognitivo le impedisce di partecipare pienamente alle dinamiche familiari e di mantenere il ruolo che ha sempre ricoperto, nel secondo caso la persona pur essendo fisicamente assente, continua ad avere, su familiari e amici, un’influenza psicologica così importante da renderla al medesimo tempo viva e presente.

Colpisce come all’interno del contesto della pandemia da Covid-19 si possano spesso trovare entrambi i tipi di perdite, addirittura in modo consequenziale nei casi più gravi. Prima il ricovero, la separazione fisica e improvvisa della persona cara, che tuttavia rimane con noi, con i suoi vestiti nell’armadio e il suo spazzolino accanto al nostro. Poi, a volte, il coma indotto, una mente assente all’interno di un corpo vivo a cui non possiamo avvicinarci per il nostro stesso bene. E, infine, nei casi più sfortunati, la morte, che viene comunicata, ma non può essere vista, toccata e vissuta nella camera mortuaria o al funerale. Solo una bara vista da lontano.

La perdita di una persona cara, tuttavia è un fattore che non colpisce solamente l’individuo sopravvissuto nella sua singolarità, ma anche l’intero sistema famigliare. Secondo la prospettiva sistemica la riorganizzazione del ciclo di vita famigliare non coinvolge solamente la famiglia nucleare, ma l’intero sistema in termini trigenerazionali. È questa infatti la rete che costituisce le radici dell’individuo e, insieme agli amici, si caratterizza come risorsa di supporto importante di fronte alla perdita (Canevaro, 2005).

Ogni sistema possiede delle strategie, che si declinano in modo unico e singolare, che mette in atto per superare i compiti famigliari legati all’elaborazione del lutto. Idealmente per superare un lutto il sistema coinvolto dovrà in primo luogo riconoscere e accettare la morte, creare un luogo in cui poter comunicare emotivamente attorno alla perdita, rinunciare alla persona scomparsa, riadattare i ruoli familiari ed extrafamiliari, per giungere infine alla riaffermazione del senso di appartenenza al nuovo sistema familiare con l’ingresso in una nuova fase del ciclo di vita (Godlberg, 1973; Pereira, 1998).

Le strategie di coping che ciascun individuo possiede e che apprende nel corso dell’infanzia, intuendo ciò che può essere apertamente discusso o meno e quali stati emotivi siano accettabili (Betz e Thorngren, 2006), interagiscono con la rete costituita dai membri del sistema, in un gioco di relazioni che si evolve e viene trasmesso all’interno della storia transgenerazionale familiare (Moos, 1995). Il dolore legato alla perdita tocca le strategie legate all’attaccamento di ognuno, l’identità di ogni membro, la stabilità emotiva e relazionale, i ruoli sociali e familiari. Il sistema dovrà quindi mettere in campo modalità orientate alla ridefinizione dell’identità familiare e dei ruoli dei suoi membri, trovando un significato condiviso rispetto a quanto accaduto (Rycroft e Perlesz, 2001).

Di fronte a una perdita ambigua, però, la famiglia si trova a vivere uno stato di immobilità e incapacità di andare avanti a causa della specificità della situazione e dell’impossibilità di attribuirle un significato. I fattori che nel caso di un lutto sostengono la famiglia nel processo di elaborazione, vengono in questo caso a mancare, rendendo il processo maggiormente complesso.

Rifacendosi ai due tipi di perdite ambigue individuate da Boss (1999), gli elementi che sembrano impedire e bloccare il normale, per quanto doloroso, processo del lutto sono l’assenza di pratiche che sanciscono la perdita anche in caso di incertezza e parzialità (demenze, traumi e lesioni cerebrali, coma) e la mancanza fisica della persona e i dubbi rispetto al suo destino (è morta davvero?). Ecco quindi che l’incertezza e la sospensione della morte alimentano il senso di solitudine, di impotenza e di stallo di chi invece resta, conducendo alla cristallizzazione delle dinamiche e delle relazioni interne impedendo alla famiglia e all’individuo di evolversi e di riadattarsi.

I cambiamenti che hanno coinvolto i rituali attorno alla morte nel corso della pandemia da Covid-19 (Moore, Tulloch, Ripoll, 2020), si traducono così in un dispiacere senza diritti, in cui la mancanza di riconoscimento e condivisione sociale e culturale compromettono le risorse che supportano il processo del lutto (Zhai, Du, 2020). La narrazione interna si blocca e il lutto diventa traumatico, segnando come una ferita che continua a sanguinare la storia intrapsichica dell’individuo e quella transgenerazionale del nucleo famigliare (Paul e Grosser ,1965).

La situazione presente diventa quindi un’occasione, nel qui ed ora, per riflettere sul tipo di sostegno che il professionista della salute può e deve offrire a chi si sta confrontando (o si è confrontato) con una perdita ambigua. In una società occidentale sempre alla ricerca di risposte rapide, definite e coerenti, la perdita ambigua rappresenta la prova evidente del fatto che non tutto è controllabile e definibile in modo chiaro e preciso.

Le persone, tuttavia, hanno bisogno di un po’ di padronanza e controllo sulla propria vita. Il trucco è bilanciare la necessità di controllo con l’accettazione di una perdita irrisolvibile. Accettiamo l’ambiguità perché non c’è nient’altro che possiamo fare. Riconosciamo che il mondo non è sempre giusto, che le cose non vanno sempre come desideriamo e che possiamo esternare la colpa, additando l’ambiguità come la responsabile della nostra sofferenza. Facciamo scelte e decisioni ove possibile e troviamo aspetti che possiamo controllare, come la ricostruzione dei legami famigliari e la condivisione emotiva della perdita (Boss, 1999, 2010).

Per potersi spostare verso la speranza e i bei ricordi, quindi, è necessario che il sistema famigliare integri l’esperienza vissuta nella propria storia, modificando il significato che i suoi membri attribuiscono alla perdita ambigua.

 

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