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Rischi della sindrome da burnout nei marittimi della marina mercantile

La popolazione dei marittimi, in particolar modo degli ufficiali di marina mercantile, è una delle più esposte allo sviluppo della sindrome da burnout.

 

La sindrome da burnout viene definita come un complesso fenomeno psico-fisiologico, caratterizzato da esaurimento fisico, emotivo e psicologico, causato da stress emotivo prolungato. I sintomi principali sono cinismo, depersonalizzazione, diminuzione dell’entusiasmo e del senso di efficacia in ambito lavorativo, distacco dal proprio lavoro. Inoltre il burnout viene considerato come una reazione soggettiva allo stress correlato al lavoro, con lo scopo di adattarsi o proteggere sé stesso (Oldenburg, M., Jensen,  H. J., Wegner R., 2013). Pertanto, la persona è incline a sviluppare il burnout se presenta un estremo coinvolgimento emotivo nel lavoro e non ha adeguate strategie di coping.

La condizione lavorativa degli ufficiali di marina mercantile, è già di per sé fonte di stress, la stessa International Maritime Health Association ha stabilito che “la professione di marittimi è una delle più impegnative fisicamente ed emotivamente, e viene svolta in uno degli ambienti più pericolosi, il mare.”

I maggiori fattori di rischio sono stati descritti nelle “Linee guida per l’assistenza mentale sulle Navi Mercantili” e comprendono:

  • Solitudine e separazione dalla famiglia: numerose ricerche, anche non relative all’ambito marittimo, sottolineano come il supporto sociale rappresenti uno dei fattori protettivi principali, soprattutto quando il soggetto si trova ad affrontare un evento stressante. La separazione dalla propria famiglia non avviene solo fisicamente, ma è accentuata anche dall’impossibilità o dalla difficoltà di comunicare quotidianamente con i propri cari. In Australia, nello Stato del Victoria, è stato osservato che una delle prime cose che i marittimi fanno quando è concesso loro il congedo a terra, è raggiungere uno dei centri marittimi, provvisti di numerosi computer, che di solito usano per contattare e comunicare con le famiglia, ad esempio attraverso Skype (Robert T.B.I., 2012). Pertanto il supporto sociale è un importante mediatore che può svolgere un “effetto tampone” rispetto allo sviluppo di sintomi legati al burnout, aumentando anche i livelli della Qualità di Vita (QoL) (Xiao, J. et al., 2017).
  • Stress: “Guidelines for Mental Care Onboard Merchant Ships”, l’opuscolo stilato dall’International Committee on Seafarers’ Welfare, dedica un capitolo intero ai problemi di stress legati ai marittimi, ed elenca i seguenti sintomi: insonnia, perdita di concentrazione, ansia, abuso di sostanze, estrema rabbia e frustrazione, problemi familiari, insorgenza di malattie croniche cardiovascolari. A tal proposito sono state individuate 6 aree legate allo stress lavorativo a bordo: il tipo di richieste legate al lavoro, il livello di controllo che i marittimi hanno sul loro lavoro, il supporto ricevuto dai colleghi e dal management, le relazioni lavorative, il ruolo del marittimo all’interno dell’organizzazione, il cambiamento e come questo viene gestito.
  • Per quanto riguarda le richieste legate al lavoro, uno dei problemi principali è l’accumulo delle mansioni durante i soggiorni in porto, soprattutto se tra un porto e l’altro vi sono poche ore di navigazione e quindi poco tempo per il disbrigo delle pratiche legate alla dogana, la pianificazione delle rotte, il monitoraggio delle operazioni di carico/scarico merce. A tutto ciò si aggiunge lo svolgimento dei quotidiani compiti lavorativi, come il monitoraggio del traffico marittimo. La varietà di questi compiti richiede grande responsabilità e alti livelli di organizzazione del lavoro, tuttavia ciò può portare gli ufficiali a percepire maggiormente lo stress, il quale a sua volta influirà in maniera bidirezionale sul processo decisionale del soggetto, in particolar modo sulla sua capacità di prendere decisioni chiare e lucide, in un momento di emergenza e forte stress. Pertanto lo stress può contribuire all’insorgenza del burnout, riducendo il mantenimento di adeguati livelli di allerta e performance, prerequisiti fondamentali per la sicurezza della nave.
  • Talvolta, la mole di lavoro influisce inevitabilmente sul tempo dedicato al sonno, che negli ufficiali della Marina Mercantile risulta essere notevolmente ridotto, esponendo i soggetti ad un disturbo del sonno frammentato e lo sviluppo di un profilo non-dippers. Ciò, oltre ad un calo cognitivo prestazionale dovuto al mancato assolvimento della funzione ristorativa del sonno, può esporre a rischi cardiovascolari, sindromi metaboliche e diabete (Andruskiene , J., Barseviciene, S., Varoneckas, G.,  2016).
  • Per quanto concerne le relazioni lavorative, queste sono perlopiù caratterizzate da un sistema gerarchico e multiculturale. La ricerca di M. Oldenburg et al. (2013) ha evidenziato come il rischio di burnout negli ufficiali fosse correlato a mancate abilità di leadership e comunicazione da parte dei superiori. Per questo motivo, al fine di prevenire il burnout negli ufficiali, sarebbe utile istituire programmi educativi per implementare le abilità comunicative e di leadership, combinati anche ad esercizi di role-playing.
  • Criminalizzazione e pirateria: per criminalizzazione dei marittimi si intende il trattamento degli incidenti marittimi, soprattutto quelli relativi all’inquinamento da idrocarburi, come dei veri e propri crimini. E’ un termine usato anche per descrivere la negazione dei diritti procedurali e umani nel perseguimento di tali incidenti. Talvolta questi marittimi, perseguiti penalmente, sono detenuti a tempo indeterminato all’interno del Paese in cui è stato commesso il reato, senza un’adeguata assistenza legale e la possibilità di ritornare in patria. Tutto ciò ha degli effetti negativi sulla salute degli ufficiali, inducendo quest’ultimi a rinunciare alla carriera marittima (Robert T.B.I., 2012).
  • Altre possibili cause elencate sono la mancanza di congedo a terra, i brevi tempi di sosta della nave in porto e le norme di sicurezza sul lavoro.

Prevenire e valutare il burnout è un aspetto fondamentale, in quanto i soggetti potrebbero non possedere le strategie di coping adeguate e mettere in atto comportamenti a rischio come l’abuso di alcol, droghe o sviluppare altri disturbi internalizzanti quali la depressione. A tal proposito Kemalova & Nikonorova (2019) hanno proposto un training per la prevenzione del burnout professionale nei marittimi, con lo scopo di insegnare le principali abilità di coping e di autoregolazione emotiva. Il training è composto da 20 ore e si articola in 4 moduli:

  • Definizione del concetto di burnout professionale.
  • Identificazione ed analisi delle principali cause del burnout.
  • Analisi del concetto di readiness come mezzo di prevenzione del burnout e formazione riguardo le principali tecniche e metodi per fronteggiare lo stress.
  • Analisi dei fattori relativi al meso e micro sistema, al fine di prevenire il burnout. Per quando riguarda il microsistema si fa riferimento alle caratteristiche di personalità, livelli di comunicazione, strategie di coping, livelli di autoregolazione emotiva, mentre il mesosistema comprende gli insufficienti incentivi morali e materiali, stress fisico ed emotivo, organizzazione e condizioni di lavoro, qualità delle relazioni interpersonali nel team.

Sebbene non riguardi direttamente il burnout, sono state proposte altre soluzioni utili per la prevenzione, ma soprattutto il riconoscimento dei disturbi mentali nei marittimi. Ad esempio l’International Committee on Seafarers Welfare (ICSW) ha prodotto degli opuscoli, ad esempio “Guidelines for the Mental Care of Seafarers on board Merchant Ships”. Quest’ultimo è composto da 12 illustrazioni umoristiche a cartone che riguardano i seguenti temi: rischi per i marittimi, stress, molestie e bullismo, ansia, depressione, pensieri e comportamenti dirompenti, dipendenza da alcol e droghe, salute mentale bordo, suggerimenti per la corretta attuazione di una campagna di assistenza mentale.

Un altro progetto interessante è stato creato dal Rotary Club di Melbourne, che ha proposto di stampare degli opuscoli, su un unico argomento, la depressione. Gli opuscoli sono stati distribuiti a più di 2000 navi che attraccarono nei porti dello Stato del Victoria, con lo scopo di aiutare i membri dell’equipaggio ad identificare i soggetti con depressione ed aiutarli. Ogni opuscolo, tradotto in inglese, cinese e russo, contiene una checklist per identificare una persona con depressione, delle linee guida su come poterla aiutare ed un numero di emergenza da contattare, operativo h24.

 

Perfezionismo e credenze disadattive contribuiscono al mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione?

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste è presente il Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione (Relationship Obssessive-Compulsive Disorder; RDOC) che si manifesta nel contesto delle relazioni intime.

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni, ossia pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e intrusivi, che l’individuo tenta di contrastare o neutralizzare attraverso le compulsioni, cioè comportamenti ripetitivi o rituali mentali. Le compulsioni servirebbero a prevenire o ridurre l’ansia, o le conseguenze indesiderate che accadrebbero se non si mettessero in atto tali rituali. La connessione tra la preoccupazione ossessiva e la compulsione tende ad essere irrealistica o illogica (American Psychiatric Association, 2013).

Il DOC si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste, è presente il disturbo ossessivo-compulsivo da relazione (relationship obssessive-compulsive disorder; RDOC), un’espressione del DOC in cui i sintomi si manifestano nel contesto delle relazioni intime (Doron, Derby, & Szepsenwol, 2014). In particolare, i sintomi possono essere orientati alla relazione (relationship-centered) o centrati sul partner (partner-focused). Queste due manifestazioni sintomatologiche di DOC possono coesistere e rinforzarsi a vicenda.

Nel ROCD centrato sulla relazione, la persona si interroga su quanto sia “giusta” la propria relazione e ha dubbi sui propri sentimenti verso il partner o viceversa, sui sentimenti del partner verso di sé (Doron, Derby, Szepsenwol, & Talmor, 2012a). Le compulsioni consistono nel monitorare continuamente i propri stati interni (“Lo amo davvero? Quanto sono realmente attratto?”), nel formulare pensieri neutralizzanti (es. immaginarsi felici insieme), nel cercare rassicurazioni o nel controllare ripetutamente la qualità della propria relazione (Doron & Derby, 2017; Doron, Derby, Szepsenwol, &Talmor, 2012b).

Nel DOC da relazione centrato sul partner invece, le ossessioni consistono in preoccupazioni eccessive rispetto a difetti percepiti nel proprio partner in vari ambiti: intelligenza, moralità, socievolezza e aspetto (Doron e colleghi, 2012a). Le compulsioni invece riguardano paragoni continui delle caratteristiche del proprio partner con quelle di altri ipotetici partner, controllare i comportamenti del partner o le sue capacità e analizzare ripetutamente le sue qualità e difetti.

Melli, Bulli, Doron e Carraresi (2018) hanno effettuato uno studio per verificare il contributo relativo di alcune credenze disadattive sul mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione. In particolare, gli autori hanno considerato gli effetti di credenze relative al DOC, del perfezionismo e di credenze riguardanti le relazioni, valutando separatamente gli effetti sui due sottotipi di DOC da relazione.

Lo studio ha coinvolto 124 partecipanti con diagnosi di RDOC, a cui è stata somministrata online una batteria di questionari. Tra questi vi sono: la versione italiana del Relationship Obsessive-Compulsive Inventory (ROCI; Melli e colleghi), per misurare la presenza di sintomi di RDOC orientato alle relazioni, e la versione italiana del Partner-Related Obsessive-Compulsive Symptoms Inventory (PROCSI; Melli e colleghi), per misurare i sintomi del RDOC centrato sul partner.

È stata somministrata la versione italiana della Frost Multidimensional Perfectionism Scale (FMPS; Lombardo, 2008), che misura sei aspetti del perfezionismo: 1) standard personali elevati, 2) preoccupazione per gli errori, 3) dubbi sulle azioni, 4) aspettative genitoriali elevate, 5) critiche genitoriali, 6) tendenza all’organizzazione e all’ordine.

Nella batteria di questionari è presente anche l’Obsessive Beliefs Questionnaire-20 (OBQ-20; versione italiana di Melli, Ghisi, Bottesi. & Sica, 2014), che misura credenze legate al DOC tra cui sovrastima della minaccia e della propria responsabilità, intolleranza all’incertezza e importanza dei pensieri e di riuscire a controllarli.

Infine, i partecipanti hanno risposto alla Relationship Catastrophization Scale (RECATS; Doron et al., 2016), che misura la sovrastima delle conseguenze negative di essere soli, di terminare una relazione e di trovarsi in una relazione sbagliata; e alla versione ridotta della Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS; Clara et al., 2001), che misura depressione, ansia e stress.

I risultati indicano che il perfezionismo, in particolare preoccuparsi continuamente dei propri errori e dubitare costantemente delle proprie azioni, sono fattori che contribuiscono a mantenere i sintomi del ROCD centrato sulle relazioni. Una persona con ROCD per esempio potrebbe interpretare un litigio non come un normale aspetto di una relazione, ma come un errore inaccettabile, un fallimento. Anche le credenze catastrofiche di essere in una relazione sbagliata o di rimanere soli risultano correlati al ROCD orientato alle relazioni. In questo caso, la persona da un lato si preoccupa continuamente di non stare con il partner giusto, dall’altro pensa che sarebbe terribile ritrovarsi sola. Di conseguenza, si sente intrappolata nella relazione.

La paura di essere nella relazione sbagliata risulta associata al ROCD focalizzato sul partner. In questo caso, la persona si chiede ossessivamente (oltre un normale dubbio) se il partner con cui sta sia davvero “l’amore della sua vita” o se non vi sia là fuori un partner migliore dell’attuale. Il timore è che ciascuna delle due opzioni possa portare a rimpianto.

Le credenze disadattive che accomunano il pensiero di chi soffre di DOC in generale invece sembrerebbero influire indirettamente sul ROCD, aumentando stress, ansia e depressione.

Sebbene questi risultati siano interessanti e utili a livello clinico, per poter trarre conclusioni più solide gli autori suggeriscono che i fattori predittivi di ROCD, orientato alle relazioni e centrato sul partner, vengano studiati attraverso studi longitudinali, con un criterio di inclusione dei pazienti diagnosticati con ROCD più rigido e con un gruppo di controllo di individui sani.

La ricerca sul ROCD è infatti necessaria per individuare i fattori specifici su cui agire a livello clinico quando si incontrano pazienti con DOC da relazioni.

 

Mascherine e un metro di distanza: che ricadute interpersonali?

Quali conseguenze avranno le misure di prevenzione adottate per contenere il Covid-19 sul modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e l’intimità? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Si capirà che sotto la mascherina c’è un sorriso?

 

In piena emergenza covid-19, soffriamo in modo assolutamente personale e soggettivo, per vari aspetti. Chi lamenta la costrizione, chi l’isolamento, chi la perdita di controllo, e così via. Anche le ricadute emotive sono diverse. Chi percepisce maggiormente l’ansia, chi la paura, chi la tristezza, ecc.. Una sera, durante una telefonata di conforto reciproco, un mio amico neurologo mi racconta del suo tallone d’Achille: “Se qualcuno voleva punirci, ha trovato il modo migliore costringendoci ad evitare il contatto fisico”. Soffriva all’idea di non poter abbracciare, baciare, accarezzare una persona cara nel momento in cui l’avrebbe rivista, magari dopo mesi.

Come non averci pensato? È così lampante.

Proprio quella mattina, infatti, osservavo con curiosità i comportamenti delle persone in fila al supermercato. Erano tutti distanti e in un silenzio quasi funereo. Alcune persone, pur riconoscendosi grazie alle piccole parti di volto scoperte, si erano salutate con un gesto timido, da lontano, senza scambiarsi alcuna parola. Mi son detta che va bene la prudenza e la distanza di un metro, ma qualcosina ce la possiamo ugualmente dire, no? Ho subito pensato alle conseguenze di tutto questo in futuro, al modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e, non in ultimo, l’intimità. Non dovremo abbracciarci per mantenere la famosa distanza di un metro. Potremo toccarci, ma avremo i guanti e questo impedirà di sentire per davvero la pelle dell’altro. Ci sorrideremo con la bocca coperta dalla mascherina. Si capirà che c’è un sorriso? Gli occhi saranno sufficienti per essere riconosciuti?

Per gli esseri umani, determinate azioni implicite della comunicazione non verbale attraversano un sistema di riconoscimento automatico e velocissimo che permette di comprendere lo stato interno dell’altro, le emozioni e le intenzioni. Questo sistema comprende i “neuroni mirror” (Rizzolatti et al., 1996) collocati nelle aree premotorie della corteccia cerebrale (ma sono presenti anche in altre zone, come nella corteccia parietale inferiore) che si attivano quando compiamo un’azione e quando vediamo la stessa azione svolta da altri. Questo processo di simulazione è velocissimo, pre-verbale, immediato ed è alla base di alcuni processi legati all’empatia, alla comprensione, al rispecchiamento nell’altro (perfino all’apprendimento), tutti elementi alla base dell’intersoggettività. È possibile riconoscere l’emozione altrui nell’ordine di pochi momenti perché, come ben spiegato da Paul Ekman, le espressioni facciali delle emozioni sono universali e disegnano, ogni volta, una specifica e armonica configurazione a cui partecipano occhi, bocca e muscoli del volto. Proprio Ekman, infatti, ha sviluppato un sistema di codifica (Facial Action Coding System o FACS) (Ekman, 1997) che fornisce informazioni sulle emozioni e sullo stato interno della persona, fatto di pensieri e motivazioni alla base delle azioni, con cui ci costruiamo una vera e propria teoria della mente altrui. Tutto ciò è realizzabile, perché l’informazione passa dal sistema visivo alle aree corticali e sottocorticali specificatamente deputate alla comprensione emotiva. Gli studi mostrano che, quando questo meccanismo è deficitario, come ad esempio nei pazienti schizofrenici, psicotici, con gravi malattie mentali o con sindromi dello spettro autistico, è più difficile leggere le emozioni altrui con conseguenze significative a livello interpersonale. Il sistema di decodifica delle emozioni può, quindi, essere un processo poco funzionale, a volte perfino strutturalmente danneggiato, come nei pazienti neurologici che falliscono al test di riconoscimento delle emozioni “Reading the mind in the eyes test” (Baron-Choen et al., 2001). Ma cosa succede quando è proprio il volto, o parti di esso, a mancare? Per esempio i pazienti parkinsoniani, a causa del deficit dopaminergico, sono ipomimici: i muscoli del volto sono rigidi ed è più difficile intuire gli stati interni emotivi.

Proprio questo insieme di evidenze mi fa riflettere e chiedere cosa accadrà quando usciremo solo e soltanto con mascherine per coprire il volto. Ci vorrà davvero più tempo per decodificare l’espressività dell’altro? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Metà del volto coperto, ostacolerà la percezione immediata degli elementi complessivi: sarà proprio impossibile o solo più difficile, vago? Per riconoscere la gioia, abbiamo bisogno di cogliere l’espressione coerente, in cui gli occhi si stringono e lo zigomatico maggiore spinge gli angoli della bocca all’insù. Pensiamo alla paura, alla sua forte valenza evolutiva. Potremo vedere le sopracciglia sollevate, gli occhi sgranati, ma non la bocca socchiusa né le labbra tese. E il disgusto, caratterizzato dal naso arricciato, dal labbro superiore sollevato e quello inferiore abbassato, come faremo a rintracciarlo? Una espressione di dolore, attiva in chi guarda, nell’ordine di una manciata di attimi, una serie di risposte, ad esempio di accudimento, ma solo perché bocca, occhi e tutti i muscoli facciali avranno disegnato armonicamente l’espressione del dolore.

Come mai tutto questo è importante? Perché il riconoscimento delle emozioni ha delle funzioni, connesse alla loro intrinseca valenza evolutiva, alla base dei rapporti umani, dell’attaccamento e della condivisione, del rispecchiamento, ma anche della protezione, della cura e perfino della regolazione emotiva. Pensiamo infatti alla vicinanza fisica tra chi è triste e chi vuole consolare con una carezza, all’abbraccio tra chi è felice e vuol condividere, alla spinta tra due litiganti e a tutti quei gesti che svolgono una funzione calmante o attivante, ricca di significati interpersonali. La distanza peripersonale, che aumenta o diminuisce fornendoci un parametro interno della intimità, che trasformazione subirà? Questa distanza, supportata da una comprensibile paura di contagio personale e degli altri, ci sta abituando a conversare di meno, a intrattenerci il minimo indispensabile con gli altri, a chiedere il permesso o a scusarci se per sbaglio ci accostiamo troppo. Si perché, quando ho rivisto un’amica dopo quasi due mesi, d’istinto stavo per abbracciarla eppure mi sono bloccata chiedendomi se fosse il caso, se lei volesse. Le ho dovuto chiedere il permesso per sentirmi autorizzata ad andarle incontro e queste operazioni interne hanno affievolito quel moto di gioia iniziale, snaturandolo quasi.

In conclusione, cosa accadrà quando potremo di nuovo viaggiare in mezzi di trasporto affollati, sederci vicino ad uno sconosciuto in villa? Allenarci in palestra o andare a cinema? Ballare o flirtare con qualcuno?

Tutte queste domande che ci ruotano nella mente, non hanno una risposta! Non sapremo in che modo le nostre strutture interpersonali resteranno condizionate da tutto questo fin quando questo futuro prossimo non sarà diventato presente. Mi auguro solo che quando rivedrò le persone che amo le vorrò abbracciare forte, prima ancora di sentire di poterlo fare. Mi auguro che, se quel mio amico neurologo sarà ancora triste, o spaventato, o arrabbiato o, perché no, felice, potrò leggerglielo in volto e potrò sintonizzarmi emotivamente con lui. E forse sì, sarà importante poterlo abbracciare!

 

SURVEY – Coronavirus e stress: come gestisco le emozioni negative – Partecipa alla ricerca

L’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia e le misure per contenerla hanno comportato grandi cambiamenti e causato un profondo disagio in gran parte della popolazione.

 

Tutte le persone che hanno vissuto questo difficile periodo riportano le stesse conseguenze?

Il progetto di ricerca è finalizzato a comprendere quali caratteristiche della nostra personalità ci proteggono dall’insorgenza di sintomi psicopatologici in seguito alla difficile situazione che stiamo vivendo (emergenza Covid-19).

Lo studio viene condotto tramite un questionario anonimo riguardante diversi aspetti legati al periodo recente ed alla personalità in genere.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

CLICCA QUI 9733

 

 

Fattori di vulnerabilità nella depressione post-mastectomia

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il tumore della mammella rappresenta in Italia e in molti paesi di tipo occidentale la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. La chirurgia è il trattamento più frequente proposto alla maggior parte delle pazienti per l’asportazione del tumore. Si tratta di tecniche di chirurgia conservativa (si salva il seno, ma si asporta la parte tumorale) o di tecniche di chirurgia demolitiva come la mastectomia (asportazione dell’intero seno).

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Secondo Shuterland (1953), i cambiamenti nella funzione in generale coinvolgono due aspetti diversi ma inseparabili: le limitazioni realistiche imposte e le limitazioni imposte dall’interpretazione del significato che le pazienti attribuiscono al cambiamento fisico. Quindi, il tumore al seno e la chirurgia impongono problemi reali molto specifici a causa della funzione effettiva della parte del corpo o dell’organo coinvolto e del suo significato nell’adattamento totale del singolo paziente.

Il disturbo depressivo maggiore risulta, quindi, determinato dall’aspettativa della paziente della quantità e del tipo di interruzione della prestazione che la perdita di un organo comporta. La perdita della funzione, anche temporanea, è destabilizzante per le pazienti se compromette attività vitali, quando queste sono minacciate o interrotte dall’esperienza chirurgica stessa o dalle sue conseguenze.

Quando non si riesce a far riferimento a difese compensative, la depressione persiste fino a quando non è in grado di riprendere l’attività valutata compromessa. Tuttavia, alcune pazienti, a causa di limitazioni reali o di convinzioni riguardo a limitazioni che non trovano conferma nella realtà, trovano difficoltà a riprendere l’attività sacrificata e di conseguenza permane la sintomatologia depressiva. Tale sintomatologia può persistere per un periodo indefinito.

L’ impatto dell’esperienza chirurgica e della perdita del seno è altamente individuale; ciò che lo differenzia è il significato di tali eventi nell’adattamento totale della vita di ogni paziente. Durante la fase post-operatoria le pazienti esprimono frequentemente sentimenti di ostilità verso il personale medico. Inoltre, vi è un senso di vitalità corporea diminuito e sentimenti di debolezza o fragilità del corpo.

L’inaccettabilità della perdita dell’organo e l’isolamento sociale che ne consegue possono essere fattori scatenanti per l’insorgenza della depressione rispetto alla paura di recidive, infatti alcune pazienti preferirebbero morire di cancro.

Adsett, tra le diverse reazioni emotive dopo l’asportazione totale del seno, osservava la depressione come

risultante del senso di perdita dell’organo e del suo significato, percepito come base per il valore dell’individuo e accettazione da parte degli altri; quando si associa il senso di colpa la depressione appare più severa.

Le pazienti tendono ad esprimere idee di inutilità e di scarso valore riferito al Sé. Perdono il loro interesse per l’ambiente e sperimentano fatica e difficoltà a concentrarsi. Depressione e sentimenti di inutilità possono essere presenti soprattutto in pazienti il cui senso di valore dipende dalla loro capacità di essere presenti per gli altri e da una rigida negazione del sé. La loro mancata presenza nei confronti degli altri comprometterebbe la loro autostima.

Golden-Kreutz e Andersen condussero uno studio su 210 donne di cui il 59% con mastectomia e il 41% con asportazione nodulare. Attraverso questo studio, essi cercarono di stabilire il rapporto tra gli stressor subiti da queste donne e i sintomi depressivi conseguenti la malattia e l’intervento chirurgico. I risultati furono: la maggior parte delle partecipanti aveva sperimentato almeno un evento traumatico importante nella vita l’anno precedente la diagnosi. L’evento più comune riportato è stato la morte o la malattia grave di un partner/coniuge; importanti difficoltà finanziarie; il divorzio o un’altra interruzione di relazione con il partner/coniuge, familiari, o amici.

Gli autori conclusero che

elevati livelli di stress globale uniti a pensieri intrusivi legati al cancro, problemi finanziari e la tendenza alla negatività possono cospirare per aumentare il rischio di sintomi depressivi nelle donne con cancro al seno.

Inoltre, un altro aspetto di notevole interesse è l’analisi dello stile di attaccamento nelle donne sottoposte a intervento di mastectomia e la sua correlazione eventuale con l’insorgenza di un disturbo depressivo maggiore post intervento. L’attaccamento di tipo insicuro-resistente viene indicato come fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo depressivo maggiore.

In un lavoro di Koziinska (2012), sono stati confrontati due gruppi di donne: le prime con cancro alla mammella, le seconde sane. È stato osservato come nel primo gruppo lo stile di attaccamento insicuro fosse molto più frequente rispetto al gruppo di donne sane; inoltre la salute, il benessere fisico e psichico erano significativamente ad un livello inferiore nel gruppo delle donne con cancro alla mammella rispetto al gruppo delle donne sane. Infine, le donne con uno stile di attaccamento sicuro avevano una percezione soggettiva del proprio benessere fisico e psichico decisamente superiore rispetto alle donne con attaccamento insicuro, indipendentemente dalla presenza o meno di cancro al seno.

Si evince che, un attaccamento di tipo sicuro è un fattore protettivo nei confronti della depressione in tutte le donne che devono affrontare il difficile percorso terapeutico del cancro alla mammella. Inoltre, la relazione tra uno “stressor” importante come una mastectomia e uno stile di attaccamento insicuro concorrono in modo sinergico a determinare l’insorgenza della depressione.

Considerando che il cancro alla mammella e la mastectomia incidono su tutti gli aspetti della vita psichica e sociale della donna, una presa in carico della paziente da un punto di vista multidisciplinare, che veda quindi la collaborazione tra chirurgo, oncologo, psichiatra e psicoterapeuta, è molto importante, dal momento della diagnosi fino al post-intervento per individuare laddove vi siano fattori di rischio anche psicologici e per garantire alle pazienti un percorso di cura che assicuri un elevato livello di salute fisica, psichica e sociale.

 

“Perchè non, si ma”: l’applicazione del gioco Berniano alla resistenza della critica alle proprie credenze

L’accademia scientifica sta analizzando in questo periodo la resistenza alla analisi critica nei confronti delle proprie credenze. In questo articolo sono identificate le varie tipologie di bias legate alla resistenza usando come base l’Analisi dei Giochi dello psichiatra Eric Berne.

 

Come indica Francesca Pasinelli nel suo articolo pubblicato sull’Huffpost (2014), l’assenza in quel periodo di persone colpite da malattie infettive come la poliomielite (come si può notare, l’articolo appartiene al periodo storico antecedente alla diffusione del Sars-Covid-2) è un grande insegnamento per quanto riguarda il rapporto da avere con la scienza: infatti, senza di essa, l’Umanità non sarebbe arrivata a questi livelli di conoscenza tecnica e medica. Tuttavia, come è stato indicato sia dalla stampa generale (Bucchi, 2019), che dalla stampa di settore (Villa, 2019) e scientifica (Hamby, Ecker, Bringberg, 2019), in questo decennio si è verificato un declino della fiducia della popolazione occidentale nei confronti della Scienza e del Metodo Scientifico.

Di fatto, è stato sottolineato che in questi anni del ventunesimo secolo, la popolazione occidentale sta assumendo una posizione di sfiducia nei confronti del metodo scientifico, soprattutto quando riguarda l’analisi critica nei confronti delle credenze che portano certezze e sicurezza (Tsipursky, 2018).

Questa resistenza accanita nei confronti del metodo scientifico sta minacciando l’ipotetica morte della conoscenza in materia (“death of expertise”), invero dove l’opinione e l’esperienza personale è ritenuta esser allo stesso livello dell’analisi scientifica (Nichols, 2017). Tale fenomeno di resistenza culturale sta creando preoccupazione nel mondo accademico e sociale, tanto da creare figure di contrattacco come il virologo Roberto Burioni (2020).

Questa reazione al risultato ottenuto dal processo di falsificabilità di Popper (2002) e dal processo empirico, ovvero due delle basi fondamentali del Metodo di Ricerca, può essere analizzata seguendo il gioco del “Perché non….Sì ma” contestualizzato dal medico psichiatra e psicoterapeuta Eric Berne (1919 – 1970). Seguendo ciò che lo psichiatra americano identifica nel suo libro “A Che Gioco Giochiamo?” (1964), manuale considerato esser il caposaldo della analisi transazionale, il “Perché non….sì ma” è un gioco, ovvero un incontro fra due o più persone dove avviene una transazione di significati psicologici, sociali e biologici, attuato dall’attore Bianco (ovvero l’agente) nei confronti dell’attore Nero (ovvero il ricevente) con l’obiettivo di esser rassicurato circa le sue posizioni.

Di fatto, l’attore Bianco polemizza con l’attore Nero circa una situazione, indicando le varie problematiche che gli recano disturbo: tuttavia, mentre il Nero sottopone al Bianco delle soluzioni concrete a queste problematiche, il Bianco le declina in toto, con l’obiettivo di mantenere lo status quo della situazione in cui si trova. In poche parole, l’attore Bianco ha solo l’intenzione di sfogarsi con l’attore Nero circa una serie di situazioni senza però attuare delle soluzioni nei confronti di queste, poiché perderebbe il ruolo di potere che pensa di aver assunto, autoconvincendosi di trovare le proprie credenze confermate a priori, senza tener conto di ciò che propone l’attore Nero.

Questa situazione è assai simile alla resistenza che i vari scettici della Scienza assumono nei confronti della Metodologia Sperimentale: infatti, essi espongono le proprie tesi basate su letture e su esperienze proprie altamente influenzate dalle proprie credenze, annullando così la differenza di esse con la risposta basata su dati empirici e percependo di aver il diritto scientifico di rimanere sulle proprie posizioni.

La visione transazionale berniana di questo fenomeno può essere collegata coerentemente con gli ultimi risultati della ricerca cognitiva. Difatti, seguendo il processo di transazione appena descritto attraverso l’ottica neurocognitiva, l’attore Bianco inizia lo scambio con l’attore Nero già cristallizzato nei confronti delle proprie idee, attuando il “My – Side Bias” (Jarret, 2018) in maniera aprioristica, sottoponendosi così ad un ennesimo bias, il “continued influenced effect” (Willmot, 2019). Alla fine, tutti gli scambi con il soggetto Nero sono annullati dalla credenza auto-illusoria e di difesa che gli altri soggetti siano meno oggettivi e influenzati nel loro percorso di ricerca, attuando così il “bias blind spot” (Warren, 2019).

Come dice Atul Gawande, rifacendosi alle parole di Hubble del 1938, “a scientist has a healthy skepticism, suspended judgement, and disciplined imagination—not only about other people’s ideas but also about his or her own. The scientist has an experimental mind, not a litigious one” (2016).

Tuttavia, sembra tristemente più attuale rifarsi alle parole di Umberto Eco prima che morisse (2015).

La sottile linea di confine tra alimentazione sana e patologica

Nell’attuale “società del benessere” in cui predomina l’abbondanza di cibo, sempre più attenzione è posta al nutrirsi in maniera consapevole ed equilibrata. Ma esiste una sottile linea di demarcazione tra alimentazione salutare e patologia, come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

 

Il cibo, fin dall’antichità, ha ricoperto un ruolo di primo piano nella vita dell’individuo, rivestendo un insieme di funzioni legate alla sopravvivenza, al bisogno di appagamento, all’appartenenza ad un gruppo, all’identità ed alla socialità.

Si mangia infatti per festeggiare compleanni, matrimoni e lauree o semplicemente per condividere a tavola momenti gradevoli con amici e parenti. Si mangia per trovare un posto nella società e per definire la propria identità sentendosi parte di una comunità con cui si condividono delle regole. Si mangia per mettere a tacere emozioni negative come ansia e stress, per consolarsi quando si è tristi, per occupare il tempo nei momenti di noia o per concedersi un’esperienza piacevole come premio. Infine, si mangia per introdurre gli alimenti necessari a garantire il giusto apporto nutritivo all’organismo.

L’ossessione di mangiare sano

Nella cosiddetta attuale “società del benessere”, caratterizzata dall’abbondanza di diversi tipi di alimenti, la possibilità di mangiare in modo continuativo, eccedendo in quantità maggiori del necessario, unitamente al perseguimento di modelli di bellezza e perfezione fisica, ha prodotto un’iperfocalizzazione dell’attenzione sul cibo quale “nemico da evitare”.

A questo si aggiunge il bombardamento mediatico e pubblicitario presente in rete che, offrendo consigli e protocolli alimentari, oltre a creare un contesto di maggior informazione e conoscenza, ha l’effetto paradossale di produrre false credenze e miti sulla nutrizione, non basati su fondamenti scientifici (Garano et al, 2016).

Tale meccanismo che ha avuto da una parte l’effetto di accrescere l’ossessione per un’alimentazione basata su pietanze “giuste” e sulla suddivisione di cibi in “buoni e cattivi” e dall’altra ha portato al diffondersi, a partire dagli anni ottanta del novecento, di pratiche alimentari restrittive come la “dieta chetogenica” a basso contenuto di carboidrati, la “dieta ipocalorica” che prevede un apporto energetico quotidiano inferiore a quello richiesto dall’organismo, come ad esempio nella Weight Watchers e nel metodo Alimentare a Zona, la “dieta macrobiotica” a basso contenuto di grassi, la “dieta crudista” che prevede il consumo di alimenti non lavorati, spesso provenienti da alimentazione biologica, la “dieta dissociata” che si basa su una rigida associazione di vari alimenti, la “Dukan” ad elevato contenuto di proteine fino ad arrivare al “digiuno intermittente”.

Perdersi all’interno di questo labirinto è davvero facile, soprattutto se non si è degli specialisti del settore e, all’interno di questo contesto, la linea di confine tra regimi alimentari sani e patologici, diventa sempre più sfumata come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

Ortoressia e vigoressia

Entrambi i disturbi si sviluppano all’interno in un contesto ambientale che rinforza l’idea del mangiare sano e che culturalmente accetta il perseguimento di un’ideale di bellezza che può portare a scambiare inizialmente l’insorgenza di tale patologia con una maniera per migliorare la propria salute e correggere comportamenti alimentari errati.

Sia l’ortoressia che la vigoressia si basano infatti su uno stile di vita improntato al perseguimento di un rigido regime nutrizionale ma, mentre l’ortoressia poggia sull’ossessione per il mangiare sano che conduce il soggetto a spendere molto tempo a pensare al cibo, a quali alimenti evitare, a selezionarli e a prepararli al fine di mantenere una buona condizione di salute, la vigoressia riguarda l’ossessione per la perfetta forma fisica raggiunta tramite l’uso di un’alimentazione iper-proteica e lo svolgimento di esercizi fisici, al fine di ottenere una muscolatura ipertrofica.

In entrambe le patologie, il cibo e le pratiche sportive vengono utilizzate per definire un senso di identità e di appartenenza al gruppo, per dare consistenza al sé ma allo stesso tempo, per via dell’autocontrollo e della rigida disciplina alimentare che richiedono, tendono ad allontanare l’individuo dalla collettività conducendolo ad isolamento sociale e compromettendone la vita lavorativa. L’autostima diviene così secondaria al mantenimento della forma fisica o del regime alimentare che, se seguito correttamente, porta a provare un senso di superiorità rispetto agli altri ma ha come rovescio della medaglia, l’acuirsi di sentimenti di colpa e disagio quando si “fallisce”. E mentre nell’ortoressia tali emozioni portano la persona a seguire diete sempre più ristrette come gesto autopunitivo, nella vigoressia conducono ad estenuanti allenamenti in palestra e spesso all’uso di sostanze anabolizzanti per lo sviluppo di un corpo che non è mai ritenuto sufficientemente muscoloso.

Alcuni hanno definito tali atteggiamenti una forma di “fanatismo alimentare” che, portando a focalizzare l’attenzione unicamente sull’alimentazione, impoveriscono la complessità della realtà, comportano la fuga dai problemi reali e conducono a trovare rifugio in un unico scopo perseguibile: il cibo. L’alimento diviene così un elemento “sacro”, scelto non per il gusto che produce al palato ma sulla base delle qualità e dei benefici che può apportare in base a ideali etico-diatetici. La nutrizione assume una forma di “religiosità” divenendo una guida di precetti e comportamenti da seguire al fine di mettere a tacere paure ed insicurezze. Tale integralismo, che evidenzia l’importanza degli alimenti puri ed incontaminati, permette di concentrare le ansie riguardo il futuro nel piatto e nel cibo, ritenuto unico aspetto della vita che è possibile controllare (Garano et al, 2016; Niola, 2015).

Si arriva così al grande paradosso di tali rigidi e restrittivi regimi alimentari che, partendo dall’idea di voler preservare la salute, tramite l’utilizzo di cibi sani e di attività fisica, arrivano a depauperarla Ortocomportando squilibri nutrizionali e complicazioni mediche le cui conseguenze, troppo spesso, vengono sottostimate dalla “new age of food”.

L’insegnamento che si può trarre è quello che avevano già imparato gli antichi e che Aristotele spiega bene nell’Etica Nicomachia “supponendo che eccesso e difetto rovinano la perfezione, la via di mezzo la salvaguarda” che tradotto in un linguaggio più psicologico consiste nell’avere un approccio flessibile in tutti i contesti di vita, compresa l’alimentazione, perché l’eccessiva rigidità è uno dei campanelli di allarme della patologia.

 

 

 

Covid19 e amanti

Esiste un fenomeno che, a somiglianza del lavoro in nero, è grandemente sottostimato e i cui protagonisti, appunto perché negati e sconosciuti, stanno pagando un prezzo altissimo per la attuale pandemia: quello degli amanti.

 

Se il paese tutto va in sofferenza sono soprattutto le fasce deboli a subirne le conseguenze e si allarga la forbice tra ricchi e poveri. Quando la ricchezza complessiva aumenta è soprattutto la media e alta borghesia ad avvantaggiarsene e si allarga la forbice tra ricchi e poveri il che mi riporta alla memoria un detto scarsamente raffinato sulla destinazione finale di un certo cetriolo di un non meglio identificato ortolano (cosa analoga avviene con il prezzo del petrolio: sia che l’OPEC lo aumenti, sia che crolli ai minimi storici l’effetto è sempre un aumento del prezzo dei carburanti alla pompa). Solo la morte pare essere davvero una imparziale “livella” quantunque le cure che la precedono nel tentativo di rimandarla o renderla più dolce non siano affatto livellate. Il governo ha preso e prenderà ulteriori provvedimenti per i più colpiti dalla frenata dell’economia, i piccoli lavoratori autonomi, i giovani precari, le partite IVA che rischiano di non poter fare la spesa nonostante i negozi di alimentari siano aperti. Ancora più in difficoltà sono i cosiddetti “lavoratori in nero” che rappresentano una grossa fetta del PIL del paese ma non risultano da nessuna parte e dunque non sono nemmeno facilmente raggiungibili da eventuali sussidi perché per lo Stato e per l’INPS semplicemente non esistono. Forse sarà l’occasione per un ennesimo condono fiscale ma ben venga se finalmente emergerà dal nulla questo enorme e rimosso problema del lavoro in nero, enorme ammortizzatore tra il lavoro riconosciuto e tassato e la disoccupazione. Esiste un altro fenomeno che, a somiglianza del lavoro in nero, è grandemente sottostimato e i cui protagonisti, appunto perché negati e sconosciuti, stanno pagando un prezzo altissimo per la attuale pandemia. Il fenomeno è quello dell’adulterio e i suoi lavoratori in nero senza diritti e riconoscimenti sono “gli amanti” improvvisamente separati, alienati dai loro consueti luoghi di incontro (specialmente il lavoro) e rinchiusi in una cattività domestica dove anche gli strumenti di comunicazione sul web sono requisiti a vantaggio dei più piccoli per le lezioni scolastiche o per i più istituzionali auguri e contatti con nonni soli e parenti lontani. Potreste obiettare che il fenomeno sia quantitativamente irrilevante invece è esattamente come per il COVID19 dove i positivi accertati sono un minuscolo sottoinsieme dei positivi reali che dunque sono potenzialmente e inconsapevolmente vettori di contagio. Sarà utile fornire dunque, prima di proseguire, alcuni dati epidemiologici sul fenomeno nella nostra cara vecchia Europa.

Cenni di epidemiologia:

Per la Corte di cassazione francese l’infedeltà non è più un atto contro la morale, in quanto scrive nel 2015: “con l’evolversi delle abitudini così come dei concetti morali, ad oggi non è più possibile considerare l’infedeltà coniugale come in contrasto con la comune rappresentazione della moralità nella società contemporanea”. L’infedeltà non è quindi diversa da qualsiasi altra forma di libertà di espressione e presto non sarà più considerata una delle cause che giustificano un divorzio.

Contemporaneamente i dati diffusi da “Gleeden.com”, il più grande sito di incontri dedicato a donne sposate in cerca di incontri, ci dice che in Italia nel corso dell’intera esistenza di coppia: il 30% resta per sempre fedele, nel 40% dei casi uno dei due partner tradisce mentre nel restante 30% entrambi tradiscono e dunque nel 70% dei casi le coppie vivono una situazione di tradimento singolo o doppio.

Secondo i dati raccolti su base europea dall’IFOP (istituto francese di opinione pubblica) il 45% degli italiani ha dichiarato di aver tradito il partner almeno una volta contro il 43% della Francia, il 39% della Spagna e il 36% della Gran Bretagna. Ancora più interessanti dei fatti per noi psicologi sono le opinioni che si hanno sui fatti e la ricerca ci dice che alla domanda “ti sei pentito/a di aver tradito il partner?” solo un 27% di italiani ha risposto sì contro il 73% di no. E anche stavolta la percentuale è la più alta d’Europa (Francia e Germania 28%, Spagna 36% e Gran Bretagna 50%). Ma quale valore morale danno gli italiani all’infedeltà? Quello che appare particolarmente interessante non è solo l’intensa pratica dell’adulterio ma il fatto che sia in corso un mutamento della comune morale per cui si tende sempre più a ritenerlo accettabile. Secondo una ricerca condotta su scala mondiale dall’americana Pew Research il nostro Paese appare molto più laico di quello che si pensa: se è vero che il 64% degli italiani pensa che l’infedeltà sia moralmente inaccettabile, la percentuale risulta comunque tra le più basse del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, ben l’84% condanna pubblicamente il tradimento, così come il 76% dei Britannici e solo il 47% dei francesi e il 60% dei tedeschi.

Ancora dati IFOP ci dicono che per il 56% degli italiani si può essere innamorati del proprio partner e comunque tradirlo. Un approfondimento dello studio tutto dedicato all’Italia in quanto patria del cattolicesimo ha rivelato che per il 63% degli italiani è del tutto possibile amare due persone contemporaneamente, con un 21% degli intervistati che ha rivelato una stabile e duratura relazione con l’amante contro un 41% di avventure occasionali; il 43% degli infedeli si aspetta di essere perdonato dal partner qualora venga scoperto.

Rispetto ai tempi del tradimento il sondaggio IPSOS afferma che il 35% degli intervistati dichiara di aver ceduto al tradimento dopo il 5° anno di matrimonio, il 30% tra il 2° e il 5° anno. Per un 20% un anno di fedeltà è stato più che sufficiente, mentre un 15% ha resistito solo 3 mesi.

Ad essere intervistati sulle proprie relazioni extraconiugali sono stati 1565 italiani, uomini e donne, sposati e di età compresa tra i 24 e i 64 anni. Questi i risultati dettagliati:

Nel primo anno di matrimonio: il tasso di infedeltà è del 27% per gli uomini e del 21% delle donne. C’è però da considerare che tra coloro che tradiscono già al primo anno c’è un 35% che era stato infedele almeno una volta anche negli anni del fidanzamento.

Nel 2° e 3° anno di matrimonio: il divario tra l’infedeltà maschile e quella femminile aumenta. Il 36% degli uomini contro l’11% delle donne. Generalmente questo è il periodo in cui nasce il primo figlio, nuova situazione vissuta in maniera spesso diametralmente opposta dai due partner: le donne, prese del nuovo arrivato, trascurano un po’ il marito che così è costretto a rifugiarsi nelle braccia di qualcun’altra (o almeno questo è il luogo comune e la classica scusa utilizzata per giustificarsi!).

Tra il 3° e il 9° anno di matrimonio: il tasso di infedeltà cresce esponenzialmente e non si registrano più grandi differenze tra uomini e donne. Il 58% degli intervistati uomini ha confessato uno o più tradimenti, per le donne invece la percentuale è del 46%.

Dal 9° al 25° anno, l’infedeltà si fa “seriale”: il tradimento è ormai una routine per il 49% degli intervistati uomini e per il 36% delle donne.

Dopo il 25° anno di matrimonio: il tasso di infedeltà è solo del 13%. Ovviamente il fatto è probabilmente da imputare ad un fattore di età.

L’Italia presenta forti contraddizioni tra la pratica, che la vede come il paese più infedele d’Europa, e la teoria, mostrandosi ancora in bilico tra rivendicazioni laiche ed un eredità ancora fortemente cattolica.

Il 76% degli Italiani ha infatti dichiarato che rimanere fedeli per tutta la vita è possibile e la risposta è trasversale a qualsiasi fascia d’età, religione e orientamento politico.

E’ evidente la contraddizione tra ciò che si fa e ciò che si dice di credere. Meglio sarebbe dire “tra ciò che si dice di fare e ciò che si dice di credere”.

Quello che gli italiani non riescono ad accettare quando si parla di infedeltà è la manifestazione del suo lato puramente sessuale: tra gli atti che costituiscono fonte di tradimento infatti figurano baciare alla francese una persona diversa dal partner (77%), avere rapporti orali (89%), fino al rapporto sessuale vero e proprio, sia che si tratti di un episodio momentaneo (89%) che di una pratica regolare (92%). Innamorarsi di un’altra persona ve bene quindi, basta che l’amore rimanga platonico e non si traduca in qualcosa di più fisico.

Un dato incontrovertibile sia per gli Stati Uniti che per l’Europa è che le donne hanno raggiunto e molto spesso superato gli uomini nella tendenza a tradire e che le differenze precedenti che volevano gli uomini tradire per motivi sessuali e per relazioni occasionali mentre le donne per motivi sentimentali e per relazioni più profonde e prolungate, non sono più attuali e le differenze nel tipo di tradimento non riguardano il genere ma la singola personalità. Un importante stereotipo che voleva gli uomini interessati ad una cosa sola sembra dunque superato in nome di una raggiunta parità di genere. Tutte queste ricerche si basano su interviste degli interessati che possono comunque mentire e tendenzialmente in un’unica direzione, quella negazionista. Dati più oggettivi ci giungono da quella che in ambito giuridico è diventata ormai “la prova regina” ovvero il test del DNA utilizzato per l’accertamento di paternità in continuo aumento in Italia dove dice l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione dei matrimonialisti italiani:

Secondo le stime ricavabili dai dati statistici, il 15% dei secondi figli è di un padre diverso da quello ufficiale e la percentuale arriva al 25% nel caso dei terzi figli. Sono in aumento vertiginoso le perizie che i tribunali dispongono per accertare la paternità. Inoltre, è aumentata di circa il 30% la vendita online di kit per l’accertamento ‘fai da te’ della paternità. Tali stime dimostrano che le infedeltà coniugali sono in netto aumento nel nostro Paese o almeno il livello del sospetto degli uomini di non essere padri dei propri figli oggi è particolarmente elevato e preoccupante.

In conclusione un figlio su 5 (il 20%) non è del padre legittimo. Credo sia ragionevole ipotizzare che tale percentuale sia molto superiore tra gli aborti in quanto tale esito, volontario o meno, è un rischio molto maggiore in una gravidanza adulterina. Se infine consideriamo che non tutti i rapporti sessuali comportano una gravidanza, soprattutto se si tratta di rapporti sessuali non consentiti, si può avere una stima di quanti coiti avvengano in coppie non istituzionali. Nel mondo omosessuale poi, sia maschile, come si è sempre affermato in nome del pregiudizio succitato che vedeva come il maschio sempre sex-oriented, sia femminile, entrambi liberi dal rischio gravidanza, la percentuale dei tradimenti occasionali o prolungati è certamente maggiore. La vita da amante benché, parrebbe, scelta da molti per periodi più o meno brevi è tutt’altro che semplice.

Per gli amanti le feste comandate ed in generale le vacanze sono sempre stati periodi neri perché predominano le esigenze delle famiglie d’origine, i pranzi a cui non si può mancare, la condivisione assoluta delle 24 ore con coniugi, generazioni precedenti e progenie e persino la ricerca di silenziosa solitudine senza scopi reconditi è stigmatizzata come colpevole diserzione dal festoso regolamentare ritrovarsi. Ora siamo in un momento dolorosissimo in cui la serrata amorosa da pandemia rischia, non trattandosi di attività produttiva essenziale senza neppure la difesa di Renzi, di trapassare direttamente nelle vacanze estive su cui, da buoni italiani motivati a far ripartire il turismo almeno interno, investiremo fino all’ultimo euro. A parziale conferma di quanto detto sopra, dall’inizio dei provvedimenti di lockdown le farmacie segnalano un crollo nella vendita di preservativi compensato da un incremento del consumo di ansiolitici. Le associazioni di “amanti anonimi”, di concerto con le varie rappresentanze LGBT, che unite radunano circa l’85% del mondo dell’amore in nero (restano escluse le potentissime ma ancor più segrete congreghe e confraternite per il cosiddetto “amore disordinato” in tonaca che comunque hanno modo di far valere la loro pressione nelle sedi giuste sensibili all’appoggio ecclesiale) hanno proposto al governo una serie di misure urgenti (un decalogo) perché il mondo dell’amore in nero non si fermi del tutto con drammatiche conseguenze anche sull’indotto (fiorai, regali di lusso, alberghetti, motel e localini fuori porta):

  • Sconto del 50% sull’acquisto di telefoni satellitari in grado di connettersi da qualsiasi esotica località di vacanza con inclusi programmi di crittografia che abbiano superato il test “enigma” della macchina di Alan Turing che concorse alla vittoria alleata nella seconda guerra mondiale.
  • Voucher spendibili per un soggiorno di un week end in qualsiasi albergo, pensione, bed and breakfast e agriturismo italiano.
  • Accesso gratuito a totale carico dello Stato a tutti gli alberghi con servizio a ore diurno.
  • Sconto del 70% sui programmi di computer per un sexting avanzato e multisensoriale (in linea con gli analoghi provvedimenti per lo smart-working).
  • Aggiunta al modello di autocertificazione per l’allontanamento da casa della motivazione “impellenti e improrogabile esigenze affettivo/sessuale”
  • Libero accesso alle seconde case, garconierre e similari.
  • Transitoria sospensione del reato di “atti osceni in luogo pubblico” per chi dimostri di non avere altro luogo possibile che la propria vettura.
  • Riservare a loro, quando avverrà la riapertura e per i successivi tre mesi dell’ultima fila di posti in cinema e teatri.
  • Esenzione del pagamento di qualsiasi prodotto sanitario e parasanitario connesso all’attività sessuale o alle sue conseguenze.
  • Riscatto agevolato ai fini pensionistici del periodo di astinenza dovuto al distanziamento sociale da COVID19.

PS: è del tutto evidente, spero, che la maggior parte delle cose soprascritte siano delle bischerate, ma non i dati epidemiologici. Ammesso che di malattia si tratti, perché in tal caso dovremo parlare di una ulteriore nascosta pandemia. Meditiamoci.

Naturalmente, figuriamoci! Tutto ciò non riguarda certamente la vostra bella famigliola. Semmai, al massimo, quella del vostro vicino di casa. Peccato che lui pensi esattamente la stessa cosa ed è forse per questo che quando vi incontrate vi guarda con quel sorrisetto da demente che però la sa lunga.

Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) di F. Neziroglu e K. Donnelly – Recensione del libro

Fuori da me non si presenta come un manuale di auto aiuto, ma si propone come uno strumento informativo che possa consentire a chi soffre di depersonalizzazione di riconoscere il proprio problema ed avere indicazioni operative a riguardo

 

Benché la depersonalizzazione/ derealizzazione, sia come sintomo che ancor di più come disturbo psichiatrico in sé, sia raro, diventa importante conoscerlo per sapere come risolverlo. In quest’ottica le autrici del testo, attraverso un linguaggio semplice e scorrevole, per favorire l’approccio allo stesso ai non addetti ai lavori, forniscono chiare informazioni circa cosa si intende per depersonalizzazione e, ancor di più, come orientarsi nella risoluzione del problema.

All’interno di Fuori da me le autrici forniscono una descrizione di tutta una serie di sintomi, sia da un punto emotivo che cognitivo e comportamentale, che consentono al lettore di riconoscere e dare un nome a ciò che possibilmente sta vivendo.

Ne sono esempio: il senso di vuoto, la sensazione di non riconoscersi più, di osservarsi dall’esterno, di essere insensibile o di non provare più le emozioni come si dovrebbero provare o come si provavano in passato, la sensazione di avere mente e corpo disconnessi, passare del tempo ad interrogarsi su questioni filosofiche e/o religiose come, ad esempio “perché esistiamo?”, “esistiamo veramente?”, “chi è che sta parlando in realtà?”.

Ne segue una descrizione in merito alla diagnosi differenziale (disturbo di panico, disturbo post-traumatico da stress, disturbo ossessivo-compulsivo) e a possibili cause che possono determinare tale disturbo.

Le autrici inoltre mettono in risalto come in vista di queste sensazioni anomale la persona tenderebbe a voler agire un controllo, nel tentativo paradossale di non perderlo, e a focalizzarsi su i vari sintomi, aspetti che in realtà ne esasperano e mantengono il meccanismo.

Cosa fare dunque?

Il testo, che non si presenta come un manuale di auto aiuto, si propone come uno strumento informativo che possa consentire a chi ne soffre di riconoscere il proprio problema ed avere indicazioni operative al riguardo. Fuori da me, ovviamente, non si sostituisce all’intervento di un professionista e, in merito a ciò, le stesse autrici sottolineano l’importanza di chiedere aiuto e come sia preferibile orientare la propria scelta verso una terapista cognitivo-comportamentale in quanto tale approccio, anche grazie contributi della terapia di terza generazione, consente di fornire i giusti strumenti utili alla risoluzione del problema in merito. In tal senso, un’ulteriore nota interessante all’interno del testo, è l’approfondimento e l’integrazione di diversi contributi provenienti dalla ACT (Acceptance and Commitment Therapy) della DBT (Terapia Dialettico- Comportamentale). Attraverso i contributi di tali approcci, sottolineano le autrici, il paziente potrà essere aiutato a: comprendere cosa diventa più funzionale alla risoluzione del problema, sviluppare l’accettazione e la disponibilità ad entrare in contatto con ciò che sta accadendo, riuscire attraverso la mindfulness a sviluppare la capacità di osservarsi in modo distaccato rispetto a ciò che avviene dentro di sé in termini emotivi, cercando di non identificarsi con i propri pensieri o stati d’animo, individuare i propri valori e usarli come una bussola che orienta i nostri comportamenti, comprendere l’esistenza della mente razionale ed emozionale e riuscire a creare un rapporto armonico tra le due, sviluppando anche una tolleranza alla sofferenza.

Esercizi e schede operative presenti all’interno del testo consentono al lettore di mettersi in gioco attivamente nel tentativo di rompere quel circuito ossessivo di cui spesso diventa vittima chi sperimenta tale disagio.

Un valido testo che consente di avere informazioni su un disturbo poco conosciuto; sicuramente utile a chi ne soffre, ma non per questo meno utile al professionista.

 

L’impatto del covid sulla salute mentale in Spagna, Italia e Regno Unito

Uno studio internazionale, condotto dalla Open Evidence, spin-off dell’Universitat Oberta de Catalunya (Spagna), ha rivelato che la salute mentale del 41% della popolazione del Regno Unito è a rischio a causa della crisi del coronavirus.

 

Il progetto di ricerca ha visto la partecipazione di ricercatori dell’Università di Glasgow, dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università degli Studi di Trento, dell’Università di Tilburg e dell’Universidad Nacional de Colombia (Codagnone & Gomez, 2020).

Lo studio consisteva in tre sondaggi, i dati sono stati raccolti in Italia, in Spagna e nel Regno Unito, nel corso di tre settimane consecutive, dal 24 aprile al 17 maggio. Lo scopo era analizzare i cambiamenti comportamentali legati allo stress e al trauma all’interno delle popolazioni interessate nel contesto della pandemia, nonché misurare l’opinione pubblica in merito alle informazioni fornite dal governo e alla sua risposta in relazione alla crisi sanitaria (Codagnone & Gomez, 2020).

I dati raccolti nel primo sondaggio, che ha campionato 10.551 persone (3.523 nel Regno Unito, 3.524 in Spagna e 3.504 in Italia) tra il 24 aprile e il 1 maggio, mostrano che la maggior parte della popolazione tra i 18 e i 75 anni riferisce di essersi sentita depressa o senza speranza per il futuro ad un certo punto durante questo periodo: 57% nel Regno Unito, 67% in Spagna e 59% in Italia. I ricercatori sottolineano che i dati forniscono un quadro sull’impatto del lockdown e dobbiamo essere preparati per le conseguenze sociali e sanitarie associate ad esso (Codagnone & Gomez, 2020).

L’analisi dei dati è stata effettuata considerando fattori aggiuntivi quali: il tipo di alloggio (piena proprietà, proprietà ipotecata, affitto, ecc.), condizioni di vita (metri quadrati di alloggio, numero di persone che vi abitano, presenza di bambini in età scolare), perdita di occupazione, la chiusura della propria attività, la perdita di reddito e l’accesso ai test COVID-19; la considerazione di queste variabili ha fornito un indicatore generale in relazione allo stato di salute mentale delle persone nei tre paesi. I risultati rivelano che la salute mentale del 41% delle persone nel Regno Unito è a rischio, con dati del 46% e del 42% registrati per la Spagna e l’Italia, sottolineando che, per salute mentale, si intende la presenza di sintomi legati allo stress e al trauma (Codagnone & Gomez, 2020).

La ricerca sta tutt’ora continuando, i risultati sopra riportati si riferiscono al primo studio, cioè quello condotto tra il 24 aprile e il primo maggio (Codagnone & Gomez, 2020).

Il secondo studio, volto a valutare l’impatto della situazione sulle capacità cognitive dei partecipanti, sulla percezione del rischio, sulla fiducia e sull’altruismo, è stato condotto tra il 2 e il 9 maggio e si prevede che i risultati saranno rilasciati nella settimana che inizia il 18 maggio.

Infine, la terza ricerca, che verrà effettuata tra il 10 e il 17 maggio, si concentrerà sull’incertezza e sui conflitti relativi alla privacy e al bene comune, agli interessi individuali e collettivi relativi alla distribuzione delle risorse, con i risultati che saranno pubblicati nella settimana del 25 maggio (Codagnone & Gomez, 2020).

SURVEY: Emergenza Covid-19: vissuti e indicatori di benessere psicofisico tra personale sanitario – Partecipa alla ricerca

La cattedra di Psicologia Clinica dell’Università del Salento, in collaborazione con l’Università di Salerno, sta coordinando uno studio volto ad esplorare l’impatto sulla vita quotidiana dell’attuale emergenza sanitaria legata al COVID-19 (COronaVIrus Disease 2019) dal punto di vista psicologico e del benessere psico-fisico.

 

Lo studio, che intende rivolgere una particolare attenzione al personale medico-sanitario, quale categoria professionale più direttamente implicata dall’emergenza, comprende due fasi. Durate entrambe le fasi si cercherà di raccogliere le esperienze legate al Covid-19, il significato e il vissuto personale dei questo particolare periodo, i cambiamenti e le conseguenze dovuti alla pandemia. La disponibilità a partecipare alla prima fase non implica la partecipazione alla seconda.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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Il cervello d’oro – Quando l’adattamento alle aspettative genitoriali porta allo sviluppo di un falso Sé

Il dono ricevuto da un’infanzia difficile nella ricerca del vero Sé: un’analisi di un apologo utilizzato come metafora nella spiegazione del prezzo psicologico pagato dal “bravo bambino”, sino arrivare ad una delineazione terapeutica. Dal libro Il dramma del bambino dotato di Alice Miller.

 

C’era una volta un bambino con un cervello d’oro. I genitori se ne accorsero per caso, vedendo sgorgare oro, anziché sangue, una volta che il bambino si era ferito alla testa. Presero dunque a sorvegliarlo con gran cura e gli proibirono di stare con altri bambini, per paura che lo derubassero. Quando il ragazzo divenuto grande volle andarsene per il mondo, la madre disse: “Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, anche a noi spetta un po’ della tua ricchezza”. Il figlio allora estrasse un pezzo d’oro dal suo cervello e lo donò alla madre. Ricco com’era, visse nel lusso insieme a un amico per un certo tempo. Ma una notte l’amico lo derubò e scappò via. Allora l’uomo decise che non avrebbe più rivelato ad alcuno il proprio segreto e, poiché le scorte si assottigliavano a vista d’occhio, pensò di mettersi a lavorare. Un bel giorno s’innamorò di una graziosa fanciulla e ne fu contraccambiato. Ma la fanciulla amava anche i bei vestiti, che egli le comprava in gran quantità. Sposatisi, vissero felici per due anni, dopodiché la fanciulla morì e per i suoi funerali, che dovevamo essere grandiosi, l’uomo spese tutto ciò che gli restava. Un giorno, mentre debole, povero e triste si trascinava per la strada, vide in una vetrina un paio di stivaletti che sarebbero andati giusti alla moglie. Dimenticando di essere vedovo (forse perché il suo cervello svuotato non funzionava più), entrò nel negozio per comperarli.

Ma in quel momento crollò a terra e il venditore lo vide giacere morto dinanzi a lui.

“Ci sono dei poveracci (…) che pagano le piccole cose della vita con oro zecchino, col loro midollo, con la loro sostanza. È un dolore che si rinnova ogni giorno; e poi quando sono stanchi di soffrire…”

Questo racconto, che può apparire bizzarro, è una metafora che incarna perfettamente una particolare situazione vissuta da alcuni nella primissima infanzia, dove il bambino, per conformarsi alle aspettative di chi si prende cura di lui, deve rimuovere il suo bisogno di amore, attenzione, sintonia, comprensione, partecipazione, rispecchiamento. Deve anche reprimere le sue reazioni emotive ai pesanti rifiuti che riceve, il che porta all’impossibilità di vivere determinati sentimenti (per esempio i sentimenti di gelosia, invidia, ira, abbandono, impotenza, paura) dapprima nell’infanzia e poi nell’età adulta. L’asperità ha origine nel sentimento originario del bambino piccolo, che non dispone di tutte queste possibilità di distrazione, e le cui comunicazioni verbali o preverbali non hanno raggiunto i genitori, perché nel profondo erano essi stessi ancora bambini permeati da carenze affettive. Risulta quindi ovvio che le mancanze verso il figlio non sono avvenute perché fossero dei cattivi genitori. Essi stessi infatti dipendevano da una certa sintonia con il bambino, a loro necessaria, nella continua ricerca di una persona disponibile. E per quanto ciò possa apparire paradossale il bambino è disponibile, il bambino non ci sfugge come un tempo ci era sfuggita nostra madre. Un bambino possiamo educarlo in modo da farlo diventare come piace a noi. Così come nella storia suddetta, la madre per paura che derubassero il figlio gli vieta di vedere altri bambini, lo sorveglia continuamente e il figlio “impregnato” dai sensi di colpa, quando chiede un po’ di libertà, estrae “un pezzo del suo oro” e lo dona alla madre, sacrificando un pezzo di Sé.

Come afferma Alice Miller, l’adattamento ai bisogni dei genitori conduce spesso (ma non sempre) allo sviluppo della personalità “come se”, ovvero a ciò che si definisce un falso Sé. L’individuo sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire come ci si aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che mostra. Il suo vero Sé non può fermarsi, né svilupparsi, perché non può essere vissuto. Si capisce allora come essi lamentino un senso di vuoto e di assurdo e in effetti questo vuoto è reale, così, come il bambino con il cervello d’oro, diventato adulto perde tutte le sue ricchezze, rimanendo solo un cervello svuotato. È stato infatti reciso l’elemento vitale del bambino e quindi la sua integrità. Dalle difficoltà di vivere e manifestare i propri sentimenti autentici deriva la permanenza del legame, che non consente una reciproca delimitazione. I genitori infatti hanno trovato nel falso Sé del bambino la conferma che cercavano, un sostituto alla sicurezza che a loro mancava, e il bambino, che non ha potuto costruirsi una propria sicurezza, dipenderà dapprima consciamente e in seguito in modo inconscio dai genitori. Non potendo abbandonarsi a sentimenti propri e non avendone fatto esperienza, egli non conosce i suoi veri bisogni ed è al massimo grado alienato da sé stesso, sino a non riconoscere e diversificare i propri bisogni da quegli degli altri, allo stesso modo in cui il protagonista della storia si trova a comprare degli stivali che non servono né a lui né alla moglie e ad aver soddisfatto sempre i desideri degli altri, non riconoscendo mai i propri bisogni.

Un adulto, può vivere i propri sentimenti solo se da bambino ha avuto genitori o sostituti parentali amorevoli e dediti a lui. A coloro che hanno subito maltrattamenti, ciò è mancato, il vero Sé non può comunicare, essendo rimasto a uno stadio inconscio e dunque non evoluto, ingabbiato in una sorte di prigione interiore. Non saranno i rapporti con i custodi di una prigione a favorire uno sviluppo vitale. Solo dopo la liberazione, il Sé incomincia ad articolarsi, a crescere e a sviluppare la propria creatività. Non si tratta di un rimpatrio, perché non c’è mai stata patria, ma della scoperta di una patria. Risulta chiaro che per scoprire bisogna cercare e senza ombra di dubbio si tratterà di una ricerca ardua, dolorosa, affascinante, ma assolutamente ed inevitabilmente pura e liberatoria, dove finalmente potremmo permetterci di essere ciò che in realtà siamo sempre stati e per conformarci a quel falso Sé, abbiamo pagato l’amaro prezzo di sacrificare il nostro vero Sè pur di far felice qualcun altro. Dovremmo ricordarci che quando qualcosa di caro ci appartiene, non dovremmo permettere a nessuno, tantomeno a noi stessi di coprirlo, buttarlo, danneggiarlo, sostituirlo.

Alice Miller analizza quale aiuto può offrire la psicoterapia nella ricerca del vero Sé, delineando la risposta che l’esperienza della propria verità e la sua conoscenza post-ambivalente rendono possibile, a un livello adulto, il ritorno al proprio mondo affettivo, senza paradisi, è vero, ma con la capacità di vivere il proprio lutto, capacità che ci restituisce la nostra vitalità.

Uno dei cardini della terapia è che il paziente arrivi a una comprensione emotiva del fatto che tutto l’“amore” che si era conquistato con tanta fatica e a prezzo della rinuncia a esprimere sé stesso non riguardava affatto l’individuo che era in realtà: l’ammirazione per la sua bellezza e le sue brillanti prestazioni, non era rivolta al bambino reale.

Quindi non appena l’adulto è in grado di prendere sul serio i suoi sentimenti, incomincia a rendersi conto di come in precedenza avesse trattato i suoi sentimenti e bisogni e si avvede che quella era stata la sua unica possibilità di sopravvivere. Si sente alleggerito nel percepire in sé stesso cose che fino a quel momento era abituato a soffocare. Quando più siamo in grado di ammettere e di vivere i sentimenti della prima infanzia, tanto più ci sentiamo forti e coerenti. In tal modo siamo in grado di esporci ai sentimenti della prima infanzia e di vivere il senso di impotenza di allora, il che alla fine rafforza ulteriormente la nostra sicurezza. Una volta avviato, il processo terapeutico non si arresta più. La persona sofferente incomincia a esprimersi, mette da parte la propria docilità, ma in base alle esperienze infantili (non solo quelle avute con la madre, ma anche quelle avute con altre figure significative, dai nonni alle maestre della scuola) non può credere che ciò sia possibile senza incorrere nel rischio di perdere la vita. A partire dall’esperienza passata, si attende e teme di essere rifiutato, respinto e punito, si difende e combatte per i propri diritti, per arrivare poi sempre a provare un senso di liberazione per aver saputo tollerare il rischio e acquisire autonomia. Una volta che viene svegliata la sensibilità per i moti affettivi, non si può tornare indietro, ed ora il bambino che un tempo era intimorito e condannato a tacere può viversi come prima non avrebbe mai supposto di poter fare. Tuttavia tali sofferenze possono trasformarsi in risorse preziose, in un vero “cervello d’oro”, che, questa volta sa proteggere e spendere al meglio la sua ricchezza. Come afferma Alice Miller,

la sensibilità dello psicoterapeuta, la sua capacità di provare empatia, il suo essere provvisto di “finissime antenne”, rimandano proprio al suo essere stato usato, se l’uso non era addirittura degenerato in abuso da genitori che soffrivano di carenze affettive.

A mio parere, non tutti gli psicoterapeuti hanno vissuto ciò, ma questi probabilmente saranno sprovvisti di tali “antenne”, per via del proprio vissuto di non aver tradito mai il proprio Sé. Come dare torto alla Miller, sicuramente chi ha vissuto una determinata sofferenza, chi ha provato gli stessi sentimenti di vivere un “falso Sé”, addentrandosi in esperienze similari, toccandole con mano, sporcandosi, chi insomma, almeno una volta, “si è perso nel bosco per poi ritrovarsi”, può capire nel più profondo cosa significa perdersi. Per opera di ciò, il terapeuta può meglio entrare nel “mondo” delle altre persone, sentendone dentro la pelle e nel cuore i vissuti, in virtù delle sue geniali intuizioni, rendendosi un ottimo mentore che accompagna, ma non guida e con il quale il paziente incontrerà il suo vero Sé in modo consapevole, essendo l’unico che per primo lo conosce.

 

“Non ho bisogno di aiuto”: la difficoltà culturale del sesso maschile nel chiedere aiuto al lavoro

Sebbene le differenze di genere legate al sistema culturale occidentale stiano lentamente lasciando spazio ad un progressivo processo di uguaglianza sociale, certi sistemi psicosociali tendono a resistere indefessamente. Uno di questi sistemi è quello riguardante la resistenza di persone di sesso maschile ad ammettere un bisogno d’aiuto, soprattutto quando sono nell’ambiente lavorativo; ne segue un’analisi psicologica e culturale.

 

Come scrive Alina Tugend nel suo articolo del New York Times (2007), una delle azioni più difficili da fare sul luogo di lavoro e nella vita privata è quella di chiedere aiuto.

Nel proseguire del suo pezzo, la giornalista descrive come spesso le persone non chiedano aiuto immediato agli altri e come questa tendenza le porti ad uno stato di stasi frustante o ad un peggioramento della propria situazione. I motivi principali di questa resistenza sono dovuti principalmente al dare l’idea di essere in una situazione di debolezza, di non essere capaci a prescindere di svolgere il proprio ruolo e, infine, di poter essere un peso per gli altri, squalificandosi così di conseguenza.

Questa visione è soprattutto riscontrabile nelle persone di sesso maschile, soprattutto quelle appartenenti alle culture occidentali sottoposte al patriarcato: di fatto, in queste culture vige la visione della forza di volontà come forza principale del successo, della propria resilienza come fattore principale di successo, della qualificazione attraverso l’attenersi scrupolosamente al copione culturale di provenienza e il ritenere le fragilità come segno di debolezza (Seidman, 2010).

La tesi viene confermata da David M. Mayer sull’Harvard Business Review (2018), dove indica come l’educazione occidentale (in questo caso quella statunitense) avvii i ragazzi ad assumere un atteggiamento stoico e chiuso emotivamente, producendo così una visione negativa e di diffidenza nei confronti di atteggiamenti interpersonali positivi, l’attuare apertamente l’empatia, il mostrare tristezza, l’essere modesti e attuare atteggiamenti considerati femminili o sposare la causa femminista.

Questo conduce all’analisi fatta, sempre sull’Harvard Business Review, da Jennifer L. Berdahl, Peter Glick e Marianne Cooper (2018), dove i ricercatori appena citati hanno contestualizzato il concetto di Masculinity Context Culture, determinato dalle seguenti quattro norme: non mostrare insicurezze, possedere forza e resistenza, il lavoro prima di tutto e assumere una mentalità “cane mangia cane”.

Come risulta, questi processi squalificano tutti coloro che non seguono queste norme, facendo apparire chi le segue come un soggetto mascolino a tutti gli effetti. A costi non di piccola dimensione. Infatti, sempre nello stesso articolo di Berdahl et al., nelle società lavorative dove è forte il concetto di Masculinity Context Culture sono statisticamente più presenti questi fenomeni: leadership tossica; bassa sicurezza psicologica; basso equilibrio lavoro/famiglia; frequenti episodi di sessismo; bullismo e atteggiamenti interpersonali di natura sessuale non conformi alle norme; burnout episodici; grande percentuale di malessere fisico e mentale.

Al contrario, chiedere aiuto o semplicemente chiedere qualcosa che sia giustificato nel contesto manda messaggi di apertura responsabile, di avere capacità relazionali buone ed infine basse probabilità di avere una personalità egocentrica (Huang et al., 2017).

Tirando le somme, la questione dell’essere qualificati come mascolini è ancora un elemento fondamentale delle società patriarcali occidentali, dando così valore di appartenenza culturale al costo di sacrificare qualsiasi altro elemento sociale o culturale, anche quelli riguardanti un ambiente fondamentale come quello del luogo di lavoro.

Ignorando così quella essenza fondamentalmente umana che è il chiedere aiuto, dimostrando che molte volte la vera forza è accettare le proprie fragilità e chiedere una mano per affrontarle (Crepet, 2018).

 

Lasciamo il virus fuori dalla mente: la pratica mindfulness ed i consigli dal Santacittarama

Lo stato di emergenza attuale vede lo sviluppo e la crescita di numerosi e sgraditi sintomi psicofisici. Può la pratica della consapevolezza essere efficace nella riduzione di tale sintomatologia? Un’analisi della letteratura e la prospettiva della comunità buddhista del Santacittarama cercano una risposta al quesito.

 

La pratica mindfulness. implicazioni e risvolti scientifici

Gli ultimi anni hanno testimoniato l’emergere della meditazione basata sulla mindfulness come un intervento efficace nell’alleviare i sintomi connessi alla malattia ed al distress (Brown, 2003). Jon Kabat-Zinn, pioniere dell’applicazione terapeutica della mindfulness, la definisce come

la consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza, momento per momento (Kabat-Zinn, 1994).

La pratica si è diffusa originariamente nel contesto delle malattie fisiche come il dolore cronico, ma negli ultimi trent’anni ha evidenziato significativi benefici per la salute e per il benessere e viene oggi utilizzata come strumento di supporto per la cura e per la prevenzione di patologie come, ad esempio, disturbi del sonno, dell’alimentazione, da attacchi di panico, e stati depressivi (Kabat-Zinn, 2006).

Attraverso la meditazione mindfulness gli individui imparano metodi più adattivi di risposta agli stati mentali avversivi, focalizzandosi sul momento presente, senza giudicarsi, fino all’accettazione di essi. Dal punto di vista dei processi mentali essa si sostanzia nel prestare, nel momento presente, attenzione a quattro elementi: il proprio corpo, le proprie percezioni sensoriali, le formazioni mentali (ad es. la rabbia, il dolore o la compassione) e gli oggetti della mente. L’osservazione di questi elementi della propria esperienza soggettiva avviene in uno stato di autentica calma non reattiva, consentendo ai cambiamenti di avvenire naturalmente, senza ostacolarli né promuoverli ed evitando la solita resistenza o il solito giudizio che causano ulteriore sofferenza.

La pratica costante della meditazione basata sulla mindfulness si è dimostrata efficace nella riduzione dello stress e delle patologie ad esso correlate, nel sollievo da sintomi fisici connessi a malattie organiche e, in generale, nella promozione di profondi e positivi cambiamenti dell’atteggiamento, del comportamento e della percezione di se stessi, degli altri e del mondo (Chiesa, 2009). Altri cambiamenti sono ravvisabili inoltre in un maggiore potere di gestione dei conflitti e dei problemi ordinari e straordinari ed una nuova competenza, nel sostituire le emozioni distruttive con modi di essere più costruttivi che promuovono l’equanimità, l’amore e la saggezza (Rainone, 2012).

Questi cambiamenti si riscontrano anche a livello cerebrale: Taren e colleghi nel 2015 hanno evidenziato come soli tre giorni intensivi di meditazione mindfulness possano abbassare il livello di stress, riducendo l’attivazione del circuito neurale amigdala destra-corteccia cingolata anteriore, che agisce sul sistema precoce di avvertimento del cervello. Cambiamenti significativi in chi pratica mindfulness da molti anni sono stati ravvisati in termini di aumento di spessore e di girificazioni corticali (Haselkamp, 2012).

Una scarsa consapevolezza riferita al momento presente sembra non appartenere unicamente a persone che presentano alti livelli di stress o psicopatologie: secondo un recente studio infatti le persone mediamente dedicano mentalmente il 43% del loro tempo durante la veglia a pensare al futuro, il 26% al passato e solamente il 15 % al presente (più un 16% è di collocazione temporale incerta) (Hauswald 2013).

E oggi, in questo momento di emergenza collettiva provocata dalla pandemia, quali saranno le percentuali? Analizzando gli studi sugli effetti psicologici delle pandemie passate ed i primi dati su quella attuale, si può stimare che anche in questo periodo molte persone soffrano di tensione emotiva, senso di impotenza, frustrazione, insonnia, ansia e paura, e che alcune possano sviluppare vere e proprie sindromi psicopatologiche. Può la mindfulness risultare efficace nell’alleviare i sintomi sopra riportati? C’è la possibilità, per ognuno, di imparare a focalizzarsi sul momento presente, in modo non giudicante? Abbiamo rivolto questi ed altri interrogativi alla comunità del monastero buddhista di Santacittarama.

La situazione attuale dalla prospettiva del Santacittarama

Chiamato anche “Il giardino del cuore sereno”, il monastero si trova sulle colline Sabine a circa 50 km da Roma ed ospita stabilmente una dozzina di monaci, oltre a visitatori ed aiutanti laici che vi si recano per brevi o lunghi periodi. Sebbene l’Associazione Santacittarama sia riconosciuta come Ente Religioso dal 1995, la tradizione del buddhismo Theravada su cui si fonda suscita grande interesse anche tra i laici, grazie al carattere di attualità, trasversalità ed accessibilità dei suoi insegnamenti e riflessioni.

La comunità ha accolto con entusiasmo i nostri quesiti; in particolare, hanno risposto alle nostre domande Mahapanyo, un monaco anziano, Santhidaro, un monaco novizio, e Marco, un aiutante laico della comunità.

Intervistatore (I): Su quali pilastri fondamentali si fonda la vostra comunità? E come si articola la vostra quotidianità?

Mahapanyo (Mah): La vita monastica si basa su due insegnamenti fondamentali: Dhamma e Vinaya, rispettivamente la dottrina e la disciplina entro cui è possibile realizzare il risveglio ed incontrare la libertà del cuore e della mente. La giornata per noi inizia alle 5 del mattino e termina alle 19, in corrispondenza degli incontri spirituali. Ci dedichiamo ai lavori manuali fino alle 12, ora dell’ultimo pasto, dopo di che ci ritiriamo in silenzio nei nostri alloggi fino a sera. Il monastero inoltre offre sempre accoglienza ad ospiti e visitatori, tranne nei periodi di ritiro dove rimangono solo pochi ospiti selezionati.

I: L’emergenza che stiamo vivendo ha modificato le vostre abitudini o vi ha spinto a nuove riflessioni?

Mah: Fondamentalmente no, stiamo continuando il ritiro spirituale. Da marzo abbiamo sospeso le visite, ma fortunatamente era già presente un gruppo di ospiti che sono rimasti ad aiutarci nelle attività che noi monaci per disciplina non possiamo svolgere, come cucinare o gestire denaro. Non abbiamo dovuto affrontare perciò cambiamenti sostanziali. La nostra tradizione è basata sulla contemplazione dell’incertezza, sul rendersi conto che tutto è mutevole e non c’è nulla a cui aggrapparsi. Stiamo quindi confermando la bontà di questa riflessione, che le persone attorno a noi purtroppo devono ora forzatamente apprendere, non per scelta o come pratica spirituale, ma come constatazione di ciò che sta accadendo.

Santhidaro (S): Quello che ha attirato la mia attenzione, da questo che è inevitabilmente un osservatorio privilegiato, è la caparbietà con cui gli esseri si ostinano a perseguire il proprio interesse personale a discapito delle esigenze altrui, perdendo un enorme occasione di crescita personale. Con ciò non mi riferisco solamente alla possibilità di meditare ed osservare la transitorietà dei fenomeni, ma anche al valore che nell’emergenza si smette di dare a ciò che possediamo. È importante sorvegliare la mente, senza lasciare che vaghi in zone dove ora, tanto più vessata, potrebbe perdersi.

I: C’è qualche indicazione o pratica che consigliereste di seguire in questa situazione?

Mah: Sicuramente il cercare di tornare con il pensiero al presente ed avere il coraggio di aprirsi all’incertezza. Non sappiamo cosa accadrà in futuro, ci possono essere visioni ottimiste o pessimistiche, ma la verità è che dobbiamo imparare ad accettare il ‘non lo so’. Inizierei quindi con l’accettare il fatto che non tutto è sotto controllo e con il coltivare le nostre abilità spirituali, con la fiducia di poter agire in maniera corretta e che le nostre parole ci aiuteranno a lasciare andare gli attaccamenti.

Marco (Mar): Praticando regolarmente la meditazione, ci mettiamo nella condizione di accettare i nostri pensieri e le nostre sensazioni, ci addestriamo a restare con tutto questo senza reagire compulsivamente, osservandone l’impermanenza, caratteristica che accomuna tutti i fenomeni condizionati. Impariamo a restare con quello che c’è, semplicemente, in ogni istante.

I: Quali sono i maggiori benefici che la pratica della mindfulness può apportare al corpo e alla mente? E chi può praticarla?

Mar: Il praticare la Mindfulness, ovvero la consapevolezza, ci permette di non perderci in proiezioni future, spesso erronee, e di restare ancorati all’infinito presente, nel ‘qui ed ora’ in cui possiamo riconoscere quanto siamo fortunati. In questa chiarezza mentale quindi, ci possiamo ritagliare momenti di gioia. Proteggiamo il corpo fin dove è possibile, ma soprattutto proteggiamo la mente, l’unica finestra sulla realtà.

S: La consapevolezza del momento presente e la quiete profonda sono caratteristiche innate della mente, siamo noi che perturbiamo la suddetta condizione con ansie, paure e incertezze di ogni grado. La presenza mentale si può richiamare in ogni istante ed allenandosi con pazienza diventerà un’abitudine.

Tornando agli interrogativi iniziali, può la pratica mindfulness essere efficace nel ridurre lo stress derivante dal lockdown? C’è la possibilità, per ognuno, di imparare a focalizzarsi sul momento presente, in modo non giudicante? La risposta dal Santacittarama è chiara: sì e sì. L’esperienza di chi ha fatto della presenza mentale una disciplina da osservare per tutta la vita testimonia che è possibile spostare l’attenzione sul presente, accettandosi, e che questo ci possa avvicinare alla felicità. Persino in questo momento, anzi soprattutto ora, che i più fortunati hanno tempo per fermarsi e riflettere.

 

Self Compassion: il potere dell’essere gentili con se stessi (2019) di Kristin Neff – Recensione del libro

Sopratutto nelle culture occidentali, espressioni come compassione per se stessi e gentilezza vengono confuse con autoindulgenza e pigrizia. L’autocriticismo, nemico della Self Compassion, è purtroppo un fenomeno ricorrente nella vita di molte persone.

 

 Kristin Neff è una delle voci più importanti nel panorama internazionale rispetto alla Self Compassion (compassione per sé stessi) e questo libro, edito Franco Angeli, è un dono prezioso che l’autrice fa a tutti i lettori, anzi vorrei dire a tutte le persone.

Perché questo libro è scritto per tutti.

L’autrice ci mette la faccia, parla di sé, parla della propria storia e del proprio sviluppo e di come si sia avvicinata alla Self Compassion e che ruolo centrale abbia avuto nella sua esistenza, rendendo facile, per colui che legge, immedesimarsi in lei.

L’autocriticismo, nemico dell’autocompassione, è un fenomeno molto comune per tante persone. E lo è soprattutto in tutte le culture occidentali dove termini come compassione per sé e gentilezza, si confondono con autoindulgenza e pigrizia.

È un libro da leggere. Profondo e semplice, come tutte gli elementi che compongono la Self Compassison.

La scrittura è in prima persona, il che rende il libro di scorrevole e di piacevole lettura senza togliere niente rispetto ai fondamenti scientifici che vengono brillantemente espressi lungo tutte le 228 pagine, che rendono il testo illuminante anche per la pratica clinica.

È denso di riferimenti a fatti e persone, che non vogliono essere in nessun modo “casi clinici” quanto piuttosto storie di vita personale.

Non è un libro per addetti ai lavori, cosi come non è un libro per pazienti; è un libro per ogni persona, essere umano, che sperimenti quanto sia doloroso stare con le proprie autocritiche, voci nella testa. Pertanto, né gli psicologi né i loro pazienti sono esenti da questo.

Il testo si apre con uno sguardo al mondo e al modo in cui viviamo. Culture orientate alla competizione, al dover fare ed essere “di più”, al “non è mai abbastanza”, alla ricerca perduta della perfezione, al non dover/poter commettere errori per meritarsi qualcosa. E sono tutte questi sabotaggi personali, che l’autrice con la delicatezza della propria esperienza personale, cerca di demitizzare.

C’è la storia personale che tiene legate le pagine del libro, è la storia di una donna che ha commesso errori e che mancava di autocompassione; la storia di un io parlante che ha sperimentato in prima persona il potere dell’autocompassione come un arricchimento per il proprio benessere emotivo e psicologico nonostante le tante difficoltà nella vita a cui ha dovuto far fronte (dalle situazioni familiari difficili in infanzia, alla fine di un matrimonio, al tradimento e alla diagnosi di autismo del figlio).

Credo che emerga a gran voce che chi scrive è qualcuno che sa per esperienza di cosa parla, proprio per la capacità di mettersi in discussione e svelarsi al lettore in tutta la sua (imperfetta) natura umana con quel tocco di amore per sé stessi che la Self Compassion può davvero dare.

Ci sono più sezioni nel libro ed ognuna termina con un paragrafo rispetto alla storia personale dell’autrice (sebbene questa venga narrata anche durante lo scorrere delle pagine e degli altri paragrafi).

Nella prima parte viene spiegato, forse meglio dire raccontato, perché la Self Compassion è così rilevante nella nostra vita e nella nostra società. È la connessione con sé stessi e con gli altri che ci permette di sentire e di sentirci. La compassione comprende il riconoscimento della sofferenza e il desiderio di aiutare ad alleviare la sofferenza, in un’ottica in cui la condizione umana risulta imperfetta e fragile. Tutti commettiamo errori e sbagli. Il punto non è ovviamente cercare di farlo il meno possibile, ma aprirci al fatto che meritiamo compassione in quanto esseri umani imperfetti. Nessuno è escluso.

Come ricorda il Dalai Lama, tutti meritiamo la felicità.

In modo rapido, ma non per questo superficiale, vengono toccati molti temi fondanti della psicologia, sempre nell’ottica di dare il giusto valore al potere dell’essere gentili con sé stessi. Si toccano temi come l’attaccamento citando Bowlby, il criticismo genitoriale e ciò che comporta, il potere (negativo) dell’autogiudizio e il ruolo che rivestono l’ambiente e la cultura in questo. E la “via d’uscita”, come la chiama l’autrice, della Self Compassion da tutti gli autosabotaggi imposti.

Nella seconda parte si racconta più da vicino cosa effettivamente sia e di quali ingredienti venga composta: gentilezza verso sè, il riconoscimento della nostra connessione umana e la Mindfulness. La gentilezza verso se stessi richiede essere gentili e comprensivi nei nostri confronti, concetto che spesso fatichiamo ad agganciare, molto più semplice farlo con gli altri. Richiede di cogliere i fallimenti piuttosto che condannarci per questi. E trattarci come farebbe un amico piuttosto che incattivirci con noi stessi.

Ci sono esercizi lungo il percorso in cui il libro si snoda, esercizi per stimolare e apprendere queste capacità. L’esercizio di abbracciarsi, di scriverci una lettera come se fossimo una persona che ci vuole bene, esercizi volti a cambiare il self talk interno (il modo in cui ci parliamo), provando ad utilizzare una comunicazione più gentile ed equilibrata.

Un breve spazio è dedicato anche alla comune obiezione dietro la quale si riaprono i meccanismi di mantenimento dell’autocritica, come se questa fosse un modo per spronarci a essere migliori o che un eccesso di gentilezza sia accomunabile all’autoindulgenza. Credenze smentite con una densa mole di ricerca a sostegno del fatto che buttarci giù, oltre a farci stare peggio, non sortisce alcun effetto benefico alle nostre prestazioni, di qualsiasi natura (così come criticare aspramente un bambino non lo motivi di certo a farlo crescere).

Secondo elemento della consapevolezza dell’esperienza umana è ciò che viene chiamato “siamo tutti sulla stessa barca”. Riconoscere che siamo tutti connessi aiuta a distinguere la Self Compassion dall’amore per sé e dall’accettazione di se stessi (termini che non sono sinonimi). Sicuramente sono entrambi valori importanti, ma la Self Compassion abbraccia l’aspetto universale della connessione umana, implica il soffrire con, e quindi la reciprocità nonché la profonda comprensione che la natura umana è fallibile; si onora l’essere umano in virtù delle sue scelte sbagliate, che è naturale compiere. Sentirsi appartenenti a qualcosa (come ricordano le teorie Maslow e di Khout) è un bisogno fondamentale e questo senso di connessione tende a contrastare quello di sentirsi soli e isolati che, al contrario, genera malessere e psicopatologia.

La struggente storia personale dell’autrice racconta di suo figlio autistico e di tutte le problematiche connesse all’accettazione di una sofferenza tanto grande. E le parole profonde di come abbia trovato nella Self Compassion un’ancora di salvezza ad una profonda disperazione:

Il vero dono della Self Compassion era che mi dava l’equanimità necessaria per prendere provvedimenti che alla fine lo hanno aiutato (pag. 70)

Il terzo ingrediente è la Mindfulness che viene spiegata con precisione e delicatezza. La consapevolezza Mindful è alla base della possibilità della compassione. Imparare a non reagire per rispondere, imparare che l’evitamento del dolore è una strada, ma non l’unica, imparare che la sofferenza è data dalla moltiplicazione del Dolore x La resistenza ad esso, sono il terreno dove la Self Compassion può fiorire. Un capitolo denso, con molte indicazioni di pratiche da poter seguire (come negli altri, del resto) aiuta ad avvicinare concetti come la resilienza emotiva, l’intelligenza emotiva e tutti i benefici (con supporti di studi) che la combinazione di questi con la Self Compassion possono apportare.

Viene citato Paul Gilbert e il suo CMT (Compassion Mind Training) per aiutare le persone a capire quanto la sofferenza possa essere data dall’autocriticismo.

Un’ampia sezione è dedicata a differenziare l’autostima dalla Self Compassion, parte che, ricca di riscontri scientifici, demitizza il potere dell’alta autostima come passepartout per la felicità mostrando i suoi lati vulnerabili. Passaggi interessanti dove si comprende come il costrutto pluri studiato dell’autostima abbia a che vedere con il rispecchiamento nell’altro. o nella prestazione in qualche dominio, e come l’effetto di una società, dettata al potenziare l’autostima ad ogni costo, abbia restituito negli ultimi tempi un boom di diagnosi di narcisismo.

Negli USA, dove si sono prese molte misure educative per rendere i ragazzi più sicuri in sé stessi, eliminano i brutti voti, rendendo la ricerca del piacere la via da perseguire; una disamina sul Disturbo Narcisistico di Personalità è interessante sia da un punto di vista clinico che da quello di un non addetto ai lavori. Si sottolinea come si sia perso il potere del rapporto con noi stessi, in virtù dei giudizi che cercano di definire il nostro valore.

Gli ulteriori capitoli hanno a che vedere con la motivazione e come la Self Compassion non abbia nulla a che vedere con la pigrizia; quando motiviamo le persone che amiamo (tipo i figli) siamo solitamente gentili e compassionevoli piuttosto che duri a aspri. Per cui la Self Compassion risulta utile per affrontare la procrastinazione (e quindi l’evitamento dello spiacevole o la paura del fallimento), può aiutare ad avere un rapporto più sereno con il proprio corpo e il modo di mangiare, anche in riferimento all’incremento dei Disturbi dell’Alimentazione e il potere che il perdono e la compassione possano giocare nelle abbuffate.

Altre sezioni hanno a che vedere con la Self Compassion in relazione agli altri, con particolare attenzione alle persone che aiutano e quindi come possa costituire un fattore di protezione dal burnout delle professioni sanitarie. Un training basato sulla Compassion aiuta gli operatori a fronteggiare la “Compassion fatigue”.

Vengono inoltre approfondite le relazioni (e l’importanza) della Self Compassion nella genitorialità, nella coppia e nella sessualità di questa. Per quanto riguarda la parte relativa alla genitorialità, con un tocco dolce, l’autrice cerca di parlare a tutti i genitori che normalmente hanno esperienza di sentimenti di inadeguatezza, rabbia, frustrazione e colpa nel loro ruolo. Spiega come utilizzare la Compassion per sé e per i figli (quindi allenare già i propri ragazzi ad essere autocompassionevoli) possa migliorare enormemente la qualità dei rapporti, sia negli anni più precoci, sia nei difficili anni dell’adolescenza. Esistono programmi di Mindful Awareness Parenting volti a promuovere la sensibilità genitoriale aumentando empatia e la consapevolezza di stare con i propri figli.

Il libro chiude con un vero e proprio inno alla Psicologia Positiva e del potere di apprezzarsi, di pensare in modo positivo, delle emozioni gradevoli, del gioire delle belle esperienze come meccanismi che alimentano la positività stessa.

In conclusione è un testo che si legge tutto d’un fiato per una piacevole scorrevolezza, che manda un messaggio al quale ognuno di noi dovrebbe tendere l’orecchio.

Una parte presente, quella dell’autocriticismo, che troppo spesso non viene considerata, nella clinica come nella vita, come (così) importante fonte di malessere e psicopatologia e che, invece, può essere ribaltata e cambiata, attraverso l’allenamento ad una delle più universali emozioni come la Compassione.

 

La comunicazione al tempo del Covid-19: fin dove arriva la tecnologia?

La comunicazione non verbale, dal tono di voce alle pause di silenzio, dal contatto visivo alla mimica facciale, dalla postura ai gesti, è un elemento fondamentale attraverso cui riusciamo a completare ciò che l’altro vuole comunicarci. Quali sono le conseguenze delle interazioni mediate dalla tecnologia?

 

La comunicazione verbale e non verbale è alla base di qualsiasi scambio e relazione interpersonale. A questo proposito, Albert Mehrabian, nel 1971, studiò i processi comunicativi formulando il modello del “55, 38, 7”. Secondo lo psicologo, infatti, solo il 7% della comunicazione dipende realmente dal contenuto verbale del messaggio. Una percentuale minima, se considerata a confronto con quella relativa al linguaggio non verbale (55%) e  agli elementi paraverbali come ritmo e tono della voce (38%).

Ma come cambia la comunicazione se, in tempi di emergenza sanitaria, non c’è modo di incontrare l’altro se non tramite la videochiamata?

In effetti, sebbene la rete ci dia la possibilità di evitare il senso di solitudine e di isolamento sociale, non è ancora in grado di sostituire adeguatamente l’incontro vis à vis. Perché? Non solo perché il wifi non sempre funziona o la connessione è scarsa, ma anche perché potrebbe perderne di qualità lo scambio comunicativo. A pagarne le conseguenze, infatti, è  soprattutto la comunicazione non verbale, data dalla prossemica, dal tono di voce, dalle pause di silenzio, dal contatto visivo e dalla mimica facciale, dalla postura e dai gesti. In tempi più sereni, attraverso questi elementi riusciamo a completare il messaggio che esprimiamo a parole, aggiungendo a questo valore ed intensità.

Purtroppo, però, durante una videochiamata non viene facilmente colto il tono di voce, il significato di uno sguardo o di un’espressione facciale. Spesso la postura e i gesti non sono neanche visibili. Inoltre, è difficile cogliere il significato di una pausa silenziosa in un discorso se non si capisce se questa è dovuta a un ritardo nella linea o ad un fattore emotivo. Diventa persino complicato rispettare i turni della conversazione, evitare le interruzioni nel discorso dell’altro, mentre diventa ancora più facile cadere nei messaggi unidirezionali, nelle distorsioni semantiche e nelle anticipazioni. Ciò non è molto diverso da quello che frequentemente avviene nei messaggi che ci scambiamo quotidianamente. La mancanza di intonazione e l’assenza del contesto a cui attribuire una frase è causa di grandi fraintendimenti e litigi. In questi casi, quel che succede è la compromissione della  corretta interpretazione dei significati. E, non immaginiamoci che ciò accada solo nel sentire amici e parenti, avviene anche in tutte le reti sociali costruite per portare avanti i lavori ed i progetti che altrimenti sarebbero stati interrotti. Uno psicoterapeuta riesce a seguire adeguatamente il suo paziente senza poter interpretare il linguaggio del corpo? Un  professore riesce a trasmettere la stessa motivazione ai propri studenti senza che essi possano vedere l’entusiasmo nel suo sguardo? In una seduta di laurea online, un presidente di commissione mantiene lo stesso tono di voce autorevole nel dichiarare dottori i propri laureandi? I medici, che controllano a distanza i propri pazienti, riusciranno a comunicare fiducia senza poter usare un gesto rassicurativo?

Quali sono le conseguenze? Sul momento, un’inadeguata interpretazione del messaggio provoca un’inadeguata risposta. In altre parole, se non si riesce a comprendere il segnale non verbale dell’altro, si potrebbe mostrare una scarsa empatia, disinteresse, minimizzazioni del messaggio. Apparentemente, si ha la sensazione di una comunicazione molto forzata e poco naturale, lo dimostrano: la tendenza spropositata ad alzare la voce (del resto cosa si fa per comunicare con una persona distante?), ad avvicinarsi con il volto o con le orecchie allo schermo (nella speranza di vedere o sentire meglio l’altro) e ad utilizzare gesti poco naturali ma più esemplificativi.

D’altro canto, a lungo termine, in un mondo sempre più virtuale, l’utilizzo di questi strumenti potrebbe comportare la messa in atto di conversazioni distratte, più superficiali, meno importanti e più ridondanti. A ciò si aggiunge, una possibile riduzione del tempo di incontro con l’altro, che, sebbene possa essere raggiunto in qualsiasi momento, non restituisce quell’ascolto empatico atteso nell’interazione la quale, invece, finisce per costare uno sforzo comunicativo maggiore.

La videochiamata, in ogni caso, appare il mezzo più all’avanguardia che il nostro tempo ci offre. Attraverso di questa, infatti, riusciamo a mantenere vivi i rapporti significativi e a portare avanti i nostri progetti. Nonostante questo, non riesce ancora a sostituire l’incontro reale con l’altro, lo dimostra il fatto che ancora sentiamo il bisogno di guardare qualcuno negli occhi e la nostalgia di potersi capire senza dover impiegare tante parole.

 

Non dirmi chi amare

Le relazioni romantiche nascono inserite all’interno di un’ampia rete sociale, comprensiva di famigliari e amici (Sprecher et al. 2006; Wrighe & Sinclair, 2012), la quale esercita degli effetti. Questi ultimi si riferiscono al modo in cui l’approvazione della propria relazione da parte della rete aumenta gli esiti positivi della stessa, e come, al contrario, la disapprovazione sociale può portare alla sua cessazione (Felmlee, 2001).

 

Il presente studio ha due scopi principali: da un lato esaminare come le reazioni della rete sociale, che siano esse positive o negative, influenzino le relazioni romantiche, incluso la scelta del partner e lo sviluppo dell’amore e dell’impegno reciproco; dall’altro, considerare come le risposte ai tentativi di influenza sociale possano essere temperate dalla reattività psicologica. È, infatti, improbabile che le persone siano omogenee nelle loro reazioni di fronte ai tentativi di influenza altrui, così, questa ricerca offre un’indagine sulla reattività, intesa come caratteristica personale che può tamponare l’effetto della rete interpersonale. Nello specifico, Sinclair et al. (2015) hanno condotto tre studi in cui hanno esaminato l’influenza delle opinioni di parenti e amici sui sentimenti verso un partner romantico. Il primo studio consiste in un grande sondaggio (N=858), il secondo studio è un disegno di vignette in cui sono state manipolate le reazioni provenienti dalla rete sociale e, infine, il terzo studio consiste in un esperimento di laboratorio, basato su un gioco di incontri.

Studio 1: sondaggio

Gli autori hanno reclutato, attraverso un questionario online erogato presso una grande università, dei partecipanti (N=858) implicati in relazioni sentimentali, al fine di misurare la loro percezione delle opinioni della rete sociale e della qualità della relazione. Sono state incluse, inoltre, due scale di reattività psicologica (reattanza di sfida e reattanza indipendente), al fine di esaminare se le differenze individuali attutiscono l’impatto negativo della disapprovazione sociale. In particolare, la reattanza di sfida riflette il desiderio di fare il contrario di quanto consigliato da altri, mentre per reattanza indipendente si intende la resistenza emotiva ai tentativi di influenza percepiti.

Studio 2: vignette sperimentali

A ciascun partecipante (N=340), reclutati attraverso l’università tramite questionario online, è stato assegnato, in modo casuale, di leggere uno dei quattro scenari, relativi ad un partner romantico, in cui sono state manipolate la fonte delle opinioni (amici o parenti) e il tipo di opinione (approvazione o disapprovazione). I partecipanti hanno poi riferito le loro eventuali reazioni psicologiche innescate dallo scenario della vignetta propostagli e quanto si sarebbero impegnati nell’ipotetica relazione. In questo caso, la reattività psicologica è stata studiata come risposta alla situazione, piuttosto che come tratto individuale.

Studio 3: gioco di incontri virtuali

In quest’ultimo studio, è stato utilizzato un paradigma di incontri virtuali (Wright e Sinclair, 2012) per esplorare ulteriormente l’interazione della reattività psicologica e l’effetto della rete sociale. In particolare, in questo caso è stata considerata l’influenza della reattività psicologica sulle opinioni di terzi nelle primissime fasi dell’inizio di una relazione. Nel gioco di incontri virtuali, i partecipanti non impegnati in alcuna relazione sentimentale, hanno interagito online con due uomini o donne single e hanno ricevuto un feedback da parte di amici o parenti (approvazione o disapprovazione) sull’ipotesi che uno dei partner sarebbe stato un buon partner o meno. Nello studio 3, quindi è stato possibile valutare le reazioni degli individui (N=228) di fronte ad un appuntamento reale.

Risultati

Per quanto concerne gli effetti della rete interpersonale, dallo studio 1 è emerso che gli individui esprimono più amore e impegno verso il loro partner quando i membri della loro cerchia sociale sono di supporto. Inoltre, la reattività psicologica modera il rapporto tra le opinioni della rete e l’amore per il proprio partner. Nello specifico, un elevato livello di reattanza di indipendenza ha permesso ai membri delle coppie considerate di resistere alla minaccia della disapprovazione della rete, al punto da essere in grado di continuare ad amare il proprio partner indipendentemente dall’opinione sociale, piuttosto che reagire facendo l’esatto contrario di ciò che amici o genitori sostenevano (ad esempio, amare di più il partner disapprovato o amare dimeno il partner approvato). Lo studio 2 ha rivelato che le opinioni della rete possono causare differenze nell’impegno previsto verso un ipotetico partner e che l’effetto della rete interpersonale è mitigato dal fatto che i soggetti reagiscono alle opinioni. In particolare, l’approvazione dei membri della cerchia sociale innalza il grado di impegno che gli individui pensano di poter avere nei confronti di un potenziale partner romantico, così come la disapprovazione lo diminuisce. Inoltre, se gli individui, con il forte desiderio di prendere decisioni libere, credono che amici e parenti interferiscono con il loro processo decisionale romantico, essi mantengono le proprie valutazioni indipendentemente dalle opinioni altrui. Infine, lo studio 3 ha rivelato che il feedback di genitori e amici non riesce a influenzare in modo significativo il gradimento dei partecipanti o le valutazioni di un potenziale partner romantico in quei soggetti con alta reattanza indipendente.

Pertanto, possiamo concludere che le persone con un elevato grado di indipendenza mantengono le proprie valutazioni anche di fronte all’opposizione della propria cerchia sociale. Inoltre, la percezione della minaccia alla propria autonomia decisionale circa la sfera romantica, può modificare le reazioni individuali di fronte alla disapprovazione di genitori o amici per quanto riguarda una vasta gamma di valutazioni del partner: percezione di amore, impegno, simpatia e caratteristiche positive del partner. Coloro con un basso livello di reattanza indipendente, invece, sono di gran lunga più vulnerabili al giudizio e alla disapprovazione altrui.

 

SURVEY: indagine su sonno e Covid-19 in età evolutiva – Partecipa alla ricerca

La pandemia da Covid-19 ha causato molti cambiamenti e ripercussioni sulla routine quotidiana e sugli equilibri di ognuno di noi. Quale impatto potrebbe aver avuto sul sonno dei bambini?

 

Lo scenario pandemico prodotto dal Covid-19 ha determinato una alterazione delle nostre abitudini sociali e verosimilmente del ritmo sonno-veglia degli adulti e dei bambini. Questo questionario ha l’obiettivo di comprendere meglio se il sonno dei bambini è cambiato nel periodo della pandemia e dell’isolamento sociale.

Lo studio è fatto in associazione tra l’Associazione Italiana di Medicina del Sonno (AIMS) e la Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP). I dati raccolti saranno utilizzati per scopi scientifici in forma anonima ed aggregata, in modo da non poter risalire in alcun modo ai dati dei singoli individui.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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