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Il digiuno delle Sante e della moderna anoressia: perfezionismo e disgusto

Nelle sue forme medievali e moderne l’Anoressia Nervosa è un modo di affermare la propria identità mentale rispetto a quella fisica, la manifestazione di una mentalità perfezionista bloccata in una dimensione di esperienza che penetra il nucleo stesso dell’essere umano, ossia il corpo. Le risorse mentali sono schierate per la battaglia contro il corpo e il disgusto per sé è la motivazione.

 

Il rapporto uomo-cibo è stato caratterizzato da modalità peculiari in epoche e società differenti: dagli antichi Greci che, secondo Euripide, si dedicavano ai più severi digiuni per ingraziarsi gli Dei, ai mistici del Medioevo che praticavano il digiuno come strumento ascetico per giungere a Dio, come documentato nel noto caso di Santa Caterina da Siena. Per secoli il tema del digiuno è stato oggetto di discussione tra psicologi, sociologi, neurofisiologi e filosofi, interessati all’elaborazione di modelli eziologici. In particolare, una questione che desta interesse, suscitando riflessioni ancora oggi, riguarda la possibilità o meno che i mistici nel Medioevo soffrissero di Anoressia Nervosa (AN), nel tentativo di accertare la presenza della patologia già in tempi passati, di identificare il valore del digiuno, di cogliere analogie e differenze e, soprattutto, comprendere il mindset per orientare il trattamento dell’AN.

Attualmente una riflessione sul tema del digiuno, a mio avviso, può quindi contribuire sia a ragionare sull’eziopatogenesi alla base del digiuno volontario, sia ad apportare ulteriori contributi sul piano della pratica clinica.

Ripercorrendo alcuni confronti effettuati tra il digiuno mistico del Medioevo e il digiuno anoressico dei tempi moderni, troviamo l’ipotesi del Prof. R. M. Bell (2002) secondo la quale esiste una connessione tra la forma medievale e quella moderna di AN.  Attraverso una spiegazione sociologica, Bell sostiene che entrambi i tipi di AN possono essere intesi come forme di autocontrollo e di autoaffermazione esercitate da giovani donne intrappolate in strutture sociali patriarcali oppressive, al fine di liberarsi di un mondo intollerabilmente soffocante attraverso il rifiuto della società, della vita e del proprio corpo.

In accordo con questa tesi, Sassaroli, Ruggiero e Fiore (2016) sostengono che il digiuno delle Sante e il digiuno dell’AN moderna potrebbero condividere lo stesso meccanismo psicologico connesso a un ambiente sociale oppressivo. Inoltre, gli autori evidenziano degli aspetti differenti riguardo al valore del digiuno, agli obiettivi dello stesso, alle conseguenze che derivano dal praticarlo. Pertanto, il valore del digiuno per le Sante è legato alla rinuncia, alla mortificazione e all’autodisciplina, invece per l’AN moderna è la magrezza che diviene un valore in sé. L’obiettivo alla base del digiuno nelle Sante è legato alla santità o forse all’affermazione sociale, mentre nell’AN moderna è legato all’autoaffermazione e all’incremento di autostima. Infine, le conseguenze della pratica del digiuno sono positive nelle Sante, infatti il digiuno rappresenta per loro uno strumento impiegato lungo un percorso felice e efficace, in quanto esse diventano davvero personalità di spicco, invece nell’AN moderna il digiuno fa parte di una percorso autodistruttivo in cui l’obiettivo iniziale di poter essere accettati e piacere agli altri, è presto sostituito dal valore individualistico della magrezza.

Paul Broks (2020), neuropsicologo inglese, propone un’affascinante interpretazione dei significati e delle condotte anoressiche in chiave cartesiana, paragonando l’AN medievale e l’AN moderna e considerando la prima come precursore della seconda. L’interrogativo che muove l’analisi effettuata dall’autore è: “questo bizzarro disturbo, in qualche modo, potrebbe essere legato a quelle preoccupazioni cartesiane. Potrebbe essere interpretato come una battaglia tra corpo e anima?”. Attraverso una disamina delle analogie e delle differenze tra AN medievale e AN moderna, l’autore giunge ad identificare – in entrambe le forme- il digiuno come uno strumento di controllo finalizzato al raggiungimento di standard elevati nel perseguire un ideale (purezza spirituale vs. magrezza), caratteristiche personologiche di perfezionismo, emozione di base del disgusto come conseguenza del fatto di non riuscire a mantenere determinati standard culturali, che metterebbe così in conflitto corpo e mente e alimenterebbe il disprezzo di sé e la vergogna. In altre parole, secondo l’autore, nelle sue forme medievali e moderne, l’AN è un modo di affermare la propria identità mentale rispetto a quella fisica, un’espressione autodistruttiva della ‘mente sulla materia’, la manifestazione di una mentalità perfezionista bloccata in una dimensione di esperienza che penetra il nucleo stesso dell’essere umano, ossia il corpo. Le esperienze sono alimentate, in un modo e nell’altro, dall’emozione di base del disgusto: dalle più grossolane sensazioni di repulsione fisica ai più elevati sentimenti di spiritualità e timore reverenziale. In sintesi, le risorse mentali sono schierate per la battaglia contro il corpo e il disgusto per sé è la motivazione.

Riprendendo i concetti di perfezionismo e di disgusto evidenziati dal Prof. Broks, è interessante il contributo di una recente meta-analisi  (Dahlenburg, Gleaves, Hutchinson; 2019) dove è stato evidenziato che soggetti con AN mostrano livelli più elevati di perfezionismo rispetto ad un campione non clinico e ad un campione con altra diagnosi psichiatrica; insieme a quello di uno studio condotto da Bell (2017) in cui si è riscontrato che i soggetti con Disturbi Alimentari manifestano tassi significativamente più elevati di disgusto per sé rispetto a persone che non soffrono di tali disturbi, anche se non è ancora del tutto chiaro il ruolo del disgusto nell’esordio e nel mantenimento del Disturbo Alimentare.

In conclusione, in termini eziopatogenetici, le diverse analisi esposte confermano la validità del modello multi-fattoriale che tiene conto di diversi aspetti (biologici, psicologici e socio-culturali), come fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento dell’AN. Si rivelerebbe utile condurre studi longitudinali sull’approfondimento del ruolo del perfezionismo: è un fattore di rischio, un fattore di mantenimento o una conseguenza del disturbo?

In termini di implicazioni cliniche, invece, le diverse analisi presentate sembrano supportare il lavoro terapeutico rivolto al perfezionismo (CBT-E, Fairburn; 2003), in quanto esso si dimostra – seppur con interrogativi ancora aperti – fattore principale associato all’AN e anche fattore di rischio per lo sviluppo di AN. Mentre, riguardo al disgusto sembrerebbe che il trattamento di questa emozione mostri dei limiti, dal momento che il disgusto differisce dalla paura e dall’ansia, in quanto recluta il ramo parasimpatico piuttosto che il ramo simpatico del Sistema Nervoso Autonomo, e potrebbe – per questo motivo – dimostrarsi più resistente ai metodi comportamentali standard basati sull’esposizione (per approfondimenti si veda Teoria Polivagale).

 


 

Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti (2020) di M. Lancini – Recensione

Quando l’adolescente esce dall’ambiente protetto familiare sarà in grado di fronteggiare la frustrazione che il confronto con il mondo esterno comporta? Come possiamo favorire l’elaborazione dei compiti evolutivi ineludibili dell’adolescenza e le sue ricadute sul piano psichico e affettivo?

 

Il tema dell’adolescenza è da sempre sull’agenda degli addetti ai lavori, insegnanti, “psi” di tutti i generi, genitori, educatori vari da sempre si interrogano su come affrontare al meglio questa fase critica dello sviluppo di ogni ragazzo e ragazza e gli stessi adolescenti cercano risposte alle numerose domande che il particolare momento della loro vita gli sollecita. Matteo Lancini se ne occupa prendendo in considerazione vecchi e nuovi rituali giocati dalle varie figure che ruotano intorno all’educazione.

Siamo passati da una comunità educante diffusa dove i figli erano di tutti e i modelli educativi non esitavano a interrompere la relazione affettiva in assenza di sottomissione alla norma e al volere degli adulti, ad oggi dove il mantenimento della relazione affettiva è il fine ultimo dell’intervento educativo.

Solo che il passaggio dall’infanzia all’adolescenza prevede un salto. L’infanzia è caratterizzata dalla precocizzazione delle esperienze con la madre, grande regista della vita dei figli, che in modo più o meno consapevole tenta disperatamente di eliminare qualsiasi ostacolo dalla strada della crescita del bambino o della bambina. I genitori cercano di rimuovere qualsiasi inciampo e ostacolo, forse perché, sostiene l’autore, il dolore e il fallimento sono intollerabili più per i genitori che per i figli.

Promuovono una sorta di sparizione del bambino reale a favore di un bambino ideale. I bambini relazionali e psicologizzati crescono in un contesto in cui popolarità e successo vengono prima di tutto, al punto che la società dei like e dei follower nasce non con l’accesso a internet ma con quello nella scuola materna. (Lancini, 2020)

Se l’importante è esserci, far parlare di sé in qualsiasi modo, quando l’adolescente esce dall’ambiente protetto familiare sarà in grado di fronteggiare la frustrazione che il confronto con il mondo esterno comporta e gli educatori saranno in grado di farsi carico educativamente e affettivamente di quello che rappresenta tutto ciò?

Vi è l’interesse per la comprensione del funzionamento affettivo e relazionale dei nostri ragazzi che crescono in una società così complessa, in cui nuovi fenomeni necessariamente li coinvolgono (internet, “genere fluido”, fecondazione artificiale e procreazione assistita, accettazione di un nuovo corpo, riorganizzazione delle relazioni, aspettative ideali elevate)?

Come possiamo favorire l’elaborazione dei compiti evolutivi ineludibili dell’adolescenza e le sue ricadute sul piano psichico e affettivo?

A dire il vero nel rispondere l’autore non offre soluzioni dettagliate e ben confezionate, ma si adopera a mettere in evidenza l’influenza dei contesti e delle situazioni specifiche e uniche dei singoli, rimarcando ammonimenti che sembrerebbero anche ovvi e di buon senso, ma che forse proprio per le trasformazioni del contesto in cui si è chiamati ad agire rappresentano elementi essenziali, dimenticati e trascurati che necessitano di essere decisamente riaffermati.

In primis la coerenza. Se si valorizza l’espressività, la socializzazione, il successo, le esperienze del bambino è necessario accettarne le conseguenze e non cambiare completamente registro. Non si può con l’arrivo dell’adolescenza fare riferimento a un modello normativo, limitante in cui il devi obbedire e prima il dovere riconquistano il ruolo principale.

Nella società dell’individualismo, del narcisismo e di internet nessuno rinuncia a niente. Perciò, una funzione regolatrice e contenitiva nella fase evolutiva adolescenziale è irrinunciabile ma deve essere declinata tenendo in considerazione il contesto.

La perdita di autorevolezza degli educatori e la facilità di superarla delegando responsabilità alimentano rotture che si esplicitano a differenza degli anni passati non tanto sul piano dei conflitti e dei contrasti, quanto sul piano del ritiro e dell’evitamento (hikikomori), o con sostituzioni (internet, coetanei). Il tema doloroso dell’adolescente attuale è la delusione legata alle aspettative ideali su di sé eccessivamente elevate e sollecitate da una società che propone di interiorizzare modelli che richiedono il riconoscimento, il successo, la popolarità. Ricchi e famosi costi quel che costi. Da qui la sovraesposizione pur di raggiungere questi obiettivi con le conseguenze (sexting e cyberbullismo) spesso tragiche che riempiono le pagine dei quotidiani e delle riviste con domande che chiedono risposte: “Come mai?  Cosa fare?”.

Lancini sottolinea l’importanza di sapere, di conoscere le dinamiche evolutive degli adolescenti del terzo millennio, altra indicazione da non considerare scontata.

Fenomeni quali il ritiro sociale, la dipendenza da video­game, ma anche erotismo, sessualità, virilità, prevari­cazione, seduttività, manifestazioni del proprio corpo e della propria identità, giochi più o meno d’azzardo, abuso di sostanze, self-cutting che oggi trovano espressione onlife, rendono sem­pre più complessa la distinzione tra nuove normalità e nuove forme di sofferenza e disagio giovanile.

L’adolescente cerca e trova strade diverse, percorsi individuali personali di fronte alla sofferenza evolutiva che si manifesta con rabbia, tristezza, vergogna, noia.

Persino la sessualità molto più narcisista ha un linguaggio nuovo:

eterosessualità, bises­sualità, omosessualità, pansessualità, asessualità e al­tri fenomeni come il crossdressing, l’indossare abiti usualmente associati al genere opposto, hanno oggi una declinazione molto diversa dal passato, per gran parte della popolazione giovanile. (Lancini, 2020)

L’ultima indicazione di questo libro la cui lettura scorre liscia, dato l’interesse che suscita, riguarda la capacità dei genitori e degli insegnanti, ma potrebbe essere rivolta a tutti i soggetti che interagiscono con ragazzi e ragazze, di diventare influencer. Gli adolescenti hanno bisogno e ricercano punti di riferimento autorevoli e percorsi che senza escludere le potenzialità dell’utilizzo di internet consentano la comprensione dell’esperienza di una fase di vita evolutiva particolarmente critica e forniscano strumenti sintonici con la crescita delle nuove generazioni. Sono necessari modelli cultura­li e operativi che contrastino il predominio odierno della proposta massmediatica e di internet e lo stra­potere imperante di individualismo e competizione. La scuola e le famiglie possono recitare un ruolo importante in questa sfida se si svilupperà un riconoscimento e rispecchiamento reciproco tra i protagonisti del processo educativo con una partecipazione più attiva, condivisa che sostenga processi di co-costruzione dei saperi e degli apprendimenti, un po’ secondo l’autore quello che avviene nelle scuole di specializzazione in psicoterapia dove insegna.

Lancini conclude con un ultimo monito:

È arrivato il momento di tornare a essere adulti influencer e amare i propri figli per quello che sono.

 

Il carcere: breve excursus storico e la sua evoluzione in Italia

La situazione delle carceri italiane sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie, ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

 Il carcere nasce nel momento in cui si sente la necessità di allontanare dalla comunità individui che violavano l’ordine della società. In realtà anticamente aveva principalmente la funzione di custodire il reo in attesa della pena prevista per il suo stesso crimine. Il sistema punitivo romano era caratterizzato principalmente da pene private, di tipo pecuniario, o da pene pubbliche, come la fustigazione. In entrambi i casi il carcere fungeva da contenimento per il reo e non come misura coercitiva. Nella società feudale la situazione non muta: la prigione, infatti, rimane un passaggio temporaneo del colpevole in attesa dell’applicazione della “pena del Signore”, unico vero tribunale di quel periodo (Neppi Madona, 1976). In seguito si andranno sviluppando in Inghilterra le prime “workhouse” o “house of correction”, luoghi in cui i reietti della società, venivano rieducati invece che essere sottoposti alle comuni sanzioni dell’epoca.

In realtà bisognerà aspettare il XIX secolo per considerare la reclusione come strumento sanzionatorio principale (Neppi Madona, 1976). Il processo di industrializzazione, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, porta con sé una trasformazione non solo economica, ma anche politica e sociale. In questo periodo la crescente richiesta di manodopera unita alla nuova sensibilità pubblica inducono un superamento di forme obsolete di punizione che non utilizzano la forza lavoro del condannato. Inoltre questo periodo è caratterizzato da quattro grandi cambiamenti, come riportato da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012): il maggiore coinvolgimento dello Stato nel controllo della devianza; lo sviluppo di conoscenze scientifiche legate alla criminalità, che permette la differenziazione dei devianti in diverse categorie; lo sviluppo di istituzioni volte alla segregazione; la percezione di una pena non più volta al corpo ma anche alla mente, che cerca di modificare la personalità del criminale. In questo clima di riforme e di progresso umano e sociale, si inserisce l’evoluzione del penitenziario. Il cambiamento viene favorito anche da pensatori illuministi, tra cui l’italiano Cesare Beccaria, con il suo Dei delitti e delle pene, che permettono il passaggio da un’idea di pena, ormai barbara e antiquata, ad una più umana e moderna, organizzata e centralizzata. Questo passaggio, però, non risulta così lineare ed uniforme; infatti per molto tempo, per mancanza di risorse, e non solo, il carcere rimane un luogo di trascuratezza e squallore (Neppi Madona, 1976). Bisognerà aspettare la seconda metà del XIX secolo per vedere emergere una forma moderna di penitenziario.

Per comprendere questo cambiamento così sostanziale troviamo tre modelli di spiegazione storica individuati da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012):

  1. Il modello idealista interpreta la storia come una serie ininterrotta di riforme che, partendo da un mutamento di idee, permettono un progresso. In quest’ottica lo sviluppo di una forma di penitenziario moderna è da ascrivere al cambiamento di sensibilità di quel periodo e alle nuove conoscenze criminologiche sviluppatesi durante l’illuminismo. Iniziano, dunque, ad esserci maggiori conoscenze riguardo la devianza e il comportamento criminale e una nuova visione della giustizia penale, caratterizzata da maggiore razionalità, uniformità e certezza.
  2. Il modello strutturalista vede il mutamento storico legato all’economia politica. In quest’ottica il penitenziario moderno nasce in relazione alla rivoluzione industriale, che comporta una diminuzione di manodopera; questo causa un aumento della disoccupazione e induce grandi masse ridotte in povertà verso il crimine, visto ormai come unica forma di sussistenza. In più lo sviluppo del penitenziario moderno viene anche letto alla luce degli interessi delle classi dominanti che ricercano una soluzione efficace al disordine dilagante. Questa necessità si unisce magistralmente con le idee dei riformatori di quel periodo che ricercano un nuovo modo di “punire”. Il modello strutturalista, dunque, ascrive la nascita del penitenziario moderno alla trasformazione dell’ordine sociale e alle nuove necessità di controllo da parte delle classi dirigenti.
  3. Il modello disciplinare vede la nascita del penitenziario moderno come una risposta al disordine sociale crescente. La prigione diviene una risorsa per mantenere un assetto sociale funzionante. Il carcere, attraverso l’isolamento, permette la correzione del deviante che riesce a re-inserirsi nel contesto sociale e ad essere, dunque, di nuovo accettato da parte della società. Questo mutamento avviene anche grazie alle crescenti conoscenze concernenti la criminalità e la devianza. Nonostante la visione di questo modello, la realtà dei fatti è ben diversa; il carcere, infatti, rimane per lungo tempo una macchina mal funzionante che non riesce nell’intento prefissatosi.

Nonostante i cambiamenti di questo periodo, a cui seguono innovativi obiettivi legati alla funzione della pena, il carcere rimane un’istituzione inefficiente, sovraffollata e spesso violenta, che non riesce ad assolvere i fini rieducativi prefissati (Neppi Madona, 1976). Il mutamento sostanziale, seppur parziale, avverrà nel corso del XX secolo in cui, grazie all’introduzione del welfare state e di programmi riabilitativi, l’istituto penitenziario diviene più flessibile e umano (Vianello, 2012). In linea con questo cambiamento ritroviamo le “regole minime”, indicate dalla Risoluzione ONU nel 1955, che attuano l’articolo 10 del Patto delle Nazioni Unite, il quale sostiene che ogni

individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana (Vianello, 2012).

Il naturale sviluppo di queste regole si ritrova nelle Regole Penitenziari Europee del 1987, che sottolineano ulteriormente il fatto che la privazione della libertà non deve implicare la privazione della dignità umana. Tutte le persone detenute devono essere trattate con rispetto per i diritti dell’uomo; le condizioni detentive devono avvicinarsi alle condizioni di vita nella società libera; bisogna promuovere il reinserimento dei detenuti nella società e favorire la cooperazione con i servizi sociali esterni (Vianello, 2012). Questi sono solo alcuni dei principi, che hanno come fine ultimo quello di rendere la detenzione una vera e propria riabilitazione e non una mera coercizione di corpi.

Questo breve excursus storico si applica anche al nostro Paese che, dopo l’Unità del 1861, inizia un lungo percorso di umanizzazione della pena. Un grande impedimento alla modernizzazione del carcere è rappresentato dal periodo fascista e dal Codice Rocco del 1930 (Neppi Madona, 1976). Il regolamento Rocco è caratterizzato da una netta separazione tra il mondo carcerario e il mondo esterno ed i detenuti vengono isolati e identificati con il numero di matricola. Il carcere si ripropone ancora una volta come un’istituzione chiusa all’esterno, isolata dal resto del mondo, in cui non si punta alla ri-educazione, ma unicamente alla segregazione. Questa situazione inizia lentamente a cambiare dopo la seconda guerra mondiale, anche grazie alle regole minime imposte dall’ONU nel 1955 finché non si giungerà alla riforma penitenziaria del 1975 (Vianello, 2012). La legge del 26 luglio 1975 n. 354, composta da novantuno articoli, è suddivisa in due parti, una relativa al trattamento penitenziario e una riguardante l’organizzazione carceraria. Nel settembre del 2000 è entrata in vigore la legge 230/2000 come disciplina esecutiva del regolamento del 1975 (Vianello, 2012). Questo nuovo regolamento presta grande attenzione ai diritti dei detenuti, soprattutto quelli di tipo affettivo, ma anche alle condizioni igienico-sanitarie e all’attività lavorativa con il coinvolgimento di strutture esterne. Nonostante il regolamento penitenziario italiano sia estremamente positivo, questa legge rimane, purtroppo, una legge manifesto: nella realtà difficilmente queste regole vengono applicate. Si nota spesso una grande incongruenza all’interno delle carceri italiane in quanto, nonostante il regolamento cerchi di umanizzare le strutture penitenziarie, ci ritroviamo di fronte a istituti detentivi che puntano ad attuare una rieducazione del reo o all’utilizzo di percorsi alternativi alla detenzione in maniera solo parziale (Vianello, 2012).

Il regolamento penitenziario italiano, approvato nel settembre del 2000, si apre con l’articolo 1, che al comma 1, afferma che

il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali,

e continua, nel comma 2 affermando che

il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (Legge 230, 2000).

Nonostante l’ottima impostazione della legge, almeno dal punto di vista degli ideali, la situazione in Italia risulta estremamente problematica e questo viene bene evidenziato dal XV rapporto dell’Associazione Antigone (Associazione Antigone, 2019). L’associazione sottolinea come uno dei problemi principali delle carceri italiane rimanga il sovraffollamento, tanto che, nel 2019, i detenuti erano ben 60.439, per un tasso di sovraffollamento pari al 120%, uno dei più alti in Europa, nonostante vi sia stato un calo dei reati.

Un’altra problematica dell’Italia è legata ai detenuti in custodia cautelare che continuano a crescere negli anni, fino ad un totale di 9.565 al 31 dicembre 2018, ovvero il 32,8% dei detenuti risulta in attesa di una sentenza definitiva. È importante sottolineare come nel 2017 nel 60,4% dei casi di suicidio il soggetto era privo di una condanna (Associazione Antigone, 2019). Un dato sicuramente eclatante è quello legato ai suicidi, il 2018, infatti, si è chiuso con 67 suicidi; era dal 2009 che non si registrava un dato simile. In concomitanza con questo dato bisogna considerare come altri eventi critici, quali il malessere, atti di autolesionismo, atti di contenimento, tentati suicidi, manifestazioni di protesta individuale e collettive, sono in aumento dal 2015. Sono in aumento, inoltre, anche gli atti di aggressione tra detenuti e contro il personale di polizia penitenziaria, le infrazioni disciplinari e l’isolamento disciplinare. In date 31 dicembre 2017, i detenuti tossicodipendenti erano 14.706 su una popolazione di 57.608, ovvero un 25,53%.

Infine, risulta opportuno sottolineare le richieste d’aiuto fatte dai detenuti al Difensore Civico di Antigone. Le segnalazioni sono relative alla mancanza di vari diritti, tra cui alla salute, alla territorialità, al lavoro, alla formazione, alla studio e così via. Altre problematiche sono ovviamente legate al sovraffollamento degli spazi detentivi ma anche alle violenze da parte della polizia penitenziaria (Associazione Antigone, 2019). La situazione italiana sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

Mindful eating e consumo di cioccolata: come fare a mangiare in modo consapevole gli alimenti più golosi

Con mindful eating si indica l’essere consapevoli nel momento presente in cui si sta mangiando, soffermandosi sulle caratteristiche del cibo, ponendo attenzione alle sensazioni fisiche ed emotive del corpo, ed aumentando la  capacità di percezione della sazietà.

 

L’atto del mangiare è spesso descritto come un comportamento automatico, che conduce l’individuo a continuare a mangiare, senza essere consapevole della quantità di cibo che si sta assumendo (Cohen & Farley, 2008). Il consumo degli alimenti può in questo modo diventare superiore alle reali necessità del soggetto, che però non è in grado di ascoltare il proprio corpo e capire quando questo manda segnali riguardanti la sazietà (Papies, Stroebe, & Aarts, 2007).

A conferma di ciò, uno studio (Painter, Wansink, & Hieggelke, 2002) ha rilevato che il consumo medio di cioccolata degli impiegati in ufficio durante l’orario di lavoro, era superiore quando il cibo era collocato sulla loro scrivania rispetto a quando veniva posto in un ambiente diverso dalla propria postazione, ad indicare che presi dalla frenesia della propria attività lavorativa e dai pensieri e preoccupazioni ad essa collegati, il mangiare diventava un gesto automatico e lontano dalla consapevolezza riguardo a quanto effettivamente il corpo avesse bisogno di ricevere quel cibo.

La mindfulness, essendo descritta come la consapevolezza che emerge dal porre attenzione intenzionalmente ed in maniera non giudicante all’esperienza nel momento presente (Kabat-Zinn, 2003), propone di applicare questi principi al consumo di cibo, in modo da ridurre le abbuffate ed incentivare un’alimentazione equilibrata.

Nello specifico, la mindful eating può essere concettualizzata come l’essere consapevoli nel momento presente in cui il soggetto sta mangiando, soffermandosi sull’aspetto, l’odore, il colore e il sapore del cibo, ponendo attenzione alle sensazioni fisiche ed emotive provenienti dal corpo, ed aumentando la propria capacità di percezione della sazietà (Albers, 2008). Questi accorgimenti hanno lo scopo di sviluppare la fiducia dell’individuo nell’abilità del corpo di segnalare quando e quanto mangiare, minimizzando le reazioni impulsive di fronte al cibo (Hendrickson & Rasmussnen, 2013).

A partire da queste premesse, il presente studio (Mantzios, Skillett, & Egan, 2019) si propone di indagare l’impatto della mindfulness sulla soddisfazione e sul desiderio della cioccolata, oltre che sul consumo reale della stessa. Dopo aver considerato i criteri di esclusione quali l’allergia alla cioccolata, un forte disgusto per la stessa, il seguire una dieta che abolisce il suo consumo o l’avere un disturbo alimentare diagnosticato, 121 partecipanti sono stati selezionati e assegnati casualmente ad una delle tre condizioni: l’esercizio mindful dell’uva passa, modificato ed adattato per il consumo di cioccolata, e costituito da un audio di 4 minuti, in cui un narratore suggerisce di focalizzarsi sul colore, la texture ed il sapore della cioccolata; il diario costruttivo consapevole (MCD) in cui si chiede di considerare attraverso sei items basati sulla mindfulness e sull’autocompassione, il bisogno reale di cibo nel momento presente; ed il gruppo di controllo non sottoposto a nessun esercizio di mindfulness.

Dopo aver contato i pezzi di cioccolata mangiati e valutato il grado di soddisfazione e il desiderio di mangiarne ancora, i risultati hanno rilevato una diminuzione del consumo di cioccolata nel gruppo sottoposto agli esercizi mindful, ma non hanno riportato differenze significative nella soddisfazione e desiderio per essa, probabilmente perché il grado di preferenza per questo alimento era così alto, che gli esercizi di mindfulness non sono riusciti a diminuire la voglia di consumarlo.

In conclusione, possiamo dire che la mindful eating si basa sull’apprendimento della capacità di considerare il mangiare come un’esperienza sensoriale da vivere pienamente, e che entrambi gli esercizi utilizzati nello studio sono efficaci nel ridurre il consumo di cibi calorici e utili per coloro che vogliono regolamentare la propria alimentazione in modo consapevole, permettendo all’individuo di continuare a mangiare anche quegli alimenti che sono di solito sconsigliati, ma assumendosi la responsabilità di monitorare quando e quanto farlo.

 

Tutti si preoccupano per il coronavirus ma io un po’ più degli altri

Il caso di Alessia, una ex paziente che si ritrova in difficoltà durante l’emergenza da Covid-19: il rescripting delle memorie traumatiche associate alle paure attuali, tramite Video Imagery Rescripting e Self Mirroring Therapy in Terapia Metacognitiva Interpersonale. 

 

Sono tutti un po’ spaventati per ‘sto coronavirus, ma io esagero, possiamo parlarne? Vengo in studio perché online non ho privacy”

mi scrive una mia ex paziente: è evidentemente un’urgenza. Si siede a debita distanza, disinfetta le mani, è molto allarmata e critica verso sé stessa per questa paura.

“Che succede?”
“Ci penso in continuazione, sono sempre in cerca di informazioni, non dormo, vivo tra casa e lavoro”.

Conosco molto bene la paziente, Alessia: la terapia nel passato ha avuto buoni esiti, perché oggi lei non riesce a superare da sola questa impasse?

Probabilmente la quantità di informazioni contrastanti sul CoVid-19 e la paura diffusa fanno sì che lei non si conceda di esplorare a fondo le sue emozioni, che una parte di sé dia per scontato che la propria storia personale non c’entri nulla e che si senta totalmente impotente rispetto al controllo dell’ansia al punto da esserne schiacciata. Quasi si vergogna di chiedere aiuto, tanto è vero che, quando la rassicuro “è normale avere paura in questo momento, un po’ ne abbiamo tutti” e poi le chiedo “cosa la spaventa del coronavirus?”, lei mi risponde “ma come? con tutto quello che si sente in giro?!”. Avevo normalizzato la sua paura, ma l’idea stessa che ci fosse un residuo di paura più legata ad aspetti personali era per lei inaccettabile.

Un’affermazione cosi generalizzata non mi permette di avere accesso alle cognizioni antecedenti all’ansia, costituendo un ostacolo alla formulazione del caso. In questi casi è indicato utilizzare tecniche specifiche volte a migliorare il monitoraggio metacognitivo.

Decido di indagare, riprendendo la concettualizzazione del caso già ricostruita con la Terapia Metacognitiva Interpersonale nella precedente terapia. Nei nostri incontri Alessia era arrivata a comprendere il proprio funzionamento problematico di fronte a determinate situazioni ed aveva iniziato a modificarlo.

Lo schema interpersonale emerso spesso con lei a partire dagli episodi autobiografici recenti e collegati ad esperienze passate è questo:

Il wish (desiderio sano ed universale) è di appartenenza. A partire da questa motivazione, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: in questo caso “se provo ad avvicinarmi all’altro, a un gruppo, l’altro mi rifiuterà, e mi umilierà, mi escluderanno”). La risposta dell’altro (immaginata, o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una “risposta del sé alla risposta dell’altro” di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale. Nel caso di  Alessia: “se l’altro mi umilia ha ragione perché sono scema”, ansia, tristezza, evitamento della relazione; questo porta a scoprire l’immagine nucleare negativa di sé che in Alessia è: “diversa, esclusa, inadeguata”. A questo punto, come strategia di coping, Alessia ha una transizione da un sistema motivazionale ad un altro: passa al dominio del rango. Sostituisce il desiderio di appartenere e condividere a quello agonistico di prevalere.

In queste sue prime narrazioni al rientro in terapia, la parte sana dello schema non affiora. Nella terapia precedente avevo aiutato Alessia ad accedere all’idea nucleare positiva di sé come uguale agli altri e degna di essere parte di un gruppo, ma qui non riesce più a rievocarla.

Decido di esplorare lo schema attivo nei suoi timori relativi al CoVid-19 per capire se è qualcosa di già noto riferibile ai suoi schemi precedenti e per condividerlo con lei.

“Cosa può succedere se lei si ammala?”

“Non sono preoccupata per me, sono giovane e sana, così come mia sorella e tutto sommato anche i miei genitori. Stare chiusa in casa per la quarantena è quasi un piacere: per me è sempre stato più difficile stare in compagnia che da sola, almeno non devo inventarmi scuse per non uscire.

Il problema è che poi si guarisce! Magari vado in ufficio per una settimana con il coronavirus senza sintomi, senza saperlo, contagio qualcuno, poi mi ammalo e quando torno sarò allontanata dai colleghi ed additata come l’untrice”

Il tono concitato, è spaventata, si interrompe.

In questo momento non riusciamo ad accedere alla parte sana, per facilitarla decido quindi di utilizzare una tecnica esperienziale.

Scelgo la Self Mirroring Therapy, nella versione di Video Imagery Rescripting per aiutarla a comprendere le proprie emozioni “dall’interno”, tramite i neuroni specchio.

La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e preriflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Occorre una relazione forte con il Terapeuta, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, sottolinea gli insight e li rafforza.

“Mi racconti cosa immagina che accadrà quando tornerà in ufficio, dopo la malattia.”

“Entrerò, i colleghi mi chiederanno come sto perché hanno paura, ma non gliene frega niente di come sto davvero, e alle spalle e magari anche davanti mi diranno che sono un’untrice, che sono scema perché ho preso l’autobus e mi sono beccata il virus, la prima dell’ufficio che si è ammalata, la più scema di tutti”

L’emozione è intensa.

Decido di chiederle altri esempi di memorie autobiografiche specifiche, per riformulare e condividere lo schema interpersonale disfunzionale

 “Si ricorda quella famosa cena di Natale di cui avevamo già parlato in terapia? È la stessa emozione che avevo provato lì.”.

Me la ricordo molto bene, l’avevamo già analizzata insieme: i colleghi la invitano a cena per Natale, lei si forza di andare ma vorrebbe tanto evitare. Cerca di partecipare alla conversazione, ma nel momento in cui gli altri parlano delle loro relazioni di coppia lei immagina di dover rivelare di essere single da sempre e che sarà vittima di battutine sarcastiche e pettegolezzi così, colta dall’ansia, fugge in bagno e piange.

“L’ho provata tante volte nella mia vita, anche a scuola!”

Scegliamo un ricordo significativo della scuola per lavorarci in imagery

Chiedo quindi ad Alessia il permesso di accendere la webcam e registro il “video 1”

“Con gli occhi chiusi torni alla sua classe delle elementari, al momento in cui ha provato quelle emozioni”.

La accompagno ad immergersi nella scena fino a rivivere l’emozione e risentirla nel suo corpo.

La scrivania lascia spazio a un banco della scuola media, È verde, scrostato, con i nomi dei ragazzi e di tutte le generazioni precedenti incisi sopra con la punta del compasso, una stanza vecchia, il bosco oltre le finestre “dove vorrei nascondermi!”.

“Io sono Quellascema, parole dette così tanto spesso da diventare il mio nome.

Rientro in classe dopo qualche giorno di assenza. I banchi sono stati spostati. Sono tutti in cerchio intorno alla cattedra. Tutti tranne il mio, abbandonato in un angolo. Sono smarrita, iniziano le risatine degli altri, che presto diventano prese in giro esplicite. Non provo nemmeno a rimettere il banco vicino agli altri, me lo impedirebbero ridendo. La vergogna mi congela.”

E’ sufficiente. Qualche respiro, piedi ben poggiati a terra, torniamo nello studio e guardiamo insieme la parte del video in cui la Paziente descrive la scena della scuola. Le chiedo di guardarsi come se guardasse un’amica in difficoltà, per favorire l’accudimento.

La webcam è sempre accesa e inquadra il suo viso. Con la Self Mirroring Therapy è importante videoregistrare il viso della Paziente mentre guarda sé stessa sofferente, per cogliere il momento in cui emerge l’empatia e l’accudimento verso di sé (“video 2”). In questo caso, ho utilizzato la Self Mirroring Therapy per riscrivere le memorie traumatiche (Video Imagery Rescripting).

Nel primo video si vede una donna adulta, forte, con l’espressione della bambina spaventata. Il contrasto è molto netto per me che la osservo, a maggior ragione per lei che guarda sé stessa. Infatti si commuove e dice fra sé e sé : “forza, dai”, poi tace, ma è tutto registrato in questo secondo video.

Guardiamo insieme il video 2, per aiutarla ad approfondire quell’esortazione che si è data spontaneamente, e la registro ancora (video 3). Vedersi empatica ed amichevole nei confronti di sé stessa spaventata attiva un ulteriore cambiamento.

“I colleghi oggi non possono farmi male più di tanto, non sono quegli adolescenti crudeli, sono adulti e spesso sono stati gentili con me. Anch’io non sono più quella ragazzina impaurita, ora sono adulta, siamo tutti nella stessa situazione, sono come loro”.

Il rescripting ha permesso alla Paziente di accedere ad una parte sana, un’altra idea di sé e dell’altro, di differenziare ed assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni disfunzionali.

Durante la Self Mirroring Therapy il sé osservante, Alessia che guarda sé stessa sofferente, diventa un nuovo “altro”, incarnato nella stessa persona. Alessia si osserva e si sente benevola nei confronti di sé stessa fragile e vulnerabile.

In questo caso la Video Imagery Rescripting ha dato maggior potenza all’esperienza, perché nel video 1 Alessia ha potuto osservare sé stessa completamente immersa in un ricordo doloroso, sofferenza che ha espresso spontaneamente ed intensamente con il proprio viso. Rivedendosi, tramite il sistema dei neuroni specchio, si attiva un “altro” diverso da quello rifiutante tipico del suo schema. Alessia diventa accudente nei confronti di sé stessa e questa esperienza appare molto più incisiva rispetto al solo ricordo narrativo. Il sistema mirror ha favorito l’empatia e le mie indicazioni e il fatto di trovarsi in una relazione di aiuto forte e stabile con me hanno aiutato Alessia a guardarsi con tenerezza e incoraggiato in lei l’autoaccudimento. La webcam ha permesso così di imprimere nel video e nell’esperienza della paziente questo importante momento (video 3).

Le lascio questa parte di video da vedere a casa, per memorizzare il contatto che ha avuto con la sua parte sana ed aiutarla a generalizzare l’esperienza.

Alla fine della seduta appare nettamente più sollevata e serena.

In questo colloquio siamo riuscite ad offrire una chiave di lettura diversa per le paure attuali, a ricostruire lo schema interpersonale attivo e ad agganciarlo alle esperienze passate della paziente, ad operare un rescripting vivo ed esperienziale, in un clima collaborativo che ha rafforzato la relazione terapeutica. Inoltre, la “testimonianza video” della propria parte sana, che le lascio da rivedere a casa, sarà una buona base di partenza per le sedute successive, più intensa e significativa del solo schema scritto.

Lo “schema incarnato”, ricostruito e messo in discussione in un’esperienza così intensa in terapia, diventa un  momento importante di condivisione e un riferimento per il futuro. Alessia ha conosciuto in seduta un cambiamento profondo nel suo modo di rapportarsi a sé stessa e agli altri, che è stato fissato nella memoria e nella webcam: l’obiettivo ora non è più scoprire un’altra sé, più sana, ma rendere stabile e generalizzare un progresso già esperito.

 

COVID-19 e Aderenza alle Cure in Oncologia: Studio Internazionale

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi ed in particolare delle persone maggiormente a rischio per un’eventuale infezione. Al fine di indagare l’impatto del lockdown e della Covid-19 sui pazienti oncologici, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da 13 nazioni, ha sviluppato uno studio per il quale abbiamo bisogno del vostro contributo.

Lo studio nasce dall’emergere progressivo di dati qualitativi legati a un ridotto accesso alle cure o comunque di una crescente preoccupazione da parte dei pazienti oncologici sia in trattamento che in follow-up. Al fine di raccogliere dati attendibili a livello mondiale si è cercato di concentrarci sugli effetti della COVID-19 in una fase post-lockdown in 13 paesi: Italia, Israele, Spagna, Francia, Svezia, Austria, Germania, Turchia, Messico, Giappone, Cina, India, Gran Bretagna. I responsabili della ricerca sono Simone Cheli, Università di Firenze, e Gili Goldzweig, Universitàdi Tel Aviv. Lo studio indagherà in particolare come la percezione del rischio legata alla COVID-19 incida sul vissuto psicologico e sull’aderenza alle cure oncologiche.

Se sei un paziente oncologico o se stai facendo dei controlli per una precedente diagnosi oncologica ti chiediamo di compilare un breve questionario totalmente anonimo.

Tramite il link sottostante potrai accedere ad un questionario online compilabile in circa 15 minuti che ci aiuterà a comprendere come aiutare i reparti oncologici a fronteggiare al meglio questa pandemia. Se per qualche ragione interrompi la compilazione potrai riprenderla successivamente utilizzando però lo stesso dispositivo (PC, cellulare, etc.) e cliccando sul solito link.

Per conoscere meglio lo studio: https://www.tagesonlus.org/covid/

 

Per compilare direttamente il questionario: https://mta.eu.qualtrics.com/jfe/form/SV_3pVTkmXJgiDJKVn?Q_Language=IT

Autismo ai tempi del Covid-19: alcune buone pratiche

I cambiamenti delle routine quotidiane, dovuti alle misure di contenimento del COVID-19, possono rappresentare un forte disagio per le persone con autismo e favorire l’incremento di condotte stereotipate, oppositive e aggressive verso se stessi e gli altri.

 

L’autismo, o recentemente meglio definito come Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD, APA 2013), si caratterizza per la presenza di diversi sintomi. Le principali difficoltà che possono vivere le persone con autismo riguardano deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale, difficoltà ad accettare i cambiamenti di routine, ridotto interesse nella condivisione delle emozioni, difficoltà nel regolare il proprio comportamento rispetto al contesto sociale e disabilità intellettiva.

Queste sono solo alcune delle problematicità che caratterizzano l’autismo. La quotidianità delle persone con autismo e delle loro famiglie è, dunque, una quotidianità complessa e caratterizzata da forte stress, come riportato da numerosi studi in cui viene dimostrato che i genitori di figli con disabilità e con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo mostrano elevati livelli di stress rispetto a famiglie con figli con un normale processo di sviluppo (Hastings, Honey e McConachie 2005; Dumas, 1991; Koegel, 1992; Konstantareas, 1992; Sanders e Morgan, 1997).

Questo particolare momento storico legato al COVID-19 rappresenta, dunque, un estremo disagio per tutto il mondo dell’autismo che si trova a dover affrontare un’ulteriore sfida che si aggiunge a quelle già presenti nella vita di tutti i giorni.

I cambiamenti delle routine quotidiane, dovuti alle misure di contenimento del COVID-19, possono rappresentare un forte disagio e possono favorire l’incremento di condotte stereotipate, oppositive e aggressive verso se stessi e gli altri.

Per prevenire e gestire l’insorgenza di tali problematiche, l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, alla luce del recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, ha elaborato un vademecum di riflessioni e di buone pratiche che possono essere utili a chi vive vicino al mondo dell’autismo.

Alcune di queste buone prassi suggeriscono di: 

  1. Favorire la comprensione del contesto

Ogni persona con autismo ha proprie capacità di comprendere ciò che realmente sta accadendo attorno a sé. È importante che le precauzioni attualmente in vigore (ad esempio il lavaggio frequente delle mani o le regole di distanziamento sociale) e le informazioni sulla natura e la diffusione del virus siano raccontate e spiegate in maniera coerente con le capacità cognitive della persona. È da privilegiare un linguaggio concreto, chiaro e diretto, evitando l’uso di metafore e termini astratti. A seconda delle risorse cognitive della persona è opportuno tenere in considerazione la possibilità di avvalersi di strumenti di comunicazione aumentativa, di storie sociali, di supporti visivi o supporti tecnologici.

  1. Scandire le giornate e il tempo

Le persone con autismo generalmente traggono beneficio nel vivere le proprie giornate organizzate secondo routine e regole ben precise. Ora, dal momento che non è possibile svolgere la maggior parte delle attività che si svolgevano prima dell’emergenza sanitaria, può risultare difficile accettare questo cambiamento di abitudini creando un forte disagio. Può essere utile riorganizzare la giornata creando una nuova routine giornaliera così da rendere prevedibile anche le nuove abitudini, recuperando il senso di controllo sulla propria giornata. Per scandire i momenti della giornata e le attività potrebbe essere utile utilizzare strumenti visivi, realizzando un supporto che renda tangibile alla persona cosa fare (ad esempio utilizzando un elenco con immagini da staccare e attaccare con raffigurate le attività da svolgere). Potrebbe essere opportuno, inoltre, visualizzare lo scorrere del tempo, utilizzando, per esempio, un calendario (mensile, settimanale o giornaliero) che consenta di tracciare il tempo trascorso. 

  1. Agevolare l’espressione del disagio

Le persone con autismo possono avere difficoltà ad esprimere in modo articolato le proprie emozioni e il proprio vissuto in relazione ai cambiamenti che stanno vivendo in questo periodo. Il disagio può essere espresso attraverso diverse modalità come il cambiamento del ritmo sonno/veglia, cambiamento dell’alimentazione, un aumento dei comportamenti stereotipati o dell’irritabilità e agitazione. I familiari, che conosco bene le abitudini dei propri cari, possono monitorare e rendersi conto dell’insorgere di alcuni di questi comportamenti. È importante coinvolgere gli operatori di riferimento nel decifrare questi segnali e nel valutare le più opportune strategie di supporto. Per favorire l’espressione del disagio può essere utile fornire alle persone con autismo la possibilità di esprimere con regolarità il proprio vissuto attraverso dialogo con i genitori, colloqui individuali con gli operatori di riferimento o attività ricreative (come ad esempio la musica, la scrittura, il gioco).

  1. Fornire supporto sociale

Nell’immaginario collettivo, le persone con autismo sono considerate come totalmente indifferenti alle relazioni sociali. Questo fraintendimento è probabilmente generato dal fatto che le persone nello spettro autistico hanno un modo differente di vivere, interpretare e gestire gli scambi e le relazioni sociali. Esse, esattamente come tutte le altre, sono suscettibili all’isolamento e questo può essere aggravato in un periodo di quarantena. È opportuno fornire loro un supporto sociale utilizzando i mezzi di comunicazione attualmente disponibili.

Queste sono alcune buone pratiche che possono essere messe in atto per aiutare le persone con autismo e le loro famiglie ad affrontare questo periodo di emergenza sanitaria. Non è detto che tali prassi siano valide per tutti, ogni persona con autismo ha infatti le sue specificità. Per questo motivo è importante che in questo periodo non venga mai interrotto, anche in modalità remota via internet, il contatto con medici, psicologi e operatori di riferimento.

 

Una proposta euristica sul Disturbo di Panico – Video-intervista al Professor Giampaolo Perna

Una prospettiva alternativa sul Disturbo di Panico suggerisce che i pazienti con PD abbiano un funzionamento anormale del corpo, che coinvolge principalmente i sistemi cardiorespiratorio e di equilibrio, portando a un declino della forma fisica globale.

Martina Spelta e Valentina Pozzesi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Nel video abbiamo intervistato il Professor Giampaolo Perna su una nuova proposta teorica sul Disturbo di Panico che si basa su alcuni studi scientifici (per approfondimenti si veda in Bibliografia). Il professore è al primo posto tra gli esperti per il Disturbo di Panico in Italia e in Europa e tra i primi tre nel Mondo.

Attualmente, il disturbo di panico (PD) è considerato un disturbo mentale basato sull’ipotesi che gli attacchi di panico (PA) siano “falsi allarmi” che derivano da sistemi di difesa anormalmente sensibili nel sistema nervoso centrale e che il PD viene trattato con terapie che agiscono specificamente sull’ansia o sui meccanismi della paura. Il professore presenta una prospettiva alternativa basata sui risultati di alcuni studi sperimentali. La proposta euristica suggerisce non solo che il Disturbo di Panico possa essere un disturbo mentale, ma anche che i pazienti con PD abbiano un funzionamento anormale del corpo, che coinvolge principalmente i sistemi cardiorespiratorio e di equilibrio, portando a un declino della forma fisica globale.

Gli attacchi di panico, così come i sintomi fisici o il disagio in alcune situazioni ambientali, possono essere “allarmi reali” che indicano che le risorse di adattamento di un organismo sono insufficienti per rispondere appropriatamente ad alcuni cambiamenti interni o esterni, rappresentando così la consapevolezza cosciente transitoria di uno squilibrio del funzionamento del corpo. I diversi trattamenti odierni per il Disturbo di Panico includono, tra i loro effetti, benefici sulle funzioni corporee.

Sebbene i meccanismi di ansia o paura siano evidentemente coinvolti nel Disturbo di Panico, questa teoria ipotizza che anomalie della forma fisica siano il “primum movens” del PD. L’ansia o la paura sono, invece, indotte e sostenute dai ripetuti segnali del funzionamento alterato del corpo. Questa teoria pertanto si propone di considerare il panico in una prospettiva più ampia dove il trattamento sia multidisciplinare e personalizzato, che comprenda la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la terapia farmacologica e trattamenti somatici.

 

DISTURBO DI PANICO – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AL PROF. GIAMPAOLO PERNA:

L’importanza del sostegno psicologico agli operatori sanitari ai tempi del coronavirus

Durante questa fase di emergenza sanitaria nazionale legata al diffondersi dell’epidemia di Covid-19, ciascun cittadino si trova a vivere una situazione di stress continuativo e prolungato o ad essere esposto ad eventi traumatici, i cui esiti psicologici tenderanno a manifestarsi sia nel breve che nel medio periodo. Questo è ancora più vero per gli operatori sanitari, che si trovano a dover gestire una situazione ogni giorno più complessa e difficile, sia da un punto di vista pratico che emotivo.

 

L’emergenza sanitaria si è diffusa in modo talmente repentino e inaspettato da impattare sulla salute di tutti i cittadini, sia a livello fisico sia a livello psicologico, ed in particolare ha gravato sugli operatori sanitari che si sono trovati costretti a far fronte ad un evento di questo tipo, che si è sommato a condizioni lavorative già spesso stressanti e precarie di base. Non è infatti una novità che spesso gli operatori siano costretti, già in situazioni ordinarie, a confrontarsi con una generale scarsità di risorse e condizioni di lavoro estreme, legate a disagi organizzativi, ad eccessivo sforzo fisico e mentale, al dover gestire emergenze ed urgenze, al dover effettuare turni lunghi e stressanti, alla carenza di personale, oltre ad essere costantemente esposti alla sofferenza legata alla malattia e alla morte.

Se dunque il lavoro dell’operatore sanitario è tra quelli già maggiormente esposti alla sindrome da burnout, caratterizzata da logorio psicofisico ed emotivo e da vissuti di ansia, insofferenza, demotivazione e disinvestimento emotivo per le motivazioni appena esposte, immaginiamo quanto tutto questo possa essersi aggravato nelle condizioni in cui medici e infermieri si sono trovati a far fronte all’epidemia di Covid-19. In particolare le condizioni che hanno influito maggiormente su un sovraccarico di stress negli operatori sanitari sono le seguenti:

  • Costante esposizione al pericolo di contrarre la malattia e di poter contagiare i propri cari. Tutto questo comporta il vivere in un costante stato di allarme e vigilanza, oltre all’essere spesso costretti a vivere fisicamente lontani dai propri familiari e senza dunque una base sicura che possa fornire supporto emotivo e vicinanza.
  • Esposizione continua alla malattia e alla morte non solo dei pazienti ma anche dei colleghi, essendo gli operatori sanitari la categoria difatti più esposta al pericolo di contagio. L’esito di ciò è l’esposizione ripetuta ad eventi traumatici che facilmente possono portare allo sviluppo di una sintomatologia da disturbo da stress post traumatico (ipervigilanza e ipersensibilità, irritabilità, agitazione, flashback, incubi, pensieri intrusivi, evitamento, distacco emotivo, dissociazione).
  • Un sovraccarico di lavoro legato al dover svolgere turni disumani e al doversi fare carico del paziente non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista più emotivo ed assistenziale, parte di cui di solito si occupano i familiari, i quali però in questa situazione non possono avere accesso alle strutture ospedaliere. Il dover fare le veci anche dei familiari comporta un maggiore impegno legato al dover fornire ai pazienti dei servizi supplementari, come una maggiore vicinanza emotiva, il farsi carico della loro paura e solitudine, il dover trattare con cura i loro effetti personali da restituire ai parenti dopo la loro eventuale morte, oltre al sovraccarico ulteriore che comporta il dover gestire costantemente il contatto con i familiari in modalità telefonica, cosa che rende la comunicazione decisamente più complessa e faticosa.

Per questa ragione, date le condizioni di estrema fatica e complessità in cui gli operatori sanitari lavorano, diventa importante essere solleciti nel fornire loro un adeguato e repentino sostegno.

Vediamo dunque nel dettaglio quali sono alcuni degli approcci scientifici ritenuti più efficaci come strumenti di supporto per il personale sanitario.

Psicoterapia Cognitivo Comportamentale (CBT)

La psicoterapia cognitivo comportamentale si focalizza sull’individuare con quali pensieri le persone interpretano gli eventi che accadono loro, in quanto da questo poi dipende la reazione emotiva e comportamentale che ne consegue, che può portare ad un livello più o meno elevato di sofferenza. L’obiettivo della cbt quindi è quello di aiutare la persona a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni (alfabetizzazione emotiva) e a sostituire i pensieri rigidi e disfunzionali con altri più razionali, meno catastrofici e meno totalizzanti: ne deriverà un grado minore di sofferenza emotiva e un maggiore senso di autoefficacia nella gestione delle situazioni stressanti.

Vediamo quali sono i pensieri ansiogeni che maggiormente si tendono a formulare in questo particolare periodo:

  • possibilità di essere stati contagiati;
  • possibilità di contagiare gli altri;
  • incapacità di tollerare l’isolamento conseguente alle misure restrittive;
  • difficoltà di adattamento o paura del cambiamento (impossibilità di accesso ad attività piacevoli fonti di regolazione emotiva, gratificazione o di gestione dello stress, come per esempio andare palestra o al cinema o uscire gli amici; oppure paura di ricominciare ad affacciarsi all’ordinaria quotidianità);
  • pensiero paranoico (sulla malattia, sui contaminatori, complottismo).

Per contrastare i pensieri disfunzionali ansiogeni la CBT utilizza una particolare tecnica, quella della ristrutturazione cognitiva, che consiste nel mettere in discussione dei pensieri disfunzionali o inefficaci attraverso il riconoscimento della categoria di appartenenza (per esempio doverizzazioni, catastrofizzazioni, terribilizzazioni, tendenza a sottoporre a giudizio se stessi e gli altri, visione dicotomica della realtà -tutto o niente, bianco o nero-), ma soprattutto sottoponendoli ad un esame obiettivo della realtà. Mettere in discussione un pensiero significa aiutare il paziente a ricercarne l’effettiva veridicità ponendosi una serie di domande:

  • Questo pensiero corrisponde alla realtà obiettiva dei fatti?
  • Questo modo di pensare serve a farmi raggiungere i miei obiettivi?
  • Quali prove esistono della veridicità del mio pensiero?
  • Quali prove esistono della falsità del mio pensiero?
  • Che probabilità ho che questo accada?
  • Sono davvero sicuro che quello che penso non sia errato?
  • Su cento persone quante penserebbero nel mio stesso modo?
  • Cosa direi ad una persona se pensasse quello che penso io?
  • Che modi alternativi ci sono di vedere le cose? Potrei interpretare diversamente la situazione?
  • Quali sono le conseguenze del mio modo di pensare?
  • Sto facendo errori di ragionamento?
  • Qualora dovesse capitare quanto temuto, posso tollerarlo? Quali risorse posso mettere in campo per affrontarlo?

I pensieri vengono discussi nel valore assoluto che assumono per l’individuo e sostituiti con altri più realistici e razionali; la ristrutturazione cognitiva pertanto non equivale all’assunzione di un pensiero positivo, ma consiste nell’aiutare le persone a formulare valutazioni più aderenti alla realtà.

Un altro aspetto su cui la CBT si sofferma è la consapevolezza delle emozioni, allenando il paziente a riconoscerle, verbalizzarle ed esprimerle.

E’ facile per esempio che in condizioni di stress prolungato, come probabilmente sta accadendo a causa del Coronavirus, le persone siano in ansia, cioè in uno stato di pressoché costante vigilanza e attivazione fisiologica per paura di contagiare o di essere contagiate; oppure percepiscano una tristezza e calo di energie più pervasive a causa dell’inattività, della solitudine o del confinamento; oppure si sentano arrabbiate a causa di un vissuto di ingiustizia subita o di deprivazione; o provino senso di colpa per aver, anche involontariamente, contagiato altre persone. Ed è anche facile che, secondo un processo inverso a quello precedentemente descritto, siano le emozioni ad influenzare i pensieri o il modo di interpretare gli eventi (banalmente se per esempio sono triste diventa più difficile vedere il bicchiere mezzo pieno).

Il terapeuta può offrire un ascolto empatico al paziente rispetto agli stati emotivi che creano sofferenza, provando a trovare delle strategie personalizzate al fine di renderli più tollerabili.

Naturalmente in pochi colloqui di supporto gratuito non si può effettuare un percorso completo di psicoterapia, ma si possono porre le basi per l’esplorazione e la conoscenza di alcune dinamiche di funzionamento senza escludere poi un’eventuale prosecuzione nel percorso.

MCT (Terapia Metacognitiva, Wells A. et Matthews G., 1994)

Il rimuginio è una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. È una forma di pensiero di tipo verbale caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati incontrollabili e intrusivi, aventi come oggetto i possibili scenari individuati come pericolosi. Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema.

Gli interventi più efficaci sul rimuginio prevedono l’uso di tecniche metacognitive.

Occorre quindi:

  • rendere il paziente consapevole del processo di rimuginio in atto (ad esempio mettendo in rilievo le caratteristiche di ripetitività dei pensieri o la loro pervasività ed incontrollabilità);
  • rendere il paziente consapevole del motivo per cui rimugina (come già detto, generalmente ha la percezione di poter controllare e risolvere il problema);
  • ragionare col paziente circa la veridicità del punto precedente (“E’ vero che se continuo a pensarci, mi proteggo maggiormente dalla minaccia?”);
  • individuare insieme al paziente i contro della ruminazione (può anche essere che ruminare dia l’impressione di essere più preparati quando si verificherà l’evento temuto, ma affatica, mantiene alto il livello di agitazione, fa percepire il pericolo come più vicino o elevato del reale);
  • se si suggerisce di abbassare il piano di controllo (rimuginio), occorre potenziare le risorse del paziente verso altre strategie: maggiore capacità di tollerare la frustrazione e il dubbio; rinforzare l’accettazione dell’imprevisto, rinforzare la credenza nelle risorse personali sia nel tollerare la situazione ansiosa sia eventualmente nel gestire il verificarsi di conseguenze negative.

EMDR (Eye Movemente Desensitization and Reprocessing, Shapiro F., 1989)

L’EMDR è un approccio terapeutico in grado di curare i sintomi nelle persone che hanno vissuto eventi traumatici. Possiamo definire un evento traumatico come una qualsiasi situazione che provoca un opprimente senso di vulnerabilità o di perdita di controllo e porta la persona a provare reazioni emotive particolarmente forti, tale da interferire con le normali capacità di funzionare.

Gli obiettivi principali dell’EMDR sono i seguenti:

  • Aiutare i pazienti a imparare dalle esperienze negative che hanno avuto in passato;
  • Desensibilizzare gli individui rispetto ai trigger attuali che esercitano un effetto indebitamente stressante;
  • Assimilare dei modelli per agire più appropriatamente in futuro, in modo tale da permettere ai pazienti di accedere a maggiori risorse sia a livello personale che a livello relazionale.

In sostanza l’EMDR serve a catalizzare l’apprendimento: questo trattamento fa in modo che le immagini, le convinzioni, e le emozioni negative associate ad un ricordo disturbante diventino sempre meno vivide e sempre meno potenti. Il ricordo target sembra man mano associarsi a informazioni più appropriate: i pazienti imparano a riconoscere gli elementi necessari e utili della loro esperienza passata e l’evento viene re-immagazzinato in memoria in forma adattiva, sana e non stressante (Shapiro, 2018).

E’ facile che, a causa della situazione Coronavirus, venga attivata o riattivata una componente traumatica dell’esperienza, trovandosi necessariamente a contatto con la malattia e con la morte, a rivivere esperienze di solitudine e lontananza dalle persone care, a gestire situazioni di emergenza improvvise e inaspettate.

L’EMDR è l’approccio psicoterapeutico che meglio si integra e si adatta ai contesti di post-emergenza, come quello del Covid-19, ed in particolare esiste un determinato protocollo (Gary Quinn, 2009), applicabile a distanza, in breve tempo e anche nella modalità online, particolarmente adatto proprio in ambito della Psicologia dell’Emergenza e, quindi, particolarmente indicato nel supporto di soccorritori e operatori sanitari.

Mindfulness

Mindfulness significa consapevolezza o presenza mentale e lo sviluppo di questa attitudine favorisce la riduzione dello stress e la messa in atto di comportamenti più consapevoli e più efficaci rispetto ai propri schemi abituali di reazione allo stress.

Capita a tutti di sentirsi “sotto stress”, cioè di provare preoccupazione, impotenza, ansia o sentirsi sotto pressione nell’affrontare le difficoltà che quotidianamente ci si presentano.

Ma capita anche di percepire forte stress e sofferenza in seguito ad eventi eccezionali, traumatici, non ordinari, inaspettati. E questo forse è particolarmente vero in questo determinato periodo storico e soprattutto per la categoria degli operatori sanitari.

Come siamo abituati a reagire agli eventi stressanti? Come ci relazioniamo con la sofferenza quando non possiamo evitarla? Evitando, procrastinando, respingendo con rabbia ciò che ci fa star male, diventando nervosi con chi è accanto a noi, fumando o bevendo, abbuffandoci, perdendo la percezione del tempo mentre scorriamo le bacheche dei social…

La pratica della mindfulness è molto efficace per imparare a relazionarsi in un modo nuovo con la sofferenza, in cui ci si allena a guardare in modo più distaccato i pensieri e le emozioni difficili senza farsi travolgere da essi. Questo porta ad una maggiore tolleranza degli stati emotivi dolorosi e ad una riduzione del livello di reattività automatica agli eventi negativi. Si impara infatti a lasciar andare i pensieri emotivamente pregnanti che portano alla sofferenza, il cui potere di assorbimento quindi si riduce.

Attraverso la pratica della mindfulness, cioè attraverso un attento e costante lavoro sul corpo, sul respiro, sull’osservazione e sull’accoglienza delle emozioni e dei pensieri, si diventa più coscienti delle risorse già potenzialmente disponibili in se stessi, si diventa più consapevoli e concentrati mentre si svolgono le varie attività quotidiane e si impara a mettere in atto comportamenti più consapevoli e più efficaci rispetto ai propri schemi abituali di reazione allo stress, portando ad un migliore equilibrio psicofisico e ad un innalzamento della qualità della vita.

 

A cosa può servire la psicologia nei contesti di lavoro?

Nel panorama attuale il cambiamento e la capacità di rispondere in modo innovativo alle nuove sfide che il mercato impone sono questioni di primaria importanza per le organizzazioni moderne. Come si inserisce in questo scenario lo psicologo del lavoro?

 

Partiamo da una piccola premessa: l’importanza del lavoro nella vita di ognuno.

E’ ormai riconosciuta dalla letteratura l’importanza che il lavoro detiene nella vita di un individuo, al punto tale da parlare di un Sé professionale (Fabbri & Rossi, 2008) come elemento importante di una creazione positiva dell’identità personale. Il lavoro acquisisce un ruolo centrale nella vita della persona poiché, oltre a definire il luogo che una persona e la sua famiglia occupano all’interno della società, definisce un’identificazione sociale e personale diversa da un altro uomo sociale. Per identità ci riferiamo ad una descrizione autoreferenziale che fornisce risposte alla domande “chi sono?” (Ashforth, Spencer, & Corley, 2008). Alcuni ricercatori suggeriscono che l’identità, di qualunque aspetto si parli, può essere vista come work-in-progress: instabile e mutevole. Sotto questo aspetto dinamico, l’identità lavorativa è un’attività in continua evoluzione (Boudreaua, Serranob, & Larsonc, 2014, p. 3). Per questo le persone non lavorano solo per guadagnarsi da vivere, ma apprezzano anche la qualità della vita lavorativa (Sirgy, Efraty, Siegel, & Lee, 2001).

Un’ulteriore premessa: i cambiamenti organizzativi e la loro gestione

La letteratura manageriale concorda, al di là delle diverse prospettive e correnti teoriche con cui si analizza il fenomeno, che gestire il cambiamento è una questione di primaria importanza per le organizzazioni moderne (Bouckenooghe, Devos &Van Den Broeck, 2009), così come la capacità di rispondere in modo innovativo alle nuove sfide che il mercato impone. Per raggiungere elevati livelli di innovazione e prestazione, le aziende devono fare affidamento sui propri lavoratori e sul modo in cui questi sperimentano l’organizzazione (Gundry, Muñoz-Fernandez, Ofstein & Ortega-Egea,2016). Per questo motivo, negli anni, vi è stato un cambio di rotta anche negli studi passando da un focus macro sul sistema aziendale, ad uno che mira a chiarire quali fattori individuali facilitano il cambiamento (Choi & Ruona,2010). Le ricerche hanno trovato nei comportamenti dei lavoratori la spiegazione al fallimento dei cambiamenti organizzativi, questi infatti possono reagire positivamente o negative con espressioni di resistenza (Armenakis & Bedein,1999). La rilevazione delle preoccupazioni sul cambiamento e delle predisposizioni dei lavoratori verso di esso diventa quindi una condicio sine qua non prima di avviare un processo di cambiamento (Ten Have & Ten Have,2004 in Bouckenooghe et al,2009).

Ultima premessa: siamo tutti d’accordo sui nuovi leader aziendali

Un ulteriore aspetto su cui la letteratura manageriale concorda è la necessità di formare una leadership capace di gestire i teams e di rispondere alle esigenze di cambiamento costante. Il leader diventano figure chiave delle aziende flessibili ed il loro ruolo è sempre più legato all’ incoraggiare l’accettazione degli obiettivi nel gruppo, all’incoraggiamento di comportamenti di cittadinanza organizzativa, a funzioni di supporto durante lo svolgimento dei compiti con costanti feedback sull’operato. I leader che ottengono i migliori risultati (Bass, Avolio, Jung & Berson, 2003) sono quelli maggiormente attenti agli individui, stimolando le persone ad usare le proprie risorse intellettive e creando un clima di lavoro favorevole.

Ma chi è lo psicologo del lavoro?

La psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane fa riferimento alla relazione tra persone, lavoro e contesti organizzativi, con riguardo ai fattori personali, interpersonali, psicosociali e situazionali. Lo psicologo del lavoro collabora allo svolgimento di funzioni in relazione alla carriera lavorativa delle persone e ai contesti di lavoro organizzativi; tra le principali attività vi sono: la selezione, la valutazione e l’orientamento delle persone, la formazione e lo sviluppo dei lavoratori, il marketing e i comportamenti di consumo, le condizioni di lavoro, salute e benessere sia individuali che organizzativi, il team work, la progettazione e la realizzazione di interventi per l’acquisizione, gestione e valutazione delle prestazioni, gli interventi di sviluppo. Inoltre, lo psicologo del lavoro si occupa dell’assessment del fabbisogno formativo a livello di gruppo o di parte dell’organizzazione, mediante tecniche di analisi del lavoro e analisi organizzativa (ad esempio, SWOT e Gap analysis) tese alla definizione degli obiettivi formativi e della progettazione formativa. Infine, un’altra importante funzione è quella concercente le valutazioni dei rischi psicosociali, con particolare riguardo allo stress lavorativo, agli interventi per la salute e sicurezza nei posti di lavoro anche in una prospettiva ergonomica,alla  formazione e apprendimento delle regole di sicurezza, sulle reazioni automatiche a specifiche situazioni di pericolo (Consiglio nazionale ordine degli psicologi).

Mettiamo insieme i pezzi:

I vantaggi di avere una figura professionale come lo psicologo aziendale per un’organizzazione anche di piccole-medie dimensioni sono:

  • Avere una figura che sia in grado di analizzare, comprendere e mediare tra i cambiamenti del personale, legati alla propria funzione identitaria ed i cambiamenti aziendali. Attraverso pratiche evidence based e strumenti tipici della professione che permettono un’analisi non superficiale delle esigenze del singolo, si può quindi avere un buon match tra l’identità personale, professionale e identità aziendale.
  • Avere un manager interno, non consulenziale, che sia in grado di cogliere il punto di vista individuale in ogni fase del cambiamento organizzativo pone le basi per un clima favorevole al continuo cambiamento, contribuendo a gestire le resistenze e le ansie all’interno dell’azienda.
  • Avere un formatore per i propri leader interni. Anche in questo caso, la possibilità di avere un formatore interno, rispetto al consulente esterno, permette di poter creare una leadership su misura alle esigenze aziendali. La capacità di acquisire buone pratiche dall’esterno e modellare sull’esigenza dei team di lavoro (che anche tra i diversi reparti di un’unica organizzazione possono variare) permette una maggiore aderenza fra leadership e team di lavoro.

Rivalutare il ruolo dell’ufficio HR implica, quindi, creare una figura professionale che non sia un mero gestore amministrativo del personale (buste paghe, cedole, ferie, richiami), ma un professionista strategico; lo psicologo del lavoro, infatti, diventa un manager innovativo in grado di fornire efficaci strumenti di gestione del cambiamento orientati al singolo, strumenti sviluppati per implementare attività di coaching aziendale nei propri responsabili e monitorare le esigenze del personale impiegato. Un modello di direzione del personale basato sulla valutazione, gestione e valorizzazione delle risorse umane non solo è coerente con l’obiettivo di miglioramento continuo delle organizzazioni, ma anche un modello che implica un cambio di visione rispetto all’importanza del singolo in azienda: non più “ se vai via ne trovo altri 100”, quanto piuttosto “curo la tua crescita e la tua formazione affinché tu possa portare un valore aggiunto alla mia azienda”. Naturalmente, ciò implica uno sforzo per le organizzazioni: azioni di valutazione del potenziale già dalle prima fasi di selezione, azioni di socializzazioni delle nuove reclute con un diretto coinvolgimento della dirigenza, un sistema di valutazione che guardi anche alla costante formazione del singolo. Ancora, a livello organizzativo, implica la possibilità di avere figure trasversali che semplifichino il dialogo non solo tra direzione, leader e lavoratori, ma che rendano positivo e uniforme il dialogo tra diverse aree aziendali. Tali competenze fanno parte della cassetta degli attrezzi di uno psicologo del lavoro, la cui formazione non si limita alla conocenza della psiche, ma riguarda anche aspetti economici, sociologici e manageriali.

Certo non stiamo affermando che lo psicologo del lavoro sia una sorta di supereroe in grado di far tutto e cambiare le sorti di ogni azienda, ma di certo è un professionista che possiede conoscenze e competenze tali da poter limitare la richiesta di consulenze e di formatori esterni, riuscendo ad offrire un valore aggiunto alla gestione aziendale.

 

Paura, panico, contagio. Vademecum per affrontare i pericoli (2020) di P. Legrenzi – Recensione del libro

Un libro che, seppur scritto all’inizio della diffusione del coronavirus, offre una panoramica completa della situazione attuale; un testo che ci consente di infondere sapere e conoscenza e che può contribuire a mantenere l’equilibrio per riuscire a superare questa impresa funambolica che sta coinvolgendo tutti.

 

Edito il 18 marzo 2020 dalla casa editrice Giunti, il testo è scritto dall’illustre Paolo Legrenzi, Professore di Psicologia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerose pubblicazioni di carattere scientifico, saggi e manuali di psicologia. Il Prof. Legrenzi illustra, in maniera equilibrata, proprio come l’omino in copertina impegnato nella sua impresa funambolica, come una situazione così importante quale quella scatenata dalla diffusione del Covid-19 e relative conseguenze, stia scatenando meccanismi di paura. Meccanismi che, se non gestiti con equilibrio, potrebbero da protettivi, diventare essi stessi nocivi. Il tutto è, da una parte, approfondito con completezza e ricchezza delle argomentazioni e, dall’altra, con semplicità di linguaggio per essere accessibile a tutti.

Il Professore spiega come la natura della nostra mente, il suo modo di lavorare, le risposte emotive, quali la paura, abbiano una natura istintiva che mobilita dei meccanismi protettivi tra cui l’evitamento, la fuga, il voler tenere il controllo; e fornisce un approfondimento su come questo si traduca nell’attuale situazione caratterizzata dall’emergenza coronavirus. Tutto ciò va aggiunto al contagio sociale, portato anche dalla diffusione di informazioni false, poco chiare o non approfondite che possono fungere da fertilizzante ulteriore alle nostre paure.

Ma la paura, ci spiega il Professore, non è negativa così come non lo è la percezione del pericolo, ma riprendendo la figura presente in copertina, dobbiamo riuscire a tenere un equilibrio fra i due termini, perché il sopravvalutare, così come il sottovalutare, uno dei due potrebbe risultare disfunzionale e pericoloso e l’autore del testo spiega in maniera dettagliata e chiara anche il perché. L’essere umano ha la tendenza a ridurre in schemi semplici la complessità del mondo, iniziamo a farlo fin da piccoli per imparare a dare un senso alle cose che ci circondano, a ordinarle in categorie; usiamo questo meccanismo per “risparmiare energie”, ma a volte dobbiamo imparare ad essere più saggi e sapienti e cercare di  “vaccinarci” intanto dai danni che l’eccesso di determinati meccanismi, così come della paura, possono comportare all’essere umano.

E come difenderci?

Il testo offre una serie di spiegazioni anche in tal senso. Imparare a distinguere un pericolo soggettivo da un pericolo oggettivo, valutare non soltanto la causa, ma anche le concause in modo da ampliare la conoscenza di un fenomeno, e riuscire a capire come muoversi, sviluppare un senso critico, imparando a filtrare anche le informazioni di un evento o fenomeno, coltivare la speranza riuscendo a mantenere un equilibrio tra paura e pericolo.

Ma come si traduce tutto ciò in riferimento all’emergenza Coronavirus?

Basta riflettere su ciò a cui in questi mesi abbiamo assistito: persone che da una parte hanno sottovalutato il pericolo contribuendo con comportamenti irresponsabili alla diffusione del virus e persone che hanno esasperato meccanismi di paura, paura per la propria salute e quella dei propri cari, paura del contagio, paura per la propria condizione economica, paura per la condizione economica e sanitaria a livello nazionale e rapidamente a livello mondiale, per citarne alcuni.

Ma la paura comunque va affrontata e superata con coraggio, coscienza e prudenza, riducendo anche il flusso delle informazioni che ci giungono dai media e social media, prestando attenzione ad esempio non soltanto al dato relativo al numero di contagi e morti, ma anche al numero di guariti, discriminare e capire il numero dei morti con/per il covid-19, saper distinguere le cause dalle concause, capendo che su quest’ultime possiamo dare un nostro contributo ed in questo caso siamo chiamati a darlo.

Un libro che, seppur scritto all’inizio della diffusione del virus covid-19, offre una panoramica completa della situazione che stiamo vivendo a tutt’oggi, un testo che ci consente di infondere sapere e conoscenza e che, per il lettore attento ed interessato, può contribuire a mantenere l’equilibrio per riuscire a superare questa impresa funambolica che sta coinvolgendo tutti.

 

Amore, non stasera: le motivazioni che portano le coppie a rifiutare il partner a letto

Uno studio recentemente pubblicato su The Journal of Sexual Medicine ha indagato le motivazioni che spingono gli individui, impegnati in una relazione stabile, a rifiutare i rapporti sessuali con i propri partner (Mark et al., 2020).

 

I rapporti sessuali sono senza dubbio una parte fondamentale delle relazioni romantiche e contribuiscono al benessere della coppia e dell’individuo. Di fatti, coloro che sono soddisfatti della propria vita sessuale, a prescindere dalla cultura e dall’etnia di provenienza, mostrano livelli più alti di soddisfazione all’interno di relazioni a lungo termine (Heiman et al., 2011).

Tuttavia, nelle relazioni di lunga durata, si assiste a una diminuzione della frequenza dei rapporti sessuali e, di conseguenza, si può assistere anche a una minore soddisfazione sessuale e relazionale (Karraker & DeLamater, 2013). Ma quali sono le ragioni principali per le quali uno dei due partner rifiuta di avere un rapporto sessuale? La risposta a questo interrogativo potrebbe essere d’aiuto nel caso in cui una coppia richiedesse l’intervento di uno specialista o, più semplicemente, per comprendere le ragioni del partner imparando a gestire le proprie reazioni negative al “rifiuto”.

In letteratura, sono presenti diversi studi che indagano le motivazioni che portano le coppie a diminuire la frequenza dei loro rapporti sessuali (es. Call et al., 1995): primo tra tutti il fatto che il desiderio sessuale cali con la durata della relazione e con l’età (Herbenick et al., 2014); in secondo luogo, entrano in gioco fattori come la gravidanza, il parto, lo stress lavorativo, sociale o familiare, i problemi economici, un desiderio sessuale scarso, il poco tempo a disposizione da passare insieme e così via (Fisher et al., 2015; Karraker et al., 2013; DeLamater & Moorman, 2007).

Il presente studio si pone l’obiettivo di comprendere le motivazioni che spingono uno dei due partner a rifiutare un rapporto sessuale, tramite un’osservazione quotidiana della durata di 30 giorni di 87 coppie eterosessuali (Mark et al., 2020). I quattro interrogativi ai quali gli autori hanno voluto trovare una risposta sono i seguenti: (1) quali sono le ragioni che spingono sia gli uomini che le donne a non impegnarsi in un rapporto sessuale? (2) Vi sono differenze di genere? (3) I motivi che spingono a non fare sesso sono collegati alla mancanza di desiderio, soddisfazione sessuale o soddisfazione relazionale? (4) Questi elementi predicono significativamente le ragioni riportate per non avere un rapporto? (Mark et al., 2020)

L’osservazione è avvenuta con la somministrazione del Sexual Desire Inventory e la Global Measure of Sexual Satisfaction prima di cominciare l’osservazione (baseline). Inoltre, i partecipanti hanno completato dei report quotidiani riguardo la loro vita sessuale.

Sia gli uomini che le donne hanno sostenuto di non avere rapporti sessuali per motivazioni comuni (es. “non è successo e basta”); per quanto riguarda le motivazioni delle donne, esse erano più portate, rispetto agli uomini, a dare risposte riguardanti loro stesse piuttosto che il partner (es. “non ne avevo voglia, non ero nello stato d’animo adatto, ero stanca, ecc.”) mentre gli uomini tendevano a riversare la responsabilità più sulle compagne che su di loro (es. “lei non aveva voglia, lei era stanca, ecc”). Sia per gli uomini che per le donne, le motivazioni per non avere un rapporto sessuale erano correlate, in frequenza, alla soddisfazione sessuale e relazionale e al desiderio sessuale quotidiano: una maggiore soddisfazione sessuale alla misurazione baseline era associata a una ridotta probabilità di riversare la responsabilità sul partner per i mancati rapporti (Mark et al., 2020).

I problemi sessuali sono la ragione principale per cui le coppie richiedono un intervento terapeutico ed essere a conoscenza delle motivazioni che spingono i due partner a rifiutare i rapporti può essere un buon punto di partenza.

 

Alimentazione ed emozioni: uno stretto legame – Il video di Psychoarea

Cos’è la fame “nervosa”? Perchè a volte mangiamo anche se non abbiamo fame o, piuttosto, digiuniamo? Cosa ci fa preferire degli alimenti rispetto ad altri? Perchè gli effetti di regimi alimentari fortemente restrittivi non sono destinati a durare nel tempo?

 

In occasione della IX Giornata del Fiocchetto Lilla, giornata istituita per la sensibilizzazione ai Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, l’Associazione Psychoarea aveva proposto una serata informativa gratuita, aperta a tutte le persone interessate, per parlare dello stretto legame tra alimentazione ed emozioni nella normalità della vita quotidiana e di come questo può sfociare in vere e proprie patologie.

Purtroppo, a causa dell’emergenza coronavirus, l’evento è stato annullato, ma abbiamo comunque deciso di caricare un video per divulgare i contenuti che sarebbero stati trattati durante la serata.

Capiremo cos’è la fame “nervosa”, perchè a volte mangiamo anche se non abbiamo fame o, piuttosto, digiuniamo, cosa ci fa preferire degli alimenti rispetto ad altri e perchè gli effetti di regimi alimentari fortemente restrittivi non sono destinati a durare nel tempo.

Impareremo, poi, cosa si intende per Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, quali sono alcuni dei fattori coinvolti nel loro sviluppo, quali sono le persone più a rischio di svilupparli, quali sono i segnali per riconoscerli e come aiutare le persone che ne sono affette a ricorrere alle cure. Tratteremo poi brevemente quali sono i protocolli di trattamento approvati dalle linee guida internazionali che possiamo applicare e come la famiglia può diventare una risorsa nell’affrontare le difficoltà.

Intervengono la dr.ssa Patrizia Todisco, medico chirugo specialista in medicina interna e psichiatria, psicoterapeuta e responsabile  del Centro per la cura dei DCA presso la Casa di Cura “Villa Margherita” e la dr.ssa Sylvia Schifano, psicologa e psicoterapeuta specializzata nel trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione.

Buona visione e…coloriamoci di Lilla!

 

GUARDA IL VIDEO INTEGRALE DELL’INTERVISTA:

Un incontro con una ragazza romana

Agnese una donna romana che non fu più una pedina dei traffici politici dei suoi tempi e sociali della sua famiglia, ma scelse il suo nome e un suo destino. La piccola Agnese non era una teenager dei nostri tempi impegnata nei suoi primi filarini amorosi, ma parte del grande gioco sociale della nobiltà romana.

 

Passeggiavo per Roma qualche settimana fa, quando era ancora possibile passeggiare e il Coronavirus ancora non ci confinava in casa, diretto a un’occasione di lavoro che ora non ricordo, quando mi imbattei in una chiesa. Una chiesa dedicata a Sant’Agnese, la Basilica di Sant’Agnese fuori le Mura. Mosso da curiosità consultai su wikipedia o sulla targa fuori dalla chiesa – anche questo non lo ricordo più bene – chi fosse questa santa e trovai la storia di una giovane donna martirizzata a 12 o forse 15 anni durante la persecuzione di Diocleziano.

Pur distrattamente interessato, non potei fare a meno di chiedermi cosa avesse potuto convincere una giovane ragazza romana di nobile famiglia a rinunciare ai piaceri della vita mondana per la castità. Pare che la ragazza fosse stata promessa in sposa dal figlio del prefetto di Roma e che lo avesse respinto preferendo la sua scelta religiosa e che poi il respinto l’avesse denunciata come devota al Cristo, religio illicita, all’autorità. La ragazza non abiurò la sua fede e il tribunale la fece giustiziare nonostante la tenera età.

Mi accompagnò subito una torma di pensieri, i più moderni e liberali, che deridevano questa scelta autopunitiva e repressiva della ragazza in base alle categorie moderne della libertà sessuale e del godimento terreno: perché non si era sposata con quel tipo che l’amava? E se anche non le piaceva perché non si era goduta la sua vita mondana invece di abbreviarla per una fede soprannaturale? Si presentarono però a controbattere altri pensieri che sostenevano che forse gli avvenimenti erano stati più complessi e che non si doveva giudicare una persona col metro moderno della repressione sessuale. Il che poteva essere vero: perché quella ragazza doveva sposare qualcuno che lei forse non desiderava? Probabilmente a quel tempo il parere della donna non era tenuto in gran conto e ritenere la vita matrimoniale di una donna di un’epoca così antica più libera di una scelta religiosa era forse un pregiudizio moderno.

Una sposa all’epoca era una persona con scarsi diritti, sottomessa al marito e destinata a un futuro di fattrice e di gestione della casa. Una religiosa, al contrario, poteva essere una donna autonoma e dotata di un ruolo pubblico. Rinunciava ai piaceri del mondo e della carne? Il mondo però le sarebbe stato precluso anche come donna sposata e anzi forse più precluso. Quanto alla carne, si tratta di un’ossessione dei nostri tempi, sempre un po’ adolescenziali e maschietti.

Anche questo però poteva essere a sua volta un giudizio astratto e superficiale. Non potevo escludere che Agnese potesse avere davvero agito anche per paura dell’impegno affettivo e sessuale e non per libera scelta. È possibile che a quei tempi l’idea della passione romantica fosse meno diffusa e idealizzata che nel presente, ma non era del tutto assente. Basti pensare a Catullo e altri. Epperò Catullo risaliva a tre o quattro secoli prima e i tempi di Agnese erano diversi, più attratti dal soprannaturale, non solo cristiano. E così via pensavo pigramente mentre i pensieri continuavano ad attormarsi.

La verità più semplice è che non sapevo nulla di questa Agnese, se non il suo nome. Mentre ero impegnato in queste inoperose speculazioni mi venne in mente però un particolare che poteva rendere la storia di Agnese più vissuta e concreta. Non sapevo quale fosse la famiglia nobile a cui apparteneva Agnese. Non so perché mi vennero in mente i Claudi, tra le famiglie più antiche e nobili. Poteva essere una Claudia? Nessuno mi può rispondere. In realtà non solo io, ma nemmeno wikipedia sembrava sapere a quale famiglia appartenesse Agnese.

Che fosse una Claudia o meno, però di certo Agnese come nobile romana non aveva un suo nome proprio. Cosa intendo dire? Che le donne a Roma non avevano un nome personale, ma portavano tutte indistintamente il cognome della famiglia. E così nella famiglia Claudia capitava che tutte le donne si chiamassero Claudia. E quando scrivo tutte, intendo tutte. Mentre i maschi di famiglia avevano tre nomi, di cui uno proprio e personale, ad esempio Appio Claudio Cieco il sui nome personale era Appio, nome appunto suo e solo suo, le donne di una famiglia si chiamavano tutte, ma proprio tutte, con lo stesso nome che era quello della famiglia: nel caso della famiglia dei Claudi, si chiamavano tutte Claudia.

Di colpo mi chiesi quali fossero le implicazioni pratiche di una simile situazione. Immaginai una riunione di famiglia in cui tutte le donne si chiamassero con lo stesso nome. Ad esempio, ancora nel caso della famiglia Claudia: Claudia la nonna, Claudia le figlie, Claudia le nipoti, Claudia le zie e le cugine e così via. Come facevano a chiamarsi tra loro, avendo tutte lo stesso nome? Probabilmente utilizzando nomignoli di cui è svanita la memoria. Un modo sottile per anonimizzarle, queste donne.

E così la figlia di Marcio Tullio Cicerone si chiamava Tullia, come Tullia si chiamava sua zia o sua nonna, le sue cugine e le sue figlie e nipoti. Solo la madre, provenendo da un’altra famiglia, aveva un altro nome, che però era in comune con un’altra torma di zie e cugine. Forse per questo il padre Cicerone chiamava sua figlia Tulliola, piccola Tullia, per distinguerla e darle una piccola individualità. E già, perché a pensarci bene, se tutte le donne di una famiglia si chiamavano allo stesso modo, nessuna di loro aveva una sua individualità, questo era chiaro.

Ed ecco che invece una di loro si converte al cristianesimo, fa voto di castità e assume un nome che non è quello della famiglia, sia pur nobile. Scelse di battezzarsi Agnese, forma latinizzata del nome greco antico Ἁγνή che significava pura, casta. Da casta, Agnese non fu più una pedina dei traffici politici e sociali della sua famiglia e scelse un suo destino. La piccola Agnese non era una teenager dei nostri tempi impegnata nei suoi primi filarini amorosi ma una pedina nel grande gioco sociale della nobiltà romana.

Di Agnese non sappiamo quale fosse il nome da ragazza pagana, il primo nome che in realtà era il cognome di famiglia come abbiamo già detto. Lo abbiamo dimenticato. E forse di questo Agnese sarebbe contenta. Finalmente con un nome tutto suo, forse accettò felice il martirio. E forse anche questa spiegazione, troppo sociologica, non rende giustizia ad Agnese, che nutriva un afflato spirituale più elevato delle nostre curiosità sessuali di eterni moderni teenager malcresciuti.

 

Morire per una foto: le selfie deaths – Psicologia Digitale

Le situazioni a rischio più frequenti che conducono alle cosiddette selfie deaths comprendono trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 10) Morire per una foto: le selfie deaths

 

La notizia è di pochi giorni fa: Olesya Suspitsyna, giovane guida turistica, è morta cadendo da un dirupo nel parco turco di Duhan, famoso per le sue cascate.

Lì con una amica, si era allontanata dalla recinzione di sicurezza per scattare un selfie che la ritraesse con lo sfondo spettacolare della scogliera ma è scivolata compiendo un volo di 35 metri, troppi perché potesse salvarsi.

Dall’autoscatto al selfie

Alzi la mano chi non ha mai scattato un selfie: non c’è nemmeno bisogno di spiegare che cos’è. Selfie è un termine giovane: nascita e prima definizione risalgono al 2005 quando il fotografo Jim Krause lo utilizza per la prima volta nel suo book Photo Idea Index. Nel 2012 l’Accademia della Crusca lo definisce ‘un autoscatto creato per essere condiviso sui social’, ponendo l’accento sulla condivisione e sull’unicità del termine, di cui non esiste infatti un corrispettivo italiano. L’anno successivo il termine ‘selfie’ diventa parola dell’anno per l’Oxford Dictionary che ne dà una definizione identica: ‘foto di sé (da soli o in compagnia) destinata alla condivisione’, riconoscendone in via definitiva la popolarità.

Il selfie come condotta a rischio: le selfie deaths

Le cosiddette ‘selfie deaths’ (dette anche killfies) sono decessi causati da una condotta a rischio attuata col preciso scopo di scattare un selfie; vanno incluse in questa triste numerica anche le persone morte per prestare soccorso o che erano con chi materialmente faceva lo scatto. Si tratta di morti che avrebbero potuto essere evitate se qualcuno non avesse spinto la voglia di un autoscatto social oltre i limiti. La maggior parte delle selfie deaths avvengono in India, seguite da Russia, USA e Pakistan; le situazioni a rischio più frequenti sono: trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati, come tigri (Lamba et al, 2017). Ad oggi sono state registrate ufficialmente 327 ‘selfie deaths’. Il numero totale di morti potrebbe essere molto più alto, dato che molti casi potrebbero non essere stati considerati selfie deaths.

Killfies: nuove teorie e aree di ricerca, dipendenza o narcisismo?

Del fenomeno ci siamo già occupati qualche mese fa, con la lente delle teorie di Daniel Kahneman secondo cui il processo decisionale ‘immediato’ è coinvolto nei comportamenti a rischio, inclusi quelli che possono portare alla morte per una foto. Ci sarebbero però anche altre spiegazioni.

Per Lodha e De Sousa (2019), rispettivamente psicologa clinica e psichiatra operativi in India, i selfie sono validi mezzi di definizione, rappresentazione ed espressione di sé e strumenti per rimanere in contatto con gli altri. Parte importante dell’identità personale, possono rappresentare un problema quando l’uso è disfunzionale e rivela fenomeni psicologici come scarsa fiducia in se stessi (da qui il bisogno di essere validati dal giudizio esterno, i like), o tendenze narcisistiche preesistenti (tesi esplorata a fondo da Maddox, 2017). Molti professionisti della salute mentale associano la compulsione a farsi selfie con altri disturbi mentali, come dismorfofobia e insoddisfazione corporea e in rari casi addirittura psicosi, oltre che con bassa autostima, FOMO (fear of missing out, la paura di essere esclusi dai social) e isolamento. Secondo Lodha e De Sousa possiamo parlare di ‘sindrome da selfie’ o ‘disturbo da dipendenza da selfie’, o, come lo definirebbe Bergum (2019), selfitis: compulsione clinicamente significativa, una vera e propria dipendenza, a scattare più volte al giorno foto di se stessi da pubblicare sui social.

Le selfie deaths sarebbero una delle conseguenze di questo disturbo, quella più tragica: l’impulso incontrollabile porta a comportamenti rischiosi, senza preoccupazione o comunque sottostimando il rischio in nome della foto perfetta.

Selfie vs killfie: guardami mentre mi mostro

Ogni giorno moltissimi selfie vengono scattati e condivisi senza alcuna conseguenza per l’incolumità delle persone. E’ chiaro che attira più l’attenzione dei media l’evento tragico, seppur per fortuna molto raro.

Per dare un senso a queste morti si ricorre spesso ad una narrativa che riconduce al mito di Narciso e del suo specchiarsi in se stesso, anche se un selfie non dice solo ‘guarda qua, qui, ora’ ma anche ‘guardami mentre mi mostro’: siamo più nell’ambito della micro celebrity, del creare di se stessi un brand. Secondo Maddox (2017) la lettura del sé patologicamente Narciso è anacronistica: per la Generation Me, quella dei nativi digitali, i social sono parte delle normali interazioni quotidiane; una generazione fortemente influenzata dai social e soprattutto dalla quantificazione: il ‘sé quantificato’ di cui parlano Lodha e De Sousa (2019), il cui valore dipende dal numero di like, commenti, follower.

Le selfie deaths, se pure un fenomeno di nicchia, hanno attirato l’attenzione di studiosi e portato alla nascita di un movimento, il Selfie to die for, che promuove la sensibilizzazione sui rischi di spingersi troppo oltre per fare una foto.

Fare selfie comunque ha anche molti aspetti positivi: espressione di sé, condivisione, attenzione e accettazione da parte degli altri; solo che, a volte, con un costo troppo alto.

 


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Gestione Documentale: di cosa si tratta?

Gestione Documentale: di cosa si tratta?

L’AgID (Agenzia per l’Italia digitale) dà questa definizione:
La gestione documentale dei procedimenti amministrativi garantisce la corretta amministrazione dei documenti dalla produzione alla conservazione.

Wikipedia fornisce queste informazioni:
Il Document management system (DMS), letteralmente Sistema di gestione dei documenti, è una categoria di sistemi software che serve a organizzare e facilitare la creazione collaborativa di documenti e di altri contenuti. Tecnicamente si tratta di un’applicazione lato server che si occupa di eseguire operazioni talvolta massive sui documenti, catalogandoli ed indicizzandoli secondo determinati algoritmi.

Ogni giorno le Aziende si trovano a fare i conti con enormi e continui flussi di lavoro che possono (e devono) essere migliorati per restar dal passo con i tempi. Ogni giorno le Amministrazioni devono raccogliere, ordinare, catalogare, organizzare, conservare, gestire dati e documenti che circolano in grandissima quantità e velocità. In tutto questo sistema, una corretta gestione documentale può risultare come strategia vincente da adottare.

Quali sono i documenti con i quali adottare la gestione documentale?
PEC, E-Mail, immagini, scansioni, fatture, documenti office, fatture e molto altro.

Document Management System (DMS)

Ovvero, un software di gestione documentale che agevola l’accesso alle informazioni conservate.
Questo permette di ridurre notevolmente i costi aziendali per archiviazione, ottimizzando anche il workflow documentale e garantendo l’operatività lavorativa.

I Vantaggi?

Ricerca: informazioni e documenti recuperabili in pochi istanti.

Accessibilità: possibilità di raggiungere le informazioni ovunque, sia da web che da client.

Eco – Friendly: particolare attenzione all’ambiente e alla riduzione di inquinamento, grazie all’eliminazione della carta.

Sicurezza: la personalizzazione degli accessi permette di accedere ai file solo a chi dispone degli permessi necessari per farlo. Inoltre, vengono rispettare le normative sulla privacy.

Valore ai documenti: la possibilità di valorizzare i propri documenti, grazie all’archiviazione, alla conservazione e rendendoli inalterabili nel tempo.

Riduzione dei costi: si abbattono costi di archiviazione, spedizione e gestione dei documenti. Inoltre, un buon sistema di gestione documentale permette di evitare inutili perdite di tempo e, di conseguenza, ottimizzare il lavoro.

Cyberchondria: googla un sintomo e ti dirò cos’hai

In questo momento storico in cui sembra che “dott. Google” sappia tutto, è sempre più frequente pensare o sentire da parenti e amici “sai quel mal di testa che ho?! Ho googolato e potrebbe essere un tumore al cervello, che ansia!”.

Marino Claudia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

La ricerca di informazioni online rispetto alla propria salute è un fenomeno in crescita in tutto il mondo. Le statistiche nazionali indicano che circa il 35% degli italiani che usano Internet cerca online informazioni relative alla salute (Eurostat, 2018). Da un lato le ricerche online sulla salute comportano una serie di vantaggi come l’anonimato nel cercare le informazioni imbarazzanti, la gratuità delle informazioni ricevute e, perché no, la sensazione di “saperne di più” sui propri sintomi (Starcevic & Berle, 2013). D’altra parte, però, le pericolose auto-diagnosi e la conseguente sfiducia nel nostro medico di base o nello specialista di turno risultanti dalla ricerca di sintomi su siti internet di varia natura sembra peggiorare i livelli di ansia per la salute (White & Horvitz, 2009). A questo riguardo, in una recente meta-analisi, McMullan e colleghi (2019) hanno trovato un’associazione “media” tra ansia per la salute e la frequenza nella ricerca di sintomi. In altre parole, sembra che cercare sintomi online abbia a che fare con la preoccupazione per il proprio stato di salute (Taylor & Asmundson, 2004), ma, allo stesso tempo, sembra che il comportamento di ricerca di informazioni online possa avere anche delle caratteristiche specifiche. Anche se attualmente non c’è consenso internazionale sul ritenere la ricerca online la causa o la conseguenza dell’ansia per la salute, i ricercatori sembrano essere concordi sul fatto che cercare i propri sintomi online possa contribuire in modo significativo al peggioramento di un’ansia per la salute che probabilmente è pre-esistente (Starcevic & Berle, 2015) o ad innescare l’ansia per la salute in persone che prima di cercare non avevano livelli problematici di distress.

Cos’è la Cyberchondria: definizione e correlati psicologici

Al di là della ricerca online di sintomi di per sé, il termine “cyberchondria” indica una ricerca eccessiva e il perseverare in tale attività compulsivamente nonostante l’aumento dell’ansia per la salute esperito e la compromissione del funzionamento della vita quotidiana (Starcevic & Berle, 2013). Quindi, i molteplici e diversi risultati delle ricerche online di un sintomo, spesso, rendono il quadro diagnostico molto confuso e le persone tendono a cercare rassicurazioni dai medici prenotando molte visite per avere più pareri, facendo quindi accesso con più frequenza ai servizi del sistema sanitario nazionale. In questo senso, oltre ad aumentare i costi della sanità pubblica, i pazienti sperimentano un distress tale da provare sfiducia nei medici a causa della probabile incongruenza delle diagnosi ricevute dai medici in persona e online.

La natura multidimensionale della cyberchondria è stata catturata in uno strumento proposto da McElroy e Shevlin (2014): la Cyberchondria Severity Scale (CSS). Questa scala è stata tradotta in diverse lingue ed esiste anche una versione italiana che sarà pubblicata nei prossimi mesi.

La versione originale della scala contiene 33 item divisi in 5 sottoscale:

  • Compulsion: indica come il comportamento di continuare a cercare sintomi online comprometta il normale funzionamento quotidiano (esempio di item: “Cercare online i sintomi o le condizioni mediche percepite interrompe le mie attività sociali offline (riduce il tempo che passo con amici e familiari)”).
  • Distress: indica l’ansia per la salute legata alle ricerche online (esempio di item: “Incomincio a farmi prendere dal panico quando leggo online che un sintomo che ho è associato a una malattia rara/grave”).
  • Excessiveness: indica il ricorso ripetuto ed eccessivo all’uso di Internet per cercare i sintomi percepiti (esempio di item: “Leggo pagine web diverse riguardo la stessa presunta condizione medica”).
  • Reassurance: indica la ricerca di rassicurazioni dal medico per la grave preoccupazione scaturita dalla consultazione di siti web sulla salute (esempio di item: “Discuto delle mie scoperte mediche online con il mio medico di base/lo specialista”).
  • Mistrust of medical professional (reversed): indica la (s)fiducia nella diagnosi del medico rispetto ai risultati delle ricerche online (esempio di item: “Mi fido più della diagnosi del mio medico di base/specialista che della mia auto-diagnosi online”).

Al di là delle proprietà psicometriche della scala, questa misura evidenzia come la cyberchondria sia caratterizzata sia da aspetti comportamentali (per esempio, cercare eccessivamente informazioni online) che emotivi (cioè, la preoccupazione per la propria salute) che cognitivi e relazionali. In questo senso, fino ad ora è stata il fulcro del dibattito scientifico internazionale sulla definizione del fenomeno e dei suoi correlati.

Infatti, sembra che la cyberchondria abbia delle caratteristiche in comune sia con l’ansia per la salute “tradizionale” (essendone la “forma online”) sia con il disturbo ossessivo-compulsivo (per la natura compulsiva delle ricerche online; Fergus & Russell, 2016). Ciononostante, la caratteristica distintiva di questo fenomeno consiste nel fatto che non solo gli ipocondriaci cerchino online (e finiscano per stare peggio) ma anche chi non ha ansia per la salute in partenza può poi provarla come conseguenza delle ricerche online su un sintomo più o meno banale. Quindi, l’escalation di ansia e le ricerche online sfociano nell’aumento del tempo speso a cercare sintomi online e portano, quindi, a una compromissione della vita quotidiana (McElroy, Kearney, Touhey, Evans, Cooke, & Shevlin, 2019).

Fergus and Dolan (2014) hanno, inoltre, evidenziato delle aree di sovrapposizione tra la cyberchondria e l’uso problematico di Internet (PIU). Sembra, infatti, che oltre ad “avvenire” su Internet, la cyberchondria, come PIU, sia caratterizzata dalla difficoltà nel controllare l’uso di Internet che porta a conseguenze negative nella vita quotidiana lavorativa e relazionale. Nello specifico, sembra che i cyberchondriaci abbiano alti livelli di intolleranza all’incertezza e sensibilità all’ansia (e.g., Fergus, 2015; Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015) e, al contrario, bassi livelli di qualità della vita (Mathes, Norr, Allan, Albanese, & Schmidt, 2018). Questa riflessione pone delle questioni fondamentali sul modello teorico di riferimento (PIU vs. ansia per la salute) e, quindi, sul tipo di trattamento psicoterapeutico più adeguato da adottare per trattare questo fenomeno (Fergus & Spada, 2017).

Un modello metacognitivo per la cyberchondria

In riferimento all’inquadramento teorico della cyberchondria, un contributo interessante è quello di Fergus e Spada (2017, 2018) i quali hanno proposto una concettualizzazione metacognitiva del problema. Vista la sovrapposizione della cyberchondria con altri disturbi (ansia per la salute, PIU, DOC), gli autori hanno dimostrato che alcuni correlati di tali disturbi possono avere un ruolo nella spiegazione della cyberchondria. Nello specifico, Fergus e Spada (2017) hanno evidenziato che le credenze metacognitive, che sembrano essere coinvolte in PIU (Spada, Langston, Nikčević, & Moneta, 2008), possono essere rilevanti anche per la cyberchondria. La cyberchondria sembra, infatti, essere associata alle tre credenze metacognitive relative alla salute (Bailey & Wells, 2015): biased thinking beliefs (“Pensare al peggio a proposito dei sintomi mi terrà al sicuro”), thought illness fusion beliefs (“Preoccuparmi delle malattie rende probabile che accadano”) e credenze su uncontrollability of thoughts (“Rimuginare sulla malattia è incontrollabile”). Relativamente all’associazione con il DOC, gli autori hanno suggerito il link con due costrutti del modello metacognitivo del DOC (Wells, 2000): credenze sui rituali (“Devo cercare online informazioni sulla salute altrimenti non sarei in grado di rilassarmi”) e segnali di stop (“Posso smettere di cercare i sintomi online solo quando ho un forte senso di certezza”).

Quindi, Fergus e Spada (2018) hanno disegnato un modello metacognitivo della cyberchondria sulla base del Self-Regulatory Executive Function (S-REF; Wells & Matthews, 1994; Figura 1).

Cyberchondria modello metacognitivo FIG1

Figura 1. Adattamento del modello teorico presentato in Fergus & Spada (2018).

Concretamente, un cyberchondriaco potrebbe avere un pensiero (o un’immagine, un ricordo, una sensazione) legato alla sua salute (trigger), per esempio “ho un forte mal di testa, sarà grave?!”. Questo trigger attiva le sue credenze metacognitive sulla salute e il cyberchondriaco potrebbe ritrovarsi a pensare qualcosa del tipo “pensare il peggio di questo mal di testa mi salverà” (biased thinking beliefs), oppure “non posso smettere di pensare al mio mal di testa, è più forte di me” (uncontrollability of thoughts), oppure, più raramente, “se non mi preoccupo del mal di testa finirà che è un tumore al cervello” (thought illness fusion beliefs). Queste credenze contribuiscono all’escalation di ansia per la salute in quanto, verosimilmente, indurranno il cyberchondriaco a rimuginare sulla condizione di salute percepita, come strategia solo apparentemente funzionale per affrontare l’evento attivante, cioè il mal di testa iniziale. Inoltre, le credenze metacognitive così attivate portano il cyberchondriaco a cercare online i sintomi del suo mal di testa spinto dall’ulteriore credenza che di aver bisogno di cercare online altrimenti “non avrei pace, non starei mai bene” (credenze sui rituali) e di dover continuare a cercare finché, per esempio, “ho una sensazione interiore che mi segnala che posso fermarmi” o finché si sente più calmo (segnali di stop). Le credenze metacognitive e le credenze sui rituali e i segnali di stop diventano quindi fattori di mantenimento per le ricerche eccessive e per l’aumento di ansia per il mal di testa. Infatti, i risultati delle ricerche online ripetute forniranno una lunga serie di possibili diagnosi di malattie più o meno gravi in cui il cyberchondriaco si riconoscerà, diventando, così, ancora più preoccupato di avere davvero un tumore al cervello. A questo punto, sarà ancora più convinto di non poter controllare i suoi pensieri catastrofici sul mal di testa (uncontrollability of thoughts) e di doversi preoccupare più che può per scongiurare il tumore (thought illness fusion beliefs), sperimentando sempre più ansia e continuando a guardare più siti web che può in cerca di rassicurazioni o possibili cure. Infine, verosimilmente, prenoterà una serie di esami e di visite, anche contro il parere del suo medico di base.

In conclusione, in questo modello, la presenza costante di una minaccia percepita in forma di probabile malattia con il distress provato di conseguenza amplifica la difficoltà nell’auto-regolazione proprio per la continua attivazione delle credenze metacognitive e su rituali e segnali di stop.

Dal punto di vista clinico, il modello metacognitivo della cyberchondria identifica alcuni degli aspetti preferenziali su cui lavorare con un cyberchondriaco: le credenze metacognitive sulla salute e le credenze sui segnali di stop e sui rituali. Infatti, la terapia metacognitiva, che sembra efficace per trattare il disturbo d’ansia per la salute (es., Bailey & Wells, 2014) e il DOC (Wells, 2000), potrebbe essere particolarmente appropriato in questo contesto.

Ritornando alle preoccupazioni di parenti e amici che si affidano al Dott. Google, una raccomandazione sensata potrebbe essere quella di confrontarsi con il proprio medico di base rispetto al dubbio di avere una malattia prima di ingaggiarsi in ricerche online compulsive e di fare lo sforzo, per quanto difficile, di riconoscere tempestivamente le nostre credenze metacognitive sulla salute evitando, così, di diventare dei cyberchondriaci a tutti gli effetti.

 

La Psicoterapia on line con gli Adolescenti

La cura degli adolescenti presuppone, nel clinico, una buona dose di pazienza e flessibilità. Si tratta di una modalità differente rispetto alla terapia con adulti. Cosa accade quando si tratta di terapia on line?

 

La consulenza on line agli adolescenti può essere difficile. Una forte resistenza può esistere quando si lavora con gli adolescenti a causa della loro transizione evolutiva da bambino ad adulto. Per combattere questo, i terapeuti devono dotarsi di una varietà di tecniche creative che promuovono sia l’espressione verbale che non verbale in un modo terapeutico. A maggior ragione nelle sessioni on line, tutto ciò si complica ulteriormente. Questo articolo fornisce spunti clinici appropriati per assistere i terapeuti nell’aumento del coinvolgimento dell’adolescente, consentendo nel contempo a questi ultimi di comunicare i loro pensieri, comportamenti e sentimenti in modo non tradizionale.

La cura degli adolescenti presuppone, nel clinico, una buona dose di pazienza e flessibilità. Si tratta di una modalità differente rispetto alla terapia con adulti.

In questa emergenza sanitaria da Covid-19 Skype o Whatsapp sono diventate le uniche alternative al setting vis à vis nel proprio studio professionale.

Nei casi più emergenziali, il supporto psicoterapico (Bellak, 1968) ha lo scopo di alleviare lo stato di sofferenza e di panico, nonché stati più acuti di sofferenza mentale. Anche le terapie brevi (Burke, 1978) sono spesso utilizzate per ridurre stati ansiosi, disturbi sessuali, comportamento suicidario in adolescenti e adulti.

Cosa accade, però, quando si tratta di condurre una terapia on line? E’ bene che il clinico abbia chiaro, con largo anticipo, se l’adolescente in questione è adatto ad un trattamento on line.

Le terapie dinamiche a breve termine, caratterizzate da lunghezze abbreviate (10–40 sessioni), sono diventate più diffuse negli ultimi tre decenni (Bellak, 1992). Le terapie a breve termine si basano su una rapida diagnosi psicodinamica, un focus terapeutico, un’alleanza terapeutica rapidamente formata, la consapevolezza dei processi di interruzione e separazione e la posizione direttiva del terapeuta. Molti adolescenti bisognosi di terapia sono resistenti all’attaccamento e al coinvolgimento a lungo termine in una relazione che può essere ambigua, che vivono come una minaccia al loro emergente senso di indipendenza e separazione. La terapia dinamica a breve termine può essere il trattamento di scelta per molti adolescenti perché minimizza queste minacce ed è più sensibile alle loro esigenze di sviluppo (Bellak, 1968).

In uno studio del 2016 su adolescenti in Australia si è scoperto che il 72% degli adolescenti ha dichiarato che avrebbero avuto accesso alla terapia online se avessero avuto un problema di salute mentale. Il 32% ha affermato che avrebbe scelto la terapia online rispetto agli incontri vis à vis (Sweeney et al. 2016).

Uno studio pubblicato nel Journal of Child and Adolescent Psychopharmacology nel 2016 ha scoperto che, mentre sono necessarie ulteriori ricerche in quest’area, la crescente gamma di programmi di e-terapia (utilizzo di piattaforme costruite appositamente), per bambini e adolescenti, mostra un incremento in fatto di utilizzo. Lo studio (Stasiak et al. 2016) ha infatti monitorato il processo di selezione, da parte dei teenager, dei portali presenti in rete per la richiesta di aiuto psicologico.

In uno studio recente (Fitzpatrick et al., 2017), i ricercatori hanno valutato l’efficacia di un app terapeutica cognitivo-comportamentale basata sul web chiamata Woebot nei giovani adulti con sintomi di depressione e ansia.

Molti dei partecipanti allo studio hanno riferito che l’uso quotidiano di Woebot ha comportato una significativa riduzione di sintomi di ansia e depressione già dopo due settimane, misurate attraverso la Patient Health Questionnaire (PHQ-9), la Generalized Anxiety Disorder 7-item scale (GAD-7) e la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS).

In termini di efficacia la terapia on line, rispetto a quella off line, conduce ai medesimi risultati in fatto di cura e di comprensione delle problematiche del paziente (Migone, 2003). Cambia il setting nel senso che in un contesto c’è la presenza di un Computer e nell’altro no.

Gli adolescenti visti in consultazione (con l’utilizzo di strumenti multimediali) in questo contesto legato al flusso pandemico, lamentano sintomi ricorrenti, come depressione e ansia. Avvertono un senso di costrizione legato al fatto di dover stare a casa e non mentalizzano in modo approfondito su quali possano essere i rischi reali della malattia.

Esistono numerose barriere che impediscono ai giovani di accedere ai servizi di salute mentale, tra cui lo stigma percepito (Gulliver et al., 2010), un’aspettativa o preferenza per l’autosufficienza, preoccupazioni relative alla riservatezza ( Gulliver et al., 2010) e mancanza di conoscenza e accessibilità dei servizi (Gulliver et al., 2010). Una delle strategie più recenti per aggirare tali ostacoli è stata la fornitura di servizi online.

In molti casi la terapia on line viene condotta alla stessa stregua di una terapia “vis à vis”. Il metodo e le tecniche terapeutiche rimangono le stesse. L’adolescente può, talvolta, avere bisogno di un accompagnamento verso la terapia on line. L’analista deve tener conto di questa possibilità in modo da rendere semplice il superamento delle suddette impasse. Allo stesso modo, dalla letteratura emerge (Marmor, 1979) che le terapie brevi trovano sempre più spazio all’interno della società. Ciò non esclude, però, che per alcuni pazienti si debba far ricorso a percorsi lunghi perché più adeguati per loro.

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