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Desiderio e sessualità: il difficile binomio per la coppia

Ci sono infatti sempre più coppie che si allontanano dalla loro vita sessuale, quasi senza prenderne coscienza. La poesia dell’incontro dei corpi non riesce più ad esprimersi e diviene solo un lontanissimo ricordo.

 

 “Quello che più mi piace, ancora non lo conosco”, potrebbe essere questo lo slogan di molte coppie che dopo qualche anno di vita condivisa, non si ritrovano più nell’incanto del primo abbraccio. Iniziano allora a costruire una distinzione tra sesso e amore, col risultato che tutto quello che desiderano, non viene messo in atto e si trasforma in un problema, al punto da erigere, tra la sessualità e il sentimento amoroso, una vera e propria barriera, che spesso diventa un limite tra le lenzuola. Fino a quando creano un confine netto tra le due cose, ovvero dove comincia e finisce il sesso e, dove comincia e finisce l’amore, confine che diventa spesso invalicabile.

Ecco allora che la poesia dell’incontro dei corpi non riesce più ad esprimersi, ma diviene un lontanissimo ricordo.

Desiderio e Sessualità : quando il dialogo è impossibile

L’errore più frequente è quello di parlarne. Di stabilire cosa fare o non fare, come farlo, quando farlo, perché farlo e via di seguito.

Lui si rivolge a lei con pensieri, spesso anche frutto di stereotipi, del tipo:

 “Ho le mie esigenze … vorrà mica che mi trovi un’amante?”
“E’ troppo fredda”
“E’ chiusa, non apre la mente, c’è altro”
“Fa sempre le stesse cose”
“Sembra una statua di ghiaccio”
“Possibile che senta sempre dolore?”
“Come faccio a dirle che penso di non riuscirci”
“Non ho più stimoli, ma non so come dirglielo”

I pensieri di Lei:

“Fa sempre le stesse cose, da come mi guarda già capisco cosa vuole fare”
“Non mi pensa tutto il giorno e poi la sera a letto vuole fare …”
“Che noia, finisce in pochi secondi e pretende pure che gli dica quanto è bravo!”
“Per lui sono diventata invisibile, poi quando ha voglia, allunga la mano”
“Non mi sento desiderata”
“E’ evidente che non gli piaccio più”
“Lo desidero, ma poi immagino come va a finire e allora…”
“Aspetta che mi addormento per venire a letto”
“Resta a guardare la TV e si addormenta sul divano”

Queste sono solo alcune frasi che vengono dette o pensate in una coppia.

Il pensiero maschile di avere “esigenze sessuali” che una donna non ha è un retaggio di una cultura machista, che non riconosceva alle donne una valenza soggettiva di sessualità, né di desiderio. Una concezione grottesca e riduttiva della sessualità, che ancora oggi si ritrova, purtroppo, in tanti giovani uomini.

Nella coppia la questione sessuale si complica maggiormente quando i due cominciano a disquisirne, fino a diventare un vero e proprio enigma da risolvere.

Specialmente nella vita di coppia e particolarmente riguardo all’argomento sessuale, sarebbe buona regola differenziare ciò di cui è bene parlare e quello di cui è bene tacere. Invece, la coppia intraprende un vero e proprio contraddittorio, dove ognuno argomenta le proprie ragioni, con riflessioni di ogni tipo.

Il risultato molto spesso è quello di “progettare” come farlo e quando, eliminando in questo modo l’aspetto più naturale della sessualità, rendendo obbligato qualcosa che per natura nasce spontaneamente. Favorendo, in questo modo, la gran parte dei disturbi della sessualità, che inevitabilmente si manifesteranno nella vita della coppia.

L’istinto sessuale è un elemento naturale che appartiene al genere umano, si connota di vari aspetti a seconda della cultura di riferimento. Non è infatti pensabile parlare di sessualità senza contestualizzarla storicamente.

Desiderio e Sessualità: col web sotto le lenzuola

Oggi di sesso se ne parla tanto, nei modi più disparati. La facilità con cui è possibile accedere alla pornografia in rete, rappresenta uno dei modi per “informarsi”, ma anche il modo più pericoloso per “allontanarsi” dalla propria vita sessuale-emotiva.

Gli uomini sono coloro che più spesso si avvalgono della visione di video pornografici e passano più tempo delle donne a guardarli. Uno dei rischi dell’elevata disponibilità della pornografia on line, gratis o a buon mercato, è quello di allontanare il soggetto dall’esperienza reale, favorendo, talvolta, anche l’insorgenza del disturbo cosiddetto porn-addiction.

Si tratta di una vera dipendenza che investe sia l’aspetto emotivo, che quello compulsivo. Per cui il soggetto agisce come se ricevesse continui stimoli per ricercare il piacere, in maniera sempre più pressante. Il disturbo spesso diventa invalidante al punto da compromettere le relazioni affettive e chiedere l’aiuto di esperti per guarirne.

Sappiamo che l’erezione è un meccanismo sottoposto al controllo cerebrale, questo vuol dire che non può essere comandato, ma può essere inibito dalla paura, dall’insicurezza o, come sempre più spesso accade, dall’uso di alcol e di sostanze stupefacenti.

Se per un verso le fantasie erotiche svolgono le funzioni di aumentare il livello di eccitazione sessuale e dare piacere, dall’altro la visione di filmati a contenuto erotico può favorire un immaginario erotico che spesso è troppo distante dalla realtà.

Guardare video di contenuto pornografico ed eccitarsi al punto da avere un’erezione, può essere piacevole, ma quando assume i tratti di una modalità ricorrente, ripetuta ed esclusiva, distorce la percezione delle sensazioni che si possono provare quando si è al cospetto di una persona reale.

Infatti, poiché ciò che viene proposto cinematograficamente è frutto di artifici e di performance sceniche, che non hanno nulla a che vedere con le reali sensazioni dei soggetti coinvolti, il voler emulare le prestazioni sceniche degli attori, conduce a continue frustrazioni che possono produrre, paradossalmente, l’effetto della rinuncia all’incontro con l’altro o alla inevitabile defaillance sessuale. L’altro rischio è quello di pretendere dall’altro/a azioni e comportamenti visti in rete, senza modulare le proprie richieste sui desideri ed i bisogni dell’altro/a.

Un altro elemento sfavorevole per la coppia, è la rinuncia della sessualità reale in favore di quella virtuale. Comportamento che deteriora il rapporto di coppia, spesso in modo irreversibile.

Ci sono infatti sempre più coppie che si allontanano dalla loro vita sessuale e lo fanno per indolenza, quasi senza prenderne coscienza. Ma, come spesso accade, può succedere che, per motivi che solo apparentemente non riguardano la sessualità, ci si rivolge ad un terapeuta, sarà a quel punto che, inevitabilmente, emergerà la disfunzionalità sessuale della coppia.

Desiderio e Sessualità: cosa succede quando il giudizio imprigiona il piacere

Un mito da sfatare riguardo la sessualità femminile è quello che relega le disfunzioni sessuali femminili al tabù del sesso.

Il sesso è stato, per molti aspetti, sdoganato dai tabù e preconcetti a cui una certa cultura conservatrice e misogina l’aveva relegato. In favore di un sempre maggiore riconoscimento della sua importanza, per l’equilibrio psico emotivo di ogni persona, a prescindere dal genere di appartenenza.

Lo stesso Sant’Agostino ci ricorda che

Nessuno può vivere senza il piacere.

Ci sono persone che hanno vergogna di mostrarsi o di rendere in forma esplicita i propri desideri erotici e ciò può essere inconsapevolmente validato dall’incapacità del partner di interpretare e di favorirne l’esternazione naturale degli stessi.

Talvolta, atteggiamenti e/o considerazioni, anche rivolti ad altri argomenti, che sembrano non essere correlati alla sessualità, ma che possono essere ricondotti a tematiche di pudore e vergogna, hanno la capacità di generare difficoltà emotive che creano un vero blocco rispetto alla sua sessualità e al modo di considerare il piacere.

A volte il proprio corpo resta un mistero. E’ un mistero che va svelato e compreso se si vuole coglierne appieno le caratteristiche e concedersi piacevolmente al suo volere. Ma cogliere le sfumature del suo desiderio, per intraprendere la strada a due verso la realizzazione dell’incontro sessuale, non sempre è possibile. Questo perché quando una persona non si sente pienamente desiderata o si sente giudicata o non accolta in tutte le sue caratteristiche, non riesce ad abbandonarsi al fluido dei sensi. Lo stato di vigilanza infatti non favorisce l’eccitazione, né la compliance sessuale.

Quando un individuo si mostra “chiuso” verso il proprio partner, nella maggior parte dei casi succede perché questi non è riuscito a conoscere e dunque interpretare appieno i desideri del suo corpo.

Atteso che il desiderio sessuale ha origine nel cervello ed è un bisogno che si attiva in modo naturale, appare evidente quanto possa subire l’influenza dell’ambiente in cui si sviluppa e del modo in cui viene sollecitato. L’attivazione del desiderio infatti subisce varie influenze, specialmente di tipo ambientale, ecco perché è importante la creazione di un “luogo” che possa accogliere ed alimentare il desiderio dei partner.

Gli uomini e le donne hanno una stimolazione sensoriale differente, generalmente i maschi si attiverebbero visivamente, le femmine subirebbero maggiormente il fascino della stimolazione cutanea e verbale, come carezze, baci e parole sensuali. Sappiamo che gli ormoni ne influenzano l’attivazione. In particolare gli androgeni che sono quelli maggiormente coinvolti nel processo di attivazione del desiderio, ormoni maschili ma presenti anche nelle donne.

Il piacere femminile dunque segue strade diverse da quello maschile, con tempi differenti. La sua attivazione avviene seguendo percorsi sensoriali ed emozionali, ovvero corpo e spirito si devono attivare per favorirne l’incontro e la distensione emotiva.

E’ bene sottolineare che il desiderio sessuale anche se viene attivato, sostenuto e si manifesta in modo differente, ha la stessa intensità sia nella donna che nell’uomo, ovvero è uguale per entrambi.

Si manifesta in modo differente. Il maschio con segnali più espliciti, la donna attraverso segnali visivi meno evidenti. Ecco perché è importante la conoscenza del proprio corpo e le sensazioni che ha bisogno di ricevere, affinché possa attivarsi la risonanza eccitatoria adeguata.

Desiderio e Sessualità: il paradosso del “sii spontaneo!”

Il sesso diventa un disturbo quando si cercano di controllare cose che non si possono controllare, come quella di provare piacere, sentire desiderio, avere un’erezione, un orgasmo, perché, tutte le volte che si cerca di agire con un comportamento volontario, si cade in un paradosso, come quello del noto: “sii spontaneo!”.

Dunque, più cerco le sensazioni piacevoli e più non le sento.

A questo proposito la metafora del millepiedi che Paul Watzlawick, psicologo ed esponente della Scuola di Palo Alto, riportava durante le sue conferenze, sembra scritta apposta.

 Un millepiedi, che aveva sempre camminato senza nessun problema, un bel giorno incontrò una formica curiosa che gli chiese come potesse riuscire a camminare così bene senza cadere con tanti piedi: cosa che per lei era impossibile, perché già era un miracolo che non inciampasse. Il millepiedi si sentì molto turbato da questa domanda, perché non ci aveva mai pensato fino a quel momento. Cominciò così a prestare attenzione a dove metteva ogni zampina e a come riusciva a metterle una dietro l’altra senza inciampare, ma in breve tempo ahimè, non riuscì più a camminare.

La necessità di trovare un equilibrio tra autocontrollo e perdita di controllo, quando c’è un meccanismo di piacere, si rende indispensabile sia quando si tratta di sesso.

Nella maggioranza dei casi sono le paure che impediscono la buona riuscita dell’esperienza sessuale. Nell’ansia da prestazione, è la paura del fallimento che intrappola al punto da diventare un problema invalidante. La paura della prestazione riguarda sia il maschio che la femmina. La paura di non riuscirci, di non essere all’altezza delle aspettative, di non soddisfare l’altro/a, sono tutte paure che imprigionano la mente, meccanismi contorti che eludono ogni forma di piacere.

“Ci devo riuscire…ci devo riuscire”, ma inevitabilmente sarà un flop!

Spesso nelle donne interviene la paura di rimanere deluse, quando un’esperienza sessuale non ha soddisfatto le aspettative. Questo succede in molti casi di eiaculazione precoce, situazione in cui la coppia fa fatica anche a riconoscere il problema, spesso eluso dall’atteggiamento maschile.

La conseguenza più ricorrente sarà quella di evitare l’incontro sessuale, con l’attuazione del meccanismo di rinuncia a qualsiasi contatto fisico che possa ricondurre al sesso.

Per cui sarà importante stabilire il grado di “credenza” che si è strutturato rispetto alla propria incapacità o alla propria sensazione deludente, verificando ciò che la persona percepisce e non il dato oggettivo.

Tutto ciò che è creduto esiste, e soltanto questo

come ci ricorda Hugo von Hofmannsthal.

A questo proposito gli stratagemmi cinesi vengono in aiuto, nell’approccio terapeutico di tipo strategico. In particolare lo stratagemma di spostare l’attenzione verso qualcosa che non riguarda la situazione che si sta vivendo, ovvero “far andare il nemico in soffitta e togliere la scala”. Senza tra l’altro che il soggetto abbia la percezione di quello che sta accadendo.

Determinando

l’esperienza emozionale correttiva – ovvero – quella esperienza concreta di cambiamento di percezione della realtà fino allora vissuta come ingestibile. ( Nardone G.)

Anche se si rende necessario in molti casi, discriminare se alla base c’è un atteggiamento di ansia anticipatoria che amplifica il problema e lo rende più complesso.

La sessualità nella vita di ogni coppia che si ama, rappresenta il modo più naturale di donarsi all’altro/a e di ricevere il dono. Poiché il “dono” è rappresentato da se stessi e dalla propria intimità, spesso incomprensibile anche al proprio io, darsi e affidarsi all’altro/a per accogliere a propria volta, presuppone una grande fiducia, oltre che rispetto, prima di qualsiasi discorso d’amore. Tenendo presente che una vita di coppia che non comprende la sessualità, può invadere e compromettere il benessere psico fisico di entrambi i soggetti.

 

Il rumore e la salute mentale dei ragazzi: le future smart cities sono silenziose

Gli impatti sulla salute del rumore ambientale sono una preoccupazione crescente tra i paesi europei e l’Organizzazione mondiale della sanità ha realizzato alcuni studi importanti in merito. In particolare sulla salute mentale e cognitiva dei ragazzi.

Introduzione al problema

Le nostre città, anche quelle più smart, sono oggi più silenziose. Il silenzio come condizione della qualità della vita. Il rumore come interferente, il volume come contenitore di onde sonore, la salute, quella dei minori, ciò di cui prendersi cura. Subito.

Gli impatti sulla salute del rumore ambientale sono una preoccupazione crescente tra i paesi europei e l’Organizzazione mondiale della sanità ha realizzato alcuni studi importanti in merito. In particolare sulla salute mentale e cognitiva dei ragazzi. In questo tempo di crisi sanitaria da epidemia per coronavirus (covid-19) gli spazi abitati hanno, ora, un altro suono. Le strade sono meno frequentate, il traffico veicolare è bruscamente calato, quello aereo praticamente assente. L’articolo intende esporre brevemente questo argomento incrociando il tema del silenzio in tempi di coronavirus con la salute mentale, soprattutto dei minori, dando conto di una significativa letteratura scientifica. Una recente ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità, ufficio europeo, ha fornito le prove scientifiche della relazione tra rumore ambientale ed effetti specifici sulla salute, sull’impairment cognitivo (compromissione cognitiva) dei minori. Volendo stimare in modo prudenziale il numero di giorni persi a causa del rumore esterno alla persona viene stimato che essi ammontino a 61.000 anni per le cardiopatie ischemiche, 45.000 anni per danno cognitivo dei bambini, 903.000 anni per il sonno disturbato, 22.000 anni per l’acufene e 587.000 anni per il “fastidio” umorale. La ricerca si è focalizzata negli stati membri dell’Unione Europea e in altri paesi dell’Europa occidentale. Questi in sintesi i risultati.

L’urbanizzazione crescente ed il trasporto veicolare sono i principali fattori di esposizione al rumore ambientale. Questo è definito come rumore emesso da tutte le fonti, ad eccezione dei luoghi di lavoro industriali. Ma la Direttiva UE sulla gestione del rumore ambientale (END) include, invece, i siti industriali, quali fonti di rumore ambientale. Sotto il profilo metodologico per stimare l’onere ambientale della malattia (Enviromental Burden Desease) dovuto al rumore ambientale, conviene utilizzare un approccio quantitativo alla valutazione del rischio. La valutazione del rischio si riferisce all’identificazione dei pericoli, alla valutazione dell’esposizione della popolazione e alla determinazione di relazioni esposizione-risposta appropriate. L’EBD è espresso in “anni vita”, conformati alla morbilità specifica ricercata (chiamata DALY). I DALY sono la somma dei potenziali anni di vita persi a causa della morte prematura e degli anni equivalenti di vita “sana” persi per essere stati in cattiva salute o disabilità. La perdita di anni di vita è il rischio specifico di cui andare in cerca e che può segnalare la pericolosità di un elemento, in questo caso il rumore. In genere i rischi sono espressi come valori, cioè frazioni, e cioè ancora come rapporti tra grandezze di relazione tra elementi diversi.

Negli ultimi anni si sono accumulate prove relative agli effetti sulla salute del rumore ambientale. Ad esempio, studi epidemiologici ben progettati e significativi hanno riscontrato che le malattie cardiovascolari sono costantemente associate all’esposizione al rumore ambientale, così come il tinnito auricolare o il disturbo cronico del sonno. Il processo di valutazione del rischio del rumore ambientale richiede di conoscere:

  • la natura degli effetti sulla salute del rumore;
  • i livelli di esposizione a cui iniziano a manifestarsi effetti sulla salute e come l’estensione l’effetto cambia con l’aumentare dei livelli di rumore;
  • il numero di persone esposte a questi livelli pericolosi di rumore.

Rumore ambientale e impairment cognitivo nei bambini

Oltre 20 studi hanno mostrato effetti negativi del rumore sulla capacità di lettura e di memoria nei bambini: studi epidemiologici riportano gli effetti dell’esposizione cronica al rumore, mentre studi sperimentali riportano un’esposizione acuta al rumore. Le abilità oggetto di analisi sono state l’elaborazione, il linguaggio, la comprensione della lettura, la memoria e l’attenzione. L’esposizione al rumore, in particolare, durante periodi critici di apprendimento a scuola potrebbe potenzialmente compromettere lo sviluppo e avere un effetto permanente sul livello di istruzione. Questo uno degli aspetti maggiormente significativi e indicatore di policies sanitarie da adottare.

Lo studio del rapporto tra impairment cognitivo e rumore ambientale non è il risultato di una diagnosi clinica; quindi, non è ancora possibile trarre una relazione tra l’esposizione allo stimolo e uno specifico rischio, in modo oggettivamente certo. La definizione di impairment cognitivo derivato dal rumore non può essere sovrapposta a quella utilizzata in ambito psichiatrico e biomedico. Essa va definita come: riduzione delle capacità cognitive nei bambini in età scolare che si verifica durante l’esposizione al rumore che persiste e persisterà per qualche tempo dopo la cessazione dell’esposizione al rumore. Una caratteristica di questa definizione è che si presume che il deterioramento cognitivo si mostri durante l’esposizione al rumore e anche qualche tempo dopo l’interruzione dell’esposizione.

Per l’esposizione cronica al rumore si sono utilizzati disegni epidemiologici, mentre per il disturbo di tipo acuto, disegni sperimentali. Evans e colleghi hanno proposto uno studio molto convincente. È uno studio osservazionale longitudinale in condizioni naturali che esamina l’effetto del trasferimento dell’aeroporto di Monaco sulla salute e la cognizione dei bambini (9-10 anni, N= 326). Nel 1992, il vecchio aeroporto di Monaco chiuse e fu trasferito altrove. Prima del trasferimento, l’esposizione al rumore elevato era associata a deficit nella memoria a lungo termine, nella lettura e nella comprensione di un testo scolastico. Due anni dopo la chiusura dell’aeroporto, questi deficit sono scomparsi. Ciò indica che gli effetti del rumore sulla cognizione possono essere reversibili se l’esposizione cessa. Molto convincente è la condizione verificata, in sede di follow-up, che il deficit di memoria e dei compiti di comprensione della lettura si sono mantenuti attivi dei due anni successivi alla rilevazione, osservati nei bambini che sono stati nuovamente esposti al rumore del nuovo aeroporto, dove si erano, nel frattempo trasferiti.

Il recente studio longitudinale (denominato RANCH) su larga scala, ha confrontato l’effetto del traffico stradale e il rumore dell’aeromobile sulle prestazioni cognitive dei bambini (9-10 anni, N=2.844) nei Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito. Si è rilevata una relazione esposizione-effetto lineare tra esposizione a lungo termine al rumore degli aerei e compromissione della comprensione della lettura e della memoria di riconoscimento. Lo studio è interessante perché i ricercatori hanno elaborato i dati escludendo i fattori confondenti e includendo fattori socioeconomici e confondenti fattori in considerazione. Questo rende i dati molto predittivi. Nessuna associazione è stata osservata tra l’esposizione al rumore a lungo termine del traffico stradale e la cognizione, ad eccezione della memoria episodica, che ha, sorprendentemente, mostrato prestazioni migliori nelle aree con rumore del traffico stradale elevato. Né il rumore aereo, né il rumore del traffico stradale hanno danneggiato l’attenzione o la memoria di lavoro.

Uno studio sull’esposizione al rumore ambientale (prevalentemente su strada e su rotaia) di bambini di quarta elementare che vivono nel Tirolo in Austria ha confrontato tre misure cognitive per gli scolari (età media 9–7 anni, N=123) esposti a 46 o 62 dB (A) Ldn. L’Ldn è il livello sonoro medio equivalente in un periodo di 24 ore, con una penalità aggiunta per il rumore durante le ore notturne dalle 22:00 alle 07:00. Durante il periodo notturno vengono aggiunti 10 dB per indicare più precisamente l’impatto del rumore. Tali misurazioni sono utilizzate per valutare l’impatto che la strada, la ferrovia, l’aria e l’industria in generale hanno sulla popolazione locale. I due campioni sociodemograficamente omogenei differivano solo per la loro esposizione al rumore con un intervallo (M=46,1 Ldn vs M=62 Ldn). L’esposizione al rumore a lungo termine era significativamente correlata alla memoria sia intenzionale esplicita che accidentale. Il miglioramento delle prestazioni cognitive nel gruppo più tranquillo è stato stimato in uno 0,5% (relativamente alla grandezza richiamo di parole in prosa e riconoscimento letterale); all’ 1% (nel richiamo libero) per ogni dB in meno a cui erano stati esposti.

Sia gli studi RANCH che quelli Tirolesi indicano che il rumore degli aeromobili potrebbe essere peggiore per la cognizione rispetto al rumore del traffico stradale. Per il rumore degli aerei, nello studio RANCH i risultati mostrano un’associazione più lineare tra l’esposizione al rumore degli aeromobili e la compromissione della comprensione della lettura. Per il rumore ambientale su strada e ferrovia, lo studio del Tirolo suggerisce che gli effetti si verificano intorno a Ldn=60.  I test di memoria vengono eseguiti con i bambini in silenzio su materiale letto in ambiente rumoroso. I partecipanti vengono randomizzati in gruppi di esposizione e controllo e i bambini vengono campionati in modo statisticamente corretto.

Esistono prove secondo lo studio di Monaco che indicano che, dopo la cessazione dell’esposizione al rumore degli aeromobili, i bambini di età compresa tra 9 e 11 anni, riprendono entro 18 mesi i livelli di prestazioni cognitive dei loro compagni di anno che non sono stati esposti. Pertanto, è possibile che, almeno per i bambini piccoli, gli effetti cronici del rumore siano reversibile e che i disturbi diminuiscano con l’aumentare dell’età.

L'impatto del rumore sulle prestazioni cognitive dei bambini FIG 1

Figura 1: curve di esposizione-risposta delle diverse ricerche epidemiologiche.

Notes: Rd= reading; Rcl= memory, recall; 1=recall, children, old airport; 2= recall, children new airport; 3= reading, children old airport; 4= reading, children new airport; 5= reading, children; 6= free recall, children

Nella figura 1 si mostrano le curve di esposizione-risposta delle diverse ricerche epidemiologiche. In termini quantitativi gli studi indicano che il richiamo e la lettura della memoria hanno pendenze medie di circa il 2% per Ldn (rumore giorno/notte), come calcolato dalla media delle pendenze delle sei linee. Quindi, per il richiamo e la lettura si potrebbe prevedere che una riduzione del livello di rumore costante di 5 Ldn comporterebbe un miglioramento delle prestazioni del 10%. Si nota che solo il rumore del traffico stradale, nello studio tirolese, aveva una pendenza meno ripida.

Conclusioni

Prove affidabili indicano gli effetti negativi dell’esposizione cronica al rumore sulla cognizione dei bambini. Ma in letteratura non esiste ancora un criterio generalmente accettato per la quantificazione del grado di danno cognitivo. Tuttavia, è possibile effettuare una stima prudente della perdita di DALY utilizzando metodi matematici su base epidemiologica. Nel 1999, l’OMS aveva già pubblicato le linee guida per il rumore in una comunità. Il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato la direttiva 2002/49/CE del 25 giugno 2002 con l’obiettivo principale di fornire una base comune per affrontare i problemi di rumore in tutta l’UE. Nel 2009, l’OMS ha pubblicato le linee guida sul rumore notturno per l’Europa. Considerando le prove scientifiche sulla soglia di esposizione al rumore notturno indicata da Lnight come definita nella Direttiva 2002/49/CE, un valore Lnight di 40 dB dovrebbe essere l’obiettivo delle linee guida sul rumore notturno per proteggere le comunità, compresi i gruppi più vulnerabili come i bambini, i malati cronici e gli anziani. Un valore Lnight di 55 dB è raccomandato come obiettivo provvisorio per i paesi che non possono limitare il rumore notturno.

Esistono prove scientifiche che l’esposizione al rumore ambientale ha effetti negativi effetti sulla salute della popolazione. Riconoscendo la particolare necessità di proteggere i bambini dagli effetti dannosi del rumore, la Dichiarazione di Parma nel 2010 adottata alla quinta Conferenza ministeriale su ambiente e salute ha invitato tutte le parti interessate a collaborare per ridurre l’esposizione dei bambini al rumore, incluso quello dei dispositivi elettronici personali, delle attività ricreative e del traffico (specialmente nelle aree residenziali), nei centri di assistenza all’infanzia, nelle scuole materne e nelle scuole e nelle strutture ricreative pubbliche.

Il fatto che non si abbiano molti dati provenienti dal rumore di strada e della relativa esposizione al rumore del traffico costituisce un limite alla generalità delle ricerche. Ma i risultati degli studi sul rumore degli aerei, sebbene pochi, sono comunque coerenti.

Limpatto del rumore sulle prestazioni cognitive dei bambini FIG 2

Figura 2: curva di rischio di disturbo psicologico all’esposizione del rumore e percentuale di soggetti ipoteticamente esposti a questo.

Nella figura 2, invece, si mostrano i dati riassuntivi dell’esposizione al rumore e la percentuale ipotetica di affezione psichica conseguente.

Le città e le comunità del futuro saranno sane solo se più silenziose. La sostenibilità e la natura di smart community potrà essere consegnata solo considerando il rumore come una condizione essenziale.

 

Videointervista a pazienti con disturbi alimentari in cura presso il Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano – Quarantena dentro la quarantena: quando la possibilità della cura diventa risorsa

Per gestire la sensazione di incertezza, annullare ogni forma di sofferenza e sentirsi soddisfatti di sé, le persone con Disturbi alimentari aumentano il controllo del proprio peso (Sassaroli, Ruggero e Fiore, 2016). Quindi, la situazione attuale può aggravare questi comportamenti sintomatici, in quanto innesca diversi meccanismi di mantenimento.

 

In quest’ultimo periodo in Italia, come in molte altre nazioni, si sta vivendo uno stato di emergenza sanitaria legata all’infezione da Coronavirus.Il governo, per limitarne la diffusione e il contagio, ha adottato delle misure restrittive, come la chiusura delle attività non essenziali, la limitazione della circolazione e la cosiddetta quarantena.

Questa situazione di crisi improvvisa si sta rivelando, giorno dopo giorno, sempre più difficile e impegnativa da affrontare. Le regolari abitudini hanno dovuto subire un netto cambiamento: non è più possibile incontrare i propri cari, abbracciarsi, rimanere a contatto con la natura, viaggiare e tante altre attività che coinvolgono la sfera sociale. La vita è limitata all’interno di quattro mura e dietro uno schermo, alimentata dalla paura del contagio e dall’incertezza.

Questi elementi possono compromettere il benessere psico-fisico delle persone e rischiare di aggravare coloro che già vivono serie problematiche psicologiche, come le persone con Disturbi Alimentari che manifestano un forte bisogno di sentirsi in controllo.

Secondo la dott.ssa R. Nocita, direttore operativo del CIP Centro Disturbi dell’Alimentazione, la quarantena e la paura del contagio aumentano la sensazione di incertezza e questa rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo e il peggioramento di un disturbo alimentare (ANSA, 2020).

Per gestire la sensazione di incertezza, annullare ogni forma di sofferenza e sentirsi soddisfatti di sé, le persone con disturbi dell’alimentazione aumentano il controllo del proprio peso (Sassaroli, Ruggero e Fiore, 2016).

Quindi, la situazione attuale può aggravare questi comportamenti sintomatici, in quanto innesca diversi meccanismi di mantenimento. Ad esempio, non poter muoversi può aumentare la paura dell’aumento di peso, che potrà essere affrontata accentuando la restrizione dietetica. Inoltre, anche l’isolamento non aiuta, perché riduce le occasioni sociali e conviviali che favoriscono il “mettersi alla prova” e la riduzione dell’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del loro controllo (Dalle Grave, 2020).

Attraverso questa videointervista, la dott.ssa R. Nocita, sensibile alle correnti difficoltà, ha voluto chiedere direttamente a persone con problematiche alimentari la loro personale esperienza. Sono state intervistate due ragazze, che attualmente seguono un percorso ambulatoriale intensivo presso il CIPda.

Le loro affermazioni appaiano estremamente interessanti. Entrambe, all’inizio dell’emergenza, avvertivano la sensazione che il controllo stesse progressivamente sfuggendo e che erano maggiormente a rischio per la propria condizione fisica legata al sottopeso, con la conseguenza di provare più paura e preoccupazione. A fronte di ciò, le pazienti sostengono di sentirsi più sicure e positive nell’affrontare situazioni problematiche come quelle che si stanno vivendo attualmente, grazie al fatto di essere in un ambiente protetto, come il CIPda.

In conclusione, si osserva che il trattamento ha un effetto positivo nella gestione dell’incertezza, dovuta all’isolamento e alla paura del contagio. Infatti, il percorso di cura sembra favorire una maggiore flessibilità psicologica che permette di tollerare un minore controllo e di aprirsi alla fiducia.

QUARANTENA DENTRO LA QUARANTENA – GUARDA LE INTERVISTE:

 

 

 


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Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
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Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19 (In ottemperanza alla legge per la tutela dei dati personali le informazioni di tipo sanitario non vengono fornite al telefono e la consegna di certificati e copie della documentazione clinica sono rilasciate unicamente all’interessato o a persona da lui delegata per iscritto).

 

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Liberati dalla gelosia (2019) di D. Algeri – Recensione del libro

La gelosia, un’emozione che ha poco a che fare con l’amore. Si riferisce più alla paura di perdere un affetto o qualcosa che ci appartiene e, di conseguenza, mette in evidenza tutta la nostra fragilità.

 

La gelosia è un’emozione, molto forte, che tutti nella vita abbiamo sperimentato, più e più volte. Capita spesso di essere gelosi di qualcuno a cui eravamo o siamo particolarmente legati al punto da essere disposti a tutto pur di avere “l’ambito oggetto del desiderio” sempre con noi.

Spesso il termini gelosia è usato anche per indicare l’invidia. In realtà la gelosia va distinta dall’invidia in quanto quest’ultima non prevede la presenza di un rivale ed è più legata al desiderio di possedere qualcosa che non si ha.

Quando si parla di gelosia la sia associa di frequente all’amore, alle relazioni di coppia, ma oltre che di un partner è possibile essere gelosi anche di un amico, di un familiare. Sicuramente la gelosia è una protagonista indiscussa dei rapporti interpersonali contemporanei in cui è sperimentata sotto forma di quel pizzico di tensione, supportato anche da manifestazioni fisiologiche, che alimenta il rapporto. Infatti, se presente, si assume possa rappresentare la prova  che si stia vivendo la relazione più importane della vita, caratterizzata da un amore forte e intenso.

Purtroppo, questa emozione ha poco a che fare con l’amore, ma si riferisce più alla paura di perdere un affetto o comunque qualcosa che ci appartiene e, di conseguenza, mette in evidenza tutta la nostra fragilità. Essa è frutto di esperienze che nascondono modelli relazionali poco maturi e disfunzionali, appresi in giovanissima età. Per questo, rappresenta e palesa tutte le nostre fragilità e le nostre più ascose e recondite paure.

La gelosia, per questo, potrebbe sfociare in una vera e propria forma patologica diventando ossessività, che andrebbe ad impattare in maniera drammatica sulla qualità della vita relazionale e sociale, determinando un forte malessere percepito.

Ma, esattamente cosa è la gelosia e perché siamo gelosi?

Una risposta a queste domande ed altre è possibile trovarle nel libro Liberati dalla gelosia di Davide Algeri, psicoterapeuta e specialista in sessuologia clinica. In questo libro si approfondisce in maniera esaustiva cosa si intende per gelosia e quali siano le principali cause e conseguenze della stessa.

Il libro nasce dall’esperienza clinica, derivante da anni di lavoro con le coppie, all’interno del quale sono individuabili le diverse strategie da poter utilizzare per gestire e arginare la gelosia per renderla meno evidente.

Il libro si articola in cinque capitoli che partono da una generale definizione di gelosia, per giungere all’individuazione di strategie ed esercizi volti a uscire dalla stessa. Inoltre, sono presenti diverse teorie sulla genesi e sviluppo della gelosia e su come i social network impattano sulla gelosia e, di conseguenza, sulla relazione di coppia, amplificandone in maniera negativa gli effetti.

Riuscire a gestire la gelosia significa affrontare e sanare una serie di tematiche personali che si traducono in maggior senso di benessere individuale e di coppia.

Liberati dalla gelosia, dunque, è un’opera fluida e lineare che offre una panoramica generale sulla gelosia e sulle sue diverse declinazioni e implicazioni cliniche non solo per chi ne è affetto, ma anche per chi le subisce all’interno di una dinamica di coppia. Inoltre, offre validi esercizi per il fronteggiamento della stessa, utili per uscirne e creare dinamiche più funzionali.

 

J’accuse: il fallimento generalizzato del sistema di tutela dei minori in Italia

I servizi per la Tutela dei Minori sembrano valutare bambini e genitori alla luce di un modello ideologico, inseguendo spesso una genitorialità utopica e irrealistica. Chi può veramente pensare di potere valutare le competenze genitoriali con assoluta obiettività? 

 

I noti fatti di Bibbiano hanno avuto un enorme impatto mediatico. Sembra che gli operatori di un servizio tutela minori siano giunti a falsificare la documentazione delle valutazioni sui minori per facilitare provvedimenti di affido a persone affini da un punto di vista personale od ideologico.

La vicenda ha rapidamente assunto i caratteri di uno scontro politico che poco ci riguarda. Le accuse, se provate, fanno rabbrividire, ma l’esito della vicenda giudiziaria non è affatto il punto più importante.

La verità è che i fatti di Bibbiano rappresentano la punta di un iceberg, la spia di un sistema di tutela dei minori che appare grossolanamente inadeguato: un sistema profondamente disfunzionale anche quando opera nel pieno rispetto delle regole e dei principi che ne ispirano l’attività.

Riporto qui alcune esperienze che credo possano essere illustrative di uno stile di lavoro diffuso ed in qualche modo tipico. Sono esperienze personali, ma credo che chiunque lavori nelle varie articolazioni dei servizi alla persona abbia avuto modo di incontrare situazioni del tutto analoghe.

  1. Aysha aggredisce una figlia adolescente all’apice di un diverbio. Aysha, islamica, non tollera lo stile di vita occidentale precocemente adottato dalla figlia. Intervengono le forze dell’ordine. Aysha si getta dalla finestra e finisce su telo prontamente steso dai soccorritori. In reparto scopre di essere incinta di un quarto figlio. La tutela minori opta per l’allontanamento della ragazza, mentre la paziente viene presa in carico dal CPS. Non emergono sintomi psicotici o affettivi. Aysha è una donna impulsiva con marcati tratti narcisistici. I figli sono tutto per Aysha. Nella sua vita non c’è alcun altro investimento significativo. Il CPS lavora per consentire ad Aysha di recuperare un ruolo genitoriale nei confronti dei tre figli rimasti con lei. La Tutela Minori procede in direzione opposta. Non offre alla paziente alcuna possibilità di riabilitazione. Non collabora assolutamente con gli sforzi del servizio psichiatrico. Opta per l’inserimento in comunità e quindi rapidamente per l’adozione dei minori. Aysha apprende la notizia e si getta sotto un treno.
  2. La sig.ra Angela è in carico al CPS per un disturbo depressivo cronico. Non ha mai manifestato alcun sintomo psicotico. L’alleanza con i servizi non è sempre facile perché la paziente è molto rivendicativa e lamentosa. E’ comunque una madre molto affettuosa e responsabile. Ama molto gli animali ed ha diversi gatti in casa. Dopo la separazione dal marito chiede aiuto alla UONPIA. Ha qualche difficoltà nella gestione dei figli. La UONPIA non fornisce alcun supporto né alla madre né ai ragazzi. Di fronte alle insistenze un po’ petulanti della paziente, segnala però la situazione al tribunale dei minori. Ignorando le indicazione del CPS, la Tutela Minori affida i figli al marito. Alla paziente consente solo incontri in spazio protetto una volta al mese.
  3. Moana, 16 anni, ha vissuto da sempre in un’atmosfera familiare collusiva e ipersessualizzata. Nella preadolescenza la rivalità con la madre ha assunto le forme di una franca relazione sessuale con il padre. Quando i servizi preposti scoprono la violenza sessuale cronicamente perpetrata dal padre, la paziente viene affidata al SPDC. Un lieve ritardo mentale ed una discreta impulsività offrono fondamento a questa curiosa scelta riabilitativa. La paziente rimane in reparto due anni. Al termine del ricovero rientra naturalmente al domicilio con il padre, da poco uscito dal carcere.
  4. Per qualche anno ho lavorato come psichiatra in una comunità terapeutica per tossicodipendenti. Mi sono reso conto rapidamente che in questa popolazione la prevalenza di soggetti con storia di affido od adozione è altissima. In genere in questi pazienti osservo che un’adolescenza molto difficile ha dato luogo a una elevata conflittualità con i genitori adottivi. Le manifestazioni tossicomaniche e delinquenziali ampliano il solco. In questo contesto di grande difficoltà spesso i genitori adottivi abbandonano del tutto il ragazzo: lo restituiscono alle istituzioni, da cui lo avevano ricevuto.

I servizi per la Tutela Minori svolgono oggi un ruolo quasi esclusivamente normativo. L’attività di supporto alla genitorialità è marginale. L’interazione con altri servizi che si occupano a vario titolo dei genitori viene spesso ritenuta superflua. Oggi la Tutela Minori tende ad incarnare una sorta di mission inquisitoriale, tende ad identificarsi e a sovrapporsi al ruolo del tribunale dei minori, nonché delle istituzioni preposte alle indagini e ai procedimenti penali rivolti ai comportamenti illeciti dei genitori.

Le radici di questa evoluzione credo possano essere fatte risalire ai profondi mutamenti sociali e culturali che hanno trasformato l’occidente a cavallo degli anni ’60. A quell’epoca i movimenti giovanili misero sotto accusa la generazione degli adulti, che accusavano di ipocrisia, avidità e autoritarismo.

Nel secondo dopoguerra, anche il movimento psicoanalitico sembrò condividere in una certa misura questa prospettiva rivendicativa. Forse tutti i giovani terapeuti degli anni ‘80 – io per primo – hanno ricoperto in qualche misura un ruolo di liberatore da una madre onnipotente o da un padre tirannico. E’ appena il caso di rilevare come questo progetto sia semplicistico e del tutto incompatibile con il modello della mente proposto da Sigmund Freud e Melanie Klein.

Dobbiamo accogliere gli insegnamenti della storia: il ‘68 ha sgretolato le istituzioni tradizionali, ma non ha certo cancellato la psicosi e la tossicodipendenza. Quest’ultima, anzi è sempre più pervasiva.

Del resto è scritto: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Siamo diventati quasi tutti padri e madri. Abbiamo commesso errori quanto e più dei nostri genitori. Le colpe le giudica il tribunale. Ma le scelte, gli stili educativi, la capacità di risonanza affettiva il senso di responsabilità? Chi può veramente pensare di potere valutare le competenze genitoriali con assoluta obiettività? Soprattutto, chi può sentirsi diverso, migliore, sempre disinteressato, aperto e generoso? Winnicott ci ha insegnato che all’oceano dell’amore materno sono inevitabilmente mescolati gli sgradevoli succhi dell’invidia, dell’odio, dell’onnipotenza e della manipolazione. Chi ha cresciuto dei figli sa di non poter dare lezioni a nessuno.

Da questo punto di vista il lavoro dei servizi per la Tutela dei Minori sembra ispirarsi a un modello culturale ormai superato, più allineato alle generiche aspirazione dei mezzi di comunicazione e dei social che alla realtà dei processi educativi. I servizi valutano bambini e genitori alla luce di un modello ideologico: sembrano spesso inseguire una genitorialità utopica e irrealistica. Soprattutto, pensano di poter affrontare i problemi educativi con gli strumenti coattivi della giustizia penale. Sottraggono i figli alla famiglia, li inseriscono in contesti comunitari, li affidano ad aspiranti genitori. Concettualizzano il genitore inadeguato come un dente cariato: basterà estrarlo tempestivamente dalla vita del figlio e lo sviluppo del bambino o dell’adolescente riprenderà spontaneamente.

Ma non è così. Non c’è trauma più doloroso di una separazione violenta da un genitore, per quanto disfunzionale. E la vita in un ambiente istituzionale è notoriamente un fattore di rischio per i più vari problemi psichiatrici.

Che dire poi delle procedure di selezione dei genitori adottivi? Possiamo veramente credere che una valutazione così estrinseca e prevalentemente sociale possa garantire ai piccoli un ambiente di sviluppo ideale? Ma anche un uomo od una donna maturi e caldi avranno enormi difficoltà a sostenere i processi educativi di un adolescente con una storia di abusi, violenze e separazioni traumatiche.

Che contributo possiamo dare dunque ai drammi educativi che sono diffusi nella nostra società? Davanti ai nostri occhi abbiamo – credo – il fallimento di un modello meramente inquisitivo e punitivo finalizzato alla sola individuazione delle carenze genitoriali.

Abbiamo invece grandissimo bisogno di rinnovati servizi per i minori, che possano veramente sostenere le limitate risorse dei genitori e dei piccoli. Occorrono servizi animati da un’autentica cultura psicoterapeutica, che siano in grado di leggere le dinamiche intrapsichiche ed interpersonali, che dispongano di competenze di psicologia individuale e della famiglia, servizi più autonomi e differenziati rispetto alle istituzioni giuridico punitive.

Per realizzare questo obiettivo occorre evidentemente un modello dello sviluppo umano e dei processi educativi. Di fronte al crollo delle istituzioni tradizionali, la confusione della scuola, l’indebolirsi della famiglia, le esitazioni di una chiesa costantemente assediata dai media, credo che la psicoterapia e la psicoanalisi siano chiamate oggi ad assumersi una più forte responsabilità sociale. Se pensiamo che il nostro lavoro sia destinato ad alleviare la sofferenza emotiva e a rendere la società più umana, dobbiamo scendere dalla nostra torre d’avorio. Le associazioni ed i professionisti della salute mentale sono oggi chiamati a prendere posizioni pubbliche. Altrimenti gli slogan mediatici prenderanno ancora il sopravvento. Si succederanno inchieste clamorose e arresti più o meno eccellenti, ma per i genitori ed i bambini in difficoltà nulla potrà cambiare.

 

Comportamenti antisociali durante il lockdown: un’analisi dei processi cognitivi ed emotivi sottostanti

Trasgressione e stigma, senso di impotenza e rabbia. La situazione di emergenza da Covid-19 ha portato al susseguirsi di alcuni comportamenti antisociali, dettati da diversi processi psicologici, la cui comprensione sfugge ad un primo sguardo approssimativo.

 

Diversi sono i fattori che possono portare alla messa in atto di comportamenti trasgressivi, tra quelli psicologici si individuano fragilità emotiva, distorsioni cognitive e strategie di coping inefficaci. Alcune reazioni al comportamento dei trasgressori possono costituire esse stesse meccanismi di difesa disfunzionali.

Parallelamente alle forme di comportamento più prosociali e altruistiche messe in atto durante l’emergenza mondiale da COVID-19, si è assistito a diversi fenomeni sociali e individuali che hanno avuto l’effetto, più o meno consapevole e cercato, di danneggiare il prossimo in diverse maniere. Si pensi ad esempio agli assalti ai supermercati, alle truffe organizzate contro i più fragili, all’aumento dei prezzi di beni essenziali, e infine alla violazione delle norme previste dai decreti ministeriali, compiuta attraverso il mancato uso dei dispositivi di protezione, la formazione di assembramenti abusivi e uscite ingiustificate durante il lockdown.

Quest’ultimo tipo di violazioni, seppur convenzionalmente ritenute meno gravi di forme di delinquenza organizzate, costituiscono atti antisociali e sono di fatto sanzionati come reati contro la salute pubblica. Chi li compie va incontro non solo a rischi giuridici, ma anche alla stigmatizzazione da parte della società e alle diverse reazioni che questo comporta. Durante la pandemia da COVID-19 si sta assistendo ad una violenza che si manifesta in più modi e forme, esercitata sia da chi infrange le regole mettendo a rischio la salute della società, sia attraverso assalti fisici o verbali rivolti contro i trasgressori.

È noto che la pandemia abbia comportato ripercussioni negative per i più, sconvolgendo diversi aspetti della vita così come la conoscevamo, aspetti che non avevamo mai messo in discussione prima. Improvvisamente abbiamo dovuto riorganizzare le nostre abitudini, far fronte a nuovi problemi, elaborare nuove strategie d’azione e di pensiero, senza poter contare sui tutti i mezzi che avevamo a disposizione fino a quel momento. Trasportati da questo stravolgimento molti hanno cercato di darvi un senso in modi diversi: tramite la ricerca di un colpevole, negando la realtà, affidandosi alla religione o cercando di focalizzarsi sui risvolti positivi, come il calo delle emissioni di CO2.

Per far fronte ad un cambiamento che è al di fuori del nostro controllo, è necessario accettare il fatto che non siamo completamente padroni del nostro destino, non siamo invincibili. Questo conflitto interiore, che porta ad una riorganizzazione dell’idea che si possiede di sé, viene tipicamente vissuto durante l’adolescenza, momento in cui solitamente avviene la presa di coscienza della propria vulnerabilità fino all’acquisizione di un’identità stabile e integrata (Erickson 2009). Tuttavia nel corso della vita è comune incorrere in sfide che portano nuovamente a ristrutturare l’idea che ci si è costruiti di sé.

Quando viene meno la percezione di avere il controllo della propria vita, come nel caso delle limitazioni ai propri diritti imposte durante il lockdown, nel tentativo di conservare un’immagine positiva di sé, possono verificarsi reazioni molto differenti. Un modo di reagire può essere l’attivazione di strategie di coping funzionali, come per esempio accettare la realtà e le proprie emozioni, organizzando la giornata tra momenti produttivi e momenti di relax.

Tuttavia non tutti riescono a reagire in maniera adattiva ed è facile sprofondare nella depressione o nell’apatia, soprattutto in mancanza di una solida rete di supporto, in presenza di psicopatologie diagnosticate, quando si ha un’alta percezione del rischio e basse probabilità di ricevere aiuto, o quando le sfide da affrontare sono molteplici e particolarmente destabilizzanti (si pensi a chi ha subito un lutto in questo periodo).

Un’altra delle reazioni comportamentali a cui si è assistito, consiste proprio nell’uscire dall’abitazione senza necessità durante il lockdown. Etichettata da molti come un’azione irrazionale e deplorevole, commessa intenzionalmente e dettata da noncuranza verso la società, rappresenta tuttavia anch’essa un modo disfunzionale di far fronte alla paura e alla frustrazione che ci accomuna.

Si pensi ad un corridore abituale che decide di percorrere 4 km a piedi per scaricare l’ansia, anche se non si può: agendo in questo modo, oltre a perseverare nella messa in atto delle sue strategie abituali, si illude di riappropriarsi di un proprio spazio personale (fisico e simbolico) in cui agire in libertà, anche se per tutto il tempo della corsa permane un forte senso di colpa. In questo caso il comportamento antisociale non costituisce una sfida deliberata verso le regole imposte dallo Stato o un segnale di scarsa empatia, ma assume la forma di strategia disattiva per alleviare lo stato di ansia, che tuttavia aumenta. All’origine della trasgressione vi è quindi, in questo caso, il tentativo di mitigare uno stato emotivo avversivo, cui segue una decisione illogica, e infine la razionalizzazione, un meccanismo di difesa che fornisce una giustificazione illusoria e attenua la dissonanza cognitiva.

Allo stesso tempo la demonizzazione e la stereotipizzazione di chi commette tali infrazioni possono costituire di per sé dei meccanismi di difesa primitivi e disadattativi. Una reazione comune, quella di disapprovare con veemenza certi comportamenti, una netta scissione di ciò che è buono da ciò che è cattivo, che porta a semplificare la realtà e conservare l’idea positiva che abbiamo di noi stessi.

Naturalmente esiste una distinzione tra comportamenti ammissibili e non, scandita dalla legge, tuttavia accanirsi contro i colpevoli attraverso insulti verbali, fisici o sui social network, senza riflettere sulla paura e fragilità che possono aver portato a tali azioni, è essa stessa una difesa disfunzionale, che rischia di aumentare il senso di colpa sperimentato dal trasgressore e incentivare ulteriori infrazioni. Senza contare che spesso le ingiurie vengono rivolte a presunti trasgressori, che escono di casa per vere necessità.

Un fenomeno sociale in grado di aumentare sia le violenze rivolte ai trasgressori sia il numero di azioni trasgressive è quello della diffusione di responsabilità, ovvero quel processo che porta a favorire e legittimare socialmente un’azione di gruppo che compiuta dal singolo sarebbe considerata sbagliata (Darley & Latané 1968).

Distorsioni cognitive simili vengono a formarsi attraverso le euristiche, scorciatoie di pensiero che hanno lo scopo di semplificare la realtà, incorrendo però in errori logici (Kahneman 2002).

Ritornano al desiderio di esercitare un controllo sul proprio destino, esiste un bias in grado di spiegare alcuni procedimenti cognitivi che possono portare alla credenza erronea di aver la facoltà di gestire eventi che sfuggono invece al controllo: l’illusione del controllo. Si tratta di un errore di giudizio in base al quale gli individui sovrastimano le proprie probabilità di successo, sottostimando però i rischi e ostacolando il pensiero critico. Per riprendere l’esempio precedente, il corridore deciso a infrangere le norme potrebbe aver pensato prima di uscire “farò attenzione e quindi non contagerò nessuno”: questo pensiero lo avrà momentaneamente rassicurato, ma il suo ragionamento è fallace, perché non considera altri fattori sui quali non ha alcuna influenza.

Questi sono solo alcuni dei motivi che possono portare alla messa in atto di comportamenti antisociali durante il lockdown. A fianco dei fattori cognitivi, come le strategie disadattive e la perseverazione, intervengono anche fattori psicosociali, come la marginalizzazione e la diffusione di responsabilità, ma anche fragilità emotive e meccanismi di difesa primitivi, sia preesistenti che acuiti dalla situazione di emergenza. Basti pensare alle problematiche relazionali intrafamiliari che vengono accentuate durante il confinamento, senza la possibilità di allontanarsene. Per questi ed altri motivi i comportamenti antisociali cui si è assistito andrebbero osservati con flessibilità psicologica, senza legittimarli ma evitando anche di condannare a priori scopi e intenzioni.

I tratti di personalità influenzano i nostri incubi?

Un recente studio pubblicato sulla rivisita Sleep Science, ha indagato la relazione tra incubi e caratteristiche personologiche, prendendo anche in esame fattori quali età e sesso. 

 

Sebbene gli incubi siano abbastanza comuni nella popolazione generale, la diagnosi clinica del disturbo da incubi viene fatta solo quando questi sono accompagnati da un significativo grado di sofferenza. La classificazione internazionale dei disturbi del sonno descrive diversi modi in cui gli incubi possono influenzare la vita quotidiana dei sognatori. In generale troviamo compromissioni che riguardano: flashback dell’incubo durante le ore di veglia, paura di addormentarsi a causa dell’anticipazione degli incubi e disturbi dell’umore dovuti a persistenti sentimenti causati dall’incubo (Blagrove & Williams, 2004).

Per comprendere le cause eziologiche alla base di questo disturbo, i ricercatori hanno preso in esame diversi fattori, tra cui aspetti socio-demografici, frequenza degli incubi e livelli di nevroticismo (dimensione della personalità caratterizzata dalla tendenza di un individuo ad esperire emozioni negative, in risposta ad eventi stressanti) (Schredl & Goeritz, 2019).

Per la raccolta dati è stato creato un sondaggio online, completato da 2.492 uomini e donne di età compresa tra 17 e 93 anni. I partecipanti hanno compilato dei questionari che valutavano il loro disagio provato a causa degli incubi e la frequenza di essi, sia attualmente che durante l’infanzia. La definizione di incubo fornita ai soggetti è stata la seguente: “Gli incubi sono sogni con forti emozioni negative che portano al risveglio. La trama dei sogni può essere ricordata in modo molto vivido al risveglio”.

Al fine di misurare le dimensioni della personalità è stata utilizzo un questionario del big five a versione ridotta che comprendeva sempre 5 fattori di personalità: nevroticismo, piacevolezza, estroversione, apertura all’esperienza e coscienziosità (Schredl & Goeritz, 2019).

I risultati hanno mostrato che circa il 9% degli intervistati ha riportato incubi settimanali attuali e il 18% ha riferito incubi settimanali durante l’infanzia. Più di un quarto (27%) dei partecipanti ha riferito di avere incubi ricorrenti legati ad eventi della loro vita.

Il nevroticismo risulta essere il tratto di personalità più fortemente associato sia alla frequenza degli incubi che all’esperienza degli incubi ricorrenti (Schredl & Goeritz, 2019).

Le donne fanno esperienza di incubi più frequentemente rispetto agli uomini e mostrano anche più angoscia di avere successivi incubi, questa differenza di genere è spiegata dal fatto che uomini e donne differiscono nei livelli di nevroticismo, infatti i ricercatori, sottolineano che, quando nelle analisi statistiche tra le differenze di genere, inserivano la variabile di ‘’nevroticismo’’ come covariata, non si delineava una differenza di genere (Schredl & Goeritz, 2019).

È stato anche riscontrato un effetto dell’età, che risulta correlare positivamente con la frequenza e l’angoscia data dagli incubi.

Gli autori sottolineano che il loro processo di reclutamento, potrebbe aver portato a una distorsione della selezione del campione, cioè coloro che erano più interessati ai sogni potrebbero aver scelto di partecipare allo studio, si denota infatti una percentuale di frequenza di incubi più elevata rispetto ai valori normativi presenti in altri studi analoghi.

Tuttavia, i ricercatori concludono che oltre alla frequenza dell’incubo, fattori come il genere, l’età e il nevroticismo probabilmente contribuiscono ad aumentare l’angoscia post incubo (Schredl & Goeritz, 2019).

 

La Comunità psicologica si mobilita a difesa dei diritti e bisogni psicologici dei cittadini

La Comunità psicologica si mobilita a difesa dei diritti e bisogni psicologici dei cittadini. – Il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) David Lazzari intervistato dal presidente della Consulta delle scuole di specializzazione cognitivo comportamentali Paolo Michielin

 

Paolo Michielin (PM): Caro David, il CNOP sta promuovendo una mobilitazione in relazione ai contenuti del Decreto “Rilancio”, lanciando lo slogan #lasalutepsicologicaèundiritto, come mai?

David Lazzari (DL): Caro Paolo, è vero che decidere in questa situazione non è facile, ma la lacuna nell’iniziativa del Governo e delle Regioni è molto grave. E non è certo dovuta alla mancanza di proposte serie e percorribili per la parte psicologica. Il CNOP e le società scientifiche di area psicologica hanno fatto proposte serie e sostenibili in questi due mesi. Ci siamo messi a disposizione del governo e delle istituzioni, come scienza e come professione, il presidente Conte ci ha anche ringraziato per i vademecum che abbiamo fatto per la popolazione. Ora il mondo psicologico deve dare voce a questa esigenza, non è solo un problema della professione ma di tenuta del paese e di civiltà.

PM: Quale è l’obiettivo di questa mobilitazione?

DL: Far capire a governo e parlamento che la dimensione psicologica è una componente fondamentale del tema salute ed anche della qualità della vita delle persone, del loro sviluppo, delle relazioni e delle dinamiche sociali. Che senza psicologia aumentano i problemi ed i costi, per le persone e per la società. Non è possibile che gli italiani abbiano solo due alternative: pagarsi lo psicologo di tasca propria o stare male. E questo perché l’assistenza psicologica è prevista dai livelli essenziali di assistenza ma non ci sono gli psicologi per erogare queste prestazioni. Sono 6 mila nel Servizio Sanitario Nazionale per 60 milioni di italiani.

PM: Stare male significa in molti casi finire con il prendere farmaci, e l’Italia è tra i paesi con maggior consumo di antidepressivi ed ansiolitici. Nonostante le linee guida internazionali – in particolare le più autorevoli, quelle NICE  – dicano che per i disturbi emotivi comuni, i più diffusi nella pandemia, i farmaci non siano affatto la risposta più indicata e quando lo sono andrebbero abbinati con l’intervento psicologico. Tu hai di recente pubblicato un libro su questo …

DL: Infatti, il governo dice che si basa sui consigli degli scienziati. Ma evidentemente non per la salute psicologica. Perché le evidenze ci dicono non solo che le cure psicologiche sono le più efficaci per le più comuni forme di disagio ma che fanno risparmiare, perché riducono i problemi di salute e migliorano le risorse e gli equilibri adattivi delle persone anche a medio e lungo termine. Ogni euro speso ne fa risparmiare 1,14 euro per l’ansia, 1,90 per la depressione e 2,5 per le patologie fisiche (Naylor et al. 2012).

PM: Il programma inglese IAPT-Improving Access to Psychological Therapies, varato su consiglio degli economisti della London School, si basa su questi dati per garantire a tutti i cittadini, veramente a tutti, l’assistenza psicologica. Programma aumentato con milioni di sterline nell’emergenza COVID.

DL: Esattamente, e sono dati che abbiamo fatto avere ai decisori politici. È appena uscito un documento delle Nazioni Unite[1], che stiamo traducendo in italiano per pubblicarlo sul sito CNOP, che distingue bene tra bisogni psicologici in senso ampio e disturbi mentali e indica una strategia proattiva e diffusa per intercettare e rispondere al disagio psicologico nei contesti della comunità.

PM: Tutte le Agenzie internazionali (OMS, ONU) stanno denunciando una emergenza psicologica conseguente alla pandemia che avrà ricadute pesanti e di lungo periodo. I dati preliminari raccolti nel nostro paese sono ancora più allarmanti, ad esempio per quanto riguarda gli operatori sanitari o i familiari delle vittime. Perché il Governo non ne tiene conto? Eppure il Ministero della Salute ha riconosciuto l’emergenza attivando un “numero verde per il sostegno psicologico”….

DL: l’Italia ha tradizioni culturali che hanno sempre avversato la Psicologia, basti pensare che siamo stati quasi l’ultimo Paese occidentale ad istituire i corsi di laurea; per fare l’Ordine ci sono voluti vent’anni di battaglie, come ben sai essendo tu stato il primo presidente nazionale. Dal 2018 siamo professione sanitaria ma il binomio psicologia-salute è lontano dai palazzi, che in questo si mostrano sordi verso la sensibilità e le esigenze della popolazione. Pensa che 8 italiani su 10 ritengono fondamentale la professione psicologica per la ripresa, oggi il valore sociale della psicologia e degli psicologi è molto aumentato. Il Ministero della Salute ha fatto un passo con il “numero verde” per tamponare l’emergenza. La Comunità ha risposto in modo forte e solidale ma ora è necessario che si apra subito una fase nuova, di risposta strutturale, e non più di tampone per l’urgenza del lockdown. Il Ministero non può certo pensare che i bisogni psicologici siano terminati o di continuare solo con le linee telefoniche. Chi sta aiutando le decine di  migliaia di persone sopravvissute al COVID? La moltitudine che ha perso un familiare? Tutti i medici ed infermieri stressati della prima linea? Tutti i lavoratori in crisi?

PM: Eppure ci sono evidenze importanti su quanto funziona la Psicologia per ridurre i problemi, per prevenire il disagio e fare empowerment, sviluppare resilienza individuale e collettiva, mi sembra che questi dati siano stati diffusi anche dal CNOP.  Conosciamo i costi del disagio psicologico e i guadagni, anche economici, della sua riduzione. La Psicologia si ripaga da sola con i risparmi che produce.

DL: Servono scelte lungimiranti, che aprono prospettive importanti. C’è bisogno di un approccio che guardi alla Comunità nel suo complesso e nelle sue articolazioni. Per fare questo la componente psicologica va riconosciuta come parte essenziale nel campo della salute, dell’educazione, del welfare, delle politiche del lavoro, solo per citare gli ambiti più importanti. Dove può valorizzare le sue competenze in modo integrato con le altre professioni. Voglio dire una cosa chiara: la psicologia non è un optional, non può essere un lusso per pochi ma una risorsa per tutti, e la professione non è un hobby ma una cosa seria, e va impiegata seriamente. Questo vuol dire che stato e regioni devono reclutare gli psicologi che servono e non ci sono, che vanno dati dei voucher alle fasce più a rischio e a reddito più basso per accedere all’assistenza psicologica presso i liberi professionisti, attivare una convenzione che consenta l’accesso al sostegno e cure psicologiche negli studi privati. Già nel Decreto Rilancio si danno fondi alle scuole per acquistare prestazioni psicologiche. Senza una rete articolata di questo tipo, che prevede un insieme di possibilità, modulate anche in base al bisogno, non ci sarà una risposta efficace, che – ricordiamolo – deve essere anche proattiva, collettiva, di comunità, per prevenire e sviluppare risorse non solo per riparare.

 

#lasalutepsicologicaèundiritto!

Per aderire vai sul sito del CNOP: www.psy.it

Funzionamento psicologico nel Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della penetrazione rientra tra le disfuzioni sessuali femminili e spesso l’ansia e la paura per il dolore sono stati emotivi comunemente riportati da donne che hanno sperimentato in maniera costante il dolore durante i rapporti sessuali e in alcuni casi può portare all’evitamento di situazioni intime/sessuali.

Mirto Anna Maria – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione (DGP-P) viene classificato all’intero del DSM 5 (APA, 2013) come una disfunzione sessuale femminile caratterizzata dalla presenza di uno o più dei seguenti problemi:

  • nella penetrazione vaginale durante i rapporto sessuali
  • marcato dolore genito-pelvico durante il rapporto sessuale o i tentativi di penetrazione,
  • marcata paura o ansia per il dolore pelvico o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale,
  • marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale.

La difficoltà nella penetrazione vaginale può presentarsi in maniera generalizzata a tutte le esperienze di penetrazione, quali rapporto sessuale, visite ginecologiche, uso di assorbenti interni, oppure essere specifica solo in alcune situazioni. Il marcato dolore, che può essere in genere elicitato nel corso di una visita ginecologica, può mantenersi nel tempo anche successivamente il termine del rapporto sessuale o presentarsi durante la minzione. L’ansia e la paura per il dolore sono stati emotivi comunemente riportati da donne che hanno sperimentato in maniera costante il dolore durante i rapporti sessuali e in alcuni casi può portare all’evitamento di situazioni intime/sessuali. La marcata tensione dei muscoli del pavimento pelvico andrebbe meglio valutata da un ginecologo al fine di indagare l’eventuale presenza di disfunzioni organiche.

Per porre diagnosi di DGP-P è sufficiente la presenza, da almeno 6 mesi, di un solo sintomo, tra quelli sopracitati, purché associato a marcata difficoltà tale da causare disagio clinico significativo.

Tale disfunzione sessuale ingloba due disturbi che nel DSM IV-TR avevano un’altra categorizzazione diagnostica, quali il “vaginismo”, ossia spasmi e contrazioni involontarie dei muscoli perivaginali che rendono difficile la penetrazione, e la “dispareunia”, ossia i dolori durante il rapporto sessuale.

Eziologia

Diversi sono i fattori che possono contribuire all’insorgenza del disturbo da DGP-P. Ghaly e Chien (2000) hanno individuato la presenza sia di cause organiche che non (Tab. 1). In particolare, procedure chirurgiche o processi infiammatori organici, come l’endometriosi o la sindrome del colon irritabile, posso portare alla formazione di cicatrici e aderenze, le quali possono provocare dolore nelle aree interessate. Quando ad essere colpiti da infiammazioni o aderenze sono i muscoli del pavimento pelvico allora è possibile la presenza di “punti trigger”, dai quali si propaga il dolore (Alappattu e Bishop, 2011). Relativamente alla cause non organiche, risulta fondamentale, per la valutazione del disturbo, indagare la presenza o meno di una storia di abuso sessuale o emotivo e di sintomi depressivi, ansia o altre alterazione psichiatriche. Diversi studi, difatti, hanno riscontrato come le donne con DGP-P riportano di frequente depressione, ansia e disturbi del sonno, oltre alle limitazioni nell’attività sessuale (Grace e Zondervan, 2006; Pitt e coll., 2008). Altri fattori non organici rilevanti per l’eziologia riguardano la qualità relazionale con il partner, le condizioni di salute di quest’ultimo ed in particolare la presenza di problemi sessuali come la disfunzione erettile o l’eiaculazione precoce, le quali possono causare difficoltà nella penetrazione, il contesto culturale di appartenenza e il credo religioso della donna per indagare la presenza di inibizioni correlate a divieti riguardanti l’attività sessuale (APA, 2013).

Disturbo da Dolore Genito Pelvico e della Penetrazione cause sottostanti Tab 1

Tab. 1 Cause organiche e non organiche del Disturbo da Dolore Genito Pelvico. Adattato da Ghaly e Chien (2000)

Caratteriste associate al disturbo

Tra le caratteristiche associate al disturbo da DGP-P vi è la comorbilità con altre disfunzioni sessuali, quali il disturbo da desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile. Più specificatamente, l’interesse sessuale viene solitamente mantenuto all’interno di contesti esperienziali non dolorosi o non richiedenti la penetrazione (APA, 2013). Tuttavia, anche nei casi in cui vengono riferiti adeguati interesse e motivazione sessuale, vi è spesso un evitamento comportamentale di situazioni sessuali (APA, 2013). Questo comportamento sembrerebbe rappresentare una strategia di coping disfunzionale responsabile di conseguenze psicologiche negative, come la depressione (Lethem e coll., 1983; Alappattu e Bishop, 2011). A livello fisico, invece, le conseguenze dovute alla messa in atto di tale strategia vengono definite come sindrome da disuso, che, nel disturbo da DGP-P, riguardano l’ipertonicità, ossia l’aumento della tensione, dei muscoli del pavimento pelvico e la loro riduzione di flessibilità e minore capacità di rilassamento (Reissing e coll., 2005; Gentilcore-Saulnier e coll, 2010), le quali aumentano il rischio di una penetrazione dolorosa. Inoltre, tale strategia influenza la sensazione del dolore, la quale viene percepita come maggiore e più amplificata rispetto alla reale esperienza dolorosa (Lethem e coll., 1983; Alappattu e coll., 2015). Tutte queste conseguenze si riflettono, a livello comportamentale, sul rafforzamento dell’evitamento, dando così vita ad un circolo vizioso che col tempo può determinare il passaggio da dolore acuto a cronico (Vlaeyen e Linton, 2000; Thomtén e Linton, 2013).

Modello Psicologico Teorico di riferimento – Fear-Avoidance Model

L’amplificata percezione dell’esperienza dolorosa, l’evitamento e le sue conseguenze in termini in disuso e depressione, rappresentano solo alcune delle variabili psicologiche coinvolte nei disturbi da dolore. Il modello teorico che in letteratura viene principalmente citato per la comprensione dei fattori psicologici coinvolti nel dolore è il Fear-Avoidance Model (FAM) – il Modello dell’Evitamento della Paura, di Lethem e collaboratori (1983), sviluppato in particolare nei disturbi da dolore muscolo-scheletrico. Le variabili centrali del modello sono la catastrofizzazione e la paura del dolore, le quali influenzano il tipo di risposta messa in atto dall’individuo per fronteggiare l’esperienza di dolore (Vlaeyen e Linton, 2000). La catastrofizzazione del dolore si riflette in uno stile di pensiero negativo ripetitivo che amplifica la percezione della gravità e dell’intensità del dolore. I pensieri catastrofici, a loro volta, incrementano la paura del dolore riflettendosi in un aumento dell’ipervigilanza, la quale a livello fisico comporta una riduzione della lubrificazione vaginale. Tale risposta fisiologica può rappresentare per le donne che soffrono di DGP-P una condizione sfavorevole per una rapporto sessuale soddisfacente in quanto aumenta il rischio di una penetrazione dolorosa (Thomtén e Linton, 2013). Relativamente alle risposte messe in atto per fronteggiare l’esperienza dolorosa vi è, ad un estremo, la strategia di “confrontation”, che in maniera funzionale contribuisce ad un adattamento positivo al dolore motivando l’individuo a riprendere le sue attività fisiche e sociali, e all’altro estremo, la strategia di “avoidance”, che al contrario porta la persona ad evitare le esperienze che percepisce come dolorose. Tutto ciò contribuisce all’esacerbazione e al mantenimento della percezione del dolore e a conseguenze psicologiche e fisiche che promuovono lo sviluppo di uno stato di disabilità (Lethem e coll., 1983; Vlaeyen e Linton, 2000; Alappattu e Bishop, 2011), che nel disturbo da DGP-P si riflettono anche nella riduzione del funzionamento sessuale con difficoltà nelle diverse fasi di desiderio, eccitamento e lubrificazione (Payne e coll., 2005).

Disturbo da Dolore Genito Pelvico e della Penetrazione cause sottostanti Fig 1

Fig. 1 Adeguamento del Fear-Avoidance Model per i disturbi sessuali caratterizzati da dolore. Adattato da Thomtén e Linton (2013)

Pertanto, poiché diversi studi hanno riscontrato la presenza di queste variabili psicologiche nelle donne con disturbo da DGP-P (Payne e coll., 2005; Desrochers e coll., 2009), il FAM sembrerebbe quindi essere la cornice teorica entro cui comprendere meglio il meccanismo dei disturbi sessuali caratterizzati da dolore (Thomtén e Linton, 2013) e alla quale future ricerche dovrebbero far riferimento per sviluppare ed individuare trattamenti psicoterapici diretti a questi fattori in aggiunta agli interventi standard, quali terapia manuale, fisioterapia, stimolazione elettrica e biofeedback elettromiografico (Alappattu e Bishop, 2011).

Il ruolo della metacognizione

Negli ultimi anni, in letteratura, relativamente alla comprensione dei meccanismi sottostanti i disturbi caratterizzati da dolore, vi è un numero crescente di studi che si è focalizzato sull’indagine della relazione tra catastrofizzazione del dolore, comportamenti e pensieri relati al dolore e credenze metacognitive (Yoshida e coll., 2012; Spada e coll., 2015; Ziadni e coll., 2017). Tuttavia i risultati sono contrastanti. In particolare, Spada e collaboratori (2015) nella loro ricerca, condotta su un campione in cui si escludeva la presenza di condizioni mediche che potessero causare dolore costante o cronico, hanno riscontrato un ruolo mediatore delle credenze metacognitive relative al rimuginio nella relazione tra affettività negativa, catastrofizzazione del dolore e comportamenti legati al dolore, come l’evitamento. Al contrario, lo studio condotto da Ziadni e collaboratori (2017) su un campione di individui con dolore cronico di varia eziologia, pur osservando un maggior distress emotivo nei soggetti con credenze metacognitive negative, non ha riscontrato un ruolo mediatore delle metacredenze sull’effetto della catastrofizzazione del dolore sul funzionamento psicologico e fisico.

Questi risultati suggeriscono l’importanza e la necessità di condurre ulteriori ricerche sul ruolo delle credenze metacognitive nel dolore. Il disturbo da DGP-P è un campo clinico in cui sarebbe fondamentale che si orientassero le future ricerche al fine di sviluppare interventi efficaci.

Il contatto pelle a pelle tra madre e bambino condiziona il futuro tipo di attaccamento e lo sviluppo cerebrale

Numerose ricerche si sono occupate di indagare quali fossero i benefici di un contatto pelle a pelle tra madre e bambino immediatamente dopo il parto. I risultati scientifici confermano che lo skin to skin, oltre a porre le basi per un attaccamento di tipo sicuro, favorisce lo sviluppo cerebrale.

 

I primi 60-90 minuti dopo il parto, vengono detti “Ora Sacra” e sono un momento molto speciale per la madre e per il bambino. In quest’arco di tempo avviene il primo contatto che condiziona il processo d’attaccamento. Numerose ricerche sottolineano come il contatto pelle a pelle, subito dopo il parto, offra vantaggi immediati e a lungo termine. Lo skin to skin aumenta la produzione degli ormoni che influenzano l’attaccamento. Tra questi l’ossitocina, chiamata anche ”l’ormone dell’amore”, è il principale. Si è notato come essa faciliti il rilassamento, l’attrazione, il riconoscimento facciale e i comportamenti accudenti della madre. I livelli di ossitocina aumentano nel contatto pelle a pelle e si incrementano quando la mano del neonato massaggia il seno della madre (Matthiesen et. al., 2001). Negli anni ‘70 e ’80 del secolo scorso, diverse ricerche si sono occupate di confrontare i comportamenti delle madri, che avevano potuto sperimentare lo skin to skin, con quelli di madri che non avevano avuto questa possibilità. Nel momento delle dimissioni dal reparto di ostetricia, le madri che avevano sperimentato un contatto pelle a pelle, manifestavano maggiore sicurezza nel maneggiare e nell’accudire i propri bambini. Le stesse madri, a distanza di tre mesi, baciavano di più i propri bambini e passavano più tempo a guardarli in viso. A un anno dimostravano maggiore propensione per abbracci e atteggiamenti vocali positivi, e inoltre allattavano i bambini più a lungo (DeChateau PWB, 1997). Molti studi ipotizzano che la capacità di regolare in modo efficace le emozioni sia legata alle esperienze di attaccamento primario. Esistono, inoltre, evidenze che il contatto pelle a pelle e l’attaccamento madre-bambino influenzano il normale sviluppo cerebrale.

Il contatto pelle a pelle favorisce uno sviluppo cerebrale

Secondo John Bowlby (1979), psicologo che a lungo si è occupato di attaccamento, trasportare i neonati e tenerli a diretto contatto con il corpo è essenziale per lo sviluppo infantile. Poter avere un contatto pelle a pelle durante la prima ora di vita determina il modello di comportamento madre-figlio ed influenza il normale sviluppo cerebrale.

Il contatto fisico, la comunicazione verbale e non verbale e il contatto visivo non sono solo interazioni piacevoli tra la madre e il bambino, ma favoriscono il normale sviluppo neurologico. Le ricerche sull’influenza che il precoce contatto madre-bambino e l’attaccamento hanno sullo sviluppo cerebrale sono state condotte in campo animale ed umano.

Harlow ha pubblicato nel 1958 i risultati del suo studio sui macachi Rhesus. I cuccioli, che crescevano senza le proprie madri, preferivano il contatto con una madre surrogata fatta di filo di ferro ricoperto di pelliccia, piuttosto che un surrogato dotato di un contenitore per il latte ma senza pelliccia. Il contatto era più importante del cibo, a testimonianza del ruolo fondamentale di questo nell’attaccamento.

Per Schore (1994) il cervello è progettato per prendere la propria configurazione finale per effetto delle prime esperienze, in particolare in conseguenza delle relazioni di attaccamento. Le sue ricerche sull’attaccamento e lo sviluppo cerebrale, evidenziano che i primissimi eventi di natura interpersonale possono avere un impatto positivo o negativo sull’organizzazione strutturale del cervello. Secondo gli studi di Schore (2001) e di altri neurofisiologi, che a lungo si sono occupati di attaccamento, l’amigdala si trova in un periodo di maturazione fondamentale nei primi 2 mesi di vita. Questa struttura cerebrale fa parte del sistema limbico ed è coinvolta nell’apprendimento emotivo, nella modulazione della memoria e nell’attivazione del sistema nervoso simpatico. Il contatto pelle a pelle è responsabile dell’attivazione dell’amigdala attraverso la via prefrontale- orbitale e contribuisce alla maturazione di questa struttura cerebrale.

Prescott (1975), riferendosi ad un lavoro di Harlow, Mason e Berkson, ha affermato che il contatto e il movimento sono i fattori più importanti per un normale sviluppo cerebrale. Permettono, infatti, la neurointegrazione di cervelletto, sistema limbico e corteccia prefrontale.

I vantaggi del contatto pelle a pelle e le tipologie di parto

Oltre ad influenzare lo sviluppo cerebrale, il precoce contatto pelle a pelle madre-bambino, favorisce la stabilizzazione di alcuni parametri fisiologici del neonato e influenza la durata dell’allattamento. Questi fattori migliorano la qualità della relazione tra mamma e neonato affinando l’attaccamento. Le ricerche dimostrano una stabilizzazione della respirazione e dell’ossigenazione. La frequenza respiratoria dei neonati che hanno sperimentato lo skin to skin è più bassa di quella dei neonati separati dalle madri, mentre i livelli di glucosio sono più alti. Anche il battito cardiaco è più lento rispetto a quello dei bambini che hanno subito una separazione ( Arcolet D. et al, 1989). Il contatto con la pelle materna permette di regolare la temperatura del neonato, riducendo il rischio di ipotermia ed evitando che il calore venga generato attraverso il consumo di grasso bruno, necessario per il mantenimento del peso ( Lundington-Hoe et al. 2006). La separazione dalla madre provoca la produzione, da parte del neonato, di ormoni dello stress con conseguente aumento del consumo di calorie ( Christensson K. Et al., 1995). Il primo attacco al seno, per i neonati che hanno avuto un contatto pelle a pelle immediato con la madre, è facilitato probabilmente per una maggiore stimolazione del tratto olfattivo. Secondo una metanalisi dei dati in letteratura, lo skin to skin, aumenta del 50% la probabilità di allattamento esclusivo al seno al momento della dimissione ospedaliera.

La risposta genitoriale ai bisogni del neonato, attraverso la relazione di prossimità, di contatto e di piacere, permette al neonato e poi al bambino, di ordinare il suo mondo interiore. L’osmosi emotiva definirà il legame che genererà un tipo di attaccamento più o meno sicuro. Lo skin to skin pone le basi per lo sviluppo di un attaccamento sicuro che permetterà al bambino di esplorare l’ambiente esterno ed il mondo serenamente, con la consapevolezza di poter tornare ad una base sicura ogni volta che ne senta il bisogno.

Ann-Marie Widstrom, ostetrica svedese, ha a lungo osservato i vantaggi del precoce contatto pelle a pelle tra madre e neonato. Nel 1990 Ha pubblicato le sue osservazioni facendo anche riferimento ai protocolli ospedalieri che riguardano il parto naturale e quello cesareo. L’attuazione dello skin to skin dopo un parto vaginale è facilmente realizzabile, mentre risulta più laboriosa in caso di taglio cesareo. Tenendo conto di tutti i vantaggi del contatto precoce pelle a pelle è nato il parto cesareo dolce che, grazie ad una procedura chirurgica meno invasiva, permette alla mamma, immediatamente dopo il parto, di vivere l’ora sacra attraverso un contatto a pelle con il neonato.

 

Terapia Metacognitiva: come abbandonare il rimuginio ai tempi del coronavirus – Report dal webinar del Dott. G. Caselli

Studi Cognitivi ha proposto ai suoi studenti una serie di lezioni pensate per approfondire i nuovi aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19.

 

Il primo contributo è stato quello del Dr. Caselli, seguito da quasi 400 studenti. La lezione, tenutasi il 24 aprile, aveva lo scopo di fornire alcune indicazioni rispetto all’intervento MCT (Terapia Metacognitiva) per l’ansia legata al Covid-19. Il docente ha mostrato come adattare il trattamento del rimuginio alle nuove necessità scaturite dalla pandemia e dalle misure messe in atto per contenerla.

Prima di tutto, è stato sottolineato come alcune reazioni alla quarantena siano comuni a ognuno noi, mentre altre siano estremamente variabili. Infatti, quasi tutti ci sentiamo un po’ più soli, meno attivi e ipostimolati, costretti a relazionarci con un ambiente caratterizzato da nuove minacce e incertezze. D’altra parte, però, molto diversi saranno i vissuti a seconda dei nostri tratti di personalità o dell’impatto che la pandemia ha avuto sull’ambito lavorativo o sulla salute dei nostri cari.

In queste circostanze, le vulnerabilità individuali risultano inevitabilmente più esposte. Come è possibile, quindi, prendersi cura della nostra salute psicologica in un contesto che non la facilita? Come possiamo abbandonare il rimuginio ai tempi del coronavirus?

Il particolare momento storico in cui ci troviamo ha veicolato una modalità di avvicinarsi alla psicoterapia diversa da ciò a cui siamo abituati. Infatti, il terapeuta potrebbe trovarsi di fronte a un esordio psicopatologico, ma anche semplicemente a un disagio momentaneo legato alla situazione e alle difficoltà di adattamento ad essa. Se la fase di accertamento diagnostico lo consente, la domanda di supporto del paziente, orientata ad adattarsi a un cambiamento, non andrebbe gestita immediatamente come una psicoterapia completa. È importante dare, invece, una risposta che faccia ottenere dei risultati nel breve periodo e che si concentri sul problema contingente. Focalizzarsi anche solo su un aspetto, come quello del rimuginio, può fare davvero una grande differenza in termini di benessere. Come psicoterapeuti dobbiamo quindi isolare il nostro raggio di azione e settare il nostro approccio su quella che è la richiesta del paziente, perseguendo uno scopo parziale, con la possibilità in seguito di ampliare l’intervento stabilendo nuovi obiettivi.

Un altro aspetto peculiare di chi chiede un supporto psicologico ai tempi del Covid-19, spiega il Dr. Caselli, è una visione esternalizzata della difficoltà, orientata a gestire un problema esterno e caratterizzata da una minor coscienza delle strategie che si mettono in atto e che ostacolano l’adattamento. Questo fatto implica una variazione delle tappe d’intervento rispetto al trattamento di soggetti con patologie conclamate e una buona consapevolezza.

Le vulnerabilità personali e il contesto della quarantena concorrono nello scatenare emozioni e pensieri negativi. Una modalità disfunzionale di regolare questi stati interni può portare a vissuti persistenti di sofferenza psicologica. Nella condizione attuale, infatti, durante le prime visite spesso i pazienti raccontano di un disagio nuovo, sensazioni spiacevoli mai provate. L’obiettivo sarà quindi quello di ridurre la sofferenza psicologica riconoscendo queste situazioni, abbandonando le reazioni più problematiche e sostituendole con reazioni più funzionali.

Il rimuginio, ossia uno stile di pensiero analitico, perseverante e ripetitivo, focalizzato su contenuti negativi, è spesso la risposta preferenziale messa in atto di fronte a pensieri automatici negativi. Questa strategia ha conseguenze sia sul benessere, prolungando lo stato di stress, sia sulle prestazioni, consumando molte risorse mentali. Per favorire la capacità di adattamento del paziente alla nuova situazione che sta sperimentando, è necessario intervenire sull’elemento intermedio che si pone tra i pensieri negativi e il disagio psicologico: il rimuginio. La terapia metacognitiva (MCT), grazie all’attenzione orientata verso il processo e ai suoi interventi brevi e focalizzati, permette di perseguire questo obiettivo. È probabile che il momento attuale porti il paziente a sviluppare un miscuglio tra le varie forme di rimuginio, consentendo al terapeuta di porre il fascio di ragionamenti su un’unica dimensione e di trattarlo come un processo, indipendentemente dalla sfumatura emotiva.

Il Dr. Caselli ha anche approfondito le tappe da seguire, secondo un approccio MCT, per raggiungere un maggior benessere psicologico:

  • Aumentare la consapevolezza metacognitiva: il terapeuta dovrebbe assumere l’atteggiamento di una gentile guida, in grado di aiutare il paziente a porre il proprio focus sul rimuginio, notando aspetti di cui non è consapevole. A questo scopo, molto utili sono le domande di approfondimento sul processo e sui suoi costi, le esperienze in seduta per mostrare il rimuginio in vivo e gli strumenti offerti dalla piattaforma inTherapy, come la possibilità di creare un diario metacognitivo.
  • Aumentare il controllo sul rimuginio: il terapeuta dovrebbe monitorare due indicatori, la consapevolezza degli episodi rimuginativi e la quantità di tempo trascorsa a rimuginare, e dovrebbe rinforzare l’idea che sia possibile controllare questa strategia disfunzionale. A seconda dei casi, potrebbe essere utile introdurre un training attentivo (ATT), per migliorare genericamente la propria capacità di controllo, o la pratica della dilazione del rimuginio.
  • Esplorare nuove strategie: per finire, bisogna individuare, con l’aiuto del paziente, strategie alternative al rimuginio. In questa fase, è importante ribadire come il rumuginio sia un tentativo distorto di prendersi cura di se stessi con un effetto paradossale ed evidenziare come esistano strategie per raggiungere i medesimi scopi che però rappresentino realmente un gesto di cura personale. Si possono anche introdurre interventi psicoeducativi sulle credenze metacognitive positive residue.

La lezione di approfondimento si è rivelata utile per arricchire le proprie conoscenze sul rimuginio e sulla terapia metacognitiva, interessante per capire come declinare un intervento in base alle nuove esigenze scaturite dal Covid-19, coinvolgente grazie ai momenti esperienziali proposti e molto interattiva, dando spazio al confronto e a chiarimenti. Il Dr. Caselli ha concluso il suo intervento condividendo dei “messaggi chiave” che ci invitano a riflettere sul nostro modo di vivere e di porre attenzione al momento presente.

 

The Gambler, il giocatore d’azzardo – Recensione

The Gambler è considerato un remake di un film degli anni Settanta dallo stesso titolo originale, conosciuto in Italia come “40.000 dollari per non morire”.

 

La prima versione del film, famoso successo americano di Karel Reisz del 1974, è apprezzata per l’ottima performance del protagonista, James Caan, massicciamente lodata e candidata per un Golden Globe. Entrambe fotografano un dramma di stampo esistenzialista sotto forma di un avvincente noir d’azione.

The Gambler del 2014 è un film di genere drammatico, un thriller, scritto da Willian Monahan, diretto da Rupert Wyatt, con Mark Wahlberg, il protagonista, e Jessica Lange, sua madre. Malgrado per alcuni rappresenti un surrogato, affievolito e appassito a tal punto da diventare una pallida ombra dell’originale, a mio avviso racconta bene la storia di un professore universitario brillante, arrogante, spocchioso che vive in realtà un fortissimo senso di disagio e frustrazione poiché scontento del suo lavoro e segretamente schiavo del gioco d’azzardo. Jim Bennett, infatti, protagonista dal carattere talvolta intollerabile, molto stimato dai suoi studenti, ha una doppia vita; rampollo di una nota e ricca famiglia di banchieri, alla morte del nonno si ritrova a doversi barcamenare tra il complicato rapporto con la madre e le spinte autodistruttive di una smodata dipendenza dal gioco d’azzardo, senza alcun freno inibitorio, che lo condurranno alla rovina…

Viene travolto e coinvolto in un vortice compulsivo e, apparentemente senza via di scampo, e al contempo anche in una tanto salvifica quanto appassionata storia d’amore con una sua studentessa. Così come in “Il Giocatore” di Dostoevskij, prisma attraverso cui attualizzare le dimensioni del Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), possono essere utilizzate diverse chiavi di lettura: individuale, della sua famiglia d’origine e della rete di relazioni (Cancrini, 2017).

Non sono esplicitate le motivazioni che inducono il protagonista a decidere di giocare; non sappiamo quale sia il click che sancisce l’avvio a quella che diventerà la sua rovina. Di sicuro le motivazioni per intraprendere, così come quelle per continuare, tali attività sono molteplici.

Nel protagonista sono ben visibili alcuni dei sintomi presenti in un giocatore.

  • Ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata. Ne è esempio lampante il fatto che vada con la madre a prelevare una somma di danaro talmente tanto elevata da indurre la bancaria a chiedere alla madre più, e più volte, se fosse sicura di voler prelevare una somma così copiosa.
  • E’ eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo. Persino il primo appuntamento con la sua amata Amy, si svolge in una sala da gioco; lei trascorre il suo tempo da sola mentre lui è totalmente rapito, ipnotizzato ed assorto dal gioco.
  • Spesso gioca d’azzardo quando si sente a disagio. Nel film si evince che è come se andare a giocare rappresentasse un rifugio all’interno del quale non pensare.
  • Dopo aver perso al gioco vuole rifarsi. Va alla ricerca della vincita, accumulando debiti su debiti.
  • Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa. Sembrerebbe preferire perdere la donna amata piuttosto che provare a smettere di giocare.
  • Fa affidamento su altri per reperire il denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d’azzardo. Si appoggia alla madre ed agli strozzini, dando per scontato che la prima comunque lo finanzierà e che i secondi accoglieranno sempre le sue richieste.

Cosa rappresenta per il nostro protagonista il gioco d’azzardo? Potrebbe rappresentare un modo per non pensare all’inutilità del suo lavoro o un luogo magico in cui poter fantasticare sui conseguenti cambiamenti della propria vita, oppure un’attività grazie alla quale poter riempire o cancellare momentaneamente momenti di noia, mancanza di senso, insoddisfazione, depressione e solitudine o, ancora, un’attività per provare eccitazione e piacere (Croce, 2001; Pani & Biolcati, 2006).

I necessari approfondimenti legati alle motivazioni profonde di un personaggio giocatore su cui incombe l’assenza ingombrante di una figura paterna, nel film, sono solo parzialmente abbozzate.

Il gioco d’azzardo è una sfida titanica: nel breve arco temporale che intercorre tra l’attesa ed il risultato il giocatore avverte un’eccitazione straordinaria; il piacere di sognare la vincita, pertanto, ripaga il giocatore dalla delusione. Anche in questo caso la pulsione erotica s’incardina con quella thanatica. L’anorgasmia, spesso, è retta dal piacere prolungato che vuole essere mantenuto e nel contempo non si risolve mai: all’eccitazione non seguono il plateau e la detumescenza; si mantiene uno stato di continua e perenne eccitazione. Il giocatore non è tale perché è compulsivo, il suo essere anancastico è la difesa al non provare un piacere risolutivo. Freud scriveva: omne animal post coitum triste est; l’appagamento del desiderio annulla il desiderio ed apre ad una serena tristezza o appagamento, data cioè dalla perdita di eccitazione (come si fosse stanchi dopo una bella giornata al mare…). Il giocatore non tollera tutto ciò.

Il gioco d’azzardo può assumere la connotazione di un disturbo psichiatrico, così come ufficialmente riconosciuto dall’American Psychiatric Association (APA) nel 1980; nel 1994, il gioco d’azzardo patologico (GAP), definito anche disturbo da gioco d’azzardo, azzardopatia o genericamente ed impropriamente ludopatia, è stato classificato nel DSM-IV (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come “disturbo del controllo degli impulsi”. Il DSM-IV t.r. ha definito il GAP come un “comportamento persistente, ricorrente e maladattativo di gioco che compromette le attività personali, familiari o lavorative”; nel 2013 l’APA ne ha elaborato una definizione più aggiornata e scientificamente corretta: “Disturbo da Gioco d’Azzardo” (APA – DSM V 2013). L’ICD-10 (International Classification Disease) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo ha inserito tra i “disturbi delle abitudini e degli impulsi”.

Nella nuova edizione del Manuale Diagnostico e Statistico sui Disturbi Mentali, DSM 5, non si parla più di Gioco d’Azzardo Patologico ma di “Disturbo da Gioco d’Azzardo” (DGA) collocandolo all’interno della categoria delle Dipendenze in un’apposita sottocategoria, “Disturbo non correlato all’uso di sostanze”. Esso è considerato un disturbo appartenente alle addiction, comportamenti istintivi tesi a soddisfare un bisogno fisico e/o psicologico che possono comportare conseguenze avverse in svariati contesti di vita di un individuo.

Il termine inglese addiction, in italiano dipendenza patologica, deriva dal latino addictus, termine utilizzato nell’Antica Roma per indicare lo schiavo che diventava tale per non poter pagare i debiti, e tale condizione perdurava fino all’estinzione del debito. Jim è schiavo di se stesso e del gioco; gli individui che vivono tale disagio, infatti, rinunciano alla capacità di riflettere abbandonandosi ad uno stato di euforia e fugace piacevolezza bramati sempre più spesso e per un tempo sempre più prolungato tramite la ricerca compulsiva del comportamento insano (craving).

Spada e collaboratori (2015) hanno effettuato ricerche per capire quale potesse essere l’influenza della metacognizione sul gioco d’azzardo patologico ed hanno indagato quali potessero essere gli scopi (goals) del gambling e quali i segnali di inizio e di fine del comportamento problematico attuato dal giocatore. I risultati dimostrano che specifiche credenze metacognitive giocano un ruolo fondamentale nell’incipit e nel sostentamento di comportamenti di addiction (Spada, 2013), ma che il GAP potrebbe essere considerato come una modalità per sgrovigliare e/o regolamentare i propri stati interiori (sia affettivi che cognitivi), con la conseguenza di aumentare sia la sofferenza psicologica che i comportamenti insani associati, in un loop che si autosostenta. Il GAP, al pari delle altre forme di dipendenza, viene interpretato come manifestazione di un profondo malessere psichico che necessita di essere ascoltato e decifrato. Nonostante ciascuna forma di dipendenza abbia caratteristiche delineate e peculiari, tutte sono accomunate dal desiderio di scappare dalla realtà, percepita quale inaccettabile, e dall’incapacità di sostenere la sofferenza psicologica che ne consegue. Il Gioco d’Azzardo Patologico, insieme ad altre dipendenze quali la dipendenza dal sesso, dal lavoro eccessivo (workhaolic), da internet, se viene utilizzato a lungo per scopo compensatorio o per fuga, porta chi ne usufruisce a diventare “vittima del gioco”. Le vittime designate sarebbero individui che vengono risucchiati in un vortice di pensieri ossessivi legati al gioco con conseguente messa in atto di comportamenti (compulsione) dai quali non riescono più ad uscire. L’attrazione ed il bisogno di soddisfare l’impulso di giocare sono sempre più intensi, tanto da comportare una totale perdita di controllo; si persegue il comportamento abitudinario e ripetitivo, anche in presenza di ostacoli e pericoli contingenti (Guerreschi, 2003). I giocatori d’azzardo problematici presentano delle frequenti difficoltà connesse alla sfera relazionale e lavorativa (Grant & Kim, 2001; National Opinion Research Center, 1999). Il nostro protagonista aveva deciso di non lasciarsi andare emotivamente.“Devo annientare il passato. Se arrivo al fondo posso ricominciare” frase forte ed emblematica del film che ci dice qualcosa in merito alla sofferenza ancestrale del protagonista, che aveva origini ben profonde. In linea con la sua idea del “tutto o niente”, solo estirpando il suo dolore radicalmente crede possa esserci una possibilità per riprendere in mano la sua vita, della quale probabilmente non era mai stato possessore…

Nel finale del film il protagonista decide di far stabilire ad una puntata magica se debba, o meno, smettere di giocare. In tanti si saranno chiesti cosa sarebbe successo se non avesse vinto la sua ultima partita… Ancora una volta sembra incline ad affidarsi alla fortuna, nella speranza salvifica di ottenere una vittoria ed un guadagno che possano porre fine alle sue difficoltà finanziarie e soprattutto che possa rappresentare un fine pena, capace di tirarlo fuori dal suo circolo vizioso.

E’ evidente che il protagonista non abbia fatto un percorso psicoterapico; alla fine afferma di non essere un giocatore, frase che un vero ex giocatore non direbbe mai…

 

THE GAMBLER – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

 

Prendi in mano la tua vita e pensa positivo

Se le cose non vanno come vorremmo è spesso colpa nostra, del nostro modo di affrontare le situazioni e dell’opinione che abbiamo di noi. Ma la vita cambia, le situazioni cambiano e anche noi possiamo cambiare e imparare a prendere la giusta direzione. Difficile? No, basta seguire qualche trucco e imparare a credere in noi stessi. Ce lo spiega Jordan B. Peterson, psicologo canadese, nel suo bestseller 12 Regole per la vita. Un antidoto al caos.

 

Quando tutto sembra perduto un nuovo ordine può nascere dalla catastrofe e dal caos

Tieni le spalle dritte

Partiamo da un presupposto noto: se ti consideri una persona di poco valore, se non credi nella possibilità di farti ascoltare, probabilmente anche gli altri ti lasceranno poco spazio per esprimerti. Se sai farti valere in modo assertivo, esprimere la tua opinione, tenere conto di quelli che sono i tuoi desideri con la convinzione di avere il diritto di realizzarli, almeno quanto ne hanno gli altri, anche le persone che ti circondano avranno stima di te.

Se le cose fino ad ora non sono andate come avresti voluto è molto probabile che tu abbia solo preso una brutta abitudine, e non devi continuate a comportarti così.

Chi ha sofferto in passato è più esposto a soffrire nuovamente perché la fiducia in sé viene minata e si dà per scontato che non ci si potrà sottrarre a situazioni spiacevoli. Il cervello non produrrà meno serotonina, si tenderà a diventare ansiosi e tristi e si sarà più portati a tirarsi indietro anziché rispondere quando le situazioni lo richiederebbero.

In realtà molto spesso a chi è in grado di mordere non è richiesto di farlo. Dimostrarsi determinati dà molte possibilità di non venire attaccati. Sentirsi più forti aumenta il rispetto di sé.

Le circostanze cambiano, se fino a ieri hai camminato con le spalle basse, da oggi tieni le spalle dritte e impara a dare di te un’immagine diversa.

Ordine e caos

Quando la nostra vita procede normalmente, senza scossoni o imprevisti, siamo nell’ordine. In caso contrario subentra il caos.

Nell’ordine siamo in grado di pensare a lungo termine, siamo equilibrati, calmi e contenti.

Nell’ordine abbiamo un amico fidato su cui possiamo contare. Nel caos questo stesso amico ci ha ingannato. Quando questo succede tutto il nostro mondo cambia, anche ciò che consideravamo acquisito cambia e sorprende. Il tuo vecchio e amorevole cane un bel giorno può morderti, così un amico fidato può ingannarti.

Se siamo amici di qualcuno, questa amicizia deve portare a noi tanto quanto porta all’altro. Se non sarà così finiremo per essere schiavi dell’altro e l’altro diventerà il nostro tiranno.

Ordine e caos caratterizzano ogni situazione, in ogni situazione ci sono cose che possiamo prevedere e altre che ci sfuggono e non capiamo.

A lungo andare l’ordine può non bastare perché ci sono cose nuove da sperimentare e imparare ma il caos può essere troppo e può non essere sopportato a lungo, quindi dobbiamo appoggiare un piede su quello che conosciamo e l’altro su ciò che stiamo ancora esplorando.

Scegli amici giusti

Quando si ha una scarsa stima di sé e del proprio valore è più facile accontentarsi di amicizie che ci deludono perché si pensa di non meritare di più. Forse è anche un modo per sentirsi virtuosi nel confronto con qualcuno che non lo è, o utili a qualcuno che riteniamo (quasi sempre erroneamente) abbia bisogno di noi. Se abbiamo amici che non vorremmo vedere frequentare da nostra sorella o da nostro figlio, perché dobbiamo frequentarli noi?

Se decidiamo di prenderci cura di noi dobbiamo rispettarci. Imparare a circondarsi di persone che vogliono il nostro bene, che hanno un effetto positivo su di noi, non è una scelta egoistica ma una buona decisione.

Fai la mossa giusta

Se fai una mossa che non ti aiuta a raggiungere i tuoi obiettivi, è una mossa sbagliata, devi provare altro. Se fallisci in qualcosa, prova qualcos’altro. Comincia con piccoli cambiamenti. A volte è tutto il sistema di valori che ti sei costruito ad essere sbagliato e diventa necessario abbatterlo e ricominciare da capo. E’ una rivoluzione che, come tale, porta con sé confusione e paura, ma è necessaria. Forse hai rifiutato un punto di vista differente per troppo tempo e quando ti sarai deciso a considerarlo avrai un grosso debito da saldare con te stesso. La mente vuole essere razionale e per questo si inganna nascondendo a se stessa gli errori. Poniti questa domanda “Quello che volevo si è realizzato?”, se la risposta è no, o il tuo scopo o i tuoi metodi erano sbagliati.

Scegli a quale gioco giocare

Se le tue carte sono sempre contro di te, forse il gioco a cui stai giocando è truccato, magari tu stesso lo stai truccando a tua insaputa, ma non preoccuparti: non esiste un solo gioco a cui si può avere successo o fallire.

La vita di ogni persona ruota attorno a diversi aspetti, un lavoro, una famiglia, degli amici, degli interessi… alcuni giochi possono essere adatti a te e altri no. Forse, nel considerarti un fallito, stai dando troppo valore a quello che non è un gioco adatto a te e ne stai sottovalutando altri in cui invece riesci molto bene.

Un esempio: quel personaggio famoso che tanto ammiri per come si presenta in TV, è un alcolista, è depresso, fa uso di droghe. La sua vita è veramente tanto migliore della tua?

Il tuo nemico, in questo caso, è il tuo “critico interiore” che ti sminuisce con questi paragoni scegliendo arbitrariamente un unico campo su cui effettuare il confronto, agisce come se quel campo fosse l’unico realmente importante e su quello ti paragona a qualcuno che lì ha avuto risultati eccellenti.

Ogni vita ha condizioni personali e poco paragonabili a quelle di altri. Per definire i tuoi standard di valore devi prima riuscire a considerarti un estraneo e poi imparare a conoscerti.

Il mondo è pieno di possibilità, forse sei infelice perché non riesci a vivere ciò che vuoi, ma forse è proprio a causa di ciò che vuoi che sei infelice. Forse quello che potrebbe veramente farti felice è lì a portata di mano, ma tu stai guardando altrove.

 

 

La minaccia dello stereotipo: vale anche per gli uomini?

La minaccia indotta dall’attivazione dello stereotipo, definita nella letteratura internazionale “stereotype threat”, è un fenomeno complesso.

 

Prevede due condizioni: la prima è che la persona sia consapevole di uno stereotipo esistente sul proprio gruppo di appartenenza, ad esempio “le donne non sanno guidare”. La seconda condizione è che la persona si trovi in una situazione in cui una propria caratteristica o comportamento potrebbe confermare lo stereotipo su di sé. Riprendendo l’esempio di prima, possiamo immaginare una ragazza che debba parcheggiare l’auto proprio mentre per strada sta passando un uomo. La ragazza potrebbe sentirsi osservata e diventare improvvisamente consapevole del rischio che, se non riuscirà a parcheggiare l’auto correttamente, confermerà con il proprio comportamento lo stereotipo secondo cui le donne non sanno guidare. La minaccia dello stereotipo è quindi la consapevolezza del pericolo di essere giudicati in base a uno stereotipo (Carnaghi e Arcuri, 2007).

I primi ad occuparsi di stereotype threat sono Aronson e Steele, nel 1995. A questo primo studio, sono seguite numerose ricerche sulla stereotype threat. Lewis e Sekaquaptewa (2016) sottolineano che la maggior parte della ricerca sul fenomeno si è focalizzata sulle conseguenze sulla performance. Ad esempio, sono stati indagati gli effetti sulle prestazioni sportive o sui risultati ai test di matematica. Tuttavia, gli autori specificano che la minaccia dello stereotipo può avere anche altre conseguenze, tra cui rendere più difficili le interazioni tra gruppi diversi e condurre a minor coinvolgimento sul lavoro (Kalokerinos, Kjelsaas, Bennetts e Hippel, 2017).

La ricerca si è concentrata su alcune categorie tradizionalmente discriminate, come le donne o le persone anziane. Kalokerinos e collaboratori (2017) invece hanno studiato gli effetti della stereotype threat su uomini che lavorano in professioni a prevalenza femminile, nello specifico su uomini insegnanti e assistenti sociali. L’obiettivo dello studio è duplice: verificare se una categoria tradizionalmente avvantaggiata possa subire la minaccia dello stereotipo e se, in tal caso, questo conduca a minor impegno nella propria professione.

Lavorare come insegnante o assistente sociale richiede qualità come gentilezza e capacità di prendersi cura dell’altro, ossia caratteristiche stereotipicamente associate alle donne. Gli uomini invece sono stereotipicamente descritti come aggressivi, dominanti e competitivi, aspetti che mal si accordano a professioni che coinvolgono dei bambini.

La questione è particolarmente interessante se si parte da questa considerazione: secondo la teoria originaria di Steele (1997), chiunque può essere soggetto alla minaccia dello stereotipo, indipendentemente dal fatto che il suo gruppo di appartenenza sia stigmatizzato o meno nella società. Le ricerche in laboratorio confermano questa teoria. Gli autori del presente studio però si chiedono se, nel mondo reale, al di fuori del laboratorio, lo status di privilegio che caratterizza gli uomini possa proteggerli dalla minaccia dello stereotipo.

Perché gli autori ipotizzano che gli uomini, seppur soggetti a stereotipi, possano non subire le conseguenze della minaccia dello stereotipo? Per via di un fenomeno chiamato “glass escalator”: gli uomini che lavorano nelle professioni a prevalenza femminile tendono ad avere stipendi più alti e migliori opportunità di lavoro, ad essere promossi più rapidamente e ad essere sovrarappresentati nelle posizioni di leadership. Gli autori quindi ipotizzano che questi fattori possano proteggere gli uomini dalle conseguenze negative della minaccia dello stereotipo.

Per verificare queste ipotesi contrastanti, Kalokerinos e colleghi (2017) hanno condotto due studi. Il primo ha coinvolto insegnanti di scuola elementare. I risultati di questo studio correlazionale indicano che gli insegnanti uomini riportano livelli più elevati di minaccia dello stereotipo. La minaccia dello stereotipo è associata in questo campione a minore soddisfazione lavorativa e minor commitment verso la professione di insegnante. Tuttavia il livello di minaccia percepita è in media relativamente basso. Questo indica che la minaccia dello stereotipo potrebbe avere degli effetti meno pervasivi negli uomini rispetto a gruppi tradizionalmente svantaggiati.

Il secondo studio, sperimentale, coinvolge assistenti sociali che operano nell’ambito della protezione dei minori. I partecipanti devono leggere il report di un caso che è stato gestito adeguatamente e con sensibilità dall’operatore o, al contrario, con scarsa sensibilità e senza successo. Devono poi rispondere alle domande “Secondo te, quanto bene ha gestito la situazione l’operatore?” e “Rispetto a questo operatore, quanto meglio avresti gestito la situazione?”. L’obiettivo è generare un paragone sociale tra il partecipante e l’ipotetico operatore. L’ipotesi è che gli assistenti sociali uomini, dovendosi paragonare con qualcuno che ha gestito correttamente il caso, sperimentino un maggior senso di minaccia dello stereotipo. I risultati confermano questa ipotesi: gli assistenti sociali uomini sperimentano la minaccia dello stereotipo quando devono confrontarsi con un operatore capace. La minaccia dello stereotipo è inoltre connessa a maggiori intenzioni di abbandonare la professione di assistente sociale negli uomini che sperimentano più elevati livelli di minaccia. Un dato contrastante però indica che, complessivamente, sono le donne ad avere maggiori intenzioni di lasciare la professione.

Come si spiegano questi dati? Da un lato, lo studio di Kalokerinos e collaboratori (2017) supporta la teoria di Steele (1997): tutti, anche i gruppi tradizionalmente avvantaggiati, possono subire la minaccia dello stereotipo e le sue conseguenze negative. Dall’altro, i risultati indicano che i livelli di minaccia sperimentati dagli uomini in professioni a prevalenza femminile sono più bassi in media rispetto ai livelli sperimentati dai gruppi tradizionalmente svantaggiati. Lo status di cui godono gli uomini in ambito lavorativo potrebbe agire da fattore protettivo rispetto alla minaccia dello stereotipo. Per questo le donne avrebbero comunque più elevate intenzioni di abbandonare la professione, poiché sanno che le posizioni di potere saranno più probabilmente attribuite ai loro colleghi maschi.

Una possibile limitazione a queste conclusioni è che i partecipanti uomini coinvolti sperimentino bassi livelli di minaccia in quanto gli uomini che considerano minacciosi gli stereotipi di genere potrebbero del tutto evitare di lavorare in ambiti a prevalenza femminile o abbandonare precocemente tale professione. Per questo gli autori suggeriscono ricerche future che possano coinvolgere partecipanti agli inizi delle loro carriere.

Avere un maggior numero di uomini in professioni tradizionalmente femminili aiuta a rendere migliori le condizioni di lavoro, ad esempio la retribuzione, e contribuisce a rendere meno rigidi gli stereotipi di genere. Per questo abbiamo bisogno di studi come quello di Kalokerinos e colleghi (2017).

Stimolazione Cognitiva nella Schizofrenia

La scarsa sensibilità dei farmaci sul potenziamento delle funzioni cognitive ha spinto ricercatori e clinici a porre enfasi sull’introduzione di tecniche e strategie non farmacologiche di stimolazione cognitiva rivolte a persone con schizofrenia.

Mirto Anna Maria – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Negli ultimi anni è divenuta crescente l’attenzione posta dai clinici sull’importanza della riabilitazione cognitiva nel trattamento dei deficit cognitivi nelle patologie neurodegenerative, come la Malattia di Alzheimer, in particolare, e le altre forme di demenza. Anche le recenti linee guida dell’Organizzazione della Sanità (OMS) (2019) raccomandano la riabilitazione e/o la stimolazione cognitiva al fine di prevenire il decadimento cognitivo e/o rallentare il declino nel tempo nei casi in cui la patologia dementigena sia già insorta.

Nondimeno, occorre sottolineare come i deficit cognitivi non rappresentino un rischio solo per la popolazione anziana o un problema che riguarda unicamente le persone affetta da demenza, ictus o traumi cranici. Essi interessano anche altri disturbi mentali, tra cui le psicosi, andando così a rappresentare una sfida soprattutto per i giovani adulti che ne sono affetti. Benché gli attuali sistemi diagnostici non includano il deficit cognitivo tra i criteri diagnostici della schizofrenia, che rappresenta la principale sindrome psicotica, in letteratura è confermata e comprovata la centralità di questo deficit nella malattia (Carcione e coll., 2012)

Non a caso, difatti, la prima classificazione della schizofrenia, risalente agli inizi del 900 e attribuita ad Emil Kraepelin, fu “dementia praecox” proprio in virtù della presenza di alterazioni della sfera cognitiva, che venivano quindi incluse tra le caratteristiche nucleari della malattia (Kraepelin, 1917).

Una volta riconosciuta la presenza di deficit cognitivi anche nella patologie psichiatriche, risulta fondamentale non incappare nell’errore di generalizzare e applicare in maniera indistinta gli interventi cognitivi dimostrati efficaci nei trattamenti dei disturbi neuropsicologici conseguenti a eventi traumatici, cerebrovascolari e neurodegenerativi nell’ambito della riabilitazione di pazienti affetti da patologie psichiatriche.

I deficit cognitivi nella schizofrenia

Le alterazioni cognitive dei pazienti affetti da schizofrenia sono diverse da quelle riscontrate in altre patologie neurologiche e hanno una loro specificità. Esse hanno un’elevata prevalenza ma non sono universali: difatti circa il 27% di questi pazienti non risulta deficitario alla valutazione neuropsicologica; inoltre si manifestano con variabilità interindividuale, per cui il livello e la gravità delle compromissione neurocognitiva differisce tra i pazienti (Carcione e coll., 2012).

I domini cognitivi che risultano compressi sono: velocità di elaborazione, attenzione, funzioni esecutive, memoria di lavoro, apprendimento e memoria verbale, apprendimento e memoria visiva, ragionamento, linguaggio, abilità visuo-spaziali e cognitività sociale  (Reichenberg e Harvey, 2007; Heinrichs e Zakzanis, 1998). Tali deficit, seppur in forma più lieve, sono già presenti in fase premorbosa, prima della manifestazione conclamata della malattia e persistono nel tempo anche quando la sintomatologia, positiva e negativa, va incontro a remissione (Carcione e coll., 2012). Pertanto, tali alterazioni cognitive, poiché presenti precedentemente all’esordio e per l’intera durata della malattia, impattano significativamente sull’autonomia del soggetto, andando così a rappresentare un fattore predittivo negativo del funzionamento sociale e lavorativo per l’individuo stesso (Milev e coll., 2005). Ciò ha comportato la necessità di sviluppare interventi finalizzati al rimedio dei deficit cognitivi.

Trattamento

Per lungo tempo si è tentato di trovare trattamenti psicofarmacologici che tuttavia si sono mostrati inefficaci nel favorire il miglioramento della capacità neuropsicologiche nei pazienti psichiatrici. In particolare, si è mostrato come gli antipsicotici di prima generazione abbiano un impatto negativo soprattutto sulle performance psicomotorie, mentre gli antipsicotici di seconda generazione hanno dimostrato solo lievi miglioramenti sul funzionamento neurocognitivo (Davidson e coll., 2009; Woodward e coll., 2005).

La scarsa sensibilità dei farmaci sul potenziamento delle funzioni cognitive ha spinto ricercatori e clinici a porre enfasi sull’introduzione di tecniche e strategie non farmacologiche di training cognitivo, finalizzate al miglioramento della performance cognitiva e quindi, indirettamente, anche del funzionamento psicosociale dell’individuo (Velligan e coll., 2006).

Il trattamento riconosciuto a livello internazionale come più efficace nella riabilitazione cognitiva nei pazienti con schizofrenia è il Cognitive Remediation (CR).

Trattamento di Cognitive Remediation

Si tratta di un intervento cognitivo comportamentale specificatamente disegnato per la riabilitazione dei processi cognitivi nei disturbi psichiatrici, come il disturbo bipolare, la schizofrenia e altre forme di psicosi (Franza e coll., 2018). Al Cognitive Remediation Expert Workshop, tenutosi a Firenze nel 2010, è stato definito “a behavioral training-based intervention that aims to improve cognitive processes (attention, memory, executive functions, social cognition or metacognition) with the goal durability and generalization” (Wykes e Spaulding, 2011). Ciò per rimarcare come il miglioramento della performance cognitiva rappresenti, per la CR, un obiettivo primario, che tuttavia è strumentale al raggiungimento dell’obiettivo principale di incrementare e potenziare il funzionamento globale e la qualità di vita del paziente (Vita e Barlati, 2013) .

Esistono due principali modelli di CR: compensatorio e ripartivo/ristoratore. Il primo mira a far apprendere al paziente nuove abilità facendo leva su quelle residue e sulle risorse ambientali, modificando e adattando anche il contesto in cui la persona vive, al fine di aiutarla a superare le sue disabilità. Vengono pertanto utilizzati ausili ambientali esterni, come calendari, contenitori personalizzati per le medicine, o insegnate strategie mnemoniche per ricordare compiti/oggetti (Vita e Barlati, 2013). Risulta evidente, dunque, come il modello compensatorio abbia forti implicazioni sul miglioramento funzionale dell’individuo. Il modello ripartivo, invece, essendo focalizzato particolarmente sulla performance neurocognitiva, mira a sviluppare abilità cognitive specifiche attraverso la pratica ripetuta di un compito di modo da favorirne il ricordo, oppure a stimolare l’implementazione di nuove strategie di apprendimento attraverso l’esecuzione di diversi esercizi accumunati dall’utilizzo di strategie simili (Medali e Choi, 2009).

Gli interventi CR differiscono tra loro in funzione della modalità individuale/di gruppo e del tipo di materiali utilizzati (carta-matita/programmi computerizzati). Questi, assieme alle frequenza e alla durata delle sedute e alla motivazione del paziente nel seguire la terapia CR, costituiscono i fattori che mediano l’effetto e l’efficacia dell’intervento (Wykes e Spaulding, 2011).

Nella definizione del programma di CR è importante tenere a mente come alcune tecniche di apprendimento abbiano dimostrato una maggiore efficacia sia a livello cognitivo che funzionale. In particolare, diversi studi di Kern (2005, 2008) condotti con pazienti con schizofrenia, hanno mostrato come l’apprendimento senza errori (errorless learing), sviluppato da Baddeley e Wilson (1994), migliorasse la loro capacità di risoluzione dei problemi in contesti sociali e la performance lavorativa, oltre che migliorare anche le capacità mnesiche (Mulholland, 2008). Modificare la difficoltà di un compito in funzione della abilità del paziente, garantendo che quelle neoapprese possano consentirgli di svilupparne di nuove (tecnica scaffolding), si è dimostrata una strategia di apprendimento efficace sia per il miglioramento del ragionamento astratto che per il rafforzamento e l’incremento del livello di autostima in pazienti con schizofrenia  (Young e coll., 200). Altre tecniche utili riguardano la pratica ripetuta di un compito (massed practice), la quale favorisce la memorizzazione; il rinforzo, che aumenta o riduce la comparsa di un comportamento, fornendo così informazioni riguardo all’avvenuto o meno miglioramento e indirizzando la motivazione della persona a raggiungere quel miglioramento; il chuncking, ossia la semplificazione e suddivisione di un compito in più step al fine di ridurre la quantità di informazioni da elaborare (Vita e Barlati, 2013).

Negli ultimi trent’anni diversi e molteplici sono stati i protocolli di rimedio cognitivo strutturati specificatamente per la schizofrenia, di cui è stata proposta una descrizione dettagliata da Vita e Barlati (2013), i quali che hanno fornito trattazione esaustiva delle diverse tecniche di rimedio cognitivo, a partire dai programmi che utilizzano supporti e materiali cartacei, a quelli computerizzati fino ai software multimediali di riabilitazione cognitiva.

Conclusioni

Diverse sono le meta-analisi che concludono verso l’efficacia della CR nella riabilitazione cognitiva della schizofrenia (Wykes e coll., 2011; McGurk e coll., 2007). Tuttavia, risulta ancora scarso l’impiego di questo intervento nella pratica clinica quotidiana, probabilmente a causa delle poche conoscenze riguardo ai predittori (fattori biologici, socio-demografici, clinici e cognitivi), e alla loro interazione, di risposta positiva o negativa al trattamento CR (Wykes, 2018). In riposta a tale mancanza di conoscenze, arriva la recente recensione di Barlati e collaboratori (2019), in cui si è tentata una prima identificazione dei fattori che meglio predicono l’esito della CR nella schizofrenia, tenendo conto del risvolto sia sulla performance cognitiva che sul funzionamento sociale. In particolare, si è riscontrata una maggiore efficacia della CR nei pazienti con schizofrenia con le seguenti caratteristiche: giovane età, storia della malattia breve, pochi sintomi disorganizzati, alta riserva cognitive al pre-trattamento, maggiore miglioramento al post-trattamento CR, basso dosaggio di antipsicotici durante il trattamento. Inoltre, si sono riscontrati maggiori effetti quando la CR costitutiva una parte di trattamento implementata all’interno di un intervento riabilitativo psicosociali. Occorre precisare, tuttavia, come gli studiosi sottolineino l’importanza di lavorare ancora per identificare meglio i predittori potenziali di esito che favorisco lo sviluppo di interventi personalizzati sulle caratteristiche dei pazienti.

Alimentazione e pandemia: il rapporto col cibo durante la quarantena

L’alimentazione diventa una strategia di gestione delle nostre emozioni. E siccome la situazione in cui siamo sta mettendo a dura prova molti di noi, secondo diversi psicologi e psicoterapeuti lo stress di questo periodo diventa un forte rischio per una slatentizzazione di dinamiche disfunzionali rispetto all’uso del cibo, o per un’accentuazione di difficoltà e disturbi già esistenti.

 

E’ già da diversi mesi che le vite di tutti sono state travolte da questa pandemia; le restrizioni a cui siamo obbligati hanno portato grossi cambiamenti e avuto conseguenze importanti sullo stato d’animo delle persone per via dell’incertezza e delle preoccupazioni costanti; mai come in questo periodo sta emergendo la necessità di tutelare lo stato di salute mentale della popolazione.

Questa emergenza ci ha costretti ad un riadattamento della routine quotidiana, con non poche difficoltà, che se anche ci appare ormai un tantino superata visti i primi segnali di riapertura del nostro Paese, siamo lontani dall’esserne effettivamente fuori. Anzi, sicuramente questa nuova fase comporterà un ulteriore riadattamento, porterà con sé ancora tanta incertezza e preoccupazione, così come nuove possibilità da esplorare (in positivo si spera!).

E in tutto questo, ci si è chiesti: “l’Alimentazione che ruolo ha giocato e continua a giocare?”. Il cibo in effetti ha sempre un ruolo importante nella vita degli esseri umani e, soprattutto in questo periodo, ne è stato protagonista. Basta farsi un giro sui più importanti social per renderci conto che la “saggezza popolare” (in modalità perlopiù ironiche) già da subito ha intercettato il legame tra questa situazione, fonte di nuovi stress e fatiche emotive, e il ruolo che il cibo può giocare (soprattutto in termini di iperalimentazione); ed infatti, uno degli aspetti che ci spingono ad assumerlo è proprio il nostro stato emotivo. “Mangiate per consolarvi o per distrarvi” (Beck J., 2013). Questa frase di Judith Beck racchiude proprio il significato di quella che solitamente viene chiamata Fame nervosa o emotiva: ovvero quando si mangia anche se non si ha davvero bisogno di cibo (nutrirsi), ma a causa di stimoli emotivi, così, in questo caso, il cibo diventa una strategia di gestione delle nostre emozioni. E siccome la situazione in cui siamo sta mettendo a dura prova molti di noi, secondo diversi psicologi e psicoterapeuti lo stress di questo periodo diventa un forte rischio per una slatentizzazione di dinamiche disfunzionali rispetto all’uso del cibo, o per un’accentuazione di difficoltà e disturbi già esistenti.

Spesso, nella nostra nuova quotidianità, stiamo provando emozioni negative come tristezza, ansia e irritabilità, o ancora, solitudine, confusione e frustrazione, possiamo avere paura di queste emozioni e sentirci impotenti o vulnerabili. In questo caso ecco che il cibo assume la funzione consolatoria o di valvola di sfogo. Si mangia per placare un’emozione indesiderata, per distrarsi dai pensieri sull’incertezza lavorativa o sulla paura di contagiarsi, per interrompere la noia o la frustrazione di dover stare in casa, per soffocare il senso di solitudine o riempire il vuoto di certe giornate. Si può arrivare fino ad abbuffarsi, a mangiare e continuare a spizzicare per tutto il giorno in modo automatico e solitamente lo si fa con cibi ad “alto gradimento”, i cibi preferiti, dolci o salati, o meglio ancora molto grassi, perché inducono un certo grado di piacere quando li assumiamo e per un po’ ci fanno dimenticare di cosa ci disturba interiormente. Usare il cibo in questo modo effettivamente ci fa evitare di affrontare una difficoltà o qualcosa di indesiderato perché il cibo, come già detto, ci dà piacere immediato e poi è più facile da tenere sotto controllo, ad esempio, quando oscilliamo tra l’abbuffata e il reprimerci; in quel caso è più facile spendere energie mentali, emotive e comportamentali sul controllo del peso, delle calorie, delle quantità di cibo e dell’attività fisica per compensare, piuttosto che ad esempio, sull’insoddisfazione e l’incertezza lavorativa che si sta vivendo, o sulla crisi coniugale che durante l’emergenza e la convivenza forzata si è acutizzata, o sul sentirsi non in grado di gestire i propri figli in casa, che sembrano fare più capricci del solito.

Chiaramente concedersi delle volte qualcosa in più per il gusto di assaporarlo e avere un momento di piacere (proprio perché stiamo vivendo un periodo particolare e difficile) non è di per sé sbagliato o pericoloso, anzi, ma quando questa diventa una sorta di abitudine, magari fuori controllo e automatica, allora un problema può insidiarsi. E dunque anche in questi tempi può essere utile cominciare a riflettere sul ruolo che il cibo e le emozioni stanno avendo nella nostra vita e attrezzarsi.

Ecco alcuni spunti da cui cominciare: da un punto di vista della gestione quotidiana del cibo, alcuni ricercatori dell’ISS e del CREA (2020) ribadiscono l’attenzione a cibi grassi, ad alimenti e bevande zuccherate e a un eccesso di carboidrati in favore di quegli alimenti importanti per il nutrimento; l’attenzione agli eccessi e quindi al tenere d’occhio le porzioni in vista anche del minor movimento fisico; l’attenzione a non riempire eccessivamente frigo e dispensa e non far diventare il tavolo di lavoro un luogo pieno di snack vari aumentando così il rischio di spizzicare continuamente. Auspicano inoltre, di poter “cogliere l’occasione per trasformare questa situazione in una nuova opportunità di salute, modificando in meglio le nostre abitudini alimentari e limitando gli eccessi e i comportamenti alimentari errati che possono influire negativamente sulla salute”.

Da un punto di vista di gestione emotiva del nostro rapporto col cibo invece, ecco delle indicazioni su cui riflettere:

  • allenare la consapevolezza e la presenza mentale per imparare a portare l’attenzione al momento presente intenzionalmente e non in modo automatico, per riconoscere cosa scatena la nostra fame e cosa davvero ci sta rendendo inquieti;
  • imparare a riconoscere e gestire i propri pensieri e il dialogo con se stessi, soprattutto quando sono sabotanti e non supportivi, quando sono catastrofizzanti e non ci aiutano a trovare possibili soluzioni alternative per tranquillizzarci finendo quindi per ricorrere principalmente al cibo. “L’arte di tranquillizzare e confortare se stessi è una capacità fondamentale della nostra vita” (Goleman, 2012)
  • imparare a riconoscere e conoscere le proprie emozioni (che è frutto della consapevolezza) e cosa eventualmente ci vogliono dire; è importante poterle normalizzare e comprendere al fine di renderle appropriate e gestirle al meglio. Attraverso queste possiamo individuare i nostri reali bisogni e darci così la possibilità di trovare una strada per soddisfarli, (anche durante una pandemia che ci chiede di rivedere la nostra vita, di ridefinire e rinegoziare i nostri bisogni per adattarci nel modo più realistico e significativo possibile);

Infine, qualora si riconosca di avere estrema difficoltà in questa fase, e di non riuscire da soli a gestire il proprio rapporto col cibo, sono tanti gli enti, le associazioni e i professionisti della salute mentale che si sono attrezzati per continuare a dare supporto in questo periodo nel rispetto delle disposizioni imposte; chiedere aiuto potrà dunque essere un regalo davvero importante da fare a se stessi.

 

 

Gelosia: la mancata “costanza dell’oggetto”

La gelosia è spesso un auto rifiuto distruttivo, un’avversione rivolta a parti di sé che non verranno elaborate poiché la responsabilità di ogni dolore sarà attribuita al partner. Come in ogni profezia che si autoavvera, il partner potrebbe scegliere di rompere il legame per un’altra relazione, il che da un lato solleverà il soggetto geloso dal confronto con quelle parti di sé, dall’altro rafforzerà, davanti al fallimento, il suo odio per se stesso.

 

Paola è esasperata: vede rivali dappertutto. Viene da me in studio con l’obiettivo di guarire con la psicoterapia dalla sua gelosia divorante, che sta allontanando da lei il suo amato.

Ha 31 anni, lavora in uno studio di commercialisti e convive con Massimo, avvocato. Mi appare devastata e profondamente addolorata. Mi racconta di essere sempre stata gelosa, ma mai come col fidanzato attuale (che ama moltissimo). Attraversa stati di ansia insostenibili se Massimo non le risponde in tempi brevi al telefono, o se dai resoconti emerge della giornata che lui ha interagito con colleghe o clienti donne. A quel punto l’angoscia è così forte che Paola lo sottopone ad interrogatori lunghi ed estenuanti sul tipo di interazione, sulla bellezza di queste presunte “rivali”e su eventuali percezioni o vissuti del compagno. Massimo la rincuora su quanto la ama e sull’irrazionalità delle sue illazioni, ma non sembra mai abbastanza per placarla. Paola ha anche creato un finto account Instagram tramite cui monitora le ragazze che hanno espresso apprezzamenti alle foto del suo compagno e controlla ossessivamente i contenuti pubblicati da tali ragazze alla ricerca di indizi di possibili scambi tra queste e Massimo (come apprezzamenti da parte di lui alle loro foto o commenti). Negli ultimi tempi Massimo ha cominciato ad arrabbiarsi per quelle che lui ritiene “aggressioni e paranoie inutili” e le appare più distante e stanco. Ovviamente, questo rende Paola sempre più insicura e spaventata dall’idea di una possibile donna a cui lui si potrebbe avvicinare in questo momento di delusione, non realizzando che l’unica “nemica” del loro rapporto in questo momento è lei stessa, o meglio, la parte di lei così profondamente insicura e gelosa. Come obiettivo non ci poniamo tanto l’eliminazione dell’aggressività verso il partner, quanto di lavorare su quella che nutre verso se stessa. Perché la gelosia è spesso un auto rifiuto distruttivo, un’avversione rivolta a parti di sé che non verranno elaborate poiché la responsabilità di ogni dolore sarà attribuita al partner. Come in ogni profezia che si autoavvera, il partner sceglierà probabilmente di rompere il legame per un’altra relazione, il che da un lato solleverà il soggetto geloso dal confronto con quelle parti di sé, dall’altro rafforzerà, davanti al fallimento, il suo odio per se stesso.

Sulla gelosia si è interrogato già Freud (1923), che rintracciava questo sentimento nella fase edipica del bambino, che anela all’attenzione e all’amore del genitore del sesso opposto e vive l’altro genitore come “rivale”.

Secondo la Klein (1969), il neonato sviluppa due immagini della madre: quella idealizzata che lo soddisfa (il “seno buono”) e che vorrebbe possedere, e quella odiata che non risponde ai suoi bisogni (il “seno cattivo”) e che si vorrebbe distruggere. Successivamente, il bambino impara a riunificare le due parti in un “oggetto intero” e, volendolo avere tutto per sè, diviene geloso. Secondo Klein e Riviere (1969), la gelosia è collegata al bisogno di accumulare prove e rassicurazione d’amore contro il vuoto interno e gli impulsi distruttivi.

La gelosia sembrerebbe collegata anche al processo che la Mahler (1978) descrive come differenziazione dalla madre: il bambino attraversa 4 fasi per arrivare alla separazione e individuazione che gli consentono di percepire la sua indipendenza come individuo. L’ultima fase, la “costanza dell’oggetto” (intorno ai 3 anni), è quella grazie a cui il bambino si sente veramente separato dalla madre perchè ha di lei una rappresentazione stabile e interna che gli permette di sopportarne la lontananza. La gelosia quindi potrebbe essere letta come un mancato raggiungimento di questo quarto stadio, che consentirebbe di acquisire la percezione della “costanza” dell’oggetto d’amore dentro di sè (quindi la consapevolezza che il caregiver esiste e tornerà, anche se al momento può essere assente fisicamente). La persona gelosa si sente infatti in pericolo se l’oggetto del desiderio è lontano e non controllabile.

Diversi studi (Buunk, B.P., 1997; Kirkpatrick D.J. e L.A., 1997) confermano che la gelosia dell’adulto è correlata a un attaccamento insicuro nell’infanzia. Tale costrutto (Bowlby, 1989) si riferisce a bambini che non hanno avuto un attaccamento sicuro con la figura di accudimento, ovvero sentivano che i loro bisogni non erano del tutto considerati o soddisfatti. Questo comporta che il bambino diverrà un adulto costantemente preoccupato dall’idea di non essere importante o di subire un abbandono. Questo perchè questo adulto non è in grado di separarsi da ciò di cui ha ancora bisogno, ovvero dell’accettazione incondizionata che non ha mai sperimentato.

Paola talvolta sembra una bambina che ha paura che il suo adorato giocattolo le venga rubato da un momento all’altro da un bambino prepotente. Andando alle origini della sua storia, emerge un forte vissuto di rivalità verso il fratello, Ruggero, ai suoi occhi il “preferito” di entrambi i genitori. Di 5 anni più grande, sembra essere stato un bambino particolarmente brillante (molto bravo e popolare a scuola) e parecchio rinforzato e ammirato dai genitori. Paola descrive Ruggero come “un uomo di successo a cui non manca nulla”: lavora in banca ricoprendo un ruolo di grande responsabilità, colleziona macchine sportive e proprietà immobiliari. Tendenzialmente non ha relazioni stabili ma frequentazioni saltuarie e leggere. Servendoci anche dell’EMDR, lo strumento psicoterapico che favorisce l’elaborazione di eventi dolorosi attraverso la stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali, rintracciamo una serie di eventi del passato di Paola che sembrerebbero aver avuto forti ripercussioni sulla sua crescita e dunque sul suo presente.

In particolare un ricordo mi colpisce: ha 8 anni, i suoi genitori devono accompagnarla a una festa pomeridiana con i compagni. Paola, felice di essere stata invitata, si addormenta dopo pranzo e, quando si sveglia, ormai è tardi: la festa è finita. I suoi avevano dimenticato di accompagnarla perchè erano troppo coinvolti da uno spettacolino che aveva improvvisato Ruggero, allora di 13 anni. La cognizione negativa che Paola associa a tale protocollo EMDR è “io non sono abbastanza”. L’immagine che mi arriva dritta al cuore è quella di una bambina non vista.

Dalla sua storia emerge anche una forte conflittualità col padre. Quello che inizialmente mi descrive come un “cattivo rapporto” si rivelerà nel corso della terapia un grande amore che non ha mai sentito ricambiato e che ha sepolto sotto chili di rabbia e dietro un apparente “buon rapporto” con la madre. Ma il vero oggetto d’amore conteso (soprattutto col fratello) mi appare sempre più lui, il papà.

Con Paola lavoriamo sul vissuto di inadeguatezza e sul darsi valore, quello che non ha sentito riconosciuto dai suoi genitori (in un quadro più ampio di attaccamento insicuro). Per vivere la vita che vuole, non quella che si è ritagliata rassegnandosi alla presunta inferiorità nei confronti del fratello. Valutando anche che, forse, quella del fratello non è neppure la vita che Paola vorrebbe. Lavorando su questo, durante una seduta mi dirà: “ho passato così tanto tempo a odiare mio fratello, a sognare di essere come lui e di avere quello che ha lui, che non mi ero mai chiesta se veramente il suo modo di essere e di fare mi piace”.  Il modo di vedere Riccardo cambierà e riuscirà a sentirlo come una persona che ha eccessivamente subìto pressioni e proiezioni dei genitori, probabilmente non vivendo nemmeno lui la vita che voleva. Questo porterà a un loro lieve avvicinamento.

Durante la terapia lavoriamo sulla sopracitata “costanza dell’oggetto”, ovvero sul percepire l’Altro come oggetto separato da sé, all’interno di una relazione che rimane integra anche quando la persona è lontana. Per abbandonare la scissione in “parte buona” (che soddisfa il bisogno di conferme) e “parte cattiva” (che non risponde immediatamente o frustra i bisogni di gratificazione) e abbracciare l'”intero”.

Sciogliendo nodo dopo nodo, Paola sarà sempre più libera dalle ansie che lei investiva sul compagno, ma che in realtà riguardavano lei, il suo mondo interno e il suo modo di vivere la relazione. Tanto che, a un certo punto, si licenzia dallo studio di commercialisti (branca probabilmente scelta per assomigliare un po’ al fratello) e diventa educatrice cinofila: un lavoro che la appassiona. Paola finalmente si sente adeguata, rispetto al suo lavoro e non solo. L’ansia dirottata sul compagno, i suoi sospetti irrazionali e la sua fame insaziabile di conferme sono notevolmente diminuiti, con conseguente miglioramento della relazione con Massimo. Ad oggi la vedo per un follow up ogni 1-2 mesi attraverso sedute di terapia online (via Skype).

Una delle sessioni di ipnosi fatte insieme che più restituisce il senso del nostro intenso e soddisfacente lavoro nel riparare ai suoi “buchi di identità” è quella in cui Paola ha immaginato di trovarsi nella sua cameretta da bambina (nella casa in campagna): pettinava una bambola e le cuciva un vestitino grazioso togliendole i vestiti vecchi che indossava. Nel corso di questa fantasia guidata, ha immaginato la bambola così felice da prendere vita e partire, uscendo dalla porta di casa per addentrarsi libera e spensierata nella bellissima campagna intorno alla casa.

Anche Paola adesso è libera e lontane mi suonano le parole di disperazione con cui si confrontava con le sue presunte “rivali” in amore. Parole che mi ricordano i versi tristi e potenti di Anne Sexton (nella poesia Al mio amante che torna da sua moglie), che meravigliosamente esprimono il dramma della gelosia e del paragone, del sentirsi fragili e invisibili.

Lei è così nuda, è unica.
È la somma di te e dei tuoi sogni.
Lei è solida.
Quanto a me, io sono un acquerello.
Mi dissolvo.

 

“Developmental technologies – Evoluzione tecnologica e sviluppo umano” di Elvis Mazzoni e Martina Benvenuti – Recensione del libro

Realtà virtuale, robotica, intelligenza artificiale: non dovremmo più interrogarci su rischi o opportunità delle nuove tecnologie ma finalmente considerarle alleate. Con la lente della psicologia (con particolare riferimento agli ambiti dello sviluppo e dell’educazione), il libro Developmental technologies – Evoluzione tecnologica e sviluppo umano ci aiuta a guardare in modo consapevole ai loro effetti e potenzialità.

Essere onlife

Viviamo costantemente immersi nella tecnologia, ce ne serviamo ogni giorno per molteplici attività e non potremmo più fare altrimenti. Più che online, potremmo definirci onlife poiché esperienza online e offline sono integrate e non nettamente distinte. Guardare lo smartphone è la prima cosa che facciamo al mattino e l’ultima la sera; nel mezzo, c’è una giornata in cui computer, tablet, smartwatch, assistenti digitali ci hanno supportato in molte attività. Ha senso ragionare ancora in termini netti, distinguendo rischi e opportunità? Forse no, ormai siamo già alla seconda generazione di nativi digitali, adulti di domani che sono nati circondati da device. Sarebbe allora più opportuno fare dei distinguo su come le tecnologie vengono utilizzate perché è il come che determina l’esito, positivo o negativo che sia: l’utilizzo funzionale o disfunzionale è strettamente collegato a compito e tipologia di sfida/cambiamento che un individuo si trova ad affrontare lungo il ciclo di vita.

Effetti e potenzialità: apprendimento e cambiamenti

Due sono i possibili effetti delle tecnologie: da un lato un potenziamento delle capacità, dall’altro un potenziale restringimento dato dal fatto che ogni artefatto, essendo caratterizzato da specifiche modalità di utilizzo, ne circoscrive le modalità di uso. Possiamo però parlare anche di apprendimento espansivo, quando un ventaglio nuovo di opportunità deriva da una riconcettualizzazione di un oggetto e delle motivazioni iniziali che ne hanno portato la creazione; senza contare tutti i processi cognitivi implicati nell’elaborazione e memorizzazione delle informazioni, col continuo spostamento dell’attenzione su più stimoli e sorgenti di informazione differenti (si parla di interaction overload, il carico di interazioni in cui siamo contemporaneamente coinvolti). Come sostenuto dai grandi classici Vygotskij e Piaget, l’apprendimento è qualcosa di dinamico che avviene tramite dei continui aggiustamenti. Analogamente alla zona di sviluppo prossimale, gli artefatti rappresentano estensioni fisiche e/o mentali del corpo e delle abilità umane, che in alcuni casi rappresentano una continuità con strumenti già esistenti (assimilazione) mentre in altri casi sono un punto di rottura e implicano attività inedite (accomodamento). Per esempio, l’avvento del cellulare ha rappresentato una evoluzione di alcune caratteristiche di uno strumento già presente e il cui uso era radicato da molti anni, mentre per altri strumenti, come la stampa, l’uomo si è trovato a fronteggiare cambiamenti del tutto inediti.

Tecnologia, alleata e partner

Il rapporto ancora controverso con la tecnologia si deve in parte anche a timori e paure difficili da estirpare. Quelli più in là con gli anni sono preoccupati di essere tagliati fuori se non si tengono aggiornati, viceversa i più giovani temono che molti lavori verranno rimpiazzati da macchine sempre più raffinate. Per questo si parla di knowledge economy, l’economia della conoscenza, perché i paesi più sviluppati richiedono sempre più competenze meno operative e più concettuali, che richiedono maggiori livelli di istruzione e formazione. Ma se ci fermiamo a riflettere, comprendiamo quanto la tecnologia sia una risorsa e un aiuto. Senza escludere utilizzi negativi (basti pensare a fake news, phubbing, flaming, tra i fenomeni più studiati), i campi in cui le tecnologie vengono applicate con successo sono molteplici: intrattenimento e svago, terapia e supporto, educazione e formazione, analisi di dati.

Questo libro ci aiuta a rispondere ad alcune domande con riferimenti alla letteratura e con esempi concreti, ricordandoci che la tecnologia non è un nemico ma un nostro partner. Con particolare attenzione al ruolo di affordance nei processi di acquisizione e ampliamento di nuove competenze, il testo approfondisce e offre spunti di riflessione su aspetti funzionali e disfunzionali e sul ruolo dell’evoluzione tecnologica.

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