Saying yes: il consenso sessuale si esplicita attraverso la comunicazione verbale della propria volontà
Il presente studio (Righi, Bogen, & Kuo, 2019) vuole indagare come un campione di 33 adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni definisce il concetto di consenso sessuale, con lo scopo di incentivare l’educazione sessuale e prevenire le violenze sessuali.
L’età adolescenziale può essere definita come il periodo durante il quale si forma l’identità individuale, grazie all’insieme delle relazioni interpersonali e delle esperienze vissute in questo momento cruciale dello sviluppo. È in questa fase che l’adolescente aumenta la consapevolezza riguardo i cambiamenti del proprio corpo ed esplora per la prima volta la sessualità all’interno della coppia (Miller, 2017). I Centers for Disease Control and Prevention (CDC, 2016) riportano infatti che il 30% degli adolescenti statunitensi afferma di aver avuto un rapporto sessuale con almeno un partner negli ultimi 3 mesi e Fortenberry e colleghi (2010) rilevano che a partire dall’età di 17 anni il 50% dei maschi e il 40% delle femmine ha una vita sessuale attiva. Tuttavia è necessario considerare che l’inizio dell’attività sessuale in adolescenza è spesso associato ad un aumento del rischio di subire violenze sessuali (Williams et al, 2014) ed a tal proposito il National Survey of Family Growth dichiara che, tra il 2006 ed il 2010, l’11% dei giovani adulti ha avuto un primo rapporto non consenziente avvenuto prima dei 20 anni (Martinez, Copen, & Abma, 2011).
Sebbene infatti Hickman e Muehlenhard (1999) ritengano che il consenso venga espresso come “la libera comunicazione verbale o non verbale di un sentimento di volontà di impegnarsi in attività sessuale”, Jozkowski (2015) limita questo concetto sottolineando che si possa definire tale solo l’esplicitazione verbale della volontà di impegnarsi in un’attività sessuale, ma essendoci vari punti di vista e mancando indicazioni chiare e universali, il consenso viene molto spesso subordinato al riconoscimento e comprensione dell’insieme dei segnali verbali e non verbali ricevuti dall’altra persona e ciò comporta un aumento degli errori commessi riguardo l’interpretazione delle intenzioni del partner.
A partire da queste premesse il presente studio (Righi, Bogen, & Kuo, 2019) vuole indagare come un campione di 33 adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni definisce il concetto di consenso, con lo scopo di incentivare l’educazione sessuale e prevenire le violenze sessuali. Dopo aver aderito allo studio e conosciuto nel dettaglio la struttura e gli obiettivi dello stesso, sono state condotte delle interviste semistrutturate mirate ad esplorare la percezione che i ragazzi hanno degli appuntamenti e del comportamento sessuale.
I risultati hanno mostrato che gli adolescenti concordano nell’affermare che il consenso si esprima attraverso la comunicazione verbale dello stesso (dicendo sì), ma che nelle situazioni di vita reale essi non aspettino che l’altra persona espliciti la propria volontà, ma si basino prevalentemente sull’interpretazione dei segnali non verbali, come il silenzio, lo scambio di sguardi, o l’atto di togliersi i vestiti. È stato altresì rilevato che le femmine devono esprimere il proprio consenso in misura maggiore rispetto ai maschi, in quanto questi ultimi solitamente svolgono il ruolo di iniziatori dell’atto sessuale e reputano la mancanza di un “no” esplicito come segnale che la partner è consenziente. Inoltre, è stato trovato che entrambi i sessi concordano nel ritenere che non sia necessario ottenere il consenso se ci sono stati precedenti rapporti sessuali, anche se ciò comporta andare contro la volontà del momento.
In conclusione, possiamo dire che quanto rilevato da questa indagine aiuta a comprendere i dati sulle violenze sessuali e sollecita un urgente bisogno di attenzione all’educazione sessuale in una fase di vita particolarmente delicata, in quanto è in questo periodo che si forma l’identità individuale e l’insieme dei valori che il soggetto utilizza come guida per la percezione di sé stesso e degli altri. Le attività che quindi dovrebbero essere incentivate in ambiente scolastico comprendono: la normalizzazione della discussione sul consenso sessuale e l’utilizzo di strumenti come il role-playing per migliorare la comunicazione all’interno della relazione amorosa, in modo da aumentare la capacità di riconoscere i bisogni e le intenzioni del partner, oltre a quella di esprimere in modo assertivo le proprie decisioni in un contesto sessuale (Beres, 2010).
Il narcisismo, dalle sue origini nell’attaccamento alla relazione col partner
Se è vero che il narcisista basta a sé stesso, se è già così grandioso e soddisfatto, che bisogno ha di trovare un partner? E quando l’ha trovato, che bisogno ha di avere altre relazioni? Un compagno o una compagna non sono sufficienti? Da dove può nascere questo bisogno di relazioni parallele, di continue conferme da parte di altri?
Francesca Bianco e Alba Miragliuolo – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena
Specchio specchio delle mie brame, chi è il più bello del reame?
Quante volte abbiamo sentito, letto e riletto questa frase? Possiamo definirla il biglietto da visita del narcisista, che non stenterebbe a rispondere a questa domanda con: “Ma sono io, ovviamente!”, perché lo specchio riflette semplicemente quella che è un’immagine grandiosa della quale non si può non essere innamorati.
Detto questo sembra quasi spontanea una riflessione. Se è vero che il narciso basta a sé stesso, se è già così grandioso e soddisfatto, che bisogno ha di trovare un partner? E quando l’ha trovato, che bisogno ha di avere altre relazioni? Un compagno o una compagna non sono sufficienti? Da dove può nascere questo bisogno di relazioni parallele, di continue conferme da parte di altri?
Questo articolo nasce nel tentativo di capire il comportamento delle persone narcisiste nelle relazioni sentimentali, con l’intento di carpire come si sviluppa il tratto narcisistico già nelle relazioni con le figure di attaccamento.
Lo sviluppo del narcisismo nell’infanzia
Nella mitologia, Narciso è un uomo bello e perdutamente innamorato del proprio riflesso nell’acqua. Talmente incapace di smettere di guardare il proprio riflesso, da annegare nel fiume. La descrizione di Narciso è l’emblema di ciò che in psicologia viene definito tratto di personalità narcisistica. Le persone narcisiste si distinguono per l’idea grandiosa che hanno di loro stesse, si sentono superiori agli altri, costruiscono fantasie sui propri successi personali, quasi sempre attribuiti a loro stessi e raramente a cause o persone esterne, e ritengono di meritare un trattamento speciale. Conseguentemente, quando sperimentano sentimenti di umiliazione o di critica, ossia in netto contrasto con l’idea che hanno di loro stessi, spesso reagiscono in modo aggressivo. Accettare l’idea che qualcuno possa svalutare la loro persona è talmente doloroso da scatenare una rabbia reattiva in cui è centrale il bisogno di far sentir l’altro allo stesso modo, come se non ci si potesse permettere di pensar male di qualcuno così tanto grandioso e speciale. Il narcisista è anche tradizionalmente carente di empatia nei confronti del prossimo, fattore che contribuisce ad alimentare una modalità di relazione non curante delle emozioni dell’altro.
Ma quali sono le origini di questa personalità tanto complessa quanto affascinante?
L’origine del narcisismo è ad oggi argomento poco chiaro e gli studi condotti sino ad ora non hanno consentito, per la loro natura trasversale, di identificare i precursori dello sviluppo di questo tratto di personalità. La letteratura evidenzia, tra i fattori scatenanti lo sviluppo del narcisismo, i primi contesti relazionali in cui il bambino si sperimenta e, in modo più specifico, lo stile educativo che i genitori adottano su di lui. A tal proposito sono interessanti i risultati di uno dei pochi studi longitudinali condotto da Brummelman e coll. (2015) in cui vengono messi a confronto due modelli teorici antitetici sullo sviluppo del narcisismo nei bambini: la teoria dell’apprendimento sociale, secondo cui il bambino svilupperebbe tratti narcisisti poichè è esposto a un’educazione genitoriale basata sull’ipervalutazione, “mio figlio è più speciale degli altri”. Di conseguenza il bambino può sviluppare la credenza di essere davvero più speciale e si sente autorizzato a ottenere privilegi. La teoria psicoanalitica, al contrario, sostiene che il narcisismo derivi da un’educazione genitoriale caratterizzata da una scarsa manifestazione affettiva, una ridotta espressione di apprezzamento, di supporto e di emozioni positive. Di conseguenza il bambino si porrebbe “su un piedistallo” nel tentativo di ottenere dagli altri l’approvazione che non ha ricevuto dai propri genitori. La ricerca di Brummelman e colleghi (2015) ha coinvolto bambini dai 7 ai 12 anni, periodo in cui emergono le prime differenze individuali dei tratti narcisisti e i loro genitori. A tutti i partecipanti è stato chiesto di compilare un questionario ogni 6 mesi per valutare nei bambini i tratti narcisistici e il calore genitoriale percepito e nei genitori l’ipervalutazione e l’affetto genitoriale (“permetto che mio figlio sappia che gli voglio bene”) .
I risultati di questo studio hanno supportato la teoria dell’apprendimento sociale: il narcisismo è correlato a una sopravvalutazione genitoriale e non a una mancanza di affettività e apprezzamento parentale. Questi risultati avvalorano la prospettiva secondo cui il bambino vede se stesso nel modo in cui crede di essere visto dalle persone a lui significative, come se imparassero a vedersi “attraverso gli occhi degli altri”. Quando i bambini sono visti dai genitori come speciali e diversi dagli altri possono acquisire l’idea di essere persone superiori, tema centrale del narcisismo. È da sottolineare che la sopravvalutazione genitoriale non rappresenta l’unica variabile in gioco nell’origine del narcisismo. Difatti entrano in gioco altri aspetti come ad esempio i tratti del temperamento: essendo il narcisismo in parte ereditabile, così come per altri tratti di personalità (Vernon PA e coll., 2008), alcuni bambini con specifici tratti geneticamente acquisiti potrebbero essere più vulnerabili rispetto ad altri a sviluppare tratti narcisistici quando esposti a una ipervalutazione genitoriale. Questi risultati potrebbero contribuire allo sviluppo di interventi volti a prevenire o a ridurre lo sviluppo del narcisismo.
Il narcisista nelle relazioni interpersonali: il ruolo di “vittima”
Dunque i tratti di personalità narcisistica sono presenti già dall’infanzia, ma è nell’età adulta, e soprattutto all’interno delle relazioni interpersonali e di coppia, che non passano inosservati, soprattutto agli occhi del partner. Ma il narcisista come vive il mondo interpersonale? E come si comporta nelle relazioni conflittuali? È il modello dell’autoregolazione di Rhodewalt and Morf (Morf & Rhodewalt, 2001;Rhodewalt, 2001) a fornirci una prospettiva sui correlati interpersonali del narcisismo. Gli autori sostengono che il sé narcisistico è caratterizzato da tre nuclei: consapevolezza di sé, processi di valutazione del sé e processi di autoregolazione. Ciò che accomuna le tre caratteristiche del sé narcisistico è il fulcro motivazionale: il desiderio di mantenere una immagine di sé grandiosa e positiva. Questa necessità di instaurare e mantenere una elevata immagine di sé potrebbe influenzare il modo in cui il narcisista si approccia alle relazioni con gli altri e risolve eventuali situazioni interpersonali negative.
Uno studio condotto da McCullough e coll. (2016) ha evidenziato come, nelle relazioni conflittuali interpersonali, il narcisista tenda a porsi nel ruolo di “vittima” di comportamenti sbagliati da parte degli altri. Coerentemente con il modello di Rhodewalt and Morf (Morf & Rhodewalt, 2001;Rhodewalt, 2001), il narcisista si descriverebbe come “vittima” proprio per preservare l’immagine di sé: ad esempio potrebbe raccontare le proprie esperienze passate come molto dolorose per enfatizzare i traguardi raggiunti, o potrebbe raccontare esperienze in cui non ha ottenuto dei risultati a causa degli altri (“sebbene le persone mi abbiano ferito in passato, ho raggiunto il mio obiettivo contro ogni previsione”). Di conseguenza, descriversi come vittima può essere un valido motivo per giustificare i propri privilegi e “manipolare” gli altri per i propri scopi, come forma di riscatto personale. Così come, nella sfera sentimentale, potrebbe distorcere i propri ricordi sulle precedenti relazioni con il partner dopo aver sperimentato una delusione amorosa.
Ma perché i narcisisti tendono ad assumere questo ruolo nelle dinamiche interpersonali? Secondo McCullough e colleghi (2016), è possibile che proprio per mantenere una grandiosa immagine di sé, il narcisista sia più propenso a prestare particolare attenzione alle situazioni interpersonali negative che possano danneggiarlo. Di conseguenza, il narcisista diverrebbe più sospettoso e interpreterebbe il proprio mondo interpersonale in chiave ostile (Rhodewalt e Morf, 1995). Questa particolare sensibilità agli eventi negativi potrebbe manifestarsi nel modo in cui il narcisista si aspetta di essere trattato dagli altri. Ad esempio, le persone narcisiste potrebbero concepire alcuni comportamenti come indecorosi (come ad esempio non porgere un complimento a qualcuno, non ringraziare), quando per la maggior parte delle persone questi stessi comportamenti possono essere semplici sbagli innocenti. L’aspetto centrale del narcisista di “sentirsi in diritto” lo porterebbe ad aspettarsi così tanta ammirazione e rispetto da sentirsi costantemente deluso e offeso.
Un’altra possibile spiegazione degli autori è che il narcisista sarebbe effettivamente la vittima nelle situazioni interpersonali negative proprio perché, a causa del suo sentirsi in diritto di sfruttare gli altri, porterebbe a trascurare il suo mondo interpersonale, stimolando gli altri a reagire in modo negativo verso di lui.
Narcisismo e infedeltà nelle relazioni di coppia
Ad oggi, quindi, numerose ricerche hanno evidenziato come i tratti narcisistici influenzino negativamente il mondo relazionale in generale, e nello specifico l’andamento di un rapporto amoroso. Non a caso l’infedeltà corrisponde a una sempre minor soddisfazione coniugale in entrambi i partner coinvolti, è una delle più comuni cause di divorzio, può compromettere la stima di sé e aumentare lo stress psicologico (McNulty & Widman, 2014). Eppure, sorprendentemente, gli studi che hanno cercato di dimostrare la relazione esistente tra narcisismo ed infedeltà, hanno mostrato risultati inconsistenti, o comunque non significativi per poter affermare con certezza che un narcisista è spesso infedele al partner.
Secondo alcuni dati, l’infedeltà è più comune di quanto possiamo pensare. Si stima che più del 25% di uomini sposati e il 20% delle mogli incorrano in relazioni extra-coniugali nel corso delle loro storie (McNulty & Widman, 2014). Si tratta solo di persone con disturbo narcisistico o può esserci qualcosa di più?
Nonostante la ricerca non lo possa confermare, ci sono molteplici ragioni per pensare che narcisismo e tradimento siano altamente correlati. Il narcisista doc infatti, è naturalmente orientato alla sessualità, non importa che sia rivolta solo ed esclusivamente al proprio partner. Anzi, se così fosse, non riceverebbe abbastanza conferme sul suo valore.
Quindi un amante non basta? Spesso no. E’ come un’equazione matematica. Come evidenziato da Sassaroli e Lorenzini (2015), se un amante serve per gonfiare ancora di più il mio ego, perché non eccedere? Avere uno o più amanti, per il narciso, è una conferma ulteriore della sua grandezza, del fatto che può avere tutti i partner che desidera, accresce la sua già elevata autostima. Perciò più sono meglio è e, soprattutto, più persone lo sanno meglio è. Non sorprenderebbe se fosse proprio lui, l’infedele narciso, a raccontare in giro le sue avventure amorose: tutti devono sapere quanto vale!
Ma se tutti lo sanno, anche il marito o la moglie ne saranno a conoscenza? Molto probabilmente sì, ma questo non è certo un problema. Il partner non viene scelto casualmente. Spesso si tratta di persone bisognose di protezione, che non lascerebbero mai un marito o moglie così tanto grandioso/a. E questo il narcisista lo sa. Sa che il partner non lo lascerebbe mai, che accetterebbe anche “qualche” scappatella, se il prezzo da pagare è poter avere l’uomo, o la donna, dei propri sogni. Su questo il narciso fa leva, proprio perché il fatto di poter essere un buon consorte e contemporaneamente un amante eccezionale per più persone è un arricchimento per lui, la dimostrazione che può gestire e avere tutto ciò che vuole e sempre in misura maggiore.
Viene spontaneo pensare: ma un po’ di senso di colpa? E perché dovrebbe? Dal suo punto di vista, lui al partner non fa mancare nulla (Sassaroli, Lorenzini, 2015). Questo potrebbe essere correlato ai bassi livelli di empatia che caratterizzano il narcisista, come riportato da diversi studi (McNulty & Widman, 2014).
Una ricerca recente (Tortoriello & Hart, 2018) mostra come anche il narciso provi sentimenti di gelosia, oltre che a suscitarla nel partner. Come mai, dal momento che è sicuro che il coniuge non lo lascerà mai? Tale studio ha considerato due tipologie di narcisismo: uno grandioso e uno vulnerabile. Tale differenziazione è risultata fondamentale poiché, pur avendo lo stesso fondamento, queste due “facce” dello stesso disturbo sono diverse sotto più aspetti. Mentre il narcisista cosiddetto vulnerabile presenta un’elevata sensibilità alla gelosia, sia dal punto di vista cognitivo che emotivo, lo stesso non è stato confermato per il sottotipo grandioso. A seguito di un tradimento, il vulnerabile esperisce un’immagine di sé distruttiva, prova emozioni negative, al contrario del grandioso che non sembra essere sensibile a gelosie o a minacce al proprio rapporto. Anzi, la ricerca sembra confermare che una possibile minaccia di tradimento da parte del partner funga da reminder della propria grandiosità: una eventuale minaccia esterna al proprio legame, infatti, potrebbe suscitare in lui la preoccupazione di non essere “unico, speciale e insostituibile” e da qui nascerebbe la necessità di ristabilire l’immagine di potere e dominanza (Tortoriello & Hart, 2018).
Il risultato interessante di questo studio evidenzia che forse non si può parlare di narcisismo in senso lato, ma che la chiave per poter esplorare meglio il suo rapporto con il matrimonio, la fedeltà, forse risiede nelle diverse sfaccettature che tale disturbo presenta. Allo stesso modo, come riportato precedentemente, nessun altro studio è riuscito a dimostrare una diretta connessione tra narcisismo e infedeltà. Rispetto a questo, Widman e McNulty (2010), nell’intento di trovare una correlazione tra questi fattori, preferiscono parlare non di narcisismo in senso globale, ma piuttosto di narcisismo sessuale, un aspetto preciso che concerne il voler sfruttare il partner per scopi sessuali, data la convinzione di avere grandiose doti in tale ambito. Questo aspetto dunque, è prettamente legato alla sfera sessuale, di conseguenza non necessariamente deve essere comune a chiunque presenti tratti di personalità narcisistica. Concentrandosi su questo particolare, i due autori hanno condotto due studi su 123 coppie sposate per verificare una specifica relazione tra infedeltà e narcisismo sessuale. A tal scopo hanno sviluppato uno strumento che ha permesso di differenziare quattro aspetti del narcisismo dal punto di vista sessuale, the Sexual Narcissism Scale (SNS). I quattro aspetti considerati sono: sexual entitlement (diritto sessuale, nel senso che il sesso è una cosa dovuta) sexual exploitation (sfruttamento sessuale), low sexual empathy (bassa empatia sessuale), inflated sense of sexual skills (esagerata stima delle abilità sessuali).
I risultati mostrano che tre delle quattro componenti esaminate potrebbero avere un importante ruolo nel tradimento verso il proprio partner. Lo “sfruttamento sessuale” (sexual exploitation) correla solo parzialmente in maniera positiva con l’infedeltà in entrambi gli studi. Al contrario, gli altri tre aspetti esaminati correlano positivamente ed in modo statisticamente significativo con l’infedeltà. Il diritto sessuale (sexual entitlement) e le abilità sessuali (inflated sense of sexual skills) correlano positivamente con l’infedeltà, indicando che i coniugi di partner esigenti verso la sessualità e con un’eccessiva stima delle proprie abilità sessuali hanno più probabilità di incorrere in un tradimento nel corso del matrimonio. La mancanza di empatia sessuale correla invece negativamente con l’infedeltà in uno dei due studi (solo tra le mogli, gli uomini correlano positivamente in entrambi). Questo dato, in qualche modo sorprendente, indica che chi è sposato con un partner che manca di empatia sessuale è meno portato al tradimento. Non risulta chiaro se può essere questo il fattore rilevante o se questi partner siano poco propensi al tradimento di per sè. Studi futuri potrebbero occuparsi di approfondire questa relazione. Ad ogni modo, tutte le correlazioni significative riscontrate con l’infedeltà riguardano un tratto prettamente sessuale, ma non generale.
Sulla base dei risultati ottenuti dunque, emerge che il narcisismo non è sinonimo di infedeltà: i due autori (2013) suggeriscono che forse esiste un legame tra infedeltà e un tratto del narcisismo prettamente sessuale (sexual narcisism), piuttosto che il narcisismo in senso globale, e che le motivazioni che conducono a tradire il proprio partner siano legate ad una sfera sessuale più che interpersonale. Quest’associazione tra narcisismo sessuale e infedeltà può essere utile nell’identificare i fattori di rischio per il tradimento ed agire preventivamente. Considerando i risultati dello studio sopra citato, rendere più consapevoli i partner di quanto siano esigenti verso la sessualità o incrementare i livelli di empatia sessuale potrebbe abbassare la probabilità di commettere tradimento all’interno della coppia.
Tutto quanto detto fino ad ora porta alla conclusione che forse il punto in questione non è “sono un narcisista e quindi tradisco”, ma che non tutte le persone con disturbo narcisistico di personalità sono infedeli in egual misura. Bisognerebbe prendere in considerazione le sfaccettature del disturbo, che probabilmente giocano un ruolo diverso nell’approccio alle relazioni coniugali ed extra-coniugali. E i partner? Chi ci può dire che anche i partner non siano a loro volta infedeli e che l’infedeltà del narcisista non sia riconducibile ad altri motivi che non siano confermare la sua immagine grandiosa?
Ad oggi sono ancora poche le ricerche che si sono occupate di questo specifico ambito e tanti sono ancora i dubbi riguardo al possibile legame tra narcisismo e infedeltà. Rispetto a ciò, studi futuri potrebbero indagare questi aspetti considerando le varie sfaccettature del narcisismo, per poter meglio indagare i processi coinvolti, con lo scopo di intervenire preventivamente e contribuire al benessere coniugale.
Empatia nelle professioni sanitarie: punto di forza rischioso?
La crisi sanitaria cui stiamo assistendo oggigiorno, a causa dell’emergenza covid-19, ha inciso enormemente sul carico di lavoro degli operatori sanitari, sulla loro stanchezza fisica e sul loro benessere psicologico aumentando in maniera esponenziale i rischi dello sviluppo di sindromi da burnout.
Morelli Elisabetta e Poli Eleonora – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre
Le professioni in ambito sanitario sono caratterizzate, più di altre, da un costante coinvolgimento interpersonale e da un contatto con la sofferenza umana. Medici e infermieri, con un lavoro di squadra multidisciplinare, si confrontano quotidianamente con pazienti che rischiano la vita (Yoguero et al., 2017). La partecipazione emotiva è inevitabile e, se essa può arrecare soddisfazione e senso di efficacia personale, è per alcuni fonte di forte stress e rischio di burnout.
È dimostrato come un elemento chiave per la buona riuscita del trattamento del paziente sia l’empatia manifestata dalla figura curante (Walocha, Tomasewski, Wilczek-ruzyczka & Walocha, 2013). Essa aumenta la compliance del paziente e la sua fiducia nella terapia, migliora la prognosi di malattia e la soddisfazione della persona in cura e riduce il numero di azioni legali nei confronti del medico (Decety, Smith, Norman & Halpern, 2014; Fulop, Devecsery, Hausz, Kovacs & Csabai, 2011). I pazienti tendono inoltre a raccomandare il medico se esso è riconosciuto come empatico (Zenasni, Boujut, Woerner & Sultan, 2012).
Insomma è ormai chiaro che l’empatia nelle professioni sanitarie rappresenta un importante elemento che, associato a migliori competenze cliniche ed efficacia nella cura, produce un effetto positivo sulla qualità di vita dei pazienti così come del medico curante che valuta la relazione con i pazienti come fonte di maggiore soddisfazione personale.
Tuttavia l’empatia, pur essendo un punto di forza, può talvolta diventare rischiosa specie in ambiente sanitario in cui si ha a che fare con le situazioni più emotivamente angoscianti: malattia, morte e sofferenza in ogni forma. Questa dolorosa realtà può mettere a dura prova i professionisti sanitari portando a stanchezza da compassione, esaurimento, stress professionale e tutto ciò può tradursi in un basso senso di realizzazione e grave esaurimento emotivo.
Che cos’è, di preciso, l’empatia? In letteratura esistono diverse definizioni di empatia. Singer (2006), per esempio, definisce l’empatia in questo modo: empatizziamo con gli altri quando vi è uno stato affettivo il quale è isomorfo allo stato affettivo di un’altra persona, il quale è stato suscitato osservando o immaginando uno stato emotivo di un’altra persona e quando sappiamo che lo stato affettivo dell’altra persona è la fonte del nostro stato affettivo. In altre parole, l’empatia è l’abilità di vedere il mondo come lo vedono gli altri, essere non giudicanti, comprendere i sentimenti altrui mantenendoli però distinti dai propri. Si tratta di un costrutto multidimensionale caratterizzato da due componenti principali: empatia emozionale ed empatia cognitiva. L’empatia emozionale, detta anche contagio emotivo, è una risposta automatica che ci porta a provare la stessa emozione provata dalla persona che sta dinanzi a noi. L’empatia cognitiva, più sofisticata, consiste nella capacità di comprendere gli stati interni delle altre persone ed assumere il loro punto di vista. Si tratta di un processo intenzionale che coinvolge risorse esecutive e capacità di autoregolazione delle emozioni provate. Entrambe le forme sono necessarie poiché una persona potrebbe comprendere bene cosa pensa e prova l’altro, senza però “sentire” le emozioni dell’altro e averne compassione, oppure una persona può essere contagiata e travolta dalle emozioni degli altri, senza comprendere cosa avviene e distinguere i propri contenuti mentali da quelli dell’altro.
Dunque empatia è sinonimo di qualità della cura e migliore outcome terapeutico. Ma quali sono le conseguenze a lungo termine di tale assetto empatico? Un forte coinvolgimento emotivo nei riguardi del paziente è di beneficio anche al medico stesso o può essere invece causa di stress, esaurimento emotivo, e portare potenzialmente a burnout? La crisi sanitaria cui stiamo assistendo oggigiorno, a causa dell’emergenza covid-19, ha inciso enormemente sul carico di lavoro degli operatori sanitari, sulla loro stanchezza fisica e sul loro benessere psicologico. La rapidità di diffusione dell’epidemia, la scarsità di risorse e di luoghi di cura attrezzati, la gestione di turni stressanti, la carenza di personale ed il continuo confronto con situazioni di estrema sofferenza hanno aumentato in maniera esponenziale i rischi dello sviluppo di sindromi da burnout.
Il burnout, definito “patologia della relazione di aiuto” (Galam, 2007), è uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale dovuto a un coinvolgimento, a lungo termine, in situazioni lavorative che sono ad alta richiestività emotiva. Questo stress occupazionale cronico ha implicazioni sia personali che interpersonali. Esso diminuisce l’interesse nel proprio lavoro e nel benessere del paziente, porta a minore comunicazione e ad una perdita di un’attitudine attiva verso il mondo esterno. Secondo il modello di Maslach, il burnout è definito da tre dimensioni tra loro interrelate: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e scarsa soddisfazione personale. L’esaurimento emotivo si manifesta con perdita di entusiasmo sul lavoro ed un sentirsi privi di aiuto, intrappolati e sconfitti. La persona può manifestare sintomi quali mal di testa, aggressività e irritabilità, isolamento, ansia e depressione, disturbi del sonno, fino alla possibilità di mettere in atto comportamenti a rischio. La depersonalizzazione si verifica quando la figura sanitaria diventa cinica ed inizia a trattare il paziente con indifferenza, lo oggettivizza e sviluppa un’attitudine negativa verso i suoi colleghi e la professione. Il senso di scarsa autoefficacia è caratterizzato dal ritiro dell’individuo dalle sue responsabilità, da un distacco dal lavoro e dalla tendenza ad adottare una concezione di sé negativa come conseguenza di situazioni prive di ricompense e gratificazioni personali (Ferri, Guerra, Marcheselli, Cunico & Di Lorenzo, 2015; Romani & Ashkar, 2014). Se le conseguenze del burnout sono notevoli sull’individuo, altrettanto lo sono quelle sull’ambiente di lavoro. Nel professionista viene meno la capacità di essere di aiuto all’altro, si riduce così la qualità della cura ed aumenta l’insoddisfazione del paziente. Inoltre ritardi sul lavoro, assenteismo e licenziamenti comportano elevati costi per l’azienda.
Burnout ed empatia sono strettamente legati ma in letteratura vi sono risultati contraddittori in merito alla natura di tale relazione. Ciò riflette la varietà di ipotesi che cercano di spiegare la relazione causale tra insorgenza del burnout ed empatia (Thirioux, Birault & Jaafari, 2016; Vévodová, Vévoda, Vetešníková, Kisvetrová & Chrastina, 2016). L’empatia può essere causa del burnout o al contrario potrebbe rappresentare un fattore protettivo? Secondo la teoria della compassione (Figley, 2002), il burnout sarebbe legato a un eccesso di empatia, che renderebbe più vulnerabili ai fattori stressanti insiti nella professione; al contrario, secondo la teoria della dissonanza emotiva (Bonino, 2006), il burnout sarebbe associato a scarse abilità empatiche riscontrate soprattutto in persone con tratti alessitimici (Gleichgerrcht & Decety, 2013), cioè che presentano difficoltà nell’identificare, differenziare e descrivere le proprie emozioni in associazione a rappresentazioni mentali impoverite degli stati emotivi propri e altrui.
A quale teoria dare credito? Chiarezza può essere fatta considerando le due componenti principali dell’empatia: quella emozionale e quella cognitiva. L’empatia emozionale agisce come un riflesso e ci fa provare involontariamente ciò che prova l’altra persona, la sua sofferenza e ciò può portare ad iperarousal e ad un elevato distress. Il malessere dei pazienti e il loro costante bisogno di attenzione e ascolto porteranno ad essere emotivamente esausti e ad avvertire uno stato estremo di tensione, preoccupazione e incapacità di distacco dai problemi dei pazienti. In questo caso, lo stato emotivo negativo provato farà mettere in atto un’azione allo scopo di ridurre il malessere avvertito e non quello dell’altra persona con conseguente incapacità di prestare cure compassionevoli e di compiere diagnosi efficaci. Questo elevato distress personale, accompagnato a un distacco dall’altro, al fine di proteggersi dalla sofferenza, esporrà a un elevato rischio di sindrome da burnout (Hunt, Denieffe & Gooney, 2017).
L’empatia cognitiva permette di rappresentarsi gli stati mentali del sé e dell’altro come entità distinte e di regolare le proprie emozioni nelle diverse situazioni. Una persona con buoni livelli di empatia cognitiva sarà in grado di identificare quali emozioni appartengano a chi, durante il coinvolgimento empatico, sarà capace di operare il giusto coinvolgimento interpersonale con il paziente pur proteggendo i propri confini emotivi (Hunt et al., 2017). Ecco che allora il medico, oltre che il paziente, trarrà beneficio e soddisfazione dall’interazione e dal rapporto di cura con una conseguente riduzione dei potenziali rischi di sviluppare burnout. La capacità di regolare le proprie emozioni è cruciale. Senza tale abilità un eccesso di empatia emozionale potrebbe essere deleterio per il benessere della figura sanitaria e portare a un’incapacità di essere effettivamente d’aiuto al paziente. L’empatia emozionale può essere utile solamente nel momento in cui è mediata in maniera adattiva dall’empatia cognitiva e dalla capacità di autoregolazione altrimenti, può diventare un pericolo. La letteratura ha dimostrato che la vulnerabilità al distress nelle professioni di cura è specificamente legata a deficit nella regolazione delle proprie emozioni negative (Decety et al., 2014). Medici che hanno difficoltà a descrivere, identificare e regolare le proprie emozioni sembrano essere più inclini a esaurimento emotivo, distacco e basso senso di realizzazione. Al contrario, la capacità di consapevolezza sé/altro e di regolare le proprie esperienze emotive sembra contribuire al senso di compassione che viene dall’assistenza ai pazienti nella pratica clinica (Gleichgerrcht & Decety, 2013).
Quindi, la condivisione emotiva con scarsa autoregolazione e ridotta capacità di assumere la prospettiva dell’altro può portare a disagio personale, che diminuisce la preoccupazione empatica e il comportamento pro-sociale. Al contrario, un’empatia funzionale è data da un buon equilibrio tra la dimensione emotiva e quella cognitiva. Essere eccessivamente empatici con il dolore altrui senza avere le capacità di regolare le proprie emozioni, finisce per generare la sindrome da empatia, nota anche come stanchezza da compassione. Charles Figley (2002) la definisce come uno stato di profonda stanchezza e incessante preoccupazione per aver aiutato persone che hanno attraversato situazioni difficili o traumatiche.
L’approccio ideale per le figure sanitarie dovrebbe quindi essere quello di un’empatia clinica (Zenasni et al., 2012), che impedisce di essere troppo compassionevoli e simpatetici, ma senza per questo ignorare le reazioni emotive e i sentimenti dei pazienti. Essa implica la comprensione delle esperienze interne e delle prospettive del paziente come individuo separato, combinata con una capacità di comunicare tale comprensione al paziente. L’empatia clinica deve includere la capacità di distinguere il sé dall’altro in maniera tale da non provare le sue stesse emozioni e sofferenze. Questo protegge a lungo termine da esaurimento, da depersonalizzazione e aiuta a prevenire il burnout (Ekman & Halpern, 2015; Juszkiewicz & Debska, 2015).
Alla luce dei benefici che un approccio empatico può portare al benessere psicofisico dei professionisti della salute e dei pazienti, e agli elevati costi sociali ed economici che il burnout può comportare, è utile valutare quali possano essere le strategie che permettano di potenziare le abilità empatiche delle figure sanitarie evitando il burnout. Gli approcci evidence-based e la spinta tecnologica nella diagnosi e cura dei pazienti, senz’altro fondamentali e preziosi, possono far perdere la prospettiva umana sul paziente e condurre alla falsa idea che l’empatia sia estranea a tutto ciò e che non abbia rilevanza nel processo di trattamento e cura.
A livello organizzativo, nell’ambiente di lavoro, è importante favorire interazioni personali positive e creare un senso di appartenenza al gruppo, fornire feedback positivi all’operatore sanitario, curare il suo benessere e valorizzare il suo atteggiamento empatico (Haramati, Cotton, Padmore, Wald & Weissinger, 2017; Yoguero et al., 2017). Per quanto riguarda l’intervento sul singolo individuo, si è visto come l’empatia sia un’abilità che può essere imparata e sviluppata attraverso l’educazione e la pratica. Training empatici si sono rivelati efficaci sia su studenti universitari, sia su medici ed infermieri già avviati alla professione. Essi si focalizzano su abilità quali il dare attenzione all’altro, saper ascoltare se stessi e gli altri, saper automonitorare e autoregolare le proprie reazioni emotive, imparare l’ascolto attivo, acquisire maggior consapevolezza riguardo emozioni e pregiudizi che giocano un ruolo nella relazione di aiuto (Cunico, Sartori, Marognolli & Meneghini, 2012).
Pratiche di mindfulness hanno dimostrato un effetto significativo sulla riduzione del burnout tra gli operatori sanitari (Surguladze et al., 2018). La mindfulness potrebbe essere considerata più in generale come un’attitudine ad affrontare le situazioni emotive che ogni giorno, specie in questo periodo, il personale sanitario vive con un focus sull’esperienza attuale. Da questa prospettiva, la consapevolezza potrebbe avere un effetto positivo sulla regolazione delle emozioni nelle situazioni emotive quotidiane riducendo così ansia e stress e contribuendo al mantenimento dell’empatia.
L’empatia nell’ambito delle professioni sanitarie è un esercizio impegnativo che richiede flessibilità cognitiva e alti livelli di autoregolazione. Queste risorse cognitive possono diventare limitate a causa del lavoro impegnativo e molto stressante che espone medici e infermieri a una maggiore vulnerabilità per il burnout.
È importante saper riconoscere le emozioni negative suscitate dall’esperienza quotidiana e sapere che vi è la possibilità di parlare di esse e di burnout nell’ambiente di lavoro, senza incorrere nel rischio di essere stigmatizzati. Favorire programmi di formazione sull’empatia diventa quindi un obiettivo fondamentale per favorire il benessere professionale, specie in un momento storico come quello che stiamo attraversando.
DBT® skills nelle scuole (2019) – Recensione del libro
Il libro DBT skills nelle scuole è rivolto ai professionisti della salute mentale. È un utile strumento e una guida pratica in grado di fornire istruzioni precise per l’applicazione del programma DBT STEPS-A lezione per lezione.
Adolescenza: l’importanza dell’educazione socio-emotiva e l’applicazione del programma DBT STEPS-A nelle scuole
Il libro DBT skills nelle scuole presenta in maniera completa il programma DBT STEPS-A sviluppato da James Mazza e collaboratori per promuovere un nuovo approccio all’educazione socio-emotiva nel contesto scolastico.
Attraverso questo manuale gli autori ci guidano nella comprensione del modello DBT (Dialectical Behaviour Therapy) di Marsha Linehan e ci offrono una nuova prospettiva per intenderlo. Numerosi sono gli studi che già in passato hanno indagato l’efficacia dell’uso di questo modello con adolescenti, la proposta del programma DBT STEPS-A va però ancora oltre, suggerendo di applicare lo skills training, elemento principale della terapia dialettico comportamentale, all’interno delle scuole.
Uscendo da quello che è un contesto clinico e di trattamento, la proposta degli autori è quella di includere nei programmi di educazione socio-emotiva previsti da molti istituti scolastici l’insegnamento delle abilità promosse nei gruppi DBT. Si tratta infatti di abilità il cui apprendimento può essere estremamente utile durante l’adolescenza, periodo nel quale i ragazzi sono sottoposti a numerose pressioni a livello sociale, scolastico e di sviluppo, dovute ad esempio al rifiuto da parte dei compagni, alla bassa autostima, alla confusione riguardo alla propria identità, a comportamenti impulsivi, all’uso di sostanze stupefacenti o alcol e a problemi legati all’intimità e ai rapporti sessuali.
Il programma DBT STEPS-A è dunque rivolto a studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado e mira ad insegnare abilità pratiche per regolare le emozioni, ridurre i comportamenti impulsivi, risolvere i problemi, costruire e mantenere relazioni interpersonali.
Struttura e contenuti del libro
Il libro è diviso in tre sezioni. Nella Prima parte vengono illustrate le motivazioni che hanno portato all’elaborazione del programma DBT STEPS-A e vengono fornite le linee guida per la sua implementazione sia in classi normali sia in quelle che presentano alunni difficili. Attraverso una panoramica dettagliata del programma, gli autori accompagnano il lettore nella scoperta dei quattro moduli previsti per l’apprendimento delle abilità (mindfulness, regolazione emotiva, efficacia interpersonale e tolleranza della sofferenza) e le abilità specifiche insegnate in ciascun modulo. Vengono inoltre analizzati gli aspetti pratici relativi all’implementazione del programma all’interno dell’offerta formativa delle scuole, come per esempio la definizione degli esercizi e delle valutazioni dello studente, questioni inerenti alla riservatezza e norme relative alla frequenza (solitamente il programma è strutturato in 30 lezioni settimanali).
La Seconda e la Terza parte del libro presentano il contenuto del programma. Nella Seconda parte sono riportati i 30 programmi dettagliati delle lezioni, nonché tutti i test e le relative soluzioni. La Terza parte contiene tutte le schede per gli studenti: le schede informative o relative all’attività da utilizzare in classe e le schede degli esercizi da svolgere a casa.
A chi è rivolto il libro DBT skills nelle scuole?
Il libro DBT skills nelle scuole è rivolto ai professionisti della salute mentale. È un utile strumento e una guida pratica in grado di fornire istruzioni precise per l’applicazione del programma DBT STEPS-A lezione per lezione.
Di grande ricchezza anche la raccolta di tutte le schede relative alle attività da svolgere che troviamo nella Terza sezione del libro e che costituiscono materiale pronto all’uso nell’erogazione del programma agli studenti.
Perché proporre il programma DBT STEPS-A nelle scuole: i vantaggi
Innanzitutto il programma DBT STEPS-A prevede il coinvolgimento attivo degli studenti secondo un approccio tell-show-do: i ragazzi sono pienamente coinvolti in tutte le attività, dall’identificazione dei “comportamenti target” alla sperimentazione delle nuove strategie di gestione delle situazioni problematiche. Viene inoltre promosso l’uso delle abilità acquisite in classe anche al di fuori del contesto scolastico, favorendo così una generalizzazione del loro uso anche ad altri contesti di vita dell’adolescente.
Secondo gli autori i ragazzi hanno così la possibilità di apprendere strategie generali di “miglioramento della vita”, utili non solo per la risoluzione di problematiche relative allo specifico momento che si trovano ad attraversare ma anche in una prospettiva più a lungo termine. Diversi studi sull’efficacia del programma DBT STEPS-A dimostrano ad esempio un impatto positivo sulla riduzione dei casi di abbandono scolastico e una migliore capacità di mantenere relazioni amorose significative o lavori importanti nel corso del tempo.
Ancora, l’applicazione di tale programma promuove un approccio di tipo dialettico, basato sull’accettazione e il cambiamento. Per un adolescente può essere particolarmente importante l’esperienza di un ambiente validante ma al contempo orientato all’acquisizione di migliori capacità di gestione delle situazioni problematiche.
La salute mentale e la sofferenza psichica hanno una ricaduta sulle capacità di apprendimento dei ragazzi, sul loro rendimento scolastico e sulla loro vita sociale, è importante dunque che impariamo a prendercene cura attraverso programmi strutturati volti a promuovere un approccio di prevenzione e non solo di tipo correttivo wait to fail, ovvero di risposta al presentarsi di una situazione problematica, come fatto finora.
Traumatizzazione vicaria da Covid-19: le conseguenze psicosociali nel personale sanitario e popolazione generale in Cina
Il campo delle scienze della salute, nella lotta al Coronavirus, fronteggia oggi due urgenze ed emergenze. Se da un lato si lavora senza sosta per la scoperta di un vaccino, altrettanto prioritaria è la comprensione delle conseguenze sulla salute mentale di una pandemia globale e senza precedenti come quella che stiamo vivendo.
Per tale ragione, università e istituti di ricerca in tutto il mondo si stanno adoperando per raccogliere, sotto forma di survey online, dati che indaghino gli effetti e i rischi della quarantena sul benessere psicologico degli individui. Attualmente sono 2.6 miliardi le persone che vivono in una forma di lockdown, ovvero un terzo della popolazione mondiale; il più grande esperimento psicosociale a cui si è mai potuto assistere e di cui è necessario mitigare gli effetti tossici, se non si vuole pagare un prezzo ancora più alto.
La letteratura del fenomeno allo stato attuale
Di grande aiuto, nella comprensione degli effetti psicosociali causati dal virus, è la letteratura scientifica delle precedenti epidemie, in particolare la review di Lancet (2020) che raccoglie 24 studi indaganti l’impatto psicosociale della quarantena sugli individui.
Tra gli effetti più comuni emergono: irritabilità e disturbi dell’umore, ma anche stress, insonnia, ansia, rabbia, depressione e sintomi da stress post traumatico. Tale panoramica permette una ricerca retrospettiva al fine di creare modelli di previsione delle conseguenze della pandemia. Ma una chiave di lettura fondamentale, nonché vantaggio cronologico, nella comprensione del fenomeno attuale, lo giocano gli studi condotti attualmente in Cina.
In merito agli effetti sulla popolazione cinese generale, è emerso che un impatto psicologico più alto si registra nel genere femminile, nella categoria studenti e in coloro che soffrono di sintomi fisici particolari. Viceversa, elementi che lasciano predire un maggiore benessere psicologico sono la ricerca informata ma ponderata sugli sviluppi della pandemia e l’adozione di misure preventive (Wang et. al., 2020).
In riferimento agli effetti psicosociali sul personale sanitario, come già evidenziato nella review di Lancet, anche le ricerche condotte in Cina mostrano come la salute mentale dello staff medico sia esposta a rischi più pesanti e persistenti nel tempo. Nello specifico, la categoria più colpita è il personale infermieristico, più di quello medico. Infatti gli effetti psicosociali della quarantena nel personale sanitario toccano non solo la sfera personale, ma investono anche quella lavorativa. Si assiste in molti operatori sanitari a un deterioramento delle performance lavorative, comportamenti di evitamento, riluttanza a svolgere ancora il proprio lavoro e considerazione di dimissioni. Inoltre, la manifestazione dei sintomi può estendersi o presentarsi fino a 3 anni dal termine dell’evento traumatico.
Un nuovo e interessante effetto viene riportato dall’Ospedale di Nanjing, che ha effettuato una comparazione tra infermieri in prima linea (a stretto contatto con pazienti contagiati da Covid) e infermieri e volontari non in prima linea (coinvolti nell’emergenza ma non a stretto contatto con pazienti Covid). La rilevanza dello studio sta nell’aver posto l’attenzione, tra le varie conseguenze psicosociali della pandemia, alla traumatizzazione vicaria. La letteratura descrive il trauma vicario come una sofferenza post traumatica, simile alle esperienze delle vittime dirette (Brady et al., 1999). Il termine, proposto da Pearlman, si è inizialmente riferito al contesto psicoterapeutico, ovvero a quel fenomeno di coinvolgimento empatico, da parte dello psicoterapeuta, in particolari esperienze traumatiche dei pazienti. Tale fenomeno fa sì che lo psicoterapeuta possa esperire sintomi mentali simili al trauma psicologico del paziente. (Collins and Long, 2003). La definizione di trauma vicario è stata poi estesa a un largo numero di eventi catastrofici in cui la gravità del danno supera la tolleranza emotiva e psicologica delle persone, causando anomalie psicologiche generate dalla vicinanza emotiva e fisica con chi esperisce il trauma stesso (Sinclair and Hamill, 2007). I maggiori sintomi che denotano traumatizzazione vicaria sono perdita di appetito, disturbi del sonno, declino fisico, intorpidimento, disattenzione, paura e disperazione. Il dato rilevante emerso dallo studio nell’Ospedale di Nanjing, è che il personale non direttamente coinvolto in prima linea, ha registrato sintomi stress correlati più alti rispetto a coloro che operavano in prima linea, e nello specifico, livelli maggiori di traumatizzazione vicaria (Li, et. al., 2020).
Traumatizzazione vicaria da Covid: lo studio
Lo studio ha coinvolto 214 volontari provenienti dalla popolazione generale e 526 infermieri (di cui 234 in prima linea e 292 non in prima linea), per un totale di 740 individui. Lo studio è stato condotto attraverso un questionario anonimo strutturato usando l’app “Sojump” che gli utenti ricevevano via WeChat a seguito del consenso informato. Il questionario consisteva di 38 item indaganti risposte fisiologiche e psicologiche. È emerso che gli infermieri in prima linea registravano punteggi di traumatizzazione vicaria più bassi rispetto agli infermieri non direttamente coinvolti. Non si sono registrate differenze significative, invece, all’interno della categoria “non in prima linea” tra infermieri e volontari coinvolti.
Discussione
Le ragioni di una tale evidenza possono essere ricondotte a due ragioni: in primis, il fatto che gli infermieri in prima linea si sono candidati volontariamente al ruolo con una preparazione psicologica adeguata. Inoltre il livello di esperienza e di pratica del personale in prima linea era altamente qualificato e pertinente, provenendo per la maggior parte da reparti di terapia intensiva e medicina interna. Questi elementi hanno probabilmente svolto da fattori di protezione in uno sviluppo più severo di traumatizzazione vicaria. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, negli infermieri in prima linea, il trauma vicario derivava dall’empatizzare con i pazienti di Covid di cui si occupavano, mentre gli infermieri non in prima linea e volontari, estendevano la loro preoccupazione anche ai colleghi in prima linea.
Conclusioni
Lo studio presenta sicuramente il limite di un campione composto prevalentemente da infermieri, che pur costituendo la fetta più consistente della popolazione oggetto di studio, non rappresentano in toto il campione dello staff medico. Tuttavia i risultati ottenuti portano alla luce una conseguenza psicologica della pandemia sulla quale non si era ancora posta attenzione, tanto nel personale medico quanto nella popolazione generale, su cui è opportuno indagare.
Concludendo, è possibile affermare che un intervento preventivo sulla traumatizzazione vicaria e sullo stress psicologico nelle popolazioni menzionate, unito a una corretta e trasparente informazione sull’epidemia, possano arginare gli effetti psicologici del Covid e facilitarne il trattamento.
Genitori con disabilità intellettiva: come il video feedback può sostenerne il ruolo genitoriale
I genitori con disabilità intellettiva (DI) possono incontrare maggiori e specifiche difficoltà nel crescere i propri figli e nell’interagire con loro.
La disabilità intellettiva, precedentemente definita ritardo mentale, è inserita dal DSM-5 (APA, 2013) tra i disturbi del neurosviluppo. La disabilità intellettiva è caratterizzata da un deficit più o meno grave delle funzioni cognitive, ad esempio del ragionamento, dell’astrazione e dell’apprendimento, e dalla difficoltà ad adattarsi autonomamente alla vita quotidiana e al contesto sociale.
Emerson e colleghi (2015) rilevano che i genitori con DI vivono spesso in condizioni di svantaggio socioeconomico: nel loro studio, svolto nel Regno Unito, hanno riscontrato che le famiglie in cui almeno uno dei genitori aveva una disabilità intellettiva, rispetto a famiglie in cui i genitori non avevano tale diagnosi, erano più povere, riportavano uno stato finanziario più basso e tendevano a vivere in un’abitazione in affitto. I genitori con DI inoltre erano più spesso disoccupati rispetto a quelli senza DI, ricevevano un minor supporto intergenerazionale ed erano più isolati socialmente.
A queste difficoltà di natura socioeconomica, si aggiungono quelle legate all’interazione con i propri figli. Secondo uno studio di Hamby, Lunkenheimer e Fisher (2019), i genitori con DI fanno più fatica a costruire un ambiente cognitivamente stimolante. Inoltre, possono aver interiorizzato degli schemi familiari di trascuratezza o possono avere difficoltà nell’accedere ad esempi positivi di parenting, proprio perché, come detto in precedenza, hanno minori contatti a loro volta con i propri genitori. I genitori con DI possono interiorizzare le credenze negative delle altre persone circa le proprie capacità di parenting. Altre difficoltà che possono incontrare sono legate invece ai deficit di pianificazione, autoregolazione e attenzione. Ad esempio, un genitore con DI potrebbe faticare nel ricordarsi di chiamare un babysitter; potrebbe non riuscire a contenere la propria rabbia o non riuscire a guardare la TV e contemporaneamente stare attento a che il proprio bambino non si faccia male. Infine i genitori con DI possono avere un bias di attribuzione ostile, cioè avere la tendenza a ricondurre la causa dei comportamenti altrui a ostilità nei propri confronti, giudicando, ad esempio, che il proprio figlio pianga apposta per indispettirli.
Wickström, Höglund, Larsson e Lundgren (2017) rilevano che i figli di genitori con DI hanno una probabilità quattro volte maggiore di ricevere a loro volta una diagnosi di DI rispetto ai loro coetanei. In aggiunta, risultano più esposti a rischio di incidenti dovuti al traffico, ad annegamento, scottature, soffocamento o avvelenamento. I figli di genitori con DI rappresentano una parte significativa dei bambini di cui si occupano i servizi sociali, poiché sono spesso soggetti a trascuratezza e, più raramente, a maltrattamento fisico o abuso sessuale (Schuengel, Kef, Hodes e Meppelder, 2017).
Nonostante le difficoltà siano presenti, uno studio olandese (Willems, de Vries, Irini e Reinders, 2007) ha concluso che il 33% dei genitori con DI da loro intervistati fosse un “genitore sufficientemente buono”, e che ciò fosse in parte predetto dalla qualità del sostegno sociale ricevuto.
A fronte di questa situazione, Hamby e colleghi (2019) hanno sottolineato l’importanza di concepire degli interventi di supporto alla genitorialità specificamente indirizzati ai genitori con DI. A tale proposito, gli autori hanno proposto l’uso del video feedback, un intervento che consiste nel videoregistrare alcune interazioni in contesti ecologici tra genitori e figli, per poi commentarle successivamente con uno psicologo. L’obiettivo è rinforzare le risorse già presenti nella relazione. L’obiettivo di Hamby e colleghi è individuare, tramite un’analisi sistematica, le caratteristiche del video feedback che possono risultare vantaggiose specificamente per i genitori con DI.
Gli autori argomentano che l’intervento con il video feedback abbia alcuni punti di forza: innanzitutto sottolineare le competenze dei genitori con DI contrasta le credenze negative sul proprio parenting che questi potrebbero aver interiorizzato e li aiuta a sentirsi genitori più capaci. Questo aumenta la motivazione ad impegnarsi in ulteriori comportamenti di parenting efficace.
Un ulteriore vantaggio è che il video feedback è un intervento adatto a chi ha difficoltà cognitive, perché ciascuna seduta è relativamente breve (dura circa un’ora), ha un obiettivo ben definito e una struttura che si ripete nelle varie sedute. Il programma comprende complessivamente circa 10 sedute, per cui si concentra in un tempo relativamente limitato; diminuisce così il rischio che le famiglie smettano di aderire al programma perché troppo prolungato nel tempo.
L’uso del video feedback insegna delle abilità concrete ai genitori e non solo concetti astratti. Ad esempio, insegna ai genitori ad etichettare verbalmente gli oggetti o le situazioni, in modo da sostenere i bambini nel processo di apprendimento del linguaggio. Attraverso la riflessione sulla relazione con i propri figli, i genitori con DI sono anche incoraggiati ad esercitare le proprie funzioni esecutive, ad esempio a prestare maggiore attenzione ai comportamenti positivi del bambino o ad aumentare il proprio autocontrollo.
L’intervento tramite video feedback sostiene anche la funzione riflessiva dei genitori, ossia la loro capacità di comprendere pensieri, emozioni, motivazioni e comportamenti dei figli. Lo psicologo, verbalizzando i possibili stati interni del bambino, aiuta il genitore a sostituire le attribuzioni ostili con altre più realistiche, funzionali e positive. In questo modo il genitore può allenarsi a darsi spiegazioni più adattive del comportamento del proprio figlio.
Un ulteriore vantaggio del video feedback è che le riflessioni su come migliorare il proprio parenting avvengono a partire da videoregistrazioni effettuate nel contesto di vita familiare normale, a casa, durante i pasti, nei momenti di gioco. Nel corso delle sedute, si possono videoregistrare svariate esperienze quotidiane, in modo da generalizzare le competenze apprese ai diversi contesti in cui devono essere messe in pratica. L’intervento, poiché parte dalla registrazione di quanto avviene effettivamente in casa, può essere adattato alle esigenze di ciascuna famiglia.
Infine, il video feedback facilita una visione positiva degli interventi di sostegno genitoriale, poiché generalmente tra chi effettua l’intervento e chi ne usufruisce si instaura una relazione positiva. Ciò aumenta le probabilità che i genitori con DI si rivolgeranno a programmi di sostegno genitoriale anche in futuro.
Gli autori sottolineano che questa modalità di intervento può presentare dei limiti, specialmente per quanto riguarda la sostenibilità economica, in quanto il video feedback prevede un rapporto uno a uno tra utente e operatore. Suggeriscono in proposito la possibilità di verificare in futuro l’efficacia del video feedback svolto in sedute di gruppo. Un’altra criticità riguarda l’assenza di dati circa gli effetti a lungo termine dell’intervento.
Sebbene con alcune limitazioni, gli interventi che utilizzano la tecnica del video feedback risultano promettenti per consentire migliori esperienze relazionali ai genitori con DI e ai loro figli.
La carezza come unità di riconoscimento umano: meglio mal accompagnati che soli?
Berne ha definito come unità di riconoscimento umano la carezza, indicando qualsiasi tipo di azione che implica appunto il riconoscimento dell’altro. Le carezze si possono classificare in base a modalità di espressione, direzione o qualità, intento, valenza, l’esito in chi le riceve e infine in base alla fonte.
Gli studi sulla motivazione si sono da sempre interrogati su quale fossero i fattori alla base del comportamento di ciascuno, il bisogno relazionale sembra essere una delle risposte.
…l’amor che move il sole e le altre stelle (Dante Alighieri).
Il termine motivazione definisce l’insieme di bisogni, desideri, intenzioni alla base del comportamento di ciascuno (Liotti, 2000).
Per spiegare la motivazione alla base del comportamento umano, Sigmund Freud propose il cosiddetto “modello idraulico”. Secondo Freud, la spinta motivazionale è rintracciabile in una mera scarica pulsionale; anche la relazione infante – caregiver ha come scopo ultimo il soddisfacimento di bisogni fisiologici e un ristabilire un’omeostasi interna (Freud, 1914).
Studi successivi hanno, invece, sottolineato il bisogno di attaccamento come bisogno primario.
Harry Harlow (1958), psicologo statunitense, attraverso un esperimento che coinvolgeva le scimmie Rhesus dimostrò come questi primati preferissero un surrogato materno che dava calore, piuttosto che nutrimento.
Anche alla luce delle più recenti ricerche neuroscientifiche, il modello idraulico freudiano non sembra avere riscontri, la struttura del cervello umano suggerisce l’esistenza di tre diversi livelli motivazionali (Liotti, 2010).
McLean vede il cervello umano strutturato in tre strati differenti, risultato dell’evoluzione. Lo strato più profondo è il cervello rettiliano (tronco encefalico, nuclei della base), non sociale, orientato al soddisfacimento di bisogni fisiologici, protezione, esplorazione dell’ambiente e controllo di funzioni vitali, come ad esempio il ritmo cardiaco e la respirazione; lo strato intermedio è il cervello dei mammiferi (amigdala e giro del cingolo), orientato all’interazione sociale e di cui fa parte anche il sistema di attaccamento e accudimento; l’ultimo è il cervello neo-corticale (la neocorteccia), esclusiva dei primati, che si occupa di tutte le funzioni cognitive e razionali (McLean, 1984). Dunque, il modello del cervello tripartito di McLean affianca ai bisogni fisiologici primari, il bisogno di attaccamento; calore e protezione fondamentali per la sopravvivenza della specie.
Edelman suggerisce di distinguere il sé biologico dal non sé: il sé biologico afferisce alle attività delle strutture più arcaiche della formazione del cervello (tronco encefalico e sistema limbico) e legate alla nutrizione, riproduzione sessuale, ma anche alla formazione dei legami sociali; il non sé è riconducibile, invece, all’attività di talamo e neocorteccia, strutture evolutivamente più recenti e coinvolte nella conoscenza e nella comunicazione (Liotti, 2010).
Date queste premesse, il modello idraulico freudiano sarebbe valido se l’uomo avesse solo il cervello rettiliano individuato da McLean, orientato appunto al ristabilire l’omeostasi interna; ma già il sistema limbico lascia presupporre un’intersoggettività come fondamento della motivazione umana (Liotti, 2010).
Le carezze
Eric Berne (1964) ha spiegato la spinta dell’uomo alla relazionalità introducendo il concetto di fame di stimolo (Stewart e Joines, 1987). L’infante ha fin da subito bisogno della vicinanza dell’altro, un bisogno che può essere paragonato al bisogno di cibo, fondamentale per la sopravvivenza.
Dice Berne, “Se una persona non è accarezzata da qualche suo simile, la sua mente si corrompe e la sua umanità s’inaridisce” (Berne, 1970, 191); le neuroscienze, inoltre, ci forniscono una base solida poiché i bambini stimolati sviluppano un cervello più grande e con connessioni tra le cellule cerebrali più forti rispetto ai bambini deprivati (Carissa et al.; 2019; Wiggins, 2000; Kandel, 2005).
Parallelamente allo sviluppo dell’infante si verifica anche uno spostamento da una fame di stimolo a un’altra fame che Berne definisce “fame di riconoscimento”, una sorta di compromesso tra il bisogno di riproporre il contatto fisico con la madre e forze sociali che vi si oppongono. La fame di riconoscimento corrisponde al bisogno di ciascuno di essere visti (Stewart e Joines, 1987).
Berne ha definito l’unità di riconoscimento umano la “carezza”, indicando qualsiasi tipo di azione che implica appunto il riconoscimento dell’altro.
Le carezze si possono classificare in base alla modalità di espressione (verbali, fisiche); direzione o qualità (condizionate, riconoscimenti legati al fare; incondizionate, riconoscimenti riferiti all’essere); intento, valenza (positive e negative); l’esito in chi le riceve (costruttive, improduttive, e distruttive); e infine in base alla fonte (interna o esterna) (Wollams e Brown, 1978).
In ogni caso, una carezza negativa è sempre meglio che non riceverne affatto, ciascuno preferisce dei riconoscimenti negativi alla deprivazione totale; meglio mal accompagnati che soli.
Nel corso degli anni, ciascuno svilupperà un proprio quoziente di carezze preferite (Capers e Glen, 1971), di conseguenza accetterà alcuni tipi di carezze e ne respingerà altre, McKenna (1974) parla a tal proposito di “filtro” delle carezze.
Un altro filtro nel dare e ricevere carezze è posto culturalmente, infatti Steiner (1971) ha individuato una sorta di “economia delle carezze”, regole non scritte tramandate di generazione in generazione, quali:
“Non dare carezze quando ne hai da dare”, la tendenza a rimarcare le manchevolezze dell’altro, senza apprezzare quanto di buono c’è nella relazione;
“Non chiedere carezze quando ne hai bisogno”, anche quando si ha la necessità di una carezza non va chiesta, il valore di una carezza richiesta non è lo stesso di una data spontaneamente;
“Non accettare carezze se le vuoi”, le lodi vanno respinte poiché volte ad ottenere secondi fini;
“Non rifiutare carezze quando non le vuoi”, accettare anche le carezze negative;
“Non dare carezze a te stesso”, si è educati all’autocritica ma non anche all’autocelebrazione.
Nello scambio di carezze risulta fondamentale il riconoscimento della responsabilità di ognuno, non solo di chi la invia ma anche di chi la riceve: chi la invia si assume la responsabilità del messaggio, chi la riceve di accoglierla o respingerla e degli stati d’animo che ne conseguono.
Risulta utile dunque un abbandono delle decisioni infantili conseguenti all’educazione genitoriale, e più in generale culturale, riconoscendo che le carezze richieste hanno lo stesso valore di quelle date con spontaneità, o che si possono dare carezze a sé stessi e sviluppare la capacità di autocelebrarsi oltre l’autocritica, e ancora che si possono rifiutare apertamente carezze che non piacciono (Stewart e Joines, 1987).
Rispetto alla responsabilità di ognuno, esemplificativo è uno stralcio di un libro L’ora o il mai più di Oscar Travino (2016).
Travino dice:
Fino a quando attribuirai fuori da te la causa delle tue lamentele, poco e niente potrà cambiare. […] se sarai disposto a guardarti dentro, allora capirai che molto del tuo dolore lo stai scegliendo. Magari con una non scelta. Così come scegli, sempre, le tue emozioni. Non dire – mi fai arrabbiare -, ma -scelgo di arrabbiarmi-. La riappropriazione dell’origine e della responsabilità delle tue emozioni ti permette di riscoprire un potere a volte volutamente dimenticato: la possibilità di decidere, sempre. E allora, oggi cosa scegli?
Fondamentale, dunque, una riappropriazione di responsabilità all’interno dei vari scambi relazionali.
Plasticità cerebrale: quali i possibili effetti degli psicofarmaci sul cervello-mente?
L’uomo è un sistema complesso in cui mente e corpo sono a tutti gli effetti due facce di una stessa medaglia in rapporto di interdipendenza e sinergia. Il nostro cervello-mente cambia a seguito di stimoli ambientali, ma anche un farmaco, specie se assunto a lungo e in dosi significative, può generare cambiamenti nella fisiologia del cervello.
L’uomo è un animale sociale – Aristotele, IV secolo a.c.
Quest’affermazione di Aristotele è oggi più attuale che mai, sappiamo infatti che l’uomo non può essere né pensato né studiato al di fuori del contesto e dell’ambiente fisico e sociale nel quale vive e si sviluppa fin dalla nascita; l’uomo è animale sociale in quanto viene concepito, nasce, cresce e si sviluppa per mezzo della relazione e sempre all’interno di un contesto ambientale e socio culturale.
D’altro canto l’esperienza, attraverso il contatto con l’ambiente e le relazioni con gli altri, genera cambiamenti nel nostro sistema nervoso e altera il nostro comportamento per mezzo dell’apprendimento. Questi cambiamenti investono l’uomo su più livelli: biologico, psicologico, fisiologico, comportamentale. Questo in quanto l’uomo è un sistema complesso, dove mente e corpo devono essere concepiti, e sono a tutti gli effetti, due facce di una stessa medaglia, in rapporto di interdipendenza e sinergia, tanto che potremmo affermare che ogni processo somatico ha un corrispettivo psichico e viceversa. Già Kandel nel 1996 ci aveva suggerito che mente e cervello vanno concepiti in rapporto di equazione, in quanto dal cervello derivano tutti i processi mentali normali e patologici e tutte le reazioni a livello neurobiologico e neurofisiologico andranno ad alterare il nostro comportamento, provocando cambiamenti in tutti il sistema corporeo. Il link tra il mentale e il cerebrale è infatti costituito dalle emozioni, che nella loro essenza squisitamente relazionale fungono da regia nell’interdipendenza tra soma e psiche. Ogni emozione è presente e agente tanto nella mente quanto nel corpo.
Ogni emozione infatti, nonché ogni stato d’animo, sentimento, sensazione ecc attiva nel nostro corpo il rilascio di sostanze chimiche specifiche che altereranno la neurochimica del corpo a partire da quella del cervello, ma anche i processi psichici della mente e il comportamento del soggetto.
Ad esempio quando viviamo una situazione particolarmente stressante il nostro corpo produce Cortisolo, altresì definito “ormone dello stress”, un ormone che se rilasciato a dosi eccessive può compromettere anche il buon funzionamento del sistema immunitario, andando a inficiare il nostro benessere psico-fisico; quando ci innamoriamo invece il nostro organismo produce un cocktail di ormoni che ha in noi l’effetto di una droga, questi ormoni, ossitocina, serotonina, adrenalina, ci fanno sentire bene, euforici, felici, con la testa un po’ tra le nuvole e qualche difficoltà di concentrazione. L’ossitocina in particolare è l’ormone che agisce come principale “regolatore” dei comportamenti pro-relazionali, tra cui: la formazione dei legami di coppia, i comportamenti parentali di accudimento, sia nei maschi (nei maschi in particolare la vasopressina) che nelle femmine, la predisposizione ai comportamenti di attaccamento, i rapporti amicali e di affiliazione (Marazzini, Roncaglia, Piccinni, Dell’Osso, 2008). L’alta ossitocina è proporzionale alla monogamia degli animali, mentre gli individui poligami, della stessa specie, hanno livelli di OXT più bassi e nelle femmine (vole prairie) aumenta la risposta sessuale recettiva orientata a formare una stabile relazione di coppia, stimolando il desiderio di vicinanza tra individui (Panksepp, 1998). L’ossitocina, infatti, detto anche “Ormone dell’Amore”, ha un ruolo fondamentale nel processo di sviluppo dell’individuo in quanto regola i bisogni relazionali e di cura attraverso un’azione diretta sul cervello rettiliano (l’ossitocina, infatti, è un neutralizzatore dell’acelcolina che se presente a livelli alti può risultare tossica producendo atteggiamenti aggressivi). Quest’ultimo che si configura come la matrice del cervello mammifero-emotivo, è la sede dei nostri istinti primitivi, e regola comportamenti atti alla sopravvivenza individuale per mezzo del soddisfacimento dei bisogni di base: fame, sete, sonno etc. Tali comportamenti sono riconducibili a loro volta all’effetto nell’organismo del rilascio di serotonina, ormone che viene prodotto dal nostro “secondo cervello”: l’intestino, sede delle emozioni primitive (Panksepp, 2011). Si tratta di una recente scoperta di Michael D. Gershon (1998), che afferma:
La teoria dei due cervelli poggia su solide basi scientifiche. Basti pensare che l’intestino, pur avendo solo un decimo dei neuroni del cervello, lavora in modo autonomo aiuta a fissare i ricordi legati alle emozioni e ha un ruolo fondamentale nel segnalare gioia e dolore. Insomma l’intestino è la sede di un secondo cervello vero e proprio. E non a caso le cellule dell’intestino producono il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore del benessere. Nei prossimi anni potremmo scoprire che il cervello dell’addome è la matrice biologica dell’inconscio. Una scoperta importante per gli uomini quanto quella di Copernico sul sistema solare.
Quando il cervello emotivo si evolve da quello mammifero, viene a formare due sistemi: il sistema limbico, adibito al piacere e mediato dalla dopamina, e il sistema mesolimbico, regolato dall’ipotalamo, adibito alle funzioni affettive e mediato dall’ossitocina-vasopressina. Recenti studi hanno dimostrato che i circuiti neuronali ed i processi endocrini del sistema OXT (sistema dell’ossitocina, neuropeptide più abbondante dell’ipotalamo) sono presenti solo nei mammiferi, sostenendo in questa specie la fondamentale funzione evolutiva di controllo e inibizione dell’attività del cervello rettile, permettendo i comportamenti di cura e attaccamento (Ibidem). Il coinvolgimento di ossitocina e vasopressina in relazione alle diverse forme di attaccamento, da quella infantile a quella genitoriale, a quella di coppia, ha sollevato poi l’ipotesi dell’esistenza di vari circuiti neuronali implicati nella regolazione dei comportamenti riproduttivi, accuditivi e di attaccamento, e in generale di tutti i comportamenti pro-sociali. Questa piccola parentesi per evidenziare come tutti i comportamenti, dai più istintivi ai più razionali, coinvolgono processi corporei complessi che si realizzano su più livelli a partire da quello neurobiologico. Il nesso tra quanto appena riportato e lo studio della psicofarmacologia è che ci sono sostanze chimiche che, se assunte dall’organismo, sono in grado di provocare reazioni neurobiologiche e neurofisiologiche alla stessa stregua degli stimoli ambientali e sociali. Conoscere la fisiologia del cervello è fondamentale in quanto i farmaci psicotropi agiscono proprio in specifiche aree cerebrali, ovvero a livello corticale, limbico, ipotalamico e del tronco encefalico ed alterano lo stato di coscienza, i ritmi sonno-veglia, l’affettività e il sistema nervoso autonomo.
La psicofarmacologia infatti studia l’effetto che alcune sostanze chimiche, altresì definite farmaci, hanno sull’organismo, in particolare a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. Non dimentichiamo che l’OMS definisce i farmaci come sostanze usate per modificare sistemi fisiologici o stati patologici a beneficio di chi lo riceve. Parliamo di medicina quando un farmaco viene somministrato a scopo terapeutico, cioè per aiutare l’organismo a modificare o correggere alcune funzioni. Per questa ragione la psicofarmacologia può essere considerata una scienza ibrida che necessita conoscenza anche dal punto di vista psicologico, neurobiologico, farmacologico ecc.
Possiamo far risalire la storia della psicofarmacologia agli esperimenti di Kraepelin (1880) che testò sostanze d’uso comune e prodotti medici su compiti psicologici in soggetti sani, ma il termine “psicofarmacologia” è stato coniato nel 1920 dal farmacologo americano Macht per descrivere gli effetti dei farmaci su alcuni test di coordinamento neuromuscolare. Nel 1949, poi l’australiano John Cade introduceva il Litio come stabilizzante dell’umore nella cura della sindrome maniaco depressiva, nel 1953 Laborit scopriva gli effetti antipsicotici della clorpromazina (psicosi e schizofrenia), nel 1954, Nathan Kline pubblicava i risultati del suo studio sulla somministrazione della reserpina a 700 pazienti psichiatrici (ipertensione) e lo stesso anno Frank Berger scopriva il primo ansiolitico, il meprobramato.
I farmaci sono dunque delle sostanza in grado di produrre un effetto sul comportamento per mezzo di un’azione sul sistema nervoso, ecco perché vengono definiti anche sostanze psicoattive. Gli psicofarmaci, in particolare, producono il loro effetto alterando la neurochimica del cervello e producendo diversi effetti a seconda del sito d’azione sul quale agisce. In pratica tutte le funzioni cerebrali possono essere alterate dagli psicofarmaci.
Ritornando all’equazione mente cervello di Kandell (1996) è importante che uno psicoterapeuta sia a conoscenza della terapia farmacologica che il suo paziente segue, così come è importante che abbia un dialogo costruttivo con il neurologo, lo psichiatra e in generale con tutti i professionisti coinvolti nel caso e che conosca almeno le basi della psicofarmacologia. Questo in quanto, come più volte sottolineato, il farmaco provoca alterazioni su più livelli nel paziente per cui bisogna essere in grado di riconoscere e distinguere quelli che sono gli effetti di un farmaco (dal semplice uso, all’assuefazione, intossicazione, astinenza ecc) da quelle che possono essere manifestazioni sintomatologiche legate a particolari stati psicopatologici.
La prima cosa da indagare circa la terapia farmacologica è il rispetto della posologia indicata dallo specialista e la compliance del paziente. Lo psicoterapeuta non dovrebbe entrare in merito alle indicazioni del medico, ma certamente deve tenere un rapporto professionale con quest’ultimo, improntato sulla collaborazione e cooperazione con il fine di puntare al benessere del paziente.
Nel percorso terapeutico inoltre non si può trascurare di trattare l’argomento “terapia farmacologica” per cercare di capire insieme al paziente i significati che quest’ultimo attribuisce, i vissuti e le eventuali ripercussioni sul funzionamento tout court nel quotidiano. Per uno psicoterapeuta a volte la terapia farmacologica del suo paziente diventa conditio sine qua non può instaurarsi l’alleanza terapeutica, in quanto è necessario attenuare la sintomatologia del paziente prima di poter pensare qualsivoglia intervento.
Un concetto molto importante, in continuità con quanto appena riportato è che il farmaco non avrebbe solo effetto sul sintomo, attenuandolo o in alcuni casi debellandolo, ma potrebbe essere, in alcune circostanze, “curativo”, andando a generare cambianti non solo funzionali, ma anche strutturali sul sistema nervoso; ciò potrebbe accadere in particolare durante l’età evolutiva. Questo concetto è spiegabile attraverso la tesi della plasticità neuronale (Fields, 2012). Come accennato precedentemente, il nostro cervello subisce l’influenza dell’esperienza con l’ambiente e con gli altri, nello specifico sappiamo che la prima fase dei processi cerebrali plastici, avviene nel momento in cui si va modificando l’efficacia sinaptica in relazione alla neurotrasmissione, mentre i cambiamenti a lungo termine richiedono anche l’aiuto dell’espressione genica e la sintesi proteica, in modo tale da condurre non più un semplice cambiamento funzionale, ma anche strutturale, fisico, delle connessioni neurali che vengono, dunque, rimodellate in funzione dell’esperienza vissuta, determinando l’unicità di ogni singolo individuo (Downing & Zoeller, 2000). Ora riprendendo il concetto secondo cui un farmaco agisce sul nostro cervello provocando alterazioni neurochimiche, così come fa l’esperienza, nel momento in cui l’assunzione protratta del farmaco agisce sull’efficacia sinaptica di quella specifica area del cervello, potremmo non essere più di fronte ad un cambiamento funzionale dello stesso, ma di fronte ad un cambiamento strutturale; cambiamenti nella struttura delle connessioni cerebrali possono avvenire proprio grazie alla funzione espressiva dei geni, per mezzo della sintesi proteica.
Dunque il nostro cervello-mente cambia, a seguito di stimoli ambientali, specie se protratti e intensi, sia a livello funzionale che a livello fisiologico-strutturale (Kandell, 2005); anche un farmaco (specie se assunto a lungo e in dosi significative) può generare cambiamenti nella fisiologia del cervello, cambiamenti che, è doveroso specificare, possono rivelarsi favorevoli e benefici per il paziente. Un concetto innovativo e senza dubbio da approfondire con ulteriori ricerche e apporti teorici, ma molto importante se visto alla luce della pratica clinica come psicoterapeuti.
Concludo con questo pensiero: ritengo fondamentale per noi psicoterapeuti una conoscenza di base della struttura e del funzionamento del Sistema nervoso, della psicofarmacologia e della psichiatria, ciò proprio alla luce dell’unità psicosomatica dell’individuo e della necessità di studiarlo attraverso uno sguardo olistico. In definitiva concluderei sottolineando che, sebbene seguire le cure che la medicina ci offre sia giusto e sensato, a volte può non essere sufficiente attenersi solo a questo, e ciò vale anche per la psicologia: è necessario che i saperi circolino e che medicina e psicologia costruiscano un dialogo aperto nella teoria e nella pratica in un’ottica tanto di cura quanto di prevenzione.
Lo sviluppo del linguaggio nel bambino
Lo sviluppo del linguaggio assume grande importanza, soprattutto nell’ambito clinico, per la diagnosi di disturbo del linguaggio nello sviluppo infantile, oltre che per l’applicazione delle pratiche terapeutiche su di questi.
Il feto dopo 35 settimane possiede un già ben sviluppato sistema uditivo e risponde alla voce della madre, che viene sentita attraverso il liquido amniotico (Querleu 1981). A 36-40 settimane il feto reagisce al cambiamento delle caratteristiche fisiche dei suoni. Questo è stato confermato da parte di alcuni esperimenti fatti su bambini nati prematuramente a 35-40 settimane, che già discriminavano diverse sillabe (Dehaene-Lambertz,1998). Si è notato come già a 2 giorni dalla nascita il bambino, grazie ad una predisposizione innata, riesca a percepire i suoni e a discriminare la voce materna rispetto a quella di altre persone. Infatti, è noto che il neonato preferisca la voce della mamma ad altre voci (Mills, Meluish,1974). A pochi giorni di vita il neonato sa distinguere le voci umane (il linguaggio) rispetto ad altri stimoli sonori, manifestando una grande preferenza per la voce umana rispetto ad altri tipi di rumori o al silenzio (Sigh, Morgan, White, 2004). A 1-2 mesi è in grado di fare astrazione dalla variabilità dell’eloquio di parlanti diversi. A questo punto si è visto come tutto il periodo di gestazione sia importante per lo sviluppo della capacità uditiva, ed in seguito linguistica del bambino.
Dalla nascita fino al raggiungimento del 4°mese di vita, l’apparato fonatorio del bambino è poco sviluppato ed è molto simile a quello di altri primati. Solo dopo i 4 mesi di vita l’apparato fonatorio cambia: la laringe discende, si allunga e allarga la cavità orale e si presentano altri diversi tipi di cambiamenti a livello organico: a 5 mesi il bambino sviluppa e acquisisce la capacità di poter produrre i primi suoni vocali, di modulare le proprie vocalizzazioni, manipolando l’altezza e l’intensità.
Al raggiungimento del sesto mese il neonato è in grado di coordinare i movimenti fonatori e inizia a produrre suoni simili a quelli del linguaggio; tra il sesto e l’ottavo mese ha inizio la lallazione, una produzione che consiste nella ripetizione continua di sillabe; ad esempio “mamama”, “bababab”. La lallazione non possiede alcun significato, è formata da un sottoinsieme di suoni presenti nelle lingue. La lallazione è distinta in: canonica e variata.
La prima consiste nella ripetizione della stessa sillaba, così da presentare la struttura consonante-vocale (es. “babababa”). Nella lallazione variata si presenta la variazione tra le diverse sillabe (es. manamanaman”). Queste tipologie di lallazioni possono coesistere (Oller,1980;Vihman,1993). Dagli 8-10 mesi la lallazione assume le caratteristiche della lingua a cui verrà esposto il bambino.
Quindi, a partire dagli 8 mesi, sia la percezione dei suoni sia la produzione iniziano a essere influenzate dall’ambiente linguistico: nel bambino si forma un repertorio di categorie sonore specifiche della lingua. La sensibilità dei suoni si specializza in questo periodo e i suoni hanno un valore distintivo in base alla lingua di esposizione. Quindi la lallazione permette al bambino di ascoltarsi mentre produce i suoni che sente nell’ambiente linguistico. Verso i 12 mesi la produzione delle parole è un processo continuo che ha inizio con le protoparole, o parole inventate, alle quali possono affiancarsi le parole collegate al contesto. Infine compaiono le parole vere che verranno usate in contesti diversi. In ogni caso, il bambino si specializzerà su di un tipo di lingua, grazie al continuo contatto con l’ambiente. Esaminando e prendendo come veritiera la tesi proposta da Chomsky (1965), i maggiori ricercatori e studiosi dello sviluppo del linguaggio nel bambino hanno formulato una serie di teorie incentrate sulla scoperta di eventuali regole che facilitino lo sviluppo precoce del linguaggio. Gli studi sul linguaggio infantile condotti da Braine (1963), nei primi anni della metà degli anni 60 negli Stati Uniti, hanno esaminato 3 bambini per un periodo di 4 mesi a cominciare dal periodo in cui hanno iniziato ad utilizzare espressioni verbali di due parole; l’analisi da parte dello studioso riguarda tutte le espressioni verbali interpretabili, tranne quelle che sembrano essere imitazione di espressioni adulte immediatamente precedenti.
Sembra che i bambini raggruppino le parole in due classi: una consiste in un piccolo numero di parole che ricordano frequentemente e situate sempre nella posizione iniziale. Braine le definisce parole perno (P). L’altra classe di parole è molto più ampia: vengono ricordate meno spesso delle parole perno e non hanno una posizione fissa nelle espressioni di due parole, anche se di solito si trovano in seconda posizione. Braine le definisce parole aperte (A). Il modello più comune di espressione a due parole analizzate da Braine è costituito da una parola perno seguita da una parola aperta, cioè P+A . Tuttavia ci sono anche espressioni formate da una parola aperta seguita da un perno: queste non sono le stesse di quelle che occupano la posizione iniziale, ma appartengono a una classe più esigua essendo usate spesso e hanno una posizione fissa, Braine le chiama parole P2, per distinguerle delle parole perno che presentano una posizione iniziale (P1). Alcune delle altre espressioni dei bambini sono formate da due parole aperte e altre sono costituite da una sola parola aperta. In ogni caso le parole della classe perno non si trovano mai da sole. Di posizione contraria a quanto esposto da Braine è la posizione della studiosa Bloom. La Bloom (1970) definisce le ricerche sostenute da parte del collega come insufficienti, in quanto, non rappresentano un modo esauriente per spiegare la conoscenza grammaticale e sintattica che si forma nel bambino. Esse descrivono la struttura sintattica del linguaggio precoce ma ignorano la centralità del significato. Dalle ricerche condotte negli anni 70 dalla Bloom, secondo cui è importante registrare e osservare quello che dicono e esprimono i bambini, tali informazioni supplementari su questo contesto hanno permesso alle cercatrice di attribuire un’ampia varietà di significati ad alcune espressioni da parte dei bambini da lei esaminati.
La Bloom (1970) ha osservato come i bambini utilizzano tre diversi significati della parola “no”:
rifiuto: cioè senso di non accettazione di qualcosa;
descrivere la non esistenza di un oggetto;
negare: cioè di riferimento a due oggetti diversi l’uno dall’altro.
La Bloom capisce come queste tre forme di negazione appaiano nel bambino attraverso lo sviluppo. Negli anni ’80 è stata sviluppata da parte dello studioso Mc Shane (1980) una ricerca condotta su sei bambini, durante il loro secondo anno di vita. Da questa ricerca si è potuto constatare che oltre ad imparare il significato precoce della negazione, il bambino attribuisce alla parola “no” anche il significato di commentare i suoi insuccessi nel compiere un’azione intrapresa. Tali ricerche aggiungono un nuovo significato alla parola “no” che già aveva scoperto precedentemente la studiosa Bloom. Interessante è stata la tesi proposta da Bever (1970) e la sua supposizione riguardo alla capacità da parte del bambino di tre anni di interpretare il significato di una frase in maniera passiva. La ricerca di Bever sulla comprensione da parte dei bambini di frasi attive e passive conferma la difficoltà di un’interpretazione delle frasi passive. Tuttavia, gli infanti di 3 anni e più, sono in grado di capire le frasi passive in cui un sostantivo è palesemente agente e l’altro oggetto.
Si è visto come l’acquisizione del linguaggio avvenga in modi e tempi identici, indipendentemente dalla particolarità della lingua a cui i bambini sono esposti e anche dalla modalità in cui è espressa tale lingua. Un ruolo importante nello sviluppo linguistico del piccino è attribuibile al tipo di ambiente in cui il bimbo è esposto, e alla ricezione più o meno varia degli stimoli che riceve da tale ambiente, che può provocare un anticipo o un ritardo sullo sviluppo linguistico. Inoltre deve riuscire a comprendere il significato arbitrario delle parole che deve scoprire, e una volta scoperto, formulare delle frasi che abbiano un significato. Anche se sembra impossibile questo processo avviene per ciascun piccolo.
Analisi psicologica della prima stagione di Freud su Netflix
Dopo una grande aspettativa da parte dei cultori delle discipline psicologiche, finalmente il 23 Marzo del corrente anno 2020, Netflix ha lanciato la prima stagione di Freud.
Attenzione! L’articolo può contenere spoiler
Sono bastati solo pochissimi giorni per far sì che la serie riscuotesse un notevole successo mediatico. L’opinione pubblica ne è risultata notevolmente sconvolta, in quanto in tantissimi non hanno riscontrato nelle scene della serie alcun riferimento alla psicoanalisi, rimanendo delusi, amareggiati e indignati dall’accostamento “pericoloso” tra psicologia e occultismo.
Da psicologo e appassionato del pensiero freudiano ho ritenuto necessario intervenire nelle amplissime discussioni che si sono sviluppate sul web – in gran parte negative – per esprimere la mia opinione personale ed offrire una chiave di lettura psicologica di tutta la serie. Per la prima volta sono intervenuto in prima persona con un video su YouTube, proponendo una dettagliata analisi delle fasi salienti di questa serie. Il riscontro è stato notevole, come hanno dimostrato le diverse migliaia di persone che hanno visto il mio video commentandolo e condividendolo.
La maggior parte di coloro che hanno guardato la serie, si è principalmente chiesta se tutto ciò che in essa viene rappresentato corrispondesse a fatti reali e vissuti dal grande psicoanalista, oppure se si trattasse di totale finzione. Come per ogni cosa la verità sta nel mezzo: virtus media res est, come dicevano i latini. Le premesse sono chiare ed evidenti: non è un documentario né un biopic, ma un thriller spietato e cruento ambientato nell’epoca vittoriana, con scene sanguinarie non adatte ad un pubblico particolarmente sensibile. È una serie controversa con molte sfaccettature, su questo non ci sono dubbi, ma – Freud – è un titolo riuscitissimo, ed ora vedremo perché.
Il passo fondamentale, prima di prendere visione della serie, è quello di contestualizzare l’epoca in cui tutta la storia si svolge. Il modo in cui la vicenda si intreccia darà origine al genere, che è totalmente fuori dagli schemi, allo stesso modo in cui la psicoanalisi era completamente fuori dagli schemi del suo tempo. Ad esaltare il carattere romantico, nel senso di irrazionale, troviamo una pellicola dai colori cupi, bui, decadenti, angoscianti, mai vivaci o pienamente saturi, con personaggi realmente esistiti quali Arthur Schnitzler (scrittore e amico di Freud, scrisse “Fuga nelle tenebre”, “La Signorina Else” e il celebre “Doppio Sogno”, da cui prenderà spunto Kubrick per “Eyes wide shut”) e Joseph Breuer (anch’egli collega e amico di Sigmund, con il quale condivise gran parte degli studi sull’ipnosi e l’isteria), che ne impreziosiscono inevitabilmente la trama.
I personaggi; la trama
Molti si sono posti domande sulla scelta dei tre personaggi principali su cui è stata impostata tutta la vicenda: cosa c’entrano una medium e un ispettore con Freud? Qual è il senso di tutto ciò? Queste le domande più ricorrenti tra coloro che hanno visto la serie.
Da un’attenta valutazione traspare come proprio attraverso la scelta di questi personaggi vengano espresse le caratteristiche polimorfe dell’animo umano, che sembrano rispecchiare un parallelismo assai evidente con la seconda topica freudiana. Ed è così che tutto assume un senso. Fleur Salomé, la medium, ha tutte le peculiarità dell’Es, quell’istanza intrapsichica che rappresenta la voce interiore dell’animo umano, l’altro che è dentro di noi. L’Es contiene quelle spinte pulsionali di carattere erotico, aggressive ed auto-distruttive, che vanno a costituire quel crogiuolo di eccitamenti ribollenti sempre pronti ad emergere senza controllo. Ed ecco che l’ispettore Kiss assume tutte le sembianze del Super-io freudiano, ossia quell’istanza intrapsichica che si origina dall’interiorizzazione dei comportamenti, dei divieti, dei valori, che per un certo periodo verrà identificato anche come Ideale dell’Io, proprio a sottintendere il potere di ingiunzione morale. Rappresenta quella sorta di autorità interna, quel poliziotto interiore, che esprime giudizi sui comportamenti umani. A questo punto il personaggio di Freud, nelle vesti di un giovane medico trentenne, avrà un ruolo chiave in questa dicotomia di istanze intrapsichiche, investendo di fatto la funzione dell’Io, che ha il compito di mediare pulsioni ed esigenze sociali: l’Es e il Super-io, le turbe psichiche di Fleur che impregnano il suo mondo interiore e la realtà esterna.
Tutte e tre le istanze vanno a costituire la struttura dell’apparato psichico, così come i tre personaggi vanno a dare senso, di fatto, a tutta la struttura della trama.
Siamo nella Vienna del 1886, Sigmund ha appena 30 anni, e manifesta il desiderio di diventare famoso con le sue ricerche sull’ipnosi condotte sulle donne isteriche. È un giovane studioso alla ricerca del successo, e suo grande desiderio è quello di essere riconosciuto dalla comunità scientifica del momento. Per questo è interessato a far conoscere ai suoi rappresentanti le sue idee e le sue teorie circa l’esistenza dell’inconscio. Lo si nota perfettamente nel monologo iniziale – che verrà ripreso anche nel settimo episodio – proprio per rimarcare la potenza della terza ferita narcisistica inferta all’umanità proprio da Freud: “L’Io non è padrone in casa propria”.
Io sono una casa. È buio al mio interno. La mia coscienza è una luce solitaria. Una candela al vento. Tremola, da una parte e dall’altra. Tutto il resto è avvolto nell’ombra. Tutto il resto giace nell’inconscio. Ma le altre stanze ci sono: nicchie, corridoi, scale, porte. Sono sempre lì. Tutto ciò che vive dentro di essa, tutto ciò che vaga dentro di essa, è sempre lì. Continua a vivere e operare all’interno della casa che sono io. L’istinto, l’eros, i tabù, i pensieri proibiti, i desideri proibiti. Tutti quei ricordi che non vogliamo vedere in piena luce, che abbiamo spinto via dalla luce, continuano a ballare intorno a noi nel buio. Ci tormentano e ci pungono; ci perseguitano, bisbigliano. Ci fanno paura, ci provocano sofferenza: ci fanno diventare isterici.
Ne emerge una forte personalità che si dimostra pronta a qualsiasi cosa, anche con un pizzico di incoscienza, pur di raggiungere lo scopo sopra citato. Eppure il protagonista, proprio come il vero Freud, non è un personaggio esente da ombre. In primis appare la sua dipendenza dalla cocaina, che quasi va a disturbare e nauseare chi tanto apprezza il ruolo esemplare che egli ha avuto nel mondo della psicologia. È qui necessaria una doverosa nota storica per chi non è del mestiere. Sì, Freud, faceva uso e abuso di cocaina. Non è un mistero, giacché lui stesso osannava i miracolosi effetti di questa sostanza in “Uber Coca” (“Sulla Cocaina”), probabilmente il saggio più controverso di tutta la sua carriera, scritto proprio nel 1884. La usava anche con i suoi pazienti, come rimedio per la depressione e per “sbloccarli” in alcune fasi dell’analisi. Tuttavia non era consapevole di tutti gli effetti collaterali e devastanti di questa sostanza, che scoprirà più tardi sulla pelle del suo caro amico Fliess. Di fatto, come ribadito prima, Freud aveva all’epoca solo 30 anni e i germogli primordiali della psicoanalisi non erano ancora pronti per sbocciare.
I titoli dei vari episodi parlano chiaro: Isteria, Trauma, Sonnambulismo, Totem e Tabù, Desiderio, Regressione, Catarsi e Rimozione. Sono tutte parole che suonano come un richiamo alla sua teoria freudiana. Ed in effetti ogni tema viene affrontato mettendo in risalto le trasmutazioni caratteriali dei vari personaggi che si incontrano man mano nel corso della trama. Possiamo notare una preponderanza di visioni oniriche, occulte, demoniache e terrificanti, tipiche del linguaggio dei sogni. Ciò che è latente nella mente dei personaggi finisce inevitabilmente per diventare manifesto in maniera incontrollata: è questa la prerogativa del desiderio inconscio. Ciò che desideriamo profondamente, come ribadito fino all’ultimo episodio della serie, non può essere represso per sempre: così le emozioni legate all’invidia, la gelosia, la vergogna, finiscono in qualche modo per emergere, talvolta nel peggiore dei modi.
Le varie vicende che si susseguono appaiono come manifestazioni esternalizzate delle pulsioni più remote dell’animo umano: aggressività e sessualità emergono senza “censura”, proprio per sottolineare la caratteristica multiforme della potenza dell’inconscio teorizzato da Sigmund Freud.
Tuttavia, come accennato, questi episodi non possono essere letti singolarmente, ma al contrario, ognuno di essi, in un climax ascendente, rappresenta un passo che porta verso la maturazione di quella che diverrà in futuro la nascita della psicoanalisi. Chi ha visto la serie per intero avrà notato come il settimo episodio abbia il potere di illuminare tutte le ombre che si celavano negli episodi precedenti, in quanto rende eccellentemente omaggio a gran parte della teorizzazione freudiana, attraverso un’alternanza di scene che richiamano i vari stadi del suo pensiero: dal concetto di interiorizzazione alla catarsi, da cui prende nome l’episodio stesso. Viene evidenziata così la nascita del complesso edipico, rappresentata dall’uccisione del padre e dalla fruizione della madre, e la messa in atto delle difese psichiche quali introiezione, sublimazione, identificazione, proiezione, negazione e regressione, la cui veloce alternanza può suscitare quel senso di smarrimento e di perplessità tra gli spettatori.
Come nella realtà, viene messa in risalto l’autoanalisi. E proprio qui il personaggio di Sigmund si ritroverà a fare i conti con le proprie ombre, i propri demoni, le proprie paure, i propri desideri indicibili; è attraverso questo processo che egli diverrà cosciente del suo inconscio, ponendo le basi per quella che sarà la più grande teoria sull’animo umano. Traspaiono quindi, in assoluta limpidezza, tutti gli elementi del pensiero freudiano.
A questo punto emerge lo scopo della pellicola: utilizzare una storia romanzata, sia pure inventata e impregnata di elementi esoterici, per esprimere in maniera sottile ed assolutamente innovativa l’evoluzione della teoria psicoanalitica.
Gli omicidi
Anche questi, se vengono analizzati attentamente, fanno apparire chiaro che la simbologia freudiana è stata impiegata nel corso di tutta la pellicola: con accorgimenti minuziosi sono stati nascosti elementi che richiamano la sua teoria anche all’interno dei crimini più violenti ed efferati. D’altronde stiamo parlando di un thriller. Nel momento in cui questi elementi vengono fuori, appare evidente come il tutto faccia parte di un disegno appositamente orchestrato per rendere affascinante e misterioso il thriller ai più, ed allo stesso tempo soddisfare inconsciamente i profondi conoscitori delle teorie psicoanalitiche.
Analizziamo con attenzione il primo omicidio: una donna viene trovata senza vita nel suo letto con tagli ai genitali. Tutto diventa chiaro quando l’ispettore Kiss urla verso Georg: “Coltello vagina! Coltello vagina!”. Il coltello è il simbolo fallico per eccellenza, mentre la vagina richiama la concezione primordiale dell’isteria, di cui erano vittime soggetti femminili, i cui sintomi si credeva fossero legati ad uno spostamento dell’utero. Che l’intero paradigma riguardo la psicoanalisi prendesse di mira gli organi genitali è evidente: angoscia di castrazione e invidia penis, sono solo alcuni esempi, i più lampanti.
Per non parlare degli omicidi successivi, o tentati. Troviamo la bambina Clara, sorella di Leopold, a rischio soffocamento con una falange nella trachea. E ancora Leopold si toglierà la vita, non prima di aver scritto strani simboli con la propria falange insanguinata, in una posizione supina che richiama la posizione fetale. Vi dice qualcosa la suzione? Altro richiamo freudiano incredibile, lungimirante, di una delle fasi più importanti della sua teoria: la fase orale.
Ma visto che abbiamo accennato all’oralità, cosa dire dello stile omicida del tenore? Questa volta vi è la messa in risalto di un altro fenomeno, il cannibalismo, altro tema che ritroviamo in tutta la sua crudezza in una delle pietre miliari della psicoanalisi: Totem e Tabù. In quest’opera pubblicata nel 1913, Freud immagina l’esistenza di un’orda primitiva in cui i figli sono sottoposti all’autorità di un padre dominatore che esercita il suo dominio su tutte le donne della comunità. Essi si ribellano contro l’autorità paterna, uccidendone e divorandone il corpo, dopodiché faranno lo stesso con le donne del gruppo, nel tentativo di distruggere i ricordi del predominio paterno. Alla fantasia della suzione, presente in Leopold, si sostituisce la fantasia del divoramento: tutto ciò porta alla maturazione della fase sadico-orale in cui l’oggetto che si vuole divorare è contemporaneamente fonte di piacere e di desiderio.
Non si può non citare il rituale esoterico del settimo episodio nella casa dei conti Szápáry, in cui si respira un clima totalmente insano, demoniaco, dove compaiono in assoluta limpidezza le rappresentazioni pulsionali di Eros e Thanatos, amore e morte, sesso e disintegrazione, in tutta la loro ambivalenza, mentre Fleur uccide – e al contempo sessualizza – la sua ennesima vittima. È a questo punto che si raggiunge l’apice del pensiero freudiano.
Curiosità
Molte sono le parole chiave che troviamo all’interno della serie. Una di queste è Táltos, che riguarda la mitologia ungherese: si tratta di una sorta di sciamano che ha il compito particolare di curare nel corpo e nell’anima i membri della sua comunità. Senza troppa fantasia si può notare come questa parola suoni in maniera molto simile alla parola Thánatos; in effetti nella serie viene messo sempre in evidenza l’emergere di un’indole di morte e di distruzione, di ritorno all’inorganico, di espletamento della propria malvagità e dei propri mostri interiori.
L’ispettore Kiss, che come detto può assumere le sembianze del Super-io freudiano, esalta tutte le caratteristiche dell’unilateralizzazione psichica. Appare evidente, infatti, la sua struttura rigida, a causa della quale il suo sintomo finisce inevitabilmente per riportarlo indietro nel tempo e a fare i conti con il suo passato: sono presenti continui flashback che evidenziano una storia personale fin troppo tragica, la cui crudezza riporta Kiss ad irrigidire la sua struttura psichica sempre di più. Deplorevole verso qualunque forma di ingiustizia sociale, egli ne risponde con ferocia e rabbia, fino al momento di catarsi finale in cui lotterà con la sua parte nascosta. Tutto ciò lo condurrà a compiere una scelta, ricordandoci che il Super-io, se diventa estremamente rigido, inflessibile e vietante, può essere esso stesso, a tutti gli effetti, nocivo per la salute mentale e, proprio come succede all’ispettore, alla fine la sua parte soppressa prenderà il sopravvento.
Nelle varie scene Freud viene chiamato con tutti i suoi nomi: Sigmund, Sigismund e Schlomo. Nella realtà gli ultimi due sono i suoi veri nomi, mentre quello che noi tutti conosciamo, Sigmund, è quello che sceglierà in seguito per se stesso. Durante la visione si possono notare le sue mani sempre sporche. Ma di cosa? Possiamo ipotizzare che quelle macchie siano prodotte dalla china con cui veniva realizzato l’inchiostro. Infatti, nella realtà, non possiamo non notare la sconfinata produzione della sua opera omnia e dei vari carteggi che sono giunti fino a noi.
L’amico di Freud che si vede sin dalle scene iniziali è, come già accennato, Arthur Schnitzler. Nella pellicola sono grandi amici, entrambi medici. Nella casa dei conti Szápáry, Arthur viene presentato come poeta, mentre egli stesso presenta l’amico Sigmund come neurologo, alienista e ribelle. Vi è un accenno anche all’ultimo romanzo di Arthur; tuttavia il primo romanzo che lui abbia scritto risale al 1888 (“L’avventura della sua vita”), mentre il film sembra ambientato un po’ prima. Non è la prima discordanza storica, né sarà l’ultima. Ma il grande lavoro del genio creativo cinematografico sta proprio nell’aver accostato queste due figure nonostante loro non si fossero conosciuti nella realtà se non prima del 1922, dopo ben 15 anni circa di rapporto epistolare; Freud stesso confesserà a Schnitzler di non avergli mai proposto di incontrarsi di persona per il suo segreto timore verso di lui, in quanto lo considerava il suo “doppio”, il suo sosia. Gradevole quindi l’esperimento di accostarli sin da giovani nella pellicola, mettendo in risalto la loro complicità.
Theodor Meynert, è stato realmente direttore del Dipartimento di psichiatria dell’Università di Vienna e fu docente all’università. Sigmund Freud e Joseph Breuer furono realmente entrambi suoi studenti.
Durante il terzo episodio Freud, intento a scrivere una lettera all’amata Martha Bernays, le si rivolge chiamandola col nome di Fleur, la medium che diverrà sua paziente. Questo fatto è un chiaro richiamo al concetto di lapsus freudiano, considerato nella sua teoria come una delle manifestazioni più ribelli del nostro inconscio.
All’inizio del quarto episodio, durante il sogno di Freud, mentre egli lotta col suo istinto di conservazione, la madre si strofina le mani sporche di terra dicendo: “Veniamo tutti dalla terra e alla terra torneremo”. È la condizione primaria del concetto di Thanatos, ossia il ritorno all’inorganico.
Un altro aneddoto curioso compare durante il quinto episodio, quando Freud uscendo dal suo appartamento si ferma ad osservare una donna che porta al guinzaglio uno splendido esemplare di chow chow. A questo punto esclama tra sé e sé: “Un chow chow!”. Ebbene, forse non tutti sanno che Freud ebbe davvero una splendida cagnolina di questa razza di nome Jofi, che sarà sempre presente alle future sedute di analisi del suo padrone.
Considerazioni personali
Secondo il mio personale giudizio la pellicola della serie “Freud”, che molti si aspettavano probabilmente come un lavoro biografico, appartiene invece al genere “thriller-fantastico” con elementi horror all’interno di un’ambientazione vittoriana strepitosa dove costumi, personaggi, scene e musiche sono perfettamente in sintonia con lo scopo del film. Le scene che riguardano i fenomeni paranormali potrebbero avere una diversa interpretazione: riflettono riuscitissime visioni oniriche che richiamano le peggiori fantasie inconsce dell’animo umano. Vienna, grande capitale della cultura, ospita un esperimento cinematografico che reputo riuscitissimo. Probabilmente per la prima volta siamo in presenza di un genere nuovo: non è un thriller psicologico, ma un thriller impregnato di psicologia. A mio avviso, se fossero stati applicati tutti gli accorgimenti storici del caso, la serie sarebbe potuta risultare pedante e noiosa, togliendo di per sé il piacere di scoprire le numerosissime “perle psicoanalitiche” che arricchiscono la sceneggiatura.
Considero inoltre una scelta coraggiosa, quella del regista, di presentare un Freud che si distolga quasi totalmente dall’idea cosciente che abbiamo di lui, presentandolo in tutta la sua umanità: il personaggio richiama a tutti gli effetti l’idea del “perturbante”. È una serie talmente controversa che è riuscita a sconvolgere i puritani della psicologia. Ma teniamo a mente che a quell’epoca anche le idee freudiane sconvolsero l’opinione pubblica. Chissà, che lo scopo del regista, non fosse proprio quello di farci provare in modo viscerale il senso di inquietudine che Freud ha provato prima di noi, a suo tempo.
Molti lamentano il surreale utilizzo dell’ipnosi nelle varie scene, ridicolizzando questo fenomeno a causa dei tempi brevissimi con cui viene praticata, non considerando affatto i tempi cinematografici che sono assai diversi dalla realtà. Inoltre la pellicola ha inevitabilmente riportato alla luce lo scopo goliardico dell’ipnosi, che in quell’epoca veniva utilizzata come fenomeno d’attrazione negli spettacoli e nelle feste private. Inoltre l’occultismo, nel periodo in cui visse Freud, era un fenomeno spesso accostato alla psicologia. Il padre della psicoanalisi fu molto interessato a questi fenomeni, anche perché in quel periodo essi erano oggetto di studio da parte di numerosi autori, seppur chiamati con nomi diversi: ricerca psichica in Francia, metapsichica nei Paesi Anglosassoni e okkultismus in Germania. Oggi conosciamo questo fenomeno col nome di parapsicologia. Nel 1911 divenne membro della Society for Psychical Research, un’istituzione inglese di grande prestigio a carattere scientifico in cui venivano studiati la trasmissione del pensiero e la telepatia, la previsione del futuro e le visioni a distanza. Dopo il 1921 Freud studiò questi fenomeni e, anche se non li accettò pienamente, non li rifiutò: un esempio lo troviamo nel suo saggio intitolato “Psicoanalisi e telepatia”, dove pur essendo contrario a considerare l’esistenza dei fenomeni occulti, finì col non evitarli.
Come non citare il lavoro di quello che sarebbe diventato un altro gigante della psicologia analitica? L’allora giovane talentuoso – seppur sconosciuto – Carl Gustav Jung nel 1902 si laureò in medicina proprio con una tesi intitolata “Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti”.
Ma quello che reputo ancora più importante, e qui va il mio elogio per questa produzione di eccellenza, è l’aver provato a trasmettere un importante messaggio. Freud, nel corso della sua esistenza, cercò sempre di dare dignità al disagio psichico dei propri pazienti. La stessa dignità che il Sigmund della serie tenta in tutti i modi di comunicare, mettendosi contro i grandi dogmi della psichiatria, dei colleghi, delle evidenze scientifiche del tempo, proprio come nella realtà Freud si batté a lungo per dare un senso alle nevrosi, all’isteria e alle varie forme di psicopatologia.
Personalmente non posso che attendere la seconda stagione di questa serie per vedere la maturazione di questo grande esperimento cinematografico.
Voto 10 e lode.
ANALISI PSICOLOGICA DELLA SERIE NETFLIX “FREUD” – GUARDA IL VIDEO:
Contagi biologici e contagi psicologici
Senza dubbio il coronavirus ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia per ridurre il contagio impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia.
Qui chi non terrorizza Si ammala di terrore …
(Fabrizio de André, Il Bombarolo)
La pratica clinica della psichiatria territoriale mi ha spesso portato a contatto con pazienti molto preoccupati per le malattie contagiose. In questi casi il lavaggio delle mani diventa un rituale defatigante, le disinfezioni di luoghi od ambienti occupano via via gran parte della giornata, ma la serenità non ritorna, la sicurezza sfugge, le energie profuse si esauriscono senza offrire alcun conforto. Il partner, i familiari, spesso anche il paziente stesso, avvertono le pratiche di purificazione come ridondanti ed assurde e chiedono aiuto. La società ed il sistema sanitario offrono risorse professionali. Una costellazione emotiva (contagio/infezione/purificazione) viene configurandosi su un piano culturale e scientifico come un comportamento irragionevole, manifestazione di una implicita follia. Le diagnosi formulate dai clinici includono senza dubbio quelle di fobia e di ipocondria.
In questo senso le società occidentali moderne si differenziano dalle civiltà primitive o semplicemente arcaiche dove il contatto con determinate oggetti, situazioni o membri della società (il tabù degli antropologi, cfr. Douglas 1966) comportava un pericolo strettamente rituale. Ad esempio nella cultura indiana il contagio rituale è incardinato alla gerarchie delle caste. Qualsiasi contatto con le caste inferiori produce una inevitabile e pericolosa impurità.
Nel corso della storia europea la rappresentazione culturale dell’impurità si è modificata profondamente. Il cristianesimo medioevale la ha riformulata prevalentemente nei termini di contatto sessuale impuro. L’acqua delle antiche purificazioni è stata sostituita dai riti della penitenza, non raramente caratterizzati da altrettanto evidenti componenti magiche e da un carattere di coattività.
Le malattie epidemiche hanno inevitabilmente attivato periodici processi di regressione. La paura del contagio promosso da ipotetici untori si è periodicamente sostituita alla interazione sessuale come paradigma della minaccia.
Oggi, appunto, l’umanità si confronta di nuovo, dopo vari decenni, con una malattia contagiosa gravata da significativa morbilità e mortalità, soprattutto nei soggetti anziani. E la paura cresce senza sosta. Epidemiologi, opinione pubblica, media e governo e si rincorrono chiedendo provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale. Cresce l’ostilità tra i cittadini. Anziane pensionate non mancano di apostrofare i rari passanti, agguerrite commesse dettano precise disposizioni igieniche a consumatori attoniti, cittadini zelanti denunciano alle forze dell’ordine ogni ipotetica violazione delle prescrizioni governative, mentre i giovani più dotati di competenze informatiche non esitano ad esporre alla gogna mediatica innocenti runner o bambini indisciplinati.
Senza dubbio l’agente della SARS covid-19 ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia. I problemi sociali ed economici che attanagliano il nostro paese sono pressoché scomparsi dal dibattito politico, mentre la ricchezza pubblica è stata profusa senza risparmio nel tentativo, peraltro non riuscito, di arrestare il progredire della pandemia. Come ha osservato il noto filosofo della politica Giorgio Agamben (2018), l’epidemia da coronavirus ha rapidamente configurato uno stato di eccezione di fronte al quale le stesse garanzie costituzionali sono apparse come assolutamente irrilevanti, preoccupazioni superflue per giuristi perditempo.
Libertà, giustizia sociale, esperienza religiosa – i principi guida attorno a cui si è organizzata la nostra costituzione e per i quali sono stati versati fiumi di sangue – hanno perso improvvisamente qualsiasi importanza. La paura ha assunto una centralità assoluta nell’immaginario collettivo della società contemporanea. Si è rapidamente affermata l’idea che tutta la struttura sociale e l’organizzazione economica debbano essere riorganizzate esclusivamente in funzione del controllo del contagio.
Come nelle società primitive, contatto, contagio e terrore sono ritornati al centro dell’immaginario collettivo. Le angosce ipocondriache sono traboccate dal recesso in cui il pensiero moderno le aveva relegate. Le parti fobiche e ipocondriache della personalità hanno preso il controllo della cultura contemporanea. Così, nelle società avanzate del XXI secolo la follia diviene pensiero ufficiale, anzi pensiero unico, e inquietanti guardiani della rivoluzione esigono dagli organi della pubblica sicurezza scrupolosi interventi censori su ogni forma di dissenso.
Cosa è successo all’uomo contemporaneo? Come può un’intera società ammalarsi di paura? Gli studi e le esperienze di Wilfred Bion (1961) durante la Seconda Guerra Mondiale hanno illuminato in modo straordinariamente originale i comportamenti regressivi nei gruppi. Quando un gruppo attraversa un momento di difficoltà ed impotenza regredisce a modalità di funzionamento primitive in cui lo scambio emotivo e la ricerca della verità sono sostituti da pregiudizi e imperativi categorici. Sotto questo punto di vista l’invasione dello spazio sociale da parte di un irresistibile sentimento di paura può essere associato nella terminologia di Bion all’assunto di base di attacco e fuga, in cui le fantasie inconsce condivise nel gruppo sono annichilite da un generale sentimento di minaccia.
Nelle viscere della società contemporanea si cela dunque un pericolo enigmatico ed inquietante. Cosa terrorizza l’uomo moderno? Perché minacce socialmente altrettanto o forse ancor più gravi, come il terrorismo, l’inquinamento atmosferico od il cancro non hanno un impatto sulla vita emotiva delle collettività minimamente paragonabile con quella di una malattia infettiva? Quale oscura risonanza può evocare un virus respiratorio nell’immaginario occidentale?
Per rispondere a queste domande occorre anzitutto ricordare che il moderno si è costituito attorno ad una ben precisa opzione epistemologica. L’adozione ormai plebiscitaria di un materialismo estremo ha comportato una evidente sottovalutazione delle esperienze emotive e del loro ruolo nelle società umane e nella vita degli individui. In particolare il dolore connesso con le esperienze di separazione è stato ed è oggetto di una negazione particolarmente accanita.
Ora, il ciclo della vita comporta un inevitabile carico di dolore emotivo. La crescita implica più o meno traumatiche separazioni. L’invecchiamento compromettere i ruoli familiari e sociali degli adulti. Anche nella società iper medicalizzata degli antibiotici, dei vaccini e dei trapianti, la malattia e la morte restano implicite nella condizione umana, lasciano una inevitabile scia di sofferenza nella famiglia e nella comunità.
Proprio attorno a queste esperienze di lutto e separazione la cultura contemporanea ha tentato di costruire un muro impenetrabile, ricorrendo a massicci meccanismi di negazione. Ha isolato e sterilizzato la morte dentro contenitori ospedalieri. Ha nascosto i cadaveri in remoti forni crematori. Quanto queste strutture culturali abbiano avuto un notevole impatto sulle misure di contenimento del coronavirus è attualmente sotto gli occhi tutti. Del resto il distanziamento tra le generazioni, ma anche all’interno della coppia, che caratterizza in modo così evidente la società contemporanea, è iniziato molto prima che i virologi evocassero lo spettro del contagio intrafamiliare.
La progressiva e ormai definitiva affermazione della famiglia nucleare e il diffondersi del modello celibatario permanente riflettono la paura e il disagio nei confronti delle relazioni interpersonali intense e rappresentano una risposta estrema ai conflitti interpersonali e coniugali.
Eppure non è possibile alcuna interazione umana senza un significativo scambio di emozioni: gioie ma soprattutto dolori. I contatti che avvengono nella coppia e nella famiglia, non trasmettono solo virus, ma anche un inevitabile carico di ansia, dolore, tensioni, conflitti e paure. Ecco il contagio che atterrisce veramente l’uomo contemporaneo: le emozioni che si generano nell’interazione interpersonale.
Ma da questo contagio non può difenderci nessuna, per quanto accurata, misura di sicurezza, nessuna mascherina chirurgica o con valvola. Dalla fatica delle relazioni interpersonali può liberarci definitivamente solo la solitudine. O la morte.
Bipolarità, ipersessualità e qualità della relazione di coppia: qual è il loro rapporto?
Non sono rare le problematiche sessuali in pazienti psichiatrici. Per quanto riguarda le persone bipolari sembra che due aspetti della salute sessuale siano peculiari: l’ipersessualità e l’interruzione dei rapporti di coppia.
I problemi sessuali nei pazienti psichiatrici sono ben documentati in letteratura, tuttavia la maggior parte degli studi non distingue tra categorie diagnostiche (Bossini et al., 2013; Labbate & Lare, 2001; Rizvi et al., 2011; Swan & Wilson, 1979; Wylie et al., 2002). Molte delle difficoltà associate ai pazienti bipolari sono comuni a tutti i disturbi psichiatrici. Questi possono includere disfunzioni sessuali dovute a farmaci, aumento del rischio di malattie sessualmente trasmissibili (MST) e la trascuratezza generale delle questioni sessuali in sede di trattamento (Magidson et al., 2014; Segraves, 1989; Wright et al., 2007). Due aspetti della salute sessuale sono unici nel disturbo bipolare, vale a dire l’ipersessualità e l’interruzione dei rapporti di coppia, dovuti al ciclo dell’umore. Tuttavia, abbiamo poca letteratura concernente le difficoltà sessuali legate al disturbo bipolare, così come manca una definizione vera e propria di ipersessualità.
Una ricerca di PsycINFO e PubMed è stata condotta al fine esaminare la letteratura e le ricerche esistenti sull’ipersessualità indotta dalla mania e sugli effetti del ciclo dell’umore sulle relazioni di coppia, così da sintetizzare i risultati disponibili e direzionare gli studi successivi. Per la revisione sono stati selezionati 27 articoli, di cui 16 affrontano il tema dell’ipersessualità.
I primi studi sulla relazione tra disturbo maniaco – depressivo e ipersessualità sono stati condotti negli anni ’60 e ’70. Precisamente è stato riscontrato, sia in uomini che donne, un aumento della libido e dell’attività sessuale durante la fase maniacale, con un aumento maggiore della probabilità nelle donne di impegnarsi in attività sessuali provocanti, come flirt, allusioni al sesso e comportamenti seducenti (Allison & Wilson, 1960; Clayton et al., 1963; Carlson & Goodwin, 1973;). È inoltre emerso che la libido dei pazienti tende a diminuire significativamente durante la fase depressiva (Clayton et al., 1963). Infine, in uno studio di Jamison e colleghi (1980) il 40% dei pazienti avevano percepito l’aumento del desiderio e del comportamento sessuale, durante la fase maniacale o ipomaniacale, come un cambiamento positivo. Nello specifico, le donne mostravano più emozioni positive, rispetto agli uomini, associate a tali trasformazioni. Appare, quindi, evidente la presenza di correlazione tra la ciclicità degli episodi dell’umore e la fluttuazione della libido dei pazienti. Per di più, l’alternarsi delle fasi di mania con le fasi depressive si associa a fluttuazioni sessuali dirompenti che possono essere molto difficili da gestire, sia dal partner che dal paziente stesso. Studi più recenti, come quello di Mazza e colleghi (2011) e di Mahadevan e colleghi (2013), non solo hanno confermato le ipotesi precedentemente elencate, ma hanno anche aggiunto l’assenza di differenze significative tra i soggetti con disturbo bipolare I e i pazienti con disturbo bipolare II. Pertanto è possibile concludere che la ricerca sull’aumento della libido come sintomo della depressione bipolare è giustificato. Tuttavia, è da tenere in considerazione che non sono state fatte numerose ricerche, in tempi recenti, che abbiano analizzato questa dinamica o che abbiano tentato di replicare questi risultati.
La letteratura sembra anche mostrare che i comportamenti sessuali a rischio sono più frequenti in questa categoria diagnostica, precisamente nel corso della fase maniacale, rispetto ai pazienti appartenenti al gruppo di controllo, sebbene non siano prevalenti soltanto nei pazienti bipolari. Questa tipologia di condotta, viene molto spesso riscontrata anche in pazienti depressi, schizofrenici e schizoaffettivi.
Per quanto concerne l’aspetto delle relazioni di coppia, gli articoli considerati hanno rivelato che i pazienti bipolari hanno più punti di forza utili nel gestire le loro relazioni rispetto ai pazienti con altre malattie mentali croniche. Non soltanto sembrano essere più capaci di mantenere relazioni stabili, ma anche hanno più probabilità di avere figli rispetto ai pazienti con disturbi dello spettro psicotico. Precisamente, negli esperimenti che hanno usufruito di gruppi di controllo sani, i pazienti con disturbo bipolare si avvicinavano maggiormente ai gruppi di controllo per quanto riguarda la qualità della relazione, lo sviluppo sessuale, la soddisfazione sessuale e l’adattamento coniugale. Tuttavia, i partner di questa tipologia di pazienti hanno rivelato una diminuzione della soddisfazione sessuale, oltre che ad una complessiva insoddisfazione coniugale, sia durante la fase maniacale che depressiva della malattia. Infine, è apparso evidente che problemi di disfunzione sessuale nei pazienti bipolari sembrano essere più comuni durante gli episodi depressivi, sottolineando ancora di più la presenza di un rapporto tra la depressione e l’iposessualità.
Per quanto concerne i limiti delle ricerche finora condotte, non solo manca una definizione chiara di ipersessualità, ma anche un chiarimento circa il comportamento sessuale a rischio. Tale denominazione può fare riferimento a comportamenti di flirting, masturbazione, prostituzione e sesso non protetto. Inoltre, la presente revisione, non ha trovato alcuno studio attuale che abbia esaminato l’eziologia, il decorso o la prevalenza dell’ipersessualità in episodi maniacali e ipomaniacali, così come non sono state trovate ricerche recenti che abbiano esaminato il rapporto tra depressione bipolare e iposessualità.
Approfondire tali tematiche, in relazione al disturbo bipolare, avrebbe sicuramente delle significative implicazioni per il trattamento, gli esiti e la qualità generale della vita di questi pazienti.
L’importanza del packaging nella selezione dei prodotti alimentari
Il modo in cui un prodotto commerciale, e nello specifico uno di tipo alimentare, viene presentato, influisce sulla decisione del consumatore di acquistarlo, in quanto aiuta ad evitare di portare sulla propria tavola cibi che contrastano con la propria filosofia alimentare.
Ogni confezione fornisce, infatti, una serie di informazioni riguardanti gli ingredienti e i procedimenti di preparazione utilizzati, i quali possono essere considerati degli importanti indicatori della qualità di ciò che si è prossimi a comprare (Hawkes, 2010). A tal proposito particolare attenzione viene attribuita sia agli elementi non-verbali, come forma, grafica, colore e dimensione, sia agli elementi verbali relativi ai valori nutrizionali ed ai benefici in termini di salute (Silayoi & Speece, 2004). È necessario infatti che le scelte effettuate in termini di combinazioni di colori e di immagini presentate rispecchino il messaggio finale che si vuole trasmettere al futuro acquirente (Kozup, Creyer, & Burton, 2003).
Partendo dal presupposto che le nuove generazioni sono complessivamente sensibili al benessere psicofisico, oltre che all’importanza di avere abitudini salutari (Valentine & Powers, 2013), il presente studio si propone di indagare la relazione tra stile di vita ed attenzione al packaging dei prodotti alimentari acquistati, considerando anche le possibili differenze tra fasce d’età (Kuster, Vila, & Sarabia, 2019). Focalizzandosi su un campione di individui nati tra il 1982 ed il 2004, i questionari somministrati hanno valutato la tipologia di stile di vita condotto, l’importanza dedicata al cibo, al fine di avere una corretta alimentazione, e la rilevanza del packaging utilizzato nella scelta dei prodotti da acquistare. Nello specifico, il primo aspetto comprende una distinzione tra stile di vita sano e non, in base alla frequenza con la quale viene praticato lo sport, al seguire delle corrette abitudini per quanto riguarda le attività di riposo e le ore di sonno giornaliero ed al tipo di educazione alimentare seguita. Il secondo aspetto, invece, prende in esame ogni singolo elemento implicato nell’adottare un’alimentazione corretta, ovvero, acquisto, preparazione, cottura, consumo e smaltimento. Il terzo aspetto, infine, considera l’importanza attribuita a stimoli visivi e verbali riportati sulle confezioni dei prodotti alimentari acquistati.
I risultati rilevano innanzitutto una relazione tra un corretto ciclo sonno-veglia ed un’alta attenzione al tipo di alimentazione seguita, mostrando come il voler avere uno stile di vita sano concerne anche la scelta di quali cibi vengono consumati. Inoltre, i dati confermano che i consumatori prendono in considerazione il tipo di packaging utilizzato prima di decidere se acquistare o meno un determinato prodotto alimentare e che questo è tanto più vero per coloro che rientrano nella categoria dei giovani adulti piuttosto che per gli adolescenti del presente studio. Sembrerebbe infatti che coloro che sono nati tra il 1982 e il 1996 siano più inclini a notare questi aspetti rispetto ai più giovani che invece sono particolarmente abili in ciò che concerne le nuove tecnologie e le informazioni da esse veicolate (Higgins, Wolf, & Wolf, 2016).
In conclusione, quanto emerso deve sollecitare l’industria alimentare ad investire sul miglioramento degli elementi visivi e verbali riportati sulle confezioni dei loro prodotti, se si vuole ottenere un aumento nelle vendite, oltre che un diffondersi di un’educazione basata su una cultura alimentare sana. Il consumatore, propenso all’acquisto di prodotti che ispirano fiducia e sicurezza, sarà in questo modo incoraggiato a condurre uno stile di vita sano e avrà maggior consapevolezza dei benefici che una corretta alimentazione comporta in termini di salute.
La comunicazione, tra il detto e il non detto. Tra il linguaggio e la comunicazione non verbale.
Elemento importante che contraddistingue l’essere umano rispetto gli animali è l’uso della parola per riuscire a rapportarsi insieme ai suoi simili, e per riuscire anche in quello che è il ruolo della sopravvivenza dell’essere umano, perché grazie al linguaggio gli esseri umani riescono ad avvertire i propri simili della presenza di un eventuale pericolo, oppure a renderli partecipi dei propri stati d’animo e sentimenti.
Il linguaggio è stato uno dei più grandi misteri che ha accompagnato l’uomo. Si è attribuita a questa capacità una visione religiosa e mistica, in quanto, nessun altro essere è in grado di attribuire un nome agli oggetti, oppure di utilizzare simboli per rapportarsi a questi. Ai giorni d’oggi è vista come oggetto di studi esaminato da parte di psicologi, psicolinguisti, e psicologi dello sviluppo; questo perché molti sono stati attratti dalla la visione della scoperta del processo che porta il bambino allo sviluppo del linguaggio e a imparare quella che è la lingua madre e le altre lingue. Da sempre molti studiosi si sono chiesti come questo avvenga. Su questo tema sono sorte diverse teorie e anche diversi punti di vista con lo scopo di spiegare i possibili sviluppi che si manifestano nel bambino e la loro relazione con gli organi deputati al linguaggio; ma queste stesse teorie manifestano anche un’incapacità nel riuscire a spiegare lo sviluppo di determinati fenomeni linguistici.
Partendo da quanto dice il Vocabolario Zanichelli (2007) il linguaggio non è altro che la:
Capacità peculiare della specie umana dì comunicare per mezzo di un sistema di segni vocali […] la quale presuppone l’esistenza di una funzione simbolica[…].
Gli autori mettono in evidenza come per gli esseri umani sia rilevante e stretto il collegamento tra la funzione comunicativa e quella linguistica. Ma qual è, effettivamente il legame che esiste tra il linguaggio e la comunicazione? Non è sempre così evidente come sembra. Si può notare come le diverse specie animali comunicano tra di loro anche senza l’uso della parola, questo induce a pensare che tra di loro stia avvenendo una forma di comunicazione; un esempio è la danza delle api le quali muovono il loro corpo con la finalità di trasmettere un messaggio. Anche la capacità da parte dell’essere umano di riuscire a trasmettere dei messaggi ai suoi simili grazie alla condivisione di alcuni gesti, ad esempio la lingua dei segni, comporta l’utilizzo di questo metodo. Da questo, allora, si deduce che la comunicazione necessita della condivisione di uno stesso codice, ma è possibile comunicare anche con altri sistemi oltre ad adoperare un codice prettamente verbale. L’uso della lingua parlata ha in sé la capacità di poterla modificare, tale processo di modifica viene definito come la ‘creatività del linguaggio’. Il linguaggio è articolato su due livelli: il livello dei suoni (fenomeni) e quello delle parole (dualità di struttura). I suoni in sé non hanno alcun significato; a loro volta combinando le parole tra loro otteniamo le frasi il cui significato è più della somma delle parole. Infatti la creatività del linguaggio sta proprio in questo: nella capacità di poter variare in maniera infinita i discreti elementi delle parole così da poter formare le varie frasi con diverso significato. In linguistica con il termine di competenza ci si riferisce alla piena conoscenza di una lingua, tale termine è molto usato da parte degli psicologi che si occupano dei processi dì elaborazione del linguaggio. Importante è distinguere la competenza, dall’utilizzo effettivo della lingua, cioè l’esecuzione linguistica. Una proprietà importante riguardante l’implicazione dello studio e l’elaborazione linguistica è la sua forma arbitraria di comunicazione; cioè la sua trasmissione arbitraria che è impossibile da cogliere senza la preliminare comprensione della sua forma e del significato. In una posizione diametralmente opposta vi è la dimensione iconica, all’interno della quale è possibile individuare il significato del messaggio espresso dal soggetto.
Ma naturalmente non è possibile esprimersi attraverso la sola forma iconica, anche se di gran lunga più facile da imparare; perché un messaggio necessita di un segno concordato in precedenza per designare parti particolari del messaggio. Quindi la rappresentazione arbitraria del significato è essenziale alla piena creatività di una lingua, i messaggi espressi solo esclusivamente in forma iconica, trasmetterebbero solamente una stretta forma di messaggi, compromettendo la creatività linguistica.
La capacità di linguaggio è una capacità umana ed è possibile che ci sia un salto qualitativo tra noi e le altre specie animali, specialmente quelle più prossime. Molti, infatti, sono gli studi attuati su diversi animali, tra i quali i più importanti sono gli esperimenti fatti sugli scimpanzé.
Uno tra i più famosi di questi è quello svolti da Hayes e Hayes (1951). Questi allevarono per 6 anni uno scimpanzé di nome Vicky insegnandogli la lingua inglese, ma quest’animale, dopo tutto il periodo di addestramento, era riuscito ad acquisire la capacità di dire 4 parole.
Una ragione dell’insuccesso totale di questi studi è sicuramente il fatto che l’apparato fonatorio dei primati non umani non è adatto a produrre suoni linguistici; per esempio, i primati non umani, come nell’esperimento di Hayes e collega, non sono in grado di controllare le labbra e la lingua in modo da ostruire l’aria come gli umani, e la loro laringe è troppo alta per poter permettere la produzione dei suono tipici del linguaggio. Nel tentativo di superare i limiti anatomici dei primati non umani, i ricercatori hanno utilizzato diverse strategie per quanto riguarda l’acquisizione di un linguaggio diverso da quello orale.
I coniugi Gardner (1969,1971) utilizzarono la lingua dei segni americana (ASL), cercando di insegnarla allo scimpanzé femmina di 10 mesi, Washoe. Da 11 a 51 mesi Washoe fu esposta a una forma semplificata del lingua dei segni americana e acquisì circa 150 segni attraverso l’ imitazione, o in altri casi attraverso l’addestramento specifico, in cui l’insegnante faceva alla mano di Washoe la forma del segno e poi ne guidava il movimento. Washoe imparò a combinare i segni, in modo abbastanza simile a quanto fanno i bambini di 2 anni (es. “tu bere, andare, mangiare”); tuttavia ad un esame attento si è osservato che l’ordine dei segni nella produzione di Washoe era meno rigido e più caotico rispetto a quanto si osserva nelle combinazioni dei bambini. Washoe era in grado di distinguere ordini diversi delle parole ( “tu picchi me ” ; “io picchio tè”). Tutta via non era in grado di svolgere spontaneamente dette domande nei confronti di chi l’accudiva, cosa che invece i bambini fanno. I dati ottenuti dagli esperimenti dei Gardner furono in seguito riesaminati e ne fu sottolineata la difficoltà nell’interpretare i diversi segni di Washoe in termini di abilità linguistiche. Riesaminando il lavoro di Gardner, Terrace, Petitto Sanders e Bever (1979), osservando le registrazioni di Washoe, hanno notato come l’animale imitasse i movimenti che produceva l’istruttore .
Conclusioni simili sono state tratte nei confronti delle abilità di Nim, uno scimpanzé studiato da Terrace e colleghi (1979). Anche questo scimpanzé ha imparato durante i suoi primi 4 anni di vita la lingua dei segni americana, ha acquisito numerosi gesti e ha prodotto circa 20.000 combinazioni formate da 2 o più gesti rispettando un certo ordine. Ma a un’analisi attenta è risultato che, a differenza di quanto accade nei bambini, che col tempo acquisiscono una maggiore padronanza della lingua e producono frasi sempre più lunghe ed elaborate, questo non avviene in Nim, che invece, produce sempre frasi brevi e poco elaborate. Inoltre, si è evidenziata una scarsa capacità d’iniziativa da parte di quest’ultima, la quale tende a terminare frasi già iniziate dall’istruttore e, come nel caso di Washoe, a riprodurre i gestì forniti dall’istruttore .
Premack (1971), invece, ha usato con Sarah, un altro scimpanzé di 7 anni, un linguaggio artificiale in cui dei gettoni di plastica, di forma, colore, dimensione, differente l’uno dall’altro, diventavano delle vere e proprie lettere che venivano cambiate in modo da formare una comunicazione linguistica con le proprie regole arbitrarie.
A differenza degli altri animali degli studi esposti prima, Sarah era stata cresciuta in un laboratorio e inizialmente le erano stati insegnati due segni, tra i quali essa doveva scegliere quello corretto e veniva premiata con del cibo. Così Sarah imparò ad associare simboli e oggetti o eventi, parole che stavano per attributi, azioni e relazioni astratte. Successivamente, lo scimpanzé è stato addestrato a rispondere a sequenze e simboli. Combinando i gettoni in un ordine differente Sarah riusciva produrre delle frasi differenti. Essa manifestava una certa sensibilità all’ordine delle parole nell’esecuzione dei compiti. Tuttavia, fuori dal laboratorio Sarah si mostrava come indifferente rispetto agli stimoli simbolici; questo suggerisce che non aveva imparato a parlare ma a risolvere determinati problemi con l’ausilio dei simboli e dei gettoni.
Curare i Disturbi dell’Alimentazione al tempo del Coronavirus: intervista agli esperti
Il 16 aprile la Dott.ssa Rosaria Nocita, coordinatrice del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano – CIPda, ha intervistato i professionisti che attualmente si stanno occupando di pazienti affetti da Disturbi dell’Alimentazione (DA).
Le condizioni della Quaratena degli ultimi mesi stanno accentuando il disagio per queste persone, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista psicologico. Alle problematiche proprie del Disturbi Alimentari, sintomi da malnutrizione e bisogno estremo di controllo, si aggiungono limitazioni sulle possibilità di cura, cambiamenti relativi al setting (da terapie vis à vis a terapie online) e, per pazienti adolescenti, una maggiore difficoltà delle relazioni con i genitori e della gestione alimentare condivisa con essi.
Ma quali sono i problemi che, in questo periodo, emergono maggiormente nella cura di pazienti con Disturbi Alimentari? Cosa si nota rispetto alla difficoltà di ingaggiare questi pazienti? È cambiata la motivazione al trattamento? Come stanno affrontando i problemi della convivenza gli adolescenti e i loro genitori? Gli esperti intervistati hanno fornito risposte molto interessanti su questi temi e hanno offerto un ricco contributo grazie alle diverse competenze e all’esperienza in contesti di cura differenti di ciascuno.
CURARE I DISTURBI ALIMENTARI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS – GUARDA L’INTERVISTA:
CONTATTI
– Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10. – Telefono: 02 36725912
– E-mail:[email protected]
– Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19 (In ottemperanza alla legge per la tutela dei dati personali le informazioni di tipo sanitario non vengono fornite al telefono e la consegna di certificati e copie della documentazione clinica sono rilasciate unicamente all’interessato o a persona da lui delegata per iscritto).
DSA e Intervento Integrato: l’importanza di un intervento di gruppo
I DSA, Disturbo Specifico dell’Apprendimento, riguardano difficoltà di lettura, scrittura e/o calcolo: i bambini a cui è stata posta diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento non hanno un deficit intellettivo, anzi, affinché esso si possa diagnosticare il Quoziente Intellettivo deve rientrare nella norma (American Psychiatric Association, 2013).
I disturbi dell’apprendimento che rientrano nei DSA sono: specifici, perché riguardano esclusivamente alcuni processi di apprendimento, hanno una matrice evolutiva, in quanto il disturbo dell’apprendimento si manifesta in età evolutiva ed è modificabile con interventi specifici, e hanno origine neurobiologica, dato che i DSA non sono conseguenze di traumi, blocchi educativi, psicologici, relazionali e non nascono dalla poca applicazione allo studio.
I limiti di un intervento standard
La presa in carico di un bambino o ragazzo con DSA si articola, solitamente, nelle seguenti attività: diagnosi, progettazione e realizzazione di training riabilitativi, applicando protocolli specifici per il potenziamento delle abilità cognitive dei pazienti. Tuttavia, tale tipologia di intervento è concentrata sul miglioramento della performance scolastica dei bambini, trascurando il benessere psicofisico, aspetto importantissimo per un adeguato sviluppo psico-emotivo. Infatti, porre attenzione quasi esclusivamente alle “carenze” del bambino o del ragazzo non permette di far fronte alla sofferenza e al senso di inferiorità che gli stessi vivono.
Il bambino che ha uno o più DSA, almeno inizialmente, si impegna nello svolgimento dei compiti scolastici, anche se nonostante gli sforzi non è riuscito a ottenere il risultato sperato. Successivamente, però, gli ostacoli che incontra nel proprio processo di apprendimento lo porta ad essere demotivato, disinteressato e a mettere in atto atteggiamenti di evitamento nei confronti dei compiti scolastici per sottrarsi alla frustrazione e all’insuccesso atteso (Cornoldi, 1991; Tressoldi e Vio, 1996).
A tal proposito, la letteratura scientifica evidenzia come i disturbi dell’apprendimento, del comportamento e i disturbi emotivi siano significativamente correlati tra loro (De Noni et al., 2009): molte ricerche hanno messo in relazione il disturbo di apprendimento con un disagio caratterizzato da bassa autostima, senso d’inadeguatezza, isolamento e problemi relazionali. Tali vissuti sono, in parte, dalle interpretazioni degli insuccessi che vivono spesso questi ragazzi.
Alla luce di quanto riportato nel presente articolo, si evidenzia l’importanza di valutare anche la dimensione emotiva dei bambini e dei ragazzi con DSA e di intervenire affinché questi possano avere un migliore qualità di vita, comprendendo come il proprio successo e la propria autostima possano essere svincolati da una performance scolastica.
Intervento psicologico di Gruppo per bambini e ragazzi con DSA
Affinché i vissuti emotivi possano essere elaborati, è essenziale che le emozioni e le percezioni che ciascuno ha di se stesso vengano espresse e verbalizzate: i bambini e i ragazzi con DSA si trovano ad affrontare quotidianamente le loro difficoltà per almeno 5-6 ore al giorno, spesso, con ridotta comprensione da parte degli altri delle loro frustrazioni.
Per tale motivo, e data la tendenza ad assumere la piena responsabilità dei propri insuccessi, comprendere – all’interno di un gruppo di coetanei aventi le stesse problematiche – la natura delle proprie difficoltà, fare esperienza di come non si sia gli unici a vivere specifici vissuti emotivi, empatizzare e trovare uno spazio in cui esporre le proprie esperienze frustanti, permette ai bambini e ai ragazzi con DSA di rielaborare l’immagine di se stessi, deresponsabilizzandosi dagli insuccessi scolastici di cui si è fatto esperienza (Donovan, MacIntyre & MacMaster, 2002).
È, dunque, essenziale affiancare al potenziamento cognitivo un intervento psicologico di gruppo, i cui vantaggi risiedono proprio nella natura stessa dell’intervento: tutti i partecipanti sono uguali e il terapeuta lascia molto spazio e molta libertà ad ognuno, convertendosi in una voce del gruppo che non sta al di sopra di questo; nessuno viene giudicato e vengono promossi l’appoggio e la cooperazione reciproci; si sviluppa un sentimento di appartenenza al gruppo che favorisce la percezione di fare parte di qualcosa e la libertà di espressione senza timore; ascoltare le storie altrui può essere uno spunto di riflessione per risolvere i propri problemi; si crea la possibile di sperimentare se stessi compiendo una rivalutazione della propria percezione di sé e, conseguentemente, della propria autostima.
Binge-watching: quali motivazioni?
Le differenze individuali relative ai tratti psicologici influenzano il modo e l’intensità con cui si ricorre all’utilizzo dei media. Shim e Kim (2018) si sono focalizzati sui tratti psicologici che moderano le motivazioni alla base del binge watching.
Il progresso e la diffusione delle tecnologie di comunicazione delle informazioni (ICTs), lo sviluppo dei dispositivi multimediali personali e le connessioni a internet, in grado di fornire contenuti ovunque e in qualsiasi momento, hanno cambiato in maniera significativa i mezzi e la qualità del consumo dei media. Attraverso lo streaming online, è oggi possibile guardare le proprie serie TV preferite in successione, piuttosto che guardare un episodio a settimana (Hirsen, 2015; Sodano, 2012). Infatti, il comportamento incontrollato, connotato con il termine “binge”, è definito come il consumo di elevate quantità di un prodotto in un ridotto periodo di tempo. Recenti sondaggi hanno rivelato che il 70% degli americani guarda mediamente cinque episodi consecutivi, mentre l’88% degli abbonati a Netflix ne guarda almeno tre al giorno (Spangler, 2016).
Nel 2018 è stato condotto un sondaggio online su 785 binge watchers, al fine di esplorare, da un lato, le motivazioni che spingono gli individui ad “abbuffarsi” di serie TV, dall’altro in che modo i tratti psicologici influenzano tale condotta. Precisamente, gli obiettivi sono stati principalmente due: individuare le ragioni alla base del fenomeno, ed esplorare se esse sono connesse al comportamento tipico del binge wacthing.
Il presente studio adotta un approccio centrato sull’utente, basato sulla teoria degli usi e della gratificazione (U&G) per esplorare le potenziali motivazioni responsabili del comportamento da binge watching. Precisamente, tale cornice teorica concettualizza la gratificazione come il grado di soddisfazione sperimentato dai soggetti quando i servizi e i contenuti soddisfano le loro aspettative e necessità (Katz, Blumer, & Gurevitch, 1973). Atkin (1985) sosteneva che gli individui utilizzano i media per soddisfare desideri intrinseci, quali il divertimento, o perseguire utilità estrinseca, quale la ricerca di informazioni. Bryant e Miron (2002) sostenevano, invece, che l’uso dei media fornisce un’esperienza intrinsecamente gratificante, permette di raggiungere un certo equilibrio tra stati emotivi positivi e negativi, favorendo, inoltre, la ricerca di sensazioni e novità.
È noto che le differenze individuali relative ai tratti psicologici influenzano il modo e l’intensità con cui si ricorre all’utilizzo dei media (Wimmer & Dominick, 2013). In particolare, Shim e Kim (2018) si sono focalizzati sulle differenze individuali relative al sensation seeking e al bisogno di cognizione, intese come tratti psicologici chiave che moderano gli effetti delle motivazioni del binge watching sul comportamento di binge watching. Per sensation seeking, si intende la tendenza a ricercare costantemente nuove esperienze ed emozioni; per bisogno di conoscenza ci si riferisce al bisogno dell’osservatore di scoprire e conoscere sempre di più la trama.
Il sondaggio è stato inviato online a 1300 Sudcoreani, dei quali 785 hanno riportato la loro esperienza di binge watching di serie TV. Gli items del questionario sono stati adattati a partire da precedenti studi validi. Ogni variabile è stata punteggiata su una scala Likert a 5 punti che va da 1 = fortemente in disaccordo a 5 = fortemente d’accordo.
I risultati hanno rivelato che fra le motivazioni chiave per il binge watching vi sono: divertimento, efficienza, consiglio da parte di altri, controllo percepito e fandom. Nello specifico, divertimento, efficienza e fandom sono predittori significativi del comportamento da binge watching, soprattutto tra gli individui con un elevato bisogno di conoscenza ed elevato sensation seeking, favorendo, pertanto, una gratificazione puramente legata al piacere. Al contrario, efficienza e controllo percepito pongono l’accento sui benefici pragmatici e utilitari del binge watching. Di fatti, la possibilità di guardare più episodi consecutivi della propria serie TV preferita, permette all’osservatore, da un lato di fuggire dallo stress quotidiano, permettendogli l’accesso ad un mondo fantastico comprensivo dei personaggi amati, dall’altro gli fornisce divertimento e intrattenimento.
Psicologia e Opera: un training per i cantanti lirici
Sembra che i cantanti d’opera debbano mantenere una forte motivazione e una capacità di auto-regolazione per fronteggiare lo stress e l’ansia legate alle condizioni di lavoro e alle pressioni psicologiche.
Non è insolito per i cantanti d’opera fronteggiare momenti di stress e ansie dovute alla propria condizione occupazionale e alla performance (Kenny, Davis, & Oates, 2004), convivendo spesso con una sensazione d’incertezza dovuta anche alla condizione itinerante dei programmi di lavoro e il conseguente isolamento personale (Kenny et al., 2004).
Sembra che in questa categoria di artisti più alto è il livello di ambizione, maggiori sono perfezionismo e ansia (Barbara, Crippab, & Osoriob, 2014; Kenny et al., 2004; Ryan & Andrews, 2009).
Date queste premesse – psicologiche e lavorative – appare fondamentale per i cantanti d’opera mantenere una forte motivazione e una capacità di auto-regolazione per fronteggiare le numerose situazioni stressanti (Gratz & Roemer, 2004).
Nonostante esistano programmi di trattamento (Kenny, 2005) e di training (Bartle, 1990; du Plessis et al., 2001; Ryan et al., 2006) specifici per i cantanti, sinora c’è pochissima letteratura in merito agli effetti di questi programmi sul benessere psicologico dei cantanti.
A questo scopo Thomson et al. (2017) hanno investigato gli effetti di un programma intensivo che si focalizzasse sia sulla performance sia sul benessere psicologico dei cantanti d’opera. Per questo studio 123 cantanti d’opera (19 maschi e 104 femmine) sono stati reclutati e sottoposti a un programma di training – indifferentemente di 2 o 4 settimane – che includeva lezioni di canto, di tecnica sulla performance, sulla visualizzazione, sulla recitazione, e anche sullo yoga, il movimento, l’improvvisazione, il marketing e i social media.
La filosofia dietro questo programma, e l’ipotesi dello studio, era che un ambiente supportivo in cui esercitarsi per l’affinamento di diverse skill – non solo musicali – senza la scure della critica avrebbe avuto benefici sul senso di autostima e di regolazione delle emozioni, oltre che sulle sensazioni legate alla vergogna, all’ansia e al perfezionismo.
Per la valutazione di questi costrutti sono stati consegnati ai partecipanti i seguenti questionari in tre tempi diversi – immediatamente prima del training, immediatamente dopo e sei mesi dopo: Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS, Gratz & Roemer, 2004) per la valutazione della regolazione delle emozioni; Dispositional Flow Scale-2 (DFS2, Jackson, & Eklund, 2004) per la valutazione del flow, connesso alla performance; Internalized Shame Scale (ISS, Cook, 2001) per la valutazione della sensazione di vergogna; Multidimensional Perfectionism Scale (MPS, Hewitt & Flett, 2004), una scala sui tratti perfezionistici; Trait Anxiety (STAI-Y2, Spielberger, 1983), per la valutazione dell’ansia.
Dai risultati è apparso che i cantanti (sia che avessero seguito il corso di due, sia di quattro settimane) hanno migliorato la propria performance, riportando di aver percepito intervalli più consistenti di flow, sia dopo il training sia nel follow-up di sei mesi. I partecipanti hanno inoltre riportato benefici nella regolazione delle emozioni e in termini di autostima, oltre che un abbassamento delle sensazioni legate alla vergogna, dei tratti perfezionistici e ansiosi. Questi benefici sono rimasti stabili anche a distanza di sei mesi.
Questi risultati – che incoraggiano anche un’attenzione verso l’evidenza empirica in questo ambito – hanno confermato l’ipotesi iniziale, e rappresentano un tassello importante per la definizione e la messa in pratica di programmi strutturati specifici per i cantanti d’opera: fornire gli strumenti pratici per l’aumento dell’autostima e della regolazione delle emozioni può essere senz’altro considerato di beneficio anche dal punto di vista artistico.