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Cybercondria: Internet, abbiamo un problema…sulla salute…e non è la pandemia!

In questo momento di allarme generalizzato rispetto alla salute, siamo quotidianamente bombardati da notizie poco rassicuranti riguardo alla stessa e contemporaneamente invitati, o costretti, a rimanere nelle nostre case. Alcuni aspetti del nostro funzionamento piscologico ci espongono ad un maggior rischio di cybercondria, psicopatologia comunque epidemiologicamente in aumento, già prima della pandemia.

 

Luca da qualche giorno avverte un costante mal di testa.

E’ diverso dal mio solito mal di testa, un dolore lieve, ma possibile che non passi neanche con gli antidolorifici? Strano, non mi era mai successo prima d’ora. Potrei chiamare il dottore…inutile, mi risponderà come sempre che non è niente e che è solo stress. Devo fare qualcosa, devo capirne di più, non è normale che un mal di testa duri così a lungo. Adesso controllo su Google cercando mal di testa lieve, ma costante. Scorro rapidamente i primi risultati: emicrania, cefalea tensiva … sì ok ma qui invece che dicono? Tumore al cervello? E questo articolo invece che dice? Mal di testa: il sintomo sottovalutato che ti può uccidere. Oddio, devo cercare in Internet altre informazioni … avevo promesso a mio figlio che avremmo visto un film insieme, lo guarderemo un’altra volta, adesso ho cose più urgenti di cui occuparmi….

Anna trascorre abitualmente molto tempo al computer e, soprattutto, sul telefonino, in particolare sui social, fino a tarda notte.

In questo periodo non si parla d’altro, il COVID-19. Amici e colleghi inviano post su come comportarci e cosa sapere per proteggerci … speriamo bene, siamo tutti preoccupati vedo. Aspetta, qui si dice che può partire da un semplice mal di gola … non lo avevo capito, pensavo si riconoscesse dalla difficoltà a respirare … fame d’aria la chiamano. Effettivamente, deglutendo, la gola mi fa un po’ male e mi pizzica il palato, mi misuro subito la febbre. Trentasei e otto. Non è febbre. Sì ma su questo sito dicono che la febbre può salire dopo e su quest’altra pagina Web che il virus vola nell’aria fino a 5 metri e che bere tanta acqua lava il virus dalle vie aeree. Io bevo pochissimo, lo so, dovrei bere di più. Quella signora, in fila al supermercato dietro di me, la settimana scorsa, ha starnutito (…). Provo a deglutire di nuovo, ho come un nodo in gola, faccio fatica, sento un po’ di oppressione al petto, all’altezza dei polmoni, oddio effettivamente mi manca l’aria, lo sapevo ….

In questo momento di allarme generalizzato rispetto alla salute, in cui siamo quotidianamente bombardati da notizie poco rassicuranti riguardo alla stessa e contemporaneamente invitati, o costretti, a rimanere nelle nostre case piuttosto che a rivolgerci agli ambulatori medici e specialistici, alcuni aspetti del nostro funzionamento piscologico ci espongono ad un maggior rischio di cybercondria, psicopatologia comunque epidemiologicamente in aumento, già prima della pandemia.

La tendenza a interrogare il “Dr. Google” piuttosto che il proprio medico curante per problematiche relative alla salute è estremamente diffusa. La letteratura riporta come, già nel 2010, l’88% degli utilizzatori di internet negli USA ricercava informazioni mediche online ed il 62% di loro lo aveva fatto nell’ultimo mese e come, dal 2007 al 2016, tali ricerche siano aumentate del 62% negli adulti del Regno Unito che utilizzano Internet quotidianamente (Vismara et al., 2020). Il rassicurante Dr. Google, potenziale specialista di ogni malattia, può diventare ben presto fonte di preoccupazioni e angoscia, soprattutto per chi soffre di ansia per la salute o, comunque, ha una vulnerabilità rispetto alla dimensione ansiosa. Tali comportamenti possono infatti autoalimentarsi fino alla Cybercondria, un eccessivo e ripetuto comportamento di ricerca online di informazioni mediche associato ad un progressivo incremento dei livelli di ansia relativi alla propria salute (Starcevic, 2017; Vismara et al., 2020).

La direzione della causalità di tale relazione può variare da un individuo all’altro per cui, in alcuni casi, un’intensa ansia per la salute può essere primaria e le ricerche online rappresentano il tentativo di alleviarla, mentre in altri le ripetute ricerche online potrebbero secondariamente slatentizzare tale sintomatologia. Le prime definizioni di Cybercondria si sono focalizzate principalmente sulle manifestazioni ansiose conseguenti all’uso di Internet finalizzato alla ricerca di informazioni circa la salute (Beling, 2006; Harding, Skritskaya, Doherty & Fallon, 2008;  Ryan & Wilson, 2008; Recupero, 2010), nonché sulla tendenza autoperpetuante di tale comportamento che, nel breve termine, produce una temporanea riduzione della preoccupazione percepita, divenendo, nel lungo termine, un pattern di risposta abituale (Taylor & Asmundson, 2004).

Il funzionamento psicopatologico riguarda nel complesso un’infondata escalation di preoccupazioni circa segni e sintomi del corpo derivante dalla ricerca di risultati scientifici, o ritenuti tali, sul Web. White & Horvitz (2009) sottolineano inoltre come la ricerca online del significato clinico di sintomi completamente innocui e comuni possa determinare un “upgrade” nella ricerca di sintomi più severi e di condizioni cliniche più rare, collegate al sintomo iniziale.

Le motivazioni sottostanti alle ricerche possono essere diverse, dalla semplice curiosità all’approfondimento del significato di una manifestazione corporea o sintomatologica di qualsiasi natura. Il Web costituisce una fonte inesauribile di informazioni mediche e consente di effettuare ricerche su qualsiasi sintomo percepito. In alcuni casi, però, i risultati di queste ricerche non sono affidabili come possono sembrare. Le caratteristiche degli algoritmi dei motori di ricerca, infatti, influenzano la qualità delle informazioni a cui si viene esposti, in quanto la gerarchia dei risultati dipende anche dalla frequenza con cui una certa ricerca viene effettuata o da campagne di marketing. Uno studio della Microsoft Research, che ha preso in considerazione più di 40 milioni di pagine web relative a questioni mediche e messo in relazione i dati con i risultati di una survey su 515 individui, ha dimostrato l’esistenza  di un collegamento tra patologie relativamente rare, come i tumori cerebrali, e sintomi molto comuni, come il mal di testa (White & Horwitz, 2009). Fra l’altro, come riportato da alcuni autori (Vismara et al. 2020; Starcevic, 2017), tali fonti di informazione risultano spesso discrepanti, implementate da volontari, dei quali spesso non ne sono verificate o non risultano verificabili le competenze.

Non sorprende quindi come, in presenza di Cybercondria, la tendenza ad effettuare continue ricerche online determini un progressivo incremento dei vissuti ansiosi relativi alla propria salute.

Tali vissuti, sia nel breve che nel lungo periodo, comportano una serie di costi fra cui il lungo tempo speso, l’impiego di risorse cognitive, anche in termini di distrazione rispetto alle attività di vita quotidiana, la ricerca e l’accesso a figure professionali sanitarie. Sotto questo profilo, la Cybercondria è stata concettualizzata da Starcevic e Berle (2013, 2015) come un’eccessiva e ripetitiva ricerca su Internet di informazioni riguardanti la salute, guidata da distress o ansia circa la salute la quale amplifica, a sua volta, il distress o l’ansia stessi (Starcevic, 2013; 2015). Gli autori inoltre sottolineano la caratteristica ossessivocompulsiva del comportamento derivante dalla preoccupazione somatica che riguarda la ricerca compulsiva, ricorrente e compromissoria in termini di dispendio di tempo. Integrando questi due aspetti, McElroy & Shevlin (2014) descrivono la Cybercondria come un costrutto multidimensionale, caratterizzato dalla natura indesiderata delle ricerche su internet (compulsione), da stati emotivi ansiosi associati a tali ricerche, da eccessiva sfiducia nei confronti del proprio medico curante nonché da un eccessivo bisogno di rassicurazioni.

Tale pattern comportamentale, come detto, può arrivare a livelli altamente compromettenti il funzionamento personale, con un’interruzione delle attività di vita quotidiana. Inoltre, la percezione di perdita di controllo, sottende ulteriori conseguenze negative in termini di elevati livelli di ansia, distress, e assunzione di comportamenti finalizzati al controllo (Vismara et al., 2020).

Alcuni autori che hanno studiato la relazione tra Cybercondria e altri costrutti psicologici hanno evidenziato un’associazione diretta fra bassa autostima e severità del disturbo (Bajcar & Babiak, 2019) e come l’anxiety sensitivity costituisca un potenziale fattore di rischio per la slatentizzazione della Cybercondria. Per quanto riguarda, invece, l’intolleranza all’incertezza, sebbene alcuni studi evidenzino una relazione con la Cybercondria, non è ancora chiaro se vi sia una direzione causale oppure semplicemente correlazionale. Di particolare importanza nella concettualizzazione del disturbo, poiché verosimilmente sotteso al suo mantenimento, vi è l’aspetto metacognitivo, rispetto al quale si evidenziano correlazioni con la Cybercondria sia rispetto a metacredenze positive di utilità, che negative di pericolosità ed incontrollabilità (Fergus & Spada, 2017; Bailey & Wells, 2015). Gli stessi autori hanno altresì riscontrato una correlazione positiva fra Cybercondria e credenze che riguardano i rituali ed i segnali di stop, inclusi nel modello metacognitivo del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

Sotto il profilo sociodemografico non si rilevano significative differenze di genere in termini di predittività del disturbo, anche se al riguardo la letteratura è ancora piuttosto contenuta e controversa. L’età, invece, sembra essere un moderatore significativo della relazione fra ansia sulla salute e Cybercondria per cui soggetti più giovani con preoccupazione sulla salute ritengono le ricerche online relativamente più rassicuranti o comunque queste sarebbero meno impattanti nello slatentizzare in loro la sintomatologia ansiosa (McMullan, Berle, Arnáez &  Starcevic, 2019).

Come parzialmente anticipato e facilmente intuibile, la Cybercondria  risulta in comorbidità con l’ansia sulla salute, il DOC e la dipendenza da uso di internet, in questo senso la ricerca indica una complessa relazione nosologica nella quale la Cybercondria può rappresentare una sindrome transdiagnostica che lega questi disturbi.

Non è stata ancora empiricamente riconosciuta una linea psicoterapeutica evidence-based per la Cybercondria tuttavia diverse ricerche propongono l’approccio CBT, eventualmente integrato dall’intervento psicoeducativo sul funzionamento del disturbo. Alcuni autori propongono come target del trattamento la sintomatologia sovrapponibile al DOC (in particolare i pensieri ossessivi sulla salute), le problematiche connesse all’utilizzo di Internet, l’intolleranza all’incertezza, le metacredenze cognitive, la ristrutturazione cognitiva delle errate o non realistiche interpretazioni di sintomi fisici o di sensazioni corporee, la tendenza al perfezionismo nonché  l’ambivalenza rispetto alla percezione di affidabilità di una determinata informazione (Fergus & Dolan, 2014; Fergus, 2015; Fergus & Russell, 2016; Fergus & Spada, 2018).

Inoltre l’approccio CBT offre interventi di tipo comportamentale di esposizione con prevenzione della risposta, particolarmente efficaci nel trattamento della sovrapponibilità sintomatologica con il DOC, i quali potrebbero rivelarsi utili per dilazionare i comportamenti di ricerca di rassicurazione in Internet nonché gestire l’urgenza percepita rispetto alla stessa. Per quanto riguarda, invece, la farmacoterapia, in assenza di una prima linea terapeutica di riferimento, le evidenze indicano la possibilità di una terapia con SSRI, soprattutto laddove si riscontrino comorbidità con ansia sulla salute primaria o DOC.

Considerato quanto sopra, sembra che stia emergendo una nuova area di attenzione nosografica e di ricerca riguardo i comportamenti ed i vissuti tipici della Cybercondria, quale psicopatologia emergente già negli ultimi anni. Sembra dunque evidente come noi clinici, anche in considerazione dei difficili mesi che stiamo vivendo, dovremmo considerare tali aspetti nel progettare e gerarchizzare i nostri interventi in psicoterapia … i quali, paradossalmente, si stanno sempre più svolgendo in rete. La Cybercondria non è dunque solo la versione moderna dell’Ipocondria o una strategia di gestione dell’ansia connessa alla pandemia, ma riguarda il modo di utilizzare l’innovazione favorita dal tempo che stiamo vivendo, argomento attualissimo di discussione e dibattito anche riguardo al modo di fare psicoterapia.

 

Siamo l’esercito del selfie… ma perché? La FoMO come predittore dell’uso problematico dei social

“Fear of Missing Out” (FoMO) significa “paura di essere tagliato fuori”. Questo fenomeno è correlato con l’uso eccessivo dei social network ed è caratterizzato dal desiderio di restare continuamente connessi con quello che gli altri stanno facendo (Przybylski et al., 2013). 

Mazzieri Elena – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Vi ricordate il tormentone di qualche estate fa “L’esercito dei selfie”? Per un periodo non si poteva accendere la radio senza ascoltare questa canzone. Un singolo molto orecchiabile, che volenti o nolenti tutti noi abbiamo canticchiato sotto l’ombrellone. Sostanzialmente ci ricorda come ormai il telefono sia diventato un prolungamento del nostro braccio, e che spesso siamo più interessati alle interazioni online rispetto a quelle “in carne ed ossa”. Una osservazione tanto semplice quanto veritiera: spesso siamo più interessati a ricevere like e a controllare cosa stanno facendo gli altri che a parlare con chi abbiamo davanti a noi.

Ammettiamolo, tutti noi conosciamo qualcuno che, molto elegantemente, mentre gli stiamo parlando ci ignora e controlla il suo smartphone. Hanno addirittura coniato un nuovo termine per questo atteggiamento: phubbing. In poche parole si tratta dell’atto di snobbare qualcuno in un setting faccia a faccia, concentrandosi sul proprio telefono piuttosto che parlare con la persona direttamente (Chotpitayasunondh & Douglas, 2016; Kenny, 2016).  E se anche tutti noi pensiamo che questo sia un comportamento fastidioso ed irrispettoso, quando sentiamo vibrare il telefono, anche se stiamo parlando, un’occhiatina allo schermo la lanciamo comunque.

Proviamo a pensarci: siamo a cena fuori, in un ristorante. Accanto a noi c’è una tavolata di ragazzi. Cosa vediamo appoggiati sul tavolo accanto a posate e tovaglioli? Eccoli lì! Smartphone di tutti i tipi che si illuminano continuamente per la miriade di notifiche che i ragazzi ricevono. E se non sono sul tavolo, è perché i ragazzi li stanno tenendo in mano per fotografare e postare ogni attimo di quello che stanno facendo. Sulla bacheca dei nostri social siamo inondati di foto di piatti di ristoranti e di sorrisi in posa. Per non parlare poi della classica foto estiva delle gambe con lo sfondo del mare! E noi, nel nostro ufficio o a casa, a rimuginare sul fatto che il mare lo vedremo, nella migliore delle ipotesi, soltanto con il binocolo.

Siamo annoiati, ci facciamo un giro sui social e vediamo che gli altri stanno facendo cose che noi non possiamo fare. Alcuni di noi potrebbero sentirsi un po’ infastiditi, altri tristi, dipende sempre da quello che pensiamo. Ma ritorniamo per un attimo alla tavolata di ragazzi al ristorante seduti accanto a noi. Provate ad immaginare quanti post e foto pubblicheranno di quella serata. Ed ora provate ad immaginare di essere l’amico che è rimasto a casa. Non ci interessa sapere se è rimasto a casa perché malato, perché i genitori non lo fanno uscire, perché gli amici non lo hanno chiamato. Proviamo a immaginare cosa può pensare e a come può sentirsi quel ragazzo che, sfogliando i social, continua a vedere gli amici divertirsi mentre lui è a casa. Con il proseguire della serata gli altri continueranno a postare e lui continuerà a controllare i vari post con l’ansia di sapere cosa si sta perdendo. Che fatica essere adolescenti ai tempi dei social!!

Da sempre i ragazzi (e non solo, diciamo la verità), hanno avuto la tendenza a pensare a cosa gli altri stanno facendo (Abel et al., 2016). Negli anni ’70 e ’80 tra gli studenti c’erano persone con sintomi ansiosi riguardanti l’essere esclusi da determinate esperienze, quali, ad esempio, le relazioni romantiche (Simon, 1982). Ma ora sono arrivati i social, e possiamo sapere in tempo reale cosa gli altri stanno facendo e, di conseguenza, cosa ci stiamo perdendo.

Il desiderio di avere relazioni interpersonali è innato, e per soddisfarlo le persone cercano di appartenere a gruppi sociali. Al giorno d’oggi i gruppi sociali esistono sia dal punto di vista fisico che virtuale, e le persone hanno accesso ai gruppi sia online che offline (Franchina et al., 2018). I social media offrono un luogo dove gli utenti possono restare in contatto con i loro gruppi sociali. Social network quali Facebook o Instagram, ad esempio, offrono una connessione online a persone attraverso i loro canali personali, facilitando il mantenimento dei rapporti (Franchina et al., 2018).

I gruppi virtuali sono altrettanto reali ed importanti quanto i gruppi fisici. Non riuscire a connettersi con questi gruppi tramite i social può causare l’impressione di sentirsi tagliati fuori dalla vita reale (Clayton et al., 2015).

L’esclusione sociale conduce ad una perdita del senso di appartenenza, la quale causa ansia. Quando le persone non possono accedere ai propri profili social, possono sentirsi in ansia proprio perché temono di essere esclusi socialmente (Abel et al., 2016). L’esclusione sociale inoltre elicita sentimenti di mancanza di valore (Abel et al., 2016). Questi sentimenti conducono le persone a compararsi agli altri sui social (Tandor et al., 2014), al fine di decidere il proprio valore personale (Casale et al., 2018). I social network offrono un luogo dove gli utenti, in particolare i più giovani, possono continuamente tenersi al passo con cosa gli altri ragazzi stanno facendo, controllando che cosa si stanno perdendo (ad esempio eventi sociali, esperienze di vita, opportunità, ecc).

Gli adolescenti usano abbondantemente i dispositivi digitali e i social media, in maniera maggiore rispetto al resto della popolazione, e lo fanno per comunicare con i pari, per trascorrere il tempo libero (ascoltare la musica, guardare film o serie tv o giocar online) e per apprendere (Carlisle et al., 2016; Wu & Chen, 2015; Lenhart et al., 2015a).

Alcuni studi hanno mostrato una connessione positiva tra il cercare informazioni tramite internet e performance accademiche migliori negli studenti delle scuole secondarie (Chen et al., 2014). Tuttavia l’uso di internet può diventare problematico per quegli studenti che non sono in grado di controllare le proprie attività (Wąsiński and Tomczyk, 2015).

Internet fornisce ai ragazzi l’opportunità di restare continuamente connessi a costi accessibili, garantendo, se lo si desidera, l’anonimato. Avere la possibilità di comunicare con gli altri è una forte motivazione a navigare in rete. Nel 2015, Lenhart et al. (2015b) hanno dimostrato che l’80% degli adolescenti comunica con i propri amici quasi esclusivamente tramite messaggi. Sentirsi parte di un gruppo e socialmente accettati è molto gratificante per i ragazzi, ma allo stesso tempo queste caratteristiche di internet e dei social media inducono all’uso problematico di internet (van den Eijnden et al., 2010; Young, 1998). La combinazione tra adolescenza e le caratteristiche uniche del cyberspazio pongono i ragazzi a rischio di un uso problematico di internet. In adolescenza vi sono molti cambiamenti: maturazione puberale, sviluppo cerebrale, cambiamento nella relazione con i genitori e ambiente sociale in espansione. Tutto questo fa sì che aumenti vertiginosamente il rischio di intraprendere precocemente comportamenti di dipendenza (Chung, 2013).

Ovviamente, l’uso di internet non è di per sé problematico. Lo può diventare soltanto quando i ragazzi non riescono più a controllare le loro attività online. I ragazzi iniziano ad abbandonare le proprie attività quotidiane e spendono tutto il loro tempo online (Wąsiński and Tomczyk, 2015). Si parla, appunto, di Problematic Internet Use (PIU), vale a dire l’uso di internet che crea difficoltà psicologiche, sociali, lavorative o scolastiche nella vita della persona (Beard & Wolf, 2001). Studi hanno dimostrato la presenza di alta comorbidità tra la dipendenza da internet e disturbi psichiatrici, soprattutto disturbi dell’umore, inclusa la depressione, ansia generalizzata o ansia sociale e deficit di attenzione e iperattività (Chen et al., 2016). Gli adolescenti che presentano PIU spendono un’eccessiva quantità di tempo online e non riescono a gestire il proprio tempo in maniera efficace. Di conseguenza, questi ragazzi frequentano poco la scuola e non eseguono i proprio compiti, fino ad arrivare all’abbandono scolastico (Chen & Tzeng, 2010).

Negli ultimi anni alcuni studi hanno individuato, tra i precursori psicologici dell’uso problematico di internet, la “Fear of Missing Out” (FoMO) (Przybylski et al., 2013), che tradotto significa “paura di essere tagliato fuori”. Questo fenomeno è correlato con l’uso eccessivo dei social (Alt, 2015, 2016, 2017a, 2017b). La FoMO è caratterizzata dal desiderio di restare continuamente connessi con quello che gli altri stanno facendo (Przybylski et al., 2013). Più recentemente, Abel et al. (2016) hanno descritto la FoMO come un bisogno irrefrenabile di essere in due o più posti contemporaneamente, alimentato dal timore di essere tagliati fuori da qualcosa che può scalfire la propria felicità.

Per coloro che hanno questa nuova forma d’ansia, l’uso dei social media è particolarmente attrattivo. Piattaforme come Facebook, Twitter e Instagram sono disegnate per promettere alti livelli di coinvolgimento sociale (Ellison, Steinfield, & Lampe, 2007). Possiamo pensare a questi tipi di social come a dei mezzi per ridurre il prezzo da pagare per essere socialmente coinvolti. Mentre questi tipi di strumenti possono essere considerati come vantaggiosi per la popolazione generale, sono una sorta di manna dal cielo per coloro che se la devono vedere con la FoMO. Persone con alti livelli di FoMO utilizzano maggiormente i social così da restare sempre connessi con quanto stanno facendo gli altri.

La Self-determination theory (SDT; Deci & Ryan, 1985), una macroteoria riguardante la motivazione, fornisce un’utile prospettiva per inquadrare la FoMO in una cornice teorica. Secondo questo modello, l’autoregolazione e la salute psicologica sono basate sulla soddisfazione di tre bisogni psicologici di base: la competenza (capacità di agire efficacemente nel mondo), l’autonomia (capacità di autodirezionarsi e di prendere iniziative personali) e l’affiliazione (vicinanza e connessione con gli altri). La soddisfazione di questi bisogni primari è associata con la regolazione comportamentale. Attraverso queste lenti teoriche, la FoMO può essere compresa come incertezza nell’autoregolazione che emerge da deficit situazionali o cronici di soddisfazione dei bisogni psicologici (Przybylski et al., 2013).

Sulla base di questo, bassi livelli nella soddisfazione dei bisogni primari possono portare alla FoMO e all’utilizzo dei social media in due modi. Direttamente: persone con bassi livelli di soddisfazione dei bisogni possono gravitare intorno ai social media perché percepiti come una risorsa per stare in contatto con gli altri, sviluppare competenze sociali e sviluppare legami sociali più profondi. Indirettamente: la FoMO può essere un mediatore che collega i deficit nei bisogni psicologici all’uso dei social (Przybylski et al., 2013).

Un’altra importante dimensione della FoMO riguarda il suo potenziale collegamento con la salute psicologica e il benessere.

La comunicazione mediata dalla tecnologia può avere effetti positivi e negativi (Turkle 2011). Il “sé-incatenato” che deriva dalla comunicazione tecnologica sempre in essere, può distrarre le persone da importanti esperienze sociali nel qui ed ora. Il desiderio di essere continuamente connessi è potenzialmente pericoloso dal momento che incoraggia le persone a controllare i propri account social anche quando sono alla guida dell’auto (Turkle, 2011). Wortham (2011) sostiene che la FoMO possa determinare umore negativo e depresso perché pone nella persona il dubbio di aver fatto le scelte sbagliate nella propria vita.

Studi incentrati sulle motivazioni interne hanno dimostrato che il desiderio di evitare stati emotivi negativi, come la solitudine (Burke et al., 2010) e la noia (Lampe et al., 2007), forzi l’uso di social come Facebook. Anche la scarsa soddisfazione per le proprie relazioni sociali può portare la persona ad utilizzare i social (Ellison et al., 2007).

Va da sé, quindi, che la FoMO giochi un ruolo importante nel collegare fattori individuali, quali bisogno di soddisfazione psicologica, umore e soddisfazione per la propria vita, all’uso dei social media (Przybylski et al., 2013).

Studi condotti da Przybylski et al. (2013) hanno sottolineato come siano soprattutto i giovani, ed in particolare i maschi, ad avere livelli più alti di FoMO. Per di più, i fattori motivazionali che sono risultati efficaci per spiegare i comportamenti umani nelle relazioni (Patrick et al., 2007), nell’uso dei videogame (Przybylski et al., 2009) e nell’ambito sportivo (Hagger & Chatzisarantis, 2007), sono importanti anche nella FoMO.

La FoMO, inoltre, è risultata essere correlata negativamente con l’umore e la soddisfazione per la propria vita. Tutti insieme, questi fattori (bassi livelli di soddisfazione dei propri bisogni primari, umore e soddisfazione per la propria vita) sono risultati correlati con l’uso dei social media soltanto nella misura in cui correlati con alti livelli di FoMO. In altre parole, la FoMO gioca un ruolo chiave nello spiegare l’uso dei social media anche al di là di altri fattori (Przybylski et al., 2013).

Inoltre gli studi condotti da Przybylski et al. (2013) hanno dimostrato che le persone con alta FoMO tendono ad usare Facebook spesso appena svegli, prima di andare a dormire e durante i pasti. Studenti con alti livelli di FoMO riportano sentimenti ambivalenti riguardo ai social e spesso usano Facebook durante le lezioni universitarie. Le persone con alti livelli di FoMO, infine, sono risultate avere maggiori probabilità di inviare messaggi, controllare social ed e-mail alla guida dell’auto.

Le persone possono utilizzare media differenti per gratificare bisogni differenti (Katz, 1959; Ajzen, 1991). Questo può spiegare le differenze nella popolarità di alcuni tipi di piattaforme social. Nel 2015, ad esempio, la popolarità di Twitter è stata superata da quella di Instagram. Questo probabilmente perché le immagini hanno più effetto rispetto alle parole nel raggiungere obiettivi di autopresentazione, che sono motivazioni centrali rispetto all’uso dei social (Lee et al., 2015). Sulla base di questo, possiamo ipotizzare che ogni piattaforma social ha delle proprie caratteristiche ed un proprio invito all’uso. Differenti social possono connettere gli utenti a persone differenti, e dare accesso a diversi tipi di informazioni rispetto ai quali gli utenti desiderano essere aggiornati.

La FoMO è un predittore nell’uso dei social quali Facebook (Beyens et al., 2016; Błachnio et al., 2018) e Instagram (Barry et al., 2018; Salim et al., 2017). Nel caso di quest’ultimo, ad esempio, la persona è motivata dal desiderio di tenersi in contatto con gli altri (Lee et al., 2015) e dal restare aggiornata rispetto a cosa gli altri stanno facendo (Sheldon et al., 2015).

Quando l’uso dei social media diventa eccessivo, può diventare un problema. Si parla, infatti, di uso problematico dei social media (Caplan, 2006; Chakraborty, 2010). Coloro che sperimentano la FoMO possono tentare di alleviare la propria ansia controllando gli altri tramite i social. Ironicamente, le persone che controllano i propri account social, hanno maggiori probabilità di trovare eventi ai quali non hanno preso parte. Usando i social per ridurre l’ansia possono quindi sperimentarne ancora più e, di conseguenza, maggiore FoMO. Questo circolo vizioso si autorinforza, finendo per trasformare l’uso dei social in un uso problematico (Franchina, 2018).

Le persone, e soprattutto i più giovani, preferiscono usare lo smartphone per navigare in rete. Questi, infatti, ci permettono di essere in contatto con gli altri ovunque ci troviamo. Questo fa ipotizzare che se le persone provano ansia, possono tentare di ridurla temporaneamente accedendo ai propri account social tramite lo smartphone (Kuss et al., 2018). Coloro che hanno alta FoMO ed usano i social per diminuire la propria ansia, possono usare in modo eccessivo i propri smartphone al punto da interferire con le proprie interazioni sociali faccia a faccia. Il phubbing, appunto (Franchina, 2018).

Essere consapevoli di quali sono le motivazioni che ci spingono a controllare ripetutamente le notifiche e le bacheche social, permette di realizzare forme di interventi preventivi, volti a migliorare il benessere delle persone e, in particolare dei ragazzi. Imparare ad utilizzare in modo adeguato i social consente di aumentare i livelli di soddisfazione per la propria vita e di avere una buona rete sociale.

Certo è vero, siamo l’esercito dei selfie, ma cerchiamo di non mancarci “in carne ed ossa”!

Covid-19: colloqui di supporto agli operatori sanitari – Report dal webinar delle Dr.sse Nanni e Alighieri

Il ciclo di lezioni pensato da Studi Cognitivi, per approfondire i nuovi aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, è proseguito il 30 aprile con il terzo intervento riguardante il sostegno delle figure professionali in ambito sanitario.

 

 Le Dr.sse Nanni e Alighieri hanno messo a disposizione la loro esperienza per proporre agli studenti alcuni interventi di supporto pensati per gli operatori sanitari e i progetti in essere e futuri nell’area della Romagna.

Il webinar si è aperto con una panoramica sulla portata delle conseguenze del Covid-19, con uno sguardo approfondito all’ambito psicologo. Infatti, tra i molti aspetti che sono stati stravolti dalla pandemia, anche il lavoro degli psicoterapeuti e di alti professionisti sanitari è cambiato radicalmente: si sono trovati coinvolti più del solito in vissuti ed emozioni simili a quelli sperimentati dai pazienti. Paura, ansia, rabbia e molto altro toccano le corde più profonde di ognuno di noi, psicoterapeuta compreso. Inoltre, lo stravolgimento si è avvertito anche per quanto riguarda il setting che si è profondamente modificato, non solo per la necessità di adottare una modalità online per i colloqui, o per i cambiamenti che hanno subito i contesti organizzativi istituzionali, ma anche per il bisogno di ampliare il paradigma puramente clinico a cui si era abituati, includendo aspetti sociali e comunitari. Tutto questo ha comportato l’esigenza di declinare la propria identità professionale in modo diverso.

Le condizioni pandemiche del Covid-19 hanno scatenato nelle persone reazioni abbastanza prevedibili, come la paura di ammalarsi o l’ansia per le conseguenze economiche. Tuttavia, alcuni fattori specifici hanno impattato ulteriormente sulla popolazione, peggiorando la già difficile situazione. Un esempio sono le modalità di trasmissione e prevenzione non totalmente note, o i molti sintomi comuni e simili a quelli delle influenze stagionali, o l’ampio numero di persone costrette all’isolamento.

L’emergenza, spiegano le docenti, ha interessato in modo sostanziale gli operatori in prima linea. I dati, relativi ai primi studi effettuati in seguito al Covid-19 sul personale sanitario cinese, mostrano lo sviluppo di sintomi depressivi, ansiosi, insonnia e stress, con una gravità maggiore in corrispondenza di un contatto ravvicinato con i pazienti Covid. Esiti simili sono stati raccolti dalle prime osservazioni su un campione di operatori italiani. Alcuni ricercatori hanno identificato nella normalizzazione delle emozioni, nel soddisfacimento dei bisogni di base, nel supporto sociale e nell’utilizzo di aiuto psicologico alcuni dei fattori che potrebbero aiutare a ridurre lo stress di queste figure professionali.

I livelli di supporto sociale, in particolare, sembrano essere un aspetto di cruciale importanza; tuttavia, gli operatori sanitari non hanno sempre potuto contare sull’appoggio e il sostegno comunitario. Infatti, questi professionisti da un lato sono stati dipinti dai Mass Media come eroi, dall’altro, però, sono stati percepiti e trattati come possibili untori, data la loro vicinanza al virus. La conseguenza, in molti casi, è stata l’isolamento e l’allontanamento sociale.

Un altro fattore in grado di influenzare notevolmente il livello di stress psicologico è l’ambiente lavorativo. Per evitare di sviluppare burnout, possono fare una sostanziale differenza aspetti come uno stile comunicativo trasparente, compiti chiari, orari flessibili, adeguate misure di protezione dal contagio ed incontri per discutere problematiche, decisioni e monitorare il benessere del personale. Non è da sottovalutare il ruolo della comunicazione: se gli operatori non comprendono cosa sta accadendo intorno a loro potrebbero vivere la situazione con un senso di ingiustizia e mettere in atto comportamenti poco funzionali.

Le reazioni allo stress, inoltre, possono essere aggravate e complicate da fattori di rischio:

  • Oggettivi: legati alla situazione di emergenza, come l’essere in pericolo, i colleghi malati, il dover prendere decisioni eticamente controverse.
  • Soggettivi: legati alla storia e ai vissuti di ognuno, alla sua struttura di personalità e ad eventuali problemi psicologici pre-esistenti.
  • Organizzativi: come ritmi di lavoro eccessivi, scarsità di dispositivi di protezione, mancanza di comunicazione con i colleghi e i responsabili.

Per rispondere alle nuove esigenze nate dalla pandemia, in Romagna sono nati dei progetti con lo scopo di creare interventi in grado di aumentare la resilienza e accompagnare gli operatori sanitari (e non solo) durante e dopo l’emergenza. Data la variabilità e l’urgenza impellente, l’azione non poteva essere individualizzata. È stato pensato quindi un intervento verso la comunità, in una prima fase con bassa specificità ed ampio spettro, per poi diventare sempre più cucito sui bisogni dei singoli. Gli strumenti utilizzati sono stati scelti in quanto certi e autorevoli (IASC e OMS), linee guida internazionali chiare per la sanità mentale ai tempi del Covid-19.

La modalità di intervento, spiegano le docenti, è stata pensata in due fasi non nettamente divise temporalmente, ma consequenziali.

La prima fase (fase pandemica acuta), comprende il servizio di Psicologia Ospedaliera dell’Emergenza, attività di sostegno psicologico telefonico gratuito e SUPPORT, un’indagine sulle esperienze psicologiche associate al Covid-19. L’intervento di supporto psicologico agli operatori sanitari e ai cittadini si è rivelato molto efficiente e ampiamente utilizzato, con 965 contatti nei primi 10 giorni. Si è notato come anche il semplice riuscire a dare una risposta a questioni pratiche (modalità per fare la spesa o andare in farmacia) potesse alleviare di molto il disagio sperimentato.

La seconda fase dell’intervento (fase post acuta e post epidemica) prevede, invece:

  • colloqui psicologici telefonici;
  • psicoeducazione per gruppi “resilienza e fronteggiamento dello stress”;
  • supporto psicologico individuale.

La lezione è stata arricchita da numerosi dati provenienti dalla letteratura e dalle molte testimonianze di medici, infermieri ed altri operatori sanitari. Questi ultimi parlano di ritmi e condizioni di lavoro insostenibili, sensazioni d’impotenza, problemi di memoria, rimuginio, ansia, paura e rabbia. I racconti dei professionisti, le loro voci e storie, hanno fornito agli studenti una porta d’accesso diretta ai loro vissuti e al loro disagio, permettendo di comprendere più profondamente il loro punto di vista.

Tra ottimismo e pessimismo in pandemia

Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria mentre un esempio di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi. Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza Covid.

 

Riprendere la propria vita quotidiana in periodo di pandemia induce le persone a porsi diversi quesiti, primo tra tutti “Che rischio ho di essere contagiato?”

A questo interrogativo, ognuno cerca di rispondere affidandosi a diverse fonti, alcune delle quali esterne ed oggettive, altre personali e talvolta fallaci.

Le risposte che ci diamo finiscono inevitabilmente per collocarsi in un continuum che va da un estremo all’altro, tra un ottimismo irrealistico (“è impossibile che io mi ammali”) ad un pessimismo difensivo (“se esco, è molto facile che contragga il virus”). Così, molti apparentemente spavaldi sembrano non temere affatto il contagio, mentre altri eccessivamente spaventati non approfittano di piccole libertà anche quando queste sono concesse. Ma nessuna delle due alternative sembra vincente.

L’ottimismo irrealistico, infatti, è “un errore di giudizio che produce una sottostima del rischio che si corre personalmente rispetto ad una generica persona media” (Weinstein, 1980). E’ facile immaginare quanto siano pericolosi gli effetti che ne possono conseguire: infatti, la tendenza a pensare di essere immuni ad eventi dannosi produce un aumento dell’assunzione di rischio e così della vulnerabilità dell’individuo (Perloff, 1987). Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria. In effetti, non sembra essere molto diverso chi non indossa la cintura di sicurezza perchè pensa di saper guidare bene o da chi fuma smisuratamente perchè finora non ha mai avuto problemi ai polmoni. Detto ciò, un ottimismo fondato su basi di realismo produrrà sicuramente effetti più positivi come la promozione di autoefficacia, salute fisica e benessere (Segerstrom, 2001) e renderà anche meno vulnerabili a possibili rischi sottostimati.

L’estremo opposto all’ottimismo irrealistico è il pessimismo difensivo (Norem, 2001). Questo consiste in una strategia cognitiva attraverso cui l’individuo si prospetta possibili esiti negativi ed in virtù di questi si prepara ad agire preventivamente. In questo senso, il pessimismo assume un valore più adattivo limitando l’esposizione ai pericoli e favorendo la regolazione di stati affettivi come l’ansia. Tuttavia, essere preparati sempre al peggio potrebbe far sovrastimare il rischio, impedire di guardare alla realtà con obiettività e neutralizzare la possibilità di vivere serenamente laddove non ci sia pericolo imminente. In questo caso, un esempio calzante di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi anche quando i supermercati non minacciano di chiudere.

Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza sanitaria. L’ideale sarebbe, infatti, riuscire a compiere una valutazione oggettiva dei rischi e sulla base di questa regolare al meglio il proprio comportamento.

Tuttavia, gli studi dicono che l’uomo fallisce facilmente nella stima delle probabilità e non è abile a percepire il rischio per quello che realmente è. Questa potrebbe sembrare una contraddizione in un’epoca in cui il calcolo delle probabilità diventa sempre più esatto, ma bisogna fare i conti con alcune trappole della mente in cui l’uomo cade inevitabilmente.

Come è possibile? Immaginate che questo riceva durante una giornata una quantità di informazioni smisurata (anche incoerenti tra loro) riguardo il Covid-19 e la sua possibilità di contagio. Ognuna di queste viene vagliata, modificata ed inserita in un’idea generale che sia il più possibile coerente. In questo processo, si forma una propria chiave di lettura dell’evento. Questa determina la selezione e la modifica delle informazioni in entrata, facilita il persistere di convinzioni personali anche senza fondamento empirico (“persistenza della credenza”) e la ricerca di prove stentate a supporto della propria ipotesi (bias di conferma), provoca il fenomeno dell’overconfidence (tendenza ad essere più sicuri che corretti nel sovrastimare l’esattezza delle convinzioni personali) causando così ripetuti errori nella valutazione.

Inoltre, l’individuo si affida anche alle euristiche, scorciatoie di pensiero che favoriscono l’emissione di giudizi rapidi ed efficienti. Queste sono guide intuitive che, se da un lato facilitano il lavoro della nostra mente occupata, dall’altro non sempre sono esatte. In particolare, nel caso della valutazione del rischio, l’euristica della disponibilità sembra essere particolarmente coinvolta. Essa consiste in una stima delle probabilità che un determinato evento futuro ha di accadere sulla base della disponibilità in memoria di eventi attinenti. Dunque, un errore a cui l’euristica della disponibilità potrebbe condurci è quello di presupporre una scarsa probabilità di contagio solo perché non si conosce nessun soggetto che ha contratto il virus.

Ad influenzare la percezione del rischio, sono anche altri fattori come la familiarità con il pericolo, l’accettabilità del rischio, il grado di incertezza che questo implica, la percezione di controllo sull’evento, la gravità delle conseguenze, le possibilità di rimedio, ecc. (Slovic, 1987). Questi processi cognitivi sono accompagnati anche da componenti emotive, non meno importanti ed altrettanto influenti. E’ quindi solo considerando la totalità dei costrutti coinvolti che si può comprendere l’origine della discrepanza tra la valutazione oggettiva del rischio e la percezione soggettiva (Slovic, 2001).

Guardando a questo errore nel funzionamento dell’uomo, viene da chiedersi come abbia fatto a sopravvivere ai tanti ed imminenti pericoli che l’era primitiva comportava se oggi non è in grado di compiere una valutazione oggettiva del rischio, nonostante la presenza dei dati statistici.

Storia di un coronavirus (2020) di F. Dall’Ara e G. Negri – Recensione del libro

L’E-book Storia di un coronavirus è stato creato con lo scopo di trovare un modo concreto e immediatamente fruibile per facilitare genitori e bambini a condividere domande e vissuti circa il coronavirus e le sue conseguenze.

 

In questo tempo sospeso e complesso, in cui gli scienziati di tutto il mondo si pongono domande e cercano risposte per contenere e superare la difficilissima situazione sanitaria che stiamo affrontando a causa del SArs-Cov2, è molto importante non dimenticarsi che anche i bambini hanno il diritto di sapere! (A. Costantino)

Con queste parole la professoressa Antonella Costantino, primario dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, presenta l’E-book Storia di un coronavirus, sviluppato allo scopo di trovare un modo concreto e immediatamente fruibile per facilitare genitori e bambini a condividere domande e vissuti circa il coronavirus e le sue conseguenze.

Nell’emergenza, in questa emergenza sanitaria, tutti, grandi e piccini, abbiamo bisogno di capire cosa succede. Non sapere, non poter fare previsioni fa sperimentare sentimenti di confusione e aumenta la paura.

Questo è vero sia per noi adulti sia per i bambini.

Anche i bambini hanno bisogno di capire e non è certo facile per i genitori spiegare una minaccia invisibile, ma così potente da far chiudere le scuole e gli uffici da allontanare i parenti e gli amici. Una minaccia, questo virus, che fa ammalare molte persone e alcune purtroppo muoiono.

Difficile spiegare tutto questo a un bambino. Psicologi, educatori e scrittori per l’infanzia hanno trasformato informazioni scientifiche in storie per bambini per essere di supporto ai genitori. Ci sono le rime di Roberto Piumini, la delicatezza di Alberto Pellai, ma ci sono anche Francesca Dell’Ara e Giada Negri con la loro storia di un coronavirus. La loro storia è speciale!

Cosa la rende speciale? Può essere letta da tutti grandi e piccini ed anche da chi leggere non sa, ma comunicare vuole.

I bambini con disabilità hanno bisogni comunicativi spesso complessi da soddisfare, come tutti noi hanno bisogno di sicurezza e necessitano di capire cosa succede se intorno a loro il mondo cambia. Prendiamo in esame i bambini con disturbi dello spettro dell’autismo essi faticano a esporsi con gli altri, “esseri umani mutevoli e senza regole”, così mi disse Loris un giorno, e ancor di più faticano ad adattarsi a un ambiente mutevole e imprevedibile. Più di altri faticano ad adattarsi ai cambiamenti che l’emergenza sanitaria da coronavirus ha imposto a tutti, anche a loro.

Avere difficoltà nella comunicazione e nella relazione con gli altri non elimina il bisogno d’informazione e conoscenza. La conoscenza di quel che accade ci aiuta ad adattarci a quel che accade.

Questo e-book racchiude due versioni dello stesso testo una in italiano e una in simboli secondo i principi della comunicazione alternativa aumentativa.

La Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) è un sistema multimodale sviluppato per sostenere la comunicazione mediante strumenti che permettono a una persona di far emergere le proprie competenze comunicative. Include simboli, gesti, segni. La CAA è un approccio clinico e riabilitativo che consente di integrare le competenze comunicative della persona con ausili e software corretti.

Storia di un Coronavirus è un libro “su misura” adatto ai bambini dai due anni. E’ una storia semplice che cerca di spiegare una realtà complessa.

C’è Margherita una bambina che prova a disegnare il Coronavirus perché ha bisogno di capire, così s’infila nel lettone con mamma e papà, si sente al sicuro accanto ai genitori che le spiegano che succede. Le spiegano cos’è un virus, cosa sono le goccioline, perché serve la mascherina e l’importanza del distanziamento tra le persone. Margherita come molti bambini fatica a rinunciare al parco con gli amici e ai momenti felici con i compagni di classe e con i nonni.

Nella storia si toccano i sentimenti negativi della paura di ammalarsi, della tristezza per la sofferenza di molte persone, la preoccupazione per le persone più fragili e per la “nonna bis”.

Non si può impedire all’emozione di emergere e non possiamo negare ai bambini di esprimere la paura della malattia, la rabbia di non poter giocare all’aperto, la noia di restare in casa e la tristezza per i defunti. Si può aiutare i bambini a tollerare queste emozioni, a condividerle e a trovare un modo per utilizzare il tempo prezioso insieme a casa.

Nella storia genitori e bambini troveranno suggerimenti per organizzare il tempo e lo spazio familiare tra smart-working di mamma e papà e scuola online. Un tempo di opportunità e di nuove idee e attività da realizzare insieme: le bolle sul balcone, la pizza e le patatine cucinate insieme.

Leggete questa storia semplice ad alta voce con i bambini, leggete questa storia con gli occhi, osservando i simboli e le immagini.

Con l’aiuto di Margherita, la protagonista, molti bambini avranno l’opportunità di conoscere e condividere quello che succede fuori e dentro di loro.

Tutti hanno diritto di leggere è solo questione di trovare il supporto adatto, il libro su misura e la comunicazione alternativa aumentativa crea infinite possibilità di leggere.

Di seguito una frase della storia nella versione simboli con CAA.

Storia di un coronavirus 2020 di Dall Ara e Negri Recensione del libro IMM1

 

Il bilinguismo come fattore di protezione nell’invecchiamento sano e patologico

Vista la mancanza di trattamenti risolutivi per la demenza, l’OMS sottolinea l’importanza di focalizzarsi sulla riduzione dei fattori di rischio di demenza, o, specularmente, sullo sviluppo dei fattori di protezione.

 

La popolazione italiana sta invecchiando: questa considerazione, ormai parte del dibattito pubblico, è supportata dai dati Istat. Per citarne alcuni, la percentuale di individui di età superiore ai 65 anni in Italia nel 2019 era del 22,8%; quella di bambini e adolescenti fino ai 14 anni era pari al 13,2%. L’indice di vecchiaia, pari al 173.1%, ribadisce l’invecchiamento della popolazione italiana.

Uno dei risvolti di questa situazione demografica è la presenza, in Italia, di oltre un milione di pazienti affetti da demenza. In aggiunta, la prevalenza delle demenze tenderà ad aumentare, con conseguenze sulla qualità della vita dei malati di demenza, dei loro familiari o caregiver e con conseguenze anche a livello economico (i costi annuali per la presa in carico di ciascun paziente variano tra i novemila e i sedicimila euro; Osservatorio Demenze Istituto Superiore di Sanità).

Considerando la mancanza di trattamenti risolutivi per queste patologie neurodegenerative, cioè che comportano la perdita o l’alterata funzione delle cellule nervose (Vallar e Papagno, 2018), l’OMS sottolinea l’importanza di focalizzarsi sulla riduzione dei fattori di rischio di demenza, o, specularmente, sullo sviluppo dei fattori di protezione.

Uno dei possibili fattori di protezione preso in considerazione attualmente nel dibattito scientifico è il bilinguismo. Un esempio è lo studio di Alladi e colleghi (2013), il quale ha mostrato che l’esordio della demenza risulta ritardato di 5 anni nei bilingui rispetto ai monolingui cresciuti nello stesso contesto culturale.

Tuttavia, i meccanismi neurali e cognitivi che spiegano come il bilinguismo possa agire da fattore di protezione per la demenza sono ancora incerti. Ossia: quali sono i cambiamenti a livello cerebrale e a livello del funzionamento cognitivo che rendono il bilinguismo un fattore di protezione rispetto all’invecchiamento sano e patologico?

Gallo, Myachykov, Shtyroy e Abutalebi (2020) hanno proposto che il bilinguismo possa agire da fattore protettivo attraverso l’aumento della riserva cerebrale e cognitiva. Il costrutto di riserva si riferisce alla discrepanza tra l’estensione di un danno cerebrale e la sua manifestazione clinica (Stern, 2009). In altre parole, lo stesso danno cerebrale potrebbe causare difficoltà cognitive diverse, in base ad alcune differenze individuali nei processi cognitivi o nelle reti neurali ad essi sottese.

Stern (2009) individua due tipologie principali di riserva: la riserva cerebrale (ad esempio avere un cervello più grande, più neuroni o più sinapsi) e la riserva cognitiva (riguarda le differenze individuali nei processi cognitivi). La riserva cognitiva comprende: la riserva neurale (ossia l’efficienza, capacità e flessibilità dei network neurali che supportano i processi cognitivi) e la compensazione neurale (cioè la capacità di sfruttare strutture o reti neurali diverse da quelle usate da un individuo con un cervello sano per implementare lo stesso processo cognitivo / svolgere lo stesso compito).

Gallo e colleghi (2020), nella loro review, argomentano che il bilinguismo possa contribuire ad incrementare:

  • La riserva cerebrale: le persone bilingui hanno una maggior integrità della sostanza bianca e un maggior volume della materia grigia. L’aumento di volume della materia grigia riguarda sia aree corticali (tra cui ad esempio la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore e i lobi temporali), sia aree sottocorticali coinvolte nel controllo esecutivo e nel linguaggio.
  • La riserva neurale: le persone bilingui sembrano avere maggiore flessibilità ed efficienza a livello delle reti neurali che supportano il controllo esecutivo, riuscendo così a compensare eventuali diminuzioni nel loro funzionamento cognitivo legate all’invecchiamento sano o patologico.
  • La compensazione neurale: gli studi considerati da Gallo e colleghi (2020) indicano che, a parità di funzionamento cognitivo, i bilingui hanno danno cerebrali più severi dei monolingui. Questo significa che i bilingui, pur avendo strutture cerebrali atrofizzate o danneggiate, riescono a manifestare un funzionamento cognitivo quasi normale.

Gallo e colleghi (2020) suggeriscono inoltre che una migliore teorizzazione degli effetti protettivi del bilinguismo sull’invecchiamento dovrebbe includere il costrutto di mantenimento cerebrale (Nyberg, 2012). Il mantenimento cerebrale si riferisce alle condizioni che consentono di preservare l’integrità strutturale, neurochimica e funzionale del cervello in età avanzata. Il mantenimento cerebrale è un concetto complementare a quello di riserva: il primo riguarda il rinvio della comparsa del declino cognitivo legato all’invecchiamento, il secondo riguarda le capacità di far fronte alla sua presenza (Nyberg, 2012).

Le conclusioni di Gallo e colleghi (2020) mettono in luce i benefici che il bilinguismo può apportare alla qualità della vita delle persone più anziane e, indirettamente, di chi se ne prende cura; benefici che bisognerebbe tenere in considerazione a livello personale, educativo e sociale.

Non perdiamo la testa: la psicologia ai tempi del coronavirus – Il video di Psychoarea

Un video per capire, grazie al contributo degli esperti, quali sono le difficoltà associate all’emergenza Covid-19 e come poterle affrontare.

 

In questo video, registrato durante una diretta streaming il giorno 26 Aprile con il movimento civico Traguardi, le dottoresse Rossana Dadà (psicologa psicoterapeuta) e Laura Nicolò (psicologa) riflettono su alcune tematiche legate al Covid e alle difficoltà psicologiche ad esso associate.

Sono stati dati degli spunti legati alla sicurezza, al come sia possibile affrontare situazioni vissute come pericolose e soverchianti grazie all’utilizzo del proprio corpo, che riporta nel qui e ora, e si è concentrati sull’importanza di avere delle routine e dei ritmi.

È stato possibile, inoltre, lasciare uno spazio per le domande poste da chi ha partecipato alla diretta.

PER GUARDARE IL VIDEO >> CLICCA QUI

 

SURVEY: Covid-dreams: l’attività onirica al tempo del Coronavirus – Partecipa alla ricerca

Quali effetti la pandemia da COVID-19 e l’isolamento forzato avranno avuto sulle caratteristiche della produzione onirica nella popolazione italiana e sulla qualità del sonno in generale? Aiutaci a scoprirlo!

 

Il periodo che stiamo vivendo, caratterizzato dal diffondersi del Coronavirus, ha comportato enormi cambiamenti nel nostro stile di vita. L’isolamento forzato ha prodotto drastiche modificazioni nelle nostre routine quotidiane, nell’attività lavorativa, nelle relazioni sociali e familiari. Potrebbe aver prodotto delle modificazioni anche sulla nostra attività onirica e, più in generale, sulla qualità del sonno. Il presente studio, avrà la finalità di indagare gli effetti della pandemia da COVID-19 e dell’isolamento forzato sulle caratteristiche della produzione onirica nella popolazione italiana.

Il questionario è anonimo, rivolto a persone maggiorenni, e dovrà essere compilato due volte, ora e quando l’emergenza sarà conclusa. L’indagine prevede la somministrazione di una batteria di test:

  • raccolta di dati anamnestici e relativi ai cambiamenti nelle abitudini quotidiane a seguito dell’inizio della pandemia;
  • il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI) (Curcio et al., 2013), impiegato per distinguere buoni e cattivi dormitori, comprensivo di un addendum specifico per esperienze traumatiche (PSQI-A, Germain et al., 2005);
  • il Beck Depression Inventory (BDI) (Beck et al., 1996) impiegato per valutare la presenza di sintomi depressivi;
  • lo State-Trait Anxiety Index (STAI) (Spielberger et al., 1983) impiegato per valutare la presenza di ansia di stato e di tratto;
  • un adattamento del Typical Dreams Questionnaire (Nielsen et al., 2003), impiegato per identificare i diversi temi caratterizzanti i contenuti onirici;
  • una serie di domande atte a valutare i cambiamenti autopercepiti nella quantità (numero dei sogni) e qualità (vividezza, bizzarria, intensità emotiva, lunghezza) dell’attività onirica;
  • resoconto scritto, opzionale, dell’ultimo sogno ricordato.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

CLICCA QUI 9733

 

 

La rete che aiuta il terapeuta: l’importanza della supervisione in un caso di psicoterapia

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi.

Mazzieri Elena – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Eccoci, finalmente è arrivato il momento di mettersi in gioco per davvero! Sono anni che mi esercito, che studio, che mi preparo per questo giorno, per questo momento, ed ora ci siamo! Finalmente arriva il primo paziente! Che emozione…

Certo, non è la prima volta in assoluto che seguo un paziente. Negli anni di formazione, durante il tirocinio, ne ho viste di cotte e di crude, ma il contesto era completamente diverso. Alle mie spalle c’è sempre stata la tutor, pronta ad aiutarmi nei momenti di difficoltà e a porre rimedi a miei eventuali errori. Ma ora è tempo di uscire dalla propria zona comfort e sperimentarsi in un contesto diverso. E così, un po’ per caso, un po’ per fortuna, sono stata contattata dalla prima paziente da seguire in privato.

Mi sono sentita come quando, da bambina, per la prima volta ho pedalato senza le rotelline. Mi sono sentita “grande” e, allo stesso tempo, spaventatissima. Mentre pedalavo cercavo con lo sguardo mio padre, sperando che fosse pronto a prendermi al volo, ma piano piano aumentava la consapevolezza che ormai era un po’ troppo lontano e, se fossi caduta, l’unica cosa pronta ad accogliermi sarebbe stato l’asfalto. Certo, non piacevole, ma come si dice dalle mie parti, “più giù di per terra non si va”, e quindi mi sono fatta coraggio e mi sono buttata in questa nuova impresa.

Quando Laura, nome di fantasia, ha suonato al campanello del mio studio, il cuore mi batteva a più non posso e a stento sono riuscita a non far tremare le mani. Poi ci siamo sedute, abbiamo iniziato a parlare e tutta la tensione è sparita. Mi sono calata nel ruolo di Psicoterapeuta e ho portato a termine il primo colloquio.

Laura ha all’incirca la mia età, ma questa non è la sola cosa che abbiamo in comune. Entrambe facciamo lo stesso lavoro, e non parlo di psicologia. Durante gli anni di specializzazione, per sbarcare il lunario in qualche modo, ho lavorato come educatrice presso una cooperativa sociale. Ed anche Laura è un’educatrice. La cooperativa non è la stessa, ma le dinamiche sono praticamente identiche, anche perché viviamo in due paesini molto vicini tra loro e, anche per questo, molto simili.

Mi sono resa conto sin da subito di quante fossero le cose che abbiamo in comune. A dirla tutta pensavo che ci avessero aiutato nell’instaurare una buona relazione terapeutica. E forse così è stato. Certo, ammetto che talvolta alcune situazioni da lei raccontate mi abbiano attivato più di quanto non avessi voluto, ma inizialmente sono riuscita ad avere ben presenti quali pezzi fossero del paziente e quali fossero miei.

Poi però gli eventi di vita si sono messi di mezzo. Non entrerò nei dettagli, ma basti sapere che durante uno dei vari servizi che svolgo per la cooperativa ho subito un infortunio e per me è stato un momento piuttosto faticoso. Forse avrei dovuto prendermi un periodo di pausa, ma ostinata e testarda ho pensato, sbagliando, che sarei riuscita a gestire tutto. Mannaggia alla sindrome da Wonder Woman!

Arriva il momento della seduta settimanale con Laura ed iniziamo a parlare. Anche per lei questo è un momento difficile ed un ruolo importante lo gioca proprio il lavoro. Facciamo gli ABC e, scendendo in laddering, mi rendo conto che molto dei suoi pensieri disfunzionali erano anche i miei. E come faccio a disputare pensieri che io stessa non riesco a mettere in discussione? Cercavo di essere razionale, ma non riuscivo a trovare le parole per convincere lei, ma soprattutto me stessa, che quei pensieri ci facevano fare soltanto più fatica e che, continuare a rimuginare in quel modo, non ci avrebbe affatto aiutato.

Ed è in quel momento che mi rendo conto di quanto fossimo effettivamente simili, anche fisicamente. Entrambe piuttosto alte, piuttosto magre, con un taglio di capelli molto simile, vestiamo anche in modo simile. Cavoli… quante erano le probabilità che la prima paziente, quella per uscire dalla zona comfort, fosse proprio un mio doppione? Ci piacciono anche le stesse serie TV!

Realizzare questo mi ha mandato estremamente in confusione. Per la mente mi è passato di tutto… “Anche lei subirà il mio stesso infortunio”, “mi starò davvero sintonizzando con la paziente o quello che sento in realtà è un pezzo mio e non suo?”, “avrei proprio dovuto fermarmi, ero così preoccupata dall’idea di darle buca e di essere l’ennesima persona che non l’ascolta e non la vede che rischio di fare un casino”, e così via, giù di giudizi, autoinsulti, rabbia, tristezza, colpa, rimuginii (esattamente come fa lei, ci tengo a sottolinearlo).

In una fase di vita in cui sono stata sopraffatta dagli eventi, trovarsi davanti il proprio doppione altrettanto sopraffatto per motivi simili mi ha fatto sentire fortemente inadeguata. Che razza di terapeuta è quello che non è in grado di gestirsi e di essere di aiuto alla paziente? Certo, ogni paziente attiva qualcosa nel terapeuta di personale, ma a tutto questo non ero preparata. Nella mia breve esperienza di psicologa in erba ho fatto qualche pasticcio, ma nel contesto di tirocinio mi sentivo sicura ed in qualche modo ero sempre riuscita a rimediare, grazie anche all’aiuto della tutor. Ero preparata all’eventualità di non poter essere efficace, ma non così presto e non con un caso che sento così vicino.

E già, perché in tutto questo dobbiamo aggiungere che Laura la sento proprio molto vicina e tengo molto a lei. È una paziente ideale, ti segue ed ha grandi capacità introspettive. Sebbene stia attraversando un momento difficile non si perde d’animo e fa di tutto per cercare di uscirne, anche troppo… non per niente rimugina, rimugina, rimugina, rimugina…. Sin dalla prima seduta mi sono accorta che non si trattava di un semplice disturbo da attacchi di panico. Laura ha una personalità variegata, un passato faticoso e una forza e una volontà che lei stessa non riconosce di avere.

Con quel lato narcisistico misto allo spirito da crocerossina che noi tutti psicologi abbiamo, pensavo di poterle essere davvero di aiuto. Purtroppo però le mie sicurezze stavano iniziando a vacillare.

Avrei dovuto inviarla?

Dobbiamo dirla tutta. In realtà io non ero preparata all’eventualità di dover inviare Laura ad un altro psicoterapeuta. Mi ero resa conto di essere entrata con tutte le scarpe nel ciclo di allarme e di aver compiuto dei passi metodologicamente sbagliati, e proprio per questo ho chiesto aiuto alle didatte per capire come muovermi.

Come si vede l’esperienza!! È bastata un’occhiata che subito mi hanno detto di fermarmi e di riflettere su quanto stavo facendo e che, ovviamente, avrei prima dovuto lavorare su di me per superare il mio momento difficile. Certo, ora dico ovviamente, in quel momento proprio ovvio non era… Per dirla in termini LIBET: ho attivato il mio bel piano immunizzante e mi sono messa a fare per non sentire (ridondante dirlo, esattamente come fa Laura!).

Questa bellissima verità, schiaffata davanti agli occhi, è stata come una doccia gelata. Non ero pronta all’eventualità di fermarmi, non volevo sentirla. Troppo presa dai miei drammi lavorativi, non mi ero resa conto che il vero dramma me lo stavo scrivendo da sola nella professione per cui tanto ho investito ed alla quale tengo moltissimo.

“Ok Elena – mi sono detta – dobbiamo guardare in faccia la realtà. Cosa stai facendo?”.

Sono sempre stata molto riconoscente verso i miei docenti, ma in questo momento più che in altri. Ho capito che la prima e più importante cosa da fare era chiedere una supervisione. Un occhio esterno, molto più esperto di me, mi avrebbe potuto aiutare a chiarire le idee.

Non tanto sulla paziente in sé, lei l’avevo ben chiara in mente, e altrettanto chiari avevo le varie tecniche e protocolli che avremmo potuto usare. Ma tutto questo non serve proprio a niente se prima non usciamo dal ciclo di allarme e non smettiamo di usare il fare per non sentire. Ma se io stessa non credo alle mie dispute, come può crederci il paziente?

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi. Grazie alla supervisione orientata ai processi, cioè quella indirizzata a chiedersi “come sto con il paziente”, “cosa sto facendo di problematico?”, “qual è il disagio che ho avuto durante le sedute”, mi sono resa conto che, quando sono particolarmente attivata emotivamente e quando si tratta di temi a me così vicini (e dolorosi), non è affatto semplice mettersi in discussione. Quanto accetto che mi venga detto che quell’atto clinico, quelle emozioni con quel paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare? Beh, di fronte all’ipotesi che mi è stata posta di abbandonare il paziente, mi sono sentita spaesata, confusa e decisamente non pronta ad accettare questa eventualità.

Ho dovuto dormirci sopra la notte prima di capire che quelle parole erano ben più che sensate e che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo.

Mi è tornato in mente un professore all’università, che diceva che, per inoltrarci nel paziente, dobbiamo sempre avere una rete di sicurezza pronta a tirarci fuori, altrimenti rischiamo di restare nella pancia della balena. E la rete di sicurezza sono proprio i colleghi e le supervisioni. Non si capisce il senso di queste parole finché non ci si addentra nella pancia della balena, finché non ci sentiamo un po’ Giona, soli e al buio, dentro qualcosa che non conosciamo e che ci spaventa un po’. Che la balena rappresentasse il dolore mi era chiaro, ma che il dolore fosse tanto del paziente quanto nostro non lo avevo capito fino in fondo.

La supervisione è fondamentale per comprendere il paziente, per capire se ci siamo persi qualcosa, se abbiamo fatto degli errori tecnici, certo, ma la supervisione è ancora più importante per farci uscire dalla balena e farci vedere chiaramente che in fondo quello è un animale immenso, maestoso ma quasi innocuo, che si nutre di plancton e che non attacca l’uomo. Soltanto uno sguardo esterno ci può aiutare a capire questo, perché certe volte, quando abbiamo la testa sott’acqua, non ci accorgiamo di quanto siamo in profondità. Sentendoci soffocare, non ci rendiamo conto che basterebbe appoggiare i piedi e sollevare la testa per poter respirare di nuovo.

Attualmente la terapia con Laura sta continuando. Ci siamo prese del tempo per “non fare” e per stare con le nostre emozioni dolorose. Le nostre somiglianze sono diventate punti di forza nell’alleanza terapeutica e insieme stiamo facendo qualche passo avanti. E tutto questo è stato possibile solo grazie alle supervisioni e al supporto dei colleghi.

Una cosa è certa… io la mia rete di sicurezza non la mollo!

 

Realtà Virtuale e Schizofrenia

L’immersività della RV rende questa tecnologia un ottimo ausilio per la valutazione delle funzioni cognitive e sociali anche in persone con patologie come la schizofrenia.

 

Probabilmente tutti ormai abbiamo sentito parlare di Realtà Virtuale (RV), un mondo digitale che sta suscitando sempre maggior interesse ed entusiasmo di clinici e ricercatori. Vediamo brevemente cos’è e come funziona.

La RV è un ambiente simulato 3D con il quale il soggetto può interagire mediante l’ausilio di particolari sistemi di “input” (sensori di posizione e/o guanti/ tuta dotati di sensori) e “output”(casco con monitor LCD), integrati ed aggiornati da un computer, che costruisce e restituisce in tempo reale immagini e suoni dello scenario in cui l’utente è immerso.

La RV prevede una vasta gamma di applicazioni: dall’architettura ai videogiochi, dalla medicina all’arte, dalla psicologia allo sport.

Essendo lo scenario di RV una simulazione realistica di un ambiente verosimile e, allo stesso tempo sicuro e controllato dal clinico in un setting laboratoriale, consente di minimizzare i costi e i pericoli legati a situazioni che potrebbero essere potenzialmente pericolose nell’esperienza sul campo (o esperienza in vivo). Inoltre, dato l’elevato livello di coinvolgimento, di interazione e di partecipazione sembra promuovere la motivazione del paziente al trattamento (Baker Ek. et al., 2006).

Per questi motivi l’applicazione di tale tecnologia, nell’ambito della psicologia clinica, risulta essere un valido strumento di supporto alla psicoterapia cognitivo comportamentale.

L’esposizione in RV risulta essere efficace nella ricerca scientifica, nell’individuazione e nel trattamento di disturbi alimentari e disturbi d’ansia (G. Riva, 2005).

Nonostante la mole di ricerche evidenzi l’efficacia dell’applicazione delle tecnologie immersive a queste tipologie di disturbi, soltanto di recente sono emersi risultati sorprendenti nell’ambito della schizofrenia.

Il DSM-5 (APA, 2013) la definisce un disturbo psicotico cronico caratterizzato da sintomi positivi (deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato e agitazione) e negativi (affettività coartata, povertà di pensiero, isolamento sociale, appiattimento emotivo, apatia e anedonia) che causano una forte compromissione sul piano personale e sociale. Inoltre, la compromissione della sfera cognitiva rappresenta una caratteristica centrale della schizofrenia.

La ricerca

Secondo una review pubblicata nel 2010 (La Barbera D. et al., 2010) la ricerca, con l’ausilio di RV si è occupata principalmente di:

  • individuare le caratteristiche specifiche del pensiero paranoideo (Freeman D et al., 2003)
  • implementare la conoscenza delle esperienze allucinatorie e dei loro correlati psicologici e neurofisiologici (Deegan PE., 1996).

Daniel Freeman (che sarà ospite al Digital Perspectives in Psychology 2021), professore in psicologia clinica e ricercatore presso l’università di Oxford, ha dedicato gran parte delle sue ricerche alla conoscenza ed al trattamento della paranoia. Assieme al suo gruppo di ricerca, ha valutato i fattori potenzialmente predittivi dei sintomi paranoici, esponendo un gruppo di ben 200 soggetti non clinici ad ambienti virtuali neutri (2008). I setting virtuali, una simulazione della metropolitana di Londra e una comune biblioteca, erano popolati da avatar creati per essere il più neutrali possibile. Gli avatar, si spostavano in modo random nell’ambiente e mostravano una mimica facciale neutra, mai chiaramente amichevole oppure ostile. Di tutti i soggetti, precedentemente sottoposti ad una serie di valutazioni psicologiche sulla “predisposizione alla paranoia”, solo una piccola porzione dichiarava pensieri e stati d’animo persecutori connessi all’esperienza. Tali vissuti risultavano essere predetti statisticamente da costrutti precedentemente misurati quali: ansia, preoccupazione, anomalie percettive e rigidità cognitiva.

Banks ed il suo gruppo di ricerca (2004), invece, aiutati da un gruppo di pazienti affetti da schizofrenia, hanno creato delle vere e proprie esperienze allucinatorie in laboratorio, con l’obiettivo di misurarne i correlati neurofisiologici e psicologici. Avvalendosi della RV, i ricercatori hanno esposto soggetti sani a stimoli audio-visivi ascrivibili quasi perfettamente alle comuni allucinazioni esperite da soggetti psicotici. Le esperienze, che consistevano in suoni o voci, all’apparizione di parole come “morte” intermittentemente tra i titoli di un giornale o la visione della Vergine Maria, sembravano attivare particolari aree del cervello ed indurre specifiche risposte emotive. I risultati delle misurazioni con Risonanza Magnetica funzionale, indicavano un incremento del lavoro della corteccia secondaria uditiva nel planum secondario sinistro. Inoltre i soggetti sembravano esperire una notevole attivazione emotiva quando erano esposti ad allucinazioni uditive con contenuto semantico accusatorio. Da ciò constatarono, quindi, che è proprio il significato più che la frequenza, il volume o la durata delle allucinazioni, ad indurre vissuti sgradevoli.

Valutazione delle funzioni cognitive

L’immersività della RV, rende questa tecnologia anche un ottimo ausilio per la valutazione delle funzioni cognitive e sociali. Molti strumenti valutativi, che tradizionalmente consistevano nella somministrazione di test o nell’osservazione in ambiente naturale trovano, ad oggi, con la RV una incredibile svolta in termini di costi ed efficacia.

Tra il 2003 ed il 2006, diversi gruppi di ricerca hanno proposto versioni in RV di alcuni test neuropsicologici (Ku J. et al., 2003; Ku J. et al., 2004; Sorkin A. et al., 2005; Sorkin A. et al., 2006).

Sorkin e colleghi (2006), hanno dimostrato, tramite l’immersione di pazienti schizofrenici in un ambiente virtuale ispirato al Wisconsin Card Sorting Test (Heaton R.K. et al., 2000), l’efficacia di tale tecnologia nella misurazione delle funzioni frontali. Il compito del soggetto era superare un labirinto attraversando una serie di porte distinte per colore, forma e suono. I dati prodotti dallo spostamento del soggetto, producevano misurazioni incredibilmente accurate in termini di abilità di ragionamento astratto e di strategie cognitive.

Attraverso compiti di incoerenza percettiva, invece, lo stesso gruppo di ricerca (2008), ne ha valutato l’esame di realtà. Questi tasks consistevano nel riconoscimento di anomalie di tipo percettivo quali, ad esempio, un gatto che abbaia o un albero con le foglie blu. Quasi il 90% dei pazienti aveva punteggi molto bassi in questi compiti, redendo tale indice caratteristico del disturbo ed il test un ottimo strumento di screening psicodiagnostico.

Nel 2006 quello che all’origine era un test atto a misurare la memoria spaziale e le capacità di apprendimento nei topi ha ampliato il target d’utenza agli umani, attraverso una versione virtuale, che in un ambiente tradizionale di laboratorio sarebbe stata difficile da realizzare (Hanlon FM. et al., 2006). Il soggetto viene immerso virtualmente in una piscina di acqua opaca, proprio come accadeva per il topo, col compito di individuare e salire su una pedana. Questa prima prova viene poi ripetuta con un livello di acqua maggiore, tale da nasconderla. Nonostante l’impiego di punti di riferimento ambientali, come l’esaminatore virtuale o oggetti posti oltre i bordi della piscina, i soggetti schizofrenici impiegavano più tempo rispetto ai soggetti sani ad individuare la pedana.

Valutazione del funzionamento sociale

Oltre all’applicazione della RV nella valutazione delle funzioni cognitive, gli ambienti virtuali sociali sono utili a comprendere il funzionamento sociale dell’individuo e le sue modalità di relazionarsi agli altri. Per valutare ciò, Ku J. e il suo gruppo di ricerca (2007) chiesero ad un gruppo di pazienti affetti da schizofrenia, di interagire virtualmente con degli avatar. Questo esperimento ha prodotto interessanti risultati rispetto alla relazione tra i fattori sociali ed i sintomi negativi della schizofrenia. Si è evidenziato come pazienti con una maggior compromissione in termini di sintomi negativi, tendessero a tenere maggior distanza interpersonale durante le interazioni. Tale indice, emerso attraverso l’uso di tecnologie immersive, evidenzia un’ulteriore peculiarità della malattia, non altrimenti così facilmente identificabile attraverso altri mezzi.

Riabilitazione sociale

Al fine di migliorare il funzionamento sociale dei soggetti affetti da schizofrenia, la RV è entrata a far parte dei programmi di social skill training. Comparando i protocolli standard di role playing con le simulazioni di situazioni sociali virtuali, queste ultime hanno dimostrato prove di efficacia di gran lunga maggiori, in particolare nelle abilità sociali generali e capacità di conversazione (Ku J. et al., 2007).

Riabilitazione cognitiva

Ad oggi non esiste un gran numero di protocolli di riabilitazione cognitiva in RV. Un protocollo ideato in Brasile da Costa e Carvalho (2004) sembra essere efficace nella riabilitazione cognitiva di diversi disturbi come con pazienti cerebrolesi. I due ricercatori hanno creato uno spazio virtuale chiamato “Integrated Virtual for Cognitive Rehabilitation” (AVIRC), ossia una città costituita da una piazza, delle case, una libreria, una chiesa ed un supermercato. Lo scopo dei ricercatori era mettere in condizione l’utente di allenarsi in presenza di tipiche situazioni della vita quotidiana. Alcuni dei compiti che l’utente doveva portare a termine erano: rispondere a domande dei passanti rispetto a orario e data, interagire con oggetti comuni quali radio o lampade, comporre numeri telefonici precedentemente memorizzati o riconoscere volti dei passanti.

Inoltre, la RV, ha trovato impiego anche nel miglioramento della compliance e della capacità di gestione della terapia farmacologica, altro problema collegato al decadimento delle capacità intellettive dei soggetti con schizofrenia. Alcuni ricercatori americani (Kurtz MM. et al., 2007) hanno ricreato virtualmente un appartamento, dotato di varie stanze, all’interno del quale il paziente veniva allenato ad assumere correttamente la terapia farmacologica in termini di dosaggio e tempistiche, con l’aiuto di ausili ambientali esterni come l’orologio da parete o post-it. L’impiego di tale tecnologia è risultato efficacie sia nell’individuazione di problematiche relative all’autogestione della terapia che nella sua implementazione.

RV e Stigma

La schizofrenia è la follia per l’immaginario collettivo. Per sua natura l’esperienza schizofrenica è comunemente pensata come qualcosa di inconoscibile, misterioso e terrificante. È per questo che la gravità dello stigma che affligge le persone con tale patologia non è equiparabile a nessun’altra condizione psichiatrica o medica. È possibile però, attraverso laboratori di simulazione dell’esperienza allucinatoria, immergersi nella quotidianità di queste persone per qualche minuto e vivere un’esperienza che ha volutamente l’obiettivo di sensibilizzare a tali condizioni. Yellowlees e colleghi (2006) hanno proprio lavorato per questo rendendo fruibile tale esperienza su una gigantesca piattaforma digitale prodotta dalla società Americana Linden Lab, chiamata “Second Life”.

L’esperienza consisteva nella simulazione di una serie di esperienze allucinatorie e deliranti in ambienti di vita quotidiana e si concludeva con l’entrata in scena di un avatar con fattezze amichevoli, evocativo del messaggio di fondo dell’esperienza stessa cioè la sensibilizzazione al supporto sociale.

In conclusione, le evidenze scientifiche prese in considerazione vedono la RV volta prettamente a pazienti a rischio di psicosi e privi di sintomi positivi attuali. Si è visto come attraverso la riproduzione fittizia di contesti e situazioni di vita reale, è possibile non solo ottenere una valutazione attendibile delle principali funzioni cognitive, facilitare la valutazione di quelli che sono i sintomi psicopatologici dell’ansia sociale o dell’ideazione persecutoria, ma anche diminuire lo stigma e sensibilizzare rispetto all’esperienza schizofrenica.

Nonostante la letteratura scientifica evidenzi che alcuni soggetti (persone affette da gravi patologie cardiache, da epilessia, tossicodipendenti, e con problematiche riguardanti la percezione della realtà) manifestino reazioni molto intense agli ambienti simulati (Wiederhold B. et al., 2003), le possibilità di applicazione di questo strumento ed i possibili sviluppi futuri sono inevitabilmente interessanti.

Dunque estendere la ricerca in questo campo sembra essere ad oggi un obiettivo di estremo interesse, attualità e fondamentale per il futuro.

 

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Bambini e Adolescenti confinati in casa. Come prevenire i rischi psico-fisici?

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento alla situazione attuale legata al covid-19 e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento. Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

 

 In risposta alla pandemia da coronavirus (COVID-19) il governo italiano ha ordinato la chiusura delle scuole a livello nazionale allo scopo di limitarne la diffusione. Questo radicale cambiamento della quotidianità, i limiti imposti e l’incertezza riguardo al presente e al futuro hanno generato un forte disorientamento in ogni soggetto, dal più grande al piccolo. Ma fermiamoci a riflettere sui vissuti di bambini e adolescenti.

Sono circa 8 milioni gli studenti che dai banchi di scuola si sono ritrovati di colpo confinati nelle loro case. La misura straordinaria ha costretto alla ricerca di un’alternativa alla frequenza scolastica, optando per una didattica a distanza, in cui mezzi telematici da computer a tablet a connessioni internet sono le principali risorse. Non è stato e non è tuttora semplice interfacciarsi con una realtà così diversa. Videochiamate, meeting, messaggi non bastano per parlare di “scuola”. Ogni giorno si apprezza e si riconosce la preziosità della tecnologia, si imparano nuove cose e ci si riconosce capaci di fare qualcosa che sembrava così difficile. Ma come è stare dietro ad un schermo? Non poter abbracciare un compagno, guardarlo negli occhi, giocare, chiacchierare con lui, condividere le proprie giornate con quella classe che oramai è una famiglia. Nonostante si cerchi di garantire il diritto all’istruzione, sostenendo le famiglie, garantendo uguali diritti anche ai più deboli, andando incontro ai bisogni dei singoli studenti garantendone l’integrazione, la prolungata chiusura scolastica, l’isolamento nelle mura domestiche e la limitata socializzazione con i coetanei potrebbe avere importanti conseguenze negative sulla salute psicofisica di bambini e adolescenti.

Sono numerosi i fattori di stress in gioco:

  • tempi lunghi
  • paure connesse al virus e alla possibilità di infezione
  • continue informazioni, spesso inadeguate e forte allarmismo
  • mancanza di contatti sociali con compagni, amici e insegnati
  • assenza di spazio personale in casa
  • difficoltà economiche familiari
  • stati d’animo negativi

L’impatto del COVID-19, tuttavia, non è uniforme tra le varie famiglie e il contrasto è spesso netto. Alcune hanno perso i propri cari e vivono l’infezione molto da vicino, altre si trovano in regioni con una minore diffusione. Alcuni bambini hanno genitori che svolgono un lavoro in prima linea con i contesti COVID-19, altri hanno sospeso il lavoro o lavorano in casa. Il filo comune che attraversa ogni casa, ogni famiglia, è sicuramente un vissuto ricco di paura ma ciò che è ritenuto di fondamentale importanza, soprattutto quando parliamo dei più piccoli, è il vivere il proprio ambiente familiare come confortante.

La comunità scientifica riconosce tra i rischi maggiori, la possibilità di sviluppare varie psicopatologie: disturbi d’ansia, depressione, ossessioni, fobie, psicosi, disturbi alimentari, disturbi del sonno e disturbi post-traumatici. Parliamo di reazioni da parte del corpo e della mente in risposta ad una situazione particolarmente difficile. Ad entrare in gioco sono numerosi fattori, dalla vulnerabilità personale al contesto di vita, considerando la realtà individuale prima del virus. E’ chiaro che, la stessa situazione può avere un significato differente per il singolo individuo, perciò è necessario tener conto dell’elaborazione soggettiva operata da ognuno. Il momento attuale, non è altro che un fattore di invalidazione, ossia una situazione stressante che espone la persona ad una minaccia. Hans Seley, medico austriaco, ha descritto come l’organismo reagisce agli eventi stressanti, parlando di Sindrome generale di adattamento. A tal proposito, è possibile distinguere tre fasi:

  • una prima fase di allarme con l’attivazione del sistema nervoso autonomo
  • una seconda fase di resistenza, caratterizzata da adattamento allo stress
  • una terza fase di esaurimento nel caso in cui lo stress permanga e l’organismo non metta in atto risposte adeguate per fronteggiarlo.

In questa situazione di emergenza ogni soggetto avrà attraversato allo stesso modo la prima fase di carattere fisiologico mentre le successive risposte emotive e comportamentali dipendono da percezione e immaginazione individuale. Ad assumere un ruolo centrale è il significato che la persona attribuisce all’evento e quindi i pensieri con cui si ritrova a fare i conti.

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento.

Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

Tra i fattori che hanno un forte impatto sulla salute psicofisica di bambini e ragazzi, vi è in prima linea l’assenza di una routine quotidiana che contribuisce ad aumento del tempo libero, maggiore sedentarietà, spostamento dei ritmi sonno-veglia, isolamento sociale e alimentazione disordinata.

Ne conseguono nuove abitudini poco salutari che a lungo termine possono avere effetti dannosi.

Cosa fare?

Evitare tutto ciò partendo con un’accurata informazione.

Mantenere le giornate strutturate organizzando attività che possano riempire la quotidianità. Ciò non significa essere rigidi ma dare ordine e diffondere uno stato di sicurezza almeno in quella che è la propria zona confort.

Tra queste prediligere attività che tengono a bada lo stress e che permettono l’emergere del cocktail emotivo associato all’attuale situazione di emergenza da COVID-19.

Al primo posto troviamo l’espressione artistica e creativa grazie alla quale bambini e ragazzi riescono a dare significato alla confusione e alla paura.

Arte e gioco rappresentano modalità per connettersi attraverso simboli e metafore permettendo loro di prendere il controllo del loro ambiente caotico.

Creatività e immaginazione, tipiche dei più piccoli, hanno un ruolo preziosissimo: permettono l’espressione di ciò che è più difficile, sono la chiave d’accesso al loro mondo così spontaneo e ingenuo.

Di seguito riporto le parole di M. un bambino di 10 anni con diagnosi di ritardo cognitivo durante una video lezione nel periodo di quarantena. Di fronte a semplici domande, nonostante si trovasse dietro allo schermo con la sua educatrice, riesce a dire quello che prova attraverso il gioco, parlando di emozioni, del dolore e la fatica connessi all’emergenza. Un esempio di libera espressione.

Mi viene da urlare: ‘basta corona virus!’. Mi mancano i miei amici. Mi sento nervoso, ho la rabbia nella pancia che si lamenta e anche lei dice: ‘basta corona virus, stai zitto!’
Vorrei combattere con questo mostro verde e brutto, mi servirebbe una spada magica che trasforma il mostro in un coniglio buono.
Con un’esplosione vorrei distruggere questo virus, proprio come fa lady bug con il suo yo-yo
che trasforma un’acuma cattiva in un’acuma buona. Così la mia rabbia si trasformerebbe anche lei in felicita’.
Felicita’ nel cuore che mi farebbe saltare in alto come un simpatico canguro e arrivare fino alle mie maestre, alle nonne e ai miei amici per riabbracciare tutti.
Ma il posto che raggiungerei prima di tutti è il mare per nuotare libero nell’acqua azzurra.
Il virus diventato un coniglio buono e goloso di carotine, guarisce tutti quando si trasforma in un dottore speciale.

A ciò segue, l’importanza del movimento. Fare sport o semplicemente giocare dinamicamente, oltre a favorire la crescita cognitiva, emotiva e sociale, è utile a modulare le emozioni, a combattere lo stress, a scaricare le tensioni accumulate aumentando le energie e uno stato generale di benessere.

Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della sanità indicano raccomandazioni differenziate per ogni fasce d’età, secondo tempi e modalità distinte.

In questo periodo, giochi o attività di movimento svolti in casa, possono avere un duplice beneficio: essere un modo per esprimere emozioni più o meno spiacevoli e allo stesso tempo contribuire positivamente alla propria salute psico-fisica.

La combinazione tra libertà di espressione, movimento, ascolto, attenzione e valorizzazione sono punti fondamentali nella relazione genitori-figli. Inoltre, condividere la situazione di emergenza presuppone un confronto intimo, un’opportunità nella relazione. Il tempo a disposizione, gli spazi a volte troppo ristretti “costringono a stare insieme”. Quanto questo può unire o dall’altra parte separare?

L’adulto in tutto ciò, mettendo a disposizione un modello sano, senza riversare le sue angosce, senza soffocare emozioni e l’espressione della propria identità, funge da fattore protettivo in questa situazione d’incertezza.

Per mitigare le conseguenze del confinamento domestico, il governo, le organizzazioni non governative (ONG), la comunità, la scuola e i genitori devono essere consapevoli del lato negativo della situazione e fare di più per affrontare immediatamente le difficoltà. Le esperienze apprese dai precedenti focolai possono essere utili per la progettazione di un nuovo programma per affrontare le problematiche.

Ritrovandosi oggi in quella che è definita “la seconda fase”, si iniziano a fare progetti futuri, a fantasticare sulla realizzazione di desideri emersi durante la quarantena proprio per l’impossibilità di poter fare ciò che prima d’ora era spesso considerato ‘scontato’. Non bisogna però escludere la presenza di vissuti di paura all’idea di uscire dall’uscio di casa. In questa fase, ancora ricca di incertezza e timori sarebbe auspicabile fare piccoli passi verso il ritorno di una vita senza la pandemia. Prepararsi alle nuove disposizioni che dopo l’estate hanno come obiettivo quello di un graduale rientro a scuola e a tutte quelle attività che appartengono alla quotidianità di ognuno.

In attesa che esca il sole, attuando le varie strategie d’azione più adeguate, ci si ripara da questa pioggia sottile e pungente.

 

Intimate touch: l’importanza del tocco del partner nelle relazioni sentimentali

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Social and Personal Relationships ha indagato l’importanza all’interno delle relazioni sentimentali dell’intimate touch (letteralmente “tocco intimo”, tutto ciò che riguarda il contatto fisico non visto come approccio sessuale) correlato con lo stile di attaccamento adulto (Wagner et al., 2020). 

 

L’intimate touch, costituisce un aspetto fondamentale all’interno delle relazioni intime (Brennan, Wu, & Love, 1998). Nonostante vi sia una gran mole di ricerche su come il contatto fisico influenzi i rapporti intimi fin dalla nascita (basti pensare alla relazione genitore-figlio; Ainsworth & Bell, 1969), il suo impatto all’interno delle relazioni sentimentali non è mai stato adeguatamente indagato.

Alcune ricerche mostrano una correlazione positiva tra intimate touch e soddisfazione relazionale (Gulledge et al., 2003), alcune il suo impatto nel migliorare gli stati d’animo nei partner (Sbarra & Hazan, 2008). Nonostante questo, non tutti sono soddisfatti, all’interno delle loro relazioni, dell’intimate touch del proprio partner (McNulty et al., 2016).

Sebbene i fattori che determinano la soddisfazione dell’intimate touch non siano ancora del tutto chiari, alcuni studiosi tendono a metterlo in correlazione con lo stile di attaccamento adulto della coppia (Ozolins & Sandberg, 2009). Infatti, valutare lo stile di attaccamento dell’individuo può aiutare a comprendere il motivo per il quale alcune persone cercano una maggior frequenza di intimate touch rispetto ad altre (Debrot et al., 2013), necessitando, per esempio, di più carezze e abbracci.

Gli autori del presente studio (Wagner et al., 2020) si sono posti l’obiettivo di comprendere come la soddisfazione rispetto all’intimate touch del proprio partner all’interno del matrimonio si associ agli stili di attaccamento nell’età adulta. Tra le ipotesi della ricerca, troviamo l’idea che un attaccamento insicuro porti a una minor soddisfazione per le manifestazioni di affetto del partner e, di conseguenza, per l’intimate touch e che individui con attaccamento ansioso siano più tendenti a interpretare in maniera catastrofica la mancanza di gesti di affetto quotidiani, e quelli con uno stile di attaccamento evitante preferiscano una maggior distanza interpersonale; infine, gli autori hanno ipotizzato che una minor soddisfazione verso l’intimate touch causi minor soddisfazione relazionale in generale e una valutazione negativa del matrimonio.

Il campione dello studio era composto da 180 coppie eterosessuali sposate e ognuno dei partecipanti ha dovuto completare un’intervista self-report online.

I risultati hanno mostrato che mariti con uno stile di attaccamento ansioso erano tendenzialmente meno soddisfatti dell’intimate touch; inoltre, un minor numero di dimostrazioni di affetto quotidiano causava una minor soddisfazione verso l’intimate touch anche nelle coppie che non mostravano stili di attaccamento ansioso o evitante. Tuttavia, nel campione femminile che mostrava un attaccamento maggiormente evitante, questo effetto appariva moderato; lo stesso campione femminile evitante causava nei mariti una minor soddisfazione riguardo al contatto fisico e alle dimostrazioni di affetto. Per quanto riguarda la correlazione tra intimate touch e soddisfazione relazionale, le ipotesi iniziali sono state confermate: i due costrutti mostravano una correlazione positiva statisticamente significativa (Wagner et al., 2020).

In conclusione, questo studio dimostra come il contatto fisico, anche se non a scopo sessuale, sia di fondamentale importanza all’interno delle relazioni, specialmente quando lo stile di attaccamento dei due partner può intaccare negativamente la capacità di dimostrare affetto all’altro, diminuendo così la soddisfazione generale della coppia.

Coronavirus Anxiety Scale (CAS) versione italiana: i risultati

Un’indagine volta a profilare una prima fotografia delle condizioni psicofisiologiche degli Italiani all’uscita dalla “fase 1” dell’emergenza, promossa dal gruppo di ricerca indipendente Brainfactor Research.

 

All’indagine vi hanno partecipato 130 soggetti in tutta Italia, compilando un agile questionario online relativo allo stato di salute nelle ultime due settimane.

Il questionario utilizzato è la versione italiana (curata da Marco Mozzoni e Elena Franzot) della Coronavirus Anxiety Scale (CAS), il primo test di screening per “ansia disfunzionale associata alla crisi Covid-19”,  messo a punto recentemente dal Dipartimento di Psicologia della Newport University, negli USA. I punteggi attribuiti ai 5 item che compongono la scala variano in funzione della frequenza del sintomo, da 0 (mai) a 4 (quasi tutti i giorni). Il cut-off diagnostico è 9.

Oltre l’80% del campione ha riferito di avere sofferto, nelle ultime due settimane, di almeno un disordine di natura ansiosa correlato alla pandemia, ovvero stati di confusione, sensazione di essere “paralizzato” o “bloccato”, disturbi del sonno, perdita di appetito, nausea o fastidi allo stomaco, se posto a contatto con pensieri o notizie relative al coronavirus. Il 23% ha dichiarato di aver sperimentato tutti e cinque i sintomi insieme, con frequenza variabile.

Dai risultati del test clinico emerge che il 22% della popolazione censita (con percentuali più alte per il sesso femminile, 24%) avrebbe in corso un disordine specifico di natura ansiosa collegato alla pandemia, di cui i cinque sintomi rilevati rappresentano i fattori principali. La percentuale varia sensibilmente anche per area geografica, con Centro e Sud Italia che superano la media, ottenendo complessivamente il 34%. Rispetto alle fasce di età, i più colpiti dalla crisi risultano i giovanissimi: oltre il 39% degli under 20 è risultato infatti “patologico” alla CAS. L’indicatore scende progressivamente all’aumentare dell’età.

Il sintomo più diffuso risulta lo stato di confusione (sentirsi frastornati, confusi, indeboliti), sperimentato almeno una volta nel periodo dal 77% dei soggetti; seguono l’immobilismo tonico (sentirsi “paralizzati” o “bloccati”) al 57%, i disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, insonnia) al 56%, lo stress addominale (nausea e problemi allo stomaco) al 38% e la perdita di appetito (che ha riguardato il 33% della popolazione censita).

I dati di questa indagine confermano quello che riscontro in questi giorni anche nella mia pratica clinica: le richieste di consulto da parte di ragazzi sono aumentate notevolmente; inoltre ritornano in studio con ‘ricadute’ anche giovani che in passato avevano già affrontato con successo disagi psicologici di vario genere” – così commenta i risultati Elena Franzot, psicologa e psicoterapeuta.

Prima nel suo genere, l’indagine ha messo nero su bianco lo stato reale nel quale ci avviamo alla normalizzazione. È infatti proprio nel momento della ripresa che vengono a galla i disordini sedimentati nella fase protratta di privazione delle libertà fondamentali – sottolinea Marco Mozzoni, neuropsicologo e direttore di Brainfactor.

L’individuo e le relazioni ai tempi del Covid-19

Attualmente, la situazione di emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato a risvegliare nella popolazione diverse paure, segnando significativamente la vita e le abitudini di ciascuno di noi.

 

A livello psicologico sono state riscontrate diverse condizioni psicopatologiche non indifferenti, in particolare la situazione di isolamento dalle relazioni interpersonali significative ha prodotto l’insorgenza di: disturbi d’ansia, nello specifico l’ipocondria, ovvero, la paura di contrarre il virus e, oltre a questa paura, è emersa anche la paura di diffonderlo alle persone che ci circondano; depressione, in quanto la situazione di isolamento sociale sembrerebbe produrre l’incremento di ruminazioni e pensieri negativi che potrebbero sfociare in sintomi depressivi o potrebbero esacerbare i sintomi depressivi (qualora fossero già presenti nei soggetti); insonnia, che potrebbe essere ricondotta o alla presenza di disturbi d’ansia e/o depressivi o alla condizione di cambiamento dello stile di vita.

A livello relazionale si assiste ad un aspetto piuttosto ambivalente, se da un lato si assiste ad un isolamento forzato, dettato dalla condizione di emergenza, dall’altro si assiste ad un cambiamento radicale delle dinamiche relazionali e della rete sociale, infatti ci si relaziona in modo molto più semplice attraverso i social, ad esempio vengono fatte delle video conferenze tramite Skype, Duo, Facebook, etc.. Quest’ultimo aspetto riguarda anche le persone con particolari problematiche nella gestione di relazioni al di fuori delle mura della propria stanza, i quali hanno trovato nel monitor di un pc, un mezzo perfetto per poter entrare a contatto con l’Altro.

Queste considerazioni sono state fatte dal Dottor Emanuele Ruggeri, il quale dichiara che per lo più sono gli studenti universitari, il personale sanitario (soprattutto specializzandi) e gli studenti che si trovano all’estero a chiedere sostegno psicologico, per una migliore gestione dell’ansia e della paura. Inoltre, egli afferma

…l’epidemia di Covid-19 sta segnando la vita di tutti noi. Non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale. Quando torneremo alla normalità, sarà fondamentale un sostegno psicologico, forse ancor più di ora.

Proprio per questa ragione, insieme a Camilla Vizzotto e Daniele Busatta, è stata data vita al progetto “Diamoci una mano”, in cui ci sono medici e psicologi provenienti da tutta Italia, che hanno uno scopo comune: quello di aiutare la popolazione in questo momento difficile.

Il gruppo di professionisti, ha creato un portale per poter avviare quest’iniziativa, dando sostegno e supporto a distanza e gratuito della durata di circa 30 minuti. Il servizio funziona collegandosi ad internet, digitando www.diamociunamano.com nella barra di ricerca e si entra nel sito; qui si trova uno spazio dedicato alle domande di colloquio. Ciascun utente può inviare la propria richiesta, indicando il giorno che preferisce, l’orario e il suo contatto Skype. A quel punto, la domanda arriva al team e si procede con gli incontri.

Un dato piuttosto importante che è emerso e che è stato dichiarato dal dottor Ruggeri è che: “Nei primi dieci giorni dopo il lancio del progetto abbiamo superato le cento richieste. Abbiamo svolto 150 colloqui telematici. Si rivolgono a noi persone di ogni fascia d’età, abbiamo sia giovani che adulti. Nei colloqui i più giovani dimostrano preoccupazione per le loro relazioni sociali, quindi le amicizie, ma anche il rapporto con i familiari. Spesso, infatti, i ragazzi sono studenti fuorisede, che a causa del lockdown sono rimasti bloccati nella città dove studiano. Ma c’è un altro dato importante: riceviamo molte richieste da ragazzi all’estero, giovani che si trovano in Erasmus o dottorandi che stanno frequentando gli studi in altri Paesi.

Tra gli utenti dei colloqui a distanza non mancano però gli adulti. In questo caso oltre allo smarrimento per la situazione eccezionale gli adulti hanno una maggiore preoccupazione di contrarre la malattia, e temono anche per i loro cari.

Guardando al futuro, coloro che si rivolgono a “Diamoci una mano” sembrano non pensare più di tanto a quando questa emergenza finirà. Le persone che ci chiamano si preoccupano più dell’immediato, di quello che vivono nella vita di tutti i giorni, non vedo grande inquietudine per quello che accadrà dopo. Tuttavia ritengo che quando l’emergenza Coronavirus terminerà, dovremo essere pronti ad affrontarne le ricadute, anche psicologiche, non solo fisiche.

In Italia c’è sempre stata diffidenza nei confronti del disagio psichico, dobbiamo invece capire che la salute mentale è importante quanto quella fisica.

La formula dei colloqui a distanza potrebbe essere una soluzione innovativa per il futuro. Al di là dell’emergenza Covid-19, il metodo del colloquio via Skype potrebbe essere una delle possibili strade per ridurre il timore di molte persone nel chiedere aiuto.

C’è, infine, un altro aspetto, molto importante, che vorrei sottolineare: “le persone si sono fidate di noi nonostante la distanza, nonostante non ci si conoscesse, è un buon punto di partenza e un messaggio di speranza per tutti”.

 

SURVEY: Compassione, connessione sociale e resilienza ai traumi durante la pandemia da Covid-19, uno studio multidimensionale – Partecipa alla ricerca

Un team di ricercatori internazionale ha messo a punto un questionario con lo scopo di comprendere come fronteggiare al meglio la pandemia che ha colpito tutto il mondo. 

 

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi. Le nostre relazioni e le nostre abitudini sono state fortemente modificate. Al fine di indagare l’impatto del lockdown sul nostro senso di sicurezza e sul supporto reciproco tra le persone, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da 18 nazioni, ha sviluppato uno studio al quale ognuno può contribuire.

E’ importante avere dati attendibili pertanto sono stati previsti 2 follow-up a 3 e 6 mesi. Lo studio interessa tutta la popolazione, in modo da comprendere l’impatto psicologico della Covid-19 su tutte le fasce di età.

 

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Perizie e test: quanto il contesto influenza la valutazione delle capacità genitoriali?

E’ stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta al Test di Rorschach forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale.

 

All’interno di una Consulenza Tecnica d’Ufficio, è chiesto spesso allo psicodiagnosta di prospettare un quadro di personalità preciso e accurato, che gli permetta di valutare la presenza e la tipologia di risorse psico-affettive individuali e di comprendere in quale misura, le risorse individuate, possano influenzare le capacità genitoriali dei periziandi.

Affinché sia possibile effettuare un valutazione è, dunque, necessario integrare informazioni raccolte mediante strumenti qualitativi (es. colloquio, esame obiettivo) e strumenti quantitativi (es. tests) poiché solo in questo modo è possibile ottenere una visione d’insieme ampia, e al contempo analitica, dei fatti di un oggetto (Fielding & Fieldinf, 1986).

Nel presente articolo, vi è l’intenzione di evidenziare quali sono gli indici del Test di Rorschach che favoriscono e permettono l’analisi delle capacità genitoriali e quali sono le differenze tra lo stile di risposta dei periziandi, in contesto di separazione, e quello della popolazione di riferimento, non soggetta ad alcuna valutazione da parte del tribunale.

ll test di Rorschach

Il Test di Rorschach rientra a far parte della grande famiglia delle tecniche proiettive. Lo stimolo percettivo è rappresentato da dieci “macchie” di inchiostro bilateralmente simmetriche, dinnanzi alle quali il soggetto è invitato a dire ciò che vede.

La letteratura internazionale lo definisce da sempre un metodo proiettivo, volto a promuovere un’analisi dell’organizzazione della personalità che tenga conto del ruolo di tutte le funzioni e dei processi psicologici operanti nel contesto della personalità totale. Seppur questo strumento non sia un test psicometrico nell’accezione più stretta del termine, essendo le risposte codificate dai somministratori mediante una specifica siglatura, il Test di Rorschach è largamente usato nei contesti peritali poiché consente di esplorare strategie di difesa volte a modificare l’immagine da rimandare all’esterno.

Indici Rorschach e funzioni genitoriali

Nella letteratura scientifica, per la valutazione delle competenze genitoriali, sono state individuate specifiche capacità da analizzare, quali l’assenza di grave psicopatologia psichiatrica tale da compromettere il funzionamento e l’equilibrio adattivo del genitori sul piano cognitivo adattivo e sociale; la maturazione di doti riflessive ed empatiche; grado di interesse e reattività in risposta alle sollecitazioni affettive presenti nell’ambiente; la capacità di adattarsi con modalità adeguate alle richieste dei figli; la capacità di tollerare le frustrazioni (Camerini G.B., De Leo G, Sergio, G. & Volpini L., 2007; Fonagy P., Target M., 2001; Rizzolati G., Gallese V., 1998; Fabiani M.E., 2000; Azar S.T., Cote L.R., 2002).

Più precisamente, è possibile rintracciare informazioni inerenti tali capacità nell’interpretazione degli indici Rorschach, tra questi, il numero di Risposte con adeguata bontà formale (R+%); il numero di risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma (F+%); la presenza non significativa di manifestazioni particolari di II e III livello; l’indice di autocontrollo nella norma o superiore alla norma (I.Aut); la presenza della rappresentazione dell’altro (H%), il numero di movimenti primari e secondari (M; m), la presenza di determinanti colori, il tipo di Comprensione (T.C.), l’indice di Autocontrollo e di Impulsività (I.Aut.; IMP), il rendimento omogeneo tra prima e seconda metà della prova.

Stili di risposta al test Rorschach in funzione del contesto peritale

Dallo studio condotto da Roberto Cicioni, Tommaso Caravelli, Floriana Loggia, Maria Elisa Maiolo (2012) è stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale: sono state riscontrare lievi differenze relative ad alcuni indici precedentemente elencati, mentre sono state messe in luce differenze – maggiormente significative –riguardanti la capacità di controllo degli affetti e degli impulsi.

Più precisamente, dal suddetto studio, è emerso – contrariamente da quanto in letteratura è stato spesso intuitivamente ipotizzato – come il numero di risposte dei periziandi rientra nel range normativo: è probabile che il bisogno di dare una buona impressione prevalga sul bisogno di mascheramento. Coerentemente con questa ipotesi si registra tra i periziandi un basso numero di rifiuti alle Tavole.

È emerso, inoltre, un minimo incremento – nel contesto peritale – della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale e della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma: esso è dovuto ad un “normale” innalzamento dello schermo difensivo nel senso del controllo.

Per quanto riguarda il tipo di comprensione, l’indice che fornisce informazioni sulla modalità con cui una persona affronta i problemi, è stata osservata una sensibile differenza tra il campione peritale e i dati normativi: si evidenzia un aumento delle risposte che riflettono capacità di sintesi, di astrazione e di visione di insieme a discapito di quelle indicative di processi analitici di analisi e di orientamento al concreto. Tale differenza potrebbe essere imputata alla presenza di processi rimuginativi sui contenuti conflittuali della separazione, necessariamente ritualizzati dal procedimento giuridico: se presente tale pattern di risposta, è possibile facilitare l’interpretazione dello stesso valutando, qualitativamente, il grado in cui il periziando investe le proprie energie nel processo di separazione dall’ex-coniuge.

Non sono state individuate, invece, minime differenze circa gli indici riguardanti lo stile relazionale.

Infine, come anticipato, le differenze maggiori – tra i due campioni in esame – riguardano gli indici relativi alla capacità di controllo degli affetti e degli impulsi, i quali permettono di compiere inferenze sulle spinte impulsive che orientano verso il mondo e le relazioni interpersonali, e la forza e la tipologia degli schemi difensivi implicati invece nella loro gestione: nel contesto peritale, l’indice di impulsività è stato rilevato molto più levato e l’indice di autocontrollo più rigido. Tale dato è stato spiegato riconducendo la differenza alla particolare rabbia e impotenza che spesso le persone, nel contesto di separazione, vivono. Tuttavia, tali vissuti emotivi non giustificherebbero alterazioni sugli elementi qualitativi del test, quali ad esempio le risposte, i movimenti e le determinanti Colore.

Violazione della privacy mentale: il neuromarketing politico e la manipolazione dei processi democratici

Lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018, in cui è avvenuta la raccolta di alcuni dati personali degli utenti con scopi manipolativi, invita a riflettere su numerosi temi di rilevanza etica, oggi sempre più rilevanti.

 

 Lo scandalo del 2018 di Cambridge Analytica, azienda Britannica di data analysis, è senz’altro una tra le recenti vicende giornalistiche che ha avuto una eco di portata globale. Un contributo per la diffusione del caso è dovuto a The Great Hack, documentario di Jehane Noujaim e Karim Amer e prodotto da Netflix. La narrativa del documentario si struttura attorno ai contributi di alcuni degli attori direttamente coinvolti nel caso ed esemplifica la possibilità di utilizzare i dati personali online per prevedere e influenzare il comportamento umano senza che le persone ne siano consapevoli. I dati sono stati raccolti attraverso un’app chiamata thisisyourdigitallife, sviluppata da l’accademico Aleksandr Kogan attraverso la sua società Global Science Research (GSR). In collaborazione con Cambridge Analytica, centinaia di migliaia di utenti sono stati pagati per fare un test sulla personalità e hanno accettato di raccogliere i loro dati per uso accademico. Tuttavia, l’app ha anche raccolto le informazioni degli amici di Facebook dei testisti, portando all’accumulo di dati di decine di milioni di persone. Cambridge Analytica, utilizzando l’analisi dei big data, ha creato dei profili psicografici al fine di indirizzare successivamente gli utenti con annunci digitali personalizzati e altre informazioni manipolative. Secondo gli autori, questa profilazione e targetizzazione è stata utilizzata per far oscillare intenzionalmente campagne elettorali in tutto il mondo.

La rilevanza neuroetica del caso CA

La vicenda raccontata da The Great Hack, più che una narrazione approfondita di un fatto di cronaca, assomiglia ad un racconto distopico Huxleyano. Alcuni autori infatti sostengono che, in un contesto sperimentale, le metodologie utilizzate da Cambridge Analytica non mostrino effetti tanto significativi da trovare un così chiaro riscontro nella realtà (Gibney, 2018). Ciò nonostante, il caso Cambridge Analytica suggerisce numerosi temi di rilevanza etica che meritano di essere approfonditi.

Centinaia di migliaia di americani hanno risposto al sondaggio, abbiamo costruito un modello composto da quasi 5000 data point con cui possiamo simulare la personalità di ogni adulto negli Stati Uniti. Il comportamento dipende dalla personalità e ovviamente influenza il voto. [..] Se possiamo trarre un insegnamento da questi eventi, è che la tecnologia può davvero fare la differenza e continuerà a farla per molti anni. (Alexander Nix, CEO di Cambridge Analytica)

Ciò che ha reso realizzabile quanto dichiarato da Alexander Nix è stato l’impiego di metodi e tecniche provenienti dagli ambiti di Neuromarketing – nella sua declinazione politica – e marketing politico 2.0. Il neuromarketing è un campo di studi che si occupa dell’applicazione di metodi neuroscientifici per analizzare e comprendere il comportamento umano, in relazione al mercato e alla sua interazione con esso (Lee et. al, 2007). Il marketing politico 2.0 invece, si avvale di tecniche di big data analysis, come il “behaviour-reading”, per identificare e analizzare le preferenze e le attitudini politiche degli elettori e successivamente influenzarne il voto (Islam, 2019). Un metodo che esemplifica la tecnica del “behaviour-reading” è stato sviluppato da due accademici dell’Università di Cambridge, David Stillwell and Michal Kosinski. Nel loro studio (Kosinski et. al, 2013), i due psicologi riportano la possibilità di predire con elevata accuratezza informazioni quali l’orientamento sessuale e tratti di personalità esaminando l’attività online degli utenti. Inizialmente i ricercatori hanno sottoposto a 58000 utenti un test di personalità conosciuto come Big Five, che misura cinque scale di personalità: estroversione, apertura mentale, coscienziosità, nevroticismo e amicalità. I tratti di personalità di ogni utente sono stati correlati, tramite algoritmi di machine-learning, ai likes apposti ai contenuti di Facebook, creando così un modello che rappresenta dei profili di personalità. Questi, chiamati profili psicografici, sono utilizzati dagli esperti di marketing politico per compiere operazioni di micro-targeting, una tecnica di comunicazione politica che consiste nell’inviare specifici messaggi mediante diversi canali ad un determinato sottogruppo di individui. Lo scopo è quello di creare una relazione tra il potenziale elettore e il partito politico che possa influenzarne il voto (Bodó et. al, 2017).

La privacy nell’era dei Big Data

In uno tra i momenti più significativi del documentario, la giornalista Carol Cadwalladr, durante un’intervista chiede a Christopher Whyle, ex dipendente di Cambridge Analytica, se i dati da loro utilizzati fossero stati sfruttati ad insaputa degli amici degli utilizzatori di thisisyourdigitallife.

Sì, la storia è piena di casi di esperimenti profondamente immorali, giocavamo con la psicologia di una nazione intera senza il loro consenso ma non solo, lo stavamo facendo nell’ambito di un processo democratico.

Il tema della privacy e del trattamento dei dati nell’ambito del behaviour-reading è stato ampiamente discusso. In questo contesto si parla di “privacy mentale”, che può essere definita come l’abilità di determinare quali informazioni rispetto al nostro pensiero possono essere condivise con altri (Westin,1967). In Europa ad esempio, il GDPR considera illegale l’elaborazione di dati comportamentali – compresa l’attività online – da parte di terzi, senza previo consenso informato degli utenti (McCarthy,2019). La violazione della privacy mentale dell’individuo, come mostrato dal caso in esame, può provocare conseguenze lesive sia per il singolo sia a livello sociale.

Violazione della privacy mentale e libertà cognitiva

Ricordate quei quiz per creare modelli di personalità degli elettori? […] Il grosso delle risorse era per quelli a cui pensavamo di poter far cambiare idea. Li chiamavamo i persuadibili. […] Abbiamo progettato contenuti personalizzati per colpire quegli individui […] li bombardavamo di video, articoli, immagini finché non vedevano il mondo come lo volevamo noi. (Brittany Kaiser, dipendente di Cambridge Analytica)

Il caso Cambridge Analytica si annovera tra i possibili scenari causati dalla violazione della privacy mentale. L’ex dipendente, infatti, afferma che Cambridge Analytica abbia utilizzato i dati personali degli utenti per interferire con il processo democratico minando al nucleo morale stesso del sistema politico: la libertà e l’autonomia dell’individuo di decidere. In senso più ampio, è stata esercitata una influenza sul diritto di autodeterminazione degli elettori, ovvero il diritto fondamentale di pensare liberamente e autonomamente. (Center for Cognitive Liberty and Ethics). Nonostante questo diritto sia incluso in trattati come l’ International Covenant on Civil and Political Rights o l’European Convention on Human Rights, Bublitz (2011) fa notare che non ci sono definizioni riguardo al significato, agli scopi o le possibili (e pratiche) violazioni. Questo perché la mente non è stata tradizionalmente considerata come una entità vulnerabile o passibile di intrusioni esterne o interferenze (Bublitz and Merkel, 2014; McCarthy,2019).

Una possibile spiegazione di questa credenza è attribuibile ai metodi di indagine di cui la ricerca nell’ambito del neuromarketing e del decision-making si avvale e ai risultati che questa ha fino ad ora fornito. Alcuni autori, attraverso studi fMRI, affermano di poter identificare e prevedere le scelte dei consumatori, costituendo quindi uno strumento di behaviour-reading. Altri neuroeticisti argomentano che, anche se così fosse, la paura che un utilizzo improprio di questi strumenti sarebbe infondata. Infatti, l’accesso ai dati di brain imaging sarebbe limitato ai soli partecipanti delle ricerche, spesso un campione scarsamente numeroso. Siccome nel contesto accademico i dati sono raccolti previo consenso informato dei partecipanti, l’accesso a questi dati non costituirebbe una violazione della privacy mentale (SJ Stanton et. al 2017). E’ noto anche che le tecniche di brain imaging permettono solo inferenze di tipo correlazionale rispetto ai compiti indagati e l’attività osservata. Si tratta di fatto di metodi probabilistici che non forniscono informazioni dirette dei contenuti mentali indagati, spesso relativi a compiti fittizi creati ad hoc dagli sperimentatori. Le informazioni ottenute da metodi di behaviour-reading basate sui big data si riferiscono invece alla reale e spontanea attività degli individui. Neil Levy (2007) afferma che la mente non è solo contenuta nel cervello, ma si estende oltre questo, nel mondo, e ogni sua posizione ha una diretta rilevanza etica. L’attività online, e i dati ricavati da questa, costituiscono proprio una estensione della mente dell’individuo. Per questo, l’uso improprio della big data analysis può costituire una paura fondata, come testimoniato dal caso Cambridge Analytica.

Sarà chiaro al lettore che la determinante di tutti gli scenari supposti riguardi in primis l’accesso ad informazioni strettamente personali. La ricerca in ambito accademico si impegna a seguire specifici standard etici rispetto al trattamento dei dati e ciò garantisce il rispetto dei diritti degli individui coinvolti. Questi standard dovrebbero essere estesi a chiunque raccolga o elabori dati personali, anche in ambito privato-aziendale. Ciò nonostante è possibile, come si è visto, che l’accesso e l’uso improprio avvengano per mezzo di azioni illegali. Per mantenere la privacy mentale quindi dovremmo

alzare mura difensive rispetto ad intrusioni indesiderate. (Bublitz e Merkel, 2014)

Nella pratica, potrebbe rendersi necessario l’obbligo dei provider internet di fornire l’opzione di una navigazione totalmente anonima che impedisca la profilazione delle attività online.

Dovete essere consapevoli di come i vostri dati influenzano la vostra vita. C’è in ballo la dignità di essere umani. (David Carroll, colui che ha denunciato Cambridge Analytica)

 

Disturbo Affettivo Stagionale e Disturbo Disforico Premestruale un continuum psicopatologico: il ruolo della serotonina

Gli studi di cronobiologia in ambito psichiatrico hanno evidenziano numerosi aspetti che accomunano il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale. Oggi esiste l’ipotesi che questi due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

 

Fin dall’antichità è stato osservato che le variazioni climatiche influenzano lo stato di salute e l’umore. Ippocrate nel 400 a. C. descriveva una depressione legata alle stagioni. I suoi scritti e quelli di Plinio e di Aristotele nel periodo classico, testimoniano che erano anche noti una serie di sintomi che affliggevano le donne nel periodo premestruale. Attualmente la cronobiologia studia i fenomeni periodici negli organismi viventi e descrive i meccanismi molecolari legati ai cicli buio-luce, all’alternarsi delle stagioni e delle fasi lunari. E’ ormai dimostrato che la produzione di numerosi ormoni e di vari neurotrasmettitori è influenzata da questi fatti. Negli ultimi venti anni sono stati effettuati numerosi studi psichiatrici ad impronta cronobiologica.

Vi sono due disturbi dell’umore, il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale, che oltre ad avere in comune la periodicità nel manifestarsi, sembrano condividere alcuni aspetti eziopatogenetici.

Disturbo affettivo stagionale (SAD)

Il Disturbo Affettivo Stagionale è un disturbo depressivo cronico atipico i cui sintomi possono manifestarsi con una periodicità invernale, con esordio nella stagione autunnale, o estiva con esordio primaverile. Dal punto di vista clinico l’atipicità del disturbo è legata al fatto che l’umore è depresso ma reattivo. Questo vuol dire che i soggetti che ne soffrono hanno una flessione del tono dell’umore, ma sono in grado di gioire di fronte ad eventi positivi. Altri sintomi sono l’iperfagia, con la preferenza per l’ingestione di carboidrati, l’astenia, l’ipersonnia e l’aumento ponderale. Esistono diverse ipotesi eziopatogenetiche per il SAD, tutte hanno un comune denominatore rappresentato dalla durata dell’esposizione alla luce solare. La quantità di luce influisce sulla produzione endogena di melatonina e serotonina. La melatonina, detta anche ormone del sonno, potrebbe essere prodotta in eccesso in mancanza di luce solare. I livelli troppo elevati generano ipersonnia e potrebbero predisporre alla depressione. Secondo i risultati di uno studio dei ricercatori dell’Università di Copenhagen, presentati alla XII International Conference on Neuropsychopharmacology di Londra (2014), le persone che sviluppano il SAD hanno alterati livelli SERT, che è la molecola trasportatrice della serotonina.

Il disturbo disforico premestruale (PMS)

E’ un disturbo dell’umore che si manifesta tra i sintomi della sindrome premestruale. E’ caratterizzato, oltre che da umore depresso, da irritabilità e labilità emotiva. L’intensità di questi sintomi può essere tale da influenzare significativamente l’attività lavorativa e le interazioni sociali. Sono diversi i fattori eziologici chiamati in causa per spiegare l’origine di questo disturbo. Rojanski et al. (1991) in uno studio hanno registrato una riduzione complessiva dei livelli plasmatici di serotonina nella fase luteinica del ciclo ovarico in donne con PMS. Il convolgimento della serotonina è inoltre dimostrato dal il criterio ex-juvantibus, infatti nel 60% delle donne con PMS, i sintomi regrediscono con la somministrazione di antidepressivi serotoninergici (Steiner M. et al. 1995, Freeman Ew.2005).

Nel 2006, sul Giornale Italiano di Psicopatologia, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che si proponeva di valutare la prevalenza del SAD e della PMS in una popolazione di donne non affette da disturbi psichiatrici e di determinare la prevalenza di PMS in donne che presentavano una diagnosi di SAD. I risultati dello studio permettono di affermare che SAD e PMS presentano un profilo epidemiologico sovrapponibile e una sintomatologia analoga. Per entrambi i disturbi è riconosciuta l’efficacia terapeutica degli antidepressivi serotoninergici. Nella popolazione femminile italiana SAD e PMS si presentano frequentemente in associazione. Tutti questi dati portano a supporre una base neurobiologica comune, i due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

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