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Quando è il terapeuta a piangere

Il pianto del terapeuta in terapia (TCIT): quale significato assume per il clinico? E per il paziente? Quale impatto può avere sulla relazione terapeutica?

Di Virginia Failoni

Pubblicato il 01 Lug. 2019

Devo ammettere che ho sempre ritenuto che nell’immaginario comune lo psicoterapeuta non piangesse. Dai, ma che c’hai da piangere? Ma se piangi tu, come puoi essere d’aiuto al paziente? Ma poi, la situazione è così disperata da far piangere pure il terapeuta?

 

Quando un paio di settimane fa mi sono ritrovata ad allungarmi sulla poltrona per afferrare un Kleenex davanti alla paziente, nei 37 secondi precedenti, questi sono stati i pensieri che hanno fatto capolino prepotentemente nella mia mente. Ma poi mi sono detta: che male può fare? Non sarei autentica nel trattenermi di fronte a questo racconto. E poi, sii sincera, ormai le lacrime stanno per uscire e non puoi farci proprio nulla.

Presa dall’amore per la scienza, salutata la paziente, mi sono catapultata su Pubmed e ho iniziato la ricerca dal mio smartphone: “therapist crying, tears, crying”, etc. Mi trovo davanti pochissimi risultati, che tra poco cercherò di riassumere.

Innanzitutto, penso sia condivisibile l’idea che le risposte emotive del terapeuta siano una parte non trascurabile nel trattamento, giusto? Ed il pianto è proprio una tra queste, giusto? Quindi ci saranno begli studi sul tema, giusto? Sbagliato! Eppure il pianto del terapeuta in terapia si è guadagnato anche un nome “proprio” con tanto di sigla: therapists’ crying in therapy, TCIT.

Il pianto del terapeuta: la letteratura sull’argomento

Come dicevo, la prima cosa che mi salta agli occhi è appunto il numero esiguo di ricerche (che mi porta a pensare di essere “una su un milione”). Poi inizio a leggere il primo abstract di un gruppo californiano: il 72% dei 684 psicologi intervistati riporta di aver pianto in terapia (Blume-Marcovici et al., 2013). Evvai! -penso- non sono sola!

Continuo nella lettura e -non me ne vogliano gli psicoanalisti- un sorriso dolceamaro è apparso sul mio viso leggendo le parole di Nancy McWilliams:

[…] (il lettino) permette al terapeuta la libertà di rispondere internamente al materiale del paziente senza autocoscienza: fantasticare, rispondere affettivamente, persino piangere senza preoccuparsi che il paziente sia distratto dai processi interni dalla reattività emotiva del terapeuta (p 242).

Ma come, io mi sono anche soffiata il naso davanti alla paziente!

In realtà, proseguendo scopro che Fairbairn ha lasciato scorrere qualche lacrima salutando il suo celebre paziente Harry Guntrip (per la cronaca, entrambi psicoanalisti come la McWilliams):

Mentre stavo finalmente lasciando Fairbairn dopo l’ultima sessione […] Alzai la mano e subito la prese, e improvvisamente vidi alcune lacrime che scorrevano sul suo viso. Ho visto il cuore caldo di quest’uomo con una mente fine e una natura timida (p.445).

Menomale -mi dico nuovamente- non sono l’unica.

Ma poi praticamente nulla più, un alone di mistero cala sul tema del pianto, quasi come se fosse qualcosa che non accade o, peggio, di cui vergognarsi.

Solamente tre case studies che giungono alla conclusione che il TCIT fosse terapeuticamente appropriato o addirittura benefico per il trattamento (Counselman, 1997; Owens, 2005; Rhue, 2001); una ricerca qualitativa nella quale 9 sui 10 terapeuti intervistati riportano di aver ritenuto utile il therapists’ crying in therapy nel comunicare genuinità o nel facilitare l’espressione emotiva del paziente (Jane Waldman, 1995); poi qualche altra ricerca si è susseguita su questioni etiche nella pratica clinica, ma senza un focus specifico riguardo il pianto.

Per (mia) fortuna, qualche ricerca invece focalizzata sul TCIT negli ultimi anni è stata fatta.

Il pianto del terapeuta: chi piange di più? E’ sinonimo di empatia?

Devo ammetterlo, mi capita di commuovermi abbastanza facilmente ed anche per questo ho sempre ritenuto di essere parecchio empatica. Inoltre pensavo che il mio essere “una piagnona” fosse uno dei motivi per i quali ho finalmente usato anche io quei fazzoletti nella scatoletta di cartone – tipicissimi. E invece pare che la mia ipotesi fosse sbagliata! Per quanto l’empatia sia risultata correlata positivamente con il pianto nella vita quotidiana, quest’ultimo non era predittivo del therapists’ crying in therapy. Quindi no, i terapeuti col pianto facile guardando “Ghost” o “Le pagine della nostra vita” non è detto che piangano in terapia.

Terapeute vs terapeuti

Lo stesso vale per il sesso biologico: se è vero che gli uomini piangono meno frequentemente delle donne nella vita quotidiana (non è questo il luogo per discutere dei possibili motivi sottostanti!), non sono emerse differenze di genere significative (Blume-Marcovici et al., 2015).

Terapeuti giovani vs terapeuti esperti

Pare che i terapeuti più esperti piangano di più. No, non è colpa (solo) dell’età che avanza. Piuttosto sembrerebbe che –come accade per la self disclosure– il clinico più esperto si senta più sicuro ed a proprio agio con le proprie capacità e per questo più libero di esprimersi ed affidarsi al proprio giudizio clinico e meno ai manuali (Blume-Marcovici et al., 2013; ‘t Lam et al., 2018). Ma per il momento si tratta solo di speculazioni che andrebbero approfondite con ricerche future.

Pianto del terapeuta: quali sono le ricadute per la terapia?

È emerso che la maggior parte dei terapeuti non discuta del Therapists’ Crying In Therapy con il paziente; chi invece lo fa è propenso a riportare un miglioramento nella relazione terapeutica.

D’altro canto, molti (66%) dei clinici intervistati che non hanno discusso del TCIT con il paziente hanno comunque riportato un miglioramento nella relazione (Blume-Marcovici et al., 2015). In realtà sembrerebbe che in questi casi le lacrime siano state veicolo di qualcosa che le parole non avrebbero potuto comunicare (Blume-Marcovici et al., 2015). Vi sentite confusi? Anche io.

Gli autori di questa ricerca suggeriscono di valutare sempre in base al benessere del paziente ed al beneficio che potrebbe o non potrebbe trarne: non discutiamo del Therapists’ Crying In Therapy per liberarci di un peso o per scusarci della (eventualmente da noi percepita) figuraccia.

Un gruppo di ricerca danese suggerisce invece che quando le lacrime sono percepite come segno di empatia, calore, affidabilità possano avere un effetto positivo sul processo terapeutico; quando il TCIT viene visto come segno di incompetenza, l’effetto negativo sull’alleanza potrebbe essere molto potente (‘t Lam et al., 2018).

Sarebbe interessante –e al contempo non proprio semplice- individuare i fattori che moderano l’attribuzione di significato al Therapists’ Crying In Therapy: occhi umidi? Lacrime che fluiscono? Singhiozzi? Relazione terapeutica?

Pianto del terapeuta: se e come parlarne con il paziente

Ma quindi ne parlo o no con il paziente? Tendenzialmente la risposta è sì. Ma soprattutto, più che parlarne sempre e comunque e a tutti i costi in maniera esplicita, credo che la cosa più importante sia capire se il nostro pianto ha acquisito un “senso terapeutico” monitorando l’impatto che ha sul nostro paziente. Il terapeuta può evocare il feedback con domande dirette, basandosi quindi su una dimensione verbale (“Come si è sentito nel vedermi piangere?”), oppure affidandosi alla propria lettura della reazione del paziente, avendo cura che i marker somatici siano affidabili.

Infine, ma non di certo per minore importanza, valutare il Therapists’ Crying In Therapy alla luce della formulazione del caso, sostanzialmente avendo ben chiari nella nostra mente gli schemi del nostro paziente.

G. ha 21 anni ed ha perso il padre solo qualche mese fa. G. si descrive come una persona da sempre responsabile, matura, che si prende cura di tutti e che ritiene di non dover mostrare la propria sofferenza agli altri, soprattutto se fanno parte della famiglia, perché “se faccio vedere che sto male, l’altro penserà che io non possa aiutarlo e supportarlo”. Mi racconta anche di come una collega psicologa qualche settimana prima le avesse fatto notare la sua “glacialità” (cit.) nel raccontarle quelle esperienze dolorose. L’immagine che segue è ben impressa nella mia mente: G. mi sta raccontando degli ultimi momenti con suo padre, mi allungo per prendere al volo un fazzoletto, G. mentre continua il racconto nota il mio gesto, mi guarda negli occhi, mi sorride e prende un fazzoletto subito dopo di me. Le lacrime iniziano a rigare le sue guance. Salutandoci sulla porta mi dice “Non avevo mai raccontato tutte queste cose a nessuno, ora può dire di conoscermi un po’”.

Non ho parlato con lei del mio pianto, ma il suo feedback non verbale è stato chiaro: se piangi tu, posso farlo anche io.

Pianto del terapeuta: una sorta di tabù..

Sinceramente, se non mi fosse capitato in prima persona probabilmente non avrei mai approfondito l’argomento del TCIT. Quanti tra i colleghi ne hanno sentito parlare durante gli anni della formazione universitaria? O negli anni della scuola di specializzazione? Spererei in molti, ma forse solo qualche fortunato.

In effetti, ci si concentra così tanto sull’espressione emotiva dei pazienti che finiamo per tralasciare la nostra. Mi stupisce che non pochi terapeuti abbiano dichiarato di ritenere il pianto del terapeuta poco etico e un segno di mancanza di professionalità, il che risulta in contrasto tra l’altro con i risultati emergenti (‘t Lam et al., 2018). Addirittura solo un terzo dei terapeuti ha discusso del proprio pianto con un supervisore e circa un quarto non ne ha mai parlato con nessuno (‘t Lam et al., 2018).

Forse però, vista la frequenza con cui accade (72% in Blume-Marcovici, et al., 2013; 57% in Pope et al., 1987), potrebbe essere un argomento parte della formazione di base, anche perché molti di noi probabilmente non saprebbero bene come affrontarlo e si potrebbero sentire in imbarazzo nel raccontarlo.

Insomma, io riassumerei così i punti salienti:

  • Non sentitevi soli, fate/farete parte del 70-80% dei terapeuti che hanno pianto/piangeranno almeno una volta nella loro carriera.
  • Molto probabilmente il vostro paziente e/o la relazione terapeutica ne beneficeranno (a patto che ne parliate).
  • Non avete fatto del male al vostro paziente piangendo, al massimo non ne ha tratto alcun beneficio (Sinclair, 2011).
  • Se il pianto del terapeuta è legato in modo particolare a tematiche personali del clinico, meglio rifletterci e lavorarci in separata sede.
  • Giovani terapeuti, lasciatevi andare al pianto (regolato)!
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Blume-Marcovici, A. C., Stolberg, R. A., & Khademi, M. (2013). Do therapists cry in therapy? The role of experience and other factors in therapists’ tears. Psychotherapy, 50(2), 224.
  • Blume-Marcovici, A. C., Stolberg, R. A., & Khademi, M. (2015). Examining our tears: Therapists’ accounts of crying in therapy. American journal of psychotherapy, 69(4), 399-421.
  • Counselman, E. F. (1997). Self-disclosure, tears, and the dying client. Psychotherapy, 34, 233–237.
  • Guntrip, H. (1986). My experience of analysis with Fairbairn and Winnicott. In P. Buckley (Ed.), Essential papers on object relations (pp. 447–468) (Original work published in 1975). New York: New York University Press.
  • McWilliams, N. (1994). Psychoanalytic diagnosis. New York: Guilford Press.
  • Owens, C. (2005). Moved to tears: Technical considerations and dilemmas encountered in working with a 13-year-old boy with acquired quadriplegia. Journal of Child Psychotherapy, 31, 284–302.
  • Pope, K.S., Tabachnick, B.G., & Keith-Spiegel, P. (1987). Ethics of practice: The beliefs and behaviors of psychologists as therapists. American Psychologist, 42(11), 993-1006.
  • Rhue, J. W. (2001). Death, bereavement, and the therapist. In S. Kahn & E. Fromm (Eds.), Changes in the therapist (pp. 117–131). Mahwah, NJ: Erlbaum Publishers.
  • Sinclair, C. T. (2011). To cry or not to cry at the bedside. Medscape News Today. Retrieved from http://www.medscape.com/viewarticle/741508?src=nl_topic
  • ‘t Lam, C., Vingerhoets, A., & Bylsma, L. (2018). Tears in therapy: A pilot study about experiences and perceptions of therapist and client crying. European Journal of Psychotherapy & Counselling, 20(2), 199-219.
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