Fecondazione in vitro: ansia e depressione ne influenzano l’esito?
– FLASH NEWS –
Secondo una nuova ricerca l’ansia prima di una fecondazione in vitro (IVF) non influenzerebbe le probabilità di concepimento della donna che vi si sottopone; l’insuccesso del trattamento può però influenzare negativamente la sua salute mentale.
Due studi separati, nei quali venivano osservate sia donne all’interno del percorso IVF che donne che tentavano di concepire naturalmente, sono stati pubblicati sulla rivista Fertility and Sterility. Prima della procedura IVF a tutte le 202 donne del campione in esame venivano somministrati questionari standard sulla depressione e l’ansia.
Complessivamente, i ricercatori hanno scoperto che le donne che fallivano nel trattamento IVF erano maggiormente a rischio di sviluppare ansia o depressione nei mesi successivi.
Di 103 donne con un IVF fallito, il 60 per cento ha sviluppato i sintomi di un disturbo d’ansia clinico (che era un 57 % prima del trattamento), e il 44 per cento ha avuto la depressione clinica (che era un 26% prima del trattamento).
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Non sorprende che molte donne con un tentativo fallito di fecondazione in vitro mostrino questi sintomi, ma nonostante questo è ancora poca la ricerca che si è occupata degli effetti degli esiti della IVF sulla salute mentale delle donne.
Inoltre, anche se le donne che avevano fallito il trattamento IVF erano a più alto rischio di sviluppare depressione o ansia, anche le donne rimaste incinte avevano tassi considerevoli di depressione e ansia. Durante la gravidanzainfatti, il 30 per cento di queste donne ha sviluppato una depressione clinica, mentre la metà ha mostrato livelli clinici di ansia; inoltre queste percentuali erano simili a quelle precedenti la IVF.
Per quanto riguarda le 339 donne che hanno tentato di concepire naturalmente, il 61 per cento di loro è rimasta incinta nell’arco di sei mesi; anche in questo campione la salute mentale delle donne non è risultata correlata con le probabilità di concepimento.
Secondo i ricercatori, durante il percorso di procreazione assistita (PMA) si dovrebbe fare di più per aiutare le donne dal punto di vista della salute mentale, ma non nell’ottica di migliorare le loro probabilità di successo IVF; infatti questi dati suggeriscono che la pressione fatta dal personale medico perchè il trattamento venga affrontato senza ansia e stress è immotivata, e può essere addirittura controproducente, per il benessere psicologico della donna che vi sottopone, considerare l’ansia una concausa nel fallimento nel trattamento.
Insomma, secondo i ricercatori, non ha senso che una donna incolpi sé stessa se ha affrontato il trattamento con ansia e il tentativo di IVF non è riuscito.
Soddisfazione matrimoniale: chi trova un marito, trova un tesoro!
Sposarsi fa bene, al corpo e alla mente. Uno studio promosso dalle Università Cornell e Stony Brook di New York, ha esplorato, attraverso la Risonanza Magnetica Funzionale(fMRI), i correlati neurali della soddisfazione matrimoniale rispetto al benessere psicofisico dell’individuo. Il campione dello studio era composto da 17 individui, 10 femmine e 7 maschi, stabilmente sposati in media da 21 anni, già testati in un precedente studio della dr.ssa Acevedo riguardante l’amore romantico (Acevedo et al, 2011). Ai partecipanti è stato somministrato un test per valutare il “benessere matrimoniale” (il “Relationship Assessment Scale”, Hendrick 1988) correlando i punteggi del questionario con l’attività cerebrale dei soggetti mentre guardavano delle immagini dei loro coniugi.
Gli obiettivi della ricerca riguardavano diverse ipotesi da verificare. Per prima cosa è stata ipotizzata un’associazione significativa tra soddisfazione matrimoniale (con un focus sull’amore passionale) e l’attivazione del sistema dopaminergico (area ventrale tegmentale), noto anche come il sistema della facilitazione comportamentale (Hare et al. 2008).
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In secondo luogo è stato ipotizzato un legame tra la qualità percepita della relazione matrimoniale e l’attivazione cerebrale di aree deputate al decision-making e ai meccanismi di ricompensa(corteccia orbitofrontale), fondamentali per l’Homo Sapiens, nella scelta di un partner in grado di intrattenere una relazione di interdipendenza che dia benessere e favorisca la possibilità di sopravvivenza e riproduzione della specie (Fisher 2000).
La terza ipotesi prevedeva che tale soddisfazione nel rapporto tra due coniugi fosse associata all’attivazione di regioni come l’insula, implicate nei processi emotivi e nella capacità empatica al fine di mantenere una relazione stabile e sicura(Bowlby 1969, Eisenberg et al. 1987, Gable et al. 2004, Sullivan et al. 2010, Waldinger et al. 2004).
Infine la quarta ipotesi considera la correlazione tra il decremento di stati di stress e depressione e alti livelli di soddisfazione matrimoniale (per una meta-analisi si veda Whisman 2001) con attivazione dell’area del cingolato sottocalloso (Lozano et al. 2008, Mayberg et al. 2005).
La conferma delle ipotesi suggerisce che una relazione stabile e duratura abbia delle ricadute positive non solo sulla qualità di vita e il benessere, ma costituisca un fattore protettivo rispetto allo sviluppo di disturbi depressivi.
Questa ricerca ha il merito di associare la soddisfazione matrimoniale ad aree ben precise del cervello e di supportare le teorie che ipotizzano il ruolo delsistema diattaccamentonel sistema di regolazione psicobiologica e comportamentale (Sbarra & Hazan 2008). I risultati suggeriscono inoltre l’associazione tra la soddisfazione relazionale con l’attività neurale di sistemi implicati nell’empatia e nei comportamenti imitativi, alla base della capacità di rispondere ai bisogni del partner. Inoltre suggeriscono come, uno dei segreti per un’unione felice e duratura, possa essere quello di mettere in atto comportamenti volti a migliorare la relazione con l’altro.
Fisher, H.E., (2000). Lust, attraction, attachment: Biology and evolution of the three primary emotion systems for mating, reproduction, and parenting. Journal of Sex Education & Therapy 25, 96-104. (DOWNLOAD)
As stated in the previous installment in this attachment series, it is theorized that insecure attachment can develop as a result of mixed or negative parenting signals during mother-child interactions (e.g. unreliable, rejecting). These parenting styles have also been associated with maternal psychopathology of various types of maternal psychopathology have been investigated as possible predictors of insecure infant attachment style.
Maternal depression has been linked to unresponsive and rejecting parenting. Therefore, maternal depression has been examined as a possible predictor of insecure infant attachment (Belsky & Jaffee, 2006). Two meta-analyses were conducted examining this relationship. Meta-analysis is method that focuses on combining and contrasting the results of multiple studies. The main goal of a meta-analysis is to identify patterns and disagreements in results. These types of studies can provide statistically powerful insight, especially when a large number of studies are examined.
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Martins and Gaffan (2000) compared the attachment styles of infants of healthy mothers to those of clinically depressed mothers in seven studies. The results, excluding one outlier, showed that there were higher levels of insecure attachment in infants of depressed mothers compared to those of healthy control mothers. Within the depressed samples, disorganized and avoidant attachment was more common than resistant attachment.
Atkinson et al. (2000) conducted a larger meta-analysis of 15 studies examining the attachment outcomes of infants of clinically depressed and healthy control mothers. Again, the infants of the clinically depressed sample had higher levels of insecure attachment compared to the infants of healthy controls.
Based on these meta-analyses, which combined to examine 22 studies, there appears to be an association between maternal depression and infant insecure attachment. Specifically, disorganized and avoidant attachment styles appear to be the most common among infants of depressed mothers. In the next installment I will shift my focus to mother-child attachment in the context of maternal anxiety.
Vi sarebbe una differenza fondamentale tra il modo con cui uomini e donne utilizzano Internet.
Da un nuovo studio condotto presso la University of Bath (UK) emerge come gli uomini sarebbero più propensi a navigare su siti web di intrattenimento, news quotidiane, giochi e musica, mentre le donne sarebbero più attratte da siti di social networking. Tale differenza sarebbe ancora più saliente oggi rispetto a dieci anni fa, probabilmente a seguito del boom dei network sociali quali Facebook, Twitter, etc.
Circa 500 studenti universitari sono stati coinvolti come campione della ricerca con un’età media di 20 anni. Di fatto il team di psicologi ha replicato uno studio condotto dieci anni prima finalizzato ad analizzare i cambiamenti nell’utilizzo di Internet dal 2002 al 2012 in funzione delle differenze di genere. I risultati evidenziano che la la differenza tra le modalità di uso di Internet tra maschi e femmine è più rilevante rispetto all’analisi svolta dieci anni prima dell’avvento dei social networks.
Quindi le donne userebbero maggiormente Internet per scopi squisitamente comunicativi e sociali rispetto agli uomini. Secondo Joiner, autore principale dello studio, il filone di ricerca va sviluppato ulteriormente soprattutto in ottica di una maggiore attenzione alla tematica di user-profiling.
Allenarsi ad utilizzare immaginazione e pensiero visivo può aiutare a tenere sotto controllo gli effetti nocivi del rimuginio.
RIMUGINIO E RUMINAZIONE
Il rimuginio è un fenomeno mentale che indica la tendenza a “pensare alle cose negative che potrebbero accadere in futuro“, soprattutto in condizioni generali di incertezza. Il rimuginio si accompagna all’ansia e, qualora eccessivo, rappresenta una pessima abitudine per la salute delle persone perché sostiene una condizione di ansia e stress duratura nel tempo (Borkovec, 1994).
Una delle conseguenze negative del rimuginio è la cattura di tutte le capacità mentali dell’individuo. Esiste un limite alle cose che possiamo fare contemporaneamente con la mente e il rimuginio tende a consumare tutte le risorse.
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Per questa ragione quando rimuginiamo non riusciamo a concentrarci con efficacia su altri compiti, a studiare, a ottenere prestazioni cognitive buone. Rimuginare diminuisce sensibilmente lo spazio disponibile nella working memory e le nostre capacità di attenzione.
Una recente ricerca ha mostrato come questo danno del rimuginio sia principalmente dovuto all’imponente carica verbale che lo contraddistingue (Leigh & Hirsch, 2011). I grandi rimuginatori parlano molto con sé stessi mentre non sono abituati a usare l’immaginazione, il pensiero visivo o sensoriale.
Questi risultati suggeriscono che per ridurre la tendenza al rimuginio e aumentare le proprie capacità di concentrazione occorre allenarsi con una buona frequenza a stimolare le proprie capacità immaginative. In sintesi imparare a usare l’immaginazione può ridurre il rimuginio e fornirci più risorse mentali.
BIBLIOGRAFIA:
Borkovec, T.D. (1994). The nature, functions, and origins of worry. In G. Davey e F. Tallis (Eds.), Worrying: Perspectives on theory, assessment and treatment (pp. 5-33). Chichester, England: Wiley.
Mauro Grimoldi, Presidente dell’Ordine degli Psicologi Lombardia, scrive un interessante articolo che fotografa il panorama dell’abuso di professione nel campo psicologia / psicoterapia:
Le scuse dell’abusivo che compie esercizio di attività riservate allo psicologo senza averne titolo, formazione e abilitazione sono varie, ma alcune ricorrono più di altre. Il 37% dichiara di essere counselor. Il 19% sono pedagogisti delusi che sconfinano verso la psicologia. Vengono poi, a distanza naturopati e operatori newage seguaci di dottrine olistiche… LEGGI L’ARTICOLO
Alcoldipendenza: una review sul trattamento
– FLASH NEWS –
Dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH) arriva una interessante review sui trattamenti più efficacy pre il trattamento dell’ alcoldipendenza, uno tra i disturbi più diffusi, ma anche sottostimati nella popolazione. L’ acoldipendenza risulta essere spesso in comorbilità con disturbi d’ansia e dell’umore, disturbi di personalità e schizofrenia. Pubblicata sull’ultima edizione di Canadian Journal of Psychiatry, la review esplora i modelli di intervento e i trattamenti scientificamente più efficaci per il problema legato all’abuso alcolico.
Dopo una prima parte in cui viene affrontato il tema dell’intervento farmacologico per il trattamento della alcoldipendenza, viene preso in considerazione il trattamento psicologico-psicoterapico in questo ambito.
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In particolare gli autori rilevano che sono proprio le terapie cognitive-comportamentali ad avere la più salda base empirica e la maggior evidenza di efficacia. Tuttavia, le diverse modalità categorizzate come terapie cognitive-comportamentali risultano comparabili in termini di efficacia clinica – da un punto di vista meta analitico- anche se scarseggiano trials che confrontano in uno stesso studio diverse modalità di trattamento facenti parte della grande famiglia della CBT (cognitive-behavioral therapy).
Altro limite non banale si riscontra in una maggiore attenzione da porre alla verifica dell’aderenza del lavoro terapeutico di fatto attuato con i pazienti.
Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary.
Ciò che mi ha spinto ad assistere al Workshop della Dott.Behary sul Disturbo Narcisistico di Personalità è stata sicuramente la curiosità; curiosità per come la Schema Therapy concettualizza e affronta un disturbo complicato soprattutto nella relazione che si attiva in terapia. Non a caso parlo di relazione poiché proprio questo è stato il filo conduttore nella due giorni in cui la Dott.ssa Behary ha affrontato sia il trattamento individuale, e quindi come i nostri schemi possano entrare in contatto con quelli del paziente, sia quello di coppia con grande attenzione verso le dinamiche che possiamo ritrovare tra il narcisista ed il suo partner.
L’attenzione, il sostegno, l’accettazione e l’empatia sono tra i bisogni emotivi primari non soddisfatti nell’infanzia di un paziente narcisista. Il “Bambino solo”, che è poi un mode centrale nel disturbo è un bambino, rifiutato, non degno di essere amato che viene valutato positivamente dai genitori solo in base ai risultati che riesce ad ottenere. E’ questo il lato estremamente fragile del soggetto narcisista, con cui evita di confrontarsi proprio perché richiamerebbe quelle dolorose memorie antiche di non amabilità. Nelle relazioni questo aspetto ovviamente viene tenuto ben lontano e anzi qualsiasi emozione riconducibile a quel mode viene giudicata in maniera negativa e sprezzante “chi chiede aiuto è un debole, un perdente”. Emerge invece il mode dell’”Auto-esaltatore”: è lo stesso bambino che reagisce a quei sentimenti di deprivazione emotiva e di inadeguatezza attraverso una ipercompensazione, comportandosi in maniera pretenziosa cercando di raggiungere una posizione di prestigio, funzionale un tempo con papà e mamma. Questa era ed è la strategia che il narcisista mette in atto nelle relazioni, attivando poi nell’altro quei circuiti interpersonali che portano spesso alla rottura della stessa.
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In terapia più spesso ci troviamo invece di fronte ad un soggetto che sta come in una nicchia, che su quelle emozioni dolorose ha costruito un muro che vede bene di non togliere. E’ il Mode del “Protettore Distaccato” che spesso arriva in seduta perché inviato dal partner che non riesce più a sopportarne gli atteggiamenti. Quando la Dott.ssa Behary ha così descritto una delle più frequenti motivazioni del soggetto narcisista ho avuto un dubbio relativo proprio alla difficoltà di poter costruire un contratto terapeutico con soggetti con disturbo di personalità la cui unica motivazione è principalmente esterna. Penso che oltre a queste richieste, in cui la possibilità di drop- out è estremamente alta, possano essercene altre, magari provenienti proprio dal soggetto. Mi riferisco a vaghi e mal descritti episodi d’ansia, in cui comunque spesso la causa sono gli altri, ma su cui è possibile costruire un contratto e dove il lavoro terapeutico può riuscire successivamente a far emergere ed etichettare i vari modes. Questo momento è accompagnato da una parte razionale in cui il terapeuta descrive e condivide con il paziente la loro comparsa e da un atteggiamento accudente in cui le emozioni emerse vengono validate ed accolte.
Come detto, la relazione con il “Protettore Distaccato” è complicata dalla ricerca assoluta che il soggetto ha di evitare di far emergere il “Bambino Solo” e quindi dalla povertà di emozioni riportate, da un linguaggio astratto e puramente cognitivo. La Dott.ssa Behary in alcune simulate ha mostrato la difficoltà nell’aiutare il paziente ad accedere alle emozioni da lui tenute più nascoste.
Terapeuta: “Non è che non le credo, o che pensi stia mentendo. E’ solo che, secondo me, esiste un’altra risposta- una più profonda e più autentica. La sua parte più resistente, però, non le permetterà mai di essere onesto e aperto fino a quel punto per paura, magari, di sentirsi sciocco, o farsi del male…sentirsi in colpa…privo di valore”.
Da sinistra: la Dott.ssa Silvia Taddei, la Dott.ssa Wendy Behary e il Dot. Luca Calzolari
L’intervento è estremamente potente da un punto di vista emotivo (proprio il piano su cui il paziente avverte le maggiori difficoltà) e quindi proporlo all’inizio del trattamento quando magari la motivazione stessa è scarsa è dal mio punto di vista possibile causa di una rottura di una relazione ancora non costruita, sulla cui regolazione verterà il lavoro maggiore.
Scopo ultimo della terapia è costruire un mode “Adulto Sano”, vicariato all’inizio dal terapeuta, che possa occuparsi del bambino fragile fondamentale per potersi sentire compreso ed accudito. Penso che un passaggio fondamentale della terapia sia riuscire a mostrare come quelle condotte di iper-compensazione avevano un vantaggio in un determinato momento della sua vita, ma come queste siano poi mantenute e rinforzate negli anni. Il nostro obiettivo, complicato e difficilissimo, è costruire la relazione perché il paziente impari che siamo qui per quel bambino solo e non per l’autoesaltatore, come probabilmente facevano invece i genitori, cercando sempre di validare quelle emozioni che sono state prima fonte di critica.
FARE mindfulness o praticarla… All’interno degli approcci cosiddetti di Terza Ondata non c’è per fortuna solo e soltanto la mindfulness. Alcuni approcci, su tutti ACT, includono la mindfulness come parte importante ma non esclusiva del processo terapeutico. Credo sia questo il punto forte della mindfulness: permettere ai pazienti di imparare a relazionarsi in modo diverso con i propri pensieri, non facendosi “agganciare”, “intrappolare” e “guidare automaticamente” dai propri pensieri.. questo è il rischio di vivere seguendo il proprio Sé concettualizzato (di cui ho già scritto su SOM) e di fatto di vivere in modo mindless.
Atteggiamento mindful o tecnica da insegnare? Altro problema è la mindfulness intesa come “atteggiamento” in primis del terapeuta e poi dei pazienti e la mindfulness intesa come skill da “insegnare ai pazienti”. Partiamo dalla seconda. Illustri terapeuti, come Wells e Linehan, insegnano abilità di mindfulness ai propri pazienti (detached mindfulness in Wells, e Mindfulness Skills nel protocolloLinehan). La potenza terapeutica di tali interventi è ormai nota al mondo della psicoterapia.
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Un aspetto critico riguarda il fatto che, utilizzando la mindfulness come skill da “insegnare”, forse, viene un po’ snaturato il senso e l’epistemologia del concetto di mindfulness, il cui obiettivo principale è semplicemente fare esperienza nel momento presente di ciò che ci si presenta all’attenzione momento dopo momento, cioè osservare ciò che sta accadendo fuori e dentro nel momento presente; in altre parole, essere consapevoli. È chiaro che tale obiettivo è molto diverso dagli approcci Wells, Linehan & co. in cui l’obiettivo della mindfulness diventa insegnare/trasmettere un’abilità, la quale porta con sé conseguenze ed effetti secondari, tra cui anche la consapevolezza. Ci vengono in aiuto le parole di Rob Nairn (1999): “la mindfulness differisce dalle usuali attività lavorative (…) perché non è finalizzata ad uno scopo e non coinvolge il pensiero lineare e diretto”. Da terapeuta, non credo di riuscire a prendere le posizioni di nessun dei due approcci perché credo abbiamo entrambi molti punti di forza e portino un quid utile alla psicoterapia e al lavoro con i pazienti. Credo, però, che esistano pazienti con cui è più utile svolgere una terapia mindfulness-based, in cui cioè è prevista (anche e non solo) la pratica della mindfulness e pazienti a cui è più utile insegnare skills di mindfulness.
Non Solo Mindfulness: un esempio paradigmatico degli approcci mindfulness-based “nonsolomindfulness” è la Acceptance and Commitment Therapy di Steven Hayes. L’aspetto rilevante dell’ACT, a mio parere, risiede nel fatto che la terapia non si esaurisce con l’accettazione, bensì essa (l’accettazione) diventa presupposto e facilitarore del cambiamento. L’acronimo stesso del modello di Hayes spiegata tale posizione. A come “accettazione” che pone ne fondamenta psicologiche per la C “il commitment” (ovvero l’impegno e il coinvolgimento nel percorso terapeutico), tali aspetto in concerto portano all’ACT (cioè ad agire) per stare meglio e perseguire i propri scopi personali (chiamati in terminologia ACT, i “valori”). Pertanto, la mindfulness gioca un ruolo chiave soprattutto nella fase di “acceptance”. Se ci si ferma solo alla A, la terapia diventa uno psicodramma monotematico fondato su un’accettazione un po’ troppo zen per noi occidentali. Da un punto di vista operativo, credo sia un rischio notevole da non sottovalutare, che potrebbe portare ad esperienze di stasi, di blocco o di ostacolo all’alleanza terapeutica.
So che alcuni colleghi che praticano mindfulness sono degli assidui lettori di State of Mind… quindi faccio loro appello, e a tutti i nostri lettori, a scrivere la propria esperienza da “mindfullari” (termine simpatico e geniale a me ormai caro, coniato da un mio didatta).
Saluto i lettori con questa citazione: “Se come terapeuti offriamo aiuto ad un paziente senza prima dargli accettazione e compassione, semplicemente non si sentirà capito” (Siegelet al., 2009). Farlo con i pazienti è fondamentale, farlo da “mindfullari” o no molto meno…
Sul mangiare o non mangiare animali si scontrano radicalismi da tutte le parti.
Una premessa dovuta sulla tematica vegetariana: la considero una tematica da paesi ricchi, dove le proteine si trovano in abbondanza senza dovere uscire dalle caverne e cacciare per due giorni una gazzella con una fionda. Il considerarlo un lusso non ci impedisce però di parlarne, se ne parla ovunque ormai.
Non vedo frequentemente sulle tavole in cui mangio l’orgoglio vegano nè incontro solamente timidezze da carnivori colpevoli. Vedo anche persone che il problema non se lo pongono mai, e che anzi mi guardano un po’ impietositi se io chiedo informazioni sulle proteine (vedi NY Times).
Diversi radicalismi: il radicalismo di chi di fronte a qualche perplessità vegetariana subito dice: che mi importa degli animali, e i bambini poveri? (Come se l’attenzione a una cosa escludesse l’altra). Il radicalismo di chi non vuole neanche stare a tavola con chi mangia carne, come se l’alimentazione carnivora non avesse accompagnato l’uomo dai Boscimani in poi (ne mangiavano quando ci riuscivano, andando dietro alle grandi bestie che avevano ucciso e non del tutto mangiato un povero kudu, o un impala o un elefante). Poi molta fame e molti tuberi, per settimane. Il radicalismo di chi non mangia altro che carne rossa tre volte al giorno (e chissenefrega, è buona). Il radicalismo del “solo legumi, e neanche un uovo”.
Non mi piacciono questi radicalismi, ma è vero che qualcosa sta cambiando.
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Forse perchè c’è la crisi, forse perché invecchiamo. Nelle case a cena si incontrano sempre meno arrosti e sempre più minestrone, pesce, paste con verdure. Saranno problemi di salute e di prevenzione dei tumori, sarà il veganesimo, Jonathan Safran Foer, l’ex moglie di Paul McCartney, la macrobiotica e il cous cous vegetariano, insomma le cose sulla carne stanno cambiando. Ma qui occorre ragionare. Perché subito ci inguaiamo con il problema della purezza, («Se ci si rifiuta di tracciare una qualsiasi linea morale tra le specie, si finisce in un mondo in cui, come Dunayer suggerisce, le termiti hanno tutti i diritti di divorarti la casa», cito da Anna Meldolesi). Ma tracciare le linee è dura e difficile, specie da un punto di vista etico. E non è detto che una scelta di purezza assoluta sia l’unica possibile, come sembrano spesso indicarci i dibattiti sul vegetarianesimo.
E’ vero le mucche sono vicine a noi come i cani e come i maiali (tenerissimi mammiferi e genitori affettuosi), hanno prole inetta, la allattano, e hanno sentimenti di accudimento e affetto. Difficile ormai non pensarci. Sono struggenti i cuccioli delle pecore, con la loro allegria. Noi li prendiamo via dalla mamma e li mangiamo volentieri con i carciofi, chiamandoli abbacchio. I polli, meno cervello, fanno le uova, non allattano ma si affezionano. Io da bambina conoscevo un pollo che mi stava molto simpatico e mi faceva le feste quando lo andavo a trovare. E se è meno intelligente dell’agnello, allora perché lo devo uccidere? Uccidiamo i meno intelligenti? Non è mostruoso? Qual è la linea discriminante?
O il problema è sulla similitudine nei meccanismi dell’attaccamento, ma chi lo decide che allattare è meglio e più nobile di lasciare uova? E che la similitudine di specie sia il tema fondante? E i pesci? I pesci ci pongono meno problemi, ricordano poco, non sono mammiferi, ma che ne sappiamo noi che in quella scatola di tonno non ci sia un delfino? Animale mammifero intelligente e vicinissimo ai nostri sentimenti e capace di giocare con noi? E perché a contare deve essere la quantità di materia grigia e non altri parametri come la simpatia, la consuetudine con noi, la bellezza delle pinne o la lucentezza delle scaglie? A seguire questi discorsi si diventa pazzi, o arrabbiati carnivori o vegani purissimi.
Ecco ho l’impressione che non sia questa la chiave giusta. Dovremmo arrivarci con la razionalità e non solo con la colpa animalista.
Noi nella nostra società ricca e affluente forse abbiamo questo lusso, potere scegliere cosa mangiare. La carne quotidiana non è una necessità. Questo è un lusso che i nostri antenati anche molto vicini non avevano, basti leggere un poco di letteratura dell’ottocento. Smetteremmo subito ogni vegetarianesimo in un isola dove vivessero solo uccelli e noi avessimo tanta fame.
Molte cose oggi invece ci spingono alla riduzione della carne: il CO2 prodotto dai ruminanti che inquina la terra in modo massivo, il costo in acqua e energia, della crescita dei grandi mammiferi. L’intollerabile crudeltà degli allevamenti sia di ruminanti, che di maiali o di polli (un foglio A4 lo spazio di un pollo in un allevamento intensivo, dalla nascita alla morte), la nocività della carne rossa per i tumori e non ultimo l’abbondanza di cibo diverso (i ravioli ricotta e spinaci, il tofu ben condito, le frittate alle cipolle di gusto letterario).
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Ma molte cose ci avvicinano alla carne, è facile da mangiare, ci dà proteine facili da usare, ci siamo abituati, dopo secoli in cui era qualcosa da permettersi di rado e in modo razionato, era divenuta la panacea di ogni pasto, a poco costo, rapida da cuocere, nutriente, a calorie ridotte.
Non penso che possiamo eludere il problema. Ognuno lo risolva come vuole, ma dopo essersi informato bene, senza chiudere gli occhi sull’orrore, sui modi con cui queste creature nostre vicine di casa, vivono, vengono trasportate e muoiono.
Possiamo inventare, senza arrivare alle follie di Singer, modi di mangiare che risparmino qualche vita e che siano altrettanto soddisfacenti. Anche se non diventiamo vegani o vegetariani alleniamoci a mangiare la carne di rado, riduciamo i quantitativi, controlliamo che siano animali che non arrivino alla macellazione senza avere avuto una vita degna di essere vissuta.
Ma non chiudiamo gli occhi pensando che questo renda tutto facile, questi nostri animali da macellazione (come gli asini, come le capre e le mucche) vivono con noi da migliaia di anni e noi li uccidiamo ma anche li nutriamo e non so che fine farebbero specie intere se noi non ne avessimo più bisogno per la nutrizione.
Gli asini non più usati dagli alpini rischiano l’estinzione. Gli olivi, piante addomesticate, in un campo in cui non vengono potati, diventano malati e muoiono. Siamo compagni stretti da legami millenari, su questa terra, occorrerà essere creativi.
Certo è importante occuparsi anche degli allevamenti, dove si facciano vivere gli animali, mentre sono vivi, meglio, più felici, maggiormente in contatto con il mondo naturale dove sanno stare. Anche se poi di fronte a questi ragionamenti una vocina mi dice sempre: “e se sono così felici perché devo poi ammazzarli e interrompere codesta felicità?”
Non è una soluzione definitiva, ma credo che nella nostra società occidentali una riduzione cospicua del consumo di carne potrebbe portare benefici sia ecologici che di consumo di risorse, fin quando gli esperimenti di carne artificiale ci daranno una soluzione scientifica. (se ancora avremo voglia di quella consistenza, di quel sapore…).
Dalla intervista del suo inventore (Mark Post, Maaschtricht University):
“Nei prossimi 40 anni la domanda mondiale di carne raddoppierà. Già oggi consumiamo 285 milioni di tonnellate di carne l’anno (41 chili a persona), una follia, e gli allevamenti assorbono il 10% circa di acqua e l’80 per cento di terra coltivabile. Non solo: oggi usiamo il 70% della capacità dell’agricoltura per gli allevamenti e questi ultimi danno un contributo formidabile al riscaldamento globale (il 18% delle emissioni di gas serra proviene dall’allevamento) con le emissioni di metano e con l’impronta di tutto il processo di allevamento. Con questo tipo di carne (la carne artificiale, NdR) – secondo studi dell’Università di Oxford – potremmo abbattere l’impatto ambientale del 90%” (dall’intervista a Mark Post al Fatto alimentare).
Interessante questa argomentazione di Mark Post che sembra indicare che il problema della carne sia, è vero nella mancanza di risorse della terra da dedicare a questi allevamenti, ma a me fa pensare che la differenza sia nella colpa verso il problema dell’anima degli animali e quindi alluda, senza che l’autore lo dica, a un sentimento religioso.
Il lusso ci consente invece di scegliere, e l’abbondanza di cibo disponibile, non fatto necessariamente di animali morti e allevati in allevamenti intensivi, qualcosa in fondo, in modo imperfetto ci può suggerire.
Io sono stata fortunata, non l’ho deciso il passaggio a una vita vegetariana, dopo tutta una vita da mangiacarne, un giorno, di fronte a della carne cruda all’albese, ho provato un sentimento quasi di imbarazzo, e ho ascoltato il messaggio che questo sentimento mi dava, cominciando a informarmi.
Il Progesterone: trattamento sperimentale per il Trauma Cranico Acuto
– FLASH NEWS
Un nuovo studio finanziato dal National Institutes of Health e condotto presso la Emory University di Atlanta (GA, USA) è in corso per verificare se un trattamento inaspettatamente innovativo potrà minimizzare i danni conseguenti a una lesione cerebrale da trauma. Questo trial multicentrico prevede il coinvolgimento di circa 1.140 pazienti nell’arco di tre anni.
Il trattamento in questione è la somministrazione di progesterone, l’ormone della riproduzione. Nello specifico l’ipotesi da verificare è se il progesterone possa ridurre la mortalità e la disabilità legata a gravi traumi cerebrali se somministrato in tempi immediatamente successivi – e cioè entro quattro ore al massimo dall’evento traumatico. Il trial prevede una valutazione a 6 mesi dalla somministrazione del trattamento; i primi dati di outcome a disposizione sembrano ben promettenti e hanno già generato entusiasmo e ottimismo tra i ricercatori.
Il tema progesterone in relazione al decorso di un trauma cerebrale non è nuovo: già nel 2007 i ricercatori della Emory hanno rilevato un tasso di mortalità a trenta giorni del 13% nei pazienti trattati con progesterone a differenza di un tasso del 30% nel gruppo di controllo. Inoltre, pazienti con lesioni cerebrali a carattere traumatico di moderato livello di gravità trattati con progesterone hanno riportato un miglioramento funzionale significativo.
L’idea che il progesterone possa influenzare il decorso delle lesioni cerebrali è nata dagli esperimenti di Donald Stein, professore e neuroscienziato della Emory University, che già anni fa dimostrò che i topi di genere femminile con elevati livelli di progesterone (soprattutto in gravidanza), a seguito di lesioni cerebrali traumatiche indotte presentavano performance migliori rispetto ai maschi in specifici task cognitivo-motori, quale per esempio ricordare il percorso di un labirinto. I ricercatori sottolineano che il progesterone è presente oltre che nel cervello delle donne anche in quello degli uomini, e si ipotizza una funzione neuroprotettiva di questo ormone che sembra influenzare diversi processi di recupero neurocognitivo nella fase acuta conseguente a un trauma cerebrale.
Infedeltà emozionale: l’amore ai tempi del Web 2.0, tramite il Web 2.0
“L’infedeltà emozionale è intensa ma invisibile, al contempo erotica e non consumata. Tali paradossi, così deliziosi e intriganti, la rendono pericolosa tanto quanto l’adulterio vero e proprio”. Con queste poche parole si può riassumere il pensiero di Mark Teich, psicologo americano, autore di diversi saggi che trattano l’innamoramento, ma soprattutto la dinamica del tradimento.
Nel suo articolo “Love but don’t touch”, apparso sul web journal Psychology Today, il Dott. Teich riporta e analizza la storia di Brendan e Lauren, due coniugi che parallelamente intrecciano una relazione extraconiugale online, che ben si presta a rappresentare i meccanismi sottesi all’infedeltà emozionale.
Brendan ricontatta la sua prima ragazza, che – a differenza della moglie, molto presa dal proprio lavoro e preoccupata per la salute precaria del figlio – trascorre le proprie giornate dividendosi equamente tra lavoro e cura personale; Lauren, invece, conosce per caso su un forum un brillante professionista, simile per caratteristiche al marito, ma molto più divertente e spensierato (a suo dire) del compagno.
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Brendan e Lauren non incontreranno mai i loro “amanti” virtuali e interromperanno le corrispondenze nel momento in cui il loro bambino avrà seriamente bisogno di cure mediche. Nonostante questo, il loro coinvolgimento sarà tale per cui rischieranno di mandare a monte il matrimonio.
“L’infedeltà – sostiene Teich – è più antica della Bibbia, ma ha cominciato ad assumere caratteristiche differenti rispetto al passato: coinvolge sempre più le donne e la realtà virtuale”.
Riferendosi in particolare agli incontri online, Teich li descrive come ricchi di vicinanza emotiva, connotati spesso anche di segreti, carichi di sessualità (nella maggior parte dei casi non agita, ma solo fantasticata).
Tali relazioni crescono silenziosamente, sino a diventare un rischio anche per il più stabile dei legami offline (ossia, vissuto in carne ed ossa).
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Ai tempi di Internet, poi, le relazioni “galeotte” sono diventate molto più “a portata di mano” (o di clic) di quanto non siano mai state prima.
La psicologa Shirley Glass ha registrato questo “florilegio” già nel 2003, nel suo libro “Not just friends”: “La nuova infedeltà nasce tra persone che involontariamente stringono relazioni (virtuali) profonde e appassionate, prima di realizzare di aver superato la linea tra amicizia platonica e amore romantico” scrive nel testo citato.
L’82% dei partner infedeli che ha seguito in terapia – scrive – ha avuto una relazione con una persona che all’inizio era “solo un amico”. Per di più, il 65% delle persone seguite ha intrecciato relazioni da lei considerate emotivamente infedeli (segrete, ricche di sessualità non consumata, e molto più aperte a livello emozionale delle relazioni con il compagno “in carne ed ossa”).
La dott.ssa Glass ritiene che il luogo di lavoro sia uno dei principali campi minati per il matrimonio: il 50% delle donne e il 62% degli uomini infedeli con cui ha avuto a che fare avevano allacciato una relazione con qualche collega. La ricercatrice sostiene inoltre che Internet rappresenti un buon habitat per la nascita (e crescita) di relazioni di questo genere, che sembrano moltiplicarsi velocemente.
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Ma siamo sicuri che il tradimento nasca solamente a causa di e all’interno di una relazione in crisi?
Giusto per rassicurarci, Peggy Vaughan, psicologa autrice del libro “Il mito della Monogamia” e curatrice del portale DearPeggy.com, dove vengono esposte ricerche e discussioni sull’argomento, sostiene che nessuno sia immune al fascino del tradimento.
Sebbene le persone alle prese con una relazione in crisi siano più suscettibili, un sorprendente numero di persone coinvolte in un legame solido e felice trova intrigante la novità e si lascia spesso tentare da relazioni extraconiugali.
A causa dei confini così labili e insidiosi, il tradimento emozionale rappresenta una sfida per il legame di coppia, proprio perché è difficile da identificare. Potrebbe, infatti, sembrare naturale “confessarsi” con una persona conosciuta su internet, o rispondere alle curiosità di un collega. Ma lentamente e impercettibilmente – sostiene la dott.ssa Vaughan – tra alcune persone avviene un “cambiamento emotivo”.
Con l’andare del tempo (e delle confidenze) coloro che si definivano solo amici hanno costruito un piccolo alone di segretezza attorno alla propria relazione e traslano la fedeltà che prima provavano per il compagno, sul (non-più-solo) amico.
Internet, dunque, rappresenta il piatto d’argento sul quale poter servire e vivere relazioni segrete e cariche anche di sessualità (come detto, spesso solo pensata e non agita). Il tradimento – come si accennava nel caso di siti deputati ad incontri extraconiugali – può essere consumato proprio nel salotto di casa, sotto gli occhi dell’ignaro/a compagno/a.
Spesso è l’anonimato che incoraggia ad aprirsi all’altro. Aaron Ben-Ze’ev, filosofo e presidente dell’Università di Haifa, autore del libro Love Online, sostiene che confidarsi con una persona conosciuta su internet equivalga a parlare con uno sconosciuto: si rivelano, in questi incontri, pensieri ed emozioni che a volte si fatica a confessare al proprio partner. Condividendo certe confessioni, l’intimità, naturalmente, cresce. Le informazioni scambiate, poi, sono accuratamente selezionate e spesso sono taciute parti non gradite di Sé. Inoltre, senza apparenti dati di realtà con cui fare i conti, sul compagno virtuale si possono proiettare desideri e fantasie: si da libero sfogo alla propria immaginazione.
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E’ della stessa opinione anche Sherry Turkle, psicologa ricercatrice del MIT e autrice de La vita sullo schermo: l’identità nell’era di internet. “Ciò che conta, infatti, non sono tanto le informazioni scambiate, quanto quelle taciute al partner virtuale. E’questo che rende le relazioni online così intense e ricche di fantasie”.
La dott.ssa Turkle paragona questo fenomeno al transfert in psicoterapia, dove i pazienti, avendo poche informazioni sul terapeuta, sono portati ad investirlo di qualità che vorrebbero possedere o di cui sentono il bisogno. Allo stesso modo, il partner virtuale è sempre parte di una fantasia e, inevitabilmente, è visto come più interessante, più accogliente e sexy di quello “in carne ed ossa”.
Possiamo a questo punto chiederci se questo genere di amore virtuale sia reale o meno.Il dott. Ben-Ze’ev sostiene che contenga gli stessi elementi dell’amore “offline”: è ricco di pensieri ossessivi che riguardano l’amato, si prova lo stesso urgente bisogno di sentirlo e di pensare che sia la persona migliore del mondo. Esattamente come quando ci si innamora nella “realtà”.
L’alchimia, però, non dura a lungo: come nella realtà la fase di innamoramento richiede un successivo consolidamento che può non avvenire con il partner virtuale. Spesso, infatti, gli amori nati sulla scorta di una fantasia, sono destinati a scontrarsi con la realtà.
Essendo ormai gli incontri virtuali così comuni o per lo meno accessibili, così ricchi – come abbiamo visto – di scambi emotivi, tanto a volte da travalicare il confine tra amore e amicizia, gli studiosi hanno cominciato a domandarsi quali possano essere le strategie efficaci per difendere la propria relazione “reale” da tali tentazioni.
La dott.ssa Vaughan suggerisce trasparenza nella gestione delle conoscenze sul web: niente indirizzi e-mail segreti o corrispondenze che un partner non avrebbe piacere di scoprire.
Non tutti però sono della stessa opinione. In particolare, la dott.ssa Turkle sostiene che alcune relazioni virtuali possano essere divertenti, innocue e giocose. A volte, anzi, anche salutari: “Le persone – infatti – potrebbero esprimere diverse identità o aspetti di Sé: una persona introversa potrebbe mostrarsi estroversa, un uomo fingersi una donna e così via”. Una relazione virtuale potrebbe anche essere un buon campanello d’allarme per prestare attenzione a ciò che non va nella propria relazione offline.
Lo stesso campanello di allarme – conclude il dott. Teich – che ha riportato Brendan e Lauren a occuparsi del proprio matrimonio, lasciando perdere i partner incontrati online. Da un lato la fantasia si è scontrata con la dura realtà del dover accudire il figlio malato, dall’altro entrambi si sono resi conto che le relazioni ricercate e coltivate online rappresentavano un diversivo alla loro intimità, non l’intimità stessa.
Fiducia e Tradimento: il “Paradiso Amaro” di Alexander Payne.
Michela Adele Pozzi
Recensione del Film “Paradiso Amaro” (The Descendants, 2011) di Alexander Payne.
Paradiso Amaro (The Descendants, 2011), locandina cinematografica.
Come ammoniscono le prime parole pronunciate fuori campo dal protagonista, Matt (George Clooney), “l’abitare in un contesto paradisiaco non è di per sé garanzia dell’essere immuni dai problemi che ciascuno di noi si trova a dover affrontare nella vita, in qualsiasi parte del globo abiti”.
Matt è avvocato, marito e padre di due figlie: tale sequenza rispecchia la priorità di questi ruoli nella sua vita, nonché l’importanza che assumono per lui in termini identitari, almeno per l’immagine che inizialmente ci presenta di sé. Il protagonista compirà infatti, durante lo svolgersi della vicenda descritta, un importante e doloroso percorso individuativo, che toccherà profondamente il suo modo di intendere se stesso e i propri legami famigliari, i quali verranno coinvolti in questo processo arrivando ad assumere una configurazione diversa rispetto quella iniziale.
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La famiglia di Matt ci appare piuttosto disgregata e frammentata, data la scarsa coesione interna dei propri membri, ciascuno dei quali pare sostanzialmente condurre una vita a sé. Questa situazione viene rappresentata dal protagonista con una potente metafora: così come le Hawaii, anche la famiglia è un arcipelago, i cui singoli membri rimangono fondamentalmente soli e lentamente vanno alla deriva. Tale configurazione, verosimilmente, è stata funzionale per un lungo periodo, consentendo a ciascuno di non affrontare i significativi problemi di comunicazione e comprensione reciproca, mantenendosi in una posizione di (almeno apparente) disimpegno emotivo. Come spesso accade, invece di compiere il faticoso tentativo di gettare dei ponti gli uni tra gli altri, ciascuno ha eretto delle barriere difensive nei confronti dello scambio e del confronto: Matt lasciandosi completamente assorbire dal proprio lavoro, la moglie Elizabeth (Patricia Hastie) intraprendendo una relazione extraconiugale, la figlia maggiore Alexandra (Shailene Woodley) trincerandosi in un comportamento ostile e ribelle.
In questa prospettiva, il “paradiso”, più che essere associato allo splendido contesto delle Hawaii, sembra essere costituito da quel piccolo mondo autoreferenziale in cui ciascuno si rifugia, composto da desideri, aspettative, illusioni che reggono finchè è possibile evitare il duro confronto con la realtà, che spesso smentisce l’immagine che abbiamo costruito di noi stessi e del nostro contesto di appartenenza.
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Per la famiglia di Matt, il momento del confronto è costituito da un tragico evento: Elizabeth, in seguito ad un incidente, è sprofondata in un coma irreversibile. A questo fa seguito un ulteriore evento traumatico: Alexandra rivela al padre di aver visto recentemente la madre in compagnia di un altro uomo. Possiamo assistere in questo momento allo sgretolarsi di buona parte delle certezze su cui Matt aveva fino ad allora fondato la propria vita, dovendosi confrontare con un insieme di emozioni e pensieri dolorosi e contrastanti.
Potrebbero esserci innumerevoli modi per fare fronte ad una situazione del genere, e Matt sceglie uno dei più faticosi: decide di non nascondersi più nel proprio ufficio, bensì di affrontare il mondo che si svolge fuori di esso, “sporcandosi le mani” con la realtà dei propri rapporti famigliari e sociali, addirittura andando a conoscere l’amante della moglie. Gli spostamenti tra un’isola e l’altra che avvengono durante il film, oltre ad avere il fine di riunire la famiglia e di ricostruire vicende dislocate nello spazio e nel tempo, sembrano rappresentare tentativi di ricomporre ed integrare parti di sé diverse, da cui l’Io del protagonista ha cercato di difendersi, finché gli è stato possibile, chiudendosi in se stesso, costellando la propria vita di regole e tabù che dovrà ben presto mettere in discussione.
È questo che mette in moto il processo di individuazione cui si accennava; come scrive un famoso psicoanalista:
“Il matrimonio non è qualcosa di armonioso e di piacevole, bensì un luogo di individuazione, dove l’individuo entra in collisione con se stesso e con il partner, si scontra con l’altro sia nell’amore che nel rifiuto: è così che conosce se stesso, il mondo, il bene e il male, l’alto e il basso”
(Guggenbühl-Craig, 1988, p. 83)
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Si può estendere questa riflessione, con le opportune differenze, anche al rapporto genitori-figli: Matt riconosce di aver bisogno delle sue figlie per affrontare la situazione, si lascia consigliare da loro, a sua volta aiutandole ad elaborare il dolore che provano.
Il punto di arrivo di tale percorso è ben rappresentato dalla scena finale, in cui tutti e tre siedono insieme sul divano, stretti alla coperta che ha abbracciato il corpo di Elizabeth nel letto di ospedale: alla vicinanza fisica (contrapposta alla distanza presentata all’inizio) corrisponde anche la condivisione emotiva, la consapevolezza di essere uniti nel provare vissuti simili. E di poter finalmente comunicare anche senza parlare, sentendosi capiti e molto meno soli.
Cosa ha consentito questa evoluzione? Possibile che due eventi tanto negativi e dolorosi, il lutto e il tradimento, possano veicolare un tale potere trasformativo? Forse sì, se vengono elaborati non solo nella loro concretezza (una perdita, in entrambi i casi), bensì nel loro significato simbolico, che richiede una riorganizzazione dell’immagine di sé, dell’altro e della relazione.
La cacciata dal paradiso: il tradimento
Ho scelto di concentrare la mia riflessione sull’esperienza del tradimento, che nel film viene presentato nella sua natura complessa e multisfaccetata, irriducibile ad una dimensione prettamente fisica e sessuale. La circolarità di questa esperienza coinvolge e lega tra loro i protagonisti, rendendoli, in contesti diversi, alternativamente traditi e traditori (Matt tradito dalla moglie ma traditore nei confronti dell’accordo stipulato con i cugini, la stessa Elizabeth adultera ma a sua volta tradita dall’amante, che non ha la minima intenzione di lasciare la moglie per lei).
Ciò che accomuna questi diversi livelli è il prodursi di una frattura profonda nella fiducia riposta nell’altro, prima necessaria al mantenimento di un’immagine definita di sé e del proprio ruolo nella relazione. Ma è possibile che il tradimento, nonostante costituisca una lacerazione spesso insanabile nel tessuto relazionale, possa contribuire ad avviare un’evoluzione nella qualità del rapporto?
A questo riguardo, spunti di riflessione molto interessanti provengono da uno scritto di J. Hillman. L’Autore ci spiega che nella prospettiva della psicologia analitica, in cui è solo dalla tensione tra gli opposti che può scaturire l’energia psichica, “non si dà fiducia senza possibilità di tradimento” (Hillman, 1999, p. 19): fiducia e tradimento costituiscono due poli di un’unica dimensione, inesistenti uno senza l’altro e non definibili indipendentemente. Certo, nel momento in cui si palesa nella nostra vita la realtà del tradimento rimaniamo sgomenti, feriti, increduli: tuttavia, un confronto così duro con la realtà è spesso l’unico modo, seppur doloroso, per entrare in contatto con l’altra faccia della medaglia, prima sconosciuta o negata a livello cosciente.
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Seguendo la riflessione di Hillman, si comprende come ciò che risulta irrecuperabile dopo un tradimento è quella condizione di fiducia originale, animale, quale si ritrova tra Dio e Abramo prima della cacciata dall’Eden, così come in ogni rapporto tra un bambino e il genitore. Come è stata necessaria la creazione di Eva e il successivo tradimento attraverso il frutto proibito perché si generasse la vita, così nella relazione genitore-figlio l’essere delusi e frustrati è indispensabile affinchè si compia il percorso di crescita:
“Se prendiamo il racconto biblico come paradigma della vita che si evolve a partire da questo ‘principio’, allora dovremo aspettarci che, perché i rapporti evolvano, la fiducia originale debba essere spezzata […] Si verificherà una crisi, una rottura caratterizzata dal tradimento, il quale, a quanto dice il racconto, è la condizione sine qua non per la cacciata dall’Eden e l’ingresso nel mondo ‘reale’, il mondo della coscienza e della responsabilità umane. Perché bisogna dire chiaramente che vivere o amare soltanto là dove ci possiamo fidare, dove siamo al sicuro e contenuti, dove non possiamo essere feriti o delusi, dove la parola data è vincolante per sempre significa essere irraggiungibili dal dolore e dunque essere fuori dalla vita vera”
(Hillman, 1999, p. 20).
Dunque, fidarsi non contemplando la possibilità del tradimento è come buttarsi negando quella percentuale di rischio che il paracadute non si apra: e che rischio è, allora?
Per Matt sarebbe stato facile riversare sulla moglie morente il proprio risentimento, arroccandosi nella posizione della vittima innocente: ha invece scelto di non rimanere fissato in questo ruolo, non attribuendo il proprio dolore solo alla “cattiveria” dell’altra, bensì cercando di integrarlo nella propria immagine di sé. Per farlo, ha avviato una riflessione su ciò che questo evento poteva dire in merito alla propria stessa natura: in fondo, anche lui ha deluso le aspettative della moglie, comportandosi come un marito distaccato e un padre assente. Restare rigidamente ancorati al tradimento in sé ostacola l’acquisizione di un nuovo tipo di fiducia, più consapevole e sofferta, che ha abbandonato le illusioni della condizione originaria per tenere conto anche di quella parte inaffidabile che c’è in noi, prima confinata nell’Eden dell’inconscio ma ora visibile alla coscienza.
Credersi immuni da ciò che siamo pronti a biasimare negli altri è uno degli aspetti che compone il mondo autoreferenziale e illusorio di cui si parlava prima: le nostre aspettative unilaterali ed egoistiche subiscono necessariamente una trasformazione nell’incontro con l’altro e, attraverso l’altro, con una parte di sè. In questo forse risiede il sapore amaro di quel paradiso in cui ci eravamo rifugiati, che non è completamente perso se siamo in grado di adattarlo a ciò che progressivamente scopriamo di noi stessi.
Questo è un elemento indispensabile del processo di individuazione, aspetto centrale nella psicologia analitica:
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“L’individuazione consiste in un’elaborazione attiva, difficile, inquietante, della nostra psiche complessa, fino, ad esempio, alla possibile unione degli opposti in essa contenuti, simboleggiata dall’unione dell’uomo e della donna […] Nell’individuazione non si può evitare il confronto con la sofferenza e con la morte, con i lati oscuri di Dio e della sua creazione, con ciò che ci fa soffrire e con cui tormentiamo noi stessi e gli altri. Non esiste individuazione senza il confronto con il lato distruttivo di Dio, del mondo e della nostra anima”
(Guggenbühl-Craig, 1988, pag. 49-50)
Il tradimento pone dunque un’ardua sfida: possiamo limitarci ad intenderlo in modo “statico”, circoscritto al presente, rimanendo incagliati nel dolore legato ad una perdita sentita come irrecuperabile, oppure possiamo cercare di fornirne una lettura più complessa, che lo inserisca in una dimensione storica e narrativa, al fine di integrarlo nella consapevolezza di sè e approfondire la qualità della relazione sia con noi stessi sia con l’altro.
Spesso vi ho udito dire di chi sbaglia che non è uno di voi, ma un intruso estraneo al vostro mondo.
Ma io vi dico: così come il santo e il giusto non possono innalzarsi al di sopra di quanto vi è di più alto in voi,
Così il malvagio e il debole non possono cadere più in basso di quanto vi è di più infimo in voi.
E come la singola foglia non ingiallisce senza che la pianta tutta sia ne sia complice muta,
Così il malvagio non potrà nuocere senza il consenso tacito di voi tutti.
(…)
E se qualcuno di voi, in nome della giustizia, volesse punire con la scure l’albero guasto, ne esamini le radici
E scoprirà radici del bene e del male, feconde e sterili, tutte insieme intrecciate nel cuore silenzioso della terra.
Kahlil Gibran, 1923
BIBLIOGRAFIA
Gibran, K. (1923). Il Profeta. Milano: Feltrinelli (2006).
Hillman, J. (1999). Puer Aeternus. Milano: Adelphi (2004).
La Confusione può essere utile per l’apprendimento
– FLASH NEWS –
Emozioni e apprendimento: attenzione a non sovrastimare gli effetti delle emozioni positive sui processi e sugli esiti dell’apprendimento! Confusione e incertezza possono facilitare l’apprendimento di informazioni complesse: questo risultato controintuitivo emerge da uno studio condotto da Sidney D’Mello della University of Notre Dame pubblicato di recente sulla rivista scientifica Learning and Instruction.
I ricercatori hanno dimostrato che l’induzione strategica e controllata di uno stato di confusione durante una fase di apprendimento di argomenti concettualmente difficili fa sì che i soggetti apprendano in maniera più efficace i temi trattati e siamo poi maggiormente in grado di applicare le loro conoscenze a nuovi problemi.
In una serie di esperimenti, ai soggetti veniva chiesto di imparare alcuni concetti scientifici attraverso l’interazione con più agenti virtuali al computer. Lo stato di confusione e di incertezza è stato indotto negli studenti manipolando il livello di coerenza delle informazioni fornite dagli agenti virtuali allo stesso individuo: gli agenti virtuali presentavano informazioni discordanti e pareri discordi rispetto a uno specifico tema. A questo punto, ai soggetti veniva chiesto di decidere rispetto a quale opinione si sentivano maggiormente in accordo forzandoli a prendere posizione a fronte di informazioni incomplete e contraddittorie.
I risultati hanno evidenziato che i soggetti cui era stato indotto sperimentalmente uno stato di confusione presentavano punteggi significativamente più elevati in una prova tematica specifica ed erano maggiormente in grado di identificare i limiti di nuovi case-studies.
Gli autori però mettono in guardia da un utilizzo generalizzato di tali modalità promotrici di confusione e incertezza, da evitare con soggetti che presentano in partenza emozioni negative rispetto a certi temi e ambiti, che hanno difficoltà nella regolazione delle emozioni negative – quali frustrazione e tristezza- così come in attività di apprendimento centrali nella carriera scolastica dei ragazzi.
In breve, si tratta di incoraggiare il nostro paziente a giustificare la sua ansia, la sua paura. Dopo aver insieme definito cosa sia uno stato d’ ansia (in breve, è il “timore che accada qualcosa”) e dopo averlo chiarito (“Ma di cosa esattamente abbiamo paura?” suggeriamo al nostro paziente, utilizzando il noi terapeutico),stimoliamo il paziente, con la guida del terapeuta, a dover dimostrare a se stesso, ma anche a noi e al mondo, se e quanto i suoi timori siano fondati. L’equazione è una bussola. Il terapeuta, presentando su un foglio l’equazione, dice al paziente:
T.– Lei quindi teme che si verifichi l’evento X. Ma quanto è giustificata questa paura? Guardi questo disegno. È la cosiddetta equazione dell’ansia. Essa dice che un evento più o meno pericoloso genera una quantità di ansia proporzionale alla gravità del pericolo e alla probabilità che si verifichi, e inversamente proporzionale alla sua (dico di lei paziente) capacità di sopportare e di rimediare.
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Questo schema ha un valore teorico, ma anche terapeutico. È consigliabile che il terapeuta metta su carta e proponga al paziente lo schema, per riconsiderare insieme lo stato d’ansia in base alle quattro variabili dello schema di Salkovskis: gravità, probabilità, tollerabilità e rimediabilità.
Il terapeuta deve individuare il punto debole e insistere su quello. A volte la paura sarà in realtà sproporzionata, poiché la gravità del pericolo sarà lieve. Altre volte il pericolo sarà altamente improbabile, e sarà bene insistere su quell’aspetto. Ma gli interventi più efficaci sono sempre quelli centrati sulla sopportazione e sul rimedio, che il soggetto ansioso tende frequentemente a sottovalutare.Facciamogli ricostruire lo scenario e guidiamolo mentalmente attraverso quella catastrofe così temuta. Insieme, potremo far capire al nostro assistito che le possibilità di sopravvivere e di rimediare sono spesso maggiori di quanto avessimo pensato.
Probabilità e gravità
Quanto è davvero probabile che accada questo evento?
Possiamo quantificare questa probabilità?
Quante volte è accaduto in passato?
E specificamente a lei, è mai successo?
Questo evento quanto è davvero pericoloso?
Quali danni può portare?
Possiamo definire, determinare, quantificare con precisione questi danni?
Riflettiamo. Si tratta danni materiali o di una sofferenza psicologica?
Rimediabilità e tollerabilità
E se anche accadesse?
Possiamo immaginare cosa accadrebbe dopo?
Saremmo davvero del tutto annichiliti?
Siamo sicuri che, una volta avvenuta la cosiddetta catastrofe, non si possa poi fare nulla per rimediare, attutire le conseguenze, controllare sia pure parzialmente l’evento?
Che significa sopportare uno stato d’animo negativo?
Quanto dura uno stato d’animo negativo?
E quanto dura lo stato d’animo negativo specifico che stiamo analizzando qui ed ora, quello stato d’animo che è frutto del problema portato in quella determinata seduta?
Man mano che si procede con questo intervento, dovrebbero però emergere le cosiddette credenze cognitive centrali del soggetto. Infatti il soggetto tenderà non solo a discutere quanto sia grave il determinato evento, ma anche a giustificare concettualmente il suo stato d’animo, in termini più generali.
I suoi timori sarebbero legati quindi non solo a pensieri specifici per una determinata situazione, ma anche a una visione più generale della vita, del mondo, di sé e degli altri. Sono in gioco, quindi, credenze generali, o anche centrali, laddove si ritenga che questo tipo di pensieri svolga un ruolo centrale nella genesi e nel mantenimento del disturbo emotivo d’ansia (Barlow, 2002).
Pedofilia: Il caso di Rignano Flaminio: intervista a Leonardo Tondelli
Leonardo Tondelli (39 anni) è un docente di scuola secondaria, scrive per l’Unità e cura alcuni dei migliori blog di opinione italiani: leonardo.blogspot.com e ilpost.it/leonardotondelli. Si è occupato del caso di Rignano Flaminio e ha saputo raccontare alcuni aspetti preoccupanti di una questione che è importante per chi opera nel campo della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria: il problema della verifica fattuale dei casi di sospetto abuso ai minori e, ancor peggio, i casi in cui il giusto impegno alla protezione dei minori diventa una paranoica caccia alle streghe che non prevede alcuna cautela verso la possibile innocenza dei supposti abusatori.
State of Mind: Leonardo, può raccontarci una breve storia delle sue opinioni sul caso di Rignano Flaminio, dal primo emergere del caso fino all’ultimo – e non ancora definitivo- esito, l’assoluzione degli accusati di pochi giorni fa?
Come molti ho appreso il caso di Rignano Flaminio dalla tv. La mia prima reazione credo sia stata di incredulità, come per tutti: ma come, c’era una setta di maestre che porta in giro le vittime alla luce del giorno, e nessuno se ne accorgeva? Dopo aver riletto la stessa notizia su un quotidiano, la domanda si è riformulata così: ma come, stanno cercando di raccontarci una storia così enorme, e ci caschiamo? Poi ho cominciato a pensare a cose che avevo già letto distrattamente qua e là, in particolare su un celebre libello (Lasciate che i bimbi, del collettivo Luther Blissett) che anni prima era stato addirittura sequestrato da un magistrato. Nel giro di qualche giorno mi sono fatto l’idea che una storia così folle abbia una caratteristica molto importante: chiunque la segue non può stare nel mezzo, deve per forza credere a una delle due ipotesi, entrambe un po’ difficili da accettare. La prima è che esista una setta di maestre pedofile – che per sopravvivere deve avere ramificazioni e complicità a livello mondiale – la seconda è che esista una psicosi collettiva per cui decine di bambini e adulti possono essere portati a raccontare cose non vere. Per me è stato abbastanza semplice scegliere la seconda ipotesi, e recuperare su internet vari esempi di psicosi collettive analoghe scoppiate in anni precedenti negli USA, in Francia e in Gran Bretagna. Altri hanno scelto invece di credere alla Spectre Pedofila Mondiale: un’ipotesi molto immaginosa, ma era l’unica disponibile se sceglievi di credere all’accusa sulla base che “i bambini non mentono mai”. Per quel poco che conosco i bambini, non mi pare che non mentano mai: anzi hanno spesso difficoltà a separare il vero dal falso nei loro resoconti agli adulti.
State of Mind: Quando l’ho contattata, lei ci ha tenuto a sottolineare la sua “non competenza” tecnica. Eppure leggendo i suoi articoli e post sull’argomento io credo che lei abbia qualcosa da insegnare a chi è competente nel campo psicologico su un argomento grave: quali sono le procedure affidabili di verifica delle accuse di abuso sui minori. Vuole parlarne ancora qui?
Arrticolo consigliato: La Psicologia del Femminicidio.
Ribadisco la mia incompetenza. Di buono c’è che su internet, se hai un minimo di senso critico, non hai difficoltà a trovare persone competenti. Molte informazioni preziose le trovai su un piccolo blog, ilgiustiziere.blogspot.com… anch’esso in seguito fatto oscurare da un magistrato. Un’altra fonte essenziale è stata giustiziaintelligente.blogspot.com. Per quanto riguarda le procedure, si è scritto subito che nel caso di Rignano Flaminio non erano state rispettate le le linee guida per l’indagine e l’esame psicologico del minore raccolte nella Carta di Noto: non credo che ci sia altro da aggiungere; le testimonianze sono state raccolte in un modo sbagliato, infliggendo temo una grave sofferenza ai testimoni. Non c’è da stupirsi che il processo non sia arrivato a nulla; semmai che sia durato così tanto, danneggiando così profondamente la vita degli indagati.
State of Mind: Lei ha raccolto qualche informazione su analoghe caccie alle streghe già avvenute in USA e nel Regno Unito. Ce le racconta ancora per “State of Mind”?
“Caccia alle streghe” di solito è un modo di dire, ma in questo caso c’è una certa continuità con le testimonianze raccolte dagli inquisitori durante i processi alle streghe e i racconti di abusi sperimentati durante riti satanici, per esempio, negli USA durante gli anni Ottanta. Il trait d’union è un’autobiografia, Michelle Remembers, scritta a quattro mani da uno psicoterapeuta e dalla sua paziente (poi sua moglie) che durante la terapia cominciò a raccontare gli abusi subiti durante l’infanzia nella locale filiale di una setta satanica mondiale. Il libro divenne un best-seller e l’autore fu invitato come consulente in centinaia di casi del genere che stavano scoppiando negli USA. Il più famoso è il processo McMartin, che presenta qualche analogia con il caso di Rignano: le maestre di una scuola dell’infanzia furono accusate di far parte di una setta pedosatanica. Il processo si concluse con l’assoluzione. Ma durò sette anni, che in America sono un’enormità (per noi purtroppo no, nessuno si stupisce che un innocente possa stare per anni alla gogna con un’accusa del genere). Nel frattempo nel Regno Unito era scoppiato il caso di Broxtowe (Nottingham), nel quale le molestie furono effettivamente provate: salvo che furono commesse da una setta di educatori, ma dai famigliari delle vittime. E tuttavia a un certo punto sia le vittime che i loro famigliari cominciarono a raccontare strane storie di abusi rituali, probabilmente a causa dell’intervento di un “consulente” molto particolare, Ray Wyre, un acceso sostenitore della teoria dell’esistenza di una setta pedofila mondiale. Alle idee di Wyre fa esplicito riferimento almeno uno dei “consulenti” italiani che hanno cercato di dimostrare il passaggio di questa setta a Rignano Flaminio (faccio presente che per avere scritto queste cose più diffusamente, un blogger si è visto sequestrare il suo sito due anni fa, e sembra che ormai non ci si possa più far niente).
State of Mind: In conclusione, come sono cambiate le procedure d’indagine su questo tipo di crimine in quei due paesi dopo che ci si è resi conto della possibilità di fenomeni di linciaggio –per così dire- giuridico ai danni di persone in realtà non colpevoli?
Non sono un inquirente, e quindi non credo di essere in grado di rispondere: quel che ho osservato, da normale lettore di giornali, e telespettatore, è che dopo Rignano Flaminio ci sono stati purtroppo altri casi di molestie perpetuate nelle scuole dell’infanzia: ma in tutti questi casi gli inquirenti hanno fornito le prove video. Si può poi discutere sull’opportunità di mostrare queste prove in tv – io personalmente non le ho mai volute vedere – però mi sembra che la prova video sia un grosso salto di qualità. Non credo sia una coincidenza il fatto che il carattere satanico (e sessuale) delle molestie contestate sia scomparso.
State of Mind: Naturalmente tutto questo a sua volta non significa che dobbiamo sottovalutare gli abusi. Però possiamo imparare che questi abusi si svolgono in maniera diversa da come pensato: non in forma di organizzazioni diaboliche. Caro Leonardo, ha un suo qualche pensiero conclusivo da darci per congedo?
In questi anni quando facevo obiezioni mi sentivo spesso rispondere “tu non hai figli, non puoi capire”. Forse il non avere figli, ma maestre in famiglia, mi faceva vedere le cose in un modo diverso. Però io a quei bambini ci ho sempre pensato. Credo che la loro sofferenza sia reale, e che non sia finita ancora.
AGGIORNAMENTO (27-06-2012):
A seguito del dibattito che si aperto riguardo questo articolo e alle richieste di alcuni lettori di avere fornita una bibliografia essenziale sui temi trattati, proponiamo qui di seguito alcuni collegamenti esterni dal sito www.psicologiagiuridica.eu:
Il libro, le Immagini e il Booktrailer sono di proprietà di proprietà di Ugo Guanda Editore SpA, Viale Solferino 28, Parma Gruppo Editoriale Mauri Spagnol che ha gentilmente concesso la riproduzione su State of Mind. Ogni altro utilizzo non autorizzato è esplicitamente vietato.
Desiderio, Amore e Dipendenza: avviene nel cervello
Grazie alla scienza sappiamo che l’amore vive nel cervello, non nel cuore. Ma in quale parte del cervello esattamente?E questo luogo è lo stesso del desiderio sessuale? Un recente studio internazionale, il primo di questo genere, disegna la mappa esatta di questi sentimenti intimamente collegati.
Jim Pfaus, professore di psicologia alla Concordia University insieme a colleghi statunitensi e svizzeri, ha analizzato i risultati di 20 studi separati che hanno esaminato l’attività cerebrale di soggetti impegnati a guardare immagini erotiche o fotografie di persone affettivamente importanti per loro. Mettendo insieme questi dati gli scienziati sono stati in grado di formare una mappa cerebrale completa dell’amore e del desiderio.
In particolare sarebbero due le strutture cerebrali fondamentali per il monitoraggio della progressione del desiderio sessuale verso il sentimento di amore: l’insula e il corpo striato. La prima è una porzione della corteccia cerebrale ripiegata in profondità in una zona tra il lobo temporale e il lobo frontale, il secondo si trova all’interno del proencefalo. Inoltre quando il desiderio sessuale si trasforma in amore avviene un elaborazione in una parte diversa del corpo striato. Sorprendentemente, questa porzione dello striato è associata anche alla tossicodipendenza, Pfaus spiega: “L’amore è un “abitudine” che si sviluppa dal desiderio sessuale e come tale chiede appagamento. A livello cerebrale funziona come quando le persone diventano dipendenti da droghe.”
Che l’amore sia un abitudine non è necessariamente un male, l’amore infatti attiva sentieri cerebrali che sono coinvolti nella monogamia e nel legame di coppia. Alcune aree del cervello sono in realtà meno attive quando una persona prova amore di quando invece sente il desiderio: infatti, mentre il desiderio sessuale ha un obiettivo molto specifico, l’amore è più astratto e complesso, sarebbe quindi meno dipendente dalla presenza fisica dell’altro.
In conclusione possiamo pensare il desiderio sessuale e l’amore lungo uno spettro che evolve da rappresentazioni integrate di sensazioni affettive e viscerali ad una rappresentazione finale di sentimenti, che include meccanismi di aspettativa di ricompensa e di apprendimento dell’abitudine.