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Il suicidio e il mondo giovanile. A Palermo un seminario su terapia e prevenzione del suicidio in adolescenti e giovani

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. E’ un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale.

 

Il suicidio come mezzo per mettere fine ad una sofferenza troppo intensa

Si è svolto lo scorso 23 Settembre a Palermo, nella prestigiosa cornice dell’Hotel Mercure Palermo Centro, un intenso seminario di studi organizzato dallo Studio di Psicoterapia diretto dalla Dott.ssa Angela Ganci, psicologa psicoterapeuta a Palermo, con il patrocinio dall’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Aleteia di Enna e dall’Associazione di volontariato Co.tu.le.vi. che si occupa di contrasto al fenomeno della violenza in tutte le sue forme e rappresentata per l’evento dall’avvocato Bartolomei, responsabile dello Sportello Antiviolenza di Palermo, tenace difensore dei diritti del detenuto a una carcerazione non afflittiva e attivo sostenitore del contrasto del fenomeno del sovraffollamento, causa documentata di suicidi nelle carceri.

Attraverso uno spaccato variegato che ha toccato i diversi contesti in cui l’atto suicidario può verificarsi, dal modernissimo fenomeno del Blue Whale agli eventi traumatici a vario titolo costituenti fattori di innesco di dinamiche psichiche esitanti nel suicidio (come il cyberbullismo), la giornata di studio si è proposta di stimolare spunti di riflessione sulla prevenzione e il contrasto, da parte di operatori e famiglie, dell’atto auto-soppressivo per antonomasia, che può rappresentare sia l’espressione di emozioni a sfondo depressivo, che una scelta estrema indipendente da qualunque disturbo psichico.

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. E’ un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale – aprono i lavori Giovanbattista Maggì, psichiatra psicoterapeuta e Alessandra Stringi, psicologa psicoterapeuta – il suicidio ha la proprietà di non essere prevedibile o difficilmente prevenibile per i familiari, i vicini, il clinico, anche se bisogna comprendere la sofferenza che sottende l’atto suicidario per fare tutto ciò che è necessario al fine di far uscire chi ha un’ideazione suicidaria da tale condizione”.

Il suicidio come desiderio progressivo e inalienabile di porre fine a un intollerabile senso di sofferenza e l’autolesionismo come atto lesivo in grado di evolvere in suicidio vero e proprio e dove il ruolo delle fantasie di abbandono riveste un’importanza decisiva.

La paura di essere abbandonati in quanto indegni, cattivi, è all’origine nel paziente borderline del ricorso alle autolesioni come tagli e bruciature che diventano una fonte di sollievo più rapida di qualunque altro intervento terapeutico, poiché fermano l’ansia temporaneamente – spiega Angela Ganci – Il ruolo della psicoterapia è potenziare quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle intense emozioni negative, anche nell’ottica di prevenire che l’autolesionismo esiti in suicidio vero e proprio. In tale ottica risulta di notevole efficacia la terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan, trattamento a orientamento cognitivo-comportamentale integrato”.

Autolesionismo come punizione autoinflitta, a cui dare attenzione nel suo possibile esitare in suicidio, ma anche da comprendere come atto comunicativo: le ferite rendono evidente la propria sofferenza, insieme fisica, e psicologica agli altri, e in un certo senso rappresentano un alleato per operatori e famiglie” chiarisce Marilena Pipitone, psicologo psicoterapeuta.

Il ruolo delle famiglie

E proprio sul ruolo delle famiglie si è incentrato l’intervento congiunto di Maria de La Luz Falcon, psicologa psicoterapeuta, e Antonino Leonardi, pedagogista, nell’esame del ruolo della rete come ambiente suscettibile di stimolare condotte autolesive e suicidarie.

Assistiamo oggi a forme nuove di bullismo, una violenza costituita da offese, parolacce e insulti, derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare, diffamazione, aggressioni fisiche, che viaggiano sul Web con maggiore incisività, seguendo l’adolescente al di fuori delle mura di casa o dell’aula scolastica. Alcuni segnali a cui le famiglie devono fare attenzione sono l’isolamento, il diminuito o mancato interesse per le relazioni interpersonali, rabbie immotivate, nello stesso tempo insegnando un uso consapevole del web, proteggendo la propria privacy e autoproteggendosi dai molestatori online, espressione di un buon livello comunicativo e sostegno reciproco che evita la ricerca nei social network del supporto emozionale”.

Il fenomeno del Blue Whale

All’interno delle difficoltà relazionali e degli stili di attaccamento si deve ricondurre il fenomeno del Blue Whale, tuttora fonte di dibattito scientifico, nell’analisi condotta dal Prof. Tullio Scrimali, Professore di Psicologia Clinica, Università di Catania, Fondatore e Direttore di ALETEIA, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia di Enna.

Il profilo del giocatore di Blue Whale sembra riconducibile a quello di chi ha esperito un attaccamento ansioso evitante, caratterizzato da bassa autostima, tendenza all’isolamento, con una dipendenza relazionale nei confronti di presunti leader. Ecco che le vittime di Blue Whale soccombono alla fascinazione di una subcultura basata sull’ideale di liberare se stessi dall’infelicità della vita, costruendo un senso positivo del suicidio, utilizzando autolesionismo e dolore come modulazione delle emozioni negative. Se a questi elementi si uniscono specifici aspetti legati alle neuroscienze indotti dal Blue Whale come la deprivazione del sonno e la sovrastimolazione sensoriale, un modello possibile di trattamento e prevenzione che mi sento di proporre si fonda su seguenti steps: rottura dell’isolamento e istituzione di relazioni e soprattutto della relazione terapeutica, ristoro al cervello con riposo e ristabilimento dei ritmi circadiani, miglioramento dell’autostima, committment”.

Sane relazioni sociali, insieme alla garanzia di dignitose condizioni di vita, la cui compromissione grava sul benessere personale e relazionale conducendo ad atti suicidari, come accade nelle forme di disperazione conseguenti alla perdita del lavoro.
Assistiamo sempre più spesso a suicidi collegati alla perdita del lavoro– conclude il ventaglio di contesti Letizia Puccio, psicologa psicoterapeuta – Una scelta dettata da un’intollerabile percezione di fallimento, di compromissione del benessere dei propri cari, come evento critico che mette in discussione le proprie certezze esistenziali, e che lo Stato deve fronteggiare con adeguate politiche di reinserimento lavorativo e di incremento dell’offerta di lavoro che restituiscano una dignità e una sicurezza che il lavoro assicura in termini materiali, ma anche di autostima e senso di utilità personale e sociale”.

Psicologia Buddhista e Terapia Cognitivo Comportamentale (2016) – Recensione

Psicologia buddhista: Un valido aiuto per i terapeuti CBT che si vogliono addentrare nell’origine delle terapie di terza ondata. Un manuale di circa 300 pagine ricco sia di evidenze empiriche e ricerche recenti, sia di filosofia e tradizione buddhista.

 

La psicologia buddhista

A partire dalla cultura degli anni ’60 e dall’espansione di Internet, le pratiche come lo yoga, la meditazione buddhista e le altre filosofie delle religioni orientali hanno pervaso la medicina occidentale e la cultura popolare.

A seguito di queste tendenze anche nella psicoterapia (soprattutto nell’ambito della CBT) è emersa una nuova linea e queste nuove terapie attingono ai metodi più efficaci e testati delle precedenti psicoterapie, espandendo così la tradizione cognitivo-comportamentale “attraverso l’elaborazione di una nuova comprensione della natura del pensare, del sentire e del fare.”

Il libro “Psicologia Buddhista e Terapia Cognitivo Comportamentale” è un libro sia teorico che “pratico” (nel senso che sono descritte numerose pratiche all’interno) che nasce con lo scopo, direi piuttosto riuscito, di avvicinare alcune delle terapie di terza ondata a tutto quello che è il background nel quale – alcune di queste terapie- affondano le proprie radici, ovvero la psicologia buddhista definibile sia come una tradizione di tecniche psicologiche sia come una filosofia applicata della mente la cui origine si colloca almeno 2600 anni fa, all’interno del Buddhismo (non nella sua accezione religiosa) con l’intento di aiutare le persone a liberarsi dalla sofferenza.

Le affinità tra la psicologia buddhista e le terapie di terza ondata del cognitivismo

Il punto di forza del testo è certamente la qualità scientifica con il quale è stato scritto e descritto. Si cita la più recente letteratura e soprattutto si parla un linguaggio da e per psicologi cognitivi riscoprendo una enorme affinità tra la più antica tradizione buddhista e la terapia cognitivo comportamentale. La mission del libro è sia quella di creare un ponte tra i due mondi sia quella di parlare in termini più scientifici possibili di impermanenza, accettazione, compassione, impegno e amorevolezza.

Salta agli occhi la tenacia con la quale gli autori hanno cercato di percorrere i binari delle differenze e analogie tra la psicologia buddhista e quella scientifica condividendo senza giri di parole il fine ultimo di entrambe che è la riduzione della sofferenza.

La Mindfulness di Kabat-Zinn (1991), l’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Hayes, 2004) e la CFT (Compassion Focused Therapy, Gilbert 2010) vengono raccontate dall’ottica degli insegnamenti della psicologia buddhista.
Strumenti sia teorici, che pratici vengono descritti per ritrovare parallelismi, similitudini e differenze tra le varie discipline fornendo un contesto più ampio per una maggiore e più profonda comprensione.

Il libro si articola in 8 capitoli; Il filo conduttore è la comprensione del terreno di mezzo tra psicologia buddhista e alcune terapie di terza ondata mediante esercizi e “pratiche” che consentono al lettore di fermarsi e di sperimentare in prima persona quello che è il nucleo delle discipline.
Piuttosto che descrivere la pratica buddhista ortodossa, il libro presenta i concetti, le meditazioni e gli esercizi che sono particolarmente rilevanti per l’integrazione tra la psicologia buddhista e la CBT.

Il primo capitolo parte dalle basi introduttive di quelle che sono le relazioni tra la psicologia buddhista e la CBT cominciando dal primo grande punto in comune che è la cura della sofferenza umana da una prospettiva il più “empirica” possibile. Sia la CBT che la psicologia buddhista invitano a coltivare la coscienza del momento focalizzandosi sull’esperienza, al fine di eliminare l’influenza delle convinzioni deliranti e delle emozioni distruttive (Dalai Lama, 1991; Kwee, Gergen & Koshikawa, 2006).”

Il capitolo secondo comincia a introdurre la terminologia buddhista parlando delle quattro nobili verità, del concetto di dharma e del processo grazie al quale Siddartha ha potuto raggiungere il cammino per la liberazione dalla sofferenza. Le nobili verità vengono tradotte nel linguaggio CBT in una modalità che non risulta in nessun modo forzata ma più che scorrevole e legittima con l’aiuto di alcuni dialoghi esemplificativi tra paziente e terapeuta e di una terminologia cara ai cognitivisti che si basa su meccanismi quali apprendimento ed evitamento.

Il capitolo terzo e quarto traducono le pagine precedenti in comportamenti nella veste di “intervento della Via di Mezzo” (un insegnamento buddhista che cerca di non portare mai eccessi nella vita, né in un senso né nell’altro, per nulla lontano dagli obiettivi della psicoterapia cognitiva): dalla retta parola, alla retta azione, alla retta sussistenza, al retto sforzo, alla retta presenza mentale, fino alla retta concentrazione; tutto è accompagnato da esercizi già noti e utilizzati nelle terapie e nelle pratiche come l’ACT, la CFT e la Mindfulness ma ben inseriti nel contesto più ampio nel quale vengono trattati.

Il capitolo quinto si occupa della Mindfulness in modo più originale, dalla prospettiva della psicologia buddhista che fa della mindfulness uno dei cardini centrali. Mindfulness che viene pensata come una forma di meditazione che aiuta a comprendere la vera natura dell’esistenza attraverso tre indicatori: l’impermanenza, il non-sè e la sofferenza.

Il sesto capitolo apre la strada al concetto di compassione che verrà sviscerato abbondantemente e da tutti i punti di vista nei capitoli seguenti che possono rappresentare un buon compendio della CFT; dalla formulazione del caso, alle basi teoriche agli esercizi pratici in integrazione alla pratica della mindfulness.

Viene dato spazio alla spiegazione sia di quelli che sono gli aspetti centrali della CFT, sia alla compassione dal punto di vista del Buddha e dei suoi insegnamenti, sia dalla più recente e rigogliosa prospettiva delle neuroscienze.

Ampio rilievo, nel capitolo ottavo, viene dato all’auto-compassione (Mind-Self-Compassion). Anche in questo caso pratiche come la meditazione di metta o l’esercizio del sé compassionevole vengono illustrate passo passo.

Il nono capitolo ha l’accattivante titolo “evidence based a supporto dell’intervento della Via di Mezzo” che pare mettere insieme sacro e profano e risulta, invece, essere un capitolo che riassume come i due linguaggi siano così simili anche in termini di prove d’efficacia.
Ad oggi non esiste una ricerca su un approccio globale alla CBT focalizzata sulla psicologia buddhista; tuttavia quest’analisi si propone come un compendio comparativo, piuttosto che dichiarativo, che risulta utile per tutti i professionisti che hanno a che fare con queste discipline.

L’ultimo capitolo mostra invece il versante che più allontana le discipline, ovvero come coniugare il concetto di illuminazione e di “mente illuminata”, in ottica buddhista, all’interno della CBT.
Si cerca di tirare le fila rispetto a tutto quello affrontato nel libro per fornire una visione “comune” tra la psicologia buddhista e la terapia cognitiva attraverso una formulazione del caso esemplificativa.

Gli autori del manuale sono Dennis Tirch, tra le altre cariche è direttore del CFT di New York (il che aiuta a comprendere l’ampio spazio dedicato alla compassione nel manuale), Laura R. Silberstein, direttore associato del CFT e Russel L. Kolts , professore a Washington e si occupa, nella ricerca e nella clinica, anch’egli di compassion therapy.

Identità sociali complesse e benessere: le correlazioni

L’ identità sociale complessa diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale.

 

Le differenziazioni e le diversificazioni sociali e culturali, presenti nella maggior parte delle società occidentali, hanno avuto origine dai processi di mobilità sociale interni, dai movimenti migratori fra nazioni differenti, dagli sviluppi della globalizzazione in ambito economico e commerciale. Il polimorfismo etnico e culturale ha modificato il costrutto di sé che ogni individuo ha, essendosi tale cognizione arricchita di parametri che nella eterogeneità hanno il loro paradigma fondante. Le differenti e polimorfe percezioni di sé, che gli individui sviluppano allorquando vivono in tali contesti sociali variegati, si ripercuotono sul costrutto di benessere individuale. In altri termini, il polimorfismo sociale connota in maniera differente gli archetipi del senso di benessere personale. Roccas e Brewer hanno elaborato il concetto di identità sociale complessa, un paradigma che accoglie la multietnicità e la multiculturalità delle identità degli uomini contemporanei. L’ identità sociale complessa diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale

Keywords: contesto sociale, identità sociale complessa, benessere individuale.

 

Le differenziazioni e le diversificazioni sociali e culturali, presenti nella maggior parte delle società occidentali, hanno avuto origine dai processi di mobilità sociale interni, dai movimenti migratori fra nazioni differenti, dagli sviluppi della globalizzazione in ambito economico e commerciale.

In virtù di questa evoluzione avvenuta negli ultimi tempi, il contesto sociale degli stati odierni è profondamente mutato, divenendo variegato e complesso. Tutto questo ha avuto i suoi riverberi sulle identità individuali. In altre parole, il polimorfismo etnico e culturale ha modificato il costrutto di sé che ogni individuo ha, essendosi tale cognizione arricchita di parametri che nella eterogeneità hanno il loro paradigma fondante (Crisp e Hewstone, 2006). In pratica, si sono create delle identità sociali multiformi, derivanti dalla commistione di differenti tipizzazioni identitarie e di categorie sociali un tempo non sovrapponibili (Crisp e al., 2001).

Le differenti e polimorfe percezioni di sé, che gli individui sviluppano allorquando vivono in tali contesti sociali variegati, si ripercuotono sul costrutto di benessere individuale. In altri termini, il polimorfismo sociale connota in maniera differente gli archetipi del senso di benessere personale (Cross e al., 2003).

Identità sociale e benessere psicologico: uno sguardo alla letteratura

Le ricerche fin qui svolte associano questa poliedrica identità sociale all’incremento di alcuni parametri, che contraddistinguono cognitivamente il senso di benessere. Nello specifico, un’ identità sociale multiforme incrementa l’equilibrio emotivo (Jetten e al., 2010), implementa la resilienza (Jones e Jetten, 2011), migliora la qualità della vita (Haslam e al., 2008) e potenzia la capacità di fronteggiare lo stress (Iyer e al., 2009).

Per spiegare queste positività, Jetten e al. (2012) hanno ipotizzato che l’appartenenza a più gruppi sociali determina un’implementazione delle interazioni sociali e questo probabilmente incrementa le risorse interiori dell’individuo. Condizione necessaria perché tutto questo si realizzi è la complementarietà dei vari gruppi sociali di appartenenza. In altri termini, se l’individuo fa parte di più gruppi sociali, questi devono essere sintonici fra di loro. Nel caso in cui ci sia distonia non si realizza la positività sopramenzionata (Brook e al., 2008).

L’ identità sociale complessa

Roccas e Brewer (2002) hanno elaborato il concetto di identità sociale complessa, un paradigma che accoglie la multietnicità e la multiculturalità delle identità degli uomini contemporanei. A livello ontogenetico, l’ identità sociale complessa origina dalle diverse categorie sociali a cui l’individuo sente di appartenere. In pratica, essa nasce dalla sovrapposizione di più categorie – tipologie identitarie (Schmid e Hewstone, 2011).

L’ identità sociale complessa può palesarsi attraverso due morfologie, ovvero una a bassa strutturazione ed un’altra ad alta strutturazione. La prima è costituita da un numero esiguo di categorie sociali, che appaiono comunque non organiche una con l’altra. A creare l’ identità sociale complessa ad alta strutturazione concorrono più categorie sociali, che appaiono ben amalgamate fra loro. Secondo questo paradigma concettuale, affinché l’ identità sociale complessa possa dare un senso di benessere individuale, le categorie sociali, in essa racchiuse, devono avere lo stesso peso. In altri termini, nessuna di esse deve essere predominante e soprattutto, secondo l’ipotesi di Brook e al. (2008), l’individuo deve avere la percezione che le categorie sociali che compongono la sua identità sociale complessa siano compatibili fra loro.

In una recente ricerca Sǿnderlud e  al. (2017) hanno voluto indagare le relazioni esistenti fra identità sociale complessa e il benessere percepito dall’individuo. Essi sono giunti alla conclusione che esiste una relazione diretta fra identità sociale complessa ad alta strutturazione e benessere percepito. Perché questo possa verificarsi, nessuna delle singole categorie sociali che compongono l’ identità sociale deve essere oggetto di stigma sociale.

In conclusione, l’ identità sociale complessa, che caratterizza gli individui delle società odierne, multietniche e multiculturali, diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale.

Intesa Sanpaolo ha provato a cambiare: sbagliando si impara

Dopo il successo riscosso online dal video con protagonista la direttrice di sportello di Intesa Sanpaolo Katia e il suo team – ad eccezion fatta dell’indisposto Fabio, divenuto temporaneo eroe del Caso – e dal video della filiale di Genova della stessa banca, urge una breve riflessione riguardo a queste iniziative, tanto care alla psicologia del lavoro, impiegate come strumento di team building e per offrire un’immagine nuova, migliore dell’azienda.

 

Faccio una premessa. Non sono uno psicologo del lavoro, né un business coach. Tuttavia, come parte della specie “psicologi”, mi sento chiamato in causa, poiché i destinatari ultimi di questi progetti sono esseri umani e quando subentra quell’ormai celebre gogna mediatica che fa star male la gente, è giusto offrire un supporto, ridimensionare l’accaduto, cercando anche di approfondire i motivi che muovono le aziende a sviluppare e applicare queste metodologie.

Guardando il primo video, all’inizio ho sperimentato le stesse sensazioni (credo) di molti: ero divertito, infastidito, disgustato, impressionato, sconfortato e poi triste. Triste.

Pareva quasi che il povero Fantozzi ci avesse azzeccato, anzi, come scritto da alcuni “che ci fosse andato leggero”. Alla mente affioravano pensieri automatici come “ma guarda te cosa gli tocca fare per uno stipendio” e “non vorrei essere nei loro panni”. Ma su questo pensiero ci arriveremo a breve. Dopo decadi passate ad applicare in maniera scriteriata metodologie e strategie dai parziali, per non dire opinabili, risultati come il Management by Objectives (MBO), la Programmazione Neuro Linguistica (PNL) e dopo la pubblicazione di splendidi libri, come quello di Michela Marzano che è “Estensione del dominio della manipolazione”, dovremmo avere sviluppato un occhio critico nei confronti di un certo modo di condurre gli affari e di relazionarsi alle risorse umane. Questo è ciò che pensavo. Una riflessione banale, viscerale, a carattere globale e dettata dal momento.

Nel frattempo il video di Katia & Co. dilagava e come un boomerang colpiva a ripetizione chi aveva preso parte a quella iniziativa. Poi venne pubblicato il secondo video, quello della filiale di Genova. E giù a ridere. Questi “addirittura” avevano vinto il premio, perché ne esisteva uno, per il miglior progetto.

Poi qualcosa è cambiato. Il secondo pensiero automatico di cui sopra si è fatto largo sempre più nella mia mente, si è consolidato, l’arousal normalizzato e sintonizzatomi emotivamente con i protagonisti del video, non potevo che provare sconforto. Oltre al faticoso lavoro svolto per recitare e registrare il video queste persone, da lì a poco, avrebbero dovuto fronteggiare sfottò provenienti da ogni dove.

Così mi sono tuffato nel web, per capire cosa l’Italia stava pensando di questi progetti e ho rintracciato degli articoli interessanti. Accanto ai portali affezionati al click bait e alle notizie flash, (r)esiste una parte del web che analizza le notizie e dove fioriscono i pensatori dai toni moderati.

Uno di questi mi è parso Enrico Sola, che firma un articolo su Il Post. In realtà, non condivido la maggior parte dei suoi punti, tuttavia celebro la sua ampiezza e la qualità dell’analisi. Sola, dà la colpa ai frame, alla forma, ovvero il concetto stesso di quel tipo di progetto portato avanti dalle aziende, risparmia invece gli attori e i loro contributi, che risultano maldestri ma in fondo perché non sinceramente sentiti e dettati dalla paura, magari, di perdere il posto di lavoro.

Non condivido. Penso che la frase che meglio riassume il mio pensiero è: “qualcuno sta provando a fare qualcosa”. Un esempio potrebbe essere cominciare ad implementare delle teorie di successo di alcuni business coach. Ora vi spiego.

I dati riguardo il valore sul mercato del coaching evidenziano un gap importante tra l’Italia e il resto del mondo: da noi è stimato per circa 25-30 milioni di euro, complessivamente nel mondo vale 3 miliardi. E’ chiaro che la presenza di questi servizi nelle nostre aziende è veramente rara, siamo dei neofiti in questo campo e ci vorrà del tempo (ma soprattutto molti tentativi) per implementare determinate strategie con efficacia.

Non è un mistero che la qualità di vita al lavoro dei dipendenti italiani non sia un granché. All’estero qualcuno se la passa meglio e forse è arrivato il momento di avvicinarsi ai case studies, di guardare con occhio curioso a quello che qualcuno già fa (e che funziona!) e, infine, provare a replicare le stesse tecniche, consapevoli che il contesto del Bel Paese è acerbo per queste iniziative, meno dinamico e ossessionato da temi ben diversi (ad es., contratto a tempo indeterminato) che la realizzazione di sé sul posto di lavoro.

 

Ma passiamo oltre i dati, torniamo al caso in questione, in tal modo forse riuscirò a spiegarmi.

Innanzitutto il video faceva parte di un progetto realizzato ad uso interno, non era pensato per diventare una campagna pubblicitaria. Insomma, l’ennesimo strumento per fare team-building, portato avanti con l’intenzione di valorizzare i legami tra le persone e il servizio offerto da un essere umano più che un’istituzione, conditio sine qua non per una buona performance (alla fine si arriva sempre qui).

Volete la prova che questi progetti hanno un impatto positivo sulle aziende e sui loro lavoratori ? Bene, vi presento Simon Sinek, business coach seguito da quasi un milione di persone solo su Facebook, autore di diversi libri, consulente presso Apple, Microsoft, il governo americano, e altri ancora.

Sinek parla del Golden Circle, fondamentalmente tre cerchi concentrici denominati – dall’interno verso l’esterno – WHY, HOW e WHAT, tre categorie fondanti la comunicazione, ma anche l’essenza stessa, di un’azienda. Riflettendo sulle teorie di Sinek, quello che emerge è una prospettiva nuova, dove le aziende sono intrinsecamente motivate ad ispirare i propri dipendenti e ad interessarsi a loro poiché validi membri in un gruppo, spiega di conseguenza perché i dipendenti rincorrano aziende simili. Il motivo di questa scelta, secondo questo autore, è che i dipendenti, i clienti e l’azienda stessa condividono lo stesso WHY (le credenze, i valori, gli obiettivi). I leaders (i.e., managers, responsabili) non manipolano i loro followers ma li ispirano, li formano, li guidano e cercano di farli realizzare. Il leader non gestisce il lavoro, gestisce le persone che a loro volta gestiscono il lavoro. C’è una bella differenza. Così facendo si sposta il focus attentivo sulle competenze relazionali, e non tecniche, del leader.

Capisco che questa sia una retorica lontana dalla forma mentis italiana, che alle volte ci fa venire il mal di pancia e la nausea. E’ altresì vero che queste metodologie ripagano, il dipendente e l’azienda. L’azienda cresce, le persone lavorano meglio e con più passione, sono più felici.

Certo. I video di Intesa Sanpaolo non raggiungono questi obiettivi. Sono tentativi abbastanza rozzi che portano a risultati imperfetti e magari nel tempo peggiorativi della Quality of Work Life dei dipendenti, i quali per ora, in fin dei conti, non sembrano così convinti di ciò che stanno facendo.

Tuttavia molte aziende italiane cercano di rinnovarsi e si avvicinano a nuove teorie riguardo alla gestione del personale, della comunicazione e tentano di definirsi in maniera diversa. Questo gli va riconosciuto. La domanda finale quindi è: rimaniamo ancorati all’idea che l’azienda è solo un posto dove dobbiamo recarci, fare il nostro lavoro e tornarcene a casa oppure, posto il problema dei logoranti ambienti di lavoro italiani, vogliamo sperimentare un nuovo modo di intendere il nostro posto di lavoro, i nostri colleghi, i nostri superiori, magari utile a farci sentire meglio? Cambiamento o status quo?

Ho letto con grande piacere lo stato della pagina Facebook di Intesa Sanpaolo del 6 ottobre che, tra le altre cose, affermava: “…Katia non è mai stata sola, in nessun momento di queste giornate, il nostro Consigliere Delegato Carlo Messina l’ha immediatamente sentita, le ha parlato, le ha comunicato la sua vicinanza e quella di tutta Intesa Sanpaolo…”. Poco dopo la pubblicazione dell’ormai celebre video, l’azienda ha reso noto che non ci sarebbero state né sospensioni né licenziamenti.

Non è forse questo che l’azienda vuole trasmettere ai suoi dipendenti? Non era questo l’obiettivo del progetto, ovvero costruire dei team, un clima dove si respiri sicurezza, protezione, partecipazione ad un gruppo che, all’occorrenza, ci tende la mano come i membri di una famiglia? Intesa Sanpaolo ha davvero dato prova del fatto che “ci mette il cuore” e tratta i suoi dipendenti con rispetto. Insomma, ricollegandoci alle idee di Sinek, mi sembra che il WHAT (i video) di Intesa Sanpaolo sia perfettamente coerente con il suo WHY, condizione posta come imprescindibile dall’autore per un’azienda affidabile, quindi meritevole di loyalty da parte dei suoi dipendenti.

Purtroppo, come tante volte accade, se si decontestualizza un progetto lo si fa subito apparire grottesco e meritevole quantomeno di una fragorosa risata e di una condivisione sui social, atta a schernire – ma sopratutto a prendere le distanze – da chi pensa e agisce in un certo modo.

Immaginate di decontestualizzare un discorso di un politico, la recita di un attore, una qualsiasi azione umana. Il risultato è lo stesso.

Penso che le motivazioni che muovano questi progetti siano lodevoli e la loro messa in pratica, anche quando tragicomica perché decontestualizzata o perché gli attori sono alle prime armi, debba godere dello stesso rispetto che riserviamo ad una coppia imbranata che muove i suoi primi passi in una pista da ballo. Alla fine ci stanno provando! Miglioreranno, ma la direzione è giusta.

Ripercorrendo la storia della psicologia è facile trovare strafalcioni e teorie strampalate. Ma il progresso implica tutto questo. Il coaching e la psicologia del lavoro si confrontano tutti i giorni con realtà complesse come le aziende, delle vere e proprie gestalt, dove entrano in gioco vissuti individuali e dinamiche relazionali, e mettono al loro servizio tutto il know-how che hanno, sono disposti a rivedere i loro metodi, rincorrendo non solo il profitto, ma anche il miglioramento della qualità degli ambienti.

In tutto questo, comprendo – più di quanto vorrei – la difficoltà ad impedirci il risolino spontaneo al primo approccio con questi materiali (video), ma obbligarci a riuscire in questo significa progredire come membri di una società, indirizzata al reciproco rispetto piuttosto che al bullismo digitale, strumento che infine persegue lo scopo di rinsaldare in maniera precaria la nostra identità (o ingigantire il nostro ego?) e a distinguerci da queste “pochezze”.

Alla fine, per citare il comico americano Louis C.K, Here’s what I think.

Non me ne vogliate.

 



https://www.youtube.com/watch?time_continue=8&v=4bfTMqiMugc

Eroina: la storia, gli effetti e le differenti tipologie della sostanza – Introduzione alla Psicologia

L’ eroina provoca, in coloro che la assumono regolarmente, diversi effetti tra i quali il più noto, e anche il più appetibile, è un senso di euforia, detto rush, che induce gli eroinomani alla costante ricerca della sostanza.  L’uso abituale della stessa provoca dipendenza e assuefazione. In caso di overdose, senza un immediato intervento medico, il rischio di morte è elevato.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ eroina, stupefacente estremamente potente, deriva dalla morfina, principale alcaloide estratto della pianta del papavero da oppio, Papaverum somniferum. L’ eroina, pertanto, è un oppiaceo, ovvero un derivato dell’oppio

L’ eroina provoca, in coloro che la assumono regolarmente, diversi effetti tra i quali il più noto, e anche il più appetibile, è un senso di euforia, detto rush, che induce gli eroinomani alla costante ricerca della sostanza. L’uso abituale della stessa provoca dipendenza e assuefazione. In caso di overdose, senza un immediato intervento medico, il rischio di morte è elevato.

Eroina: origine del nome

Il termine eroina deriva dalla parola tedesca “heroisch”, che significa “eroico”, “potente” o “valoroso”. Tale termine fu usato per definire questa sostanza riconosciuta come un analgesico più efficace della morfina. Chimicamente è definita diacetilmorfina o diamorfina. Nel gergo dei tossicodipendenti, l’ eroina è conosciuta anche con i termini di “skag” e”junk”.

Storia dell’ eroina

Nel 1874 in Germania, Alder Wright, ricercatore britannico, riuscì a sintetizzare chimicamente dall’oppio una nuova sostanza: l’ eroina. Questa scoperta, però, ebbe poco successo e per quasi un ventennio non se ne parlò più poiché alcuni farmacologi, dopo avere sperimentato la molecola sulla rana e sul coniglio, ne decretarono l’inutilità clinica e così la diacetilmorfina, o eroina, cadde nel dimenticatoio.

Il 21 agosto del 1897 il chimico della Bayer, Felix Hoffmann scoprì che il processo di acetilazione degli alcaloidi naturali poteva originare composti meno tossici e più attivi, ovvero nuove molecole, più costose e redditizie del prodotto originale. Il successo dell’ eroina, però, è legato anche al suo nome, Heroin, che suggerisce l’idea dell’invincibilità e della grandezza.

Inoltre, tra il 1899 e il 1905 vennero pubblicati 180 lavori clinici sull’ eroina che includevano almeno 10.000 pazienti. Nessuno, però, parlava di dipendenza iatrogena probabilmente perché l’ eroina era somministrata in piccole dosi. Dopo alcuni anni dalla sua introduzione sul mercato clinico l’ eroina fu usata per le patologie respiratorie, per l’angina pectoris, l’insufficienza miocardica, l’aneurisma aortico, la disfagia, il cancro dello stomaco, l’influenza, la sclerosi multipla, le malattie ginecologiche (tamponi impregnati di eroina), il parto, la ninfomania e la narcosi. Nel 1899 la Bayer esportava l’ eroina in ventitré paesi.

Fino al 1913 la produzione annuale era limitata ad una tonnellata. Nel 1921 il Congresso medico riconobbe la pericolosità delle droghe ed emanò il Dangerou0s Drugs Act (legge contro le droghe pericolose). Questa nuova legge rese illegali gli acquisti di droghe da banco (non richiedenti prescrizione medica). Oggi l’uso medico dell’ eroina è legalmente autorizzato solo in Inghilterra, Belgio, Canada, Irlanda, Malta e Svizzera.

Tipi di eroina

Esistono diversi tipi di eroina che si differenziano per la qualità, per il tipo di impurità che presentano e per le sostanze da taglio che sono state aggiunte durante o dopo la produzione. I tipi più comuni sono l’ eroina bianca e l’ eroina base (Brown sugar).

L’ eroina bianca è un cloridrato di diamorfina ed è prodotta in Birmania, Laos e Thailandia. È la più pura tra quelle esistenti nel mercato ed è chiamata anche eroina nº 4 perché richiede 4 processi di raffinazione contro i 3 dell’ eroina base (brown sugar). Il quarto processo, la trasforma in sale (cloridrato), la rende molto più pura e maggiormente solubile in acqua. Questa fase di produzione è molto delicata e pericolosa poiché avviene attraverso l’ausilio di eteri, soggetti a esplodere con facilità.

L’ eroina bianca, essendo un sale, brucia con maggiore facilità dell’ eroina base ed i suoi effetti sono quindi notevolmente smorzati se è fumata. Per la sua facile solubilità nell’acqua, non sono richiesti agenti chimici per scioglierla come acido citrico, acido ascorbico, limone o aceto. È invece necessario mischiarla con l’acqua e scaldarla per disperderne le impurità.

L’ eroina base è un alcaloide, è detta anche diamorfina base e brown sugar, è meno pura dell’ eroina bianca e viene prodotta principalmente in Iran, Pakistan, India, Nepal e, soprattutto, in Afghanistan. Essa è chiamata anche eroina nº 3 perché richiede 3 processi di raffinazione. L’ eroina base, che presenta un colore marrone, non è un sale come quella bianca, e di conseguenza non è facilmente solubile in acqua. A parità di quantità consumata, la bianca è molto più forte rispetto alla base, che invece brucia a temperature più basse e può essere fumata con minore dispersione. L’ eroina base è prodotta con maggiore facilità e non richiede tutti gli accorgimenti necessari per produrre la bianca.

Per le iniezioni, l’ eroina base non si scioglie facilmente e ha bisogno di essere scaldata insieme all’acqua per un lasso di tempo adeguato. Per diventare un sale e sciogliersi deve essere inoltre mischiata con un agente chimico come acido citrico, acido ascorbico, limone o aceto in quantità adeguate per non causare danni alle vene. I primi due sono più puri e procurano meno effetti collaterali, mentre limone e aceto spesso contengono batteri come la candida che possono procurare endocardite e endoftalmite. Per le sue caratteristiche è quindi più adatta ad essere fumata, un tipo di consumo molto diffuso nel mondo che riduce i pericoli di overdose. Per evitarne la dispersione, i fumatori la consumano pura mettendone una linea su una stagnola che è scaldata lentamente aspirando il fumo con una cannuccia o una banconota arrotolata.

Esistono anche altri tipi meno diffusi, come l’ eroina Rosa, proveniente dalla Malesia, nota come Penang PinK; la Cobret, forma di eroina tagliata con degli additivi che permettono alla sostanza di fondere se scaldata su di un foglio di alluminio con una fiamma, vaporizzare e poi inalata.

Modalità d’assunzione

L’ eroina può essere assunta in diversi modi:

  • iniettata
  • inalata o aspirata
  • fumata.

Il metodo d’assunzione più diffuso è l’iniezione, chiamata “buco” o “pera”. L’ eroina in polvere è fatta sciogliere in un cucchiaino d’acqua calda con l’aggiunta di un agente chimico. In seguito, il liquido è filtrato, per eliminare residui solidi, e iniettato per via endovenosa, o intramuscolare, con una siringa da insulina. L’ eroina può esser anche sniffata o fumata sotto forma di polvere, oppure bruciata su una lastra per inalarne i fumi. Queste modalità d’assunzione sono scelte per evitare i rischi di infezione legati alle iniezioni, ma anche nell’errata convinzione che conducano meno facilmente alla dipendenza dalla sostanza. In ogni caso, l’iniezione endovenosa produce maggior intensità e un rapido raggiungimento dell’euforia (da 7 a 8 secondi), mentre l’iniezione intramuscolare produce un inizio relativamente lento dell’euforia (da 5 a 8 minuti). Invece, se inalata o fumata, l’effetto più forte si ottiene generalmente fra i 10 e i 15 minuti.

Dosaggio

La quantità di una singola dose di eroina può variare molto in funzione di chi la assume; poiché questa droga genera da subito sia assuefazione che tolleranza, i consumatori sono portati ad aumentare gradualmente, e inevitabilmente, il dosaggio. Inizialmente una dose media è di circa 5-15 mg. I consumatori abituali arrivano ad assumere dosi di 100 mg due-tre volte al giorno, per un totale di 250-300 mg. Una dose di 100 mg per un consumatore non assuefatto può risultare fatale.

Sostanze da taglio

Bisogna sempre tenere in considerazione che l’ eroina venduta in strada contiene basse dosi di principio attivo perché è tagliata con diverse sostanze al fine di implementare il volume e quindi migliorare i guadagni. In base alle sostanze da taglio utilizzate è possibile individuare due tipi di eroina: la tipo 1 che contiene il 50-70% di eroina e il 50-30% di caffeina , la tipo 2 contiene il 50-70% di eroina, il 30-45% di caffeina e il 0.5-10% di stricnina. Spesso passando dal produttore al consumatore l’ eroina subisce diluizioni con sostanze diverse, tanto che le dosi vendute per strada contengono solo il 10 o il 20% di sostanza originale.

Gli effetti dell’eroina

L’eroina dopo aver attraversato la barriera ematoencefalica perde uno o entrambi i gruppi acetilici per deacetilazione trasformandosi in morfina o in 3-monoacetilmorfina se perde il gruppo in posizione 6 o in 6-monoacetilmorfina se perde il gruppo in posizione 3.

Gli effetti dell’ eroina si dividono in fasi e dipendono dalla modalità di assunzione della droga.

Le fasi, dunque, dall’assunzione della sostanza sono le seguenti:

  • Nel giro di qualche minuto si ottiene un’estasi pari quasi ad un orgasmo che si diffonde a tutta la muscolatura del corpo, si ha confusione mentale e generale, senso di calore frequente anche dopo l’effetto, sudorazione fredda, mancamenti, talora vomito e nausea, bradicardia, dispnea e analgesia.
  • Dopo circa 20 min i legami associativi sono più lenti, il pensiero rallenta e perde un senso logico; l’umore è euforico o disforico e le percezioni temporali sono largamente alterate: le ore sembrano minuti, i minuti secondi.
  • Dopo circa un’ora compare il picco massimo dell’effetto: la mente raggiunge una sensazione di pace, il corpo è anestetizzato da un incondizionato senso di piacere misto ad un’esaltazione interiore. Il consumatore tende ad isolarsi per godere a pieno questa sensazione e ogni tipo di problema tende ad essere dimenticato.

Invece, se è iniettata per via endovena, l’ eroina provoca un caratteristico flash euforico della durata di circa 30-60 secondi, dovuto al rapido superamento della barriera ematoencefalica e l’immediata saturazione dei recettori oppioidi.

L’Euforia o “rush” o “high” è uno dei motivi che rendono l’ eroina una sostanza che crea dipendenza. Il rush è simile all’orgasmo e dura da alcuni secondi a un minuto. Passato il rush iniziale, lo stato che segue è di semi-vigilanza. In questo stato si verifica un distacco dalla realtà (being on the nod), e un effetto sedativo sul sistema nervoso centrale, si sperimenta una sensazione di piacevole pesantezza, come se il corpo fosse avvolto nell’ovatta. La coordinazione e la concentrazione sono ridotte e l’eloquio è confuso e lento. Le funzioni mentali sono annebbiate per alcune ore dopo la dose. Si ottiene, dunque, uno stato di forte benessere, un’estrema tranquillità interiore o una profonda soddisfazione.

Effetti a breve termine

L’ eroina rallenta l’attività del sistema nervoso centrale, si ha: sonnolenza, respiro profondo e rallentato, diminuzione della pressione arteriosa e ridotta frequenza cardiaca. È inoltre probabile che si manifestino anche gli altri sintomi: miosi (restringimento delle pupille), xerostomia (secchezza delle fauci), soppressione del riflesso della tosse, nausea, vomito, sudorazione, prurito, ridotta libido.

Effetti a lungo termine

Gli effetti a lungo termine derivanti dall’ uso di eroina posso essere devastanti, soprattutto se si abusa della droga senza richiedere un aiuto. La dipendenza genera conseguenze fisiche, mentali e sociali. Nel lungo periodo l’ eroinomane sviluppa una pluralità di problemi fisici che comprendono: grave immunodeficienza, esposizione a tutti i tipi di malattie infettive (HIV/AIDS, TB, epatite B e C); disturbi epatici, respiratori e cardiaci; collasso venoso, gravi ascessi cutanei, trombosi venosa; stipsi cronica; irregolarità mestruale e infertilità nelle donne, impotenza negli uomini; malsane abitudini alimentari, perdita di peso; forti disturbi emotivi e cognitivi.

La Dipendenza fisica

L’ eroinomane sperimenta velocemente la dipendenza fisica, caratterizzata dall’aumento della tolleranza alla droga e la comparsa della sindrome da astinenza. La tolleranza è definita come una crescente necessità nel tempo di dosi più elevate di droga per ottenere l’effetto euforico desiderato. Questo significa che il fisico si abitua agli effetti dell’ eroina. Infine si giunge a un punto in cui l’effetto euforico scompare, ma il fisico si è abituato alla presenza della droga nel suo sistema e ne ha bisogno per poter funzionare normalmente. I sintomi da astinenza compaiono con l’interruzione della regolare somministrazione di eroina.

La dipendenza psicologica si manifesta, inceve, con pensieri ricorrenti (pensiero desiderante), desiderio costante di assumere la sostanza (craving) seguito da umore negativo. Il comportamento del paziente è spesso irrazionale, poiché volto solo al raggiungimento dello scopo, ovvero la sostanza. Questo comportamento scompare dopo aver assunto la sostanza e una volta finiti gli effetti il circolo vizioso ricompare.

Astinenza da Eroina

L’ astinenza da eroina può presentarsi quattro-sei ore dall’ultima dose, quando si inizia a sentire irritabilità e tensione poiché la quantità di droga diminuisce nell’organismo. L’astinenza fisica può durare fino a 12 giorni, con una media del picco di intensità al quarto giorno e un’attenuazione al nono. Nonostante non sia di norma pericolosa per la vita, è una condizione dolorosa e molto stressante, tale da rendere difficile per molti liberarsi dalla dipendenza.

I sintomi comuni da astinenza fisica comprendono: midriasi (dilatazione delle pupille), forte dolore muscolare, del rachide, delle gambe e delle articolazioni; nausea e vomito, crampi allo stomaco, dissenteria, brividi e pelle d’oca, sudorazione, rinorrea, lacrimazione oculare, sbadigli; estrema irrequietezza e insonnia. Gli spasmi muscolari agli arti inferiori inducono a scalciare. I movimenti scalcianti delle gambe sono un sintomo molto tipico dell’astinenza da oppiacei. I sintomi psicologici comprendono ansia, disforia, depressione, insopportabile craving di eroina. In una settimana, con l’attenuarsi della maggior parte dei sintomi da astinenza, il paziente sperimenta di solito debolezza residua e dolore emotivo caratterizzati da un senso di colpa e vergogna. I disturbi tipici sono: frequenti sbalzi di umore, irritabilità, disturbi del sonno, sudorazioni notturne. L’ astinenza mentale o emotiva dall’eroina dura poche settimane. La sofferenza emotiva è spesso talmente importante da essere considerata la causa più comune di ricaduta.

Segni in chi abusa di eroina

Le persone dipendenti dall’ eroina mostrano una serie di sintomi facilmente riconoscibili: senso di stanchezza persistente, ferite da iniezione, infezioni cutanee da iniezione, respiro affannoso, vomito, nausea, costrizione della pupilla, difficoltà nel parlare o nello scandire le parole, disorientamento, deficit di memoria, progressivo distacco dai familiari e dagli amici di più vecchia data, perdita di interesse verso il futuro, trascuratezza della propria igiene personale, trascuratezza della propria immagine e mancanza di disciplina.

Overdose e cause di morte

L’ overdose indica l’assunzione eccessiva di una determinata sostanza stupefacente.
Se non trattata in tempo, l’overdose da eroina è fatale. Nella maggior parte dei casi, la morte sopraggiunge per marcata depressione respiratoria che si manifesta con arresto del respiro e/o arresto cardiocircolatorio. Il trattamento previsto in caso di overdose da eroina consiste, di solito, nella somministrazione degli antagonisti oppioidi naloxone o naltrexone.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Una mente errante: il fenomeno del mind-wandering

Il mind-wandering riflette dunque la nostra tendenza e capacità a sganciare l’attenzione dalla percezione senza un’intenzione chiaramente definita; tale fenomeno è conosciuto in letteratura con il termine “disaccoppiamento percettivo” o “perceptual decoupling”.

Maria Giardina 

 

La mente errante e la tendenza a distrarsi

Dove vada la nostra mente, le ragioni della sua inarrestabilità e irrequietezza sono attualmente oggetto di studio e interesse delle più recenti ricerche scientifiche e dei più moderni approcci psicoterapici.

Sognare a occhi aperti, fantasticare, immaginare eventi futuri o rivivere momenti passati, parlare a se stessi o conversare con un “altro” immaginario sono solo alcuni esempi della ricchezza e dinamicità della nostra vita mentale. Una mente che vaga, definita dalla letteratura internazionale con termini quali mind-wandering, daydreaming, stimulus-indipendent thought,task-unrelated thought, zoning-out. Questi termini sottolineano la natura stessa del fenomeno: un evento comune e ordinario caratterizzato dalla tendenza a distrarci da ciò che si sta facendo e trascendere dalla realtà presente. Il focus attentivo si allontana dal qui e ora, dall’ambiente esterno circostante e da eventuali compiti a cui dovremmo, invece, dedicare e prestare attenzione (pensiamo ad esempio a quante volte la nostra mente vaga e si distrae durante momenti di studio o lavoro occupando se stessa con i temi e i contenuti più variegati).

Il mind-wandering riflette dunque la nostra tendenza e capacità a sganciare l’attenzione dalla percezione senza un’intenzione chiaramente definita; tale fenomeno è conosciuto in letteratura con il termine “disaccoppiamento percettivo” o “perceptual decoupling”. Nulla di strano o patologico ma, piuttosto, la vera essenza della mente e della coscienza umana: una coscienza dal contenuto perennemente mutevole, con un proprio ritmo ed una propria dinamicità. Una dinamicità oscillante tra un’attenzione diretta verso il mondo esterno circostante e un’attenzione auto-referenziale diretta verso il nostro mondo interiore. È questo ritmo oscillante che definisce e caratterizza la complessità e la ricchezza di ciò che siamo.

Conformemente alla nostra esperienza soggettiva, la letteratura sottolinea come il mind-wandering sia un fenomeno pressoché universale e occupi quasi la metà della nostra vita mentale durante lo stato di veglia. Nonostante la sua universalità e il suo carattere spontaneo e naturale, le ricerche evidenziano una serie consistente di effetti negativi che questa nostra tendenza eserciterebbe su di noi e sulle nostre capacità cognitive. Durante il mind-wandering le nostre risorse cognitive vengono utilizzate e assorbite dalla nostra stessa attività mentale, lontano dal mondo circostante e dalle richieste attentive del qui e ora.

I costi del mind-wandering

Molteplici sono i costi associati al mind-wandering studiati dalla letteratura. Difficoltà relative alla comprensione durante la lettura dovute a una codifica più superficiale del materiale scritto e delle informazioni in ingresso. Altri costi riguardano le difficoltà di attenzione sostenuta, ovvero la nostra capacità di sostenere e mantenere l’attenzione per periodi prolungati di tempo, necessaria per molti compiti di apprendimento quotidiano. Altri studi hanno mostrato come il mind-wandering abbia ripercussioni negative sulla nostra capacità di memoria di lavoro, un costrutto fortemente associato alle nostre stesse facoltà intellettive. Nonostante l’intelligenza sia comunemente considerata una misura stabile e immodificabile, studi recenti mostrano come training mentali volti a rafforzare le capacità di memoria di lavoro possano aumentare la nostra capacità di processare le informazioni, una capacità trasversale dunque che risulterebbe in un miglioramento delle performance a test di intelligenza fluida.

Inficiando dunque le capacità di attenzione, memoria di lavoro e apprendimento non sorprende che un’alta propensione al mind-wandering possa risultare in performance intellettive più scadenti. Gli effetti distruttivi del mind-wandering concernono non solo l’area più propriamente cognitiva ma influenzano negativamente anche le nostre emozioni; indipendentemente dal contenuto mentale (positivo o negativo), la nostra tendenza al mind-wandering ci porterebbe a essere meno felici. La relazione tra mind-wandering e abbassamento del tono dell’umore sembra essere forte e di tipo circolare: una mente vagante ci porta ad essere meno felici e, al contempo, un abbassamento del tono dell’umore conduce a una maggiore propensione a vagare con la mente. Questo fenomeno sembrerebbe essere responsabile di circoli viziosi alla base di una potenziale modificazione della vita mentale in senso psicopatologico, in particolare verso disturbi di tipo ansioso e/o depressivo.

Tra i diversi training mentali sviluppati nel corso degli anni, la mindfulness ha dimostrato di essere un valido strumento atto a potenziare capacità di attenzione e concentrazione, stabilizzando la mente e riducendo l’attività e gli effetti negativi del mind-wandering, tanto da essere soprannominata “l’antidoto” (Schooler et al., 2014).

Il valore funzione del mind-wandering

I quesiti che tuttavia sorgono spontanei in seguito alle considerazioni relative ai costi del mind-wandering sono i seguenti: il mind-wandering ha veramente in sé tale essenza distruttiva? Considerata la sua universalità e spontaneità avrà in sé del valore funzionale? Il nemico da contrastare sarebbe dunque la mente stessa?

In effetti, più recenti ricerche hanno messo in luce una mole sempre più consistente di evidenze che testimoniamo come il fenomeno del mind-wandering possa avere in sé proprietà positive, funzionali e adattive. Esso sembra essere legato alle nostre capacità di pianificazione futura, una pianificazione orientata ad un obiettivo ritenuto importante per gli scopi personali del soggetto. Gli studi suggeriscono come la tendenza a spaziare con la mente sia inoltre connessa con un aumento di creatività nell’individuo e con migliori prestazioni in compiti di problem-solving, in cui la soluzione non va ricercata tanto in procedure e strategie analitiche quanto piuttosto attraverso un insight creativo.

La nostra tendenza al zoning-out sembra inoltre fornire un altro vantaggio legato a una forma di “autostimolazione” che mettiamo in atto e che permette di alleviare il senso di noia che sperimentiamo durante l’esecuzione di compiti lunghi, meccanici o noiosi. Ciò è confermato dalla maggiore tendenza ad “assentarsi” con la mente proprio laddove il compito sia percepito come particolarmente tedioso; la possibilità di pensare ad altro, invece di “essere forzati” a rimanere nel qui e ora, lascia spesso alla persona la sensazione soggettiva che il tempo sia passato più velocemente. Un altro vantaggio del mind-wandering, strettamente legato al concetto di creatività, è quello di disabituazione, intesa come la tendenza a rispondere a un stimolo vecchio come se fosse nuovo; la propensione a distrarsi e vagare di tanto in tanto con la mente fornirebbe l’opportunità di ritornare sul compito con nuove e più produttive capacità attentive, “a mente fresca”.

Per ragioni simili, un metodo di studio basato sulla full-immersion o il cercare ostinatamente di risolvere un qualsivoglia problema o rompicapo senza concedersi momenti di pausa e distrazione non facilita né l’apprendimento né la risoluzione di un problema lasciando, invece, la sensazione soggettiva di essere “bloccati” sul compito e di non riuscire a procedere. Il mind-wandering, infine, potrebbe essere legato a una maggiore flessibilità dei nostri cicli attentivi fornendoci la possibilità di processare informazioni diverse (provenienti sia dall’ambiente esterno che interno: stimoli sensoriali, memorie passate, fantasie ecc.), muovendoci tra diversi flussi di pensiero e mantenendo un comportamento appropriato nel perseguimento di diversi scopi e obiettivi nello stesso momento.

Massimizzare i vantaggi e minimizzare i costi del mind-wandering

Considerati i costi e i benefici legati a questa nostra naturale ed inevitabile propensione a viaggiare con la mente, la domanda centrale diventa allora come massimizzare i vantaggi minimizzando i costi legati ad un’attività così potenzialmente dannosa e preziosa allo stesso tempo. La risposta potrebbe risiedere nel futuro sviluppo di training mentali che favoriscano una maggiore consapevolezza e, soprattutto, una modulazione del proprio stato e funzionamento mentale in base alla situazione e alle richieste ambientali: la capacità di mantenere il focus attentivo in momenti e situazioni richiedenti concentrazione, associata alla possibilità di spaziare e viaggiare con la mente laddove il contesto e il compito lo permettano e ne possano addirittura produttivamente beneficiare. Lo stesso programma mindfulness potrà forse un giorno rispondere a tale quesito e permettere il raggiungimento di questo prezioso equilibro.

Io non penso positivo. Come realizzare i tuoi desideri (2017) – Recensione

Il libro parte dall’assunto che il pensiero positivo, inteso come la convinzione che raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo prefissati, può risultare non efficace nell’aiutarci a tradurre in realtà i nostri desideri; questo perché il limitarsi a fantasticare sulle possibilità di riuscita rischia di abbassare il livello di motivazione, inducendoci a sottostimare gli ostacoli che si frappongono sulla nostra strada. Ci comportiamo come se avessimo già raggiunto la nostra meta, quando invece, nella realtà, dobbiamo ancora intraprendere il percorso che ci condurrà, auspicabilmente, al raggiungimento dell’obiettivo che stiamo perseguendo.

Io non penso positivo: una rilettura della psicologia positiva

Come messo in evidenza in altri articoli come, ad esempio, “Alla ricerca della felicità: adottare il pensiero positivo o percorrere la “via negativa”?” il pensiero positivo può non rappresentare la via maestra che conduce al soddisfacimento dei propri sogni.

La ricercatrice Gabriele Oettingen è stata allieva di Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva, il quale concepiva l’ottimismo come la fiducia o l’aspettativa verso il futuro che si basa su esperienze passate di successo.

L’autrice si è interrogata sull’effettiva utilità del pensiero positivo nell’aiutarci a perseguire i nostri obiettivi e a realizzare i nostri desideri; in questo testo confluiscono i risultati degli studi e delle ricerche effettuate su questo tema da lei e dai suoi collaboratori nell’arco di vent’anni.

Il titolo della traduzione italiana potrebbe indurre il lettore a pensare che il testo si ponga l’obiettivo di confutare l’efficacia del pensiero positivo; più che di una critica si tratta di una rilettura, come indicato dal titolo originale, “ripensare il pensiero positivo”.

Il libro parte dall’assunto che il pensiero positivo, inteso come la convinzione che raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo prefissati, può risultare non efficace nell’aiutarci a tradurre in realtà i nostri desideri; questo perché il limitarsi a fantasticare sulle possibilità di riuscita rischia di abbassare il livello di motivazione, inducendoci a sottostimare gli ostacoli che si frappongono sulla nostra strada. Ci comportiamo come se avessimo già raggiunto la nostra meta, quando invece, nella realtà, dobbiamo ancora intraprendere il percorso che ci condurrà, auspicabilmente, al raggiungimento dell’obiettivo che stiamo perseguendo. In altre parole, sia limitarsi a fantasticare sul raggiungimento dei propri sogni, che rimuginare su ciò che ci può precludere la loro realizzazione rappresentano due atteggiamenti antitetici accomunati, però, dal fatto che possono entrambi rivelarsi controproducenti.

Questo partendo dal presupposto che la società occidentale in cui viviamo ci mette di fronte alla necessità di fare un uso costruttivo della nostra libertà di azione: siamo chiamati ad “agire per conto nostro – di trovare in noi il modo per rimanere determinati, motivati, impegnati e connessi. Non c’è nessuno che, giorno dopo giorno, ci indichi cosa fare per stare meglio, per perseguire una carriera appagante o per costruire una famiglia. Nessuno ci supervisiona dando alle nostre vite un significato” (pag.12).

Ciò non significa che dobbiamo farci scoraggiare dagli ostacoli, quanto piuttosto che è importante abbinare, all’immaginare di raggiungere il nostro obiettivo e al ritenere che avremo successo nel nostro percorso di realizzazione, una disamina realistica delle azioni da compiere; il modo di procedere più costruttivo si identifica con il “mettere a fuoco le barriere che ci impediscono di realizzare i nostri sogni”, modalità che l’autrice denomina “metodo del contrasto mentale”; nel momento in cui mettiamo concretamente a fuoco gli ostacoli e individuiamo le strategie volte a superarli diventiamo più motivati rispetto al perseguimento dei nostri obiettivi e siamo indotti ad operare nel modo più efficace.
Gli ostacoli, se affrontati in questo modo, possono, invece che impedire, favorire, in ultima battuta, la concretizzazione degli obiettivi, perché rendono il nostro agire più lucido, coerente e mirato.

Si tratta di una modalità di procedere che vien applicata a vari ambiti del cambiamento personale. L’esposizione è scandita dalla descrizione di studi realizzati ad hoc per testare sul campo quali siano gli atteggiamenti e i conseguenti comportamenti più funzionali rispetto al raggiungere gli obiettivi più disparati (perdere peso, recuperare la forma fisica dopo un’operazione, conseguire voti migliori, incrementare la propria rete sociale, migliorare la propria posizione lavorativa, ecc.”).

Il metodo WOOP per conseguire i propri desideri

Partendo dal concetto di “contrasto mentale” l’autrice propone un metodo che chiama WOOP (acronimo di Wish –Desiderio, Outcome – Risultato, Obstacle – Ostacolo, Plan – Piano); il WOOP rappresenta una tecnica di facile attuazione che può essere applicata a desideri a breve e lungo termine e che si struttura in quattro passi: individuare in modo chiaro e operativo il desiderio che vogliamo raggiungere, chiarire qual è il risultato pratico che vogliamo ottenere (da cosa capiamo che il desiderio si è realizzato?), definire qual è il principale ostacolo che rappresenta una barriera tra il desiderio e la realtà, individuare un piano d’azione che ci permetta di superare l’ostacolo.

Nell’ultima parte del libro l’autrice presenta delle applicazioni del metodo WOOP a tre ambiti del cambiamento personale: prendersi cura della propria salute, coltivare relazioni migliori e migliorare le proprie prestazioni a scuola e al lavoro in modo da offrire una panoramica di come sia possibile tradurre sul piano operativo i risultati emersi dalle ricerche.

In ospedale un paziente su 5 è “cybercondriaco”

Quando paure e ansie dell’ipocondriaco vengono alimentate da continue ricerche online cui fanno seguito ripetute visite all’ospedale vi è cybercondria, che può migliorare con la psicoterapia cognitivo comportamentale.

 

In Gran Bretagna si assiste ad un fenomeno preoccupante, una particolare forma di ipocondria alimentata dal tripudio incontrollato di notizie sulla salute che si trovano online, e che contribuisce ad alimentare la paura e l’ansia di avere malattie di ogni genere. Secondo quanto evidenzia uno studio pubblicato recentemente (1), negli ospedali britannici, fino al 20% degli appuntamenti per effettuare scansioni del cuore o del cervello e altri test esplorativi, riguardano pazienti ipocondriaci che evidenziano una preoccupazione eccessiva (con ansia e stress) per la loro salute.

Lo studio sulla cybercondria

Lo studio ha coinvolto 444 persone reclutate nei reparti di cardiologia, endocrinologia, gastroenterologia, neurologia e malattie respiratorie in cinque ospedali generali in Inghilterra. I ricercatori, presentando i risultati della ricerca, spiegano che questa particolare categoria di ipocondriaci, dopo una media di sei sessioni di CBT, effettuate nell’arco di diversi mesi, hanno mostrato un significativo miglioramento dei livelli di ansia duraturo nel tempo (a cinque anni dalla terapia): coloro che avevano ricevuto la psicoterapia CBT, infatti, erano meno ansiosi per la loro salute rispetto a un gruppo di controllo che non aveva partecipato al programma di psicoterapia. La buona notizia quindi è che la psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) si è dimostrata efficace nel migliorare i sintomi della cybercondria, almeno secondo Peter Tyrer, professore di psichiatria di comunità che, insieme ai colleghi, ha condotto questo studio.

I sintomi della cybercondia

L’ansia per la propria salute è un problema comune, ma spesso non diagnosticato, caratterizzato da pazienti eccessivamente preoccupati di essere malati e timorosi di avere una grave o rara malattia non riconosciuta (2). I sintomi possono includere dolori al torace o mal di testa che persistono nonostante la rassicurazione del medico che non vi sia alcuna causa fisica di cui preoccuparsi. Gli esperti dicono che l’ansia per la salute rappresenta uno scarico significativo sui servizi sanitari e porta a inutili, invasivi e costosi test medici. I pazienti pagano visite ripetute al medico e ai servizi di emergenza e frequentemente ricercano molteplici opinioni consultando diversi medici specialisti. I ricercatori stimano che i costi annuali al servizio sanitario nazionale britannico di pazienti che si sono sottoposti a test e appuntamenti inutili potrebbero essere pari a 56 milioni di sterline (63 milioni di euro).

Un problema mondiale

Uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (3), condotto in cinque paesi e pubblicato nel 2016, ha riscontrato che il fenomeno dell’ansia per la propria salute, non è solo un problema tra ricchi, ma colpisce anche i pazienti e i servizi sanitari nei Paesi in via di sviluppo. “La maggior parte delle persone affette arrivano dai medici di base o dagli specialisti chiedendo aiuto alla ricerca di una diagnosi, quindi ignorando il coinvolgimento psichico di questa condizione“, ha dichiarato Peter Tyrer, professore di psichiatria delle comunità che ha co-condotto lo studio. “Abbiamo riscontrato che l’ansia per la salute era comune anche in chi soffriva di altre malattie fisiche, e così le persone tendono ad interpretare i sintomi minori come avvertimenti e riducono tutte le loro attività, creando ulteriori sofferenze e la loro vita precipita nel caos“, ha concluso.

 

Fuggire da sé: Una tentazione contemporanea di David Le Breton (2016) – Recensione

Nel dichiarare esplicitamente che il compito che il suo libro vuole assolvere, riguarda il dispiegarsi della complementarietà dell’indagine psicologica e dell’indagine sociologica quale presupposto per incrociare la trama affettiva con quella sociale, che a pari titolo impregnano di l’individuo e i significati che alimentano il suo rapporto con il mondo, Le Breton fornisce al lettore una chiave interpretativa per la comprensione della dimensione antropologica che la fuga da sé, quale tentazione contemporanea a cui poter cedere, ora per sottrarsi alla fatica di essere se stessi, ora per sfuggire alla difficoltà di essere se stessi, sottende.

 

Le Breton spiega la fuga da sè come tentazione contemporanea tra le prospettive psicologica e sociologica

Alla ricchezza dei riferimenti letterari che popolano il saggio e che Le Breton sembra utilizzare quasi a voler sottolineare come la fuga da sé, esplorata prevalentemente dalla prospettiva psicologica, sia da sempre presente, nella dimensione della sensibilità dell’animo umano, come una sorta di meccanismo di difesa che l’individuo attiva per accedere in uno spazio non univocamente definibile ma nel quale è possibile attenuare lo sforzo di esistere che rimanda alle difficoltà generate dal rapporto fra l’individuo e la realtà, fra l’Io e il mondo esterno, fa eco l’altrettanto ricchezza dell’interpretazione che le Breton offre del significato che la fuga da sé assume nell’attuale società contemporanea dove la vita, sottolinea l’autore, è probabilmente meno dura che in passato ma dove l’impresa di essere un individuo risulta per molti particolarmente gravosa.

In questa prospettiva, nel dichiarare esplicitamente che il compito che il suo libro vuole assolvere, riguarda il dispiegarsi della complementarietà dell’indagine psicologica e dell’indagine sociologica quale presupposto per incrociare la trama affettiva con quella sociale, che a pari titolo impregnano di sé l’individuo e i significati che alimentano il suo rapporto con il mondo, Le Breton fornisce al lettore una chiave interpretativa per la comprensione della dimensione antropologica che la fuga da sé, quale tentazione contemporanea a cui poter cedere, ora per sottrarsi alla fatica di essere se stessi, ora per sfuggire alla difficoltà di essere se stessi, sottende.

Connotando, quindi, gli aspetti psicologici e gli aspetti sociali quali elementi a partire dai quali è possibile esplorare l’intimità dell’individuo quando molla la presa senza per questo voler morire, o quando si inventa soluzioni per staccarsi temporaneamente o definitivamente da, Le Breton, fa emergere la rilevanza della dimensione antropologica che inerisce il profondo senso di inadeguatezza che pervade l’individuo che abita la società contemporanea quando, nel dover dimostrare di essere sempre all’altezza delle esigenze nei confronti di e nei confronti degli altri, fatica a mantenere un’identità stabile.

Nell’attuale società alla quale Zygmunt Bauman ha magistralmente attribuito l’accezione di liquida proprio per enfatizzare il modo attraverso il quale le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure, e che Le Breton descrive a sua volta come dominata dalla flessibilità, dall’urgenza, dalla velocità, dalla concorrenza, dall’efficienza e così via, il compito di essere un individuo è, infatti, arduo, in particolare quando si tratta di divenire se stessi .

L’incertezza del sè e la crisi dell’ identità nella società odierna

Così come per Bauman, di fatto, in questa società liquida, dove anche la vita è liquida nella misura in cui non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo, in materia di individualità non esistono scelte individuali in quanto ciascuno, dovendo seguire la stessa strategia di vita, deve essere incredibilmente uguale agli altri ovvero necessariamente capace di comporre, scomporre e ricomporre la propria identità, così per Le Breton la velocità, la natura liquida degli avvenimenti, la precarietà del lavoro, i molteplici spostamenti obbligano l’individuo ad un’incessante attività di costruzione di se stesso che mina la continuità e la consistenza di sé rendendo il senso di identità una mera questione di circostanze. E poiché, come esplicitato da Le Breton, ogni circostanza implica il farsi e il disfarsi dell’identità a seconda di chi o cosa l’individuo si trova davanti, ne consegue che ogni circostanza impone una costituzione identitaria di contesto che fa vacillare la continuità e la consistenza del, sia quando impatta con la dimensione sociale sia quando impatta con la sfera della riflessività della dimensione interiore.

Se da un lato, infatti, seguendo ancora le riflessioni di Le Breton, nella dimensione sociale l’individuo è obbligato ad assumere una serie di ruoli che implicano di cambiare costantemente il suo modo di rappresentarsi al mondo e dunque di cambiare costantemente il proprio personaggio; dall’altro, nella sfera della dimensione interiore che riguarda gli aspetti meramente psicologici dell’ Io della persona, inteso come riflessività sugli accadimenti, avviene che il numero infinito di ruoli racchiusi nell’individuo si contrae ed egli si trova imprigionato in se stesso, impantanato nella propria esistenza, incapace di riprodurre i propri diversi ruoli. In entrambi i casi, il senso di continuità e di consistenza del viene a mancare e, rendendo improbabile la conservazione di un’ identità stabile, spezza anche il legame con gli altri, costringendo l’individuo che non si riconosce più a ridefinirsi costantemente.

Nel dover costituire costantemente se stesso, seguendo le istanze che l’attuale società impone, l’individuo, dunque, si trova di fronte ad una moltitudine di possibilità per realizzare le quali, afferma le Breton, è necessario che disponga di risorse interiori adeguate, e in particolar modo di risorse simboliche, a cui attingere per mantenersi all’altezza, trovare sostegno alla propria autonomia e bastare a se stesso. E poco importa se, come pone in evidenza Le Breton, non tutti dispongono delle risorse necessarie per adeguarsi a queste contingenze, in quanto l’attuale ordinamento democratico in nome di quell’individualismo, di cui la nostra società è intrisa e che dovrebbe affrancare l’individuo da ogni autorità esterna rendendolo padrone di se stesso, è legittimato al non intervento.
Ciò implica che, nel doversi rendere autonomi, ognuno a proprio modo, gli individui, sono comunque chiamati a farsi carico di una libertà che non hanno scelto ma che è concessa loro da questo ordinamento democratico e ad assumersi, di conseguenza, la responsabilità di essere se stessi.
Responsabilità che, nella misura in cui nell’attuale configurazione della società contemporanea deve essere perseguita, quindi, senza più l’ appoggio di una cultura di classe e senza più il sostegno di un destino condiviso con altri, genera inquietudine e smarrimento e, rendendo la continuità del solo un’idea, ma indispensabile per riuscire a vivere, e mette in moto uno sforzo costante sia per preservare il proprio posto all’interno del legame sociale sia per mantenere il significato di essere se stessi.

Essere se stessi insomma, a dispetto del suono familiare come da citazione di Kaufmann riportata da Le Breton “altro non è che una sensazione, una convinzione necessaria, uno sforzo su di .”
Uno sforzo che, come sottolinea Le Breton, riguarda, quindi, la fatica non solo di continuare ad essere se stessi ma anche la difficoltà di far proprie le sfaccettature di volta in volta richieste dai ruoli che si succedono nella vita quotidiana.
Ed è allora proprio quando lo sforzo di continuare ad essere se stessi e quando la fatica di resistere alle costrizioni di costruirsi costantemente identità di contesto diventano insostenibili che il cedere alla tentazione di fuga da sé, può costituire, una soluzione per far fronte allo sfinimento di essere stessi; alla sensazione cioè di aver dato troppo e di aver esaurito, di conseguenza, le risorse per trasformare le cose, nel tentativo di continuare a reggere il cambiamento incessante dei diversi personaggi.
Incapace allora di continuare entro le costrizioni che il legame sociale impone e sfinito dalla gravosità che il compito di essere se stesso comporta, l’individuo rivendica il proprio diritto all’astensione, al silenzio, alla cancellazione, al ritiro. Scegliendo di conseguenza di voler esercitare questo diritto, l’individuo manifesta la volontà di rinunciare a se stesso e l’esigenza di vivere al riparo dalle intollerabili ambivalenze della realtà esterna. Fuggendo quindi dalla quotidianità, dalle sue maglie che lo rinserrano in ruoli difficili da abbandonare, ma pesanti da reggere per troppo tempo, l’individuo può scegliere di tuffarsi nell’interiorità o scegliere di abitare in un altrove fisico consentendo alla volontà di allentarsi e al di fluttuare rompendo la routine.

Questa volontà di allentarsi, che contiene la volontà di arrestare il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità sociale di dare sempre corpo ad un personaggio a seconda delle circostanze e degli interlocutori di volta in volta presenti, rappresenta ciò che Le Breton definisce biancore. Biancore che, configurandosi come quello stato di assenza, più, o meno intenso, quel prendere congedo da in ragione della difficoltà o della fatica di essere se stessi, è ciò che Le Breton connota come resistenza da opporre agli imperativi di costruirsi un’identità di contesto; come risposta che l’individuo dà alla sensazione di essere saturo. Il biancore è, dunque, un mettere tra parentesi – attraverso ciò che Husserl ha definito come riduzione fenomenologica, più comunemente conosciuta come epochè – qualsiasi elemento che l’individuo riconosce di aver importato dall’esterno; è un collocarsi fuori di per prendere fiato; un prendere congedo da , sostiene ancora le Breton, scegliendo la fuga non come atto ultimo disperato di rinuncia alla vita ma come tentativo piuttosto di continuare a vivere ma alleggeriti dello sforzo di esistere.
Il biancore può dunque configurarsi, sottolinea ancora Le Breton, come un rifugio più o meno prolungato, una posizione di attesa, mentre l’individuo cerca ancora la propria collocazione che gli sfugge di continuo.
Il biancore sopraggiunge, dunque, quando l’individuo perviene al punto di esaurire le risorse di cui dispone per la conservazione dell’identità che, in queste circostanze, non va da e che costituisce un problema nella misura in cui non gli si presenta più certa e non gli appare più come ovvia. In questi momenti, infatti, l’identità, costantemente strattonata in direzioni antitetiche, spinta com’è sotto il fuoco incrociato e costretta a procedere sotto la pressione di due forze contrapposte, si trova a dover scegliere, come posto in evidenza da Bauman, tra due possibilità: porsi al servizio del tentativo di emancipazione dell’individuo, oppure essere parte di una collettività sovraordinata alle idiosincrasie individuali.

In questi termini, seguendo ancora le riflessioni di Bauman, ogni identità rivendicata è insomma invischiata in un doppio legame da cui non può far altro che tentare di liberarsi. Ed è proprio nei termini di una forma di scelta radicale di libertà, che trova espressione nel rifiuto di collaborare tenendosi a distanza o sottraendosi alla componente più costrittiva di un’identità compressa entro il legame sociale, che Le Breton definisce la fuga da sé e il biancore, di conseguenza, come un distacco dall’identità, come un non luogo nell’ambito del quale vengono meno le costrizioni imposte dal mondo circostante per l’appunto, e in cui l’individuo sperimenta un momento paradossale, in cui ricrearsi, farsi vuoti attorno, spogliarsi di quanto è ormai troppo ingombrante, di tutti gli strati che costituiscono l’identità.

Tenuto conto di tutto ciò, è allora sul concetto di identità, che il saggio di Le Breton, ci invita a riflettere, in quanto, è il concetto di identità che, nel continuo interrogarsi di ogni individuo e delle nostre società, ad essere divenuto essenziale, proprio perché è l’identità che oggi entra in crisi e alimenta come riportato nel testo, dalla citazione di Gauchet “una radicale incertezza sulla continuità e la consistenza di ”.

Lontana allora dalla definizione che Ricoeur le ha attribuito descrivendola come un sorta di combinazione tra l’ipséité che presuppone coerenza e consistenza e la mêmetè che rimanda alla concettualizzazione della continuità, l’identità a cui poter fare riferimento per far fronte a tale radicale incertezza è forse quella di cui Nietzche ha scritto in -Al di là del bene e del male – intendendola come disponibilità ad indossare maschere per far propri e con meno fatica i diversi ruoli da rappresentare al fine di poter essere più armonici con le situazioni diversificate della vita ?

Come posto in evidenza da Le Breton, effettivamente, l’esistenza sociale è resa possibile soltanto grazie alla capacità dell’individuo di assumere una serie di ruoli diversi a seconda di dove o con chi si trova.

Allo stesso tempo però, seguendo ancora le riflessioni di Le Breton, nella misura in cui l’individuo incarna sulla scena sociale uno dei tanti personaggi che lo abitano, è costretto a lasciare tra parentesi tutti gli altri continuando ad avvertire, di conseguenza, l’obbligo di quella costrizione identitaria che la contingenza comporta e che rende, come già argomentato, l’identità una questione di circostanze.

Pertanto, l’identità da poter prendere in considerazione per dar consistenza e continuità al è allora forse quella da intendersi come quell’identità che assomiglia a quell’ Io che non sopprime le altre personalità latenti che abitano la nostra interiorità e che si fa egemone cercando ogni giorno di tenere a freno tutte le altre nostre identità latenti in modo da consentire, come ben argomentato da Galimberti, a noi di riconoscerci abbastanza identici a noi stessi e agli altri di riscontrare la nostra identità in modo da rendere possibili quei rapporti sui quali si fondano le relazioni sociali?

Anche questa definizione, in prima istanza, potrebbe essere avallata nella misura in cui rimanda, stando ancora alle riflessioni di Le Breton, a quel concetto di identità che può essere inteso come quel luogo di controllo di che contiene la riserva di significato che sostiene il rapporto con la realtà e che può configurarsi come quell’area che ospita i freni inibitori e di cui la psichiatria del primo novecento aveva ipotizzato l’esistenza e la psicoanalisi di Freud estesamente delineato.

Allo stesso tempo però, anche questa definizione porta con delle considerazioni che non possono essere taciute. Se infatti, le identità latenti non smettono di abitare l’individuo, nonostante l’egemonia presa in carico da una delle nostre identità che si esibisce come nostro Io, l’individuo rimane comunque sempre combattuto tra le diverse personalità che si agitano in lui e il peso dell’individuazione, generato mettendo in scena l’apparenza di una presenza entro la comune socialità, non elimina la fatica di sostenere le innumerevoli identificazioni che si ridefiniscono di continuo.

L’identità, allora, probabilmente, non può che essere pensata, come Le Breton asserisce, ben associata all’immagine di un diamante dalle molteplici sfaccettature, ciascuna delle quali ne offre una visione particolare rispetto alla quale l’identità non rivelandosi in nessuna ne costituisce comunque il riflesso.

Su ciascun riflesso, prosegue Le Breton, influisce il ruolo che ciascuno esercita sul senso di identità e che, come da citazione di James riportata da Le Breton implica, di conseguenza, che di fatto “un uomo ha tanti Io sociali quanti sono gli individui che lo conoscono e che portano l’immagine di lui nella mente e da ciò risulta quella che praticamente è la divisione dell’uomo in tante personalità diverse” tale per cui anche Pirandello poteva far dire alla sua Signora Ponza di – Cosi è se vi pare-: “io sono colei che mi si crede”.

In quest’ottica, si potrebbe allora forse approvare l’affermazione di Rhinehart, che Le Breton cita nel testo, secondo la quale poiché “ciascuno di noi ha centinaia di Io potenziali repressi, la personalità multipla è l’unica che può dare soddisfazione in una società multivalente” qual è l’attuale società contemporanea? A ben vedere, ci sarebbe il fenomeno dell’importanza attribuita, proprio nell’attuale società, all’autobiografia, come posto in evidenza da Le Breton, a sottolineare invece come nel raccontare di sia espressa la necessità di definirsi e come attraverso il racconto sia manifestata l’esigenza di porre in essere la ricostruzione dell’unità della propria esistenza, non secondo un impensabile obiettivo, quanto invece nella ricerca di senso e di coerenza.

Ne consegue che, pur nella consapevolezza della frammentazione di ciò che siamo in rapporto alle innumerevoli costrizioni della temporalità sociale, e dunque in rapporto alle circostanze e agli altri, come sostenuto da Le Breton, per esistere rimane indubbiamente indispensabile non abbandonare il convincimento, se non altro, di possedere un Io, un’identità, sebbene sia evidentemente impossibile definirne con esattezza i contorni e sebbene sia manifestamente difficile rispondere alla domanda “chi sono io?”

Stante ciò, se insomma l’identità che comunque fonda il nostro rapporto con il mondo non può essere evidentemente garantita e se la sensazione di essere un unico può essere conservata solo come una finzione personale che gli altri devono costantemente corroborare, l’individuo, sostiene Le Breton, deve allora rinascere di continuo per rimanere se stesso nel corso del tempo pur trasformandosi sotto il fuoco delle circostanze e, nel cambiare per rimanere se stesso, può fare dell’identità non la proiezione dell’identico a se stesso bensì il passaggio.

In questo passaggio, che Le Breton definisce come caratterizzato da tensioni contraddittorie e mutevoli, fra ciò che Freud evoca come tensione fra Eros e Thanatos, fa creazione e distruzione, entra in gioco la capacità di iniziativa dell’individuo di poter deliberatamente scegliere di perdere l’identità e di volerla allo stesso tempo recuperare da qualche parte ponendo in essere una diversa modalità di esistenza.

Ed è proprio per porre in essere una diversa modalità di esistenza che sono necessarie, afferma Le Breton, certe pratiche che consentono un momento di riposo, di pacificazione, di vacanza da e che rispondono all’esigenza di recuperare le forze, riprendere il fiato ed eventualmente rigenerare la voglia di vivere tramite un quotidiano ritiro in se stessi o una lunga parentesi, mirando in definitiva a ritrovarsi e a far sì che la scomparsa delle costrizioni legate all’identità si compia positivamente. E sono queste pratiche che, nel susseguirsi dei capitoli, Le Breton ha esplorato con lo scopo di far emergere le numerose modalità attraverso le quali si compie la fuga da sé che, declinata nelle sue accezioni più allusive che rispondono ora alla scomparsa di ora alla cancellazione di , si configurano come modalità attraverso le quali è possibile cedere alle molteplici tentazioni di disfarsi delle costrizioni di quell’identità affaticata e che comportano un passaggio, per l’appunto, per liberarsi del logorio di essere se stessi.

Un passaggio, nell’ambito del quale si compie il senso del cedere alla tentazione di fuggire da che implica, quindi, una spersonalizzazione deliberata volta da un lato a cancellare i vincoli che l’identità comporta nell’ambito del legame sociale, dall’altro, a ritrovare, attraverso la fase di sospensione e non di cancellazione di senso che il biancore consente, la propria vitalità e la propria interiorità. Questo passaggio si compie allora non con l’obiettivo di morire ma con lo scopo di non rimanere dove ci è stato assegnato il compito di essere noi stessi e di poter iniziare una nuova vita inaugurando una nuova modalità di esistenza, liberi cioè del peso eccessivo che il compito di essere se stessi, secondo quanto finora argomentato, comporta. Se questo passaggio riesce, nel senso quasi iniziatico del termine, afferma Le Breton, l’individuo mette mano alla propria metamorfosi. In questi termini la fuga da sé non è mai una fatalità, sottolinea Le Breton, in quanto se determinate circostanze l’hanno provocata, altre possono annullarla, consentendo all’individuo di tornare al mondo in una veste più propizia.

Consapevole dunque di ciò che fa anche nel momento in cui si disfa del , costretto dagli obblighi che il legame sociale impone, ma nei quali non sempre si riconosce, l’individuo, può ricominciare, senza dover rendere conto a nessuno proprio perché pone in essere una nuova modalità di esistenza nell’ambito della quale potrà rispondere soltanto alle informazioni che del nuovo darà ai nuovi interlocutori.

Seguendo questa linea interpretativa, attraverso la quale è possibile scorgere con chiarezza la compresenza della dimensione sociale e della dimensione psicologica quale prospettiva privilegiata che Le Breton ha scelto per scandagliare un’antropologia dei limiti nella pluralità dei mondi contemporanei, lo scopo di Le Breton di analizzarne la complementarietà può ritenersi non solo ben riuscito ma anche ben argomentato.

Nel declinare, le diverse modalità attraverso le quali è possibile dissociarsi dal vissuto del quotidiano intriso di incombenze che a vario titolo, sia la società sia il dispiegarsi della vita stessa dell’individuo impongono, Le Breton, attribuendo l’accezione di tentazione e per di più contemporanea alla locuzione fuggire da sé, è riuscito infatti a collocare in un’unica dimensione interpretativa la tentazione di sospendere il significato del termine vincolo, al quale il termine legame rimanda sia nel suo configurarsi come inevitabile relazione tra individuo e società sia nel suo configurarsi come imprescindibile rapporto tra l’Io e la sua travagliata dimensione interiore.

E sono proprio le difficoltà interiori, che si intessono con le difficoltà che il legame sociale comporta, che affiorano dalla lettura di ogni capitolo e dalla cui analisi emerge quanto e come le piste percorribili per cedere alla tentazione di fuggire da sé esibite, nel susseguirsi dei capitoli, come modalità attraverso le quali è possibile dar seguito alla volontà di eclissarsi, di spogliarsi, di sgravarsi di, quali forme di scomparsa di e di cancellazione di che il fuggire da sé acclude, siano battute dall’individuo per alleviare lo sforzo di essere se stesso, per superare, in definitiva, le difficoltà legate alla necessità di dare significato e valore all’esistenza, di riconoscere la relazione con gli altri, e di essere, di conseguenza, riconosciuto, di sentire che esiste un proprio posto all’interno del legame sociale e che ogni individuo porta con sè nell’ambito della singolarità della propria individualità nella quale, concordando con quanto afferma Le Breton, la trama affettiva e la trama sociale essendo costitutivamente legate a doppio filo si intrecciano costantemente.

Il convergere dunque di tutte le narrazioni di cui Le Breton si è servito per dar voce alle possibilità dell’individuo di liberarsi della propria identità, quando questa affatica, mostra l’attrazione che esercita il rovescio del legame sociale quando non sembra più necessario continuare a mantenere in vita il proprio personaggio e soprattutto quando l’individuo si rende consapevole del fatto che può optare per un’esistenza fuori dei sentieri battuti quando cioè realizza che è nelle sue capacità poter prendere sempre l’iniziativa, per inventare la propria vita, e scandire secondo le proprie esigenze il proprio ritmo di esistenza. Ed è con questa chiave di lettura che gli stratagemmi posti in essere dall’individuo per scivolare tra le maglie del tessuto sociale e rinascere altrove, in una versione diversa, e che sono stati esplorati nell’avvicendarsi delle pagine, possono essere compresi, concordando con quanto affermato da Le Breton, come esperienze che rivelano la mescolanza di forza e fragilità inerente il senso di sé e nel contempo anche la possibilità di disfarsi di quando prevale la necessità interiore per inventarsi sotto altre spoglie.

Conclusioni: uno sguardo al sè nel rapporto dinamico tra individuo e società

Colpisce per tanto del saggio di Le Breton lo sguardo al che percorre il testo. Uno sguardo che nel prendere in considerazione, esaminare, analizzare la possibilità insita in ogni individuo di liberarsi dalle costrizioni esterne ponendo in essere una forma di libertà interiore come espressione di capacità di iniziativa individuale, e non come forma di eccentricità o patologia, è uno sguardo che non appiattisce il significato del nella sola dimensione sociale dell’individuo ma costituisce un accesso a qualcos’altro che va oltre la correlazione strutturale tra l’individuo e la società.

Se verosimilmente è innegabile infatti la simbiosi tra l’individuo e la società, tra il particolare e l’universale, che è tale nella misura in cui ogni evento influenza altri eventi e l’individuo è da essi influenzato in un movimento bidirezionale e circolare, strutturalmente aperto e dinamico allora, l’individuale e il collettivo devono essere parimenti intesi come categorie interpretative del sociale che non può continuare a servirsi invece di un’ analisi interpretativa che segue la logica dei compartimenti stagni, ma necessita di una continua rimodulazione di strutture logiche in grado di individuare le innumerevoli variabili sottese ai molteplici e complessi eventi che caratterizzano l’esistenza di ogni individuo.

In altri termini, al fine di una possibile ermeneutica in grado di evidenziare la logica della concatenazione dei fattori che fungono da elementi fondativi delle stesse strutture esistenziali, e con lo scopo di non impoverire l’individuo nella sfera dei suoi interessi e ridurlo ad essere strumento del compito che la società lo chiama ad assolvere, le diverse prospettive, devono muovere dalla consapevolezza che non è possibile considerare l’uomo se non avvalendosi dei poteri e delle capacità che sono in suo possesso, ovvero considerarlo come una realtà a sé che seppur in costante rapporto con la realtà circostante in cui vive, rimane una realtà a sé irrisolvibile negli elementi sociali che si possono riconoscere in essa.

Ed è in questi termini che il saggio può ritenersi apprezzabile nella misura in cui Le Breton, con l’intenzione di analizzare una delle tentazioni più forti, quella di fuggire da sé, è riuscito a far emergere come le condizioni sociali sono sempre frammiste a quelle affettive e come ai fini di una comprensione antropologica della contemporaneità sia necessario, coniugare, per l’appunto, l’indagine psicologica che, a suo dire, da sola occulta spesso le radici sociali e culturali, con l’indagine sociologica che, ancora a suo dire, da sola invece trascura i dati affettivi poiché considera gli individui quali eterni adulti che non hanno mai avuto un’infanzia, né un’adolescenza né un inconscio e neppure difficoltà interiori.

I Disturbi d’ansia pediatrici: efficaci SSRI e terapia cognitivo-comportamentale

I disturbi d’ansia sono tra le più frequenti condizioni che si sviluppano in età pediatrica, infatti interessano circa il 32% dei giovani prima dell’età adulta e sono associati a un peggioramento del funzionamento di questi individui e questi disturbi possono persistere nell’età adulta e aggravarsi (1, 2).

 

I disturbi d’ansia in età pediatrica: l’efficacia dei farmaci e della terapia cognitivo comportamentale

Da una metanalisi pubblicata su Jama Pediatrics (3) emerge che gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) non solo sono trattamenti efficaci (da soli o in combinazione) nella riduzione dei sintomi di ansia nei bambini, ma sono anche ben tollerati e associati a eventi avversi per lo più non gravi. Mentre minori sono le evidenze di efficacia per gli inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina (SNRI).

Il primo autore della revisione Zhen Wang, del Mayo Clinic Evidence-Based Practice Center, di Rochester (USA), assieme ai colleghi ha selezionato 115 studi per un totale di 7.719 pazienti di età media 9 anni dei quali il 55% di sesso femminile. Gli autori scrivono che “Rispetto al placebo, gli SSRI hanno migliorato in modo significativo sia i sintomi di ansia sia il tasso di remissione, mentre gli SNRI hanno significativamente ridotto i disturbi d’ ansia primaria riferiti dal medico”, e sottolineano, viceversa, la scarsa efficacia di triciclici e benzodiazepine. Anche la terapia cognitivo-comportamentale ha migliorato i sintomi di ansia primaria e i tassi di risposta e remissione rispetto all’attesa o a nessun trattamento, ottenendo inoltre un effetto maggiore se associata alla sertralina (SSRI) rispetto a quest’ultima da sola.

E nell’editoriale di accompagnamento (4) Joan Rosenbaum Asarnow, del Dipartimento di psichiatria e scienze comportamentali dell’Università della California, Los Angeles (USA), scrive:

Questa metanalisi dimostra che per i disturbi d’ansia in età pediatrica ci sono trattamenti che funzionano, ma servono studi futuri per chiarire meglio come risolvere questa malattia frequente e capace di compromettere in modo significativo la qualità di vita dei pazienti. La nostra speranza è che nella prossima revisione sia possibile individuare non solo trattamenti ancora più efficaci e duraturi, ma anche nuove strategie mirate a integrarli nella pratica quotidiana, così da poter ulteriormente migliorare la salute mentale dei nostri figli”.

la Giornata Nazionale della Psicologia

Il 10 ottobre, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Salute Mentale, si è celebrata anche la Giornata Nazionale della Psicologia. In queste brevi note storiche ripercorreremo alcuni dei momenti che hanno caratterizzato lo sviluppo della psicologia in Italia, per arrivare poi all’offerta scientifica della psicologia per promuovere il benessere umano.

La psicologia in Italia nel novecento

Il Novecento doveva essere l’anno di decollo della Psicologia come il ‘600 è stato il secolo fondativo della Fisica, il ‘700 della Chimica, ‘ l’800 della Biologia. Lo è stato, ma solo in parte. In ogni caso la psicologia è una scienza giovane.

Il Novecento era cominciato bene per l’Italia, con il V Congresso Internazionale di Psicologia, che si tiene nel 1905 si tiene a Roma, sotto la presidenza di Giuseppe Sergi, e al quale partecipano molti illustri studiosi internazionali, tra cui anche William James da Harvard,  e tra gli italiani Vittorio Benussi (da Graz),  Federico Kiesow (uno scienziato polacco allievo di Wilhelm Wundt a Lipsia), Sante De Sanctis (medico e psichiatra). Sono gli anni in cui il baricentro culturale mondiale è in Europa, dove rimarrà fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Subito dopo, nel 1906, il ministro della pubblica istruzione assegna le prime tre cattedre in psicologia alle università di Torino, di Roma e di Napoli. Negli anni a seguire Vittorio Benussi va a Padova, Mario Ponzo a Roma, e Agostino Gemelli, fondatore dell’’Università Cattolica a Milano, istituisce la scuola di psicologia sperimentale.

Dopo questo buon inizio, purtroppo, cominciano i problemi per la psicologia. Durante il Ventennio,  infatti, complice anche la visione Gentiliana che vede la scienza in posizione ancillare rispeto alla filosofia, le cattedre di psicologia precedentemente istituite sono progressivamente soppresse. Rimangono solo quelle di Agostino Gemelli a Milano e di Mario Ponzo a Roma.

La psicologia sperimentale nel dopoguerra

Fortunatamente nel secondo dopoguerra rinasce l’interesse per la psicologia e particolarmente per la psicologia sperimentale. Sono istituite numerose nuove cattedre: nel 1951, a Palermo per Gastone Canziani, che durante l’amministrazione americana (1943-45) era stato insignito di una Am-Cattedra, alla quale egli rinuncia, considerandola giustamente una diminutio rispetto a un concorso vero e proprio.

A Firenze va Francesco De Sarlo, seguito dal suo allievo Enzo Bonaventura. A Torino Angiola Masucco Costa succede a Federico Kiesow. A Milano Cesare Musatti prima e Marcello Cesa Bianchi poi vanno in cattedra rispettivamente alla facoltà di lettere e filosofia e alla facoltà di medicina. Poco dopo Fabio Metelli va in cattedra a Padova e altre cattedre sono istituite in varie università italiane.

Nasce il Corso di Laurea in Psicologia

Nel 1971 sono istituiti i primi due corsi di Laurea in Psicologia a Roma e a Padova. Fino a quel momento la formazione in psicologia avveniva nel mondo medico o nel mondo della filosofia, con percorsi ad hoc, seguiti dalla frequenza di una scuola di specializzazione. È questo il percorso seguito dagli psicologi della mia generazione e da quelle precedenti. Per 15 anni la formazione in psicologia rimane monopolio delle Facoltà di Magistero di Padova e Roma, con conseguenze “bizzarre”, ad esempio 12 mila iscritti in ciascuna sede e oltre 1800 immatricolazioni per anno,  con la conseguente duplicazione triplicazione, quadruplicazione ecc. degli insegnamenti, particolarmente nei primi anni di corso.  Nel 1986 il Ministero autorizza l’apertura del corso di laurea di Palermo, alla cui fondazione chi scrive ha partecipato. Da quel momento, nel giro di pochi anni, molte altre università inseriscono nell’offerta didattica una laurea in psicologia.

La Società Italiana di Psicologia Scientifica – SIPs

Un ruolo da non dimenticare è stato svolto dalla Società Italiana di Psicologia, fondata a Torino nel 1911 e riformata nel 1960 con l’approvazione di un nuovo statuto che modificò denominazione e sigla: Società Italiana di Psicologia Scientifica (S.I.P.S.). Lo statuto prevedeva la costituzione di una consulta scientifico-didattica (soci ordinari accademici) e una consulta professionale (soci ordinari attivi nei vari settori professionali). Nel 1970, un comitato di soci ordinari si riunisce a Milano, presso l’Istituto di Psicologia della Facoltà Medica, con il compito di studiare forme di innovazione statutaria che rendessero la Società più aderente alla realtà culturale del Paese e alle articolazioni che in ambito scientifico e professionale caratterizzavano la psicologia italiana. Nel 1976 la sigla S.I.P.S. si trasforma in SIPs, in quanto l’aggettivazione (“Scientifica”) viene ritenuta implicita.

Con l’affermazione progressiva della professione psicologica, e in assenza di un Albo e di un Ordine degli Psicologi, che sarebbe stato istituito solo nel 1989, la SIPs ha svolto un’importante funzione di rappresentanza e difesa della professione psicologica. I congressi hanno spesso rappresentato momenti fondamentali nella vita degli psicologi italiani, come non ricordare il tempestoso  XVI Congresso a Bologna (31 ottobre-3 novembre 1975), che vede la contrapposizione tra i nuovi 2 corsi di laurea e la precedente formazione “blended”,  o quello successivo di Viareggio, il  XVII (29-31 ottobre 1977), nel corso del quale, mentore Virgilio Lazzeroni, sono state messe le basi per la fondazione della seconda associazioni italiana di terapia cognitivo-comportamentale, l’AIAMC, che Lazzeroni con il suo indimenticabile accento toscano prununciava “l’aiàmche”.

Altri congressi importanti sono stati il XVIII, tenutosi ad Acireale (29 ottobre-2 novembre 1979), quello di Urbino (22-26 settembre 1981) quello di Bergamo (7-12 settembre 1984) e quello di Venezia (28 settembre-3 ottobre 1987). Poi, anche grazie alla costituzione dell’Ordine e dell’Albo degli Psicologi, si è progressivamente spenta l’importanza e la funzione propulsiva della SIPS.
Il futuro si fonda sulla storia passata. Chi la ignora non può avere futuro. Chi cerca di negare o riscrivere, o anche solo rileggere il passato con gli occhi del presente compie un grave errore, nella politica come nella scienza. Però bisogna averla una visione di futuro, nella politica come nella scienza.

Che futuro ci può offrire la psicologia oggi?

La psicologia è fuori di dubbio una scienza debole per molti motivi. Innanzituto è frammentata al suo interno in molte visioni del mondo, in diverse metodologie di ricerca e conseguentemente in diversi modelli esplicativi. Se pensiamo sia una scienza naturale, come ogni altra scienza naturale dovrebbe esprimere ipotesi per una migliore comprensione del mondo, per quanto attiene all’oggetto di studio della sua disciplina. Questa comprensione deve essere sostenuta da evidenze, e queste evidenze devono essere al livello dell’evento da spiegare.

Uno dei tentativi per accentuare la debolezza della psicologia infatti consiste nel cercare spiegazioni ricorrendo a opzioni riduzionistiche, passando cioè dal livello della psicologia a quello della biologia (fisiologia, neurofisiologia, neurochimica, neurologia ecc.). Oltre a snaturare il core della disciplina, l’errore metodologico epistemologico di base è quello di confondere il termine spiegazione con quello di correlazione (Manzotti e Moderato,  2010). Non vi è dubbio infatti che ogni manifestazione o processo psicologico abbia un correlato o un mediatore interno di carattere biologico (fisiologico, neurochimico, neuronale), ma questi non sono la causa del processo (Manzotti e Moderato,2008). Sarebbe come dire che alla mattina andiamo a correre (chi lo fa) perché abbiamo i muscoli.

Come brillantemente spiegano Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà  (2009), “i neuroni non spiegano chi siamo”. Purtoppo, la moda di aggiungere il prefisso neuro a molte vecchie discipline, nel goffo  e ingenuo tentativo di renderle così più scientifiche, è ormai dilagante: neuro-estetica, neuro-marketing, neuro-filosofia, neuro-tutto. Di fatto, è un’espressione di debolezza e una dichiarazione di resa delle discipline medesime.

Nessun dubbio sull’importanza dello sviluppo delle neuroscienze, quelle serie, ma c’è anche molta neurofuffa. Del resto, accanto alla psicologia seria, c’è altrettanta, se non di più, psicofuffa.

Cosa può offrire la psicologia seria al nostro mondo contemporaneo

Innanzitutto la psicologia ha dato un contributo importante alla comprensione di come agiamo, di come pensiamo, di come ricordiamo, di come operiamo scelte tra alternative. A quindici anni dal Nobel per l’economia a Daniel Kahneman, nel 2002, un altro Premio Nobel si è avvicinato alla psicologia, grazie al Nobel assegnato a Richard Thaler per i suoi studi sulla la Behavioral Economics. Ne abbiamo parlato diffusamente su queste colonne ieri.

Per anni si è pensato all’uomo come essere razionale, che sa scegliere per il meglio, che solo in circostanze emotive particolari perde il controllo razionale. La ricerca sulle scelte in condizioni di incertezza portata avanti da Tversky e Kahneman ha dimostrato che in realtà questo controllo razionale è molto relativo, e che le deformazioni dei nostri processi mentali sono una costante. Siamo esseri razionali sì, ma a razionalità limitata. Sbagliamo in modo sistematico, e continuiamo a sbagliare anche se ne siamo consapevoli, siamo cioè pieni di distorsioni del giudizio (bias cognitivi), siamo guidati da euristiche, abilità acquisite dal cervello nel corso dell’evoluzione.

Le euristiche sono state utili per la sopravvivenza dell’uomo e utili lo sono tutt’ora, in quanto alleggeriscono la “fatica” del pensiero, nelle attività meno importanti e quotidiane: con il nostro corredo di euristiche, risparmiamo tempo e fatica nel prendere decisioni semplici o nel crearci un’opinione immediata delle situazioni nelle quali ci troviamo.

La comprensione dei nostri bias ha portato allo sviluppo di procedure per contrastare gli errori in molti campi. Dagli errori clinici in sala operatoria o nella guida di un aereo, alle procedure per favorire comportamenti sani e salutari, ad esempio nella dieta. Sono state create in molti paesi delle Behavior insight Units, o Nudge units, dal titolo omonimo del fortunato saggio di R. Thales e C. Sunstein. Sfortunatamente il nostro paese è rimasto fermo in questa politica, ma forse ora, grazie al Nobel a Thaler possiamo sperare che finalmente anche da noi si muova qualcosa, magari creando una Nudge unit finalizzata alla semplificazione.

Le behavior insight units funzionano, dati alla mano, e fanno risparmiare tempo e denaro. Sono tanti i campi in cui si possono applicare i princìpi del nudge, come l’architettura delle scelte. Prendiamo il tema delle vaccinazioni, un tema caldissimo dopo la recente notizia di un caso di tetano in un bambino, mai visto prima dicono i medici dell’ospedale dov’è ricoverato. Sacrosanto il ripristino dell’obbligo vaccinale, in vigore nella maggior parte dei paesi, ma serve anche una strategia di scoraggiamento degli antivax, che certamente non possono, per definizione, essere convinti col ragionamento, altrimenti non sarebbero antivax. Le strategie ci sono, e sono basate sui principi della behavior economics.

Un altro contributo importante, grazie alla conoscenza dei nostri processi di apprendimento, ragionamento e memoria, la psicologia lo offre come metodologie di insegnamento speciale ai soggetti “eccezionali”, cioè quei bambini che si discostano dalla famosa curva di normalità distributiva di Gauss. Ormai esistono efficaci metodologie di insegnamento e trattamento per i soggetti con dislessia, con disturbi dell’apprendimento, con deficit di attenzione e iperattività, con ritardi evolutivi e intellettivi, e anche con autismo. Ne abbiamo parlato su questo magazine in un articolo precedente sull’ABA, l’analisi comportamentale applicata.

Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario dell’introduzione della legge 517 del 1977, voluta dalla Ministra Falcucci, che ha consentito un progressivo processo di inclusione scolastica sociale per soggetti che ne sono stati a lungo esclusi. Al di là del valore simbolico e valoriale di questo processo, anche la dimensione quantitativa è importante: i numeri lo dimostrano, i soggetti con bisogni educativi speciali sono davvero molti.

Gli stessi principi psicologici sono alla base delle pratiche parentali ed educative con soggetti che stanno, talvolta a fatica, dentro l’area di normalità della distribuzione gaussiana. Tony Biglan, nel suo bel saggio dal titolo The Nurture Effect, spiega come un contesto “nutriente”, che favorisca la  prosocialità, sia il miglior antidoto allo sviluppo di comportamenti aggressivi e distruttivi, di ansia e depressione, e di tutte quelle manifestazioni che prosperano in ambienti educativi e sociali tossici.

L’offerta della psicologia è ricca e sostenuta da evidenze. Non abbiamo trattato deliberatamente in questo articolo l’offerta specificamente psicoterapeutica, sia perché ha appunto una sua specificità, sia perché abbiamo preferito indirizzare l’attenzione su temi di psicologia che troppo spesso gli psicologi, attratti dalla clinica, trascurano. Poiché il vuoto non esiste, ciò che viene lasciato scoperto è subito occupato da altri. Concludo, quindi, queste note nella giornata della psicologia, con l’invito a difendere i nostri spazi culturali e professionali.

Rischio psicosi ed esordio psicotico: stato dell’arte e review delle nuove concettualizzazioni cliniche e diagnostiche relative agli stati mentali high risk

Esistono svariate ricerche sull’esordio ed il decorso delle psicosi, le quali hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico. Ciò ha portato allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento dell’ esordio psicotico ed intervento, focalizzati sulla fasi prodromiche del disturbo.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Le Psicosi

I disturbi psicotici, inclusa la Schizofrenia, sono attualmente ritenuti tra i disturbi mentali maggiormente invalidanti, a causa degli importanti effetti sul paziente (ripercussioni nei vari ambiti di vita) e i suoi familiari. Essi hanno generalmente un esito negativo che porta alla cronicità.

Il decorso dei disturbi psicotici è generalmente influenzato da una serie di variabili, oltre che dalla gravità ed intensità dei sintomi, quali ad esempio le competenze sociali e cognitive, la presenza di una rete sociale e familiare, l’istruzione, i vari fattori e stress ambientali, la salute fisica, oltre che variabili socioculturali tra le quali si annoverano lo stigma e la discriminazione (Davi, 2014).

Durante gli anni ’90 sono state svolte una serie di ricerche sull’ esordio psicotico ed il decorso delle psicosi, le quali hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico, la cui presenza in ragazzi giovani determina uno Stato Mentale a Rischio (ARMS – At Risk Mental State) ( McGorry & Singh, 1995;  Yung et al, 1996). Tale mole di ricerche ed evidenze scientifiche ha portato dunque allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento ed intervento, focalizzati sulla fasi prodromiche del disturbo, questi approcci vengono quindi definiti sotto il nome di Interventi Precoci (Early Intervention).

L’ esordio psicotico

L’ esordio psicotico avviene in genere prima dei 30 anni, l’insorgenza in età adolescenziale, con esordio prima dei 18 anni, è stimata del 18% (Davi, 2014).

Nonostante si presenti come un evento apparentemente improvviso, l’ esordio psicotico è in realtà preceduto da fasi prodromiche, che si protraggono per mesi e a volte anni, durante i quali avvengono una serie di cambiamenti e anomalie psicologiche e comportamentali (Larson et al, 2010). Durante questo periodo, che secondo alcune ricerche può durare in media 5 anni (Heiden &Hafner, 2000), possono occorrere disturbi emotivi, cognitivi, percettivi, modificazione psicofisiologiche e comportamentali, calo della motivazione e del funzionamento nelle diverse aree di vita.

Molti dei ragazzi che arrivano all’attenzione medica in fase acuta mostrano da tempo una serie di sintomi e segni che vengono usualmente sottovalutati dal contesto nel quale sono inseriti e dagli operatori e servizi sanitari (Coen & Strina, 2016). Questo periodo in cui si manifestano i primi sintomi senza essere adeguatamente trattati è definito DUP (Duration of Untreated Psychosis), la sua durata è un ulteriore variabile attiva nella prognosi del disturbo, in particolare per quanto riguarda la remissione dei sintomi positivi (Norman, Lewis & Marshall, 2005).

Con il termine DUP, nello specifico, si intende il lasso di tempo che intercorre dall’esordio dei primi sintomi psicotici, all’inizio di un trattamento. Gli effetti benefici della riduzione della DUP nei ragazzi con esordio psicotico, mostrati ampiamente in letteratura, hanno motivato la sempre maggior implementazione di servizi specifici dedicati agli interventi precoci in vari paesi europei e del resto del mondo, in particolare Australia, Stati Uniti e Canada (Marshall et al, 2005).

I Prodromi

Le fasi prodromiche dei disturbi psicotici sono caratterizzate da una sintomatologia ad andamento fluttuante, con periodi apparentemente più critici che, nelle prime fasi, vanno rapidamente in remissione. Nelle ultime fasi la sintomatologia aumenta rapidamente in gravità e frequenza, il funzionamento e rendimento calano notevolmente nelle aree sociali, scolastiche, lavorative, familiari, relazionali. Può esserci un marcato ritiro e un peggioramento sul piano cognitivo, fino al primo franco episodio psicotico, evento di rottura la cui remissione è più complessa e con impatti traumatici sui giovani.

I primi sintomi prodromici riguardano periodi di oscillazione dello stato emotivo, stati ansiosi e depressivi, insicurezza, senso di confusione, irritabilità e diffidenza. Possono presentarsi successivamente tutti quei sintomi definiti come “negativi” (ritiro sociale, calo dell’energia e della motivazione, rallentamento) e positivi (inizialmente dispercezioni, fino a franchi deliri ed allucinazioni).

Sono presenti dalle prime fasi, turbe e alterazioni comportamentali legate solitamente all’isolamento, all’irritabilità, sospettosità, diffidenza, fino alla paranoia e all’aggressività, possibili stereotipie e comportamenti bizzarri.

Il progressivo ritiro ed isolamento sociale in questi casi è strettamente legato a questa sintomatologia, e risente tutt’oggi degli effetti dello stigma e della discriminazione.

Sono inoltre presenti alterazioni e disturbi fisiologici e psicosomatici, in particolare cambiamenti nel sonno e nell’alimentazione.

Vi è infine un progressivo intaccamento delle funzioni cognitive, con riduzione delle capacità mnestiche ed attentive e difficoltà a concentrarsi già dalle prime fasi del disturbo.

La riduzione del funzionamento è presente sia nelle fasi precedenti l’ esordio psicotico sia, in misura maggiore, dopo. Esso è inoltre tra i maggiori predittori di prognosi negative, inclusa la transizione alla psicosi stessa (Schultze-Lutter F. et al, 2015)

Come già detto sopra, nonostante tale vasta sintomatologia, non sempre i pazienti e i familiari, così come tutta la rete sociale che li circonda (es. insegnanti, amici ecc.) inclusi i professionisti sanitari con cui entrano in contatto, sono in grado di cogliere lo stato di rischio, con una diffusa tendenza a sottovalutare l’importanza di tali episodi, prolungando la DUP e influendo negativamente sul decorso e la prognosi del disturbo.

Gli Stati Mentali a Rischio

Entrando nello specifico della terminologia clinica e scientifica, con il termine At Risk Mental State (ARMS), si intende una condizione di rischio per lo stato e la salute psicologica di giovani ragazzi, usualmente dai 14 ai 30 anni, che sperimentano alterazioni percettive, dell’umore e del comportamento, che potrebbero rappresentare i primi e precoci segni di disturbi psicotici.

Attorno agli ARMS ruotano una serie di terminologie, implicate nella concettualizzazione delle condizioni a rischio di esordio psicotico, definendo diverse manifestazioni sintomatiche specifiche e aspecifiche potenzialmente predittive di una transizione. Uno degli scopi del presente lavoro è di fare chiarezza su tali nuove terminologie.

L’intervento precoce e tempestivo in queste condizioni di rischio può avere effetti positivi sul decorso stesso della patologia, ritardando o prevenendo il primo episodio psicotico (FEP – First Episode Psychosis).

Nella concettualizzazione degli stati mentali a rischio psicosi, il fattore temporale è molto rilevante, motivo per cui è importante osservare e monitorare le modificazioni e le alterazioni psicologiche e comportamentali occorse nell’arco degli ultimi mesi e settimane, così come tracciare i primi segnali indietro negli anni.

È importante inoltre tenere in considerazione la riduzione del funzionamento e del benessere nelle principali aree di vita (difficoltà relazionali, ritiro scolastico ecc.) e tutti i fattori di stress psicosociali occorsi di recente.

Gli ARMS poggiano sul concetto di vulnerabilità biologica, genetica e psicosociale. In particolare familiarità con pazienti con psicosi o affetti da altri disturbi mentali, sono considerati come tra i maggiori fattori di rischio per tali patologie.

Ulteriori fattori di rischio ricadono nella presenza nella storia del paziente di periodi caratterizzati da altri sintomi non necessariamente psicotici (episodi depressivi, attacchi di panico, disturbi d’ansia, episodi dissociativi, tratti ossessivi ecc.).

Viene inoltre riconosciuta l’importanza di altri fattori ed eventi che possono presentarsi nel corso di vita, aumentando il rischio di un esordio psicotico, come ad esempio le scarse condizioni socioeconomiche, l’assenza di una rete familiare, l’emarginazione sociale (dovuta ad esempio all’appartenenza a minoranze etniche o religiose), vivere in determinati contesti demografici, influenze sociali, storie personali di traumi, abusi, neglect, importanti eventi e cambi nella vita (lutti, trasferimenti, fine di una relazione, perdita del lavoro) che possono fungere da fattore slatentizzante. È importante infine considerare l’uso pregresso ed attuale di alcool e sostanze.

Se gli ARMS definiscono una condizione di rischio generale, considerando fattori potenzialmente predisponenti e scatenanti, è possibile distinguere e definire nello specifico le manifestazioni sintomatiche più predittive delle psicosi.

Questo lavoro è stato svolto in particolare in Australia da McGorry e Yung, i quali hanno inizialmente definito tale condizione prodromica come Clinical High Risk (CHR), elencando in seguito i criteri diagnostici specifici legati a sintomi psicotici transitori e attenuati per definire gli Ultra High Risk (UHR), ( Yung, McGorry et al, 1996; Yung, McGorry 1996).

Parallelamente in Europa, sono stati individuati una serie di Sintomi di Base, Basic Symptoms (BS), (Schultze-Lutter et al, 2012) che possono essere affiancati ai criteri UHR per definire gli stati a rischio di esordio psicotico.

Tale concettualizzazione sembra essere adatta a differenziare nella fase prodromica, gli stati a rischio precoci e tardivi. Nelle prime fasi prodromiche prevarrebbero i BS e il deterioramento del funzionamento, mentre le ultime fasi, più prossime alla transizione alla psicosi, sarebbero caratterizzate dai sintomi UHR (Fusar Poli et al, 2013).

Gli Ultra High Risk

I criteri diagnostici degli UHR sono stati dunque sviluppati per valutare tale stato di rischio in ragazzi tra i 14 e i 30 anni, e includono la presenza di sintomi psicotici attenuati (APS – Attenuated Psychosis Syndome); sintomi psicotici brevi e transitori (BLIPS – Brief Limited Intermittent Psychotic Symptoms); il rischio genetico e il declino del funzionamento (Schultze-Lutter F. et al, 2015; Raballo et al, 2016, Yung, McGorry 1996).

L’APS è stata recentemente inserita nel DSM – 5, nella sezione III relativa agli sviluppi futuri. Essa include la presenza di almeno un sintomo tra deliri, allucinazioni ed eloquio disorganizzato, presenti in forma lieve e attenuata, ma di gravità o frequenza clinicamente rilevante. Tale sintomatologia deve essere stata presente nell’ultimo mese e deve aver avuto inizio o essere peggiorata nell’ultimo anno, causando stress e deterioramento funzionale nel paziente (APA, 2013)

I BLIPS consistono in sintomi psicotici comparsi nell’ultimo anno la cui presenza non è costante, caratterizzati da durata breve e remissione spontanea. Tra essi vi sono idee di riferimento, pensiero magico, disturbi della percezione, ideazione paranoide, eloquio bizzarro (Yung et al, 2013).

Al di là degli specifici criteri diagnostici, il quadro clinico di ragazzi CHR è delicato e minato da altre condizioni cliniche frequentemente associate a questi stati, il che porta tali ragazzi a chiedere aiuto e rivolgersi ai servizi di salute mentale per altre problematiche, come l’ansia, la depressione e l’uso di sostanze. (Fusar Poli et al, 2013). Oltre ai sintomi positivi, quali APS E BLIPS, è importante tenere conto dei primi e velati sintomi negativi, come il ritiro sociale, le difficoltà scolastiche o lavorative, il deterioramento dei rapporti e delle relazioni interpersonali, il progressivo peggioramento della qualità della vita (Bechdolf et al 2005).

Infine, ragazzi UHR mostrano frequentemente ideazione suicidaria e agiti anticonservativi messi in atto in passato  (Hutton et al, 2011).

I Basic Symptoms

Relativamente ai BS, essi possono essere definiti come esperienze soggettive disturbanti che influenzano diversi domini psichici e cognitivi, come ad esempio disturbi del pensiero, della percezione e del linguaggio, difficoltà attentive . Essi sono stati in seguito suddivisi in due classi: COPER (Cognitive-Perceptive Basic Symproms) e COGDIS (Cognitive Disturbances) (Schultze-Lutter et al, 2007,  Schultze-Lutter, 2009) L’ipotesi è che i COGDIS siano più specifici per la schizofrenia e indichino un rischio più imminente di psicosi rispetto agli COPER (Aiello & Ferro, 2013).

Attualmente, l’utilizzo e l’associazione degli approcci UHR e BS nell’individuazione e trattamento di ragazzi a rischio psicotico è formalmente consigliato dalle linee guida EPA (Schultze-Lutter F. et al, 2015).

I Self Disorders

Un ulteriore filone di ricerca sviluppatosi recentemente riguarda i disturbi del sé (SD – Self Disorders). Essi consistono in esperienze anomale soggettive legate alla percezione di un sé unico e stabile. I differenti SD sono strettamente collegati alle esperienze descritte nei BS, con un’attenzione particolare alle modificazioni del sé nucleare in senso fenomenologico. Tali modificazioni nella percezione di sé e del mondo sono frequenti negli stati psicotici e nei soggetti CHR, avvalorandone l’utilizzo e l’associazione ai criteri UHR e BS nella valutazione dello stato rischio (Raballo et al, 2016).

La sovradiagnosi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): solo una ipotesi?

Secondo alcuni studi, riguardanti la prevalenza del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), risulta che questo sia sempre più diagnosticato, soprattutto con l’avvento del DSM-5, tanto da aver causato un nuovo dibattito circa una possibile sovradiagnosi di ADHD.

Giulia Francese

 

Fa parte del senso comune credere che siano troppi i bambini che ricevono l’etichetta di “iperattivi”, (come dimostrato da alcuni sondaggi, ad esempio quello svolto in Australia da Brad Partridge, Jayne Lucke e Wayne Halled, il cui risultato ha evidenziato che il 78.3% dei cittadini intervistati crede che a molti bambini venga diagnosticato ADHD anche in assenza del disturbo, è lecito domandarsi se effettivamente il senso comune non abbia ragione.

La sovradiagnosi è una condizione in cui i falsi positivi eccedono i falsi negativi; in altri termini una diagnosi è eccessiva non solo quando per errore si diagnostica un disturbo a persone che non ce l’hanno, ma quando il numero di queste persone eccede il numero delle persone che il disturbo lo hanno ma che vengono erroneamente dichiarate sane. In termini di ricerca, l’ipotesi della sovradiagnosi afferma che il 3-7% dei bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività sia una percentuale troppo elevata.

Sovradiagnosi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività: le questioni irrisolte nel fare diagnosi

Secondo gli autori Bruchmüller, Katrin; Margraf, Jürgen; Schneider esistono questioni irrisolte per quanto riguarda la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

In primo luogo, alcuni studi suggeriscono una potenziale sovradiagnosi, come precedentemente menzionato, in secondo luogo, rispetto al rapporto maschi-femmine nella popolazione generale (3: 1), molti più ragazzi ricevono trattamento ADHD rispetto alle ragazze (6-9: 1). È stato ipotizzato che questo si verifichi perché gli esperti non aderiscono ai criteri del DSM e dell’ICD. È stato, anche, ipotizzato che, in conformità con la euristica della rappresentatività, gli esperti tendano a diagnosticare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) se un paziente assomiglia al proprio concetto di “bambino-prototipo” ADHD, e che ciò porti a trascurare i criteri di esclusione.

Questo errore da parte degli esperti può, quindi, causare una sovradiagnosi. Inoltre, siccome l’ ADHD è più frequente nei maschi, un bambino/ragazzo potrebbe essere visto come un altro prototipo di bambino con disturbo da deficit di attenzione e iperattività e potrebbe quindi ricevere una diagnosi di ADHD più facilmente rispetto ad una bambina/ragazza.

Per validare la loro tesi, gli autori hanno inviato una vignetta clinica a 1.000 psicologi infantili, psichiatri e assistenti sociali e hanno chiesto loro di fare una diagnosi.

Sono state inviate quattro versioni della vignetta:

  • Vignetta 1 (ADHD) rispondevano a tutti i criteri ADHD del DSM-VI/ICD-10;
  • Vignette 2-4 (non ADHD) rispondevano ad alcuni criteri ADHD, mentre altri criteri non erano soddisfacenti per la diagnosi di ADHD.

Di conseguenza, per le ultime, non poteva essere fatta una diagnosi di ADHD. Inoltre, erano state create, per ogni vignetta, una versione maschile ed una femminile. Per quanto riguarda le vignette 2-4 (non ADHD), il 16,7% dei terapisti ha diagnosticato ADHD, inoltre, per quanto riguarda la versione maschile di queste vignette, i terapisti hanno dato una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività circa due volte di più rispetto alle vignette della versione femminile.

Gli autori hanno concluso che gli esperti non rispettano rigorosamente i manuali diagnostici.

Lo studio suggerisce che la sovradiagnosi di ADHD si verifica nella routine clinica e che il genere del paziente influenza notevolmente la diagnosi.

Una formazione diagnostica approfondita potrebbe aiutare i terapisti ad evitare queste distorsioni. Questo studio conferma quanto la diagnosi possa essere difficile, se basata semplicemente sull’osservazione clinica.

In Europa, i genitori possono attendere in media più di due anni prima di accertare una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività per i loro piccoli. Senza dimenticare che quasi 2 genitori su 5 (38% del totale) sono costretti a rivolgersi a tre o più specialisti prima di ricevere una diagnosi definitiva e completa. Non si fa molta fatica a immaginare quanto i genitori, di fronte a un così elevato numero di visite specialistiche unito a una notevole cautela nella formulazione della diagnosi formale del disturbo, spesso lamentino un profondo senso di frustrazione. Del resto, è impossibile non essere graduali, scrupolosi e meticolosi nella formulazione della diagnosi, poiché sono diversi i disturbi che possono sovrapporsi all’ ADHD con il rischio di causare una diagnosi errata.

Emotional Eating, Binge Eating Disorder e intolleranza alle emozioni negative

Per i pazienti con Binge Eating Disorder non è sufficiente il solo intervento nutrizionale o chirurgico, diventa indispensabile una psicoterapia ad orientamento prevalentemente cognitivo comportamentale o un percorso di educazione terapeutica per affrontare il delicato tema delle emozioni che questi pazienti in genere non riescono a gestire.

 

Tutto ha inizio con il pensiero del cibo a cui rinuncio quando sono a dieta. Questo si trasforma ben presto in un intenso desiderio di mangiare. All’inizio mangiare mi dà conforto e sollievo e mi fa sentire su di giri. Ma poi non riesco a smettere e mi abbuffo. Mangio e mangio freneticamente fino a che non sono strapiena. Alla fine mi sento in colpa e arrabbiata con me stessa. (Tratto dal libro “Vincere le abbuffate” di Christopher G. Fairburn).

 

Emotional Eating e Binge Eating Disorder

Può capitare di mangiare non per fame, ma in risposta a sentimenti, condizioni di stress ed emozioni, in particolare la rabbia. In questi casi si è di fronte a episodi di Emotional Eating, consistenti in una perdita di controllo per cui non è più il corpo a dettare cosa e quanto mangiare, bensì le emozioni vissute in quel momento. Alcune persone tendono ad abbuffarsi quando sono tristi o particolarmente annoiate, per altri invece è un modo per evitare di pensare a questioni delicate della propria vita. L’ Emotional Eating spesso porta a mangiare in eccesso e soprattutto cibi con un alto contenuto di calorie e di grassi, come i dolci. L’ Emotional Eating è stato inizialmente correlato alla bulimia, sostenendo l’ipotesi che pone le emozioni come fattore responsabile di una eccessiva alimentazione nei soggetti bulimici.

Tuttavia anche il contributo dell’ Emotional Eating agli episodi di binge è stato provato in diverse ricerche sperimentali, dove i pazienti con Binge Eating Disorder hanno riportato una tendenza significativamente maggiore a mangiare in risposta a stati di umore negativo rispetto ai soggetti di controllo (Pinaquy, Chabrol, Simon e Louvet, 2003). Nei casi in cui le emozioni influenzano la presenza di abbuffate ripetute, si è di fronte a un vero e proprio disturbo e, in questo caso, si parla di Binge Eating Disorder (BED) o Disturbo da Alimentazione Incontrollata.

Inquadramento diagnostico del BED

Il Binge Eating Disorder (BED) o Disturbo da Alimentazione Incontrollata è il disturbo alimentare che ha subito la più importante modifica con la recente uscita del DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), acquisendo finalmente una sua dignità nosografica. Il motivo che ha relegato per tanti anni il Binge Eating Disorder nell’Appendice B del DSM IV TR, tra quei disturbi che richiedono maggiori studi, è stato la sua difficile collocazione tra una patologia prettamente mentale ed una medica.

Capita spesso che la persona affetta da Binge Eating Disorder  vada incontro ad un aumento costante del peso, fino allo sviluppo di una vera e propria obesità causata da abbuffate, senza le successive condotte eliminatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi e diuretici), tipiche della Bulimia Nervosa. Rispetto al precedente (DSM IV TR), nel nuovo DSM V si è ridotto il numero di abbuffate necessarie per fare diagnosi, passando da due ad una a settimana e si sono abbreviati anche i mesi da analizzare, da sei a tre. Sono stati inoltre proposti quattro gradi di severità, da lieve a gravissimo, in base al numero di episodi di abbuffate settimanali. In presenza di tutti i criteri per la diagnosi di Binge Eating Disorder ma con abbuffate presenti meno di una volta a settimana, il disturbo rientra nei cosiddetti Altri Specificati Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (Other Specified Feeding or Eating Disorder). Chi soffre di Binge Eating Disorder in genere potrebbe sviluppare obesità, ma non tutti i soggetti obesi presentano il Binge Eating Disorder. La caratteristica principale che distingue le due condizioni è che nel Binge Eating Disorder vi è la sensazione di perdere il controllo, vissuto come percezione di non poter smettere di mangiare o di controllare cosa e quanto si sta mangiando

Viaggio nella mente di un abbuffatore

Il termine binge era in passato utilizzato dalla maggior parte delle persone con il significato di “bere in eccesso”. Oggi, più spesso, il termine indica il mangiare in eccesso. Per molte persone un’ abbuffata è qualcosa di assolutamente innocuo: un cedimento o un eccesso alimentare. Per altre, invece, rappresenta una parziale o totale perdita di controllo sul cibo. Le abbuffate hanno due caratteristiche in comune: il quantitativo di cibo assunto è percepito come eccessivo e compare la sensazione di perdita di controllo. Esse possono scatenarsi per motivi diversi, ad esempio in seguito a diete eccessivamente restrittive o nel tentativo di sedare emozioni spiacevoli, ridurre lo stress o la noia. Il problema è che dopo un’iniziale benessere, l’ abbuffata può facilmente sviluppare nell’individuo un’alterazione dell’umore in senso depressivo e una valutazione di sé negativa. La persona affetta da Binge Eating Disorder presenta un grande disagio nei confronti dell’ abbuffata e una più frequente associazione di disturbi psichiatrici, soprattutto disturbi dell’umore ed ansia.

L’ abbuffata, compiuta in uno stato simil-dissociativo di trance, fa sì che il soggetto si allontani, seppure temporaneamente, dalle difficoltà della vita che lo attanagliano.

Rappresenta una sorta di imbuto in cui confluisce tutto il disagio del paziente: le sue emozioni, le sue convinzioni disfunzionali della sua incapacità di riconoscere gli stati interni e di differenziare le sensazioni fisiche dalle emozioni. Il desiderio di mangiare è vissuto come un impulso irrefrenabile placabile solo col cibo, un vero e proprio “craving” che travolge i propositi e la volontà. In realtà, come già detto, l’ abbuffata rappresenta il sintomo, ovvero la risposta del paziente ad una variazione del proprio stato emotivo che egli non sa gestire in altro modo. Ciò sarebbe il risultato di un deficit metacognitivo che le fa ritenere l’unico outcome possibile di ogni difficoltà.

Alessitimia e intolleranza alle emozioni negative

Alessitimia, che significa letteralmente “nessuna parola per le emozioni” è una serie di deficit cognitivo-emozionali che comprende l’incapacità di identificare, descrivere e interpretare i propri e altrui sentimenti, distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche ed utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica (Taylor, Bagby e Parker, 2000). Studi su soggetti affetti da Binge Eating Disorder (Wegner e collaboratori, 2002) hanno messo in relazione le emozioni negative con la tendenza alle abbuffate; questa relazione sarebbe più evidente nel sesso femminile seppur presente anche tra i maschi. Le emozioni coinvolte sono molteplici: ansia, tristezza, disperazione, noia e rabbia.

Tendenzialmente ogni paziente è più vulnerabile ad alcune che ad altre, ma qualsiasi stato d’animo negativo che superi la sua soggettiva soglia di tolleranza può scatenare un’ abbuffata. Il meccanismo con cui ciò avviene è complesso e ancora poco studiato, sembrerebbero coinvolte la scarsa tolleranza alle emozioni e l’incapacità di differenziarle dalle sensazioni.

Le emozioni negative possono essere provocate da diverse tipologie di eventi, ruolo preponderante rivestono le difficoltà relazionali e di coppia. Di frequente le abbuffate sono la risposta al disagio provocato dal sentirsi soli o abbandonati, dal pensare di non avere valore per gli altri a causa del proprio senso di inadeguatezza e di scarsa autostima. Il pensiero patogeno della incomunicabilità e della inutilità di condividere la propria sofferenza con l’altro porta a cercare un rifugio momentaneo in un piacere solitario. Il paziente con Binge Eating Disorder si sente impotente sia di intervenire attivamente sulle situazioni che inducono il disagio, perché ne deriverebbe un inaccettabile senso di colpa, sia di manifestare agli altri le proprie emozioni.

Il soggetto BED si sente completamente incapace di gestire le sensazioni-emozioni negative con strumenti diversi dal cibo. Non riuscendo a proiettare nel futuro le conseguenze delle proprie azioni preferisce una soddisfazione immediata a una prospettiva di cambiamento che richieda un impegno prolungato dall’esito incerto.

Binge Eating Disorder, come intervenire? La Terapia Cognitivo-Comportamentale

Per i pazienti con Binge Eating Disorder, ma probabilmente per la maggior parte dei pazienti affetti da obesità, non è sufficiente il solo intervento nutrizionale o chirurgico, diventa indispensabile una psicoterapia ad orientamento prevalentemente cognitivo comportamentale o un percorso di educazione terapeutica per affrontare il delicato tema delle emozioni che questi pazienti in genere non riescono a gestire.

Essi si rivolgono prevalentemente nei servizi che curano l’ obesità, probabilmente per timore dell’etichettatura che può derivare dal frequentare un centro psichiatrico. Per loro il cibo è spesso l’unico modo per stare bene ma al tempo stesso una trappola. Nel tempo le abbuffate diventano sempre di più un’abitudine, ma come disse Samuel Johnson in un famoso aforisma “le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere avvertite finché diventano troppo pesanti per poter essere spezzate”.

In quest’ottica, dunque, l’intervento che si propone è integrato: psicoterapeutico e medico-nutrizionale. Lo psicoterapeuta è il referente e l’elemento coordinatore. Il suo compito è di intervenire sulle aree più problematiche di quel paziente, utilizzando le strategie cognitive e/o le tecniche comportamentali che ritiene più opportune nei diversi momenti della terapia.

Adozione oggi. Percorsi di resilienza (2017) – Recensione

Adozione oggi. Percorsi di resilienza scritto da Giuseppina Facchi, Maria Clotilde Gilson e Maria Villa è un interessante contributo teorico e clinico che tocca in profondità il tema ricco e complesso dell’adozione e il suo rapporto con la resilienza.

 

L’evoluzione dell’adozione nel corso del tempo

L’apertura del testo è affidata a un viaggio tra passato e presente, che partendo dal mondo classico di Solone e passando dalla riforma di Giustiniano, arriva fino ad oggi a illustrare una panoramica delle funzioni e delle modalità dell’adozione e il loro mutare e preservarsi nel tempo. In principio solo con una funzione patrimoniale e assistenziale, poi anche altruistica con l’avvento delle società cristiane, l’adozione si trasforma ancora nella seconda metà del XX secolo.

Inizia così lentamente a presentarsi la necessità di disciplinare l’adozione e di adoperarsi per il rispetto dei diritti dei bambini e dei loro genitori. A tale scopo tra la fine degli anni ’60 e ‘80 sono introdotte la legge n°431/67 per l’adozione speciale e la legge n°184/83 per l’affidamento familiare e l’adozione internazionale. Tuttavia è soltanto nel 1998, con la Convenzione de L’Aja, che si procede a verificare il rispetto delle norme per le pratiche adottive attraverso la Commissione per le Adozioni Internazionali.

I momenti del percorso dell’ adozione e le criticità

Seguitando nella lettura viene data al lettore la possibilità di seguire i principali momenti del percorso adottivo e i vissuti dei suoi protagonisti, ossia la coppia disponibile all’adozione, i bambini dichiarati adottabili, i genitori naturali e le istituzioni predisposte. Più precisamente, il primo momento riguarda la dichiarazione della coppia di disponibilità all’adozione e l’ottenimento dell’idoneità, a esso segue il conferimento dell’incarico a un ente autorizzato – in caso di adozione internazionale – l’attesa del bambino, l’incontro tra la coppia e il bambino da adottare e infine è prevista la legittimazione dell’adozione.

Tuttavia, come fanno notare le autrici, la linearità del percorso sopra indicato non contempla le criticità che pur possono presentarsi e rispetto alle quali sono state avanzate proposte di modifica della legge n°184/1983. Queste criticità, in taluni casi, hanno condotto a veri e propri fallimenti adottivi.

Si tratta di condizioni che, oltre all’interruzione del rapporto tra genitori adottivi e minori, possono terminare con l’allontanamento e il ricollocamento in un’altra famiglia o in una struttura di accoglienza. La loro analisi, resa possibile da un campo fecondo di ricerche in Italia e in Spagna, è stata utile per una comprensione più ampia possibile del fenomeno adottivo.

Al di là della ridotta numerosità di casi di fallimento adottivo riscontrati, questi studi hanno rilevato la necessità di canalizzare una maggiore attenzione nei confronti dell’effetto traumatico che comportano e il modo in cui interagiscono gli aspetti che riguardano i bambini, i genitori e il sistema adottivo.

Adattarsi alla nuova vita, che la situazione adottiva introduce, non è così semplice e un buon processo di adattamento familiare contribuisce a un migliore adattamento psicosociale del minore. Altrettanto utili a prevenire e ridurre le situazioni di fallimento sono: la riduzione dell’istituzionalizzazione in seguito all’allontanamento dalla famiglia di origine, il miglioramento dei protocolli per la valutazione dell’idoneità genitoriale, la promozione di interventi che sostengano le famiglie nel periodo di post- adozione.

Uno studio longitudinale sull’ adozione

Seguendo la direzione di queste ultime ricerche sul tema dell’ adozione, che intendono superare la prospettiva patogenetica dell’adozione, Giuseppina Facchi, Maria Clotilde Gilson e Maria Villa s’impegnano dal 2001 al 2015 in uno studio longitudinale di tipo descrittivo, condotto su un campione di cinquantacinque soggetti con adozione internazionale e disturbi psicopatologici di gravità da lieve a elevata e giovani adulti senza particolari difficoltà. Il loro fine è riconoscere le criticità che si ripetono nel tempo per poterle prevenire.

Alla luce di quanto affermato fino a qui, emerge chiaramente che ci troviamo di fronte ad una condizione di elevata complessità, che si sviluppa dall’interazione tra diversi fattori di rischio, protettivi, costituzionali e ambientali che richiedono un’elevata attenzione.

È proprio in questa direzione che si muove la necessità di non collocare in secondo piano l’esistenza di condizione traumatica sia nel minore adottato sia nel genitore adottivo. Nel primo il trauma è doppio, da abbandonato e quindi allontanato dal genitore naturale e dalla sua cultura, a collocato in una nuova famiglia e una nuova cultura. Nella coppia invece, il trauma può riguardare la limitazione della fertilità o la sua assenza.

Come promuovere la resilienza nel rapporto tra genitori e figli adottivi

Proseguendo verso il cuore del testo il lettore conosce il modello teorico di riferimento, nato dall’integrazione tra diversi modelli teorici e la definizione degli aspetti che promuovono lo sviluppo della resilienza nel rapporto tra genitori e figli adottivi.

Più precisamente, rispetto a questi ultimi si rileva l’importanza di guardare all’incontro adottivo come a un dono reciproco tra genitori e figli, un momento reale che può essere tanto eccezionale, ma da cui non è possibile escludere una delusione. Non solo, esso costituisce l’inizio della nuova vita del bambino, da integrare comunque con quella passata. Di quest’ultima va accettata l’importanza che i genitori biologici hanno rivestito per il bambino e che possono ancora ricoprire. Non è infrequente, infatti, riscontrare nei genitori adottivi la negazione del passato e spesso anche l’idealizzazione del proprio mondo, oltre ad una mancata mediazione tra l’immagine ideale del figlio e il figlio reale. Questi e altri fattori contribuiscono ad alimentare maggiori difficoltà nel porre dei limiti al bambino, utilizzare la sua rabbia in modo costruttivo, accettare la propria morte funzionale.
Le tre storie che seguono, quella di Anita, Carlos e Solado, costituiscono una testimonianza ancora più vivida delle criticità che possono svilupparsi in seguito all’ adozione e dei fattori che minano la possibilità di costruire resilienza.

Esse hanno in comune un passato non elaborato e la negazione della sua influenza sulla personalità.

La storia di Anita è quella di una bambina ripetutamente traumatizzata dalla perdita. La sua sicurezza interna si costruisce disfunzionalmente sulla dipendenza dalla risposta di accudimento totalizzante dei genitori adottivi, incapaci di porle dei limiti. La sua adolescenza è segnata dall’esordio di una modalità di funzionamento di tipo borderline che la porterà a ripetuti ricoveri presso il servizio di Neuropsichiatria, l’ingresso in Comunità, rientri a casa e ingressi presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Le sue condizioni rimangono precarie fino all’età di trentacinque anni.

Carlos, con la sua adesione al nuovo mondo, l’apprendimento rapido della lingua e la necessità di pulire via il colore della sua pelle, dimostra di negare il suo passato e sviluppa a partire dall’età prescolare problemi di comportamento, che in adolescenza culmineranno anche in un’identità sessuale ambigua e ricoveri e rientri a casa presso strutture che si occuperanno della sua salute. Carlos, all’età di trentadue anni, ricorre ancora periodicamente al Pronto Soccorso.

Solado, rispetto agli altri due bambini, trascorre una parte della sua vita, prima presso famiglie del luogo, poi presso istituti della zona. Subisce oltre al trauma dell’abbandono, quello di esperienze sessuali incestuose. Dopo l’istituzionalizzazione e un fallimento adottivo a tredici anni giunge nella seconda famiglia. In seguito ad un periodo di apparente adattamento, cominciano con l’adolescenza a comparire disturbi del comportamento alimentare, ritiro, comportamenti autolesivi e successivamente un quadro presumibilmente psicotico. Dopo un percorso di ricoveri e rientri a casa, a trentaquattro anni vive in famiglia e accede a una struttura diurna.

Il modello focale integrato applicato alla genitorialità

Il testo, concepito in tre ampie parti, condensa nell’ultima la presentazione del modello focale integrato applicato alla genitorialità, le cui radici vanno rintracciate nella psicoterapia breve. Esso punta l’attenzione sull’insufficienza del solo fattore costituzionale o ambientale come causa di patologia e vede il conflitto come uno stimolo per il cambiamento, capace di mobilitare risorse positive e l’accettazione di fallimenti transitori e perdite come possibilità da cui apprendere.

I percorsi di crescita, rintracciabili nelle situazioni cliniche proposte dalle autrici, e che vedono i genitori coinvolti nel ruolo di co-terapeuti, costituiscono una finestra aperta sulle dinamiche che coinvolgono la coppia (la conflittualità, la mancata elaborazione dell’impossibilità di generare, l’accettazione della morte funzionale, l’importanza del limite) e il bambino e rappresentano un’opportunità per comprendere come proteggersi dal fallimento adottivo e dal suo rischio.

È proprio da essi che è possibile inferire i principali fattori di protezione, che non possono che partire dalla scelta di adottare come un bisogno condiviso e reale della coppia. Ciò che si va poi costruendo deve essere sostenuto dalla consapevolezza della responsabilità che l’adozione comporta e della sua specificità. Il bambino adottato sarà così inserito in famiglia con la partecipazione di entrambi i genitori, che dovranno essere pronti a verificare la presenza del fantasma del trauma e adoperarsi per affrontarlo, accettando il legame del bambino con il suo passato e promuovendone l’integrazione. In questo modo diventa possibile costruire una relazione naturale e spontanea all’interno di un ambiente sufficientemente forte e dotato di un sistema normativo chiaro e semplice.

Non è facile per un genitore, felice di aver realizzato un sogno, riconoscere che la sua avventura non sia esente da rischi e […] che l’adozione non è una magica storia e nemmeno un fallimento preannunciato, ma un’impresa complessa e come tale va affrontata” (Facchi, Gilson & Villa, 2017, p.18).
Promuovere lo sviluppo della resilienza nelle situazioni adottive, vuol dire, dunque, dotare l’individuo di un’attrezzatura che gli consenta di affrontare eventuali disagi e traumi collegati al passato, così come difficoltà attuali e future, in un ambiente medio – prevedibile, liberandolo dalla condizione di un deficit da compensare.

Per concludere, si rintraccia nel testo un invito a estendere il proprio vertice di osservazione, facilitando il costituirsi, quando si parla di adozione, di una prospettiva che oltre ad una ricchezza di dettagli e una conoscenza costantemente rinnovata, non manchi nel riconoscimento dei diritti e delle responsabilità di tutte le figure coinvolte nel processo adottivo, al fine di poter migliorare il futuro di tutti i bambini adottati e dei loro genitori. È un’offerta di aiuto, a ciascuno secondo il proprio ruolo, a contribuire nel proprio quotidiano allo sviluppo di atteggiamenti di crescita.

Richard Thaler ha vinto il Nobel per l’Economia

Per la seconda volta un premio Nobel accarezza la Psicologia. Ed è una dolce carezza per noi, psicologi sperimentali della cognizione e analisti del comportamento, che siamo stati lungamente oggetto di ironie e dileggio dai cultori del profondo.

Il Nobel aveva già accarezzato la psicologia nel 2002, quando lo vinse Daniel Kahneman, psicologo, per gli studi svolti assieme ad Amos Tversky, anche lui psicologo purtoppo prematuramente scomparso, sui processi decisionali, in cui dimostrava la razionalità limitata degli esseri umani quando devono operare scelte in condizioni di incertezza.

Oggi è stato assegnato a Richard Thaler, Ralph and Dorothy Keller Distinguished Service Professor di Behavioral Science ed Economics alla School of Business dell’ University of Chicago.

La School of Business dell’University of Chicago è la roccaforte della scuola dell’economia liberista, Milton Freeman e i Chicago Boys, quelli che hanno portato le loro teorie in Cile, per intenderci, con i risultati che conosciamo. Durante il predominio dei Chicago Boys, RichardDick” Thaler è stato a lungo relegato ai margini (come i comportamentisti in Italia), in quanto parte di una minoranza che contrastava la teoria classica: “Conventional economics assumes that people are highly-rational – super-rational – and unemotional” e pertanto la gente sa sempre scegliere il meglio per sé. Ma:

“You know, and I know, that we do not live in a world of Econs. We live in a world of Humans. And since most economists are also human, they also know that they do not live in a world of Econs. Adam Smith, the father of modern economic thinking, explicitly acknowledged this fact. ”

Amos Tversky, assieme a Daniel Kahneman, per Thaler amico e mentore e al quale dedica un toccante ricordo nella prefazione a Misbehaving, avevano dimostrato i limiti della teoria classica. Nel 1979 Kahneman e Tversky, avevano dato il via a un programma di ricerca per mostrare in che modo le persone prendono decisioni. I due autori mettono progressivamente in luce le zone d’ombra dell’allora predominante Economia Neoclassica fondata sul principio di razionalità, concentrandosi sullo studio degli errori decisionali commessi dalle persone e mostrando come queste violino sistematicamente alcuni assunti di base dell’Economia Classica e della teoria della scelta razionale a cui fa riferimento.

Uno di questi studi culmina con la formulazione della “Teoria del Prospetto” e con la pubblicazione dell’articolo “Prospect Theory: An analysis of decision under risk.” che suscita grandissimo interesse nella comunità scientifica.

Si inizia a parlare di Behavioral Economics, disciplina nata con l’obiettivo di studiare i processi decisionali messi in atto dalle persone nel momento in cui devono compiere scelte, con un graduale passaggio dalle teorie normative, che descrivono il modo in cui le persone dovrebbero comportarsi per essere considerate razionali, alle teorie descrittive, che descrivono invece come effettivamente le queste si comportano. All’“Homo oeconomicus”, essere sistematicamente razionale in grado di effettuare calcoli statistici utili a prendere scelte parsimoniose e che massimizzano il vantaggio individuale, viene affiancato  quello che  viene ironicamente definito “Homer Oeconomicus” per mettere in luce come le persone,  in certe circostanze, agiscano in modo simile al celebre personaggio dei Simpson, prendendo decisioni “di pancia”, in maniera veloce e non sempre ottimizzante. Il motto è: gli uomini non sono econi.

Negli studi successivi Kahneman e Tversky mettono in luce ulteriori anomalie nelle scelte compiute dalle persone: è il programma, “Heuristics and Bias”, finalizzato a creare una mappa della “razionalità limitata”. Sono così individuate originariamente le principali euristiche, ovvero strategie di pensiero semplificate utili a trovare soluzioni rapide a problemi complessi, che permettono di prendere decisioni molto rapide e spesso efficaci e tuttavia, possono in certe condizioni produrre errori decisionali sistematici (o bias).

Nel 2008 Richard Thaler e Cass Sunstein, giurista ad Harvard, pubblicano il loro libro “Nudge: la spinta gentile” che, partendo dal lavoro di Kahneman e Tversky, propone strategie utili per prevenire i bias individuati nei precedenti studi. Il lavoro dei due autori suscita grande interesse, attirando l’attenzione dell’allora Presidente degli Stati Uniti Barak Obama il quale nomina Sunstein Amministratore dell’OIRA (Office of Information and Regulatory Affairs) dal 2009 al 2012.

Dalla pubblicazione del loro best-seller il Nudging cresce esponenzialmente e si diffonde in diverse nazioni, purtroppo non ancora in Italia, almeno a livello istituzionale, alche se da tempo si è formato il gruppo Nudge Italia, che fa parte del network europeo TEN.

Il razionale è: se le persone commettono errori sistematici è possibile prevederli. È possibile anche aiutarle a compiere scelte più funzionali al loro benessere e prevenire o correggere tali distorsioni? Thaler e Sunstein propongono di lavorare nel contesto nel quali si muovono e interagiscono. Viene coniato il termine “architettura delle scelte” per definire il modo in cui è possibile avvalersi di conoscenze scientifiche per strutturare contesti che favoriscano i comportamenti desiderati, senza limitare la libertà del’individuo. Un buon architetto delle scelte osserverà l’ambiente in cui le persone si muovono, le loro interazioni con l’ambiente, e le scelte che compiono. Qualora queste si rivelino disfunzionali e sistematicamente influenzate da fattori contestuali, sarà possibile riprogettare l’ambiente fisico o verbale per reindirizzarle.

Si trova in questo modo un forte punto di contatto tra scienze comportamentali e politiche pubbliche. Le conoscenze acquisite in laboratorio e sul campo, sono estese in diversi paesi del mondo su ampia scala e in diversi ambiti, dalla salvaguardia dell’ambiente, alle politiche sociali.

La psicologia, troppo spesso relegata in laboratorio e  in contesti clinici, estende il suo raggio d’azione nel sociale e nella promozione della salute pubblica, entrando in contatto con diverse discipline e approcci.

Nel 2015 Thaler pubblica Misbehaving. The making of Behavioral Economics, che rappresenta il manifesto della disciplina, o come la definisce il New York Times: “A sly and somewhat subversive history of his profession”.

Oltretutto è un libro di piacevolissima lettura, il che non si può dire di altri libri di economia.

9 Ottobre 2017 – Richard Thaler vince il premio Nobel per l’Economia grazie ai suoi fondamentali contributi nella Behavioral Economics che hanno permesso di costruire un ponte tra Economia e Psicologia nello studio dei processi decisionali. Verosimilmente e auspicabilmente tale riconoscimento fornirà ancora linfa allo studio scientifico del comportamento umano. Un’onda che dovrebbe essere cavalcata per produrre benessere individuale e sociale. Grazie prof. Thaler!

 

— VIDEO — Richard Thaler: “Misbehaving: The Making of Behavioral Economics” | Talks at Google

Un nuovo modello di attenzione visiva: le mappe di significato

Secondo nuove ricerche, la nostra attenzione è attratta da contenuti della scena che contengono un significato, rispetto a particolari salienti. Questi nuovi risultati mettono in discussione il modello precedente sull’ attenzione visiva.

 

Salienza visiva: la teoria dominante dell’attenzione

Il pensiero convenzionale sull’attenzione visiva è che la nostra attenzione viene automaticamente attirata su oggetti salienti che si distinguono dallo sfondo. I ricercatori del centro UC Davis Center for Mind and Brain hanno mappato centinaia di immagini registrando il tracciato degli occhi, in base al “significato”, alla “salienza” o alle caratteristiche rilevanti.

L’analisi statistica mostra che gli occhi sono attratti da aree “significative”, non necessariamente quelle che risultano percettivamente più salienti.
I nostri occhi percepiscono un ampio campo visivo, ma noi concentriamo la nostra attenzione solo su una piccola parte di questo campo. Come decidiamo dove dirigere la nostra attenzione, senza pensarci?

La teoria dominante degli studi sull’attenzione è “la salienza visiva”. Per salienza si intende ciò che “spicca” dallo sfondo, come ad esempio le bacche colorate su uno sfondo di foglie o un oggetto illuminato in una stanza.

La salienza è relativamente facile da misurare. È possibile mappare la quantità di salienza in diverse aree di un’immagine misurando, per esempio, il relativo contrasto o la luminosità.

Il professor Henderson, autore dello studio, riconosce il fenomeno dell’attrazione verso oggetti luminosi e brillanti; tuttavia, dichiara che questa spiegazione non può essere del tutto corretta, altrimenti saremmo tutti costantemente distratti.

L’ipotesi delle mappe di significato per spiegare l’attenzione visiva

Henderson e il ricercatore post-doc Taylor Hayes hanno voluto verificare se l’attenzione fosse attratta da un’area che consideriamo significativa all’interno del nostro campo visivo. Hanno inizialmente costruito “mappe di significato” mediante scene di controllo, in cui diverse parti della scena avevano diversi livelli di significato per un osservatore.

Per creare la loro mappa di significato, Henderson e Hayes hanno fotografato diverse scene, le hanno spezzettate in piastrelle circolari sovrapposte e le hanno presentate al servizio internet di crowdsourcing, Mechanical Turk, chiedendo agli utenti di valutare le piastrelle in base al loro significato.

Mediante i punteggi dei voti degli utenti, è stato possibile assegnare i vari livelli di significato alle diverse aree di un’immagine e creare così una mappa di significato comparabile ad una mappa saliente della stessa scena.

In seguito, sono stati registrati i movimenti oculari dei volontari durante l’esplorazione delle immagini. I tracciati hanno dato ai ricercatori una mappa di quali parti della scena attirarono maggiormente l’attenzione. Henderson afferma che questa “mappa attenzionale” era più vicina alla mappa di significato anziché a quella di salienza.

Henderson e Hayes non hanno ancora dati chiari su ciò che appartiene ad una scena significativa, anche se hanno alcune idee: ad esempio, un dato emerso dalla ricerca è che un tavolo o uno scaffale ingombrante hanno attirato maggior attenzione rispetto ad uno sprazzo di luce sul muro, caratteristica altamente saliente. Con ulteriori lavori, sperano di sviluppare una “tassonomia dei significati”.

Anche se la ricerca si rivolge a una comprensione base del funzionamento dell’attenzione visiva, Henderson pensa che potrebbero esserci alcune applicazioni a breve termine, come ad esempio nello sviluppo di sistemi visivi automatizzati che consentono ai computer di eseguire la scansione di filmati di sicurezza o di identificare automaticamente le immagini o le didascalie online.

Attenzione duale, affetto, relazioni interpersonali e significato: l’intervento di Shapiro al convegno Attaccamento e Trauma, 2017

La sua relazione dal titolo “Attenzione duale, affetto, relazioni interpersonali e significato: gli aspetti fondamentali del trattamento dei traumi” vuole lasciar emergere quelle che sono le caratteristiche comuni e centrali nelle terapie che si occupano del trauma. Il trauma viene definito come un pericolo che comporta sensazioni di abbandono, perdita, danni fisici ed emozioni negative.

 

Il contributo di Stephen Suomi al convegno Attaccamento e Trauma del 2017

Il programma del secondo giorno è piuttosto intenso.
Il convegno si apre con la presentazione di Stephen J. Suomi, e vede dopo di lui scorrere nomi importanti da Robin Shapiro a Janina Fisher fino alla videoconferenza con Daniel Siegel.

Stephen Suomi è capo del laboratorio di Etologia comparata del National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) nel Maryland. E’ professore di ricerca presso la University of Virginia, University of Maryland e la John Hopkins University.

I suoi interessi di ricerca lo hanno portato a interessarsi del modo in cui la socializzazione incide sullo sviluppo dei primati non umani. Negli anni ’70 ha lavorato come assistente di ricerca per lo psicologo Harlow dimostrando come non fosse possibile riabilitare i macachi Rheus cresciuti in isolamento sociale per i primi sei mesi di vita dopo averli rintrodotti in un gruppo di scimmie normali dal punto di vista sociale.

Il suo contributo dal nome “conseguenze comportamentali, biologiche ed epigenetiche di esperienze precoci di attaccamento sociale nei primati” è il riassunto delle ricerche più recenti nel campo dell’epigenetica. In particolare dagli studi sono emerse differenze significative nello sviluppo comportamentale, nella regolazione affettiva, nell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, nel metabolismo dei neurotrasmettitori, nella struttura e nella funzione cerebrale in funzione delle esperienze precoci di crescita (essere allevati dalla madre piuttosto che dal gruppo dei pari).
Secondo l’autore è dunque ipotizzabile uno sviluppo analogo estendibile anche agli uomini.

Il contributo di Robin Shapiro: “Attenzione duale, affetto, relazioni interpersonali e significato: gli aspetti fondamentali del trattamento dei traumi”

La mattina prosegue con il contributo di Robin Shapiro, una delle maggiori esperte nel campo del trauma; Shapiro è autrice di numerosi contributi come “EMDR Solution: Pathways to Healing (2005)”, “Trauma Treatments Handobook (2010)” e “Easy ego state intervention” (2016).

La sua relazione dal titolo “Attenzione duale, affetto, relazioni interpersonali e significato: gli aspetti fondamentali del trattamento dei traumi” vuole lasciar emergere quelle che sono le caratteristiche comuni e centrali nelle terapie che si occupano del trauma.
Il trauma viene definito come un pericolo che comporta sensazioni di abbandono, perdita, danni fisici ed emozioni negative.

Il DPTS (Disturbo Post Traumatico da Stress) è concettualizzato partendo dall’esperienza soggettiva della persona che subisce un trauma; “la persona traumatizzata si protegge dall’eventualità che si ripresenti l’evento traumatico mantenendo uno stato di mobilità difensiva e di prontezza” e pertanto mette in atto una serie di azioni a catena e meccanismi neuro-bio-psicologici che possano permettergli di difendersi dalle memorie traumatiche.

I sintomi sono flash back, incubi, attivazioni elevate di ansia o di rabbia, evitamento, difficoltà a connettersi agli altri, tentativi di stare lontano da tutto quello che possa provocare i sintomi del DPTS.

La presentazione di Shapiro per quanto sembri portare, almeno inizialmente, tematiche piuttosto note (non direi mai scontate) ha comunque un impatto e una presa nel pubblico proprio per il modo eclettico e clinico di presentare la sua discussione che l’ha resa una delle migliori relazioni presentate.
Pertanto dal concetto di trauma si arriva a sollevare una questione estremamente importante e mai così delicata: la relazione terapeutica.
La relazione terapeutica diventa il punto centrale di tutte le tecniche, le terapie, i modelli legati al trattamento del trauma.
Riecheggia la sua assunzione: “le tecniche non bastano (con tanto di applauso) nella terapia del trauma è imprescindibile la relazione terapeutica”.
Secondo Shapiro questa “surclasserebbe” qualsiasi intervento possa essere rivolto al paziente.
Emerge chiaramente come per lei sia incontrastabile l’importanza di rispondere al paziente nella sua diversità, nella sua specificità; si parla di integrazione, di valutazione da caso a caso, di guardare ogni “cliente” come unico in modo da creare un clima di fiducia e accoglienza poiché nulla funziona se vi è diffidenza o con le resistenze della persona chiamata in causa.

La sua presentazione, più che apportare contributi teorici, è orientata a consigli clinici. Racconta la sua formazione, estremamente ampia ed estremamente integrata e come consiglio al pubblico raccomanda di non seguire nessun dogma, ma di ampliarsi e di essere curiosi (nel campo ovviamente di ciò che si dimostra efficace).
Evidentemente non vuole essere un discorso di massimo eclettismo e di mancanza di solide basi teoriche da seguire, tutt’altro, formarsi e imparare di continuo sono le sue parole chiave, ma seguire alla lettera i protocolli non garantisce un lavoro efficace di per sé. L’invito è quello di non smettere mai di arricchirsi in modo che ogni clinico possa essere sempre più capace di comprendere cosa potrebbe risultare migliore per quel tipo di paziente in quel preciso momento.

Entrando nel merito del trattamento legato al trauma Robin Shapiro traccia alcuni elementi che possono essere comuni a tutte le terapie con particolare enfasi sul concetto di “presenza” intesa come consapevolezza dell’essere nel qui ed ora.
“L’evento è avvenuto nel passato ma il cliente è nello studio con voi in quel momento” dice Robin sottolineando come sia fondamentale che l’emotività resti sempre all’interno della finestra di tolleranza emotiva in modo che lo stato di attivazione della persona non sia mai eccessivo ma neppure che collassi o dissoci.
Pertanto il terapeuta deve essere in grado di gestire un’attenzione duale: il terapeuta deve poter garantire la sicurezza del presente e al contempo, accedere all’esperienza traumatica. E in questo processo intervengono ovviamente anche le emozioni che caratterizzano la connessione al presente, nonché alla relazione terapeutica.

Durante l’elaborazione di un trauma il terapeuta deve riportare il cliente al presente tramite il lavoro sulla relazione terapeutica; interventi che utilizzino il senso dell’umorismo, il contatto oculare, le rassicurazioni sono tutti ottimi in modo che venga favorita la comprensione dei bisogni del paziente.

Per coltivare la relazione terapeutica è necessaria una “connessione” che secondo la Shapiro può essere immediata o aver bisogno di essere costruita. Accettazione, fiducia, responsività sono gli elementi che costituiscono la relazione.

Nel trattamento del trauma l’orientamento al presente può essere permesso attraverso la terapia degli stati dell’Io. In questo caso si rievoca una parte adulta del paziente (il suo essere genitore, il suo essere un professionista, o qualsiasi parte dove la persona possa sentirsi competente e autoefficace): “pensi una volta in cui ha agito guidato dalla sua parte adulta funzionale, abbiamo bisogno che questa parte sia presente quando elaboriamo il trauma”.

Tutto questo permetterebbe ad ogni emozione di manifestarsi ed essere contenuta dalla connessione con il terapeuta e di rimanere presente permettendo il cambiamento emotivo.

Shapiro elenca poi le varie terapie che si occupano di trattamento del trauma: vengono citate l’EMDR, le terapie sensomotorie, le terapie degli stati dell’Io, l’ipnosi, e le terapie dinamiche.

Le varie terapie del trauma si occuperanno poi, secondo le proprie modalità e le proprie tecniche di attribuire un significato a livello mentale (“Adesso sono al sicuro, è finita”) e a livello corporeo (“Sentire nel corpo che adesso è finita”).
L’attribuzione di significato cognitivo e corporeo appare trasversale e indispensabile secondo tutti i vari trattamenti.
Il punto conclusivo e forse centrale del messaggio che Shapiro ha voluto lanciare riguarda l’integrazione.
Esorta alla formazione, la sua in costante e perenne aggiornamento, alla supervisione e all’intervisione.
Sottolinea infine e nuovamente come l’importante sia non tanto applicare la tecnica ma conoscerla bene per padroneggiarla, in modo che l’intervento venga tagliato sulla base del singolo paziente, in quel preciso momento.

 


Gli altri articoli dal convegno: Attaccamento e Trauma 2017

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