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Sigmund Freud: il fondatore della psicoanalisi – Introduzione alla Psicologia

Sigmund Freud è stato un medico neurologo e fondatore della psicoanalisiFreud è noto per aver elaborato la teoria psicoanalitica secondo la quale i processi psichici inconsci influenzano il pensiero, il comportamento umano e le interazioni tra individui. Partendo da una formazione medica, ha tentato di stabilire correlazioni tra la visione dell’inconscio, rappresentazione simbolica di processi reali, e delle sue componenti con le strutture fisiche della mente e del corpo umano.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La vita di Sigmund Freud

Sigismund Schlomo Freud, conosciuto come Sigmund Freud, nasce il 6 Maggio del 1856 a Freiberg (Příbor), nell’odierna Repubblica Ceca (al tempo chiamata Moravia). Il padre di Sigmund è Jacob Freud, un ebreo galiziano, e la madre è Amalie Nathanson, terza moglie di Jacob. Il padre di Freud è un ebreo laico, che non ha trasmesso al figlio un’educazione di stampo religioso-fideistico o tradizionalista.
All’età di quattro anni, la famiglia Freud si sposta a Vienna per motivi legati al lavoro del padre, che commercia lana.

Nonostante il disinteresse paterno per l’argomento, Sigmund inizia, sin da giovane, ad appassionarsi allo studio del testo biblico, alla storia e alla tradizione del suo popolo, in un contesto sociale come quello viennese dell’epoca intriso di antisemitismo, acquisendo nozioni che lasciano notevoli tracce nella sua opera letterale successiva, anche se Freud diviene presto ateo e avverso a tutte le religioni.

Freud si diploma a diciassette anni all’istituto superiore “Sperl Gymnasium”, e dà prova delle sue particolari attitudini intellettive divenendo il primo della classe; nel 1873 si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’università di Vienna, dove conclude gli studi nel 1881. Durante il corso di laurea matura una crescente avversione per gli insegnanti che considera non all’altezza. Proprio questa insoddisfazione lo spinge a sviluppare un senso critico che, di fatto, si manifesta ritardando il conseguimento della sua laurea in Medicina e Chirurgia (conseguita nel marzo 1881).

Dopo un soggiorno in Inghilterra, Freud trova impiego nell’istituto zoologico viennese di Carl Claus, ma ben presto si sposta all’Istituto di Fisiologia di Ernst Brücke, che diverrà una figura determinante nella formazione del giovane Freud. Nonostante un certo successo ottenuto nel campo della ricerca, Freud decide di dedicarsi alla pratica clinica, professione assai remunerativa che gli avrebbe consentito di rendersi indipendente economicamente e di sposare Martha Bernays, conosciuta nel 1882. Così, lavora per tre anni all’Ospedale Generale di Vienna, curando i pazienti del reparto psichiatrico.

Nel 1884, mentre lavora in questo ospedale, Freud comincia gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta. Egli scopre che la cocaina, utilizzata dai nativi americani come analgesico, ha forti poteri sulla psiche che sperimenta su se stesso osservandone gli esiti stimolanti e privi – a suo dire – di effetti collaterali rilevanti. Freud decide di utilizzarla in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico, Ernst Fleischl, divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore.

Il caso di Fleisch, spinge Freud a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina” in cui emergono anche gli effetti dannosi della stessa. Dopo la pubblicazione smette di farne uso e di prescriverla. Nel 1885 ottiene la libera docenza universitaria e ciò gli assicura facilitazioni nell’esercizio della professione medica. La notorietà e la stima dei colleghi gli permettono una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario.

Tra il 1885 e il 1886 collabora con Charcot a Parigi, e si avvicina all’ipnosi come cura per l’isteria, metodo clinico che Freud vuol diffondere al suo ritorno a Vienna. Nell’autunno del 1886 apre, dunque, il suo studio privato, e in primavera sposa Martha, con cui mette al mondo sei figli.

In un primo momento si dedica allo studio dell’ipnosi e dei suoi effetti nella cura di pazienti psichiatrici, influenzato dagli studi di Joseph Breuer sull’isteria. In particolare diede molta rilevanza al caso di Anna O. (ossia Bertha Pappenheim), al quale s’interessa partendo dalle considerazioni di Charcot, che individua nell’isteria un disturbo della psiche e non una simulazione, come ritenuto fino ad allora. Dalle difficoltà incontrate da Breuer nel caso, Freud costruisce progressivamente alcuni principi basilari della psicoanalisi relativi alle relazioni medico-paziente.
Da qui si sviluppa il cuore della psicoanalisi, ovvero indagare attraverso le associazioni libere, lapsus, atti involontari, atti mancati e l’interpretazione dei sogni, i significati che essi comunicano. Dunque, Freud idea un approccio in cui cerca di far emergere alla coscienza contenuti che non sono affatto coscienti.

In questo periodo si occupa principalmente di malati di nevrosi e scrive gli “Studi sull’isteria” (1892-95). Attraverso la cura della nevrosi, nonché l’analisi di sé e dei propri sogni, nel 1897, spinto anche dai turbamenti derivanti dalla morte del padre, pone le basi della psicoanalisi. Il Libro “L’interpretazione dei sogni”, uscito nel 1899 ma datato 1900 lo rende poco per volta noto a un più vasto pubblico.

A partire dal 1902 in casa sua si effettuano le riunioni del mercoledì che, pian piano, raccolgono un gruppetto di seguaci viennesi, tra cui Jung, Jones, Abraham, Ferenczi. Ha così inizio il processo di diffusione mondiale della psicoanalisi.
Nel 1909 con Jung svolge un giro di conferenze negli USA e nel 1910 fonda con i discepoli l’Associazione Psicoanalitica Internazionale, che è presieduta da Jung, erede del suo pensiero da lui designato.

Nel 1911 si ha la rottura con Adler, e qualche anno dopo, nel 1913, quella con Jung per contrasti teorici e di personalità. Freud, però, continua la ricerca in psicoanalisi volta a sistemare i concetti fondamentali della disciplina, e di questi studi offre una sintesi nelle lezioni tenute dal 1915 al 1917 all’università di Vienna.

Nascita della psicoanalisi

Generalmente si individua come nascita della psicoanalisi la prima interpretazione scritta di un sogno realizzato dallo stesso Freud la notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, “il sogno dell’iniezione di Irma”. L’analisi dei sogni segna l’abbandono del metodo ipnotico e l’inizio di quello psicoanalitico. Alcuni, però, individuano come nascita della psicoanalisi il momento in cui Freud usa per la prima volta questo termine, ovvero nel 1896 dopo aver svolto un’esperienza di 10 anni nel settore della psicopatologia, da cui ne trae due articoli nei quali parla esplicitamente di psicoanalisi per descrivere il suo metodo di ricerca e trattamento terapeutico.

Il termine psicoanalisi è la traduzione dal tedesco del neologismo impiegato da Freud indicante un procedimento d’indagine dei processi mentali altrimenti inaccessibili alla coscienza e rappresenta, anche, un metodo terapeutico avente come scopo la cura delle nevrosi, basato su una serie di assunti sul funzionamento della psiche.

La psicoanalisi

Il contributo più significativo di Freud al pensiero moderno è l’elaborazione del concetto di inconscio. Secondo una versione diffusa della storia della psicologia, durante il XIX secolo la tendenza dominante nel pensiero occidentale era il positivismo, che consisteva nella possibilità degli individui di controllare la conoscenza reale di se stessi e del mondo esterno e nella capacità di esercitare un controllo razionale su entrambi. Freud, suggerisce che pensare di poter controllare la realtà è un’illusione, infatti, persino ciò che pensiamo sfugge al controllo e alla comprensione totale, e secondo Freud le ragioni dei nostri comportamenti spesso non hanno niente a che fare con i nostri pensieri coscienti.

La consapevolezza è distribuita tra i diversi strati di cui è composta la mente. Per questo esistono pensieri non immediatamente disponibili in quanto non coscienti, ovvero inconsci. L’inconscio è una parte della mente da cui generano una serie di comportamenti attuati senza essere sottoposti al controllo della coscienza.

Freud distingue un inconscio descrittivo, per cui le rappresentazioni del mondo esterno risultano non immediatamente disponibili a seguito della rimozione; e un inconscio topico, cioè una sottostruttura della psiche che affianca la coscienza e il preconscio ed è definita da processi e da leggi. L’inconscio studiato da Freud presenta una serie di tratti salienti, infatti è caratterizzato da dinamicità e conflittualità, in quanto è sede di processi causativi, quali le pulsioni e i desideri, e da processi difensivi, quali la rimozione che agisce direttamente sulle attività coscienti. L’inconscio, inoltre, ha una propria logica legata al processo primario, processo regolato dal principio del piacere che consiste nel fatto che le pulsioni, o desideri, tendono alla scarica immediata, cioè al piacere tramite l’azione nel mondo esterno, o l’allucinazione, come nel sogno. Le pulsioni, a loro volta, spostano l’investimento da un contenuto mentale (rappresentazione) all’altro, dando luogo ai fenomeni confusivi della condensazione di più rappresentazioni e dello spostamento da una rappresentazione all’altra. L’inconscio, infine, è caratterizzato dalla parte infantile che permane nell’adulto.

I sogni sono i prodotti che inducono, meglio di tutti, alla comprensione della nostra vita inconscia poiché pieni di contenuti derivanti da questa istanza. Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud argomenta l’esistenza dell’inconscio, parla dei contenuti onirici e dei loro significati descrivendo una accurata tecnica per accedere ai contenuti rimossi traendone significati attuali. Elemento cruciale del funzionamento dell’inconscio è la rimozione. Secondo Freud, spesso i pensieri e le esperienze sono così dolorosi da essere considerati insopportabili e per questo sono banditi dalla mente e dalla coscienza, ovvero rimosse. In questo modo costituiscono l’inconscio. Secondo Freud il concetto di rimozione è in sé un atto non-cosciente poiché costituito da pensieri o sensazioni non dipendenti dalla volontà.
Il preconscio, invece, è descritto da Freud come uno strato a cui accedere con minore difficoltà, in quanto interposto tra il conscio e l’inconscio (il termine subcosciente, benché usato popolarmente, è una parola derivante dalla traduzione anglosassone e non fa parte della terminologia psicoanalitica).

Io, Es e Super-Io, le tre istanze

Freud sostiene che la psiche sia costituita da tre componenti: Id (Es in tedesco), Ego (Ich in tedesco, o “Io” in italiano) e Superego (Überich” in tedesco, Super-Io in italiano). L’Es è il processo di identificazione–soddisfazione dei bisogni di tipo primitivo. L’Es costituisce l’elemento libidinoso della psiche e non conosce né negazione né contraddizione. Il Super-io rappresenta la coscienza e si oppone all’Es con la morale e l’etica. Il Super-Io costituisce la struttura mentale sulla quale si basano l’ambiente educativo interiorizzato, gli ideali dell’Io, i ruoli e le visioni del mondo, la conoscenza, l’etica, la morale.

L’Ego o Io, invece, si frappone tra Es e Super- io per bilanciare sia le istanze di soddisfazione dei bisogni istintivi e primitivi, sia le spinte contrarie derivanti dalle nostre opinioni morali ed etiche. Un Ego ben strutturato garantisce la capacità di adattarsi alla realtà e di interagire con il mondo esterno, soddisfacendo le istanze dell’Id e del Super-ego.

La teoria delle fasi psicosessuali

Secondo Freud gli esseri umani sono guidati da due pulsioni basilari: dalla libido, componente della pulsione di vita (Eros) e dalla pulsione di morte (Thanatos), la cui energia è stata inizialmente chiamata destrudo. La libido comprende la creatività e gli istinti, mentre la pulsione di morte è definita come un desiderio innato finalizzato alla creazione di una condizione di calma, o non-esistenza. Quando le pulsioni e l’energia libidica rimangono fissate nell’inconscio esse generano nevrosi e psicosi.

Egli argomenta che gli esseri umani nascono “polimorficamente perversi” e si sviluppano attraverso il raggiungimento di differenti stadi: fase orale, piacere del neonato nell’allattamento, fase anale, piacere del bambino nel controllo della defecazione e fase genitale, che prende anche il nome di fase fallica, in cui i bambini si identificano con il genitore di sesso opposto, mentre il genitore dello stesso sesso è visto come rivale (complesso di Edipo o Elettra).

La fissazione è un processo psichico che impedisce alla pulsione di modificare il suo obiettivo, rendendo impossibile il distacco dall’oggetto di fissazione. Si attuerebbe a causa della rimozione di alcuni elementi che consentirebbero la normale evoluzione dello stimolo (pulsione). È per questo che alcuni suoi effetti, durante la psicoanalisi, possono venire assimilati o confusi con altri processi. Essa non è altro che la conservazione della libido su oggetti o fasi inconsce relativi ai vari stadi psicosessuali di sviluppo. Queste cariche di libido conservata danneggiano l’individuo provocandogli la nevrosi.

La rimozione è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe dispiacere. La rimozione tuttavia va considerata come una modalità universale dello psichismo la cui finalità è proprio quella di difendere, come una sorta di apparato immunitario proprio dello psichismo, l’ideale dell’io (o Super-io) in cui ci si rispecchia.
La rimozione può riguardare sia un fatto vissuto, che un pensiero o un istinto. Il contenuto rimosso non tende spontaneamente a manifestarsi o non ha l’energia psichica per farlo, per cui spesso la rimozione è priva di conseguenze.

La regressione è un meccanismo in cui, per mancanza di superamento di una fase, anziché svilupparsi la nevrosi di quella tipica fase, si manifesta una nevrosi di fase precedente, in cui molta più libido è rimasta fissata, ma possono essere presenti anche cariche di libido di altre fasi, che si fanno sentire sotto forma di sintomo nevrotico.

La nevrosi

La nevrosi sono il principale campo di interesse di Freud. Esse costituiscono il miglior campo d’azione in cui opera la psicoanalisi. Le nevrosi sono diverse a seconda dello stadio di sviluppo o di regressione e cui si è fissati, e sono:
– nevrosi ossessiva, fissazione alla fase sadico-anale;
– nevrosi fobica e nevrosi d’ansia, derivante da fissazione in diverse fasi;
– nevrosi isterica, derivante da traumi sessuali e di vario tipo.

Le nevrosi non sono tanto malattie funzionali senza base anatomopatologica, come voleva Charcot, né sono dovute, come riteneva Breuer, all’accumulo di energia non scaricata; sono invece causate da rappresentazioni mentali sentite come inaccettabili e con le quali la persona è in conflitto e le respinge nell’inconscio, da dove riemergono come sintomi nevrotici. Freud ritiene dapprima che tali rappresentazioni rinviino ad eventi traumatici reali, poi sostiene che siano mere fantasie. Ai fini della cura pertanto è necessaria la presa di coscienza delle rappresentazioni rimosse, guadagnata attraverso una narrazione condotta con libere associazioni.

Se non si manifesta la nevrosi, dove dovrebbe invece palesarsi, allora si sviluppa la perversione, termine che in Freud non indica una malattia, ma la fissazione della libido su oggetti o ambiti non sessuali in senso genitale, che si sviluppa, ad esempio, nella fase sadico-anale o in quella edipica per il rifiuto a riconoscere il complesso di castrazione o l’invidia del pene o la sua assenza. In assenza di perversione si può sviluppare l’asessualità.

Scopo della psicoanalisi

L’obiettivo della terapia psicoanalitica di Freud, è, dunque, indurre allo stato cosciente i pensieri repressi/rimossi, rafforzando così il proprio Io. Per portare i pensieri inconsci al livello della coscienza, il metodo classico prevede delle sedute in cui il paziente è invitato a effettuare associazioni libere partendo dai propri sogni.

La psicoanalisi non è un metodo introspettivo, poiché non presuppone un ruolo attivo dell’osservatore, ma, al contrario, è richiesto al soggetto di lasciarsi andare al flusso delle idee che gli vengono in mente, libere associazioni, tecnica per la quale si lascia correre il pensiero al fine di lasciar emergere immagini inconsce. Quindi, al paziente è richiesto di raccontare tutto ciò che gli viene in mente, comprese le cose che ritiene di poco conto, le immagini spiacevoli o imbarazzanti. L’esposizione può consistere in una libera narrazione, oppure può partire da immagini di un sogno, da un lapsus, da un sintomo nevrotico. Il compito dell’analista consiste nell’interpretazione dei vissuti narrati dal soggetto, allargandone la comprensione e mettendo in evidenza quei significati che rivelano desideri e rappresentazioni inconsci. La terapia mira a rendere consapevole il soggetto dei suoi processi inconsci e la presa di coscienza dovrebbe portare allo scioglimento del conflitto inconscio e del sintomo nevrotico che da esso emerge.

Un altro elemento importante della psicoanalisi è l’assunzione, da parte dell’analista, di un atteggiamento distaccato che permette al paziente di proiettare durante l’analisi i pensieri e le sensazioni sull’analista. Attraverso questo processo, chiamato transfert, il paziente può riesumare e risolvere i conflitti rimossi, particolarmente quelli infantili, legati alla formazione e alla famiglia d’origine.

L’esilio a Londra e la morte

Freud, durante la seconda guerra mondiale, in pessime condizioni di salute, lascia Vienna per trasferirsi a Londra.
Nel 1923 Freud si ammala di carcinoma della bocca  e, per questo, subisce due operazioni, ma negli anni successivi la lesione ricompare trasformandosi in un epitelioma del cavo orale, con metastasi ossee. Freud convive per 16 anni con la malattia continuando a fumare sigari per la maggior parte del tempo.

Nonostante varie cure e diverse operazioni, alla fine deve subire l’invasiva asportazione della mascella, che lo costringerà ad effettuare molte sedute quasi in silenzio, solamente ascoltando i pazienti, e all’inserimento di una protesi.

La perdita di un figlio e di un nipote negli anni ’20, e la persecuzione nazista poi, non fanno che aggravare il tutto.  Nel 1939, un anno dopo essere giunto a Londra e aver subito l’ultima operazione e la radioterapia, il cancro è in fase terminale, e viene dichiarato inoperabile. Il 21 settembre 1939, Freud, consumato da terribili sofferenze, sul letto di morte chiede al dottor Max Schur di porre fine alle sue sofferenze. Così il medico, dopo aver consultato la figlia Anna come da richiesta dello stesso Freud, aumenta gradualmente la dose di oppiacei. Muore due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina gli provoca.

Il corpo di Freud viene cremato dopo una cerimonia civile, e le ceneri vengono tumulate in un cimitero londinese, per essere poi portate, alcuni anni dopo, nel tempio crematorio Golders Green nella zona nord della città e messe in un antico vaso greco, dove verranno tumulate anche quelle della moglie Martha, morta nel 1951.
La sua casa di Londra è nel famoso quartiere residenziale Hampstead nella zona Camden, non lontano dal centro di psicoanalisi, dove lavorerà, anni dopo, la figlia Anna.
Dopo la morte di Anna la casa è stata trasformata, per volontà della stessa, in un museo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La dopamina influenza le decisioni che prendiamo?

In che maniera la dopamina ci informa che non vale la pena aspettare per fare qualcosa? I risultati della ricerca suggeriscono una sua implicazione nel processo decisionale.

 

La dopamina influenza le nostre decisioni

Come facciamo a sapere se vale la pena aspettare in coda per ottenere un pasto al nuovo ristorante in città? Per fare questo il nostro cervello deve essere in grado di segnalare quanto sia buono il pasto e associare questa sensazione al ristorante. Questo avviene grazie ad un piccolo gruppo di cellule profonde nel cervello che rilasciano dopamina. La quantità di dopamina rilasciata da queste cellule può influenzare le nostre decisioni, è infatti un predittore della ricompensa futura. Ad esempio, viene rilasciata più dopamina sentendo il profumo di una torta in cottura rispetto all’odore degli avanzi.

Le azioni comportamentali appetitive sono influenzate dalla presenza di segnali associati a ricompense attraverso processi neurobiologici che coinvolgono il sistema dopaminergico mesolimbico (Salamone e Correa, 2012). I neuroni dopaminergici rispondono agli stimoli per segnalare informazioni prospettiche relative alla ricompensa, come la grandezza della ricompensa (Gan et al., 2010, Roesch et al., 2007, Tobler et al., 2005), la probabilità della ricompensa (Fiorillo et al. 2003, Hart et al., 2015), e l’attesa prima che una ricompensa venga consegnata (Day et al., 2010, Fiorillo et al., 2008, Roesch et al., 2007).

Durante l’attesa cambia il modo in cui viene rilasciata la dopamina?

Un nuovo studio pubblicato su Cell Reports, da Matthew Wanat, assistente di biologia presso The University of Texas a San Antonio (UTSA), fa luce sul funzionamento dei segnali dopaminergici cerebrali in relazione al trascorrere del tempo.

Nello studio di Wanat è stata utilizzata una tecnica chiamata voltammetria per registrare il rilascio della dopamina nel nucleo accumbens, in roditori addestrati mediante il condizionamento Pavloviano. Per questa registrazione sono state utilizzate due cue distinte con la funzione di segnalare il tempo trascorso dalla ricompensa alimentare precedente. Una cue è stata presentata dopo una breve attesa (15-20 sec.) mentre l’altra è stata presentata dopo un’attesa maggiore (65-75 sec.). Se il rilascio della dopamina evocata dalle cue trasmettesse solo informazioni sulle aspettative, non ci sarebbe alcuna differenza nella risposta dopaminergica tra una breve attesa e una lunghissima attesa perché entrambi i segnali indicherebbero la consegna di una ricompensa identica.

Ma Wanat e colleghi hanno scoperto che avveniva un maggior rilascio di dopamina dopo il periodo d’attesa più breve e hanno evidenziato due componenti della risposta dopaminergica: una diminuzione dei livelli di dopamina per tutto il tempo di attesa e un aumento del rilascio della dopamina con lo stimolo condizionato.

Lo studio si è focalizzato sull’identificazione dei segnali cerebrali che influenzano le decisioni che prendiamo. Wanat afferma che molte decisioni si basano sulla comparazione del valore tra stimoli associati a ricompense diverse. Ci sono molte prove che suggeriscono che questi segnali dopaminergici insieme agli stimoli esterni forniscono utili segnali, correlati al valore, che potrebbero influenzare le nostre decisioni e indurci ad attuare un determinato comportamento.

In sintesi, dai risultati della ricerca, si evince che la risposta dopaminergica  evocata dalle cue può riflettere un’integrazione di informazioni retrospettive e prospettive relative alla ricompensa per segnalare il tasso della ricompensa stessa.

Mentre Wanat ed i suoi collaboratori sono interessati a studiare come il rilascio della dopamina è coinvolta nell’innesco di un determinato comportamento, il loro lavoro potrebbe anche essere utile nella comprensione della tossicodipendenza, strettamente intrecciata con la dopamina.

Attraverso la comprensione del funzionamento del sistema dopaminergico in circostanze normali e anomale, si potrebbero identificare importanti cambiamenti e la maniera in cui poter intervenire, attraverso il sistema dopaminergico, nel rettificare le conseguenze di determinati comportamenti.

In generale la ricerca di Wanat si concentra sui rapporti del cervello con la memoria, lo stress e la tossicodipendenza e come queste componenti interagiscono tra loro. Egli è membro della UTSA Neurosciences Istitute, un’organizzazione di ricerca multidisciplinare per studi cerebrali integrati con la missione di promuovere una comunità collaborativa di scienziati impegnati a studiare le basi biologiche dell’esperienza e del comportamento umano e l’origine e il trattamento delle malattie del sistema nervoso.

Wanat è uno dei 40 ricercatori della Brain Healt dell’UTSA, un gruppo che comprende esperti in malattie neurodegenerative, circuiti cerebrali e segnali elettrici, lesioni cerebrali traumatiche, medicina rigenerativa, terapie delle cellule staminali, neuroinfiammazioni e psicologia. Insieme, stanno collaborando su complesse ricerche, su vasta scala, che forniscono una maggiore comprensione della complessità del cervello e dei fattori che causano il suo declino.

 

Controllo inibitorio e capacità di attesa: una breve introduzione

Nella letteratura scientifica si parla di capacità di inibizione o di controllo inibitorio per riferirsi ad un insieme di capacità che permette all’individuo di regolare il proprio comportamento, in modo da produrre una risposta adeguata rispetto all’obiettivo che ci si è posti o al contesto sociale in cui ci si trova.

 

Capacità di inibizione: una definizione generale

Nella letteratura scientifica si parla di “capacità di inibizione” o di “controllo inibitorio” (inhibitory control) per riferirsi ad un insieme di capacità che permette all’individuo di regolare il proprio comportamento, in modo da produrre una risposta adeguata rispetto all’obiettivo che ci si è posti o al contesto sociale in cui ci si trova.

Più precisamente, la capacità di inibizione è definita come l’abilità di reprimere un’azione dominante, o impulsiva, per metterne in atto una sub-dominante, più adattiva. Si tratta di un’abilità che tutti, in diversa misura, mettiamo in pratica nella vita di tutti i giorni. Pensiamo, ad esempio, a quando decidiamo di seguire una dieta, o a quando scegliamo di mettere da parte dei soldi per acquistare qualcosa che desideriamo molto. Entrambe queste situazioni riflettono un conflitto interno di fondo, un conflitto tra motivazioni opposte: da una parte, la tendenza ad avere una gratificazione immediata (reazione impulsiva), come mangiare una fetta di torta al cioccolato o spendere subito i propri soldi in cose futili; dall’altra, la motivazione ad “inibire” il comportamento impulsivo (risposta adattiva) per ottenere qualcosa di più significativo nel futuro, come tornare in forma o poter acquistare i biglietti aerei per un viaggio sognato da molto tempo. In entrambi i casi, la capacità di inibizione ci permette di ostacolare la risposta più impulsiva ed immediata e di ottenere una gratificazione maggiore, anche se questo significa posticiparla nel tempo.

Tale capacità è funzionale a molteplici attività e risulta correlata ad altri importanti processi cognitivi e sociali, come la memoria, l’attenzione, la socializzazione e la cooperazione. In genere, una persona che presenta più alti livelli di controllo inibitorio, possiede anche un maggiore livello di adattamento rispetto all’ambiente in cui vive, mostra maggiore competenza sociale e compie scelte più sagge. Infatti, una persona con un buon autocontrollo è più probabile che riesca ad inibire reazioni aggressive in situazioni conflittuali, a fare qualche sacrificio per il bene comune e a rispettare regole sociali condivise.

La capacità di inibizione in età evolutiva

La capacità di inibizione è molto complessa e la sua acquisizione avviene in modo molto graduale. Tuttavia, i primi segni di regolazione comportamentale si possono riscontrare sin dalla più tenera età. Infatti, già a partire dai 6-12 mesi di vita, ma soprattutto fra i 12 e i 18 mesi, il bambino comincia a comprendere le prime regole sociali, prevalentemente veicolate dalle sue principali figure di attaccamento. In questo periodo si può cominciare a notare nel bambino una sempre maggiore attenzione alle indicazioni dell’adulto e una progressiva aderenza alle richieste che arrivano dal mondo esterno.

Dai 2 anni in poi, il bambino mostra le prime capacità di attesa, ad esempio quando deve aspettare per poter giocare con un oggetto che a lui piace molto. In questa fase, è possibile osservare anche le prime forme di interiorizzazione di divieti e regole: anche in assenza dell’adulto, il bambino può provare a regolarsi da solo, tenendo a mente la voce della mamma che gli dice di fare o non fare qualcosa.

Il periodo in cui si avranno maggiori progressi nel campo dell’ autoregolazione e della capacità di inibizione, sarà comunque l’età prescolare, tra i 3 ed i 6 anni di vita. A questo punto del suo cammino evolutivo, il bambino sviluppa una sempre maggiore e forte capacità di controllare il proprio comportamento, in presenza e in assenza dell’adulto. Per questo, si passa da una regolazione basata prevalentemente sul sostegno dell’adulto ad una vera e propria auto-regolazione.

Il paradigma del ritardo della gratificazione

Nello scenario scientifico internazionale degli ultimi 30 anni, ha assunto particolare rilievo, nello studio delle capacità inibitorie dei bambini in età prescolare, il paradigma del “ritardo della gratificazione”. Il ritardo della gratificazione (o delay of gratification) richiama quanto esposto sopra e si riferisce alla capacità di ritardare una gratificazione immediata con lo scopo di ottenere una gratificazione più grande nel futuro. Uno dei primi ricercatori ad indagare tale costrutto è stato lo Psicologo austriaco Walter Mischel (Vienna, 22 febbraio 1930), che, tra gli anni ’70 e ’90, insieme ai suoi collaboratori, mise a punto una serie di compiti in cui veniva testata, con modalità differenti a seconda della tipologia di prova, la capacità di attendere in bambini prescolari. Fra tutti, preme ricordare la celebre prova del marshmallow test, presentata in un simpatico video in fondo all’articolo. In questa prova, il bambino è posto di fronte ad uno stimolo accattivante, ovvero una caramella (marshmallow) e gli si dice che, se vuole ottenere due caramelle anziché una, deve aspettare il ritorno dell’adulto. Se la vuole mangiare subito invece, può farlo, ma non otterrà la seconda caramella. Viene scelto uno stimolo altamente desiderato dal bambino per suscitare il conflitto motivazionale sopra-citato: da una parte il bambino vorrebbe mangiare subito la caramella (azione dominante o impulsiva), dall’altra, per averne di più, sa che dovrà aspettare del tempo (azione sub-dominante o adattiva).

Maggiori approfondimenti sulle implicazioni che l’ autoregolazione e le prestazioni in compiti di ritardo della gratificazione hanno a livello evolutivo, verranno presentati dall’autrice in successivi contributi, alla luce delle più recenti ricerche condotte a livello internazionale.

IL TEST DEL MARSHMALLOW – GUARDA IL VIDEO:

 

Recensione di Due mamme due papà. Un libro sulla genitorialità – Fluidsex

Una riflessione inclusiva, ancorata a studi scientifici, consigliata a chi è genitore, a chi vorrebbe esserlo e a chi vorrebbe meglio comprendere la genitorialità, in qualsiasi forma essa si presenti. L’autore, che vanta diverse pubblicazioni monografiche, oltre che su riviste internazionali e nazionali, è ricercatore universitario di Psicologia Clinica presso l’Università degli studi di Bari e tra i suoi prevalenti interessi di ricerca troviamo l’identità sessuale nelle sue diverse declinazioni e l’ omogenitorialità.

 

L’ omogenitorialità è differente dalla genitorialità eteroparentale?

Il presente manuale è tripartito. La prima sezione è dedicata alle rappresentazioni culturali negative sull’omosessualità. In una seconda parte l’autore si concentra sulla genitorialità e sulle funzioni che sottendono ad essa. Ed infine vi è una rassegna degli studi empirici sui figli di famiglie omogenitoriali.

Partendo dal presupposto che la famiglia non è un’entità esistente e definita per natura, ma un’istituzione prodotta dalla cultura del momento e per questo motivo in continuo mutamento, lo scopo dell’autore è quello di assumere un modello pluralista, capace di mettere in dubbio le fondamenta delle prospettive “infra-umanizzanti” e di superare gli stereotipi escludenti, legati al genere e all’orientamento sessuale.

A proposito dello sviluppo psicologico dei figli cresciuti in nuclei omogenitoriali, sono più soggetti allo sviluppo di psicopatologie?

A seguito dei diversi studi scientifici iniziati negli anni ’70, autorevoli associazioni scientifiche internazionali hanno espresso ufficialmente una propria posizione riguardo l’ omogenitorialità. Tra queste l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (AACAP), l’American Psychoanalytic Association (APsaA) e l’American Academy of Pediatrics (AAP). Quest’ultima, come riportato da Taurino, nel 2006 dichiara “I risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori”.

Come possono essere interpretati i risultati di questi studi, riassunti in questa autoritaria citazione dell’AAP? L’autore illustra come l’orientamento sessuale sia una dimensione autonoma rispetto alla genitorialità e che per questo motivo non va ad interferire con alcuna sotto-funzione genitoriale.

Come fa un bambino che nasce in una famiglia omogenitoriale femminile ad avere un punto di riferimento autorevole e normativo? E come fa un bambino che nasce in una famiglia omogenitoriale maschile a ricevere cura?

Quanto è stato detto per l’orientamento sessuale può essere sostenuto per il genere dei genitori. Non è l’identità di genere a determinare il ruolo e la funzione che il genitore andrà a svolgere con il proprio figlio. La dimostrazione del fatto che le funzioni ed i ruoli attribuiti al genere del genitore siano anch’essi un prodotto culturale, anziché “naturale”, sono gli attuali ruoli materni e paterni che, anche nelle famiglie eteroparentali, in seguito al cambiamento sociale dei ruoli femminili e maschili, non sono più delineati come lo erano in passato.

Un altro perno cruciale toccato da Taurino è un concetto sul quale sono state svolte più riflessioni in quanto prettamente connesso al tema delle adozioni: la generatività biologica. Essere genitori non implica necessariamente la procreazione di un figlio, così come la procreazione di un figlio non comporta automaticamente lo svolgimento di una funzione genitoriale.

Se la generatività biologica, il genere e l’orientamento sessuale di una persona non influiscono sulla genitorialità, cosa fa sì che un adulto sia in grado di esercitare una buona funzione genitoriale?

Taurino evidenzia come la genitorialità sia un sistema di competenze diviso in sotto-funzioni differenti: cura, garanzia delle funzioni di base, riconoscimento dei segnali di bisogno del figlio, riconoscimento della soggettività del figlio, protezione, sintonizzazione con l’altro senza fusioni, regolazione degli stati emotivi, funzione normativa e funzione predittiva.
Questi in elenco sono solo alcune tra le sotto-funzioni genitoriali riportate ed illustrate dall’autore. Esse sono inoltre arricchite da spiegazioni chiarissime di alcuni costrutti psicologici, adatti a chi fosse curioso di entrare nel mondo della psicologia dell’attaccamento e dello sviluppo o per studenti di psicologia alle prese con autori come Winnicott e Bowlby.

I figli di genitori omosessuali saranno a loro volta omosessuali?
I figli di genitori transessuali avranno più difficoltà ad identificarsi nel proprio genere di nascita?
Se studi empirici mostrano come figli di genitori omosessuali siano più predisposti al superamento di stereotipi legati al genere, possiamo considerare questo risultato una capacità del soggetto o è da considerare sintomo di confusione?
Come impatta l’omofobia sulla qualità di vita nelle famiglie omogenitoriali?

Per trovare risposta a queste ed altre domande e per approfondire i temi accennati in questa recensione BUONA LETTURA!

Inoltre, per chi volesse approfondire la parte degli studi scientifici sull’ omogenitorialità si consiglia la seguente lettura di approfondimento:
Patterson, C. J. (2005). Summary of research findings. Lesbian and gay parenting: A resource for psychologists. Washington, DC: American Psychological Association.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Una sfida alla didattica contemporanea: La Warm Cognition

Difficoltà nello studio e di concentrazione spesso sono associati a quadri di Disturbi Specifici dell’apprendimento o ad un deficit di attenzione e/o iperattività. Tuttavia l’apprendimento è un processo complesso e di studenti poco brillanti le scuole sono piene, senza che ciò sia indice di un disturbo neuropsicologico. Proprio da questa riflessione è nato il filone di ricerca che è poi sfociato sulla warm cognition della prof.ssa Daniela Lucangeli e dei suoi collaboratori all’università di Padova.

 

Da dove nasce la warm cognition

Ti ricordi la sensazione che ti pervadeva quando l’insegnante ti chiamava alla lavagna per risolvere un’equazione? Probabilmente, soprattutto nel caso in cui ciò che provavi era angoscia, lo ricorderai bene.
Ti sei mai chiesto perchè, anche da adulto, ti ricordi come se fosse ieri quell’insegnante che ti bloccava o quell’altro che, invece, è stato fonte di ispirazione? Perchè abbiamo ancora la sensazione della paura del compito in classe o quella dell’interrogazione?

Ecco una prima, superficiale, risposta: il nostro cervello non ricorda i contenuti, ma le emozioni. Le emozioni lasciano una traccia a lungo termine.
Ma analizziamo la questione più da vicino.

Difficoltà nello studio e di concentrazione spesso sono associati a quadri di Disturbi Specifici dell’apprendimento o ad un deficit di attenzione e/o iperattività. Tuttavia l’apprendimento è un processo complesso e di studenti poco brillanti le scuole sono piene, senza che ciò sia indice di un disturbo neuropsicologico. Proprio da questa riflessione è nato il filone di ricerca che è poi sfociato sulla warm cognition della prof.ssa Daniela Lucangeli e dei suoi collaboratori all’università di Padova.
Ciò che è emerso dai loro studi è estremamente interessante e ci invita ad una rivalutazione di ciò che è stata la didattica fino ad oggi.

Il processo di insegnamento e apprendimento all’interno dei circuiti neurali

Lo studio delle emozioni ci ha mostrato come esse abbiano luogo nel sistema limbico, in particolare nell’amigdala, e abbiano una funzione di allerta per l’organismo, fortemente legata alla sopravvivenza. E’ proprio questa attivazione dei centri sottocorticali dell’encefalo che determina la componente fisiologica dell’emozione (ad esempio: sudorazione, tachicardia, tensione muscolare, etc..), ma contemporaneamente lo stimolo viene valutato anche dalle cortecce associative che mettono in moto i processi di valutazione cognitiva della situazione emotigena, parti integranti dell’esperienza emotiva.
Se trasportiamo tutto questo ad una situazione reale possiamo capire come, ad esempio, se uno studente apprende sperimentando paura, la paura di sbagliare, il suo sistema di sopravvivenza si attiverà in futuro in modo tale da consentirgli l’evitamento di situazioni analoghe.
Questo accade perchè emozione e cognizione sono due facce della stessa medaglia, fortemente interconnesse fra loro che operano a livelli ancestrali.

L’avere compreso questo meccanismo ci ha portati al passo successivo, esattamente ciò che ognuno di noi ha esperito pensando a quando veniva chiamato alla lavagna dall’insegnante: l’attivazione emotiva genera memorie più durature.

Il cortocircuito emotivo

Se una nozione è stata appresa sperimentando paura, ogni qual volta verrà ripescata dalla memoria si attiverà nuovamente il vissuto emotivo corrispondente poiché apprendimento ed emozione hanno tracciato lo stesso percorso sinaptico, viaggiando insieme. Quindi mettiamo in memoria anche le emozioni, in questo caso, negative.

Ma mentre la nozione appresa finirà nella memoria procedurale o semantica, la memoria del sentimento di incapacità e inadeguatezza finirà nella memoria autobiografica, intaccando significativamente l’autostima e l’autoefficacia dell’alunno. Infatti il ripetersi di questo meccanismo per svariati anni scolastici porterà ad una stabilizzazione del circuito che è ciò che in psicologia si chiama fenomeno dell’impotenza appresa. Il bambino imparerà che non è capace ad eseguire quel dato compito, sentendosi impotente, e l’esperienza reiterata del fallimento gli darà conferma della sua incapacità innata. Ma ciò accade perchè l’emozione associata a quella funzione specifica si comporta da antagonista dell’apprendimento.

Cos’è la warm cognition

Ma quindi cos’è questa warm cognition? Mi piace pensarla come l’antidoto a questi cortocircuiti emozionali, come li chiama la prof.ssa Lucangeli. Letteralmente potremmo tradurla come “emozione calda”. Per dirla in maniera ancora più semplice, il sorriso.
Dobbiamo fare in modo di tracciare gli apprendimenti con delle emozioni positive e ciò può accadere soltanto se instauriamo un’alleanza con il bambino, in cui l’errore è il nemico da sconfiggere.

Ecco perchè è importante che l’insegnante si svincoli dalla categoria del giudizio, nel quale è stato relegato dal sistema educativo basato sulla valutazione quantitativa, uscendo quindi da quella dimensione giudicante che trasmette paura (del voto, dell’errore, etc..), senso di colpa, di incapacità.

Questa è la sfida che le neuroscienze lanciano alla didattica e alla scuola contemporanea. Formare gli insegnanti in modo tale che possano fare leva su emozioni positive come la motivazione allo studio, la gratificazione, il senso di autoefficacia. Questi meccanismi cognitivi, infatti, sono considerati dalla ricerca dei fattori predittivi positivi per il successo scolastico e favoriscono i processi di apprendimento.

 

La pratica del colloquio clinico (2017) di M. Recalcati – Recensione del libro

Il testo La pratica del colloquio clinico, punto nevralgico della epistemologia lacaniana, di cui l’autore Massimo Recalcati funge da insigne esponente, si compone di più parti, organizzate secondo una modalità che ricalca, per certi aspetti, la modalità dialogica e organizzativa del magister. 

 

La pratica del colloquio clinico: la parola nell’epistemologia lacaniana

Nella prima parte del libro La pratica del colloquio clinico, l’autore esplora e illustra in modo chiaro, avvalendosi di esemplificazioni schematiche che conferiscono al “DiKtat”  una maggior complessità, il concetto di parola e le sue declinazioni nell’ambito della epistemologia lacaniana. Gli aspetti evidenziati sono: il rapporto tra la funzione della parola e il linguaggio, l’interdipendenza relazionale di domanda e risposta e il rapporto tra la parola ed il desiderio. Il primo punto viene esplicitato dall’autore attraverso un interessante volano circa le funzioni del linguaggio sottolineando come la “domanda” sia strettamente connessa alla “risposta” e da come, in virtù di questo, emerga una spirale di significazione.

Nel secondo punto viene dato spazio alla forte interdipendenza relazionale tra domanda e risposta, sottolineando come entrambi siano fattori che rispettino il principio di reciprocità. A questo proposito, Massimo Recalcati fornisce un esempio (pianto del bambino) evidenziando come il processo di significazione possa aver luogo nel momento in cui quella comunicazione venga ascoltata dall’Altro (madre).

Questi tre aspetti si incastrano all’interno di una cornice relazionale dove peculiare risulta “il desiderio di essere il desiderio dell’Altro e il desiderio di riconoscimento e di ascolto dell’Altro”. Rispetto a questo costrutto , l’autore sottolinea come, nell’ambito di un colloquio clinico, la parola, in virtù dell’ascolto dell’Altro, acquisisca un significato nuovo.

Vari sono gli esempi presentati ne La pratica del colloquio clinico rispetto alle distorsioni di  questo “assioma”, come quello del soggetto isterico. Infatti il desiderio dell’isterica, secondo Massimo Recalcati, è l’essere in uno stato di perenne insoddisfazione. In virtù di questo, qualora il desiderio del soggetto isterico trovasse un suo appagamento, allora lo stesso desiderio verrebbe a scomparire. Questa distorsione si verifica in quanto alberga nella personalità isterica una disgiunzione tra desiderio e godimento.

L’inconscio Lacaniano

Riprendendo il magister, l’autore illustra il modello epistemologico strutturale secondo cui il soggetto è costituito dall’Altro. La relazione con l’altro, quindi, esiste prima del soggetto ed è parte integrante dello stesso in quanto lo determina ancora prima della sua nascita effettiva. Questi concetti , dalla lettura del testo La pratica del colloquio clinico, sembrerebbero un punto essenziale per la conduzione di un colloquio clinico che segua le tracce della matrice lacaniana. Altri punti nodali che vengono esplorati, riprendendo e delineneando le differenze rispetto a Freud, sono il concetto di inconscio lacaniano, il concetto di transfert simbolico e transfert immaginario, la parola piena, ovvero parola dell’ES e la parola vuota, ovvero parola dell’IO.

L’inconscio lacaniano viene descritto nel testo come una costruzione eterodeterminata del soggetto, il transfert viene definito come “ricerca dell’oggetto in movimento nel luogo dell’altro”. Nello specifico, il transfer immaginario, secondo l’autore, avviene quando le dinamiche relazionali che si innescano durante il colloquio comprendono i meccanismi di difesa di resistenza e idealizzazione, mentre il transfert simbolico, dinamica più profonda e a cui si spera auspichi la relazione terapeutica, favorisce la dinamica relazionale dei meccanismi di difesa di ripetizione ed elaborazione. La parola piena e la parola vuota, rispettivamente parola dell’Es e parola dell’Io, si manifestano la prima durante la relazione terapeutica quando è in atto il transfert simbolico, la seconda quando è in atto il transfert immaginario.

La conduzione del colloquio clinico illustrata da Massimo Recalcati

Focus della seconda parte de La pratica del colloquio clinico è la dinamica e conduzione del colloquio clinico. Con acume e chiarezza, l’autore Massimo Recalcati descrive la triade peculiare quale sintomo, domanda, transfert spiegando le rispettive declinazioni nei vari quadri psicopatologici dei casi clinici presentati. Grazie ad un  indispensabile exucursus è stato possibile, in accordo con l’imperativo dei nostri avi “repetita iuvant”, attraversare  i vari quadri psicopatologici, descritti con minuzia, osservandone similitudini e differenze rispetto alle dinamiche di transfert immaginario e simbolico.

In particolare, vengono delucidate con somma chiarezza le differenze di relazione terapeutica che si vengono a innescare nel contesto del colloquio clinico con soggetti con struttura psicotica e struttura nevrotica aventi quadri fenomenologici complessi (tossicodipendenza, isteria, nevrosi ossessiva, schizofrenia). Le differenze riguardano la posizione del terapeuta, la modalità di transfert, i meccanismi relazionali e difensivi che vengono messi in atto e l’elaborazione del transfert. Un testo chiaro, esauriente e che caldeggia il desiderio del lettore e, probabilmente, in accordo con Lacan, dell’ Altro (autore) di approfondire maggiormente la fonte epistemologica lacaniana.

Il ruolo della Fobia Sociale nel fenomeno dell’Hikikomori

Sembra non esser stata ancora ben esplorata la relazione tra sindrome di Hikikomori e ciò che ben conosciamo chiamarsi Fobia Sociale, tenteremo di porci in un’ottica esplorativa in base alla letteratura finora a disposizione, al fine di stimolare un approfondimento e conoscerne al meglio il legame

Cinzia Borrello e Valeria Mancini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

E’ un grido di protesta contro una società frenetica, feroce e soffocante, che non dà la possibilità di sbagliare, di essere diversi, di comportarsi al di fuori della logica del gruppo

 

Questo si può leggere nel sito della comunità Hikikomori Italia creata da Marco Crepaldi, laureato in psicologia.

Della sindrome di Hikikomori se ne parla ormai spesso, questi giovani, che si autorecludono nelle loro stanze senza più uscirne per lunghi periodi di tempo, sono stati oggetto di studio a partire dalla fine degli anni ’80. Come ben noto, a dare il nome a tale condizione fu lo psichiatra giapponese Saito Tamaki, con l’intento di dare un nome alla condizione che tali ragazzi stavano affrontando, un nome al fenomeno in generale piuttosto che dare una connotazione di malattia.

Si tratta di una sindrome, cioè un insieme di sintomi associati tra loro e non vi è diagnosi di malattia. Nel tempo i ragazzi stessi, una volta compreso di non essere i soli in tale condizione, ne hanno dato una connotazione soggettiva, una categoria in cui riconoscersi, al fine di crearsi un’identità comune: “io sono un hikikomori” (Tesi Braidotti, 2013).

E’ di social withdrawal ciò di cui si parla, una grave forma di ritiro sociale, autoreclusione che a partire dall’adolescenza viene a svilupparsi e a perdurare per un periodo che può anche arrivare a decenni. Di eziologia complessa, si compone di un disagio psichico dovuto alla concatenazione di una serie di fattori tra cui la presenza massiccia della figura materna e l’assenza emotiva del padre, nonché un contesto sociale frustrante, colmo di aspettative e omologante. Tale condizione induce nel ragazzo con vulnerabilità un senso di inadeguatezza che a fronte di un confronto con l’altro diviene così insostenibile da trovare nell’isolamento l’unica via percorribile (Moretti, 2010).

Sindrome di Hikikomori e fobia sociale: quale relazione?

Ansia marcata relativamente a situazioni sociali, timore del giudizio negativo, evitamento delle stesse situazioni che arrecano ansia e paura, isolamento sociale, confronto temuto con l’altro, queste e altre informazioni ci hanno fatto porre interrogativi sulla relazione esistente tra sindrome di Hikikomori e ciò che ben conosciamo chiamarsi Fobia Sociale. Sembra non esser stata ancora ben esplorata la relazione tra tali fenomeni, tenteremo di porci in un’ottica esplorativa in base alla letteratura finora a disposizione, al fine di stimolare un approfondimento e conoscerne al meglio il legame.

Premessa necessaria risulta essere quella secondo cui le difficoltà nel reperire informazioni, attendibili e generalizzabili, rispetto a ciò che è la relazione tra Fobia Sociale e la sindrome di Hikikomori, risiedono nel fatto che tale fenomeno nasce nell’Asia Orientale, nel quale la Fobia Sociale è socialmente accettabile. L’Asia Orientale ha una maggiore accettazione del ritiro sociale e delle tendenze evitanti, gli stessi livelli di ansia sociale potrebbero indurre diagnosi nei paesi occidentali e non soddisfare invece i criteri in un paese dell’Asia Orientale (Schreier et al., 2010 ).

La Fobia Sociale è un disturbo caratterizzato dalla paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri (American Psychiatric Association, 2014). Le situazioni condividono la credenza dell’individuo di essere osservato, di essere giudicato e di essere valutato negativamente come soggetto inadeguato e ridicolo. La Fobia Sociale risulta, quindi, essere una condizione in cui il timore di tali situazioni sociali inibisce le performance relative a vari contesti quali quello sociale, emozionale, prestazionale e lavorativo.

La recente revisione del manuale “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders” (5th ed., DSM-V; American Psychiatric Association, 2013) indica che tale disturbo viene diagnosticato con minore frequenza nei soggetti dell’Asia Orientale, proponendo l’ Hikikomori e il Taijin Kyofusho come manifestazioni di tale disturbo.

Chiare sono le differenze essenziali tra le culture individualistiche occidentali e quelle collettive orientali. Nelle culture occidentali, l’imbarazzo assume una connotazione negativa, esponendo il soggetto a una valutazione di incompetenza relazionale, mentre nelle culture orientali diviene segno di rispetto, competenza sociale e maturità (Chen, Rubin, Li, 1995; cit. in Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015). Inoltre, nella cultura occidentale, l’autoesclusione tende ad esprimersi attraverso la dipendenza da alcol, droghe e/o le negazione dei propri bisogni primari (come accade ad esempio nei disturbi del comportamento alimentare attraverso l’anoressia o la bulimia), i giovani orientali, figli di un contesto gruppale, scelgono invece, la via del silenzio (Moretti, 2010).

Il ruolo dello stile genitoriale nella sindrome di Hikikomori e nella Fobia Sociale

Fattore comune a giustificare la presenza di soggetti con sindrome di Hikikomori in entrambe le società, potrebbe risiedere nello stile genitoriale; in accordo con Bowlby (1969), la competenza genitoriale si verrebbe a sviluppare attraverso un attaccamento sicuro, garantendo un senso di fiducia nella figura di attaccamento e una maggiore esplorazione. Un attaccamento insicuro potrebbe invece provocare difficoltà relazionali (Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015).

Indisponibilità, criticismo, rifiuto ed uno stile che tende a valorizzare la competizione e l’umiliazione potrebbe favorire sentimenti di inadeguatezza e la convinzione di essere persone di scarso valore (Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015).

In molti casi si è osservato come in soggetti Hikikomori vi siano episodi di “sconfitta senza lotta” già prima di presentare tale condizione, come ad esempio rinunciare ad un esame nonostante lo si abbia preparato o l’abbandono di una squadra perché si pensa non si verrà selezionati. Vengono quindi ad evitarsi condizioni di competizione sociale. Tali soggetti si trovano di fronte a un’immagine di un sé ideale che nasce dai desideri di altri piuttosto che dai propri. Un ideale avuto fin dall’infanzia, non prodotto dai propri interessi e passioni ma originato dalle opinioni altrui. Si crea quindi un’immagine fondata dalle aspettative altrui e dalle difficoltà di imporre i propri obiettivi. Il contrasto tra il proprio Sé e il Sé ideale imposto dai propri genitori e dalla società, provoca così l’impossibilità di alternative all’isolamento (Suwa, 2013). L’ipersensibilità al criticismo, nonostante non venga ad essere classificato all’interno dell’attuale sistema diagnostico, sembrerebbe essere una delle caratteristiche principali dei soggetti con sindrome di Hikikomori (Suwa, 2013).

In particolare la letteratura spiega come l’identikit di un soggetto con sindrome di Hikikomori sia quello di figlio unico, di genitori entrambi laureati, di cui la figura paterna, quasi sempre assente (a lavoro per gran parte della giornata), ricopre un ruolo dirigenziale, e scatena nel giovane Hikikomori il timore di non essere all’altezza, di non essere abbastanza bravo come i suoi compagni di scuola o di non essere sufficientemente adeguato per poter raggiungere lo stesso prestigio del padre, mentre la madre casalinga si occupa, come impone la cultura nipponica, della gestione di figli e della casa e risulta essere una figura fin troppo presente e iperprotettiva, unica deputata alla crescita e all’educazione del figlio sul quale è facile proiettare ansie e attese (Moretti, 2010)

Facile sembra essere l’analogia con lo stile genitoriale dei soggetti con Fobia Sociale. In genere cresciuti in famiglie chiuse, con carenti relazioni sociali, timorose del giudizio altrui, sensibili alla vergogna e poco affettuose. L’interesse di queste famiglie sembra più orientato ad avere giudizi positivi, o comunque non negativi, da parte degli altri che a godersi la vita. I genitori sono descritti spesso come ansiosi, ipercritici e severi.

In entrambe le condizioni appare chiaro come il coinvolgimento delle famiglie sia un fattore importante, in quanto esse contribuiscono non solo alla genesi ma anche al mantenimento di tali condizioni.

Sindrome di Hikikomori primaria e secondaria

Un ulteriore approfondimento chiarirebbe la presenza di studi che si pongono su due fronti differenti, sembrerebbero infatti esserci due tipologie di Hikikomori. Alcuni di essi mostrano come la condizione di Hikikomori sia la premessa da cui partire per indagare la possibile presenza di diagnosi di Fobia Sociale. Si è osservato, in tali ricerche, la presenza di diagnosi di Fobia Sociale in soggetti con sindrome di Hikikomori con una percentuale che va dal dal 3% (Watabe et al., 2008, cit. in Nagata, 2013) al 15% (Koyama et al., 2010, cit. in Nagata, 2013) del campione. In altri studi, differentemente da quanto si evince sopra, si è preso in considerazione la presenza di diagnosi di Fobia Sociale per poi indagare l’incidenza di tale fenomeno sulla presenza o meno della condizione di Hikikomori. Si sottolinea come vi possa essere la possibilità che la sindrome di Hikikomori possa essere causata da depressione, disturbo d’ansia o alcuni disturbi della personalità. Nella ricerca proposta da Nagata (2013) in tutti i casi presi in esame, l’esordio della Fobia Sociale ha preceduto o coinciso con l’ Hikikomori.

E’ così che ci si imbatte in una duplice condizione di Hikikomori: primario o secondario.

Si definisce primario la manifestazione del fenomeno non descritto dalle concettualizzazioni attuali presenti nel DSM-5, il soggetto non presenterebbe alcuna diagnosi grave pur non essendo in grado di entrare in società e di adattarsi al suo ambiente. Si definisce secondaria, invece, quella condizione che include gravi disturbi mentali tra i quali il Disturbo d’Ansia Sociale (Suwa, 2013). Come già sottolineato i soggetti con sindrome di Hikikomori potrebbero soffrire di molte patologie, tra le quali depressione, ansia, apatia, disturbi di personalità, antropofobia ma, secondo Saitō, queste si presenterebbero solo successivamente, come conseguenza del prolungato isolamento.

Il ruolo delle aspettative altrui

Nella condizione di ansia sociale il contesto sociale è spesso luogo di invalidazioni, ma anche l’ambiente in cui non è più possibile appartenere, il soggetto si sforza di restare nel gruppo per poi vanificare il tutto con il timore di fare una brutta figura. L’ansioso sociale tende a vivere isolato dagli altri perché non si sente all’altezza. L’esperienza della appartenenza ai gruppi è importante per tutti gli individui in funzione della costruzione della loro identità sociale, ma nei casi dell’ ansia sociale può risultare ridotta o addirittura compromessa (Castelfranchi, 1997; cit. in Procacci, Popolo e Marsigli, 2015).

All’interno della sindrome di Hikikomori, il senso di inadeguatezza dell’adolescente impatta con la società incentrata su valori consumistici, procurando reazioni di timore, angoscia e solitudine, verso un percorso che sfocia in un’estrema sfiducia verso la realtà che lo circonda.

In tale situazione, ciò che si altera, oltre alla nozione di tempo e spazio, con la conseguente inversione del ritmo giorno/notte, sembra essere il disagio psichico vissuto, espresso anche attraverso una sorta di regressione infantile che si alterna tra un eccessivo attaccamento materno espresso da una forma patologica e snaturata di dipendenza fino ad arrivare spesso ad un’estrema forma di violenza domestica agita all’interno del sistema familiare. (Moretti, 2010)

In alcuni casi quindi il senso di inadeguatezza sfocia in reazioni di rabbia e violenza e il confronto con gli altri diviene insostenibile; l’altro assume un ruolo di minaccia, confermando la propria idea di inadempienza, reagendo così con un estremo isolamento (Pieri, 2007).

Nei soggetti con Hikikomori il ritiro sociale inizialmente offrirebbe sensazioni di sollievo per essersi sottratti al peso del giudizio, ma con il suo perdurare, affiorano sentimenti depressivi legati al timore di non riuscire a trovare il coraggio di uscire da questa situazione di stallo. Non più abituati alle situazioni sociali questi ragazzi si trovano ad affrontare la situazione con sempre più difficoltà nell’esporsi e dipendenti dalle condotte di evitamento (Spiniello, Piotti, Comazzi, 2015).

In entrambe le condizioni appare chiaramente come le pressioni di realizzazione sociale siano molto forti nell’adolescenza e nei primi anni di vita adulta, quando vi sono molte aspettative sul futuro. Tali ragazzi si trovano a dover colmare, ad esempio virtualmente, il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative sociali. Si sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento in particolar modo quando questa differenza diviene insostenibile. Tali sentimenti negativi potrebbero condurre ad atteggiamenti di rifiuto ulteriore delle aspettative altrui, in particolar modo di genitori, insegnanti e coetanei, e in più in generale della società. Così vi sarà la tendenza all’evitamento e all’allontanamento della condizione temuta e odiata; e quindi all’isolamento  (Pieri, 2007).

Nella realtà clinica si può osservare come i disturbi legati alla presenza di livelli elevati di ansia sociale siano disposti lungo un continuum che va dalla timidezza ed inibizione comportamentale a quadri clinici complessi e invalidanti, caratterizzati da evitamento marcato di tutte le situazioni interpersonali e prestazionali a causa di una eccessiva sensibilità al giudizio e alla critica (Perugi, Simonini, Nassini, Moretti, 2002). Sarebbe davvero molto interessante riuscire a collocare la sindrome di Hikikomori e la Fobia Sociale lungo questo continuum, perché questo passaggio ci potrebbe aiutare a definire la cronologia dello sviluppo dei due disturbi e l’eventuale comorbilità tra essi. Ciò che emerge dalla letteratura è che il fenomeno dell’ Hikikomori sembra in qualche maniera fondarsi su una particolare caratteristica di personalità molto diffusa tra i giovani giapponesi che, a sua volta, in qualche modo, alimenta il desiderio di completo ritiro sociale, ovvero la timidezza, che nella lingua giapponese si traduce con lo stesso termine di vergogna e si amalgama in una morbosa paura degli altri, una sorta di fobia (Moretti, 2010). Ma, questo dato, da solo, non è sufficiente per il posizionamento dei due disturbi lungo il continuum. Questa carenza di informazioni è dovuta al fatto che ad oggi ci sono pochi studi accurati sull’ Hikikomori e inoltre, il Disturbo d’Ansia Sociale risulta essere il più sotto riconosciuto e sotto trattato disturbo d’ansia (Zimmerman & Chelminski, 2003;  cit. in Nagata, 2013).

Per le cause sopracitate, allo stato attuale, ci risulta davvero ostico definire la relazione tra tali fenomeni. Per il raggiungimento di questo obiettivo clinico, risultano necessari ulteriori studi su entrambi i disturbi.

Il progetto ReSource e gli effetti di diverse tipologie di training psicologico

Recentemente i ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze Sociali dell’Istituto Max Planck di Scienze Cognitive e del Cervello Umano a Leipzig (Germania) hanno condotto il progetto ReSource su larga scala che mira a indagare gli effetti di diversi training psicologici sulle strutture cerebrali, sullo stress e sul comportamento sociale.

 

Progetto ReSource: tre diversi training psicologici a confronto

Il progetto ReSource consiste nella verifica degli effetti di tre differenti moduli di formazione (della durata 3 mesi), e ciascuno incentrato su un gruppo di competenze diverse. Il primo dei tre traning psicologici e’ incentrato sulla pratica della mindfulness o attenzione consapevole. I partecipanti apprendono tecniche classiche di meditazione simili a quelle insegnate nel programma di riduzione dello stress basato su Mindfulness (MBSR), che richiede di spostare e mantenere l’attenzione consapevole sul respiro, sulle sensazioni in diverse parti del corpo o su segnali visivi e/o uditivi nell’ambiente.

Il secondo modulo del progetto ReSource è incentrato sulle competenze socio-affettive, come la compassione, la gratitudine e l’accettazione delle emozioni difficili. Oltre agli esercizi di meditazione classica, i partecipanti hanno appreso una nuova tecnica che richiede loro di praticare la meditazione ogni giorno in coppia per una durata di 10 minuti. Questi esercizi di coppia sono stati caratterizzati da uno scambio intensivo di esperienze affettive di vita quotidiana che mirano alla promozione di gratitudine, gestione delle emozioni difficili e ascolto empatico.

Nel terzo modulo i partecipanti hanno appreso abilità socio-cognitive, come la metacognizione e la comprensione e riconoscimento di stati mentali propri e altrui.

Tutti gli esercizi dei training psicologici sono stati eseguiti sei giorni alla settimana per un totale di 30 minuti al giorno. I ricercatori hanno valutato una serie di variabili, tra cui aspetti psicologico- comportamentali, il cambiamento morfologico delle strutture cerebrali mediante la risonanza magnetica (MRI) e alcuni indicatori fisiologici dello stress, quali il livelli del cortisolo a seguito di ciascuno dei tre moduli di formazione.

Gli effetti dei training psicologici

A seconda di quale tecnica di formazione mentale è stata praticata per il periodo di tre mesi, le strutture cerebrali specifiche e i marcatori fisiologico-comportamentali correlati sono cambiati in modo significativo nei partecipanti. Ad esempio, a seguito del modulo incentrato sulla mindfulness abbiamo osservato cambiamenti nella corteccia in aree legate all’attenzione e al funzionamento esecutivo. Nei due moduli sociali, incentrati sulle competenze socio-affettive e socio-cognitive, abbiamo potuto mostrare miglioramenti selettivi di comportamento in relazione alla compassione e alla capacità di comprensione degli stati mentali altrui. Questi cambiamenti nel comportamento corrispondevano al grado di plasticità strutturale del cervello in specifiche regioni della corteccia che sostengono queste capacità – afferma Sofie Valk, primo autore dello studio sul progetto ReSource, appena pubblicato dalla rivista Science Advances.

Oltre a influenzare la plasticità cerebrale, i diversi training psicologici hanno influenzato anche differenzialmente la risposta fisiologica dello stress.

Abbiamo scoperto che nei soggetti sottoposti ad un test di stress psicosociale, la secrezione di cortisolo è diminuita fino al 51%. – afferma Veronika Engert , primo autore di un’altra pubblicazione del progetto ReSourceSolo i due moduli che si concentrano sulle competenze sociali hanno significativamente selettivamente ridotto il rilascio di cortisolo dopo uno stress sociale. Pensiamo che la risposta allo stress del cortisolo sia stata influenzata in particolare dagli esercizi praticati nei moduli sociali.

È interessante notare che, nonostante queste differenze sul livello della fisiologia dello stress, ognuno dei moduli di formazione ha ridotto la percezione soggettiva dello stress.

I risultati attuali all’interno del progetto ReSource evidenziano non solo che le competenze sociali possono essere migliorate negli adulti, ma che tale formazione mentale porta a cambiamenti cerebrali strutturali e alla riduzione dello stress sociale specifiche in funzione del programma di training proposto.

Viversi la sieropositività, l’importanza della psicoterapia e dell’associazionismo. La storia di Lorenzo

Attraverso la rivisitazione di queste scene di vita e la continua riformulazione del caso, Lorenzo prende consapevolezza dei suoi schemi interpersonali, e che le modalità con cui esperisce e spiega gli eventi di vita e le relazioni con gli altri sono correlati alla sua storia di sviluppo. Questa consapevolezza di un rapporto causale tra “il bambino che è stato” e le sue attuali modalità di coping conduce il paziente al tentativo di ristrutturare una nuova narrativa, una nuova e più funzionale rilettura del passato ma soprattutto del presente e della sieropositività.

 

La storia di Lorenzo

Lorenzo è un giovane uomo di 31 anni che svolge l’attività di visagista. Viene a conoscenza della propria sieropositività dopo essersi sottoposto al test HIV nell’ambulatorio di Malattie Infettive della propria città.
Dichiara di aver contratto la sieropositività attraverso rapporti omosessuali non protetti.

Lo stato di avanzamento del virus, la replicazione virale ed il deficit immunitario richiedono l’intervento farmacologico immediato. Ha un iniziale rifiuto dell’assistenza medica e non intende assumere la terapia antiretrovirale.
Quando si presenta agli appuntamenti ambulatoriali è dimesso, a tratti cerca un contatto visivo ma poi si ripiega su se stesso, si tiene le mani e si accascia sul busto. Si evince che la sofferenza e la sintomatologia che il paziente riferisce sono state scatenate dalla diagnosi di sieropositività.

La depressione di Lorenzo e le emozioni sottostanti la sieropositività

Arriva al primo colloquio lamentando sensazione di stanchezza e forte affaticamento. Dopo la diagnosi ha perso il piacere nel fare le cose quotidiane, si sente totalmente inefficace ed inconcludente nelle attività che svolge. Si sveglia prima del dovuto, riferisce perdita di peso e difficoltà alla concentrazione. Durante il colloquio emergono spesso pensieri che riguardano la morte, anche se non è presente un’idea suicidaria strutturata.

Appare evidente che durante l’ultimo anno, Lorenzo aveva già una forte difficoltà. Sentiva di non riuscire ad affrontare la precarietà dell’organizzazione lavorativa, generata dalla saltuarietà della tipologia di lavoro (visagista per cerimonie) e allo stesso tempo la sua relazione affettiva aveva subito una crisi, alimentando un forte senso di fallimento ed incapacità personale. Nelle sue aspettative c’era il desiderio di lavorare ancora per l’azienda multinazionale con cui aveva già collaborato ma da cui non aveva ottenuto il rinnovo del contratto. Questo desiderio aveva ingenerato l’aspettativa di viaggiare per il mondo insieme alle celebri “firme” per grandi eventi di moda.

L’unica tonalità emotiva che Lorenzo sembra saper riconoscere attraverso elementi più viscerali è quella della tristezza. L’emozione della tristezza acquisisce senso alla luce del più ampio risvolto depressivo riportato da Lorenzo come mancanza di interesse per tutto ciò che lo circonda, assenza di vie d’uscita e di progettualità che si palesano nel rifiuto della terapia antiretrovirale, ed inoltre genera in lui frustrazione per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre per sempre a terapie aggressive e sfiguranti e per l’incertezza del futuro.

Lorenzo riporta anche l’emozione della rabbia quando parla di alcuni episodi che lo legano al suo ex: «Mi ha chiesto di non usare il preservativo, l’ha fatto apposta! Per distruggermi! Quando mi corteggiava, mi sembrava di toccare il cielo con un dito… lui regista famoso che corteggia me “il fallito”… ma avrei dovuto capire da subito che quando la vita ti sembra così vicina da toccarla… in realtà in quel momento è molto lontana! Quando ho fatto il test mi ha fatto compagnia ed è venuto anche lui a sottoporsi al test dicendo di non sapere di essere sieropositivo…. Ma secondo me lo sapeva!!! Mi ha infettato con intenzione…. se lo vedo in ambulatorio gli sparo. L’altra volta ho scavalcato il muro di casa sua, l’ho visto dalla finestra con un altro ragazzo, non avrà detto nulla neanche a lui…. devo fermarlo ma poi penso che sono solo un fallito».

Da una parte la rabbia favorisce il dispiegamento di energie finalizzate a cambiare la situazione che causa la sofferenza, mentre dall’altra il senso di impotenza elimina la progettualità e riduce l’azione.

Lorenzo si isola, non esce più con gli amici storici né si apre a nuove conoscenze. Non vuole parlare della sua malattia ai genitori né, tantomeno, tornare al paese d’origine identificato come troppo “bigotto” e dove potrebbe essere vittima di atteggiamenti discriminatori a causa della sua condizione. Lorenzo dichiara: “sono omosessuale e sieropositivo, praticamente un mostro!”

L’immagine del mostro è eloquente. Il mostro è qualcosa che fa paura, è il diverso per antonomasia, l’anomalo: l’autostigma, infatti, incorpora la costruzione di un confine apparentemente netto e indiscutibile che separa dai “sani”, dai “normali”.
Inoltre emerge il senso di colpa nei confronti della madre che non ha ancora accettato la sua omosessualità e a cui dovrà comunicare anche questa nuova “notizia”.

Riferisce pensieri continui e disturbanti circa la morte, il fallimento del trattamento farmacologico e la perdita di controllo del proprio corpo a causa degli effetti collaterali della terapia HAART (lipodistrofia). Dal diario emerge la paura che l’infezione possa progredire in AIDS per la comparsa di infezioni opportunistiche e tumori HIV-correlati.
Dai colloqui e dall’assessment psicodiagnostico si evince che la sofferenza e la sintomatologia che il paziente riferisce hanno la loro origine con la comunicazione della sua sieropositività. Tuttavia, l’evento critico si situa in uno sfondo caratterizzato da una significativa instabilità affettiva ed emotiva.

Una spirale viziosa ha condotto il paziente ad un disinvestimento emotivo e di impegno nell’organizzazione del proprio lavoro che, circolarizzato, ha finito per creare un senso di impotenza e di fallimento.
Risulta chiaro che, a monte del life event della scoperta della sieropositività, esisteva già una discrepanza tra aspettative attese e l’esperienza vissuta nel presente.

I modi attuali di essere nel mondo di Lorenzo hanno a che fare, anche, con le modalità della relazione diadica madre-figlio nella sua fanciullezza e, soprattutto, nell’adolescenza, quando emerge in lui la consapevolezza della sua sessualità. La madre vive la sessualità del figlio con una coloritura di emozioni centrate sulla vergogna, che la allontana sempre più dal figlio, confermando uno stile di accudimento distaccato, distanziante e quasi di ostilità e che elicita una esperienza di rottura affettiva con il figlio: «per mia madre sono sempre stato una vergogna, il figlio omosessuale da nascondere, quello che se incontri per strada non saluti e abbassi la testa. Mio padre voleva riscattarmi facendomi entrare nella banca dove lavora lui, mi aveva preparato un bel lavoro in paese, ma io ho rifiutato e da allora mi parla a stento. Da quando poi ho scelto di fare il truccatore, le chiacchere in famiglia non si sono risparmiate…e io non sono riuscito neanche a farmi rinnovare il contratto dall’azienda, ho confermato a tutti di essere un fallito».

Emerge un Sé debole con aspettative di abbandono, che lo portano a nascondere aspetti negativi di sé ritenuti incomunicabili per non recare disturbo alla figura di attaccamento.
In questo sfondo di organizzazione depressiva arriva il life event della scoperta della sieropositività, che finisce per scompensarlo ed elicita in lui processi disfunzionali di lettura della realtà solo in termini di perdita, rifiuto e paura di abbandono.

Il desiderio di vendetta, l’incapacità iniziale a focalizzarsi su se stesso rende la fase iniziale di terapia particolarmente difficile. Il paziente rischia di rimanere intrappolato nella ruminazione rabbiosa. Focalizza la sua attenzione e le sue energie sull’ingiustizia subita e sull’untore. Tale attivazione si autoalimenta attraverso la continua rievocazione degli eventi e attraverso “l’affect as information”, per cui Lorenzo usa la propria emozione come un’informazione che conferma il fatto di aver subito un torto. Dal punto di vista clinico, i sentimenti negativi e la ruminazione rabbiosa contribuiscono a disturbare la qualità del sonno e ciò che ne consegue in termini di ripercussione sulla vita sociale e lavorativa. Tra l’altro la ruminazione su un danno subito aumenta i livelli di cortisolo, con ripercussioni sul sistema immunitario già gravemente compromesso dal virus dell’HIV. Decidiamo insieme di iniziare la terapia antiretrovirale ed una terapia farmacologica antidepressiva. L’intervento si dispiega attraverso episodi narrativi che, piano piano, Lorenzo porta in seduta, sono scene nucleari della sua relazione con la madre. Emerge in tutta la sua portata il filo conduttore dell’intera storia: la rottura affettiva con la madre, in seguito all’avvenuta consapevolezza della omosessualità di Lorenzo. Lo stile di accudimento che si fa sempre più distaccato, di allontanamento e perfino di rifiuto.

Una rilettura più funzionale del passato, del presente e della sieropositività

Il paziente riconosce le proprie emozioni in seduta e attraverso la relazione terapeutica.
Accede a ricordi autobiografici riportando episodi dettagliati in cui aveva già sperimentato nell’infanzia ed in particolare nel rapporto con la madre vissuti di esclusione e rifiuto.

Attraverso la rivisitazione di queste scene di vita e la continua riformulazione del caso, Lorenzo prende consapevolezza dei suoi schemi interpersonali, e che le modalità con cui esperisce e spiega gli eventi di vita e le relazioni con gli altri sono correlati alla sua storia di sviluppo. Questa consapevolezza di un rapporto causale tra “il bambino che è stato” e le sue attuali modalità di coping conduce il paziente al tentativo di ristrutturare una nuova narrativa, una nuova e più funzionale rilettura del passato ma soprattutto del presente.

Il lavoro fatto in terapia gli ha permesso di riconciliarsi con “l’inquilino ingombrante”. La sua narrativa è cambiata: «L’HIV non è più un nemico, non lo vedo più come un inquilino invadente… ma piuttosto come un compagno di viaggio».
Questo passaggio dimostra un ribaltamento verso una capacità di cogliere nel negativo gli elementi positivi e permette di utilizzare l’aspetto di vulnerabilità verso una dimensione di possibilità, maturando un sentimento di condivisione e non di solitudine. L’accesso alle emozioni e alle memorie autobiografiche correlate ha permesso la realizzazione di un processo narrativo che è passato dall’IO SONO all’IO POSSO, consentendo la capacità di agency e sviluppando resilienza per creare prospettive future.
Gli ha consentito, inoltre, di rapportarsi all’altro in una dimensione di scambio, di reciprocità e di maggiore consapevolezza della propria sessualità.
E’ proprio nel riuscire ad affrontare l’esperienza dolorosa sublimandola ed utilizzandola come fondamento di una nuova costruzione che Lorenzo mette in gioco le sue reali potenzialità.

Via via Lorenzo diventa più disponibile ad assumersi la responsabilità del modo in cui gestisce la propria vita, abbandonando modalità di autosvalutazione e ricercando ragioni di vita al di là dei limiti esistenziali e di quelli imposti dalla malattia. Il percorso di accettazione si realizza lungo il tempo, vivendo la malattia nella concretezza della vita quotidiana e acquisendo di conseguenza un progressivo senso di controllo su di essa. Il risultato è che è più facile vivere la malattia che non immaginarsi di viverla, quando si riceve la diagnosi. Quindi anche l’attivazione comportamentale ha il suo ruolo nell’esprimere il nesso tra identità e autoefficacia, così importante nella malattia cronica: l’identità si realizza in azioni concrete, nelle quali la persona sperimenta la propria capacità di fare e di raggiungere mete significative.

Sieropositività e associazionismo

Durante la pratica della Mindfulness, utilizzata soprattutto per il rimuginio rabbioso, il paziente esprime il desiderio di “rompere i castelli di rabbia e le prigioni di vendetta” per poter accedere alla libertà del perdono. Il paziente esprime il desiderio di perdonare.
Lorenzo è riuscito a trovare un significato a ciò che ha subito, questo ha prodotto in lui un’energia positiva, capace di stimolare l’apertura verso altri bisognosi di aiuto, attivando un circolo virtuoso (oggi è un’attivista della LILA-Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, ed uno dei conduttori del gruppo di mutuo aiuto)

A Lorenzo risulta via via evidente che la sua sofferenza non è ascrivibile ad eventi fortuiti o alle colpe degli altri. La nuova proiezione di sé nel futuro lo induce ad un ulteriore atto di responsabilità: l’amore verso se stesso e verso gli altri.
Non a caso, l’attività di Lorenzo nell’ associazionismo gli ha permesso di sperimentare in gruppo, un senso di utilità ed autoefficacia, grazie alla versatilità di ruolo che il lavoro di gruppo ha favorito e di vivere sentimenti intensi sentendosi protetto e sostenuto dal gruppo potendo verificare che le aspettative temute di abbandono non si sono verificate nel “qui ed ora” dell’esperienza gruppale.

Come scrive Silvia Bonino, nel suo libro Mille fili mi legano qui – Vivere la malattia, «la promozione del sentimento di autoefficacia nelle situazioni che si affrontano nella vita quotidiana dovrebbe costituire una priorità sia per il paziente, sia per chi ha cura di lui». L’autoefficacia, ovvero la convinzione di poter raggiungere gli obiettivi prefissati e di affrontare le difficoltà che la vita pone, avendo fiducia nelle proprie risorse, è un sentimento che può essere favorito dalle esperienze positive, in una sorta di circolo virtuoso, dall’osservazione di altre persone che ce l’hanno fatta, e dalla persuasione, ovvero dall’incoraggiamento e dal sostegno da parte di chi crede nelle competenze della persona.

I gruppi di mutuo aiuto o di terapia breve, all’interno delle Associazioni a supporto delle persone HIV positive che svolgono attività continuativa direttamente a contatto con l’utenza, possono incrementare il sentimento di autoefficacia e possono favorire l’individuazione delle capacità, dei limiti e dei passi necessari, anche intermedi, per raggiungere gli obiettivi funzionali alla realizzazione in ambito personale, familiare, lavorativo, sociale.
Si innesca così un processo circolare, in cui il senso di autoefficacia e gli obiettivi raggiunti aiutano a trovare un senso alla propria vita e accrescono i livelli di autostima, “costruendo e plasmando l’immagine che abbiamo di noi stessi” (tratto da “Vivere la Sieropositività”).

Oggi più che mai, bisogna ricordare il ruolo decisivo svolto dalle associazioni di volontariato di pazienti HIV, dai gruppi di sostegno e soprattutto dagli attivisti organizzati in gruppi di pressione, all’interno delle steering committees e dei comitati organizzatori dei maggiori congressi: la loro presenza ha fatto sì che non si perdesse mai di vista il fine ultimo di iniziative volte a chiarire aspetti importanti della relazione medico-paziente. Pensiamo, ad esempio, al raggiungimento di alcune conquiste in ambito medico quali il counselling, che si richiede venga offerto obbligatoriamente prima e dopo il test; si pensi ancora alle garanzie individuate per mantenere l’anonimato, alla confidenzialità della relazione, alla questione del consenso informato, ed alla partecipazione agli studi sperimentali.

La lotta alla sieropositività, condotta dagli attivisti, ha rappresentato un’occasione unica in ambito medico per discutere della relazione tra comportamenti e salute ed ha permesso che si iniziasse a parlare di educazione alla salute, di promozione della salute e non semplicemente di prevenzione di stati patologici.

Infertilità: dove sono finiti gli uomini?

Nel panorama scientifico ci sono molte ricerche che si occupano degli aspetti psicologici dell’ infertilità e dei percorsi in procreazione medicalmente assistita, ma pochi riguardano gli uomini. Gli studi e le ricerche sono tendenzialmente più orientate a capire l’esperienza delle donne piuttosto che quella degli uomini.

 

Perché accade questo? Culley e i suoi collaboratori in una review interessante del 2013 parlano di una sorta di marginalizzazione degli uomini nel panorama scientifico (Culley et al, 2013).  Sembra quasi che gli uomini, quando si parla di riproduzione siano il “secondo sesso”. Non solo si sa poco di quello che l’uomo pensa rispetto al fare un figlio, ma anche rispetto alla decisione e all’esperienza stessa, così come si sa poco di quanto l’uomo contribuisca alla decisione della donna e agli aspetti riproduttivi della sua salute.

Infertilità: solo un problema femminile?

L’ infertilità in generale è concettualizzata come un problema femminile, al di là del fatto che il coinvolgimento femminile è maggiore in ogni senso, ma anche quando la causa dell’ infertilità è data da un fattore maschile, si sa poco di quella che è la loro esperienza. Manca ad esempio una rappresentazione emotiva degli spermatozoi in uomini che hanno problemi di infertilità e sono scarsi gli studi che si occupano delle ripercussioni che una diagnosi di infertilità ha sull’uomo. ( Swierkowsi-Blanchard et al., 2016)

Una delle motivazioni per questo disinteresse nella vita degli uomini è l’attribuzione quasi esclusiva del “pacchetto procreazione” alla vita delle donne da parte del contesto sociale culturale. Questa è da sempre vista come una “faccenda” femminile . A ben guardare ogni argomento che ruota intorno a questo tema, dal parto alla nascita alla contraccezione è inestricabilmente legata alla femminilità, con la ovvia controindicazione di una quasi assoluta assunzione di responsabilità da parte della donna. In aggiunta, ciò  marginalizza l’uomo in termini di diritti e di responsabilità, dalla pianificazione alla preparazione alla genitorialità.

Gli studi relativi all’ infertilità si concentrano sulla donna perché è la donna che riceve le cure e sostiene una  gravidanza. Il focus è sul corpo della donna e questo rinforza l’esclusione della prospettiva maschile e la percezione del contributo maschile, se non relativamente alla performance della sua mascolinità messa in contrapposizione all’altalena emotiva della donna.

Il corpo degli uomini tuttavia comincia a essere maggiormente considerato dall’introduzione di terapie e tecniche che lo coinvolgono più direttamente, basti pensare alla donazione di sperma o al ricorso al seme di terzi nella fecondazione eterologa.

È stato scritto poco riguardo i loro desideri e quella che si potrebbe chiamare la loro coscienza riproduttiva e responsabilità procreativa. Dunque, è difficile capire la preparazione degli uomini alla paternità, incluso il desiderio di avere un figlio, la consapevolezza della loro fertilità o infertilità e lo sforzo nel concepire un bambino.

Alcuni studi sostengono che l’ infertilità stressa maggiormente le donne piuttosto che gli uomini e che ci sono strategie di coping differenti. Uno studio del 2013 però effettuato su larga scala a livello europeo, mette in luce come lo svantaggio psicologico di non avere figli sia più forte per gli uomini che per le donne ( Hujitus et al., 2013).

Uomini e infertilità: quali vissuti?

Quel che diventa sempre più evidente è che l’ infertilità comporta uno stress emotivo anche per gli uomini indipendentemente dalla gravita della condizione di infertilità o dell’essere parte di una coppia infertile.

Il dolore e la sofferenza dell’uomo passano non solo dal significato della loro virilità, ma anche dal senso di colpa, dato dal fatto che sia la partner a sottoporsi in primis al dolore e allo stress dei trattamenti dell’ infertilità. C’è una quota di stress indiretto dunque, determinato proprio dal fatto di vedere la fatica della propria partner nel sottoporsi ai trattamenti e non poter far nulla per evitarglielo se non standole accanto e fornirle supporto emotivo.

Ci sono poi una serie di studi che si orientano principalmente sul concetto di mascolinità legato alla capacità procreativa dell’uomo e alla qualità del suo seme. Altri studi mettono in luce come oggi l’esperienza di infertilità e i relativi esami/terapie costituiscano un vero e proprio trauma per alcuni uomini al punto da innescare delle difficoltà sessuali. Ad esempio, in uno studio del 2016 viene chiesto a un gruppo di uomini senza figli etereo sessuali quale significato ha per loro avere un numero alto o normale di seme. La risposta più frequente nel caso di uomini in coppia era “avere un bambino”, mentre nel caso di single esso si associava più a un vissuto di mascolinità e virilità oppure una maggiore abilità sessuale. Allo stesso modo alla domanda “cosa accadrebbe se avessi uno scarso o nullo  numero di spermatozoi”, gli uomini per lo più rispondono che sarebbe doloroso. Gli uomini in coppia parlano anche di sentimenti di colpa e di vergogna rispetto alla loro partner.

Tutto sommato mancano studi specifici centrarti maggiormente su cosa gli uomini pensano dell’ infertilita e cosa sentono. Qual è  la loro esperienza durante il trattamento, il loro supporto, quanto contano nella decisione di interrompere il trattamento, il vissuto del loro ruolo nelle decisioni che vengono prese in questo iter. Anche perché spesso la decisione ultima viene affidata alla donna, visto che è lei a essere sottoposta a trattamento. La conseguenza di ciò può essere un maggior senso di solitudine e di responsabilità rispetto a un progetto di coppia.

L’ infertilità è una questione dolorosa e difficile da qualsiasi parte la si guardi, ma nel bene e nel male è maggiormente la donna a essere al centro dell’osservazione e della cura. La verità è che c’è una coppia, ma ci sono anche due individui e spesso nel tentativo di proteggere l’altro dal proprio dolore, si creano silenzi e difficoltà comunicative che possono mettere a dura prova la coppia stessa. Comprendere meglio i vissuti dell’uomo può essere un primo passo per facilitare la comunicazione e la condivisione.

Passivi o aggressivi? Meglio assertivi!

L’ assertività è una caratteristica del comportamento umano che permette alla persona di esprimere le proprie emozioni e punti di vista ed accogliere contemporaneamente le emozioni e il punto di vista dell’altro. Il comportamento assertivo quindi, permette all’individuo di rispettarsi e nello stesso tempo di rispettare l’interlocutore con il quale si relaziona.

 

Mancanza di assertività: essere passivi o aggressivi

Spesso, non si è in grado di far rispettare i propri limiti, di mettere i giusti paletti per preservare la propria intimità dal comportamento poco assertivo dell’altro; oppure accade che non si riesca a rispettare i limiti delle persone con le quali ci relazioniamo, senza neanche rendercene conto.

Seguono alcuni esempi di comportamento non assertivo:
– un amico prende in prestito un nostro cd musicale senza dircelo, convinto che la confidenza basti a giustificare un atteggiamento simile;
– una ragazza prende il cellulare del proprio partner o amico senza chiedere il permesso, anche se solo per cercare una notizia su google;
– un ragazzo prende con la sua forchetta la pasta dal piatto del suo amico per assaggiarla;
– siamo in dubbio se uscire o meno nel weekend, e lasciamo che la nostra amica aspetti la nostra risposta anche per un giorno intero;
– una mamma entra in camera della figlia senza bussare, oppure legge di nascosto il suo diario per controllare che stia bene e frequenti le persone giuste.

Questi sono solo alcuni degli eventi che potremmo considerare comuni, e che siamo abituati a minimizzare giustificandoli con la certezza che l’altra persona ci ami e sia pronta quindi ad accettare i nostri abusi di confidenza.

Il comportamento non assertivo può essere di tipo passivo o aggressivo.

Non esistono delle persone completamente aggressive o passive, ma esistono delle tipologie di persone tendenzialmente orientate verso l’una o l’altra modalità comportamentale.
Le due tipologie di comportamento non assertivo in genere sono apprese negli ambienti di crescita della persona, ma corrispondono anche a delle sfaccettature caratteriali insite nella struttura personologica dell’individuo.

Anche l’ambiente in cui la persona si trova può condizionare la messa in atto dell’uno o dell’altro comportamento, a seconda anche dell’interlocutore con il quale ci si relaziona.

Quindi, una stessa persona può assumere un comportamento di tipo passivo di fronte alle richieste di tipo aggressivo del suo datore di lavoro, e una volta tornato a casa riproporre il comportamento aggressivo con il quale è stato trattato nella relazione con la moglie e i figli, nel tentativo di riequilibrare la sua autostima.

Il livello di autostima infatti, sembra essere direttamente proporzionale al livello di assertività che si riesce a mettere in gioco nei confronti degli attori sociali con i quali ci si relaziona. Essere capaci di dar valore ai propri bisogni ed esprimerli in maniera adeguata senza lasciarsi invadere dalle necessità e dalle opinioni dell’altro o senza il bisogno di imporli a tutti i costi, ci permette di percepirci come persone consapevoli e integre, piene di valore e centratura.

Inoltre mettere in atto un comportamento assertivo stimola l’ assertività dell’interlocutore e promuove un feedback relazionale positivo, nutriente per la propria autostima ed utile a migliorare la percezione dell’immagine di sé.

Sembra che entrambi gli atteggiamenti, aggressivo e passivo abbiano un elemento in comune: la paura che il proprio pensiero o bisogno non venga riconosciuto e accolto, che la propria persona non venga accettata e valorizzata.

I comportamenti che si mettono in atto sono però diversi, ma entrambi compensatori: la persona aggressiva si mostra ostinata e giudicante, mentre la persona passiva appare compiacente e dipendente dal giudizio altrui.

Come si può acquisire la capacità di essere assertivi nelle relazioni quotidiane?

Il primo passo verso l’ assertività consiste sicuramente nell’accogliere, autorizzare e convalidare la paura di non essere accettati.
Ogni emozione, positiva o negativa che sia, ha in se stessa un significato da accettare e comprendere. Considerare questa paura come una nemica da distruggere non può far altro che sortire l’effetto opposto: essa verrà vissuta in maniera amplificata e costringerà la persona a mettere in atto dei comportamenti compensatori, aggressivi o passivi.

L’accettazione delle emozioni spiacevoli e la condivisione delle stesse può facilitare la loro gestione da parte della persona che le prova e favorire la centratura necessaria per mettere in atto un comportamento equilibrato e assertivo. L’ assertività è il segreto che sta dietro alla costruzione e al mantenimento di relazioni sociali sane e costruttive.

Efficacia degli antidepressivi: le aspettative del paziente influenzano il trattamento?

I farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRIs) costituiscono il trattamento farmacologico più comune per patologie come la depressione (Bschor & Kilarski, 2016; Khan & Brown, 2015) e l’ansia (Roest, et al., 2015; Sugarman, et al., 2014). Nonostante ciò, è in corso un dibattito tra clinici e ricercatori su quanto l’efficacia di tali farmaci sia reale o influenzata dalle aspettative del paziente sul trattamento stesso (Moncrieff, et al., 2004).

 

Le aspettative del paziente influenzano l’efficacia degli SSRI?

Rispetto a questo tema, recentemente è stato pubblicato su EBioMedicine uno studio dei ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Uppsala. Essi si erano posti l’obiettivo di indagare come le aspettative indotte verbalmente nel paziente, attraverso le prescrizioni mediche, influenzassero l’efficacia degli SSRI in soggetti con disturbo d’ansia sociale. In letteratura erano già presenti ricerche simili (Faria, et al., 2012; Faria, et al., 2014), però nessuna aveva misurato e manipolato sperimentalmente le aspettative del paziente sull’esito terapeutico.

Per testare quest’ipotesi specifica, tutti i pazienti con ansia sociale sono stati trattati con la stessa dose di escitalopam per nove settimane. Un gruppo è stato informato correttamente sull’efficacia del farmaco, l’altro invece credeva di essere trattato con un farmaco definito “placebo attivo” con effetti collaterali simili agli SSRI ma senza miglioramento clinico. Sebbene il trattamento farmacologico fosse identico nei due gruppi, i risultati mostravano il triplo dei miglioramenti in pazienti correttamente a conoscenza dell’efficacia del farmaco che avevano assunto.

Inoltre, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), era emerso che l’attività cerebrale in risposta agli SSRI era differente nei due gruppi a livello della corteccia cingolata posteriore e della sua connessione con l’amigdala, area fortemente coinvolta nelle risposte di paura e ansia.

Questi dati dimostrano l’importanza della comunicazione tra medico e paziente, sottolineando l’influenza delle informazioni verbali sugli effetti ansiolitici degli SSRI e la relativa attività cerebrale. Ciò non significa screditare le proprietà terapeutiche degli SSRI, ma attribuire pari importanza al trattamento e alla modalità di presentazione dello stesso.

La comprensione narrativa: un processo universale indipendente dal linguaggio

Lettori Inglesi, Iraniani e Cinesi userebbero le stesse parti del cervello per decodificare il significato di ciò che stanno leggendo. Una nuova ricerca dell’University of Southern California ha dimostrato che la lettura di storie attiva regioni analoghe nel cervello di soggetti con idiomi diversi. Per la prima volta nello scenario delle neuroscienze, sono stati scoperti modelli di attivazione cerebrali simili durante la comprensione narrativa a prescindere dalla lingua madre dei soggetti.

 

Come avviene la comprensione narrativa nel cervello?

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori hanno individuato le aree cerebrali implicate nella comprensione narrativa del significato di storie scritte in soggetti di lingua inglese, persiana (Farsi) e cinese mandarino.

L’ipotesi alla base della ricerca è rappresentata dall’idea secondo la quale l’esposizione al racconto narrativo potrebbe portare ad una maggior consapevolezza di se stessi e ad un aumento dell’empatia nei confronti degli altri, indipendentemente dalla lingua o dall’origine degli ascoltatori.

Per realizzare lo studio, i ricercatori hanno raccolto più di 20 milioni di post personali condivisi su un blog, sono state poi selezionate 40 storie riguardanti diversi argomenti privati quali ad esempio il divorzio. Gli aneddoti personali sono stati tradotti e presentati a soggetti Americani, Cinesi e Iraniani ai quali era richiesto di leggere nella propria lingua madre e rispondere a domande inerenti le narrazioni durante una sessione di risonanza magnetica.

Morteza Dehghani, autore dello studio e ricercatore presso il Brain and Creativity Institute dell’Università californiana afferma “nonostante la presenza di differenze a livello linguistico, quali ad esempio la direzione nella lettura o l’alfabeto completamente diverso, esiste un qualcosa di universale all’interno del cervello nel momento in cui elaboriamo le narrazioni”.

Cosa succede quindi all’interno del cervello? In tutti i soggetti sperimentali la lettura di ogni storia attiva specifici patterns di aree cerebrali generalmente attive e coinvolte nel cosiddetto “default mode network” del cervello. Il “default mode network” è una rete complessa di regioni corticali e sottocorticali che si attivano nel momento in cui la persona non è impegnata in alcun compito specifico, quando cioè non si utilizza attenzione focalizzata. In altre parole questo network, definibile come il pilota automatico del cervello, si attiverebbe quando quest’ultimo è in modalità standby ovvero in uno stato di riposo (Resting State).

Le evidenze trovate dimostrano che le aree solitamente coinvolte nel “default mode network” lavorano continuamente per decifrare il significato della narrazione svolgendo una funzione di recupero dei ricordi autobiografici che, a loro volta, influenzano la conoscenza relativa a noi stessi (al nostro passato e al nostro futuro) e alle nostre relazioni con gli altri. I risultati ottenuti avvalorano quindi l’ipotesi iniziale secondo la quale la lettura di storie è un’esperienza universale, indipendente dalle differenze linguistiche e culturali, che può avere come conseguenza una maggior empatia nei confronti degli altri.

Trauma: la vera sfida è intercettare l’impatto. Il 28 ottobre un convegno a Roma apre al confronto internazionale – Comunicato Stampa SISST

Un convegno internazionale gratuito su “Narrazione, trauma e salute: dall’individuo alla società” il 28 ottobre a Roma per capire ‘cosa si sta muovendo’ nella psicotraumatologia non solo a livello italiano ma anche europeo. La sfida è intercettare l’impatto del trauma il più precocemente possibile, non solo quando si presentano dei quadri clinici molto compromessi e complessi.

 

Roma, 9 ottobre

L’obiettivo è far vedere ‘cosa si sta muovendo’ nella psicotraumatologia non solo a livello italiano ma anche europeo. La sfida è intercettare l’impatto del trauma il più precocemente possibile, non solo quando si presentano dei quadri clinici molto compromessi e complessi.

Con questo intento Vittoria Ardino, presidente della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (Sisst), promuove insieme all’Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) e al Dipartimento di studi umanistici e internazionali dell’Università di Urbino (Discui) un convegno internazionale gratuito su “Narrazione, trauma e salute: dall’individuo alla società” il 28 ottobre a Roma nella Sala Congressi via Rieti dalle 8.30 alle 19.

l contesto italiano deve uscire da un isolamento di tematiche che si esaurisce nello studiare il trauma per possedere solo alcune tecniche psicoterapeutiche. Lo studio dell’impatto del trauma – chiarisce Ardino- tocca diversi aspetti dell’individuo, per questo motivo il campo non può essere ristretto alla clinica, ma deve aprirsi alla prevenzione per identificare e intercettare l’impatto che l’esperienza traumatica ha sull’individuo e sulla società. Un tema sul quale l’Italia è ancora molto indietro – denuncia la presidente della Sisst.

Questo significa “far parlare diversi professionisti”. Infatti, al convegno parteciperanno tanti esperti in settori differenti: psicoterapeuti, neuropsichiatri, docenti universitari, pediatri, un antropologo, un sociologo esperto di migrazioni e un avvocato che si occupa da anni di advocacy per la Fondazione Terre des Hommes Italia. La conferenza sarà, infatti, l’occasione per presentare proprio una ricerca congiunta della Sisst e della Fondazione Terre des Hommes sui costi delle mancate cure psicosociali per i minori migranti:

È uno studio di valutazione economica condotto sui minori stranieri non accompagnati in Italia e Germania. Abbiamo messo a confronto il sistema attuale delle cure psicosociali in questi due paesi con un modello sanitario virtuoso che investe nella prevenzione delle esperienze traumatiche, o delle problematiche legate alla Salute mentale, comportando un risparmio per la società nel lungo periodo. Al convegno mostreremo uno spaccato sulle diverse strategie legate a differenti politiche sociali e sanitarie. La sfida che si pone oggi la psicotraumatologia – continua Ardino- è chiedersi quali modelli di servizio possiamo implementare per intercettare meglio il trauma. Non è più sufficiente limitarsi a quello che avviene in uno studio privato dello psicoterapeuta, deve esserci una risposta sociale e pubblica al trauma.

La conferenza vedrà la partecipazione di relatori nazionali e internazionali e ha già ricevuto i patrocini dell’European Society for Traumatic Stress Studies (Estss), del Centro interdipartimentale per la ricerca transculturale applicata (Cirta) dell’Università di Urbino e della Fondazione Terre des Hommes Italia.

La presenza della Estss è un segnale importante, così come quella degli esperti dell’IdO grazie alla loro esperienza sui traumi che avvengono nella collettività. Questo ci aiuta – ricorda la presidente della Sisst- a far capire come evolve il trauma nel tempo, qual è la tempistica delle reazioni a livello collettivo per poterle prevenire al meglio.

Di trauma psicologico si parla da tempo.

Eventi traumatici sono sempre stati presenti in tutte le società e in tutte le epoche storiche. Oggi ne abbiamo una maggiore consapevolezza – fa sapere Ardino- e questo ci permette una riflessione più fine sul tema. È vero che accadono eventi potenzialmente traumatici a livello sociale, ma non dimentichiamo che il grande sommerso del trauma è legato ai traumi intra-familiari.

Per parlare di trauma, spiega la presidente della Sisst, occorre analizzare tre fattori: l’impatto, la specificità dell’evento e le caratteristiche individuali e sociali.

L’evento di per sé non ci dice niente – afferma la studiosa – dobbiamo sempre leggerlo insieme all’impatto che può avere su un singolo individuo, un gruppo sociale o una famiglia. È chiaro che per essere definito traumatico dovrà rappresentare una minaccia reale e/o percepita di pericolo per l’incolumità e l’integrità fisica e psicologica dell’individuo e/o di un gruppo sociale. È necessario osservare quale sarà l’impatto che questo evento avrà nel lungo periodo a livello individuale e collettivo. Il trauma diventa tale – conclude la presidente della Sisst – quando mette in scacco le risorse individuali e sociali, altrimenti si tratterà solo di un evento molto difficile da affrontare ma comunque superabile.

Oltre al convegno si svolgeranno anche due workshop il 27 ottobre a Roma, nella sede dell’IdO in via Alessandria 128/b. Il primo dalle 15 alle 18.30 su “La Brief Eclectic psychotherapy (BEEP) for PTSD (Disturbo post traumatico da stress) e la Narrative Exposure Therapy (NET)” che punta ad aprire un focus sulle terapie brevi per i disturbi trauma-correlati con Vittoria Ardino e Mariel Meewisse (in lingua inglese con traduzione); il secondo “Tra Psiche e Corpo: Memorie Somatiche e Trauma”, dalle 15.30 alle 18.30 con Tommaso Farma, esponente del board Estss.

Il convegno è gratuito, mentre i workshop prevedono un piccolo contributo spese. Per info e prenotazione: [email protected].

 

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L’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d’ansia

L’utilizzo della realtà virtuale (VR) nel trattamento dei disturbi d’ansia supera le limitazioni dell’ esposizione in vivo o immaginativa. L’ esposizione in realtà virtuale si ritrova ad essere sotto il completo controllo del terapeuta il quale può generare gli stimoli di intensità diversa a seconda delle necessità del paziente ed eventualmente interrompere l’esposizione in caso di eccessiva attivazione emotiva.

Michela Cavallaro e Alessandro Gasperi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Fin dai primi anni 90 iniziarono le ricerche e gli esperimenti sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno del contesto clinico; in questi anni i trials clinici sono dei veri e propri studi pionieristici che divennero poi sempre più sofisticati fino ad arrivare ai giorni nostri, dove l’uso della realtà virtuale nello studio del clinico diventa un ulteriore contesto di interazione attraverso il quale è possibile fare terapia.

I disturbi d’ansia sono molto diffusi in tutto il mondo e hanno una ricaduta significativa sulla vita personale e lavorativa. Attività comuni come prendere un treno, viaggiare in metropolitana, incontrarsi con altre persone e stare in luoghi affollati diventano così stressanti da portare il soggetto a evitare tutte le situazioni temute. Col tempo i comportamenti di evitamento peggiorano e si crea un circolo vizioso in un’ottica di condizionamento: infatti da una parte i comportamenti di evitamento, riducendo lo stimolo eversivo (ansia) fungono da rinforzo negativo, dall’altra il perpetrarsi delle condotte di evitamento mantiene l’associazione tra lo stimolo condizionato e lo stimolo incondizionato impedendo l’estinzione del fenomeno. Tra i molteplici trattamenti disponibili per i disturbi d’ansia è emerso che le terapie basate sull’esposizione risultano più efficaci di altre (Olatunji BO et al., 2010).

L’esposizione in vivo, in immaginazione e l’ esposizione in realtà virtuale

L’ esposizione è un processo mediante il quale il paziente si espone progressivamente allo stimolo temuto o alla situazione che gli genera ansia permettendo l’estinzione del fenomeno mediante abituazione. Tale terapia è risultata efficacie nel trattare fobie e disturbi quali il disturbo da attacchi di panico, la fobia sociale e il disturbo ossessivo compulsivo (Barlow JH et al., 2005; Olatunji BO et al., 2010). L’ esposizione può avvenire anche in concomitanza con l’utilizzo di tecniche di rilassamento, che generano uno stato fisiologico incompatibile con l’ ansia (Wolpe J., 1958). In questi protocolli il paziente impara a gestire l’ansia sostituendo l’attivazione disfunzionale con il rilassamento. Inoltre avendo la possibilità di osservare i suoi pensieri e le sue credenze con l’aiuto del terapeuta, mentre sperimenta l’ ansia, il paziente può ridurre le sue attribuzioni cognitive. Questo processo aiuta la persona a fronteggiare le sue paure e a rompere il circolo vizioso che mantiene il disturbo.

Tradizionalmente l’ esposizione può essere applicata in due modi: in vivo, cioè attraverso il contatto diretto con lo stimolo temuto, o attraverso l’immaginazione dello stimolo. Entrambi questi metodi presentano però dei limiti. L’ esposizione immaginativa risulta infatti difficile per alcuni pazienti che hanno scarse abilità nel creare immagini mentali. Ricostruire nella mente uno stimolo temuto può essere reso inoltre inaccurato a causa della paura stessa che generano tali immagini. L’ esposizione in vivo invece presenta altre limitazioni. Alcuni pazienti infatti possono essere contrari ad esporsi agli stimoli temuti nella realtà. L’ esposizione in vivo inoltre non è sotto il completo controllo del terapeuta il quale non può prevedere né evitare eventuali imprevisti. Infine alcune esposizioni risultano poco economiche o praticabili da effettuarsi in vivo, come nel caso della paura di volare, o comunque richiedono un certo sforzo da parte sia del terapeuta che del paziente che, dovendo lavorare insieme in situazioni stressanti reali, devono incontrarsi al di fuori dello studio.

L’utilizzo della realtà virtuale (VR) nel trattamento dei disturbi d’ansia supera molte di queste limitazioni e per questo negli anni ha attirato l’interesse di molti clinici. L’esposizione in realtà virtuale, al contrario di quella in vivo, si ritrova ad essere sotto il completo controllo del terapeuta il quale può generare gli stimoli di intensità diversa a seconda delle necessità del paziente ed eventualmente interrompere l’esposizione in caso di eccessiva attivazione emotiva. Il paziente può trovarsi più a suo agio a non affrontare lo stimolo nella realtà e la sua motivazione può quindi aumentare. È possibile inoltre ritagliare e ripetere una porzione di un evento più complesso per lavorare esattamente sullo stimolo critico senza perdere tempo con aspetti concomitanti. Alcune esposizioni a determinati stimoli, che in vivo risulterebbero costose, impraticabili o addirittura pericolose, grazie alla realtà virtuale risultano applicabili e ripetibili nello studio del terapeuta. Rispetto all’ esposizione immaginativa invece offre la possibilità di visualizzare un ambiente realistico e di interagire con esso, rendendo l’esperienza maggiormente immersiva e aumentando quindi il coinvolgimento personale. (Repetto & Riva, 2011).

La tecnologia della realtà virtuale

Il sistema della realtà virtuale è una combinazione di dispositivi tecnologici che consente all’utilizzatore di creare, esplorare ed interagire con ambienti in 3D. Questo è reso possibile da alcuni strumenti di input, guanti e tracker, che inviano la posizione e i movimenti dell’utilizzatore al computer in tempo reale consentendogli di cambiare la grafica degli ambienti virtuali in maniera coerente con le informazioni acquisite, un software che consenta la costruzione e il mantenimento dell’ambiente virtuale e dispositivi di output, visivi, uditivi e aptici, che rimandano un feedback dell’interazione all’utilizzatore. L’interazione di questi dispositivi permette all’utilizzatore di immergersi e di percepire un certo grado di “presenza” all’interno del mondo virtuale (Repetto & Riva, 2011). Le principali tecniche che sono state utilizzate per immergere i partecipanti nel mondo virtuale sono il display montato sulla testa (HMD) e l’ambiente automatico virtuale generato dal computer (CAVE). Nel CAVE il paziente e il terapeuta sono all’interno di un’istallazione cubica e circondati da immagini stereoscopiche generate dal computer su 4 e fino a 6 superfici. Paziente e terapeuta vengono muniti di occhiali per il 3D, un sistema di Tracking elettromagnetico e un sensore posizionato sugli occhiali del paziente vengono utilizzati per generare la corretta prospettiva (Fig.1).

L'esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d'ansia - Psicoterapia IMM 1

Fig. 1 – Esempio di CAVE

Il sistema HMD invece è composto da un display con degli schermi per generare l’ambiente virtuale e degli speaker vicino alle orecchie. Mediante un sensore attaccato all’elmetto e un sistema di tracking elettromagnetico, l’ambiente virtuale cambia in corrispondenza con i movimenti della testa compiuti nel mondo reale. L’elmetto è collegato a un computer dove il terapeuta può controllare ciò che vede il paziente e può controllare l’ambiente virtuale facendo comparire stimoli o muovendo il paziente all’interno di esso (Krijn M. et al., 2004 – Fig 2).

L'esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d'ansia - Psicoterapia IMM 2

Fig. 2 – Esempio di sistema HMD

Presenza, immersione ed emozioni

L’uso della realtà virtuale nella terapia basata sull’ esposizione si fonda sull’assunto che il paziente sperimenti un certo grado di presenza all’interno dell’ ambiente virtuale e che stimoli temuti percepiti virtualmente, quindi non realmente presenti, generino comunque paura ed ansia. Sul concetto di presenza non si è raggiunto un accordo sulla definizione, ma molti ricercatori concordano su ciò che non è, come sottolineato da Riva e colleghi:

La presenza non è il livello di immersione tecnologica, non è la stessa cosa di un coinvolgimento emotivo, non è profondo interesse o attenzione o azione; ma tutte queste componenti hanno un ruolo potenziale per comprendere l’esperienza della presenza in interazione – l’esperienza di interagire con presenza ( Riva et al., 2014).

Al grado di presenza è stato attribuito un ruolo da mediatore necessario affinché emozioni reali vengano attivate in ambiente virtuale, sebbene questa relazione non sia stata del tutto chiarita in letteratura (Diemer et al., 2015). Il fenomeno della presenza interagisce sia con il grado di immersività che con le emozioni sperimentate. Un ambiente maggiormente immersivo, dato da una grafica aumentata, integrata e interattiva, è risultato essere maggiormente associato in letteratura a un maggiore senso di presenza specialmente con stimoli virtuali emotivamente neutri (Baños et al., 2004). Una maggiore immersività è inoltre associata ad un aumento della risposta emotiva, ma solo nel caso di emozioni altamente attivanti come ansia e paura, e non felicità e rilassamento (Juan & Perez, 2009; Freeman et al., 2005). La combinazione di più vie percettive, come quella visiva e tattile insieme, risulta inoltre produrre una maggiore risposta emotiva in presenza di uno stimolo spaventante, rispetto a una sola via percettiva (Peperkorn & Muhlberger, 2013). Il grado di presenza e il livello di paura percepito all’interno di un ambiente virtuale mostra una correlazione positiva solo in soggetti paurosi, così come anche la presenza e il livello di ansia sembrano maggiormente associati solo nei soggetti più ansiosi (Peperkorn & Muhlberger, 2013; Alsina-Jurnet et al., 2011). Questa correlazione risulta invece minore quando l’emozione sperimentata è meno attivante, come gioia o rilassamento. Il livello di presenza esperito e l’attivazione emotiva all’interno dell’ ambiente virtuale sembrano essere quindi variabili mutuamente dipendenti (Diemer et al., 2015). Gli studi che hanno indagato se l’ esposizione in realtà virtuale produca un’attivazione fisiologica di paura hanno mostrato che questa reazione è presente, soprattutto in termini di conduttanza cutanea, sia in pazienti con disturbi d’ansia sia in soggetti sani, mentre non hanno prodotto risultati conclusivi circa il processo di abituazione in realtà virtuale (Diemer et al., 2014).

Risultati nel trattamento dei disturbi d’ansia

Nelle fobie specifiche la terapia basata sull’ esposizione in realtà virtuale (VRET) ha permesso un’alternativa meno minacciosa rispetto all’ esposizione in vivo e più pratica rispetto all’ esposizione immaginativa. Durante le sessioni in vivo infatti quando i pazienti devono fronteggiare lo stimolo minaccioso circa il 27% di loro rifiutano la terapia e la interrompono mentre solo il 3% rifiuta l’ esposizione in realtà virtuale. Se messe a confronto i pazienti con fobie specifiche scelgono l’ esposizione in realtà virtuale nel 76% dei casi (García-Palacios et al., 2007). Per quanto riguarda l’efficacia, l’ esposizione in realtà virtuale è stata applicata e si è dimostrata efficacie in molte fobie specifiche. Una metanalisi di Powers ed Emmelkamp (2008) suggerisce che all’interno del dominio delle fobie specifiche non solo l’ esposizione in realtà virtuale si dimostra altamente efficacie se confrontata con gruppi di controllo, ma presenta anche un’efficacia lievemente superiore all’ esposizione in vivo (Powers & Emmelkamp, 2008).

Gli studi sull’uso dell’ esposizione in realtà virtuale nella acrofobia (paura dei luoghi alti) sono iniziati fin dagli anni 90. Uno studio del 1995 ha mostrato che un campione di studenti sottoposti a esposizione in realtà virtuale rispetto a un gruppo di controllo mostravano una riduzione della paura dell’altezza. Il risultato però è stato messo in dubbio dato che durante la sperimentazione alcuni studenti si sono sottoposti anche a esposizioni in vivo (Rothbaum et al., 1995). In seguito una serie di studi controllati ha confermato l’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento dell’acrofobia. Rispetto all’esposizione in vivo infatti non emergevano differenze nei miglioramenti prodotti sui sintomi (Emmelkamp et al., 2001; Emmelkamp et al., 2002; Krijn et al. 2004). In due studi è emerso comunque un consistente numero di drop out causato da una bassa percezione di presenza durante l’ esposizione in realtà virtuale (Emmelkamp et al., 2002; Krijn et al. 2004).

Per il trattamento dell’aracnofobia è stato integrato all’ immagine virtuale di un ragno anche uno stimolo tattile che riproduceva la superficie pelosa dell’aracnide, espediente che permette di aumentare ulteriormente l’attivazione emotiva prodotta (Peperkorn & Muhlberger, 2013). Questo metodo utilizzato dapprima in uno studio su un singolo caso (Carlin et al., 1997) è stato poi riprodotto da uno studio del 2002. In questo studio i soggetti trattati con la esposizione in realtà virtuale e stimolazione tattile hanno ottenuto miglioramenti in tutte le misurazioni utilizzate rispetto ai soggetti in lista di attesa (Garcia-Palacios et al., 2002). Confrontando l’efficacia dell’ esposizione in vivo e dell’ esposizione in realtà virtuale nei pazienti aracnofobici non emergono differenze tra le due terapie se non un maggiore miglioramento sulle credenze cognitive sui ragni nei soggetti trattati in vivo (Michaliszyn D et al., 2010).

Nel trattamento della fobia specifica per il volo, l’ esposizione in realtà virtuale mostra dei vantaggi indiscutibili rispetto all’esposizione standard. Le singole componenti del volo, come partenza, viaggio e atterraggio, possono essere infatti ripetute all’infinito nell’ufficio del terapeuta anche con diverse condizioni atmosferiche. Gli studi effettuati con un gruppo di controllo hanno mostrato che l’ esposizione in realtà virtuale, sia in associazione con la terapia cognitiva che da sola, è efficacie nel ridurre i sintomi della paura di volare (Da Costa et al., 2008). Da uno studio che ha messo a confronto gli effetti dell’ esposizione in realtà virtuale con quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) e della biblioterapia è emerso che i primi due sono entrambi più efficaci rispetto all’ultimo. Non emergevano invece differenze significative fra la CBT e l’ esposizione in realtà virtuale (Krijn et al., 2007).

Rispetto alle fobie specifiche gli altri disturbi d’ansia sono stati meno indagati. Mentre per alcune fobie specifiche, come l’aracnofobia o la paura di volare, ci sono delle evidenze dell’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale, per quanto riguarda altri disturbi d’ansia, come il disturbo da attacchi di panico e il disturbo d’ansia sociale i risultati sono promettenti ma necessitano di maggiori studi controllati (Meyerbroker et al., 2010).

Nel caso del disturbo da attacchi di panico con agorafobia (DPA) sono stati creati tutta una serie di ambienti virtuali per esporre i pazienti all’ ansia, per esempio un ascensore, un supermercato, una piazza e una panchina (Vincelli F. et al., 2002). L’ esposizione in realtà virtuale si è dimostrata efficace nel migliorare i sintomi del DPA rispetto ad una condizione senza trattamento. Tale miglioramento inoltre non sembra influenzato dal metodo utilizzato (HDM o CAVE) o dal livello di presenza sperimentato dai pazienti (Meyerbroeker K. et al., 2011). In uno studio randomizzato pazienti con DPA trattati con l’ esposizione in realtà virtuale e CBT hanno ottenuto miglioramenti simili a pazienti trattati con la CBT e l’esposizione in vivo. Questo miglioramento avveniva dopo lo stesso numero di sedute e con un profilo temporale simile fra le due condizioni, suggerendo uno stesso processo sottostante. Nonostante questo gli autori ritengono che per questo tipo di disturbo l’ esposizione in realtà virtuale non può essere raccomandata dato che i miglioramenti nei sintomi erano previsti soprattutto dai precedenti cambiamenti delle cognizioni agorafobiche ottenute nella CBT. L’esposizione in vivo inoltre aveva ottenuto un miglioramento leggermente superiore rispetto all’ esposizione in realtà virtuale sulla riduzione della gravità dei sintomi (Meyerbroeker K. et al., 2013).

Per quanto riguarda il disturbo da stress post traumatico (PTSD) diversi studi hanno indagato gli effetti dell’ esposizione in realtà virtuale su reduci di guerra e sopravvissuti ad attentati terroristici. La maggior parte degli studi controllati mostra una riduzione significativa dei sintomi di PTSD nel gruppo trattato con esposizione in realtà virtuale rispetto al gruppo in lista di attesa. Non sono invece emerse differenze statisticamente significative fra l’ esposizione in realtà virtuale e il trattamento basato sull’ esposizione in vivo. È comunque possibile che la differenza fra l’ esposizione in realtà virtuale e altri trattamenti non sia emersa a causa dell’esiguo numero di soggetti utilizzati negli studi. Inoltre nella maggior parte degli studi, insieme all’ esposizione in realtà virtuale venivano somministrati altri trattamenti aggiuntivi come psicoeducazione e gestione dell’ansia (Gonçalves et al., 2012).

Per il trattamento dell’ansia sociale i primi studi di realtà virtuale si sono focalizzati sulla paura di parlare in pubblico. Gli ambienti virtuali utilizzati a questo scopo sono costituiti da un pubblico, che può essere positivo neutro e negativo, davanti al quale l’utilizzatore deve fare un discorso. Questa ambientazione è risultata adeguata per generare ansia nei soggetti che vi si sottoponevano. Studenti con un’elevata paura di parlare in pubblico sperimentavano ansia in tutte e tre le condizioni, mentre studenti con bassa paura di parlare in pubblico provavano ansia solo nella condizione con un pubblico virtuale negativo (Pertaub et al., 2002). Uno studio del 2002 ha mostrato che sottoponendo degli studenti all’ esposizione in realtà virtuale vedevano migliorata la loro ansia sociale e la paura di parlare in pubblico rispetto agli studenti inseriti in un gruppo di controllo (Harris et al., 2002).

L’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale su pazienti con una diagnosi completa di disturbo d’ansia sociale (DAS) è stata indagata solo nel 2010. Nello studio di Robillard e coll. pazienti con un DAS sono stati divisi in tre gruppi: uno trattato con CBT associato alla esposizione in realtà virtuale, uno trattato con CBT associato all’ esposizione in vivo e una lista di attesa. Entrambi i gruppi terapeutici hanno mostrato miglioramenti significativi rispetto alla lista di attesa, ma nessuna differenza significativa fra di loro (Robillard et al., 2010). Un’ulteriore studio ha messo a confronto la sola esposizione in realtà virtuale con la sola esposizione in vivo e una lista di attesa in soggetti con un disturbo d’ansia sociale. Dai risultati è emerso che l’ esposizione in realtà virtuale era associata a un miglioramento dei sintomi rispetto alla lista di attesa, ma l’ esposizione in vivo risultava superiore a quella in realtà virtuale nel ridurre i sintomi. Nel follow up inoltre l’ esposizione in vivo aveva mantenuto i miglioramenti prodotti diversamente dalla esposizione in realtà virtuale. (Kampmann I.L. et al., 2015).

L’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è stata poco indagata. L’esposizione di pazienti con DOC ad ambienti virtuali ansiogeni (come un bagno sporco per pazienti con paure di contaminazione) risulta produrre un’attivazione maggiore rispetto all’esposizione di soggetti di controllo (Kim et al., 2009). Uno studio mostra che l’ esposizione in realtà virtuale in soggetti con DOC produce miglioramenti nella sintomatologia del disturbo, ma tale risultato è stato ottenuto su un campione di soli 3 soggetti (Laforest et al., 2016).

La realtà virtuale è stata applicata anche nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, per il quale è stata usata sia per creare ambienti virtuali, che aiutassero i pazienti a svolgere esercizi di rilassamento, sia per esporre i pazienti agli aspetti che provocano loro ansia. Tale trattamento ha mostrato risultati nel ridurre l’ ansia dei pazienti, soprattutto se associato al biofeedback durante l’immersione nella realtà virtuale (Gorini et al., 2010)

Conclusioni

Nonostante il primo ambito di studio in cui si è sviluppato l’uso della realtà virtuale sia quello dei disturbi fobici, sono presenti in letteratura anche ambiti di applicazione per altri disturbi quali: i disturbi alimentari (Molinari, Riva, 2004), disturbo da stress post-traumatico, dipendenze patologiche, autismo, ADHD (Vincelli, Riva, 2002, Vincelli, Riva 2007) e ancora per la riduzione del dolore cronico, riabilitazione motoria e si sempre più diffondendo in vari ambiti (Wierderhold, Wierderhold, 2001; Parsons, Rizzo, 2008; Andreoni, Acerra, Rossi, 2009).

Recenti applicazioni della realtà virtuale riguardano l’ambito della riabilitazione; in letteratura sono presenti studi che dimostrano come l’utilizzo della realtà virtuale dia risultati interessanti e di maggior efficacia rispetto alla riabilitazione tradizionale per soggetti con danni cerebrali, disturbi dell’apprendimento, sclerosi multipla, disturbi dello spettro autistico e ritardo mentale Kirner, Cerqueira, Kirner, 2012; Richard, Billaudeau, Richard, Gaudin, 2007; Correa, Klein, Lopes, 2009; Escobedo, Nguyen, Boyrd, Hirano, Rangel, Rosas, Tentori, Hayes,2012).

Attualmente i ricercatori si stanno focalizzando sull’utilizzo della realtà virtuale come strumento che possa favorire lo stato di “immersività”, ovvero quella condizione di estrema concentrazione ed efficienza, che caratterizza attività ad elevato coinvolgimento, emotivo e cognitivo come ad esempio la mindfulness (Neal, 2012).

In conclusione, l’incessante sviluppo tecnologico sta comportando importanti cambiamenti sociali e culturali e nell’ambito della medicina, psicologia e psicopedagogia sta fornendo risorse promettenti. (Cantalemi, 2015).

Per queste ragioni è possibile immaginare oggi la realtà virtuale come strumento per assessment, diagnosi e trattamento.

Cosa resta del padre: la paternità nell’epoca ipermoderna (2017) di M. Recalcati – Recensione del libro

Cosa resta del padreCosa resta del padre oggi? La risposta è scontata e desolante. La cultura di massa non è sola in una gigantesca opera di castrazione: del padre e della paternità stiamo cercando di liberarci in modo univoco, collettivo, universale.

 

Per gli esseri umani, per gli esseri che abitano il linguaggio, non c’è possibilità di autosufficienza, non c’è verso di sfuggire alla dipendenza strutturale dall’Altro.
Noi siamo, in questo senso, una preghiera.
(p. 6-7)

 

Cosa resta del padre? Cosa resta del padre oggi? La risposta è scontata e desolante. I media, la cultura, l’arte, la filosofia, le università – forse persino le religioni istituzionali –  agiscono di concerto. La cultura di massa non è sola in una gigantesca opera di castrazione: del padre stiamo cercando di liberarci in modo univoco, collettivo, universale.

Dei padri cancelliamo ogni traccia. Le culture locali spariscono o sono musealizzate. La storia ci annoia. La scuola riduce le ore di lezione per mandare i ragazzi ad imparare sul serio nelle fabbriche e nelle banche.

Gli esami scolastici sono via via aboliti. Disprezziamo ogni imperativo superegoico. La frustrazione ci terrorizza. Il politically correct è impegnato in un’operazione particolarmente capillare. Solerti vestali della modernità rimuovono statue di guerrieri e generali. E anche il povero Cristoforo Colombo rischia l’estromissione dalle piazze americane. Ovunque ecumenici e “libertari” fast food sostituiscono oppressivi templi, cappelle e minareti.

Già nel 1969 Lacan parlava di “evaporazione del padre” (cfr Lacan, 2003, p. 9). Mai affermazione fu più profetica. Oggi, in Cosa resta del padre un grande allievo dello psicoanalista francese ci offre un’analisi estremamente acuta di uno dei fenomeni che più caratterizzano l’epoca moderna.

Abbattere l’imago paterna può a prima vista sembrare un’operazione liberatoria ma, osserva Recalcati, non è priva di ambiguità “Lacan … indica una paradossale convergenza tra il moto della contestazione e l’affermazione del discorso del capitalista” (p. 26). Infatti la credenza che anima il discorso del capitalista è quella di un “soggetto … libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua avidità di consumo” (p. 27). In queste condizioni l’oggetto del desiderio perde ogni carattere propriamente umano: non più desiderio di madre, padre, uomo, donna, ma “una semplice presenza, … una Cosa, …. una montagna di cose… (ibidem).

Senza il padre, senza i suoi divieti, la madre non può essere oggetto di un desiderio nostalgico e struggente, viene percorsa in lungo e in largo dal soggetto in un delirio simbiotico e fusionale. In Cosa resta del padre Recalcati osserva: “la Legge non è in opposizione al desiderio, ma è la sua condizione di possibilità. In questo senso la Legge dona la possibilità del desiderio che è già possibilità dell’avvenire, possibilità di staccarsi dalla Cosa immediata del godimento, dal godimento “uniano” (unien) della Cosa” (p. 37 ).

Ecco quindi che una cosa, una sostanza, una performance, un ruolo, un’immagine di sé possono facilmente sostituire l’amore per un oggetto umano: cocaina o fisico da baby soldato rimpiazzano l’incontro faticoso con un uomo od una donne reali. Recalcati parla acutamente di una “dimensione genericamente maniacale del discorso del capitalista.” (p. 29)

Cosa resta del padre – Essere genitore oggi: una missione impossibile

In questo contesto  – si chiede Recalcati – è ancora possibile essere genitori?  Proporsi alla generazione che si affaccia per la prima volta nel mondo come un sostegno ed una guida? La crisi educativa è molto evidente nel mondo contemporaneo. I rapporti di forza si invertono. I genitori di oggi vivono nel terrore di non essere amati, sfuggono a posizione normativa e implicitamente frustrante il desiderio del figlio, inseguono un cameratismo complice e collusivo.

Siamo di fronte a processi sociali e culturali di portata planetaria, con un’accelerazione più evidente nel mondo occidentale. La psicoanalisi può essere solo testimone ed interprete di queste trasformazioni? O può aver anche una proposta? Recalcati, in Cosa resta del padre,non esita ad esporsi: è convinto che il padre giochi anche oggi un ruolo chiave nella famiglia e nella società.

Occorre però uscire da qualsiasi prospettiva nostalgica. Una mimesi degli stereotipi tradizionali può produrre solo caricature, come ci insegna la storia delle ideologie totalitariste. Osserva Recalcati: “Cosa, appunto, resta del padre? Si tratta di ripensare la sua identità non più dall’alto della gloria del suo comando infallibile o del suo potere, ma, come direbbe il giovane Marx della dialettica di Hegel, ‘dai suoi piedi’” (p. VIII). In questa prospettiva la vera funzione del padre è quella di “umanizzare la Legge, liberarla dalla violenza cieca della Legge, unire e non opporre” (p. X).

Recalcati, in Cosa resta del padre, si mostra convinto del fatto che la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra non possa avvenire “come la realizzazione di un programma cognitivo o come effetto di una retorica pedagogica” (p. 42). Solo il padre è in grado di trasfigurare una vita biologica, animale in una vita veramente umana. Solo l’interdizione del desiderio edipico, l’esperienza del limite e della finitezza umane possono aprire la via al desiderio e quindi allo sviluppo. “L’amore” osserva Recalcati in Cosa resta del padrenon può prescindere dalla dialettica del riconoscimento … dell’Altro come portatore di un nome proprio, particolare, inassimilabile alle leggi biologiche universali” (p. 63)

Amore e Mistero

Nella prospettiva di Recalcati dunque il padre, non certo solo nella sua identità fisiologica, ma inteso come funzione, come codice affettivo nel senso di Fornari (1981), è indispensabile alla costruzione di una vita simbolica, crea un’intercapedine tra desiderio e consumo dell’oggetto, crea lo spazio della fantasia del desiderio dell’oggetto. Insomma dell’amore.

Il padre apre la porta al mistero del vivere e del morire. Rimanda al Padre, al principio creatore dell’uomo e della natura. Organizza simbolicamente questo mondo in una ininterrotta relazione biunivoca con l’Altro mondo.

Per questo Recalcati ha deciso di insegnare ai suoi figli a confrontarsi con questa dimensione “la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare” (p. 4).

Il compito educativo del padre è dunque arduo, forse impossibile. Non certo agevole è quello dell’analista: aiutare i propri pazienti a riconoscere l’amore nascosto nei goffi tentativi con cui ognuno di noi ha cercato di essere autenticamente genitore.

Fuori dal buio – aiutare e sostenere chi soffre di ansia e attacchi di panico

Il ciclo di incontri “Fuori dal Buio” promosso dall’Associazione di volontariato Insieme Onlus, con il patrocinio del Comune di Grottammare, si pone come obiettivo quello di informare, sensibilizzare e di aiutare e sostenere le persone che soffrono di ansia e attacchi di panico.
Durante le tre giornate, del 14 e del 28 Ottobre e 4 Novembre, verranno trattati temi inerenti al “terremoto”, i “disagi del nostro tempo” e i “mali dell’anima”, come le reazioni da stress dopo eventi catastrofici quali il terremoto e le difficoltà di adattamento connesse;
in che maniera questi disagi si sono amplificati nell’ultimo periodo ma, soprattutto quali sono le strategie per combatterli.
Riuscire a raggiungere quelle certezze che in determinati momenti vengono a mancare.

  • Progetto Fuori dal Buio 14/28 Ottobre – 4 Novembre 2017
  • Ore 15:00 Sala Consiliare Comune di Grottammare (AP) via Marconi, 50

 

Gli eventi catastrofici legati al recente terremoto avvenuto nel Centro Italia, e le numerose scosse che si sono susseguite, hanno portato psicologi e cittadini a fronteggiare le conseguenze psicologiche che tali avvenimenti naturali hanno creato nella popolazione. Tali calamità superano infatti l’ambito della comune esperienza e dal punto di vista psicologico rappresentano dei veri e propri Traumi che possono generare uno stato di disagio psico-fisilogico e di malessere che spesso si associa a sindrome ansiose; perché intaccano qualcosa di profondo legato all’identità sia individuale che di comunità. Inoltre incidono sulle certezze che ci siamo costruiti nella nostra quotidianità, generando preoccupazione per il futuro.

Per questi e altri motivi l’organismo è esposto ad un enorme livello di stress ed il cervello si attiva istantaneamente per tentare di ripristinare il normale funzionamento fisiologico. Questo processo naturale a volte può non avvenire linearmente e andare incontro a dei blocchi o compromissioni, ed ecco la ragione per la quale gli specialisti cercheranno di rispondere e informare la cittadinanza rispetto al tema suddetto.

Risponderanno a temi come:

  • Quali sono i fattori di protezione e quali quelli di rischio da riconoscere?
  • Quali accorgimenti adottare in taluni casi? Come poter far fronte alle sfide quotidiane?

Questi sono alcuni dei quesiti che verranno sviscerati dai professionisti che interverranno alla giornata del 14 Ottobre;

la giornata del 28 Ottobre inizierà con un approfondimento del concetto di stress e una rassegna ed analisi sui “falsi miti” diffusi sullo stesso. Verranno chiarite le differenze esistenti tra stress “negativo” e stress “positivo”, i legami tra stress e malattia (organica e psicologica) e i meccanismi attraverso i quali determinati eventi diventano stressanti per alcuni individui;

la valutazione soggettiva dell’evento e la connessione tra questa e il sistema motivazionale dell’individuo;

le strategie cognitive e comportamentali messe in atto dalle persone per fronteggiare le situazioni difficili (strategie di coping);

l’incontro proseguirà mediante l’approfondimento e l’analisi delle varie strategie di coping (centrato sul compito, sulle emozioni o sull’evitamento) e delle circostanze in cui determinate strategie di coping diventano dannose per l’individuo. L’ultima parte dell’incontro verterà sull’autostima, le sue correlazioni con il benessere e con la vita personale e lavorativa, i fattori di vulnerabilità che portano allo sviluppo di un inadeguato livello di autostima e i conseguenti processi cognitivi disadattivi. Verranno infine presentate delle linee guida per incrementare il proprio livello di autostima;

A concludere, nella giornata del 4 Novembre, quale ultimo incontro del progetto “Fuori dal Buio”,  saranno presenti specialisti non solo in prima linea nella lotta per la salute mentale ma anche pionieri nella cultura dell’auto-mutuo-aiuto, come definito anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità”.

Verrà trattata l’importanza delle relazioni con gli altri e del sostegno reciproco; la qualità della vita e il disagio relazionale, con testimonianze dirette di membri e facilitatori dei gruppi Auto-Mutuo-Aiuto Insieme Onlus.

 

L’evento è gratuito non occorre registrarsi, alla fine degli incontri verrà rilasciato un attestato di partecipazione, durante gli incontri verrà offerto un Coffee Break

Per informazioni: Tel. 366/3623811- 342/8777135 [email protected]www.insiemedap.it

Associazione INSIEME ONLUS Ansia Attacchi di Panico Agorafobia

 

(Progetto Finanziato dal CSV MARCHE Centro Servizi per il volontariato, con il Patrocinio del Comune di Grottammare)

Relatori: Dr.ssa Clarice Mezzaluna – Dr. Lorenzo Flori – Dr.ssa Fabiana Bizzoni – Dr. Valerio Castellucci – Dr.ssa Tiziana Ciccioli – Dr.ssa Marika Ferri – Dr.ssa Emanuela Nittoli – Dr. Marco Forti – Dr.ssa Fiammetta Monte- Dr.ssa Marzullo Rosaria Laura – Dr. Pino Pini – Dr. Gianluigi Innocenti.

Scuole Partecipanti: Sipsi Società Italiana di Psicologia e Psichiatria – Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto –  Associazione Emdr.

Alzheimer e benessere psicologico: gli interventi non farmacologici

Tra le diverse forme di demenza, la demenza di Alzheimer è quella più diffusa e rappresenta una delle maggiori cause di disabilità, dipendenza e istituzionalizzazione per i malati e di carico e stress per i caregivers.

Giulia Cesetti – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

Nella popolazione anziana si assiste ad un aumento dell’incidenza di malattie croniche, tra queste la demenza. Tra le diverse forme di demenza, la demenza di Alzheimer è quella più diffusa (Cummings & Cole 2002) e rappresenta una delle maggiori cause di disabilità, dipendenza e istituzionalizzazione per i malati e di carico e stress per i caregivers (Schultz &Williamson, 1991). La demenza è un termine che descrive disturbi causati dal deterioramento cognitivo, capace di compromettere significativamente il funzionamento della persona (D’Onofrio et al., 2015).

I sintomi possono essere raggruppati in tre grandi domini: aspetti cognitivi, aspetti funzionali e sintomi neuropsichiatrici. Il declino cognitivo può coinvolgere diversi aree: la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, le funzioni esecutive, l’attenzione, il movimento, la cognizione sociale (APA, 2013).

Demenza di Alzheimer: gli interventi non farmacologici

Allo stato attuale non esiste un trattamento capace di curare la demenza di Alzheimer (Algar, Woods & Windle, 2014), la limitata efficacia dei trattamenti farmacologici e la plasticità del cervello umano sono le due maggiori spiegazioni dell’interesse crescente per i trattamenti non-farmacologici. (D’Onofrio et al., 2016)

Gli stessi potrebbero rappresentare promettenti mezzi per incrementare il benessere psicologico e la qualità della vita delle persone con demenza; benessere e qualità della vita, infatti, nelle persone con demenza di Alzheimer, in molti casi risultano fortemente compromessi.

Nelle strutture che accolgono persone con demenza, allo stato attuale, vengono proposte diverse attività che variano per tipo ed intensità. Alcuni tra questi trattamenti non farmacologici, in pazienti con Alzheimer lieve-moderato, hanno prodotto un miglioramento del benessere fisico e psicologico, della qualità della vita e dell’integrazione sociale (Viola et al., 2011).

Una recente review (D’Onofrio et al., 2016) elenca alcuni interventi non farmacologici che potrebbero contribuire a promuovere il benessere e la qualità della vita della persona con demenza attraverso, ad esempio, una riduzione dei sintomi comportamentali.

Troviamo diverse attività di tipo cognitivo/emotivo che hanno come obiettivo quello di migliorare gli aspetti emotivi, cognitivi e le funzioni sociali nei pazienti con demenza (Finnema, Dröes Ribbe & Tilburg, 2000).

La terapia della reminiscenza è un intervento che sfrutta la naturale propensione dell’anziano a rievocare il proprio passato. Le persone vengono incoraggiate a parlare della loro infanzia e degli eventi vissuti. Alcuni studi mostrano un miglioramento nei sintomi cognitivi e depressivi (Ito , Meguro , Akanuma, Ishii , Mori, 2007; Testad et al.,2014; Wang, 2007).

La ROT (Reality orientation therapy) è una tecnica di stimolazione cognitiva finalizzata all’orientamento alla realtà (Choi & Twamley, 2013; Camargo, Justus & Retzlaff, 2015). In particolare la stessa è consigliata in pazienti con demenza lieve/moderata. La ROT può essere formale o informale. Il paziente durante le sessioni è stimolato a discutere di diversi argomenti riguardanti la routine e eventi recenti (Camargo et al.,2015; Spector, Davies, Woods & Orrell, 2000; Spector, Orrell, & Woods, 2010). Dalle prime pubblicazioni sulla ROT è cresciuto l’interesse nei confronti di questo trattamento e alcuni articoli hanno evidenziato benefici sostanziali dall’applicazione di queste strategie (Camargo et al., 2015; Spector et al.,2010; Spector, Woods,  & Orrell,2008). Sono stati implementati diversi metodi basati sulla ROT (Camargo et al.,2015; Spector et al., 2010). Studi recenti hanno messo in luce la ROT basata su nuove tecniche di stimolazione cognitiva (CST). La CST è caratterizzata, inoltre, da una stimolazione multi-sensoriale e da tecniche basate sulla reminiscenza  (Spector et al., 2008; Clare & Woods; 2004).

La Validation Therapy è un approccio relazionale che ha come obiettivo quello di ridurre lo stress e  mantenere la dignità della persona con demenza di Alzheimer. Il metodo si fonda sull’idea che sia possibile mantenere un contatto con la persona con demenza, sottolinea l’importanza della comprensione empatica. Le caratteristiche principali includono: i mezzi di classificazione dei comportamenti, le tecniche pratiche che aiutano a ripristinare la dignità, l’offerta di un ascoltatore empatico, il rispetto e l’empatia per gli anziani con demenza e l’accettazione della realtà della persona (Feil, 1992). Alcuni studi osservazionali hanno evidenziato che i partecipanti sottoposti a gruppi di validation therapy mostravano effetti positivi sulla durata e la quantità di interazione durante le sessioni di gruppo (Deponte &Missan, 2007), ma altri studi non hanno mostrato prove d’efficacia (Scanland & Emershaw, 1993).

I trattamenti sensoriali e multi sensoriali fanno riferimento a vari tipi di tecniche utilizzate per stimolare i sensi e ridurre i livelli di agitazione (Gammeltoft, 2005). Gli stimoli sensoriali utilizzati includono quelli visivi, uditivi, tattili, olfattivi e gustativi (Baker, Bell, Baker & Gibson, 2001; Vozzella, 2007).

L’arte terapia viene spesso considerata come trattamento-non farmacologico possibile per persone con demenza di Alzheimer e può rappresentare un mezzo di stimolazione importante. Disegnare e dipingere forniscono alle persone con demenza l’opportunità di esprimersi e di scegliere in termini, ad esempio, di colori e di soggetti da disegnare. Alcuni studi hanno evidenziato che l’arte terapia può essere utile nei pazienti con demenza di Alzheimer per incrementare il benessere, catturare l’attenzione e migliorare i sintomi neuropsichiatrici (Chancellor, Duncan & Chatterjee, 2014; Young,  Camic,  & Tischler, 2016).

La musico- terapia viene utilizzata per migliorare la comunicazione, l’apprendimento, la mobilità e altre funzioni mentali e fisiche delle persone (Raglio, Filippi, Bellandi,& Stramba-Badiale, 2014). Sono state sviluppate numerose tecniche di musicoterapia (Raglio et al., 2014). Le tecniche attive si basano sull’interazione diretta con il paziente, mentre le tecniche più ricettive richiedono un livello più basso di partecipazione. Gli interventi possono essere adattati ad un determinato soggetto e svolti con individui o gruppi. In alcuni studi la terapia musicale ha dimostrato di migliorare la memoria, l’orientamento, i sintomi ansioso- depressivi nei pazienti con Alzheimer lieve e moderato (Gallego & García, 2017).

Orticultura le attività della terapia orticulturale si svolgono prevalentemente all’aria aperta, invitando a stabilire un rapporto di cura e responsabilità verso gli organismi viventi. La terapia orticulturale è una terapia economica che può incrementare il benessere delle persone con demenza di Alzheimer (Blake & Mitchell, 2016). L’orticultura sembrerebbe ridurre i livelli di agitazione e aumentare le emozioni positive anche in pazienti con demenza di grado severo (Bomalaski, 2011).

Attività fisica: le attività fisiche includono diverse attività ricreative come la danza, lo sport, il teatro. L’esercizio fisico può ridurre il numero delle cadute nelle persone con demenza; inoltre produce miglioramenti per quanto riguarda la salute mentale, il sonno e l’umore (Douglas, James, Ballard, 2004).  E’ stato dimostrato che l’esercizio fisico durante il giorno riduce l’agitazione durante la notte e l’irrequietezza (Douglas et al., 2004).

La Terapia animale assistita (AAT) comunemente si basa sull’interazione tra un paziente e un animale addestrato, con un facilitatole umano, con l’obiettivo terapeutico di fornire rilassamento e piacere. Questa terapia sembra migliorare i sintomi neuropsichiatrici nei pazienti con demenza (Filan, 2006). Tali attività dovrebbero promuovere la sicurezza del paziente. Molti degli studi epidemiologici mostrano che la terapia animale assistita è una soluzione efficace per ridurre i sintomi emotivi, comportamentali, cognitivi e fisici della demenza, nonché  per aumentare l’assunzione di cibo dei pazienti e la qualità di vita percepita (Algar, Woods& Windle, 2016).

La Terapia della bambola consiste nell’utilizzo di bambole con caratteristiche particolari tali da favorire l’accudimento attivo da parte dell’anziano con un grado di demenza severo. Una recente review della letteratura ha messo in evidenza i benefici della terapia della bambola nella riduzione dei sintomi cognitivi, comportamentali ed emotivi e nell’aumento del benessere generale. Inoltre i pazienti con demenza, che avevano effettuato la terapia della bambola, erano maggiormente in grado di rapportarsi con l’ambiente circostante. (Ng, Koh, Tan & Chan, 2017)

I trattamenti non- farmacologi descritti, affinché possano risultare efficaci nel miglioramento dei livelli di benessere psicologico delle persone con demenza di Alzheimer, dovrebbero essere individualizzati sulla base dei gusti e degli interessi delle persone e dovrebbero tener conto del livello cognitivo e dello stadio della malattia. Inoltre sembrano necessari ulteriori studi in letteratura randomizzati e controllati, finalizzati ad individuare gli ingredienti specifici di questi trattamenti, capaci di determinare un effettivo incremento dei livelli di benessere psicologico e della qualità della vita nelle persone con demenza di Alzheimer.

 

 

 

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