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L’altra metà della storia (2017) – Cinema e Psicologia

Il film è l’adattamento del romanzo vincitore del Booker Prize “Il senso di una fine” di J. Barnes. Tony Webster, un settantenne divorziato, nel film L’altra metà della storia riceve una lettera da uno studio notarile che l’informa che la madre di Veronica, una sua fiamma dei tempi del liceo, gli ha lasciato un diario in eredità. La lettera perturba la vita tranquilla del protagonista che sta aspettando la nascita di un nipote dalla sua unica figlia.

La mente di Tony inizia a muoversi tra presente e passato: amori, amicizie travagliate, scelte compiute e omissioni rievocano “emozioni giovanili come quelle lette sui libri che mettono sottosopra la vita” e parallelamente “emozioni di sostegno quelle della maturità che ti dicono andrà tutto bene“.

Ma i ricordi sono autentici o ricostruiti da chi li evoca?

L’uomo decide, pieno di curiosità, di incontrare Veronica che ha in mano il lascito dell’eredità. Di lei non aveva più notizie da tanto tempo. L’incontro aprirà le porte di una rivisitazione degli accadimenti legati al suo amore per la donna, nonché ad una verità inimmaginabile che spinge Webster a riconsiderare se stesso e la propria vita.

La dimensione intersoggettiva, l’uomo narra alla ex moglie il dipanarsi degli eventi ricostruiti tra memorie del passato e notizie che emergono nel presente, lo aiuta a superare l’incapacità di vedere quello che ha davanti agli occhi, accusa che proprio l’ex moglie gli muove.
Infatti, quello che pareva e si credeva fosse accaduto in un certo qual modo viene completamente stravolto da verità nascoste che sono comprese ora in forme mai emerse in precedenza.

Allora, in concomitanza con il suicidio di uno studente del college, Adrian amico di Tony – lui stesso si toglierà la vita in seguito prendendo alla lettera le parole di Camus “Il suicidio è la vera e sola domanda filosofica” – citò P. Lagrange “La storia è la certezza che si consolida nell’incontro delle imperfezioni della memoria con l’inadeguatezza della documentazione“.

Sulla scia di questa “certezza” gli indizi, le reminiscenze inaffidabili, le ipotesi, le immagini, i flashback costituiscono ora per Webster le tracce da seguire nella ricostruzione del racconto.

Quante volte raccontiamo la storia della nostra vita aggiustandola, migliorandola, portando dei tagli strategici e più si va avanti negli anni e sempre meno persone potranno dire che la nostra vita non è la nostra vita, ma è solo la storia che ne raccontiamo, la storia della nostra vita raccontata agli altri, ma sopratutto a noi stessi“.

L’articolo continua dopo il trailer del film L’altra metà della storia:

La nostalgia: un’emozione tra passato e presente nel film L’altra metà della storia

Tempo e memoria evocano nostalgia in Tony: “Mi sono chiesto spesso cosa sia la nostalgia e se io ne soffra, suppongo di essere un nostalgico“.
Quando riaffiorano nella nostra mente ricordi del passato e si riaffacciano le emozioni provate in quei momenti lo stato d’animo è caratterizzato da un misto di tristezza per ciò che è passato e di gioia per averlo comunque vissuto.

La nostalgia è un’emozione che riapre il confronto tra passato e presente e ci porta in un altrove che paradossalmente non è ne qui ed ora, nè lì e allora, ma un luogo della nostra autobiografia che attiva percezioni e sensazioni avvolte da significati sempre nuovi. I ricordi del nostalgico, infatti, mutano, si trasformano, si arricchiscono, ad ogni rievocazione sono ricostruiti. D’altra parte la tendenza a unificare frammenti di esperienza dando unitarietà, coerenza e continuità alla narrazione è il processo con il quale costruiamo la nostra identità. La nostalgia ci permette di mantenerla, ma anche di riordinarla in un processo generativo di rinnovamento continuo.

«La nostra vita non è la nostra vita, ma è solo la storia che ne raccontiamo, la storia della nostra vita raccontata agli altri, ma sopratutto a noi stessi».

Affrontare e Gestire lo Stress lavoro-correlato

Una forza lavoro sana è essenziale per un’azienda di successo” (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2013).

“…Considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme…” (Accordo Europeo sullo stress sul lavoro, Bruxelles, 8 ottobre 2004).

Cos’è lo stress lavoro-correlato?

Lo stress lavoro-correlato può essere definito come un danno fisico e una riposta emotiva che interviene quando le caratteristiche del lavoro non corrispondono alle capacità, risorse o bisogni dei lavoratori. Può condurre ad un indebolimento della salute e addirittura ad infortuni (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2000).
Lo stress non è una malattia, ma uno stato di prolungata tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare problemi di salute psicologica e fisica (come ad esempio, ansia, depressione, esaurimento nervoso e cardiopatie) (Backé et al., 2012; Chen et al., 2009).
Lavorare sotto una certa pressione per un breve periodo può migliorare le prestazioni e dare soddisfazione quando si raggiungono obiettivi impegnativi. Al contrario, quando le richieste e la pressione diventano eccessive e prolungate possono causare stress e gravi problemi di salute mentale e fisica.

Perché è così importante gestire lo stress lavoro-correlato?

Affrontare lo stress lavoro-correlato e i rischi psicosociali può essere considerato costoso, ma ignorarli costa molto di più, come evidenziato da numerose ricerche (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2014):
Ricerche recenti nei paesi della Comunità Europea evidenziano come lo stress legato alla attività lavorativa sia il problema di salute più largamente diffuso tra i lavoratori europei dopo i disturbi muscoloscheletrici.

La condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa.
È stato stimato che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% delle giornate lavorative perse in un anno è correlata allo stress lavoro-correlato.
Lo stress comporta costi significativi sia per le organizzazioni sia per le economie nazionali. Da una relazione dell’Eu-Osha (2014) emerge che il costo economico dello stress legato alla attività lavorativa in Europa è pari a 20 miliardi di euro all’anno (costi legati alla perdita di produttività, assenteismo per malattia, assistenza sanitaria ecc.).

E’ altamente probabile che il fenomeno aumenti in futuro, a causa di alcuni cambiamenti in corso nel mondo del lavoro (es. contratti di lavoro precari, insicurezza lavorativa, forza lavoro sempre più vecchia, squilibrio fra lavoro e vita privata): l’Organizzazione mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione – spesso associata a uno stile di vita stressante – sarà la principale causa di assenza sul lavoro.

Effetti dello stress lavoro-correlato sui lavoratori

Disturbi dell’umore (es., ansia, attacchi di panico, depressione, apatia)
Disturbi del sonno (es., insonnia, incubi notturni, spossatezza al risveglio)
Disturbi cognitivi (es., disturbi della memoria, difficoltà di concentrazione)
Disturbi gastrointestinali (il nervosismo può stimolare lo stomaco e causare contrazioni spasmodiche dell’intestino, colite)
Disturbi dell’apparato cardiocircolatorio (es., ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica)
Disturbi dell’apparato genitale (es., alterazioni del ritmo mestruale, amenorrea)
Disturbi della sfera sessuale (es., calo del desiderio, impotenza)
Disturbi dermatologici (es., dermatiti, psoriasi, arrossamenti).

Effetti dello stress lavoro-correlato sull’azienda

Maggiore assenteismo
Maggiore turnover
Aumento degli infortuni
Maggiore conflittualità
Peggioramento del clima interno
Diminuzione della produttività e della qualità
Peggioramento dell’immagine aziendale.

Quali sono i benefici della valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato?

Tutti questi elementi rappresentano per l’azienda evidenti costi che potrebbero essere sensibilmente ridotti applicando un percorso di valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato che non sia semplicemente una procedura dovuta al mero rispetto della normativa, ma anche una presa di coscienza dell’azienda e dei lavoratori sulla tematica stress lavoro-correlato e sull’importanza della promozione di un ambiente di lavoro sano. I vantaggi sono:
Per i LAVORATORI: maggiore benessere e soddisfazione sul lavoro.
Per i DIRIGENTI: una forza lavoro più sana, più motivata e più produttiva.
Per le AZIENDE: miglioramento delle prestazioni, riduzione dei tassi di incidenti ed infortuni, minore assenteismo e turnover.
Per la SOCIETA’: riduzione dei costi e degli oneri per i servizi.

La valutazione del rischio stress lavoro-correlato è un obbligo normativo

La legge attualmente in vigore che disciplina la valutazione del rischio stress lavoro correlato è il D.Lgs. 81/08, art. 28 e successive modifiche e integrazioni.

Il D.Lgs 81/2008, in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro e le successive disposizioni integrative e correttive, obbligano il datore di lavoro ad effettuare la valutazione dello stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dall’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004.

Tale articolo stabilisce che: “La valutazione … deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004” (art. 28, comma 1).

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova cosa offre

Alla luce della attuale normativa e della crescente attenzione al fenomeno stress lavoro-correlato, l’obiettivo del Centro di Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova è quello di offrire alle aziende interventi volti alla prevenzione e gestione dello stress lavoro-correlato a livello aziendale e/o individuale. Nello specifico:

  • Consulenza offerta alle aziende
    Valutazione rischio stress lavoro-correlato (adempimento D.lgs 81/2008)
    Testing psicologico
    Erogazione di corsi di Formazione sullo stress lavoro-correlato e sui rischi psicosociali
    Counseling aziendale/Sportello di ascolto
    Corsi di Mindfulness
    Tecniche di rilassamento
  • Consulenza offerta al singolo
    Tecniche individuali di gestione dello stress/ stress management
    Supporto psicologico ai problemi sul lavoro
    Miglioramento dell’empowerment individuale
    Programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction)
    Psicoterapia individuale ad orientamento cognitivo-comportamentale

Gli interventi psicologici volti alla prevenzione e gestione dello stress lavorativo proposti dal Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova possono quindi essere suddivisi in: a) interventi diretti all’organizzazione e b) interventi diretti all’individuo.
I primi riguardano interventi di tipo organizzativo che agiscono su quei fattori di rischio relativi al contenuto e al contesto del lavoro oppure fanno riferimento a interventi di formazione e prevenzione.
Gli interventi a livello individuale mirano invece a promuovere efficaci strategie di coping e di resilienza individuale al fine di migliorare la capacità individuale di gestione dello stress e, di conseguenza, ridurre il suo potenziale impatto negativo sulla salute (Hulsheger,et al., 2013).

Il Linguaggio dei bambini: il timbro universale delle mamme

Nel rivolgersi ai figli piccoli le mamme non modificano solo il ritmo e l’intonazione della voce, ma anche il timbro. Una ricerca ha scoperto che questa alterazione timbrica è universale, ossia identica per tutte le lingue.

 

Il “linguaggio dei bambini” delle mamme

Quando parlano con i neonati i genitori, senza volerlo, utilizzano un “Linguaggio dei Bambini” in un’unica forma includendo contorni esagerati e formulando frasi corte e ripetitive, qualunque sia il paese in cui vivono o la lingua che usano. A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori della Princeton University.

Precedenti ricerche avevano già dimostrato che parlando con i figli piccoli le madri modificano il loro modo di esprimersi adottando il cosiddetto baby talk che, esagerando gli accenti e il ritmo del parlato per renderlo più musicale, ha un ruolo importante per l’apprendimento della lingua. Questa tipologia di linguaggio stimola il coinvolgimento emotivo del piccolo ed evidenzia la struttura del linguaggio, aiutando i bambini a codificare sillabe e frasi.
Finora però non era stata condotta un’approfondita ricerca sul timbro della voce.

Il linguaggio delle madri con i bambini è universale

Piazza e i suoi colleghi, nel loro laboratorio infantile di Princeton, si sono interessati al modo attraverso il quale i bambini rilevano la struttura delle voci che ascoltano attorno a loro durante la fase di apprendimento.

Nel nuovo studio, attraverso l’utilizzo di risorse di intelligenza artificiale, hanno messo a punto un algoritmo di riconoscimento vocale e apprendimento automatico che hanno applicato sulle voci di 12 madri di lingua inglese mentre giocavano con i loro bambini, di età compresa tra i 7 e i 12 mesi e quando parlavano con altri adulti.

L’algoritmo è stato in grado di stabilire correttamente quando le donne usavano il timbro da neonato e quando invece quello da adulto.
La domanda successiva è stata quella di scoprire se queste differenze si sarebbero riscontrate su madri che parlano una lingua differente dal primo campione analizzato.

I ricercatori hanno esteso l’analisi su un altro campione composto da 12 madri di lingue diverse (spagnole, russe, polacche, tedesche, francesi, ungare, mandarine e cantonesi); per verificare se l’algoritmo fosse in grado di distinguere fra i due tipi di parlata.

Il risultato della ricerca è stato il medesimo. La macchina apprende algoritmi che sono stati appresi dal primo campione di madri inglesi, e che sono stati riutilizzati anche sul campione misto e il risultato sarebbe stato il medesimo a test invertiti.

Questo significa, ha concluso Elise Piazza, “che questi cambiamenti nel timbro rappresentano una forma universale di comunicazione con i neonati“.
In ultima, i ricercatori affermano che con alta probabilità i risultati ottenuti dai test condotti sulle madri avrebbero avuto gli stessi risultati se le ricerche fossero state condotte sui padri.

L’ attivazione comportamentale in psicoterapia: come cambiare i comportamenti dei pazienti

Nella mia prospettiva, l’ attivazione comportamentale e gli esperimenti comportamentali in generale, si dovrebbero integrare con altre tecniche, in particolare quelle basate sulla riattivazione emotiva in seduta. Si prefigurano in questo modo sequenze di intervento, come quelle che andiamo sviluppando in Terapia Metacognitiva Interpersonale e nelle terapie orientate metacognitivamente.

L’importanza dell’ attivazione comportamentale in terapia

Pensare una terapia senza la componente comportamentale oggi mi sembra difficile. Anni fa avevo una posizione radicalmente anticomportamentista, non senza un certo livello di sdegno intellettuale. Ero di matrice costruttivista Kelliana al quale si affiancava un background di psicoanalisi interpersonale (alla Kohut e Mitchell). Nel corso degli anni ho cambiato idea radicalmente.

Da un lato gli studi che mostravano quanto la componente comportamentale fosse fondamentale nel cambiamento che si ottiene nella CBT. Dall’altro la crescente consapevolezza che gli schemi che guidano disfunzioni e maladattamento nelle relazioni abbiano sì un aspetto cognitivo, ma che la parte più stabile, e difficile da cambiare, sia quella procedurale/tacita/implicita. Le esperienze relazionali che viviamo nello sviluppo si scrivono nel corpo come sequenze di azioni, reazioni ed emozioni, delle quali possiamo non essere coscienti. Guidati ad esempio dall’ attivazione di uno schema di attaccamento evitante, quando abbiamo bisogno di cure non esprimiamo l’emozione e sminuiamo la sofferenza che proviamo e la necessità di essere aiutati, senza renderci conto di farlo. Sono automatismi.

Per cambiare la componente procedurale degli schemi è necessario rompere le routine comportamentali. Non penso al comportamentismo amentalista degli albori, ma faccio riferimento a un’idea di mente in cui l’azione è la parte che svela quali cognizioni e affetti hanno più peso. Detto semplicemente: un paziente con disturbo evitante di personalità può dire “Tendo a temere il giudizio e mi vergogno all’idea che gli altri pensino che sono un incapace, ma ora mi rendo conto di questo e ci sorrido su”. Sembra che abbia acquisito capacità di distanza critica/defusion/differenziazione. Poi gli si chiede: “Ma ci va all’università? Ha cercato lavoro? Ha provato a invitare una ragazza a uscire?” “Io? No no per carità, queste cose non le faccio”.

Che significa? Che la capacità di distanza critica a livello cognitivo non valeva niente, e che la vera cognizione era quella che antecedeva il comportamento di evitamento. E senza un’esposizione comportamentale quello schema non si sarebbe mai infranto.

A partire da queste riflessioni mi sono spostato sempre di più verso l’attenzione alla componente bottom-up della psicoterapia, in cui il cambiamento esperienziale precede, accompagna e sostiene la ristrutturazione cognitiva. Allo stesso tempo, mi è sembrato sempre più evidente che senza una componente comportamentale una psicoterapia, di qualunque orientamento, sia destinata a una minore efficacia, o comunque a essere efficace con un minor numero di pazienti. Guidato da questa idea, con il mio collega Golan Shahar siamo partiti dall’ attivazione comportamentale, noto trattamento efficace per la depressione e abbiamo curato un numero speciale della rivista Psychotherapy.

L’ attivazione comportamentale e l’integrazione con altre tecniche

Abbiamo chiesto ad autori di diversi orientamenti come utilizzassero l’ attivazione comportamentale, originariamente pensata come protocollo a sé per il trattamento della depressione, in una serie di disturbi: dolore cronico, ansia, depressione (naturalmente), disturbi di personalità, schizofrenia. Per spiegare di che si tratti, traduco l’abstract della mia introduzione con Shahar.

L’ attivazione comportamentale è un trattamento efficace per la depressione, che ha come bersaglia la deprivazione di rinforzi positivi. È diventato sempre più evidente che molti disturbi mentali e forme di sofferenza psicologica coinvolgano la riduzione di attività guidate allo scopo e piacevoli. Questa riduzione lascia gli stati mentali negativi al centro della coscienza, senza che sentimenti e memorie positive, esperienze di agency, autoefficacia, competenza, rilassamento, energia e situazioni li controbilancino. Una riduzione dell’attività la si può trovare in disturbi che passano dal dolore cronico, ai disturbi di personalità alla schizofrenia. Crediamo che il tempo sia matura per pensare che l’ attivazione comportamentale, più che un trattamento in sé, sia considerata un meccanismo di cambiamento fondamentale in psicoterapia per un’ampia gamma di disfunzioni, e in modo indipendente dall’orientamento preferito dal clinico… riflettiamo sul fatto che l’ attivazione comportamentale vada implementata in molte forme di psicoterapia e per vari disturbi mentali, per rendere i trattamenti più rapidi e migliorare gli outcome, purché sia effettuata all’interno di un’attenzione importante alla relazione terapeutica”.

Nella mia prospettiva, l’ attivazione comportamentale e gli esperimenti comportamentali in generale, si dovrebbero integrare con altre tecniche, in particolare quelle basate sulla riattivazione emotiva in seduta. Si prefigurano in questo modo sequenze di intervento – come quelle che andiamo sviluppando in Terapia Metacognitiva Interpersonale e nelle terapie orientate metacognitivamente, – si vedano questi due articoli: Agency before action: The application of behavioral activation in psychotherapy with persons with psychosis e Behavioral activation in the treatment of metacognitive dysfunctions in inhibited-type personality disorders – che funzionano in questo modo.

Si parte dal ricordo di un episodio narrativo emotivamente rilevante. Il paziente può ad esempio raccontare: “Ho detto a mia madre che avrei fatto un viaggio con gli amici in estate, era la prima volta, ci tenevo. Mi rispose dura: non se ne parla nemmeno, è assurdo, non sei abbastanza grande e responsabile. Mi sono arrabbiato moltissimo”.
Il terapeuta chiede di approfondire l’episodio attraverso un esercizio di immaginazione guidata, in modo da cogliere meglio le emozioni
Terapeuta, durante l’imagery: “Come si sente ora che sua madre le ha detto che non può partire con gli amici”
Paziente: “Arrabbiato… no… forse… non lo so… strano”
Terapeuta: “La sua espressione… è vero, non sembra arrabbiato, cosa può essere?”
Paziente: “Debole, mi sento debole. Come… una specie di tristezza, che non ci posso fare niente, che mia madre in fondo a ragione”.

A quel punto il terapeuta, dopo una breve pausa può iniziare il rescripting in immaginazione: Terapeuta: “Provi a dire a sua madre lì di fronte a lei: ho voglia di partire, di stare con gli amici, sono capace”.
Il paziente ci prova e il terapeuta gli chiede di dirlo più forte, modulando l’intensità della voce e la postura, in modo da essere sempre più convinto e fermo nell’esprimere il desiderio”.
Terapeuta: “Come si sente ora?”
Paziente: “Meglio, più forte, ho voglia di farlo questo viaggio e mia madre non mi può smontare” .

Su questa base si può articolare l’esperimento comportamentale per consolidare quanto sperimentato in seduta che, senza il mantenimento tra una seduta e l’altra, rischierebbe di svanire lentamente.
Terapeuta: “Con questo in mente, proviamo a programmare di chiedere il trasferimento per potere fare il lavoro che davvero le piacerebbe”.

Oggi la psicoterapia la si può immaginare come una serie di processi organizzati così.

 

L’influenza dei fattori psicologici sul decorso della malattia nel paziente in dialisi

Da un punto di vista psicologico, per i pazienti con insufficienza renale cronica è necessario un adattamento del malato alla sua nuova condizione, che presuppone l’accettazione della perdita della funzione renale e la dipendenza dalla macchina dialitica in modo permanente. La perdita della propria autonomia e la condizione futura di incertezza genera un forte disagio emotivo: le emozioni più frequenti vissuti dai pazienti che iniziano il trattamento della dialisi sono di intensa rabbia e frustrazione, generati dai limiti ai quali devono sottostare.

Antonella Sanzò, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

L’insufficienza renale cronica e il trattamento con la dialisi

L’insufficienza renale cronica è una malattia invalidante che richiede al paziente un cambiamento radicale del proprio stile di vita e delle proprie abitudini. Oltre alle conseguenze fisiche che comporta è da considerare anche l’influenza che essa ha sulla salute psicologica del paziente. Gli aspetti psicologici, a loro volta, hanno un peso sul decorso della patologia.

L’insufficienza renale cronica è una patologia invalidante non soltanto per la salute del paziente, ma influisce in maniera significativa sullo stile di vita delle persone, in quanto cambia radicalmente la loro normale routine e li sottopone a diversi stress. Nella sua forma più avanzata, infatti, tale patologia richiede la sostituzione della funzione renale con la terapia dialitica, che presuppone il sottoporsi al trattamento dialitico quotidianamente per i pazienti in trattamento peritoneale o a giorni alterni per i pazienti in emodialisi. Oltre al dispendio di tempo che tale trattamento terapeutico comporta, sono da considerare anche i fastidi fisici correlati al trattamento, quali i crampi muscolari, dolori addominali, pruriti, ecc. Ad essi si aggiunge anche la necessità di seguire una dieta alimentare specifica e limitare l’assunzione dei liquidi.

Tale patologia ha un impatto significativo anche sull’equilibrio familiare, sociale e lavorativo della persona: molto spesso il paziente è costretto a dover modificare il proprio ruolo in questi ambiti e accettare la condizione di dipendenza dai familiari e dall’equipe medica. Da un punto di vista psicologico, è necessario un adattamento del malato alla sua nuova condizione, che presuppone l’accettazione della perdita della funzione renale e la dipendenza dalla macchina dialitica in modo permanente. La perdita della propria autonomia e la condizione futura di incertezza genera forti emozioni: le emozioni più frequenti vissuti dai pazienti che iniziano il trattamento della dialisi sono di intensa rabbia e frustrazione, generati dai limiti ai quali devono sottostare.

E’ da considerare che tale processo di adattamento non riguarda soltanto il paziente, ma anche i suoi familiari, i quali si trovano nella condizione di dover accettare i ritmi imposti dal trattamento, oltre alla gestione delle emozioni esperite.

Un buon adattamento del paziente alla sua nuova condizione, così come la sua capacità di gestire adeguatamente le situazioni stressanti e la possibilità di poter contare sul supporto dei familiari, incidono positivamente sulla sua salute. Per valutare l’adattamento del paziente vengono presi in considerazione alcuni parametri, quali la presenza e l’incidenza di stati ansiosi, depressivi e la capacità di aderire al programma di trattamento (Boaretti, Trabucco, Rugiu, Loschiavo, Magagnotti, Fontana et al, 2006). Tuttavia, sono frequenti i casi in cui si riscontrano difficoltà di adattamento alla malattia e ai ritmi imposti dal trattamento, con l’insorgenza di quadri psicopatologici caratterizzati da depressione, ansia, disturbi sessuali e disturbi del sonno.

L’ incidenza del tono dell’umore, delle emozioni e delle valutazioni sulla malattia nel decorso della stessa

Uno studio condotto su 12 pazienti di età compresa tra i 34 e gli 87 anni con insufficienza renale cronica ed in trattamento emodialitico, seguiti per tre mesi dall’inizio del trattamento, ha rilevato che questi pazienti, in una fase iniziale, presentavano un abbassamento del tono dell’umore dovuto ai cambiamenti della propria condizione fisica e del proprio ruolo sociale. Essi sperimentavano emozioni di depressione e rabbia, in particolare per la loro condizione di dipendenza e per le preoccupazioni per il futuro e manifestavano sentimenti di impotenza; con il procedere del tempo, si assisteva ad un miglioramento del tono dell’umore, probabilmente dovuto ad una accettazione della propria condizione (Di Corrado, Murgia e Agostini, 2013).

La depressione è il disturbo psicologico che più frequentemente si riscontra nei pazienti sottoposti ad emodialisi, con una percentuale che varia tra il 20% ed il 30% (Grigoriou, Karatzaferi e Sakkas, 2015).

Per quanto riguarda l’insufficienza renale cronica, risulta difficile a volte distinguere alcuni sintomi tipici della depressione dai sintomi dell’uremia, cioè dallo stadio terminale dell’insufficienza renale cronica. L’uremia, infatti, si presenta con alcuni sintomi che sono tipici anche della depressione, quali stanchezza e perdita dell’appetito.

Come detto in principio, non è da escludere la presenza di un basso tono dell’umore dovuto alle molteplici perdite con cui devono fare i conti i pazienti in dialisi: perdita del proprio ruolo in ambito familiare e lavorativo, perdita della propria autonomia, perdita della funzionalità di un organo e perdita della funzionalità sessuale.

In una recente meta analisi è stato mostrato come la diagnosi di depressione variasse anche in base agli strumenti di misura usati per valutarla: usando interviste cliniche l’incidenza dei sintomi depressivi nei pazienti in dialisi era all’incirca 22,8%, mentre quando erano usate scale di valutazione self – report o scale somministrate dai clinici l’incidenza era del 39,3% (Palmer, Vecchio, Craig et al. 2013; Birmele, Le Gall, Sautenet et al., 2012). Probabilmente, l’uso di strumenti self report rende più difficile distinguere tra i sintomi depressivi veri e propri e i sintomi dovuti a tale condizione medica.

Umore depresso, scarsa energia, emozioni di rabbia e frustrazione, valutazioni negative sulla propria condizione e sulla malattia influenzano il decorso della stessa: in uno studio è stato riscontrato che tali sintomi raddoppiavano la possibilità di non aderire al trattamento di cura rispetto ai pazienti che non ne presentavano. (Akman, Uyar, Afsar et al. 2007). Un altro studio condotto negli Stati Uniti d’America su 154 pazienti che avevano effettuato il trapianto di rene e 89 pazienti in trattamento dialitico è stato rilevato che i pazienti che raggiungevano livelli di depressione clinica significativa riportavano una minore aderenza al trattamento rispetto ai pazienti che riportavano una depressione clinica lieve. (Cukor, Rosenthal, Rahul, Clinton e Paul, 2009).

E’ stata riscontrata anche una forte interferenza nella capacità di aderire alla dieta alimentare: i pazienti che riferivano valutazioni negative maggiori sulla loro malattia erano meno in grado di seguire la restrizione dietetica imposta dalla terapia (Kim e Evangelista, 2013). Probabilmente, la percezione dei pazienti di trovarsi in una condizione cronica senza speranza, in cui pensano di non poter avere alcun controllo sul loro stato di salute li induce ad abbandonare totalmente ogni possibilità di gestire attivamente la malattia e ciò va a rinforzare ulteriormente lo stato depressivo, generando un circolo vizioso. E’ stato riscontrato che i pazienti in emodialisi che hanno una maggiore consapevolezza dei rischi della loro patologia e valutano di avere un minore controllo su di essa hanno un maggiore rischio di sviluppare sintomi depressivi. (Ibrahim, Kong Chiew-Tong e Desa, 2011).

La presenza di un quadro depressivo influisce negativamente sul sistema immunitario: diversi studi hanno mostrato un’associazione tra depressione e rischio di mortalità sia nei pazienti in emodialisi peritoneale, sia nei pazienti in dialisi peritoneale (King-Wing Ma e Kam-Tao, 2016).
Nonostante questi studi dimostrino l’incidenza della depressione nei pazienti in dialisi, essa frequentemente viene sottovalutata e non trattata (King-Wing Ma e Kam-Tao, 2016).

L’influenza del declino cognitivo sulle capacità di adesione al trattamento

Le difficoltà di seguire un piano di cura è dovuto non solo alla presenza di un quadro psicopatologico depressivo, ma è da considerare anche che i pazienti in trattamento dialitico hanno un rischio maggiore di andare incontro ad un declino cognitivo, dovuto all’età avanzata, alla presenza di patologie cardio vascolari e disturbi metabolici. Il declino cognitivo di entità moderata o grave è presente in maniera significativa nei pazienti in emodialisi rispetto alla popolazione generale: fino al 70% dei pazienti in emodialisi dai 55 anni in su hanno un declino cognitivo da moderato a grave (Kalirao, Pederson, Foley, Kolste, A, Tupper, D, Zaun et al. 2011).

I pazienti in dialisi, infatti, frequentemente hanno problemi di memoria, rallentamento motorio e deficit di attenzione. La presenza del declino cognitivo in questi pazienti risulta essere un altro fattore che influenza la loro capacità di aderire ai trattamenti farmacologici: essi frequentemente ignorano le restrizioni alimentari a cui devono essere sottoposti ed in generale hanno difficoltà a seguire il programma di trattamento. La possibilità di intervenire tempestivamente in questi casi attraverso dei training cognitivi è importante per limitare tale decadimento e migliorare la loro qualità della vita.

La percezione di controllo e adattamento alla malattia

Altro aspetto che influenza il trattamento dei pazienti in dialisi è la presenza di sintomi ansiosi, presenti soprattutto all’inizio del trattamento sostitutivo. L’ansia è un’emozione che viene normalmente sperimentata nei momenti di stress, ma quando essa è eccessiva risulta poco funzionale per la salute psicologica dell’individuo e per la sua qualità della vita. Alcuni studi hanno rilevato come essa sia presente nel 46,6% dei pazienti in emodialisi (Arenas, Álvarez-Ude, Reig-Ferrer et al., 2007).

Indubbiamente, tale patologia può condurre facilmente a stati di ansia, ma è da considerare anche la predisposizione dei pazienti: in uno studio che valutava l’ansia di stato e di tratto presente in pazienti in trattamento emodialitico è stato rilevato che l’ansia di stato era presente nell’87% dei casi tra coloro che erano in trattamento emodialitico, mentre nel gruppo di controllo, costituito da soggetti che non presentavano problemi di salute, era presente nel 63% dei casi; invece, l’ansia di tratto era presente in maniera più significativa nel campione emodialitico (73% dei casi) rispetto al gruppo di controllo (33%). (Kohli, Batra e Aggarwal, 2011)

Nello studio sopracitato è stato misurato anche il locus of control dei pazienti. Il locus of control è un altro fattore associato con il benessere psicologico: esso fa riferimento alle credenze che l’individuo ha rispetto alla sua possibilità di avere un controllo su di sé e sulla propria salute. In particolare, indica l’atteggiamento mentale per mezzo del quale si riescono ad influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano. Il locus of control è interno, nel caso in cui l’individuo pensa di poter avere un controllo sulla propria condizione oppure esterno nel caso in cui egli crede che essa sia influenzata esclusivamente da fattori esterni.

In tale studio è stato riscontrato che i pazienti avevano un locus of control esterno rispetto al gruppo di controllo. Questo potrebbe essere spiegato con la percezione che essi probabilmente avevano di essere dipendenti dai medici, dalla macchina per la dialisi e dai familiari. Tuttavia, i pazienti con un locus of control interno si adattavano meglio alla terapia. Sempre nello stesso studio sono state analizzate anche le strategie di coping usate per far fronte al problema di salute: generalmente, i pazienti che hanno una malattia cronica mostrano una maggiore tendenza all’evitamento del problema, piuttosto che tentare di individuare delle strategie per migliorare la loro condizione. Sono state evidenziate sia strategie di evitamento, sia strategie di fronteggiamento; tra queste ultime vi era il tentativo di riconsiderare il proprio problema in termini positivi e tale capacità consentiva di aiutare i pazienti a sperimentare un livello di ansia minore.

L’importanza del supporto psicologico per gestire le emozioni contrastanti

Considerando quanto detto sinora e l’importanza che i fattori psicologici rivestono sul decorso dell’insufficienza renale cronica, sarebbe opportuno per i pazienti che presentano tale patologia avere la possibilità di ricevere un supporto psicologico che li aiuti ad accettare la presenza di una malattia cronica e adattarsi ai cambiamenti che essa comporta nella loro vita.

Gli studi hanno dimostrato come i pazienti in trattamento dialitico che hanno la possibilità di ricevere un trattamento di tipo cognitivo – comportamentale mostrano una diminuzione dei sintomi depressivi. Simili miglioramenti sono stati riscontrati anche attraverso terapie di gruppo per pazienti dializzati (Lii, Tsay e Wang, 2007).

Come detto in precedenza, l’inizio del trattamento dialitico genera un cambiamento nella vita del paziente che coinvolge tutta la famiglia, anche dal punto di vista delle emozioni; sarebbe auspicabile che i servizi ospedalieri deputati al trattamento di persone con insufficienza renale cronica diano anche ai caregiver la possibilità di ricevere un supporto psicologico per allievare le loro emozioni, migliorando in tal modo la qualità della vita anche del paziente stesso.

 

Nerve: un film sulla fobia sociale (2011) – Cinema e Psicologia

Un film sulla fobia sociale, la descrizione di un esperimento condotto per una tesi di laurea e svolto seguendo le gesta quotidiane di un ragazzo alle prese con la paura. Questo ha tentato J.R. Sawyers nel suo film Nerve, uscito nel 2011.

 

La trama del film Nerve

Aurora è una studentessa di psicologia che per analizzare la fobia sociale propone a Josh di diventare il suo soggetto sperimentale. La procedura utilizzata per testare le reazioni di Josh – e allo stesso tempo impostare una sorta di aiuto terapeutico che possa permettergli di compiere progressi – è l’esposizione comportamentale, indurlo ad affrontare situazioni ansiogene di difficoltà crescente. Si parte dal chiedere il numero di telefono alle sconosciute per arrivare ad approcci più complessi, nel tentativo di abituarlo a tollerare l’agitazione e ad accettare gli eventuali rifiuti.

Gli incidenti di percorso non mancano, sebbene ciò che sembrerebbe più instabile nello sviluppo del film non sia tanto l’umore del protagonista quanto la trama narrativa. Alcuni passaggi sono estremamente realistici, veri, in altri si perde il significato complessivo della vicenda. Il tentativo di Josh di scalare la montagna di un appuntamento con una ragazza è percorso dalla sfiducia, da un’inquietudine rabbiosa, autocritica, che ben rispecchia gli stati d’animo della fobia sociale.

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Le emozioni e i comportamenti del protagonista del film Nerve

La frustrazione nel percepirsi inadeguato, la sensazione che un destino avverso ostacoli il raggiungimento di un’accettabile appartenenza al mondo delle relazioni, sono per Josh una compagnia emotiva costante alla quale egli reagisce con modalità talvolta poco comprensibili allo spettatore. Non si capisce la ragione per cui il ragazzo inizi a raccogliere senzatetto per strada portandoli a casa e facendoli bivaccare in salotto per svariati mesi, né appare motivabile la metamorfosi fulminea con cui si trasforma per brevi parentesi in un soggetto provocatorio, che attira l’attenzione degli altri con azioni bizzarre e spavalde negli stessi contesti sociali che poco prima lo lasciavano atterrito e poco dopo tornano a sembrargli ostili.

Il ritiro emotivo si alterna all’impulsività con cui tira un pugno a uno sconosciuto molesto, la timidezza che lo paralizza alla sola idea di rivolgere la parola a una ragazza diventa coraggio risoluto nel dichiararsi ad Aurora affrontando il suo fidanzato. La sensazione da spettatore è che non vi sia un’integrazione narrativa tra i diversi stati emotivi del protagonista, come se fossero persone diverse e non, eventualmente, parti diverse della stessa persona.

Il passaggio dall’ansia al terrore alla rabbia per finire alla consapevolezza delle proprie risorse avviene senza una linea che congiunga i significati in modo attendibile, mostrando cosa accade all’emotività di Josh in relazione ai progressi che compie e alle ricadute di cui è vittima. La matassa pare sciogliersi quando il ragazzo si rende conto che l’esposizione non basta – forse Aurora avrebbe dovuto pensarci prima di iniziare – e ammette il disagio di non sentirsi risolto. Suo malgrado sta descrivendo il film, un’idea pregevole non risolta. Buttarsi a caso nella mischia delle relazioni sociali, fraternizzare con gli sconosciuti per spezzare il tabù di non essere visto dagli altri esseri umani non è una terapia bensì un modo caotico per uscire dall’isolamento. Unito all’elaborazione delle emozioni e integrando i vari livelli della personalità – impulsi, storia personale, costruzione dell’identità – diventerebbe una terapia. Come accade al film, che mostrando un leone in gabbia svela una potenziale caratteristica della fobia sociale senza dirci come può la belva ritornare in natura e non essere in pericolo.

Realtà Virtuale e Psicoterapia Cognitivo-comportamentale: applicazioni attuali e potenzialità

Gli autori in questa review definiscono il concetto di realtà virtuale, si soffermano sull’efficacia di tale tecnologia nel trattamento di diverse patologie psichiatriche e sul suo utilizzo in terapia cognitivo-comportamentale (CBT).

Caterina Fusco, Maddalena Pizziferro, Antonietta Moccia, Marianna Di Nunzio

La realtà virtuale promette di essere uno strumento utile in quanto fornisce informazioni sensoriali (immagini, suoni, tatto e movimento) capaci di riprodurre una situazione il più possibile vicino alla realtà. Gli interventi attraverso la realtà virtuale diventano un importante strumento coadiuvante la terapia cognitivo comportamentale (CBT). Realtà virtuale e CBT condividono la visione del paziente come partecipante attivo del proprio percorso terapeutico e, dunque, costruttore collaborativo del proprio cambiamento. I risultati delle ricerche finora eseguite sembrano incoraggianti e promettenti tanto da poter ipotizzare l’associazione della realtà virtuale nei protocolli validati della CBT.

Introduzione

La realtà virtuale, spesso abbreviata in VR (Virtual Reality) è la simulazione di una situazione reale con la quale il soggetto può interagire, con interfacce non convenzionali ed estremamente sofisticate, su cui viene rappresentata la scena e riprodotti i suoni.

La realtà virtuale è un aggregato di ausili tecnologici e branche del sapere abbastanza diverse tra loro ed è composta da fattori esperienziali e tecnologici. Relativamente all’aspetto esperienziale, la realtà virtuale rappresenta un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza mediale: il soggetto da osservatore di un’ azione ne diventa protagonista. Vedere, udire, toccare, manipolare oggetti che non esistono, percorrere spazi senza luogo in compagnia di persone che sono altrove, è quanto sembra proporci tale innovazione tecnologica. Questo processo attivo di interazione con il mondo virtuale produce il senso di presenza, cioè la sensazione di essere nell’ambiente virtuale.

Per quanto riguarda l’aspetto tecnologico, la VR è costituita da strumenti in grado di acquisire informazioni sulle azioni del soggetto che vengono integrate ed aggiornate dal computer in tempo reale, così da costruire un mondo tridimensionale dinamico. Le informazioni visive, sonore e in alcuni casi anche tattili e olfattive vengono poi restituite al soggetto attraverso particolari strumenti di output.

Numerosi studi mettono in evidenza che la realtà virtuale può rappresentare un valido aiuto nella CBT consentendo di superarne alcuni ostacoli.

La realtà virtuale in CBT

La realtà virtuale comincia ad affacciarsi al mondo della psicologia nei primi anni ‘90. Dopo i primi lavori di ricerca, si intuiscono le possibilità di sviluppo di questo medium comunicativo nel campo della psicologia clinica.

Nell’ambito, ad esempio, della gestione dello stress, la meditazione guidata dal terapeuta in VR di scene che inducono la risposta di rilassamento ha ottenuto effetti positivi (Riva, 1997). La riproduzione realistica degli ambienti cibernetici, il coinvolgimento dei vari canali senso-motori e la sensazione di immersione che ne deriva consentono al soggetto in trattamento un’esperienza più vivida di quanto potrebbe fare attraverso la propria immaginazione (Vincelli & Molinari, 1998).

Gli ambienti ricreati mediante le tecnologie di realtà virtuale possono rappresentare un nuovo contesto di interazione sociale attraverso il quale è possibile sperimentare emozioni e azioni, far rivivere ai soggetti le proprie paure, le proprie difficoltà, i propri comportamenti disfunzionali rendendo più nitidi ed accessibili i sottostanti pensieri e credenze illogici da trattare.

La VR può rappresentare uno strumento di aiuto alla CBT in quanto permette di superare alcuni degli ostacoli diffusi di tale psicoterapia, soprattutto nel caso dei disturbi fobici, il cui trattamento è basato sull’esposizione, permettendo esperienze altrimenti quasi impossibili, se non in modo immaginifico, come recarsi ad un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta, essere gradualmente immerso in un ambiente pieno di ragni, avvicinarsi senza rischio alcuno al parapetto di un balcone.

L’utilizzo della realtà virtuale come strumento terapeutico presenta numerosi vantaggi. Lo psicoterapeuta può ricostruire, con il paziente, una gerarchia degli stimoli critici che sono alla base del disturbo in esame e pianificare un programma di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’esperienza di tali condizioni. La tecnica rimanda al Flooding cognitivo-comportamentale ma in chiave tecnologica. La terapia mediata dalla realtà virtuale desensibilizza il soggetto dalle sue ansie, abituandolo progressivamente ad emozioni che può provare a gestire attraverso un approccio differente. Inoltre, le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono interamente sotto il controllo del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente. Il terapeuta, in questo modo, ricopre il ruolo di mediatore tra mondo reale e virtuale.

Differenti recensioni e meta-analisi, considerano la realtà virtuale come strumento coadiuvante la psicoterapia basata sull’esposizione, per il trattamento dei molteplici disturbi d’ansia (Riva, 2005; Wiederhold & Wiederhold, 2006).

Gli ambienti virtuali permettono allo psicoterapeuta di controllare attivamente molteplici aspetti degli stimoli presentati e di identificare i parametri correlati alla risposta disfunzionale. Tali ambienti garantiscono inoltre la riservatezza e la sicurezza dei pazienti, rappresentando uno stimolo ad intraprendere la terapia stessa (Vincelli & Riva, 2007).

Numerose meta-analisi (Parsons & Rizzo, 2008; Powers & Emmelkamp, 2008) hanno mostrato che gli ambienti virtuali evocano le medesime reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale, che il senso di presenza può essere esperito anche in ambienti caratterizzati da un realismo grafico non particolarmente curato ed è fortemente correlato con la possibilità di interagire con le componenti dell’ambiente virtuale. Infine è possibile generalizzare le credenze di un paziente dalle esperienze guidate negli ambienti virtuali verso le situazioni dell’ambiente reale.
L’applicazione della realtà virtuale come strumento terapeutico offre nuove possibilità per la comprensione, la valutazione e la riabilitazione di numerosi disturbi psichiatrici.
Sono stati proposti protocolli e ambienti per il trattamento della fobia di guidare (Walshe et al, 2003; Vidotto et al., 2011), per l’acrofobia (Coelho et al., 2009) e per l’aracnofobia (Deppermann et al., 2016).

Nel caso della fobia sociale, uno dei disturbi psichiatrici più frequenti, si stima che circa il 13% della popolazione, nel corso della vita, abbia sofferto o soffra di questo disturbo (Vincelli & Riva, 2007). Il trattamento di tale disturbo si basa sull’esposizione graduale alle situazioni sociali temute (in vivo o immaginando le situazioni) e prevede il fronteggiamento dei pensieri ansiogeni, l’acquisizione di abilità sociali specifiche tramite un percorso psicoeducativo e l’abbandono delle condotte di evitamento.
Nell’ultimo decennio sono stati sviluppati due protocolli in cui è stata dimostrata la maggior efficacia nel trattamento della fobia sociale mediante l’uso di ambienti virtuali. Con l’aiuto del terapeuta, il paziente impara ad adottare comportamenti e stili cognitivi con cui affrontare tali situazioni sociali, con l’obiettivo di ridurre la propria ansia nelle corrispondenti situazioni della vita reale (Harris, Kemmerling, North, 2002; Klinger, 2004).

Il trattamento dell’agorafobia prevede come intervento d’elezione un protocollo cognitivo-comportamentale (Andrews et al., 2003). Evidenze scientifiche (Botella, Villa et al., 2006; Vincelli, Riva & Molinari, 2007) dimostrano che un ambiente virtuale permette al soggetto agorafobico di esporsi gradualmente a situazioni fobiche con un’ottimizzazione del tempo e del costo dell’intervento.
Inoltre, un ulteriore vantaggio nell’utilizzo di ambienti virtuali è la maggior efficacia anche per quei soggetti con scarse capacità immaginative o che rifiutano l’esposizione in vivo.

La realtà virtuale è stata introdotta anche per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress.
Il dott. Albert Rizzo, dell’Institute for Creative Technology della University of Southern California, ha lavorato sul disturbo post-traumatico da stress, comune nei soldati veterani, applicando la CBT e la VR, ricreando situazioni stressanti in modo graduale (Rizzo et al, 2005). La simulazione è basata sull’idea di restituire al paziente tutte le emozioni che hanno provocato il trauma, ma questa volta al sicuro nello studio del terapeuta. La differenza con le altre tecniche utilizzate fino ad ora è la possibilità di immergersi nell’esperienza passata e di poterlo fare gradualmente, escludendo qualsiasi cosa il paziente non voglia ancora affrontare.

La realtà virtuale è stata utilizzata anche per trattare quei soggetti affetti dal disturbo post-traumatico da stress in seguito ai fatti dell’11 settembre per aumentare il coinvolgimento emotivo e trattare il ricordo degli eventi drammatici associati ad un dolore emotivo non direttamente raggiungibile (Difede & Hoffman , 2002).
Riscontri clinici mostrano come gli ambienti ricreati virtualmente siano in grado di trattare i soggetti con un disturbo conclamato e anche operare efficacemente nella prevenzione del disturbo (Wiederhold & Wiederhold, 2006).

L’applicazione della realtà virtuale per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nasce con i lavori di Clark et al. (1998) in cui si è proposta una esposizione vicaria agli stimoli ansiogeni (spesso legati alle contaminazioni) con prevenzione del rituale compulsivo. Un recente studio ha proposto di utilizzare ambienti virtuali selezionati come stimoli di riferimento per ottenere una valutazione e formulare una misura interattiva dei comportamenti di controllo compulsivi (Kim et al., 2010).

A partire dagli anni ’90, per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentare, in aggiunta al trattamento farmacologico e alle tecniche cognitive si affiancava l’utilizzo della VR (Riva, Bacchetta, Cesa et al. 2004). La realtà virtuale è considerata un possibile strumento per la modifica di un’immagine corporea negativa (Riva, 2011). Tramite gli ambienti virtuali è possibile, infatti, porre a confronto due immagini corporee: quella reale, ottenuta dalla misurazione oggettiva del corpo del paziente, e quella che il soggetto percepisce, derivante cioè da come il paziente si vede (Riva, Bacchetta, Baruffi, et al., 2000).

Sebbene l’utilizzo della VR con pazienti affetti da schizofrenia sia una pratica piuttosto recente, alcuni studi dimostrano che essa consente, in una situazione controllata, interessanti applicazioni sia per la valutazione che per il trattamento. Questo strumento permette, infatti, di riprodurre situazioni ambientali e sociali che stimolano il soggetto in modo simile al contesto reale; per di più, è possibile modulare l’intensità e la durata dell’esperienza virtuale in base alle esigenze del soggetto (La Barbera et al., 2010) e di riprodurre situazioni emotive e sociali, tipiche delle relazioni interpersonali (Kim et al., 2010).

Gli ambienti virtuali, così come nel trattamento delle fobie, consentono di esporre il paziente alle proprie paure persecutorie e di testare le proprie credenze su ciò che viene percepito come minaccioso.
Un altro utilizzo può essere quello di far apprendere al paziente le strategie di coping da adottare in situazioni sociali variegate, qualora si verifichino sintomi psicotici.
La VR è stata applicata anche nei giochi di ruolo, per stimolare le abilità interpersonali dei pazienti, migliorandone le capacità di conversazione e la fiducia in se stessi (Park et al., 2011). Tuttavia, il principale limite delle applicazioni virtuali con i pazienti affetti da patologie gravi sembra essere la stabilità dell’esame di realtà, che caratterizza la fase acuta della malattia.

Considerazioni e Conclusioni

La valutazione della realtà virtuale in ambito psichiatrico e nello specifico dei disturbi fobici sembra, dunque, essere positiva per svariati motivi. Il soggetto, pur nella consapevolezza della simulazione, è in grado di riprovare emozioni molto più vivide di quanto potrebbe avvenire con il ricorso al semplice ricordo o alla sola immaginazione (Galeazzi & Di Milo, 2011).

Pertanto, la VR è uno strumento utile per favorire un processo di cambiamento focalizzato sull’insight, sulla riorganizzazione degli schemi cognitivi, sull’analisi funzionale del comportamento, sulle relazioni interpersonali e sull’aumento della consapevolezza dell’esperienza.

A conclusione di quest’articolo, si può affermare che numerosi studi dimostrano l’utilità di tale tecnologia nel trattamento di diversi disturbi psichiatrici soprattutto se la si considera di supporto alla CBT. Ed ora che i costi sono molto più accessibili rispetto al passato si auspica il moltiplicarsi di studi e sperimentazioni così che la VR possa entrare in protocolli di trattamenti psicoterapici già validati.
Resta da definire il ruolo della VR per patologie psichiatriche più gravi, come la schizofrenia, dove gli studi clinici sono ancora insufficienti.

La relazione terapeuta-paziente e l’effetto placebo

Molti lavori hanno valutato la risposta al placebo all’interno del rapporto tra il medico e il paziente in cui giocano le aspettative e le esigenze del paziente, i suoi aspetti di personalità ed il suo stato psicologico, la gravità e il disagio dei sintomi. Questo ci chiarisce come l’ effetto placebo riguarda il contesto psicosociale intorno al paziente oltre alla terapia e all’effetto specifico di un farmaco assunto.

 

Placebo ed effetto placebo

La parola placebo deriva dal latino “mi piacerà” ed è una sostanza o un trattamento inerte. Il termine effetto placebo indica il cambiamento che avviene nell’individuo alla somministrazione del placebo, la risposta benefica del soggetto a una sostanza o ad una procedura ritenuta senza alcun effetto terapeutico per la condizione specifica per cui è stata somministrata.

In realtà in queste definizioni c’è un paradosso: se i placebo sono sostanze o procedure inerti, non possono causare un effetto e, viceversa, se l’effetto è presente, i placebo non sono inerti. Più corretto, allora, è affermare che l’ effetto placebo è il cambiamento nelle condizioni del paziente che risulta in seguito al contatto con un determinato contesto psico-sociale, a prescindere dalle proprietà intrinseche del trattamento (Posocco A., 2013).

Dai primi mesmerismi del settecento alla medicina omeopatica moderna dei nostri giorni ne è passato di tempo e le riflessioni sull’ effetto placebo poggiano su moltissime evidenze empiriche basate su studi raffinati effettuati rigorosamente in doppio cieco per non influenzare i ricercatori, allo scopo di comprendere l’efficacia di alcuni trattamenti ma soprattutto per ampliare la conoscenza sulla relazione mente-corpo. Questo sottolinea il ruolo importante della mente nella modulazione di una serie di funzioni fisiologiche.

L’effetto placebo: il ruolo della relazione medico-paziente

E’ interessante, però, che molti lavori hanno valutato la risposta al placebo all’interno del rapporto tra il medico e il paziente in cui giocano le aspettative e le esigenze del paziente, i suoi aspetti di personalità ed il suo stato psicologico, la gravità e il disagio dei sintomi (Ross S., 1985). Questo ci chiarisce come l’ effetto placebo riguarda il contesto psicosociale intorno al paziente oltre alla terapia e all’effetto specifico di un farmaco assunto.

Quando un placebo viene somministrato, ciò che conta non è la sostanza in sé ma il significato simbolico che costruisce il paziente e che può essere collegato praticamente a qualsiasi cosa (Brody H., 200) e dettato da un insieme complesso di stati psicologici che variano da paziente a paziente e da situazione a situazione. Tra i fattori contestuali che potrebbero influenzare l’esito terapeutico oltre alle caratteristiche del trattamento come ad esempio colore e forma di una pillola, alle caratteristiche del paziente e di chi prescrive dobbiamo menzionare anche la relazione paziente-medico che comprende suggestione, rassicurazione e compassione (Di Blasi Z. 2001). La relazione con medici e operatori è chiamata da Balint nel 1955 “l’atmosfera intorno al trattamento”.

Sono stati effettuati studi di neurofisiologia per valutare la risposta cerebrale al placebo e i neuroscienziati l’hanno utilizzato come modello per capire come funziona il nostro cervello; in effetti, sta emergendo un ottimo approccio per comprendere diverse funzioni cerebrali superiori. Ciò è molto più complesso di quel che sembra, visto che non c’è un solo effetto placebo, ma molti effetti placebo, e non vi è un solo meccanismo ma diverse condizioni per diversi interventi (Benedetti F., 2008). I trial clinici migliori sono quelli in cui i neuroscienziati sono riusciti a separare elementi di remissione spontanea della malattia e regressione dall’ effetto placebo vero e proprio.

Studiando la letteratura in merito, viene discussa una questione relativa al termine “nocebo” che è stato introdotto per descrivere gli effetti negativi del placebo che sono considerati come il risultato di aspettative negative e quindi a loro volta, ansiogene. In altre parole, un nocebo è un fattore di stress. Pertanto, la risposta nocebo è un buon modello per comprendere l’ ansia, in particolare ansia anticipatoria.

Gli studi sull’ effetto placebo hanno ampliato i loro orizzonti ridefinendo la relazione tra medico e paziente. Quello che è emerso è che gli operatori sanitari non solo devono imparare competenze tecniche, ma dovrebbero anche sviluppare adeguate capacità sociali e relazionali per interagire e comunicare meglio con i loro pazienti, dovrebbero arricchirsi di fiducia, speranza, empatia e compassione con la consapevolezza che essi svolgono un ruolo nell’efficacia dei trattamenti. L’incontro con gli operatori comporta meccanismi nel cervello del paziente che sono responsabili dei sentimenti di aspettative, fiducia e speranza. Allo stesso modo altrettanti meccanismi sono al lavoro nel cervello del medico, come ad esempio l’empatia e la compassione connotati da una serie di atteggiamenti e comportamenti, verbali e non (Williams de C AC, 2002). A loro volta, questi conducono alla fase finale che, indipendentemente dalla sua efficacia o l’inefficacia reale, innesca risposte al trattamento.

La fiducia può essere concettualizzata come un insieme di credenze che il medico o il terapeuta si comporterà in un certo modo. I pazienti di solito basano la loro fiducia sulla competenza del terapeuta, la compassione, la riservatezza, l’affidabilità e la comunicazione considerando questi come elementi importanti per avere buoni effetti sullo stato di salute generale. Il passo finale e forse il più importante della relazione tra medico e paziente è rappresentato dal fatto stesso di ricevere un trattamento. Ad esempio aspettative positive portano all’adozione di una particolare risposta, mentre le aspettative negative portano alla sua inibizione: le aspettative possono, quindi, indurre una diminuzione dei pensieri autodistruttivi quando prevedono un esito positivo ed altri fattori possono contribuire alla motivazione (Price DD., 2008). Infatti, sia l’ansia soggettiva (Vits s., 2001) che l’attività cerebrale di ansia ad essa legata sono ridotti dopo la somministrazione del placebo attraverso l’attivazione del circuito di ricompensa. Questi meccanismi sono stati studiati utilizzando ricompense naturali, come il cibo, così come ricompense monetarie o di droga.

Se nell’idea comune il placebo è una pillola simile a quella terapeutica ma in realtà non ne contiene gli effetti, ad oggi possiamo affermare che è meglio parlare di “effetto placebo” in un’accezione più ampia che parte in buona sostanza dalla relazione tra medico e paziente.

L’effetto placebo in psicoterapia e la relazione tra terapeuta e paziente

Nell’ambito della psicoterapia potremmo fare svariate riflessioni interessanti che spiegano molte delle osservazioni cliniche come ad esempio pazienti che in seduta stanno meglio in modo visibile. Questo avviene grazie all’effetto di una serie di elementi, tra cui alcuni elencati prima, che il paziente riconosce nel terapeuta. D’altronde vi sono molti studi che dimostrano ad esempio che il tono di voce del terapeuta, la condivisione dello spazio peripersonale, la mimica facciale modulano e regolano lo stato emotivo del paziente che arriva in terapia attivato emotivamente, quasi come se vigesse un principio di riconoscimento implicito di un qualche elemento.

Chi fa pratica clinica ha modo di notare questi effetti giornalmente! Non siamo avvezzi chiamarlo effetto placebo perché utilizziamo più spesso termini come “relazione” ed “alleanza” terapeutica! Poco cambia la semantica visto che, in buona sostanza, quello che otteniamo è il benessere del paziente che capta elementi che ritiene importanti come le espressioni del volto che esprimono empatia e compassione. In letteratura si sta cercando di individuare i meccanismi cerebrali che sottendono questi processi attraverso degli studi di fMRI (risonanza magnetica funzionale).

Tutte queste considerazioni configurano la relazione come già terapeutica, a cui si sommano gli effetti degli interventi evidence based. L’altronde già Freud, un secolo fa, evidenziò nella relazione una proiezione inconscia del paziente sul terapeuta di stati d’animo, emozioni e desideri (transfert) e le problematiche che a sua volta il terapeuta può trasferire sul paziente (controtransfert).

Configurare il terapeuta come un complesso di microelementi paragonabili ad una pillola è idealmente corretto ma in questo caso i principi attivi sono in primis il dialogo e una buona dose di competenze relazionali oltre che tecniche: avere consapevolezza di queste implicazioni giustifica i risultati in termini di compliance e di outcomes della terapia e ci incentra su una terapia patient centred (orientata attorno ai bisogni del paziente) senza sentirsi sminuiti o minacciati nell’immagine ma che sia uno stimolo per potenziare queste competenze ed applicarle modellandole di volta in volta alle caratteristiche del paziente che abbiamo di fronte.

Bipolarismo: la terapia della luce come trattamento degli episodi depressivi

La terapia della luce induce una forte risposta antidepressiva nei pazienti con disturbo bipolare, consentendo una remissione tale da determinare un funzionamento normale e consono al reinserimento nei contesti lavorativi e sociali.

 

Il disturbo bipolare

Il disturbo bipolare è una condizione contraddistinta da gravi alterazioni dell’umore, caratterizzate dall’alternarsi di episodi maniacali (o ipomaniacali) e depressivi. Per tale motivo si parla anche di sindrome maniaco-depressiva, che influisce notevolmente sulla vita lavorativa, sociale e affettiva dell’individuo. Per gli episodi di depressione, a differenza degli episodi maniacali, sono presenti ancora poche opzioni di trattamento; infatti, la cura degli episodi maniacali riduce i sintomi depressivi solo in un terzo dei pazienti bipolari (Sachs, et al., 2007).

Per ovviare a questa lacuna, alcuni ricercatori si sono soffermati sulla suscettibilità dei pazienti a fattori ambientali che alterano il loro ritmo circadiano. Per esempio, a causa delle anomalie del sonno, come ipersonnia e letargia, essi sono poco esposti alla luce bianca del sole di mezzogiorno.

Lo studio sulla terapia della luce per il trattamento degli episodi depressivi del disturbo bipolare

Partendo da queste premesse, è nato uno studio pilota pubblicato su American Journal of Psychiatry. L’obiettivo della ricerca consisteva nel determinare l’eventuale tasso di remissione degli episodi depressivi in pazienti bipolari a seguito dell’esposizione alla luce tra mezzogiorno e le 14,30.

I 46 partecipanti alla ricerca erano assegnati in modo randomizzato a due gruppi: esposizione a luce bianca di 7000 lux (gruppo sperimentale) ed esposizione a luce di 50 lux (gruppo di controllo). Ognuno aveva il compito di esporre il proprio viso alla luce per 6 settimane, 15 minuti al giorno, incrementando ogni settimana il tempo di esposizione fino a raggiungere 60 minuti al giorno.

I risultati hanno evidenziato un tasso di remissione significativa nel 68% dei pazienti del gruppo sperimentale, a differenza del 22 % riscontrato nel gruppo di controllo. Ciò dimostra che la terapia della luce induce una forte risposta antidepressiva nei pazienti bipolari, consentendo una remissione tale da determinare un funzionamento normale e consono al reinserimento nei contesti lavorativi e sociali.

Nonostante ciò, studi futuri dovrebbero indagare come l’incremento dell’esposizione alla luce di mezzogiorno possa essere ulteriormente introdotta come terapia adiuvante ai sintomi depressivi nel bipolarismo, come influenzi il ritmo circadiano dei pazienti bipolari e quali siano le strategie efficaci per il mantenimento dei suoi effetti evitando ricadute.

 

L’ospedalizzazione dell’anziano: conseguenze e possibili interventi

Ospedalizzazione dell’ anziano: I dati epidemiologici mostrano come pazienti anziani con una buona valutazione all’ingresso del periodo di ricovero ospedaliero e con diagnosi non riconducibile a patologie direttamente collegate alla riduzione della funzionalità (ad esempio polmonite batterica o infezione alle vie urinarie) mostrano poi, al momento delle dimissioni, una diminuzione generale molto pronunciata della stessa valutazione (Covinsky et al., 2003, Mudge et al., 2010). 

Roberta Sciore, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

L’aumento della popolazione anziana nella società odierna

Nel corso dello scorso secolo, la durata media della vita nei paesi industrializzati è raddoppiata. Nel mondo, la percentuale di popolazione con più di 60 anni è passata dal 9,2% nel 1990, all’11,7% nel 2013 e continuerà a crescere, tant’è che si stima che raggiungerà il 21,1% entro il 2050. In quel frangente, il numero complessivo di persone anziane presenti arriverà ad una cifra massimale di 2 miliardi. Stime di proiezione, considerando le traiettorie medie delle varie nazioni, sottolineano come il numero di persone anziane con condizione di disabilità variabile arriverà nel 2047 a superare per la prima volta il numero dei bambini con meno di dieci anni (United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, 2013).

Mentre complessivamente si vive mediamente più a lungo, la presenza di malattie croniche e di disabilità acquisite sono in aumento proporzionale all’invecchiamento della popolazione. Questa trasformazione ingravescente sta creando in modo sempre più pervasivo ed urgente nuove sfide sotto ogni aspetto (sociale, politico, economico e culturale), con notevoli implicazioni per l’assistenza sanitaria. Una così pronunciata richiesta impellente in termini di costi, numeri e durata nel tempo risulta essere una novità assoluta non solo per le istituzioni quanto anche per l’intera specie umana. Le persone anziane sono definite “fragili”, nei termini di possedere un grado acuito di vulnerabilità maggiore rispetto alle altre porzioni di popolazione.

Tale vulnerabilità assume una dimensione caratterizzante se viene ricondotta allo stato di salute e alla richiesta di assistenza sanitaria a vari livelli di strutturazione negli istituti ospedalieri. La medicina e le professioni di aiuto nel loro insieme dedicano uno sforzo significativo per favorire una buona qualità di vita agli anziani. In tale dimensione rientra sicuramente la possibilità per la persona che invecchia di mantenere la propria autonomia più a lungo possibile. Vista la rilevanza, tale aspetto viene anche spesso utilizzato come misura di outcome e di indicatore di una buona prestazione sanitaria (Balfour et al., 2001).

Inoltre il prolungamento degli anni, in cui la persona riferisce una buona qualità di vita con livelli di disabilità minime, è anche considerato un obiettivo prioritario per chi si occupa di salute, non solo per i costi sociali ed economici che una condizione di non autonomia comporta, quanto anche per le ripercussioni nelle dimensioni psicologiche e di relazione sociale (Manicuci et al., 2011). Sono stati identificati diversi fattori che possono causare una condizione di acquisita non autonomia tra i quali uno dei più pervasivi e significativi risulta essere l’ospedalizzazione acuta (Boyd et al., 2008, Colón-Emeric et al., 2013).

L’ ospedalizzazione dell’ anziano: possibili conseguenze negative

I dati epidemiologici mostrano come pazienti anziani con una buona valutazione all’ingresso del periodo di ricovero ospedaliero e con diagnosi non riconducibile a patologie direttamente collegate alla riduzione della funzionalità (ad esempio polmonite batterica o infezione alle vie urinarie) mostrano poi, al momento delle dimissioni, una diminuzione generale molto pronunciata della stessa valutazione (Covinsky et al., 2003, Mudge et al., 2010). La letteratura scientifica ci mostra come sia proprio il declino funzionale nella popolazione anziana una delle conseguenze negative più comuni e di vasta portata per il paziente, la famiglia e a largo spettro anche per il sistema sanitario nazionale.

Questo declino può essere mantenuto fino ad un anno dopo le dimissioni e quando nei tre anni successivi non c’è nell’anziano un recupero in termini di funzionalità, vi è un acuito aumento nel rischio di istituzionalizzazione, di disabilità permanente e di morte (Boyd et al., 2008). I fattori psicosociali, dell’organizzazione ospedaliera, personali e psicologici sono potenziali fattori intervenienti nel concorrere agli esiti dell’ ospedalizzazione dell’ anziano.

Pertanto una corretta rilevazione ed individuazione di tali aspetti può permettere l’individuazione di situazioni target in cui è necessario un intervento preventivo. Tra i fattori psicosociali rilevanti in questo contesto di fragilità acuita, c’è sicuramente il sostegno sociale da parte di caregiver informali, soprattutto quando questi sono i familiari del paziente ricoverato. I congiunti rappresentano infatti una risorsa importante in quanto fungono da ponte tra l’ambiente del quotidiano e l’ambiente disorientante, sconosciuto e complesso dell’ospedale. Spesso infatti, nei contesti strutturati che adottano una lettura del paziente di tipo multidimensionale (considerando non solo gli aspetti medico-clinici, ma anche quelli psicologici e sociali), i membri della famiglia divengono parte integrante dell’équipe coinvolta nella cura. Infatti ad essi possono anche essere delegate alcune attività basilari come ad esempio l’igiene personale (Hui et al., 2013, Li et al., 2004).

Tuttavia, le evidenze presenti in letteratura rispetto a tale collaborazionismo mostrano risultati discordanti, analizzando dimensioni peculiari della salute dell’anziano. Mentre alcuni studi hanno dimostrato un effetto positivo del coinvolgimento dei caregiver sullo stato cognitivo (Li et al., 2003) e sui sintomi depressivi dei pazienti ricoverati (Gur-Yaish et al., 2013), altri studi riportano effetti negativi della collaborazione dei familiari alle cure ospedaliere (Alsafran et al., 2013). Relativamente alle peculiarità dell’organizzazione ospedaliera è emerso come la limitazione della mobilità fisica, dovuta spesso alla presenza della terapia endovenosa o dei cateteri urinari, risulta essere correlata con la riduzione della funzionalità a breve e a lungo termine, con la diminuzione delle ADL (Activities of Daily Living, ossia le attività della vita quotidiana in cui la persona è autonoma) e con l’aumento del rischio incrementale di morte (Brown et al., 2004). Anche la sotto-nutrizione e la malnutrizione sono associate al declino funzionale dell’anziano al momento delle dimissioni (Volpato et al., 2007) in quanto sono spesso il risultato di periodi prolungati di ricovero, in cui da prescrizione medica l’assunzione orale di cibo liquido e solido è limitata nell’accesso o è altra rispetto alle preferenze del paziente.

Nell’organizzazione ospedaliera, inoltre, per i pazienti fragili, confusi o immobili viene spesso preferito l’utilizzo di dispositivi specializzati per la diuresi e la defecazione, quali pannoloni e cateteri urinari. Per motivi di economicità, di tempo, di risorse e di sicurezza, spesso per il personale è più facile offrire tali dispositivi temporanei piuttosto che elicitare sforzi su interventi conservatori dell’autonomia. L’uso di questi dispositivi, anche se limitato alla durata del ricovero, è stato collegato alla riduzione della funzionalità dell’anziano nel ritorno alla propria abitazione, all’innalzamento della pressione arteriosa, a ricorrenti infezioni delle vie urinarie e a depressione clinicamente significativa (Zisberg et al., 2011).

Anche la polifarmacoterapia, che è una scelta medica molto comune nel trattamento dei pazienti anziani, rientra tra i fattori intervenienti nella riduzione dell’autonomia da post ospedalizzazione dell’ anziano. Anche quando tale scelta è motivata in termini di cura della persona, spesso essa ha delle conseguenze avverse come ad esempio essere concausa nelle cadute. I risultati negativi connessi all’assunzione dei farmaci si verificano 2,5 volte in più negli ultra sessantacinquenni che nelle porzioni di popolazione più giovani. Tuttavia, come riportato dal lavoro di revisione di Hammond e Wilson del 2013, sembrerebbe che gli effetti collaterali nel trattamento farmacologico siano ricollegati non tanto alla loro combinazione, quanto al tipo di medicinale scelto.

Nel dettaglio, questi studiosi riportano come siano soprattutto i medicamenti con effetti psicoattivi, molto utilizzati nella gestione dei pazienti nei contesti ospedalieri, al fine di favorire il sonno o la sedazione, a causare un aumento del rischio di caduta, lesioni e delirium. Nel dettaglio proprio le benzodiazepine sarebbero collegate con gli esiti a breve e a lungo termine della post- ospedalizzazione dell’ anziano. Anche lo stesso ambiente ospedaliero in termini di strutturazione, ritmi delle attività e sovraffollamento, risulta essere per la persona anziana in presenza o meno di deterioramento cognitivo un luogo rumoroso, sensorialmente e socialmente deprivato, nel complesso quindi disorientante. Tali aspetti ambientali non solo scoraggiano l’anziano nell’autonomia della mobilità, quando concessa, ma incrementano la confusione spaziale e temporale, alterano il sonno, portano spesso all’isolamento sociale, aumentano il rischio di cadute e la possibilità di esordio di sintomatologia psichiatrica (Yoo et al., 2013).

Non solo aspetti esterni alla persona rappresentano fattori intervenienti nella mortalità e disabilità collegate all’ ospedalizzazione dell’ anziano, ma la letteratura riporta come anche variabili individuali e personali siano fattori intervenienti in tale eziopatogenesi. In una revisione Hoogerduijn et al., 2007, riportano come l’età, livelli bassi di ADL all’ingresso e funzionamento cognitivo sotto i livelli normativi siano considerati predittori significativi nella maggior parte degli studi che hanno valutato il declino funzionale durante l’ospedalizzazione. Tali riscontri risultano rimanere significativi anche controllando la gravità della malattia acuta, motivo di ricovero e i punteggi di comorbilità. Lo scenario ospedaliero può essere causa scatenante o incrementante di esiti negativi in termini psicologici e psicopatologici.

I sentimenti che spesso accompagnano il soggiorno ospedaliero degli anziani sono: senso di inutilità, solitudine, paura e non controllo delle pratiche mediche a cui vengono sottoposti che spesso non sono oggetto di spiegazione e di condivisione da parte del personale sanitario. In particolare, i sintomi depressivi tra gli anziani sono molto comuni, anche in assenza di un ricovero, tant’è che spesso si parla di “epidemia silenziosa della vita moderna”.

In questo panorama, un disturbo dell’umore, anche se subclinico, è identificato come un potenziale fattore di rischio nello sviluppo dello stesso in termini clinicamente significativi. I sintomi depressivi sono infatti molto comuni nei pazienti anziani ospedalizzati. In uno studio ad opera di McKenzie et al., 2010, in un campione di 684 pazienti anziani ospedalizzati, il 13,5% aveva una depressione severa, il 18,4% una depressione moderata e il 18,7% soffriva di ansia. In molti casi, inoltre, i disturbi dell’umore legati all’ ospedalizzazione dell’ anziano non si estinguevano con le dimissioni. Al contrario, nel 40% dei casi questi persistevano nei tre mesi successivi.

Tali dati tuttavia vanno inquadrati in un contesto di ricerca clinica in cui non è ben chiaro quanto questo quadro sintomatologico sia legato ad una condizione preesistente o sia conseguenza della patologia acuta motivo del ricovero o dell’ ospedalizzazione dell’ anziano. Nel contesto dello stesso spettro psicopatologico, il delirium è un sintomo molto diffuso, che colpisce più di un paziente su cinque tra gli anziani ricoverati. Questo si caratterizza come un disturbo dell’attenzione ad insorgenza acuta, con decorso fluttuante e nella maggior parte dei casi di breve durata (ore o giorni) fino ad un massimo di 6 mesi. Oltre questo periodo si deve escludere il delirium e pensare ad una probabile demenza (World Health Organization, 1992).

Le persone che sviluppano delirio mentre ricevono assistenza sanitaria per problemi medici, neurologici e chirurgici hanno un elevato rischio di morte, di istituzionalizzazione e di morbilità durante e dopo l’ospedalizzazione (Fong et al., 2012, Koster et al., 2012). Inoltre l’insorgenza di delirium espone i pazienti ad un maggior rischio di sviluppare una demenza come la malattia di Alzheimer. Il delirium e la demenza spesso coesistono e questo rende notevolmente difficoltosa la diagnosi differenziale. In uno studio recente Dharmarajan et al., 2017, hanno provato ad indagare il rapporto tra l’incidenza del delirio durante l’ospedalizzazione e la mortalità nei 90 giorni dopo la dimissione e il ruolo di possibili fattori di mediazione in tale relazione come: uso di dispositivi di limitazione della mobilità, sviluppo di condizioni acquisite durante il ricovero (cadute, aumento della pressione arteriosa, ulcere) e vari fattori assistenziali intervenienti come la privazione del sonno, la malnutrizione acuta, la disidratazione e la polmonite da aspirazione.

Sono stati inclusi nel campione 469 pazienti anziani con più di settant’anni, che non avevano una diagnosi di delirio all’ingresso in ospedale, non avevano malattie terminali e la cui durata del ricovero era maggiore di 48 ore. Dei partecipanti, il 15% ha sviluppato delirium durante l’ospedalizzazione mentre l’8,3% è morto nei 90 giorni in seguito alle dimissioni. Tra quest’ultimi, il 24% aveva sviluppato delirium, rispetto al 22,6% che non aveva presentato sintomi deliranti. I risultati di questo lavoro riportano inoltre come chi ha sviluppato delirium viveva spesso in una struttura protetta dopo la dimissione (13% VS 5%), si registrava una diminuzione nelle ADL (56%VS 5%) e nelle IADL- attività strumentali della vita quotidiana (94%VS85%) ed aveva avuto un esordio dementigeno (23% VS 11%). Tra i pazienti che avevano o meno sviluppato delirium, le restrizioni fisiche erano state usate nel 20% VS 1%, erano sopraggiunte cadute nel 9% VS 2%, avevano sviluppato un’ulcera nel 33% VS 10%, avevano uno stato di malnutrizione 39% VS 13% ed era intervenuta una polmonite da aspirazione nel 4% VS 1%.

Non sono emerse differenze significative per l’utilizzo dei cateteri urinari, la disidratazione e la privazione del sonno. Tali risultati mostrano come la comparsa di delirium sia strettamente collegata con la maggior incidenza dell’indice di mortalità in seguito al ricovero ed identifica i fattori intervenienti coinvolti che possono essere oggetto di maggior attenzione e di possibile intervento da parte del personale sanitario che si occupa dell’ ospedalizzazione dell’ anziano. In letteratura, è noto come tra i fattori di rischio nello sviluppo di delirium legato alla ospedalizzazione dell’ anziano vi sia il livello delle potenzialità cognitive. Tuttavia, in letteratura, per indagare tale correlazione, sono stati spesso utilizzati strumenti brevi, come il Mini Mental State Examination che non permettono di indagare in modo completo la cognizione e che spesso causano nell’elaborazione dei dati un “effetto soffitto” da cui è difficile fare delle riflessioni puntuali e sottili.

Per superare tali limiti, in una ricerca recente Jones et al., 2016, hanno voluto indagare il livello cognitivo come fattore di rischio di sviluppo di delirium da ospedalizzazione dell’ anziano, ma non tramite la somministrazione di strumenti globali e sintetici, quanto tramite l’utilizzo di prove neuropsicologiche che indagano l’intero spettro delle abilità cognitive. Nel dettaglio, ai 566 partecipanti che avevano un’età media di 76,5 anni e non avevano diagnosi di patologie neurodegenerative, è stato proposto un assessment cognitivo nelle loro abitazioni due settimane prima del ricovero tramite una batteria che includeva test per indagare: attenzione, memoria, linguaggio, funzioni esecutive e capacità visuo-spaziali. Nel loro insieme, queste prove concorrevano a costruire un punteggio di funzionamento cognitivo generale (GPC). Quotidianamente, durante il soggiorno in ospedale, l’emergere di sintomi deliranti è stato rilevato tramite l’utilizzo di strumenti standardizzati quali Delirium Symptom Interview e Confusion Assessment Method e mediante l’ausilio di interviste fatte ai familiari e al personale sanitario.

I risultati hanno mostrato che il delirium si sia verificato in 135 pazienti (24%) e un punteggio basso del GPC era strettamente e linearmente predittivo dell’emergere di tale disturbo. Il GPC in questo studio risultava essere un forte predittore del rischio di delirio durante l’ ospedalizzazione dell’ anziano anche quando veniva corretto per età, scolarità e punteggio alla prova di vocabolario. Questo studio ci porta quindi a concludere come uno screening preventivo ampio e specifico che miri ad individuare anche funzionamenti cognitivi limite, possa essere un valido strumento d’individuazione di pazienti ospedalizzati a rischio a cui dirigere interventi di prevenzione per il delirio.

Interventi per evitare le complicazioni dovute all’ ospedalizzazione dell’ anziano

In uno studio del 2014, Chong et al., riportano un’esperienza fatta all’interno del Tan Tock Seng Hospital di Singapore in cui all’interno dell’ospedale è stata istituita una unità di monitoraggio geriatrico (Geriatric Monitoring Unit-GMU). Essa è un’unità specializzata con cinque posti letto per l’osservazione ed il trattamento del delirio acuto. Tale approccio non farmacologico, adottato in questa esperienza, si è basata sulla creazione di un ambiente amichevole, su interventi mirati per i disturbi sensoriali, per la disidratazione, per favorire l’orientamento alla realtà e per evitare l’immobilizzazione precoce ma anche sulla proposizione della terapia del sonno, mediante l’utilizzo della light therapy.

Oltre a tali procedure di trattamento, la GMU prevedeva un personale altamente preparato, a cui venivano date indicazioni personalizzate rispetto alle peculiarità del singolo paziente. Lo studio riportato in letteratura su questo approccio ha coinvolto un campione di 320 pazienti (tra pre GMU, GMU e controlli) con più di 65 anni, con delirio rilevato mediante il Confusion Assessment Method (Inouye et al., 1990) ed ha avuto come finalità quella di verificare se il programma GMU migliorasse gli outcomes dei sintomi dovuti all’ ospedalizzazione dell’ anziano.

Le misure utilizzate hanno valutato: le caratteristiche cliniche, lo stato funzionale e l’utilizzo di farmaci con effetti psicoattivi, le possibili complicazioni dovute al delirium incipiente (ulcere, cadute o infezioni) e la soddisfazione dei familiari e degli operatori.

I risultati hanno mostrato come i soggetti pre GMU (coloro in attesa di essere inseriti nell’unità specializzata), avevano una maggiore durata del delirium e del ricovero stesso. I pazienti che avevano beneficiato del metodo di trattamento della GMU avevano un indice di funzionamento più alto. Quest’ultimi, inoltre, non avevano avuto bisogno di dispositivi di limitazione della mobilità ed avevano dosaggi inferiori di antipsicotici. Ad incentivare il buon esito di questa esperienza, ci sono anche i buoni riscontri di soddisfazione sia dai familiari dei pazienti che dagli operatori sanitari. Gli autori riportano come i punti di forza di questo approccio di cura, che ha permesso di avere questi buoni risultati, sono da ricondurre alla combinazione e alla messa a punto ad- personam e ad hoc degli interventi, la prevenzione di complicanze dovute all’assenza di metodi di costrizione fisica, il miglioramento e la gestione della qualità del sonno e l’approccio imparziale utilizzato con tutti i pazienti indipendentemente dalla presenza tra questi di persone con demenza.

Nel complesso, questo studio mostra i vantaggi di un’unità specializzata nella gestione dei deliri per i pazienti anziani. Il successo di questa esperienza ha fatto inoltre divenire permanente questo servizio all’interno dell’ospedale che lo ha sperimentato, garantendo agli anziani ricoverati che ancora oggi continuano ad usufruirne, una limitazione della durata del delirium, la riduzione dei risvolti negativi che questo comporta al momento delle dimissioni e una diminuzione delle risorse economiche e di tempo investite da parte della direzione ospedaliera nella gestione di questi pazienti.

Questa esperienza, così come le note “delirium room” (aree ospedaliere molto specializzate dove vengono applicati appositi protocolli di prevenzione del delirio da ospedalizzazione, in cui vengono abbattuti i fattori precipitanti) presenti nel panorama americano, sono sicuramente dei modelli di gestione clinica validi e molto protesici rispetto alle esigenze del paziente anziano ricoverato.

L’importanza della prevenzione degli effetti dell’ ospedalizzazione dell’ anziano

Ma cosa possiamo fare nel nostro territorio in cui siamo ancora molto lontani da questi standard di organizzazione strutturale? Come raccomandato da Fagherazzi, Granziera, Brugiolo in una revisione del 2015, la prima linea deve essere quella della prevenzione mirata all’individuazione e al trattamento dei fattori di rischio associati al delirium, quali: i deficit cognitivi, la deprivazione del sonno, l’immobilità, l’ipoacusia, il rapporto urea/creatinina elevato, i deficit visivi e la disidratazione. Fagherazzi et al., 2015 sottolineano inoltre come il coinvolgimento nel programma terapeutico anche di familiari, badanti ed amici del paziente sia una risorsa importante.

Come riportato nella revisione, viste le caratteristiche dello stato confusionale, sono necessarie alcune raccomandazioni. È importante: garantire la presenza di un parente o di un amico per tutte le 24 ore, evitando un turn over frequente, limitare i visitatori, modulare la voce ed avere un atteggiamento sereno e “validante”, tranquillizzare la persona delirante, orientarlo nello spazio e nel tempo (ripetergli dove si trova, che giorno è), mantenere sempre una luce accesa anche durante la notte (questo permette al paziente di collocarsi nell’ambiente limitando possibilmente il disorientamento) e mantenere il ritmo sonno-veglia. È opportuno inoltre che i familiari siano debitamente formati ed informati su cosa sta accadendo al loro congiunto. È importante infine educare sia gli utenti che i caregiver sulle cause ed i fattori di rischio che favoriscono il delirium, sia per favorirne la comprensione e la gestione nell’immediato, che come modalità corretta di prevenzione per le possibilità future.

In conclusione, è importante che il personale sanitario e gli utenti che afferiscono ai servizi sanitari capiscano che il periodo dell’ ospedalizzazione dell’ anziano è un momento delicato per una persona fragile come l’anziano. In tale contesto, una cattiva gestione e una mancanza di prevenzione possono portare ad un’amplificazione di quelle conseguenze nefaste, non legate direttamente al disturbo motivo di ricovero, che possono non solo diminuire le potenzialità di cura a seguito dell’ ospedalizzazione dell’ anziano ma causare anche disabilità e morbilità con caratteristiche di permanenza e pervasività.

Quanto contano le relazioni? Matrici familiari del disadattamento giovanile

Per comprendere cosa spinge un giovane ad adottare un comportamento disfunzionale e al disadattamento riteniamo che si debba partire innanzitutto dall’analisi dell’emotività degli adolescenti e del loro sistema di appartenenza, connettendola con le dinamiche familiari.

Marco Schneider, Monica Caponi Beltramo

 

Il disadattamento giovanile

La ricerca scientifica ormai da tempo sostiene che la genesi del comportamento deviante e di disadattamento sia di tipo multifattoriale (Loeber et. Al., 2000, Rossi, 2004; Mash et. Al, 2006; Melchiorre, n.d.), nel senso che tale fenomeno viene concettualizzato come il prodotto dell’interazione di diversi aspetti (genetici, temperamentali, cognitivi, psicologici individuali, sociali e familiari).

Aspetti come ad esempio il temperamento irrequieto del bambino, un atteggiamento psicologico ostile o una limitata capacità di pensiero astratto sono visti come fattori di vulnerabilità individuale che se combinati con alcune variabili socio-familiari come la disgregazione familiare o un atteggiamento ambivalente dei genitori, una disciplina parentale inadeguata, la carenza nelle cure materne o la privazione paterna costituiscono un fattore di rischio rilevante per l’emergere di problematiche di disadattamento negli adolescenti (Bertetti et.Al., 2003).

Rispetto nello specifico alla dimensione familiare è stato evidenziato che la capacità dei genitori di comprendere, sintonizzarsi emotivamente e contenere il figlio nelle sue manifestazioni affettive durante la crescita rappresenta il fattore determinante che permette un sano sviluppo psicoaffettivo e previene il rischio di disadattamento in adolescenza ed età adulta (Maggiolini, 2014; Taransaud, 2014).

I disturbi del comportamento (segnatamente le difficoltà di adattamento sociale) sono infatti messi in diretta e positiva correlazione da diversi studiosi con una bassa qualità degli attaccamenti e con una inadeguata responsività dell’ambiente familiare (vedi ad esempio Rossi, 2004).

In questo articolo vogliamo soffermarci sul contributo giocato nell’attualità dalle differenti reazioni che la famiglia può esprimere in risposta alle “spinte adolescenziali”, intendendo con ciò richieste di autonomia da parte dei ragazzi, contestazioni, tentativi di differenziazione, sollecitazioni all’innovazione, alla ridefinizione di regolare, rapporti, alleanze, ecc..

Tenteremo nello specifico di spiegare il ruolo che tali reazioni hanno nel contribuire a creare le condizioni che portano all’emergere di atteggiamenti socialmente inadeguati negli adolescenti.
Ciò nella convinzione non tanto che i ragazzi “subiscano” in modo lineare e passivo le reazioni della famiglia e divengano quindi di disadattamento a causa dei loro genitori, quanto piuttosto che vi sia una interrelazione dinamica ed attiva tra sollecitazioni e risposte all’interno della famiglia (Tale linearità è stata da tempo disconfermata (vedi ad esempio Cronen, Johnson e Lannamann, tr.it. 1983) a favore di invece di una visione più interconnessa della genesi sia delle psicopatologie che di altri fenomeni psicologici, la quale evidenzia quanto sia importante riferirsi al concetto di co-costruzione di relazioni, significati e comportamenti (Ugazio, 2012).

Le paure negli adolescenti e nella famiglia

Per comprendere cosa spinge un giovane ad adottare un comportamento disfunzionale o antisociale riteniamo che si debba partire innanzitutto dall’analisi dell’emotività degli adolescenti e del loro sistema di appartenenza, connettendola con le dinamiche familiari.

Negli anni dell’adolescenza i ragazzi si trovano infatti spesso a provare emozioni e sensazioni intense quanto destabilizzanti quali la rabbia, la vergogna, la sofferenza, l’euforia, il senso di abbandono e di non riconoscimento, la frustrazione, la pietà, la confusione, il senso di colpa, ecc. Ciò nonostante, l’emozione che più delle altre è trasversale negli adolescenti è la paura.

La paura nell’adolescente tipicamente riguarda due temi fondamentali: il Sé e l’Altro.
Gli adolescenti infatti da un lato vivono intensamente il timore di non essere nulla e di non essere mai abbastanza (adeguati, accettati ed amabili), di vivere una vita senza senso e/o di essere costantemente condizionati dagli altri (Coslin, 2012) e dall’altro, nonostante ne siano fortemente attratti, temono i pari e gli adulti in quanto pensano di poterne venire danneggiati (fisicamente ma anche moralmente, affettivamente).

Questo vissuto di inadeguatezza unito al timore per l’Altro arriva a scatenare a volte in alcuni ragazzi un pervasivo senso di impotenza che viene combattuto con atteggiamenti ora di fuga e di ritiro, ora prevaricanti, violenti e distruttivi, aventi lo scopo di sostenere una fragile autostima e di “neutralizzare” (anche tramite pericolosi agiti) l’Altro e la minaccia che rappresenta per il giovane.

Lasciando per un attimo il mondo interno dei ragazzi, va detto che non sono solo loro a provare paura, ma anche chi, a vario titolo, si occupa di loro: la società nel suo complesso, la famiglia come microcosmo sociale e gli “esperti” (chiamati solitamente ad intervenire in aiuto dei ragazzi più difficili).

In questa sede vogliamo occuparci solo dei ragazzi e delle loro famiglie, rimandando ad altri momenti l’analisi del ruolo della società e degli esperti nella genesi delle problematiche di disadattamento negli adolescenti.

Viste brevemente le paure dei ragazzi, vediamo ora quelle della famiglia quando si trova a dover interagire con un suo membro divenuto adolescente. Tali paure fanno soprattutto capo al timore della disorganizzazione dell’equilibrio sino a quel momento raggiunto e di quanto costruito per sé e per i figli e del conseguente caos emotivo provocato dalla dirompenza (sebbene spesso solo potenziale) delle spinte al cambiamento provenienti dagli adolescenti.

L’angoscia di fondo infatti che alberga in ogni famiglia è quella della sua stessa morte, sia per motivi connessi ad eventi puntuali (per esempio le separazioni coniugali, un lutto, la perdita del lavoro, ecc..), sia per ragioni più esistenziali legate ad esempio alla consapevolezza della propria non immortalità e alla fallibilità di progetti e aspettative.

Il carico di potenziale cambiamento che l’adolescenza porta in famiglia può quindi essere vissuto dalle generazioni più vecchie come un fattore di rischio importante rispetto alla continuazione della vita familiare così come era stata pensata e realizzata fino a quel momento: gli adolescenti infatti (spesso per paura o difesa) possono far credere di essere in grado di stravolgere l’ordine familiare vigente e di avere il potere di rovinare la vita ai familiari.

Ciò porta alcune volte i familiari ad irrigidirsi, perché anch’essi impauriti, e ad agire comportamenti difensivi volti ad allontanare quegli aspetti dell’adolescenza dei figli ritenuti di maggiore rischio per la famiglia.

Tali comportamenti difensivi possono essere di due tipi: possono infatti essere messi in atto comportamenti eccessivamente repressivi (con punizioni esagerate fino a veri e propri rifiuti dell’adolescente come persona) o al contrario seduttivi e collusivi (ad esempio “comprando” il figlio con regali o denaro o ancora con “comodità” affinché egli resti in casa e non si renda autonomo, ecc…). Entrambe queste categorie di comportamenti hanno l’obiettivo di neutralizzare il potere destabilizzante proveniente dalle potenziali “ribellioni” adolescenziali.

L’adolescenza porta sempre con sé, soprattutto nelle sue forme più complesse (come la devianza), il rischio che gli adulti della famiglia vivano un senso di fallimento rispetto all’allevamento della prole e al buon adattamento sociale dei figli. Gli adulti infatti sono spesso spinti da quei comportamenti degli adolescenti che non rispecchiano le aspettative o che risultano spaventanti ed estremi (Coslin, 2012) a chiedersi “Che cosa ho fatto di male?” o “Dove ho sbagliato?”.

Analogamente a quanto visto per le sollecitazioni al cambiamento portate dagli adolescenti, esistono generalmente due tipi di comportamenti messi in atto dagli adulti per sedare l’angoscia derivante dall’idea di aver fallito sul piano educativo: il primo tipo di comportamento, che possiamo chiamare “simmetrico”, consiste nel proiettare sul figlio tutte le responsabilità per la situazione al fine di alleggerirsi e decolpevolizzarsi, secondo una logica espulsiva (“…lui/lei è cattivo/a”, “…l’ha fatto apposta per ferirmi”, “… che ci posso fare io, non posso fare più di così..”) mentre il secondo, di tipo “complementare”, si sostanzia nella tendenza dei genitori a giustificare i comportamenti del figlio scusandolo (“… non poteva fare altrimenti”, “in realtà non è proprio colpa sua, sono gli altri…”) e sposando apertamente la convinzione di avere un figlio costretto dagli eventi ad agire in un modo che non lo rappresenta per come è conosciuto dai familiari.

Una sottospecie di questo secondo tipo di comportamenti “complementari” riguarda il ricorso al concetto di “malattia” (organica, psichiatrica, evolutiva, ecc..) per giustificare in una qualche maniera il comportamento di disadattamento (o non rispondente alle aspettative individuali e sociali) del figlio. Convincersi di avere un figlio “malato” può infatti dare l’illusione di sedare l’angoscia del non comprendere il senso di taluni comportamenti degli adolescenti ma anche e soprattutto l’angoscia personale connessa al vissuto di fallimento nelle abilità genitoriali.

Va detto però che il ricorso al concetto di malattia per gli adolescenti problematici ha in realtà un effetto perverso, nel senso che piuttosto che allontanare l’angoscia e la difficoltà, le richiama: richiama infatti proprio quel fallimento della famiglia (e della società) che si vorrebbe allontanare connesso alla gestione dei comportamenti più estremi degli adolescenti in quanto la malattia, per come è intesa e gestita nella nostra società occidentale, necessita di un sistema di cura (rappresentato dagli esperti – ossia soggetti terzi che intervengono per risolvere un problema di altri) il quale produce in ultima analisi l’effetto paradosso di “certificare” l’incapacità degli adulti nel gestire i ragazzi e le loro difficoltà (Timimi, 2005).

Come interagiscono tra loro le paure degli adolescenti e quelle della famiglia?

Le paure dei soggetti descritti in questo articolo (ragazzi e famiglie) interagiscono continuamente tra loro nel momento in cui vengono provate ed espresse, e producono degli effetti specifici.

Le reazioni della famiglia (la quale come detto rispetto ai comportamenti degli adolescenti può diventare o troppo rigida o al contrario troppo collusiva) influiscono in modo significativo sulla autopercezione dei ragazzi e quindi anche sul loro comportamento, che ne è diretta espressione: i ragazzi infatti se la famiglia si comporterà con loro in modo eccessivamente punitivo accentueranno un duplice vissuto, di impotenza e fragilità da un lato – perché mancherà loro la fiducia di base (Erikson, 1950) – ma anche di essere “cattivi”, meritevoli quindi delle punizioni e del rifiuto della famiglia.

Al contrario famiglie che adotteranno con i figli atteggiamenti eccessivamente permissivi e collusivi stimoleranno nei ragazzi vissuti di onnipotenza e il convincimento di poter fare tutto ciò che vogliono perché “in diritto di pretendere”. Lo sviluppo del senso critico e della responsabilità per le proprie azioni ne verranno in questo caso fortemente penalizzati.

In entrambi questi casi, secondo una logica ricorsiva, ciò andrà ad aggravare ulteriormente i timori degli adulti.

È invece importante che la famiglia si apra al nuovo e consideri positive le sollecitazioni e i cambiamenti portati dagli adolescenti: è fondamentale che la famiglia trasformi, tramite il dialogo con il ragazzo (dialogo che deve essere aperto, franco e “caldo”) e tramite l’ascolto attento e non giudicante l’adolescenza di uno dei suoi membri in una opportunità di crescita e di “immortalità” per tutti, abbandonando quindi l’idea di reiterazione di schemi ormai consolidati ed avventurandosi con fiducia lungo il cammino del continuo cambiamento e del rinnovamento.

Se ciò non avviene, i ragazzi svilupperanno e manifesteranno livelli crescenti di rabbia e disfunzionalità nel comportamento sino ad arrivare a comportamenti francamente devianti e criminali.

Non accettare il potenziale di cambiamento portato dagli adolescenti è in effetti il vero atto suicida della famiglia, perché non solo essa non si dà la possibilità di rinnovarsi rispetto al tempo che passa ma soprattutto produce con le proprie scelte rigide o conservatrici persone infelici e propense a far risuonare in loro paure e rabbia, che portano all’aumento dei comportamenti di violenza, ribellione e disadattamento.

L’abilità di attenzione selettiva in contesti rumorosi sarebbe determinata dal tono vocale dell’interlocutore

Gli scienziati hanno scoperto che un gruppo di neuroni presenti nel tronco encefalico ci aiuterebbe a decodificare una specifica conversazione quando ci troviamo, ad esempio, all’interno di luoghi affollati. L’ attenzione selettiva, in questo caso uditiva, permette agli individui di prestare particolare attenzione alla voce del proprio interlocutore al fine di intrattenere una conversazione. Il processo, ormai noto da molti anni ai ricercatori, ha luogo in quella parte del cervello denominata corteccia uditiva il cui compito è quello di processare le informazioni vocali.

 

Come agisce l’attenzione selettiva in luoghi affollati?

L’ attenzione selettiva modula le informazioni uditive e aiuta il cervello a stabilire la priorità tra i vari stimoli presenti luoghi affollati; tuttavia gli scienziati hanno dibattuto a lungo per comprendere quali siano gli stimoli effettivamente responsabili dell’attivazione di questo processo all’interno della corteccia.

In un recente studio, i ricercatori dell’Imperial College di Londra erano interessati ad indagare il contributo della risposta uditiva del tronco cerebrale nel processo di attenzione selettiva.

Al fine di investigare le strutture a valle della corteccia uditiva, un esperimento non invasivo è stato svolto con 14 partecipanti il cui compito consisteva nell’ascolto contemporaneo di due conversazioni. Gli elettrodi, posizionati sullo scalpo dei partecipanti, erano collegati ad un computer che rilevava l’attività neurale del tronco encefalico.

Quando i partecipanti prestavano attenzione ad una delle due conversazioni, i neuroni “uditivi” del tronco rispondevano maggiormente al tono vocale del dialogo selezionato, ignorando la seconda conversazione. Questo suggerisce che un aspetto importante dell’attenzione selettiva si verifica a livello del tronco encefalico e che solo successivamente il segnale viene trasmesso alla corteccia uditiva per un’elaborazione superiore delle informazioni acustiche.

Il dottor Tobias Reichenbach del Dipartimento di Bioingegneria dell’Università londinese afferma “Gli esseri umani sono abili nell’ascoltare un interlocutore anche con molto baccano in sottofondo. In luoghi affollati la corteccia uditiva, utilizzando un filtro, processa le informazioni che ci permettono di concentrarci sulla conversazione che stiamo intrattenendo. Il modo in cui questi processi selettivi lavorino è ancora oggi argomento di discussione. Il nostro studio dimostra che l’intonazione vocale dell’interlocutore è un indizio importante che viene utilizzato nel tronco encefalico per focalizzare l’attenzione sul discorso. Questo ci aiuta a concentrarci sulla voce selezionata mentre filtriamo tutti i rumori in sottofondo”.

Il team di ricerca ipotizza che questa scoperta possa essere la chiave per spiegare il perché alcune persone, che non presentano alcun tipo di problema uditivo, presentino invece difficoltà a conversare in contesti rumorosi. Una spiegazione potrebbe essere che i neuroni deputati alla ricezione dei segnali vocali nel tronco encefalico non siano correttamente attivati.

Alla luce della scoperta che l’intonazione vocale provoca una risposta uditiva del tronco cerebrale, i ricercatori desiderano svolgere ulteriori esperimenti per determinare il modo in cui l’attenzione selettiva funzioni in ambienti più complessi (ad esempio facendo ascoltare ai partecipanti più di due conversazioni contemporaneamente).

Tali risultati potrebbero aiutare gli ingegneri a migliorare le tecnologie di riconoscimento vocale come i sistemi automatici di segreteria telefonica, attualmente infatti queste tecnologie non mostrano un funzionamento ottimale quando sono presenti molti rumori di fondo. Il team suggerisce che una miglior elaborazione della tonalità vocale dell’utente permetterebbe un miglioramento nell’accuratezza del processo di riconoscimento vocale in luoghi affollati.

Una comprensione dettagliata del funzionamento di questo processo inoltre, potrebbe aiutare gli ingegneri a sviluppare apparecchi acustici sempre più abili nel filtrare i rumori di fondo migliorando così l’esperienza uditiva dei soggetti.

Dal film “Lars e una ragazza tutta sua” al film “Her” ecco arrivare nella realtà “Harmony” la RealDoll robotica

Nel dicembre 2017 uscirà Harmony, la RealDoll robotica famosa già da un ventennio dotata di intelligenza artificialeIdeale per chi fatica per scelta o per propri limiti ad intrecciare relazioni.
McMullen, l’inventore della bombola, ha perfezionato il prototipo base ormai obsoleto dotandolo di movimento e personalità.

Lars e una ragazza tutta sua: un film sul disturbo delirante e la bambola gonfiabile

Lars e una ragazza tutta sua” è un film uscito nel 2008, diretto da Craig Gillespie, con Ryan Gosling e Emily Mortimer.
Lars ( Ryan Gosling) è un ventisettenne, timido, introverso e che vive la propria esistenza in una routine schematizzata cercando di sfuggire ad ogni contatto umano. Un bel giorno la monotonia di Lars si interrompe, annuncia a tutti che si è fidanzato. Fin qui tutto bene se non fosse che la ragazza è una bambola in silicone.

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Nel film questo aspetto è analizzato come delirio del giovane Lars.
Il disturbo delirante è un disturbo caratterizzato da convinzioni distorte della realtà, in assenza degli altri sintomi tipici della schizofrenia. I deliri non hanno una tempistica a lungo termine ma sono costanti e pervasivi, apparentemente possono anche sembrare plausibili, riguardando situazioni che potrebbero davvero verificarsi nella vita del soggetto. Le persone con questo disturbo, infatti, hanno un comportamento apparentemente normale, se le loro idee non vengono messe in discussione.

I contenuti delle convinzioni deliranti possono essere di diverso tipo.
Nel delirio di gelosia il soggetto ha la convinzione che il proprio partner sia infedele senza avere dati di realtà che sostengano la sua credenza ed attua comportamenti disfunzionali per sé e la coppia volti a confermare la sua idea (es. appostamenti, pedinamenti, aggressività fisica).
Nel delirio erotomanico il soggetto è convinto di essere amato da una persona del tutto sconosciuta. Anche questo tipo di delirio è accompagnato da comportamenti esasperanti per l’altro come telefonate, visite improvvise e pedinamenti.
Nel delirio di grandezza il soggetto è convinto di essere una persona eccezionale e, ad esempio, di avere un ruolo di grande rilievo o di aver compiuto qualche importante opera per l’umanità (es. una scoperta scientifica).
Nel delirio di persecuzione la convinzione prevalente della persona è quella di essere stato danneggiato (es. ingannato, spiato, avvelenato, drogato). Chi presenta questo delirio, essendo convinto di aver subito profonde ingiustizie ed essendo molto risentito per queste, può far ricorso a violenze e a frequenti azioni legali nei confronti dei suoi ipotetici persecutori.
Nel delirio somatico il soggetto presenta idee bizzarre rispetto a particolari aspetti del proprio corpo. Tra le convinzioni più diffuse ci sono le credenze sulla deformità o sul cattivo odore di qualche parte del proprio corpo (es. gambe storte; cattivo odore della bocca, della pelle o degli organi sessuali), senza che risultino dati oggettivi a supporto di ciò.

Questo disturbo può insorgere a qualunque età, può essere cronico o avere dei periodi di remissione e di riacutizzazione. Anche in caso di remissione piena, il soggetto può avere delle ricadute.
Le persone che soffrono di questo disturbo ne hanno scarsa consapevolezza e in alcuni casi risulta difficile distinguere il disturbo delirante dai disturbi dell’umore (depressione e disturbo bipolare) con aspetti psicotici.

Come per la maggior parte dei disturbi psichiatrici l’origine non ha ancora una causa definita e l’ipotesi eziologica più plausibile è sempre quella in cui concorrono fattori diversi, quali biologici e psico-sociali.

Come scritto sopra comunque la trama del film è incentrata sul delirio di Lars e la sua realtà distorta è riferibile ad una fobia sociale, insicurezza e paura nelle interazioni affettive, paura delle relazioni con gli altri. La sua bambola servirà da percorso introspettivo, infonderà in lui sicurezza, tanto che alla fine la farà “morire”.

Il film “Her” e il rapporto con il digitale

Qualche tempo fa, in un altro articolo analizzavo il film “Her” di Spike Jonze, dove il protagonista Theodor (Joaquin Phoenix) si innamorava ed intraprendeva una relazione con un sistema operativo, una sorta di “Siri” evoluta all’ennesima potenza e mi ponevo delle domande su come si svilupperanno le relazioni umane in una società in cui il digitale ha ormai il dominio sbalordendomi della visione cosi d’avanguardia del regista che metteva in scena un futuro non troppo prossimo.

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La Realdoll robotica in uscita nel 2017

Perché parlo di questi due film? Perché recentemente mi sono imbattuta in un articolo, una notizia che in qualche modo assembla le trame delle due pellicole che oggi sono realtà. Nel dicembre 2017 infatti uscirà Harmony, la RealDoll robotica famosa già da un ventennio dotata di intelligenza artificiale. Ideale per chi fatica per scelta o per propri limiti ad intrecciare relazioni. McMullen, l’inventore della Realdoll robotica, ha perfezionato il prototipo base ormai obsoleto dotandolo di movimento e personalità per un prezzo base di 15000 dollari.

Se le femministe pensano di protestare, non troveranno terreno fertile nel creare disappunto, sarà disponibile infatti anche la versione maschile. Non parliamo più di una bambola erotica. Siamo andati oltre. La Realdoll robotica mima espressioni facciali, ammicca, la pelle è riscaldata e disseminata di sensori che se toccati stimolano la risposta adeguata. L’intelligenza artificiale va ben oltre le funzioni stimolo-risposta, l’intelligenza è emotiva e quella di base è dotata di: timidezza, intraprendenza, lunaticità, romanticismo che evolvono a seconda di come il partner interagisce con lei/lui, portando il robot addirittura a capire i contesti e prendere decisioni autonome.
Quello che nei film era delirio fra pochissimo tempo sarà normalità ed il delirio prenderà un aspetto del tutto diverso per non parlare dei rapporti sociali.

La normalità potrà diventare quella di avere un fidanzato/a bambola, ci si distaccherà dal pensare che si tratti di una finzione e nell’essere umano si creeranno sentimenti reali di abituazione ad intraprendere rapporti con personalità su misura alle nostre preferenze. La rotta per l’umanità è cambiata e non c’è voluto neanche troppo tempo.

Sigmund Freud: il fondatore della psicoanalisi – Introduzione alla Psicologia

Sigmund Freud è stato un medico neurologo e fondatore della psicoanalisiFreud è noto per aver elaborato la teoria psicoanalitica secondo la quale i processi psichici inconsci influenzano il pensiero, il comportamento umano e le interazioni tra individui. Partendo da una formazione medica, ha tentato di stabilire correlazioni tra la visione dell’inconscio, rappresentazione simbolica di processi reali, e delle sue componenti con le strutture fisiche della mente e del corpo umano.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La vita di Sigmund Freud

Sigismund Schlomo Freud, conosciuto come Sigmund Freud, nasce il 6 Maggio del 1856 a Freiberg (Příbor), nell’odierna Repubblica Ceca (al tempo chiamata Moravia). Il padre di Sigmund è Jacob Freud, un ebreo galiziano, e la madre è Amalie Nathanson, terza moglie di Jacob. Il padre di Freud è un ebreo laico, che non ha trasmesso al figlio un’educazione di stampo religioso-fideistico o tradizionalista.
All’età di quattro anni, la famiglia Freud si sposta a Vienna per motivi legati al lavoro del padre, che commercia lana.

Nonostante il disinteresse paterno per l’argomento, Sigmund inizia, sin da giovane, ad appassionarsi allo studio del testo biblico, alla storia e alla tradizione del suo popolo, in un contesto sociale come quello viennese dell’epoca intriso di antisemitismo, acquisendo nozioni che lasciano notevoli tracce nella sua opera letterale successiva, anche se Freud diviene presto ateo e avverso a tutte le religioni.

Freud si diploma a diciassette anni all’istituto superiore “Sperl Gymnasium”, e dà prova delle sue particolari attitudini intellettive divenendo il primo della classe; nel 1873 si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’università di Vienna, dove conclude gli studi nel 1881. Durante il corso di laurea matura una crescente avversione per gli insegnanti che considera non all’altezza. Proprio questa insoddisfazione lo spinge a sviluppare un senso critico che, di fatto, si manifesta ritardando il conseguimento della sua laurea in Medicina e Chirurgia (conseguita nel marzo 1881).

Dopo un soggiorno in Inghilterra, Freud trova impiego nell’istituto zoologico viennese di Carl Claus, ma ben presto si sposta all’Istituto di Fisiologia di Ernst Brücke, che diverrà una figura determinante nella formazione del giovane Freud. Nonostante un certo successo ottenuto nel campo della ricerca, Freud decide di dedicarsi alla pratica clinica, professione assai remunerativa che gli avrebbe consentito di rendersi indipendente economicamente e di sposare Martha Bernays, conosciuta nel 1882. Così, lavora per tre anni all’Ospedale Generale di Vienna, curando i pazienti del reparto psichiatrico.

Nel 1884, mentre lavora in questo ospedale, Freud comincia gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta. Egli scopre che la cocaina, utilizzata dai nativi americani come analgesico, ha forti poteri sulla psiche che sperimenta su se stesso osservandone gli esiti stimolanti e privi – a suo dire – di effetti collaterali rilevanti. Freud decide di utilizzarla in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico, Ernst Fleischl, divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore.

Il caso di Fleisch, spinge Freud a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina” in cui emergono anche gli effetti dannosi della stessa. Dopo la pubblicazione smette di farne uso e di prescriverla. Nel 1885 ottiene la libera docenza universitaria e ciò gli assicura facilitazioni nell’esercizio della professione medica. La notorietà e la stima dei colleghi gli permettono una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario.

Tra il 1885 e il 1886 collabora con Charcot a Parigi, e si avvicina all’ipnosi come cura per l’isteria, metodo clinico che Freud vuol diffondere al suo ritorno a Vienna. Nell’autunno del 1886 apre, dunque, il suo studio privato, e in primavera sposa Martha, con cui mette al mondo sei figli.

In un primo momento si dedica allo studio dell’ipnosi e dei suoi effetti nella cura di pazienti psichiatrici, influenzato dagli studi di Joseph Breuer sull’isteria. In particolare diede molta rilevanza al caso di Anna O. (ossia Bertha Pappenheim), al quale s’interessa partendo dalle considerazioni di Charcot, che individua nell’isteria un disturbo della psiche e non una simulazione, come ritenuto fino ad allora. Dalle difficoltà incontrate da Breuer nel caso, Freud costruisce progressivamente alcuni principi basilari della psicoanalisi relativi alle relazioni medico-paziente.
Da qui si sviluppa il cuore della psicoanalisi, ovvero indagare attraverso le associazioni libere, lapsus, atti involontari, atti mancati e l’interpretazione dei sogni, i significati che essi comunicano. Dunque, Freud idea un approccio in cui cerca di far emergere alla coscienza contenuti che non sono affatto coscienti.

In questo periodo si occupa principalmente di malati di nevrosi e scrive gli “Studi sull’isteria” (1892-95). Attraverso la cura della nevrosi, nonché l’analisi di sé e dei propri sogni, nel 1897, spinto anche dai turbamenti derivanti dalla morte del padre, pone le basi della psicoanalisi. Il Libro “L’interpretazione dei sogni”, uscito nel 1899 ma datato 1900 lo rende poco per volta noto a un più vasto pubblico.

A partire dal 1902 in casa sua si effettuano le riunioni del mercoledì che, pian piano, raccolgono un gruppetto di seguaci viennesi, tra cui Jung, Jones, Abraham, Ferenczi. Ha così inizio il processo di diffusione mondiale della psicoanalisi.
Nel 1909 con Jung svolge un giro di conferenze negli USA e nel 1910 fonda con i discepoli l’Associazione Psicoanalitica Internazionale, che è presieduta da Jung, erede del suo pensiero da lui designato.

Nel 1911 si ha la rottura con Adler, e qualche anno dopo, nel 1913, quella con Jung per contrasti teorici e di personalità. Freud, però, continua la ricerca in psicoanalisi volta a sistemare i concetti fondamentali della disciplina, e di questi studi offre una sintesi nelle lezioni tenute dal 1915 al 1917 all’università di Vienna.

Nascita della psicoanalisi

Generalmente si individua come nascita della psicoanalisi la prima interpretazione scritta di un sogno realizzato dallo stesso Freud la notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, “il sogno dell’iniezione di Irma”. L’analisi dei sogni segna l’abbandono del metodo ipnotico e l’inizio di quello psicoanalitico. Alcuni, però, individuano come nascita della psicoanalisi il momento in cui Freud usa per la prima volta questo termine, ovvero nel 1896 dopo aver svolto un’esperienza di 10 anni nel settore della psicopatologia, da cui ne trae due articoli nei quali parla esplicitamente di psicoanalisi per descrivere il suo metodo di ricerca e trattamento terapeutico.

Il termine psicoanalisi è la traduzione dal tedesco del neologismo impiegato da Freud indicante un procedimento d’indagine dei processi mentali altrimenti inaccessibili alla coscienza e rappresenta, anche, un metodo terapeutico avente come scopo la cura delle nevrosi, basato su una serie di assunti sul funzionamento della psiche.

La psicoanalisi

Il contributo più significativo di Freud al pensiero moderno è l’elaborazione del concetto di inconscio. Secondo una versione diffusa della storia della psicologia, durante il XIX secolo la tendenza dominante nel pensiero occidentale era il positivismo, che consisteva nella possibilità degli individui di controllare la conoscenza reale di se stessi e del mondo esterno e nella capacità di esercitare un controllo razionale su entrambi. Freud, suggerisce che pensare di poter controllare la realtà è un’illusione, infatti, persino ciò che pensiamo sfugge al controllo e alla comprensione totale, e secondo Freud le ragioni dei nostri comportamenti spesso non hanno niente a che fare con i nostri pensieri coscienti.

La consapevolezza è distribuita tra i diversi strati di cui è composta la mente. Per questo esistono pensieri non immediatamente disponibili in quanto non coscienti, ovvero inconsci. L’inconscio è una parte della mente da cui generano una serie di comportamenti attuati senza essere sottoposti al controllo della coscienza.

Freud distingue un inconscio descrittivo, per cui le rappresentazioni del mondo esterno risultano non immediatamente disponibili a seguito della rimozione; e un inconscio topico, cioè una sottostruttura della psiche che affianca la coscienza e il preconscio ed è definita da processi e da leggi. L’inconscio studiato da Freud presenta una serie di tratti salienti, infatti è caratterizzato da dinamicità e conflittualità, in quanto è sede di processi causativi, quali le pulsioni e i desideri, e da processi difensivi, quali la rimozione che agisce direttamente sulle attività coscienti. L’inconscio, inoltre, ha una propria logica legata al processo primario, processo regolato dal principio del piacere che consiste nel fatto che le pulsioni, o desideri, tendono alla scarica immediata, cioè al piacere tramite l’azione nel mondo esterno, o l’allucinazione, come nel sogno. Le pulsioni, a loro volta, spostano l’investimento da un contenuto mentale (rappresentazione) all’altro, dando luogo ai fenomeni confusivi della condensazione di più rappresentazioni e dello spostamento da una rappresentazione all’altra. L’inconscio, infine, è caratterizzato dalla parte infantile che permane nell’adulto.

I sogni sono i prodotti che inducono, meglio di tutti, alla comprensione della nostra vita inconscia poiché pieni di contenuti derivanti da questa istanza. Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud argomenta l’esistenza dell’inconscio, parla dei contenuti onirici e dei loro significati descrivendo una accurata tecnica per accedere ai contenuti rimossi traendone significati attuali. Elemento cruciale del funzionamento dell’inconscio è la rimozione. Secondo Freud, spesso i pensieri e le esperienze sono così dolorosi da essere considerati insopportabili e per questo sono banditi dalla mente e dalla coscienza, ovvero rimosse. In questo modo costituiscono l’inconscio. Secondo Freud il concetto di rimozione è in sé un atto non-cosciente poiché costituito da pensieri o sensazioni non dipendenti dalla volontà.
Il preconscio, invece, è descritto da Freud come uno strato a cui accedere con minore difficoltà, in quanto interposto tra il conscio e l’inconscio (il termine subcosciente, benché usato popolarmente, è una parola derivante dalla traduzione anglosassone e non fa parte della terminologia psicoanalitica).

Io, Es e Super-Io, le tre istanze

Freud sostiene che la psiche sia costituita da tre componenti: Id (Es in tedesco), Ego (Ich in tedesco, o “Io” in italiano) e Superego (Überich” in tedesco, Super-Io in italiano). L’Es è il processo di identificazione–soddisfazione dei bisogni di tipo primitivo. L’Es costituisce l’elemento libidinoso della psiche e non conosce né negazione né contraddizione. Il Super-io rappresenta la coscienza e si oppone all’Es con la morale e l’etica. Il Super-Io costituisce la struttura mentale sulla quale si basano l’ambiente educativo interiorizzato, gli ideali dell’Io, i ruoli e le visioni del mondo, la conoscenza, l’etica, la morale.

L’Ego o Io, invece, si frappone tra Es e Super- io per bilanciare sia le istanze di soddisfazione dei bisogni istintivi e primitivi, sia le spinte contrarie derivanti dalle nostre opinioni morali ed etiche. Un Ego ben strutturato garantisce la capacità di adattarsi alla realtà e di interagire con il mondo esterno, soddisfacendo le istanze dell’Id e del Super-ego.

La teoria delle fasi psicosessuali

Secondo Freud gli esseri umani sono guidati da due pulsioni basilari: dalla libido, componente della pulsione di vita (Eros) e dalla pulsione di morte (Thanatos), la cui energia è stata inizialmente chiamata destrudo. La libido comprende la creatività e gli istinti, mentre la pulsione di morte è definita come un desiderio innato finalizzato alla creazione di una condizione di calma, o non-esistenza. Quando le pulsioni e l’energia libidica rimangono fissate nell’inconscio esse generano nevrosi e psicosi.

Egli argomenta che gli esseri umani nascono “polimorficamente perversi” e si sviluppano attraverso il raggiungimento di differenti stadi: fase orale, piacere del neonato nell’allattamento, fase anale, piacere del bambino nel controllo della defecazione e fase genitale, che prende anche il nome di fase fallica, in cui i bambini si identificano con il genitore di sesso opposto, mentre il genitore dello stesso sesso è visto come rivale (complesso di Edipo o Elettra).

La fissazione è un processo psichico che impedisce alla pulsione di modificare il suo obiettivo, rendendo impossibile il distacco dall’oggetto di fissazione. Si attuerebbe a causa della rimozione di alcuni elementi che consentirebbero la normale evoluzione dello stimolo (pulsione). È per questo che alcuni suoi effetti, durante la psicoanalisi, possono venire assimilati o confusi con altri processi. Essa non è altro che la conservazione della libido su oggetti o fasi inconsce relativi ai vari stadi psicosessuali di sviluppo. Queste cariche di libido conservata danneggiano l’individuo provocandogli la nevrosi.

La rimozione è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe dispiacere. La rimozione tuttavia va considerata come una modalità universale dello psichismo la cui finalità è proprio quella di difendere, come una sorta di apparato immunitario proprio dello psichismo, l’ideale dell’io (o Super-io) in cui ci si rispecchia.
La rimozione può riguardare sia un fatto vissuto, che un pensiero o un istinto. Il contenuto rimosso non tende spontaneamente a manifestarsi o non ha l’energia psichica per farlo, per cui spesso la rimozione è priva di conseguenze.

La regressione è un meccanismo in cui, per mancanza di superamento di una fase, anziché svilupparsi la nevrosi di quella tipica fase, si manifesta una nevrosi di fase precedente, in cui molta più libido è rimasta fissata, ma possono essere presenti anche cariche di libido di altre fasi, che si fanno sentire sotto forma di sintomo nevrotico.

La nevrosi

La nevrosi sono il principale campo di interesse di Freud. Esse costituiscono il miglior campo d’azione in cui opera la psicoanalisi. Le nevrosi sono diverse a seconda dello stadio di sviluppo o di regressione e cui si è fissati, e sono:
– nevrosi ossessiva, fissazione alla fase sadico-anale;
– nevrosi fobica e nevrosi d’ansia, derivante da fissazione in diverse fasi;
– nevrosi isterica, derivante da traumi sessuali e di vario tipo.

Le nevrosi non sono tanto malattie funzionali senza base anatomopatologica, come voleva Charcot, né sono dovute, come riteneva Breuer, all’accumulo di energia non scaricata; sono invece causate da rappresentazioni mentali sentite come inaccettabili e con le quali la persona è in conflitto e le respinge nell’inconscio, da dove riemergono come sintomi nevrotici. Freud ritiene dapprima che tali rappresentazioni rinviino ad eventi traumatici reali, poi sostiene che siano mere fantasie. Ai fini della cura pertanto è necessaria la presa di coscienza delle rappresentazioni rimosse, guadagnata attraverso una narrazione condotta con libere associazioni.

Se non si manifesta la nevrosi, dove dovrebbe invece palesarsi, allora si sviluppa la perversione, termine che in Freud non indica una malattia, ma la fissazione della libido su oggetti o ambiti non sessuali in senso genitale, che si sviluppa, ad esempio, nella fase sadico-anale o in quella edipica per il rifiuto a riconoscere il complesso di castrazione o l’invidia del pene o la sua assenza. In assenza di perversione si può sviluppare l’asessualità.

Scopo della psicoanalisi

L’obiettivo della terapia psicoanalitica di Freud, è, dunque, indurre allo stato cosciente i pensieri repressi/rimossi, rafforzando così il proprio Io. Per portare i pensieri inconsci al livello della coscienza, il metodo classico prevede delle sedute in cui il paziente è invitato a effettuare associazioni libere partendo dai propri sogni.

La psicoanalisi non è un metodo introspettivo, poiché non presuppone un ruolo attivo dell’osservatore, ma, al contrario, è richiesto al soggetto di lasciarsi andare al flusso delle idee che gli vengono in mente, libere associazioni, tecnica per la quale si lascia correre il pensiero al fine di lasciar emergere immagini inconsce. Quindi, al paziente è richiesto di raccontare tutto ciò che gli viene in mente, comprese le cose che ritiene di poco conto, le immagini spiacevoli o imbarazzanti. L’esposizione può consistere in una libera narrazione, oppure può partire da immagini di un sogno, da un lapsus, da un sintomo nevrotico. Il compito dell’analista consiste nell’interpretazione dei vissuti narrati dal soggetto, allargandone la comprensione e mettendo in evidenza quei significati che rivelano desideri e rappresentazioni inconsci. La terapia mira a rendere consapevole il soggetto dei suoi processi inconsci e la presa di coscienza dovrebbe portare allo scioglimento del conflitto inconscio e del sintomo nevrotico che da esso emerge.

Un altro elemento importante della psicoanalisi è l’assunzione, da parte dell’analista, di un atteggiamento distaccato che permette al paziente di proiettare durante l’analisi i pensieri e le sensazioni sull’analista. Attraverso questo processo, chiamato transfert, il paziente può riesumare e risolvere i conflitti rimossi, particolarmente quelli infantili, legati alla formazione e alla famiglia d’origine.

L’esilio a Londra e la morte

Freud, durante la seconda guerra mondiale, in pessime condizioni di salute, lascia Vienna per trasferirsi a Londra.
Nel 1923 Freud si ammala di carcinoma della bocca  e, per questo, subisce due operazioni, ma negli anni successivi la lesione ricompare trasformandosi in un epitelioma del cavo orale, con metastasi ossee. Freud convive per 16 anni con la malattia continuando a fumare sigari per la maggior parte del tempo.

Nonostante varie cure e diverse operazioni, alla fine deve subire l’invasiva asportazione della mascella, che lo costringerà ad effettuare molte sedute quasi in silenzio, solamente ascoltando i pazienti, e all’inserimento di una protesi.

La perdita di un figlio e di un nipote negli anni ’20, e la persecuzione nazista poi, non fanno che aggravare il tutto.  Nel 1939, un anno dopo essere giunto a Londra e aver subito l’ultima operazione e la radioterapia, il cancro è in fase terminale, e viene dichiarato inoperabile. Il 21 settembre 1939, Freud, consumato da terribili sofferenze, sul letto di morte chiede al dottor Max Schur di porre fine alle sue sofferenze. Così il medico, dopo aver consultato la figlia Anna come da richiesta dello stesso Freud, aumenta gradualmente la dose di oppiacei. Muore due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina gli provoca.

Il corpo di Freud viene cremato dopo una cerimonia civile, e le ceneri vengono tumulate in un cimitero londinese, per essere poi portate, alcuni anni dopo, nel tempio crematorio Golders Green nella zona nord della città e messe in un antico vaso greco, dove verranno tumulate anche quelle della moglie Martha, morta nel 1951.
La sua casa di Londra è nel famoso quartiere residenziale Hampstead nella zona Camden, non lontano dal centro di psicoanalisi, dove lavorerà, anni dopo, la figlia Anna.
Dopo la morte di Anna la casa è stata trasformata, per volontà della stessa, in un museo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La dopamina influenza le decisioni che prendiamo?

In che maniera la dopamina ci informa che non vale la pena aspettare per fare qualcosa? I risultati della ricerca suggeriscono una sua implicazione nel processo decisionale.

 

La dopamina influenza le nostre decisioni

Come facciamo a sapere se vale la pena aspettare in coda per ottenere un pasto al nuovo ristorante in città? Per fare questo il nostro cervello deve essere in grado di segnalare quanto sia buono il pasto e associare questa sensazione al ristorante. Questo avviene grazie ad un piccolo gruppo di cellule profonde nel cervello che rilasciano dopamina. La quantità di dopamina rilasciata da queste cellule può influenzare le nostre decisioni, è infatti un predittore della ricompensa futura. Ad esempio, viene rilasciata più dopamina sentendo il profumo di una torta in cottura rispetto all’odore degli avanzi.

Le azioni comportamentali appetitive sono influenzate dalla presenza di segnali associati a ricompense attraverso processi neurobiologici che coinvolgono il sistema dopaminergico mesolimbico (Salamone e Correa, 2012). I neuroni dopaminergici rispondono agli stimoli per segnalare informazioni prospettiche relative alla ricompensa, come la grandezza della ricompensa (Gan et al., 2010, Roesch et al., 2007, Tobler et al., 2005), la probabilità della ricompensa (Fiorillo et al. 2003, Hart et al., 2015), e l’attesa prima che una ricompensa venga consegnata (Day et al., 2010, Fiorillo et al., 2008, Roesch et al., 2007).

Durante l’attesa cambia il modo in cui viene rilasciata la dopamina?

Un nuovo studio pubblicato su Cell Reports, da Matthew Wanat, assistente di biologia presso The University of Texas a San Antonio (UTSA), fa luce sul funzionamento dei segnali dopaminergici cerebrali in relazione al trascorrere del tempo.

Nello studio di Wanat è stata utilizzata una tecnica chiamata voltammetria per registrare il rilascio della dopamina nel nucleo accumbens, in roditori addestrati mediante il condizionamento Pavloviano. Per questa registrazione sono state utilizzate due cue distinte con la funzione di segnalare il tempo trascorso dalla ricompensa alimentare precedente. Una cue è stata presentata dopo una breve attesa (15-20 sec.) mentre l’altra è stata presentata dopo un’attesa maggiore (65-75 sec.). Se il rilascio della dopamina evocata dalle cue trasmettesse solo informazioni sulle aspettative, non ci sarebbe alcuna differenza nella risposta dopaminergica tra una breve attesa e una lunghissima attesa perché entrambi i segnali indicherebbero la consegna di una ricompensa identica.

Ma Wanat e colleghi hanno scoperto che avveniva un maggior rilascio di dopamina dopo il periodo d’attesa più breve e hanno evidenziato due componenti della risposta dopaminergica: una diminuzione dei livelli di dopamina per tutto il tempo di attesa e un aumento del rilascio della dopamina con lo stimolo condizionato.

Lo studio si è focalizzato sull’identificazione dei segnali cerebrali che influenzano le decisioni che prendiamo. Wanat afferma che molte decisioni si basano sulla comparazione del valore tra stimoli associati a ricompense diverse. Ci sono molte prove che suggeriscono che questi segnali dopaminergici insieme agli stimoli esterni forniscono utili segnali, correlati al valore, che potrebbero influenzare le nostre decisioni e indurci ad attuare un determinato comportamento.

In sintesi, dai risultati della ricerca, si evince che la risposta dopaminergica  evocata dalle cue può riflettere un’integrazione di informazioni retrospettive e prospettive relative alla ricompensa per segnalare il tasso della ricompensa stessa.

Mentre Wanat ed i suoi collaboratori sono interessati a studiare come il rilascio della dopamina è coinvolta nell’innesco di un determinato comportamento, il loro lavoro potrebbe anche essere utile nella comprensione della tossicodipendenza, strettamente intrecciata con la dopamina.

Attraverso la comprensione del funzionamento del sistema dopaminergico in circostanze normali e anomale, si potrebbero identificare importanti cambiamenti e la maniera in cui poter intervenire, attraverso il sistema dopaminergico, nel rettificare le conseguenze di determinati comportamenti.

In generale la ricerca di Wanat si concentra sui rapporti del cervello con la memoria, lo stress e la tossicodipendenza e come queste componenti interagiscono tra loro. Egli è membro della UTSA Neurosciences Istitute, un’organizzazione di ricerca multidisciplinare per studi cerebrali integrati con la missione di promuovere una comunità collaborativa di scienziati impegnati a studiare le basi biologiche dell’esperienza e del comportamento umano e l’origine e il trattamento delle malattie del sistema nervoso.

Wanat è uno dei 40 ricercatori della Brain Healt dell’UTSA, un gruppo che comprende esperti in malattie neurodegenerative, circuiti cerebrali e segnali elettrici, lesioni cerebrali traumatiche, medicina rigenerativa, terapie delle cellule staminali, neuroinfiammazioni e psicologia. Insieme, stanno collaborando su complesse ricerche, su vasta scala, che forniscono una maggiore comprensione della complessità del cervello e dei fattori che causano il suo declino.

 

Controllo inibitorio e capacità di attesa: una breve introduzione

Nella letteratura scientifica si parla di capacità di inibizione o di controllo inibitorio per riferirsi ad un insieme di capacità che permette all’individuo di regolare il proprio comportamento, in modo da produrre una risposta adeguata rispetto all’obiettivo che ci si è posti o al contesto sociale in cui ci si trova.

 

Capacità di inibizione: una definizione generale

Nella letteratura scientifica si parla di “capacità di inibizione” o di “controllo inibitorio” (inhibitory control) per riferirsi ad un insieme di capacità che permette all’individuo di regolare il proprio comportamento, in modo da produrre una risposta adeguata rispetto all’obiettivo che ci si è posti o al contesto sociale in cui ci si trova.

Più precisamente, la capacità di inibizione è definita come l’abilità di reprimere un’azione dominante, o impulsiva, per metterne in atto una sub-dominante, più adattiva. Si tratta di un’abilità che tutti, in diversa misura, mettiamo in pratica nella vita di tutti i giorni. Pensiamo, ad esempio, a quando decidiamo di seguire una dieta, o a quando scegliamo di mettere da parte dei soldi per acquistare qualcosa che desideriamo molto. Entrambe queste situazioni riflettono un conflitto interno di fondo, un conflitto tra motivazioni opposte: da una parte, la tendenza ad avere una gratificazione immediata (reazione impulsiva), come mangiare una fetta di torta al cioccolato o spendere subito i propri soldi in cose futili; dall’altra, la motivazione ad “inibire” il comportamento impulsivo (risposta adattiva) per ottenere qualcosa di più significativo nel futuro, come tornare in forma o poter acquistare i biglietti aerei per un viaggio sognato da molto tempo. In entrambi i casi, la capacità di inibizione ci permette di ostacolare la risposta più impulsiva ed immediata e di ottenere una gratificazione maggiore, anche se questo significa posticiparla nel tempo.

Tale capacità è funzionale a molteplici attività e risulta correlata ad altri importanti processi cognitivi e sociali, come la memoria, l’attenzione, la socializzazione e la cooperazione. In genere, una persona che presenta più alti livelli di controllo inibitorio, possiede anche un maggiore livello di adattamento rispetto all’ambiente in cui vive, mostra maggiore competenza sociale e compie scelte più sagge. Infatti, una persona con un buon autocontrollo è più probabile che riesca ad inibire reazioni aggressive in situazioni conflittuali, a fare qualche sacrificio per il bene comune e a rispettare regole sociali condivise.

La capacità di inibizione in età evolutiva

La capacità di inibizione è molto complessa e la sua acquisizione avviene in modo molto graduale. Tuttavia, i primi segni di regolazione comportamentale si possono riscontrare sin dalla più tenera età. Infatti, già a partire dai 6-12 mesi di vita, ma soprattutto fra i 12 e i 18 mesi, il bambino comincia a comprendere le prime regole sociali, prevalentemente veicolate dalle sue principali figure di attaccamento. In questo periodo si può cominciare a notare nel bambino una sempre maggiore attenzione alle indicazioni dell’adulto e una progressiva aderenza alle richieste che arrivano dal mondo esterno.

Dai 2 anni in poi, il bambino mostra le prime capacità di attesa, ad esempio quando deve aspettare per poter giocare con un oggetto che a lui piace molto. In questa fase, è possibile osservare anche le prime forme di interiorizzazione di divieti e regole: anche in assenza dell’adulto, il bambino può provare a regolarsi da solo, tenendo a mente la voce della mamma che gli dice di fare o non fare qualcosa.

Il periodo in cui si avranno maggiori progressi nel campo dell’ autoregolazione e della capacità di inibizione, sarà comunque l’età prescolare, tra i 3 ed i 6 anni di vita. A questo punto del suo cammino evolutivo, il bambino sviluppa una sempre maggiore e forte capacità di controllare il proprio comportamento, in presenza e in assenza dell’adulto. Per questo, si passa da una regolazione basata prevalentemente sul sostegno dell’adulto ad una vera e propria auto-regolazione.

Il paradigma del ritardo della gratificazione

Nello scenario scientifico internazionale degli ultimi 30 anni, ha assunto particolare rilievo, nello studio delle capacità inibitorie dei bambini in età prescolare, il paradigma del “ritardo della gratificazione”. Il ritardo della gratificazione (o delay of gratification) richiama quanto esposto sopra e si riferisce alla capacità di ritardare una gratificazione immediata con lo scopo di ottenere una gratificazione più grande nel futuro. Uno dei primi ricercatori ad indagare tale costrutto è stato lo Psicologo austriaco Walter Mischel (Vienna, 22 febbraio 1930), che, tra gli anni ’70 e ’90, insieme ai suoi collaboratori, mise a punto una serie di compiti in cui veniva testata, con modalità differenti a seconda della tipologia di prova, la capacità di attendere in bambini prescolari. Fra tutti, preme ricordare la celebre prova del marshmallow test, presentata in un simpatico video in fondo all’articolo. In questa prova, il bambino è posto di fronte ad uno stimolo accattivante, ovvero una caramella (marshmallow) e gli si dice che, se vuole ottenere due caramelle anziché una, deve aspettare il ritorno dell’adulto. Se la vuole mangiare subito invece, può farlo, ma non otterrà la seconda caramella. Viene scelto uno stimolo altamente desiderato dal bambino per suscitare il conflitto motivazionale sopra-citato: da una parte il bambino vorrebbe mangiare subito la caramella (azione dominante o impulsiva), dall’altra, per averne di più, sa che dovrà aspettare del tempo (azione sub-dominante o adattiva).

Maggiori approfondimenti sulle implicazioni che l’ autoregolazione e le prestazioni in compiti di ritardo della gratificazione hanno a livello evolutivo, verranno presentati dall’autrice in successivi contributi, alla luce delle più recenti ricerche condotte a livello internazionale.

IL TEST DEL MARSHMALLOW – GUARDA IL VIDEO:

 

Recensione di Due mamme due papà. Un libro sulla genitorialità – Fluidsex

Una riflessione inclusiva, ancorata a studi scientifici, consigliata a chi è genitore, a chi vorrebbe esserlo e a chi vorrebbe meglio comprendere la genitorialità, in qualsiasi forma essa si presenti. L’autore, che vanta diverse pubblicazioni monografiche, oltre che su riviste internazionali e nazionali, è ricercatore universitario di Psicologia Clinica presso l’Università degli studi di Bari e tra i suoi prevalenti interessi di ricerca troviamo l’identità sessuale nelle sue diverse declinazioni e l’ omogenitorialità.

 

L’ omogenitorialità è differente dalla genitorialità eteroparentale?

Il presente manuale è tripartito. La prima sezione è dedicata alle rappresentazioni culturali negative sull’omosessualità. In una seconda parte l’autore si concentra sulla genitorialità e sulle funzioni che sottendono ad essa. Ed infine vi è una rassegna degli studi empirici sui figli di famiglie omogenitoriali.

Partendo dal presupposto che la famiglia non è un’entità esistente e definita per natura, ma un’istituzione prodotta dalla cultura del momento e per questo motivo in continuo mutamento, lo scopo dell’autore è quello di assumere un modello pluralista, capace di mettere in dubbio le fondamenta delle prospettive “infra-umanizzanti” e di superare gli stereotipi escludenti, legati al genere e all’orientamento sessuale.

A proposito dello sviluppo psicologico dei figli cresciuti in nuclei omogenitoriali, sono più soggetti allo sviluppo di psicopatologie?

A seguito dei diversi studi scientifici iniziati negli anni ’70, autorevoli associazioni scientifiche internazionali hanno espresso ufficialmente una propria posizione riguardo l’ omogenitorialità. Tra queste l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (AACAP), l’American Psychoanalytic Association (APsaA) e l’American Academy of Pediatrics (AAP). Quest’ultima, come riportato da Taurino, nel 2006 dichiara “I risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori”.

Come possono essere interpretati i risultati di questi studi, riassunti in questa autoritaria citazione dell’AAP? L’autore illustra come l’orientamento sessuale sia una dimensione autonoma rispetto alla genitorialità e che per questo motivo non va ad interferire con alcuna sotto-funzione genitoriale.

Come fa un bambino che nasce in una famiglia omogenitoriale femminile ad avere un punto di riferimento autorevole e normativo? E come fa un bambino che nasce in una famiglia omogenitoriale maschile a ricevere cura?

Quanto è stato detto per l’orientamento sessuale può essere sostenuto per il genere dei genitori. Non è l’identità di genere a determinare il ruolo e la funzione che il genitore andrà a svolgere con il proprio figlio. La dimostrazione del fatto che le funzioni ed i ruoli attribuiti al genere del genitore siano anch’essi un prodotto culturale, anziché “naturale”, sono gli attuali ruoli materni e paterni che, anche nelle famiglie eteroparentali, in seguito al cambiamento sociale dei ruoli femminili e maschili, non sono più delineati come lo erano in passato.

Un altro perno cruciale toccato da Taurino è un concetto sul quale sono state svolte più riflessioni in quanto prettamente connesso al tema delle adozioni: la generatività biologica. Essere genitori non implica necessariamente la procreazione di un figlio, così come la procreazione di un figlio non comporta automaticamente lo svolgimento di una funzione genitoriale.

Se la generatività biologica, il genere e l’orientamento sessuale di una persona non influiscono sulla genitorialità, cosa fa sì che un adulto sia in grado di esercitare una buona funzione genitoriale?

Taurino evidenzia come la genitorialità sia un sistema di competenze diviso in sotto-funzioni differenti: cura, garanzia delle funzioni di base, riconoscimento dei segnali di bisogno del figlio, riconoscimento della soggettività del figlio, protezione, sintonizzazione con l’altro senza fusioni, regolazione degli stati emotivi, funzione normativa e funzione predittiva.
Questi in elenco sono solo alcune tra le sotto-funzioni genitoriali riportate ed illustrate dall’autore. Esse sono inoltre arricchite da spiegazioni chiarissime di alcuni costrutti psicologici, adatti a chi fosse curioso di entrare nel mondo della psicologia dell’attaccamento e dello sviluppo o per studenti di psicologia alle prese con autori come Winnicott e Bowlby.

I figli di genitori omosessuali saranno a loro volta omosessuali?
I figli di genitori transessuali avranno più difficoltà ad identificarsi nel proprio genere di nascita?
Se studi empirici mostrano come figli di genitori omosessuali siano più predisposti al superamento di stereotipi legati al genere, possiamo considerare questo risultato una capacità del soggetto o è da considerare sintomo di confusione?
Come impatta l’omofobia sulla qualità di vita nelle famiglie omogenitoriali?

Per trovare risposta a queste ed altre domande e per approfondire i temi accennati in questa recensione BUONA LETTURA!

Inoltre, per chi volesse approfondire la parte degli studi scientifici sull’ omogenitorialità si consiglia la seguente lettura di approfondimento:
Patterson, C. J. (2005). Summary of research findings. Lesbian and gay parenting: A resource for psychologists. Washington, DC: American Psychological Association.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Una sfida alla didattica contemporanea: La Warm Cognition

Difficoltà nello studio e di concentrazione spesso sono associati a quadri di Disturbi Specifici dell’apprendimento o ad un deficit di attenzione e/o iperattività. Tuttavia l’apprendimento è un processo complesso e di studenti poco brillanti le scuole sono piene, senza che ciò sia indice di un disturbo neuropsicologico. Proprio da questa riflessione è nato il filone di ricerca che è poi sfociato sulla warm cognition della prof.ssa Daniela Lucangeli e dei suoi collaboratori all’università di Padova.

 

Da dove nasce la warm cognition

Ti ricordi la sensazione che ti pervadeva quando l’insegnante ti chiamava alla lavagna per risolvere un’equazione? Probabilmente, soprattutto nel caso in cui ciò che provavi era angoscia, lo ricorderai bene.
Ti sei mai chiesto perchè, anche da adulto, ti ricordi come se fosse ieri quell’insegnante che ti bloccava o quell’altro che, invece, è stato fonte di ispirazione? Perchè abbiamo ancora la sensazione della paura del compito in classe o quella dell’interrogazione?

Ecco una prima, superficiale, risposta: il nostro cervello non ricorda i contenuti, ma le emozioni. Le emozioni lasciano una traccia a lungo termine.
Ma analizziamo la questione più da vicino.

Difficoltà nello studio e di concentrazione spesso sono associati a quadri di Disturbi Specifici dell’apprendimento o ad un deficit di attenzione e/o iperattività. Tuttavia l’apprendimento è un processo complesso e di studenti poco brillanti le scuole sono piene, senza che ciò sia indice di un disturbo neuropsicologico. Proprio da questa riflessione è nato il filone di ricerca che è poi sfociato sulla warm cognition della prof.ssa Daniela Lucangeli e dei suoi collaboratori all’università di Padova.
Ciò che è emerso dai loro studi è estremamente interessante e ci invita ad una rivalutazione di ciò che è stata la didattica fino ad oggi.

Il processo di insegnamento e apprendimento all’interno dei circuiti neurali

Lo studio delle emozioni ci ha mostrato come esse abbiano luogo nel sistema limbico, in particolare nell’amigdala, e abbiano una funzione di allerta per l’organismo, fortemente legata alla sopravvivenza. E’ proprio questa attivazione dei centri sottocorticali dell’encefalo che determina la componente fisiologica dell’emozione (ad esempio: sudorazione, tachicardia, tensione muscolare, etc..), ma contemporaneamente lo stimolo viene valutato anche dalle cortecce associative che mettono in moto i processi di valutazione cognitiva della situazione emotigena, parti integranti dell’esperienza emotiva.
Se trasportiamo tutto questo ad una situazione reale possiamo capire come, ad esempio, se uno studente apprende sperimentando paura, la paura di sbagliare, il suo sistema di sopravvivenza si attiverà in futuro in modo tale da consentirgli l’evitamento di situazioni analoghe.
Questo accade perchè emozione e cognizione sono due facce della stessa medaglia, fortemente interconnesse fra loro che operano a livelli ancestrali.

L’avere compreso questo meccanismo ci ha portati al passo successivo, esattamente ciò che ognuno di noi ha esperito pensando a quando veniva chiamato alla lavagna dall’insegnante: l’attivazione emotiva genera memorie più durature.

Il cortocircuito emotivo

Se una nozione è stata appresa sperimentando paura, ogni qual volta verrà ripescata dalla memoria si attiverà nuovamente il vissuto emotivo corrispondente poiché apprendimento ed emozione hanno tracciato lo stesso percorso sinaptico, viaggiando insieme. Quindi mettiamo in memoria anche le emozioni, in questo caso, negative.

Ma mentre la nozione appresa finirà nella memoria procedurale o semantica, la memoria del sentimento di incapacità e inadeguatezza finirà nella memoria autobiografica, intaccando significativamente l’autostima e l’autoefficacia dell’alunno. Infatti il ripetersi di questo meccanismo per svariati anni scolastici porterà ad una stabilizzazione del circuito che è ciò che in psicologia si chiama fenomeno dell’impotenza appresa. Il bambino imparerà che non è capace ad eseguire quel dato compito, sentendosi impotente, e l’esperienza reiterata del fallimento gli darà conferma della sua incapacità innata. Ma ciò accade perchè l’emozione associata a quella funzione specifica si comporta da antagonista dell’apprendimento.

Cos’è la warm cognition

Ma quindi cos’è questa warm cognition? Mi piace pensarla come l’antidoto a questi cortocircuiti emozionali, come li chiama la prof.ssa Lucangeli. Letteralmente potremmo tradurla come “emozione calda”. Per dirla in maniera ancora più semplice, il sorriso.
Dobbiamo fare in modo di tracciare gli apprendimenti con delle emozioni positive e ciò può accadere soltanto se instauriamo un’alleanza con il bambino, in cui l’errore è il nemico da sconfiggere.

Ecco perchè è importante che l’insegnante si svincoli dalla categoria del giudizio, nel quale è stato relegato dal sistema educativo basato sulla valutazione quantitativa, uscendo quindi da quella dimensione giudicante che trasmette paura (del voto, dell’errore, etc..), senso di colpa, di incapacità.

Questa è la sfida che le neuroscienze lanciano alla didattica e alla scuola contemporanea. Formare gli insegnanti in modo tale che possano fare leva su emozioni positive come la motivazione allo studio, la gratificazione, il senso di autoefficacia. Questi meccanismi cognitivi, infatti, sono considerati dalla ricerca dei fattori predittivi positivi per il successo scolastico e favoriscono i processi di apprendimento.

 

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