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Co.Tu.Le.Vi., in Sicilia il contrasto alla violenza passa attraverso le lotte dell’associazionismo

La violenza, in tutte le sue forme, è storicamente oggetto di prevenzione e contrasto sia da parte di organismi statali che di Associazioni del privato sociale che fondano il loro operato sulla sensibilizzazione al rispetto dei diritti umani, un esempio in territorio siciliano è rappresentato dalle attività dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze (Co. Tu. Le. Vi.)

 

La violenza, in tutte le sue forme, è storicamente oggetto di prevenzione e contrasto sia da parte di organismi statali che di Associazioni del privato sociale che fondano il loro operato sulla sensibilizzazione al rispetto dei diritti umani, attraverso specifiche attività formative e/o di sostegno alle vittime di soprusi e aggressioni, volte a migliorare la qualità della vita delle persone sul piano morale, spirituale, psicologico.

Un esempio in territorio siciliano è rappresentato dalle attività dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze (Co. Tu. Le. Vi.), nata da un’ispirazione dell’attuale Presidente, la battagliera Aurora Ranno, che, il 12 Novembre 2012, dà avvio in Sicilia, in forma associazionistica a diffusione regionale, a un’iniziativa di solidarietà civile, già preannunciata il 28 Settembre 2009 dall’apertura del primo Sportello Antiviolenza di Trapani, all’interno del Tribunale della stessa città.

Un’iniziativa associazionistica che si rifà a imponenti documenti in difesa della dignità umana e che fissa nel suo statuto tutta una serie di azioni volte a raggiungere l’obiettivo della valorizzazione e tutela dei diritti umani.

Co.tu.le.vi. si ispira alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 – sottolinea Silvano Bartolomei, Responsabile dello Sportello Antiviolenza “Diana” di PalermoIn tal senso si prefigge di sostenere una varietà di diritti quali il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza individuale, attraverso azioni volte all’accrescimento della solidarietà morale, sociale e culturale, con un occhio di riguardo a famiglie bisognose, emarginate, lese nei diritti fondamentali. Attività prioritaria è stata fin da subito l’istituzione degli sportelli antiviolenza; nello specifico, quello di Palermo, inaugurato il 6 Dicembre 2013, attivo due volte alla settimana all’interno del Tribunale di Palermo, si avvale di figure tra le quali l’avvocato e lo psicologo che si avvicendano nel ricevere l’utenza che si sente violata nei propri diritti, al fine di percorrere la strada più idonea per estirpare condizioni radicate di disagio, come l’inserimento in Casa Famiglia.

Sicilia: la lotta contro la violenza passa attraverso associazioni come Co.Tu.Le.Vi. - Imm 2

Silvano Bartolomei- Responsabile Sportello Antiviolenza di Palermo

Con ventidue Sportelli Antiviolenza attivi in tutta la Regione, ciascuno competente per il proprio ambito territoriale provinciale, l’Associazione Co.tu.le.vi. mette al servizio della lotta contro crudeltà e ingiustizie un’équipe multidisciplinare formata da avvocati, psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, psichiatri, con specifiche connotazioni e offerte di servizio, a seconda delle province interessate, e con capofila l’esperienza di Trapani.

Grazie all’infinito lavoro degli operatori lo Sportello di Trapani è aperto da Lunedì a Venerdì tutte le mattine, osservando solo quindici giorni di riposo ad Agosto da parte della segreteria, ma, anche per quei giorni di sospensione, i nostri volontari sono reperibili per casi urgentissimi per rispondere alle richieste dell’utenza – sottolinea Ranno.

Un lavoro capillare svolto a stretto contatto con Questura e Carabinieri, e che sfrutta la competenza di un avvocato dell’Associazione stessa che prende in carico il caso e di uno psicologo.

Un lavoro destinato a intensificarsi nell’immediato futuro: il 22 Settembre ha visto la luce un nuovo sportello a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, senza contare le date dell’8 Ottobre, con l’apertura degli Sportelli Antiviolenza di Castelbuono e Pollina, mentre resta in attesa l’apertura dello sportello di Acquedolci, in provincia di Messina, e, ancora in fase progettuale, l’idea di istituirne uno anche a Geraci.

E se lo sportello Antiviolenza costituisce la colonna portante delle Attività Co.tu.le.vi. non meno importanti sono le attività di volontariato svolte a scuola e nei luoghi di reclusione.

All’interno delle scuole la nostra attività si svolge attraverso una varietà di progetti, in passato per esempio ci siamo occupati di spiegare ai ragazzi la differenza tra il processo penale minorile e la sua volontà riabilitativa, e il processo penale adulto, maggiormente volto a perseguire il reato con una pena adeguata – dice Bartolomei.

 

Co.tu.le.vi svolge la sua attività in difesa dei diritti anche in carcere: con un massimo di tre volontari e alunni delle scuole di Trapani mi sono personalmente recata presso la casa di reclusione di Trapani e Favignana, con l’autorizzazione del direttore del carcere, per avviare momenti di riflessione sul significato della pena e sull’importanza di vivere nella legalità. Un’esperienza forte che gli alunni hanno potuto realizzare respirando l’atmosfera dura, triste del carcere, e da qui comprendendo pienamente la sofferenza arrecata da scelte di vita lontane dalla civiltà e dal rispetto dei diritti – prosegue Ranno.

Sicilia la lotta contro la violenza passa attraverso associazioni come Co.Tu.Le.Vi. - Imm 1

Aurora Ranno – Presidente dell’ associazione Co.Tu.Le.Vi.

Compiti di sensibilizzazione elevati e proficui, che si scontrano con difficoltà e speranze, come in ogni esperienza che coinvolge l’uomo e la difesa della propria libertà.

Mi rammarica al momento non avere la possibilità di offrire compensi ai nostri volontari, vista l’importanza del materiale umano, ma siamo speranzosi di vincere un bando per dare finalmente un riconoscimento economico ai nostri volenterosi operatori e inquadrarli come collaboratori. Al momento, come Presidente, dopo valutazione con la tesoriera, e grazie a fonti come le donazioni, possiamo attribuire dei premi per i volontari, in occasione di eventi come convegni, sotto forma di rimborso spese.

E destreggiandosi tra burocrazie complesse e sensibilizzazione sul territorio Co.tu.le.vi porta avanti con ottimismo la battaglia contro abusi e violenze, una lotta che coinvolge in primo luogo i giovani, i ragazzi delle scuole, i quali, nell’accorato appello finale di Silvano Bartolomei:

Anche beneficiando dei nostri interventi di moralizzazione, devono cercare di capire la distinzione tra bene e male, la nozione di limite, in difesa della vita. Bisogna insomma far capire le conseguenze negative, illegali, dell’appiccare un incendio, ma, ancora più importante, nell’ottica della salvaguardia di un bene prezioso, bisogna insegnare loro la funzione, l’utilità, del bosco.

La Disforia di Genere: l’intervento psicologico con il paziente e con i familiari

Definito in un primo momento transessualismo, ribattezzato poi Disturbo dell’Identità di Genere e solo recentemente diventato Disforia di genere, tale condizione si presenta particolarmente complessa e unica nel suo genere ed esprime la sofferenza che accompagna l’incongruenza tra il genere esperito e quello assegnato biologicamente.

Federica Ferrari, Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Nel DSM IV-TR (APA, 2000), il transessualismo era concettualizzato come “Disturbo d’Identità di Genere”, nel DSM-5 (APA, 2013), invece, rientra nella categoria diagnostica “Disforia di genere”. Tale termine si riferisce al disagio affettivo e cognitivo in relazione al genere assegnato e per questo motivo è considerato più descrittivo rispetto al precedente, inoltre si concentra sulla disforia come problema clinico e non sull’identità in sé.

La diagnosi di Disforia di genere interessa gli individui che mostrano una marcata incongruenza tra il genere che è stato loro assegnato alla nascita e il genere da loro esperito e deve esserci evidenza di una sofferenza legata a questa discrepanza. La Disforia di genere si manifesta in modo differente nelle diverse fasce di età; negli adulti, in particolare, può esserci un desiderio di liberarsi delle caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie, e/o un forte desiderio di acquisire le caratteristiche sessuali del genere opposto. Si sentono a disagio se devono comportarsi come membri del genere che è stato loro assegnato e possono adottare a vari livelli il comportamento, l’abbigliamento e i manierismi del genere esperito.

La Disforia di genere può riguardare sia i soggetti di sesso femminile (female to male, FtM) che quelli di sesso maschile (male to female, MtF) ma è più frequente nella forma MtF con una sex ratio di circa 3:1 (Bandini, 2009).

Il trattamento della Disforia di genere

La pianificazione del trattamento di problemi legati al genere dipende da numerosi fattori tra cui la fase di sviluppo dell’identità transessuale, la conoscenza che il paziente ha delle diverse opzioni di gestione del problema e la presenza di eventuale comorbilità o problemi psicosociali. E’ importante infatti che, prima di trattare le questioni relative all’identità transessuale, si affrontino eventuali condizioni più urgenti che possono in qualche modo ostacolare il corretto svolgimento del trattamento della Disforia di genere (Bockting, Knudson e Goldberg, 2006).

Secondo Bocking e Coleman (1993) il miglior modello di trattamento dei pazienti con Disforia di genere dovrebbe comprendere cinque compiti fondamentali: assessment; management della comorbilità; facilitazione della formazione dell’identità; management dell’identità sessuale; valutazione dopo la cura.

Le varie opzioni terapeutiche comprendono:

  • psicoterapia (individuale, di coppia, familiare o di gruppo) con lo scopo di esplorare le varie identità/ruoli/espressioni di genere, modificare l’impatto negativo della Disforia di genere e dello stigma sociale sulla salute mentale, alleviare la transfobia interiorizzata, migliorare il supporto sociale, migliorare l’immagine del corpo, promuovere la capacità di recupero;
  • terapia ormonale;
  • chirurgia per modificare le caratteristiche sessuali primarie o secondarie;
  • cambio di espressione di genere (Meyer e coll., 2011).

Ci focalizzeremo sulla psicoterapia in questa sede.

La letteratura disponibile (Green e Fleming, 1990; Michel et al., 2002; Pfafflin e Junge, 1998) indica che un’adeguata psicoterapia a pazienti con Disforia di genere prima dell’intervento della chirurgia è predittiva di un positivo esito post-chirurgico.

Alcuni transessuali richiedono assistenza psicoterapeutica volontariamente, ad altri può essere raccomandata in previsione di una terapia ormonale o della chirurgia, anche se bisogna ricordare che negli Standards of Care della World Professional Association for Transgender Health (WPATH) la psicoterapia non è considerata un requisito necessario per ottenere l’intervento chirurgico (Meyer e coll., 2011).

Bockting et al. (2007) offrono degli spunti per la valutazione e il trattamento dei problemi di genere e delle difficoltà psicologiche associate. Le loro osservazioni si basano su un modello di “approccio transgender-affermativo, cura centrata sul cliente e riduzione del danno”.

Secondo la letteratura disponibile, non vi sarebbe un modello psicoterapeutico migliore rispetto ad un altro per il lavoro con pazienti transessuali; comunque è possibile identificare le questioni verso cui si deve indirizzare la terapia.

I professionisti della salute mentale, in base al loro orientamento teorico, possono usare diversi approcci terapeutici (Fraser, 2005) con lo scopo non di curare la Disforia di genere, ma di accompagnare il paziente nell’esplorazione della propria identità (Fenelli e Volpi, 1997), per garantirgli uno stile di vita stabile a lungo termine con probabilità realistiche di successo nelle relazioni interpersonali, nel lavoro e nell’espressione dell’identità di genere (Dèttore, 2005). Fondamentale è che il terapeuta sappia stabilire una relazione autentica in cui la persona possa sentirsi compresa e non giudicata (Bockting, Knudson e Goldberg, 2006).

All’interno del percorso terapeutico con i pazienti con Disforia di genere viene data particolare rilevanza all’esplorazione della storia di genere e dello sviluppo dell’identità transessuale per dare l’opportunità al soggetto di ristrutturare cognitivamente eventi significativi, validare le sue emozioni e rafforzare il senso di Sé. In alcuni casi il transessuale può chiedere di coinvolgere la famiglia nella terapia per esplorare e risolvere conflitti sorti in infanzia (Bockting, Coleman, Huang et al., 2006).

Un’altra area su cui è bene focalizzarsi in terapia è la transfobia interiorizzata, cioè quell’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi che una persona può provare nei confronti della propria transessualità. Le caratteristiche associate alla transfobia interiorizzata sono scarsa accettazione e stima di sé, sentimenti di inferiorità, vergogna, senso di colpa e l’identificazione con gli stereotipi denigratori. In questi casi l’obiettivo del terapeuta è rendere il paziente consapevole e promuovere l’accettazione di sé (Lingiardi e Nardelli, 2013).

Una volta che sono stati trattati questi aspetti e che il cliente ha deciso come gestire la sua disforia e la sua espressione di genere, la terapia si focalizza sul supporto dell’individuo nell’attuazione del suo progetto.

I risultati riportati da uno studio di Rachlin (2002) presentano cambiamenti positivi in seguito alla psicoterapia nell’87% dei soggetti intervistati; inoltre il livello di soddisfazione dopo il processo di transizione è migliore nel caso in cui la persona presenti una buona vita professionale, buone relazioni familiari, supporti sociali e stabilità emotiva.

Sebbene l’attuale normativa italiana non preveda la consulenza psicologica quale passaggio obbligato nell’iter per l’ottenimento della rettificazione anagrafica del sesso, è ormai prassi consolidata, nella maggior parte dei casi, il ricorso a essa. Bisogna infatti considerare la sofferenza di chi si trova a vivere il proprio corpo come un estraneo, i vissuti di incertezza e le sensazioni di confusione che possono accompagnare tale condizione; a tutto ciò si aggiunge la presenza di vicende dolorose e traumatiche che spesso costellano la vita delle persone transessuali.

Non sempre però il lavoro psicologico nel campo del transessualismo si rivela praticabile. Le difficoltà sembrano potersi ascrivere al fatto che, raramente, il paziente transessuale porta allo psicologo spontaneamente una domanda di esplorazione di sé, ma si rivolge ad esso su richiesta di un terzo, ossia dell’istituzione incarnata nel giudice. In questa situazione si crea, tra soggetto e operatore, una difficoltà relazionale di fondo in cui il lavoro psicologico viene inteso solo come una sorta di test. L’obiettivo è quindi superare la costante impasse iniziale, spostando l’asse del dialogo da quello “corpo sociale/giudice-psicologo” a quello “utente-psicologo”. Da una parte la persona transessuale dovrebbe essere aiutata a percepire l’operatore come qualcuno con cui, stabilendo un dialogo, prendere contatto con parti di sé confuse e sofferenti, dall’altra lo psicologo dovrebbe andare al di là della logica del sospetto (Alzati, 2004) che rischia di inficiare il suo lavoro (Vitelli et al., 2006).

Modelli di intervento con i familiari

Gli studi che si propongono di analizzare i vari aspetti del transessualismo dalla prospettiva dei cosiddetti SOFFAs (Significant Others, Family, Friends or allies of transgender persons) sono ancora molto limitati e di conseguenza più che dei trattamenti, esistono delle linee guida a cui fare riferimento per aiutare la famiglia del paziente transessuale ad affrontare le varie fasi del percorso.

Raj (2008) ha proposto un modello di trattamento, il Trans-formative Therapeutic Model (TfTM), specifico per questa popolazione che comprende diverse strategie educative e terapeutiche. La parola “trans-formative” vuole dare maggiore enfasi al concetto di cambiamento inteso come modificazione della struttura interna ma anche della forma esteriore e in questo caso si riferisce alla trasformazione della coppia e della famiglia.

Il modello si focalizza sul trattamento e sull’aspetto supportivo più che sul processo vissuto da coppie e famiglie in trasformazione, nonostante questi siano legati insieme inestricabilmente.

Raj (2008) per sviluppare la sua ipotesi di trattamento ha utilizzato altri due modelli di riferimento, il Family Emergent Stages Model (Lev, 2004) e il modello di Tuckman (1965), che invece si concentravano maggiormente sulle fasi affrontate dalle famiglie dei pazienti con Disforia di genere durante tutto il periodo della transizione.

Un ulteriore approccio è quello proposto da Zamboni (2006), psicologo clinico del Minnesota, che ha ideato un seminario per aiutare chi sta accanto al paziente transessuale.

Principi del Trans-formative Therapeutic Model

Il TfTM (Trans-formative Therapeutic Model) è un approccio di supporto che non solo può dare beneficio alle persone transessuali ma serve anche a ridurre i sentimenti di ansia, confusione, incertezza e isolamento provati dai partner e dall’intera famiglia.

I capisaldi del modello sono:

  1. Identificazione degli obiettivi del trattamento;
  2. Ascolto (ascoltare attivamente le storie dei partner/membri della famiglia, conoscere sia il passato che il presente);
  3. Validazione (validare gli affetti positivi e negativi sia dei soggetti transessuali che dei loro cari);
  4. Confronto (discutere gli stereotipi sulla diversità di genere e lo status quo usando interventi psico-educativi come la strategia del continuum);
  5. Ridimensionamento (abbandonare il paradigma esistente per cambiare la cornice di riferimento verso un pensiero flessibile e innovativo);
  6. Trasformazione (attraverso continui tentativi di adattamento e negoziazione la coppia/famiglia evolve e si trasforma o trovando soluzioni e rimanendo intatta oppure disgregandosi);
  7. Strategia (gestione concreta sul piano sociale dei piani di aiuto, dell’identità, dei cambiamenti della famiglia);
  8. Riferimenti clinici (fornire appropriate indicazioni cliniche come l’assessment psichiatrico o altri interventi clinici utili);
  9. Riferimenti nella comunità (supporto legale, aiuto dalla comunità di pari);
  10. Supporto continuo (pratico ed emotivo);
  11. Valutazione dei risultati (monitorare e valutare costantemente i risultati del trattamento sulla coppia o sulla famiglia).

Il cuore del TfTM di Raj (2008) è rappresentato dalla “strategia del continuum”, un intervento educativo e terapeutico che serve a validare la naturale diversità comportamentale e culturale dell’uomo. Questa strategia è stata declinata in diversi modi da Raj (2002; 2003), uno di questi è  “ Il Continuum dal Diniego all’Accettazione alla Celebrazione” (Raj, 2003).

Nella pratica comprende una serie di interventi che idealmente dovrebbero aiutare i partner e la famiglia degli individui in trasformazione a passare dal rifiuto all’accettazione e fiduciosamente alla celebrazione. Infatti, grazie ad una comprensione sempre più avanzata dell’altro si possono modificare credenze illogiche e acquisire nuovi importanti valori come la tolleranza e l’apprezzamento della diversità.

Il Family Emergent Stages Model

Il Family Emergent Stages Model (Lev, 2004) prevede che all’inizio vi sia il difficile momento della rivelazione con tutte le reazioni e le emozioni che ne conseguono, seguito dalla confusione e dal tormento per una vita sconvolta. Successivamente si apre la fase di negoziazione, in cui si cerca di trovare il modo migliore per convivere con la nuova identità di genere del partner; infine si arriva ad un equilibrio, che non significa aver trovato una soluzione permanente ai problemi emersi o aver superato le difficoltà emotive, ma aver trovato un compromesso per gestire la situazione giorno dopo giorno.

Il modello di Tuckman

Il modello di Tuckman (1965) propone un interessante parallelismo tra le relazioni in trasformazione, le dinamiche familiari e le classiche fasi di sviluppo del gruppo:

  1. Formazione. Questa fase può essere paragonata nello sviluppo umano all’infanzia nonché al momento della rivelazione per i transessuali. Coesistono eccitazione e ansia per l’ignoto e i membri esplorano quali comportamenti sono accettabili per il gruppo e come inserirsi. Ci sono problematiche di inclusione, ostracismo, accettazione e rifiuto.
  2. Conflitto. Questa è la fase del conflitto, del controllo e della resistenza e nella psicologia dello sviluppo è rappresentata dall’adolescenza. A causa dell’insofferenza verso l’autorità e verso le norme, nascono controversie, critiche al potere e ostilità. Nel percorso delle famiglie di pazienti transessuali è la fase dei tormenti e delle preoccupazioni.
  3. Normalizzazione. Fase di trasformazione simile alla prima età adulta e alla negoziazione per le famiglie di pazienti transessuali. Un evento catalitico permette di passare dalla somma di individualità alla collettività, i membri iniziano ad accettare le differenze e nasce l’idea di lavorare come un team. Si consolidano regole implicite ed esplicite che il gruppo approva e che aiutano a muoversi come un sistema coeso.
  4. Azione. Fase analoga all’età adulta e a quella del raggiungimento dell’equilibrio per le famiglie in trasformazione. Il gruppo ha sviluppato la capacità di risolvere i problemi, tollerare le diversità, prendere decisioni e collaborare. Gli aspetti centrali di questa fase sono l’impegno profondo, il rispetto e le cure reciproche.

E’ stata poi aggiunta una fase al modello (Allen et al., 1995), paragonata alla tarda età adulta: il congedo. I gruppi spesso prima di dissolversi esperiscono ansia da separazione e afflizione simile a quella provata per altre perdite durante la vita. Caratteristici di questa fase sono il senso di perdita e lutto, la difficoltà a separarsi e la paura per il futuro. Questo momento di disgregazione può essere attraversato oppure no, dipende dalle specifiche dinamiche di trasformazione della famiglia transessuale.

Il seminario di Zamboni

Il seminario sviluppato da Zamboni costituisce uno spazio sicuro per i SOFFAs, dove poter condividere pensieri, dubbi ed emozioni durante il percorso di adattamento alla transizione del loro caro. L’obiettivo è fornire informazioni e supporto e non è prevista la partecipazione delle persone transessuali, proprio per garantire ai SOFFAs uno spazio personale dove esprimere liberamente i propri sentimenti.

All’inizio del percorso i membri della famiglia vengono introdotti nel vocabolario della comunità transgender, vengono forniti dati relativi ad alcune ricerche sul transessualismo, nozioni sullo sviluppo dell’identità di genere e cenni sulle opzioni di trattamento. Partner e membri della famiglia possono così conoscere meglio le problematiche transessuali e smettere di incolpare se stessi o altri per la Disforia di genere del loro caro.

Il seminario prevede delle attività fatte in piccoli gruppi come guardare dvd che illustrano le sfide sociopolitiche e culturali che i transessuali affrontano quotidianamente e scrivere una lista di cosa è o non è cambiato nella persona transessuale. I SOFFAs vengono poi invitati a scrivere (o almeno ad iniziare a scrivere) una lettera in cui dicono addio alla vecchia identità del loro amato e danno il benvenuto a quella nuova.

Infine ai partecipanti vengono menzionati dei modelli di adattamento familiare su cui poi si instaurerà un dibattito dove i membri della famiglia potranno raccontare le proprie esperienze.

Durante il seminario si esplorano le modalità di comunicazione familiare, le abilità di problem-solving e viene dato ampio spazio a dubbi e domande (Zamboni, 2006).

Libero arbitrio: quali elementi riducono il processo di libera scelta? – Coscienza e comportamento

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale è come processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Nei precedenti articoli abbiamo esplorato diverse sfaccettature del rapporto tra coscienza e controllo del comportamento. In conclusione possiamo ipotizzare di essere dotati di un libero arbitrio limitato, inteso come capacità di fare scelte indipendentemente da pensieri, emozioni, genetica, traumi, tratti di personalità e tutto il resto.

Elementi prossimali che possono ridurre questo processo di libera scelta sono: convinzioni sull’ incontrollabilità delle nostre reazioni, basso livello di consapevolezza (l’attenzione è altrove), alto carico cognitivo, scopi irrealistici circa l’assenza di pensieri ed emozioni negative come requisito per la libera decisione, utilizzo di strategie controproducenti per decidere come rimuginio e soppressione dei pensieri.

Quali di questi aspetti sia più o meno rilevante resta ancora da stabilire, ma proprio mentre concludo questa piccola serie di riflessioni mi capita di pescare un articolo interessante che mi era sfuggito e che vale la pena di essere menzionato.

Gli Autori (Job, Dweck & Walton, 2010), in una serie di brillanti studi sperimentali, mostrano come le teorie degli esseri umani sulla propria forza di volontà moderino gli effetti di esaurimento delle risorse cognitive. Persone che hanno convinzioni metacognitive positive sulla disponibilità di libero arbitrio (es. anche dopo un lavoro estenuante puoi ancora regolare tranquillamente il tuo comportamento) erano meno sensibili agli effetti negativi degli sforzi di autoregolazione precedente su quelli successivi.

Insomma, più siamo convinti di aver potere sui nostri impulsi, meno le nostre risorse cognitive si esauriscono sotto sforzo. Se pensiamo che la nostra mente sia ormai vittima della storia o della genetica e che non possiamo cambiare allora, senza volerlo, rischiamo di rinunciare a ottimizzare l’espressione del nostro libero arbitrio.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

5 – Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

6 – L’ autocontrollo e il dispendio di risorse mentali: rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero

7 – Libero arbitrio: quali elementi riducono il processo di libera scelta? – Coscienza e comportamento

La caffeina può alleviare i sintomi motori del Morbo di Parkinson?

Contrariamente alle ricerche precedenti, un recente studio dichiara che la caffeina non può alleviare i sintomi motori presenti nelle persone affette da morbo di Parkinson.

 

La caffeina non genera una riduzione dei sintomi motori del morbo di Parkinson

Uno studio precedente, pubblicato nel 2012, ha suggerito che la caffeina può contribuire a ridurre i sintomi motori nelle persone con malattia di Parkinson. Questo studio era composto da un campione esiguo ed è stato svolto in sole sei settimane, di conseguenza i risultati necessitavano di maggiori approfondimenti.

La caffeina è stata legata a un rischio ridotto di sviluppare il Parkinson“, ha detto l’autore Ronald B. Postuma, membro dell’Accademia Americana di Neurologia. “Quindi è stato emozionante pensare che la caffeina potrebbe aiutare le persone già affette dalla malattia”.

Lo studio ha coinvolto 121 persone con un’età media di 62 anni alle quali era stata diagnosticata la malattia di Parkinson da almeno quattro anni.
Di questo campione, alla metà è stata somministrata una capsula di caffeina da 200 milligrammi due volte al giorno, una volta al mattino e una volta dopo pranzo, equivalente a tre tazze di caffè al giorno, mentre all’altra metà è stata somministrato un placebo. Per aiutarli ad adattarsi, la dose è stata aumentata lentamente, fino a raggiungere 200 milligrammi alla nona settimana. I partecipanti allo studio sono stati seguiti per circa 18 mesi.

I ricercatori hanno scoperto che non c’era miglioramento nei sintomi di movimento per le persone che avevano assunto le capsule di caffeina rispetto a coloro che avevano assunto il placebo. Non c’era inoltre alcuna differenza in termini di qualità della vita.

Il nostro precedente studio ha mostrato un possibile miglioramento dei sintomi, però lo studio è stato più breve, quindi è possibile che la caffeina possa avere avuto un beneficio a breve termine che si sia poi dissolto a medio termine“, ha detto Postuma.

Una limitazione di questo studio è stata che i ricercatori non hanno misurato la caffeina nel sangue delle persone durante la ricerca. Inoltre, la dose scelta è stata basata su studi precedenti ed è possibile che una dose più alta possa avere effetti diversi.

La psicologia del rock. Crescere con la musica in adolescenza – Recensione

Si tratta di un bel saggio che analizza il vasto ed articolato rapporto tra musica e adolescenza, scritto in modo rigoroso da un giovane psicologo (e musicista). Considerato il rapporto odierno tra gli adolescenti e la musica (ascoltata prevalentemente in cuffia), ci sarebbe stato bene anche il titolo “La psicologia del rap”, ma in questo ambito la parola “rock” non fa riferimento solo ad un preciso genere musicale, ma forse anche a un’attitudine ad integrare la psicologia con la musica, sfruttandone l’enorme potere di medium educativo e di stimolo emozionale.

 

I contenuti e la struttura del libro ” La psicologia del rock “

Il volume è diviso in quattro capitoli: il primo analizza il fenomeno adolescenziale dal punto di vista psicologico, il secondo e il terzo parlano del rapporto tra adolescenti e musica, mentre il quarto (il più “sperimentale” e interessante a mio avviso) illustra una proposta concreta di progetto psicoeducativo attraverso la musica, che dovrebbe coinvolgere uno psicologo esperto di musica (il cosiddetto “psicologo del rock”), un insegnante di musica e un gruppo di adolescenti. In questo tipo di esperienza i conduttori del gruppo assumono il ruolo di educatori musicali e facilitatori dell’ascolto (ed esecuzione) di canzoni, che vengono scelte per i contenuti evocativi e per la possibilità di stimolare riflessioni costruttive, in un clima reso più leggero e informale dalla presenza della musica.

Nel libro vengono inoltre analizzati dal punto di vista psicologico e sociale interessanti fenomeni musicali come la “liturgia” del concerto rock, che nel mondo secolarizzato di oggi raggiunge aspetti quasi spirituali e l’identificazione degli adolescenti con le star musicali (che “rappresentano il manifesto vivente di amare e sentirsi amati”). Ci sono anche ampie parti dedicate alla storia del rock e all’evoluzione della scena musicale, da Woodstock fino all’attuale rivoluzione digitale della “musica liquida”. Da segnalare infine alcuni accenni interessanti a studi sul rapporto tra genere musicale prediletto e sostanze di abuso.

Come viene ricordato puntualmente nella conclusione del libro “La musica è uno dei mezzi espressivi attraverso cui l’adolescente cerca risposte al bisogno di affermazione e costruzione della propria identità” e rappresenta uno strumento prezioso che può essere utilizzato da parte di operatori della salute, insegnanti e genitori per migliorare la relazione coi ragazzi.

Il mio papà è in carcere. Genitorialità e interventi possibili

Genitori in carcere: Nessun percorso genitoriale determina per forza un passaggio all’atto deviante, ma avere un genitore in carcere – e quindi assente, per vari motivi – espone a considerevoli rischi di vario tipo (Greif, 2015). Avere uno dei genitori in carcere aumenta le probabilità di commettere attività illecite già durante la minore età; per esempio, un bambino in questa condizione ha più probabilità di rubare rispetto ad uno con lo stesso background ma senza il problema del carcere.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi di Bolzano

 

Genitori in carcere: la situazione generale attuale

Più di due milioni di bambini nei Paesi del Consiglio d’Europa incontrano uno dei genitori in carcere, in un posto che per loro non è familiare, che potenzialmente potrebbe causare traumi, con regole e orari che non rispettano le loro normali esigenze; in Italia, sono 100 mila, 40 dei quali rimangono in maniera permanente in istituto con la madre, secondo una specifica legge che lo consente (Bambini Senza Sbarre, 2016).

Negli Stati Uniti, 1,5 milioni di bambini, con un’età quindi inferiore ai 18 anni, ha un padre in carcere (Greif, 2015). Il 2,3% dei bambini americani -e il 6,7% dei bambini afroamericani- ha attualmente uno dei genitori in carcere, e naturalmente le stime aumentano se si considerano quelli che l’hanno avuto in passato. Il 42% dei padri e il 62% delle madri viveva con i propri figli prima di venire arrestato. I bambini sono quindi esposti al trauma della separazione da uno dei caregivers primari: ciò comporta uno stress emotivo, cambiamenti rispetto al luogo in cui vivono, ma anche lo stigma rispetto alla situazione del genitore, che comprende aspettative negative sul loro futuro e la possibilità di commettere gli stessi errori (Murray,2012).

Nel Regno Unito, una stima che si aggira tra il 25 e il 50% di tutti i giovani detenuti (con una media di 20 anni di età) indica questi come padri: genitori così giovani costituirebbero una categoria particolarmente vulnerabile, per la più elevata probabilità di provenire da background di deprivazione e di aver sperimentato relazioni familiari precoci disfunzionali (Meek, 2007).

Sempre in U.K., una ricerca ha mostrato come quasi la metà delle persone detenute perda i contatti con la propria famiglia mentre si trova in carcere (National Association for Care and Resettlement of Offenders, 2000). Ciò assume un particolare rilievo se si tiene conto del fatto che la recidiva di chi ha 20 anni è del 72% nei 24 mesi successivi alla scarcerazione, ma si riduce fino a sei volte per quei genitori che rimangono in contatto con i familiari (Social Exclusion Unit, 2002; Ditchfield, 1994).

Ma cos’è la genitorialità? E soprattutto, perché ha senso valutare il rapporto con i padri?
Si parla innanzitutto di un concetto che ha ricevuto numerose definizioni. Ad esempio in letteratura, troviamo come definizione generica di genitorialità la seguente: “attività che assicurano la sopravvivenza e lo sviluppo dei bambini” (Hoghughi & Long, 2004). Vi sono anche spiegazioni più attente come quella di un qualcosa “non riducibile alle qualità personali del singolo genitore, ma che comprende anche un’adeguata capacità relazionale e sociale. Questa competenza implica saper interagire con il bambino in modo protettivo, rassicurante, rispettando però le sue esigenze” (Camerini et al., 2011).

Nonostante una tradizionale automatica connessione tra l’idea del parenting e la figura della madre, quella del padre ha ottenuto nel corso degli anni una crescente attenzione e graduale riconoscimento di importanza (Day et al. 2005).

La visione dei genitori

L’aspetto della genitorialità vissuta in carcere è un argomento delicato, non solo per il minore che si trova ad affrontare l’assenza del padre e i conseguenti numerosi interrogativi, ma anche per la persona detenuta, che non sempre ha la possibilità di elaborare e confrontarsi con questa tematica. Sviluppare delle competenze in tal senso appare uno degli aspetti da prendere in considerazione sia al fine di un più positivo reinserimento in società per chi sconta una pena di reclusione, sia per il benessere dei figli, insieme all’attività di mediazione con la famiglia, alla costruzione di spazi “a misura di bambino” prima e durante i colloqui, alla riduzione dell’impatto traumatico della separazione e degli incontri ecc.

Hairston (1989) riporta che, anche se negli U.S.A. solo un terzo dei detenuti con figli ne riceveva visite, ben l’80% desiderava partecipare a programmi inerenti le skills genitoriali. Le visite regolari continuano a rimanere riservate a pochi anche più recentemente, mentre la maggior parte ricorre a telefonate e lettere (Mumola, 2000). L’impossibilità o la scelta di non svolgere colloqui con i minori, è spesso da ricondurre a svariati motivi, ad esempio la decisione di non introdurre i figli in ambiente detentivo-soprattutto se piccoli-, ai rapporti conflittuali con la madre degli stessi, o ai costi dei viaggi per le visite, motivi che quindi non corrispondono necessariamente all’intenzione di sottrarsi ai compiti genitoriali (tra gli altri, Shlafer & Poehlmann, 2010).

Genitori in carcere: quali rischi per i minori?

Nessun percorso genitoriale determina per forza un passaggio all’atto deviante, ma avere uno dei genitori in carcere – e quindi assente, per vari motivi – espone a considerevoli rischi di vario tipo (Greif, 2015).

Avere uno dei genitori in carcere aumenta le probabilità di commettere attività illecite già durante la minore età; per esempio, un bambino in questa condizione ha più probabilità di rubare rispetto ad uno con lo stesso background ma senza il problema del carcere. Ciò vale anche per coloro che hanno uno dei genitori che commette reati, ma che non è in carcere (Murray et al. 2012).

I principali sintomi che questi bambini sviluppano vengono identificati sia come internalizzanti che esternalizzanti e spesso legati a difficoltà scolastiche (Murray & Farrington, 2008): bambini con questo tipo di esperienza manifestano comportamenti problematici a partire dall’adolescenza con maggiore probabilità rispetto a chi ha subito una separazione dal padre o dalla madre per motivi diversi.

Nello studio di Gabel e Shindledecker (1993) sono stati valutati bambini con almeno un genitore con esperienza di detenzione: rispetto al gruppo di controllo, in tali bambini aumentava la possibilità di subire abusi o maltrattamenti, di sviluppare comportamenti aggressivi (per i maschi) e problemi di attenzione (per le femmine). L’associazione con comportamenti antisociali nel corso della crescita era già stata evidenziata da precedenti studi (Rutter et al., 1983).

Un’ipotesi alternativa a queste teorie deriva da uno degli autori già citati, Gabel (1992): l’autore spiega come gli effetti negativi a lungo termine a carico dei minori possano essere legati alla natura estremamente disfunzionale che vivevano in famiglia già prima della carcerazione del genitore. In questi casi, risulterebbe forse ancora più importante fornire a questi padri la possibilità di conoscere modalità interattivo-relazionali alternative a quelle abitualmente messe in atto.

Fonagy (1991) riconduce alla qualità dell’attaccamento la possibilità che si sviluppino percorsi delinquenziali: in altre parole, un attaccamento sicuro con il caregiver faciliterebbe l’acquisizione della moralità, la capacità metacognitiva di comprendere il punto di vista dell’altro e la funzione riflessiva. Diventa quindi essenziale lavorare sul potenziamento delle abilità metacognitive e su risposte adeguate nell’interazione con i minori durante i percorsi psicologici rivolti ai genitori in carcere (anche quando i contatti sono sporadici). Ciò è peraltro in accordo con la teoria dell’attaccamento così come formulata da Bowlby, per cui la separazione del bambino dal padre in seguito alla carcerazione incide negativamente sulla naturale tendenza a mantenere la vicinanza con il caregiver per assicurarsi la protezione (Bowlby, 1980) e con i risultati di Poehlmann (2005) secondo i quali la maggior parte di questi bambini manifesta un attaccamento insicuro.

Un fattore protettivo rispetto alla comparsa di comportamenti problematici è rappresentato dalla percezione di un atteggiamento caldo e accettante da parte di quelle persone che si occupano del bambino (Mackintosh et al., 2006): questo risultato si può estendere anche ai genitori che stanno scontando una pena, qualora siano in contatto con i minori. Anche vedere il genitore con costanza durante i colloqui –soprattutto in adolescenza- riduce il rischio di drop-out scolastico (Trice & Brewster, 2004).

Shlafer e Poehlmann (2010) hanno condotto uno studio longitudinale sui figli di genitori in carcere, seguendoli in maniera continuativa con un programma di mentoring e focalizzandosi sulla qualità della relazione genitore-figlio.

Se i genitori riportano la percezione di sensazioni positive nei figli dopo le visite, l’impressione di questi ultimi è invece molto variabile: quasi la metà dei minori rimanda a sentimenti positivi o nostalgia, mentre altri manifestano rabbia e risentimento, o si dicono confusi rispetto al rapporto con la madre o il padre. Alcuni operano un vero e proprio distanziamento, scegliendo di non parlare del tema o minimizzandone i contenuti emotivi. Nessun bambino di questo studio definisce la visita in carcere positiva, manifestando la percezione di una sorta di “artificiosità” della situazione, in cui il genitore non si comporterebbe in maniera naturale, oppure spiegando che in quel lasso di tempo spesso i genitori discutono tra loro lasciando poco tempo all’interazione genitore-figlio.

Anche situazioni di incertezza – come dubbi circa la possibilità di effettuare i colloqui o di ricevere regolari telefonate- suscita emozioni negative di caos e frustrazione nei minori e in chi se ne prende cura all’esterno del carcere. Gli insegnanti di questi bambini riferiscono di comportamenti bullizzanti, spesso inadeguati con i pari e rispetto alla scuola, episodi depressivi e regressioni nello sviluppo o bassa autostima. Dalle diverse parti coinvolte, emerge la percezione di stigmi legati alla condizione del genitore, che rischiano di determinare “profezie che si autoavverano”. Nonostante le problematiche descritte, più sono regolari i colloqui e più diminuiscono aggressività e alienazione: un’ipotesi delle autrici è che tali miglioramenti siano più significativi nei figli più grandi, che sono in grado di capire maggiormente la situazione e che sintomi di acting out possano essere interpretati come una richiesta di aiuto nella regolazione dell’emotività.

I gruppi di sostegno e le iniziative

Una serie di numerosi studi ha evidenziato come corsi e gruppi per genitori in carcere conducano a risultati positivi in termini di conoscenze, capacità e autostima nei padri, ma anche di auto-percezione nei bambini (Meek, 2007).

Nei gruppi di sostegno a Baltimora, viene chiesto ai padri com’era la loro situazione familiare di origine e cosa vorrebbero trasmettere di positivo ai loro figli. I partecipanti sono padri di età compresa tra i 20 e i 40 anni, aventi situazioni molto diverse riguardo la loro famiglia di origine: alcuni non hanno mai conosciuto il loro padre, altri lo frequentavano ma viveva fuori casa con contatti sporadici, altri ancora lo hanno visto lasciare il tetto coniugale oppure altri hanno vissuto con entrambi i genitori. All’interno di questo gruppo variegato esprimono più preoccupazione e dolore coloro che non hanno avuto un padre e che spesso hanno avuto come mentore colui che li ha introdotti nel mondo della droga o del crimine; per tale categoria di padri è molto difficile elaborare un’idea di come potrebbe essere un padre (Greif, 2015).

Harrison (1997) ha valutato gli effetti di un programma sulla genitorialità, in particolare su attitudini ed abilità di padri detenuti e sull’auto-percezione dei figli. Il programma è durato un mese e mezzo, per un totale di 7,5 ore a settimana, ed ha coinvolto una vera e propria formazione sullo sviluppo del bambino sin dalla gravidanza, ma anche e soprattutto un forte coinvolgimento attivo dei genitori nella discussione su rapporti e dinamiche familiari. I risultati hanno mostrato un aumento delle capacità di parenting e un miglioramento nel comportamento del genitore, mentre appaiono non significativi gli effetti sui minori.

Chi partecipa a programmi che aiutano a mantenere le relazioni familiari ha meno probabilità di tornare in carcere e – mentre è recluso- manifesta meno problematiche di disciplina (Bayse, Algid, Van Wyk, 1991); avere buone relazioni con l’esterno, conduce più facilmente ad un successo nella riabilitazione e abbassa la recidiva (Carlson & Cervera, 1991).

Meek (2007) ha condotto gruppi con una media di 8 partecipanti dai 18 ai 21 anni di età. Nonostante si sia evidenziato un maggior risultato con progetti a lungo termine, l’autrice spiega come sia importante promuovere anche percorsi più brevi e intensivi per riuscire a coinvolgere un più elevato numero di partecipanti. I gruppi riguardavano tematiche inerenti la cura dei bambini, la gravidanza, ma anche temi inerenti aspetti legali, la violenza domestica e le modalità con cui mantenere i contatti con i figli prima e dopo la scarcerazione. I padri che hanno partecipato sono stati coinvolti attivamente anche nella definizione delle tematiche, in modo da adattare gli incontri in funzione delle diverse situazioni, con l’utilizzo di tecniche diversificate, quali lavori individuali e di gruppo, discussioni, quiz e role-playing. I gruppi hanno ricevuto valutazioni estremamente positive in termini di utilità, mentre è stata sottolineata la necessità di visite più lunghe e più frequenti con i bambini, con più supporto nel mantenere il legame e nel gestire le difficoltà emotive dell’essere un padre in carcere, anche attraverso percorsi come quello svolto.

In Italia esistono ad oggi alcune iniziative come quella di “Spazio Aperto Servizi”, che, presso il carcere di Bollate dal 2005, svolge una sperimentazione per creare un ambiente più favorevole a quei minori che vivono l’esperienza di avere uno dei genitori in carcere. Il progetto prevede l’intervento di psicologi che seguono il genitore in un percorso di sostegno, ma anche famigliari e figli con un supporto durante le visite in carcere. Queste ultime vengono svolte nella “stanza dell’affettività”, un’area protetta e pensata per le esigenze dei minori (Progetto “La porta aperta del carcere: famiglia e territorio in rete”, ASLMi1).

Il momento del reinserimento

Alcuni autori si sono occupati anche del periodo post-carcere, cercando di evidenziare anche la necessità di un sostegno successivo al ritorno in famiglia.

Tra questi, Meek (2007) ha valutato il tipo di supporto da fornire ai genitori una volta usciti. Molti ritengono di non necessitare di alcun tipo di percorso all’esterno e questo rappresenta una sfida per chi si occupa di reinserimento, poiché il momento successivo alla scarcerazione rimane un periodo vulnerabile per la relazione con i figli e il rischio di recidiva. Il suggerimento degli autori è quindi quello di non limitarsi a percorsi nell’ambito detentivo, ma di motivare i padri detenuti e andare sempre più nella direzione di un continuum della presa in carico dalla carcerazione all’esterno del carcere.

Una relazione positiva tra il padre che sconta una pena e il proprio figlio, consente non solo un aumento delle possibilità positive di reinserimento sociale, ma anche una maggior tutela del benessere del minore.

Mindful-eating: una metodologia innovativa per regolare il rapporto con il cibo – Recensione

Il libro ” Mindful Eating ” come dice la stessa autrice, Teresa Montesarchio, non è stato scritto per essere un libro di auto aiuto, ne tanto meno vuole sostituirsi ad un percorso psicoterapico mirato alla risoluzione di una disfunzione del comportamento alimentare conclamata. Bensì rappresenta una guida verso il viaggio del cambiamento alimentare orientato al COME mangiamo piuttosto che al COSA mangiamo.

 

Mindful Eating: mangiare con consapevolezza

Attraverso una serie di esercizi orientati a riprendere contatto con noi stessi, ci guida in un cammino verso la consapevolezza del qui ed ora, dei nostri effettivi bisogni legati al cibo, e del modo in cui stiamo e percepiamo noi stessi.

Il cambio di prospettiva è visibile fin da subito, l’autrice propone di compilare un diario alimentare con l’invito ad osservare il MODO in cui mangiamo e non solo COSA mangiamo. Quando si ha a che fare con l’alimentazione incontrollata, sia nella pratica clinica che nella vita, la teoria, il cosa dovremmo mangiare, è ben chiaro e presente, ma il come spesso passa in secondo piano. L’invito è quello di osservare e annotare senza giudizio le nostre abitudini alimentari. Osservare senza giudizio ciò che accade in questo momento, prestare attenzione al presente in maniera curiosa, aperta e non giudicante sono i principi alla base di uno stile mindful.

Dall’annotare le abitudini alimentari, la Dr.ssa Montesarchio nel libro Mindful Eating ci guida verso il riconoscimento del nostro pilota automatico, quella funzione utile alla nostra mente quando dobbiamo fare più cose a tempo (guidare e parlare con il nostro compagno di viaggio) ma che spesso porta la nostra mente distante, lontano dall’azione che stiamo facendo anche quando non avremmo bisogno.

Guidandoci attraverso la respirazione consapevole e invitandoci a metterla in pratica quotidianamente, arriviamo ad osservare la nostra smania di cibo come un’onda che possiamo cavalcare invece che affrontarla con l’idea di abbatterla. Nel caso dell’alimentazione incontrollata spesse volte è presente una lotta verso il desiderio di cibo, cerchiamo di scacciarlo, di abbatterlo ma difficilmente proviamo a passarci attraverso, ad aspettare senza agire guardando ciò che succede. Ed è questo l’inghippo dell’urgenza, attivarsi per risolverla immediatamente non ci consente di notare che come arriva e aumenta, allo stesso modo decresce e poi se ne va. Lo stesso accade per la smania di cibo. Ma soprattutto abbiamo realmente fame? Di cosa realmente abbiamo fame?

Mindful eating: alla scoperta di diversi tipi di fame

Seguendo la via della consapevolezza la nostra guida ci porta alla scoperta dei 9 tipi di fame che ognuno di noi incontra. Ci invita ad esplorare il cibo non solo con il gusto ma anche con la vista, l’olfatto, il tatto, e l’udito. Prestiamo attenzione e notiamo cosa accade dentro di noi quando esploriamo il cibo con gli occhi, le dita, la bocca, cosa sentiamo con il nostro naso e anche che rumore fa se ci soffermiamo sulla percezione delle nostre orecchie.

Dopo questo invito a rallentare, e concentrarci su cosa proviamo durante l’esperienza del pasto, veniamo guidati verso la distinzione tra sazietà e pienezza e quindi tra fame cellulare e fame dello stomaco. Imparando che la sazietà dipende dalla qualità dei nutrienti e la pienezza dalla quantità di materia presente nel nostro stomaco, impareremo a riconoscere di esser sazi senza per forza sentirci pieni. Il nostro cammino prosegue poi attraverso la fame della mente, proveremo a guardare determinati tipi di cibo non più come un’ossessione proibita, ma come un’esperienza che sta attraversando la nostra mente, e in modo privo di giudizio la nostra guida ci invita a farci delle domande su questo, come per esempio che gusto ha, se quell’ alimento va bene per il nostro tipo di fame, oppure se ci conduce verso la via della felicità.

Per ultima ma non per importanza arriviamo alla fame del cuore. Le emozioni che proviamo hanno dei segnali somatici che spesso confondiamo con segnali di natura più organica come la fame ad esempio. Oppure ancora emozioni spiacevoli, tristezza, senso di vuoto, che cerchiamo di colmare con il cibo, oppure ansia che cerchiamo di gestire controllando ciò che mangiamo. In questo viaggio del COME la nostra guida ci invita ancora una volta a sederci, a rallentare, a prendere contatto con il momento presente attraverso il nostro respiro, ed esercitarci nella pratica meditativa quando sentiamo l’esigenza di fare uno snack per vedere quale emozione ci sta guidando e se possiamo trovare altre valide alternative per soddisfarla.

Il concetto di immagine corporea nel libro Mindful Eating

Fra le ultime tappe si prende in esame il concetto di Immagine corporea, l’importanza che viene data ai giudizi esterni per definire il nostro corpo piacevole oppure no, e quanto questo continuo paragone non faccia altro che indurre ed aumentare l’emozione di vergogna che proviamo verso il nostro corpo. Accade spesso nei casi di difficoltà legate alla sfera alimentare che il corpo e la forma corporea diventino il mezzo per definire il valore personale, e i parametri valutativi sono parametri esterni che costantemente si sente il bisogno di monitorare, in quest’ottica qualsiasi feedback esterno che non va verso una conferma del nostro valore corporeo rischia di diventare una profonda ferita curata con il controllo del cibo. Il viaggio che pertanto viene suggerito va verso qualcosa di soggettivo ed interno piuttosto che di oggettivo ed esterno. Riprendere contatto con il proprio corpo attraverso l’unione di questo alla propria mente. E per farlo si può trovare nella guida una serie di esercizi di Yoga che praticati quotidianamente in associazione ad una buona pratica sul respiro chiudono questo viaggio, invitando a ripeterlo per connettersi sempre più a ciò che sentiamo e siamo in maniera priva di giudizio.

Coltivare la gratitudine

Si prosegue nel libro Mindful Eating con un invito a coltivare il sentimento di gratitudine, che come spiega l’autrice citando Emmons, ci consente di percepire quanto in realtà siamo supportati dal mondo esterno e quanto di buono in noi e attorno a noi ci sia nonostante le difficoltà che possiamo incontrare. Esercitarci nell’essere grati ci porta ad avere un cambio di prospettiva verso il mondo, che da ostile diviene via via sempre più benevolo e richiede il riconoscere che qualcosa di nuovo sta accadendo in questo momento. Provando ad esercitarci tenendo un diario della gratitudine veniamo poi guidati attraverso un esercizio di consapevolezza corporea per prendere contatto con il nostro corpo e per essere grati di quanto ci è stato donato e fare qualcosa di concreto prendendosi cura di lui per valorizzarlo.
Il viaggio è iniziato con il prendere nota delle nostre abitudini in un diario e si conclude con il suggerimento di provare a ricompilarlo per vedere come l’esperienza è cambiata invitando a ripeterla nell’ottica che qualsiasi cosa sia accaduta va bene così com’è in quanto frutto dell’esperienza che stiamo vivendo.

Una guida che tutti noi possiamo decidere di provare a seguire, in maniera curiosa notando ciò che accade guardando al come piuttosto che al cosa facciamo e mangiamo.

La psicopatia immunizza dal contagio della risata?

Psicopatia e contagio della risata: uno studio pubblicato su Current Biology si è posto l’obiettivo di indagare come i ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia elaborino le emozioni alla base dell’affiliazione sociale, come quelle associate alla risata.

 

La psicopatia e la mancanza di contagio della risata

Gli esseri umani sono animali sociali che tendono a creare legami affettivi duraturi (Boyd & Richerson, 2009). Tuttavia, esiste una minoranza di persone che presentano tratti di personalità psicopatici, ovvero comportamenti violenti e antisociali, che non consentono la formazione di rapporti basati sulla reciprocità e risonanza emotiva tra le persone. Riguardo ai processi neurali sottostanti all’affiliazione sociale atipica, si conosce ancora poco.

Uno dei fattori che promuove l’affiliazione e la coesione sociale è la risata umana, che attiva aree cerebrali coinvolte nella risonanza emotiva (McGettigan, Walsh, Jessop, Agnew, Sauter, Warren, & Scott, 2015; Scott, Lavan, Chen, & McGettigan, 2014; Szameitat, D.P., Kreifelts, B., Alter, K., Szameitat, Sterr, Grodd, & Wildgruber, 2010). Per la maggior parte delle persone, infatti, la risata è talmente contagiosa che è impossibile sentire o vedere qualcuno ridere senza avvertire la necessità di ridere a propria volta. Ciò, però, non risulta altrettanto vero per i bambini o ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia. In risposta alla risata il loro cervello evidenzia una ridotta attivazione delle aree implicate nella condivisione e nella risonanza emotiva con l’altro.

Studi precedenti si sono focalizzati su come avvenisse l’elaborazione delle emozioni negative nei soggetti con tratti psicopatici e come questa potesse spiegare la loro aggressività, lasciando meno spazio all’analisi dell’incapacità di formare legami affettivi.

Alla luce di quanto riportato, uno studio pubblicato su Current Biology si è posto l’obiettivo di indagare come i ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia elaborino le emozioni alla base dell’affiliazione sociale, come quelle associate alla risata.

I partecipanti alla ricerca sono 62 ragazzi tra gli 11 e i 16 anni con comportamenti dirompenti, con o senza tratti anaffettivi, e 30 soggetti di controllo. I gruppi sono bilanciati per abilità, etnia, dominanza manuale e contesto socioeconomico. Ogni partecipante viene monitorato attraverso risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre ascolta risate spontanee, risate artificiose o suoni che riproducono il pianto. Successivamente ciascuno deve indicare, attraverso un punteggio da 1 a 7, quanto ascoltare quei suoni generi in lui un’emozione e se questa sia genuina.

I risultati evidenziano che i soggetti con comportamenti dirompenti in combinazione con alti livelli di anaffettività non mostrano il contagio della risata, a differenza del gruppo di controllo e dei soggetti psicopatici ma con bassi livelli di anaffettività.

In particolare, l’attivazione cerebrale in risposta alla risata è ridotta nell’insula anteriore e nell’area motoria supplementare, a conferma del coinvolgimento delle zone implicate nella risonanza emotiva. E’ difficile comprendere se la riduzione dell’attivazione cerebrale in queste aree sia causa o conseguenza dei comportamenti dirompenti; dunque, studi futuri dovrebbero concentrarsi su come i segnali sociali di affiliazione siano elaborati da coloro che sono a rischio di sviluppare psicopatia o affetti da disturbo di personalità antisociale. Si potrebbe iniziare dall’indagine di fenomeni con funzione analoga alla risata, come volti sorridenti o parole d’incoraggiamento, valutando anche a che età iniziano a manifestarsi differenze tra gruppo sperimentale e di controllo. Il fatto che i ragazzi a rischio di psicopatia non provino emozioni in risposta a segnali sociali riguardanti il benessere o il dolore altrui, non significa che essi siano destinati a diventare antisociali o pericolosi, ma possono spiegare perché compiono scelte diverse dai loro pari.

Una comprensione esaustiva sul comportamento prosociale di ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia è fondamentale, non solo per migliorare gli attuali trattamenti dei pazienti ma anche per fornire supporto alle loro famiglie.

I neurotrasmettitori: che cosa sono e le diverse tipologie – Introduzione alla Psicologia

I neurotrasmettitori sono delle sostanze fisiologiche che consentono la trasmissione degli impulsi nervosi tra due regioni anatomicamente separate e poste in collegamento da sinapsi, o da fibre nervose, o da nervi e fibre muscolari presenti nelle placche motrici. All’interno del sistema nervoso, i neurotrasmettitori svolgono un ruolo essenziale nella trasmissione degli impulsi di tipo eccitatorio o inibitorio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Cosa sono i neurotrasmettitori

I neurotrasmettitori sono delle sostanze liberate dai neuroni a livello sinaptico ed espletano la propria funzione su un neurone o un organo effettore. Essi sono sintetizzati nel neurone e si trovano nella terminazione sinaptica; sono liberati in quantità sufficiente per esercitare l’azione eccitatoria su un neurone postsinaptico

Sono, dunque, prodotti dalla cellula trasmittente (presinaptica) ed immessi nello spazio che la divide dalla cellula ricevente (postsinaptica) del sistema nervoso; aderiscono alla membrana della cellula ricevente e ne trasmettono le informazioni. Successivamente, si staccano dalla membrana e sono distrutti o riassorbiti dalla cellula trasmittente.

I neurotrasmettitori sono prodotti utilizzando gli aminoacidi, all’interno della cellula presinaptica, tramite il reticolo endoplasmatico e l’apparato del golgi e sono immagazzinati nelle vescicole che vagano nel citosol della cellula nervosa. Al sopraggiungere dell’impulso nervoso, le vescicole si fondono con la membrana cellulare, liberando i neurotrasmettitori nella fessura sinaptica.

I neurotrasmettitori sono captati da specifici recettori, canali ionici, posti sulla membrana della cellula postsinaptica. L’interazione fra i neurotrasmettitori e il recettore/canale ionico scatena una risposta eccitatoria o inibitoria nel neurone post-sinaptico.

Il segnale chimico trasportato dai neurotrasmettitori è tradotto in segnale elettrico e quindi, dopo aver svolto la propria funzione, i neurotrasmettitori sono rimossi dai recettori. Tale processo è chiamato ricaptazione e vede il loro riassorbimento, ad opera della cellula presinaptica, che li distruggerà nel citosol o li reintegrerà nelle vescicole. Senza la ricaptazione, i neurotrasmettitori potrebbero continuare a stimolare o deprimere il neurone post-sinaptico.

Tipi di neurotrasmettitori

In relazione al tipo di risposta prodotta, i neurotrasmettitori possono essere eccitatori, inibitori o soppressori, quindi possono rispettivamente promuovere la creazione di un impulso nervoso nel neurone ricevente o inibire l’impulso stesso.

Inoltre, sulla base della dimensione, i neurotrasmettitori possono essere distinti in neuropeptidi e piccole molecole. I neuropeptidi comprendono dai 3 ai 36 amminoacidi, mentre nel gruppo delle piccole molecole ci sono amminoacidi singoli, come il glutammato ed il gaba e i neurotrasmettitori come l’acetilcolina, la serotonina e l’istamina. I due gruppi di neurotrasmettitori presentano anche modalità di sintesi e rilascio differenti.

Sostanzialmente, esistono due gruppi di neurotrasmettitori sinaptici: quello costituito da trasmettitori a basso peso molecolare a rapida azione e il gruppo dei neuropeptidi di dimensioni maggiori ad azione più lenta.

Il primo gruppo è composto da neurotrasmettitori responsabili della maggior parte delle risposte rilasciate dal sistema nervoso, come la trasmissione di segnali sensoriali al cervello e di comandi motori ai muscoli. I neurotrasmettitori a basso peso molecolare sono sintetizzati nel citosol della terminazione presinaptica e, successivamente, mediante trasporto attivo, sono assorbiti all’interno delle numerose vescicole presenti nel terminale sinaptico. Quando un segnale giunge al terminale sinaptico, poche vescicole alla volta liberano il loro neurotrasmettitore nella fessura sinaptica. Tale processo avviene in genere nell’arco di un millisecondo.

I neuropeptidi, invece, sono implicati negli effetti più prolungati, come le modificazioni a lungo termine del numero di recettori e la chiusura o l’apertura prolungata di alcuni canali ionici. I neuropeptidi sono sintetizzati come parti di grosse molecole proteiche dai ribosomi del soma neuronale.

Tali proteine sono trasportate all’interno del reticolo endoplasmatico e quindi all’interno dell’apparato del Golgi, dove la proteina da cui originerà il neuropeptide è scissa enzimaticamente in frammenti più piccoli, alcuni dei quali costituiscono il neuropeptide o un suo precursore e successivamente, l’apparato del Golgi impacchetta il neuropeptide in piccole vescicole che si generano da esso. Grazie al flusso assonale le vescicole sono trasportate alle estremità delle terminazioni nervose, pronte per essere liberate nel terminale nervoso all’arrivo di un potenziale d’azione.

Tra i neurotrasmettitori a basso peso molecolare ritroviamo la acetilcolina, le amine biogene (dopamina, adrenalina e noradrenalina), l’istamina, gli aminoacidi (gaba, glicina e il glutammato) e l’atp.

Tra i neuropeptidi vi sono gli oppioidi, gli ormoni neuroipofisari, le tachichinine, le secretine, l’insulina, le somatostatine e le gastrine.

Neurotrasmettitori a basso peso molecolare

Esistono 9 sostanze a basso peso molecolare che sono riconosciute come neurotrasmettitori. Otto di queste sono delle amine e sette di loro sono aminoacidi o derivati di questi ultimi. La sintesi di questi neurotrasmettitori è catalizzata da enzimi presenti nel citosol.

L’acetilcolina (ACH) è il neurotrasmettitore usato dai motoneuroni del midollo spinale e di conseguenza è presente a livello di tutte le giunzioni neuromuscolari dei vertebrati. Nel sistema nervoso autonomo essa è il neurotrasmettitore di tutti i neuroni pregangliari e di quelli parasimpatici postgangliari. L’ACH è presente anche a livello di molte sinapsi cerebrali, in particolare del nucleo basale.

La molecola della acetilcolina è stata il primo neurotrasmettitore a essere individuato. È responsabile della trasmissione nervosa sia a livello del sistema nervoso centrale sia del sistema nervoso periferico. Essa è liberata dai terminali dei motoneuroni, dai neuroni pregangliari, dai neuroni postgangliari del parasimpatico ed in varie zone del sistema nervoso centrale, dove svolge un ruolo essenziale nei processi  cognitivi (alzheimer).

Esistono due categorie di recettori per l’ACH:
-recettori nicotinici, di tipo ionotropico
-recettori muscarinici, di tipo metabotropico.

Le azioni muscariniche  indotte dall’ACH generano una vasodilatazione generalizzata e una iper secrezione da parte delle ghiandole sudoripare, che sono innervate da fibre colinergiche del sistema nervoso simpatico.
Le azioni nicotiniche si verificano sui gangli dei sistemi simpatico e parasimpatico, della placca neuromuscolare dei muscoli volontari e delle terminazioni nervose dei nervi splancnici che circondano le cellule secretorie della midollare del surrene.

Neurotrasmettitori costituiti da amine biogene

Questo gruppo di sostanze comprende le catecolamine, la serotonina e anche l’istamina. I neurotrasmettitori della famiglia delle catecolamine comprendono la dopamina, la norepinefrina (noradrenalina) e l’epinefrina (adrenalina) e sono tutte sintetizzate a partire dalla tirosina.

Nel sistema nervoso centrale la norepinefrina è il neurotrasmettitore dei neuroni che hanno il corpo cellulare nel locus coreules. Numerosi neuroni serotoninergici sono localizzati lungo la linea mediana del tronco dell’encefalo in un gruppo di nuclei detti del raphe che sono implicati nel controllo dell’attenzione e in altre funzioni cognitive complesse.

L’istamina è attiva nei processi infiammatori, nel controllo dei vasi della muscolatura liscia e delle ghiandole esocrine. L’istamina è una molecola organica, e appartenente alla classe di ammine biogene, uno dei mediatori chimici dell’infiammazione ed è presente nell’ippocampo.

L’istamina consente una neurotrasmissione di tipo veloce, aumentando la conduttanza agli ioni cloro nel talamo attraverso i suoi recettori h2 o un canale ionico. I neuroni istaminaergici possono regolare ed essere regolati da altre vie neurochimiche.

L’istamina, inoltre, è un regolatore dei cicli sonno-veglia, per questo alcuni farmaci antiallergici che agiscono attraverso un meccanismo antagonista dell’istamina provocano sonnolenza.

La dopamina, invece, è un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolammine. All’interno del cervello questa feniletilammina funziona da neurotrasmettitore tramite l’attivazione dei recettori dopaminici specifici e subrecettori. Essa è prodotta in diverse aree del cervello, tra cui la substantia nigra e l’area tegmentale ventrale. Grandi quantità si trovano nei gangli della base, soprattutto nel telencefalo, nell’accumbens, nel tubercolo olfattorio, nel nucleo centrale dell’amigdala, nell’eminenza mediana e in alcune zone della corteccia frontale.
La dopamina è un ormone rilasciato dall’ipotalamo e la sua principale funzione è inibire il rilascio di prolattina da parte del lobo anteriore dell’ipofisi. A livello gastrointestinale il suo effetto principale è l’emesi.
La dopamina può essere fornita come un farmaco che agisce sul sistema nervoso simpatico, producendo effetti come aumento della frequenza cardiaca e pressione del sangue.

L’adrenalina, o epinefrina, è stata considerata per anni il neurotrasmettitore principale del sistema nervoso simpatico, nonostante fosse noto che gli effetti della sua somministrazione erano differenti da quelli ottenuti tramite stimolazione diretta del simpatico. L’adrenalina, oltre che nella parte midollare del surrene è liberata anche a livello di sinapsi del sistema nervoso centrale, dove svolge il ruolo di neurotrasmettitore. Per questo motivo e perché è rilasciata al termine di una via riflessa, che coinvolge sia il sistema nervoso sia quello endocrino, l’adrenalina rientra tra i neurormoni.

In generale l’adrenalina, è coinvolta nella reazione “attacco e fuga”. In generale i suoi effetti sono: rilassamento gastrointestinale, dilatazione dei bronchi, aumento della frequenza cardiaca e del volume sistolico (e di conseguenza della gittata cardiaca), deviazione del flusso sanguigno verso i muscoli, il fegato, il miocardio e il cervello e aumento della glicemia.

La noradrenalina o norepinefrina è un neurotrasmettitore rilasciato dalle cellule cromaffini come ormone nel sangue, è anche un neurotrasmettitore nel sistema nervoso, dove è rilasciato dai neuroni noradrenergici durante la trasmissione sinaptica. In quanto ormone dello stress, coinvolge parti del cervello dove risiedono i controlli dell’attenzione e delle reazioni. Insieme all’epinefrina, provoca la risposta di ‘attacco o fuga’, attivando il sistema nervoso simpatico per aumentare il battito cardiaco, rilasciare energia sotto forma di glucosio dal glicogeno e aumentare il tono muscolare.

La noradrenalina è rilasciata quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. Questo è provocato dall’attivazione del locus coeruleus.
La serotonina, la dopamina e la norepinefrina hanno un ruolo importante nei meccanismi patologici che stanno alla base di alcune malattie mentali quali la schizofrenia, le forme depressive, e il morbo di Parkinson.

I neurotrasmettitori di natura aminoacida: l’acetilcolina e le amine biogene sono sostanze che non fanno parte delle comuni vie del metabolismo intermedio e sono sintetizzate soltanto in determinate cellule nervose. Al contrario esiste un gruppo di aminoacidi che sono liberati come neurotrasmettitore ma che sono costituenti cellulari universalmente diffusi. La glicina ed il glutammato sono gli aminoacidi più comuni che vengono incorporati nelle proteine di tutte le cellule.

Il glutammato monosodico è il sale di sodio dell’acido glutammico, uno dei 23 amminoacidi naturali che costituiscono le proteine. È uno degli amminoacidi più abbondanti in natura ed è possibile trovarlo nel latte, nei pomodori e nei funghi, oltre che in alcune alghe usate nella cucina giapponese. Il parmigiano è il cibo che ne contiene di più: 1,2 grammi ogni 100. A temperatura ambiente si presenta come una polvere bianca cristallina, solubile in acqua.

In natura, scoperto nel 1908 dal chimico giapponese kikunae ikeda, è un costituente della laminaria japonica (kombu), un’alga comunemente utilizzata nella cucina giapponese. È largamente utilizzato come additivo esaltatore di sapidità anche nella cucina cinese.

Il glutammato monosodico trova uso nell’industria alimentare come additivo ed è identificato dalla sigla e621. È l’ingrediente principale dei dadi da brodo e dei preparati granulari per brodo.

La glicina è sintetizzata dalla serina ed è uno dei due neurotrasmettitori degli interneuroni inibitori del midollo spinale. Essa è un amminoacido non polare. La maggior parte delle proteine è costituita da piccole quantità di glicina. Una notevole eccezione è il collagene, di cui invece costituisce circa un terzo.

Il GABA (acido gamma-amminobutirrico) viene sintetizzato a partire dal glutammato con una reazione catalizzata dell’acido-gluttammatico-decarbossilasi. Il GABA  è presente in concentrazioni elevate nel sistema nervoso centrale (ma anche nel pancreas e nella midollare del surrene).

Una classe importante di interneuroni inibitori è quella gaba-ergica. Si ritiene che il GABA  sia il principale neurotrasmettitore inibitorio di molte aree cerebrali, a livello di numerosi interneuroni inibitori e nei granuli del bulbo olfattivo. Il GABA  è anche liberato dalle cellule amacrine della retina, dalle cellule del purkinje del cervelletto e dalle cellule a canestro del cervelletto e dell’ippocampo.

ATP e adenosina: in certi tipi di sinapsi l’ ATP e i suoi prodotti di degradazione possono fungere da neurotrasmettitore. L’adenina, la guanina e i loro derivati sono delle purine. Essa si trova principalmente tra i neuroni connessioni sinaptiche con il dotto deferente e con la muscolatura cardiaca. Le vescicole sinaptiche di alcune di queste terminazioni nervose contengono molto più ATP del normale.

Smaltimento del neurotrasmettitore

Vi sono tre meccanismi diversi che consentono al tessuto nervoso di smaltire i neurotrasmettitori:
1.  la diffusione che permette l’allontanamento di tutti i neurotrasmettitori.
2.  la degradazione enzimatica impiegata soprattutto nel sistema colinergico.
3. La riassunzione dei neurotrasmettitori dalla fessura sinaptica, meccanismo più comune e funziona tramite i carrier che si legano ai neurotrasmettitori e che necessitano di ATP per agire.
La liberazione contemporanea di diverse sostanze neuroattive da parte di un neurone presinaptico e la presenza contemporanea di opportuni recettori postsinaptici consente al sistema nervoso di disporre di una gamma straordinariamente ricca di possibilità nel trasferimento d’informazioni a livello di ogni sinapsi.

Farmaci, droghe ed altre sostanze possono interferire con il funzionamento dei neurotrasmettitori. Molte sostanze stimolanti e anti-depressive alterano la trasmissione dei neurotrasmettitori. Per esempio, la cocaina blocca la ricaptazione della dopamina, consentendo di rimanere più a lungo nello spazio inter-sinaptico. In particolare, la cocaina altera i circuiti dopaminergici del nucleus accumbens, regione del cervello implicata nella spinta motivazionale e nel rafforzamento emozionale. La reserpina, impiegata inizialmente come agente anti-ipertensivo e successivamente come antipsicotico nel trattamento della schizofrenia, causa una deplezione di neurotrasmettitori mediante la rottura delle vescicole sinaptiche e la degradazione da parte delle monoammino ossidasi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Nomofobia (2017) di Salvo Orto – Recensione del libro

La parola nomofobia è composta dal prefisso abbreviato no-mobile e dal suffisso fobia, e si riferisce alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile.

 

Il fenomeno nomofobia

Secondo recenti ricerche, su gruppi di età eterogenea, la quasi totalità della popolazione che possiede uno smartphone non riuscirebbe a vivere serena senza di esso, e il solo pensarci genera una reazione di panico.

Quello della nomofobia sembrerebbe un meccanismo del tutto analogo a una tossicodipendenza, si ha sempre bisogno di aumentare il dosaggio spendendo sempre più tempo al telefono per esempio, oppure tenersi incollati ai social network per vedere cosa condividono i propri amici, anche nelle ore notturne, senza mai spegnere il dispositivo. Tale dipendenza morbosa allo smartphone causerebbe anche delle interferenze nella produzione della dopamina, neurotrasmettitore coinvolto nel circuito della ricompensa: ad ogni notifica o like ricevuto, il livello di dopamina s’innalza dandoci la sensazione che ci sia qualcosa di nuovo e interessante in serbo per noi. Questo ci spinge a controllare lo smartphone, con un meccanismo simile a quello che s’innesca nel giocatore d’azzardo.

Nomofobia di Salvo Orto: uno sguardo sulla società iperconnessa

Il libro Nomofobia di Salvo Orto, con una tinta di sarcasmo, analizza gli aspetti della nostra società iperconnessa, travolta dai rapidi cambiamenti tecnologici che il progresso ci mette a disposizione. Secondo l’autore basta entrare in un qualunque ristorante per vedere tali effetti: padri e madri di famiglia a tavola, pronti a fotografare qualunque cosa da condividere sul gruppo whatsapp dei cugini o sui social network, di fronte a piatti che si raffreddano solitari, e a carrozzine di bambini che piangono ignorati dai propri genitori, intenti prima a rispondere ai messaggi.

Passando dal selfie selvaggio ai nuovi stili di comunicazione, dalla Facebook-addiction alla internet dipendenza fino all’Hikikomori, l’autore di Nomofobia analizza con semplicità e chiarezza, in un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori, le problematiche legate all’uso abnorme dello smartphone e del computer, evidenziandone i rischi per la salute, e la necessità di cautela rispetto alla gestione dei cambiamenti apportati dalla tecnologia nella vita delle persone.

L’utilizzo dell’ Emotional Awareness and Therapy Expression nel trattamento della fibromialgia

L’ Emotional Awareness and Therapy Expression, ovvero la psicoterapia che incoraggia i pazienti ad affrontare le esperienze emotive relative ai traumi, ai conflitti e ai problemi di relazione è risultata utile per le persone affette da fibromialgia.

 

Nello studio clinico randomizzato eseguito dall’University of Detroit, 230 adulti con fibromialgia hanno ricevuto uno nuovo trattamento chiamato Emotional Awareness and Therapy Expression (EAET).

La Emotional Awareness and Therapy Expression si focalizza sulla consapevolezza del dolore e degli altri sintomi fibriomialgici che sono anche influenzati dalle emozioni, spiegano i ricercatori. La terapia EAET mira ad aiutare i pazienti a sperimentare ed esprimere le proprie esperienze emotive, come ad esempio la rabbia e la tristezza, ma anche la gratitudine, la compassione e il perdono, focalizzandosi anche sulle relazioni interpersonali dei pazienti.

L’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression è stato confrontato sia con un intervento educativo, sia con l’approccio psicologico standard usato nel caso di diagnosi di fibriomialgia, ovvero la terapia cognitiva comportamentale. Sei mesi dopo la fine dei trattamenti, i pazienti sono stati valutati per la gravità e il grado del loro dolore riportato.

Fibromialgia: gli effetti dell’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression

I pazienti che hanno ricevuto l’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression avevano risultati migliori – riducendo la percezione del dolore diffuso, i disturbi fisici, i problemi di attenzione e di concentrazione, l’ansia e la depressione, nonché riportando emozioni più positive – rispetto ai pazienti che hanno ricevuto l’intervento educativo.

I pazienti sottoposti al nuovo trattamento EAET hanno riferito di stare “molto meglio” rispetto ai trattamenti educativi precedenti.

Un importante riscontro aggiuntivo è che la nuova terapia emozionale sembra avere avuto un vantaggio maggiore anche rispetto alla terapia cognitiva comportamentale standard nel ridurre la percezione del dolore diffuso.

Molte persone con fibromialgia hanno un trascorso di vita che crea emozioni importanti, le quali vengono spesso soppresse o evitate – ha affermato Mark A. Lumley, Ph.D., professore di psicologia – Abbiamo sviluppato e testato un approccio che cerca di aiutare le persone a superare questi problemi emotivi e di relazione riducendo i loro sintomi, piuttosto che aiutare le persone a gestire o accettare la loro fibromialgia. Anche se questo trattamento non aiuta tutte le persone affette da fibromialgia, molti pazienti hanno trovato che è molto utile, e alcuni hanno avuto miglioramenti nella loro vita e nella loro salute.

I ricercatori del Wayne State hanno collaborato con un team di ricercatori dell’Università del Michigan Medical Center guidato da David A. Williams, Ph.D., professore di anestesiologia.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PAIN.

Trauma e gravidanza: gli effetti neuro-bio-psicologici delle esperienze traumatiche nelle donne in dolce attesa – Report dal Convegno Attaccamento e Trauma

La mattina del primo giorno, dopo l’intervento di Louis Cozolino, prosegue con l’intervento di Massimo Ammaniti, psichiatra, psicanalista, professore onorario in psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza tra le altre cariche. Gli interessi clinici del Prof. Ammaniti ruotano intorno alle interazioni precoci, alle ricerche nel campo della gravidanza e dei traumi infantili.

 

Cosa accade nella mente della donna durante la gravidanza?

La relazione esposta unisce questi suoi interessi e vengono presentati infatti “gli esiti prossimali e distali dello stress e dei traumi in gravidanza”, mettendo un faro sul periodo delle madri in attesa, sulle conseguenze negative dello stress in gravidanza sullo sviluppo del feto e sulla fisiologia del parto.

Anche questa presentazione parte dal presupposto, ormai difficilmente discutibile, che il legame fra genitore e figlio garantisca la sopravvivenza e che il passo iniziale per l’apprendimento e l’acquisizione della comunicazione parta dal contatto oculare (non appena il bambino nasce). Tuttavia l’inizio dello sviluppo del contesto intersoggettivo si sviluppa ancor prima, fin dai mesi della gravidanza; è già in questo periodo che la mamma comincia ad avere in testa il proprio bambino, “a mentalizzarlo” potremmo dire.

I 9 mesi che precedono la nascita sono un momento molto particolare, denso di trasformazioni da tutti i punti di vista, che coinvolgono entrambi i genitori. Sono mesi in cui riaffiorano le memorie delle proprie esperienze precoci infantili, mesi in cui la coppia comincia una propria trasformazione e in cui avvengono cambiamenti importanti anche a livello ormonale nella madre.

Nella mente della donna emergono dei temi (se non delle vere e proprie domande) circa la sua capacità di poter essere in grado di amare il figlio, di poter essere in grado di garantirgli la sopravvivenza e di riuscire a far meglio dei propri genitori.

Domande, cioè, sul fatto se saranno o meno mamme sufficientemente buone e, sempre in termini winnicottiani, se svilupperanno “la preoccupazione materna primaria”, caratterizzata da una iperattivazione e aumentata sensibilità.

Lo stress materno

Numerosi studi riportano come al termine della gravidanza si possano registrare (più nelle madri ma anche nei padri) alcuni tipi di timori, rispetto alla salute del neonato nella maggioranza dei casi, ma anche quelli (più ossessivi) di poterlo colpire, gettare a terra o far piangere.

Evidentemente tali pensieri possono costituire, sulla base della frequenza e della durata, una fonte di distress.
La definizione di stress materno è tutt’ora un pò confusa e abbraccia fattori di tipo personale, familiare, sociale ed economico.
Tuttavia è piuttosto riconosciuto come questo sia associato e associabile a problemi emotivo comportamentali nei primi due anni di vita del bambino. I dati suggeriscono alcune ipotesi sulla trasmissione dello stress in questo arco di vita. Probabilmente un’alta concentrazione di ormoni derivanti dallo stress materno impatta sullo sviluppo cerebrale del feto.

Alcuni ricercatori hanno riportato che lo stress prenatale ha un impatto nella neurobiologia del neonato come un’attivazione più forte del cervello frontale destro.
Questo ponte tra gravidanza e neonato sottolinea l’importanza dell’interazione tra caratteristiche innate e l’esperienza relazionale con il caregiver.
L’alterazione del sistema di caregiving determina un deficit dell’asse HPA (asse ipotalamo-pituitario-surrenale) inibendo le risposte allo stress.
Studi condotti sullo stress materno in gravidanza hanno rilevato un aumento del cortisolo e dell’ormone di rilascio della corticotropina sia nella madre che nel feto.

Alcuni studi evidenziano come lo stress prenatale sia in grado di spiegare il 10/15% delle difficoltà infantili.
Questi studi suggeriscono interessanti ipotesi in merito ai meccanismi di trasmissione dello stress, presumibilmente associati a elevate concentrazioni di ormoni materni coinvolti nella risposta allo stress che possono impattare sullo sviluppo cerebrale.

Presentazione di un caso clinico

L’intervento di Ammaniti prosegue poi con un interessantissimo caso clinico, ben spiegato ed articolato per mettere insieme scienza e clinica.
È un intervento di sostegno in gravidanza di una donna al settimo mese di gravidanza, che viene chiamata Carla.

Carla ha una relazione con Giovanni, il loro rapporto è piuttosto conflittuale e la donna teme che il compagno non si possa rilevare fonte di supporto nella crescita del figlio. Giovanni è stato allevato dalla nonna e proviene da una famiglia difficile, mentre Carla ha subito abusi e molestie sessuali in infanzia e nell’adolescenza ha avuto esperienze sessuali promiscue.

A circa 20 anni riporta un aborto a seguito del quale sviluppa una depressione che viene trattata in psicoterapia.
Carla desiderava molto il figlio ma Giovanni non era pienamente d’accordo e, a causa di problemi di salute di lui, hanno optato per una procreazione assistita.

Il tono dell’umore di Carla è piuttosto deflesso e questo poteva costituire un rischio per il futuro legame con il bambino pertanto accetta di farsi seguire dal progetto di sostegno.

Carla è sesta di sei figli, racconta il rapporto con sua madre molto conflittuale e rancoroso sia in epoche infantili sia tutt’ora (per questo ha affrontato la gravidanza senza l’appoggio dei familiari). La descrive come “sempre stanca, poco presente mentalmente e nervosa”.
Esperisce un senso di solitudine e, sebbene si senta contenta della gravidanza, non ha mai avuto alcuna fantasia sul bambino né ha preparato qualcosa per il suo arrivo. Ha cominciato a sentirsi madre dai primi movimenti del feto ma non ha alcuna fantasia sul figlio “sono tremenda, non immagino nulla, mi arrabbio ma non riesco a vedere la faccia di questa creaturina”.

La gravidanza è andata avanti alla luce di molte ansie della madre sulla possibilità di non essere adeguata, o sulla possibilità che il padre non si prenda cura di lui. Carla attende il figlio come l’arrivo del “Messia” che possa illuminare la sua vita. Dal punto di vista dell’attaccamento, viene riconosciuta in Carla una relazione invischiata con sua madre.

Dopo la nascita del piccolo. Carla riferisce che è diverso da ciò che si aspettava, il bambino piange e vuole essere preso in braccio.
Il bambino nasce sottopeso e in epoca perinatale va incontro ad alcune infezioni; in questo la madre cerca di prendersi cura di lui ma esperisce un senso di inadeguatezza nel suo ruolo di caregiver e inizia pertanto a prendersi cura dell’igiene del piccolo e della casa in modo ossessivo.
Emergono qui timori di potere arrecare danno al bambino.
Durante i primi mesi, il bambino perde peso e la madre riferisce forti stati ansiosi. Non provando gioie nell’allattamento comincia l’alimentazione tramite biberon che consente al bambino di avere ritmi regolari.

A testimonianza della sua scarsa fiducia con il figlio Carla sente quasi il bisogno che il bambino pianga come indice del suo attaccamento, da una parte è totalmente dedita a lui, dall’altra mostra intolleranza.
La stessa ambivalenza che emerge anche con coloro che si occupano del suo sostegno e della sua presa in carico (capita spesso che sposti o cancelli gli appuntamenti).

Con il passare del tempo Carla riporta i primi cambiamenti positivi e diventa maggiormente capace di riconoscere i bisogni del piccolo rispetto ai suoi ritmi e questo permette al piccolo di acquisire peso.
Vorrebbe essere la madre perfetta che non ha avuto ma la vicinanza emotiva del figlio la spaventa.
La parte estremamente interessante sono le interazioni riportate in video che mostrano scene come quella dell’allattamento.
Si nota la madre che fornisce il biberon al piccolo ma è dedica molto più al controllo dei livelli corretti di latte piuttosto che al contatto oculare con lui.
Durante questi momenti delicati parla poco infatti con il figlio, d’altra parte lui sollecita gli scambi con la madre, ma tende ad evitare di guardarla nonostante a volte ne ricerchi lo sguardo.

Dal 4 al 6 mese il bambino comincia ad avere ritmi regolari e la madre appare più sollevata, questo le permette di concedere la possibilità di esplorare e sperimentare liberamente un senso agente di sé.

La coppia madre-figlio viene poi sottoposta al paradigma Still Face. Si tratta di una procedura di osservazione dell’interazione madre-bambino, creata con l’obiettivo di verificare cosa succede nel momento in cui la madre smette di interagire col figlio. Nella prima fase la madre interagisce liberamente col figlio mediante un’interazione faccia a faccia, giocando e parlando con lui. Nella seconda fase si richiede alla madre di mantenere il volto inespressivo e di non reagire a nessuna sollecitazione da parte del figlio. Nell’ultima fase la madre ritorna a giocare col bimbo, riprendendo la normale interazione col figlio.

Osservando il momento in cui il volto della madre è assente si notano i tentativi del figlio di ristabilire l’interazione con la madre. Inizialmente la guarda, le sorride, poi iniziano i vocalizzi e si protende verso di lei. Non riuscendo nei suoi tentativi il bambino cerca di regolare le sue emozioni succhiando il pollice, toccandosi le orecchie, inarcando la schiena. La prolungata assenza della madre suscita il pianto del bambino.
Tuttavia gli effetti dello stress si evidenziano al terzo step quando la madre riprende ad interagire con il bambino. Mostra infatti qualche problema nel consentire alla mamma di tranquillzzarlo. Impiega un po’ di tempo per riconnettersi al suo piccolo e l’aggancio dello sguardo risulta inizialmente faticoso.

Si comprende come il bambino abbia difficoltà a regolarsi emotivamente se non dopo numerosi tentativi e sorrisi della mamma per ristabilire la relazione.
Il punto della questione (e della relazione) è che avendo Carla affrontato la gravidanza in condizioni difficili queste hanno pesato sulla gestazione e sulla nascita del figlio. Dopo una fase difficile in cui non riesce ad entrare in sintonia con il figlio, grazie al supporto fornito, diventa mano a mano in grado di recuperare le capacità di scambio e di interazione con il piccolo.

Conclusioni: il rapporto tra attaccamento e trauma nelle donne in gravidanza

La presentazione di Ammanniti sicuramente non apporta novità in senso stretto, ma direi conferme.
La questione dell’attaccamento è ormai qualcosa che sta unendo i mondi degli psicanalisti, dei terapeuti cognitivi e di molti altri sia da un punto di vista di modelli teorici che di linguaggio.
Il suo ruolo nella formazione dei primi legami con il caregiver e l’impatto di questo nello sviluppo psicobiologico sono dati ormai piuttosto riconosciuti da tutti.
L’intervento è stato piacevolmente “clinico” permettendo di notare in modo naturale quelle che sono effettivamente le interazioni precoci in una diade con una mamma traumatizzata.

Risulta pertanto piuttosto importante essere particolarmente sensibili per questo tipo di popolazione “a rischio”.
Come è noto l’attaccamento è transgenerazionale, in più esperienze traumatiche nelle madri possono impattare sia a livello emotivo, come si comprende bene, ma anche a livello neurobiologico pertanto un’attenzione a questo tipo di donne potrebbe essere particolarmente rilevante. Sia da un punto di vista della ricerca che della clinica.
E questo vale non solo dal momento in cui il bambino nasce, ma (e qui sta probabilmente la questione che Massimo Ammaniti ha voluto sottolineare) dai mesi di gravidanza che costituiscono un momento delicato per lo sviluppo del futuro bambino.

La Depressione Perinatale e il suo sviluppo nei padri: stato attuale, differenze con la Depressione materna e possibili direzioni future

La sintomatologia ricorrente comprende: irrequietezza, tristezza, malinconia, impotenza, disperazione, sconforto, umore depresso, perdita d’interessi, preoccupazione costante, calo della libido, insonnia. Spesso la Depressione perinatale paterna si palesa attraverso manifestazioni somatiche atipiche anche gravi quali ansia elevata, crisi di rabbia, ipocondria, sintomi funzionali o somatizzazione e acting out comportamentali (fughe, comportamenti violenti, attività fisica o sessuale compulsive, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, alcolismo o altri disturbi di dipendenza).

Micaela Fratus, Martina Tramontano, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

La nascita di un figlio e i primi mesi successivi ad essa rappresentano un periodo particolarmente vulnerabile per entrambi i genitori che si apprestano ad affrontare questa nuova fase di vita. Le numerose modificazioni fisiche, psicologiche e relazionali comportano una necessaria riorganizzazione non solo del mondo esterno, ma anche del mondo psichico interno, delle figure coinvolte. Inizialmente, la maggior parte degli studi scientifici si sono concentrati sulla figura materna e sulla possibilità di sviluppare una sintomatologia depressiva: quali sono i fattori predisponenti? Quali sono i principali sintomi? Quali metodi di cura sono più efficaci per uscire dalla depressione post-partum? Quali sono le ripercussioni su bambini di mamme depresse? Sebbene se ne parli ancora poco, già dalla fine degli anni ’90 alcuni studi scientifici hanno dimostrato che anche nei padri è possibile osservare lo sviluppo di una certa forma di depressione nei mesi successivi alla nascita del figlio. La depressione post-partum può colpire entrambi i genitori con un’incidenza rispettivamente di 1 su 7 nelle donne e di 1 su 10 negli uomini. Come si sviluppa nei padri? Come si differenziano le due patologie? Ci sono dei punti in comune? Come si relazionano tra loro? Quali sono i possibili trattamenti?

Aspetti psicopatologici della maternità

La decisione di mettere al mondo un figlio è un momento unico all’interno del ciclo di vita di una coppia che si appresta a iniziare un percorso nuovo, che richiede la messa in discussione di molti aspetti identitari, psicologici e relazionali al fine di poterli riadattare alla nuova struttura familiare.

Approcciarsi a questa fase di vita richiede ad entrambe le figure genitoriali di affrontare cambiamenti ormonali, immunitari, relativi all’immagine corporea, al proprio ruolo sociale e al senso di identità che con difficoltà è stato costruito negli anni di maturazione e crescita. E’ possibile che questo momento delicato di cambiamento, in soggetti che hanno determinati fattori di vulnerabilità, dia spazio allo sviluppo di sintomi psicopatologici di diversa natura e diversa gravità, che possono avere una durata limitata oppure possono perpetuarsi nel tempo.

Come accennato precedentemente, l’interesse del clinico si è concentrato soprattutto sulla figura genitoriale materna. Le motivazioni che hanno determinato questo decentramento hanno radici culturali, epidemiologiche e prognostiche rispetto allo sviluppo psicologico del bambino.

Culturalmente si è portati a credere che la donna sia la figura all’interno della coppia che maggiormente è esposta ai cambiamenti sopra descritti. Infatti, alla futura madre è richiesto di portare avanti la gravidanza in maniera controllata e attenta per la salute del nascituro, osservando il proprio corpo che si trasforma; è richiesto di affrontare le paure e la dolorosità legate al parto e di affrontare l’importante e delicata fase di allattamento. Le motivazioni epidemiologiche sono legate al fatto che le donne manifestano un’incidenza doppia delle sindromi depressive rispetto agli uomini e quindi si ritiene che siano più a rischio di sviluppare una patologia durante la gravidanza. I dati clinici che si sono focalizzati sulla relazione madre-bambino hanno poi dimostrato che i figli di madri depresse hanno una maggior probabilità di sviluppare disturbi dell’adattamento e depressione infantile rispetto ai figli delle mamme non depresse. Tali risultati evidenziano l’importanza della condizione di salute psichica della madre nei primi mesi di vita del bambino e l’incidenza che essa ha sul suo sviluppo psicologico. Alla luce di quanto appena detto, la figura genitoriale maschile è sempre stata vista come marginale.

E’ stato accertato che in fase di vita il 20% delle donne sperimenta l’insorgenza di disturbi ansiosi e depressivi (più del 12,5% dei ricoveri femminili avvengono nel periodo del post-partum). I principali tipi di disturbi dell’umore caratteristici del periodo post-partum riconosciuti sono:
– Malinconia della maternità (maternity blues): insorge nelle due settimane successive al parto (dal 50 all’ 85% della popolazione). E’ caratterizzata da scoppi improvvisi di pianto, irritabilità, sentimenti di tristezza e sfiducia, ansia, disforia lieve.
– Psicosi post-partum: insorge nei mesi successivi al parto, è molto rara ma più grave (1 o 2 donne su 1000). I sintomi più frequenti sono: depressione, euforia maniacale, confusione mentale, allucinazioni e illusioni, insonnia e disturbi dell’alimentazione. La gravità di questo quadro clinico porta all’assunzione da parte della madre di atteggiamenti ambivalenti nei confronti del figlio fino ad arrivare a pericolosi atti di infanticidio e suicidio.
Depressione post-partum: insorge nell’anno successivo al parto (più del 10% delle donne).

Depressione post-partum nelle madri (DPM): quadro clinico

La depressione post-partum è un quadro clinico caratterizzato da sintomi depressivi che possono differire per numero e per tipo dalle manifestazioni depressive mostrate da donne che non hanno partorito. I sintomi più frequenti sono legati ad un marcato senso di irritabilità e forti sentimenti di collera; le donne affermano di sentirsi deboli e prive di forza e di provare uno stato pervasivo di anedonia. Da un punto di vista cognitivo le madri con Depressione-postpartum mostrano un’attitudine a colpevolizzarsi, una scarsa fiducia nelle proprie competenze genitoriali e bassa autostima.

Sentimenti profondi di colpa e di vergogna nel provare un’esperienza depressiva in un periodo di vita che dovrebbe essere culturalmente ricco di gioia e positività, possono accompagnare il quadro sintomatico appena descritto. Come si può evincere da quanto detto, l’umore deflesso non è necessariamente la manifestazione sintomatica più importante per le madre affette da Depressione post-partum. In una percentuale non irrisoria di casi è spesso preceduto da ansia, labilità emotiva, disturbi del sonno, faticabilità e irritabilità. In alcune situazioni, le madri manifestano anche dei pensieri ossessivi di tipo aggressivo nei confronti del bambino fino ad arrivare ad un quadro più grave che comprende atti lesivi auto ed eterodiretti (Aceti, et al., 2015).

Fattori di rischio

I fattori di rischio che risultano essere più probabili si concentrano sulla possibilità di aver fatto esperienza di stati depressivi durante la propria storia di vita personale, di aver difficoltà relazionali con il partner e con la propria famiglia d’origine associati ad una mancanza di sostegno pratico ed emotivo.

Differenti studi hanno indagato la presenza di una relazione tra stile di attaccamento appreso dalla madre e la possibilità di sviluppare una Depressione post-partum. West, Rose e Spreng (1999) hanno dimostrato come donne che hanno sviluppato uno stile di attaccamento insicuro, possono manifestare sintomi più gravi e severi. Più recentemente Bifulco (2004) ha evidenziato che uno stile di attaccamento di tipo evitante è correlato positivamente con disturbi depressivi prima del parto, invece uno stile di attaccamento di tipo ansioso è correlato positivamente con sintomi depressivi che si sviluppano nel periodo successivo al parto. Come detto, gli aspetti familiari e relazionali non sono gli unici fattori di rischio evidenziati.

L’ipotesi di una correlazione tra particolari disturbi psicologici e Depressione post-partum è stata avvallata da autori come Newman che ha dimostrato come il disturbo di personalità ossessivo-compulsivo, dipendente ed evitante e il disturbo borderline possono essere legati allo sviluppo di tale patologia. Di fatto sembrerebbe che il timore nelle relazioni interpersonali, l’ansia e la mancanza di assertività siano aspetti precipitanti per lo sviluppo di una sintomatologia depressiva dopo il parto.

Depressione perinatale paterna (DPP): definizione e sintomatologia

Una mole considerevole di ricerche cliniche ed empiriche si è occupata di indagare e sviluppare trattamenti ed interventi rivolti ai disturbi psicologici che possono colpire la maternità nel periodo conseguente al parto. E’ bene sottolineare come anche i padri possano andare incontro a psicopatologie della genitorialità come la depressione maggiore, la psicosi della paternità, la depressione ed acting.

A confronto, però, i tentativi di studiare la condizione psicologica dell’uomo nella transizione alla paternità, si presentano rari e lacunosi. Le ragioni che possono spiegare tale differenza nella quantità e qualità degli studi sono da rintracciare nella scarsa disponibilità dei padri a partecipare alle ricerche, nella minore incidenza del disturbo depressivo nella popolazione maschile, nella carente disponibilità di metodi d’indagine validi e attendibili che tengano conto delle differenze di genere, nei fattori socioculturali che portano a trascurare il coinvolgimento del padre nel periodo perinatale (Baldoni, F., & Ceccarelli, L. 2010). Infatti, la nostra società fino a tempi recenti ha associato il ruolo paterno prevalentemente alla figura di sostentamento, di supporto economico e in parte disciplinare all’interno del nucleo familiare. La relazione padre-figlio veniva rappresentata come un rapporto “in divenire”, da prendere in considerazione successivamente; la donna, dotata di ciò che viene definito “istinto materno”, deteneva il ruolo attivo nell’accudimento e soddisfacimento dei bisogni primari e affettivi dei figli. Nella società odierna, invece, in risposta al progressivo aumento di separazioni e divorzi, e al maggiore scambio di ruoli tra uomo e donna sia all’interno del mercato del lavoro che tra le mura domestiche, la paternità ha visto incrementare la sua importanza, connessa al diffondersi del concetto di “triade familiare” come necessità imprescindibile per un sano sviluppo psico-fisico del bambino e per una buona relazione affettiva familiare reciproca (Caponeri, D. P.).

La Depressione Perinatale Paterna (DPP) è la traduzione del neologismo francese “Depression Périnatale Paternelle” coniato in ambito psicoanalitico. Colpisce il 5-10% dei padri e risulta associata con un incremento del rischio da parte dei bambini di sviluppare difficoltà di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale. Essa deve essere distinta dalla “Sindrome della Couvade” che può colpire i padri durante la gravidanza ed è caratterizzata da sintomi somatici (nausea, gonfiore o dolore addominale) e comportamenti femminili tipici della gravidanza che non assumono un vero significato psicopatologico. I sintomi della depressione paterna, anche se possono presentare la stessa durata, si differenziano da quelli caratterizzanti la Depressione post-partum materna: sono talvolta meno definiti, coinvolgono meno disturbi e manifestano alterazioni affettive più lievi.

La sintomatologia ricorrente comprende: irrequietezza, tristezza, malinconia, impotenza, disperazione, sconforto, umore depresso, perdita d’interessi, preoccupazione costante, calo della libido, insonnia. Spesso la Depressione perinatale paterna si palesa attraverso manifestazioni somatiche atipiche anche gravi quali ansia elevata, crisi di rabbia, ipocondria, sintomi funzionali o somatizzazione e acting out comportamentali (fughe, comportamenti violenti, attività fisica o sessuale compulsive, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, alcolismo o altri disturbi di dipendenza).

È fondamentale, però, tener presente che la maggior parte delle ricerche che si sono occupate di valutare le alterazioni affettive prodotte dalla depressione perinatale paterna, hanno impiegato questionari self-report che non tengono conto delle differenze di genere e possono presentare problematiche di validità e attendibilità, evidenziando nell’uomo sofferenze minori rispetto alla donna (Ballard, C., & Davies, R. 1996).

Fattori di rischio e conseguenze della depressione perinatale paterna

Durante il periodo post-natale è stato dimostrato che la Depressione perinatale paterna produce effetti negativi sulle capacità genitoriali, sull’abilità di stabilire una relazione di attaccamento con il bambino e sulla relazione di coppia. Quest’ultima pertanto si configura come un fattore di rischio non solo per la Depressione materna, ma anche per quella paterna: nelle ricerche è emerso che la presenza di un basso livello di soddisfazione di coppia e del consenso e della coesione coniugale, connessi ad alti livelli di stress perinatale, rappresentano fattori predisponenti la Depressione Perinatale Paterna.
Per quanto riguarda i fattori psicosociali correlati alla presenza della sintomatologia depressiva paterna rintracciamo:
– Età giovane o molto avanzata;
– Basso livello d’istruzione, scarso reddito, preoccupazioni finanziarie e disoccupazione.

Inoltre la depressione materna e la presenza di disturbi mentali nella madre sono stati identificati come due tra i maggiori fattori predisponenti della Depressione perinatale paterna.

Altro aspetto rilevante è il concetto di “autoefficacia”: percepirsi come un genitore inutile, inadeguato, incapace e poco efficace nel prendersi cura del proprio figlio, rappresenta un fattore di rischio.

Infine gli studi più recenti e attualmente disponibili sulla Depressione Perinatale Paterna hanno messo in evidenza diversi altri fattori di rischio oltre quelli psicosociali e relazionali; fra questi sono da evidenziare:
– alti livelli di percezione dello stress (essa è correlata al temperamento del neonato: bambini impegnativi, molto richiedenti, che piangono, dormono e si alimentano con problematicità, produrranno livelli più elevati di stress e questo aspetto risulta più critico per i padri rispetto alle madri);
– caratteristiche di personalità (alcune ricerche hanno evidenziato nei padri con Depressione Perinatale Paterna la presenza di tratti depressivi ansiosi, di un elevato grado di nevroticismo e un basso livello di estroversione);
– fattori socio-familiari (qualità della relazione con i propri genitori durante l’infanzia, gravidanza indesiderata, discrepanza tra aspettative durante la gravidanza e l’esperienza di genitore dopo il parto, appartenenza ad una famiglia ricomposta).
Stranamente non è stata riscontrata una correlazione significativa tra la storia psichiatrica precedente del padre e lo sviluppo di Depressione Perinatale Paterna.

Una panoramica sulla ricerca

Il primo articolo sulla Depressione Perinatale Paterna è stato pubblicato all’inizio degli anni trenta da Zilboorg (1931) con il titolo di “Depressive reactions related to parenthood”; in seguito altri autori hanno preso in considerazione la gravidanza come fattore di criticità per i futuri padri.
Baldoni e Ceccarelli nel 2010 hanno condotto una minuziosa rassegna rivolta a tutta la produzione scientifica pubblicata su tale tematica che ha consentito di tracciare due principali periodi:
1930-1980: resoconti di osservazioni condotte su casi clinici;
1980- 2010: studi empirici al fine di misurare la sintomatologia, la prevalenza e l’eziopatogenesi della Depressione Perinatale paterna e a valutare la correlazione tra questa, la Depressione materna e lo sviluppo psicologico, comportamentale e somatico del figlio.

Le ricerche attuali seguono e approfondiscono questo secondo filone. La maggior parte delle ricerche di natura epidemiologica ed empirica sono state condotte negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Australia.

In Italia merita di essere citata la ricerca svolta da Currò e colleghi nel 2009. Essi hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale che può avere il pediatra nel riconoscere i genitori maggiormente predisposti al rischio di sviluppare la Depressione Perinatale Paterna, somministrando loro un semplice test (EPDS). I genitori venivano intervistati durante la prima visita del figlio e coloro che riportavano un alto punteggio venivano riesaminati dopo 5 settimane. Se persisteva un punteggio alto allora venivano esaminati da uno psichiatra per confermare la diagnosi. Dalla ricerca è emerso che alla prima visita il 26,6% delle madri e il 12,6% dei padri ha riportato un alto punteggio all’EPDS mentre, alla seconda visita, il 19,0% delle madri e il 9,1% dei padri, ha riportato un risultato al test che segnalava il rischio della malattia depressiva. Pertanto Depressione Perinatale Paterna è comune nella popolazione media.

Possibili trattamenti

Le principali linee-guida per il trattamento della depressione indicano come intervento di prima scelta terapie di tipo psicologico, in particolare cognitivo-comportamentale. Tale suggerimento viene esteso anche alla depressione post partum, viste le maggiori controindicazioni e la riluttanza delle donne ad intraprendere una terapia farmacologica durante l’allattamento.

Nel 2011 Piacentini e altri hanno condotto uno studio che ha confermato i dati secondo cui interventi cognitivo-comportamentali brevi e strutturati possono essere efficaci e facilmente accettati dalle donne affette da depressione post-partum e, pertanto, ne sarebbe auspicabile una maggiore diffusione nella pratica clinica. Come abbiamo descritto e sottolineato fino ad adesso è importante, per proteggere la relazione madre-bambino e lo sviluppo globale di quest’ultimo, prendere in considerazione entrambi i genitori e quindi anche il ruolo ricoperto dal padre fin dall’inizio della gravidanza, cercando di coinvolgerlo sia durante il periodo di gestazione che successivamente al parto. Ulteriore aspetto emerso precedentemente e da non sottovalutare è l’influenza reciproca tra gli stati psicologici delle madri e dei padri: i disturbi depressivi, ansiosi e comportamentali del padre possono incidere e favorire una reazione depressiva nella donna, condizionando lo sviluppo psicologico e fisico del nascituro.

A differenza del panorama di studi sulla Depressione post-partum materna, rispetto alla Depressione Perinatale Paterna attualmente non possediamo chiare informazioni sulle modalità di screening, sulle terapie più indicate per il sostegno psicologico, sull’efficacia delle psicoterapie o dei trattamenti farmacologici. La maggior parte delle ricerche condotte non ha indagato tali aree d’interesse. L’analisi delle ricerche più recenti ha mostrato la diffusione di terapie sulla prevenzione e sulla cura della depressione perinatale basate sulla Mindfulness. Tale tecnica potrebbe essere utilizzata anche nella prevenzione della depressione perinatale paterna consentendo di fare un intervento con entrambi i genitori. Essa intende insegnare le abilità necessarie per affrontare il parto e la genitorialità, con l’obiettivo di prevenire le situazioni psicopatologiche che si possono verificare in questi stati di vulnerabilità sia nell’uomo sia nella donna, promuovendo risposte sane allo stress psicologico e fisiologico. L’acquisizione della coscienza del proprio ruolo è stata descritta come una competenza chiave della genitorialità. Promuovere la consapevolezza nel contesto della genitorialità quotidiana e formare il padre e la madre sono le strade migliori per incrementare l’efficacia degli interventi della coppia sul figlio (Cicchiello, S. 2015).

Nell’ambito della depressione post partum esistono due ricerche che hanno ottenuto buoni risultati ricorrendo a dei programmi basati sulla Mindfulness per l’accompagnamento al parto e la promozione della genitorialità. Uno di essi ha applicato un programma basato sulla Mindfulness per il parto e la genitorialità: il “Mindfulness-Based Childbirth and Parenting” (MBCP). Il programma MBCP è un adattamento del programma di riduzione dello stress (MBSR) fondato da Jon Kabat-Zinn, destinato sia ad aiutare i partecipanti a “essere nel momento presente” sia a consentire ai genitori di vivere la cura del figlio con consapevolezza, gentilezza e condivisione.

Lo studio pilota di Duncan e Bardacke del 2012 ha proposto un programma di MBCP che necessita di ulteriori approfondimenti futuri. Esso ha consentito, però, di ampliare le strategie d’intervento nell’ambito della depressione perinatale non solo nei confronti della madre ma anche dei padri. I risultati di questo studio pilota sembrano essere promettenti: si sono avuti effetti nella riduzione dell’ansia rispetto alla gravidanza, nell’aumento della consapevolezza e nella manifestazione di emozioni positive.

La detached mindfulness è davvero mindfulness?

La detached mindfulness di Wells non prevede alcuna meditazione né alcun ancoraggio al corpo o al respiro ed ha, come obiettivo ultimo, quello di rendersi consapevoli dei propri pensieri più che all’esperienza del qui e ora nella sua totalità. Prevede la sospensione di tutti i coping maladattivi con lo scopo di rafforzare la meta-consapevolezza ed il distacco: l’obiettivo è aiutare il paziente a gestire la propria sintomatologia in modi efficaci.

 

Le differenze tra la mindfulness e la detached mindfulness

La detached mindfulness (DM) è stata messa a punto da Adrian Wells nella sua terapia metacognitiva come tecnica per favorire distacco e consapevolezza. Non a caso il termine “detached” deriva da “detachment” che vuol dire distacco, mentre “mindfulness” richiama la definizione classica di Kabat-Zinn, ideatore del famoso protocollo MBRS (mindfulness based stress reduction). Eppure è un errore frequente rapportare la detached mindfulness alle pratiche mindfulness intese come meditazione intensiva.
Vediamo nel dettaglio cosa succede.

Jon Kabat-Zinn descrive la mindfulness come “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente, in modo non giudicante, non critico e di accettazione” (Kabat-Zinn, 1994); il momento presente comprende pensieri, credenze, ricordi ed una serie di sensazioni somatiche del qui e ora. La potenza della consapevolezza risiede nella sua capacità di creare un’attenzione che può nello stesso momento favorire l’accettazione.

Il secondo termine, detached, fa riferimento al prendere le distanze da ogni reazione emotiva verso gli eventi interni indesiderati e dolorosi, che sono indipendenti dalla coscienza, in modo che l’individuo sia uno spettatore esterno capace di osservare i propri pensieri e le proprie credenze (Wells A, 2012).

L’insieme dei due elementi (detached e mindfulness) favorisce l’interruzione di tutti i processi cognitivi e comportamentali che si mettono in atto nel tentativo di sopprimere l’evento interno indesiderato con il risultato di rafforzarlo ed ingigantirlo. Esempi di tali processi sono la ruminazione, il controllo del pensiero o delle emozioni, il monitoraggio della minaccia e gli evitamenti (sia cognitivi che comportamentali). Questi sono tutti elementi che Wells ha concettualizzato nella “sindrome cognitivo-attentiva”, più conosciuta come “CAS” quando ha descritto il modello dell’autoregolazione delle funzioni esecutive nel 1994 (Wells e Matthews, 1996).

È ovvio che la detached mindfulness non è una tecnica di evitamento, né cognitivo-emotiva e non è neppure una strategia di controllo; piuttosto è l’esatto contrario: i pensieri non vengono allontanati, modificati o controllati, ma osservati per quello che sono senza agire alcuna azione e senza giudicarli: è un modo diverso di osservarli.

In che cosa, allora, la detached mindfulness di Wells si distanzia dalla mindfulness di Kabat-Zinn?

Nel suo lavoro principale, “Full catastrophe living” del 1990, Kabat-Zinn definisce la mindfulness come “porre attenzione”: la concentrazione sul respiro è mezzo per focalizzare l’attenzione sul momento presente, diventando consapevoli del proprio flusso di pensiero, senza giudicarlo ma lasciando fluire, accettandolo per come è. Il respiro è l’ancora! Nei suoi protocolli, l’autore richiede pratica intensiva, esercizi quotidiani (e qui si intravede l’influenza buddista) e la focalizzazione sul proprio corpo. Gli esempi più importanti sono le meditazioni formali, il body scan, la walking meditation oppure le meditazioni informali. Queste ultime si svolgono nelle attività quotidiane come mangiare, guidare o parlare al telefono così da apprezzare in pieno gli elementi di curiosità, di non giudizio, di accettazione e del lasciare andare.

La detached mindfulness di Wells non prevede alcuna meditazione né alcun ancoraggio al corpo o al respiro ed ha, come obiettivo ultimo, quello di rendersi consapevoli dei propri pensieri più che all’esperienza del qui e ora nella sua totalità. Prevede la sospensione di tutti i coping maladattivi con lo scopo di rafforzare la meta-consapevolezza ed il distacco: l’obiettivo è aiutare il paziente a gestire la propria sintomatologia in modi efficaci.

Ricordiamo che vi sono di diversi di esercizi di detached mindfulness e sono tutti descritti nel manuale di terapia metacognitiva dei disturbi di ansia e di depressione di Wells del 2012 ed in altri suoi approfondimenti (Wells, 2005). Nel testo sono anche spiegati i modi di utilizzo di quest’ultime e i casi in cui gli studi hanno dimostrato essere più fruttuosi come con i pazienti con depressione, disturbo di ansia generalizzato, il disturbo post traumatico da stress o il disturbo ossessivo compulsivo.

Punire, correggere, rieducare, curare – Recensione del libro: Minori e giovani adulti autori di reato

In Minori e giovani adulti autori di reato i curatori hanno selezionato numerosi contributi, che affrontano la problematica dei minori autori di reato da molteplici punti di vista: giuridico, psicologico, psicoanalitico, di psicologia sociale e delle organizzazioni, strettamente sociologico.

 

Quale rapporto tra salute mentale e legge?

Freud (1906) riteneva che la psicoanalisi non potesse rispondere ai quesiti propri del diritto: la colpevolezza, la responsabilità. La prospettiva dell’inconscio è indifferente ai fatti, alla legge, ai rapporti di causa effetto per come sono percepiti nella prospettiva chiara e distinta della vita diurna.

Oggi le cose sono molte cambiate. Il tramonto del codice paterno, l’implicita identificazione sociale con un sé adolescenziale ed irresponsabile hanno fatto sparire la prospettiva della pena dall’orizzonte sociale. La macchina punitiva della legge deve in qualche modo giustificarsi. Esplicita e formalizza sempre più finalità trasformative, educative, terapeutiche. E chiede ai professionisti della salute mentale, psichiatri, psicologi, educatori, di assumere un ruolo centrale nel sistema di controllo e retribuzione della devianza, in particolare quando sono in gioco soggetti minori o giovani adulti.

E’ un compito impervio. Nasce da una posizione culturale e da una legislazione in qualche modo volontaristiche, ma prive fino ad ora di un’ adeguata elaborazione teorica e modellizzazione clinico-professionale.

Minori e giovani adulti autori di reato: l’adolescente e il piano educativo

A questo gap vuole rispondere il bel volume curato da Alfredo De Risio, Paola della Rovere, Chantal Favale, Simona Iacoella: Minori e giovani adulti autori di reato. Alla molteplicità dei professionisti che si confrontano con la devianza sono attribuiti compiti caratterizzati da elevata complessità e multidimensionalità. I curatori hanno perciò selezionato numerosi contributi, che affrontano la problematica dei minori autori di reato da molteplici punti di vista: giuridico, psicologico, psicoanalitico, di psicologia sociale e delle organizzazioni, strettamente sociologico.

L’ adolescente di oggi, si confronta con una realtà particolarmente debole sul piano educativo. Come osserva Paola della Rovere in Minori e giovani adulti autori di reato:“I cambiamenti sociologici dell’epoca contemporanea, il venire meno del prestigio e dell’autorevolezza delle “grandi istituzioni” (famiglia, scuola…),

La rapidità di comunicazione e l’accesso continuo all’informazione – spesso caotica – determinata da internet, hanno diluito la trasmissione del messaggio educativo, che non riesce più ad essere normativo, regolatore e maieutico, rispetto al riconoscimento delle proprie passioni, ancora in divenire. In questa prospettiva “Il comportamento deviante può essere uno degli esiti del disagio adolescenziale e può essere considerata una espressione all’interno di un quadro sintomatologico più problematico, indicatore di sofferenza mentale o addirittura di un vero e proprio disturbo psicopatologico

Il modello carcerario e correzionale si confronta inevitabilmente sul campo con la prospettiva rieducativa e terapeutica: “si crea una cesura tra finalità cliniche e percorsi giudiziari riabilitativi: le necessità cliniche spesso contrastano con le finalità giudiziarie o talvolta coincidono in maniera impropria.” Paola della Rovere osserva: “Il dualismo “sano = normale, malato = criminale” è estremamente riduttivo: non spiega, difatti, come mai esistono sani di mente “criminali” e malati di mente “non criminali”.

Di fronte a queste ideologie contrapposte, di cui vediamo ampia eco nella polemica sul diritto alla difesa, anche armata, è necessario saper prendere le distanze, inquadrare i fenomeni in una giusta prospettiva storica. Ezio Antonio Giacalone, in Minori e giovani adulti autori di reato, ricostruisce la nascita delle istituzioni correzionali per gli adolescenti, avvenuta nel XVII secolo: “a fronte di una massiccia urbanizzazione e del conseguente aumento di poveri, folli, vagabondi e minori disagiati che affollavano le strade – le istituzioni si posero per la prima volta il problema complessivo del controllo e della correzione morale dei devianti, al fine di un loro ‘recupero’ attraverso la disciplina ed il lavoro” con “la netta separazione tra le istituzioni che si occupavano dei minorenni e quelle competenti per gli adulti”, accentuando nei confronti dei secondi finalità esplicitamente assistenziali e riabilitative: “rivestirli, nutrirli, medicarli, trovar loro un lavoro in botteghe esterne o in officine interne e istruirli nel santo timore di Dio

Punizione o assistenza, controllo o cura? Paola Iacoella osserva: “L’operatore corre due rischi: la criminalizzazione, sostenuta dal contesto sociale, attraverso la legge e il comune sentire, che comporta il rischio di perdere di vista le radici del comportamento, oppure la patologizzazione di qualunque reato, e in particolare dei reati a sfondo sessuale, che può erroneamente indurre a privare la persona della sua responsabilità giuridica e morale in termini di “assoluzione”. Entrambi gli atteggiamenti costituiscono un a priori che rischia di spostare il focus del lavoro psicologico, che … consiste nel … capire e comprendere, concentrando, laddove possibile, la propria attività professionale sulla sofferenza psichica ed aiutando la persona a modificare i propri comportamenti”.

L’istituzione e gli operatori incaricati di intervenire sulla devianza adolescenziale e giovanile sono confrontati quotidianamente con un fondamentale problema motivazionale. Per assistere questo tipo di utenza, osserva ancora Iacoella in Minori e giovani adulti autori di reato, occorre rispondere ad un interrogativo preliminare: “perché occuparsi degli abusanti?” L’autrice offre molteplici possibili risposte: “per prevenire la recidiva, quindi il compimento di atti analoghi verso altre potenziali vittime, per evitare che essi diventino successivamente dei pedofili o dei padri abusanti o reiterino su altre potenziali vittime le gravi azioni già compiute.” Ma anche in una prospettiva terapeutica: “Perché (anche) gli abusanti sono dei pazienti

Più complessa la posizione di Deiacobis che osserva:  “l’azione deviante ha un’alta valenza comunicativa e rappresenta una delle forme attraverso cui si esprime lo scacco dei processi evolutivi e, più in generale, il disagio psichico nella fase adolescenziale”. Deiacobis sostanzia le sue posizione in Minori e giovani adulti autori di reato con un bellissimo caso clinico, in cui il trattamento psicologico individuale ed un atteggiamento di autentica empatia con il giovane criminale mettono in moto profondi processi trasformativi e di maturazione.

Ma torniamo a Freud: non possiamo accontentarci di spiegare il fatto illecito. Le radici inconsce, i deficit metacognitivi, la genetica, la sociologia (il testo è una miniera di informazioni su queste ed altre dimensioni) ci possono aiutare a ricostruire un comportamento. Ma il reato non è una forma generica di comunicazione. Passa attraverso la violenza, il sangue la paura, la vittima. Ecco credo non si possa lavorare in modo genuino nei contesti rieducativi se non si ha il coraggio di riconoscere e denominare l’atto criminale, se non si riesce a includere l’esperienza della vittima, a riconoscere nella sua pienezza, la perfidia, la doppiezza, l’efferatezza del reato. Solo così possiamo aiutare veramente l’autore del reato a iniziare un percorso di vita nuovo e, davvero, libero.

Il decadimento della memoria sociale nella schizofrenia

Le persone affette da schizofrenia spesso vanno incontro a debilitanti problemi cognitivi, inclusi i deficit di memoria episodica, un fattore chiave per il funzionamento sociale.

 

Cosa accade alla memoria episodica e al funzionamento sociale nei pazienti affetti da schizofrenia?

La funzione della memoria episodica è quella di immagazzinate informazioni relative ad eventi specifici; essa è importante per la rievocazione della maggior parte degli avvenimenti della nostra vita, include eventi personali e dettagli delle interazione sociali. La compromissione di tale funzione mnestica limita la capacità di formare relazioni con gli altri ed è una delle caratteristiche che si riscontra nei pazienti schizofrenici.

Recentemente, i ricercatori della University of California, Los Angeles (UCLA) hanno scoperto che i pazienti schizofrenici, in fase iniziale, hanno la possibilità di migliorare la capacità di richiamo di eventi sociali se vengono dati loro dei suggerimenti specifici.

I risultati della ricerca suggeriscono una potenziale strategia per il mantenimento della memoria episodica nelle persone affette da schizofrenia.
Per lo studio, i ricercatori hanno voluto verificare se la memoria episodica, in particolare in relazione al ricordo degli eventi sociali, peggiora nel corso della malattia. Il campione sperimentale era suddiviso in tre gruppi: persone ad alto rischio di psicosi, persone che hanno vissuto un episodio di psicosi e persone con schizofrenia cronica.

Ai soggetti non è stato comunicato né l’oggetto della ricerca, né i vari test di memoria a cui sarebbero stati sottoposti. I ricercatori hanno mostrato ai partecipanti 24 filmati, raffiguranti amici che parlavano, un meccanico che parlava con un cliente e altre scene ordinarie di vita quotidiana.
I partecipanti hanno poi esaminato diverse fotografie: 24 immagini raffiguranti persone presenti nei filmati e 24 immagini di persone che non lo erano.

I ricercatori hanno chiesto ai soggetti di identificare quali facce apparivano familiari e quali suscitavano il ricordo di dettagli appartenenti alle scene viste. Tutti i volontari dei tre i gruppi sono stati in grado di identificare i volti presenti nei filmati, ma hanno mostrato una difficoltà specifica nella capacità di rievocare le situazioni sociali associate ai volti, indicando una scarsa funzionalità della memoria episodica.

Nella seconda parte dello studio, ai partecipanti sono state nuovamente mostrate le foto con la richiesta di scegliere tra quattro frasi proposte, quella in grado di descrivere meglio la situazione in cui era apparso uno specifico volto. I partecipanti con alto rischio di sviluppare la schizofrenia non hanno avuto problemi nello svolgere questo compito. Tuttavia, coloro che avevano già sperimentato un episodio psicotico o che presentavano già schizofrenia cronica hanno riscontrato delle difficoltà significativamente maggiori in questo compito sperimentale.

Secondo i ricercatori dunque la differenza tra i gruppi nel compito sperimentale di “selezione della frase” sottolinea un cambiamento della memoria episodica con l’insorgenza della psicosi.

 

Prima edizione del ciclo “Pratichiamo la teoria”, incontri formativi di confronto fra modelli – Report dall’evento

La Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato presso la sede di Milano un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli dal titolo “Pratichiamo la teoria”.

 

Incontri di formazione teorici e pratici

La Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato presso la sede di Milano un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli dal titolo “Pratichiamo la teoria”.

Questo ciclo di incontri non era la solita lezione frontale, ma univa teoria e pratica perché in fondo “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo” (Aristotele).

Ecco così un’ottima occasione di formazione sia teorica che sul campo. Ad ogni incontro è stato presentato un modello specifico di intervento.

Gli incontri hanno seguito questa struttura:

  • Breve introduzione teorica sul modello presentato
  • Simulata in diretta dell’intervento del modello affrontato sul medesimo caso clinico
  • Spazio aperto di confronto tra il relatore e i partecipanti

Il caso clinico era simulato da una collega psicologa psicoterapeuta (Mara Soliani) che interpretava Cinzia, giovane studentessa universitaria di 24 anni la cui domanda di terapia era la seguente “Devo fare il tirocinio e lavorare con altre persone… non reggo lo sguardo degli altri, non riesco a parlare in pubblico, mi sento agitata, mi blocco….la mia tutor ha uno sguardo che mi blocca”.

Nel corso degli incontri i partecipanti hanno visto i diversi relatori effettuare, sulla stessa problematica presentata, domande e approfondimenti differenti in base al modello di riferimento utilizzato.

Quali sono stati i modelli presentati e applicati?

Nel primo incontro Sandra Sassaroli ha presentato il modello LIBET.

LIBET (Life Themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) è un modello integrato di concettualizzazione che nasce nel gruppo ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Bassanini, Redaelli, Caselli, Ruggiero 2014).

Questo modello consente di capire il paziente all’interno della sua storia evolutiva, senza trascurare allo stesso tempo i sintomi. LIBET inoltre nasce anche come proposta di integrazione tra i diversi mondi della psicoterapia e permette di armonizzare in un quadro unico contributi di diversi orientamenti evidence based.

Durante la simulata Sandra Sassaroli, autrice del modello LIBET, si è focalizzata sulla concettualizzazione del funzionamento della paziente andando a indentificare, a partire dalla domanda di terapia e dall’esordio sintomatico, il tema doloroso, i piani semiadattivi e la rottura del piano.

Pratichiamo la teoria, incontri formativi di confronto fra modelli - Report dall'evento IMM2

La Dottoressa Sandra Sassaroli illustra il Modello LIBET

Nel secondo incontro Giovanni Maria Ruggiero presenta invece il modello REBT.

La REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) è un tipo di terapia cognitivo comportamentale sviluppata da Ellis nel 1955. Nell’ottica REBT l’enfasi è sul presente e le persone sono invitate a esaminare e a cambiare i loro pensieri irrazionali che creano emozioni non sane e comportamenti auto-danneggianti e auto-sabotanti. La tecnica della REBT include l’attuazione del modello “ABC” e il focus terapeutico è sulle credenze irrazionali.

Giovanni Maria Ruggiero presenta la REBT, di cui è supervisore, e durante la sua simulata ha focalizzato il suo intervento sulla costruzione di un ABC, sull’identificazione dei pensieri irrazionali e sul disputing di questi.

Nel terzo incontro Gabriele Caselli presenta infine il modello MCT.

MCT (Metacognitive Therapy) è una recente forma di psicoterapia che ha introdotto una nuova modalità di concettualizzazione e trattamento dei disturbi psicologici. MCT risulta efficace nel trattamento dei Disturbi d’Ansia (Wells, 1995, 2000) e della Depressione (Norman, Van Emmerik & Molina, 2014). MCT ha come obiettivo la riduzione del pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) e riportare sotto il controllo cosciente la risposta a pensieri ed emozioni negative.

Gabriele Caselli, terapeuta level 2 MCT, dopo la presentazione teorica, orienta la sua simulata su un colloquio di concettualizzazione e familiarizzazione con il modello MCT.

Pratichiamo la teoria, incontri formativi di confronto fra modelli - Report dall'evento IMM 1

Il Dott. Gabriele Caselli e la Dott.ssa Mara Soliani durante la simulazione di un caso clinico

Nuove edizioni del ciclo “Pratichiamo la teoria”

Dato l’interesse mostrato dalle richieste dei partecipanti, Studi Cognitivi riproporrà a Milano una seconda edizione del ciclo “Pratichiamo la teoria”. In questa nuova edizione ci saranno nuovi argomenti che verranno trattati con la stessa modalità di breve presentazione teorica e simulata.

Anche altre sedi del Network di Studi Cognitivi si stanno organizzando per lanciare questi tipi di eventi.

Vi siete persi questi incontri? La prima sede che lancerà il ciclo “Pratichiamo la teoria” già questo autunno sarà il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova.

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors: la sapienza e l’esperienza clinica di J. Fisher – Recensione del libro

Ormai da qualche tempo è uscito Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors (edito Routledge), l’ autrice è Janina Fisher PhD, tale testo oggi si pone come riferimento imprescindibile per coloro che si impegnano nel trattamento dei pazienti complessi.

 

Janina Fisher è assistente direttore dell’istruzione dell’Istituto di Psicoterapia Sensomotoria (SPI, www.sensorimotorpsychotherapy.org), consulente EMDR International Association (EMDRIA) e un ex trainer presso il Trauma Center (Brookline, MA, USA), centro clinico e per la ricerca fondato da Bessel van der Kolk. Conosciuta per la sua esperienza di psicoterapeuta, autrice e trainer, è anche past president della New England Society per il Trattamento del Trauma e della Dissociazione, un ex trainer della Harvard Medical School e coautore (con Pat Ogden) di Psicoterapia Sensomotoria: Interventi per il trauma e l’attaccamento (2016, Raffaello Cortina).

Il prof. G. Liotti  ha detto di questo libro:

Il ruolo del trauma cumulativo nella frammentazione dell’esperienza di sé, le strategie per identificare insieme al paziente le parti non integrate della personalità durante gli scambi clinici e il potere integrativo del dialogo psicoterapico sono stati raramente trattati in modo così convincente e originale come nelle pagine di questo libro affascinante. 

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors: la summa della conoscenza di Janina Fisher

Potrei proseguire questa recensione con altri commenti positivi su questa linea, ma non è il mio scopo. Questa recensione vuole segnalare, prima di tutto, quanto Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors sia la summa della conoscenza teorica ed empirica dell’autrice e quanto rappresenti il precipitato della sua mirabile esperienza clinica. Fatto raro, Janina Fisher da grande clinico, ma soprattutto da grande mentore qual è, con questo testo ha dato una risorsa a quanti suoi allievi, e non, ne avevano bisogno. Approcciandovi a questo libro noterete quanto è pratico, senza essere prosaico o riduttivo. La prosa, leggibile per la maggior parte di noi che ormai quotidianamente scavalchiamo il muro della lingua anglosassone, è autorevole, ma accogliente.

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors integra una comprensione neurobiologicamente informata del trauma, della dissociazione e dell’attaccamento con un approccio pratico al trattamento. Questo viene comunicato in una lingua semplice, accessibile a terapeuti esperti e non, oltre che ad altri operatori dell’ambito della salute mentale. Il lettore entrerà in contatto con un modello teorico e di lavoro che sottolinea la “risoluzione” come una trasformazione nel rapporto con se stessi, sostituendo la vergogna, l’autocritica e le ipotesi di colpa, con l’accettazione compassionevole.

Gli interventi unici, proposti nel testo, sono stati adattati da una serie di approcci terapeutici all’avanguardia, come la Psicoterapia Sensomotoria e l’Internal Family Sistem, entrambe terapie basate sulla realizzazione della consapevolezza di sé, da parte del paziente e del terapeuta. I lettori chiuderanno le pagine di Healing the Self Fragmented of Trauma Survivors con una solida comprensione degli approcci terapeutici per i disturbi post traumatici, per lavorare con sintomi dissociativi e disturbi spesso non diagnosticati, integrando i metodi di trattamento dal “cervello destro verso il cervello destro” (Sensorimotor Psychoterapy) e molto di più. Soprattutto, resteranno impressi gli strumenti per aiutare i pazienti a creare un senso interno di sicurezza e una connessione compassionevole con se stessi.

In un momento così vivace di voci, anche autorevoli, che si esprimono sui vari aspetti del trattamento dei pazienti difficili, complessi, come sono quelli affetti da Disturbi Dissociativi e/o Post Traumatici, è importante lasciarsi guidare da chi ha non solo il sapere, o solo esperienza clinica. Janina Fisher coniuga, indiscutibilmente, nel panorama attuale, la sapienza teorica e la pratica clinica, alimentate però dalla lungimiranza di aver vissuto nel tempo lo sviluppo dei nuovi approcci e l’integrazione di questi con le grandi teorie psicoterapiche.

La parola d’ordine è nel vivere l’integrazione come un obiettivo, non solo per il paziente, ma prima di tutto per il terapeuta. La lezione di Janina Fisher più importante per noi clinici è questa ad oggi: occorre sapere, saper fare, falsificare/verificare e ancora fare, confrontandosi costantemente con gli altri e cogliendo sempre nel tempo il meglio dell’evoluzione degli approcci clinici.

Buona lettura!

 

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